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samedi, 19 juin 2010

Equilibri multipolari

Equilibri Multipolari

di Lorenzo Salimbeni

Fonte: cpeurasia

Resoconto della tavola rotonda

Fuoco Edizioni ha scelto coraggiosamente di specializzarsi in un genere di nicchia come quello dell’analisi geopolitica, concedendosi pure qualche sconfinamento in ambito storico. L’editore Luca Donadei ha quindi organizzato assieme ad Eurasia. Rivista di studi geopolitici il 10 giugno la serata Equilibri multipolari. Politiche e strategie per il nuovo secolo per presentare alcune delle sue ultime opere ed i loro autori presso la Biblioteca Comunale Enzo Tortora di Roma, grazie alla collaborazione del dott. Emanuele Merlino.

Donadei ha ben evidenziato come, finita la contrapposizione della Guerra Fredda e con l’inizio della crisi del consequenziale unipolarismo statunitense, oggi lo scenario internazionale si in continuo sussulto, con potenze emergenti come quelle del BRIC (acronimo che indica Brasile, Russia, India e Cina) che chiedono maggiore capacità decisionale, laddove la potenza statunitense accusa colpi a vuoto in ambito militare, economico e diplomatico. In questa situazione è preziosa la guida rappresentata da La sfida totale. Equilibri e strategie nel grande gioco delle potenze mondiali, opera prima di Daniele Scalea, redattore di Eurasia. Rivista di studi geopolitici, con prefazione del Generale Fabio Mini. Apre quest’agile volumetto una disamina sulle principali scuole e dottrine geopolitiche, comun denominatore delle quali è la strategia per il controllo del cosiddetto Heartland, zona nevralgica del globo per la sua posizione e per le sue risorse energetiche che grosso modo corrisponde all’attuale Russia, per cui gran parte di guerre e contrasti erano dovuti proprio al possesso ovvero alla possibilità di influenzare quest’area. Venendo all’attualità, vengono approcciate le principali tematiche d’attualità, a partire dal risveglio dell’orso russo: smaltita la botta della dissoluzione dell’URSS (“l’evento geopolitico più importante della nostra epoca” l’ha definita Vladimir Putin), il Cremlino oggi attraverso alleanze, sistemi di mercato comune e consorzi energetici, sta riallacciando le fila con quei Paesi che ricadono nel suo “estero vicino” (sostanzialmente le ex repubbliche sovietiche), i quali però sono pure al centro dell’interesse statunitense, che, a suon di rivoluzioni colorate e di avveniristici progetti di scudo spaziale, va stringendo sempre più la morsa attorno alla rinascente Federazione russa. Nella massa eurasiatica si trovano anche altre due potenze emergenti a spron battuto, vale a dire la Cina e l’India, entrambe con problemi ancora irrisolti in termini di approvvigionamento energetico, di unificazione nazionale (Formosa e altre isole del Mar Cinese per Pechino, Pakistan e Bangladesh per Nuova Delhi) e di separatismi interni ai quali rispondono in maniera diametralmente opposta. Rispetto al federalismo indiano, ben più efficace sembra l’accentramento cinese, grazie al quale “il Drago” può affrontare le sfide poste dallo sfruttamento delle risorse africane e cimentarsi quasi alla pari con gli USA nella contesa per le rotte del petrolio che dal Medio Oriente deve irrorare il colosso cinese. Offre chiavi di lettura preziosissime per interpretare le notizie di maggiore attualità il capitolo dedicato alla contrapposizione fra Iran e Israele, con quest’ultimo Paese che è rimasto l’ultimo bastione sicuro della politica statunitense in Medio Oriente, anche se, come hanno ben documentato Wall e Mearsheimer, gran parte dell’agenda di politica estera di Washington è in effetti dettata da Tel Aviv. Sintomo più evidente della crisi statunitense è per giunta la perdita di controllo del “cortile di casa”, vale a dire quell’America “indiolatina” (così definita dalla redazione di Eurasia per evidenziare il ruolo fondamentale svolto dai vessilliferi degli abitanti originari nelle più recenti svolte politiche) che sull’onda dei successi elettorali dei movimenti neobolivariani ha posto (forse) finalmente fine all’epoca dei colpi di stato e delle ingerenze a stelle e strisce.

 

Ingerenze a stelle e strisce che sono invece ancora vive e vegete in Italia, come ha ben argomentato Fabrizio Di Ernesto, giornalista professionista e autore di Portaerei Italia. Sessant’anni di NATO nel nostro Paese, basti pensare a come il movimento No Dal Molin venga ostacolato in tutti i modi nella sua battaglia civile finalizzata a scongiurare l’allargamento della base americana sita a Vicenza, ovvero alla strage del Cermis rimasta di fatto impunita in base ad un codicillo sottoscritto dal governo di Roma e che garantisce la non processabilità all’estero per quei soldati statunitensi che commettano reati in Italia. In giorni in cui in Giappone il governo Atoyama dà le dimissioni perché non è stato capace di far chiudere la base di Okinawa, in Italia non possiamo neppure dire quante siano con precisione le installazioni a disposizione in un modo o nell’altro degli Stati Uniti (in ogni caso, un centinaio almeno). Risulta, infatti, che Gaeta e La Maddalena non facciano più parte del novero, eppure vi sono ancora soldati americani di presidio… Tant’è, queste basi, la cui collocazione geografica è oltremodo significativa (a nord-est in prospettiva balcanici, in Sardegna per surrogare l’ondivago appoggio francese, in Sicilia per proiettarsi verso l’Africa ed in Puglia per agire verso il Vicino e Medio Oriente), sono una garanzia per gli USA di poter proseguire l’asservimento della colonia italiana conseguente agli esiti della Seconda Guerra Mondiale: quei politici come Mattei, Moro e Craxi, i quali hanno cercato di riconquistare fette di sovranità, sappiamo tutti come sono “casualmente” finiti.

In questo scenario un Paese cardine per l’accesso ai Balcani è la Romania, facente parte di quella “Nuova Europa” che, sfuggita al controllo moscovita, ora si presta a garantire appoggio diplomatico e non solo all’avventurismo della politica estera atlantista. Antonio Grego, collaboratore di Eurasia. Rivista di studi geopolitici, nel suo Figlie della stessa lupa ha ripercorso la politica diplomatica intercorsa fra Roma e Bucarest fra le due guerre mondiali. A prescindere dalla ricostruzione storica che spiega i tentennamenti rumeni fra l’allineamento alle potenze democratiche occidentali, cui miravano i governi liberalnazionali e conservatori dell’epoca, ed il richiamo delle comuni radici culturali e linguistiche che esercitava l’Italia fascista, si tratta di un testo importante per approfondire la conoscenza di questo Paese. Oggi si parla dei romeni soprattutto con riferimento ad incresciosi fatti di cronaca, però deve essere ben chiaro che etimologicamente “Romania” non ha niente a che fare con il ceppo “rom” degli zingari, altresì è la testimonianza più lampante di come l’antica Dacia si senta legata a quella Roma imperiale che la conquistò e vi lasciò la sua impronta.

Ha tirato le somme della tavola rotonda il prof. Antonio Caracciolo, docente all’Università la Sapienza di Roma, il quale, da buon filosofo del diritto e fresco di un corso monografico su Carl Schmitt, un giusfilosofo col pallino per la geopolitica appunto, ha evidenziato come gli USA oggi abbiano ben presente la lezione hobbesiana che nel bellum omnium contra omnes che intercorre fra Stati sovrani una delle prime armi è quella di creare disordine in casa del nemico e inoltre non rispettino il diritto internazionale, salvo poi in certe circostanze pretendere che certi Paesi lo facciano, per cui viene a cadere l’universalità della norma. Se questi sono gli effetti dell’unipolarismo in prospettiva dell’utopistico Stato unico che dovrebbe affratellarci tutti, ben venga un mondo multipolare in cui le varie potenze regionali avranno modo di mettere in atto un sistema di scambi e compensazioni che sicuramente peggiore di quanto oggi abbiamo non potrà essere.


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US Strategy in Eurasia and Drug Production in Afghanistan

US Strategy in Eurasia and Drug Production in Afghanistan

 

Tiberio Graziani

Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici

(Eurasia. Journal of Geopolitical Studies - Italy)

www.eurasia-rivista.org  - direzione@eurasia-rivista.org

 

 

51faLsPf7yL__SS500_.jpgA geopolitical approach aimed at understanding the relationship between the worldwide US strategy and the presence of North American forces in Afghanistan is given. The US penetration in the Eurasian landmass is stressed particularly with regard to the Central Asian area, considered as the underbelly of Eurasia in the context of the US geopolitics. In order to determine the real players in the Afghan theatre, a critics is moved to some general concepts used in geopolitical and international relations studies. The main characteristics  of potential candidates able to overcome the Afghan drug question are discussed. Among these a particular role  is due to Iran, Russia ad China. Anyway, due to the interrelations between the US strategy in Eurasia and the stabilization of Afghanistan, this latter can be fully accomplished only in view of the Eurasian integration process.

 

Key words: Afghanistan, geopolitical, Eurasian, Eurasia, drug

 

 

presentation

 

In order to address properly, without any ideological prejudice, but with intellectual honesty, the question about the drug production in Afghanistan and the related international problems, it is necessary and useful to define (even if schematically) the geopolitical framework and to further clarify some concepts, usually assumed as well known and commonly shared.

 

the geopolitical framework

 

Considering the main global actors nowadays, namely US, Russia, China and India, their geographic position in the two distinct areas of America and Eurasia, and, above all, their relations in terms of power and world geo-strategy, Afghanistan constitutes, together with Caucasus and the Central Asian Republics, a large area (fig. 1), whose destabilization offers an advantage to US, i.e. to the geopolitical player exterior to the Eurasian context. In particular, the destabilization of this large zone assures the US at least three geopolitical and geo-strategic opportunities: a) its progressive penetration in the Eurasian landmass; b) the containment of Russia; c) the creation of a vulnus in Eurasian landmass.

 

 

US penetration in Eurasia – US encirclement of Eurasia

As stated by Henry Kissinger, the bi-oceanic nation of US is an island outside of Eurasian Continent. From the geopolitical point of view, this particular position has determined the main vectors of the expansion of US over the Planet. The first was the control of the entire Western hemisphere (North and South America), the second one has been the race for the hegemony on the Euroafroasian landmass, that is to say the Eastern hemisphere.

Regarding the penetrating process of US in the Eurasian landmass, starting from the European peninsula, it is worthy to remind that it began , in the course of the I WW with the interference of Washington in the internal quarrels among the European Nations and Empires. The penetration continued during the II WW. In April 1945, the supposed “Liberators” occupied the Western side of Europe up to East Berlin. Starting from this date, Washington and the Pentagon have considered Europe, i.e. the Western side of Eurasia, just as a US bridgehead dropped on the Eurasian landmass. US imposed a similar role  to the other occupied nation, Japan, representing the Eastern insular arc of Eurasia. From an Eurasian point of view, the north American “pincer” was the true result of the II WW.

With the creation of some particular military “devices” like NATO (North Atlantic Treaty Organization) (1949), the security treaty among Australia, New Zealand, United States (ANZUS, 1951), the Baghdad Pact, that afterwards evolved in CENTO Pact (Central Treaty Organisation, 1959), the Manila Pact – SEATO (South East Asia Treaty Organization, 1954), the military encirclement of the whole Eurasian landmass was accomplished in less than one decade.

The third step of the US long march towards the heart of Eurasia, starting from its Western side, was carried out in 1956, during the Suez crisis, with the progressive removal of France and, under some aspects, also of Great Britain as geopolitical actors in Mediterranean sea. On the basis of the “special relationship” between Tel-Aviv and Washington, US became an important player of the Near Eastern area in a time lapse  shorter than 10 years. Following the new role assumed in the Near and Middle East, US was able either to consolidate its hegemonic leadership within the Western system or to consider the Mediterranean sea as the initial portion of the long path that, eventually, could permit to the US troops to reach the Central Asian region. The infiltration of US in the large Eurasian area proceeded also in other geopolitical sectors, particularly in the South-Eastern one (Korea, 1950-1953; Vietnam, 1960-1975).

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Coherently with the strategy aimed at dominating the eastern hemisphere, Washington worked also on the diplomatic side, focusing its attention towards Beijing. With the creation of the axis Washington – Beijing, conceived by the tandem Kissinger - Nixon (1971-1972), US contributed to increase the fracture inside the so-called socialist field, constituted by China and URSS and, thus, to block any potential “welding” between the two “lungs” of Eurasia, China and Russia.

During the seventies, two main geopolitical axis faced each other within the Eurasian landmass: the Washington-Islamabad-Beijing axis and the Moscow-New Delhi one.

1979, the destabilization’s year and its legacy in the today’s Afghanistan

Among the many events in international relations occurred in 1979, two are of pivotal importance for their contribution to the upsetting of the geopolitical asset, based at the time on the equilibrium between the United States and the URSS.

We are speaking of the Islamic revolution in Iran and of the Russian military involvement in Afghanistan.

Following the takeover of Iran by the Ayatollah Khomeyni, one of the essential pillars of the western geopolitical architecture, with the US as a leader, was destroyed.

The Pahlavi monarchy could easily be used as a pawn in the fight between the US and the URSS, and when it disappeared both Washington and the Pentagon were forced to conceive a new role for the US in the world politics. A new Iran, now autonomous and out of control, introduced a variation in the regional geopolitical chessboard, possibly able to induce a profound crisis within the “steady” bipolar system. Moreover, the new Iran, established as a regional power against the US and Israel, possessed such characteristics (especially the geographic extent and centrality, and the political-religious homogeneity) as to compete for the hegemony on at least part of the Middle-East, in open contrast to similar interests of Ankara and Tel-Aviv, faithful allies of Washington, Islamabad, Baghdad and Riyadh. For such reasons, the Washington strategists, in agreement with their bicentennial “geopolitics of chaos”, persuaded the Iraq under Saddam Hussein to start a war against Iran. The destabilization of the whole area allowed Washington and the Western Countries enough time to plan a long-lasting strategy and in the meantime to wear down the soviet bear.

In an interview released to the French  weekly newspaper Le Nouvel Observateur (January 15-21, 1998, p. 76), Zbigniew Brzezinski, President Jimmy Carter's national security adviser, revealed that CIA secretly operated in Afghanistan to undermine the power of the regime in Kabul since July, 1979,  that is to say, five months before the Soviet invasion. Indeed, it was July 3, 1979, that President Carter signed the first directive for secret aid to the opponents of the pro-Soviet regime in Kabul. And that very day the US strategist of Polish origin wrote a note to President Carter in which he explained that this aid was going to induce a Soviet military intervention. And this was precisely what happened on the following December. In the same interview, Brzezinski remembers that, when the Soviets invaded Afghanistan, he wrote another note to President Carter in which he expressed his opinion that at that point the USA had the opportunity of giving to the USSR its Vietnam War.

In Brezinski’s opinion, this intervention was unsustainable for Moscow and in time would have led to the Soviet Empire collapse. In fact, the long war of the Soviets in support of the communist regime in Kabul further contributed to weaken the Soviet Union, already engaged in a severe internal crisis, concerning both political- bureaucratic and socio-economic aspects. As we now well know, the Soviet withdrawal from the afghan theatre left behind an exhausted country, whose politics, economy and geo-strategic asset were extremely weak. As a matter of fact, after less than 10 years from the Teheran revolution, the entire region had been completely destabilized only to the advantage of the western system. The parallel and unrestrained decline of the Soviet Union, accelerated by the afghan adventure, and, afterwards in the nineties, the dismemberment of the Yugoslavian Federation (a sort of buffer state between the western and soviet blocks) changed the balance of power to favour the US expansionism in the Eurasia region.

After the bipolar system, a new geopolitical era began, that of the “unipolar moment”, in which the USA were the “hyperpuissance” (according to the definition of the French minister Hubert Védrin).

However, the new unipolar system was going to have a short life and indeed it ended at the beginning of the XXI century, when Russia re-emerged as a strategic challenger in global affairs and, at the same time, China and India, the two Asian giants, emerged as economic and strategic powers. On the global level, we have to consider also the growing wheight of some countries of Indiolatin America, such as Brazil, Venezuela. The very important relations among these countries with China, Russia and Iran seem to assume a strategic value and prefigure a new multipolar system, whose two main pillars coul be constituted by Eurasia an Indiolatin America.

Afghanistan, due to its geographical characteristics,  to its location  as respect to the Soviet State (its neighbouring nations Turkmenistan, Uzbekistan and Tajikistan were, at that time, Soviet Republics), and to the wide  variety of ethnic groups forming its population, different either in culture or in religion, represented for Washington an important portion of the so-called “arc of crisis”, namely that geographical region linking the southern boundaries of the USSR and the Arabian Sea. The Afghanistan trap for the URSS was therefore chosen for evident geopolitical and geo-strategic reasons.

From the geopolitical point of view, Afghanistan is clearly representative of a crisis zone, being from time immemorial the scene for the conflicts among the Great Powers.

The area is now “ruled” by the governmental entity established by US forces and named Islamic Republic of Afghanistan, but traditionally the Pashtun tribes have dominated over the other ethnic groups (Tajiks, Hazaras, Uzbeks, Turkmens, Balochs). Its history was spent as part of larger events concerning the interaction and the prolonged fighting among the three neighbouring great geopolitical entities: the Moghul Empire, the Uzbek Khanate and the Persian Empire. In the XVIII and XIX centuries, when the Country was under the rule of the Kingdom of Afghanistan, the area became strategic in the rivalry and conflict between the British Empire and the Russian Empire for supremacy in Central Asia, termed "The Great Game". The Russian land empire, in its efforts to secure access to the Indian Ocean, to India and to China, collided with the interests of the British maritime empire, that, for its part, sought to extend in the Eurasian landmass, using India as staging post, towards the East, to Burma, China, Tibet and the basin of the Yangtze river, and towards the West, to the present-day Pakistan, to Afghanistan and Iran, as far as the Caucasus, the Black Sea, to Mesopotamia and the Persian Gulf.

Towards the end of the XX century, in the framework of the bipolar system, Afghanistan became the battlefield where, once again, a maritime Power, the USA, confronted a land Power, the URSS.

The actors that confronted each other in this battlefield were basically: URSS troops, Afghan tribes and the so-called mujahideen, these latter supported by US, Pakistan and Saudi Arabia.

After the leaving of the Soviet troops from the afghan chessboard, the taliban movement assumed a growing important role in the region, on the basis of at least three main factors: a) ambiguous relations with some components of Pakistan secret services; b) ambiguous relations with US (a sort of “legacy” relied on the previous contacts between US and some components of the “mujahideen” movement, occurred during the Soviet - afghan war); c) the wahhabism as an ideological-religious platform directly useful to the interests of Saudi Arabia in its projection towards some zones as Bosnia, the Middle East area and the Caucasus (namely Chechnya and Dagestan).

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The three elements mentioned above allowed the taliban movement, for one hand, to insert and root itself in the afghan zone, gaining a growing weight on the military (with the creation and consolidation of the so-called sanctuaries) and economic (namely control of the drug traffic) levels, for other hand, impeded it to become an autonomous organization. Actually, because of the infiltration of US, Pakistan and Saudi Arabia, the taliban movement has to be considered a local organization directed by external players. These kind of considerations allows us to better understand and explain the choice of Obama and Karzai to open a dialogue with the Talibans, even to include some of them in local governments. Moreover, the apparent contradiction of the US (and Karzai) behaviours in Afghanistan, that could be explained according the theory and praxis for which the involvement of the enemy in institutional responsibilities aims to weaken it, follows the classic rule of the US geopolitical praxis, that is to maintain in a state of crisis a region considered strategic.

As we well know now, the drug production in Afghanistan has gone up more or less 40 times since the country’s occupation by NATO.

If we consider the solutions adopted so far by US forces and aimed at containing and overcoming the drug trafficking question in the more general context of the US geopolitical praxis, we can observe that US forces and  NATO seem “wasting” their time: drug production and diffusion in the southern part of the country are still going on. As we well know, the large-scale drug production is impossible in this area, because of the non-stop fighting. On the contrary, US and NATO forces focus their strategic interest in the northern side of the country. Here, they have built roads and bridges linking Afghanistan to Tajikistan), the road to Russia via Uzbekistan, Kyrgyzstan and Azerbaijan (see A. Barentsev, Afghan Heroine flow channelled to Russia, FONDSK). This modus operandi reveals openly the real intentions of Pentagon and Washington: opening a road towards Russia, starting from Afghanistan and the Central Asian republics. Actually NATO and other western forces do not conduct an effective fight against drug production and trafficking.

In such context, the supposed US/NATO fight against drug production and trafficking in Afghanistan seem to belong to the field of the western rhetoric more than to be a concrete fact (Fig. 2).

Similarly, the fight against taliban movement seem clearly subordinated to (and thus depending on) the general US strategy in the Eurasian landmass. Nowadays, this strategy consists in the setting up of military garrisons of US and its Western allies in the long strip that, starting from Morocco, crosses the Mediterranean sea and arrives as far as the Central Asian republics. The main aims of this garrisons are: a) the separation of Europe from North Africa; b) the control of north Africa and Near East (particularly the zone constituted by Turkey, Syria and Iran – using the Camp Bondsteel base, located in Kosovo ); b) the containment of Russia, and, under some aspects, of China too; c) an attempt of cutting the Eurasian landmass in two parts; d) the enlargement of the “arc of crisis” in the Central Asian area [Brzezinski defines this area the “Balkans of Eurasia” (the definition of the former advisor of president Carter sounds more as programmatic than as an objective description of the area)].

Creating a geopolitical chasm in Central Asia, i.d. a vulnus in Eurasia landmass, could lead to hostility and enmity among the main players in Asia, Russia, India and China (fig. 3). The only beneficiary of this game would be the US.

Other than the attempt “to knife” Eurasia along the illustrated path (from Mediterranean sea up to the Central Asia), we observe that US disposes (since 2008) of AFRICOM and, of course, of the related cooperative security locations in Africa: a useful “ military “device” which projection is also directed to Middle East and part of Central Asia (fig. 4).

 

 

In order to understand the importance of  the Central Asian zone for the US strategy aimed at its hegemony on the Eurasian landmass, it is enough to give a glance at the following picture (fig. 5) illustrating the US Commanders’ areas of responsibilities. The picture is representative of what we can name – paraphrasing the expression “the white man’s burden” formulated by the bard of the British imperialism, Rudyard Kipling, 1899 – the US’ burden.

 

general remarks on “accepted and shared” concepts

 

With the goal to reach a larger understanding of the complex dynamics acting presently at global level, it is useful criticizing some general concepts we consider accepted and shared. As we know, in the frame of the geopolitical analyses, the correct use of terms and concepts is at least as important as, those ones related to the description of the reality through maps and diagrams. For instance, the so-called “globalization” is only an euphemistic expression for economic expansionism of the US and the its capitalistic western allies (see Jacques Sapir, Le nouveau XXI siécle, Paris, 2008, p. 63-64). Even the rhetoric call to fight for the supposed “human rights”, or similar democratic values, spread by some think thanks, governments or simple civil activists, emphasizes the colonialist aspect of the US on the mass media and culture, without any consideration to other ways of life, like those expressed by no-western civilisations, i.e. more than three quarts of the world population. Among these concepts, we have to consider the most important one from the geopolitical (and international relations) point of view, that is the supposed International Community. The expression “International Community” does not mean anything in geopolitical terms. Actually, the International Community is not a real entity; its related concept sounds, simultaneously, like an aspiration of some utopian activists and a specific falsification of the history.

As in the worldwide real life we know State, Nations, People, International organisations [generally on the basis of (hegemonic) “alliances”] and, of course the relations among these entities, speaking of International Community means to mis-describe the real powers nowadays acting at global and local scales.

Considering now the focus of the present meeting, aimed at finding “shared solutions” for the afghan drug question in the context of the “International Community” (I.C.), honestly we have to underline, as analysts, that instead of I.C. it is more practical speaking of real players involved (and that could be involved) in the Afghan zone.

 

 the real players in the afghan theatre

 

For analytical reasons is useful to aggregate the players concerning the Afghan theatre in the following three categories: external players; local players; players who potentially could be involved in the afghan context. Afterwards we can easily define some conditions in order to delineate the characters of those partners who could be able to stabilize - effectively - the entire geopolitical area.

External players: US and NATO-ISAF (except Turkey) forces are to be considered external players because of their full strangeness to the specific geopolitical area, even if conceived in a broad sense;

Local players: among the local players we can enumerate the bordering countries (Iran, Turkmenistan, Uzbekistan, Tajikistan, China, Pakistan), the tribes, the insurgent forces, the  Talibans and the “governmental” entity led by Karzai.

Regarding the players belonging to the third category as defined above, we can include the Collective Security Treaty Organisation  (CSTO), the Shanghai Cooperation Organisation (SCO), i.e. the main Eurasian organisations with a large experience in managing questions related to the border control and drug trafficking of Central Asian area, and the Eurasian Economic Community (EURASEC). Moreover we have to mention also ONU, in particularly the United Nations Office on Drugs and Crime (UNODOC).

The potential partners able to overcome the drug question in Afghanistan have to present at least the following characteristics: a) the knowledge of the local dynamics related to the ethnic, cultural, religious an economic aspects; b) the acknowledgement by the local population as part of the same cultural context (obviously in a large meaning); c) the will to coordinate collectively the actions without any prejudice or mental reserve within a Eurasian program.

The partners presenting the features synthetically described above are those included in the second and third categories. As matter of fact US and NATO – ISAF forces are perceived from the local population as what they really are: occupying forces. Moreover, considering the NATO role as hegemonic alliance led by Washington and acting within the framework of the US global strategy, its presence in Afghanistan should be considered a serious obstacle to the stabilization of the entire area. The Talibans and even the governmental entity, do not appear, due to the ambiguous relations that they seem to have with the occupying US forces, to be candidate partners in a collaborative effort to triumph over the drug question in Afghanistan.

The real players able to stabilize the area are - without any doubt - the Afghanistan bordering countries and the Eurasian organizations. Among the bordering countries, a special role could be carried on by Iran. Teheran is the only country that has demonstrated to assure the security of Afghan-Iranian border, specially for drug trafficking. Also Moscow and Beijing  assume an important function in the stabilization of the area and in the fight to drug trafficking, because Russia and China, it is worth to remind it, are the main powers of the Eurasian organizations above mentioned. A strategic axis between the two “lungs” of Eurasia, balanced by the Central Asian republics and India, could constitute the lasting solution for the stabilization of the area and hence the drug question. Only in the frame of a shared Eurasian plan aimed at stabilizing the area – conceived and carried on by Eurasian players –, it is possible to dialogue with local tribes and with those insurgent movements which are clearly not directed by external players.

 

 

conclusions

 

The stabilization of the afghan area is an essential requirement for any plan aimed to face the drug production and trafficking.

However, because of the pivotal role of Afghanistan in the Middle East and in the Central Asian regions,  the strategy to stabilize the area has to be conceived in the context of the integration of the Eurasian landmass.  Candidates particularly interested to halt the drug production and traffic are the Afghanistan bordering Countries.

US and NATO forces, because of their clear geopolitical praxis aimed at hegemonizing the Eurasian landmass, are not plausible candidate.

vendredi, 11 juin 2010

La sfida totale

LA SFIDA TOTALE

INTERVISTA A DANIELE SCALEA

 

Stefano Grazioli

Ex: http://www.italiasociale.net/

 

sfida-totale.jpgTanti parlano e scrivono di geopolitica, pochi ne capiscono davvero qualcosa. Daniele Scalea è uno di questi. Giovane, 25 anni e una laurea in Scienze storiche alla Statale di Milano, Daniele Scalea - che già da qualche anno é nella redazione di Eurasia -  ha esordito con un opera di grande spessore (un assaggio sul sito), dimostrando che le sponde del Lago Maggiore (vive a Cannobio) possono diventare un osservatorio privilegiato per capire e spiegare le vicende del Mondo che ci circonda. A confermarlo non sono tanto io, quanto chi ha scritto la prefazione del nuovo libro di Daniele, “La sfida totale – Equilibri e strategie nel grande gioco delle potenze mondiali” (Fuoco Edizioni), e cioè il generale Fabio Mini, uno che ne capisce: “Si potrebbe tranquillamente dire che Daniele Scalea ha scritto un trattato di alta Geopolitica. Ha descritto il mondo attuale cercando di interpretarlo alla luce delle teorie classiche della Geopolitica confermandone, e ce n’era bisogno, la validità metodologica. Ha preso in esame tutti i grandi attori mondiali e dopo una panoramica appassionata, non c’è nient’altro da dire”.

Ecco, non aggiungo altro nemmeno io. Consiglio solo di correre in libreria o ordinare il libro via internet direttamente dall’editore. E di leggere con attenzione la lunga  intervista che gentilmente che l’autore ci ha concesso.

 

Rovesciamo la bottiglia e partiamo dal fondo. Lei conclude il suo libro scrivendo che la nascita del Nuovo Mondo, o perlomeno la ristrutturazione geopolitica di quello vecchio, potrebbe essere oltremodo complicata: in sostanza il passaggio da un sistema semi-unipolare a uno multipolare rischia di produrre dolorose frizioni dovute al fatto che la potenza egemone – gli Stati Uniti – opporrà resistenza alla perdita del proprio potere. La “sfida totale” ha già vincitori e vinti?

La tendenza storica del post-Guerra Fredda marcia contro gli USA. Negli anni ’90 la geopolitica mondiale ha vissuto il suo “momento unipolare”, e tutto sembrava girare per il verso giusto, dalla prospettiva di Washington. Ma già si covava quanto sarebbe venuto. L’ultimo decennio ha visto l’emergere a livello economico, strategico ed infine anche politico di veri e propri competitori della “unica superpotenza rimasta”: il riferimento è prima di tutto a Cina e Russia, ma una menzione la meritano pure India, Brasile, Giappone. Il sogno della “fine della storia” è svanito. Gli USA hanno tentato, sotto Bush, un ultimo brutale tentativo di mantenere la propria supremazia incontrastata: il progetto di “guerra infinita”, che avrebbe dovuto annichilire come un rullo compressore tutti i possibili nemici e competitori, ma che si è arenato già sui primi due scogli incontrati, ossia Afghanistan e Iràq. L’ordine mondiale odierno è “semi-unipolare”, con Washington ancora potenza egemone, ma più per la cautela dei suoi rivali che per la propria forza ed autorità. La crisi finanziaria del 2008 è partita dagli USA ed ha mandato parzialmente in frantumi quell’ordine economico su cui si fonda gran parte del potere di Washington. Tutto lascia supporre che si concretizzerà il ritorno ad un vero e proprio ordine “multipolare”, e questa è anche la mia previsione.

Però …come spesso accade c’è un “però”. Uno degli errori più comuni del nostro tempo è quello di percepire le tendenze come fattori fissi ed immutabili, quando in realtà sono contingenti. Come sosteneva Hume, l’uomo è portato a credere in ciò che è abituato a vedere, ossia ad assolutizzare il contingente. Ma le inversioni di tendenza sono sempre possibili. Gli Stati Uniti non hanno accettato e difficilmente accetteranno il ruolo di ex egemone in declino. A meno d’implosioni interne del tipo pronosticato da Igor Panarin, riusciranno ad opporre resistenza, ed hanno molto frecce al loro arco se non per bloccare, quanto meno per rallentare la transizione al mondo multipolare: ricordiamo, tra i principali, il poderoso strumento militare (che spesso fa cilecca, ma per capacità di proiezione globale non ha pari), la “egemonia del dollaro” (Henry Liu), la centralità nel sistema finanziario, l’influenza culturale. Già il secolo scorso la supremazia delle talassocrazie anglosassoni fu sfidata, prima dal Reich tedesco e poi dall’Unione Sovietica, e sappiamo bene tutti come andò a finire. Meglio non vendere la pelle dell’orso (o le penne dell’aquila, se vogliamo esser più precisi nell’allegoria zoologica) prima d’averlo ucciso. Certo però che questi USA d’inizio XXI secolo paiono solo la copia sbiadita della superpotenza del ventesimo: molta della loro grandezza deriva dall’eredità delle generazioni passate, e quando sono chiamati a difenderla non sembrano all’altezza del proprio rango senza pari.

E ora dall’inizio, tuffandoci un po’ nel passato. L’attacco al cuore della Terra, all’Heartland, che gli Stati Uniti hanno attuato su quattro direttrici (sovversione politica, espansione militare, risorse energetiche, supremazia nucleare): può sintetizzare?

La strategia statunitense, quanto meno dagli ultimi anni della Seconda Guerra Mondiale in poi (e forse anche da prima), è fortemente ispirata ai princìpi della geopolitica. L’Heartland (H. Mackinder) è una delle categorie basilari di questa disciplina: è la Terra-cuore, il centro del continente eurasiatico, storicamente impermeabile alla potenza marittima – quest’ultima incarnata prima dall’Impero britannico e poi dal “imperialismo informale” statunitense. L’Heartland è occupato dalla Russia, che rappresenta perciò stesso il principale ostacolo e minaccia potenziale all’egemonia della potenza talassocratica, ossia marittima, degli USA. Dalla fine della Guerra Fredda ad oggi, Washington e Mosca hanno più volte tentato approcci amichevoli, ma tutti sono finiti male. All’arrendevolezza di El’cin si rispose con lo smembramento della Jugoslavia, ed i Russi reagirono portando al Cremlino un certo Vladimir Putin. Le sue aperture dopo l’11 settembre sono state ripagate con la penetrazione statunitense in Asia Centrale, nel “cortile di casa” russo. Anche l’attuale recentissimo idillio tra Obama e Medvedev durerà poco. Nessuno vuole sfociare nel determinismo, ma la geografia è un fattore importante nella vicenda umana, ed in questo caso la geografia condanna Russia e USA ad essere, almeno nello scenario attuale, quasi sempre nemici.

Dagli anni ’90 ad oggi gli Statunitensi, sulla scia di teorizzazioni come quelle di Zbigniew Brzezinski, lungi dall’allentare la morsa su Mosca hanno cercato di sfruttare il crollo dell’URSS per neutralizzare definitivamente la minaccia russa. Le “direttrici d’attacco”, come da lei sottolineato, sono state quattro:

a) la sovversione politica: tramite la CIA, enti pubblici o semi-pubblici come il National Endowment for Democracy o U.S. Aid, e finte ONG gli USA hanno orchestrato una serie di colpi di Stato in giro per l’ex area d’influenza moscovita, allo scopo d’insediare quanti più governi filo-atlantici e russofobi fosse possibile. I casi più celebri: Serbia, Georgia, Ucraìna, Kirghizistan. Ci hanno provato persino in Bielorussia e in Russia (leggi Kaspàrov), ma non è andata bene. I governanti locali si sono fatti furbi ed hanno iniziato a porre una serie di restrizioni alle attività d’organizzazioni straniere nei propri paesi. Gli ultimi eventi in Ucraìna e Kirghizistan fanno pensare che l’ondata di “rivoluzioni colorate” sia ormai in fase di risacca;

b) l’espansione militare: la NATO si potrebbe definire come l’alleanza che lega l’egemone statunitense ai paesi ad esso subordinati. Non è qualitativamente diversa dalla Lega Delio-Attica capeggiata da Atene, o dalle varie alleanze italiche di Roma. Un’alleanza non certo tra pari. Nata in funzione anti-sovietica, scioltasi l’URSS non solo non ha chiuso i battenti ma si è allargata verso est, fino ai confini della Russia. La nuova dottrina militare russa cita espressamente la NATO tra le minacce per il paese;

c) le risorse energetiche: una potente leva strategica per la Russia è costituita dalla sua centralità nel commercio energetico intra-eurasiatico. Gli USA hanno cercato di sminuirla facendo dell’Asia Centrale un competitore di Mosca, tramite gasdotti e oledotti alternativi che scavalcassero il territorio russo. L’impossibilità di costruire la condotta trans-afghana, il ridotto impatto del BTC ed il fallimento annunciato del Nabucco chiariscono che il progetto, almeno per ora, non ha avuto successo;

d) la supremazia nucleare: è un punto sovente ignorato dai commentatori occidentali. Si definisce “supremazia nucleare” la capacità d’uno Stato di vincere una guerra atomica senza subire danni eccessivi, ossia di sferrare un “primo colpo” (first strike) parando la successiva rappresaglia. Quando si dispone di migliaia di testate e missili nucleari, come gli USA, è facile annientare un rivale con una guerra atomica: il grosso problema è riuscire ad evitare d’essere annientati a propria volta se il nemico, come la Russia, ha a sua volta migliaia di armi nucleari con cui rispondere. Ecco dunque l’idea dello scudo ABM (anti-missili balistici), il sogno di Reagan riesumato da Bush e per niente accantonato da Obama. Resterà ancora a lungo una delle principali pietre della discordia tra Mosca e Washington. Infatti, il Cremlino non si beve la storia che lo scudo ABM sia rivolto contro l’Iràn e la Corea del Nord, e nel mio libro spiego dettagliatamente il perché.

Lei si sofferma sulla politica estera statunitense dell’ultimo decennio sviscerando le differenze tra idealisti e realisti alla Casa Bianca. Cosa ha cambiato l’arrivo di Barack Obama alla Casa Bianca?

Ha cambiato molto, ma probabilmente meno di quello che avrebbe potuto se non ci fosse stata la crisi finanziaria del 2008. Obama era portatore d’una geostrategia alternativa a quella neoconservatrice, meno fissata sul Vicino e Medio Oriente e più attenta agli equilibri globali nel loro complesso. Essa comprendeva anche una non dichiarata strategia anti-russa di tipo brzezinskiana. La stessa distensione con l’Iràn era ed è mirata soprattutto a rivolgere la potenza persiana contro Mosca in funzione di contenimento sul fianco meridionale.

Inutile dire che la crisi ha scompaginato i piani. Gli USA si sono ritrovati con l’acqua alla gola, ed Obama s’è accontentato di cercare di salvarne la supremazia mondiale. L’ideologismo di Bush è stato sostituito con un po’ di sana Realpolitik, e la minaccia ed uso della forza militare sono oggi stemperate dal ricorso alla diplomazia come via prediletta. Ma ciò non è sufficiente. Washington, capendo di non farcela più da sola, sta cercando di cooptare qualche grande potenza come stampella della propria egemonia. All’inizio Obama ha cercato di formare il famoso “G-2” con la Cina, ma ben presto la tensione ha preso a montare ed oggi Washington e Pechino si guardano in cagnesco come non succedeva da decenni. Così Obama ha messo nel mirino la Cina, ed ha pensato bene di corteggiare la Russia. Il “leviatano” talassocratico ed il “behemoth” tellurocratico si sono già trovati fianco a fianco contro una potenza del Rimland, ossia del margine continentale dell’Eurasia (mi riferisco alla Germania nel secolo scorso), ma non credo che ciò si ripeterà oggi. Gli USA superpotenza avrebbero potuto cooptare la Russia di El’cin e del primo Putin, ma si sono rivelati troppo avidi di potere ed hanno finito con l’allontanarla. Oggi sono ancora la potenza egemone, e perciò suscitano invidia ed ostilità, ma sono un egemone zoppo,  e dunque appoggiarlo non dà più gli stessi vantaggi d’un tempo. Allearsi con qualcuno che ti vorrebbe come stampella del suo potere traballante non è una prospettiva così allettante. Il Cremlino prenderà altre strade. Solo quando gli USA si saranno ridimensionati al rango di grande potenza inter pares, allora si potrà ridiscutere d’alleanze strategiche.

L’8 dicembre 1991 i presidenti di Russia, Ucraina e Bielorussia, riuniti a Brest, proclamarono la dissoluzione dell’Unione Sovietica, che Gorbačev fu costretto ad accettare suo malgrado. L’ex presidente russo Vladimir Putin, ora primo ministro, ha affermato che la dissoluzione dell’Urss è la stata la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo. È d’accordo?

Il termine “catastrofe” sottintende un giudizio di valore, e dunque è soggettivo. Restando sul merito, è indubbio che il crollo dell’URSS, ossia della potenza terrestre dell’Heartland che conteneva la superpotenza marittima, è stato un evento epocale. E dal punto di vista dei Russi, non si può che considerare catastrofico. Ma non solo dal loro. Il crollo della diga sovietica – una diga criticabile e controversa fin quanto si vuole – ha aperto la strada al tentativo egemonico degli USA, col suo contorno di prevaricazione e guerre. Per gli Statunitensi la disgregazione dell’URSS è stata un successo, per i Polacchi una benedizione, per i Cubani, i Siriani o i Palestinesi una disgrazia.

Vladimir Putin è stato, tra luci ed ombre, il simbolo della ritorno della Russia sulla Grande Scacchiera. Lei scrive che la “Dottrina Putin” può essere interpretata come un realismo in salsa russa, fondato sull’accorta tessitura d’alleanze intra-continentali con la Cina, l’India, l’Iran, la Turchia e l’Europa Occidentale. Cioè?

Ho ripreso la definizione che cita da Tiberio Graziani, direttore della rivista “Eurasia”. In Russia, dopo la fine del comunismo sono emerse due visioni ideologiche: quella eurasiatica, che vede negli USA il nemico storico da combattere ad ogni costo, e quella occidentalista, che vede nell’Ovest il beniamino da emulare e compiacere ad ogni costo. La Dottrina Putin esula da questi schemi e si pone nel mezzo degli “opposti estremismi”. Putin ha adottato linguaggi e formalità cari agli occidentali, ed ha a lungo considerato prioritari i rapporti con l’Europa e gli USA. Ma non è mai stato arrendevole e rinunciatario, non ha mai rinunciato a difendere il ruolo della Russia nel mondo ed il suo “spazio vitale” nell’Heartland. Quando ha verificato che con Washington non c’erano spazi di dialogo, si è rivolto altrove. Le alleanze intra-continentali da lei citate servono a creare un “secondo anello di sicurezza” (il primo dovrebbe essere il “estero vicino”) attorno alla Russia. L’obiettivo finale è estromettere la talassocrazia, ossia gli USA, dall’intera massa continentale eurasiatica, per mettere definitivamente in sicurezza la Russia.

Secondo Parag Khanna i “tre imperi” del nuovo mondo multipolare sarebbero Usa, Cina e Unione Europea, mentre la Russia farebbe parte del “secondo mondo”. Lei non è d’accordo. Perché?

Perché la visione di Parag Khanna si fonda sostanzialmente su valutazioni di tipo economico e sulle sue simpatie personali. L’economia è importante ma non rivela tutto. Ad esempio, l’Unione Europea, si sa, è un gigante economico ma un nano politico. Non è neppure uno Stato, bensì un’accozzaglia di Stati nazionali che, come stanno dimostrando gli eventi attuali, in mezzo alla tempesta preferiscono pensare ognuno per sé. La Russia ha un ingente patrimonio geopolitico, in termini geografici, militari ed energetici, che può giocare efficacemente sulla grande scacchiera mondiale. Mosca è ancora al centro della politica internazionale, considerarla parte del “secondo mondo” è ingiustificato.

La Cina è e sarà comunque uno dei protagonisti di questo secolo e intorno al ruolo di Pechino si gioca ovviamente il futuro di Washington. Riprendo allora le sue parole: «Per gli Usa il contenimento della Cina dovrebbe avvenire attraverso due “cani da guardia” posti al suo fianco: l’India e il Giappone. Davvero Nuova Delhi e Tokio sono disposti a ricoprire il ruolo che Washington vorrebbe affibbiare loro, oppure preferiranno unirsi a Pechino per creare una “sfera di co-prosperità” asiatica?»

È un dilemma che non ha ancora trovato risposta. L’India sembrava più vicina alla Cina qualche anno fa, quando entrò nel gergo comune degli addetti ai lavori il termine “Cindia”. Al contrario, il Giappone che qualche anno fa pareva nemico irriducibile di Pechino oggi gli si sta riavvicinando. La situazione è fluida e difficile da decifrare, ma la sensazione è che Nuova Delhi e Tokio cercheranno la vincita sicura: aspetteranno di capire con certezza chi avrà la meglio tra Cina e USA, e solo allora punteranno tutto sul cavallo vincente.

Spostiamoci infine Oltreoceano, dove comunque i grandi attori sono sempre gli stessi. Nel libro scrive che Obama sembra deciso a recuperare l’influenza sul “cortile di casa”, e con qualsiasi mezzo. Russia e Cina, invece, offrono una sponda diplomatica alle nuove potenze emergenti come Brasile e Venezuela. I prossimi conflitti sono programmati?

Il Sudamerica è storicamente un’area molto pacifica. Ma ciò è dovuto anche alla sua storia di marginalità nel quadro geopolitico, ed all’egemonia a lungo incontrastata degli USA. Oggi questi due fattori stanno venendo meno. In Sudamerica sta emergendo una grande potenza mondiale – il Brasile – mentre il controllo degli USA sul “cortile di casa” è stato seriamente intaccato. Cina e Russia si fanno beffe della Dottrina Monroe, punto fermo della strategia statunitense da un paio di secoli. Washington passerà all’azione, o meglio alla reazione, e non sappiamo ancora quali strumenti sceglierà.

Maggiore integrazione economica? L’ALCA è stato bocciato da quasi tutti i paesi sudamericani.

Legami militari? In Sudamerica la Russia ha superato gli USA nell’esportazione di armi.

Influenza culturale? I sentimenti anti-statunitensi, tradizionalmente radicati nell’area, appaiono al massimo storico, ed il risveglio della comunità indigena porta ad una riscoperta del proprio retaggio più arcaico, piuttosto che all’adozione della way of life nordamericana.

Colpi di Stato? In Venezuela ci hanno provato ma fu un fallimento; un pesce molto più piccolo come l’Honduras è caduto nella rete, ma si ritrova quasi completamente isolato nella regione.

Guerre per procura? I paesi sudamericani sono molto restî a scendere in guerra tra loro, se non altro perché sono tutti instabili al loro interno e temono gravi contraccolpi domestici. Attorno alla Colombia la tensione sta montando, e molto decideranno le imminenti elezioni presidenziali. Santos ricorda per certi versi Saakašvili: è una testa calda, con lui tutto sarebbe possibile. Mockus, al contrario, cercherebbe la distensione coi vicini ed allenterebbe i legami con gli USA. In ogni caso, per Bogotà sarebbe una mossa come minimo azzardata andare in guerra coi vicini, quando non controlla neppure il proprio territorio nazionale.

Guerre in prima persona? Sono da escludersi almeno finché le truppe nordamericane rimangono impantanate in Iràq e Afghanistan. Anche dopo aver evacuato i due paesi mediorientali, l’esperienza inciderà negativamente sulla propensione alla guerra nei prossimi anni. Certo, non sono eventi traumatici come il Vietnam – avendovi preso parte soldati professionisti e non cittadini coscritti – ma il paese è comunque demoralizzato e le casse vuote. Inoltre i paesi sudamericani si stanno integrando: attaccarne uno significherebbe rovinare i rapporti con tutti.

Per tali ragioni, ritengo che nei prossimi anni Washington si limiterà a sovvenzionare e “pompare” a livello mediatico i propri campioni in loco: lo sta già facendo in Brasile, anche se difficilmente il Partito dei Lavoratori di Lula sarà scalzato dal potere. In qualche “repubblica delle banane” centroamericana potranno pure organizzare dei golpe, ma l’arma tradizionale dell’influenza nordamericana sui vicini meridionali appare sempre più spuntata.

La perdita dell’egemonia sul continente americano rappresenterà una svolta epocale per gli USA e la geopolitica mondiale. Gli Stati Uniti d’America, potenza continentale, hanno potuto inventarsi potenza marittima contando sull’isolamento conferito dall’assenza di nemici sulla terraferma: dal Novecento hanno perciò potuto proiettarsi con sicurezza sugli oceani e al di là degli stessi. Con l’emergere di forti rivali nelle Americhe, gli USA perderebbero uno dei loro storici vantaggi strategici: smetterebbero di essere “un’isola” geopolitica e ritornerebbero una potenza continentale.

Quali sono questi “rivali” che gli USA potranno trovare nel continente? Facile rispondere il Brasile, su tutti, che ha dimensioni e demografia adatte a sfidare la supremazia di Washington nell’emisfero occidentale. Facilissimo citare il “blocco bolivariano”, paesi che presi singolarmente sono deboli, ma che se dovessero riuscire ad unirsi, resi più forti dalla veemenza ideologica, creerebbero non pochi problemi ai gringos, come li chiamano loro. E non scordiamoci il Messico. Il Messico è una nazione molto grande, direttamente confinante con gli USA, e coltiva – anche se silenziosamente – storiche rivendicazioni territoriali sul sud degli Stati Uniti. La sua economia è in forte crescita: fra pochi anni sarà considerata una grande potenza, almeno in quest’ambito. Fatica a tenere sotto controllo la parte settentrionale del paese, ma è quella meno popolata e più povera. In compenso ha un’arma atipica. Samuel Huntington, poco prima di morire, lanciò un avvertimento ai propri connazionali: di guardarsi dall’enorme aumento numerico dei Latinos – per lo più messicani – negli USA. I Latinos sono concentrati in pochi Stati: California, Texas, Arizona, New Mexico ed anche Florida (qui si tratta di cubani e portoricani). Giungono in massa e tendono a conservare la propria lingua, la propria religione ed il proprio modo di vivere. Hanno già acquisito un ingente peso elettorale, ma in massima parte non sono integrati nella società statunitense. Nel Sud, i cartelli criminali del narcotraffico hanno costituito veri e propri “Stati nello Stato”, che spadroneggiano nei quartieri latini, sanno autofinanziarsi illecitamente tramite il traffico di droga e la prostituzione, hanno veri e propri eserciti armati fino ai denti. Un soggetto ideale per condurre una guerra asimmetrica, se se ne creassero le condizioni. Questi cartelli del narcotraffico hanno eguale potere al di là del confine, nel settentrione del Messico, e forti collusioni con le autorità di Città del Messico. Non è un caso che negli USA da alcuni anni stiano cercando d’arginare l’immigrazione e d’integrare i Latinos nella società, mentre in Messico non fanno nulla per dissuadere i propri cittadini dall’espatriare nelle terre che gli Statunitensi rubarono al Messico centocinquant’anni fa. La situazione è esplosiva, e qualche analista – come George Friedman – se n’è accorto.

 

22/05/2010

lundi, 31 mai 2010

Kan Europa zonder Rusland?

Kan Europa zonder Rusland?

Ex: http://www.n-sa.be/

De term geopolitiek kan op verschillende wijzen gedefinieerd worden. Van Dale definieert Geopolitiek als “de wetenschap van de invloed van de aardrijkskundige gesteldheid op staatkundige vraagstukken”. De Zweed Rudolf Kjellén stelde in 1924 dat Geopolitiek "de leer was van de staat als geografisch organisme of als ruimtelijk fenomeen". De Belgische historicus Jan A. Van Houtte definieerde Geopolitiek in 1945 als “deze tak van de aardrijkskunde en van de politieke wetenschap die de werking van het milieu op de politieke bedrijvigheid van den mensch, en van den mensch op de politieke gesteltenis van het milieu bestudeert.” In 2005 definieerde de Belgische politicoloog David Criekemans Geopolitiek als “het wetenschappelijk studieveld behorende tot zowel de Politieke Geografie als de Internationale Betrekkingen, die de wisselwerking wil onderzoeken tussen de politiek handelende mens en zijn omgevende territorialiteit (in haar drie dimensies; fysisch-geografisch, menselijk-geografisch en ruimtelijk)".

PrimaryOGPipestoEur06.gifWe mogen in geen geval uit het oog verliezen dat geopolitiek een middel is om binnenlandse doelstellingen te bereiken. Daarom kunnen we het begrip Geopolitiek definiëren als “ het benaderen van het streven om politieke binnenlandse doelen te bereiken op basis van geografisch gefundeerde argumenten".  De Britse geopolitieker Peter J. Taylor stelt duidelijk dat geopolitieke analyses altijd een nationale inslag hebben. “In het geval van geopolitiek is het steeds makkelijk geweest om de nationaliteit van een auteur aan de inhoud van zijn teksten te identificeren.” De Franse geopolitieker Aymeric Chauprade wijkt van de meeste van zijn collega’s af door weliswaar de staat belangrijk te vinden maar door geopolitiek het vakgebied “Internationale Betrekkingen” van elkaar los te koppelen. Hij zegt : “Zeggen dat de Nationale staten het centrum van geopolitieke ambities zijn, betekent niet dat de nationale staten de enige spelers in de wereld zijn. Het verschil met het vakgebied internationale betrekkingen is dat de geopolitieke wetenschap andere acteurs en andere geopolitieke realiteiten toestaat.”

In dit kader kan ik duidelijk het volgende stellen: ja, ik pleit in het belang van mijn volk voor een Europese as met Rusland als alternatief voor de Europese Unie. Ik kan me goed inbeelden dat sommigen hier zich bij zullen afvragen waar Rusland ons kan helpen en waar Rusland ons een oplossing kan aanrijken voor het feit dat sommigen onder jullie werkloos zijn. Kortom: als men werkloos is – in tijden van crisis zoals nu meer regel dan wens – dan is het begrijpelijk dat men opmerkt : “Wat kan Rusland me schelen, ik wil een job”. Vandaag krijgen jullie een antwoord hoe een geopolitieke as tot in Vladivostok ons kan helpen daarbij.

Nu een eerste principe. Een volk dat begenadigd is met een goede leiding, heeft als ambitie om het leven van haar leden zo goed mogelijk te organiseren. Een goede leiding ambieert naar een steeds hogere levenskwaliteit. Een belangrijk facet van wat men noemt “de levensstandaard” is de economie. Via arbeid en handel bouwt een volk een bepaalde levensstandaard op. Een goede regering zal er over waken dat deze economie de normen van de rechtvaardigheid niet overschrijdt. Een goede regering zal er over waken dat één sociale groep de andere niet uitbuit en/of tot slavernij brengt. In een solidaristische maatschappij geniet men van goede beloning voor geleverde arbeid en de garantie dat de hongersnood niet aan de deur komt kloppen in geval van economische tegenslag. Het is dus begrijpelijk dat sommige economische kasten – de kasten van de rijken, van zij die “hebben” – deze visie totaal zullen verwerpen. Zij willen meer en steeds meer “hebben”. Deze liberale kasten – sommigen bevinden zich op wereldniveau, anderen op het Europese, nog anderen op het Belgische en het Vlaamse niveau – hebben er alle belang bij dat men arbeid zo weinig mogelijk beloont en dat men diegene die de pech heeft over geen arbeidsmogelijkheden te beschikken, zich kosteloos van kan ontdoen. De economie van de Verenigde Staten is daar een schoolvoorbeeld van. Obama wil daar nu sociale zekerheid invoeren en botst op enorme weerstand. De “haves” willen niet delen met de “not haves”. Hiermee komen we aan een ander punt: sociale bescherming ligt zeer moeilijk in etnisch verdeelde naties. We stellen wereldwijd vast dat zowat elke groep van mensen die iets hebben opgebouwd, met klem benadrukt “dat zij voor die andere niet gaan opdraaien”. Bijvoorbeeld, men kan op straat letterlijk uit de mond van een blanke horen : “Ik betaal niet voor die zwarte”. Andere reële variant is een zwarte Amerikaan die zegt: “Ik betaal niet voor die Chinees”. Enzovoort. Bij geopolitiek moet absoluut etnopolitiek worden ingecalculeerd. Anders maakt men onvermijdelijk zware fouten bij het analyseren van de problemen waarmee onze maatschappij vandaag te kampen heeft. Geopolitiek zonder etnopolitiek heeft geen enkele zin. Ik wens daarbij wel te benadrukken dat etnopolitiek niets te maken heeft met het begrip “racisme”, door onze vrijheidsbeperkende wetgeving een nogal vaag omschreven begrip. Het gaat hier om een vanuit de evolutie ingegeven basisreactie.

Een tweede principe. Om als volk onafhankelijk te overleven moet het beschikken over een aantal onafhankelijke materies. Belangrijk zijn het zelf beschikken over voedsel en energie. We kunnen dus stellen dat een volk enkel kan overleven indien het beschikt over een voor haar geschikt levensgebied. Volgend op dit principe een volgende stelling: een volk is het aan zichzelf verplicht om de levensnoodzakelijke elementen waarover het niet beschikt veilig te stellen. Voor velen lijkt dit eenvoudig en logisch. Maar dit is niet eenvoudig. Neem het voorbeeld van Leningrad in de periode 1941-45. Tijdens deze periode werd Leningrad door middel van een Duitse blokkade tijdelijk van een megastad in het Sovjet-Rijk naar een stadstaat herleid. Deze stad kon onmogelijk aan de levensnoodzakelijke noden van het volk voorzien. De stad heeft geen voor landbouw voorzien territorium, de enkele kleine stadsmoestuintjes niet meegerekend. Het verhaal eindigde triest met bijna een miljoen hongerdoden en kannibalisme. In de Middeleeuwen werden stadsstaten tijdens oorlogen na een blokkade meer dan eens tot de overgave gedwongen.

Om als volk te overleven moet men ervoor zorgen dat, in functie van de beschikbaarheid van voedsel en energie, er niet teveel inwoners per vierkante kilometer wonen. In dit kader is het duidelijk dat een massale immigratiestroom onherroepelijk tot het einde van de integriteit en belangenbehartiging van dat volk leidt. De immigratiestroom verandert de samenstelling van een volk in die mate dat de etnische eigenschappen veranderen. Een andere etnische samenstelling verandert de geopolitieke visie van de “bevolking”. Zo zal een volk met stijgend aantal Noord-Afrikaanse immigranten mettertijd veel belang hechten aan een geopolitieke band met de landen van herkomst. De Turkse gemeenschap verblijvend in de Europese Unie zal het wel leuk vinden mocht Turkije er vrolijk bij komen om die reden.

Hoe meer voedsel en energie men moet importeren, hoe meer afhankelijk men van anderen wordt. Zijn die anderen vriendelijke bondgenoten, dan valt de balans nog mee. Wordt het territorium van waaruit men voedsel en/of energie importeert geregeerd door keiharde zakenmensen of plots door vijanden (na een machtswissel), dan staat het eigen volk voor een zwaar probleem dat ze niet in de hand heeft. Nog een punt is daarbij dat een vijand steeds de alimentaire en grondstoffelijke aanvoerlijnen kan saboteren.

In dit kader moeten de Lage Landen zich bezinnen over wie de beste bondgenoten zijn en wie niet. Uiteindelijk moet de geopolitiek van de Lage Landen dienen om binnenlands een compleet soeverein programma uit te voeren: het herinvoeren van echte grenzen, het herinvoeren van een eigen munt, het nationaliseren van banken, het begrenzen van persoonlijk bezit, remigratie van arbeidsproductieve overschotten, het solidariseren van nationale kernsectoren, het invoeren van een solidaristische maatschappelijke orde, het sociaal welvaartsmodel herdefiniëren op basis van volkseenheid.

Daarom moet Vlaanderen na het ontbinden van de Belgische economische kaste – en daardoor de Belgische staat – een eigen munt creëren met economisch compatibele landen zoals Nederland, Wallonië, Luxemburg, Noord-Frankrijk (Zuid-Vlaanderen). Na een “Vlaamse revolutie”, zoals het afstoten van België zal genoemd worden, moeten de Lage Landen vanuit gemeenschappelijk belang overgaan tot nieuwe staatsverbanden.

Internationaal is samenwerking met bepaalde landen wenselijk. Niet met de VSA maar wel met sommige tegenstanders van de VSA, zoals Rusland, Wit-Rusland, Syrië en Iran. Er zijn genoeg kandidaten.

In de veranderende wereld zullen China, India en de VS hoofdrolspelers zijn. Dit is nieuw want gedurende eeuwen was de Middelandse Zee zowat het centrum van de wereld. Vanaf het ogenblik dat men internationale betrekkingen op wereldschaal begon te ontwikkelen, dat is 500 jaar geleden, tot 1945 bevond het heersende wereldrijk (Rome, China, Mongolen, Griekenland, Frankrijk, Portugal, Spanje, de Nederlanden enzovoorts) zich steeds op het Euraziatisch continent. In 1945 ontstond er voor het eerst een wereldmacht die buiten het Euraziatisch continent ligt. Op zich is dit een verandering die men kan vergelijken met een tektonische verschuiving. Ondanks deze verschuiving van macht naar het Amerikaans continent blijft het geopolitiek belang van het Euraziatisch continent centraal.

Eurazië is het enige terrein waar een eventuele rivaal van de VS zou kunnen verschijnen. Daar bevindt zich de sleutel van de Amerikaanse geopolitiek.

Mackinder stelt in 1904 al in zijn eerste werk “De geografische spil van de geschiedenis” : “Wie Oost-Europa beheerst, beveelt het hart van de wereld. Wie het hart van de wereld beheerst, beveelt het eiland van de wereld. Wie het eiland van de wereld beheerst, beveelt de wereld.” Mackinder was een Brit en ging ervan uit dat het Britse Rijk – toen op een hoogtepunt – haar macht moest kunnen behouden. Jarenlang heerste Groot-Brittannië over de wereldzeeën dankzij een superieure vloot. Echter, ook de technologische ontwikkeling nam haar vlucht en zo kwamen er nieuwe technieken die ertoe leidden dat het over het land voortbewegen door middel van bijvoorbeeld stoomtreinen, steeds gemakkelijker en vlugger ging. Mackinder ging ervan uit dat in de nabije toekomst de politieke macht van Groot-Brittannië wel eens geringer zou kunnen worden. In een wereld waar deze opgedane politieke macht te danken was aan een maritieme vloot, en verbindingen over land een sterkere positie zouden gaan innemen, zouden continentale landen als Rusland meer politieke macht vergaren. Groot-Brittannië zou geen grip kunnen krijgen op deze continentale gebieden en zo haar politieke macht zien afnemen. Mackinder wees erop dat al vaker beschavingen vanuit dit continentaal gebied erin slaagden anderen te overheersen.

Een andere geograaf uit deze tijd, maar dan behorende bij het 'vijandige' Duitse kamp was sterk onder de indruk van Mackinder's werk: Karl Haushofer (1869-1946). Hetgeen Mackinder vreesde, dat was voor Haushofer een wensdroom. Haushofer zag het als volgt: wanneer Duitsland heerschappij over het 'Heartland' zou hebben, zouden zij heersen over het 'World Island' wat zou betekenen dat Duitsland een hegemoniale macht zou zijn. In de geopolitieke ideeën van Haushofer neemt het begrip ‘Lebensraum’ een centrale plaats in. Dat begrip ontleende hij aan Friedrich Ratzel (1844-1904) en aan Rudolf Kjellen (1864-1922) die Ratzels ideeën in geopolitieke zin had verscherpt. Ratzel beschouwde staten als organismen. In feite voegde Ratzel aan Darwins concept van de the struggle for life een ruimtelijke dimensie toe. Het gaat niet alleen om een strijd om het bestaan, maar elke strijd om het bestaan was een strijd om de ruimte waarin dat bestaan zich moest afspelen. Vandaar het begrip ‘Lebensraum’. Dat laatste moet gezien worden als het totale gebied dat voor het bestaan van een volk nodig is. Haushofer bezorgde het begrip daarbij een etnische inslag. Hieruit kunnen we stellen dat indien de Lage Landen leefbaar willen blijven, we heden ofwel aan gebiedsuitbreiding moeten doen of aan bevolkingsvermindering. Annexatie of remigratie. Annexatie is heden onmogelijk dus rest er maar één oplossing: remigratie.

Willen de Lage Landen een belangrijke rol spelen, dan is een goede verstandhouding met het “heartland” geen overbodige luxe. In een Europees samenwerkingsverband, als alternatief voor de EU, is het mogelijk om de economische afzetmarkt te vergroten. Door een samenwerking met Oost-Europa en Rusland te stimuleren, verzekeren we onze aanvoer van energie en voedsel. Het moet wel de bedoeling zijn dat we zoveel mogelijk zelf ons voedsel produceren, maar door middel van een verbond van Europese landen en volkeren kunnen de Lage Landen hun toekomst integraal veilig stellen.

Heerschappij over Eurazië, constante in de Angelsaksische geopolitiek

Een sterke aanwezigheid op het Euro-Aziatisch continent garandeert de VSA wereldheerschappij. Zeker dankzij de daar aanwezige grondstoffen. De VS zijn een supermacht dankzij de aanwezigheid in de drie randzones van het continent. Eurazië is het enige terrein waar een eventuele rivaal van de VS zou kunnen verschijnen. Opnieuw, hier bevindt zich de sleutel van de Amerikaanse geopolitiek. De gedachtengang van Brzezinski wordt al jaren door de Engelsen uitgevoerd.

“De NAVO is het middel om te verhinderen dat het Euraziatisch blok ooit één wordt,” zegt generaal Gallois. Volgens geopolitieker Halford John Mackinder (1861-1947) is “het ergste wat er kan gebeuren een continentale alliantie van Duitsland met Rusland”. Deze kunnen de wereldsuprematie van de Angelsaxen beëindigen. Daarom pleit Mackinder voor een gordel van staten tussen Duitsland en Rusland om het militair-sterke Duitsland te absorberen.

De Britse geopolitieker Homer Lea pleit in zijn boek “The Day of the Saxons”  voor het indijken van Rusland. De Russen mogen zelfs niet onrechtstreeks de Bosporus en de Dardanellen beheersen. Tijdens de Krimoorlog werd zijn theorie toegepast. Engeland en Frankrijk steunden de Turken tegen de Russen. Het doel van de orthodoxe tsaar was om het Heilige Land te bevrijden en Constantinopel opnieuw in te nemen. Vandaar konden de Russen doorstoten naar de Indische Oceaan. De Westerse mogendheden schrokken van de gedachte dat de Russische hoofdstad Sint-Petersburg kon verhuisd worden naar de Middellandse Zee. Mocht de tsaar zijn wil hebben kunnen doorvoeren, dan sprak men heden niet over “Istanboel” maar nog steeds over Constantinopel.

Een ander voorbeeld van Britse steun aan de vijanden van Rusland vindt men terug tijdens de Russo-Japanse oorlog. Zowel Groot-Brittannië als Japan maakten zich zorgen over de groeiende macht van Rusland in Mantsjoerije. Op 30 januari 1902 sloten zij een bondgenootschap. Hierin werd overeengekomen dat indien één van beide landen in een oorlog werd meegesleept ter verdediging van haar regionale belangen, de andere natie niet alleen neutraal zou blijven maar er alles aan zou doen om te vermijden dat het conflict zich zou uitbreiden.

Henri Kissinger zei dat “men Rusland moet aanmoedigen zich enkel op haar eigen grondgebied bezig te houden. Een land dat zich uitstrekt over 11 tijdszones, van Sint-Petersburg tot Vladivostok, heeft niet veel last van claustrofobie.” Een rapport van de Amerikaanse Landsverdediging van 1992 verdedigt dat er Amerikaanse nucleaire wapens op Rusland gericht blijven “want Rusland is de enige macht ter wereld die in staat is de Amerikaanse wereldheerschappij te doorbreken”. Dit document van 1992 houdt het plan in om alle landen van het voormalige Warschaupact op te zetten tegen Rusland. U begrijpt nu waar het raketschild in Polen en Tsjechië toe dienen.

Brzezinski (CFR) zei dat “de NAVO moet uitgebreid worden naar het Oosten om elke dreiging van Rusland in Oost-Europa tegen te gaan”. Ook daarom eisen de Amerikanen dat Turkije bij de EU komt. Dan is Rusland zowel economisch als militair omsingeld. Turkije bij de EU is slecht voor Europa maar goed voor de geopolitieke belangen van de VSA. Om de Amerikaanse omsingelingen tegen te gaan rekent Rusland dan weer op Servië, Griekenland, Iran en Armenië.

Kissinger schreef: “Indien we falen bij het uitbreiden van de NAVO richting Oost-Europa, dan kan dit leiden tot gevaarlijke geheime akkoorden tussen Rusland en Duitsland”. Het  Molotov-Von Ribbentroppact had als doel de VS buiten het Europese continent te houden. Volgens rassoloog Vladimir Avdeev, die bepaalde KGB-documenten kon inkijken, hield het pact ook een etnisch aspect in. “Beide partners zouden Europa Indo-Europees houden”, stelt hij. Vandaar dat Lazar Kaganovitsj, opperrabbijn in de officiëel atheïstische Sovjet-Unie, het gastland waar hij verbleef via politieke druk aanspoorde tot een agressievere houding tegenover Duitsland, met miljoenen onnodige Europese doden tot gevolg en alsook het einde van de macht van de Europese landen.

De rivaliteit tussen de VSA en de Sovjet-Unie beheersten de volgende 5 decennia na het einde van de voor Europa zeer nefaste Tweede Wereldoorlog. De geopolitici zijn in hun nopjes. De bipolaire competitie bevestigt hun theorieën. Tegenover elkaar staat enerzijds de grootste maritieme macht, die over de gehele Atlantische en Stille (Grote) Oceaan heerst, en anderzijds de grootste continentale macht, die heerst over een aanzienlijk deel van het Euraziatische continent. Het Russo-Chinees blok heerst over een territorium dat bijna overeenkomt met het gebied waar de Mongolen ooit heer en meester van waren. De strijd was niets meer dan Noord-Amerika tegen Eurazië, met de gehele wereld als inzet. De overwinnaar overheerst de gehele wereld. Tijdens deze armworsteling kon geen enkele andere macht iets zinnigs inbrengen. Beide kampen beloofden een hemel op aarde.

Er was hier een groot verschil met de Europese Rijken (Imperia). De Britten, Fransen, Duitsers, Portugezen, Nederlanders en Spanjaarden heersten wel over een deel van de wereld, maar geen enkele Europese macht heerste ooit over geheel Europa. Nog een verschil met vorige Imperia ligt in het nieuwe militaire arsenaal en de komst van een nieuw wapen: de atoombom. Dit hield in dat een clash tussen beide grootmachten zo goed als uitgesloten was. Het gebruik ervan zou leiden tot de vernietiging van beiden en daarmee het verdwijnen van een belangrijk deel van de mensheid. Dit verklaart waarom vele conflicten aan de rand van het Euraziatische continent uitgevochten werden (en worden). Het Russo-Chinese blok is er nooit in geslaagd om de randen van het continent te beheersen. De VSA waren er wel in geslaagd daar ankerpunten te leggen. De blokkade van Berlijn en de Koreaanse Oorlog waren testmatchen. Toen de Sovjet-Unie Afghanistan binnenviel, reageerden de VSA dubbel. Ze steunden openlijk de Afghaanse weerstand met enorme wapenleveringen, en vermeerderden hun aanwezigheid in de Perzische Golf. De VSA wilden vermijden dat de Sovjet-Unie de handen zou uitsteken naar de Euraziatische randgebieden en zo totale controle over het gehele continent zou verkrijgen. Dit noemen zij de politiek van containment, of het terugdringen.

Een belangrijk gegeven waarom het Russo-Chinese blok er niet in geslaagd is geheel Eurazië te beheersen, ligt in de splitsing van dat blok, terwijl de VSA hun coalitie wel kon samen houden. De Amerikaanse coalitie injecteerde haar cultuur in de landen en volkeren die aan haar zijde stonden. In het Amerikaanse kamp ontstond een soort Amerikaanse eenheidsworst. De Amerikaanse propaganda overtuigt de vazallen van dat de VSA “de Toekomst” is: “Wil men dit ook bereiken, dan moet men de gehele VS-cultuur overnemen”. De VS verstonden het om tegenover de vazallen soms ook eens soepelheid te vertonen. Dit gebrek aan soepelheid leidde bij de vazallen van het Euraziatische blok tot afschuw voor de Sovjet-Unie. Deze nu achterhaalde afschuw wordt door de VSA politiek misbruikt om voormalige Sovjet-bondgenoten tegen het huidige Rusland op te zetten.

De implosie van de Sovjet-Unie plaatse de VSA in een unieke positie. Ze werden het machtigste land ter wereld, zonder concurrentie. De vergelijking met het Romeinse Rijk gaat goed op. Het Romeinse Rijk, dat op zijn hoogtepunt stond in het jaar 211, beschikte over een leger van 300.000 soldaten om de grenzen van het Rijk te verdedigen, dit zijn 300.000 soldaten buiten Rome. Het VS-leger bevat 296.000 beroepssoldaten, gelegen buiten de VS, om de grenzen van haar domein te verdedigen. In Rome had men het civis romanum sum of ik ben  een Romeins burger en het bekende Pax Romana. De VSA passen dezelfde principes toe, het Pax Americana.

Vandaag heerst een macht afkomstig van buiten het Euraziatisch continent over Eurazië. Deze macht tracht Rusland in te dammen in het Westen (de EU en het tandem Polen-Oekraïne); in het Zuiden (Turkije, Oezbekistan, Kirgizië) en in het Zuid-Oosten (Japan, Zuid-Korea).

Een kijk op de wereldkaart maakt ons duidelijk waarom het continent zo belangrijk is. Eurazië geeft zo goed als onmiddellijke toegang tot Afrika. Vanuit Oost-Siberië kan men makkelijk naar het Amerikaanse continent en naar Oceanië. In Eurazië  woont 75% van de mensheid. Hier bevinden zich het grootste deel van de grondstoffen en fysieke rijkdom zoals kapitaalsgoederen en arbeidskrachten. Hier bevindt zich 75% van de energievoorraad. Hier bevinden zich het grootst aantal dynamische en talentvolle staten en volkeren, die nog in staat zijn iets zinnigs op te bouwen. Na de VSA komen de zes volgende landen op de lijst van grootste budgetten en grootste legers uit Eurazië. Hier bevindt zich het grootste aantal nucleaire wapens. In Eurazië  bevinden zich de twee meest bevolkte landen ter wereld (China en India). Het Euraziatische continent steekt in geval van unie met kop en schouders in alle domeinen boven de VSA uit. Dit is zelfs al het geval als er toch een Europese as Parijs-Berlijn-Moskou zou bestaan of een Europese samenwerking van Gibraltar tot Vladivostok zou komen.

Men kan het gespeelde spel in Eurazië  beschouwen als een schaakspel, met Eurazië  als schaakbord. De VSA zullen de belangrijkste rol blijven spelen zolang Centraal-Europa aansluiting zoekt bij West-Europa (EU & NAVO), het zuiden van Rusland verdeeld blijft en het Oosten geen eenheid vindt. Het komt eigenlijk hier op neer: zolang de VSA hun miliitaire basissen in de Euraziatische randgebieden kunnen behouden, blijven ze de numero uno. Indien West- en Centraal-Europa aansluiting vinden bij Rusland, het zuiden de VSA beu worden een het Oosten van Azië wel overeenkomen, dan is het gedaan met de overmacht van de VSA. Eén van de pogingen van het Zuiden (Midden-Oosten) om met de VS-overheersing te breken, is het idee om olie met de euro te betalen en niet langer met de opgedrongen papieren dollartijger. Saddam Hoessein bekocht deze plannen met zijn leven. Iran heeft ook al geopperd dat het beter zou zijn om de grondstoffen met de euro te betalen. We kennen nu al het dreigend vervolg: Wereldoorlog III.

Vraag aan eender welke burger wat hij van de Duitse bezetting van dit land vindt, en hij zal terecht antwoorden: “Zij hadden hier niets te zoeken”. Vraag aan diezelfde burger wat hij ervan vindt indien bijvoorbeeld de Russen in dit land 1.300 manschappen permanent zouden stationeren. Hij zou deze idee erg vinden en misschien in de weerstand gaan. De feiten zijn wel dat de VSA in België 1.297 manschappen permanent stationeert, waaronder een deel om het binnenlandse doen en laten via Echelon (grote installatie te Gooik) te registreren. De VSA hebben in totaal 84.500 manschappen ingezet om Europa blijvend bezet te houden. Iedereen vindt dit blijkbaar normaal. In 2010 was het budget voor het Amerikaanse leger alles bij elkaar 607 miljard dollar. Tweede op de lijst is China met 85 miljard dollar. Hier moet men aan toevoegen dat de budgetten voor defensie van de NAVO-landen als aanvulling van de Amerikaanse belangen dienen. De NAVO wordt ingezet daar waar Amerika, en dus Wallstreet, belangen heeft. Daar en nergens anders.

Op het Euraziatische continent bevinden er zich 5 belangrijke hoofdspelers: Frankrijk, Duitsland, Rusland, China en India. Groot-Brittannië, Japan en Indonesië zijn belangrijk maar hebben deze status van hoofdspeler niet. Groot-Brittanië heeft enkel maar een kleine betekenis als vazal, we mogen zelfs stellen: als Paard van Troje voor de VSA in Europa. De VSA hebben Groot-Brittannië nooit ingefluisterd haar sabotage van de Europese eenheid te stoppen. Maar verder dan geostrategisch gepensioneerde reikt de Britse rol niet meer. Oekraïne, Azerbeidzjan, Korea, Turkije en Iran vervullen de rol van belangrijk draaipunt.

Maar we pleiten natuurlijk niet voor het verenigen van geheel Eurazië tot één blok of tot één land. Daarvoor zijn de etnische tegenstellingen bovendien te groot. Vandaag zijn China en Rusland nog objectieve bondgenoten. Doordat Europa keer op keer de uitgestoken hand van Rusland weigerde, doen de Russen nu wat Amerikaanse geopolitici wensen: Rusland keert zich meer en meer weg van Europa en richt zich in de plaats meer en meer tot Azië. Rusland behoort tot de BRIC-landen en is bondgenoot van China door hun gezamenlijk lidmaatschap van de Shanghai Samenwerkingsorganisatie.

Dit komt omdat beide landen geen zin hebben in een aanhoudende VS-hegemonie over de wereld. Maar op zeker ogenlik zullen zij concurrenten worden, wat nu al op een paar domeinen het geval is. Beide strijden voor een monopolie in Centraal-Aziatische landen zoals Kazachstan, Oezbekistan en Kirgizië. De Chinese economie heeft veel energie nodig. Langs één kant werken ze samen met de Russen, langs de andere kant proberen ze hen de loef af te steken. De Russische grondstoffen, hoeveel er ook mogen zijn, kunnen maar éénmaal boven gehaald worden. Elke liter olie kan men maar éénmaal bovenhalen en verbruiken. Dankzij de sadomasochistische rol van Europa, door gratis de vazal van de VS te spelen, verkopen de Russen meer en meer olie en gas aan China. Hierdoor maken de Russen een potentiële tegenstander groot. Heel Zuid-Siberië wordt nu al ingepalmd door Chinese illegalen. Men schat hun aantallen daar nu al op 5 miljoen. Moskou wordt de laatste jaren overspoeld door etnische Aziaten die aan spotprijzen in bepaalde sectoren tewerk gesteld worden, zoals de bouwnijverheid. China zelf verwacht dat het de macht van de VS overneemt tegen maximaal 2020. China heeft daar zelfs een nucleaire oorlog voor over.

 

Sommige wetenschappers hebben de Oeral plechtig tot grens tussen Europa en Azië verheven. De Russische autochtonen denken daar iets anders over. Rusland beschikte tot de 17de eeuw niet over natuurlijke grenzen. De Steppen verschaften de Turko-Mongoolse nomaden onbeperkt toegang tot het hart van het Rijk. Na twee eeuwen juk hebben de Russen zich eindelijk kunnen bevrijden. En op hun ééntje. Daarom werden ze verplicht de grenzen zo ver mogelijk te leggen met als resultaat de verovering van Siberië. Het verschil met Westerse kolonisatie ligt in de defensieve motieven voor de Siberische veroveringen.

Vandaag bevindt de kracht en het belang van Siberië zich in de grondstoffen, in de houtproductie, in haar ligging tot de Noordpool, waardoor Rusland in 2007 op 4.000 meter diepte haar vlag kon planten. Dank zij Siberië is Rusland de tweede grootste steenkoolproducent van de wereld. In de grond bevinden zich massa’s uranium, zilver, titanium, lood, zink en zelfs diamant. Het ontdooien van de permafrost biedt enorme perspectieven. Dit is zeer vruchtbare Siberische grond die heel lang bevroren is geweest, waardoor de mens deze niet kon mishandelen of ontginnen. Jaarlijks komen er talloze vierkante kilometers vruchtbare grond bij. In het kader van de noodzakelijke voedselproductie is dit een meevaller. Door het smelten van delen van de Noordpool komen er waterwegen vrij die vanaf Noord-Siberië kunnen bevaren worden.  Het enige zwakke punt van Siberië is het lage bevolkingsaantal, ongeveer 43 miljoen mensen. Om economische redenen trekken veel daarvan bovendien naar de rijkere regio Moskou-Sint-Petersburg, waardoor de nataliteitsbalans negatief is (denken we nu ook weer aan de tegelijk daarmee lopende immigratie vanuit China).

De noodzaak van ruimte

Iedereen kan het beland van levensruimte inzien. Deze ruimte geeft ons de mogelijkheid te overleven, om ons te ontwikkelen. Hoe groter de ruimte waarover men beschikt, hoe meer lucht, hoe meer brood, hoe meer bossen en rivieren, des te groter de afstand tussen de mensen waardoor de leefbaarheid vergroot en er meer mogelijkheden zijn om de drukte van de stad te ontlopen. Wie enkel maar techniek heeft om te verhandelen, wordt benadeeld. Genoodzaakt worden levensmiddelen in te voeren maakt een land en volk zwak. Nu al kunnen we stellen dat Japan ooit de vazal van China wordt door een gebrek aan ruimte. Zich afkeren van de ruimtelijke idee staat gelijk aan het zich afkeren van het leven.

Ruimtelijk gezien stellen we vast dat Moskou zich op twee uur verschil – twee tijdzones –  van Brussel of Antwerpen bevindt. Aan de andere kant zien we dat Brussel en Antwerpen zich op zes uren verschil – zes tijdzones – van Washington bevindt. Met Moskou is er direct continentaal contact. We kunnen er bij wijze van spreken tevoet, met de ezel of met de fiets naartoe. Anders is het met Washington. Daar ligt een enorme oceaan tussen. Een enorme natturlijke grens en barrière. Geografisch kan iedereen met een beetje goede wil vaststellen dat we meer gemeen hebben met Rusland dan met de VSA.

Na de implosie van de Sovjet-Unie verloor het enorme Rijk een belangrijk deel van haar territorium. Het daalde van 22 miljoen vierkante kilometer tot 17 miljoen vierkante kilometer. Rusland blijft ondanks dit verlies het grootste land ter wereld.

Rusland is ongeveer tweemaal zo groot als de VSA of China. Het bestrijkt een totale ruimte van 11 tijdzones. De Europese volkeren hebben recht op een woonplaats van Gibraltar tot Vladivostok.

De globalisatie en het protectionistische antwoord

We moeten ons bewust worden van de ernst van de globalisatie. Deze opgedrongen globalisatie leidt ons meer en meer naar de armoede. De Vlaming voelt het heden meer dan ooit aan den lijve. Er is steeds meer werkloosheid, er zijn meer gezinnen die hun schulden niet meer kunnen afbetalen, meer immigranten die aan spotlonen het werk overnemen, meer onveiligheid, minder sociale zekerheid, onze pensioenen worden bedreigd enzovoort. De Europese Unie wordt geacht ons normaliter te beschermen tegen deze kwalen maar doet net het tegenovergestelde. De EU haalt het ene na het andere Paard van Troje binnen. Het is aldus geen toeval dat de Fransen en de Nederlanders in 2006 tegen de EU hebben gestemd. In andere landen hielden de democraten bewust geen opiniepeilingen of vervalsten deze in het belang van de globalisten. Voor de Europese landen is globalisatie een nachtmerrie. Voor de Chinezen en de Indiërs een zegen. Ieder jaar komen er in China 25 miljoen banen bij. Deze komen er voor een belangrijk deel als vervanging van Europese en dus ook Vlaamse banen. China heeft de VS vervangen als voornaamste exporteur naar de EU. De eonomisten vertellen ons, net als indertijd met Japan, dat de ontwikkeling van dat land ons banen zal opleveren. Wie gelooft dit nog ? Het verschil is dat het Europese banenverlies dankzij China een veelvoud in het kwadraat zal zijn van het banenverlies door Japan. Ooit maakten ze ons wijs dat de Chinezen enkel maar goedkope rommel produceerden. China staat op nummer één van de wereldranglijst, na de VSA (!), wat betreft het fabriceren van “high tech”. China heeft 1.731 universiteiten en levert jaarlijks vele duizenden ingenieurs af.

Dankzij het mondialisme verliezen de Europese landen jaarlijks honderdduizenden banen. Eerst verloor men de minst gekwalificeerde banen. Tot dan kon onze economische kaste zich nog in de handen wrijven. De goedkope immigrant en goedkope invoer leverde enorme winsten op. Vandaag verliezen de Europese landen hoogtechnologische banen aan o.a. China. Onze middenstand heeft het niet veel beter. Het zogenaamde proletariaat bevindt zich niet meer bij de arbeidersklasse, maar groeit stilaan uit naar alle economische klassen van ons volk. Het enige wat men in onze schapenmaatschappij doet is afwachten. Toen de Britse Eerste Minister Brown in China vertoefde, kon hij geen enkel groot contract loswrikken. Hij kon enkel brabbelen over “de voorname rol van het Engels op de beurs in Londen”. En langs de andere kant is zijn land, het belangrijkste industrieland van de 19de eeuw, een onthaalland geworden voor Chinese producten.

Men vertelde ons dat de globalisering wereldwijd de lonen omhoog zou trekken. Niets is daarvan terecht gekomen. Integendeel. Het mondiaal reserveleger aan arbeidskrachten bevat in China alleen al 750 miljoen mensen. Zij zijn in staat om in de VSA en in Europa iedereen in de werkloosheid te trekken. 300 miljoen van hen leven met minder dan een euro per dag. De economische delokalisering is niet meer marginaal – zoals de media ons willen doen geloven –  maar structureel. Het internationale grootkapitaal kan eenieder van ons doen werken voor bijvoorbeeld twee euro per dag. Eerst schaft men de sociale zekerheid af. Dan voert men hongersnood in. Dan stelt men : “Als jij niet werkt voor twee euro per dag dan doet die Chinees het wel, en dan gaan jij en je kinderen dood”. De tijden van priester Daens komen in het kwadraat terug.

In Davos heeft Stephen Roach (economist en big boss van de bank Morgan Stanley) duidelijk gesteld : “Men heeft de mensen uitgelegd dat globalisering een proces is dat enkel maar winnaars zou kennen, zowel voor de gesalarieerden in het Noorden als voor die in het zuiden. We ontdekken echter dat in het Noorden in de eerste plaats de bezitters van kapitaal de grote winnaars zijn.” We stellen vast dat in Europa het aandeel van de lonen daalt en het aandeel van de winsten heel sterk stijgt.

De grote boosdoener van heel wat Europese armoede ligt in de gedwongen invoering van het liberaal-globalistisch economisch model. Daar zijn we nu van overtuigd. Het antwoord ligt dan ook in het tegenovergestelde. We moeten onze markt afschermen. Grenzen kunnen wegvallen tussen staten die economisch met elkaar verwant zijn, zoals tussen Vlaanderen, Nederland, Wallonië en Luxemburg, dergelijke clustering is welkom. In een ruimere context kan dit ook op Europese schaal gebeuren, maar dan wel op voorwaarde dat de economische situatie eerst compatibel is met die van de Lage Landen.

We zouden het zo kunnen regelen dat van elk basisproduct of korf van basisproducten een minimaal percentage uit eigen regio moet komen. Volgens Maurice Allais, een Frans econoom, schommelt dit percentage best rond de 80%. Met 80% eigen productie en de mogelijkheid te gaan tot 20% import vermijdt men dat een bepaalde sector in eigen land verdwijnt. Met dit systeem zou onze textielnijverheid zelfs terug kunnen komen. Allais gaat er van uit dat men voor een belangrijke sector als de landbouw de eigen productie wettelijk opvoert tot 90%.

Op protectionistisch vlak moet het beleid zich gedragen als een goede huisvrouw. De ramen en deuren worden ofwel hermetisch gesloten, ofwel half geopend, of in geval van goede temperaturen meer geopend. Tijdens de huidige economische mondiale storm kan men enkel maar alle ramen deuren zo goed mogelijk sluiten. De toepassing van sociale BTW en douane-importtaxen schermt de eigen markt en aldus de eigen loontrekkenden af. Het is beter om de import extra te belasten dan het loon uit arbeid.

We moeten ons niet enkel beschermen tegen import, maar ook tegen overnames  door vreemde investeerders. Overal ter wereld schermt men de eigen markt af: de VSA, China, Duitsland en Rusland zijn maar een paar voorbeelden. Enkel de EU beschermt de vreemde investeerdersin de plaats van het eigen volk. De Europese ruimte moet volledig op zichzelf staan. Binnen dit gebied zou import bijna uitzonderlijk moeten zijn.

Op dit ogenblik bevinden de meeste economische sectoren binnen de Europese ruimte zich in directe concurrentie met voormalige Derde Wereldlanden. Inderdaad, er was een tijd dat we van hen geen concurrentie ondervonden. Deze periode is nu voltooid verleden tijd. Gezien de lage lonen die men ginder betaald, zullen al onze bedrijven in een niet-afgeschermde binnenlandse marktruimte het onderspit delven.

Besluit

De as Washington-Brussel-Tel Aviv is nefast voor de Europese landen en dus ook voor de Lage Landen. Deze as maakt onze cultuur kapot! Deze as neemt onze vrijheid af. Dit is de as van de burgeroorlog, van de chaos, van de chip-implant, van Big Brother.

De as Washington-Brussel-Tel Aviv wordt tot mijn grote verbazing gesteund door betaalde heerschappen en groepen die “Eigen Volk Eerst” roepen. Ik heb niets tegen andere volkeren en andere etnische groepen... in hun eigen land. Maar de massa-immigratie gebruiken om onze maatschappij te terroriseren, dat kan niet.

Na tientallen jaren bezetting van Europa - West-Europa door de Amerikanen en Oost-Europa door de Sovjet-Unie - zien we dat de “American Way of Life” bij ons zowat alles heeft aangetast. In Oost-Europa kennen de mensen hun tradities en hun cultuur nog, men is er meer patriottisch of nationalistisch.

Er mag geen as standhouden van Washington over Brussel naar Tel Aviv. Ook geen as van Portugal tot de Oeral. Maar er moet een as komen van Gibraltar tot Vladivostok, omdat dit laatste één geografisch geheel is.

Enkel deze laatste as betekent de overlevingskans voor Europa. Enkel deze laatste as kan Europa, en daardoor de hele wereld, behoeden voor toestanden neergeschreven door Georges Orwell’s 1984. De EU vervormdt zich geleidelijk aan tot één grote gevangenis. De “War on Terror” met zijn anti-terreurwetten geven de slaafse overheden carte blanche om iedereen zonder vorm van proces en zonder recht op verdediging uit te schakelen.

De mengeling van wetten die onze vrije meningsuiting dagdagelijks doen afnemen, het wegrukken van onze wortels, het opdringen van massa-immigratie, het toelaten van de meest gruwelijke vormen van decadentie, het overdreven materiële welzijn, het uit ons leven verdwijnen van het spirituele spectrum enzovoorts... Deze leiden naar een zekere ondergang van de Indo-Europese beschaving. Als solidaristen stellen we dat dit alles is wat we niet willen.

 

Wie “Eigen Volk Eerst” zegt  – en wij doen dat zeker, wij zijn deze slogan niet vergeten omwille van de salonfähigkeit –  moet er ook akkoord mee gaan dat andere volkeren dit in hun landen ook zeggen. “Eigen Volk Eerst” geldt voor de Vlamingen. Maar “Eigen Volk Eerst” geldt eveneens voor de    Iraniërs, de Irakezen, de Palestijnen, de Duitsers, de Russen en wat dat betreft voor de Eskimo’s. “Eigen Volk Eerst” schreeuwen in Vlaanderen maar dit niet toelaten voor bijvoorbeeld de Irakezen en er tegelijkertijd de Amerikaanse bezetting goedkeuren, is ofwel hypocriet ofwel een politieke lijn gedicteerd door de internationale bankiers met hun Amerikaans-Britse regeringen. Men kan geen enkele logica vinden in het “Eigen Volk Eerst” schreeuwen en het akkoord gaan met de bombardementen van volkeren die in eigen land wonen.

Dit alles doet ons vragen stellen: is dit gepland ? Wie heeft dit gepland ? Wie heeft er belang bij? Wie werkt er mee aan dit plan? Wie speelt er Rattenvanger van Hamelen door kiezers te lokken en te kanaliseren op de kap van de huidige slechte immigratiepolitiek en een vals anti-immigratiediscours te verkopen? Men kan niet tegen immigratie zijn en tegelijkertijd de hielen likken van de joodse lobbies. Men kan niet tegen moslimscholen zijn – in dit systeem hebben onze kinderen geen last van cultuurconflicten – maar wel toestaan dat er Joodse scholen bestaan. Men kan niet zeggen : “Geen islam, Noord-Afrikaanse immigranten zijn geen Vlamingen” terwijl men wel stelt : “Joden vormen een deel van ons Vlaams volk”.

Laat u niet vangen door een vals remigratiediscours, nu plots herondekt nadat het N-SA vanaf de stichting dit in het programma had staan. Men kan niet “de islam bekampen” en in de VSA emotioneel staan roepen “America we fight for you !”. Het is net de VSA die de immigratie in Europa steunt, die Kosovo heeft opgericht en nu Turkije bij Europa wil sleuren. Remigratie is enkel mogelijk binnen een Euro-Russische As.

De belangrijkste vraag luidt: wat kunnen we eraan doen? Hierop kunnen we ten minste al één antwoord geven: informeren. Kennis is macht. En zeker niet meelopen met de internationale bankiers en hun Rattenvangers. De Rattenvangers zullen bij hun eigen ondergang geen hulp van het hun geliefde Israël en de omnipresente joodse lobbies krijgen. Dat zien we nu al.

Zo stemmen de Rattenvangers in onze parlementen, samen met het hele internationale systeem, resoluties mee die Iran verbieden kernwapens te ontwikkelen. De Rattenvangers hebben nooit een resolutie voorgesteld die Israël verbiedt kernwapens te bezittten. Het is toch logisch dat ofwel in principe iedereen kernwapens mag bezitten, ofwel niemand, zelfs zij niet die ze ooit al gebruikten! Zij die ze ooit gebruikten – de VSA - zouden trouwens de eersten moeten zij om in te zien hoe gemeen, vuil en laf een kernwapen is en ze bij hun thuis ontmantelen als voorbeeld.

Integendeel. Nu willen ze raketten plaatsen om zogezegd Iraanse en Koreaanse raketten tegen te houden. Deze raketten zouden, bij het beschikken over genoeg vermogen, Europa kunnen bereiken via Turkije en Griekenland. Kijk maar eens naar de kaart. Iran heeft nu geen raketten die meer dan 2.000 mijl afleggen. Om Europa te bereiken hebben ze raketten met een actieradius van bijna 4.000 mijl nodig. Dit zou volgens de Amerikaanse geheime diensten nog vele jaren duren. Maar om ons te beschermen, plaatsen ze zelf wel raketten ver ten noorden van Griekenland:  in Tsjechië  en Polen! Amerika bereidt de omsingeling van Rusland voor. Ik vermoed inderdaad dat er ooit een Amerikaanse aanval op Rusland komt.

De internationale bankiers willen dat er overal chaos heerst. De chaos in het huidige Irak is bewust veroorzaakt. De voorwaarde om enige mogelijke vorm van verzet een kans te geven is het scheppen van orde. De internationale bankiers kunnen enkel maar gedijen daar waar er chaos heerst. Zij willen dat we elkaar wantrouwen, verraden en bekampen.

We staat voor de keuze: ofwel met de internationale bankiers en geglobaliseerde slavernij, ofwel met Rusland en de solidaristische vrijheid. Ik heb al gekozen. Ik rebelleer tegen het kapitalistisch systeem en kies voor de Euro-Russische as. Omdat Rusland het enige land is dat ons kan bevrijden van de Amerikaanse bezetting, zonder ons zelf te bezetten, omdat een gezond bondgenootschap de meeste garantie kan geven voor de opbouw van een solidaristisch politiek systeem in onze eigenste Lage Landen.

We hebben niet veel tijd meer. Door gebrek aan geloof, aan kinderen, aan moed en offervaardigheid beleeft het huidige Europa een eindtijd. Als jullie niet willen dat de Afrikanen en de Aziaten ooit naar de film “De laatste der Indo-Europeanen” zullen kijken, verwerp dan Amerikaanse as. Kies dan voor een Europa met Rusland als bondgenoot. Laat Europa signalen geven aan Rusland dat we met hen willen samenwerken. Anders zullen ze zich ontgoocheld met hun rug naar ons keren en kiezen voor bondgenootschap met Aziatische landen. Wij hebben hen nodig en zij ons. Geloof de leugenachtige Amerikaanse propaganda over Rusland niet. In Oost-Europa hebben wij een vriend. Laten wij vriendschappelijk zijn voor hem.

Ik ben voor een grootse samenwerking van alle Europese landen en volkeren, van Gibraltar tot Vladivostok.

jeudi, 20 mai 2010

Les trois épicentres de la révolution eurasienne

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Pietro FIOCCHI:

 

Les trois épicentres de la révolution eurasienne

 

L’ambassadeur russe auprès de l’OTAN, Dmitri Rogozine, possède une sorte de sixième sens pour toutes les questions atlantiques: “Selon moi”, a-t-il dit le 4 mai 2010, “la Géorgie n’a pas encore de réelle prospective en vue pour son adhésion à l’Alliance parce que les problèmes qu’elle affronte en Abkhazie et en Ossétie du Sud demeurent irrésolus” et, par conséquent, “un pays qui n’a pas de frontières définies et est continuellement secoué de guerres civiles ne peut devenir membre de l’OTAN”.

 

La Géorgie dans le Caucase

 

L’ambassadeur fait référence au cas des deux républiques qui, il y a vingt ans, se sont déclarées indépendantes du gouvernement géorgien et qui, depuis 2008 jusque aujourd’hui, ont été reconnues par la Russie, le Nicaragua, le Vénézuela et Nauru. L’Abkhazie et l’Ossétie du Sud sont toutefois considérées comme des “territoires occupés” par les Géorgiens et aussi par l’eurocratie bruxelloise et par Washington qui, en bonne diligence, ont promis à leur allié Saakashvili de l’aider à remettre les “choses en place”. On veut donc que les deux républiques, ou “territoires occupés”, reviennent sous le contrôle de la Géorgie. En pratique, tout pas en cette direction augmente les possibilités d’un affrontement avec la Russie: le Kremlin, en effet, a promis de protéger la souveraineté territoriale des deux républiques caucasiennes, en vertu d’accords conclus et par la présence de bases militaires aujourd’hui en construction.

 

Si la Géorgie entrait effectivement au sein de l’Alliance atlantique, les tensions augmenteraient et présenteraient un réel danger. Pour éviter la guerre, il faut avoir conscience des positions antagonistes et percevoir qu’elles recèlent de fait le danger de mondialiser le conflit.

 

Dans cette optique, Rogozine a mis en exergue les dynamiques possibles dans la région: “les Géorgiens seront exploités au maximum afin qu’ils envoient des troupes en Afghanistan; ils seront traités comme des animaux auxquels on fait miroiter une carotte en la balançant sous leur museau. Tbilissi ne peut adhérer à l’OTAN parce que la Géorgie ne peut en devenir membre; l’Alliance atlantique devra ou reconnaître l’indépendance de l’Abkhazie et de l’Ossétie du Sud ou accepter les anciennes frontières de la Géorgie, tracées par Staline. C’est là une éventualité impensable, donc Tbilissi restera partenaire de l’OTAN mais son adhésion ne se fera pas dans un futur proche”.

 

Incertitudes au Kirghizistan

 

Passons maintenant du Caucase à l’Asie centrale: nous débouchons dans un espace où la Russie et les intérêts atlantistes s’opposent.

 

Cas atypique et, depuis le récent coup d’Etat, objet de toutes les attentions: le Kirghizistan. Dans cette ex-république soviétique cohabitent très proches les unes des autres des troupes russes et américaines, respectivement stationnées dans les bases de Kant et de Manas. Nous avons là un paradoxe qui pourrait bien ne plus durer très longtemps. Une fois les élections politiques et présidentielles, prévues pour le prochain automne, Bichkek prendra une décision définitive.

 

Aujourd’hui déjà, le gouvernement des Etats-Unis doit débloquer 15 millions de dollars qui serviront à payer partiellement le loyer de la base aérienne concédée aux Américains. Pour terminer, Washingbton devra débourser un total de 60 millions de dollars (c’est-à-dire trois fois autant que la somme déboursée jusqu’à l’an passé). Cette somme devra être payée chaque année sinon les locataires seront expulsés. Au Kirghizistan, la situation est donc précaire aussi.

 

Coopération russo-kazakh

 

En revanche, la coopération russo-kazakh, elle, semble de bonne augure. Les rapports entre les deux pays se sont consolidés. Moscou et Astana, depuis l’été, ont scellé un nouvel accord sur l’enrichissement de l’uranium à usage civil. C’est une nouveauté: les pays qui voudront développer leur industrie nucléaire pourront accéder aux technologies d’enrichissement disponibles. C’est tout à la fois une invitation à Téhéran et une garantie pour l’Iran à aller de l’avant dans son programme atomique.

 

Pietro FIOCCHI / p.fiocchi@rinascita.eu .

(article paru dans “Rinascita”, Rome, 5 mai 2010; trad. franç.: Robert Steuckers ; cf.: http://www.rinascita.eu  ).

samedi, 15 mai 2010

Claudio Mutti, "L'Unità dell'Eurasia" (Esp.)

Claudio Mutti, L’unità dell’Eurasia

Claudio Mutti
L’unità dell’Eurasia
con un prefacio de Tiberio Graziani
Effepi, Génova 2008
pp. 192, € 20,00

Prefacio

eurasie.jpgEn los últimos años, al menos desde el tiempo del colapso de la Unión Soviética, se ha asistido a un renovado interés hacia el análisis geopolítico como clave interpretativa para la comprensión de las cambiadas relaciones entre los actores globales y, sobre todo, como auxilio para descifrar nuevos escenarios posibles.

En tal ámbito, Eurasia parece constituir, considerando los numerosos estudios que se ocupan  de ella, un campo de investigación privilegiado.

Analistas influyentes como, por ejemplo, el atlantista Brzezinski o los neoeurasiatistas Dugin y Ziuganov están de acuerdo, aunque desde puntos de vista distintos y decididamente antagonistas entre sí, sobre el hecho de que el futuro del planeta se juega en el tablero eurasiático.

A la imparable y larga ofensiva lanzada por los EE.UU. contra la masa continental eurasiática entre 1990 y 2003 (1) parece contraponerse, al menos a partir del ultimo quinquenio, una especie de reacción que se expresa, por ahora, a través de la intensificación de nuevas y profundas colaboraciones estratégicas entre Pekín, Nueva Delhi y Moscú y el continuo refuerzo de la Organización para la Cooperación de Shangai (OCS).

Estos acuerdos parecería que sirven de preludio a una inédita y articulada integración del continente eurasiático que, por evidentes motivos de oportunidad, pasando por encima tanto de las diferencias culturales, religiosas, étnicas, como por encima de las particulares aspiraciones nacionales de las poblaciones que lo habitan, hacen vanas las expectativas de los propagandistas del “choque de civilizaciones”.

La teoría del choque de civilizaciones, como se sabe, fue puesta a punto por Samuel Huntington, el ex consejero de Johnson en la época del conflicto vietnamita. El estudioso americano, en diversos artículos y principalmente en su The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, (New York, Simon & Schuster, 1996), lanzó la hipótesis de que los conflictos entre las varias poblaciones del planeta, y, en particular, entre las que habitan Eurasia, no tendrían su origen principalmente en causas ideológicas o económicas, sino en motivaciones culturales, básicamente religiosas. Para Huntington la política global del siglo XXI estará, por tanto, dominada por el choque de civilizaciones. Esta particular lectura de la historia, es decir, la del carácter irreconciliable de las civilizaciones, ha influido a vastos sectores de la opinión pública occidental y constituye, todavía, una de las referencias constantes de los numerosos think tanks del otro lado del océano especializados en la identificación de las áreas calientes o de inestabilidad de Eurasia.

En realidad, en la historia no se han verificado nunca choques de civilizaciones, sino, más bien, encuentros y contaminaciones entre las distintas culturas. En particular, en Eurasia, en cuyo espacio están presentes la práctica totalidad de las civilizaciones del planeta.

Eurasia, de hecho, todavía antes de ser un concepto útil para el análisis geopolítico y geoestratégico, es, se podría decir, una idea cultural, cuyo carácter unitario es demostrado por su misma historia.

La oposición entre Europa y Asia siempre ha sido una oposición artificial, a menudo fruto de interpretaciones históricas instrumentalizadas, principalmente por los europeos, con fines hegemónicos, por tanto, estrechamente ligada a praxis geopolíticas. Sólo hay que pensar en la época del colonialismo de expoliación y en la superestructura ideológica que lo sustentaba, en el “white man’s burden” (2) del cantor del imperialismo británico, Rudyard Kipling y, sobre todo, en su conocida composición literaria The Ballad of East and West, en la que el escritor y poeta inglés teoriza explícitamente, en el famoso verso East is East, and West is West, and never the twain shall meet, el carácter irreconciliable entre las culturas orientales y occidentales (3).

Pero, si observamos bien, la contraposición “ideológica” entre Europa y Asia, entre Occidente y Oriente, se remonta todavía más atrás, a ciertas tendencias que maduraron en el seno del cristianismo, que exaltando la especificidad de la visión cristiana del mundo consideran las culturas de las poblaciones no europeas no sólo como inciviles, sino también como inferiores.

La presunta separación e incompatibilidad entre las culturas asiáticas y las presentes en la parte occidental de Eurasia, es decir, en la península europea, si examinamos con mayor atención, se ha resuelto siempre en el principio de la polaridad. Ya Polibio, en su Historias, resolvía la oposición entre Oriente y Occidente en el carácter unitario del mundo mediterráneo (4), un concepto que fue retomado y desarrollado brillantemente, algunos siglos más tarde, por el historiador francés Fernand Braudel. Por otra parte, para los antiguos la tierra habitada y conocida era considerada del mismo modo que una casa común (oikouméne ghê). Según el historiador holandés Huizinga “en la historia antigua, en la medida en que nos es conocida, no encontramos nunca a Oriente contrapuesto explícitamente a Occidente [5]. Para el autor de El Otoño de la Edad Media y Homo Ludens, también la civilización islámica ha ignorado la escisión entre Oriente y Occidente, por tanto, entre Asia y Europa [6].

El profundo carácter unitario de las múltiples y policromas civilizaciones eurasiáticas no ha sido nunca puesto en duda, sino que más bien ha sido ratificado y reconfirmado por los descubrimientos arqueológicos, por las investigaciones etnográficas y, en particular, por el estudio comparado de las religiones y de los mitos.

Por tanto, aunque existan análisis e investigaciones específicas sobre la unidad cultural de Eurasia, sin embargo, se debe todavía constatar a tal respecto la ausencia de estudios sistemáticos y orgánicos.

Los trabajos de un Gumilev, como también de un Altheim, sobre la influencia de la cultura mongola o la de los Hunos en el mundo eslavo-ruso y en el nacimiento de los actuales pueblos asiáticos y europeos, o los de un Giuseppe Tucci sobre le mundo tibetano o sobre las culturas de Extremo Oriente y su parentela con el pensamiento antiguo, o los de un Eliade dedicados a la comparación de las religiones y de los mitos, o, todavía, los de un Dumézil o un Benveniste en lo referente a los estudios llamados indoeuropeos, o, finalmente, los de la escuela de los eurasiatistas rusos de los años veinte y treinta del siglo XX, entre los cuales se encuentra ciertamente el lingüista Trubeckoj, constituyen indudablemente las bases metodológicas para emprender tal empresa. A esto se podrían añadir también los resultados y las metodologías adquiridas por los estudiosos de las ciencias llamadas tradicionales, como, por citar sólo algún nombre, Guénon, Coomaraswamy, Schuon, Evola, Burckhardt, Nasr.

Precisamente es en el ámbito del descubrimiento, o mejor, del redescubrimiento del carácter unitario de las culturas eurasiáticas donde encuentran su correcta colocación los ensayos de Claudio Mutti recogidos en L’Unitá dell’Eurasia; sobre todo, además de ofrecer una válida introducción a esta temática –en Italia todavía en vías de definición –estos aportan nuevos elementos de reflexión, útiles no sólo para el desarrollo de tales investigaciones, sino también para la comprensión de importantes nudos históricos de la ecúmene que, para decirlo con Eliade, por otra parte, con razón citado por Mutti, se extiende de Portugal a China y de Escandinavia a Ceilán. La peculiaridad de los estudios aquí presentes reside, a nuestro juicio, en la constante referencia que Mutti presta a las dinámicas geopolíticas del espacio eurasiático; una referencia destinada ciertamente a suscitar una común conciencia geopolítica entre las poblaciones que actualmente habitan la masa eurasiática.

Tiberio Graziani
Director  de la revista “Eurasia”.

direzione@eurasia-rivista.org

www.eurasia-rivista.org

 

(Traducido del italiano al español por Javier Estrada)

Notas:

1. Primera Guerra del Golfo (1990-1991); agresión a Serbia (1999), en el ámbito de la planificada desintegración de la Confederación yugoslava; ocupación de Afganistán (2002); devastación de Irak (2003). A esto hay que añadir también la ampliación de la OTAN en los países de Europa oriental y las llamadas “revoluciones coloradas” como significativos elementos de intromisión por parte de la potencia del otro lado del Atlántico en la que fue la esfera de influencia de la mayor potencia eurasiática del siglo XX, la Unión Soviética.

2. La popular composición de Rudyard Kipling fue publicada con el subtítulo The United States and the Philippine Islands en 1899; este se refería a las guerras de conquista emprendidas por los Estados Unidos con respecto a las Filipinas y otras ex colonias españolas.

3. Para una rápida reflexión sobre la cuestión del concepto de Occidente en relación con la identidad europea, véase en el propio volumen de Mutti el capítulo sobre “La invención de Occidente”.

4. pero bastante antes de Polibio también Heródoto. Escribe al respecto Luciano Canfora “…precisamente a los griegos les corresponde la responsabilidad de haber separado a los ‘Bárbaros’ de los ‘Griegos’. En la primera línea de las Historias de Heródoto, griegos y bárbaros constituyen ya una consolidada polaridad, aunque precisamente Heródoto sea más consciente que otros de hasta qué punto los conceptos fundamentales de los griegos, empezando por las denominaciones de las divinidades  (II, 50), venían de lejos”, en Il sarto cinese, nota a Arnold Toynbee, Il mondo e l’Occidente, Sellerio editore, Palermo, 1992, p. 107.

5. Johan Huizinga, Lo scempio del mondo, Bruno Mondadori, Milano, 2004, p.26.

6. Johan Huizinga, op.cit., p. 35 y siguientes.

 

 

jeudi, 06 mai 2010

Le alleanze centroasiatiche e la crisi dell'Impero

tran_asian_road.jpgLe alleanze centroasiatiche e la crisi dell'Impero

di Giulietto Chiesa - Simone Santini

Fonte: Clarissa [scheda fonte]

 Ci sono continui movimenti nel cuore dell'Asia, un'area geopolitica cruciale. Ne parliamo con Giulietto Chiesa, profondo conoscitore delle vicende che si intrecciano in quella regione del pianeta. Le domande che gli rivolgiamo cercano di approfondire un tema che in Italia i media affrontano con pochi articoli svogliati. Le risposte portano la nostra attenzione su scenari diversi da come appaiono a prima vista, sullo sfondo della crisi dell'Impero.


Si hanno nuove rivelazioni circa uno stretto legame tra la nuova dirigenza kirghisa, che ha preso il potere nello stato centro-asiatico le scorse settimane, e Israele.
Allo stesso tempo, però, si era subito verificato che Mosca non fosse ostile al nuovo corso ed avesse in qualche modo abbandonato l'ex presidente Bakiev, reo di aver troppo tenuto i piedi in due scarpe, una russa e una americana. Giulietto Chiesa, secondo lei è possibile che ci si possa trovare di fronte ad un accordo russo-israeliano con gli americani a guardare dalla finestra?

Ho visto le notizie. A me pare che non soltanto e non tanto Israele sia dietro i movimenti della Otumbaeva, ma sempre gli Stati Uniti. Certi viaggi si fanno per ottenere finanziamenti anche individuali. Ma i fili dei collegamenti portano simultaneamente a Washington, e Tel Aviv e anche a Mosca, dove i filoamericani non mancano. Una cosa è certa: Putin ha scaricato Bakiev. Il resto è appeso a negoziati complessi che si chiariranno quando Otumbaeva renderà note le sue decisioni sulla base americana.

Prima del caso kirghiso si era gia avuto il caso della Georgia, lo strategico paese caucasico finito nell'orbita filo-occidentale ma anche di Israele dopo l'ascesa al potere di Saakashvili con la “rivoluzione colorata” del 2003. Alcuni “dietrologi” hanno visto lo zampino dei consiglieri militari israeliani che hanno spinto i georgiani alla disastrosa avventura del 2008 quando tentarono di riprendere con la forza la regione/repubblica secessionista dell'Ossetia del Sud. Di fatto fornendo, sul piatto d'argento della prevedibile reazione russa, sia la stessa Ossetia sia l'Abkhazia. Ancora un accordo segreto tra Russia e Israele?

Non credo proprio. Israele ha giocato per proprio conto, pensando alla Georgia come base per l’attacco futuro all’Iran. Israele ha amici importanti al Pentagono. Che hanno contribuito a dare il via libera a Saakashvili. Essere agente e consigliere del Mossad non significa automaticamente essere intelligente. Certo che hanno fatto un pessimo servizio a Saakashvili. Ma che volessero fare un favore a Putin e Medvedev proprio non lo credo.

In un’analisi a carattere geopolitico avevamo indicato come l'Asia centrale potesse essere conformata dall'azione di poteri transnazionali come un nuovo “spazio vitale” per trasformarlo da possibile scenario di accordo strategico tra Russia e Cina in un terreno di sfida e scontro tra le stesse due potenze seconda la logica del “divide et impera”. Lo ritiene possibile?

No, non lo ritengo questo il disegno. L’Asia centrale è area parzialmente aperta alle influenze molteplici americane e russe. Non ci sono confini. Ciascuno si muove per portare via terreno di manovra all’avversario. E’ una lotta sotto il tappeto che accompagna il dialogo pubblico. La Kirghisia in particolare è piuttosto un occhio aperto sulla Cina che non uno sfregio alla Russia.

Su un piano piu generale, che tipo di convergenza di interessi esiste tra Russia e Israele? Quali sono i gruppi ed i centri di potere piu attivi in Russia pro-Israele? Si puo parlare di centri lobbistici (associazioni, think tank, gruppi di pressione, reti accademiche, giornali) che svolgano un ruolo simile a quanto sappiamo avvenire, ad esempio, negli Stati Uniti?

Tutti gli oligarchi rimasti in Russia hanno ottimi rapporti personali con Israele. Ma mi pare che li gestiscano personalmente. Non vedo grandi finanziamenti a think tank, o giornali. Salvo Kommersant. Nulla di simile, comunque alla situazione in America, dove le lobby israeliane sono talmente potenti che spesso non e’ chiaro se siano loro a governare gli Stati Uniti. A Mosca queste cose di possono fare, ma con maggiori difficolta’ e sempre al riparo da troppa pubblicita’.

In questo ambito puo esistere una differenza di approccio tra Putin e Medvedev? I due rispondono a logiche differenti?

Su questo punto mi pare che non ci siano indizi di differenze, neppure di stile.

Veniamo al "Dossier Iran". Il capo di stato maggiore russo, il generale Nikolai Makarov, ha piu volte dichiarato che sarebbe “disastroso” arrivare ad una guerra con Teheran anche per gli stessi interessi di Mosca. L'atteggiamento della dirigenza politica appare, anche se non esplicitamente, piu morbido. Detto brutalmente, secondo lei come finira con l'Iran e quale sara l'atteggiamento della Russia?

In caso di attacco contro l’Iran, sia Russia che Cina non faranno nulla. Diranno che non sono d’accordo, condanneranno. Punto e basta. Mosca e Pechino sanno che sia USA che Israele hanno l’opzione pronta. Ma pensano entrambi che per chi attacca sara’ una sconfitta politica e psicologica. Forse l’ultima guerra “tradizionale”, nel senso di bombardamente a tappeto, che gli USA faranno. Poi ci si preparera’ ad altro tipo di scontri, molto piu’ grandi e pericolosi.
Direi che stanno sulla riva del fiume a veder passare il cadavere di Obama.
Del resto piu’ che cercare di dissuadere non possono fare. Altrimenti finirebbero anche loro nel mirino dell’Impero malato. La “morbidezza” che esplicitano e’ pura tattica d’immagine. Per accreditarsi come partners. Ma, come l’America non li ha mai considerati partners, cosi’ loro pensano che non si possa essere partner con l’America.


Intervista a Giulietto Chiesa di Simone Santini (Clarissa.it - Megachip). 


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dimanche, 02 mai 2010

Euro-America o Eurasia?

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Archives de Synergies Européennes - 2003

 

 

Euro-america o Eurasia?

Intervento di Fausto Sorini svolto al seminario internazionale PCdoB di Brasilia del 25-26 Settembre 2003, dedicato all'analisi del quadro mondiale (tratto da http://www.resistenze.org)

 

1) Con l’occupazione militare dell’Iraq si è espressa in modo organico una volontà di dominio globale da parte dei settori più aggressivi dell’imperialismo americano. Controllare il Medio Oriente, maggiore riserva petrolifera mondiale, significa condizionare tutte le dinamiche economiche del pianeta, ed in particolare quelle di Unione europea e Cina, che dal petrolio di questa regione sono ancora oggi largamente dipendenti. Non a caso Russia e Cina, nel primo incontro al vertice tra Putin e Hu Jintao, hanno deciso di intensificare la cooperazione in campo energetico.

 

2) Lo scenario è quello di una competizione per l’egemonia mondiale nel 21° secolo. Gli Stati Uniti, di fronte alle proprie difficoltà economiche, a un debito estero che è il maggiore del mondo, all’emergere di nuove aree economiche, geo-politiche e valutarie che ne minacciano il primato mondiale, scelgono la guerra “permanente” e “preventiva” per tentare di vincere la competizione globale sul terreno militare, dove sono ancora i più forti. E dove si propongono di raggiungere una superiorità schiacciante sul resto del mondo, per cercare di invertire una tendenza crescente al declino del loro primato economico.

Nel 1945 gli Usa esprimevano il 50% del PIB del mondo; oggi sono al 25% (come l’Unione europea). Con le attuali tendenze dell’economia mondiale, i centri studi dei Paesi più industrializzati prevedono un ulteriore dimezzamento della % Usa nei prossimi 20 anni. Sarebbe la fine dell’egemonia mondiale dell’imperialismo americano, l’ascesa di nuovi centri di potere, capitalistici e non, un’autentica rivoluzione negli equilibri planetari. Si sono fatte guerre mondiali per molto meno.

 

3) Unione europea, Russia, Cina, India sono le principali potenze economiche e geo-politiche emergenti dotate anche di forza militare. L’Eurasia è il principale ostacolo al dominio Usa sul mondo. Chi avesse ancora dei dubbi, si rilegga Paul Wolfowitz, ideologo dell’amministrazione Bush : “Gli Stati Uniti devono appoggiarsi sulla loro schiacciante superiorità militare e utilizzarla preventivamente e unilateralmente…Il nostro primo obiettivo è di impedire l’emergere ancora una volta (dopo l’Urss - ndr) di un rivale…Ciò richiede ogni sforzo per impedire ad ogni potenza ostile di dominare una regione il cui controllo potrebbe consegnarle una potenza globale. Tali regioni comprendono l’Europa occidentale, l’Asia orientale (la Cina - ndr), il territorio dell’ex Unione Sovietica e l’Asia sud-occidentale (l’India - ndr)”. 

 

4) Non si tratta di una linea congiunturale, facilmente reversibile con un cambio di presidenza, ma di un orientamento che viene dal profondo dei settori più aggressivi e oggi dominanti dell’imperialismo americano. Un orientamento strategico che guarda alle grandi sfide del 21° secolo, non una breve parentesi. Vi sono differenze nei gruppi dominanti Usa e nell’opinione pubblica, nella stessa amministrazione Bush. Ma le posizioni meno oltranziste oggi sono minoranza e prevedibilmente lo saranno per molto tempo, fino a quando la linea attuale non andrà incontro a sconfitte economiche o militari (tipo Vietnam).

 

5) Gli Usa aspirano, come ha ben sintetizzato Fidel Castro, ad una “dittatura militare planetaria”. E’ una minaccia “diversa”, ma per certi aspetti più grande di quella rappresentata dal nazi-fascismo nel secolo scorso. Gli Usa dispongono oggi di una superiorità militare sul resto del mondo assai maggiore di quella che Germania, Giappone e Italia avevano all’inizio della seconda guerra mondiale. Nemmeno il Terzo Reich pensava al dominio globale del pianeta, così come esso viene teorizzato da alcuni esponenti dell’amministrazione Bush. Ciò spiega perché la linea della “guerra preventiva” suscita una opposizione tanto vasta, che coinvolge la grande maggioranza dei Paesi del mondo. E’ significativo che gli Usa, con la scelta di fare la guerra all’Iraq, siano rimasti in forte minoranza nell’Assemblea generale dell’Onu e nel Consiglio di Sicurezza, dove non solo hanno avuto l’opposizione dei paesi maggiori (Francia, Germania, Russia, Cina), ma dove non sono riusciti – pur esercitando pressioni fortissime – a “comprare” il voto di paesi come Messico, Cile, Angola, Camerun, da cui non si attendevano tante resistenze. Con la guerra in Iraq gli Usa hanno scontato un isolamento politico senza precedenti. Si calcola che solo il 5% dell’opinione mondiale abbia sostenuto la guerra. Una nuova generazione che, con il crollo dell’Urss e la crisi dell’ideale comunista, era cresciuta in tanta parte del mondo col mito del modello americano, oggi comincia ad aprire gli occhi e a maturare una coscienza critica potenzialmente antimperialista, come non si vedeva dai tempi del Vietnam. E’ un grande patrimonio, che peserà nel futuro del mondo.

 

6) La spinta verso un mondo multipolare è inarrestabile, anche se essa procederà con gradualità, perché nessuno oggi ha la volontà e la forza di sfidare apertamente gli Usa. Cresce in ogni continente la tendenza alla formazione di “poli regionali”, volti a rafforzare la cooperazione economica, politica, militare dei paesi dell’area per essere presenti sulla scena mondiale con maggiore potere contrattuale. Tutti ritengono di avere bisogno di tempo per rafforzarsi. Questo può spiegare la prudenza della Cina (e per altri versi della Russia) nei rapporti con gli Usa: vogliono rinviare ad altri tempi una possibile frattura, che in particolare la Cina mette nel conto. Mentre Francia e Germania, con diversa collocazione, non considerano matura la fine del legame transatlantico. Tali disponibilità al compromesso si sono espresse nel voto unanime (con la non partecipazione della Siria) a favore della risoluzione 1483 (22 maggio 2003) del CdS dell’Onu, che in qualche misura legittima a posteriori l’occupazione militare dell’Iraq e “riconosce” i vincitori. La questione si ripropone nella trattativa in corso in questi giorni, in cui si tratta di definire natura, ruolo e comando di un eventuale coinvolgimento dell’Onu in un Iraq tutt’altro che normalizzato, dove gli Usa sono impantanati, costretti a spendere cifre astronomiche, militarmente sotto il tiro di una resistenza irakena che si rivela più tenace e radicata del previsto. Le maggiori potenze che pure si sono opposte alla guerra, nella logica della più classica realpolitik - puntano anche a non farsi escludere da ogni influenza sul nuovo Iraq e dai giganteschi interessi legati alla ricostruzione del paese; e a tutelare i propri interessi in campo, dalle concessioni petrolifere al recupero dei debiti contratti dal vecchio regime di Saddam Hussein. Cercano di costringere gli Usa, oggi in difficoltà, ad accettare quei vincoli Onu ai quali nei mesi scorsi si erano sottratti. Il rischio è quello di contribuire a sostenere e legittimare l’occupazione militare e il comando degli Usa in Iraq, offrendo loro un salvagente senza significative correzioni della loro politica aggressiva. Vedremo su quali basi avverrà il compromesso.

 

7) Questa guerra ha fatto nascere un forte movimento popolare, che ha coinvolto centinaia di milioni di persone, in ogni continente. Il 15 febbraio 2003 più di cento milioni di persone hanno manifestato contemporaneamente in ogni parte del mondo. Era dalla fine degli anni ’40, dai tempi del Movimento dei partigiani della pace, che non si vedeva una mobilitazione così estesa a tutte le latitudini. Si tratta di una delle novità più importanti del quadro internazionale dopo il 1989. Anche se tale movimento non ha avuto la forza per fermare la guerra e oggi vive una fase di delusione e di riflusso, si sono poste importanti premesse per le lotte future e per la ricostruzione di un movimento mondiale contro la logica imperialista della guerra, che non si fermerà. Vi è qui un terreno fondamentale di lavoro per i comunisti e le forze rivoluzionarie di ogni parte del mondo. Purtroppo mancano forme anche minime di coordinamento internazionale di tale lavoro; e questo limite, che dura ormai da molti anni, non vede ancora in campo ipotesi di soluzione ed iniziative adeguate da parte dei maggiori partiti comunisti che avrebbero la forza e la credibilità per prenderle. Ciò rende tutto più difficile, ed espone il movimento contro la guerra, soprattutto in alcune regioni del mondo, all’influenza prevalente delle socialdemocrazie, delle Chiese o di alcuni raggruppamenti trotzkisti (come è stato finora, in buona misura, nel movimento di Porto Alegre). L’appuntamento del prossimo Forum Sociale Mondiale in India, potrebbe vedere in proposito alcune novità, ed un suo ampliamento unitario: in senso geo-politico, con il coinvolgimento dell’Asia, oltre l’asse originario imperniato su Europa occidentale, Stati Uniti e America Latina (poi si dovrà guardare all’Africa, all’Europa dell’Est, alla Russia); e in senso politico, con l’auspicabile superamento di una persistente pregiudiziale antipartitica, che si è finora risolta in sorda ostilità soprattutto nei confronti dei partiti comunisti. Se sarà così, il movimento non potrà che trarne vantaggio, consolidamento e maggiori legami coi movimenti operai dei rispettivi paesi, con generale beneficio del movimento mondiale contro la guerra e la crescita in esso di una più matura coscienza antimperialista.

 

8) L’opposizione alla “guerra preventiva” viene non solo dalle tradizionali forze di pace, ma anche da parte di potenze imperialiste come Francia e Germania, che fanno parte del nuovo ordine mondiale dominante. Potenze non “pacifiste”, come si è visto in Africa (ad es. in Congo, dove la competizione interimperialistica tra Francia e Stati Uniti, per il controllo delle immense risorse minerarie della regione è costata la vita in pochi anni a 4 milioni di persone…); o nella guerra della Nato contro la Jugoslavia, che ha visto Francia e Germania pienamente coinvolte. Questi paesi sono gli assi portanti dell’Unione europea, un progetto autonomo di costruzione di un polo imperialista (con la sua moneta : l’ euro) che vuole giocare le sue carte nella competizione globale. E che in prospettiva punta a dotarsi di una forza militare autonoma dagli Usa. Questi paesi non accettano di sottomettersi al dominio Usa, ma procedono con prudenza in questo processo di autonomizzazione : non hanno oggi la forza di sfidare apertamente gli Usa, non hanno un sufficiente consenso degli altri Paesi dell’Unione europea per mettere apertamente in discussione l’equilibrio “transatlantico”.

 

9) Le contraddizioni che oppongono la grande maggioranza dei Paesi del mondo al progetto militarista e unipolare Usa, sono di natura diversa: -vi sono contrasti tra imperialismo e Paesi in via di sviluppo, che aspirano alla pace e a un ordine mondiale più giusto nella ripartizione delle ricchezze del pianeta; - vi sono contrasti tra imperialismi, per la ripartizione delle risorse mondiali e delle rispettive sfere di influenza; - vi sono contrasti tra imperialismo e paesi di orientamento progressista (Cina, Vietnam, Laos, Corea del Nord, Cuba, Venezuela, Brasile, Libia, Siria, Palestina, Sudafrica, Bielorussia, Moldavia…) che in vario modo aspirano ad un modello di società diverso dal capitalismo dominante. Si evidenzia qui in particolare il contrasto con la Cina, grande potenza socialista (economica e nucleare), diretta dal più grande partito comunista al mondo, che sta emergendo come la grande antagonista degli Usa nel 21° secolo. Questo dichiarano apertamente vari esponenti Usa, che valutano che nei prossimi 20 anni, con gli attuali tassi di sviluppo, il PIB della Cina potrebbe eguagliare quello degli Usa, il divario di potenza militare potrebbe ridursi, e quindi “bisogna pensarci prima che sia tardi”, se non si vuole che la Cina divenga per gli Stati Uniti, nel 21° secolo, quello che l’Urss è stata nel secolo scorso; - vi sono contrasti con grandi paesi come la Russia e l’India (potenze nucleari), che pur non avendo oggi una coerente collocazione progressista in campo internazionale, non fanno parte del sistema imperialistico dominante, e hanno interessi nazionali e una collocazione geo-politica che contraddicono le aspirazioni egemoniche degli Usa. La Casa Bianca, nel suo documento sulla Sicurezza nazionale del settembre 2002, li definisce paesi dalla “transizione incerta”, che potrebbero evolvere verso una crescente omologazione agli interessi Usa e al suo modello sociale e politico (distruzione di ogni statalismo in campo economico, democrazia liberale in campo politico-istituzionale, rinuncia al potenziamento del proprio potenziale militare e nucleare e ad ogni “non allineamento” in politica estera…); ma che potrebbero evolvere in senso opposto e quindi rappresentare una “minaccia” per l’egemonia Usa e per l’attuale ordine mondiale dominante.

 

10) Vi è una spinta, nei vari continenti, alla formazione di entità regionali più autonome dagli Usa e con un proprio protagonismo sulla scena mondiale: -in Europa, con l’Ue e il rapporto Ue-Russia; -nell’area ex-sovietica, con la Csi; -in America Latina, con il Mercosur e la convergenza progressista di Brasile, Cuba, Venezuela…; -in Africa, con l’Unione africana e il Coordinamento per la cooperazione e lo sviluppo dei paesi dell’Africa australe (SADC), imperniato sul nuovo Sudafrica e sui governi progressisti della regione (Angola, Mozambico, Namibia, Zimbabwe, Congo, Tanzania…); -in Asia, con lo sviluppo del rapporto Cina-Asean/Cina-Vietnam. Nel 2010 i dieci paesi dell’Asean e la Cina formeranno il più grande mercato comune del pianeta; con le spinte verso una riunificazione della Corea su basi di neutralità, denuclearizzazione e allontanamento di tutte le basi militari straniere; con il rafforzamento del ruolo del “Gruppo di Shangai” (Russia, Cina, Kazachistan, Kirghisia, Uzbekistan, Tagikistan) : imperniato sull’asse russo-cinese, con la recente significativa richiesta di Putin all’India di entrare a farne parte. Il processo di avvicinamento tra Cina e India pesa enormemente sugli equilibri mondiali.

 

11) Gli Usa osteggiano il formarsi di questi “poli regionali” e cercano di favorirne la “disaggregazione”, oppure di sostenere all’interno di essi l’egemonia delle forze che sono sotto la loro influenza. Ne derivano contrasti di natura diversa nei principali organismi internazionali (Onu, FMI, G7, Wto, Unione Europea, nella stessa Nato). Ultimo in ordine di tempo il fallimento del vertice WTO a Cancun, dove è emerso uno schieramento “Sud-Sud”, imperniato su Cina, India, Brasile, Sudafrica (e con la significativa presenza di paesi come Cuba e Venezuela) che si è fatto interprete degli interessi dei Paesi in via di sviluppo, contro le pretese egemoniche dei maggiori centri dell’imperialismo. Le contraddizioni tendono continuamente a ripresentarsi : basti pensare alle tensioni e alle minacce che investono Iran, Siria, Arabia Saudita, crisi palestinese, Corea del Nord, Venezuela, Cuba; ad una situazione interna all’Iraq non normalizzata; alla permanente competizione economica e valutaria Usa-Ue / dollaro-euro... Ma c’è diversità di interessi in campo, di progetti politici e di modello sociale, anche tra le forze che si oppongono all’unilateralismo Usa. Ad esempio : la Cina, il Vietnam, Cuba, il Venezuela…non hanno la stessa collocazione strategica, della Germania di Schroeder o della Francia di Chirac, che invece difendono un certo modello economico e un ordine mondiale fondato sul predominio delle grandi potenze capitalistiche. Emblematica la vicenda di Cuba che è sostenuta dai Paesi socialisti e progressisti, ma osteggiata dall’Unione europea che si è vergognosamente avvicinata agli Usa nel rilancio di una campagna ostile. La lotta di classe non è scomparsa, così come non scomparve negli anni ’40 quando forze tra loro assai diverse per riferimenti sociali e politici trovarono una comune convergenza contro il nazi-fascismo, per poi tornare a dividersi negli anni della guerra fredda, perché portatori di interessi e di modelli di società tra loro alternativi.

 

12) Il fatto che l’opposizione alla guerra di grandi paesi come Russia, Cina, Francia, Germania non abbia superato una certa soglia di asprezza (oltre la quale il contrasto tende a spostarsi sul terreno dello scontro aperto, anche militare); il fatto che momenti di forti divergenze si alternino a situazioni in cui prevale la ricerca di una mediazione e di un compromesso, sorge non già – come sostengono le teorie di Toni Negri sul nuovo impero - dall’esistenza di interesse omogenei di un presunto “capitale globale” e di un presunto “direttorio mondiale” in cui esso troverebbe espressione politica organica e unitaria, ma da rapporti di forza internazionali che, sul piano militare, non consentono oggi a nessun paese o gruppo di paesi di portare una sfida aperta, oltre certi limiti, alla superpotenza Usa.

 

13) Come ricostruire internazionalmente un contrappeso capace di condizionare la politica estera degli Stati Uniti? Questo è il problema n°1 per tutte le forze che non vogliono una nuova tirannia globale. E’ necessaria la convergenza di più forze, tra loro assai diverse: -innanzitutto la resistenza del popolo irakeno e delle forze che in Medio Oriente la sostengono (Siria, Iran, resistenza palestinese…) per mantenere aperto il “fronte interno”, contro l’occupazione militare, e scoraggiare nuove avventure. E’ necessario un sostegno internazionale a questa resistenza, oggi pressochè inesistente al di fuori del mondo arabo; sostegno non separabile da quello alla causa palestinese, in grave difficoltà dentro una dinamica politico-diplomatica sempre più condizionata dagli Usa, che con Israele vogliono il controllo pieno del Medio Oriente; -la ripresa del movimento per la pace negli Usa e su scala mondiale, riorganizzando le sue componenti più dinamiche e determinate, per impedirne la dispersione e il riflusso; -il consolidamento delle più larghe convergenze politico-diplomatiche tra Stati, contro l’unilateralismo Usa, senza di che è impensabile una ripresa di ruolo dell’Onu (obiettivo che non va abbandonato, in assenza di alternative più avanzate che oggi non esistono). Si impone un maggior ruolo dell’Assemblea generale rispetto al Consiglio di Sicurezza e una composizione più rappresentativa del Consiglio stesso; -lo sviluppo, negli Stati Uniti, di una opposizione alla politica di Bush e in Gran Bretagna a quella di Blair, oggi entrambi in crisi di consenso. La difesa intransigente del diritto di Cuba, della Siria, dell’Iran, della Corea del Nord e di ogni altro paese minacciato a proteggere la propria sovranità da ogni ingerenza esterna, è parte integrante della lotta contro il sistema di guerra, indipendentemente dal giudizio che ognuno può avere sulla situazione interna di questo o quel paese.

 

14) Come evolverà l’Europa? Sono emerse divisioni non facilmente superabili tra Usa e Unione europea, all’interno dell’Unione europea e della Nato (cioè tra alleati del tradizionale blocco atlantico), come mai era accaduto nel dopoguerra. Nell’Unione europea (e nella Nato) continuerà il contrasto tra filo-americani e sostenitori di un’Europa più autonoma dagli Usa, imperniata sul rapporto preferenziale tra Francia - Germania - Russia. Anche per questo gli Usa vorrebbero l’ingresso nell’Ue di Turchia e Israele, loro alleati di fiducia (soprattutto Israele, perché anche in Turchia, come si è visto in relazione al conflitto irakeno, sta emergendo una dialettica nuova). Una sconfitta elettorale (possibile) dei governi di centro-destra in Italia e in Spagna, favorirebbe una collocazione europea più autonoma.

 

15) E’ vero che gli Usa sono oggi orientati ad agire anche militarmente in modo unilaterale, senza farsi condizionare né dall’Onu nè dalla Nato, ma essi non rinunceranno alla Nato, che continua ad essere per loro uno strumento prezioso per controllare l’Europa e le strutture politico-militari, di sicurezza, di intelligence, nonché l’industria e la tecnologia militare dei Paesi europei integrati nell’Alleanza. E per disporre di basi militari sul continente, poste sotto il loro controllo, magari spostandole o creandone di nuove nei paesi europei più fedeli e sottomessi, come alcuni paesi dell’Est. Gli Usa dispongono di una presenza militare in 140 Stati su 189 (con altri 36 vi sono accordi di cooperazione militare), con 800 basi militari e 200.000 soldati dislocati all’estero in permanenza (esclusi quelli presenti in Iraq). Ciò rende attualissima e non rituale la ripresa di una iniziativa del movimento per la pace per la chiusura delle basi militari Usa nei rispettivi Paesi. Per il ritiro di tutti i militari impegnati all’estero a supporto di azioni di guerra e di occupazione militare. Per attivare iniziative e dinamiche di disarmo in campo internazionale.

 

16) Un intellettuale britannico vicino a Tony Blair, ha scritto dopo la guerra in Iraq che in Europa il bivio è “tra euroasiatici, che vogliono creare un’alternativa agli Usa (lungo l’asse Parigi – Berlino – Mosca – Delhi – Pechino) ed euroatlantici, che vogliono mantenere un rapporto privilegiato con gli Usa”. Tony Blair ha espresso con chiarezza la sua linea euroatlantica in una intervista al Financial Times (28.05.2003), affermando: “Alcuni auspicano un mondo multipolare con diversi centri di potere che si trasformerebbero presto in poteri rivali. Altri pensano, e io sono tra questi, che abbiamo bisogno di una potenza unipolare fondata sulla partnership strategica tra Europa e America”. Dunque: “Euro-america” o “Eurasia”?

 

17) Chi vuole un’ Europa davvero autonoma dagli Usa e dal suo modello di società, deve avere un progetto alternativo, che vada oltre l’attuale Unione europea e le basi su cui essa è venuta formandosi e che comprenda tutti i paesi del continente (anche Russia, Ucraina, Bielorussia, Moldavia…). Un progetto che: -sul piano economico, contrasti la linea delle privatizzazioni e prospetti la formazione di poli pubblici sovranazionali (interessante la proposta, in altro contesto, che il presidente venezuelano Hugo Chavez ha sottoposto a Lula, per la formazione di un polo pubblico continentale per la gestione delle risorse energetiche, collegato ad una banca pubblica regionale che serva a finanziare progetti di sviluppo e con finalità sociali); -sul piano politico-istituzionale, contrasti ipotesi federaliste volte a svuotare la sovranità dei Parlamenti nazionali e sostenga un’ipotesi di Europa fondata sulla cooperazione tra Stati sovrani, non subalterna ai poteri forti delle maggiori potenze imperialistiche che dominano l’attuale Unione europea; -sul piano militare, preveda un sistema di sicurezza e di difesa pan-europeo, alternativo alla Nato, comprensivo della Russia (una sorta di Onu europea), che già oggi – considerando il potenziale nucleare di Francia e Russia – disporrebbe di una forza difensiva sufficiente a dissuadere chiunque da un’aggressione militare all’Europa. Dunque, un progetto opposto a quello di un riarmo dell’Unione europea, di una sua militarizzazione e vocazione imperialistica, volte a rincorrere gli Usa sul loro terreno. E’ vero che oggi l’imperialismo franco-tedesco è assai meno pericoloso per la pace mondiale di quello americano e può fungere a volte da contrappeso. Ma guai a trarne una linea di incoraggiamento al riarmo dell’Ue: i movimenti operai e i popoli europei, e qualsivoglia progetto di Europa sociale e democratica, verrebbe colpiti al cuore da una politica di militarizzazione del continente su basi neo-imperialistiche. Essa stimolerebbe la corsa al riarmo a livello internazionale, e il costo di una crescita esponenziale delle spese militari, in un’Europa neo-liberale dove già oggi vengono colpite duramente le spese sociali, distruggerebbe quel poco che rimane dell’Europa del Welfare.

 

18) L’Unione europea non può fare da sola. Se vuole reggere il confronto con gli Usa ed uscire dalla subalternità atlantica, deve essere aperta ad accordi di cooperazione e di sicurezza con la Russia (che è parte dell’Europa), con la Cina, l’India; e con le forze più avanzate e non allineate che si muovono in Africa, in Medio Oriente, in America Latina. Solo una rete di unioni regionali, non subalterne agli Usa (di cui l’Europa sia parte) può modificare i rapporti di forza globali e condizionare la politica Usa. Gli Usa non possono fare la guerra a tutto il mondo.

 

19) In paesi come Russia, Cina, India – potenze nucleari in cui vive la metà della popolazione del pianeta, che potrebbero esprimere tra 20 anni un terzo della ricchezza mondiale (e che la stessa amministrazione Bush definisce “paesi dalla transizione incerta”) – le forze comuniste, di sinistra, antimperialiste, non subalterne al modello neo-liberista e agli Usa, costituiscono già oggi una forza maggioritaria (in Cina) o che potrebbe diventarlo (Russia, India) nell’arco di un decennio.

Un’alleanza elettorale in India tra Congresso e Fronte delle sinistre (animato dai comunisti) potrebbe vincere le prossime elezioni (previste per il 2005), su un programma che recuperi le istanze progressive del non-allineamento. Un’avanzata dei comunisti e dei loro alleati alle prossime elezioni politiche in Russia può creare le condizioni per un compromesso con Putin (con una parte almeno delle forze che sostengono Putin) e collocare la Russia su posizioni più avanzate. Sono possibilità, non certezze. Per questo parlo di un processo che potrebbe maturare “nell'arco di un decennio”. Ma che dispone delle potenzialità per affermarsi e su cui forze importanti in questi Paesi stanno lavorando.

 

20) Come ha sintetizzato Samir Amin, “un avvicinamento autentico fra l’Europa, la Russia, la Cina, l’Asia costituirà la base sulla quale costruire un mondo pluricentrico, democratico e pacifico”. Un’ Eurasianon allineata può rappresentare un interlocutore fondamentale anche per le forze progressiste in America Latina e in Africa. Non sarebbe il socialismo mondiale, ma certamente un avanzamento strategico nella direzione giusta. E con il clima politico che caratterizza il mondo di oggi, non sarebbe poco.

 

vendredi, 23 avril 2010

Kirgisistan: eine "umgekehrte" Farbenrevolution?

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Kirgisistan: eine »umgekehrte« Farbenrevolution?

F. William Engdahl / http://info.kopp-verlag.de/

Das entlegene zentralasiatische Land Kirgisistan wird von einem anscheinend sehr gut geplanten Aufstand gegen den post-sowjetischen Diktator, Präsident Kurmanbek Bakijew, erschüttert. Einiges deutet darauf hin, dass Moskau mehr als ein beiläufiges Interesse an einem Regimewechsel hegt und versucht, nach dem Muster der von Washington betriebenen Rosen-Revolution 2003 in Georgien oder der Orangenen Revolution 2004 in der Ukraine eine eigene Version einer »Farben-Revolution« zu inszenieren. Zumindest ist die Entwicklung von erheblicher strategischer Bedeutung für die militärische Sicherheit im Herzland, d.h. für China, Russland und andere Länder.

Die meisten Berichte über die Ereignisse der vergangenen Tage stammen von russischen Medien, die vermelden, der Premierminister habe gegenüber der von der Opposition ernannten Führerin der Übergangsregierung, Rosa Otunbajewa, seinen Rücktritt erklärt. Laut RIA Novosti hat die Opposition »die Lage im Griff«, Bakijew sei – so hieß es unmittelbar danach – an Bord seines Dienstflugzeugs mit unbekanntem Ziel aus der Hauptstadt geflohen.

Vordergründig war der Anlass für die Proteste die Entscheidung der bisherigen Regierung, die Tarife für Energie und Telekommunikation drastisch anzuheben; die Opposition warf der von den USA unterstützten autoritären Regierung Bakijew darüber hinaus zügellose Korruption vor.

Die vereinigten kirgisischen Oppositionsparteien verlangen jetzt den offiziellen Rücktritt des bisherigen Präsidenten Kurmanbek Bakijew und die Entlassung aller seiner entfernten Verwandten und Spießgesellen aus Regierungsämtern.

Das US-Außenministerium versucht verzweifelt, den Status Quo aufrecht zu erhalten und ruft die Opposition zur »Verhandlung« und zum »Dialog« mit der von den USA finanzierten Präsidentschaft Bakijew auf. Entgegen anderslautenden Meldungen erklärte das State Department, die Regierung von Präsident Kurmanbek Bakijew sei noch im Amt.

 

Geopolitische Bedeutung

Für Washington ist das winzige zentralasiatische und fünf Millionen Einwohner zählende Binnenland an der Grenze zu der politisch heiklen chinesischen Provinz Xinjiang von großer geopolitischer Bedeutung. Seit den Anschlägen vom 11. September 2001 unterhält Washington einen großen Luftwaffenstützpunkt in Kirgisistan, offiziell zur Unterstützung der Streitkräfte in Afghanistan. Militärisch gesehen verschafft dieser Militärstützpunkt mitten in Zentralasien dem Pentagon eine wichtige Ausgangsposition, denn von dort aus könnten Angriffe gegen China, Russland und andere Ziele geführt werden, einschließlich gegen Kasachstan, das sich zu einem zunehmend wichtigeren Energielieferanten für China entwickelt.

Bakijew war 2005 auf einer Welle von US-finanzierten Demonstrationen, denen man den Namen »Tulpen-Revolution« gab, an die Macht gekommen. Wie die Orangene Revolution von Washingtons handverlesenem Kandidaten Wiktor Juschtschenko in der Ukraine, der versprach, sein Land in die NATO zu führen, oder wie die Rosen-Revolution von Washingtons Zögling Michail Saakaschwili, war Bakijews Tulpen-Revolution von 2005 vom State Department finanziert und bis ins Detail inszeniert worden. Das Ganze ging so weit, dass die »Oppositions«-Zeitungen in einer mit amerikanischem Geld aufgebauten Druckerei gedruckt wurden.

Das Ziel der USA bestand darin, auch das Schlüsselland Kirgisistan in den eisernen Ring von US- und NATO-Stützpunkten zu integrieren, mithilfe dessen Washington die wirtschaftliche und politische Zukunft sowohl Chinas wie auch Russlands hätte diktieren können.

Der Rückschlag für die Orangene Revolution in der Ukraine bei den jüngsten Wahlen und die Wahl eines neutralen Präsidenten Wiktor Janukowitsch – der versichert hat, die Ukraine werde der NATO nicht beitreten – scheint nur der erste von vielen, im Stillen von Moskau unterstützten Schritten zu sein, um an der Peripherie zumindest wieder den Anschein von Stabilität zu erwecken.

Es ist nicht klar, in welchem Maß und ob überhaupt Washington in der Lage ist, den »eigenen« Mann, Bakijew, zu stützen. Gegenwärtig sieht es nach einer großen geopolitischen Niederlage für Washington in Eurasien aus. Wir werden die Lage weiter beobachten und darüber berichten.

 

Mittwoch, 14.04.2010

Kategorie: Geostrategie, Politik

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mercredi, 21 avril 2010

La Russia chiave di volta del sistema multipolare

La Russia chiave di volta del sistema multipolare

di Tiberio Graziani

Fonte: eurasia [scheda fonte]

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Il nuovo sistema multipolare è in fase di consolidamento. I principali attori sono gli USA, la Cina, l’India e la Russia. Mentre l’Unione Europea è completamente assente ed appiattita nel quadro delle indicazioni-diktat provenienti da Washington e Londra, alcuni paesi dell’America meridionale, in particolare il Venezuela, il Brasile, la Bolivia, l’Argentina e l’Uruguay manifestano la loro ferma volontà di partecipazione attiva alla costruzione del nuovo ordine mondiale. La Russia, per la sua posizione centrale nella massa eurasiatica, per la sua vasta estensione e per l’attuale orientamento impresso alla politica estera dal tandem Putin-Medvedev, sarà, verosimilmente, la chiave di volta della nuova struttura planetaria. Ma, per adempiere a questa funzione epocale, essa dovrà superare alcuni problemi interni: primi fra tutti, quelli riguardanti la questione demografica e la modernizzazione del Paese, mentre, sul piano internazionale, dovrà consolidare i rapporti con la Cina e l’India, instaurare al più presto una intesa strategica con la Turchia e il Giappone. Soprattutto, dovrà chiarire la propria posizione nel Vicino e Medio Oriente.

Considerazioni sullo scenario attuale

Ai fini di una veloce disamina dell’attuale scenario mondiale e per meglio comprendere le dinamiche in essere che lo configurano, proponiamo una classificazione degli attori in gioco, considerandoli sia per la funzione che svolgono nel proprio spazio geopolitico o sfera d’influenza, sia come entità suscettibili di profonde evoluzioni in base a specifiche variabili.

Il presente quadro internazionale ci mostra almeno tre classi principali di attori. Gli attori egemoni, gli attori emergenti e infine il gruppo degli inseguitori e dei subordinati. A queste tre categorie occorre, per ragioni analitiche, aggiungerne una quarta, costituita da quelle nazioni che, escluse, per motivi diversi, dal gioco della politica mondiale, sono in cerca di un ruolo.

Gli attori egemoni

Al primo gruppo appartengono quei paesi che per la particolare postura geopolitica, che li identifica come aree pivot, o per la proiezione della forza militare o di quella economica determinano le scelte e i rapporti internazionali delle restanti nazioni. Gli attori egemoni inoltre influenzano direttamente anche alcune organizzazioni globali, fra cui il Fondo Monetario Internazionale (FMI), la Banca Mondiale (BM) e l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU). Tra le nazioni che presentano tali caratteristiche, pur con sfumature diverse, possiamo annoverare gli USA, la Cina, l’India e la Russia.

La funzione geopolitica attualmente esercitata dagli USA è quella di costituire il centro fisico e la guida del sistema occidentale nato alla fine del secondo conflitto mondiale. La caratteristica principale della nazione nordamericana, in rapporto al resto del pianeta, è data dal suo espansionismo, attuato con una particolare aggressività e la messa in campo di dispositivi militari su scala globale. Il carattere imperialista dovuto alla sua specifica condizione di potenza marittima le impone comportamenti colonialisti verso vaste porzioni di quello che considera impropriamente il suo spazio geopolitico (1). Le variabili che potrebbero determinare un cambio di ruolo degli USA sono essenzialmente tre: a) la crisi strutturale dell’economia neoliberista; b) l’elefantiasi imperialista; c) le potenziali tensioni con il Giappone, l’Europa e alcuni Paesi dell’America centromeridionale.

La Cina, l’India e la Russia, in quanto nazioni-continente a vocazione terrestre, ambiscono a svolgere le loro rispettive funzioni macroregionali nell’ambito eurasiatico sulla base di un comune orientamento geopolitico, peraltro in fase avanzata di strutturazione. Tali funzioni, tuttavia, vengono condizionate da alcune variabili, tra le quali evidenziamo:

  1. le politiche di modernizzazione;

  2. le tensioni dovute alle disomogeneità sociali, culturali ed etniche all’interno dei propri spazi;

  3. la questione demografica che impone adeguate e diversificate soluzioni per i tre paesi.

Per quanto riguarda la variabile relativa alle politiche di modernizzazione, osserviamo che essendo queste troppo interrelate per gli aspetti economico-finanziari con il sistema occidentale, in particolare modo con gli USA, tolgono alle nazioni eurasiatiche sovente l’iniziativa nell’agone internazionale, le espongono alle pressioni del sistema internazionale, costituito principalmente dalla triade ONU, FMI e BM (2) e, soprattutto, impongono loro il principio dell’interdipendenza economica, storico fulcro della espansione economica degli USA. In rapporto alla seconda variabile, notiamo che la scarsa attenzione che Mosca, Beijing e Nuova Delhi prestano verso il contenimento o la soluzione delle rispettive tensioni endogene offre al loro antagonista principale, gli USA, occasioni per indebolire il prestigio dei governi ed ostacolare la strutturazione dello spazio eurasiatico. Infine, considerando la terza variabile, riteniamo che politiche demografiche non coordinate tra le tre potenze eurasiatiche, in particolare quelle tra la Russia e la Cina, potrebbero, nel lungo periodo creare contrasti per la realizzazione di un sistema continentale equilibrato.

I rapporti tra i membri di questa classe decidono le regole principali della politica mondiale.

In considerazione della presenza di ben 4 nazioni-continente (tre nazioni eurasiatiche ed una nordamericana) è possibile definire l’ attuale sistema geopolitico come multipolare.

Gli attori emergenti

La categoria degli attori emergenti raggruppa, invece, quelle nazioni che, valorizzando particolari atout geopolitici o geostrategici, cercano di smarcarsi dalle decisioni imposte loro da uno o da più membri del ristretto club del primo tipo. Mentre lo scopo immediato degli emergenti consiste nella ricerca di una autonomia regionale e, dunque, nell’uscita dalla sfera d’influenza della potenza egemone, da attuarsi principalmente mediante articolate intese ed alleanze regionali, transregionali ed extra-continentali, quello strategico è costituto dalla partecipazione attiva al gioco delle decisioni regionali e persino mondiali. Fra i paesi che assumono sempre più la connotazione di attori emergenti, possiamo enumerare il Venezuela, il Brasile, la Bolivia, l’Argentina e l’Uruguay, la Turchia di Recep Tayyip Erdoğan, il Giappone di Yukio Hatoyama e, seppur con qualche limitazione, il Pakistan. Tutti questi paesi appartengono di fatto al sistema geopolitico cosiddetto “occidentale”, guidato da Washington. Il fatto che molte nazioni di quello che nel periodo bipolare era considerato un sistema coeso possano essere considerate emergenti e quindi entità suscettibili di concorrere alla costituzione di nuovi poli di aggregazione geopolitica induce a pensare che l’edifico messo a punto dagli USA e dalla Gran Bretagna, così come lo conosciamo, sia di fatto in via di estinzione oppure in una fase di profonda evoluzione. La crescente “militarizzazione” che la nazione guida impone ai rapporti bilaterali con questi paesi sembra sostanziare la seconda ipotesi. La comune visione continentale degli emergenti sudamericani e la realizzazione di importanti accordi economici, commerciali e militari costituiscono gli elementi base per configurare lo spazio sudamericano quale futuro polo del nuovo ordine mondiale (3).

Gli attori emergenti aumentano i loro gradi di libertà in relazione alle alleanze ed alle frizioni tra i membri del club degli egemoni ed alla coscienza geopolitica delle proprie classi dirigenti.

Il numero degli attori emergenti e la loro collocazione nei due emisferi settentrionale (Turchia e Giappone) e meridionale (paesi latinoamericani) oltre ad accelerare il consolidamento del nuovo sistema multipolare ne delineano i due assi principali: l’Eurasia e l’America indiolatina.

Gli inseguitori-subordinati e i subordinati

La designazione di attori inseguitori e subordinati, qui proposta, intende sottolineare le potenzialità geopolitiche degli appartenenti a questa classe in rapporto al loro passaggio alle altre. Sono da considerare inseguitori-subordinati quegli attori che ritengono utile, per affinità, interessi vari o particolari condizioni storiche, far parte della sfera d’influenza di una delle nazioni egemoni. Gli inseguitori-subordinati riconoscono all’egemone il ruolo di nazione guida. Tra questi possiamo menzionare ad esempio la Repubblica sudafricana, l’Arabia saudita, la Giordania, l’Egitto, la Corea del Sud. I subordinati di questo tipo, giacché “seguono” gli USA quale nazione guida, a meno di rivolgimenti provocati o gestiti da altri, ne condivideranno il destino geopolitico. Il rapporto che intercorre tra questi attori e il paese egemone è di tipo, mutatis mutandis, vassallatico.

Sono invece subordinati tout court quegli attori che, esterni al naturale spazio geopolitico dell’egemone, ne subiscono il dominio. La classe dei paesi subordinati è contraddistinta dall’assenza di una coscienza geopolitica autonoma o, meglio ancora, dalla incapacità delle classi dirigenti di valorizzare gli elementi minimi e sufficienti per proporre e dunque elaborare una propria dottrina geopolitica. Le ragioni di questa assenza sono molteplici e varie, fra di esse possiamo menzionare la frammentazione dello spazio geopolitico in troppe entità statali, la colonizzazione culturale, politica e militare esercitata dall’egemone, la dipendenza economica verso il paese dominante, le particolari e strette relazioni che intercorrono tra l’attore egemone globale e i ceti dirigenti nazionali i quali, configurandosi come vere e proprie oligarchie, sono preoccupati più della propria sopravvivenza piuttosto che degli interessi popolari e nazionali che dovrebbero rappresentare e sostenere. Le nazioni che costituiscono l’Unione Europea rientrano in questa categoria, ad eccezione della Gran Bretagna per la nota special relationship che intrattiene con gli USA (4).

L’appartenenza dell’Unione Europea a questa classe di attori è dovuta alla sua situazione geopolitica e geostrategica. Nell’ambito delle dottrine geopolitiche statunitensi, l’Europa è sempre stata considerata, fin dallo scoppio del secondo conflitto mondiale, una testa di ponte protesa verso il centro della massa eurasiatica (5). Tale ruolo condiziona i rapporti tra l’Unione Europea e i Paesi esterni al sistema occidentale, in primo luogo la Russia e i Paesi del Vicino e Medio Oriente. Oltre a determinare, inoltre, il sistema di difesa della UE e le sue alleanze militari, questo particolare ruolo influenza, spesso anche profondamente, la politica interna e le strategie economiche dei suoi membri, in particolare quelle concernenti l’approvvigionamento di risorse energetiche (6) e di materiali strategici, nonché le scelte in materia di ricerca e sviluppo tecnologico. La situazione geopolitica dell’Unione Europea pare essersi ulteriormente aggravata con il nuovo corso impresso da Sarkozy e dalla Merkel alle rispettive politiche estere, volte più alla costituzione di un mercato transatlantico che al rafforzamento di quello europeo.

Le variabili che potrebbero permettere, nell’attuale momento, ai paesi membri dell’Unione Europea di passare alla categoria degli emergenti concernono la qualità ed il grado di intensificazione delle loro relazioni con Mosca in rapporto alla questione dell’approvvigionamento energetico (North e South Stream), alla questione sulla sicurezza (NATO) ed alla politica vicino e mediorientale (Iràn, Israele). Che quanto appena scritto sia possibile è fornito dal caso della Turchia. Nonostante l’ipoteca NATO che la vincola al sistema occidentale, Ankara, facendo leva proprio sui rapporti con Mosca per quanto concerne la questione energetica, ed assumendo, rispetto alle direttive di Washington, una posizione eccentrica sulla questione israelo-palestinese, è sulla via dell’emancipazione dalla tutela nordamericana (7).

Gli inseguitori e i subordinati, a causa della loro debolezza, rappresentano il possibile terreno di scontro sul quale potrebbero confrontarsi i poli del nuovo ordine mondiale.

Gli esclusi

Nella categoria degli esclusi rientrano logicamente tutti gli altri stati. Da un punto di vista geostrategico, gli esclusi costituiscono un ostacolo alle mire di uno o più attori degli attori egemoni. Tra gli appartenenti a questo gruppo un particolare rilievo assumono, in rapporto agli USA ed al nuovo sistema multipolare, la Siria, l’Iràn, il Myanmar e la Corea del Nord. Nel quadro della strategia statunitense per l’accerchiamento della massa eurasiatica, infatti, il controllo delle aree attualmente presidiate da queste nazioni rappresenta un obiettivo prioritario da raggiungere nel breve medio periodo. La Siria e l’Iràn si frappongono alla realizzazione del progetto nordamericano del Nuovo grande medio Oriente, cioè del controllo totale sulla lunga e larga fascia che dal Marocco arriva fino alle repubbliche centroasiatiche, vero soft underbelly dell’Eurasia; il Myanmar costituisce una potenziale via d’accesso nello spazio sino-indiano a partire dall’Oceano Indiano e una postazione strategica per il controllo del Golfo del Bengala e del Mar delle Andamane; la Corea del Nord, oltre ad essere una via d’accesso verso la Cina e la Russia, insieme al resto della penisola coreana (Corea del Sud) costituisce una base strategica per il controllo del Mar Giallo e del Mar del Giappone.

Gli esclusi sopra citati, in base alle relazioni che coltivano con i nuovi attori egemoni (Cina, India, Russia) e con alcuni emergenti potrebbero rientrare nel gioco della politica mondiale ed assumere, pertanto, un importante ruolo funzionale nel quadro del nuovo sistema multipolare. È questo il caso dell’Iràn. L’Iràn gode dello status di paese osservatore nell’ambito dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (OTSC), da molti analisti considerata la risposta russa alla NATO, ed è candidato all’ingresso nell’ Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (OCS), tra i cui membri figurano la Russia, la Cina e le repubbliche centroasiatiche, inoltre ha solide relazioni economico-commerciali con i maggiori paesi dell’America indiolatina.

La riscrittura delle nuove regole

I paesi che appartengono alla classe degli attori egemoni sopra delineata mirano a proiettare, per la prima volta dopo la lunga stagione bipolare e la breve fase unipolare, la propria influenza sull’intero pianeta con lo scopo di concorrere, con percorsi e finalità specifiche, alla realizzazione del nuovo assetto geopolitico globale. Alla fine del primo decennio del XXI secolo si assiste dunque al ritorno della politica mondiale, articolata, questa volta, su base continentale (8). La posta in gioco è costituita, non solo dall’accaparramento delle risorse energetiche e delle materie prime, dal presidio di importanti snodi geostrategici, ma soprattutto, stante il numero degli attori e la complessità dello scenario mondiale, dalla riscrittura di nuove regole. Queste regole, risultanti dalla delimitazione di nuove sfere d’influenza, definiranno, verosimilmente per un lungo periodo, le relazioni fra gli attori continentali e quindi anche un nuovo diritto. Non più un diritto inter-nazionale esclusivamente costruito sulle ideologie occidentali, sostanzialmente basato sul diritto di cittadinanza quale si è sviluppato a partire dalla Rivoluzione francese e sul concetto di stato-nazione, bensì un diritto che tenga conto delle sovranità politiche così come concretamente si manifestano e strutturano nei diversi ambiti culturali dell’intero pianeta.

Gli USA, benché tuttora versino in uno stato di profonda prostrazione causato da una complessa crisi economico-finanziaria (che ha evidenziato, peraltro, carenze e debolezze strutturali della potenza bioceanica e dell’intero sistema occidentale), dalla perdurante impasse militare nel teatro afgano e dalla perdita del controllo di vaste porzioni dell’America meridionale, proseguono tuttavia, in continuità con le dottrine geopolitiche degli ultimi anni, nell’azione di pressione nei confronti della Russia. Nell’attuale momento, la destrutturazione della Russia, o perlomeno il suo indebolimento, rappresenterebbe per gli Stati Uniti, non solo un obiettivo che insegue almeno dal 1945, ma anche un’occasione per guadagnare tempo e porre rimedi efficaci per la soluzione della propria crisi interna e la riformulazione del sistema occidentale.

È proprio tenendo ben presente tale obiettivo che risulta più agevole interpretare la politica estera adottata recentemente dall’amministrazione Obama nei confronti di Beijing e Nuova Delhi. Una politica che, ancorché tesa a ricreare un clima di fiducia tra le due potenze eurasiatiche e gli Stati Uniti, non pare affatto dare i risultati sperati, a ragione dell’eccessivo pragmatismo e dell’esagerata spregiudicatezza che sembrano caratterizzare sia il presidente Barack Obama, sia il suo Segretario di Stato, Hillary Rodham Clinton. Un esempio della spregiudicatezza e del pragmatismo, nonché della scarsa diplomazia, tra i tanti, è quello relativo ai rapporti contrastanti che Washington ha intrattenuto recentemente col Dalai Lama e con Beijing.

Tali comportamenti, date le condizioni di debolezza in cui versa l’ex hyperpuissance, sono un tratto della stanchezza e del nervosismo con cui l’attuale leadership statunitense cerca di affrontare e tamponare la progressiva ascesa delle maggiori nazioni eurasiatiche e la riaffermazione della Russia quale potenza mondiale. Le relazioni che Washington coltiva con Beijing e Nuova Delhi corrono su due binari. Da una parte gli USA cercano, sulla base del principio di interdipendenza economica e tramite la messa in campo di specifiche politiche finanziarie e monetarie di inserire la Cina e l’India nell’ambito di quello che essi designano il sistema globale. Questo sistema in realtà è la proiezione di quello occidentale su scala planetaria, giacché le regole su cui si baserebbe sono proprio quelle di quest’ultimo. D’altra parte, attraverso una continua e pressante campagna denigratoria, la potenza statunitense tenta di screditare i governi delle due nazioni eurasiatiche e di destabilizzarle, facendo leva sulle contraddizioni e sulle tensioni interne. La strategia attuale è sostanzialmente la versione aggiornata della politica detta del congagement (containment, engagement), applicata, questa volta, non solo alla Cina ma anche, parzialmente, all’India.

Tuttavia, va sottolineato che il dato certo di questa amministrazione democratica, insediatasi a Washington nel gennaio del 2009, è la crescente militarizzazione con cui tende a condizionare i rapporti con Mosca. Al di là della retorica pacifista, il premio Nobel Obama segue infatti, ai fini del raggiungimento dell’egemonia globale, le linee-guida tracciate dalle precedenti amministrazioni, che si riducono, in estrema sintesi a due: a) potenziamento ed estensione dei presidi militari; b) balcanizzazione dell’intero pianeta lungo linee etniche, religiose e culturali.

A fronte della chiara e manifesta tendenza degli USA al dominio mondiale – negli ultimi tempi marcatamente sorretta dal corpus ideologico-religioso veterotestamentario (9), piuttosto che da una accurata analisi dell’attuale momento improntata alla Realpolitik – Cina, India e Russia, al contrario, paiono essere ben consapevoli delle condizioni odierne che li chiamano ad una assunzione di responsabilità sia a livello continentale che globale. Tale assunzione pare esplicarsi per il tramite delle azioni tese alla realizzazione di una maggiore e meglio articolata integrazione eurasiatica, nonché al sostegno delle politiche procontinentali dei paesi sudamericani.

La centralità della Russia

La ritrovata statura mondiale della Russia quale protagonista dello scenario globale impone alcune riflessioni d’ordine analitico per comprenderne il posizionamento nei distinti ambiti continentale e globale, nonché le variabili che potrebbero modificarlo nel breve e medio periodo.

Mentre in relazione alla massa euroafroasiatica il ruolo centrale della Russia quale suo heartland, così come venne sostanzialmente formulato da Mackinder, viene riconfermato dall’attuale quadro internazionale, più problematica e più complessa risulta essere invece la sua funzione nel processo di consolidamento del nuovo sistema multipolare.

Spina dorsale dell’Eurasia e ponte eurasiatico tra Giappone e Europa

Gli elementi che hanno permesso alla Russia di riaffermare la sua importanza nel contesto eurasiatico, molto schematicamente, sono:

  1. riappropriazione da parte dello Stato di alcune industrie strategiche;

  2. contenimento delle spinte secessionistiche;

  3. uso “geopolitico” delle risorse energetiche;

  4. politica volta al recupero dell’ “estero vicino”;

  5. costituzione del partenariato Russia-NATO, quale tavolo di discussione volto a contenere il processo di allargamento del dispositivo militare atlantico;

  6. tessitura di relazioni su scala continentale, volte ad una integrazione con le repubbliche centroasiatiche, la Cina e l’India;

  7. costituzione e qualificazione di apparati di sicurezza collettiva (OTSC e OCS).

Se la gestione prima di Putin ed ora di Medvedev dell’aggregato di elementi sopra considerati ha mostrato, nelle presenti condizioni storiche, il ruolo della Russia quale spina dorsale dell’Eurasia, e dunque quale area gravitazionale di qualunque processo volto all’integrazione continentale, tuttavia non ne ha messo in evidenza un carattere strutturale, importante per i rapporti russo-europei e russo-giapponesi, quello di essere il ponte eurasiatico tra la penisola europea e l’arco insulare costituito dal Giappone.

La Russia considerata come ponte eurasiatico tra l’Europa e il Giappone obbliga il Cremlino ad una scelta strategica decisiva per gli sviluppi del futuro scenario mondiale, quella della destrutturazione del sistema occidentale. Mosca può conseguire tale obiettivo con successo, nel medio e lungo periodo, intensificando le relazioni che coltiva con Ankara per quanto concerne le grandi infrastrutture (South Stream) e avviandone di nuove in rapporto alla sicurezza collettiva. Accordi di questo tipo provocherebbero di certo un terremoto nell’intera Unione Europea, costringendo i governi europei a prendere una posizione netta tra l’accettazione di una maggiore subordinazione agli interessi statunitensi o la prospettiva di un partenariato euro-russo (in pratica eurasiatico, considerando i rapporti tra Mosca, Pechino e Nuova Delhi), più rispondente agli interessi delle nazioni e dei popoli europei (10). Una iniziativa analoga Mosca dovrebbe prenderla con il Giappone, inserendosi quale partner strategico nel contesto delle nuove relazioni tra Pechino e Tokyo e, soprattutto, avviando, sempre insieme alla Cina, un appropriato processo di integrazione del Giappone nel sistema di sicurezza eurasiatico nell’ambito dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (11).

Chiave di volta del nuovo ordine mondiale

In rapporto al nuovo ordine multipolare, la Russia sembra possedere gli elementi base per adempiere a una funzione epocale, quella di chiave di volta dell’intero sistema. Uno degli elementi è costituito proprio dalla sua centralità in ambito eurasiatico come più sopra è stato esposto, altri dipendono dai suoi rapporti con i paesi dell’America meridionale, dalla sua politica vicino e mediorientale e dal suo rinnovato interesse per la zona artica. Questi quattro fattori diventano problematici, giacché strettamente collegati all’evoluzione delle relazioni che intercorrono tra Mosca e Pechino. La Cina, come noto, ha stretto, al pari della Russia, solide alleanze economico-commerciali con i paesi emergenti dell’America indiolatina, conduce nel Vicino e Medio Oriente una politica di pieno sostegno all’Iràn, manifesta inoltre una grande attenzione verso i territori siberiani ed artici (12). Considerando quanto appena ricordato, se le relazioni tra Pechino e Mosca si sviluppano in senso ancora più accentuatamente eurasiatico, prefigurando una sorta di alleanza strategica tra i due colossi, il consolidamento del nuovo sistema multipolare beneficerà di una accelerazione, in caso contrario, esso subirà un rallentamento o entrerà in una situazione di stallo. Il rallentamento o la situazione di stallo fornirebbe il tempo necessario al sistema occidentale per riconfigurarsi e per rientrare, quindi, in gioco alla pari con gli altri attori.

Il nodo di Gordio del Vicino e Medio Oriente – l’obbligo di una scelta di campo

Tra gli elementi sopra considerati, relativi al ruolo globale che la Russia potrebbe svolgere, la politica vicino e mediorientale del Cremlino sembra essere quella più problematica. Ciò a causa dell’importanza che questo scacchiere rappresenta nel quadro generale del grande gioco mondiale e per il significato particolare che ha assunto, a partire dalla crisi di Suez del 1956, in seno alle dottrine geopolitiche statunitensi. Come si ricorderà, la politica russa o meglio sovietica nel Vicino Oriente, dopo un primo orientamento pro-sionista degli anni 1947 – 48, peraltro trascinatasi fino al febbraio del 1953, quando si consumò la rottura formale tra Mosca e Tel Aviv, si volse decisamente verso il mondo arabo. Nel sistema di alleanze dell’epoca, l’Egitto di Nasser divenne il paese fulcro di questa nuova direzione del Cremlino, mentre il neostato sionista rappresentò lo special partner di Washington. Tra alti e bassi la Russia, dopo la liquefazione dell’URSS, mantenne questo orientamento filoarabo, seppur con qualche difficoltà. Nel mutato quadro regionale, determinato da tre eventi principali: a) inserimento dell’Egitto nella sfera d’influenza statunitense; b) eliminazione dell’Iraq; c) perturbazione dell’area afgana che testimoniano l’arretramento dell’influenza russa nella regione e il contestuale avanzamento, anche militare, degli USA, il paese fulcro della politica vicino e mediorientale russa è rappresentato logicamente dalla Repubblica islamica dell’Iràn.

Mentre ciò è stato ampiamente compreso da Pechino, nel quadro della strategia volta al suo rafforzamento nella massa continentale euroafroasiatica, lo stesso non si può dire di Mosca. Se il Cremlino non si affretta a dichiarare apertamente la sua scelta di campo a favore di Teheran, adoperandosi in tal modo a tagliare quel nodo di Gordio che è costituito dalla relazione tra Washington e Tel Aviv, correrà il rischio di vanificare il suo potenziale ruolo nel nuovo ordine mondiale.

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1. Il sistema occidentale, così come si è affermato dal 1945 ai nostri giorni, è strutturalmente composto da due principali e distinti spazi geopolitici, quello angloamericano e quello dell’America indiolatina, cui si aggiungono porzioni di quello eurasiatico. Quest’ultime sono costituite dall’Europa (penisola eurasiatica o cerniera euroafroasiatica) e dal Giappone (arco insulare eurasiatico). L’America indiolatina, l’Europa e il Giappone sono pertanto da considerarsi, in rapporto al sistema “occidentale”, più propriamente, sfere d’influenza della potenza d’oltreoceano.

2. L’ONU, il FMI e la BM, nell’ambito del confronto tra il sistema occidentale a guida statunitense e le potenze eurasiatiche, svolgono di fatto la funzione di dispositivi geopolitici per conto di Washington.

3. Per quanto riguarda la riscoperta della vocazione continentale dell’America centromeridionale nell’ambito del dibattito geopolitico, maturato in relazione all’ondata globalizzatrice degli ultimi venti anni, si rimanda, tra gli altri, ai lavori di Luiz A. Moniz Bandeira, Alberto Buela, Marcelo Gullo, Helio Jaguaribe, Carlos Pereyra Mele, Samuel Pinheiro Guimares, Bernardo Quagliotti De Bellis; si segnala, inoltre, la recente pubblicazione, Diccionario latinoamericano de seguridad y geopolitíca (direzione editoriale a cura di Miguel Ángel Barrios), Buenos Aires 2009.

4. Luca Bellocchio, L’eterna alleanza? La special relationship angloamericana tra continuità e mutamento, Milano 2006.

5. Per analoghe motivazioni geostrategiche, sempre relative all’accerchiamento della massa eurasiatica, gli USA considerano anche il Giappone una loro testa di ponte, speculare a quella europea.

6. Nello specifico settore del gas e del petrolio, l’influenza statunitense e, in parte, britannica determinano la scelta dei membri dell’UE riguardo ai partner extraeuropei, alle rotte per il trasporto delle risorse energetiche ed alla progettazione delle relative infrastrutture.

7. Un approccio teorico relativo ai processi di transizione di uno Stato da una posizione di subordinazione ad una di autonomia rispetto alla sfera di influenza in cui è incardinato è stato trattato recentemente dall’argentino Marcelo Gullo, nel saggio La insurbodinación fundante. Breve historia de la costrucción del poder de las naciones, Buenos Aires 2008.

8. Significativi, a tal proposito, i richiami costanti di Caracas, Buenos Aires e Brasilia all’unità continentale. Nell’appassionato discorso di insediamento alla presidenza dell’Uruguay, tenuto all’Assemblea generale del parlamento nazionale il 1 marzo del 2010, il neoeletto José Mujica Cordano, ex tupamaro, ha sottolineato con vigore che “Somos una familia balcanizada, que quiere juntarse, pero no puede. Hicimos, tal vez, muchos hermosos países, pero seguimos fracasando en hacer la Patria Grande. Por lo menos hasta ahora. No perdemos la esperanza, porque aún están vivos los sentimientos: desde el Río Bravo a las Malvinas vive una sola nación, la nación latino-americana”.

9. Ciò anche in considerazione della politica “prosionista” che Washington porta avanti nel Vicino e Medio Oriente. Si veda a tal proposito il lungo saggio di John J. Mearsheimer e Stephen M. Walt, La Israel lobby e la politica estera americana, Milano, 2007.

10. Una ipotesi di partenariato euro-russo, basato sull’asse Parigi-Berlino-Mosca, venne proposta, in un contesto diverso da quello attuale, nel brillante saggio di Henri De Grossouvre, Paris, Berlin, Moscou. La voie de la paix et de l’independénce, Lausanne 2002.

11. L’allargamento delle strutture continentali (globali nel caso della NATO) di sicurezza e difesa sembra essere un indice del grado di consolidamento del sistema multipolare. Oltre la NATO, la OTSC e le iniziative in ambito OCS, occorre ricordare anche il Consejo de Defensa Suramericano (CDS) de la Unión de Naciones Suramericanas (UNASUR).

12. Linda Jakobson, China prepares for an ice-free Arctic, Sipri Insights on Peace and Securiry, no. 2010/2 March 2010.


Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

samedi, 17 avril 2010

La "Première Rome" a abdiqué

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2003

La “Première Rome” a abdiqué...

Plaidoyer italien pour l’Union et l’Idée eurasistes

ex: http://utenti.lycos.it/progettoeurasia/

chute-de-l-empire-romain.jpgChers amis, En Italie, indubitablement, nous trouvons les meilleurs textes en matières politi­ques. Le mouvement “Eurasien” y a pris pied. La preuve? Les  pages sur la grande toile : http://utenti.lycos.it/progettoeurasia/; le texte de Francesco Boco, que nous  vous présentons ici, nous rappelle quelques faits  bien réels : nous ne sommes pas indépendants, les élites poli­tiques ont failli, sont totalement incapables de comprendre les nouvelles dynamiques géopoli­tiques à l’œuvre dans le monde. Boco propose une Union Eurasienne, en tant que bloc géostra­tégique contre la tentative américaine de contrôler le globe. Pour ce  qui concerne l’Eurasie, n’oublions pas qu’ici, à Bruxelles, la section de l’émigration russe blanche a connu des ten­dances eurasistes (voir à ce propos le  livre du Prof. Wim COUDENYS, Leven voor de Tsaar. Rus­sische ballingen, samenzweerders en collaborateurs in België, Davidsfonds, Leuven, 2004, ISBN 90-5826-252-9).

Nous nous trouvons au beau milieu d’une époque de grands bouleversements. Aux peuples d’Europe et du monde s’ouvrent des perspectives de longue haleine et de diverses sortes, que l’on peut résumer, en substance, à deux positions principales : les pays collaborateurs seront absorbés par la puissance océanique, afin de former un bloc —la seconde possibilité— contre les pays “non alignés”, c’est-à-dire contre les pays qui cherchent à se soustraire au joug américain et choisissent la voie de l’indépendance.

Depuis quelque temps, face à cette perspective, on parle de la Russie comme de la puissance potentielle capable de guider la résurrection européenne et eurasiatique. Les dernières élections russes donne bon espoir pour l’avenir. Mais il vaut quand même mieux dire que la politique et la géopolitique ne se fondent pas sur des espérances mais sur des faits.

La dure réalité nous contraint de dire, effectivement, que, si, à l’Est la “Troisième Rome” reprend du poil de la bête et que l’ours russe se remet à rugir, le “Première Rome”, elle, la vraie Rome, a abandonné depuis fort longtemps le rôle qui lui revient de droit et qu’elle ne semble plus vouloir assumer.

Un processus d’unification stratégique de l’Eurasie

Le problème, dont question, se pose surtout dans la perspective des scenarii politiques qui se manifesteront dans les prochaines décennies. Inexorablement, l’effondrement du capitalisme est prévisible, prévu par divers observateurs comme inéluctable. Nous devons dès lors prendre conscience de la situation : si, avant que cet effondrement ne soit effectif, nous ne sommes pas prêts, en tant qu’Européens et qu’Italiens, et si nous ne sommes pas suffisamment indépendants des Etats-Unis sur le plan économique, alors nous risquons de subir une crise très dure, aux aléas peu clairs. Acquérir cette nécessaire indépendance économique ne peut venir que d’une alliance territoriale, économique et militaire avec la Russie et ses satellites, c’est-à-dire amorcer le processus d’unification stratégique de l’Eurasie. Depuis longtemps déjà les Etats-Unis entreprennent d’encercler le territoire de la Russie, mais, indépendamment de cette stratégie, nous devons prendre en considération le cas de l’Italie, tel qu’il se présente à l’heure actuelle, et tel qu’il se développera à coup sûr, et avec une intensité accrue, dans le futur.

En admettant qu’il faille d’ores et déjà envisager la possibilité concrète de former le continent-Eurasie, nous devons nous demander quels seront, dans ce contexte, le rôle et la fonction de l’Italie, nous demander si nous sommes prêts ou non pour ce grand bouleversement épocal.

Vu la situation qui prévaut aujourd’hui, la réponse à ces questions est évidemment négative sur toute la ligne.

Si, soudain, le bloc eurasiatique, dont nous espérons l’avènement, venait à se former, l’Italie serait en état d’impréparation totale, surtout à cause de l’absence d’une classe dirigeante qui serait en mesure de devenir un interlocuteur valable pour la Russie et qui pourrait faire valoir les droits et les intérêts de la “Première Rome”. Depuis plusieurs décennies, l’Italie est un pays asservi. Et le restera très probable­ment même si le “patron” change, à la suite de toute une série de circonstances fortuites.

L’unique alternative possible...

Le fait majeur qui nous préoccupe est double : d’une part, le projet eurasien est l’unique alternative possible pour échapper à la domination de la puissance d’Outre Atlantique; d’autre part, on s’est jusqu’ici bien trop peu préoccupé de savoir qui devra prendre les rênes du pouvoir dans notre pays quand et si le changement survient. Nous pourrions tenir le même discours en changeant d’échelle, en passant au niveau européen...

Le “Mouvement Panrusse Eurasia” est puissant et influent en Russie; il est devenu un lobby proprement dit, un centre d’influence politique et culturel; il suffit de se rappeler qu’Alexandre Douguine, Président du Mouvement, dirige aujourd’hui une université où les idées eurasistes trouvent un très large écho.

Dans notre pays, nous devons déplorer l’absence d’un lobby eurasiste, d’un groupe de pression qui, au moment opportun, pourra s’imposer par l’action d’une classe dirigeante préparée, capable de mettre en valeur le rôle de l’Italie, un pays dont l’importance est fondamentale pour nouer des contacts avec les pays de la Méditerranée et pour jouer le rôle de médiateur incontournable dans les rapports avec les pays arabes.

Cependant les idées eurasistes en Italie ont pris pied depuis quelques années; elles ont connu une diffusion plutôt satisfaisante, si bien que, désormais, le concept d’”Eurasie” n’est plus inconnu. Toutefois, la lacune que présenterait l’Italie résiderait dans l’absence d’une classe dirigeante qui pourrait devenir un allié valable, et non une caste servile, pour la nouvelle Russie impériale.

Donner vie à un mouvement eurasiste

Il existe des maisons d’éditions et des intellectuels italiens qui diffusent inlassablement le message eurasiste; leur présence s’avère fondamentale pour notre avenir, mais elle est évidemment insuffisante. Le problème se pose donc en Italie: il faut donner vie à un Mouvement Eurasiste hypothétique, prêt à coopérer avec un mouvement analogue basé à Moscou, et capable de coordonner les ambitions d’unifi­cation continentale, par le biais d’une activité de propagande bien capillarisée et bien ajustée.

Or, aujourd’hui, le problème premier est de former les futurs cadres dirigeants de ce mouvement appelé à garantir le destin grand-continental de notre peuple et de tous les peuples d’Europe. Le milieu, que l’on qualifie à tort ou à raison de “néo-fasciste”, est, qu’on le veuille ou non, le premier à avoir pris cons­cience de l’importance du projet “Eurasie” et des potentialités qu’il représente.

La création d’un centre d’influence, d’inspiration eurasiste, passe nécessairement par l’union des forces de tous ceux qui, indépendamment de leur formation politique, se sentent proches des positions eurasistes; mais chez la frange “anti-système” de la nébuleuse dite “néo-fasciste” qui représente, de fait, le principal réservoir d’hommes, d’esprits et de moyen pour réaliser cette tâche de rassemblement général.

Soyons toutefois bien clairs : dans l’appel à l’union que nous formulons ici, nous utilisons l’expression consacrée de “néo-fascisme” surtout pour identifier une aire politico-culturelle qui, finalement, s’avère vaste et variée, où se bousculent des conceptions politiques très diverses, mais que les médiats classent sous cette étiquette, qu’ils veulent infâmante et qu’ils assimilent systématiquement à des dérapages ta­pageurs, bien visibilisés et mis en scène par les services de désinformation ou de provocations en tous genres. Nous ne prendrons, dans cette aire politico-culturelle, que les éléments de fonds, indispensables à la formation des futures élites eurasistes, c’est-à-dire :

-          Il faut que ces milieux abandonnent tout nostalgisme absurde, cessent de cultiver les clichés incapacitants et mettent en terme à toutes les “führerites” personnelles.

-          Sans renoncer à leur passé politique, sans renoncer aux devoirs qu’ils impliquent, ces milieux devront nécessairement regarder vers l’avenir et se préparer en permanence à comprendre les dynamiques géopolitiques qui animeront la planète demain et après-demain.

-          En premier lieu, il s’agit de consolider le sincère sentiment européiste présent dans ces milieux (ndt :  depuis Drieu La Rochelle) et de le hisser à la dimension supérieure, c’est-à-dire à la dimension “eurasiste”; en Italie, cet européisme et ce passage à l’eurasisme devra s’allier à la conscience que notre pays est le réceptacle de la “Première Rome” et que ce statut l’empêchera d’accepter un rôle servile dans la nouvelle donne, c’est-à-dire dans l’hypothétique union eurasiatique.

Une lutte radicale contre le néo-libéralisme

-          Ces milieux devront développer les axes idéologiques d’une lutte radicale contre le capitalisme et le néo-libéralisme, que génère toute “démocratie” à la sauce américaine, et qui constituent des menaces mortelles pour tous les peuples d’Europe, car le message politique, historique et génétique, qu’ont légué au fil des siècles, les peuples d’Europe, est celui d’une fusion entre l’idéal communautaire et l’idéal impérial.

-          Si nous concevons l’aire dite “néo-fasciste” dans cette perspective, et si nous nous adressons à elle, parce qu’elle est la plus idoine pour réceptionner notre message eurasiste, alors, en bout de course, le processus d’union continental euro-russe s’en trouvera facilité et accéléré.

-          Dans le cas où, dans le processus de formation du bloc eurasiatique, l’Italie ne se serait pas préparée à la nouvelle donne, et si les élites, dont nous entendons favoriser l’avènement, auraient été contrecarrées dans leurs desseins, rien ne changera, ou quasi rien, par rapport à la situation actuelle, comme toujours dans notre pays, la classe dirigeante sera formée d’opportunistes serviles, obséquieux devant le patron du jour, indignes d’assumer la fonction qu’ils occupent, installés au pouvoir par pur intérêt personnel.

-          Nous devons nous rappeler, ici, les enseignements de Machiavel, qui nous disait que l’aide des armes d’autrui est utile en soi, mais calamiteuse dans ses conséquences, “parce que, si l’on perd, on reste vaincu, si l’on gagne, on demeure leur prisonnier”. Dans les conditions actuelles, donc, qui découlent de la victoire américaine de 1945 en Europe, nous ne pouvons espérer être libres un jour, sauf si nous conquerrons le pouvoir à l’aide de nos seules forces et de notre détermination; nous ne le serons que si nous obtenons une Europe souveraine, indépendante et armée, prélude à une Eurasie impériale, fédérale et armée.

-          L’Union avec la “Troisième Rome” ne signifie pas une soumission servile aux volontés de Moscou, au contraire, elle signifie la réaffirmation des valeurs et de l’importance de la “Première Rome”  —et pas seulement sur le plan géopolitique— une “Première Rome” dont nous devons nous enorgueillir d’appartenir et dont nous devons nous faire les nouveaux hérauts.

-          L’Eurasie est un destin, une union continentale à laquelle l’Europe et la Russie ont toujours secrètement aspiré, comme soutenues par un esprit, un moteur invisible. Dans le passé, cette union a échoué. Cet échec nous enjoint à ne plus commettre les erreurs du passé, à nous préparer pour les bouleversements de l’avenir.

Francesco BOCO, Belluno, 30 décembre 2003.

vendredi, 09 avril 2010

Pas d'Europe unie sans la Russie!

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2004

Pas d'Europe unie sans la Russie

 

Article de Vladimir Simonov,

commentateur politique de RIA-Novosti, 24 février 2004.

 

Les ultimatums posés à la Russie dans l'histoire contemporaine n'ont jamais aidé leurs auteurs à atteindre leurs objectifs.

 

La déclaration conjointe adoptée lundi à Bruxelles à la rencontre des chefs des diplomaties des pays membres de l'Union européenne rappelle beaucoup un ultimatum. L'Union européenne évoque devant la Russie les "graves conséquences" qu'entraînerait son refus d'étendre l'Accord de partenariat et de coopération conclu en 1997 aux nouveaux pays qui adhéreront à l'UE le 1er mai.

 

Moscou souhaite revoir cet accord, car la Russie a des échanges commerciaux avec les pays d'Europe de l'Est, nouveaux membres de l'Union européenne en vertu de traités dont les délais n'expireront pas vers mai prochain, loin s'en faut.

 

L'UE s'y oppose catégoriquement. Selon la déclaration adoptée à Bruxelles, l'Accord de partenariat et de coopération doit s'étendre automatiquement aux nouveaux membres du club européen. Bruxelles laisse entendre par là que l'élargissement de l'Union européenne est une affaire intérieure de l'organisation et qu'elle le restera même si cela ne plaît pas à Moscou. Mais le problème est ailleurs: les belles formules de la "Stratégie générale de l'UE à l'égard de la Russie", document fondamental adopté en juin 1999 par le Conseil de l'Europe à Cologne, garderont-elles leur sens après l'élargissement de l'UE? Ce document mentionne maintes fois des objectifs stratégiques de l'UE comme "l'intensification de la coopération avec la Russie", la création d'une "Russie prospère", d'une "économie de marché florissante dans l'intérêt de tous les peuples de la Russie", etc.

 

Cependant, Bruxelles ne peut pas ne pas comprendre que l'extension automatique des normes de l'Accord de partenariat et de coopération à 10 nouveaux membres de l'UE portera un coup dur aux intérêts économiques de la Russie. Les dizaines de traités et d'accords commerciaux et économiques qui sont aujourd'hui en vigueur seront résiliés. L'exportation d'aluminium, de céréales, d'engrais chimiques et de combustibles nucléaires vers l'Europe centrale et en Europe de l'Est se heurtera à une multitude de facteurs négatifs.

 

Bref, selon les estimations des experts russes et occidentaux, l'élargissement d'après la variante que Bruxelles essaie d'imposer à Moscou causera à l'économie russe un préjudice d'au moins 300 millions d'euros, ce qui permet de juger des propos sur le souci de créer une "Russie prospère".

 

Il est à remarquer qu'en refusant à Moscou le droit de défendre ses intérêts contre les conséquences négatives de l'élargissement de l'UE, ses membres n'ont pas l'intention de sacrifier leurs propres droits à l'autodéfense.

 

Ainsi, 14 des 15 membres de l'Union européenne adoptent en hâte, ces derniers mois, toutes sortes de lois et de normes qui leur permettraient de réduire considérablement l'arrivée d'immigrés des pays qui adhéreront au club européen le 1er mai. La Belgique introduit des restrictions sur l'octroi des permis de travail qui seront en vigueur pendant les deux années suivant l'élargissement de l'UE, sans donner d'éclaircissements à ce sujet. L'Allemagne prévoit de prolonger ces restrictions jusqu'à 7 ans. Les Pays-Bas établissent le quota de 22 000 ouvriers immigrés par an pour ceux qui arrivent des pays d'Europe de l'Est. La Grande-Bretagne les prive de la plupart des allocations sociales.

 

Personne n'a l'intention d'étendre automatiquement aux nouveaux membres de l'Union européenne les règles conformes à la situation précédant le 1er mai 2004.

 

Se rendant compte de l'absence de logique des exigences présentées à Moscou d'étendre l'Accord de partenariat et de coopération à 25 pays (aujourd'hui, il concerne 15 pays), Bruxelles veut noyer cette iniquité dans son mécontentement face à la politique intérieure des autorités russes.

 

Dans la même déclaration conjointe, les ministres des Affaires étrangères de l'UE rappellent la violation des droits de l'homme en Tchétchénie, "l'imperfection du système électoral russe", ils proposent à Moscou de ratifier dans les plus brefs délais le protocole de Kyoto sur le réchauffement du climat global et de récupérer les immigrés illégaux russes expulsés par les pays de l'UE.

 

Moscou connaît ses côtés faibles mieux que n'importe quel critique. La Russie est prête à accepter graduellement les valeurs européennes, mais, pour l'instant, elle déploie ses efforts principaux en vue de remplacer l'économie centralisée par l'économie de marché. La Russie traverse une période transitoire dramatique et voudrait compter sur la compréhension, la coopération et le partenariat de l'UE, et pas seulement sur les observations critiques formulées sur un ton sans appel à son adresse.

 

Pour l'instant, Moscou soupçonne de plus en plus que l'élargissement de l'Union européenne dans sa variante actuelle représente probablement une tentative de créer un espace européen sans la participation de la Russie, ou bien une zone géopolitique où le rôle réservé à la Russie serait secondaire, celui de pays de seconde zone.

 

Multipliant les prétentions et les exigences adressées à Moscou, Bruxelles méprise en même temps les intérêts nationaux de la Russie. L'exigence d'étendre automatiquement l'Accord de partenariat et de coopération aux nouveaux membres de l'UE ne fait que mettre en lumière un problème plus important. Le mémorandum du ministère russe des Affaires étrangères envoyé fin janvier à la Commission européenne en parle de manière plus détaillée. L'élargissement de l'Union européenne serait moins douloureux, laisse entendre ce document, si les milieux dirigeants de Bruxelles comprenaient mieux ce que la Russie veut obtenir de l'UE.

 

Elle ne veut rien d'extraordinaire et, d'autant moins, rien d'injustifié du point de vue des intérêts nationaux réels de la grande puissance européenne qui assure 36 % des livraisons de gaz et 10 % de celles de pétrole aux pays de l'UE.

 

La Russie voudrait participer plus dignement à l'adoption de décisions au sein de l'Union européenne, à plus forte raison après l'adhésion à cette organisation des pays d'Europe centrale et d'Europe de l'Est, ses partenaires économiques traditionnels. Moscou saluerait les tarifs commerciaux plus équitables de l'UE pour l'acier, les produits pharmaceutiques, le matériel aéronautique et les technologies nucléaires russes.

 

La Russie ne comprend pas non plus pourquoi l'Union européenne hésite à inviter l'Estonie, surtout la Lettonie, c'est-à-dire ses nouveaux membres, à garantir l'accès aux valeurs européennes pour la minorité russophone de ces pays, notamment la liberté d'étudier et de développer sa culture en langue maternelle.

Moscou compte sur une attitude moins indifférente de Bruxelles vis-à-vis du problème du transit de Kaliningrad et, dans un avenir prévisible, envers les voyages sans visas entre la Russie et l'UE.

 

Le problème principal se profile derrière cette avalanche de souhaits, de prétentions et de remarques critiques qui s'accroît dans les rapports entre la Russie et l'Union européenne: dans quelle mesure Bruxelles est-il prêt au partenariat stratégique réel, et non déclaratif, avec Moscou, partenariat décrit d'une manière si attrayante dans l'Accord de 1997 ? D'ailleurs, il ne faut pas oublier un axiome: il est impossible de créer la communauté paneuropéenne sans la présence de la Russie.

 

Vladimir SIMONOV.

jeudi, 08 avril 2010

L'expédition allemande au Tibet de 1938-39

Synergies européennes – Bruxelles/Munich/Tübingen – Novembre 2006

 

Detlev ROSE :

L’expédition allemande au Tibet de 1938-39

Voyage scientifique ou quête de traces à motivation idéologique ?

 

Ernst_Schaefer.jpgLe 20 avril 1938 cinq jeunes scientifiques allemands montent à bord, dans le port de Gènes, sur le « Gneisenau », un navire rapide qui fait la liaison avec l’Extrême-Orient. Le but de leur voyage : le haut plateau du Tibet, entouré d’une nuée de mystères, le « Toit du monde ». Sous la direction du biologiste Ernst Schäfer, s’embarquent pour une aventure hors du commun pour les critères de l’époque, Bruno Beger (anthropologue et géographe), Karl Wienert (géophysicien et météorologue), Edmund Geer (en charge de la logistique et directeur technique de l’expédition) et Ernst Krause (entomologiste, cameraman et photographe).

 

Tous les participants à cette expédition étaient membres des « échelons de protection » (SS), mais ce fait justifie-t-il d’étiqueter cette expédition d’ « expédition SS », comme on le lit trop souvent dans maints ouvrages ? Cette étiquette fait penser qu’il s’agissait d’une expédition officielle du Troisième Reich. Est-ce exact ? Les SS avaient-il vraiment quelque chose à voir avec ce voyage de recherche vers cette lointaine contrée de l’Asie ? Quel intérêt les dirigeants nationaux-socialistes pouvaient-ils bien avoir au Tibet ? Comment cette expédition a-t-elle été montée ; quels étaient ses objectifs, ses motifs ? A quoi a-t-elle finalement abouti ? Beaucoup de questions, qui ont conduit à des études sérieuses mais aussi à l’éclosion de mythomanies, de légendes.

 

Des sources non encore étudiées…

 

« On a raconté et écrit beaucoup de sottises sur cette expédition au Tibet après la guerre », disait le dernier survivant Bruno Beger (1). Cela s’explique surtout par la rareté des sources, qui rend l’accès à ce thème fort malaisé. Il existe certes des travaux à prétention scientifique sur ce sujet, mais, jusqu’il y a peu de temps, nous ne disposions d’aucune analyse complète et détaillée sur les recherches tibétaines entreprises sous le Troisième Reich. Cette lacune est désormais comblée, grâce à une thèse de doctorat de Peter Mierau, un historien issu de l’Université de Würzburg (2). Le thème de ses recherches était la « politique nationale socialiste des expéditions ». Dans le cadre de cette recherche générale, il aborde de manière fort complète cette expédition allemande au Tibet de 1938-39. Mierau a découvert des sources qui n’avaient pas encore été étudiées (ou à peine) jusqu’ici. Certes, ce travail ne répond pas encore à toutes les questions mais, quoi qu’il en soit, les connaissances actuellement disponibles sur cette mystérieuse expédition se sont considérablement élargies.

 

Cette remarque vaut surtout pour les prolégomènes de cette entreprise aventureuse. Le biologiste et ornithologue Ernst Schäfer s’était taillé une bonne réputation en Allemagne, comme spécialiste du Tibet. Deux fois déjà, il avait participé, en 1931-32 et de 1934 à 1936, aux expéditions américaines de Brooke Dolan au Tibet oriental et central. En 1937, Himmler, Reichsführer SS, avait remarqué ce jeune scientifique prometteur et dynamique. Il prit contact avec lui. Schäfer était en train de préparer une nouvelle expédition. Himmler voulait simplement profiter du prestige acquis par le jeune savant. Il voulait inclure l’expédition dans le cadre de l’ « Ahnenerbe », la structure « Héritage des Ancêtres » qu’il avait créée en 1935, et, ainsi, placer l’expédition sous patronage SS (3). Le spécialiste du Tibet était certes déjà membre des SS à ce moment-là, mais il aurait préféré placer son expédition sous le patronage du département culturel des affaires étrangères ou de la très officielle DFG (« Communauté scientifique allemande ») et avait effectué des démarches en ce sens (4).

 

En l’état actuel des connaissances, il n’est donc pas possible d’affirmer ou d’infirmer clairement que les préparatifs de l’expédition aient été entièrement effectués sous la houlette des SS ou de l’Ahnenerbe (5). Le nom officiel de l’expédition était le suivant : « Expédition allemande Ernst Schäfer au Tibet » (= « Deutsche Tibetexpedition Ernst Schäfer »). Himmler eut droit au titre de « patron » de l’expédition et avait tenu à connaître personnellement tous les participants avant qu’ils ne partent et de donner le titre de SS à deux des scientifiques qui ne l’avaient pas encore (Krause et Wienert). Dans les articles des journaux, l’entreprise était souvent citée comme « Expédition SS ». Schäfer lui-même a utilisé cette dénomination à plusieurs reprises (6).

 

Le rôle très restreint de l’Ahnenerbe

 

Il a été question de faire de l’Ahnenerbe, la communauté scientifique fondée par les SS, l’un des commanditaires de cette expédition. On peut le prouver par l’existence d’un programme de travail provisoire intitulé « Ziele und Pläne der unter Leitung des SS-Obersturmführer Dr. Schäfer stehenden Tibet-Expedition der Gemeinschaft « Das Ahnenerbe » (Erster Kurator : Der Reichsführer SS)“ (= Objectifs et plans de l’expédition au Tibet de la Communauté „Héritage des Ancêtres » sous la direction du Dr. Schäfer, Obersturmführer des SS (Premier curateur : le Reichsführer SS) ». Muni de ce document, le département d’aide économique de l’état-major personnel du Reichsführer SS a appuyé le dossier de Schäfer auprès de la DFG (7). Après cette démarche, l’Ahnenerbe n’a plus joué aucun rôle officiel dans les préparatifs et la tenue de l’expédition. L’historien canadien Michael H. Kater, dans son ouvrage de référence sur la question, note que cette « vague institution », aux contours flous, a causé bien des tensions entre Schäfer et les dirigeants de l’Ahnenerbe Wolfram Sievers et Walter Wüst. De plus, l’Ahnenerbe ne semblait pas en mesure de financer quoi que ce soit relevant de l’expédition (8).

 

Ce qui est certain, en revanche, c’est que l’expédition a été financée par des cercles ou initiatives privées. Bruno Beger dit qu’Ernst Schäfer a été en mesure de rassembler quelque 70.000 Reichsmark, dont 30.000 provenaient du « conseil publicitaire » des cercles économiques allemands ; 20.000 RM de la DFG (qui s’appelait jusqu’en 1935 : « Notgemeinschaft Deutscher Wissenschaft ») ; 15.000 RM sont entrés dans les caisses grâce à l’entremise du père de Schäfer, qui était à l’époque le directeur de la fabrique de produits de caoutchouc Phoenix à Hambourg-Harburg ; les 5.000 RM restants ont été offerts par le « Frankfurter Zeitung » (9). Ces donateurs enthousiastes et généreux avaient été séduits par la passion et l’engagement des participants, surtout d’Ernst Schäfer. Beger se souvient encore : « Les instruments scientifiques, les appareils, les équipements photographiques, cinématographiques, sanitaires, presque tout nous a été prêté et même donné » (10).

 

Himmler, pour sa part, s’adressa à Göring pour que celui-ci mette 30.000 RM en devises à la disposition des explorateurs. Il fit verser cette somme à l’avance. Ce n’était pas une maigre somme car il fallait que l’expédition puisse disposer de toutes les sommes nécessaires en devises, pour qu’elle soit tout simplement possible (11).

 

Les premiers Allemands dans la « Cité interdite »

 

Ernst Schäfer s’occupa seul des préparatifs politiques et diplomatiques du voyage scientifique. Vu la situation internationale à l’époque, le chemin vers le Tibet ne pouvait se faire qu’au départ de l’Inde sous domination britannique : il fallait donc obtenir l’autorisation de la Grande-Bretagne. L’adhésion au projet de Britanniques en vue, Schäfer l’obtint grâce à son habilité diplomatique. Il s’embarqua lui-même pour l’Angleterre et en revint avec bon nombre de lettres de recommandation. Les participants à l’expédition ne savaient pas s’il allait être possible d’entrer dans le Tibet, alors indépendant, ni au début de leur voyage ni pendant les premiers mois de leur séjour, qu’ils passèrent pour l’essentiel dans la province septentrionale de l’Inde britannique, le Sikkim. Ce n’est qu’en novembre 1938, après de longues négociations et grâce aux bons travaux préparatoires, que leur parvint une invitation du gouvernement tibétain, comprenant également une autorisation à séjourner dans la « Cité interdite » de Lhassa. Au départ, cette autorisation de séjourner à Lhassa ne devait durer que deux semaines, mais elle a sans cesse été prolongée, si bien que les chercheurs allemands finirent par y rester deux mois. Ils étaient en outre les premiers Allemands à avoir pu pénétrer dans Lhassa.

 

Ce résultat, impressionnant vu les difficultés de l’époque, est dû principalement au travail et à la persévérance personnelle d’Ernst Schäfer et de ses compagnons plutôt qu’à l’action hypothétique des SS et de l’Ahnenerbe. Ernst Schäfer, quand il a organisé cette expédition, a toujours mis l’accent sur son indépendance, sur ses initiatives personnelles ; il a toujours voulu mettre cette entreprise en branle de ses propres forces, pour autant que cela ait été possible. Dans ces démarches, il jouait aussi, bien sûr, la carte de ses contacts SS, les utilisait et les mobilisaient, tant que cela pouvait lui être utile ou se révélait nécessaire (12). Mais en ce qui concerne les préparatifs et le financement (mis à part l’octroi des 30.000 RM en devises), le rôle des SS est finalement fort limité, d’après les nouvelles sources découvertes et exploitées par nos nouveaux historiens.

 

Mais cette modestie s’avère-t-elle pertinente aussi quand il s’est agi de déterminer les buts de l’expédition ? Quels étaient en fait les objectifs que s’était assignés Schäfer en préparant sa troisième expédition au Tibet ? Et que voulait Himmler ? Cette dernière question est bien évidemment la plus captivante, mais aussi celle à laquelle il est le plus difficile d’apporter une réponse précise ; les sources ne nous révèlent rien de bien substantiel. Il n’y a aucune déclaration ni aucun commentaire écrit du Reichsführer SS à propos de cette expédition. Seuls quelques indices existent. Ainsi, Schäfer rapporte, dans ses mémoires non encore publiées, une conversation qu’il a eue avec Himmler et quelques-uns de ses intimes. Himmler lui aurait demandé, lors de cette rencontre, « s’il avait vu au Tibet des hommes aux cheveux blonds et aux yeux bleus ». Schäfer aurait répondu non puis aurait explicité, à l’assemblée réduite des intimes de Himmler, tout son savoir sur l’histoire phylogénétique des hommes de là-bas. Himmler se serait révélé à l’explorateur, ce jour-là, comme un adepte de la « doctrine des âges de glace de Hanns Hörbiger ». Il aurait également fait part à Schäfer qu’il supposait qu’au Tibet « l’on pourrait trouver les vestiges de la haute culture de l’Atlantide immergée » (13). Ernst Schäfer n’a pas cédé : son expédition avait des buts essentiellement scientifiques et aucun autre. Schäfer n’a pas accepté l’exigence première de Himmler d’adjoindre à l’équipe un « runologue », un préhistorien et un chercheur ès-questions religieuses. Il n’a pas davantage accepté de rencontrer l’éminence grise de Himmler, Karl Maria Wiligut pour que celui-ci fasse part de ses théories aux membres de l’expédition (14). Schäfer ne voulait apparemment rien entendre des théories et doctrines occultistes et mythologisantes de Himmler et n’a jamais omis de le faire entendre et savoir (15).

 

Les thèses de Christopher Hale

 

Pourtant, on n’hésite pas à affirmer encore et toujours que cette expédition allemande au Tibet avait un but idéologique. Ainsi, dans un film documentaire de 2004, intitulé « Die Expeditionen der Nazis. Abenteuer und Rassenwahn » (= Les expéditions des nazis. Aventure et folie racialiste) (16), cette rengaine est réitérée. Le témoignage magistral que sortent les producteurs de ce documentaire de leur chapeau est un certain Christopher Hale, journaliste britannique de son état, qui venait de publier un livre sur la question et s’était par conséquent  recommandé comme « expert » (17). La voix off commence par dire dans l’introduction : « Déjà vers la moitié des années 30, les chercheurs SS recherchaient dans le monde entier les traces d’une race des seigneurs évanouie ». Cette recherche aurait été motivée par la « doctrine des âges de glace », déjà évoquée ici, et théorisée par l’Autrichien Hanns Hörbiger. Hale ajoute alors qu’il est parfaitement absurde d’aller chercher des lointains parents des « Aryens » en Asie, sur le « Toit du monde ». Or, c’est ce que voulait, affirme Hale, l’expédition allemande au Tibet. La raison, pour Hale, réside tout entière dans les théories qui veulent que, dans une période très éloignée dans le temps, une civilisation nordique ou aryenne, supérieure à toutes les autres, ait existé et régné sur un gigantesque empire s’étendant de l’Europe au Japon. Cet empire se serait ensuite effondré à cause du mélange entre ses porteurs nordiques et les « races inférieures ». Il aurait cependant laissé des traces, même dans les coins les plus reculés de la Terre. Au Tibet, auraient affirmé ces théories selon l’expert Hale, de telles traces se retrouveraient dans l’aristocratie. Voilà en gros ce que ce Hale a tenté de démontrer. En même temps, il a essayé implicitement de prouver que les SS et l’Ahnenerbe auraient eu un grand rôle dans la préparation et l’exécution de l’expédition.

 

Cette interprétation, proposée par Hale, cadre sans doute fort bien avec les théories occultistes du Reichsführer SS, telles que les décrit Schäfer dans ses souvenirs. La « doctrine des âges de glace », la « doctrine secrète » de Madame Blavatsky et le livre paru en 1923 de l’occultiste russe Ferdinand Ossendowski (« Bêtes, hommes et dieux ») auraient donc été les principales sources d’inspiration de Himmler. La conception qu’évoque Christopher Hale d’un « grand empire aryen » remontant à la nuit des temps nous rappelle aussi les doctrines dualistes et racialistes de ceux que l’on nommait les « Ariosophes ». C’est plus particulièrement Jörg Lanz von Liebenfels qui présentait l’effondrement des anciens aryens comme la conséquence d’un mélange interracial. Les adeptes de ces théories, que l’on pose un peu arbitrairement comme les précurseurs occultes du national socialisme (18), ne voulaient absolument rien entendre d’une raciologie et d’une anthropologie scientifiques, comme celles de E. von Eickstedt et de H. F. K. Günther.

 

Une démarche rigoureusement scientifique

 

Le documentaire « Les expéditions des nazis » suggère donc que les vues bizarres de Himmler, qui sont sans aucun doute attestées, ont influencé les objectifs de l’expédition au Tibet. Ce serait aussi vrai que deux et deux font quatre, alors que les documents préparatoires de l’expédition ne prouvent rien qui aille dans ce sens (19) ! Himmler aurait certes aimé convaincre Schäfer d’aller rechercher au Tibet les traces d’une antique haute culture aryenne disparue. Mais il n’y est pas parvenu. Les membres de l’expédition se posaient tous comme des scientifiques et comme rien d’autre. Ainsi, par exemple, quand Bruno Beger a photographié et pris les mesures anthropomorphiques, crânologiques et chirologiques, ainsi que les empreintes digitales, de sujets appartenant à divers peuples du Sikkim ou du Tibet, quand il a examiné leurs yeux et leurs cheveux, quand il a procédé à une quantité d’interviews, il a toujours agi en scientifique, en respectant les critères médicaux et biologiques de l’époque, appliqués à l’anthropologie et à la raciologie, sans jamais faire intervenir des considérations fumeuses ou des spéculations farfelues.

 

Nous pouvons parfaitement étayer cela en nous référant à un essai de Beger, sur l’imagerie raciale des Tibétains, parue en 1944 dans la revue « Asienberichte » (20). Dans cet essai, Beger nous révèle les connaissances scientifiques gagnées lors de l’expédition. D’après le résultat de ses recherches, les Tibétains sont le produit d’un mélange entre diverses races de la grande race mongoloïde (ou race centre-asiatique ou « sinide »). On peut certes repérer quelques rares éléments de races europoïdes. Ce sont surtout celles-ci, écrit Beger : « Haute stature, couplée à un crâne long (ndt : dolichocéphalie), à un visage étroit, avec retrait des maxillaires, avec nez plus proéminent, plus droit ou légèrement plus incurvé avec dos plus élevé ; les cheveux sont lisses ; l’attitude et le maintien sont dominateurs, indice d’une forte conscience de soi » (21). Il explique la présence de ces éléments europoïdes, qu’il a découverts, par des migrations et des mélanges ; il évoque ensuite plusieurs hypothèses possibles pour expliquer « les rapports culturels et interraciaux entre éléments mongoloïdes et races europoïdes, surtout celles présentes au Proche-Orient ». Il a remarqué, à sa surprise, la présence « de plusieurs personnes aux yeux bleus, des enfants aux cheveux blonds foncés et quelques types aux traits europoïdes marqués » (22) (ndt : cette présence est sans doute due aux reflux des civilisations et royaumes indo-européens d’Asie centrale et de culture bouddhiste après les invasions turco-mongoles, quand les polities tokhariennes ont cessé d’exister ; cette présence est actuellement attestée par les recherches autour des fameuses momies du Tarim). Les remarques formulées par Beger s’inscrivent entièrement dans le cadre de l’anthropologie de son époque ; son essai ne contient aucune de ces allusions ou conclusions « mythologiques », contraire aux critères scientifiques ; Beger n’emploie jamais les vocables typiques de l’ère nationale socialiste tels « Aryens », « nordique » ou « race supérieure » ou « race des seigneurs » (23).

 

Ernst Schäfer a explicité les buts de son expédition

 

Dans le même numéro d’ « Asienberichte », Ernst Schäfer publie, lui aussi, un essai, sous le titre de « Forschungsraum Innerasien » (= « Espace de recherche : Asie intérieure) (24), dans lequel il explique quelles ont été les motifs de son expédition. Après les recherches pionnières effectuées dans le cœur du continent asiatique, lors des premières expéditions qui y furent menées, il a voulu procéder à des recherches plus systématiques en certains domaines et fournir par là même une synthèse des résultats obtenus en diverses disciplines. « Tel était l’objectif de ma dernière expédition au Tibet en 1938-39 ; … elle visait à obtenir une vue d’ensemble, après avoir tâté la réalité sur le terrain à l’aide de diverses disciplines scientifiques, ce qui constitue la condition première et factuelle pour que des spécialistes en divers domaines puissent travailler main dans la main, en s’explicitant les uns aux autres les matières traitées, de façon à compléter leurs savoirs respectifs ; toujours dans le but de faire apparaître plus clairement les tenants et aboutissants de toutes choses ». La tâche principale, qu’il s’agissait de réaliser, était la suivante : « Saisir de manière holiste l’espace écologique exploré », raison pour laquelle « la géologie, la flore, la faune et les hommes ont constitué les objets de nos recherches » (25).

 

Obtenir une synthèse globale et scientifique de ce qu’est le Tibet dans sa totalité, tel a donc été le but de l’expédition allemande au Tibet en 1938-39. Il n’existe aucun indice quant à d’autres motivations ou objectifs dans les rapports rédigés par les membres de l’expédition, qui décrivent leurs faits et gestes au Tibet de manière exhaustive et détaillée (26). L’image qu’ils donnent du Tibet se termine par un résumé des résultats obtenus par leurs recherches, accompagné d’une liste méticuleuse de toutes leurs activités et des échantillons prélevés, ainsi que le texte d’un exposé, prononcé par Schäfer à Calcutta. Parmi les résultats, nous trouvons des rapports sur le magnétisme tellurique, sur les températures, sur la salinité des lacs, sur les plans des bâtiments visités, sur la cartographie relative aux structures géologiques, sur les échantillons de pierres et de minéraux, sur les fossiles découverts, sur les squelettes d’animaux, sur les reptiles, les papillons et les oiseaux, sur les plantes séchées, les graines de fleurs, de céréales et de fruits, auxquels s’ajoutent divers objets à l’attention des ethnologues tels des outils et des pièces d’étoffe. A tout cela s’ajoutent 20.000 photographies en noir et blanc et 2000 photographies en couleurs, ainsi que 18.000 mètres de films (27), dont les explorateurs ont tiré, après leur retour, un documentaire officiel (28).

 

Aucun indice pour justifier les hypothèses occultistes

 

Le livre de Hale ne résiste pas, comme nous venons de le démontrer, à une analyse critique sérieuse. Cette faiblesse s’avère encore plus patente quand il s’agit d’analyser les thèses aberrantes de l’auteur, qui cherche à expliquer l’avènement du Troisième Reich par les effets directs ou indirects de toutes sortes de thèses et théories occultistes ou conspirationnistes. L’historien Peter Mierau l’explique fort bien dans sa thèse de doctorat : « Dans les années qui viennent de s’écouler, la double thématique du national socialisme et du Tibet a été dans le vent dans plusieurs types de cénacles. Les activités de chercheur de Schäfer, dans l’entourage de Heinrich Himmler, sont mises en rapport avec des théories occultistes, ésotéristes de droite, sur l’émergence du monde, avec des mythes germaniques et des conceptions bouddhistes ou lamaïstes de l’au-delà. Pour étayer ces thèses, on ne trouve aucun indice ou argument dans les sources écrites disponibles » (29).

 

Les occultistes endurcis ne se sentent nullement dérangés par ce constat scientifique. Ils affirment alors, tout simplement, que le caractère officiel d’une telle entreprise n’est que façade, pour dissimuler la nature de la « mission secrète » et les « motifs véritables ». Quand on sort ce type d’argument (?), inutile d’insister : ces spéculations ne sont ni prouvables ni réfutables.

 

Tant les tenants des thèses occultistes les plus hasardeuses que les dénonciateurs inscrits dans le cadre de la « correction politique » contemporaine, ne trouveront, dans les sources disponibles sur l’expédition allemande au Tibet de 1938-39, aucun élément pour renforcer leurs positions. Même si les explorateurs ont appartenu aux SS et s’ils ont eu des rapports étroits, dès leur retour en août 1939, avec l’Ahnenerbe (dans le département des recherches sur l’Asie intérieure), l’expédition proprement dite ne poursuivait aucun objectif d’ordre idéologique, comme l’ont affirmé les participants eux-mêmes. Bruno Beger, dans son rapport (30), écrit : « Tous les objectifs et toutes les tâches effectuées dans le cadre de nos recherches ont été déterminés et fixés par les participants à l’expédition, sous la direction de Schäfer. Objectifs et tâches à accomplir avaient tous un caractère scientifique sur base des connaissances acquises dans les années 30 ». Certes, les SS espéraient que les résultats scientifiques de l’expédition permettraient une exploitation d’ordre idéologique, mais cela, c’est une autre histoire ; Himmler espérait sans nul doute que les explorateurs découvrissent au Tibet des preuves capables d’étayer ses théories. Par conséquent, la leçon à tirer de cette expédition allemande au Tibet en 1938-39 est la suivante : elle constitue un exemple évident que même dans un Etat totalitaire, comme voulait l’être l’appareil national socialiste et le « Führerstaat », où le parti et la volonté du chef auraient compénétré ou oblitéré l’ensemble des activités des citoyens, le doigté et l’habilité personnelles, chez un homme comme Schäfer, permettaient malgré tout de se donner une marge de manœuvre autonome et des espaces de liberté.

 

Detlev ROSE.

(Article tiré de la revue « Deutschland in Geschichte und Gegenwart », n°3/2006).

 

Notes:

(1)     Bruno BEGER, Mit der deutschen Tibetexpedition Ernst Schäfer 1938/39 nach Lhasa, Wiesbaden, 1998, page 6. Ce livre récapitule les notes du journal de voyage de Beger, réadaptées pour publication. Il n’a été tiré qu’à une cinquantaine d’exemplaires.

(2)     Peter MIERAU, Nationalsozialistische Expeditionspolitik. Deutsche Asien-Expeditionen 1933-1945, Munich, 2006 (cet ouvrage est également une thèse de doctorat de l’Université de Munich, présentée en 2003). On y trouve une vue synoptique des sources et de l’état des recherches en ce domaine aux pages 27 à 34. Les expéditions de Schäfer sont décrites de la page 311 à la page 363.

(3)     Michael H. KATER, Das Ahnenerbe der SS 1935-45. Ein Beitrag zur Kulturpolitik im Nationalsozialismus, Stuttgart, 1974, page 79.

(4)     MIERAU, op. cit., p. 327, note 2.

(5)     Ibidem, p. 329.

(6)     Ibidem. Les participants auraient marqué leur désaccord quant à la qualification de leur expédition. Cette révélation a été faite à l’auteur de ces lignes par Bruno Beger, via une lettre à son fils Friedrich (6 août 2006).

(7)     MIERAU, op.  cit., p. 332, note 2.

(8)     KATER, op.  cit., p. 79, note 3.

(9)     Communication de Bruno Beger dans une lettre de Friedrich Beger à l’auteur (27 mars 2006). Kater estime que la totalité des frais s’élève à 60.000 RM (p. 79 et ss.). Dans le documentaire « Die Expeditionen der Nazis. Abenteuer und Rassenwahn » (MDR, ZDF Enterprises & Polarfilm, 2004), on prétend que les frais totaux se seraient élevés à plus de 112.000 RM. Le documentaire produit un document, mais le narrateur du film n’en dit pas davantage. Pour en savoir plus sur le financement, cf. MIERAU, op.  cit., p. 329 et ss., note 2.

(10)  Bruno BEGER, op. cit., p. 8, note 1.

(11)  MIERAU, p. 330, note 2. On trouve également un indice dans un discours tenu par Schäfer, peu avant le vol de retour, le 25 juillet 1939, à la tribune de l’Himalaya Club de Calcutta, une association de tourisme et d’alpinisme. Dans ce discours, Schäfer dit avoir reçu le soutien d’Himmler et de Goering ; cf. « Lecture to be given on the 25.7.39 by Dr. Ernst Schäfer at the Himalaya Club », page 4, Bundesarchiv R135/30, 12). Bruno Beger souligne lui aussi l’importance des devises (voir note 6).

(12)  MIERAU, ibidem, p. 331.

(13)  Ernst SCHÄFER, Aus meinem Forscherleben (autobiographie non publiée), 1994, p. 168 et ss. Voir également MIERAU, op. cit., p. 334 et ss. Cf. Rüdiger SÜNNER, Schwarze Sonne. Entfesselung und Missbrauch der Mythen in Nationalsozialismus und rechter Esoterik, Fribourg, 1999, p. 48. 

(14)  SÜNNER, ibidem, pp. 49 à 53. MIERAU, pp. 335-342; l’auteur y évoque de manière exhaustive les idées que se faisait Himmler sur le Tibet et leurs sources.

(15)  KATER, op. cit., p. 79. SÜNNER, ibidem, p. 49 et ss. BEGER (voir note 9): « Le caractère de Schäfer était tel, qu’il ne permettait pas qu’on lui donne des instructions pour organiser ses voyages et pour lui en dicter les missions ; cela valait aussi pour Himmler ».

(16)  Documentaire sur DVD, Die Expeditionen der Nazis. Abenteuer und Rassenwahn, MDR, ZDF Enterprises & Polarfilm, 2004.

(17)  Christopher HALE, Himmler’s Crusade. The True Story of the 1938 Nazi Expedition into Tibet, Londres, 2003.

(18)  Pour comprendre cet univers complexe, voir Nicholas GOODRICK-CLARKE, Die okkulten Wurzeln des Nationalsozialismus, Graz, 1997.

(19)  MIERAU, p. 342, note 2, note en bas de page 1120.

(20)  Bruno BEGER, « Das Rassenbild des Tibeters in seiner Stellung zum mongoliden und europiden Rassenkreis », in : Asienberichte. Vierteljahresschrift für asiatische Geschichte und Kultur, n°21, Avril 1944, pp. 29-53.

(21)  Ibid., p. 45.

(22)  Ibidem, p. 47.

(23)  Rüdiger SÜNNER, op. cit. (note 13). R. Sünner se trompe lui aussi, lorsqu’il écrit que Beger “est allé indirectement à l’encontre des fantaisies himmlériennes sur l’Atlantide » (p. 51). « J’avais reçu une invitation pour participer à un débat sur la doctrine des âges de glace en 1937. Je n’ai pu que secouer la tête devant le caractère abscons des opinions qui y ont été exprimées. Mes camarades de l’expédition, y compris Schäfer, riaient bien fort des thèmes qui y avaient été débattus » : c’est en ces mots que Friedrich Beger reprend les paroles de son père (lettre à l’auteur en date du 22 juin 2006).

(24)  Ernst SCHÄFER, « Forschungsraum Innerasien », in : Asienberichte. Vierteljahresschrift für asiatische Geschichte und Kultur, n°21, avril 1944, pages 3 à 6.

(25)  Ibidem, page 4. Cette présentation correspond à la teneur de la conférence tenue par Schäfer à Calcutta, voir note 11, pages 3 et ss.

(26)  Ernst SCHÄFER, Geheimnis Tibet. Erster Bericht der Deutschen Tibet-Expedition Ernst Schäfer 1938-39, Schirmherr: Reichsführer SS, München 1943. En outre, se référer aux notes de Bruno Beger, voir note 1.

(27)  Cf. Lecture…. (voir note 11), page 6 et ss.

(28)  Ce film est actuellement disponible grâce aux efforts de Marco Dolcetta qui l’a réédité en 1994. A ce propos, cf. H. T. HAKL, « Nationalsozialismus und Okkultismus », in : N. GOODRICK-CLARKE (voir note 18), pp. 194-217, ici p. 204. Hakl, lui aussi, souligne le caractère strictement scientifique de l’expédition, en s’appuyant notamment sur l’essai de Reinhard Greve, „Tibetforschung im SS-Ahnenerbe“, paru dans l’ouvrage collectif, édité par Thomas HAUSCHILD, Lebenslust und Fremdenfurcht. Ethnologie im Dritten Reich, Francfort sur le Main, 1995, pp. 168-209.

(29)  MIERAU, op. cit., p.28. L’auteur vise ici tout particulièrement le roman de Russell McCloud, intitulé, dans sa version allemande, Die Schwarze Sonne von Tashi Lhunpo, paru à Vilsbiburg en 1991. Dans ce roman, un ancien SS explique à l’un des protagonistes que l’histoire mondiale est le produit d’une lutte entre deux puissances occultes (pp. 144 à 173).

(30)  BEGER, op.  cit., p. 278 (voir note 1). Je remercie du fond du coeur monsieur Bruno Beger et son fils Friedrich Beger pour m’avoir permis de consulter notes et documents, pour avoir répondu avec patience à mes nombreuses questions, pour avoir mis à ma dispositions les photographies qui illustrent mon article. A ce propos, je remercie également Monsieur Dieter Schwarz.

 

lundi, 05 avril 2010

Les Etats-Unis et l'Eurasie: fin de partie pour l'ère industrielle

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2003

 

Les Etats-Unis et l'Eurasie :

fin de partie pour l'ère industrielle

 

Avec l’aube du 21ème siècle, le monde est entré dans une nouvelle phase du combat géopolitique. La première moitié du 20ème siècle peut être comprise comme une longue guerre entre la Grande-Bretagne (et des alliés variables) et l’Allemagne (et des alliés variables) pour la suprématie européenne. La seconde moitié du siècle fut dominée par une Guerre Froide entre les Etats-Unis, qui émergèrent comme la principale puissance militaro-industrielle du monde après la 2ème Guerre Mondiale, et l’Union Soviétique et son bloc de protectorats. Les guerres américaines en Afghanistan (en 2001-2002) et en Irak (qui, en comptant les sanctions économiques et les bombardements périodiques, s’est poursuivie de 1990 jusqu’au moment présent) ont inauguré la dernière phase, qui promet d’être le combat géopolitique final de la période industrielle – un combat pour le contrôle de l’Eurasie et de ses ressources d’énergie.

 

Mon but est ici de tracer les contours généraux de ce chapitre culminant de l’histoire tel qu’il est actuellement en train de s’écrire. D’abord, il est nécessaire de discuter de géopolitique en général et depuis une perspective historique, en relation avec les ressources, la géographie, la technologie militaire, les monnaies nationales, et la psychologie de ses praticiens.

 

Les fins et les moyens de la géopolitique

 

Il n’est jamais suffisant de dire que la géopolitique concerne le « pouvoir », le « contrôle », ou l’« hégémonie » dans l’abstrait. Ces mots n’ont un sens qu’en relation avec des objectifs et des moyens spécifiques : pouvoir sur quoi ou sur qui, exercé par quelles méthodes ? Les réponses différeront quelque peu dans chaque situation ; cependant, la plupart des objectifs et des moyens stratégiques tend à avoir certaines caractéristiques en commun.

 

Comme les autres organismes, les humains sont sujets aux perpétuelles contraintes écologiques de l’accroissement de la population et de l’appauvrissement des ressources. S’il est peut-être simpliste de dire que tous les conflits entre sociétés sont motivés par le désir de surmonter des contraintes écologiques, la plupart le sont certainement. Les guerres sont généralement menées pour des ressources – terre, forêts, voies maritimes, minerais, et (durant le siècle passé) pétrole. Les gens combattent occasionnellement pour des idéologies et des religions. Mais même alors les rivalités pour les ressources sont rarement loin de la surface. Ainsi les tentatives d’expliquer la géopolitique sans référence aux ressources (un récent exemple est Le choc des civilisations de Samuel Huntington) sont soit erronées soit délibérément trompeuses.

 

L’ère industrielle diffère des périodes précédentes de l’histoire humaine par l’exploitation à grande échelle des ressources en énergie (charbon, pétrole, gaz naturel, et uranium) pour les objectifs de production et de transport – et pour l’objectif plus profond d’accroître la capacité de notre environ­nement terrestre à supporter les humains. La totalité des réalisations scientifiques, des consolidations politiques, et des immenses accroissements de population des deux derniers siècles sont des effets prévisibles de l’utilisation croissante et coordonnée des ressources en énergie. Dans les premières dé­cennies du vingtième siècle, le pétrole a émergé comme la plus importante ressource en énergie à cause de son faible coût et de sa facilité d’utilisation. Le monde industriel dépend maintenant d’une manière écrasante du pétrole pour l’agriculture et le transport.

 

La géopolitique mondiale moderne, parce qu’elle implique des systèmes de transport et de communication à l’échelle mondiale basés sur les ressources en énergie fossile, est par conséquent un phénomène unique de l’ère industrielle. Le contrôle des ressources est largement une question de géographie, et secondairement une question de technologie militaire et de contrôle sur les monnaies d’échange. Les Etats-Unis et la Russie étaient tous deux géographiquement bénis, étant auto-suffisants en ressources énergétiques durant la première moitié du siècle. L’Allemagne et le Japon ne parvinrent pas à atteindre l’hégémonie régionale en grande partie parce qu’ils manquaient de ressources énergétiques domestiques suffisantes et parce qu’ils ne parvinrent pas à gagner et à conserver l’accès à des ressources à un autre endroit (en URSS pour l’une et dans les Indes Néerlandaises pour l’autre).

 

Néanmoins si les Etats-Unis et la Russie furent tous deux bien dotés par la nature, tous deux ont dépassé leurs pics de production pétrolière (qui furent atteints en 1970 et 1987, respectivement). La Russie reste un exportateur net de pétrole parce que son niveau de consommation est faible, mais les Etats-Unis sont de plus en plus dépendants des importations de pétrole tout comme de gaz naturel.

 

Les deux nations ont commencé depuis longtemps à investir une grande partie de leur richesse basée sur l’énergie dans la production de systèmes d’armes fonctionnant avec du carburant pour accroître et défendre leur intérêts en ressources à l’échelle mondiale. En d’autres mots, tous deux ont décidé il y a des décennies d’être des joueurs géopolitiques, ou des concurrents pour l’hégémonie mondiale.

 

A peu près les trois-quarts des réserves pétrolières cruciales restantes du monde se trouvent à l’intérieur des frontières des nations à prédominance musulmane du Moyen-Orient et d’Asie Centrale – des nations qui, pour des raisons historiques, géographiques et politiques, furent incapables de développer des économies militaro-industrielles indépendantes à grande échelle et qui ont, au long du dernier siècle, surtout servi de pions des Grandes Puissances (Grande-Bretagne, Etats-Unis, et l’ex-URSS). Dans les récentes décennies, ces nations riches en pétrole à prédominance musulmane ont rassemblé leurs intérêts dans un cartel, l’Organisation des Pays Exportateurs de Pétrole (OPEP).

 

Si les ressources, la géographie et la technologie militaire sont essentielles à la géopolitique, elles ne sont pas suffisantes sans un moyen financier de dominer les termes du commerce international. L’hégémonie a eu une composante financière aussi bien que militaire déjà depuis l’adoption de l’argent par les empires agricoles de l’Age de Bronze ; l’argent, après tout, est une revendication sur les ressources, et la capacité à contrôler la monnaie d’échange peut affecter un subtil transfert en cours de richesse réelle. Celui qui émet une monnaie – particulièrement une monnaie fiduciaire, c’est-à-dire une monnaie qui n’est pas soutenue par des métaux précieux – a un pouvoir sur elle : chaque transaction devient une prime pour celui qui frappe ou imprime l’argent.

 

Durant l’ère coloniale, les rivalités entre le real espagnol, le franc français et la livre britannique furent aussi décisives que des batailles militaires pour déterminer la puissance hégémonique. Pendant le dernier demi-siècle, le dollar US a été la monnaie internationale de référence pour presque toutes les nations, et c’est la monnaie avec laquelle toutes les nations importatrices de pétrole doivent payer leur carburant. C’est un arrangement qui a fonctionné à l’avantage de l’OPEP, qui conserve un consommateur stable avec les Etats-Unis (le plus grand consommateur de pétrole du monde et une puissance militaire capable de défendre les royaumes pétroliers arabes), et aussi des Etats-Unis eux-mêmes, qui perçoivent une subtile dîme financière pour chaque baril de pétrole consommé par toutes les autres nations importatrices. Ce sont quelques-uns des faits essentiels à garder à l’esprit lorsqu’on examine le paysage géopolitique actuel.

 

La psychologie et la sociologie de la géopolitique

 

Les objectifs géopolitiques sont poursuivis dans des environnements spécifiques, et ils sont poursuivis par des acteurs spécifiques – par des êtres humains particuliers avec des caractéristiques sociales, culturelles et psychologiques identifiables. Ces acteurs sont, dans une certaine mesure, les incarnations de leur société dans son ensemble, recherchant des bénéfices pour cette société en compétition ou en coopération avec d’autres sociétés. Cependant, de tels individus puissants sont inévitablement tirés d’une classe sociale particulière à l’intérieur de leur société – généralement, la classe riche, possédante – et tendent à agir d’une manière telle qu’elle bénéficie de préférence à cette classe, même si agir ainsi signifie ignorer les intérêts du reste de la société. De plus, les acteurs géopolitiques individuels sont aussi des êtres humains uniques, avec des connaissances, des préjugés et des obsessions religieuses qui peuvent occasionnellement les conduire à agir en représentants non seulement de leur société, mais aussi de leur classe.

 

Du point de vue de la société, la géopolitique est un combat darwinien collectif pour une capacité de support accrue ; mais du point de vue du géostratège individuel, c’est un jeu. En effet, la géopolitique pourrait être considérée comme le jeu humain absolu – un jeu avec d’immenses conséquences, et un jeu qui ne peut être joué qu’à l’intérieur d’un petit club d’élites.

 

Depuis qu’il y a eu des civilisations et des empires, les rois et les empereurs ont joué une certaine version de ce jeu. Le jeu attire un type particulier de personnalités, et il favorise une certaine manière de pensée et de perception concernant le monde et les autres êtres humains. L’acte de participer au jeu confère un sentiment d’immense supériorité, de distance, de pouvoir, et d’importance. On peut commencer à apprécier la drogue suprêmement excitante que constitue le fait de participer au jeu géopolitique en lisant les documents rédigés par les principaux géostratèges – des textes sur la sécurité nationale signés par des gens comme George Kennan et Richard Perle, ou les livres d’Henry Kissinger et de Zbigniew Brzezinski. Prenons, par exemple, ce passage de l’Etude de Planification Politique N° 23 du Département d’Etat, par Kennan en 1948 : “Nous avons 50 pour cent de la richesse mondiale, mais seulement 6,3 pour cent de sa population. Dans cette situation, notre véritable travail pour la période à venir est de concevoir un modèle de relations qui nous permette de maintenir cette position de disparité. Pour ce faire, nous devons nous dispenser de toute sentimentalité … nous devons cesser de penser aux droits de l’homme, à l’élévation des niveaux de vie et à la démocratisation”.

 

Une prose aussi sèche et fonctionnelle est à sa place dans un monde de services, de téléphones et de limousines, mais c’est un monde totalement coupé des millions – peut-être des centaines de millions ou des milliards – de gens dont les vies subiront l’impact écrasant d’une phrase par-ci, d’un mot par là. A un niveau, le géostratège est simplement un homme (après tout, le club est presque entièrement un club d’hommes) faisant son travail, et tentant de la faire de manière compétente aux yeux des spectateurs. Mais quel travail ! – déterminer le cours de l’histoire, décider du sort des nations. Le géostratège est un Surhomme, un Olympien déguisé en mortel, un Titan en tenue de travail. Un bon poste, si vous pouvez l’obtenir.

 

L’Eurasie – le Grand Prix du Grand Jeu

 

En regardant leur cartes et leurs globes terrestres, les géostratèges britanniques des 18ème et 19ème siècles ne pouvaient pas manquer de noter que les masses de terre du globe sont hautement asymétriques ; l’Eurasie est de loin le plus grand des continents. Il est clair que s’ils voulaient eux-mêmes bâtir et maintenir un empire vraiment mondial, il serait d’abord essentiel pour les Britanniques d’établir et de défendre des positions stratégiques dans tout ce continent riche en minerais, densément peuplé, et chargé d’histoire.

 

Mais les géostratèges britanniques savaient parfaitement bien que la Grande-Bretagne elle-même est seulement une île au large du nord-ouest de l’Eurasie. Sur ce plus grand des continents, la nation la plus étendue était de loin la Russie, qui dominait géographiquement l’Eurasie ainsi que l’Eurasie dominait le globe. Ainsi les Britanniques savaient que leurs tentatives pour contrôler l’Eurasie se heurteraient inévitablement aux instincts d’auto-préservation de l’Empire Russe. Durant tout le 19ème siècle et au début du 20ème, des conflits russo-britanniques éclatèrent à maintes reprises sur la frontière indienne, notamment en Afghanistan. Un fonctionnaire impérial nommé Sir John Kaye appela cela le « Grand Jeu », une expression immortalisée par Kipling dans Kim.

 

Deux guerres mondiales coûteuses et un siècle de soulèvements anti-coloniaux ont largement guéri la Grande-Bretagne de ses obsessions impériales, mais l’Eurasie ne pouvait pas manquer de rester centrale pour tout plan sérieux de domination mondiale.

 

Ainsi en 1997, dans son livre The Grand Chessboard: American Primacy and its Geostrategic Imperatives [Le grand échiquier : la primauté américaine et ses impératifs géostratégiques] , Zbigniew Brzezinski, ancien conseiller à la Sécurité Nationale du président américain Jimmy Carter et géostratège par excellence, soulignait que l’Eurasie devait être au centre des futurs efforts des Etats-Unis pour projeter leur propre puissance à l’échelle mondiale. « Pour l’Amérique », écrivait-il,  “le grand prix géopolitique est l’Eurasie. Pendant un demi-millénaire, les affaires mondiales ont été dominées par des puissances et des peuples eurasiens qui se combattaient les uns les autres pour la domination régionale et qui aspiraient à la puissance mondiale. Maintenant une puissance non-eurasienne est prééminente en Eurasie – et la primauté mondiale de l’Amérique dépend directement de la durée et de l’efficacité avec lesquelles sa prépondérance sera soutenue” [1].

 

L’Eurasie a un rôle de pivot, d’après Brzezinski, parce qu’elle « compte pour 60 pour cent du PNB mondial et environ les trois-quarts des ressources énergétiques connues du monde ». De plus, elle contient les trois-quarts de la population mondiale, « toutes les puissances nucléaires déclarées sauf une et toutes les [puissances nucléaires] secrètes sauf une » [2].

 

Dans la vision de Brzezinski, de même que les Etats-Unis ont besoin du reste du monde pour les marchés et les ressources, l’Eurasie a besoin de la domination américaine pour sa stabilité. Malheureusement, cependant, les Américains ne sont pas accoutumés aux responsabilités impériales : « La recherche de la puissance n’est pas un but qui soulève la passion populaire, sauf dans des conditions d’une menace ou d’un défi soudain pour le sens public du bien-être domestique » [3].

 

Quelque chose de fondamental a basculé dans le monde de la géopolitique avec les attaques terroristes du 11 septembre 2001 – qui a clairement présenté « une menace soudaine … pour le sens public du bien-être do­mestique». Ce basculement a été de nouveau perçu avec la détermination de la nouvelle administration américaine – exprimée avec une insistance croissante en 2002 et pendant les premières semaines de 2003 – d’envahir l’Irak. Ces changements géostratégiques semblent s’être centrés dans une nouvelle attitude américaine envers l’Eurasie.

 

A la fin de la 2ème G.M., quand les Etats-Unis et l’URSS émergèrent comme les puissances dominantes du monde, les Etats-Unis avaient établi des bases permanentes en Allemagne, au Japon, et en Corée du Sud, toutes pour encercler l’Union Soviétique. L’Amérique mena même une guerre manquée et extrêmement coûteuse en Asie du Sud-Est pour acquérir encore un autre vecteur d’encerclement de l’Eurasie.

 

Quand l’URSS s’écroula à la fin des années 80, les Etats-Unis semblèrent libres de dominer l’Eurasie, et donc le monde, plus complètement que toute autre nation dans l’histoire mondiale. La décennie qui suivit fut surtout caractérisée par la mondialisation – la consolidation de la puissance économique collective largement centrée aux Etats-Unis. Il sembla que l’hégémonie US serait maintenue économiquement plutôt que militairement. Le livre de Brzezinski reflète l’esprit de ces temps, recommandant le maintien et la consolidation des liens de l’Amérique avec les alliés de longue date (Europe de l’Ouest, Japon et Corée du Sud) et la protection ou la cooptation des nouveaux Etats indépendants de l’ancienne Union Soviétique.

 

Contrairement avec cette prescription, la nouvelle administration de George W. Bush sembla prendre un virage plus brutal – un virage qui tenait pour acquis les vieux alliés dans son unilatéralisme sans complexes. Par son viol des accords internationaux pour l’environnement, les droits de l’homme, et le contrôle des armes ; par sa poursuite d’une doctrine d’action militaire préventive ; et particulièrement par son obsession apparemment inexplicable de l’invasion de l’Irak, Bush dépensa un énorme capital politique et diplomatique, se créant inutilement des ennemis même parmi les alliés éprouvés. Son motif de guerre – l’élimination des armes de destruction massive de l’Irak – était manifestement ridicule, puisque les Etats-Unis avaient fourni beaucoup de ces armes et que l’Irak ne constituait alors une menace pour personne ; de plus, une nouvelle guerre du Golfe risquait de déstabiliser tout le Moyen-Orient [4]. Qu’est-ce qui pouvait bien justifier un tel risque ? Quelle était la motivation de ce bizarre nouveau changement de stratégie ? A nouveau, une discussion d’arrière-plan est nécessaire avant de pouvoir répondre à cette question.

 

Les Etats-Unis : un colosse à cheval sur le globe

 

A l’aube du nouveau millénaire, les Etats-Unis avaient la technologie militaire la plus avancée du monde et la monnaie la plus forte du monde. Tout au long du vingtième siècle, l’Amérique avait patiemment bâti son empire, d’abord en Amérique Centrale et en Amérique du Sud, à Hawaï, à Puerto Rico, et aux Philippines, et ensuite (après la 2ème G.M.) par des alliances et des protectorats en Europe, au Japon, en Corée, et au Moyen-Orient. Son armée et son agence de renseignement étaient actives dans presque tous les pays du monde alors que son immense puissance semblait tempérée par sa défense ostensible de la démocratie et des droits de l’homme.

 

Dans les années 80, le gouvernement US tomba sous le contrôle d’un groupe de stratèges néo-conservateurs entourant Ronald Reagan et George Herbert Walker Bush. Pendant des années, ces stratèges travaillèrent à détruire l’URSS (ce qu’ils réussirent à faire en minant l’économie soviétique) et à consolider leur puissance en Amérique Centrale et au Moyen-Orient. Ce dernier projet culmina avec la première guerre USA-Irak en 1990-91. Leur but ouvertement déclaré n’était rien moins que la domination mondiale.

 

Alors que l’administration Clinton-Gore insistait sur la coopération multilatérale, son effort pour la mondialisation commerciale – qui transférait impitoyablement la richesse des nations pauvres aux nations riches – était essentiellement une prolongation des politiques Reagan-Bush. Pourtant, les néo-conservateurs enrageaient d’être exclus des reines du pouvoir. Ils se considéraient comme le leadership légitime du pays, et regardaient Clinton et ses partisans comme des usurpateurs. Quand la Cour Suprême nomma George W. Bush Président en 2000, les néo-conservateurs eurent leur revanche. Avec l’assistance des médias serviles, Bush – le fils choyé d’une famille de la côte Est, riche et avec de puissants liens politiques qui avait fait sa fortune dans la banque, les armes, et le pétrole – réussit à se présenter comme un pur Texan « homme du peuple ». Il s’entoura immédiatement du groupe des stratèges géopolitiques - Donald Rumsfeld, Dick Cheney, Paul Wolfowitz, et Richard Perle – qui avaient développé la politique internationale de la première administration Bush.

 

Dans son récent article « La poussée pour la guerre », l’analyste des affaires internationales Anatol Lieven fait remonter les racines du programme stratégique d’extrême-droite à une mentalité persistante de guerre froide, au fondamentalisme chrétien, à des politiques intérieures de plus en plus diviseuse, et à un soutien inconditionnel à Israël. Le but basique de domination militaire totale du globe, écrivait Lieven, “était partagé par Colin Powell et le reste de l’establishment de sécurité. Ce fut, après tout, Powell qui, en tant que Président du Conseil des Chefs d’Etat-Major, déclara en 1992 que les Etats-Unis avaient besoin d’une puissance suffisante « pour dissuader n’importe quel rival de simplement rêver à nous défier sur la scène mondiale ». Cependant, l’idée de défense préventive, à présent doctrine officielle, pousse cela un pas plus loin, beaucoup plus loin que Powell aurait souhaité aller. En principe, elle peut être utilisée pour justifier la destruction de tout autre Etat s’il semble même que cet Etat puisse être capable de défier les  Etats-Unis dans le futur. Quand ces idées furent émises pour la première fois par Paul Wolfowitz et d’autres après la fin de la Guerre Froide, elles se heurtèrent à une critique générale, même de la part des conservateurs. Aujourd’hui, grâce à l’ascendance des nationalistes radicaux dans l’Administration et à l’effet des attaques du 11 septembre sur la psyché américaine, elles ont une influence majeure sur la politique US” [5].

 

Que l’administration ait orchestré d’une certaine manière les événements du 11 septembre – comme cela fut suggéré par les commentateurs Michael Ruppert et Michel Chossudovsky – ou pas, elle était clairement prête à en tirer avantage [6]. Bush proclama immédiatement au monde que « soit vous êtes avec nous, soit vous êtes avec les terroristes ».

 

Avec un budget militaire gonflé, un établissement médiatique craintif et obéissant, et un public effrayé au point d’abandonner volontairement les protections constitutionnelles de base, les néo-conservateurs semblaient avoir gagné le plein contrôle de la nation et être devenus les maîtres de son empire mondial. Mais même alors que leur victoire semblait complète, des rumeurs de dissidence commençaient à se répandre.

 

Insubordination dans les rangs

 

La résistance populaire à la mondialisation commerciale commença à se matérialiser à la fin des années 90, s’unissant pour la première fois dans la manifestation massive anti-OMC à Seattle en novembre 1998. Dès lors, le mouvement anti-mondialisation sembla grandir avec chaque année qui passait, se transformant en un mouvement anti-guerre mondial en réponse aux plans US d’envahir d’abord l’Afghanistan et ensuite l’Irak.

 

Mais le mécontentement vis-à-vis de la domination US du globe ne se limita pas à des gauchistes brandissant des marionnettes géantes dans des manifestations. Alors que les bases militaires américaines s’installaient dans les Balkans dans les années 90, et en Asie Centrale après la campagne d’Afghanistan, les géostratèges en Russie, en Chine, au Japon et en Europe de l’Ouest commencèrent à examiner leurs options. Seule la Grande-Bretagne semblait rester ferme dans son alliance avec le colosse américain.

 

Une réponse apparemment inoffensive à l’hégémonie US mondiale fut l’effort de onze nations européennes pour établir une monnaie commune – l’Euro. Quand l’Euro fut lancé au tournant du millénaire, beaucoup prédirent qu’il serait incapable de rivaliser avec le dollar. En effet, pendant des mois la valeur comparative de l’Euro se fit attendre. Cependant, elle se stabilisa bientôt et commença à monter.

 

Un développement plus inquiétant, du point de vue de Washington, fut la tendance croissante de nations de second ou de troisième rang à abandonner ouvertement les politiques économiques néo-libérales au cœur du projet de mondialisation, puisque les nouveaux gouvernements du Venezuela, du Brésil et de l’Equateur rompirent publiquement avec la Banque Mondiale et déclarèrent leur désir d’indépendance vis-à-vis du contrôle financier américain.

 

En même temps, en Russie le théoricien politique Alexandre Douguine gagnait une influence croissante avec ses écrits géostratégiques anti-américains. En 1997, la même année où parut le livre de Brzezinski Le grand échiquier, Douguine publia son propre manifeste, Les fondements de la géopolitique, recommandant un Empire Russe reconstitué, composé d’un bloc continental d’Etats alliés pour nettoyer la masse terrestre eurasienne de l’influence US. Au centre de ce bloc, Douguine plaçait un « axe eurasien » avec la Russie, l’Allemagne, l’Iran, et le Japon.

 

Alors que les idées de Douguine avaient été bannies à l’époque soviétique à cause de leurs échos de fantaisies pan-eurasiennes nazies, elles gagnaient graduellement de l’influence parmi les officiels russes post-soviétiques. Par exemple, le ministère russe des Affaires Etrangères a récemment décrié la « tendance croissante vers la formation d’un monde unipolaire sous la domination financière et militaire des Etats-Unis » et a appelé à un « ordre mondial multipolaire », tout en soulignant la « position géopolitique [de la Russie] en tant que plus grand Etat eurasien ». Le parti communiste russe a adopté les idées de Douguine dans sa plate-forme ; Gennady Zyouganov, président du parti communiste, a même publié son premier ouvrage de géopolitique, intitulé La géographie de la victoire. Bien que Douguine reste une figure marginale sur le plan international, ses idées ne peuvent qu’avoir une résonance dans un pays et un continent de plus en plus cernés et manipulés par une nation hégémonique puissante et arrogante de l’autre coté du globe.

 

Extérieurement, la Russie – comme l’Allemagne, la France, le Japon, et la Chine – est encore déférente avec les Etats-Unis. Même la dissidence vis-à-vis du montage de Bush pour la guerre en Irak est restée assez modérée. Mais en privé, les dirigeants de tous ces pays sont sans aucun doute en train de faire de nouveaux plans. Peu iraient cependant jusqu’à approuver l’idée d’Alexandre Douguine que l’Eurasie finira par dominer les Etats-Unis, ni l’idée inverse. Néanmoins, en seulement trois ans, l’attitude de nombreux dirigeants eurasiens envers l’hégémonie américaine est passée de l’acceptation tranquille à une critique mordante associée à un examen sérieux des alternatives.

 

Le dilemme américain

 

Douguine et d’autres critiques eurasiens de la puissance américaine commencent par une prémisse qui semblerait ridicule pour la plupart des Américains. Pour Douguine, les Etats-Unis agissent non par force, mais par faiblesse.

 

Pendant de longues années, l’Amérique a supporté une balance commerciale très fortement négative – qu’elle pouvait se permettre seulement à cause du dollar fort, permis à son tour par la coopération de l’OPEP dans la facturation des exportations pétrolières en dollars. La balance commerciale de l’Amérique est négative en partie parce que sa production intérieure de pétrole et de gaz naturel a atteint son point culminant et que la nation dépend maintenant de plus en plus des importations. De même, la plupart des sociétés américaines ont transféré leurs opérations de fabrication outre-mer. Une autre faiblesse systémique vient de la corruption largement répandue dans les sociétés – révélée de façon aveuglante par l’effondrement de Enron – et des liens étroits entre les sociétés et l’establishment politique américain. Bulle après bulle – haute technologie, télécommunications, dérivés, immobilier – ont déjà éclaté ou sont sur le point de le faire.

 

Après le dollar fort, l’autre pilier de la force géopolitique US est son pilier militaire. Mais même dans ce cas il y a des fissures dans la façade. Personne ne doute que l’Amérique possède des armes de destruction massive suffisantes pour détruire le monde plusieurs fois. Mais les Etats-Unis utilisent en fait leur armement de plus en plus à des fins de ce que l’historien français Emmanuel Todd a appelé du « militarisme théâtral ». Dans un essai intitulé « Les Etats-Unis et l’Eurasie : militarisme théâtral », le journaliste Pepe Escobar note que cette stratégie implique que Washington … ne doit jamais apporter une solution définitive à un problème géopolitique, parce que l’instabilité est la seule chose qui peut justifier des actions militaires à l’infini de la part de l’unique superpuissance, n’importe quand, n’importe où … Washington sait qu’elle est incapable de se mesurer aux véritables joueurs dans le monde – Europe, Russie, Japon, Chine. Elle cherche donc à rester politiquement au sommet en brutalisant des joueurs mineurs comme l’Axe du Mal, ou des joueurs encore plus mineurs comme Cuba [7].

 

Ainsi les attaques américaines contre l’Afghanistan et l’Irak révèlent simultanément la sophistication de la technologie militaire US et les fragilités inhérentes de la position géopolitique US. Le militarisme théâtral a le double but de projeter l’image de l’invincibilité et de la puissance américaines tout en maintenant ou en accroissant la domination militaire US sur les nations du tiers-monde riches en ressources. Cela explique largement la récente invasion de l’Afghanistan et l’attaque imminente contre Bagdad. Cette stratégie implique que les actions terroristes contre les Etats-Unis doivent être secrètement encouragées comme justification pour davantage de répression intérieure et d’aventures militaires à l’étranger.

 

Néanmoins nous n’avons pas pleinement répondu à la question posée précédemment – pourquoi la présente administration veut-elle dépenser un si grand capital politique intérieur et international pour mener la guerre imminente en Irak ? Les critiques de l’administration soulignent que c’est une guerre pour le pétrole, mais la situation est en fait plus compliquée et ne peut être comprise qu’à la lumière de deux facteurs cruciaux non pleinement reconnus.

 

La puissance du dollar est remise en question

 

Le premier est que le maintien de la puissance du dollar est en question. En novembre 2000, l’Irak annonça qu’il cesserait d’accepter des dollars en échange de son pétrole, et n’accepterait plus que des Euros. A l’époque, les analystes financiers suggérèrent que l’Irak perdrait des dizaines de millions de dollars à cause de ce changement de monnaie ; en fait, dans les deux années suivantes, l’Irak gagna des millions. D’autres nations exportatrices de pétrole, incluant l’Iran et le Venezuela, ont déclaré qu’elles prévoyaient un changement similaire. Si toute l’OPEP passait des dollars aux Euros, les conséquences pour l’économie US seraient catastrophiques. Les investissements fuiraient le pays, les valeurs immobilières plongeraient, et les Américains se retrouveraient rapidement dans des conditions de vie du Tiers-Monde [8].

 

Actuellement, si un pays souhaite obtenir des dollars pour acheter du pétrole, il ne peut le faire qu’en vendant ses ressources aux Etats-Unis, en souscrivant un emprunt à une banque américaine (ou à la Banque Mondiale – en pratique la même chose), ou en échangeant sa monnaie sur le marché libre et ainsi en la dévaluant. Les Etats-Unis importent en effet des biens et des services pour presque rien, son déficit commercial massif représentant un énorme emprunt sans intérêts au reste du monde. Si le dollar devait cesser d’être la devise de réserve mondiale, tout cela changerait du jour au lendemain.

Un article du New York Times daté du 31 janvier 2003, intitulé « Pour les indicateurs russes, l’Euro dépasse le dollar », notait que « les Russes semblent avoir accumulé jusqu’à 50 milliards de dollars américains en paquets de café et sous leurs matelas, la plus grande réserve parmi toutes les nations ». Mais les Russes échangent tranquillement leurs dollars contre des Euros, et des articles de luxe comme les voitures affichent maintenant des prix en Euros. Plus loin, « La banque centrale de Russie a dit aujourd’hui qu’elle a accru ses avoirs en Euros durant l’année passée jusqu’à 10 pour cent de ses réserves [en devises] étrangères, partant de 5 pour cent, alors que la part de dollars a chuté de 90 à 75 pour cent, reflétant le faible retour d’investissements en dollars » [9].

 

Ironiquement, même l’Union Européenne est préoccupée par cette tendance, parce que si le dollar chute trop bas alors les firmes européennes verront leurs investissements aux Etats-Unis perdre de la valeur. Néanmoins, à mesure que l’UE grandit (elle a programmé l’entrée de dix nouveaux membres en 2004), sa puissance économique est de plus en plus perçue comme dépassant inévitablement celle des Etats-Unis.

Pour les géostratèges US, la prévention d’un passage de l’OPEP des dollars aux Euros doit donc sembler capitale. Une invasion et une occupation de l’Irak donnerait effectivement aux Etats-Unis une voix dans l’OPEP tout en plaçant de nouvelles bases américaines à bonne distance de frappe de l’Arabie Saoudite, de l’Iran, et de plusieurs autres pays-clés de l’OPEP.

 

Le second facteur pesant probablement sur la décision de Bush d’envahir l’Irak est l’appauvrissement des ressources énergétiques US et donc la dépendance américaine croissante vis-à-vis de ses importations pétrolières. La production pétrolière de tous les pays non-membres de l’OPEP, pris ensemble, a probablement culminé en 2002. A partir de maintenant, l’OPEP aura toujours plus de pouvoir économique dans le monde. De plus, la production pétrolière mondiale culminera probablement dans quelques années. Comme je l’ai expliqué ailleurs, les alternatives aux carburants fossiles n’ont pas été suffisamment développés pour permettre un processus coordonné de substitution dès que le pétrole et le gaz naturel se feront plus rares. Les implications – particulièrement pour les principales nations consommatrices comme les Etats-Unis – seront finalement ruineuses [10].

 

Les deux problèmes sont d’une urgence écrasante. La stratégie de Bush en Irak est apparemment une stratégie offensive pour élargir l’empire américain, mais en réalité elle est principalement d’un caractère défensif puisque son but profond est de devancer un cataclysme économique.

 

Ce sont les deux facteurs de l’hégémonie du dollar et de l’épuisement du pétrole – encore plus que l’arrogance des stratèges néo-conservateurs à Washington – qui incitent à un total mépris des alliances de longue date avec l’Europe, le Japon et la Corée du Sud, et au déploiement croissant de troupes US au Moyen-Orient et en Asie Centrale.

 

Même si personne n’en parle ouvertement, les échelons supérieurs dans les gouvernements de la Russie, de la Chine, de la Grande-Bretagne, de l’Allemagne, de la France, de l’Arabie Saoudite et d’autres pays sont pleinement conscients de ces facteurs – d’où les changements d’alliance, les menaces de veto, et les négociations d’arrière-salle conduisant à l’inévitable invasion US de l’Irak.

 

Mais la guerre, bien que devenue inévitable, reste un coup hautement risqué. Même s’il se termine en quelques jours ou en quelques semaines par une victoire américaine décisive, nous ne saurons pas immédiatement si ce coup a payé.

 

Qui contrôlera l’Eurasie ?

 

Alors que j’écris ces lignes, les Etats-Unis préparent des plans pour bombarder Bagdad, une ville de cinq millions d’habitants, et pour déverser pendant les deux premiers jours de l’attaque deux fois plus de missiles de croisière qu’il n’en fut utilisé dans toute la première guerre du Golfe. Les obus et les balles à uranium appauvri seront à nouveau employés, transformant une grande partie de l’Irak en désert radioactif et condamnant les futures générations d’Irakiens (et les soldats américains et leurs familles) à des malformations de naissance, à des maladies et à des morts prématurées. Il est difficile d’imaginer que le spectacle de tant de mort et de destruction non-provoquées ne puisse manquer d’inspirer des pensées de vengeance dans les cœurs de millions d’Arabes et de musulmans.

 

Les stratèges géopolitiques américains diront que l’attaque est un succès si la guerre se termine rapidement, si la production des champs pétrolifères irakiens remonte rapidement, et si les nations de l’OPEP sont contraintes de conserver le dollar comme monnaie courante. Mais cette opération (on ne peut pas réellement l’appeler une guerre), entreprise comme un acte de désespoir économique, ne peut que temporairement endiguer une marée montante.

 

Quelles sont les conséquences à long terme pour les Etats-Unis et l’Eurasie ? Beaucoup sont imprévisibles. Les forces qui sont en train d’être libérées pourraient être difficiles à contenir. Les tendances à long terme les mieux prévisibles ne sont pas favorables. Epuisement des ressources et pression démographique ont toujours été annonciateurs de guerre. La Chine, avec une population de 1,2 milliards, sera bientôt le plus grand consommateur de ressources dans le monde. Dans une époque d’abondance, cette nation peut être vue comme un immense marché ouvert : il y a déjà plus de réfrigérateurs, de téléphones mobiles et de télévisions en Chine qu’aux Etats-Unis. La Chine ne souhaite pas défier les Etats-Unis militairement et a récemment obtenu des privilèges commerciaux en soutenant tranquillement les opérations militaires américaines en Asie Centrale. Mais alors que le pétrole – la base de tout le système industriel – se fait de plus en plus rare et que ses réserves sont plus chaudement disputées, on ne peut pas s’attendre à ce que la Chine reste docile.

 

La Corée du Nord, un quasi-allié de la Chine, était tranquillement neutralisée au moyen de négociations pendant l’ère Clinton, mais s’irrite maintenant d’être classée par Bush dans « l’axe du mal » et de voir un embargo US imposé à ses importations en ressources énergétiques cruciales. Par désespoir, elle tente d’attirer l’attention de Washington en réactivant son programme d’armes nucléaires. En même temps, le nouveau gouvernement sud-coréen est totalement opposé à l’unilatéralisme US et veut négocier avec le Nord. Les Etats-Unis menacent de détruire les installations nucléaires de la Corée du Nord par des frappes aériennes, mais cela provoquerait la formation d’un nuage nucléaire mortel sur toute l’Asie du nord-est.

 

Dans le même temps, l’Inde et le Pakistan ont aussi des intérêts qui finiront probablement par diverger de ceux des Etats-Unis. Ces nations voisines sont, bien sûr, des puissances nucléaires et des ennemis jurés avec des querelles frontalières de longue date. Le Pakistan, actuellement un allié des Etats-Unis, est aussi un fournisseur important de matières nucléaires pour la Corée du Nord, et a apporté une aide aux Talibans et à Al-Qaïda – des faits qui soulignent bien à quel point la stratégie de Washington est devenue tortueuse et contre-productive ces derniers temps.

 

Pour les Etats-Unis, le danger est clair : une hypothétique alliance entre l’Europe, la Russie, la Chine et l’OPEP

 

Le pire cauchemar des Américains serait une alliance stratégique et économique entre l’Europe, la Russie, la Chine, et l’OPEP. Une telle alliance possède une logique inhérente du point de vue de chacun des participants potentiels. Si les Etats-Unis devaient tenter d’empêcher une telle alliance en jouant la seule bonne carte encore dans leurs mains – leur armement de destruction massive – alors le Grand Jeu pourrait se terminer par une tragédie finale.

 

Même dans le meilleur cas, les ressources en pétrole sont limitées et, puisqu’elles vont progressivement diminuer pendant les prochaines décennies, elles seront incapables de supporter l’industrialisation prochaine de la Chine ou le maintien de l’infrastructure industrielle en Europe, en Russie, au Japon, en Corée, ou aux Etats-Unis.

 

Qui dominera l’Eurasie ? Finalement, aucune puissance isolée ne sera capable de le faire, parce que la base de ressources énergétiques sera insuffisante pour supporter un système de transport, de communication et de contrôle à l’échelle du continent. Ainsi les fantaisies géopolitiques russes sont tout aussi vaines que celles des Etats-Unis. Pour le prochain demi-siècle il restera juste assez de ressources énergétiques pour permettre soit un combat horrible et futile pour les parts restantes, soit un effort héroïque de coopération pour une conservation radicale et une transition vers un régime d’énergie post-carburant fossile.

 

Le prochain siècle verra la fin de la géopolitique mondiale, d’une manière ou d’une autre. Si nos descendants ont de la chance, le résultat final sera un monde formé de petites communautés, bio-régionalement organisées, vivant de l’énergie solaire. Les rivalités locales continueront, comme elles l’ont fait tout au long de l’histoire humaine, mais l’arrogance des stratèges géopolitiques ne menacera jamais plus des milliards d’humains d’extinction.

 

C’est-à-dire si tout se passe bien et si tout le monde agit rationnellement.

 

NEW DAWN MAGAZINE, Melbourne, Australia.

 

Notes:

 

[1] Zbigniew Brzezinski, The Grand Chessboard : American Primacy and its Geopolitical Imperatives (Basic Books, 1997), p. 30.

[2] Ibid., p. 31.

[3] Ibid., p. 36.

[4] Voir Richard Heinberg, "Behold Caesar," MuseLetter N° 128, octobre 2002,

http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.museletter.com.

[5] Anatol Lieven, "The Push for War," London Review of Books, 30 décembre 2002,

http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.lrb.co.uk/v24/n19/liev01_.html.

[6] Voir les sites web de Michael Ruppert, From the Wilderness www.fromthewilderness.com ; et de Michel Chossudovsky, Centre for Research on Globalisation,

http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.globalresearch.ca/articles/CHO206A.html.

[7] Pepe Escobar, "Us and Eurasia: Theatrical Militarism," Asia Times Online, 4 décembre 2002,

http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.atimes.com/atimes/archive/12_4_2002.html.

[8] W. Clark, "The Real but Unspoken Reasons for the Upcoming Iraq War,"

http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.indymedia.org/front.php3?article_id=231238&group=webcast

[9] Voir Michael Wines, "For Flashier Russians, Euro Outshines the Dollar," New York Times, 31 janvier 2003.

[10] Richard Heinberg, The Party’s Over : Oil, War and the Fate of Industrial Societies (New Society, 2003).

Richard Heinberg, journaliste et enseignant, est membre de la faculté du New College de Californie à Santa Rosa, où il enseigne un programme sur la culture, l’écologie, et la communauté viable. Il rédige et publie la « MuseLetter » mensuelle : http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.museletter.com. Cet article est une adaptation de son livre à paraître, The Party’s Over: Oil, War, and the Fate of Industrial Societies [La partie est finie : pétrole, guerre, et le sort des sociétés industrielles] (New Society Publishers,

http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.newsociety.com).

 

[Cet article a été publié dans New Dawn N° 77 (mars-avril 2003)].

mardi, 30 mars 2010

Russlands Energie-Strategie für Nord- und Westeuropa

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Russlands Energie-Strategie für Nord- und Westeuropa

F. William Engdahl

Ex: http://info.kopp-verlag.de/

Wenn sich Russlands Nachbarland Ukraine neutral verhält und sich die innenpolitische Lage dort stabilisiert, bedeutet das für Moskau weit mehr, als dass die militärische Bedrohung durch Washington entschärft wird. Denn jetzt kann Russland den einen besonderen Hebel nutzen, der dem Land neben der verbliebenen und noch immer schlagkräftigen Atomstreitmacht verblieben ist, nämlich den Export von Erdgas. Während Russland über die weltweit größten Reserven verfügt, herrscht in Westeuropa, ja sogar in Großbritannien, lebhafte Nachfrage, da die Vorräte in der Nordsee allmählich zur Neige gehen. Der Ostsee-Pipeline von Russland nach Norddeutschland kommt deshalb besondere Bedeutung zu.

Nach Schätzungen westeuropäischer Industriekreise wird die Nachfrage nach Erdgas in den Ländern der Europäischen Union in den kommenden 20 Jahren im Vergleich zu heute um etwa 40 Prozent wachsen. Der Anstieg geht vor allem auf das Konto der Stromerzeugung, weil Erdgas hierfür als saubere und sehr effiziente Energiequelle gilt. Während der Bedarf also steigen wird, geht die Förderung auf den Gasfeldern in Großbritannien, den Niederlanden und anderen EU-Ländern allmählich zurück. (1) Wenn die Ukraine nun von ihrer feindseligen Haltung Moskau gegenüber auf eine »blockfreie« Neutralität – um einen Ausdruck von Janukowytsch zu gebrauchen – umschwenkt, die zunächst auf die Stabilisierung der russisch-ukrainischen Erdgas-Geopolitik konzentriert, eröffnen sich für Russland plötzlich weit stabilere wirtschaftliche Optionen, mit denen der versuchten militärischen und wirtschaftlichen Einkreisung durch Washington begegnet werden kann.

Als Juschtschenko und Saakaschwili in der Ukraine bzw. in Georgien das Zepter übernahmen und gemeinsam mit Washington auf einen NATO-Beitritt hinarbeiteten, konnte Russland unter Putin praktisch nur noch die Energiekarte spielen, um zumindest den Anschein wirtschaftlicher Sicherheit aufrechtzuerhalten. Russland verfügt über die mit Abstand größten Erdgasreserven der Welt. Die zweitgrößten Reserven befinden sich übrigens nach Schätzung des amerikanischen Energieministeriums im Iran, den Washington ja ebenfalls im Visier hat. (2)

Heute verfolgt Russland erkennbar eine faszinierende, äußerst komplexe Energiestrategie. Die Energievorräte werden als diplomatischer und politischer Hebel benutzt, um »Freunde zu gewinnen und die Menschen (in der EU) zu beeinflussen«. Dmitri Medwedew, Putins Nachfolger im Präsidentenamt, ist geradezu prädestiniert für diese Gaspipeline-Geopolitik, denn er war zuvor Vorsitzender des staatlichen Gazprom-Konzerns.

Hoher Einsatz beim eurasischen Schachspiel

In gewissem Sinne ähnelt die eurasische Landmasse heute einem dreidimensionalen geopolitischen Schachspiel zwischen Russland, der Europäischen Union und Washington. Bei dem Spiel geht es für Russland um das Überleben als funktionierende Nation, was Medwedew und Putin offensichtlich auch bewusst ist.

Zu der versuchten militärischen Einkreisung Russlands durch die USA gehörten nicht nur die Rosen- und die Orangene Revolution in den Jahren 2003 und 2004, sondern auch die höchst provokative Pentagon-Politik der Raketen-»Verteidigung«, in deren Rahmen von den USA (nicht von der NATO) befehligte Raketenbasen in Schlüsselländern des ehemaligen Warschauer Pakts, an der unmittelbaren Peripherie errichtet wurden. Als Reaktion verfolgt Moskau jetzt eine eindrucksvolle und hochkomplexe Pipeline-Strategie, die man der amerikanischen Militärstrategie der Einkreisung durch die NATO, der Stationierung von Raketen und der »Farbenrevolutionen«, einschließlich der versuchten Destabilisierung des Iran im vergangenen Sommer durch eine »Grüne Revolution«, oder auch »Twitter Revolution«, wie Hillary Clinton sie salopp nannte, entgegensetzt. Die USA zielten darauf ab, Russland zu isolieren und die potenzielle strategische Allianz in ganz Eurasien zu schwächen.

Für Russland, das erst kürzlich Saudi-Arabien von der Position als größter Erdölproduzent und -exporteur der Welt verdrängt hat, bedeutet der Erdgas-Verkauf im Ausland einen bedeutenden Vorteil, denn Moskau kann den Preis und den Markt für Erdgas besser bestimmen. Anders als beim Erdöl, dessen Preis der strikten Kontrolle von Big Oil (und dessen Mittätern von der Wall Street, wie Goldman Sachs, Morgan Stanley, JP MorganChase) unterliegt, ist es für die Wall Street viel schwieriger, den Preis für Erdgas zu manipulieren, schon gar nicht durch kurzfristige Spekulation wie beim Erdöl.

Da Erdgas anders als Erdöl vom Bau kostspieliger Pipelines oder LNG-Tanker und LNG-Terminals abhängig ist, wird der Preis normalerweise in langfristigen Lieferabkommen zwischen Verkäufern und Kunden festgelegt. Das bietet für Moskau einen gewissen Schutz vor Preismanipulationen wie 2008/2009 beim Ölpreis durch die Wall Street, als dieser von einem Rekordhoch von 147 Dollar pro Barrel auf unter 30 Dollar nur wenige Monate später gedrückt wurde. Diese Manipulationen hatten verheerende Folgen für Moskaus Einkünfte aus dem Erdölexport, und das genau zu dem Zeitpunkt, als die weltweite Finanzkrise auch russische Banken und Unternehmen von weiteren Krediten abschnitt.

Mit Janukowytsch als ukrainischem Präsidenten scheint nun der Weg frei für geregelte Verträge mit der russischen Gazprom über die Erdgasversorgung in der Ukraine und die Durchleitung nach Westeuropa. Genau die Hälfte der in der Ukraine verbrauchten Energie wird aus Erdgas erzeugt und der größte Teil davon, ca. 75 Prozent, stammt aus Russland. (3)

Jetzt scheint eine tragfähige Einigung zwischen der russischen und der ukrainischen Regierung über den Preis für das importierte russische Gas erreicht worden zu sein. Im Januar 2010 hat die Ukraine einem Gaspreis zugestimmt, der ähnlich hoch ist wie der in Westeuropa, gleichzeitig erhält sie jedoch von der russischen staatlichen Gazprom deutlich höhere Gebühren für die Durchleitung russischen Gases nach Westeuropa. Etwa 80 Prozent der russischen Gasexporte liefen bisher über die Ukraine. (4)

Das wird sich allerdings unter Russlands langfristiger Pipeline-Strategie drastisch ändern, die darauf abzielt, das Land in Zukunft weniger verwundbar durch politische Umwälzungen wie die Orangene Revolution 2004 in der Ukraine zu machen.

Die politische Bedeutung von Nord Stream

Nach der Orangenen Revolution in der Ukraine 2004 verfolgt Moskau die Strategie, die Pipelines nach Westen langfristig nicht mehr durch die Ukraine oder Polen zu führen. Deshalb wird die durch die Ostsee verlaufende Gaspipeline Nord Stream von Russland direkt nach Deutschland gebaut. Der polnische Außenminister Radek Sikorski ist ein in Washington ausgebildeter Neokonservativer. Als Verteidigungsminister war er zuvor maßgeblich an dem Abkommen über die Stationierung der amerikanischen Raketenabwehr beteiligt. Unter Sikorski ist Polen heute eng an die NATO gebunden, ein Aspekt davon ist die Zustimmung zu Washingtons einseitig provokativer Politik der Raketenstationierung. Außerdem versucht er immer wieder, bislang allerdings ohne Erfolg, den Bau der Nord Stream zu blockieren.

Nord Stream war für Russland besonders wichtig, so lange es so aussah, als ob es Washington gelänge, die Ukraine nach der Orangenen Revolution in die NATO zu ziehen. Heute ist die alternative Ostseepipeline für Russland aus anderen Gründen wichtig.

nordstream.jpgDie Nord-Stream-Gaspipeline verläuft von dem russischen Hafen Vyborg nahe St. Petersburg nach Greifswald in Norddeutschland durch die Ostsee in internationalen Gewässern, sie umgeht also sowohl die Ukraine als auch Polen. Als Nord Stream als Joint Venture der beiden deutschen Gasgesellschaften E.ON und BASF und der russischen Gazprom angekündigt wurde – mit dem ehemaligen Bundeskanzler Gerhard Schröder als Vorstand –, verglich Sikorski, damals polnischer Außenminister, das deutsch-russische Gasabkommen mit dem Pakt zwischen Molotow und Ribbentrop, dem 1939 geschlossenen Pakt zwischen Nazideutschland und der Sowjetunion, die damals Polen unter sich aufteilten. (5)

 Sikorskis Logik war vielleicht nicht so ganz präzise, das emotionale Bild dagegen sehr.

Ende 2009 genehmigten auch Schweden und Finnland nach Dänemark die Trassenführung für die Pipeline durch ihren Teil der Ostsee. Mit dem Bau des milliardenschweren Projekts soll im April dieses Jahres begonnen werden, die erste Gaslieferung ist für 2011 vorgesehen. Nach Fertigstellung einer zweiten Parallelpipeline, mit deren Bau 2011 begonnen werden soll, wird Nord Stream voraussichtlich 55 Milliarden Kubikmeter Gas pro Jahr durch die Pipelines leiten, nach Angaben auf der Website von Nord Stream genug, um 25 Millionen Haushalte in Europa mit Gas zu versorgen.

Da Nord Stream dann als wichtigste Lieferroute direkt von Russland zu den wichtigsten Kunden in Deutschland verläuft, und da ein stabiles Transitabkommen durch die Ukraine ausgehandelt worden ist, wird eine Unterbrechung der Gazprom-Lieferungen nach Nordeuropa sehr unwahrscheinlich. Durch Nord Stream wird Gazprom in die Lage versetzt, eine flexiblere Gas-Diplomatie zu betreiben, und Störungen der Lieferung, zu denen es in den vergangenen Jahren in der Ukraine wiederholt gekommen war, werden dann weniger Probleme bereiten.

Ende 2009 hat sich der russische Präsident Dmitri Medwedew in Minsk mit Vertretern aus Belarus (Weißrussland) getroffen, genau zu der Zeit, als Nord Stream die letzten politischen Hürden nahm. Medwedew sagte, Russland denke über den Bau eines zweiten Strangs der großen Jamal-Europa-Pipeline durch Belarus nach, falls es die Nachfrage in Europa erforderlich mache: »Ich bin überzeugt: je mehr Möglichkeiten für die Lieferung von russischem Gas nach Europa bestehen, desto besser für Europa und Russland.« (6)

Darüber hinaus hat Großbritannien soeben einen langfristigen Vertrag mit Gazprom für den Import von Gas über die Nord Stream unterzeichnet – auch das ist eine bedeutsame geopolitische Veränderung. Mehr als vier Prozent der Gasnachfrage sollen 2012 durch diese Lieferung gedeckt werden. Großbritannien wird damit von einem Netto-Gasexporteur zu einem Netto-Importeur. Gegenwärtig bestehen zusätzlich zu den Verträgen der Gazprom mit Deutschland und Großbritannien noch Lieferverträge mit Dänemark, den Niederlanden, Belgien und Frankreich, sie wird dadurch auf dem Energiemarkt der EU zu einem maßgeblichen Faktor.

 

___________

(1) »Eurogas (Europand Union of the National Gas Industry), Natural Gas Demand and Supply: Long-Term Outlook to 2030«, Brüssel 2007, unter: www.eurogas.org/.../Eurogas%20long%20term%20outlook%20to%202030%20-%20fina.

(2) Jim Nichol u.a., »Russia’s cutoff of Natural Gas to Ukraine: Context and Implications«, US Congressional Research Service Report for Congress, Washington, D.C., 15. Februar 2006.

(3) US Energieministerium, »Ukraine Country Analysis Brief, Energy Information Administration«, August 2007, Washington DC, unter http://www.eia.doe.gov/cabs/Ukraine/Full.html.

(4) »International Energy, Russia to supply 116 bn cm of gas to Europe via Ukraine in 2010«, Peking, 19. November 2009, unter http://en.in-en.com.

(5) Simon Taylor, »Why Russia's Nord Stream is winning the pipeline race«, 29. Januar 2009, EuropeanVoice.com, unter http://www.europeanvoice.com/article/imported/why-russia%E2%80%99s-nord-stream-is-winning-the-pipeline-race/63780.aspx.

(6) RIA Novosti, »Russia pledges 30–40% discount on gas for Belarus in 2010«, 23. November 2009, unter http://en.rian.ru.

 

Freitag, 26.03.2010

Kategorie: Geostrategie, Wirtschaft & Finanzen, Politik

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Rusia, clave de boveda del sistema multipolar

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RUSIA, CLAVE DE BÓVEDA DEL SISTEMA MULTIPOLAR

 de Tiberio Graziani *

 

El nuevo sistema multipolar está en fase de consolidación. Los principales actores son los EE.UU., China, India y Rusia. Mientras la Unión Europea está completamente ausente y nivelada en el marco de las indicaciones-diktat procedentes de Washington y Londres, algunos países de la América meridional, en particular Venezuela, Brasil, Bolivia, Argentina y Uruguay manifiestan su firme voluntad de participación activa en la construcción del nuevo orden mundial. Rusia, por su posición central en la masa eurasiática, por su vasta extensión y por la actual orientación imprimida a la política exterior por el tándem Putin-Medvedev, será, muy probablemente, la clave de bóveda de la nueva estructura planetaria. Pero, para cumplir con tal función epocal, tendrá que superar algunos problemas internos: entre los primeros, los referentes a la cuestión demográfica y la modernización del país, mientras, en el plano internacional, tendrá que consolidar las relaciones con China e India, instaurar lo más pronto posible un acuerdo estratégico con Turquía y Japón y, sobre todo, tendrá que aclarar su posición en Oriente Medio y en Oriente Próximo.

 

               Consideraciones sobre el escenario actual

 

Con el fin de presentar un rápido examen del actual escenario mundial y para comprender mejor las dinámicas en marcha que lo configuran, proponemos una clasificación de los actores en juego, considerándolos ya sea por la función que desempeñan en su propio espacio geopolítico o esfera de influencia, ya sea como entidades susceptibles de profundas evoluciones  en base a variables específicas.

El presente marco internacional nos muestra al menos tres clases principales de actores. Los actores hegemónicos, los actores emergentes y, finalmente, el grupo de los seguidores y de los subordinados. Por razones analíticas, hay que añadir a estas tres categorías una cuarta, constituida por las naciones que, excluidas, por diversos motivos, del juego de la política mundial, están buscando su función.

 

                        Los actores hegemónicos

 

Al primer grupo pertenecen los países que, por su particular postura geopolítica, que los identifica como áreas pivote, o por la proyección de su fuerza militar o económica, determinan las elecciones y las relaciones internacionales de las restantes naciones. Además, los actores hegemónicos influyen directamente también sobre algunas organizaciones globales, entre las cuales se encuentran el Fondo Monetario Internacional (FMI), el Banco Mundial (BM), y la Organización de las Naciones Unidas (ONU). Entre las naciones que presentan tales características, aunque con matices diversos, podemos contar a los Estados Unidos, China, India y Rusia.

La función geopolítica que actualmente ejercen los EE.UU. es la de constituir el centro físico y el mando del sistema occidental nacido al final de la Segunda Guerra Mundial. La característica principal de la nación norteamericana, con respecto al resto del planeta, está representada por su expansionismo, llevado a cabo con una particular agresividad y mediante la extensión de dispositivos militares a escala global. El carácter imperialista debido a su específica condición de potencia marítima le impone comportamientos colonialistas hacia amplias porciones de lo que considera impropiamente su espacio geopolítico (1). Las variables que podrían determinar un cambio de función de los EE.UU. son esencialmente tres: a) la crisis estructural de la economía neoliberal; b) la elefantiasis imperialista; c) las potenciales tensiones con Japón, Europa y algunos países de la América centro-meridional.

China, India y Rusia, en cuanto naciones-continente de vocación terrestre, ambicionan desempeñar sus respectivas funciones macro-regionales en el ámbito eurasiático sobre la base de una común orientación, por otra parte, en fase de avanzada estructuración. Tales funciones, sin embargo, están condicionadas por algunas variables entre las cuales destacamos:

 

a) las políticas de modernización;

b) las tensiones debidas a las deshomogeneidades sociales, culturales y étnicas dentro de sus propios espacios;

c) la cuestión demográfica que impone adecuadas y diversificadas soluciones para los tres países.

 

Por cuanto respecta a la variable referente a las políticas de modernización, observamos que, al estar estas demasiado interrelacionadas en los aspectos económico-financieros con el sistema occidental, de modo particular con los Estados Unidos, a menudo quitan a las naciones eurasiáticas la iniciativa en la arena internacional, las exponen a las presiones del sistema internacional, constituido principalmente por la triada ONU, FMI y BM (2) y, sobre todo, les imponen el principio de la interdependencia económica, histórico eje de la expansión económica de los EE.UU. En relación a la segunda variable, observamos que la escasa atención que Moscú, Pekín y Nueva Delhi prestan a la contención o solución de las respectivas tensiones endógenas ofrece a su antagonista principal, los Estados Unidos, la ocasión de debilitar el prestigio de los gobiernos y obstaculizar la estructuración del espacio eurasiático. Finalmente, considerando la tercera variable, apreciamos que políticas demográficas no coordinadas entre las tres potencias eurasiáticas, en particular entre Rusia y China, podrían a la larga crear choques para la realización de un sistema continental equilibrado.

Las relaciones entre los miembros de esta clase deciden las reglas principales de la política mundial.

En consideración de la presencia de hasta 4 naciones-continente (tres naciones eurasiáticas y una norteamericana) es posible definir el actual sistema geopolítico como multipolar.

 

                        Los actores emergentes

 

La categoría de los actores emergentes reagrupa, en cambio, a las naciones que, valorando particulares bazas geopolíticas o geoestratégicas, tratan de desmarcarse de las decisiones que les imponen uno o más miembros del restringido club del primer tipo. Mientras la finalidad inmediata de los emergentes consiste en la búsqueda de una autonomía regional y, por tanto, en la salida de la esfera de influencia de la potencia hegemónica, que ha de llevarse a cabo mediante articulados acuerdos y alianzas regionales, transregionales y extracontinentales, la finalidad estratégica está constituida por la participación activa en el juego de las decisiones regionales e incluso mundiales. Entre los países que asumen cada vez más la connotación de actores emergentes, podemos enumerar a Venezuela, Brasil, Bolivia, Argentina y Uruguay, la Turquía de Recep Tayyip Erdoğan, el Japón de Yukio Hatoyama y, aunque con alguna limitación, Pakistán. Todos estos países pertenecen, de hecho, al sistema geopolítico llamado “occidental”, guiado por Washington. El hecho de que muchas naciones de lo que, en el periodo bipolar, se consideraba un sistema cohesionado puedan ser hoy señaladas como emergentes y, por tanto, entidades susceptibles de contribuir a la constitución de nuevos polos de agregación geopolítica induce a pensar que el edificio puesto a punto por los EE.UU. y por Gran Bretaña, tal y como lo conocemos, está, de hecho, en vías de extinción o en una fase de profunda evolución. La creciente “militarización” que la nación guía impone a las relaciones bilaterales con estos países parece sustanciar la segunda hipótesis. La común visión continental de los emergentes sudamericanos  y la realización de importantes acuerdos económicos, comerciales y militares constituyen los elementos base para configurar el espacio sudamericano como futuro polo del nuevo orden mundial (3).

Los actores emergentes aumentan sus grados de libertad en virtud de las alianzas y de las fricciones entre los miembros del club de los hegemónicos así como de la conciencia geopolítica de sus clases dirigentes.

El número de los actores emergentes y su colocación en los dos hemisferios septentrionales (Turquía y Japón) y meridional (países latinoamericanos) además de acelerar la consolidación del nuevo sistema multipolar, trazan sus dos ejes principales: Eurasia y América indiolatina.

 

                        Los seguidores-subordinados y los subordinados

 

La designación de actores seguidores y subordinados, aquí propuesta, pretende subrayar las potencialidades geopolíticas de los pertenecientes a esta clase con respecto a su transición a las otras. Hay que calificar como seguidores-subordinados a los actores que consideran útil, por afinidad, intereses varios o por condiciones históricas particulares,  formar parte de la esfera de influencia  de una de las naciones hegemónicas. Los seguidores-subordinados reconocen al país hegemónico la función de nación-guía. Entre estos podemos mencionar, por ejemplo, la República Sudafricana, Arabia Saudí, Jordania, Egipto, Corea del Sur. Los subordinados de este tipo, dado que siguen a los EE.UU. como nación guía, a menos que surjan convulsiones provocadas o gestionadas por otros, compartirán su destino geopolítico. La relación que mantienen estos actores y el país hegemónico es de tipo, mutatis mutandis, vasallático.

En cambio, se pueden considerar completamente subordinados los actores que, exteriores al espacio geopolítico natural del país hegemónico, padecen su dominio. La clase de los países subordinados está marcada por la ausencia de una conciencia geopolítica autónoma o, mejor todavía, por la incapacidad de sus clases dirigentes de valorar los elementos mínimos y suficientes para proponer y, por tanto, elaborar una doctrina geopolítica propia. Las razones de esta ausencia son múltiples y variadas, entre estas podemos mencionar la fragmentación del espacio geopolítico en demasiadas entidades estatales, la colonización cultural, política y militar ejercida por la nación hegemónica, la dependencia económica hacia el país dominante, las estrechas y particulares relaciones que mantienen el actor hegemónico y las clases dirigentes nacionales, que, configurándose como auténticas oligarquías, están preocupadas más de su supervivencia que de los intereses populares nacionales que deberían representar y sostener. Las naciones que constituyen la Unión Europea entran en esta categoría, con excepción de Gran Bretaña por la conocida special relationship que mantiene con los EE.UU. (4).

La pertenencia de la Unión Europea a esta clase de actores se debe a su situación geopolítica y geoestratégica. En el ámbito de las doctrinas geopolíticas estadounidenses, Europa siempre ha sido considerada, desde el estallido de la Segunda Guerra Mundial, una cabeza de puente tendida hacia el centro de la masa eurasiática (5). Tal papel condiciona las relaciones entre la Unión Europea y los países exteriores al sistema occidental, en primer lugar, Rusia y los países de Oriente Próximo y de Oriente Medio. Además de determinar el sistema de defensa de la UE y sus alianzas militares, este particular papel influye, a menudo incluso profundamente, en la política interior y las estrategias económicas de sus miembros, en concreto, las referentes al aprovisionamiento de recursos energéticos (6) y de materiales estratégicos, así como las elecciones en materia de investigación y desarrollo tecnológico. La situación geopolítica de la Unión Europea parece haberse agravado ulteriormente con el nuevo curso que Sarkozy y Merkel han imprimido a las respectivas políticas exteriores, dirigidas más a la constitución de un mercado trasatlántico que al reforzamiento del europeo.

Las variables que, en el momento actual, podrían permitir a los países miembros de la Unión Europea pasar a la categoría de los emergentes tienen que ver con la calidad y el grado de intensificación de sus relaciones con Moscú en referencia a la cuestión del aprovisionamiento energético (North y South Stream), a la cuestión de la seguridad (OTAN) y a la política próximo y medio-oriental (Irán e Israel). Que lo que acabamos de escribir es algo posible lo demuestra el caso de Turquía. A pesar de la hipoteca de la OTAN que la vincula al sistema occidental, Ankara, apelando precisamente a las relaciones con Moscú en lo referente a la cuestión energética, y asumiendo, respecto a las directivas de Washington, una posición excéntrica sobre la cuestión israelo-palestina, está en el camino hacia la emancipación de la tutela americana (7).

Los seguidores y subordinados, debido a su debilidad, representan el posible terreno de choque sobre el que podrían confrontarse los polos del nuevo orden mundial.

 

Los excluidos

 

En la categoría de los excluidos entran lógicamente todos los otros estados. Desde un punto de vista geoestratégico, los excluidos constituyen un obstáculo a las miras de uno o más actores de los actores hegemónicos. Entre los pertenecientes a este grupo, asumen un particular relieve, con respecto a los EE.UU. y el nuevo sistema multipolar, Siria, Irán, Myanmar y Corea del Norte. En el marco de la estrategia estadounidense para cercar la masa eurasiática, de hecho, el control de las áreas que actualmente se encuentran bajo la soberanía de esas naciones representa un objetivo prioritario que ha de ser alcanzado a corto-medio plazo. Siria e Irán se interponen a la realización del proyecto norteamericano del Nuevo Gran Oriente Medio, es decir, al control total sobre la larga y amplia franja que desde Marruecos llega a las repúblicas centroasiáticas, auténtico soft underbelly de Eurasia; Myanmar constituye una potencial vía de acceso en el espacio chino-indio a partir del Océano Índico y un emplazamiento estratégico para el control del Golfo de Bengala y del Mar de Andamán; Corea del Norte, además de ser una vía de acceso hacia China y Rusia, junto al resto de la península coreana (Corea del Sur) constituye una base estratégica para el control del Mar Amarillo y del Mar del Japón.

Los excluidos más arriba citados, en base a las relaciones que cultivan con los nuevos actores hegemónicos (China, India, Rusia) y con algunos emergentes podrían entrar nuevamente en el juego de la política mundial y asumir, por tanto, un importante papel funcional en el ámbito del nuevo sistema multipolar. Este es el caso de Irán. Irán goza del status de país observador en el ámbito de la OTSC, la Organización del Tratado de Seguridad Colectiva, considerada por muchos analistas la respuesta rusa a la OTAN, y es candidato al ingreso en la Organización para la Cooperación de Shangai, entre cuyos miembros figuran Rusia, China y las repúblicas centroasiáticas. Además, tiene sólidas relaciones económico-comerciales con los mayores países de la América indiolatina.

 

                

                

               La reescritura de las nuevas reglas

 

Los países que pertenecen a la clase de los actores hegemónicos anteriormente descrita tratan de proyectar, por primera vez después de la larga fase bipolar y la breve unipolar, su influencia sobre todo el planeta con la finalidad de contribuir, con recorridos y metas específicas, a la realización de la nueva configuración geopolítica global. A finales de la primera década del siglo XXI se asiste, por tanto, al retorno de la política mundial, articulada esta vez en términos continentales (8). La puesta en juego está constituida, no sólo por el acaparamiento de los recursos energéticos y de las materias primas, por el dominio de importantes nudos estratégicos, sino, sobre todo, considerando el número de actores y la complejidad del escenario mundial, por la reescritura de nuevas reglas. Estas reglas, resultantes de la delimitación de nuevas esferas de influencia, definirán, con toda probabilidad durante un largo periodo, las relaciones entre los actores continentales y, por tanto, también un nuevo derecho. No ya un derecho internacional exclusivamente construido sobre las ideologías occidentales, sustancialmente basado en el derecho de ciudadanía como se ha desarrollado a partir de la Revolución Francesa y en el concepto de estado-nación, sino un derecho que tenga en cuenta las soberanías políticas tal y como se manifiestan y se estructuran concretamente en los diversos ámbitos culturales de todo el planeta.

Los Estados Unidos, aunque actualmente se encuentren en un estado de profunda postración causado por una compleja crisis económico-financiera (que ha evidenciado, por otra parte, las carencias y debilidades estructurales de la potencia bioceánica y de todo el sistema occidental), por el duradero impasse militar en el teatro afgano y por la pérdida del control de vastas porciones de la América meridional,  prosiguen, sin embargo, en continuidad con las doctrinas geopolíticas de los últimos años, con la acción de presión hacia Rusia, área geopolítica que constituye su verdadero objetivo estratégico con  vistas a la hegemonía planetaria. En el momento actual, la desestructuración de Rusia, o, por lo menos, su debilitamiento, representaría para los Estados Unidos, no sólo un objetivo que persigue al menos desde 1945, sino también una ocasión para ganar tiempo y poner remedios eficaces para la solución de su propia crisis interna y para reformular el sistema occidental.

Precisamente, teniendo bien presente tal objetivo, resulta más fácil interpretar la política exterior adoptada recientemente por la administración Obama con respecto a Pekín y Nueva Delhi. Una política que, aunque tendente a recrear un clima de confianza entre las dos potencias euroasiáticas y los Estados Unidos, no parece dar en absoluto los resultados esperados, a causa del excesivo pragmatismo y de la exagerada ausencia de escrúpulos que parecen caracterizar tanto al presidente Barack Obama como a su Secretaria de Estado, Hillary Rodham Clinton. Un ejemplo de esa ausencia de escrúpulos y del pragmatismo, así como de la escasa diplomacia, entre otros muchos, es el referente a las relaciones contrastantes que Washington ha mantenido recientemente con el Dalai Lama y con Pekín.

Tales comportamientos, dadas las condiciones de debilidad en que se encuentra la ex hyperpuissance, son un rasgo del cansancio y del nerviosismo con que el actual liderazgo estadounidense trata de enfrentarse y taponar el progresivo ascenso de las mayores naciones eurasiáticas y la reafirmación de Rusia como potencia mundial. Las relaciones que Washington cultiva con Pekín y Nueva Delhi trascurren por dos vías. Por un lado, sobre la base del principio de interdependencia económica y mediante la ejecución de específicas políticas financieras y monetarias, los EE.UU. tratan de insertar a China e India en el ámbito del que denominan como sistema global. Este sistema, en realidad, es la proyección del occidental a escala planetaria, ya que las reglas en las que se basaría son precisamente las de este último. Por otro lado, a través de una continua y apremiante campaña denigratoria, la potencia estadounidense trata de desacreditar a los gobiernos de las dos naciones eurasiáticas y de desestabilizarlas, sirviéndose de sus  contradicciones y de sus tensiones internas. La estrategia actual es sustancialmente la versión actualizada de la política llamada de congagement (containment, engagement), aplicada, esta vez, no sólo a China sino también, parcialmente, a India.

Sin embargo, hay que subrayar que el dato cierto de esta administración demócrata, que tomó posesión en Washington en enero de 2009, es la creciente militarización con la que tiende a condicionar las relaciones con Moscú. Más allá de la retórica pacifista, el premio Nobel Obama, de hecho, sigue, con la finalidad de alcanzar la hegemonía global, las líneas-guía trazadas por las precedentes administraciones, que se reducen, de forma sumamente sintética, a dos: a) potenciación y extensión de las guarniciones militares; b) balcanización de todo el planeta según parámetros  étnicos, religiosos y culturales.

rusland_retreat.jpgAnte la clara y manifiesta tendencia de los EE.UU. hacia el dominio global –en los últimos tiempos marcadamente sustentada por el corpus ideológico-religioso veterotestamentario (9) más que por un cuidadoso análisis del momento actual que llevase la impronta de la Realpolitik –China, India y Rusia, al contrario, parecen ser bien  conscientes de las condiciones actuales que les llaman a una asunción de responsabilidades tanto a nivel continental como global. Tal asunción parece desarrollarse mediante acciones tendentes a la realización de una mayor y mejor articulada integración eurasiática así como mediante el apoyo de las políticas pro-continentales de los países sudamericanos.

 

                        La centralidad de Rusia

 

La reencontrada estatura mundial de Rusia como protagonista del escenario global impone algunas reflexiones de orden analítico para comprender su posicionamiento tanto en el ámbito continental como global, así como también las variables que podrían modificarlo a corto y medio plazo.

Mientras en relación a la masa euroafroasiática, la función central de Rusia como su heartland, tal y como fue sustancialmente formulada por Mackinder, es nuevamente confirmada por el actual marco internacional, más problemática y más compleja resulta, en cambio, su función en el proceso de consolidación del nuevo sistema multipolar.

 

Espina dorsal de Eurasia y puente eurasiático entre Japón y Europa

 

Los elementos que han permitido a Rusia reafirmar su importancia en el contexto eurasiático, muy esquemáticamente, son:

a)      reapropiación por parte del Estado de algunas industrias estratégicas;

b)      contención de los impulsos secesionistas;

c)      uso “geopolítico” de los recursos energéticos;

d)     política dirigida a la recuperación del “exterior próximo”;

e)      constitución del partenariado Rusia-OTAN, como mesa de discusión destinada a contener el proceso de ampliación del dispositivo militar atlántico;

f)       tejido de relaciones a escala continental, orientadas a una integración con las repúblicas centroasiáticas, China e India;

g)      constitución y cualificación de aparatos de seguridad colectiva (OTCS y OCS).

 

Si la gestión, antes de Putin y ahora de Medvedev, del agregado de elementos más arriba considerados ha mostrado, en las presentes condiciones históricas, la función de Rusia como espina dorsal de Eurasia, y, por tanto, como área gravitacional de cualquier proceso orientado a la integración continental, sin embargo, no ha puesto en evidencia su carácter estructural, importante para las relaciones ruso-europeas y ruso-japonesas, es decir, el de ser el puente eurasiático entre la península europea y el arco insular constituido por Japón.

Rusia, considerada como puente eurasiático entre Europa y Japón, obliga al Kremlin a una elección estratégica decisiva para los desarrollos del futuro escenario mundial: la desestructuración del sistema occidental. Moscú puede conseguir tal objetivo con éxito, a medio y largo plazo, intensificando las relaciones que cultiva con Ankara por cuanto respecta a las grandes infraestructuras (South Stream) y poniendo en marcha otras nuevas con respecto a la seguridad colectiva. Acuerdos de este tipo provocarían ciertamente un terremoto en toda la Unión Europea, obligando a los gobiernos europeos a tomar una posición neta entre la aceptación de una mayor subordinación a los intereses estadounidenses o la perspectiva de un partenariado euro-ruso (en la práctica, eurasiático, considerando las relaciones entre Moscú, Pekín y Nueva Delhi), que respondiera en mayor medida a los intereses de las naciones y de los pueblos europeos (10). Una iniciativa análoga debería ser tomada por Moscú con respecto a Japón, incluyéndose como socio estratégico en el contexto de las nuevas relaciones entre Pekín y Tokio y, sobre todo, poniendo en marcha, siempre junto a China, un proceso apropiado de integración de Japón en el sistema de seguridad eurasiático en el ámbito de la Organización para la Cooperación de Shangai (11).

 

Clave de bóveda del nuevo orden mundial

 

Con respecto al nuevo orden mundial, Rusia parece poseer los elementos base para cumplir una función epocal, la de clave de bóveda de todo el sistema. Uno de los elementos está constituido precisamente por su centralidad en el ámbito eurasiático como hemos expuesto anteriormente, otros dependen de sus relaciones con los países de la América meridional, de su política en Oriente Próximo y en Oriente Medio y de su renovado interés por la zona ártica. Estos cuatro factores resultan problemáticos ya que están estrechamente ligados a la evolución de las relaciones existentes entre Moscú y Pekín. China, como se sabe, ha estrechado, al igual que Rusia, sólidas alianzas económico-comerciales con los países emergentes de la América indiolatina, lleva en Oriente Medio y en Oriente Próximo una política de pleno apoyo a Irán y, además, manifiesta una gran atención por los territorios siberianos y árticos (12). Considerando lo que acabamos de recordar, si las relaciones entre Pekín y Moscú se desarrollan en sentido todavía más acentuadamente eurasiático, prefigurando una especie de alianza estratégica entre los dos colosos, la consolidación del nuevo sistema multipolar se beneficiará de una aceleración, en caso contrario, sufrirá una ralentización o entrará en una situación de estancamiento. La ralentización o el estancamiento proporcionarían el tiempo necesario para que el sistema occidental pudiera reconfigurarse y volviera a entrar, por tanto, en el juego en las mismas condiciones que los otros actores.

 

El nudo gordiano de Oriente Próximo y de Oriente Medio – la obligación de una elección de campo

 

Entre los elementos más arriba considerados, referentes a la función global que Rusia podría desempeñar, la política próximo y medio-oriental del Kremlin parece ser la más problemática. Esto es así a causa de la importancia que este tablero representa en el marco general del gran juego mundial y por el significado particular que ha asumido, a partir de la crisis de Suez de 1956, en el interior de las doctrinas geopolíticas estadounidenses. Como se recordará, la política rusa, o mejor, soviética, en Oriente Próximo, después de una primera orientación pro-sionista de los años 1947-48, que, por otra parte, se extendió hasta febrero de 1953, cuando se consumó la ruptura formal entre Moscú y Tel Aviv, se dirigió decididamente hacia el mundo árabe. En el sistema de alianzas de la época, el Egipto de Nasser se convirtió en el país central de esta nueva dirección del Kremlin, mientras el neo-estado sionista representó el special partner de Washington. Entre altibajos, Rusia, tras la licuefacción de la URSS, mantuvo esta orientación filo-árabe, aunque con algunas dificultades. En el cambiado marco regional, determinado por tres acontecimientos principales: a) inserción de Egipto en la esfera de influencia estadounidense; b) eliminación de Irak; c) perturbación del área afgana que atestiguan el retroceso de la influencia rusa en la región y el contextual avance, también militar, de los Estados Unidos, el país central de la política próximo y medio-oriental rusa está lógicamente representado por la República Islámica de Irán.

Mientras esto ha sido ampliamente comprendido por Pekín, en el marco de la estrategia orientada a su reforzamiento en la masa continental euroafroasiática, no se puede decir lo mismo de Moscú. Si el Kremlin no se da prisa y declara abiertamente su elección de campo a favor de Teherán, disponiéndose de esa manera a cortar el nudo gordiano que constituye la relación entre Washington y Tel Aviv, correrá el riesgo de anular su potencial función en el nuevo orden mundial.

 

* Director de Eurasia. Rivista di studi geopolitici – www.eurasia-rivista.org - direzione@eurasia-rivista.org

 

(Traducido por Javier Estrada)

 

 

1. El sistema occidental, tal y como se ha afirmado desde 1945 hasta nuestros días, está estructuralmente compuesto por dos principales espacios geopolíticos distintos, el angloamericano y el de la América indiolatina, a los que se añaden porciones del espacio eurasiático. Estas últimas están constituidas por Europa (península eurasiática y cremallera euroafroasiática) y por Japón (arco insular eurasiático). La América indiolatina, Europa y Japón han de ser considerados, por tanto, en relación al sistema « occidental », más propiamente, como esferas de influencia de la potencia del otro lado del Océano.

2. La ONU, el FMI y el BM, en el ámbito de la confrontación entre el  sistema occidental guiado por los EE.UU. y las potencias eurasiáticas, de hecho, desempeñan la función de dispositivos geopolíticos por cuenta de Washington.

3. Por cuanto respecta al redescubrimietno de la vocación continental de la América centromeridional en el ámbito del debate geopolítico, madurado en relación a la oleada globalizadora de los últimos veinte años, nos remitimos, entre otros, a los trabajos de Luiz A. Moniz Bandeira, Alberto Buela, Marcelo Gullo, Helio Jaguaribe, Carlos Pereyra Mele, Samuel Pinheiro Guimares, Bernardo Quagliotti De Bellis; señalamos, además, la reciente publicación de Diccionario latinoamericano de seguridad y geopolitíca (dirección editorial a cargo de Miguel Ángel Barrios), Buenos Aires 2009.

4. Luca Bellocchio, L'eterna alleanza? La special relationship angloamericana tra continuità e mutamento, Milán 2006.

5. Por motivaciones geoestratégicas análogas, siempre referentes al cerco de la masa eurasiática, los EE.UU. consideran Japón una de sus cabezas de puente, muy semejante a la europea.

6. En el específico sector del gas y del petróleo, la influencia estadounidense y, en parte, británica determinan la elección de los miembros de la UE respecto a sus socios extra-europeos, a las rutas para el transporte de los recursos energéticos y la proyección de las consiguientes infraestructuras.

7. Un enfoque teórico referente a los procesos de transición de un Estado de una posición de subordinación a una de autonomía respecto a la esfera de influencia en que se inscribe, ha sido recientemente tratado por el argentino Marcelo Gullo en el ensayo La insubordinación fundante. Breve historia de la construcción  del poder de las naciones, Buenos Aires 2008.

8. A tal respecto, son significativos los llamamientos constantes de Caracas, Buenos Aires y Brasilia a la unidad continental. En el apasionado discurso de toma de posesión de la presidencia de Uruguay, que tuvo lugar en la Asamblea general del parlamento nacional el 1 de marzo de 2010, el recién elegido José Mujica Cordano, ex tupamaro, subrayó con vigor que “Somos una familia balcanizada, que quiere juntarse, pero no puede. Hicimos, tal vez, muchos hermosos países, pero seguimos fracasando en hacer la Patria Grande. Por lo menos hasta ahora. No perdemos la esperanza, porque aún están vivos los sentimientos: desde el Río Bravo a las Malvinas vive una sola nación, la nación latino-americana”.

9. Eso también en consideración de la  política “prosionista” que Washington lleva en Oriente Próximo y en Oriente Medio. Véase a tal propósito el largo ensayo de J. Mearsheimer e Stephen M. Walt, La Israel lobby e la politica estera americana, Milán, 2007 (Hay versión española, El lobby israelí, Taurus, 2007).

10. Una hipótesis de partenariado euro-ruso, basado en el eje París-Berlín-Moscú, fue propuesto en un contexto diverso del actual en el brillante ensayo de Henri De Grossouvre, Paris, Berlin, Moscou. La voie de la paix et de l’independénce, Lausana 2002.

11. La ampliación de las estructuras continentales (globales en el caso de la OTAN) de seguridad y defensa parece ser el índice del grado de consolidación del sistema multipolar. Además de la OTAN, la OTSC y las iniciativas en el ámbito de la OCS, hay que recordar también el Consejo de Defensa Suramericano (CDS) de  la Unión de Naciones Suramericanas (UNASUR).

12. Linda Jakobson, China prepares for an ice-free Arctic, Sipri Insights on Peace and Securiry, no. 2010/2 Marzo 2010.

 

vendredi, 26 mars 2010

Energie voor Europa: het belang van goede banden met Rusland en Iran

EnergieHet internationale grootkapitaal is ambitieus. Het wil zoveel als mogelijk haar macht uitbreiden. Elkeen die in de weg staat, moet “geneutraliseerd” worden . Na pogingen in Servië, Georgië, Oekraïne, Kirgizië, Oezbekistan, Irak en anderen is nu Iran aan de beurt. Het gebruikte trukje is eenvoudig. Ofwel organiseert de CIA en aanverwante organisaties door aanvoer van letterlijk hele kisten vol dollars “spontane betogingen”, ofwel bombardeert men het land en zijn bevolking.

In het Midden-Oosten bevinden zich een paar landjes die niet zwichten voor de duivelse wellustige gulzigheid van het internationale grootkapitaal. Palestina en Syrië zijn bij ons even bekend als Iran.

De opkomst en groei van de BRIC-landen (Brazilië, Rusland, India en China) maken het leven van de Amerikaanse economische bovenlaag zuur. Heel wat olie- en gasreserves liggen in landen die de VS beschouwen als “kwaadaardig”.

De vraag naar olie en gas neemt wereldwijd toe. De energieproductie concentreert zich meer en meer op landen met grote reserves zoals Rusland, het Midden-Oosten, Iran, Venezuela, enzovoort. De grootste wereldeconomieën worden meer en meer afhankelijk van energie-invoer uit deze landen. De importafhankelijkheid stijgt tot boven de 80% voor de VS, de EU-landen, China en India. Net als de andere veelverbruikers Japan en Zuid-Korea zullen de Europese landen – uitgezonderd Rusland - zo goed als volledig afhankelijk worden van invoer. Met andere woorden : de importafhankelijkheid van 80% zal nog toenemen naar een getal dat zich niet ver van de 100% bevindt. Dit is een voor ons uitermate zwakke positie. Een ietsje meer Europese actie zou meer dan welkom zijn. Het valt op dat Europa er door middel van de alles verlammende Europese Unie passief bij staat.  

Er zijn een paar belangrijke geografische aspecten waar we rekening moeten mee houden : met Europa als continent (omdat wij nu eenmaal hier wonen); met de energieleveranciers en met energiecorridors (transport van energie). De belangrijkste vraag voor ons luidt : wie levert ons de nodige energie en langs welke wegen wordt deze tot bij ons gebracht ? De Europese landen zijn het aan zichzelf verplicht om het eigen belang voorop te stellen. Maar het gebeurt niet.

Iran en de Straat van Hormuz

Iran is net als Rusland een belangrijke energieleverancier.  Het land is echter totaal omsingels door VS-gezinde regeringen en de daarbijhorende Amerikaanse troepen zoals Saoudi-Arabië, Irak (waar de VS nu de door hun gebrachte chaos misbruiken om er aan de macht te zijn), Pakistan en het chaotische Afghanistan. Iets verder bevindt zich het oorlogszuchtige Israël. Rusland-Iran

Belangrijk voor olieuitvoer is de Straat van Hormuz. Deze 21 kilometer brede watercorridor verbindt de Perzische Golf (gelegen aan de zuidkust van Iran) met de Indische Oceaan.  Aan de andere kant van de Perzische golf liggen Saoudi-Arabië, de Verenigde Arabische Emiraten en in het verlengde van de Perzische Golf, de Golf van Oman, bevindt zich het Sultanaat Oman. In de geopolitiek wordt het belang van waterwegen nooit onderschat. De Straat van Hormuz is één van de drukst bevaarde waterwegen. Dagelijks passeren er 17 miljoen vaten olie en 31 miljoen ton vloeibaar gas. De productievolumes van de VS, Europa, Rusland en Azië zullen met de jaren afnemen waardoor de productie in het Midden-Oosten aan belang zal toenemen. Europese landen kunnen zich op deze veranderende situatie beter goed voorbereiden. Het Internationaal Energie Agentschap (IEA) voorspelt dat het olievervoer door de Straat van Hormuz  zal verdubbelen. Men schat dat er dagelijks spoedig 35 miljoen vaten per dag zullen passeren. Ook het gasvervoer zal er enorm toenemen. De Straat van Hormuz wint zienderogen aan belang als energiecorridor van de wereldeconomie. De goede verstaander begrijpt waarom de VS met alle macht deze regio helemaal in handen willen hebben en waarom ze niet opgezet zijn met het “lastige” Iran. De VS importeren via deze Straat dagelijks 2,5 miljoen vaten olie. De regio wordt voor een groot deel door de VS gecontroleerd. Zij beschouwen Iran als een “gevaar”. Iran bevindt zich in een perfecte strategische positie om er de doorgang van olie en gas te bedreigen. Iraanse leiders hebben al gedreigd de olietransporten te verhinderen indien het land wordt aangevallen. Israël zal een zware verantwoordelijkheid op zich nemen indien het zelf Iran aanvalt of de aanval aan de VS-troepen overlaat (via de almachtige Israel-lobby in de VS). De gevolgen van een aanval op Iran zullen het transport en de de prijs van de olie niet in het voordeel van de Europese consument doen evolueren.

Ook de Chinezen beschouwen de Amerikaanse dominantie van de Straat als een bedreiging. In dit kader werden er al contracten afgesloten met Abu Dhabi om de Straat van Hormuz te omzeilen en olie via pijpleidingen naar China te brengen. Hoofdaannemers zijn twee dochterfirma’s van het Chinese staatsbedrijf CNPC.

Oekraïne en de Zwarte Zee

De gasproductie neemt in Europa zienderogen af terwijl de vraag toeneemt. De aanvoer van gas naar Europa gebeurt hoofdzakelijk door pijpleidingen. Zuid-Europa wordt bevooraad via Noord-Afrika, Trinidad-Tobago en het Midden-Oosten. Noord-west Europa krijgt gas van Noorwegen en Rusland. Oost-Europa is helemaal afhankelijk van Russische aanvoer.

Geheel Europa is nu al voor 25% afhankelijk van Russisch gas. Hiervan komt 80% binnen via de Oekraïnse corridor en 20% via Wit-Rusland. De grote afhankelijkheid van de Oekraïnse corridor veroorzaakte veel ongemak bij de Europese landen en bij Rusland omdat het land tijdens de pro-westerse periode de pijpleidingen liet verrotten. Hierdoor vermindert de doorvoer van gas jaarlijks aanzienlijk. De winsten op transitvergoedingen verdwenen veelal in diepe zakken terwijl er zo goed als geen onderhoud werd gedaan. Het is in het belang van alle  partijen (West-Europa, Oekraïne en Rusland) dat de huidige nieuwe regering onder Janoekovitsj  orde schept, de corruptie aanpakt, en mee kan bijdragen aan het bevorderen van goede relaties tussen Rusland, Oekraïne en de Europese landen.

De Europese landen en Rusland waren tot 2004 accoord dat er een Baltische pijpleiding van Rusland naar Duitsland moest komen. Deze zou gewoon door de Baltische Zee lopen. Nu heeft Europa geen zin meer omdat de Baltische landen en Polen dit plots niet meer zien zitten. De Baltische landen en Polen hebben een pattent op  “Russen pesten”.  Zij vrezen dat ze met de komst van de pijpleiding door zee niet meer over een “pest- en verhindermogelijkheden” beschikken. Ook vrezen ze vele transitinkomsten te missen. Een onbegrijpelijk anti-Russisch gedrag gezien deze landen extreem afhankelijk zijn van Russische energie. 

Om de problematische Oekraïnse corridor te omzeilen werken Russen en Italianen aan een nieuwe pijpleiding via de Zwarte Zee en Turkije. De Zwarte Zee is heel belangrijk voor Rusland. Het voert langs daar heel veel olie uit komende vanuit het Russische binnenland en Kaspische Zee. Deze pijpleiding vormt zware concurrentie voor de Nabucco-pijpleiding, die ooit bedoeld was om Iraans gas naar Europa te brengen. Ondanks het gegeven dat deze pijpleiding een verbinding legt tussen Iran en Azerbeidjan enerzijds en West-Europa anderzijds, hebben de VS de aanleg van deze lijn actief gesteund. Als dat geen bemoeienis is in onze zaken ! Gezien Iran niet zomaar naar de Atlantische pijpen danst, wilde men zich in het Atlantische kamp in andere Kaspische landen bevoorraden zoals Turkmenistanen Azerbeidjan. Maar Turkmeens gas wordt voornamelijk door de Russen opgekocht. Een deel dient voor de Russische markt, een ander deel(tje) wordt doorverkocht aan de rest van Europa.  De Europese landen strijden dus in twee blokken – Rusland tegenover de rest van Europa - om Kaspische energie. Intussen heeft ook China zijn geopolitieke belangen en plannen in de Kaspische regio laten zien.

De corridor van Xinjiang

De economische bonzen hebben allen hun oog laten vallen op Centraal-Azië. Japan had na de val van de Sovjet-Unie sterke ambities in die regio, ambities die het moest opbergen wegens politieke hinderpalen. China’s vraag naar meer en meer energie leidde naar het opdrogen van Chinese energietransporten naar Japan.

Centraal-Aziatische grondstoffen dragen bij aan de verdere ontwikkeling van Oost-Azië. Chinese energiebedrijven trachten de energierijke Chinese regio Xinjiang te integreren met de omgeving. Sinds 2006 stroomt er olie van Kazachtstan naar China. Deze pijleidingen zullen door getrokken worden naar de olierijke Kaspische Zee-regio. China sloot ondertussen overeenkosten met Oezbekistan, Turkmenistan en Kazachstan. Verder hebben de Russen een plan om gas uit West-Siberië over het Altajgebergte naar Xinjiang te voeren.  De Russen hebben steeds een grote voorkeur gehad om met Europa zaken te doen, maar de EU heeft onder Amerikaanse druk Ruslands uitgestoken hand steeds geweigerd. De Russen zijn niet van gisteren en besluiten dan maar om zich op hun eigen achtertuin te wenden : Centraal-Azië en China. Dit scenario komt sterk overeen met wat het Amerikaanse grootkapitaal wenst : Rusland weghouden van de rest van Europa en verder richting Azië wegdringen.

Hoewel Xinjiang zelf 25 miljoen ton olie en 16 miljoen ton gas produceert, volstaat dit niet om de energienoden van de energieverslindende Chinese kust te bevredigen. Als energiecorridor naar Centraal-Azië en Rusland is Xinjiang in Noord-West China uitermate belangrijk.  De grens met Pakistan neemt ook aan belang toe. De Chinezen hebben al miljarden geïnversteerd in de Pakistaanse haven Gwadar, gelegen aan de Arabische Zee. Wie de kaart bekijkt, ziet dat de haven op amper 400 kilometer van de Straat van Hormuz ligt . De haven biedt toegang tot de Perzische Golf en de Zee van Oman. Midden-Oosterse en Afrikaanse energietransporten worden met dit strategisch punt enorm ingekort. Nu wordt er nog veel geïmporteerd via de Straat van Malakka. De Straat van Malakka is de belangrijkste route tussen de Indische Oceaan en de Stille Oceaan. Hier worden alle belangrijke Aziatische economieën (India, China, Japan, Zuid-Korea en Taiwan) met elkaar verbonden. Er varen jaarlijks meer dan 50.000 schepen doorheen. Men kan makkelijk begrijpen dat China deze drukke en voor hen lange route wil inkorten. Daarbij komt de moeilijkheid dat de Straat niet diep genoeg is – amper 25 meter -  om de zwaarste olietankers door te laten.

Het Panamakanaal

Het Panamakanaal is zeer belangrijk en hoofdzakelijk aangelegd voor de Amerikaanse economie. Het werd in 1914 aangelegd om de route tussen New York en San Francisco de helft korter te maken. Vandaag zien we dat het Panamakanaal een belangrijke energiecorridor vormt tussen Latijns-Amerika en Oost-Azië. Hugo Chavez, president van Venezuela en groot tegenstander van de VS, beschouwt het kanaal als primordiaal voor de ontwikkeling van de energisector van zijn land. Venezuela beschikt over zware olie en bevat potentieel veel olievelden. Het kan mettertijd de belangrijkste olieleverancier van de wereld worden. Chavez heeft terecht de hele energiesector genationaliseerd. De opbrengsten moeten aan het hele volk ten goede komen en niet aan enkelen, zoals bijvoorbeeld in de VS en in Rusland. Chinese en Russische bedrijven vervangen er de Amerikaanse. China importeert nu al duizenden tonnen olie uit Venezuela en wil het aantal opdrijven. Ook Japan heeft zijn zinnen op de Venezuelaanse olie gezet. Alle Latijns-Amerikaanse olie richting Azië wordt langs het Panamakanaal vervoerd. In 1999 droegen de VS de eigendomsrechten over het kanaal over aan Panama. Het bedrijf Hutchinson-Whampoa van de Hong Kong-Chinese oligarch Li Ka-Shing kocht zich een controlerend belang in waarmee hij meer specifiek beide kanten van het kanaal controleert. Hiermee zijn de Chinese belangen veilig gesteld.

De VS zijn wereldmijd oppermachtig. Maar er groeit concurrentie. Rusland kan steeds beter om met zijn energieproductie en de transitzones. China en India staan aan de deur te kloppen om in de hoogste afdeling mee te dingen naar de kampioenstitel.

Besluit :

China heeft begrepen wat de Europese landen niet willen begrijpen : het opkomen zonder limieten voor het eigen belang. Iran is het enige niet door de VS gedomineerd land in de olierijke Kaspische regio. De Chinezen weten dit en handelen er naar. De vandaag zeer passieve Europese landen staan voor de keuze : of blijven meeheulen met de VS, die ons al 65 jaar bezetten, ons Kosovo aan de hand heeft gedaan en Turkije aan ons been willen lappen, ofwel accoorden sluiten met vrije landen zoals Rusland, Iran en Venzuela. In het kader van een remigratiepolitiek is het trouwens steeds goed om met bepaalde landen goede banden te hebben.

De Europese landen hebben de mogelijkheid om wereldwijd een rol van belang te spelen. Om een rol van belang te spelen moet men eerst en vooral binnenlands stevig op de benen staan. De Europese Unie is een nefaste contructie die best wordt opgeheven. In de plaats kan een verbond (overlegorgaan) komen van vrije landen en volkeren. De EU is één van de verlengstukken van de NAVO, die op zijn beurt de militaire arm is van het internationale grootkapitaal. De NAVO strijdt niet voor een rechtvaardige wereld – want dan zouden ze Israël moeten aanvallen – maar voor de economische belangen van een bepaalde economische kaste.

De Lage Landen zijn volledig importafhankelijk wat betreft primordiale levensbehoeften : voedsel en energie. Onze landbouw wordt doelbewust ten voordele van Amerikaanse genetisch gemanipuleerde import vernietigd. Energie uit fossiele brandstoffen hebben we opgegeven. Onze Europese politici hebben ons lot verbonden aan dat van de goede wil van de VS. De VS hebben echter een eigen politieke agenda : Europa zo veel mogelijk verzwakken. Zij beschouwen ons nog steeds als een gevaarlijke potentiële concurrent.

In afwachting van de ontbinding van de Europese Unie (als instituut) en de oprichting van een Europees overlegorgaan, kunnen de lage Landen best nu al uit de EU stappen. Dan kunnen we zelf vrij en ongebonden akkoorden sluiten met Rusland, Iran, Venezuela en andere belangrijke geopolitieke gebieden en landen.

Kris Roman
N-SA coördinator Buitenlandse Contacten

N-SA coördinator geopolitieke denktank "Euro-Rus"

jeudi, 18 mars 2010

Une analyse dissonante de la décennie postsoviétique

Une analyse dissonante de la décennie postsoviétique


Je vous traduis ci-dessous un texte de Sublime Oblivion, l'étude est très intéressante et va bien à l'encontre des aprioris que nos médias nous donnent sur l'espace Eurasien.

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Cela fait 20 ans que l'URSS a disparue et que les pays de l'ex bloc de l'est sont devenues des acteurs à part entière de l'économie de marché. Cela fait 20 ans que l'on nous présente ses pays divisés en 3 groupes principaux, ceux qui ont parfaitement réussis leur transition démocratique et libérale (les tigres Baltes), et les autres, soit des états qui seraient des états socialistes de marché (Biélorussie) et ceux qui seraient des économies fondées uniquement sur les matières premières (Russie).

Sublime Oblivion a utilisé de nombreuses sources (les statistiques de Angus Madison, les chiffres de la CIA et les projections du FMIpour 2010 afin de créer un nouvel indice : "Indice post soviétique de l'analyse de l'évolution du produit intérieur brut annuel par habitant, en parité de pouvoir d'achat (PPA)", cet indice est basé sur une référence départ de "100" pour l'année 1989 (chute du mur). 
De façon "surprenante", la Biélorussie, nation décriée et que l'on nous fait passer pour une économie 1/3 mondiste et une dictature politique, cette économie socialiste de marché est plus productive qu'elle ne l'était en 1989 et devance largement ses pairs de l'espace post soviétique. En outre, la Biélorussie reste un des états les plus "équilibrés socialement" du monde. Après le chaos des années 90 (suite à la chute du mur) l'économie Biélorusse s'est bien redressée (bénéficiant certes de ressources pétrolières à bas prix par le voisin et ami Russe) mais également sachant parfaitement développer une industrie assez efficace (tracteurs, frigidaires, camions, réfrigérateurs, produits électroniques ..) dont la production est écoulée dans tout l'espace Eurasiatique. Evidemment, l'évolution part d'assez bas, la Biélorussie était un des états les plus pauvres du monde industrialisé et si le pays est attractif pour les retraités et les pensionnaires (les pensions y sont par exemple plus élevées qu'en Russie) ce n'est pas (encore?) un état jugé attractif pour les jeunes européens.
Les tigres Baltes ont subi une très forte croissance dans les années 2000 et cela jusqu'en aout 2008. Ces états que l'on nous présentait comme des modèles de stabilité et de démocratie (sauf pour les 30% de citoyens Russophones) ont en effet attirés les investissements financiers étrangers et finalisés et réussis leur intégration dans l'UE. Et puis dès le début de la crise, les investisseurs ont pris peur et les crédits ont été retirés du pays. Dès lors le château de cartes d'est effondré. Les états Baltes ont été de loin les états les plus touchés en Europe par la crise économique. Leur totale fragilité et l'illusoire solidité économique est alors apparue au grand jour. Aujourd'hui les pronostics les plus optimistes envisagent un retour à la situation de 2007 au mieux 2014 (!). D'ici la il est plausible que les états subissent une grosse émigration de population, tout comme l'Ukraine, vers l'ouest mais aussi vers la Russie ce qui à terme renforcerait le poids politique / économique de la Russie dans ces différents pays.
La Russie justement, à de loin la plus importante économie de la région post soviétique.  Suite à cela, on peut différencier 2 périodes différentes :1989 - 1999 : un tzar faible (Eltsine) était soumis à de puissants Boyards (les Oligarques) qui défendaient chacun leurs intérêts (personnels) mais surtout une vision politique (en partie dictée de l'étranger) : ne pas permettre de retour à un pouvoir politique fort (qui les auraient empêcher de piller le pays) et surtout empêcher le retour des communistes au pouvoir (afin de pouvoir se présenter comme rempart contre ces derniers devant l'Occident et ainsi justifier leur existence).
2000 -..... : un tzar fort a repris le pouvoir et inversé les tendances. Grâce à un retour en force du politique et en bénéficiant du prix élevés des matières premières, ce tzar fort (poutine) a relancé la machine économique et transformé les boyards insoumis en servants dociles ou en les neutralisant complètement.
Bien sur la performance économique de la Russie est insuffisante encore aujourd'hui mais c'est le pays qui revient du plus loin et la décennie Poutine à sauvé le pays du néant et de la catastrophe, ce qui aurait déstabilisé tous les pays voisins. En outre la Russie, comme les pays Baltes était déjà relativement industrialisée et n'a donc pas pu bénéficier d'une croissance ultra forte comme les pays Baltes (investissements financiers bien plus faible) ou la Biélorussie (croissance par une industrialisation forte).  les lecteurs doivent bien comprendre que pendant la première partie de son règne, le pouvoir Russe n'a pas pu se focaliser sur le développement économique mais sur empêcher l'implosion du pays. Il est relativement accepté aujourd'hui que Poutine a empêché l'effondrement mais que c'est Medvedev qui va désormais guider la barque et se charger de la modernisation du pays.

Il a été dit partout que la Russie allait s'effondrer et que la crise allait la frapper de plein fouet. Pourtant j'ai répété ci et la que la crise a touché la Russie "avant" les pays Occidentaux, les sorties de capitaux (poussés par les Américains dès la crise en Georgie) et la baisse des matières premières, ainsi que l'effondrement boursier ayant commencé dès le mois d'aout 2008. Il n'est pas secret non plus que la très grande majorité des gros groupes Russes (d'état notamment) avaient concocté des crédits auprès de banques et d'organismes de crédits Occidentaux et Américains et que les marchés émergents ont été les premiers touchés par les "coupures" de crédits par ces mêmes organismes lorsque la crise a commencé a réellement se faire sentir. Dès lors les coup bas des spéculateurs ont contribué à affaiblir la Russie. Pourtant la Russie se trouve aujourd'hui dans une situation bien meilleure que ses voisins et tous les pronostics sérieux envisagent une sortie de crise pour ce premier trimestre, voir une croissance relativement fortepour l'année 2010 en Russie. Sa solidité politique et ses énormes réserves de change (les 3ièmes au monde) sont en effet deux atouts majeurs pour les années qui viennent (lire à ce sujet cette analyse sur la crise en Russie).
La pire performance de l'espace post soviétique vient de l'Ukraine que l'on nous montre depuis 2005 comme éventuel futur membre de l'UE (!). Pourtant, jusque dans les années 2004, 2005 ce pays était dans la situation de la Biélorussie et recevait autant de gaz à très bas prix que la Biélorussie. Sa position proche de l'UE (via la Pologne marché en plein développement) est également un "plus" non négligeable. En outre le pays à depuis 2005 les faveurs de l'UE et des Occidentaux (Américains en tête, surtout depuis la révolution Orange), alors comment se fait il que ce pays soit moins dynamique que ses voisins ?La raison essentielle est que l'Ukraine n'a jamais réellement décollé ni quitté ses réflexes désastreux des années 90. Cet problème grave d'identité qui frappe le peuple (tiraillé entre son est orthodoxe et son Ouest "uniate") à de graves conséquences. Tout d'abord il enlève toute légitimité (à hauteur de 50%) à tous les politiques (d'ou la faiblesse du Tzar Ukrainien de l'après chute du mur). Cette absence de stabilité politique empêche tout investissement étranger, notamment dans sa partie pauvre et Occidentale, pro Européenne, alors que son est riche et industriel bénéficie lui des crédits et des investissements Russes. C'est une des raisons de l'échec des Orangistes, qui en plus totalement fait cesser la croissance (jusque la pourtant à 2 chiffres), d'avoir ruiné l'état en tentant d'appliquer des réformes libérales sous forme d'un copié collé archaïque, ont laissé une corruption "bien plus" endémique qu'en Russie ou dans les autres états de l'espace post Soviétique, tout en coupant une partie de population de ses racines et de liens amicaux avec son créditeur le plus puissant et le mieux disposé : la Russie. Peut être que l'élection de Ianoukovitch est la meilleure chose qui puisse arriver à ce pays, a savoir un nouveau tzar (moins faible) car adoubé par et l'est et l'ouest et qui tente de replacer l'Ukraine la ou elle doit être, hors de l'OTAN, hors d'une UE ruinée et en décomposition, et dans le nouvel espace douanier Eurasiatique en construction.

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Ci dessous un schéma des autres principales économies (moins développées) d'ex URSS.
L'Azerbaijan est en tête de ces pays, principalement grâce au développement de sa production pétrolière, qui a été multipliée par cinq depuis le début des années 2000. L'utilisation des revenus de ces matières premières à largement contribué à la hausse des revenus / habitants. Une explication identique prévaut pour le Kazakhstan, dont l'évolution de 1991 à 2010 est une croissance supérieure à la Russie (la production de pétrole du Kazakhstan à été multipliée par 4 entre 1991 et 2008). 
En comparaison, la Russie ne produit que 22.6% d'énergie combustible de plus en 2008 que en 1992. La production de pétrole a atteint son apogée en 1998 (11,5 millions de barrels) et à baissé en 1992 (7,8 millions de barrels) pour remonter en 2008 (9,8 millions de barrels).  Des facteurs géologiques mais également politiques (affaire Youkos) ont contribué à ce fait. Depuis le milieu des années 2000, la croissance repose grandement sur une croissance intérieure stimulée par la grande distribution, les transports, la production et la finance ..).

L'Arménie a également connu une croissance relativement forte malgré l'absence de ressources naturelles et une situation géographique difficile notamment un voisinage Turque hostile, un conflit militaire avec un autre voisin hostile, l'Azerbaïdjan, une frontière avec une Georgie s'éloignant de la Russie et au sud l'Iran. (Il est facile d'imaginer que la très forte diaspora Arménienne à travers le monde a contribué à financer l'économie nationale et cela un peu sur le modèle Chypriote ou Libanais).
La Georgie n'a pas de résultats très probants. Le dynamisme de la révolution des roses a été un peu plus fort que après la révolution Orange en Ukraine mais le résultat est très faible pour une nation partant de très bas. Le comparatif avec l'Arménie est sans pitié, et la Georgie ne peut que se contenter d'un mieux que la Moldavie, qui n'est pas une référence en soi. Selon l'analyse de Irakli Rukhadze and Mark Hauf, la Georgie depuis 2003 a en effet été victime d'une émigration massive, d'une hausse de la pauvreté conséquente, accompagnée et poussée par une désindustrialisation violente. La corruption d'état y règne selon les auteurs, le gouvernement faisant payer les business indépendants (de l'état) pour leur éviter toutes poursuites. Cette pression politique n'est pas le fait de la Georgie, elle est relativement présente dans l'ex espace soviétique, néanmoins concernant la Georgie on peut se poser la question de l'image qu'on souhaite en donner dans les médias Occidentaux et la réalité du terrain.
Enfin l'Ouzbékistan a connu une croissance et une évolution bien meilleure que le Tajikistan. L'Ouzbékistan est pourtant une économie non réformée, autoritaire (bien plus que la Biélorussie) mais qui part vraiment de très bas. Le Tadjikistan a lui subi une terrible guerre civile dans les années 1990 (entre communistes et Islamistes) qui a tué près de 100.000 personnes et aujourd'hui c'est le pays le moins avancé de l'espace post soviétique en ce qui concerne la transition démographique (revenu utilisé / nouveau né). Le Kyzgyzstan se situe entre l'Ouzbékistan et le Tajikistan, les résultats du Turkménistan sont eux du niveau de l'Ouzbékistan, je rappelle à mes lecteurs que le Turkménistan est un régime politique très autoritaire et stable qui base ses revenus sur le pétrole et le gaz (5ème producteur au monde) mais également le coton.
L'avenir ?
La Russie a un plan de modernisation, et le ressources financières, administratives et humaines pour le mener à bien, ainsi que la volonté politique nécessaire. Il est plausible que si le pouvoir se maintient dans ces états, la Russie, la Biélorussie et le Kazakhstan continueront à connaître des taux de croissances élevés et un fort développement économique. Ces états ont un fort capital humain et semblent travailler en commun, comme le démontre la récente union douanière. Il est plausible et même certain que l'Ukraine rejoigne cet ensemble Eurasien dans les prochaines années.

jeudi, 11 mars 2010

New Article on Dugin

duginssssxxx.jpgNew article on Dugin

Ex: http://traditionalistblog.blogspot.com/
Anton Shekhovtsov, "Aleksandr Dugin’s Neo-Eurasianism: The New Right à la Russe," Religion Compass 3/4 (2009): 697–716

Abstract:
Russian political thinker and, by his own words, geopolitician, Aleksandr Dugin, represents a comparatively new trend in the radical Russian nationalist thought. In the course of the 1990s, he introduced his own doctrine that was called Neo-Eurasianism. Despite the supposed reference to the interwar political movement of Eurasianists, Dugin’s Neo-Eurasian nationalism was rooted in the political and cultural philosophy of the European New Right. Neo-Eurasianism is based on a quasi-geopolitical theory that juxtaposes the ‘Atlanticist New World Order’ (principally the US and the UK) against the Russia-oriented ‘New Eurasian Order’. According to Dugin, the ‘Atlanticist Order’ is a homogenizing force that dilutes national and cultural diversity that is a core value for Eurasia. Taken for granted, Eurasia is perceived to suffer from a ‘severe ethnic, biological and spiritual’ crisis and is to undergo an ‘organic cultural-ethnic process’ under the leadership of Russia that will secure the preservation of Eurasian nations and their cultural traditions. Neo-Eurasianism, sacralized by Dugin and his followers in the form of a political religion, provides a clear break from narrow nationalism toward the New Right ethopluralist model. Many Neo-Eurasian themes find a broad response among Russian high-ranking politicians, philosophers, scores of university students, as well as numerous avant-garde artists and musicians. Already by the end of the 1990s, Neo-Eurasianism took on a respectable, academic guise and was drawn in to ‘scientifically’ support some anti-American and anti-British rhetoric of the Russian government.

mardi, 23 février 2010

Some Geopolitical Remarks on the Arctic Region

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Some Geopolitical Remarks on the Arctic Region

Tiberio Graziani

Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici

direzione@eurasia-rivista.org

www.eurasia-rivista.org

 

 

 

The geopolitical cycles of the Arctic

 

The geopolitical history of the Arctic – leaving aside ancient references to the region and the Viking explorations, that cannot easily be evaluated in typically geopolitical terms – can be divided, in a preliminary approximation, into at least three cycles. 

 

A first great cycle, which we can call the cycle of great exploration and of the initial Arctic maritime activity (maritimisation) can be defined starting around 1553, that is, when the English navigator Hugh Willoughby began searching for a North-East passage, and going to the second half of the 1820s. This first cycle – during which the “maritimisation” process of the Arctic basin took place, set off by the construction of ports and the planning of commercial routes – falls under the heading of the search for new routes to the Orient, an undertaking supported mainly by European nations. At the end of the eighteenth century and the beginning of the nineteenth the regional actors were Denmark and the British and Russian empires. The rivalry between Russia and Great Britain, that is, between a great land-based and a great sea power, is the key to understanding the principal geopolitical tensions in this region in the course of the first years of the nineteenth century. 

 

The agreement signed in 1826 between St. Petersburg and London delimiting the frontier between the so-called “American” Russia and the English possessions in North America inaugurated a new phase in the history of the polar region. Even though that agreement was aimed at reducing frictions between the two geopolitical entities, it wasn’t successful in its intent. The geopolitical tension between the two empires in this part of the planet was mitigated only in 1867, when Russia, in order to block the British from taking root in the Arctic, ceded Alaska to the emerging United States of America for $7.5 million.

Far from being Seward’s Folly, as it was called after the then-Secretary of State, the acquisition of Alaska represented, for the era, the arrival of Washington’s “Nordic” policy. In fact, the US, intending to project its power toward the Arctic pole, had entered into negotiations with Denmark to acquire Greenland. As noted, the USA reached its strategic objective of controlling the majority of the arctic circle only after the Second world War, installing the Thule military base in Greenland.

With the new entrant in the circum-polar navigation club, frictions arose that marked the successive phase of the geopolitical history of the Arctic. This is the cycle of sovereignty or territorial claims, which began in 1826 with the delimitation of the frontier and terminated in 1991 with the dissolution of the USSR. It was characterized by the expression of theories on the partition of the region and its growing militarization, which, started over the course of two World Wars, was, without interruption continued and intensified in the context of the Cold War. The area’s important geostrategic function, which it still plays today, as one of the main platforms for nuclear dissuasion, was fully recognized by the main regional actors, particularly the US and the USSR, and also Canada, and it was fully integrated in the respective geopolitical doctrines of the time.

 

The third cycle, which we can define as Arctic regional identity or multilateralism, placed between 1990 and the first years of this century, is marked by Moscow’s slight commitment – geopolitically fallen back into itself after the collapse of soviet structure – in supporting its own regional interests, by the renewed tensions between Canada and the US, by the timid presence of the European Union, which states the so-called policy of the Nordic Dimension, and, in particular, by some international or multilateral initiatives. These initiatives, based principally on the common Arctic identity, on the idea of an “Arctic Mediterranean,” with regard to minorities and the environment and the so-called sustainable development, are aimed both at reinforcing the internationalisation of the area, and at attenuating the frictions that have emerged in the restricted club of the circum-polar nations regarding sovereignty. It must still be observed that on the plane of real power relationships, especially those concerning military and geostrategic settings, the USA holds, in this brief cycle, the position of dominant nation in the entire zone, both directly and through the Atlantic alliance. The other actors play a marginal cameo role.

 

The Arctic in the multipolar scenario 

 

The Arctic is now, in the structuring of the new multipolar system, one of the most contested areas of the planet, not only because of its energy and mineral resources under the ice pack, but for its particular geostrategic position, the effects that global warming could produce regarding its practical use, and especially because of the return of Russia as a global actor.

Considered for a long time to be of limited geopolitical interest, mainly because of its inaccessibility, the Arctic circle has in fact become – as of August 2, 2007, when the crew of two submarines set the Russian tricolour on the Arctic ocean floor at a depth of 4200 metres – an area of increasing conflict among circum-polar countries and of great interest to China and Japan. This date,  which probably marks the opening of a new geopolitical era for the Arctic region, highlights first of all the renewed interest of Russia to defend its continental and coastal territory as well as the determination followed by the Kremlin to participate in the constitution of a new planetary order after the long period of bipolarism and the shorter, geopolitically catastrophic “unipolar moment.”  

The Russian “claim” on the Arctic space is fully included in the Putin Doctine aimed at re-establishing, in a mulipolar prospective, the due weight of Russia in the entire and complex world space. This is one “claim,” or rather an assumption of responsibility regarding the new world scenario, that  President Medvedev, currently in the  Kremlin, seems to support with conviction.

Moscow, after having reacquired prestige in the Caucasus and in Central Asia, renewed its relationship with China and, especially limited, as much as possible, the crumbling of its “near abroad”, is now turning toward the North.

This shouldn’t in fact be surprising, with the Russian territory, as Pascal Marchand reminds us, being the result of a historical process marked by two geographical natures: continentality,  that is, expansion on the Eurasian continent, and nordicity, expansion towards the Arctic.

These two policies, beyond the push toward the Indian Ocean, indicate again Russia’s destiny in the new great 21st century.

In the frame of reference the Arctic, mythical home of Vedic peoples according to studies carried out by the Indian politician and intellectual Bal Gangadhar Tilak, will become one of the main places in play in the next twenty years.

 

 

 

vendredi, 19 février 2010

A l'assaut de l'Eurasia

A l'assaut de l'Eurasie

Au début du siècle dernier, stratèges et théoriciens Anglo Saxons définissent les impératifs pour l’Angleterre, puis l’Amérique afin de maintenir leurs positions dominantes. Très succinctement, ces puissances "navales", géographiquement isolées doivent éviter l’émergence d’un concurrent fort, surtout si celui-ci est sur le continent. L’effondrement de l’Angleterre et l’avènement des empires en Europe confirmera aux Américain l’impérieuse nécessité pour eux de ne pas s’en faire expulser du continent, mais au contraire d’y prendre position.
OilEurasia.PNGDès le milieu du siècle, la seconde guerre mondiale offre une occasion inespérée pour l’Amérique, dans une Europe affaiblie et divisée, puisque des deux rivaux continentaux (Allemagne nazie et Russie soviétique), il n’en reste qu’un. Cette lutte contre l’URSS a en fait un autre objectif : la prise de pouvoir économique par l’accès aux matières premières et aux ressources naturelles, concentrées au cœur de l’Eurasie. Pour ce faire, l’Amérique propose à l’Europe dévastée le "plan marshall" (1947) destiné à sa reconstruction. 16 états Européens, et la Turquie se partageront les fonds en créant l’OECE dont le but public était "la coordination de l’effort de reconstruction et la libéralisation du commerce et des échanges monétaires". Ce plan Marshall nous le verrons était en fait un cheval de troie, pour "infiltrer" le continent et assouvir la domination Américaine en Europe de l’ouest dans un premier temps, puis vers l’est, au fur et à mesure de l’effondrement de l’URSS. 
Pour ce faire, les stratèges Américains n’utiliseront pas la « guerre », mais des méthodes plus subversives d’entrisme et de prise de contrôle de l’intérieur. Pour ce faire de nombreuses "associations", "institutions", "fonds" ou "ONGs" vont apparaître, qui serviront à "défendre les intérêts Américains" et " promouvoir la vision Américaine du monde", notamment sur le continent. Ces associations apparaissent en trois temps : une première vague pendant le second conflit mondial (destinées à lutter contre le nazisme), une seconde pendant la guerre froide (lutte contre l’URSS) et enfin depuis la chute du mur pour étendre l’influence Américaine à l’est et de façon bien plus offensive, servir de fer de lance à de réels coups d’états (révolutions de couleur), présentés via les relais médiatiques (dont les leurs nous le verrons) comme de simples "basculements démocratiques" dans des zones du monde en "transition démocratique".
Qu’elles soient d’obédience démocrates ou républicaines, les objectifs, méthodes et modes de financements sont très similaires. Celles ci en fait compléter le travail officieux de la CIA et permettre l’installation de gouvernements aux ordres, généralement dans des zones jugées stratégiques. Il est enfin intéressant de noter que les cerveaux de ces associations sont très régulièrement d’anciens Trotskystes, reconvertis à l’Atlantisme forcené, souvent via le néo-conservatisme (america uber alles). Ces « intellectuels » viennent en fait presque tous de la gauche, radicale et ce jusqu’en 1970 date à laquelle l’évolution de l’ultra gauche contre la guerre du Vietnam heurte la perception de l’Amérique qu’ont ces enfants d’immigrants qui ont fuit l’Europe pour le nouveau continent. Ceux-ci rallieront donc dans un premier temps Reagan, puis Clinton et Bush après le 11/09. On peut traduire ce courant comme étant un : « produit de l’influente branche juive du trotskysme américain des années 30 et 40, qui a évolué en libéralisme anticommuniste des années 50 aux années 70, puis en une sorte de droite impériale et interventionniste sans précédent dans l’histoire politique ou la culture américaines. » Parmi les « noms » les plus éminents de ces anciens rebelles de gauche passés à l’interventionnisme évangélique militaire et à une vision unilatérale du monde, on peut citer Paul WolfowitzAlbert WohlstetterIrving KristolWilliam KristolDavid HorowitzMichael Ledeen,Danielle PletkaDavid FrumMichael NovakElliott AbramsRobert KaganJames WoolseyWilliam BennettZalmay KhalilzadGary SchmittNorman Podhoretz, ou encore Richard Perle.
Cette infiltration et prise de contrôle des anciens trotskystes au sein d’associations qui orientent la politique intérieure et extérieure Américaine, influent sur les politiques ou les dirigeants de la CIA voir de grandes multinationales présente une similitude avec les pays Européens, France en tête. En France en effet de nombreux « ex Trotskystes » ont des positions influentes d’intellectuels renommés (Bernard henry levy, Finkelkraut, Gluksman, Goupil, Brukner..) ou encore sont à la tête de mouvements politiques majoritaires (Kouchner, Cohen-Bendit, José Bové ..). Ces « nouveaux intellectuels » sont rangés au cœur du système et non plus dans sa périphérie et ont la faveur de nos médias nationaux, voix du « système » qu’ils étaient si prompt à critiquer. Du soutien à Mao ils sont passés au soutien à l’Amérique. Ils ont combattu les Soviétiques et applaudi la désintégration de la Russie sous Eltsine. Ils ont soutenu la révolution indépendantiste Tchétchène, même si elle était en partie dirigée par des Wahabites, se faisant l’écho des indépendantismes ethnico-religieux tant rêvés par les ennemis prométhéistes de la Russie. Fidèles à la volonté de leur maitres, ils ont religieusement soutenu la guerre de l’OTAN contre la Serbie, et soutenu les nationalismes Croates et Bosniaques, fondé sur la le sang et la religion. Ils se voudraient les guides moraux d’une république qui vient affirme sous le gouvernement Sarkozy son asservissement Atlantiste. Ils sont partisans d’une ligne « dure » contre le Kremlin et les fer de lance d’une Russophobie suintante dans nos médias nationaux. Enfin deux des plus fameux (BHL et Gluksmann) étaient les conseillers Russie des deux finalistes de la présidentielle Française, respectivement Ségolène Royal et Nicolas Sarkozy.

L’après guerre …

Freedom House à été créé en 1947 pour répondre à la menace nazie et pousser l’opinion publique à l’interventionnisme dans le conflit mondial. FH soutiendra le plan Marshall en 1949 et se fera rapidement et vigoureusement l’avocat de la politique Américaine en soutenant l’action militaire en Irak, le développement de l’OTAN et en aidant les sociétés postcommunistes dans l’établissement de « médias indépendants, groupe de réflexion non gouvernementaux, et des institutions de base pour des élections politiques ». En 1982, Paul Wolfowitz et les néoconservateurs font entrer en nombre les militants trotskistes dans ces divers organismes, spécialistes de l’entrisme, les seconds défendront les premiers. En 1986, Freedom House met en place à Londres une officine de diffusion d’articles de commande dans la presse internationale via un programme financé par la CIA et lequel seront employé Vladimir Bukovsky, Adam Michnik, André Glucksmann, Jean-François Revel, et quelques autres. Les articles sont repris au Royaume-Uni dans The Daily Mail, The Daily Telegraph et The Times et dans le Wall Street Journal. En 1999, Freedom House a créé le Comité américain pour la paix en Tchétchénie (The American Committee for Peace in Chechnya - ACPC), dirigé par un trio (Zbigniew Brzezinski, Alexander Haig et Stephen J. Solarz) qui a organisé, financé et soutenu le Jihad contres les Soviétiques en Afghanistan. FH compte 120 permanents dans 12 pays (Jordanie, Ukraine, Serbie ..), dirigés par un board de directeurs composé de démocrates comme de républicains et dans lequel on retrouve à la fois l’ancien directeur de la CIA ou encore des stratèges comme Brezinski. FH affirme avoir soutenu des citoyens engagés dans des révolutions en Serbie, en Ukraine, et au Kirghizistan, mais à également œuvré en Jordanie, Algérie, Ouzbékistan et Vénézuela. FH se veut une organisation non lucrative et est financée en grande partie par le gouvernement Américain, mais également par de nombreux donateurs. FH a longtemps été présidé par le représentant démocrate du Nouveau Mexique, Bill Richardson qui cumulait ses fonctions avec celles de vice-président de l’Institut démocrate pour les Affaires internationales (NDI), aux côtés de Madeleine K. Albright. James Woolsey, l’ancien patron de la CIA et inventeur du Congrès national irakien, lui a ensuite succédé et depuis 2005 Freedom House est dirigé par Peter Ackerman (dont nous reparlerons, gardez bien ce nom en tête).
Toujours lié au plan Marshall sera créé en 1972 une institution qui porte son nom : le German Marshall Fund of the United States. Elle se développera rapidement (dès la chute du mur) en Europe de l’est, pour "contribuer" à la transition démocratique des ex-pays communistes. L’institution qui se veut indépendante et apolitique qui a pour ambition de promouvoir les relations transatlantiques, en encourageant un échange d’idées et une coopération accrue entre les États-Unis et l’Europe. 

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L’USAID , créé en 1961 sous le gouvernement Kennedy gère l’aide économique et humanitaire dans le monde. Le directeur de l’USAID est nommé par le président des états-unis et confirmé par le sénat Américain. L’USAID finance de nombreuses autres ONGs comme la NDE ou Freedom House, chargées de soutenir par des moyens légaux le travail de la CIA et notamment l’infiltration des partis politiques pro Occidentaux. L’organisation est soupçonnée de soutenir les partisans de l’Amérique à tous les niveaux (notamment politique). Un exemple ? Lorsque le Yémen a voté contre la résolution américaine d’utilisation de la force en IRAQ en 1990, l’ambassadeur des nations unies Thomas Pickering a trouvé l’ambassadeur Américain en lui disant " ce non vote va vous coûter cher". Dans les jours qui suivirent, l’aide Américaine via USAID fut coupée, le Yémen eu des problèmes avec la banque mondiale et le FMI, et 800.000 yéménites furent exclus d’Arabie Saoudite.

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En 1961 sous la coupe de Kennedy fut également créé le "corps pour la paix" et "l’alliance pour le progrès" paravent destiné à oeuvrer contre la menace communiste en Amérique du sud. L’alliance fut néanmoins un échec et disparu en 1973.

La connection Washington ?

Egalement lié au plan Marshall, la "Brookin institution" à un rôle important. L’institution connu son heure de gloire lorsqu’un de ses membres, léo pasvolsky, également membre du Conseil des Relations Etrangères (un think tank qui a pour vocation a analyser la politique mondiale et comprend plus de 4.000 membres issus du milieu des affaires, de la politique et de l’économie) contribuera dès 1942 à conseiller le président Roosevelt, notamment pour l’établissement du système de "nations unies" (il en rédigea la charte) mais également pour le fonctionnement du "plan marshall". Les experts de l’institution démontreront leur influence après le 11/09 en "témoignant devant le congrès et l’opinion publique Américaine pour réaffirmer le rôle moteur de l’Amérique à l’étranger".
En face de celle ci, de l’autre côté de massachusset avenue à Washington, se situent deux autres "institutions" intéressantes : L’institut Peterson et également la fondation Carnégie qui est une organisation non gouvernementale ainsi qu’un cercle de réflexion et d’influence global dédiée au développement de la coopération interétatique et à la promotion d’un engagement actif des États-Unis sur la scène internationale. Devenu l’un des plus riches et importants think-tanks libéraux du monde, la fondation à joué un rôle prédominant en Russie en ouvrant une filiale à Moscou en 1993 qui a conseillé l’ex président Eltsine dans le processus de privatisation de l’économie ex-soviétique, grâce à l’interface de personnalités comme Yegor Gaidar, récemment disparu. La fondation prendra ensuite position pour défendre Mikhail Khodorkovsky, qui était régulièrement orateur dans les locaux de Moscou.
Néanmoins la Brookin institution (citée plus haut) ayant été jugée très proche des démocrates, elle à son miroir de droite, libéral avec l’American Enterprise Institute (AEI) a été fondé en 1943 pour faire concurrence à la Brookin Institution (citée plus haut et été jugée très proche des démocrates, ) et a été un des architectes majeurs des politiques du gouvernement Républicain de Georges Bush. L’institution se veut défendre le "capitalisme démocratique". L’AEI a longtemps eu comme mentor Irving Kristol ancien trotskyste reconverti, fondateur s’il en est de l’idéologie néoconservatrice. Décédé en septembre dernier, son fils william kristol ayant largement repris le flambeau familial puisque fondateur de la revue néo-conservatrice "weekly standard", fut un des artisans de la réélection de G. Bush, de l’attaque de l’Irak en 2003, mais également fondeur du Projet pour un Nouveau Siècle Américain (PNAC) et membre du comité de l’American Enterprise Institute, fondé par son père. Anecdote : celui ci titrera un article "vive la France", pour se féliciter du votre contre le traité Européen, démontrant ainsi la gêne des américains face à l’émergence d’un concurrent politique et économique. L’AEI héberge dans ses locaux le PNAC fondé par Kristol serait arrêté depuis 2006 et avait pour objectif d’assurer le leadership mondial des états-unis.

Enfin dans la même zone géographique, on trouve également la Hoover Institution qui est à la base une bibliothèque financée par la fondation Rockefeller pour collecter un maximum d’archives sur l’arrivée des communistes au pouvoir en Russie. La bibliothèque deviendra un think tank formant une partie de l’élite républicaine, et recevant des fonds de divers multinationales comme Merryl linch, JP Morgan, Exxon etc etc et partageant ses directeurs avec l’AEI (ci dessus). La fondation a également sponsorisé un groupe de chercheurs 
En 1998, un groupe de chercheurs de la Hoover Institution pour former George W. Bush aux questions internationales dans sa maison d’Austin (Texas). Ce groupe comprenait de nombreuses personnalités comme Condoleezza Rice., Dick Cheney, Stephen Hadley, Donald Rumsfeld, Paul Wolfowitz et même Colin Powell. En retour, en 2001, Condoleezza Rice a été nommée conseillère de sécurité nationale et sept salariés de la Hoover Institution ont été nommés au Pentagone parmi les trente membres du Comité consultatif de politique de Défense (Defense Policy Board Advisory Committee). 

Au cœur de la guerre froide

Le New Endownment for Democracy a été créé en 1983 sous le gouvernement Reagan et son financement passe par le congrès Américain via l’USAID. Elle redistribuerait l’argent reçu du gouvernement pour moitié à ces quatre organisations qui agissent au niveau international :

* National Democratic Institute for International Affairs, lié au Parti démocrate, et présidé par l’ancienne secrétaire d’État Madeleine Albright.
* International Republican Institute, lié au Parti républicain et présidé par le sénateur John McCain, rival malheureux de George Bush aux primaires de 2000 et aujourd’hui candidat républicain à la présidence des États-Unis.
* American Center for International Labor Solidarity, fondé par l’AFL-CIO. 
* Center for International Private Enterprise, fondé par la Chambre de commerce des États-Unis.

L’autre moitié des fonds va à plusieurs centaines d’ONG réparties dans le monde. Le NED a financé ou financerait des groupes politiques luttant officiellement pour la démocratie en Europe occidentale dans les années 1980 ainsi que dans les années 2000 dans les pays de l’ex-union soviétique comme en Ukraine, ou encore dans les pays d’Asie centrale comme le Kirghizistan ou l’Ouzbékistan. La NED a développé un système d’institut satellite qui s’inspire de ce qui avait été mis en place par les États-Unis, en tant qu’armée d’occupation, en Allemagne avec la Friedrich Ebert Stiftung, la Friedrich Naumann Stiftung, la Hanns Seidel Stiftung et la Heinrich Böll Stiftung. Aussi, utiliserait-elle ces fondations comme relais financiers dans ce pays plutôt que ses propres instituts. Sur le même principe, la NED aurait trouvé des partenaires dans divers États alliés, membres de l’OTAN ou de l’ex-ANZUS, notamment : la Westminster Foundation for Democracy (Royaume-Uni), Droits et Démocratie (Canada), la Fondation Jean-Jaurès et la Fondation Robert Schuman (France), l’International Liberal Center (Suède), l’Alfred Mozer Foundation (Pays-Bas).
La NED publie le Journal of Democracy et organise des conférences avec les intellectuels qu’elle sponsoriserait (par exemple l’historien François Furet et le journaliste Jean Daniel pour la France). Celle ci forme également des cadres politiques et syndicaux, partout dans le monde, à l’exercice de la démocratie. La NDE finance et encadre actuellement plus de 6.000 organisations politiques et sociales dans le monde. Elle revendiquerait avoir entièrement créé le syndicat Solidarność en Pologne, la Charte 77 en Tchécoslovaquie et Otpor en Serbie. Ces mouvements ont animé les révolutions de couleur dans les pays concernés, ou été des meneurs dans la lutte anti-Soviétique et par défaut pro-Américaine. Le financement de ces syndicats a comme corollaire que les gouvernements qui découlent de ces renversements de régimes entraine une politique pro-US sans faille (commandes militaires de F16 malgré l’entrée dans l’UE, alignement total sur les positions de la Maison Blanche en Europe de l’Est, participation au partenariat pour la paix en 2005 pour la Serbie, collaboration avec le TPI ..) Enfin, le NED aurait été impliqué dans les campagnes de référendum et le coup d’Etat avorté d’avril 2002 contre la présidence d’ Hugo Chávez au Venezuela.
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On peut citer également l’institut Aspen , Atlantiste et dédié au "commandement éclairé, à l’appréciation d’idées et valeur éternelles, et pour un dialogue ouvert sur des thèmes actuels". En France il organise des débats avec des intellectuels Atlantistes comme le président Nicolas Sarkosy. L’institut est financé par des sociétés comme CapGémini ou encore la chaine d’information (!) Euronews.
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La Jamestown fondation a été créé par la CIA sous le règne Reagan pour mettre en scène les transfuges communistes à l’époque Reagan, elle édite des bulletins spécialisés sur le monde post-communiste et sur le terrorisme qui servent de référence aux think tanks de Washington. A la chute du mur, l’institution reprend du service via le responsable de l’époque de la CIA James Woosley et également par Zbigniew Brzezinski pour ajuster le discours guerre froide (3ième guerre mondiale) à un discours préparant une 4ième guerre mondiale. L’institution publie des bulletins informatiques notamment : 
* Chechnya Weekly : bulletin officiel de l’American Committee for Peace in Chechnya (Comité américain pour la paix en Tchétchénie) de Zbigniew Brzezinski et Alexander Haig, lequel est une filiale dela Freedom House. 
* Eurasia Daily Monitor enfin qui est la publication phare de la Fondation est devenu le quotidien de référence pour les intérêts US dans l’espace post-soviétique. Il stigmatise la Russie de Poutine et célèbre la « démocratisation » en marche des « révolutions » des roses, orange, des tulipes etc.
En réalité la Jamestown Foundation est un élément d’un dispositif plus vaste chapeauté par la Freedom House et connecté à la CIA et est en réalité devenu une agence de presse spécialisée sur les États communistes et postcommunistes et sur le terrorisme. 
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Toujours dans le domaine de la communication, la fondation héritage a également été l’un des plus actifs soutiens de la politique Reagan, axée sur le soutien aux mouvements anticommunistes notamment en Afghanistan ou en Angola. Depuis, la fondation a légèrement basculé du côté démocrate et à été listé comme l’un des think tank les plus influent du pays. Jusqu’à 2001 la fondation publiait une revue (foreign review) qui a depuis été acquis par la Fondation Hoover (voir plus haut). En 2006, la fondation a créé le Margaret Thatcher Center for Freedom pour renforcer les liens "Américano-Anglais". En 2009, la fondation a créé un "scandale" en affirmant que l’armée rouge n’avait pas "libéré" l’europe de l’est du fascisme mais instauré un nouveau totalitarisme. Cette affirmation confirme l’offensive anti-Russe en cours, passant par une révision totale de l’histoire destinée à a terme décrédibiliser tout rôle de la Russie dans l’histoire récente de l’Europe, et ce afin de "repousser" la Russie hors d’Europe, physiquement mais également dans les esprits.

Après la chute du mur

Après la chute du mur, profitant du flottement général et de l’aspiration des nouvelles nations d’Europe de l’est à intégrer l’Europe, ces diverses associations vont bien évidemment contribué à étendre l’influence Américaine en Europe centrale et de l’est, occupant le terrain abandonné par les Soviétiques. Pourtant depuis 1990 leur activité ne s’est pas arrêtée, pas plus que ne s’est arrêté l’activité de Freedom-House après la chute du régime nazi. Toutes ces fondations, institutions, ONGs ont continué à œuvrer "vers l’est", dans un "drang nach osten" sous bannière étoilée et dirigé contre la Russie, l’URSS n’étant plus. Dans cette offensive, il faut citer comme acteur phare le milliardaire Soros, qui a créé en 1993 et 1994 de nombreuses organisations trop peu connues du grand public : l’Open Society, ou encore Human Right Watch, le democracy coalition project. Ou encore l’International Crisis Group. Cette dernière a d’abord été actif en afrique, puis en ex-Yougoslavie et est aujourd’hui présidée par l’ancien président Finlandais Martti Ahtisaari, qui sera nommé par l’ONU envoyé spécial pour le Kosovo. L’ICG a dans son conseil d’administration des anciens conseillers nationaux de sécurité (Richard Allen et Zbigniew Brzezinski), on trouve le prince koweïtien Saud Nasir Al-Sabah, l’ancien procureur du Tribunal pénal international pour l’ex-Yougoslavie Louise Arbour, ou l’ancien commandeur suprême de l’OTAN pendant la guerre de Yougoslavie le général Wesley Clark. Quelques relations financières comme l’ex-président philippin Fidel Ramos ou l’oligarque russe Michail Khodorkovsky, tous membres du Carlyle Group. Figurent aussi des personnalités françaises : Simone Veil, présidente du mémorial de la Shoah, et la journaliste Christine Ockrent, épouse de l’ex-gouverneur du Kosovo Bernard Kouchner. 
Le project syndicate enfin est une agence de presse indépendante qui a racheté différents organes de presse, a financé des radios « indépendantes » (comme B92 en Serbie ou alors radio free europe) et se pose comme un des fers de lance médiatique de la guerre énergétique contre la Russie et cela depuis de longues années. Il est enfin à noter que les organisations de Soros ont été expulsées de Russie fin 2003 et qu’en 2006 un réseau d’espionnage anglo saxon a été démantelé en Russie, dans lequel les agents étaient liés à des organisations étrangères, l’Open Society ayant été impliqué dans l’affaire.

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Nous reviendrons dans un prochain article sur les implications de ces diverses associations dans les révolutions de couleurs et notamment sur le trio : « freedom house » « réseau soros » et « albert einstein institute » dans l’organisation des révolutions de couleurs, ces coups d’états démocratiques destinés à « placer » des gouvernements aux ordres du Pentagone, et ce afin de servir de tête de pont pour l’Amérique dans sa lutte contre la Russie.
Enfin, pour terminer cette étude sur l’agression larvée permanente (toujours basée sur des principes trostkystes de « révolution permanente »), nous nous intéresserons à la pénétration du lobby Américain dans la scène politico-médiatique Française et la conséquence pratique pour la France : servir de tête de pont à l’Amérique, au même niveau qu’une Géorgie ou qu’une Serbie renversée militairement ou par une révolution de couleur.

Du prométhéisme au Heartland

brzez.jpgL’histoire du mouvement prométhéen remonte au début du siècle, lorsque des responsables de « républiques Russes », notamment musulmanes se concertent afin de discuter leur "indépendance". Au début du siècle, lors de ces premiers congrès, deux lignes s’opposent, les partisans d’un nationalisme territorial et les partisans d’une union panturque (le rôle d’intellectuel Turc appelant à la réunification panturque étant relativement importante au sein de ce mouvement). Rapidement, ces questions d’indépendance gagneront les républiques non musulmanes de Russie, notamment dans le Caucase. 
Au sein de cette ligne, l’Ukraine jouera un rôle fondamental, en effet les idées prométhéennes se développent rapidement dans l’entourage du président Petlioura et l’Ukraine enverra même une mission en Géorgie négocier avec le Khanat de Kokand (Turkestan Russe, aujourd’hui Ouzbékistan et dirigé à l’époque par Mustafa Tchokay). Le but de ces "indépendantistes" étaient de s’attirer les grâces des démocraties Occidentales et à ce titre un "appel" fut lancé dans au congrès de Versailles, supposé promouvoir l’émergence des nations. Les Bolcheviques ne laissant guère de place à de quelconques volontés indépendantistes, en 1922, les principaux responsables politiques indépendantistes (Ukrainiens, Georgiens, Bashkirs, Tatars, Azéris ...) s’exilent dans deux directions différentes :
- Une première vague vers Istanbul, mais en lien avec les pays d’Europe de l’ouest. Cette relocalisation forcée contribuera à développer la "conscience Turque" au sein du mouvement Prométhéen mais le discréditera en le diluant dans un rêve expansionniste panturque, nationaliste et impérialiste et jugé peu crédible par les Européens (sur les décombres de l’empire Ottoman) ni par les Bolcheviques.
- Une seconde vague émigre en Europe (ce sera le cas de Tchokay) notamment en France et en Allemagne. Des réseaux se créeront entre Georgiens, Ukrainiens, Russes blancs exilés et de nombreux Azéris. La France est déjà qualifié à cette époque par le Bachkir Zeki Velidov de "centre de combat Turco-musulman" (!) contre la Russie.
En 1924, à Berlin, une rencontre à lieu entre Velidov et un officiel Polonais (Stempovsky) qui lui explique l’idée de la Pologne de lancer un mouvement des "indigènes" de Russie et d’aider ces peuples à obtenir leur indépendance. Les liens entre ces deux personnages datent de la guerre Russo-Polonaise de 1921 durant laquelle la Pologne a engagé de nombreux soldats musulmans des républiques de Russie afin de lutter contre l’armée rouge. 
En 1926, Petlioura est assassiné et c’est Pilsudksi qui prend le pouvoir en Pologne et se fera le chantre de la protection des "peuples" contre l’URSS. La même année, Veki Selidov repart en Turquie apporter son soutien au mouvement prométhéen à Istanbul.
La revue Prométhée se développera dès lors dans de nombreux pays (France, Allemagne, Angleterre, Tchécoslovaquie, Pologne, Turquie, Roumanie..) mais la montée du nazisme en Allemagne rend l’anti-communisme (pierre angulaire du prométhéisme) caduque et cet argument n’est désormais plus repris que par l’extrême droite Européenne. Jusqu’à 1938, le mouvement prométhéen est dirigé par le Georgien Gvazawa et les colonnes de la revues publient des articles de partisans d’Hitler ou de Doriot en France ... Le mouvement semble totalement au mains des fascistes Européens jusqu’en 1938 ou l’Ukrainien Alexandre Choulguine prend les commandes du mouvement, et de la revue. Après le pacte Germano-Soviétique le mouvement se déclare ’anti nazi et anti soviétique’ et les prométhéens se rangeront du côté de l’Angleterre et de la Pologne, contre l’Allemagne et l’URSS.
Dès lors le mouvement bénéficiera de soutiens forts en Pologne (soutien financier) et en France (comité France-orient) sous le parrainage du président du sénat Paul Doumer. Le principal projet sera la création de cette fédération du Caucase (sur le modèle helvétique) mais qui n’aboutira pas, la SDN reconnaissant finalement les frontières de l’URSS, et surtout les tenants de ce prométhéisme se révélant incapables d’unité contre un double front (blanc et rouge) ni même de solidarité.
En 1939, la perte de la Pologne fut un choc pour le mouvement qui fut rapidement happé par l’Allemagne et le gouvernement de Hitler qui dans une logique "post pacte Molotov-Ribbentrop", les stratèges nazis envisageant très bien un éventuel morcellement de l’URSS en petites entités, plus faciles à contrôler, dominer, ou à vaincre militairement. Les Allemands créeront notamment une légion Turkestan constituée de Tatars et Turkestanais mais celle-ci échouera, tout comme l’offensive Allemande à l’est.
A la fin de la guerre, l’URSS est plus forte que jamais et les Prométhéens se tournent vers l’Amérique avec la création d’une "ligue prométhéenne de la charte de l’Atlantique". Le mouvement deviendra un élément au main de la CIA et de lutte contre l’URSS en pleine guerre froide via la création d’organisations tel que " l’institute for the study of URSS" ou " l’american comitee for liberation of bolchevism" (lire à ce sujet la manipulation des mouvements nationalistes Ukrainiens par la CIA à cette époque).
La grande confusion idéologique qui ressort de cette période amènera au développement d’une ligne "prométhéenne" qui se définira par défaut comme "antirusse
Cette analyse d’un mouvement peu connu du grand public doit nous amener à quelques réflexions essentielles pour une bonne compréhension des évènements géopolitiques récents.
Réflexions sur les morcellements territoriaux 


Tout d’abord le projet fondé sur le nationalisme ethnico-régional est un projet "contre" la stabilité de la fédération, c’est le projet de son démembrement et de son éclatement en entités de petites tailles, facilement contrôlables et dominables. Cette tactique que les Polonais et les Allemands souhaitaient appliquer contre la Russie (ou plutôt l’URSS à l’époque) et est très curieusement la "même" tactique qui a été appliqué par l’Amérique et Bruxelles pour l’intégration dans l’Union Européenne et l’OTAN : éclatement de la Tchécoslovaquie, éclatement de la Yougoslavie, demain éclatement probable de l’Ukraine ?
Encore plus curieux pour un novice c’est également le but avoué de certains stratèges militaires anglo-saxons : l’éclatement de la Russie en 3 entités (russo-européenne, centro-sibérienne et extrême orientale), tel qu’expliqué dans le livre le grand échiquier de Zbigniew Brezinski, car la Russie serait : "le seul pays à ne pas avoir été occupé ni soumis à la rééducation politique des vainqueurs". 
En parallèle à cette évolution souhaitée mais inachevée contre la Russie, regardons l’évolution en Europe :
- La première guerre mondiale à achevé l’ère des empires et affirmé l’ère des nations en Europe, notamment via la Société des nations (ancêtre de l’ONU) alors sous patronage Américain, et bien que l’Amérique n’en fit "jamais" partie.
- Le second conflit mondial entérine le processus de perte d’autonomie de ces mêmes nations et ouvre la voie à une hyper-intégration supranationale (du traité de Paris au traité de Lisbonne) tout en favorisant à l’émergence des régions (niveau infranational).
- La fin de la guerre froide entraîne l’extension de cette hyper structure Européenne à l’Europe centrale (2004) et l’Europe de l’est (2007), en morcelant les entités réfractaires (Tchécoslovaquie, Yougoslavie, Ukraine demain ?).
Il serait peut être bon de se demander si le processus de morcellement et de perte d’autonomie de chaque sous entité au sein du territoire Européen est bien comme l’on nous le répète une étape inévitable de l’intégration euro-européenne « ou bien » si au contraire il s’agit d’un processus voulu, souhaité et mis en œuvre afin d’éviter que l’Europe ne devienne une zone du monde autonome, souveraine et capable de volonté politique ainsi que d’indépendance économique et militaire. 
L’idée en vogue (notamment chez les centristes radicaux et les écologistes européens) de renforcement des prérogatives des régions est hautement suspect précisément dans le cas européen ou l’entité comprenant ces régions n’est elle même dotée d’aucune souveraineté réelle. Doit on rappeler que ceux la sont les soutiens inconditionnels de l’Amérique et de l’OTAN et les piliers de la Russophobie qui frappe la planète politique et médiatique Française et Européenne ?


La politique Américaine et la division de l’Europe


Ensuite, l’histoire nous apprend que les voisins proches de la Russie ont souvent été en conflit avec elles et visiblement les complots ne sont pas que d’un côté, pour preuve l’alliance à l’échelle turco-européenne pour "découper la Russie", projet repris par les Allemands lors du second conflit mondial, puis pendant la guerre froide et depuis par les Etats-Unis.
Cet évènement n’est pas anodin et est à mettre en lien avec trois choses :
- Le rôle éminent des Américains dans la déstabilisation politique et militaire de l’Europe (révolutions de couleurs) et de la "Russie" (co-participations à des opérations militaires en Tchétchénie et en Géorgie ..)
- L’analyse Américaine d’une Europe de nouveau divisée entre une "vieille Europe" et une "Nouvelle Europe" n’est en effet pas satisfaisante ni facteur d’apaisement et contribue à asseoir dans l’opinion l’idée que l’Europe n’est pas unie. En réalité cette nouvelle Europe est un ensemble regroupant les nations les plus hostiles à la Russie, de la Pologne aux états Baltes, et la nouvelle vague d’entrant dans la communauté transatlantique et au sein de l’OTAN- Bien plus qu’au sein de l’Europe.
- Le but Américain inavoué est d’utiliser ce territoire de la nouvelle Europe (plus proche de la frontière Russe) pour y installer des bases militaires et des rampes de missile, comme il l’ont fait en Serbie (Bondsteel) et projetaient de le faire en Pologne.. 
Cet objectif fait partie d’un plan plus large dans lequel le contrôle des frontières Russes est essentiel pour maitriser les futurs zones énergétiques mondiales, des frontières Européennes (bondsteel en Serbie, contrôle des mer noire et baltique) au Caucase (Géorgie, bataille des projets de gazoducs ..) et Asie centrale (contrôle du Kirgystan et de l’Afghanistan et donc de la route de la soie).
La prise de contrôle de territoires passe par la prise de contrôle des peuples
L’histoire du mouvement prométhéen est également instructive en ce sens qu’elle témoigne parfaitement de l’objectif ultime que les Américains se sont fixés, à savoir affaiblir la Russie et utiliser les réseaux et les systèmes de lobbies pour affaiblir leur adversaire. Après l’effondrement de la puissance navale anglaise le 20ième siècle voit la montée en force de la puissance Américaine qui s’immisce désormais dans les affaires continentales alors que c’était l’inverse avant.
A la fin de la guerre civile Européenne donc, l’Europe est divisée en deux et les Américains ont parfaitement saisi l’importance capitale de rester dans la course pour maitriser le monde et de vaincre leur ennemi unique : l’union soviétique. Pour cela il faut avant tout contrôler l’espace géographique essentiel que représente le Heartland et que les stratèges anglo-saxons (issus d’école de pensée d’états non continentaux rappelons le) ont théorisés comme étant la clef pour ne pas être isolés des affaires du monde.
La confrontation militaire n’étant que peu réalisable, et les Européens pouvant être insoumis (l’exemple de De Gaulle étant le plus parlant), les américains ont parfaitement compris le rôle de la prise de pouvoir politique par tous les moyens et notamment le reformatage des esprits. Nous ne rentrerons pas dans les détails "mais" indiquerons que cette conspiration Prométhéene a été aspirée et utilisée par la CIA à la fin de la guerre via des ONGs destinées à lutter contre l’URSS ...


Pour la première fois dans notre histoire commune, Polonais, Ukrainiens, Géorgiens, Azéris vont servir les intérêts Américains et être utilisés comme fusible dans le plan géopolitique de maitrise de l’Eurasie. L’échec "provisoire ?" du mouvement prométhéen en tous les cas n’a absolument pas signifié l’arrêt de l’agression Américaine contre l’Europe et le vieux continent.

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Sources : 

jeudi, 18 février 2010

Lesrévolutions de couleur à l'assaut du Heartland

Les révolutions de couleur à l’assaut du Heartland

A la chute du mur, l’Europe pense enfin se réunifier sur les décombres du dernier des "totalitarismes" et rêve d’unité. Sur l’espace postsoviétique, le lobby Américain tisse sa toile et pour ce faire, n’hésitera pas à utiliser les fameuses "associations" pour noyauter les élites, "lobbyer" activement et surtout trouver un subterfuge à la guerre militaire pour renverser les régimes jugés "gênants", via ce que l’on appelle un processus appelé "révolutions de couleur".

orange-revolution-poster.gifLe concept à été popularisé dans les années 2000, pour définir les " transformations politiques dans l’espace post soviétique". C’est du moins la façon dont cela nous a été présenté. En fait, le concept est bien plus ancien, puisqu’il date des années 80, en pleine guerre froide. A l’époque le gouvernement Reagan nous l’avons vu a financé et développé une kyrielle d’institutions, d’organisations destinées à "contrer" par tous les moyens non violents l’influence Soviétique. La plupart étant nous l’avons démontré liées structurellement et bénéficiant de financement indirect du gouvernement Américain via l’USAID. En plus de la NED et de son réseau tentaculaire, en 1983 sera créé l’USIP, et l’Albert Einstein Institution. Cette dernière organisation était initialement chargée d’imaginer une forme de défense civile pour les populations d’Europe de l’Ouest en cas d’invasion par le Pacte de Varsovie. Elle a rapidement pris son autonomie et modélisé les conditions dans lesquelles un pouvoir étatique, de quelque nature qu’il soit, peut perdre son autorité et s’effondrer. Le concept des révolutions de couleurs, soit d’organiser des coups d’états sans violences était né.
(Ce texte est une reprise updatée d’une synthèse de plusieurs articles publiés notamment sur le Réseau Voltaire).
Historique des révolutions de couleurs
 

En Bulgarie en 1990, la première « révolution colorée » réussit. Mécontent du résultat des élections (victoire des communistes), l’opposition hurla à la fraude électorale et descendit dans la rue, instaurant le chaos dans le pays, et ce pendant plusieurs mois.. D’intenses pressions firent céder le parlement Bulgare et un candidat jugé "fiable" par Washington pris le pouvoir après un tapage médiatique appuyé par la NED
En Serbie en 2000, les réseaux Soros, l’Open Society, Freedom House et la NED organisèrent de grandes manifestations entre les deux tours de la présidentielle de l’année 2000. Soutenu par les nationalistes, la révolution pris le nom de révolution des bulldozers car des milliers de mineurs utilisèrent des bulldozers pour prendre d’assaut la capitale et le parlement et ce sans attendre le résultat des élections, (!). Le nouveau gouvernement nommera un premier ministre qui sera assassiné pour avoir "donné’" Milosevic au TPI, ou ce dernier y mourra avant son éventuel jugement. Les troupes Américaines installeront la plus grosse base militaire US au Kosovo et achèveront de faire de cette province Serbe un état indépendant qui n’est toujours 10 ans plus part par reconnu par la majorité des pays du monde.
Géorgie 2003 : Washington, Londres et Paris organisent la "révolution des roses". Selon le schéma classique, l’opposition dénonce des fraudes électorales lors des élections législatives et descend dans la rue. Les manifestants contraignent le président Edouard Chevardnadze à fuir et prennent le pouvoir. Son successeur Mikhaïl Sakashvili ouvre le pays aux intérêts économiques US et rompt avec le voisin russe. 5 ans plus tard, en août 2008, Sakashvili bombarde la population d’Ossétie du Sud, tuant de nombreux Ossètes, dont la plupart ont la double nationalité russe et des soldats Russes du maintien de la paix sous mandat de l’ONU. Moscou riposte. Les conseillers états-uniens et israéliens présent s’enfuient, le pays est dévasté.
En 2004 en Ukraine : l’élection présidentielle en Ukraine a donné lieu à une manipulation médiatique pour démontrer que les Ukrainiens se sont retrouvés spontanément, bravant le froid et les obstacles du pouvoir pour exiger un changement de régime et plus de démocratie en Ukraine. En effet dès la clôture du scrutin, des résultats divergents sont donnés et des milliers d’Ukrainiens se regroupent sur la place centrale de Kiev ou Viktor Iouchenko appellera à la résistance non-violente contre la dictature. L’OSCE et Freedom House condamneront les falsifications électorales pendant que Vladimir Poutine et Loukachenko reconnaitront la victoire du candidat désigné vainqueur par la commission électorale Ukrainienne. Après 15 jours de manifestation et de pression médiatique (OSCE, OTAN, Conseil de l’Europe, Parlement européen … etc etc) le résultat des élections sera finalement annulé et un troisième tour organisé qui verra la victoire du candidat « Orange ».
Kirghizstan 2005 : l’opposition kirghize conteste le résultat des élections législatives et amène à Bichkek des manifestants du Sud du pays qui renversent le président Askar Akaïev. C’est la "révolutions des tulipes". L’Assemblée nationale élit comme président le pro-US Kourmanbek Bakiev. Ne parvenant pas à maîtriser ses supporters qui pillent la capitale, il déclare avoir chassé le dictateur et feint de vouloir créer un gouvernement d’union nationale. Il fait sortir de prison le général Felix Kulov, ancien maire de Bichkek, et le nomme ministre de l’Intérieur, puis Premier ministre. Lorsque la situation est stabilisée, Bakaiev vend les quelques ressources du pays à des sociétés US et installe une base militaire US à Manas. 
La même année, Inosmi titrait cette phrase de Nuri Turkel : "cette révolution a fait naître de grands espoirs pour le futur de plus de 10 millions d’Ouïgours qui vivent au Turkestan Oriental (Xinjiang) .... "


Liban 2005 : dans les heures qui suivent l’assassinat de l’ex-Premier ministre Rafik Hariri, la rumeur se répand au Liban qu’il a été tué par « les Syriens ». L’armée syrienne, qui — en vertu de l’Accord de Taëf — maintient l’ordre depuis la fin de la guerre civile, est conspuée. Le président syrien est personnellement mis en cause par les autorités états-uniennes, ce qui tient lieu de preuve pour l’opinion publique. La Syrieretirera alors ces soldats. Des élections législatives sont organisées qui voient le triomphe de la coalition « anti-syrienne ». C’est la "révolution du cèdre". Lorsque la "ferveur" retombe, chacun se rend compte que le départ de l’armée syrienne ne change rien économiquement et que le pays n’a plus les moyens de se défendre. Le principal leader « anti-syrien », le général Michel Aoun, se ravise et passe dans l’opposition. Furieux, Washington multiplie les projets pour l’assassiner mais celui-ci s’alliera au Hezbollah autour d’une plate-forme patriotique.



Kenya 2006 : la NED réorganise l’opposition au président kenyan Mwai Kibaki et finance la création du Parti orange de Raila Odinga. Celui-ci reçoit le soutien du sénateur Barack Obama, accompagné de spécialistes américains. mais perdra les élections législatives de 2007. Soutenu par le sénateur John McCain, il conteste la sincérité du scrutin et appelle ses partisans à descendre dans la rue. C’est alors que des messages SMS anonymes sont diffusés en masse aux électeurs de l’ethnie Luo. « Chers Kenyans, les Kikuyu ont volé l’avenir de nos enfants…nous devons les traiter de la seule manière qu’ils comprennent… la violence ». Le pays, pourtant un des plus stables d’Afrique, s’embrase soudainement. Après des journées d’émeutes, le président Kibaki est contraint d’accepter la médiation de Madeleine Albright, en sa qualité de présidente du NDI (le pseudopode démocrate de la NED). Un poste de Premier ministre est créé qui revient à Odinga. Les SMS de la haine n’ayant pas été envoyés depuis des installations kenyanes, on se demande quelle puissance étrangère a pu les expédier.

Grèce 2008
 : des manifestations estudiantines paralysent
 la Grèce 
à la suite du meurtre d’un jeune homme de 15 ans par un policier. Rapidement des casseurs font leur apparition. Ils ont été recrutés au Kosovo voisin et acheminés par autobus. Les centres-villes sont saccagés. Washington cherche à faire fuir les capitaux vers d’autres cieux et à se réserver le monopole des investissements dans les terminaux gaziers en construction. Une campagne de presse va donc faire passer le gouvernement Karamanlis pour celui des colonels et entrainer un changement de premier ministre pour permettre la nomination de Papandreaou.


Les révolutions de couleur qui ont échoué


La première tentative de « révolution colorée » a échoué en 1989 en Chine. Il s’agissait de renverser Deng Xiaoping afin d’ouvrir le marché chinois et à faire entrer la Chine dans l’orbite US. Les jeunes partisans de Zhao envahirent la place Tienanmen. Ils furent présentés par les médias occidentaux comme des étudiants a-politiques se battant pour la liberté face à l’aile traditionnelle du Parti, alors qu’il s’agissait d’une dissidence à l’intérieur du courant de Deng entre nationalistes et pro-US. Après avoir longtemps résisté aux provocations, Deng décida de conclure par la force. La répression fit entre 300 et 1000 morts selon les sources, et la première révolution de couleur échoua.



Au Vénézuela en 2002 : la bourgeoisie de Caracas descend dans la rue pour conspuer la politique sociale du président Hugo Chavez. Par d’habiles montages, les télévisions privées donnent l’impression d’une marée humaine. Ils sont 50 000 selon les observateurs, 1 million d’après la presse et le département d’État. Survient alors l’incident du pont Laguno. Les télévisions montrent clairement des pro-Chavistes armes à la main tirant sur la foule. Dans une conférence de presse, le général de la Garde nationale et vice-ministre de la sécurité intérieure confirme que les « milices Chavistes » ont tiré sur le peuple faisant 19 morts. Il démissionne et appelle au renversement de la dictature. Le président ne tarde pas à être arrêté par des militaires insurgés. Mais le Peuple par millions descend dans la capitale et rétablit l’ordre constitutionnel. Une enquête journalistique ultérieure reconstituera en détail la tuerie du pont Llaguno. Elle mettra en évidence un montage fallacieux des images, dont l’ordre chronologique a été falsifié comme l’attestent les cadrans des montres des protagonistes. En réalité, ce sont les Chavistes qui étaient agressés et qui, après s’être repliés, tentaient de se dégager en utilisant des armes à feu. Les agents provocateurs étaient des policiers locaux (formés par une agence US). 


Birmanie 2007 : de nombreux Birmans s’insurgent contre l’augmentation des prix du fuel domestique. Les manifestations dégénèrent. Les moines bouddhistes prennent la tête de la contestation. C’est la "révolution safran". En réalité, Washington n’a que faire du régime de Rangoon ; ce qui l’intéresse, c’est d’instrumenter le Peuple birman pour faire pression sur la Chine qui a des intérêts stratégiques en Birmanie (pipelines et base militaire de renseignement électronique). Les manifestations dégénèreront et le pouvoir les réprimandera violemment pour rétablir l’ordre et depuis la situation est instable.



Ouest de la Chine, 2009  : le Xinjiang est une région riche, productrice de matières premières et une futur zone de transit des approvisionnements énergétiques de la Chine dont le pipeline Chine-Russie. Des incidents avaient déjà eu lien en 2008 mais pas de l’ampleur de ceux de 2009. Les incidents ont été présentés comme des heurts interethniques violemment réprimandés par les autorités Chinoises. Pourtant nombres de commentateurs avisés voient la main de Washington derrière ces événements (la NEDfinancant officiellement « l’Association américaine des Ouïghours » et le « Congrès ouïghour mondial ») et cela afin de :

- Créer une " Ukraine Ouighoure "
- Priver la Chine des ressources de la région
- Mettre la main sur ces ressources comme cela a été tenté en Russie

- Empêcher une projection de la Chine vers l’espace Centre-Asiatique .

- Desenclaver la Mongolie par rapport à la Chine et à la Russie

Comme ailleurs, internet sera utilisé par la diaspora de l’étranger, pour diffuser des « faux » et des « manipulations », relayés par les ONGs connues et ce afin de déstabiliser l’opinion.
Il ne faut pas oublier cette phrase prophétique de Nuri Turkel : "cette révolution a fait naître de grands espoirs pour le futur de plus de 10 millions d’Ouïgours qui vivent au Turkestan Oriental (Xinjiang) .... "
Moldavie 2009 : lors des élections parlementaires, le parti communiste moldave, pro Russe remporte les élections à la majorité absolue. Les observateurs internationaux affirment que les élections sont conformes mais l’opposition refuse sa défaite et sur le modèle Ukrainien conteste les résultats. Dès lors des émeutes éclatent et 50.000 manifestants attaquent les bâtiments officiels, appellent à la réunification avec la Roumanie et scandent des slogans pro Occidentaux. Les autorités accuseront la Roumanie d’avoir poussé des nationalistes Roumains pour déstabiliser le pays. Le président de la Moldavie acceptera de nouvelles élections qu’il remportera de nouveau mais sans obtenir la majorité. Les partis d’opposition se coalisent et tentent depuis juillet d’élire un président mais sans succès. Le pays déjà le plus pauvre d’Europe est dans une impasse politique.
Iran 2009 : la révolution verte s’inscrit dans cette longue liste de pseudos révolutions. L’administration Bush prend la décision de commanditer une « révolution colorée » en Iran après avoir confirmé la décision de l’état-major de ne pas attaquer militairement ce pays, ce choix étant validé par l’administration Obama. Le scénario prévoyait un soutien massif au candidat choisi par l’ayatollah Rafsandjani, le renversement du président Ahmadinejad et du guide suprême l’ayatollah Khamenei et l’installation d’un gouvernement de transition dirigé par Moussavi. Ce scénario est ancien (2002), et un séminaire a eu lieu à l’American Enterprise Institute, autour du sénateur Joseph Lieberman à propos du « grand marchandage » : Moscou accepterait-il de laisser tomber Téhéran en échange du renoncement de Washington au bouclier anti-missile en Europe centrale ?



Méthode et analyses
Dans tous les cas, Washington prépare à l’avance le gouvernement « démocratique », ce qui confirme bien qu’il s’agit d’un coup d’État déguisé. Le but de Washington des régimes qui lui ouvrent sans conditions les marchés intérieurs, s’alignent sur sa politique étrangère, voir pour indirectement affaiblir des états concurrents. Le mécanisme principal des « révolutions colorées » consiste à focaliser le mécontentement populaire sur la cible que l’on veut abattre, mais en utilisant une majorité manipulée qui croit lutter pour le « bien », la « démocratie » et la « justice », ces impératifs que l’occident à normé comme étant les référents essentiels de notre civilisation.
Pour "tenir" ces semaines de manifestations de rue jusqu’à l’assaut sur le parlement, des permanents existaient, révolutionnaires professionnels regroupés au sein de mouvements de jeunesses, réels fer de lance et gestionnaires pratiques des révolutions de couleurs. Financés par les ONGs oranges (de la NED, à Freedom House à l’Open Society), ces mouvements sont par exemple OtporPora, OK98, Kmara,MjaftOboronaMy, Kahar, Kelkel ou encore Zubr.
Otpor à par exemple envoyé ses cadres se former dès les années 2000 aux techniques de coup d’état non violent (techniques de Gene Sharp et de l’Albert Einstein Institute). La formation aura lieu à Budapest et sera dispensée par Robert Helvey, mandaté par l’IRI de McCain. Après le renversement du régime Serbe (700.000 personnes le 05 10 2000), OTPOR échouera en politique et se fondra dans le mouvement politique au pouvoir de Boris Tadic. Certains cadres choisiront de monter un institut de promotion de leur méthode d’action non violente (filiale locale de l’AEI). Deux cadres de ce « centre », Aleksandar Maric et Stanko Lazendic seront notamment employés par Freedom House pour dispenser des cours de formation en Ukraine. Pour déstabiliser le régime Ukrainien (kouchma-Ianoukovitch), plus de 10 000 cadres de Pora et du Committee on Voters of Ukraine perçoivent un salaire à hauteur moyenne de 3 000 dollars par mois. Ces « salaires » sont entièrement financés par les États-Unis, via l’USAID et la NED. Egalement des milliers de tentes et de couvertures ont été mises à disposition des manifestants pour camper place de l’Indépendance où des repas gratuits sont servis. L’ensemble de la logistique a été préparée par l’USAID. Ces jeunes sont aussi des spécialistes de l’utilisation des « nouveaux réseaux » de type Facebook, ou Twitter, voir de contrôle du SMS (avec l’aide d’hyper structures Américaines) afin d’influer massivement sur une population désemparée. Cela a été particulièrement flagrant en Iran lors de la contestation anti Amadinedjad via Twitter.
Nous l’avons vu ces mouvements de jeunesses ont au préalable reçu des stages de formation à l’action non violente (théories de Gene Sharp, fondateur de l’Albert Einstein Institution) ainsi qu’à la communication et à ne « jamais » nommer le bouc émissaire réellement visé. Cette théorie de la « non violence » s’est développée en Amérique dans les années 80 (également au ceur de la guerre froide) pour préparer une éventuelle résistance en Europe en cas d’invasion de l’armée rouge. Ce philosophe assez peu connu à publié de 1985 à 2005 de nombreux ouvrages sur ces théories de résistance non violente. La CIA prendra rapidement en main l’AEI en installant à sa direction un de ses hommes : Robert Helvey et l’institut disposera de financements abondants de l’International Republican Institute (IRI), l’une des quatre branches de la National Endowment for Democracy (NED). Gene Sharp formera les leader des principaux coup d’états softs de ces 15 dernières années.
Certaines de ces révolutions de couleur ont échouées, en Iran, mais également en Russie (ou pourtant les militants de Kmara ont commencé à former leurs collègues de Oborona) ou en Biélorussie. Il est difficile de clairement expliqué pourquoi la « recette » n’a pas fonctionné à un endroit alors qu’elle marchait ailleurs, néanmoins en Serbie ou en Ukraine, le pouvoir politique était bien évidemment moins solide et plus naïf que en Iran ou en Russie. Egalement, la méthode est aujourd’hui connue. Si en Iran, la personnalité de l’autorité suprême (le guide ) à suffit pour maitriser les ardeurs populaires, le pouvoir Russe lui a réagi bien en amont en créant un anti-mouvement Orange via la jeunesse Russe qui a atteint son apogée avec la manifestation monstre des Nashis en 2005 à Moscou, après les événements en Ukraine.
La popularité des leaders semble aussi importante, le principal déclencheur des mouvements étant la focalisation de l’opinion sur le « leader » devenant soudainement responsable de tous les maux. Ce n’est pas le cas avec des leaders comme Poutine, Chavez ou Loukachenko, dont les états connaissent des croissances économiques notables et une amélioration de niveau de vie. La situation était peut être différente en Ukraine et Serbie d’après guerre.
Le bilan des révolutions de couleur
Qu’en est t’il des révolutions de couleur à l’heure ou j’écris ces lignes ? Dans tous les pays, elles sont plus ou moins des échecs. Aucun régime post-révolution de couleur n’a bénéficié (de par cette révolution) d’un essor, d’un tremplin vers une situation économique ou politique plus stable. Bien au contraire, les gouvernements Orange ont tous échoués.
- La Serbie n’a pas intégré l’UE et seul une manœuvre politique de bas étage (couper le principal parti d’opposition en deux) permet au pouvoir Orange de Tadic de garder le pouvoir. N’oublions pas que l’homme phare issu de la révolution Orange, Vojislav Kostunica est retourné dans l’opposition à l’Amérique et que Dzinzic a été assassiné. Enfin le Kosovo est perdu et les criminels de guerre toujours pas arrêtés.
- En Ukraine, la situation économique s’est aggravé, le président Orange est crédité de 5% des voix aux prochaines élections en 2010 et son bras droit, la nationaliste Ioulia, renégocie avec Moscou.
- Le pouvoir Orange de Georgie est au bord du gouffre après s’être lancé dans une offensive militaire insensée, attaquant des civils et des militaires sous mandat de l’ONU en 2008. Le pays est ruiné, Sakachvili sur un siège éjectable.
- Au Liban le départ de l’armée Syrienne n’a rien arrangé et la terrible guerre de 2006 avec Israel a renforcé l’image du Hezbollah comme défenseur naturel du pays, qui n’a presque pas d’armée.
- Au Kirgistan, le gouvernement est plus ou moins tombé mais la base de Manas est maintenue, au grand dam de Moscou, néanmoins le pays est toujours dans l’instabilité la plus totale.
- En Grèce, la nomination de Papandreaou (candidat des états-unis) suite aux émeutes n’a pas du tout réglé le grave problème économique du pays et les rapprochements Euro-Turcs envisagés par l’Amérique n’ont pu avoir lieu, la Turquie de son côté donnant de nombreux signes d’impatience et de désaccord, notamment que ce soit suite à l’affaire du Xingjang (ou des turcophones ont été maltraité) ou dans ses relations avec Israël.


L’avenir des révolutions de couleur


Pour Karine Ter Sahakian les régimes nés de ces révolutions de couleur n’ont aucun avenir. De la déclaration de l’OTAN qui affirme que Géorgie et Ukraine ne sont pas prêts à rejoindre l’OTAN, à la désintégration de structures totalement superficielles comme le GUAM (destiné uniquement à fédérer les états Orangisés et contrer les intérêts Russes), ou l’échec des régimes politiques Oranges (aggravé par la crise économique), cette dernière affirme que : « L’effondrement des « révolutions de couleur » dans l’espace post-soviétique est tout à fait naturel, voir simplement inévitable. L’enjeu de la démocratie et du libre marché, dont George Bush se gargarisait avec beaucoup d’enthousiasme, s’est avéré prématuré ».
Certes la crise financière a considérablement affaibli les régimes déjà fragiles, dont le principal donateur, à savoir l’Amérique. Mais également la rhétorique des « honnêtes manifestations spontanées et démocratiques » a été parfaitement décryptée et décodée par les régimes politiques s’estimant menacés. Des contre mesures efficaces ont facilement pu être mises en place et ont fait leur preuve en Russie ou en Biélorussie par exemple.
Coup d’arrêt enfin, l’habile défense militaire Russe de août 2008 ou la Russie à démontré qu’elle était prête à militairement s’opposer à ces viols démocratiques et protéger ces citoyens, mêmes à l’extérieur de ses frontières. Les chutes prévisibles et très proches des régimes « symboliques » des révolutions de couleur, à savoir les régimes Sakashvili et Iouchenko « pourraient » même marquer une sorte de reflux de l’influence Américaine en Eurasie. Enfin, il ne faut pas oublier de préciser que les principales victimes sont les « peuples » de ces pays, tout autant les opposants que la majorité manipulée.
Néanmoins, il convient d’être vigilant car le plan de conquête du Heartland si il manque (provisoirement ?) de crédits n’est pas pour autant arrêté, par un miraculeux effet Obama. En effet, les récentes déclarations de Joe Biden laisse penser que les révolutions de couleur sont clairement déjà « envisagées ». Elles devraient évidemment viser les alliés de Moscou (Biélorussie et Kazakhstan en tête) mais également l’Azerbaïdjan que se disputent la Russie, l’Amérique et l’Iran pour son pétrole bien sûr mais également pour son emplacement géo-stratégique au bord de la Caspienne, seul des états touchant cette mer que Washington peut tenter de renverser. Azerbaïdjan ou en 2005 furent fondés trois organisations étudiantes : « Yox (Non) », « Magam (C’est le moment) » et « Yeni Fikir (Nouvelle Pensée) », organisations pour l’instant en sommeil ?


A lire également : les ONGs et la démocratie par l’IDC.

mardi, 26 janvier 2010

Een Vlaming bij de Nestorianen

Een Vlaming bij de Nestorianen

Ex: http://www.shlama.be/

 

In de late Middeleeuwen reist de Vlaamse monnik Willem Van Rubroek naar Mongolië. Hij zoekt zijn weg door de Aziatische steppe, hij observeert en stelt zijn belevenissen te boek. Een uniek reisverslag over Mongoolse praktijken, ontaarde nestorianen en overdadig drankgebruik. Oosters christendom door een westerse en katholieke bril.   (A. Thiry)  


Reiziger met een missie

Willem Van Rubroek is een franciscaner monnik afkomstig van het dorp Rubroek in Frans-Vlaanderen. In het midden van de 13de eeuw reist hij als boodschapper van de Franse koning Lodewijk IX oostwaarts naar de Mongoolse heerser Mongke. In die tijd beheersen de Mongolen de Zijderoute, ze hebben grote delen van China veroverd en Mongke, een kleinzoon van Djengis Khan, heeft zijn hofhouding in de Mongoolse hoofdstad Karakorum. Willem moet in opdracht van de Franse koning nagaan of Mongke bereid is een bondgenootschap aan te gaan met de christelijke vorsten in het westen. Die machtige alliantie kan de islamieten in het Midden-Oosten in de tang nemen en hun opmars stuiten. Misschien is het zelfs mogelijk de Mongoolse heersers te bekeren tot het ware katholieke geloof.


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Mongoolse ruiters van de horde van de Grote Khan in opmars

In 1254 verblijft Willem Van Rubroek aan het hof van de Grote Khan. Mongke heeft genoeg aan de traditionele Mongoolse gebruiken. Christendom, islam en boeddhisme interesseren hem enkel als het hem goed uitkomt en een verontwaardigde Willem krijgt te horen dat de Franse koning zich moet onderwerpen aan het gezag van de enige wereldheerser, de Grote Khan. Willem denkt er het zijne van en hij schrijft zijn observaties neer in zijn Itinerarium, zijn reisverslag voor de Franse koning. Daarin bericht hij ook over andere christenen die al lang voor hem naar het Verre Oosten zijn getrokken en daar aan missionering hebben gedaan. Ze vertegenwoordigen de Perzische, later de Assyrische, Kerk van het Oosten. Het zijn nestorianen, volgens Willem losbandige ketters die zijn afgedwaald van de Rooms-Katholieke Kerk. Hij schetst een opvallend negatief beeld van hen in zijn Itinerarium. Willem Van Rubroek, Vlaming, katholiek en westerse gezant, schrijft zijn oosterse medechristenen naar de verdoemenis. Daarmee plaatst hij zich in een lange traditie van verkettering en ze zal nog lang na hem standhouden.

Woekeraars en dronkaards

Willem is onderweg naar de Grote Khan. In zijn Itinerarium heeft hij het over de nestorianen. Onbeschrijfelijk hoe die zich gedragen. In 15 Chinese steden zijn er nestorianen. Ze weten niets, ze houden misdiensten met heilige boeken in het Oud-Aramees, maar ze kennen die taal niet eens. Het zijn woekeraars en dronkelappen en sommigen onder hen die met de Tataren samenleven, hebben meerdere vrouwen. Bij het betreden van de kerk wassen ze hun onderlichaam zoals de Arabische islamieten dat doen, en ze eten vlees op vrijdag. Hun bisschop bezoekt hen zelden, en als dat toch gebeurt, wijdt hij alle mannelijke kinderen, ook degenen die nog in de wieg liggen, tot priesters. Die huwen dan later en als hun eerste vrouw overlijdt, nemen ze een andere. De nestoriaanse priesters doen aan simonie, ze laten zich betalen voor elk sacrament dat ze toedienen, en ze bekommeren zich meer om hun eigen welzijn en dat van hun gezin dan om het geloof. Nestorianen voeden de zonen van de Mongoolse edelen op en verkondigen het Evangelie. Maar door hun kwalijke levenswijze en  hebzucht vervreemden ze de jonge Mongolen van het christelijke geloof, want zelfs de Mongoolse heidenen leven volgens Willem vromer dan de nestorianen. 

Feest in de kapel

Eind 1253 bereikt Willem het legerkamp, de ordu, van de Grote Khan. Enkele dagen later wordt hij ontvangen door Mongke. Voorleer hij de tent van de Mongoolse heerser mag betreden, vragen nestoriaanse priesters hem in welke richting hij bidt. Naar het oosten, legt Willem uit. Dat christelijke antwoord bevredigt hen, want omdat hij zijn baard had afgeschoren, hielden ze hem eerst voor een goddeloze boeddhist. Voor alle zekerheid moet hij hen nog de Bijbel uitleggen, en dan mag hij naar binnen. Mongke is een kleine man op een divan. Willem krijgt rijstwijn te drinken, de drank gaat overvloedig rond en tijdens de audiëntie raakt Mongke behoorlijk dronken. Willem geeft vooral zijn ogen de kost en denkt er het zijne van.

 


Tijdens de periode van Driekoningen is Willem getuige van een nestoriaanse eredienst. Voor zonsopgang verzamelen de nestoriaanse priesters zich in de kapel. Ze slaan op het ceremoniële hout en ze zingen plechtig de metten. Dan trekken ze hun kerkgewaden aan en maken het wierookvat klaar. De eerste vrouw van Mongke komt aan met haar kinderen en met andere hofdames. Ze werpen zich ‘op nestoriaanse wijze’ neder ter aarde, hun voorhoofd raakt de grond. Ze beroeren alle afbeeldingen met hun rechterhand, ze kussen die hand en reiken ze aan de omstanders. Dat is de gewoonte bij de nestorianen als ze een kerk betreden. De priesters beginnen te zingen en de edele dame wordt letterlijk bewierookt. Het is al dag geworden als de dame haar hoofdtooi afneemt en Willem haar blootshoofds te zien krijgt. Later verschijnt Mongke zelf. De Grote Khan neemt plaats naast zijn dame voor het altaar en laat zich Willems bijbel en brevier brengen. Hij bekijkt de afbeeldingen en de nestoriaanse priesters leggen hem uit wat die voorstellen. Dan houdt hij het voor bekeken en verlaat de dienst. Zijn dame blijft en deelt geschenken uit aan alle aanwezige christenen. Willem krijgt kostbare stof. Er wordt drank aangebracht, mede, rode wijn en merriemelk. De dame knielt neer met een volle beker in de hand, de nestoriaanse priesters zegenen haar luid zingend en ze ledigt de beker. Willem moet ook voor haar zingen als ze opnieuw wil drinken. Als iedereen al haast dronken is, komt het eten, schapenvlees dat meteen wordt verslonden, en daarna vis. Zo brengen ze de hele dag door. Als de avond valt, hijst de beschonken dame zich in haar wagen en rijdt weg onder het gezang en gejoel van de nestoriaanse priesters.

Geloof en drank in Kakakorum 

Op Palmzondag komt Willem aan in de Mongoolse hoofdstad Karakorum. Met de banier van het Heilige Kruis hoog geheven rijdt hij door het stadsdeel van de moslims naar de kerk van de nestorianen die in processie zijn uitgelopen om hem te begroeten. Het is tijd voor de mis. Door de Mongolen gevangen genomen christenen – Slaven  Georgiërs en Armeniërs – willen de dienst bijwonen, maar de nestorianen eisen dat ze zich eerst door hen laten herdopen. De nestorianen verzekeren Willem dat ze een portie van de olie hebben waarmee Maria Magdalena de voeten van de Heiland heeft gezalfd. Ze beweren dat ze ook wat van het meel bewaren waarvan het brood is gemaakt dat Christus heeft gewijd tijdens het Laatste Avondmaal. Willem stelt vast dat er in Karakorum twaalf boeddhistisch heidense tempels zijn, twee moskeeën ‘waar de wet van Mohammed wordt uitgeschreeuwd’, en één nestoriaans christelijke kerk in de verste uithoek van de stad.
Net voor Pinksteren neemt Willem deel aan een groot religieus debat in Karakorum tussen christenen, islamieten en boeddhisten. Willem verdedigt het christelijke geloof in één almachtige God en haalt het naar eigen zeggen van zijn heidense opponent die vele goden erkent. Hij beschrijft wat volgt, het is een verrassende wending: ‘De nestorianen wilden het woord nemen en ik gaf toe. Maar toen ze wilden redetwisten met de islamieten antwoordden die: “We erkennen dat uw godsdienst waar is en dat wat het Evangelie verkondigt waar is en we willen niet met u redetwisten.” En ze bekenden dat ze in al hun gebeden God smeekten te mogen sterven zoals christenen sterven.’ Waarop de aanwezige christenen en islamieten luidkeels zingen, terwijl de heidense afgodendienaren toekijken en zwijgen. Het eindigt op de wijze die Willem maar al te vertrouwd is: ‘Daarna gingen ze met z’n allen stevig drinken.’

 

Dramatische wending  

In de zomer van 1254 begint Willem Van Rubroek aan de terugreis vanuit Mongolië naar het westen. Hij komt langs de Ararat, de berg met de resten van de ark van Noach. De Armeniërs spreken van de berg Massis en volgens hen mag niemand die beklimmen, want het is de moeder van de wereld. Begin februari 1255 is hij in de Armeense hoofdstad Ani op het hoogplateau aan de rivier de Araks. Willem neemt de oude Armeense eretitel van de stad over, hij noemt Ani de stad van de duizend kerken. Maar hij ziet er ook twee Saraceense synagogen, d.w.z. moskeeën. Verderop steekt hij de vlakte over waar de oprukkende Mongolen het veel grotere ruiterleger van de islamitische Turkse sultan hebben vernietigd. Hij heeft daar zijn bedenkingen bij: ‘In de vlakte waar die moordende veldslag plaatsvond, is door de uitbarsting van een aardbeving een groot meer ontstaan en ik dacht bij mezelf dat het hele land zijn muil had geopend om het bloed van de islamieten te verzwelgen.’

Willem Van Rubroek komt veilig thuis en schrijft zijn belevenissen neer. Hij draagt zijn Itinerarium op een de Franse koning Lodewijk IX. Die had hem naar Mongolië gezonden om er te polsen naar een mogelijke alliantie met de Grote Khan tegen de islamieten. Die Kruistocht op twee fronten is er nooit gekomen. Enkele decennia na de reis van Van Rubroek bekeerden de Mongoolse veroveraars van het Midden-Oosten zich tot de islam. Een dramatische wending, die de ondergang inluidde van de oosterse christenen. Met name de nestorianen moesten het ontgelden en behalve enkele ruïnes, rotsinscripties en grafkruisen is er zo goed als niets overgebleven van hun eens zo invloedrijke aanwezigheid in het Verre Oosten. Het is alsof de Aziatische steppe zich heeft geopend om hen te verzwelgen. Willem Van Rubroek, Vlaamse franciscaan in Franse dienst en reiziger in het ware katholieke geloof, heeft dat niet meer beleefd, maar hij zou er wellicht mee hebben kunnen leven.

 

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Modern times in hedendaags Mongolië
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Mongoolse hoofdstad Karakorum in het binnenland van Mongolië
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Mongkes voorganger Ogadai khan
 




 

lundi, 25 janvier 2010

The Ataman and the Bloody Baron - About Russian warlords and their Assyrian connection

The Ataman and the Bloody Baron

About Russian warlords and their Assyrian connection

Ex: http://shlama.be/

August 1921 somewhere on the Russian-Mongolian border. A lonely warrior on horseback wanders through the endless steppe. He has lost most of his uniform and Mongolian talismans are swaying on his naked chest. It is the last ride of Ungern-Sternberg, the Mad Baron. His Mongolian soldiers will soon seize him and hand him over to the Red cavalry in pursuit of the small army that Ungern has lead from Mongolia into Soviet territory. And so the legend grows – the exploits of Baron Roman von Ungern-Sternberg, the most notorious partner in crime of the Cossack warlord Grigori Semenov in the Siberian Far East during the Russian Civil War.
 
Assyrians and Cossacks
 
In the autumn of 1914 Great-Britain, France and Russia have declared war on Turkey. In the spring of 1915 the Turkish government orders the mass deportation of the Armenians on its territory. The whole Armenian population is driven out of its homeland in eastern Anatolia and an awful number of Armenians is exterminated by Turkish zaptieh and Kurdish bands, while the survivors of these forced marches are left to their fate, without food or shelter in the Syrian desert. 

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Mar Shimun's homeland - Hakkari Mountains
In the summer of 1915 the Assyrian tribes in the Hakkari mountains in SE Turkey come under the sword of Islamic Jihad. Mar Shimun, the patriarch of the Assyrian mountaineers, presides at a general meeting of the Assyrian chieftains. They decide to throw in their lot with the Allied nations against Turkey. Turkish troops and Kurdish irregulars invade the Assyrian homeland. The Assyrians retreat to the high mountains, where they make their last stand. Mar Shimun crosses the passes with a small party and reaches Persian territory that has been occupied by the Russian army. He tries to get support from the Russians and returns to his besieged people in Hakkari.
   The Russians send a small expeditionary force of 400 Cossacks to the Hakkari Mountains. The Cossacks advance towards Oramar, the stronghold of the Kurdish chieftain Soto. Agha Soto is a fierce enemy of the Assyrian mountaineers. He sacks their villages, steals their flocks, he abducts their women and murders the male villagers. The Russian Cossacks are unaware of this. Blinded by Soto’s oriental hospitality, they accept his guides to lead them through the mountain passes. In a deep gorge the Cossacks are ambushed. Soto’s clansmen and other Kurds attack them from all sides and they are slaughtered to the last man. The 18 Cossacks who have stayed behind in Soto’s home as his honoured guests are massacred as well. So much for this Russian attempt to relieve the Assyrians of Hakkari in the summer of 1915.
   The Assyrian mountaineers can only rely on themselves. They break through the enemy lines, they suffer heavy losses when they flee from Hakkari, but the greater part of them survives and most of them become refugees in the Russian occupied northwestern part of Persia. In this region west of Lake Urmia they are among other Christians, Assyrians of the plain, who have been living there for many centuries.
 
Massacre at Gulpashan 
 
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Lake Urmia in northwestern Persia
Even before the arrival of the Assyrians from Hakkari the Assyrian inhabitants of the Urmia plain have endured terrible persecutions from their Muslim neighbours. During the first days of 1915 the Russian armed forces in control of the area suddenly retreat, leaving the Assyrian minority to its fate. Turkish troops occupy Urmia. Thousands of panic-stricken Assyrians of the Urmia region leave their homes and follow the trail of the Russian army, heading north towards the Caucasus. It is a horrendous exodus in midwinter, the weaker ones perish along the way. Those who have stayed behind hope to be spared in their villages or take refuge in the compounds of the British Anglican and the American Presbyterian Missions in Urmia town.  

Gulpashan is one of the most important and prosperous Assyrian villages in the Urmia plain. Paul Shimmon, an Assyrian who has returned to his homeland after his studies in the USA, describes what has happened in Gulpashan. The sister village of Gogtapa has already been plundered and burnt by Muslim mobs, while Gulpashan is at first left in peace. Shimmon mentions that this is probably due to the fact that one of the Assyrian village masters is related to the German consular agent in Urmia. The latter has sent his servant to Gulpashan and Turkish soldiers guard the place.

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Gogtapa - Assyrian graveyard
End February 1915 a band of fanatic Persian Muslims invades the village. They pretend to have come in peace, but then they seize the Assyrian men of Gulpashan, tie them up and drag them to the cemetery. The victims are barbarously butchered and finally the bloodthirsty intruders turn to the village women. After the massacre at Gulpashan American missionaries come from Urmia town to the village to bury the dead. Shimmon concludes: ‘The awful deeds that were perpetrated here were telegraphed to America, whereupon such strong representations were made by the United States Government that an order was given for their cessation.’ Although the Russian army pushes back the Turkish enemy and reoccupies the Urmia region in the early spring of 1915, later events will prove that Shimmon has been too optimistic. 
   In January 1916 Patriarch Mar Shimun, acting as the leader of the united Assyrians, visits the headquarters of the Russian Caucasian Army in Tiflis (Tbilisi), the capital of Georgia. He is received there with great honour by Grand Duke Nicholas, the Tsar’s uncle and the commander in chief of the Russian Caucasian Army. The result of the meeting is that the Russians agree to supply the Assyrians with weapons and ammunition. After Mar Shimun’s return the Russian consul Nikitin, stationed in Urmia, publicly reads the telegram in which Tsar Nicholas II expresses his gratitude towards the Assyrian Patriarch ‘for the help he has rendered in the war and for his willingness to co-operate with us.’
   Soldiers are recruited among Mar Shimun’s mountaineers, they are trained by Russian officers and in the autumn of 1916 two Assyrian battalions are ready for  battle. Russian protection however won’t last much longer. The Tsarist Empire is about to collapse in the turmoil of the revolution of 1917.
 
Enter Semenov and Ungern
 
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Grigori Semenov
Grigori Semenov is a Russian officer of mixed blood. His father was a Siberian Cossack, his mother belonged to the Buryat people living on the steppe east of Lake Baikal, and this distant Transbaikal area is Grigori Semenov’s homeland. When the Fist World War rages at its peak, he serves on the Galician Front that runs through western Ukraine and he distinguishes himself in battle against the Austrian-German enemy. From that period dates his long lasting friendship with a colleague officer, Baron Roman von Ungern-Sternberg.
   The latter has his roots in Baltic Estonia. He is the descendant of German crusaders, the warlike Teutonic Knights, and later on his family builds up a tradition in military service of the Russian Tsarist Empire. His superior, General Wrangel, writes about Ungern in his memoirs: ‘War was his natural element... When he was promoted to a civilised environment, his lack of outward refinement made him suspicious.’
   Semenov and Ungern are reactionary officers, devoted to Russian imperial autocracy and fanatically opposed to all kinds of democratic changes. In other words: the Tsar rules; without his supreme authority chaos is inevitable and Russia will fall apart. It is needless to say that the Russian Revolution of 1917 causes the final and fatal breaking-point in their careers.  
   Towards the end of 1916 Semenov and Ungern request to be posted on the Persian Front. The transfer is granted and in January 1917 they are stationed together in the Urmia region. Semenov joins the Transbaikal Cossacks, the fierce warriors of his Siberian homeland who already serve in that Russian occupied part of Persia, and he becomes the commander of a sotnia or cavalry squadron of the Third Verchne-Udinsk Regiment. That unit has its cantonment ‘in a village close to the shore of Lake Urmia’,  as Semenov puts it. It is Gulpashan, the Assyrian village where about a year before his arrival Persian Muslims have slaughtered a lot of Christian villagers. Bloodshed and massacre – Semenov and Ungern are surrounded by their natural elements. 

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Roman von Ungern-Sternberg
The February Revolution breaks out in Petrograd (Saint Petersburg) and the last Russian emperor, Tsar Nicholas II, abdicates. The Provisional Revolutionary Government issues Army Order 1, which orders the formation of elected soldiers committees. The garrison of Transbaikal Cossacks at Gulpashan elects Semenov as their representative and he leaves for Urmia town where the committee of the Russian Caucasian Army Corps meets. One of the representatives proposes to increase the soldiers’ pay at the expense of the officers’ salary. Such stupid nonsense, Semenov sneers, the revolt of the unleashed rank and file. It gets even worse when Semenov notices that the commander of the Russian army corps in Urmia takes an active part in the public celebration of the revolution.

Semenov and Ungern decide to counter the events with drastic counterrevolutionary action. April 1917 permission is obtained from the local Russian army staff to start recruiting new volunteers among the Assyrians in the Urmia region. They will be trained under the personal command of ‘the exceptionally brave officer Baron RF Ungern-Sternberg’, as Semenov characterizes his companion. 
   The Assyrian volunteers, mainly tribal warriors from the Hakkari mountains, know how to fight, but due to the revolutionary upheaval among the Russian soldiers the efforts of the Assyrian fighters fail to restore military discipline. The Russians are fed up with the war. Domoj! they shout, they want to go home.
 
Guerrilla and Exodus
 
The Russian writer Viktor Shklovsky, who serves in Persia after the February Revolution of 1917, notices that a guerrilla band under the command of the Assyrian general Agha Petros raids the country. Shklovsky writes: ‘The exiled Assyrian mountaineers starved, plundered and aroused the burning hatred of the Persians. They visited the bazaars dressed in small felt caps, multicolored vests and wide pants made from scraps of calico and tied above the ankles with ropes. The Christian religion, which bound the Assyrians together, had long since grown slack and subsisted only as another means of differentiating them from the Muslims.’
   Apparently with the support of Semenov Ungern has trained a tough Assyrian militia, fit for guerrilla fighting and eager to annihilate the enemy. No mercy, raid and kill – it is the kind of warfare Semenov and Ungern will put into practice during the civil war in eastern Siberia. Is it far-fetched to presume that the uncompromising behaviour of the Assyrian warriors has inspired them to some extent?   
  
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Chal castle - Soto's stronghold
Well trained and highly motivated by feelings of revenge, Assyrian militias under the command of Mar Shimun’s brother David and General Agha Petros cross the Persian-Turkish border in the summer of 1917 and march against the Kurdish chieftain Soto at Oramar. Among the Russian Cossack officers who accompany this punitive expedition are neither Semenov nor Ungern. In those days they have already left the Urmia region.
   The Assyrian expeditionary force engages in heavy fighting against the Oramar Kurds. Assyrian warriors conquer and sack Oramar. Soto has fled and the Assyrians hunt him down in his last mountain stronghold at Chal. In a dashing attack they storm the castle and break through its main gate. The Kurdish defenders are slain, others are taken captive and the fortress is burnt to the ground. Soto himself has escaped once more, but the Assyrians have ravaged his territory and back in Urmia they get their reward – Russian military medals for bravery under fire. Viktor Shklovsky cynically  points out the other support the Assyrian fighters have got from their Russian allies: ‘We gave them nothing but rifles and cartridges, and even the weapons supplied were mediocre French three-shot Lebel rifles.’

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Urmia today - Central Square
What follows is sad history. In Russia the Bolsheviks have seized power after the October Revolution of 1917 and in January 1918 the Russians hastily retreat from Urmia. Once again the Assyrians are abandoned and left at the mercy of their enemies. Patriarch Mar Shimun is murdered close to Salmas, during negotiations with the treacherous Kurdish chieftain Simko. Assyrian militias crush a rebellion of Persian bands in Urmia and occupy the town, while Turkish troops are closing in on them. Harsh fighting devastates the region. Agha Petros holds out with his mounted fighters at first, but in plain summer Turkish armed forces break through and invade Urmia.
   The Assyrians have just one option left – a general exodus. The whole Assyrian nation, men, women and children, flee in a desperate attempt to reach the advance guard of a British expeditionary force that is approaching from the south. After the Russian retreat the British have promised to support the Assyrians, but promises is once more the only thing the Assyrians get. They are constantly under attack, there is no food, no shelter, and thousands of Assyrians perish during that awful march of a whole month through the Kurdish mountains of Persia. Those who make it are assembled by the British and taken to a refugee camp north of Baghdad. That summer of 1918 marks the end of the Assyrian nation in the Urmia region. It is also a turning point in the life of Semenov and Ungern, but for them it means the start of their most notorious exploits.
 
Siberian Warlords
 
End 1917 Semenov and Ungern prepare their next move in Manchuli, a gloomy garrison town in eastern Siberia at the Russian-Chinese border. According to them Russia will perish without the Tsar, whose autocratic regime must be restored at all costs. Semenov has been in Petrograd in the summer of 1917, a few months before the Bolshevik October Revolution. He has seen the Petrograd Soviet in action and he is absolutely convinced that the Soviet is dominated by deserters and German agents like Lenin and Trotsky. It is time to stop them.
   The first weeks of 1918 Semenov and Ungern advance from their Manchurian base in northern China with a small force of Buryat cavalry and Russian officers. They engage in guerrilla fighting against the Red Guards along the Trans-Siberian Railroad.  Semenov’s men are pushed back, but in the summer of 1918 anti-Soviet rebellions break out in Siberia. The Bolsheviks are obliged to loosen their grip and Semenov’s Special Manchurian Detachment dashes again into Siberian Russia. He conquers the major railroad centre Chita and makes this town the capital of his territory.
   Civil war with Reds fighting against Whites tears the Russian Empire apart. The former tsarist admiral Kolchak is in full control of the White Siberian government established in Omsk, west of Lake Baikal. The Siberian Far East is set ablaze. Japan has sent a contingent of troops, while an American expeditionary force is about to disembark in Vladivostok. In Transbaikalia, east of Lake Baikal, Semenov pulls the strings with money and weapons he gets from the Japanese. He is promoted ataman, supreme leader, of the Transbaikal Cossacks and that period in Transbaikalia is called the Atamansjtsjina, which means the Ataman’s Reign of Terror. His armoured trains terrorize the area and other trains get the even worse reputation of death trains. They transport Bolshevik prisoners of war to their doom. The Red captives are executed along the way or starved to death and when such a train stops at last on a side track near a station the stench of the corpses in the closed wagons is almost unbearable.

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Ataman Semenov in Soviet jail
Ataman Semonov drinks champagne by the bottle and enjoys the company of a whole bunch of mistresses. Then the Bolsheviks strike back. The Red Army has already defeated Kolchak’s White troops and the next offensive is directed against Semenov’s Transbaikalia. End 1920 the Reds march into Chita. Semenov escapes and flees to Vladivostok. He crosses the Pacific and seeks asylum in the United States. His request is rejected, he is called a criminal of war in the American press and he will have to stand trial. Semenov leaves the States and goes to Japan.
   Finally he settles down in Chinese Manchuria, a puppet state of Japan after 1930, and there he keeps agitating against Soviet Russia as the leader of the White Cossacks. At the end of the Second World War the Soviets invade Manchuria.  Semenov is arrested, put to trial and sentenced to death by a Soviet court. End of August 1946 he is hanged in a basement. The Bolshevik hangmen prolong his agony and shout at him Repent, reptile! And that is how die-hard Cossack warlord Grigori Semenov meets his end.
 
Back to 1920. Semenov still rules in Transbaikal Siberia when Ungern claims his own dominion at the Manchurian border. Russian refugees heading on trains for China are robbed and thank their good fortune if they get through alive. Ungern is equally ruthless towards his own men, a bunch of wild and often sadistic warriors.  Drunkenness and attempts to desert are severely punished. Flogging to death is one of Ungern’s methods. ‘Did you know’, he once said, ‘that men can still walk when their flesh is separated from their bones?’
   In the autumn of 1920, when Semenov is about to leave Transbaikia, Ungern starts his most stunning campaign. He invades Mongolia with a cavalry division of Mongolians, Cossacks and Tibetans, altogether some five thousand troops. The Tibetans have been sent to him by the Thirteenth Dalai Lama, who hopes that Ungern’s army will free Mongolia and Tibet from the Chinese. The first attack of the invaders is driven off, but in February 1921 Ungern’s men storm the Mongolian capital Urga (Ulan-Bator), they massacre the Chinese garrison and sack the city.
   Ancient times of terror and bloodshed revive in Urga during Ungern’s rule. He adopts the features of a militant Buddhist, as appears from his new colourful outfit. In the eyes of his Mongolian followers he is the God of War, the incarnation of Genghis Khan, and he reveals his ultimate plan – restoring the Great Mongolian Empire through fire and sword. He will advance against Soviet Russia and, as he puts it, create a lane of gallows with the corpses of Bolsheviks and Jews.

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Ungern in Mongolia
In the early summer of 1921 Ungern leads his force into Soviet territory. The invaders are crushed by Red Army troops and what is left of Ungern’s ragged mob is scattered in a desperate retreat. Surrender is not an option for the Mad Baron, he urges his men to follow him and strike back from the last stronghold – Tibet. Even extreme madness has its limits, though. The White Russians in his army camp revolt and fire their guns at him. Ungern jumps on his white horse and disappears into the night, looking for his faithful Mongolian outriders. Precisely these men will hand him over to the Red cavalry in pursuit of the invaders.
   In September 1921 he stands trial in a Soviet court in Novosibirsk. When asked by the Bolshevik prosecutor, a Siberian Jew, if he often beat people to death, Ungern answers: I did, but not enough! He is put before a Red firing squad and executed. Legend has it that Baron von Ungern-Sternberg even in better times more than once declared: Ich war ungern von Sternberg. In English: I have always hated being me.
 
Semenov and Ungern – after the Great War Siberian warlords of the worst kind and in the spring of 1917 Russian Cossack officers training Assyrian militias in the Persian Urmia region. The Russian writer Viktor Shklovsky liked the Assyrians, he called them a fantastic people. This may be true, but they have all too often picked the wrong allies. Or maybe these dubious allies picked them. Wrong place, wrong moment and wrong alliances – it seems to be the fate of the small Assyrian nation in history. 
 
Sources: Viktor Shklovsky, Sentimental Journey (Berlin, 1923); James Palmer, The Bloody White Baron (London, 2008); Jamie Bisher, Cossack Warlords of the Trans-Siberian (New York, 2005); Ataman Semenov, O sebe (Moscow, 2002).                                   Text - A. Thiry    

mardi, 19 janvier 2010

J. Parvulesco: les missions européennes et grandes-continentales de la Russie

dugin_parvulesco.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1994

Les missions européennes et grandes-continentales de la Russie

 

Jean PARVULESCO

 

Karl Haushofer

Subha Chandra Bose

in memoriam

 

L'axe franco-allemand est une

Révolution Mondiale

 

Dans les milieux géopolitiques du gaullisme, j'entends à l'intérieur de ses fort confidentiels groupes géopolitiques, dont l'action, quoi qu'on en dise, continue dans l'ombre, on est plus que jamais convaincu de la nécessité vitale, ontologique, d'une grande politique continentale franco-allemande.

 

Car, tout en se tenant très en retrait par rapport aux engagements que le mouvement gaulliste officiel a contracté, actuellement, en France, à travers l'expérience gouvernementale poursuivie par Edouard Balladur et Charles Pasqua, les groupes géopolitiques n'en surveillent pas moins attentivement l'évolution de plus en plus inquiètante de la situation politique générale en Europe.

 

Or, pour le gaullisme de la fin, pour le gaullisme en voie d'accomplissement final, qui seul est nôtre, plus la politique européenne se trouve en difficulté, par rapport à elle-même aussi bien que sur ses fronts d'affirmation extérieure, planétaire, plus il faut que le rapprochement franco-allemand s'intensifie, et qu'à la limite il finisse même par se résoudre en une intégration fédérale décisive, allant jusqu'à l'identification totale. Une identification finale destinée à changer, comme par réverbération sismique, de l'intérieur et irréversiblement, l'ensemble de la situation politique continentale.

 

Le gaullisme, le plus grand gaullisme, a été, est, quoi qu'on en dise et fasse de contraire, et va devoir se poser visionnairement jusqu'à la fin, comme un concept géopolitique axé sur l'intégration de l'ensemble du continent eurasiatique à partir du noyau révolutionnaire central franco-allemand. Pour le Général de Gaulle, la mise en chantier immédiate d'une communauté de destin franco-allemande était, à la fois en termes de devenir et en termes d'achèvement final, une Révolution Mondiale. Cette conscience unitaire fondationnelle, cette intelligence gaulliste supérieure, agonique, du problème franco-allemand trouve ses origines dans les années tragiques, embrasées et chaotiques de la fin de la dernière guerre civile européenne, dans l'hiver fatidique de 1944.

 

Rappelons donc que, dans ses Mémoires,  le Général de Gaulle cite, sans aucun commentaire mais exhaustivement la lettre personnelle qui lui était parvenue, en 1945, par des voies spéciales, de la part de Heinrich Himmler, alors que celui-ci était déjà en train d'être happé par les ténèbres. Lettre dans laquelle Heinrich Himmler adressait un appel prophétique à la constitution d'une future communauté franco-allemande de destin, dont il invitait fortement le Général de Gaulle à en prendre la responsabilité politique immédiate et active. «En vérité le seul chemin qui puisse mener votre peuple à la grandeur et à l'indépendance, c'est celui de l'entente avec l'Allemagne vaincue. Proclamez-le tout de suite! Entrez en rapport, sans délai, avec les hommes qui, dans le Reich, disposent encore d'un pouvoir de fait et veulent conduire leur pays dans une direction nouvelle. Ils y sont prêts. Si vous dominez l'esprit de la vengeance, si vous saisissez l'occasion que l'histoire vous offre aujourd'hui, vous serez le plus grand homme de tous les temps», se permettait encore d'écrire Heinrich Himmler.

 

Or, dès 1945, le tout premier souci, le souci fondamental du Général de Gaulle avait été celui de distinguer, et ensuite de mobiliser, au sein de l'Allemagne dévastée, politiquement et socialement anéantie, les ressources de vie non encore entamées, la “part ultime”, mystérieusement préservée envers et contre tout, afin qu'un autre commencement de l'histoire puisse y trouver ses assises, l'ouverture immédiate de l'ensemble de ses développe­ments à venir, une ouverture-là, d'ailleurs comme prévue d'avance. Ce que le Général de Gaulle allait alors demander  —déjà—  à l'Allemagne, c'était, disait-il, de rebâtir, avec la France, «notre Europe et notre Occident».

 

En parlant de ce dramatique tournant de la nouvelle histoire européenne naissante  —renaissante de ses propres cendres—  le Général de Gaulle notait, alors, dans ses Mémoires:  «Fribourg, en Forêt Noire, groupe pour recevoir de Gaulle tout ce qui est représentatif des régions occupées par nous sur la rive droite du Rhin. Le 4 octobre, le Dr Wohleb me présente les personnalités de Bade. Le 5 dans la matinée, M. Carlo Schmitt introduit celles du Wurtemberg. L'archevêque de Fribourg, Mgr Groeber, ainsi que Mgr Fisher du diocèse de Rotthausen, sont parmi les visiteurs. Puis, ces hommes de qualité, frémissants de bonne volonté, se réunissent afin de m'entendre évoquer «les liens qui, jadis, rapprochaient les Français et les Allemands du Sud et qui doivent, maintenant, réapparaître, pour servir à bâtir notre Europe et notre Occident».

 

Au sujet aussi de cette volonté visionnaire du Général de Gaulle, soucieux de recommencer, à peine la guerre finie, l'histoire occidentale interrompue, de bâtir, en avant, la plus grande histoire européenne à venir en la fondant sur l'axe ontologique franco-allemand, Dominique de Roux écrivait, lui, dans son livre révolutionnaire sur le Général de Gaulle, ces lignes qui resteront, définitivement: «C'est dans ce sens-là qu'il faudrait assurément comprendre l'affirmation du Général de Gaulle, parlant du rapprochement franco-allemand, quand il disait en juin 1963, dans les Charentes, qu'après d'immenses malheurs, ayant conclu entre elles la paix et s'étant unies pour un destin commun, l'Allemagne et la France ont accompli, ensemble, une Révolution Mondiale».

 

Heureux les Pacifiques

 

Cependant, il n'en reste pas moins évident que l'Axe Franco-Allemand ne saura avoir aucune réalité politique et historique directe et active s'il n'était pas soutenu par son dédoublement géopolitique à l'Est, par ce que, en 1994, le ministre des Affaires Etrangères de Moscou, Andreï Kozyrev, n'hésite pas à appeler, lui, l'Axe Germano-Russe.

 

On voit comment le destin suprahistorique de la communauté politique grand-continentale eurasiatique des années à venir s'identifie révolutionnairement avec le destin politique actuel de l'axe grand-européen Paris-Berlin-Moscou, raison d'être déjà en action, fondement de la plus Grande Europe dans laquelle notre génération est appelée à rencontrer son destin et l'épreuve décisive de celui-ci, son épreuve suprême. Car, à présent, «tout rentre à nouveau dans la zone de l'attention suprême».

 

Ainsi devient-il plus qu'urgent, ainsi devient-il vital que l'on se souvienne, aujourd'hui, du fait que la thèse grand-continentale de l'axe Paris-Berlin-Moscou à l'heure présente, répétons-le, thèse contre-stratégique fondamentale des groupes géopolitiques agissant à l'intérieur de la mouvance gaulliste en place  —apparaît comme étant d'une origine bien plus lointaine que celle des premières tentatives de la projeter, de la faire s'incarner directement dans le cours de la grande histoire qu'avait entreprises, d'une manière plus ou moins souterraine, dans les années 1960, le Général de Gaulle alors au pouvoir à Paris en tant que Président de la République, et qui n'avaient à ce moment-là échoué que du seul fait de la très suspecte  —de la plus que suspecte—  incompréhension du gouvernement de Bonn.

 

La thèse de l'axe grand-continental Paris-Berlin-Moscou n'était en effet pas, à l'origine, comme on serait tenté de le croire aujourd'hui, de gènèse exclusivement gaulliste, mais provenait de certains aménagements idéologico-doctrinaux français apportés, pendant les dernières années de la guerre, à Paris, au corps des positions géopolitiques de pointe soutenues, armées doctrinalement, par la vision du Kontinentalblock  de Karl Haushofer, du Bloc Continental. Il s'agissait alors des travaux d'aménagement doctrinal ayant pris naissance au sein de certains groupements secrets d'influence et de pénétration qui agissaient, à Paris, sous la responsabilité de Georges Soulès  —mieux connu, plus tard, sous l'identité du romancier Raymond Abellio—  à l'intérieur, et depuis l'intérieur des hautes sphères dirigeantes du Mouvement Social Révolutionnaire (MSR), tout en se tenant en étroite relation  —non sans le soutien, dans l'ombre, de certains services politiques supérieurs allemands—  avec une certaine fraction de la résistance politico-militaire gaulliste sous les ordres, dans la clandestinité, du futur Général de Bénouville.

 

Dans son premier roman, Heureux les Pacifiques,  paru à Paris en 1950, Raymond Abellio soulève un coin du voile en faisant parler un de ses personnages  —un de ses doubles— du fait, jusqu'alors tenu pour secret, qu'il y eût «des socialistes partout», des socialistes nationaux-révolutionnaires, dans tous les camps en confrontation dans ces années-là, et jusqu'au paroxysme même des dernières années de la guerre, après 1942, car il y a aussi  —il y eut, et il s'y verra de plus en plus à l'œuvre, dans l'avenir—  une internationale souterraine, clandestine, du socialisme révolutionnaire national et impérial, un socialisme grand-continental, «eurasiatique». Raymond Abellio: «Il y a, dit-il, des socialistes partout: ils voudraient voir se créer un bloc franco-germano-russe, un axe Paris-Berlin-Moscou qui dégagerait l'Occident de la tutelle et des contradictions de l'économie anglosaxonne».

 

Pour ceux qui savent, les forces premières ontologiquement présentes dans l'histoire en marche resteront, toujours, les mêmes, absolument inchangées. Hier comme aujourd'hui, il n'y a eu, il n'y a qu'un seul ennemi de ce qui sans fin revient à l'attaque pour imposer l'ordre cosmique de sa propre identité polaire des origines, l'Imperium  hors d'atteinte de ceux qui, «venus des étoiles» par la Jonction de Vénus, avaient établi, sur la terre, la première station hyperboréenne des hauts-commencements, et contrôlé toutes les stations de transmigration ultérieures et leurs descentes ontologiques successives et de plus en plus éloignées de l'être  —de ce que Heidegger appelle, lui, 1'«être de l'être»—  et de par cela même de plus en plus obscurcies, nocturnes, oublieuses de toute antériorité, de plus en plus voisines des gouffres du Sud Ultime. Encore que, de toutes les façons, le Sud Ultime, une fois atteint, il provoquera  —cela, je veux dire, provoquera—  comme de par soi-même le Redressement Final, le «Grand Renversement», ce que les voyants des temps védiques avaient désigné du nom de Paravrtti.

 

Or, à l'heure actuelle, le camp polaire du socialisme national-révolutionnaire européen d'ouverture grand-continentale se trouve encore une fois directement mobilisé sur les barricades du combat pour la reconstitution politique et historique immédiate de l'axe Paris-Berlin-Moscou. C'est là, et là seulement que se portent, à présent, tous les combats d'avant-garde, c'est là qu'est en train de se produire, tectoniquement, le renouvellement intérieur, abyssal, de la «grande histoire».

 

Au centre de l'Europe ainsi interpellée par son nouveau destin, l'Allemagne se retrouvera écartelée et par la double attraction et par la double pétition de rencontre qui contredit cette attraction tout en faisant qu'elle s'accomplisse, attraction en cours qu'exercent, sur elle, chacune de son côté et les deux ensemble, et la France et l'Allemagne, l'Ouest et l'Est du Grand Continent Eurasiatique déjà happé par le vertigineux tourbillon final de la réintégration grand-continentale en train de se donner à faire sous les auspices à la fois ardentes et polaires de 1'Imperium Ultimum.

 

D'immenses puissances négatives, dissimulées

 

C'est très précisément la raison pour laquelle d'immenses puissances négatives secrètes, dissimulées, s'opposent aujourd'hui à l'intégration définitive de la France et de l'Allemagne, tout comme d'immenses puissances négatives secrètes s'opposeront aussi, et en même temps, à l'intégration définitive de l'Allemagne et de la Russie : or, dans les deux cas, ces puissances négatives, occultement et depuis toujours assujetties au non-être et au chaos originel dans ses persistances nocturnes, dissimulées, s'avéreront être les mêmes. Si nous sommes donc restés les mêmes, l'ennemi ontologique de tout ce que nous sommes et avons été, de tout ce que nous serons à nouveau, est lui aussi resté le même, inconditionnellement identique à lui-même et à ses missions commandées par les “ténèbres extérieures”.

 

Le péril est également à invoquer, et là, avec la clarté la plus tranchante, des puissantes manœuvres de retardement, de “blocage antifasciste”, de déstabilisation permanente que poursuit, contre nous, à la fois en plein jour et tout à fait dans l'ombre, l'Internationale Socialiste et ceux qui la prédéterminent, silencieusement, dissimulés dans les arrière-coulisses nocturnes de notre propre histoire en cours. Il s'agit donc de dénoncer avec force le socialisme marxiste et cosmopolite, antinational et antieuropéen, subversivement véhiculé par les Partis Socialistes du Portugal, d'Espagne, de France, d'Italie, de Belgique, d'Allemagne, refuges et bases activistes durcies des Partis Communistes apparemment auto-neutralisés, passés au stade tactique des “présupposés antérieurs”. Le cas du PDS italien reste le plus flagrant qui, masses électorales, cadres, organisations parallèles et dirigeants, Achille Occhetto en tête, n'est rien d'autre que le PCI renforcé par les boues alluvionnaires d'un “front populaire” autrement manigancé, et d'autant plus dangereux.

 

D'autre part, la situation reste particulièrement critique en Allemagne, où l'eventuelle arrivée au pouvoir, à la faveur des prochaines élections legislatives, de la SPD confortée par la candidature gauchiste de Rudolf Scharping, dont la pensée politique interlope et les relations subversives avec les formations alternatives clandestines sont notoires, provoquerait une catastrophe politique de dimensions européennes, et sans doute bien plus encore. Ce qui devra donc être empêché par tous les moyens, y inclus, comme disait l'autre, “par les moyens les plus légaux”.

 

Nous nous situerons donc d'emblée, et comme inconditionnellement, aux côtés du chancelier Helmut Kohl, héros de la réunification totale de l'Allemagne et des retrouvailles définitives de l'Allemagne avec elle-même, ainsi que du nouveau recommencement de la plus Grande Europe, qui en provient directement. Que le chancelier Helmut Kohl compte donc sur nous qui, de notre côté, nous saurons toujours qui est qui.

 

Ainsi, le voit-on, toutes les forces en confrontation, dans le visible et dans l'invisible, se retrouvent déjà en état d'alerte maximale, rangées à leurs places préétablies, prêtes à tout.

 

L'heure du grand tremblement de terre se fait proche, qui ébranlera, encore une fois, tout. Aussi vais-je citer là cette terrible parole prophétique du chancelier Helmut Kohl, parole prophétique dont l'actualité intime s'accélere, et qu'il faut savoir comprendre à son double niveau: Ce que nous avons semé en mai, nous en aurons la récolte en octobre.

 

Les déplacements de la “Terre du Milieu”

 

Des changements arrivent partout, et qui vont, tous, dans le même sens, le sens du renouveau total qui s'annonce, et dont c'est à nous autres qu'il reviendra la tâche révolutionnaire d'en maîtriser un jour la ligne de tumulte.

 

Mais la situation, désormais, s'éclaircit, aussi, dans les profondeurs. Si, par rapport à 1'“Empire du Milieu” allemand, par rapport aux  “Terres Immuables” de la centralité polaire, hors d'atteinte, incarnée, en ces temps de la fin, par l'Allemagne, la France, de son côté, y représente, aujourd'hui, et y apporte  —car telle est sa mission prédestinée—  l'ensemble du camp occidental grand-européen, l'Ouest donc du Grand Continent Eurasiatique et, plus visiblement, la base impériale occidentale Madrid-Rome-Bruxelles, la Russie, en ce qui la concerne, représente, et y apporte, principiellement, l'Est du Grand Continent Eurasiatique, comprenant “la plus Grande Inde” et “le plus Grand Japon”.

 

Cependant, ainsi que j'avais déjà eu l'occasion de le montrer dans mon étude sur “les fondements de la géopolitique secrète du gaullisme”, le concept de Heartland, de “terre du milieu”, équivalent géopolitique fondamental des “Terres Immuables” du Taoisme, concept de heartland  déjà défini  —en termes de géopolitique active—  par Sir Halford  John Mackinder, et auquel Karl Haushofer avait aussi souscrit entièrement dans ses travaux, est un concept voué à se déplacer à l'intérieur de l'espace central qui constitue son aire continentale de présence et d'action propres, ses déplacements suivant la spirale qui véhicule en avant et qui manifeste le grand cycle cosmique en cours.

 

Ainsi, qui détient le secret des cheminements prévus d'avance, inscrits d'avance sur la spirale régissant les déplacements du heartland  du Grand Continent Eurasiatique, détient aussi, de par cela même, le secret du devenir de la puissance intérieure de l'Imperium, et de l'historial visible de celui-ci dans l'histoire en marche vers sa conclusion ultime, vers cet Imperium Ultimum où l'histoire sera appelée à s'identifier assomptionnellement avec l'au-delà de l'histoire.

 

Le projet contre-stratégique fondamental des nôtres, à la veille même de nos plus grandes batailles suprahistoriques et révolutionnaires de la fin devra donc savoir trouver l'audace nécessaire pour aller à la rencontre de ce qui nous apparaît comme le secret déjà en action du futur déplacement ontologique du centre de gravité géopolitique du Grand Continent, de sa prochaine recentrification impériale et polaire. Il faut que nous sachions faire de la fatalité même de l'histoire notre arme suprahistorique décisive, le courant porteur de notre plus haut pouvoir d'intervention historique et politique à venir.

 

Pour les nôtres, et en cette heure plus que jamais, les choix profonds du destin sont, d'avance, comme “inscrits dans les étoiles”.

 

Ainsi se fait-il donc que, si, pendant la saison de nos actuelles préliminaires à la mise en place de principe, conceptuelle, du Grand Empire Eurasiatique de la fin l'emplacement ontologique de la “terre du milieu” se trouve encore situé en Allemagne, une fois le processus impérial grand-continental révolutionnairement entamé au niveau de l'action historique et politique directe, et directement inscrite dans l'histoire en cours, le heartland, le principium  des “terres du milieu” va devoir se déplacer  —ainsi que de prévu—  sur la Russie, pour y rejoindre son emplacement prévu depuis toujours, et prévu aussi pour qu'il durât jusqu'à la fin, pendant tout le millénaire  —ou les dix millénaires de notre légende antérieure—  de la prochaine projection temporelle, immédiatement historique, qui sera celle de l'Imperium Ultimum.

 

D'ailleurs, quelqu'un dont le regard est habitué —ou plutôt habilité—  à surprendre l'essentiel du devenir historique sous le cours apparent, obscur et troublé de ses propres contingences à l'œuvre, se doit d'avoir déjà compris, comme de par lui même, que le centre de gravité de la nouvelle histoire occidentale du monde se déplace actuellement vers la Russie, dont l'attirance se fait de plus en plus irrésistible, et dont le cœur le plus profond s'est sans doute déjà mis à battre —à rebattre—  quelque part. Ainsi 1'“élévation polaire” de la Russie, territoire prédestiné de la prochaine émergence des “terres du milieu” s'accomplit-elle, et va.

 

Personne, d'autre part, ne saurait l'ignorer, la Russie, à l'heure présente, se trouve prisonnière d'une situation apparemment sans issue, en proie à des difficultés extraordinaires et tout à fait noires, déstabilisantes, dans une situation encore plus noire que sans aucun doute ne l'était celle de l'Allemagne en 1945, parce que le désastre de l'Allemagne de 1945 ne pouvait pas ne pas pouvoir chercher en lui-même de quoi amorcer le processus d'une reprise future, alors que le vertige suspect dans lequel semble s'enfoncer actuellement la Russie est fait pour qu'il s'auto-intensifie et ne puisse pas s'arracher à la fatalité de mort que l'on y a investie à dessein. Car il y a un vaste dessein à l'œuvre pour empêcher que la Russie n'en vienne à émerger de par elle-même du piège d'anéantissement qui l'enserre de partout et tente de l'étouffer, qui la maintient crucifiée sur l'inconcevable honte de son actuelle réduction ontologique à la misère, au démantèlement économique et social, sans nul secours majeur, et cette conspiration conçue, de l'extérieur et de l'intérieur, préventivement, pour la spolier de sa miraculeuse libération du communisme et pour lui interdire de rejoindre le nouveau destin transcendantal et suprahistorique, polaire, qui est à présent le sien envers et malgré tout.

 

La comparaison de la situation de détresse totale qui est actuellement celle de la Russie de l'interrègne, de la transition post-communiste, et de ce qu'avait été la catastrophe historique de l'Allemagne en 1945 ne concerne que la face visible, extérieure et immédiate des choses.

 

Car, si l'Allemagne, en 1945, avait été vaincue, la Russie, elle, n'a pas été vaincue. Au contraire. La Russie, elle, a été sauvée. Quelle que puisse être la situation actuelle de la Russie, la Russie est, face à nous autres, ressuscitée d'entre les morts. Et cette resurrection, à présent, dit sa voie présente, et sa voie à venir.

 

L'horizon marial de la Nouvelle Russie

 

Or, miraculeusement délivrée, sans guerre civile intérieure ni défaite militaire extérieure, du cauchemar sanglant et sans faille de soixante-dix années de ténèbres et de honte, d'impuissance totale face à l'emprise communiste et de ce qui se cachait derrière le communisme, la Russie ne le fut que par la seule œuvre du Cœur Immaculé de Marie, qui a tenu tous ses engagements secrets et sa mystérieuse promesse de Fatima: aujourd'hui, la Russie est, ainsi que je viens de le dire, un pays ressuscité d'entre les morts, et qui porte dans son être même, et à jamais, les stigmates d'un inconcevable miracle comme autant d'entailles eucharistiques, embrasées vives, déjà irradiantes, salvatrices, inextinguibles.

 

Aussi la Russie, à présent, doit-elle trouver, avant tout, la manière la plus appropriée de faire ses Actions de Grâces, de remercier sa Divine Salvatrice pour la victoire inouïe et très haute, pour l'intervention abyssale dont son Cœur Immaculé a si bien su la faire bénéficier, comme en un songe, comme si de rien il n'y avait entre temps.

 

On se souvient de la prédiction de Saint Maximilien Kolbe, le mystique supplicié d'Auschwitz: que le jour venu, avait-il dit, la statue de Marie remplacera, au sommet du Kremlin, le tourbillon infernal de l'“Etoile Rouge”. Aussi tout doit être mis en branle, et tout de suite, pour que ce changement symbolique vienne à être chose faite, dans les formes, nuptialement. Avant, rien ne se fera de ce qui doit se faire pour la promotion impériale de la Nouvelle Russie appelée à l'avant-garde transcendantale pour les batailles finales de notre Imperium Ultimum.

 

Et, dans cette circonstance, il m'est, à moi, tout à fait impossible de ne pas m'intimer de reproduire, ici, parce que c'est bien ainsi que cela doit se faire, les conclusions de mon récent entretien catholique et marial avec Eric Vatré, entretien publié, depuis, dans un ouvrage de groupe, intitulé La droite du Père.

 

Je commençais donc la dernière partie de ce long entretien par une citation de Pie XII. Un fragment de l'extraordinaire discours que Pie XII avait fait, à Rome, à la Noël 1942. Au cœur même de l'hiver suprêmement décisif, juste à l'instant où tout devait basculer dans les ténèbres de l'égarement et de la défaite, et pour si longtemps et désormais sans plus aucune trêve.

 

«Ne faut-il pas plutôt,  disait Pie XII, que sur les ruines d'un ordre public qui a donné des preuves si tragiques de son incapacité d'assurer le bien du peuple, s'unissent tous les cœurs droits et magnanimes dans le vœu solennel de ne se donner aucun repos jusqu'à ce que dans tous les peuples et toutes les nations de la terre, devienne légion la troupe de ceux qui, décidés à ramener la société à l'inébranlable centre de gravité de la loi divine, aspirent à se dévouer au salut de la personne humaine et de sa communauté anoblie en Dieu? Ce vœu, l'humanité le doit aux innombrables morts enterrés sur les champs de bataille; le sacrifice de leur vie dans l'accomplissement de leur devoir est l'holocauste offert pour le nouvel ordre social à venir, et qui sera autre».

 

Et moi-même, alors, j'ajoutais ce commentaire, qui reprenait, en l'actualisant, la ligne combattante de Pie XII: «Ayant posé les fondations visibles et invisibles dans le sang, dans 1e sacrifice heroïque et mystique de ceux qui ont donné leurs vies pour l'avenir et l'honneur tragique de leur foi, la nouvelle unité continentale voulue par Rome est en marche, et rien ne l'arrêtera Le soleil de Rome se lève à nouveau à l'occident du monde; l'Europe portée aux dimensions du Grand Continent Eurasiatique redevient une idée transcendantale».  Et ensuite: «Mon message va s'adresser exclusivement à ceux qui se trouvent déjà engagés, ou qui vont l'être, dans la terrible conspiration spirituelle et nuptiale du mystère de l'Incendium Amoris».

 

La conspiration de l'Incendium Amoris, comment agit-elle, quels en sont les buts ultimes et l'ultime horizon d'embrasement? La réponse à cette question nous concerne de la manière la plus directe: «Au-delà de leurs futures incarnations historiques et de ce qui s'y verra impliqué, ainsi, processionnellement, dans les temps portés vers l'assomption finale du Regnum Sanctum, de l'Imperium Sanctum, les grands événements à venir et qui auront tous, dans leur ensemble, Rome pour centre polaire et la lumière métahistorique de Rome pour horizon de retour, en appellent aussi, désormais, et avec une violence de plus en plus passionnée, à une incarnation mariale finale, décisive, coronaire».

 

Et d'une manière encore plus précise, et de par cela même plus périlleuse: «Marie doit assurer de sa venue testimoniale et amoureuse le retour de l'Europe  —de la plus Grande Europe—  à l'être de la foi catholique renouvellée, de même que c'est par la proclamation du dogme de la Coronation de Marie que Rome se doit d'armer surnaturellement son actuelle offensive contre-stratégique finale pour le recouvrement catholique du Grand Continent Eurasiatique». Et pour finir, très dangereusement, et très à dessein ainsi, le Livre de Baruch, III 38, disant, alors qu'il y parlait de la Sagesse: Puis elle est apparue sur terre, et elle a vécu parmi les hommes.

 

Le cercle des assomptions géopolitiques continentales va-t-il se refermer sur la pétition coronaire d'une assomption d'élévation solaire, d'une montée spirituelle communionale “jusqu'au soleil”, confirmée cosmiquement par la venue même de l'Epouse vêtue de Soleil, de la très virginale Sponsa Soli?

 

Agissant sur l'histoire, nous agissons, aussi, sur l'au-delà de l'histoire, toute vision géopolitique majeure, fondationnelle, décisive, implique également sa propre coronation géothéologique  —voire géothéologale—  car, ainsi que l'écrivait Moeller van den Bruck, «il n'y a qu'un seul Reich comme il n'y a qu'une seule Eglise».

 

A l'échelle donc des ultimes horizons de l'histoire occidentale en marche vers l'accomplissement de sa prédestination la plus cachée, ontologiquement cachée, le but de la “grande géopolitique”, de ce que certains des nôtres et en premier lieu moi-même avons déjà pris coutume d'appeler, entre nous, la “géopolitique transcendantale”, n'est autre que celui qui va devoir s'incarner  —qui, déjà, s'incarne, amoureusement—  dans le dogme cosmique de la Coronation de Marie

 

Néanmoins, pour le moment, l'ordre des urgences sur le terrain apparaît comme autre.

 

Les tâches des missions qui sont nôtres, à l'heure présente, interpellent la part la plus visible et la plus tragique de l'histoire immédiate, retrouvent les dimensions politiques et activistes de nos combats et s'y engagent avec toute l'intensité, avec toute la violence de ceux qui dans le devenir même des contingences interceptent, de l'intérieur, la lumière vivante du perpétuel appel, en eux, de la base polaire antérieure.

 

L'ordre des urgences

 

Pour le moment, l'ordre des urgences contre-stratégiques sur le terrain exige que l'on fasse tout le nécessaire pour que l'Allemagne  —l'Allemagne de l'axe Germano-Russe souhaité par Andreï Kozyrev—  puisse fournir à la Russie, en temps utile, le soutien demandé par son rétablissement et son maintien politique et économico-industriel au niveau de superpuissance planétaire, niveau qui, en principe, ne peut absolument pas ne pas être encore le sien.

 

Seule nous importe, dans le cadre du combat final pour la plus Grande Europe continentale eurasiatique, la Russie dans son identité de superpuissance planétaire disponible aux exigences de sa prédestination impériale suprahistorique.

 

Encore que, désormais, la seule superpuissance continentale planétaire de taille à faire face aux Etats-Unis et aux conspirations océaniques et autres de l'imperium  de fait entretenu par les Etats-Unis au niveau de ses propres prétentions et contingences mondiales, apparaît comme étant la plus Grande Europe, régie par l'axe Paris-Berlin-Moscou et qui déjà s'apprête à s'élever de par elle-même au niveau du futur grand Empire Eurasiatique de la fin, de notre Imperium Ultimum.

 

Nous avançons que le moment politique mondial est donc des plus propices pour qu'à l'intention des nôtres une grille opérationnelle immanente vienne à être établie, produisant les thèses contre-stratégiques et, par la suite, dans un second temps, stratégiques et défensives, destinées à mobiliser, suivant les délais d'une première mise en place impériale grand-continentale d'ensemble, 1es structures doctrinales et d'action directe à la disposition de l'axe fondamental Paris-Berlin-Moscou et des projets révolutionnaires de base poursuivis par celui-ci.

 

Aussi nos dernières analyses de la situation en charge à son niveau impérial grand-continental d'ensemble nous conduisent-elles à répondre aux défis qui se dégagent, de cette situation même, par une grille immanente de sept thèses opérationnelles, quatre thèses contre-stratégiques d'engagement directement continental, et trois thèses stratégiques offensives portant sur un niveau révolutionnaire planétaire. Les combats à l'intérieur et à l'extérieur du Kontinentalblock constituent, cependant, un seul front. Un seul front, un seul commandement.

 

Contre-offensive à l'intérieur, offensive à l'extérieur du Kontinentalblock  de Karl Haushofer, du Bloc Continental sur lequel s'exercent les influences polaires, les pouvoirs supérieurs de ce que nous servons nous autres, soldats d'un seul Concept Absolu.

 

Aussi cette grille immanente des sept thèses opérationnelles de base destinées à promouvoir sur le terrain l'axe géopolitique fondamental Paris-Berlin-Moscou à son niveau impérial d'avant-garde, à son niveau grand-continental eurasiatique, nous apparaît-elle donc devoir être, au moment présent et vue notre situation profonde, très certainement définissable de la manière suivante, et que nous faisons notre entièrement:

 

1.

C'est au tréfonds d'elle-même, de son histoire conçue, voulue, engagée dans sa totalité active, de sa plus occulte prédestination spirituelle, que la Russie  —que la Nouvelle Russie qui est nôtre—  doit tenter d'assurer envers elle-même l'effort suprahumain de trouver  —de retrouver—  son propre centre polaire de gravité, son propre pôle d'unité transcendantale vivante, car c'est bien à partir de ce moment d'embrasement eucharistique intérieur, et seulement à partir de ce moment-là, que la Russie renouvellée en elle-même depuis son centre polaire même, pourra se concevoir réellement en état d'assurer les tâches suprahistoriques impériales qui sont les siennes en propre, depuis toujours et jusqu'à la fin de tout, apocalyptiquement.

 

2.

Car, à ce que la plus Grande Europe, interpellée actuellement par son axe de mobilisation Paris-Berlin-Moscou, peut et doit faire, d'urgence, pour 1e rétablissement politique et économico-industriel de la Nouvelle Russie, la Russie, la Nouvelle Russie, de son côté, doit pouvoir répondre par la mise en œuvre, à sa charge, du renouveau révolutionnaire spirituel et charismatique devant soulever, incendier en conscience et irrationnellement, l'ensemble de l'Europe et du Grand Continent: c'est de Russie, nous ne l'ignorons plus, que devra nous venir, maintenant, le nouvel Incendium Amoris  qui changera tout.

 

3.

Pour l'axe contre-stratégique Paris-Berlin-Moscou, l'objectif économique et industriel absolument prioritaire à l'échelle européenne grand-continentale reste, à l'heure présente, et avant toute autre option de combat, quelle qu'elle fût, celui de la mise en chantier des projets confidentiels concernant 1e développement révolutionnaire en commun de la Sibérie, à tous les niveaux disponibles, avec le soutien à part entière du Japon et excluant d'avance toute participation ou droit de regard des puissances non-continentales comme les Etats-Unis ou de la mouvance à couvert de qui suit les Etats-Unis.

 

D'autre part, il devient évident que la participation immédiate, directe et entière du Japon au Projet Continental Grande Sibérie (PCGS) va constituer, dans les faits, l'acte fondationnel, le vœu originel de l'entrée  —de la rentrée—  du “plus Grand Japon” au sein du camp d'intégration continentale avancé du futur Empire Eurasiatique de la Fin, et que le reste suivra. Une audacieuse volonté, une volonté à la fois abrupte et nouvelle y trouvera ses voies, et toutes ses voies, y inclus celles, prophétiques et sacrales, de la “passe à l'Ouest“.

 

Par ses engagements envers le Projet Continental Grande Sibérie (PCGS), le Japon se tourne vers l'Ouest, rejoint le Kontinentalblock.

 

Quand Karl Haushofer dit comprendre les Chinois comme une race du Nord en descente migratoire vers le Sud et les Japonais comme une race du Sud en montée migratoire vers le Nord, il définit, en plus, 1e cyclone démographique dont le Japon ne pourra se libérer qu'en échangeant le poids négatif de la Chine dans son environnement océanique immédiat contre le contre-poids positif du Kontinentalblock  dans son grand environnement d'ensemble, planétaire. L'intégration du Japon dans le Kontinentalblock,  sa réorientation vers l'Ouest, représente, pour le Japon, son accession à ce que le Taoisme appelle “la passe de l'Ouest”.

 

Mais “la passe de l'Ouest”  —tel aura été, à la fin, le “grand secret” du Taoisme—  représente, en réalité, le passage obligé, le seul “chemin de passage” vers le Nord, le chemin même de la Jonction de Vénus. Pour la Jonction de Vénus, à revoir, sous son angle opérationnel le plus secret, L'étoile de l'Empire Invisible.

 

Or c'est bien la Nouvelle Russie qui se trouve pressentie pour conduire le Japon dans le périlleux chemin de “la passe de l'Ouest”, dans son retour final vers le Nord et “la zone d'attention suprême” de ses plus occultes gratifications polaires dans les hauts chemins glaciaires de 1'“Acier Polaire”.

 

Car c'est bien par rapport à la mise en marche du Projet Continental Grande Sibérie (PCGS) que le nouvel axe Germano-Russe pressenti par Andreï Kozyrev pourra donner sa pleine mesure, l'Allemagne étant, en cette occurrence précise et tout à fait décisive, le maître d'œuvre et la puissance mobilisatrice centrale de l'ensemble grand-continental appelé à participer à ce projet, premier “grand projet continental” de 1a superpuissance planétaire représentée par la Grande Europe. Dans un certain sens, tout va devoir se passer, désormais, dans l'environnement opérationnel du Projet Continental Grande Sibérie (PCGS), et des implications supérieures de la mise en chantier de celui-ci.

 

4.

A la limite, que sommes-nous d'autre, en ces temps de vertige et de décision secrète, que sommes-nous d'autre que la conscience visionnaire de notre propre action révolutionnaire sur le terrain, action présente et, surtout, action à venir?

 

En d'autres circonstances, nous écrivions déjà: «Porteuse des puissances d'être et de changement révolutionnaire qui lui reviennent en propre, la conscience visionnaire de l'avenir proche et plus lointain de la Grande Europe et de ses destinées eurasiatiques impériales s'approche déjà, et de plus en plus, de l'histoire immédiate, et cette marche d'approche est en elle-même, déjà, de plus en plus d'ordre organisationnel, dans le sens profond, fractal et cosmogonique du terme. L'interpellation organisationnelle de l'histoire en change-t-elle le cours?». Or cette dernière interrogation justifie subversivement et fonde toute notre action présente et à venir, nous donne les droits qui sont déjà nôtres à prétendre à un pouvoir d'emprise transcendantale sur la plus grande histoire, pouvoir d'emprise que nous allons devoir enlever de haute lutte à ceux qui en détiennent aujourd'hui les clés cachées. Des clés qui ne sont d'ailleurs pas celles de l'histoire, mais de 1a sombre anti-histoire qui, pour peu de temps encore, leur sert d'histoire, de faux semblant d'histoire.

 

Ainsi, «une première assemblée consultative géopolitique grand-continentale va devoir se trouver mise en place par nos soins, qui réunira, en vue de consultations ultérieures, que l'on peut déjà envisager dans leurs lignes majeures, des représentants de tous les pays ou régions significatives du Continent Eurasiatique, du Japon à l'Islande, un gouvernement Provisoire Continental (GPC) étant appelé à en émerger par la suite. Et, aussi, un président à vie émergeant de l'entité Impériale de la Fin, élu d'une manière identique à celle qui décide encore de la Dévolution Romaine, et disposant des pleins-pouvoirs ontologiques appartenant à l'état de sa prédestination impériale secrète, mais qui se manifestera en temps prévu, signo dato.  Un président à vie de l'Entité Eurasiatique Impériale de la Fin élevé par l'irrationalité dogmatique à l'état et aux titres d'un concept absolu, et ce “concept absolu” n'étant lui-même, alors, que le dernier état de l'irrationalité dogmatique en action».

 

5.

La première tâche stratégique offensive, la première “tâche extérieure” de l'axe Paris-Berlin-Moscou sera alors celle de pourvoir à l'établissement  —au rétablissement—  des états ontologiques identitaires, d'être et de destin, avec les hautes terres d'Amérique Latine, avant-poste de combat planétaire contre l'impérialiste global de la centrale subversive nord-américaine et de ceux qui la manipulent occultement, et, en même temps, espace de renouveau cosmique en relation directe avec le prochain retour en puissance des Pléiades. A couvert, l'héritage horbigerien, dans 1es Andes, se maintient encore. Or nous y reviendrons, suivant les plans prévus.

 

Ainsi avons-nous pris connaissance, en attendant, et avec la plus extrême attention activiste, de l'article de combat planétaire du Dr Carlos A. Disandro, de La Plata, Bolivie, «Global Invasion y defensa cultural, etnica, telurica», paru dans la revue chilienne Ciudad de 1os Cesares, Vina del Mar, Chili, mars-avril 1993.

 

6.

L'axe continental Paris-Berlin-Moscou devra également assumer  —réassumer, réactiver et redéployer en avant—  toutes les tâches politico-stratégiques sur le terrain, toutes les missions d'intervention révolutionnaire offensive qui avaient déjà été celles du “grand gaullisme”, du gaullisme des années 1960  —le Général de Gaulle étant au pouvoir—  en direction du Québec, du Canada et de la partie des Etats-Unis qui, sur les confins de la Louisiane, garde encore la mémoire souterrainement vivante de ses origines européennes et françaises, tête de pont culturelle et politico-stratégique pour nos futures actions de libération et de recouvrement à terme de nos anciennes Terres Nordiques, de l'“Amérique du Nord”.

 

7.

L'intégration finale de l'ensemble des courants de spiritualités supérieures ayant surgi dans l'espace grand-continental des premières processions hyperboréennes viendra à se constituer sous la protection active des retrouvailles géopolitiques impériales marquant la fin du cycle cosmique actuel, l'Empire Eurasiatique de la Fin se trouvant ainsi porté à être, pour les christologies mariales et paraclétiques de la fin, ce que Rome avait déjà été, une première fois, pour l'ensemble historique du christianisme naissant, pour la “nouvelle religion” appelée à surgir en Occident.

 

Et ce sera donc dans les espaces polaires de la dernière Terre du Milieu, en Russie et dans ce que sera alors devenue la Nouvelle Russie, que viendront se retrouver les descendances éparses de la grande Lumière Antérieure, dont la Dernière Rome ne fera qu'achever en l'accomplissant le processus suprahistorique des retrouvailles intérieures et l'ultime Identité Divine, “Marie de la Fin”.

 

Et, pourquoi ne pas le dire, les hauts travaux de rassemblement, de ressourcement polaire poursuivis actuellement, depuis Moscou, par Alexandre Douguine et les groupes de veilleurs qui lui sont proches et qui s'y trouvent déjà à l'œuvre, entretiennent, sur place, les préliminaires déjà confidentiellement entamées de ce qui, plus tard, mènera au Grand Retour.

 

Or, de même que la réintégration du camp grand-continental du futur Empire Eurasiatique de la Fin devra se faire, pour le Japon, pour “le plus Grand Japon”, par les voies de sa participation fondamentale, ontologique, au Projet Continental Grande Sibérie (PCGS), l'Inde, “la plus Grande Inde”, va rejoindre le même espace métahistorique impérial en apportant aux nôtres, comme de l'intérieur, ce qui, ne fût-ce que d'une façon abyssalement occulte, au tréfonds de la spiritualité hindoue et tibétaine ne peut pas ne pas subsister encore de l'immense Lumière Antérieure, de la “vive lumière” des temps védiques et hyperboréens, polaires, d'avant même les temps védiques.

 

Ainsi la double mission de la Nouvelle Russie à l'Est du Grand Continent Eurasiatique sera-t-elle mise, bientôt, en état d'accomplissement, double mission qui concerne et engage, ainsi que nous l'avons déjà vu, les retrouvailles ontologiques, profondes, de l'axe géopolitique fondamental Paris-Berlin-Moscou, et de l'ensemble du Grand Continent mobilisé par celui-ci, avec “la plus Grande Inde” et avec le “plus Grand Japon”. Raymond Abellio: il y aura alors des épousailles inouïes.

 

Car ce qui à ce moment-là devra se rejoindre, constituer l'Est du Grand Continent et du suprême Projet Impérial de celui-ci, va s'y rejoindre par l'intermédiaire de la Nouvelle Russie, conçue métahistoriquement pour qu'elle reçoive, en même temps et comme de par le même mouvement, l'Ouest du même Bloc Continental mobilisé par l'Axe fondamental Paris-Berlin-Moscou.

 

A la fin du cycle, et nous y sommes, le Kontinentalblock  de Karl Haushofer aura son centre polaire d'affirmation géopolitique impériale quelque part dans les espaces qui sont actuellement ceux de la Russie, et c'est au cœur même de notre Nouvelle Russie que se tiennent les nouvelles “Terres du Milieu” et leurs inaccessibles espaces intérieurs de virginalité impériale amoureusement, nuptialement au service de l'Ultime Marie et de l'Imperium Ultimum  qui l'entourera dans l'invisible et, aussi, dans le visible. Car, en ce moment prédestiné et très secret, souvenons-nous, comme nous devons le faire, de la parole prophétique fondamentale, du verbum novissimum  de Baruch, puis elle est apparue sur terre, et elle a vécu parmi les hommes.

 

Tel me semble donc être l'ordre des urgences commandant la ligne fondamentale de nos combats actuels et la grille immanente des thèses opérationnelles destinées à en promouvoir les déploiements sur le terrain, le passage à l'action directe.

 

Jean PARVULESCO.

Paris, le 28 mai 1994.