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mercredi, 28 novembre 2012

Moskau über Aufstockung von Nato-Militärpotential in Türkei besorgt

Moskau über Aufstockung von Nato-Militärpotential in Türkei besorgt

von Sergei Guneev

Der russische Aussenminister Sergej Lawrow hat in einem Telefongespräch mit Nato-Generalsekretär Anders Fogh Rasmussen die Besorgnis Russlands über die Pläne der Nato zur Aufstockung ihres Militärpotentials in der Türkei bekräftigt. Das geht aus einer Mitteilung des russischen Aussenministeriums hervor.
Das Telefongespräch fand auf Initiative der Nato-Seite statt.
Laut der Mitteilung hat Rasmussen Lawrow über die Situation mit dem an die Nato gestellten Antrag der Türkei informiert, ihr Patriot-Abwehrraketen zur Verfügung zu stellen. 
Der russische Aussenminister äusserte Besorgnis über die geplante Verstärkung des Militärpotentials der Nato in der Region und bekräftigte das Angebot, eine direkte Verbindung zwischen Ankara und Damaskus herzustellen, um unerwünschte Zwischenfälle zu vermeiden.
Die Seiten erörterten auch die Vorbereitung auf die zum 4. Dezember nach Brüssel einberufene Ministersitzung des Russland-Nato-Rates.
Das Nato-Mitglied Türkei hatte die Allianz ersucht, ihr Patriot-Raketenkomplexe für den Schutz der 900 Kilometer langen Grenze zu Syrien zur Verfügung zu stellen. Laut dem Nato-Chef soll der Antrag von Ankara unverzüglich geprüft werden.

© RIA Novosti vom 23.11.2012

vendredi, 21 septembre 2012

Russia e Ucraina verso l’Unione doganale

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Russia e Ucraina verso l’Unione doganale

L’idea del capo del Cremlino di creare un’unione eurasiatica con gli ex Stati dell’Urss coinvolge anche Kiev. Gli eurocrati criticano Yanukovych

Andrea Perrone

Ex: http://rinascita.eu/


La Russia spera che la pressioni sull’Ucraina messe in atto dall’Unione europea spingano Kiev tra le sue braccia. Per questo il Cremlino sta facendo pressione sul governo di Kiev, affinché sottoscriva con la Russia un’Unione doganale, tale da rappresentare un’alternativa all’integrazione nell’Ue. I leader europei hanno avvertito l’Ucraina e in particolare il suo presidente, il filorusso Viktor Yanukovych (nella foto), proprio nel fine settimana, che Kiev rischia di non conseguire l’obiettivo di una maggiore partnership con l’Unione europea, fin quando l’ex primo ministro Yulia Tymoshenko resta in carcere. Per tutta risposta Yanukovych, parlando ad un forum a Yalta (Crimea), ha ribadito che l’Ucraina è determinata a proseguire in una maggiore integrazione con l’Europa, ma gli è stato risposto molto chiaramente e senza mezzi termini che la porta dell’Ue è chiusa fino a quando non saranno attuate le riforme nel Paese. Le causa principale di questa opposizione da parte dei leader europei è costituita dalla detenzione della Tymoshenko, che è stato condannata a sette anni per abuso di potere nei negoziati sul gas con la Russia. Tutto questo a causa di uno status giuridico che gli Stati europei affermano debba venire meno. Ma in molti sottolineano che Yanukovych ha preso la decisione di mettere in carcere la sua rivale politica per le numerose e gravi accuse che le vengono addebitate. In più, le autorità ucraine hanno affermato di essere pronte a muovere nuove accuse ai danni della Tymoshenko e per questo propongono un secondo processo contro la rappresentante dell’Occidente euro-atlantico ed ex “golpista arancione” per i suoi numerosi reati. La questione ha naturalmente allarmato i Soloni europei. “Non ha idea di quanto questo caso abbia danneggiato l’immagine dell’Ucraina in Europa”, ha sottolineato il deputato portoghese Mario David, ai ministri ucraini. “Se non avremo valori comuni, allora si può dimenticare l’Accordo di associazione”, ha proseguito il politico lusitano. È necessario ricordare che nei mesi scorsi l’Ucraina e l’Ue hanno sottoscritto un documento che apre la strada a Kiev a stringere una partnership via via sempre più stretta con l’Unione europea, ma l’Ue ha messo in chiaro che l’intesa non sarà ratificata fin quando rimarrà in vigore a Kiev il clima politico attuale. Nonostante le posizioni espresse dagli eurocrati, Yanukovych non si è fatto intimorire affatto e ha annunciato che il suo Paese è deciso a favorire una maggiore integrazione, ma ora che l’Unione europea sta facendo pressioni su Kiev affinché cambi la politica interna, espresse dai tecnocrati di Bruxelles e Strasburgo, stanno spingendo l’Ucraina tra le braccia della Russia, grazie alle proposte di quest’ultima per portare sempre più Kiev nella sua orbita. I funzionari russi, a Yalta nel fine settimana per partecipare al Forum, hanno sollecitato i leader di Kiev a prendere parte alla formazione dell’Unione doganale tra Russia, Bielorussia e Kazakistan. Alexei Kostin, responsabile russo della VTB Bank e vicino al presidente Vladimir Putin, ha detto che la Russia non imporrebbe alcuna precondizione all’Ucraina. Per quanto riguarda l’Unione europea ciò che rovina le relazioni tra Kiev e Bruxelles è la detenzione della Tymoshenko, ma indubbiamente anche le posizioni filo-russe espresse da Yanukovych che certamente all’Occidente euro-atlantico non sono affatto gradite. Dal canto suo Carl Bildt, ministro degli Esteri svedese, ha dichiarato al quotidiano britannico The Independent che, nel corso di un incontro con Yanukovych, ha spiegato al presidente ucraino che l’Unione europea vuole vedere elezioni libere e corrette prima che l’accordo di adesione all’Ue venga ratificato. “La questione riguardante Yulia è in realtà soltanto la punta dell’iceberg e vi è grande preoccupazione riguardo allo Stato di diritto e alla politicizzazione dei tribunali”, ha commentato il capo della diplomazia di Stoccolma, sottolineando le critiche degli eurocrati all’indirizzo dell’Ucraina, che preferiscono sia sotto il controllo di Washington e Bruxelles, piuttosto che di Mosca. Adesso tutto è rimandato alle elezioni parlamentari previste per il mese prossimo, quando capo dello Stato e leader del Partito delle Regioni Yanukovych, si scontrerà con il partito BYuT della Tymoshenko e con diversi partiti di opposizione minori. Yanukovych dal canto suo ha ricordato che gli osservatori europei sono stati invitati a controllare lo svolgimento del voto, insistendo sul fatto che le elezioni saranno libere ed eque. Ma gli analisti, i media embedded e il mondo euro-atlantico hanno espresso il loro disaccordo, anche per la situazione che vive la fedelissima degli Stati Uniti e del mondo atlantico, Yulia Tymoshenko ancora in carcere per le accuse mosse contro di lei, tra cui un presunto omicidio di un avversario politico, che evidenziano i numerosi reati e il ruolo negativo da lei giocato nella politica ucraina dalla “rivoluzione arancione” (2004) in poi.


18 Settembre 2012 - http://rinascita.eu/index.php?action=news&id=16779

jeudi, 31 mai 2012

L’Ukraine boycottée ou la vengeance de l’Occident

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Bernhard TOMASCHITZ:
L’Ukraine boycottée ou la vengeance de l’Occident

L’Ukraine est menacée de boycott, non pas pour le sort infligé à Madame Timochenko mais pour l’orientation pro-russe du Président Ianoukovitch

Le prolongement des accords russo-ukrainiens sur la présence de la flotte russe en Mer Noire a heurté les Etats-Unis

Quelques semaines avant le début des matches pour la coupe européenne de football, l’Ukraine, pays hôte, est mis sous pression. Le président de la Commission de l’UE, Barroso, a renoncé à sa visite lors des matches, de même que plusieurs hommes politiques en vue d’Europe occidentale. Quant au ministre allemand des affaires étrangères, Westerwelle, il a adressé quelques remontrances au gouvernement de Kiev: “Le gouvernement ukrainien doit savoir que le chemin vers l’Europe passe par un pont qui repose sur deux piliers: la démocratie et l’Etat de droit”.

Le motif officiel de ces tensions croissantes est la détention de Ioulia Timochenko. L’ancienne première ministre a été condamnée l’automne dernier à sept années de prison pour corruption, parce qu’elle avait conclu un accord gazier avec la Russie, que les juges ont considéré comme défavorable à l’Ukraine. Ces accords ont entraîné une perte de quelque 137 millions d’euros. L’Occident a sévèrement critiqué ce jugement: il critique le Président pro-russe Viktor Ianoukovitch d’avoir voulu se débarrasser d’une adversaire mal aimée. “En infligeant une sentence sévère à l’encontre de Madame Timochenko, le gouvernement Ianoukovitch a rejoint la liste, toujours plus longue, des gouvernements qui utilisent le droit pénal pour l’appliquer à d’anciens dirigeants. Des anciens premiers ministres, des présidents, des ministres et des chefs de l’opposition —tous adversaires politiques de ceux qui sont au pouvoir— sont désormais traduits en justice ou menacés de poursuites judiciaires”, écrit Arch Puddington, vice-président de “Freedom House”, une boîte américaine spécialisée en propagande. Toute une batterie de nouveaux reproches ont fait déborder le vase: la “princesse du gaz” Timochenko se verrait refuser des traitements médicaux en prison, elle y serait maltraitée, etc.

Mais en fait cet assaut propagandiste et médiatique contre l’Ukraine, qui est un pays où la notion d’Etat de droit est différente de celle en vigueur en Occident, a d’autres motivations: il vise le Président Ianoukovitch. Il y a deux ans, quand celui-ci a battu le pro-occidental Viktor Iouchtchenko qui, aux côtés de Ioulia Timochenko, était la deuxième icône de la “révolution orange” soutenue par les Etats-Unis, la politique ukrainienne a changé de cap. Iouchtchenko avait voulu rejoindre l’OTAN: cette intention ukrainienne a été rayée de l’ordre du jour dès l’accession à la présidence de Ianoukovitch. Les relations avec la Russie se sont normalisées, alors qu’elles avaient été fort tendues jusqu’alors. Quand Ianoukovitch a prolongé le contrat de location des bases navales russes en Crimée, à Sébastopol, dont le terme était prévu pour 2017, il a en quelque sorte franchi une ligne rouge.

Dès l’accession de Ianoukovitch à la présidence, le 7 février 2010, le tir de barrage a commencé. Le publiciste américain Walter Russell Mead, habituellement modéré dans ses propos, écrivait, dès le lendemain, que la victoire de Ianoukovitch “constituait un nouveau camouflet à l’idée que le monde tout entier deviendrait rapidement démocratique”. Plus incisif fut le politologue new-yorkais Alexander J. Motyl au cours de l’été 2010 dans les colonnes de la célèbre revue “Foreign Affairs”. D’après Motyl, Ianoukovitch choisirait ses ministres comme un “patron” et privilégierait des hommes et des femmes issus de la minorité russe de l’Est de l’Ukraine, ce qui mettrait le “consensus national en danger”.

On ne s’étonnera guère que Motyl critique surtout le prolongement du bail de location des bases navales de la flotte russe de la Mer Noire. D’après lui, ce prolongement serait une décision irréfléchie, prise à la hâte, sans qu’il n’ait été tenu compte des “effets géopolitiques potentiels pour l’Ukraine”. En prolongeant ce bail, Ianoukovitch aurait “bradé” la sécurité de l’Ukraine en “livrant à la Russie, pour un certain temps, le contrôle informel de la Crimée, des voies maritimes incontournables et des ressources gazières qui la jouxtent”.

Pour les Etats-Unis, le prolongement du bail constitue un revers considérable pour leurs ambitions géopolitiques en Europe orientale. Même si l’adhésion de l’Ukraine n’est plus aujourd’hui à l’ordre du jour, Washington a désormais les mains liées jusqu’en 2042. Avec une base russe sur son territoire national, l’Ukraine n’adhèrera pas au Pacte nord-atlantique; quant à un rejet unilatéral du bail de la part de l’Ukraine, la Russie ne l’acceptera pas. De cette façon, les Etats-Unis éprouveront les plus grandes difficultés à contrôler ce que les géopolitologues de tradition anglo-saxonne nomment le “Heartland”, soit l’espace-noyau eurasien. En 1919, en effet, le géographe britannique Sir Halford J. Mackinder écrivait, suite à la première guerre mondiale, la révolution russe et l’occupation par les troupes allemandes de l’Ukraine après le traité de paix germano-soviétique de Brest-Litovsk: “Qui gouverne l’Europe orientale, domine l’espace-noyau. Qui gouverne l’espace-noyau, domine l’ïle mondiale (l’Europe, l’Asie et de nombreuses portions de l’Afrique). Qui gouvernne l’île mondiale, domine le monde”.

Les Etats-Unis avaient réussi à dominer momnetanément cet espace-noyau, auquel appartient au moins l’Ukraine orientale, grâce à la “révolution orange” qu’ils avaient mise en scène de l’automne 2004 au printemps 2005. A l’époque, l’ambassadeur des Etats-Unis en poste à Kiev, John Herbst, avait joué dans ce jeu un rôle déterminant. Les affaires étrangères américaines écrivent à son sujet: “Lorsqu’il était en fonction, il a travaillé à l’amélioration des relations américano-ukrainiennes et a contribué au déroulement d’élections présidentielles correctes (“fair”). A Kiev, il a vécu la “révolution orange”. Auparavant, John Herbst avait été ambassadeur des Etats-Unis en Ouzbékistan, où il a joué un rôle décisif dans l’installation d’une base américaine appelée à soutenir l’Opération ‘Enduring Freedom’ en Afghanistan”.

Les Etats-Unis n’ont pourtant pas réussi à maintenir sur le long terme l’Ukraine dans leur sphère d’influence. Cet échec s’explique pour plusieurs raisons: le duo Iouchtchenko/Timochenko s’est rapidement dissous; les conditions de vie des Ukrainiens n’ont pas pu être améliorées pour l’essentiel et la politique pro-américaine de Iouchtchenko a accentué le vieux clivage entre Ukraine de l’Est et Ukraine de l’Ouest. Mais cet échec n’exclut pas une nouvelle révolte colorée qui pourrait à nouveau changer la donne. Car n’oublions pas ce qu’écrivait Motyl il y a deux ans: “Si Ianoukovitch maintient le cours qu’il poursuit aujourd’hui, il pourrait provoquer une deuxième révolution orange”. Le cas Timochenko pourrait en donner le prétexte.

Bernhard TOMASCHITZ.
(article tiré de “zur Zeit”, Vienne, n°19/2012; http://www.zurzeit.at/ ).

samedi, 31 décembre 2011

Guerre de Crimée, première guerre moderne

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Dirk WOLFF-SIMON:

Guerre de Crimée, première guerre moderne

L’historien britannique Orlando Figes vient de dresser un bilan étonnant de la Guerre de Crimée

La seconde moitié du 19ème siècle a été essentiellement ébranlée par trois faisceaux de faits guerriers qui, selon les historiens militaires, ont marqué de manière déterminante l’évolution ultérieure des guerres: il s’agit de la Guerre de Crimée (1853-1856), de la Guerre civile américaine (1861-1865) et les guerres prussiennes/allemandes (Guerre contre le Danemark en 1864, Guerre inter-allemande de 1866 et Guerre franco-allemande de 1870/71).

Pour l’historien anglais Orlando Figes, la Guerre de Crimée, que l’on avait quasiment oubliée, n’est pas un de ces innombrables conflits qui ont marqué le 19ème siècle mais au contraire son conflit central, dont les conséquences se font sentir aujourd’hui encore. Elle a coûté la vie à près d’un million d’êtres humains, a modifié l’ordre politique du monde et a continué à déterminer les conflictualités du 20ème siècle. De nouvelles impulsions d’ordre technique ont animé le déroulement de ce conflit et par là même révolutionné les affrontements militaires futurs de manière fondamentale. Les conséquences techniques de ces innovations se sont révélées très nettement lors de la guerre civile américaine, survenue quelques années plus tard à  peine. Déjà, cette Guerre dite de Sécession annonçait les grandes guerres entre peuples du siècle prochain.

Orlando Figes a récemment consacré un livre à ce chapitre négligé de l’histoire européenne, où la Russie a dû affronter une alliance entre la Turquie, la France et l’Angleterre (O. Figes, “Crimea”, Penguin, Harmondsworth, 2nd ed., 2011). Il nous rappelle fort opportunément que cette guerre a bel et bien constitué le seuil de nos temps présents et un conflit annonçant les grandes conflagrations du 20ème siècle. L’enjeu de ce conflit est bien sûr d’ordre géopolitique mais ses prémisses recèlent également des motivations religieuses de premier plan. Cette guerre a commencé en 1853 par de brèves escarmouches entre troupes turques et russes sur le Danube et en Mer Noire. Elle a pris de l’ampleur au printemps de 1854 quand des armées françaises et anglaises sont venues soutenir les Turcs. Dès ce moment, le conflit, d’abord régional et marginal, dégénère en une guerre entre grandes puissances européennes, qui aura de lourdes conséquences.

Généralement, quand on parle de la Guerre de Crimée, on ne soupçonne plus trop la dimension mondiale qu’elle a revêtu ni l’importance cruciale qu’elle a eu pour l’Europe, la Russie et pour toute cette partie du monde, où, aujourd’hui, nous retrouvons toutes les turbulences contemporaines, dues, pour une bonne part, à la dissolution de l’Empire ottoman: des Balkans à Jérusalem et de Constantinople au Caucase. A l’époque le Tsar russe se sentait appelé à défendre tous les chrétiens orthodoxes se rendant sur les sites de pélèrinage en Terre Sainte; pour lui, la Russie devait se poser comme responsable de leur sécurité, option qui va donner au conflit toute sa dimension religieuse.

Au-delà de la protection à accorder aux pèlerins, le Tsar estimait qu’il était de son devoir sacré de libérer tous les Slaves des Balkans du joug ottoman/musulman. En toute bonne logique britannique, Orlando Figes pose, pour cette raison, le Tsar Nicolas I comme “le principal responsable du déclenchement de cette guerre”. Il aurait été “poussé par une fierté et une arrogance exagérées” et aurait conduit son peuple dans une guerre désastreuse, car il n’avait pas analysé correctement la situation. “En première instance, Nicolas I pensait mener une guerre de religion, une croisade découlant de la mission russe de défendre les chrétiens de l’Empire ottoman”. Finalement, ce ne sont pas tant des Russes qui ont affronté des Anglais, des Français et des Turcs mais des Chrétiens orthodoxes qui ont affronté des catholiques français, des protestants anglais et des musulmans turcs.

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Orlando Figes a réussi, dans son livre, à exhumer les souvenirs confus de cette guerre en retrouvant des témoignages de l’époque. Certains épisodes de cette guerre, bien connus, comme le désastre de la “charge de la brigade légère” ou le dévouement de l’infirmière anglaise Florence Nightingale ou encore les souvenirs du jeune Léon Tolstoï, présent au siège de Sébastopol, sont restitués dans leur contexte et arrachés aux brumes de la nostalgie et de l’héoïsme fabriqué. Son récit sent le vécu et restitue les événements d’alors dans le cadre de notre réalité contemporaine.

Sous bon nombre d’aspects, la Guerre de Crimée a été une guerre conventionnelle de son époque, avec utilisation de canons, de mousquets, avec ses batailles rangées suivant des critères fort stricts de disposition des troupes. Mais, par ailleurs, cette Guerre de Crimée peut être considérée comme la première guerre totale, menée selon des critères industriels. Il faut aussi rappeller qu’on y a utilisé pour la première fois des navires de guerre mus par la vapeur et que c’est le premier conflit qui a connu la mobilisation logistique du chemin de fer. D’autres moyens modernes ont été utilisés, qui, plus tard, marqueront les conflits du 20ème siècle: le télégraphe, les infirmières militaires et les correspondants de guerre qui fourniront textes et images.

Les batailles fort sanglantes de la Guerre de Crimée ont eu pour corollaire une véritable mutation des mentalités dans le traitement des blessés. La décision de la première convention de Genève de 1864, prévoyant de soigner les blessés sur le champ de bataille, de les protéger et de les aider, est une conséquence directe des expériences vécues lors de la Guerre de Crimée. La procédure du triage des blessés, où les médecins présents sur place répartissent ceux-ci en différentes catégories, d’après la gravité de leur cas et la priorité des soins à apporter, selon la situation, a été mise au point à la suite des expériences faites lors de la Guerre de Crimée par le médecin russe Nikolaï Ivanovitch Pirogov. L’infirmière britannique Florence Nightingale oeuvra pour que le traitement des blessés, qui laissait à désirer dans l’armée anglaise, soit dorénavant organisé de manière rigoureuse. Figes rend hommage à cette icône de l’ère victorienne en rappellant que ses capacités se sont surtout révélées pertinentes dans l’organisation des services sanitaires.

Des 750.000 soldats qui périrent lors de la Guerre de Crimée, deux tiers étaient russes. Les civils qui moururent de faim, de maladies ou à la suite de massacres ou d’épurations ethniques n’ont jamais été comptés. On estime leur nombre entre 300.000 et un demi million. Figes évoque également la “Nightingale russe”, Dacha Mikhaïlova Sevastopolskaïa. Dacha, comme l’appelaient les soldats, avait vendu tous ses biens tout au début de la guerre pour acheter un attelage et des vivres: elle rejoignit les troupes russes et construisit le premier dispensaire pour blessés de l’histoire militaire russe. Sans se ménager, elle soigna les blessés pendant le siège de Sébastopol. A la fin de la guerre, elle fut la seule femme de la classe ouvrière à recevoir la plus haute décoration du mérite militaire.

Le principal but de la guerre, pour les Français et les Anglais, était de vaincre totalement la Russie. C’est pourquoi le siège de Sébastopol, havre de la flotte russe de la Mer Noire, constitua l’opération la plus importante du conflit. Le 8 septembre 1855, le port pontique tombe. Et Léon Tolstoi écrit: “J’ai pleuré quand j’ai vu la ville en flammes et les drapeaux français hissés sur nos bastions”. Tolstoï était officier combattant et rédigea, après les hostilités, ses “Souvenirs de Sébastopol”. Un officier français, quant à lui, note dans son journal: “Nous ne vîmes riens des effets de notre artillerie, alors que la ville fut littéralement broyée; il n’y avait plus aucune maison épargnée par nos tirs, plus aucun toit et tous les murs furent détruits”.

Lors des négociations de paix, la Russie n’a pas dû céder grand chose de son territoire mais elle a été profondément humiliée et meurtrie par les clauses du traité. En politique intérieure, l’humiliation eu pour effet les premières réformes qui impliquèrent une modernisation de l’armée et la suppression du servage. Sur le plan historique, il a fallu attendre 1945 pour que la Russie retrouve une position de grande puissance pleine et entière en Europe. Tolstoï l’avait prédit: “Pendant fort longtemps, cette épopée-catastrophe de Sébastopol, dont le héros fut le peuple russe, laissera des traces profondes dans notre pays”. Orlando Figes a réussi à réveiller chez ses lecteurs les souvenirs et les mythes de ce conflit oublié.

Dirk WOLFF-SIMON.

(article paru dans “Junge Freiheit”, Berlin, n°49/2011; http://www.jungefreiheit.de/ ).

Version allemande du livre d’Orlando Figes: Krimkrieg. Der letzte Kreuzzug, Berlin Verlag, Berlin, 2011, 747 p., 36 euro.

criméegouttmann.gifEn français, on lira avec autant de profit le livre tout aussi exhaustif d’Alain Gouttmann, La Guerre de Crimée 1853-1856. La première guerre moderne, Perrin, Paris, 2003.

 

Gouttmann évoque l’émergence d’un “nouvel ordre international”, suite à cette Guerre de Crimée.

 

 

 

mercredi, 08 juin 2011

O. Gutsulyak: In the Presentiment Euroasian Mahdi

http://primordial.org.ua/archives/256#more-256

Oleg Gutsulyak: In the Presentiment Euroasian Mahdi

OLEG GUTSULYAK:
IN THE PRESENTIMENT EUROASIAN MAHDI
Interview to the Italian magazine “LA NAZIONE EURASIA":
BOLLETTINO TELEMATICO PER IL COORDINAMENTO PROGETTO EURASIA”)
(Conversation was conducted by editor-in-chief Daniele Scalea)

Русская версия интервью -http://primordial.org.ua/archives/123

Итальянская версия интервью – http://primordial.org.ua/archives/252

Translated by Sergiy Tyupa

Oleg_Gutsulyak.jpgMr. Gutsulyak, you are the editor of “La Nazione Eurasia”, Ukrainian version. How you decided to do that? Who’s helping you in this work?

· Initially I was interested in the Italian version of “La Nazione Eurasia” and simply wanted to make something alike. There were some resources already in place, and after talking to my friends I learnt that they would be interested in it, too. The decision was made at the meeting of our Group for Studying the Basics of Primordial Tradition “Mesogaia”. The latter is just a section of a more extensive Ukrainian Intellectual Club of the New Right “Gold Griffin” (unfortunately, only two sections of the club are currently active – ours and the literature one; others are only nominal as the people who initially started them lost their interest). We presented the “LNE – UA” project as the one leading away from the narrow constraints of endless wails and weeping over “Ukraine’s bitter destiny”. We have a lot of authors, mostly graduate and undergraduate students and young teachers from our Precarpathian National Vasyl Stefanyk University and other universities, located in Ivano-Frankivsk (our city boasts three state and seven private universities!). The most active among them are Oleh Hrinkevych, Volodymyr Eshkilev, Ihor Kozlyk, Roman and Olga Ivasiv, Ivan Pelypyshak, Oleksandr Horishny, Oleh Skobalsky, Nataliya Lytvyn, Solomiya Ushnevych, Ulyana Makh, Oksana Stasynets, Sergiy Tyupa, Daniil Belodubrovsky, Yevhen Baran, and the late Teacher and Preceptor Yuriy Sultanov. I have to mention that they represent different nationalities living in Galicia – Ukrainians, Russians, Poles, Jews, Azerbaijanians, Moldavians, Hungarians, etc.; and different religions – Roman Catholic, Greek Catholic, Russian Orthodox, Ukrainian Orthodox, Judaism, Muslim, LDS, Neo-Paganism… At one point of time I was helped by Canadian interns who were of Ukrainian descent. “LNE-UA” is not our only project. The first one was our “Mesogaia” web site (http://www.mesogaia.il.if.ua); there is also the “Gall’Art” site (http://www.gallart.narod.ru) and a number of others, whose authors are the members of our Group (http://newright.il.if.ua, http://www.preussen-ua.narod.ru,http://www.goutsoullac.narod.ru, http://www.loveyourace.front.ru). Since printing services are so expensive, we can’t afford to publish a magazine or a newsletter, although we have materials sufficient for many issues. Our foreign friends also help us – Anton Rachev from Bulgaria, Sasha Papovich from Macedonia, Mohammed Nabil from Canada, Kevin Strom from the USA, Aleksandr Novoselov from Moldova, Andrei Pustogarov from Russia, Ellen Dovgan from Estonia.

What does the term “Eurasiatism” mean in your eyes?

· Ukrainian Eurasiatism has a peculiar historical tradition, dating back to early 1920s. That was a period of national movement for individuality, later referred to as “Shot Down Renaissance”. A group of Ukrainian intellectuals and writers with Mykola Fitilev-Khvylevy as their leader proclaimed the idea of “Asian Renaissance” and a slogan “To Psychological Europe!” looking at Ukraine as a peculiar intermediary between East and West, North and South, as a kind of subcontinent. I offered a name for this subcontinent – MesoEurasia, by analogy with MesoAmerica. But Ukraine, rather, resembles South-East Asia – the crossroads of a number of world civilizations (China, India, Islam, Oceania). But what is Ukraine by this analogy – Brunei, Malaysia, Singapore, Thailand, Vietnam, or Burma? I think, time will show.

Is there in Ukraine a big following for ideas as Eurasiatism and European nationalism?

· Yes, there is, and it is natural since Ukraine is one the crossroads between East and West. History proves that Ukrainians have never been aside from common European problems, whether in the Norman times or in the Cossack epoch. We are proud that in Kyivan Rus times our ancestors conquered Constantinople, crushed Mongols and Tatars, and crusaders (long before Russians did it); that Ukrainian troops fought at Grunwald, and that Ukrainian Cossacks seized Moscow in 1612 and then were protecting Vienna together with Polish troops; crashed Huguenots near Dunkirk and the Turks near Sinop. In our country we defeated powerful Polish armies, Peter the Great’s troops, and Bolshevik Red Army. And we have always realized ourselves as bearers of the high European Mission.

What do you think about the actual situation of your country, from a political and social point of view?

· Shortly we’ll take part in the re-run of the second round of the Presidential election. It is a great illusion both for the West and for Russia to think that Viktor Yanukovych is backed by Russia and that Viktor Yuschenko is backed by the USA. This myth was created by that part of the electorate who favour Russia and who consider Russian their native language. In reality Yanukovych is a protege of an extremely narrow stratum of extremely wealthy tycoons who played the Russian “card”, whereas Yuschenko became, perforce, a charismatic leader of the “potential catastrophe” stratum. After all, if current frequency deviated from 50 Hertz, Ukraine would “fall into itself” – energy system would collapse, communities would not be supplied with power and heating. In other words, at any moment a chain reaction of urban environment disintegration could start, together with disindustrialization and return from unbalanced Modern to Pre-Modern, just like it happens in popular “catastrophe movies” – with all mental consequences, resulting in total destruction of the civilization embryos.

How is relationship between Ukraine and Russia after the fall of USSR?

· It must be confessed that relations with Russia are one of the main factors of Ukraininan life, and these relations exist on different levels: between governments, businessmen, scientists, artists, relatives, and just friends. Sometimes they have this or that level of remoteness or intimacy. Not everything is so simple. Leonid Kuchma’s election pledges were in no way different from those of his Belorussian colleague Lukashenko – aiming at integration with Russia. However, when Kuchma came to power, he had to take into consideration not only the 45% of evident anti-Russian state of public opinion, but also the interests of both large-scale capital (who were not willing to see competitors from Russia on their territory and change the existing corruption schemes) and the feeling of a “proprietor” (“it is no concern of mine”) – the feeling that makes Ukrainian mentality different from the Russian one (the latter characterized with the feeling of collectivism).

You think – as Aleksandr Dugin – that President Vladimir Putin could be the leader of an alternative project to Atlantism, or you think he will finish to fall into line with US egemony?

· It is unlikely to expect from Putin, who can be viewed as the embodiment of Hoffman’s “little Zaches”. His desire to have everything under control is not a working habit of a KGB officer. This is the sign of weakness, an attempt to hold the situation firmly at hand. As the representative of the past he cannot admit publicly that Russia had won in the “cold war” – by winning over its own communism. Putin is incapable of offering to the post-Soviet elites any acceptable “vision of the future”, any development program, since the Russian elite have not developed these for themselves, either. You can’t get too far only on “nostalgia”. It is more likely that the world will witness the appearance of a new political personality who would be interesting to government elites in former USSR. He is awaited for with a certain mystical piety, similar to the feeling the Muslims have waiting for Mahdi’s advent. In other words, this “messiah” will come from the outside, from the world, which is transcendental to those, who potentially view themselves as America’s opposition.

What do Ukrainian people think about European Union?

· Apart from a small percent of people mourning for the former USSR, Ukraine’s population, no matter which language they speak or which religion they follow, realize that Ukraine’s entering to the European Union is inevitable. It’s quite another matter if we talk about the time when this is to happen. The majority of extreme nationalistic anti-Russian forces are advocating the immediate joining to the EU and NATO, and introducing European life standards to Ukraine. Their ideal models to follow are the Baltic states (Lithuania, Latvia, Estonia) and Poland. Moderate forces, including the pro-Russian ones, favour simultaneous entering to both the EU and the so-called Single Eurasian Space (alliance with Russia, Belarus, and Kazakhstan). This is referred to as “multi-vector policy”. It is the strongest, but the most difficult to achieve. Moreover, the Single Eurasian Space can be entered even now, but, having done this, Ukraine’s integration to Europe would become way more complicated. Besides, entering the Eurasian union may endanger the viability of the European vector. Secondly, the striving for SES on behalf of former USSR republics is solely and merely the striving for the Russian resources – not only raw materials, but also the infrastructure and technologies. Numerous appeals to longstanding unity of the “sister nations” are nothing but a bluff. As soon as Belarus has the slightest chance of tearing away from Russia and joining another centre of force, it will use its chance by two hundred per cent. Similarly, Ukrainians are not at all creating illusions about the European Union. The EU in its today’s format is incapable of pursuing concrete and independent policy since the current geopolitical structure is seriously distorted; and this framework is unsuitable for carrying out a strategic plan that the continent needs in order to avoid grave consequences of the Atlantic empire. This distortion is rooted in Britain’s presence in the Union. London is the world financial centre, and, purely in the British style, its people are present in Brussels with the only aim – to sabotage. It is evident from the way they hold their position about adopting the EU constitution.

The Chief of Pentagon, Donald Rumsfeld, has defined Eastern Europe as “the new Europe” – that means, a group of country faithful to USA. But really Eastern European peoples are believer of the “American Dream”, or only their governments are so?

· New democracies’ orientation towards the USA is only a developmental disease. In reality, they will bring to the USA so many problems in the future that the current anti-terrorism campaign would seem an easy promenade to Americans. Life is becoming more complicated than 20 years ago. And it will be becoming more complicated still. Think back to the Balkan war against the Ottoman Empire: the countries liberated by Russia soon became her foes (Bulgaria started a war, then fought against the Entente; Romania, Greece and Bulgaria crowned the representatives of German dynasties). Of course, a lot will depend on diplomatic moves of Washington, London, Moscow, and the EU, as well as on the development of networks of non-government and political organizations, focused on this or that “centre of force”. It is possible that as the tension between Old Europe and the USA continues to grow, part of New Europe will strive after the US and, strange as it may seem, be against it, just like centuries ago the Italic tribes declared a war on Rome just in order to receive Roman citizenship!.. And it is also possible that Turkey, geared by British capital, will lead the confrontation between New and Old Europe.

You are an expert of literature. Is there any writer or thinker that could be considered as a master for all European peoples, and an inspiring of European rebirth?

· The thing is that the unification of the Italian language resulted from Risorgismento, while Ukrainian Renaissance became possible because of the unification of the Ukrainian language. We were forced to fight for out independence, we were refused in existing as a unique nation. Just imagine a situation that Napoleon had won and proclaimed that Italian was only a dialect of French, and that Italian nation could not possibly exist and wouldn’t exist, either!.. This is why the Ukrainian literature had a completely different mission than other European national literatures. Its aim was to bring back the world of the people who had a heroic past, the past that was stolen and the past that the nation was destined to win back. For two centuries the Ukrainian literature, represented by Taras Shevchenko and then by Ivan Franko and Lesia Ukrainka, was pursuing this objective. It rejected the possibility of metaphysics that had barely sprung up in the Baroque epoch by Paisiy Velichkovskiy and Kyiv-Mohyla Academy. This line later turned into Russian “starchestvo” and impregnated Dostoevsky. The only air-way we had in this respect was the translations from European literature, we had and still have a brilliant translation school, almost everything is translated… It is only now that the young generation of Ukrainian authors is opening the metaphysics and, consequently, is becoming interesting to Europe. Yuriy Andrukhovych’s and Oksana Zabuzhko’s novels and poems have long ago been translated into German and Swedish, the English-speaking world knows the well-established “New-York Group” of poets, Yuriy Pokalchuk publishes in French; Yuriy Izdryk, Volodymyr Yeshkilev, Stepan Protsiuk are not unfamiliar names, either (as a rule, their works are first translated into Polish, which the German translators take as a certain quality mark). Moreover, Italy expresses interest to Ukrainian literature, too. A well-known poetess, Oksana Pakhlevskaya, the daughter of Ukraine’s living classical author Lina Kostenko, is chairing the Department of Ukrainian Studies at one of the Italian universities; Mario Grasso popularizes Ukrainians in his “New Moon Calendar”… Another thing I would like to add is that writing poems is peculiar to Ukrainian culture. I believe it is the manifestation of introvert national character. Everybody writes here, it’s a kind of national sport. Books of poetry are published in great numbers, poets are regarded as spokesmen of national aspirations, and are easily elected to the Parliament. As an example of that I can bring up a rather popular series “Modern Ukrainian Poetry”, published by Yuriy Vysochanskiy. I feel honoured that my best poems were published in this series.

You have particularly studied the works by Evola and Guenon, haven’t you?

· I can definitely say that I have studies all the available Russian and Ukrainian translations, as well as some English ones. Unfortunately, they are not numerous, but every day the number is increasing. One of my dissertation chapters is devoted to the “new right” and their spiritual leaders – Evola and Guenon. At one time I was member of a militarized organization “UNA-UNSO” (similar to Romanian “Iron Guard”) and was regularly published in its newspaper “Holos Natsii” (“The Voice of the Nation”). That was where we first started translating Evola and Guenon into Ukrainian. Then Ihor Kahanets, editor-in-chief of “Perehid-4″ magazine, continued this topic on a more professional level (http://www.perehid.kiev.ua). As for me, I’m trying to popularize these ideas, introduce them into serious academic writing; I hold a special seminar “Traditionalism Philosophy” at university, which, I hope, will soon turn into a full academic lecturing course.

What do you think about Karl Marx and his disciples?

I went through an excellent school of orthodox marxism-leninism both at secondary school and a Soviet university. I witnessed the realization of Karl Marx’s project from the inside, living in this country. Yes, there were times when I was keen on national-communist ideas and thoughе that Muscovite social-imperialists distorted the essence of socialism (the leading fighter for Ukraine’s independence Simon Petlura, our Simon Bolivar, proclaimed : “Without a socialist Ukraine we don’t need an independent Ukraine!”); there were times when I was listening to the Russian service of the Albanian radio, read everything about Che Guevara, Franc Fannon and the “new left”, distributed leaflets… But the truth turned out to be more complicated. And it indeed was a revelation when I read a social “Charter of Labour” of the Spanish Falangists. This changed me as a strike of lightning…

You are also an expert of anthropological questions. From a pure historical, ethnical and cultural point of view, which are the borders of European Nation?

· It would be caustic to say that the Russians are not a European nation. Maybe, they are the most European one. In the meaning that they preserved a European Christian tradition of Byzantine, which disappeared in Europe long ago. The French, for example, like to mention with sarcasm how at the dawn of the previous century they were taught at schools that Asia started beyond the Rhine. De Goll moved Europe to the Ural Mountains and added Siberia and the Far East as Europe’s dominions. The Ancient Greeks saw Asia beyond the Don river… If to take anthropologically, the Russians are pure Caucasians, just like the Finno-Ugric peoples that became their substratum. And nobody is disputing whether the Finns, Hungarians, or Estonians belong to Europe, it is unthinkable without them. They were Europe’s compensation for losing Indo-Irani and Tohar ethnic groups. Nature abhors a vacuum.

What are the main cultural bonds between Europe and Asia, and what the main cultural differences between Eurasian and American civilizations?

I share the point of view that Alexander the Great organized a totally new space for the world history by invading barbarian lands. And we are not talking about the Hellenistic world since the meaning of Alexander the Great’s image stretches far from the Mediterranean; the geographical remoteness of lands covered even in the legendary glory of his presence allows us to talk about a much wider understanding of the Mediterranean world. His mission was not merely to conquer the whole world, but rather to bring together and make this world agree semantically, with its centre always in the Mediterranean (the Inner Sea). The new Mediterranean space, established by Alexander, was joined by common elements of the material and spiritual culture. And this heterotopic, real, living world of Alexander (in contrast to Fuko’s utopian world) is, in fact, “Eurasia”. Even the USA, which appeared comparatively not long ago on the crest of the “Atlantic revolution”, coherently falls into this self-developing model. From this point of view, the USA is only one of the Mediterranean countries, continuing this macro space’s cultural history. Indeed, Europe and Asia, Eurasia and America are much closer to each other than it seems. In my opinion, these are mainly economic interests of some European transnational corporations with their headquarters in Britain that cause the confrontation between Europe and the USA; they are located in Britain because they are in interested in more flexible tax legislations and state budgets of the European countries since they mainly work for the defense orders. The West now is the battlefield for the bearers of the two vectors for market economy development – the American liberal economic government system with republican approach (liberal in economics and conservative in politics) and the Dutch-British financial government system with democratic approach (conservative in economics and liberal in politics). In other words, between the bearers of Plato’s idealism and Kant’s empiricism… Essentially, the nature of the confrontation is the same as the one between Byzantine and Persia in the 7th century, when the fire-worshipping Iran had seemingly fallen to Emperor Irakli’s feet, but the Arabian sands brought Mohammad’s cavalry… And it is no use wondering who is playing Persia’s role now – Europe or America… As for America, I fully agree with my new acquaintance from Piedmont – a geopolitics expert Fabricio Vielmini – that the USA’s crisis is irreversible and has nothing to do with the administration occupying the White House. If John Kerry had come to power, the democrats would have done everything more politely, but in reality they would have continued to fool other nations and continue the previous policy of maintaining the world hegemony position. Notwithstanding all his education and political correctness, Kerry offered the foreign policy program that essentially is not different from “tough Bush’s” policy. The remaining key elements are “terrorism”, constant and omnipresent “threats”, but there isn’t a single word on how to overcome the fundamental problems. In reality, the Democratic candidate’s global strategy implementation would mean the infringement of each Eurasian nation’s independence.

The religion – your is the Christian Orthodox one – has a great importance in your life and thought?

· As the majority of Western Ukrainians, I belong to the Greek Catholic Church, in other words, I am a Catholic of the Eastern Rite (by the way, most of the Ukrainian labour immigrants to Italy and Portugal are Greek Catholics and, naturally, belong to the European nation, complimentary to Western Europeans; this situation is different in Germany and England, where the immigrants are Muslims and Turks, or Arabs). The Orthodox Christians scornfully call us “uniats” since we are in union with Rome, and the head of our church is a Roman Catholic Cardinal. But the way to Christianity was not simple to me. When the atheist bans disappeared, most of the people here had to face the choice of spiritual orientation. As rule, most of them chose the religion of their fathers – in union with Rome. But I threw myself into spiritual search – first of all to the Oriental religions (especially Hinduism, I still am still not indifferent to it); then I came to neo-paganism (and even became one of the priests of a powerful neo-paganism movement in Ukraine RUNVira). But again, by the Divine Intent, Christianity opened to me in all its providential beauty, as the bearer of the Topic of Strength.

Is there something special you want to say to Italian readers of “La Nazione Eurasia”?

The linguists say that there two most melodious languages in the world. The first one is Italian, the second is Ukrainian. Also, medieval and modern travellers call Ukraine “Italy on the Dnieper banks”. At one time regions of our country were part of the Danube empire. At the dawn of its independence Ukraine try to “flirt” with France through the then President Kravchuk, but France either didn’t understand, or didn’t want to “hurt” its friend (i.e. Russia), and so it didn’t’ become Ukraine’s “center of gravity” and lost its chance, maybe, having been scared of possible expenses for another Guiana. Germany is more concerned with its relations with France…Maybe, we are interesting to Italy?

(“La Nazione Eurasia”, 2005, n 1)
www.lanazioneeurasia.altervista.com

lundi, 07 mars 2011

Romania: ponte eurasiatico o sentinella occidentale?

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“Romania: ponte eurasiatico o sentinella occidentale?”

Intervista a C. Mutti

Ex: http://www.eurasia-rivista.org/

 Il nostro redattore Claudio Mutti è stato intervistato da Luca Bistolfi di “EaST Journal” a proposito della Romania, del suo ruolo storico in Europa e in Eurasia e delle sue miserie attuali. L’intervista originale, pubblicata con un titolo redazione da “EaST Journal”, si trova qui [1]. La riproduciamo di seguito.


***

 

 

Un’isola latina nel mare slavo dell’est Europa. La percezione generale della Romania non va oltre un paio di luoghi comuni e di tanta mancanza d’informazione.
La Romania, negli ultimi centocinquant’anni, ha attraversato momenti decisivi, incompresi e mal studiati. Uno dei pochissimi, in Italia, ad avere una visione ampia e completa della storia romena è Claudio Mutti, scrittore, editore, profondo conoscitore della storia, e molte altre cose. Lo abbiamo intercettato e gli abbiamo posto alcune domande per diradare la fitta nebbia che attorno a quella che Vasile Lovinescu chiamava la Dacia Iperborea, si è addensata come una maschera necessariamente imposta.

 

Che cosa è cambiato in Romania dopo gli avvenimenti di metà Ottocento? Come giudica quei passaggi fondamentali che, in certa misura, coincidono con il Risorgimento italiano?
In seguito all’Unione dei due principati valacco e moldavo, avvenuta due anni prima dell’Unità d’Italia, il nuovo regno di Romania attuò una serie di riforme politiche e sociali d’ispirazione democratico-borghese, che avrebbero agevolato lo sviluppo dei rapporti di produzione capitalisti. Un ulteriore momento cruciale fu il 1877, quando la classe politica romena, accogliendo la pretestuosa parola d’ordine della “emancipazione dei popoli cristiani dell’Oriente”, dichiarò guerra alla Sublime Porta, subordinando il Paese agl’interessi plutocratici occidentali. La partecipazione alla guerra intereuropea a fianco dell’Intesa e la successiva adesione alla Piccola Intesa furono altri passi che fecero della Romania una delle sentinelle degl’interessi anglo-francesi nell’area balcanico-danubiana. Oggi, dopo la caduta del regime nazionalcomunista, la Romania è tornata a svolgere la funzione di sentinella dell’Occidente, ma di un Occidente che non è più rappresentato dall’Inghilterra e dalla Francia, bensì dagli Stati Uniti.

Qual è la Sua opinione sull’ingresso della Romania nell’Unione Europea?
L’Europa non è Europa se non comprende tutti i popoli europei, compreso quello che ha dato all’Europa personaggi come Eminescu, Brancuşi, Eliade e Cioran. L’Europa non è pensabile senza il Danubio, senza i Carpazi, senza la costa occidentale del Mar Nero. Anche se oggi la nostra patria europea è rappresentata da una “Unione” dominata da banchieri, burocrati liberali, politicanti traditori e collaborazionisti asserviti alla potenza d’Oltreatlantico, i “buoni Europei” di nietzschiana memoria non devono tuttavia rinunciare a sostenere la necessità di un’Europa degna di questo nome: una realtà unitaria e sovrana che, in stretta alleanza con gli altri grandi spazi del continente eurasiatico, concorra alla costruzione di un potente blocco continentale.

Dove colloca la Romania all’interno dell’idea eurasiatista?
Negli anni Trenta il geopolitico romeno Simion Mehedinţi scriveva che la Romania, trovandosi lungo una diagonale di navigazione privilegiata qual è il corso del Danubio, è predestinata dalla sua stessa posizione geografica a stabilire relazioni fra i paesi dell’Europa occidentale da una parte e quelli del Vicino Oriente dall’altra. A ciò possiamo aggiungere che la Romania, in virtù della sua appartenenza all’area ortodossa, è uno di quei paesi europei che (come la Bulgaria e la Serbia) potrebbe svolgere un ruolo analogo anche in direzione della Russia.

Sappiamo che questo Paese ha subito diversi duri colpi e oggi più che mai: a Suo avviso c’è una possibilità concreta per la Romania di risorgere? Di chi sono le principali responsabilità?
Date le condizioni in cui versa attualmente la Romania e dato il livello della sua attuale classe politica, è necessaria una notevole dose di ottimismo per prospettare una rinascita romena. Non si riesce infatti a intravedere la presenza di quelle forze che, in circostanze storiche analoghe, si assunsero le responsabilità di una riscossa nazionale.

Sappiamo che Lei è, tra le altre cose, un ottimo conoscitore del mondo islamico e della storia dell’Islam in Europa: qual è la Sua impressione sui rapporti tra l’Impero Ottomano e gli antichi principati romeni?
Nicolae Iorga ha mostrato come i principati romeni abbiano rivestito un ruolo egemone in relazione alle più importanti comunità cristiane dell’Impero Ottomano, dal Caucaso all’Egitto. Da parte loro, le autorità islamiche dell’Impero indicavano i Principi valacchi e moldavi come esempi paradigmatici per i capi della Cristianità. Oggi, in un momento in cui la Turchia sta recuperando la posizione che le compete, la Romania potrebbe far tesoro di questa eredità storica e riproporsi come tramite fra l’Europa e la potenza regionale turca.

Per approfondire l’opera di Mutti, consiglio di leggere alcuni dei numerosi articoli presenti sul suo sito [2] e quelli della rivista Eurasia [3], stampata dalle Edizioni all’insegna del Veltro [4], fondate dallo stesso Mutti.

dimanche, 06 mars 2011

Giochi politici, intorno alla "Grande Circassia"

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Giochi politici, intorno alla “grande Circassia”

Ex: http://www.eurasia-rivista.org/

Fonte: Strategic-culture.org [1]

Considerando il fatto che diversi centri di ricerca americani, stiano studiando il genocidio che si presume i circassi abbiano sofferto, è palese come stiano cercando di porre insieme, le basi per l’indipendenza della Circassia. Il “problema circassiano” compare sovente nell’agenda umanitaria di Washington. Un’analisi della storia di questo paese, dei suoi rapporti con la Russia, è stata effettuata dall’università Rutgers in New Jersey. Il centro universitario per lo Studio del Genocidio, Soluzione di Conflitti, e Diritti Umani è volto verso molteplici conflitti – il genocidio dei curdi in Iraq, il genocidio degli ucraini, che si presume attuato dai russi, durante la carestia del 1933- che l’amministrazione americana considera ascrivibili allo status di genocidi. Come la tendenza generale, Washington percepisce primariamente, il genocidio in regioni dove pianifica un punto di appoggio. I curdi entrarono nella guerra americana contro S. Hussein, e i nazionalisti ucraini furono utilizzati dagli USA nei giochi politici contro la Russia.

Il sito internet del Centro di studio sul Genocidio, Soluzione di Conflitti, e Diritti Umani, offre una mappa della regione caucasica, con i confini circassiani, limitati in accordo con il piano di strategia americano.

(Nella foto in alto potete vedere come Washington desiderava che fosse la Circassia: mappa della Grande Circassia con accesso al Mar Nero.)

La costa del Mar Nero è un importante territorio. La sua configurazione al momento è complessivamente semplice. La Georgia, una repubblica con accesso al Mar Nero, è totalmente dipendente dagli Stati Uniti d’America e in cerca disperatamente, di diventare membro della NATO. Bulgaria, Romania e Turchia fanno già parte dell’alleanza. Fortunatamente per la Russia, recentemente le relazioni tra Ankara e Mosca si sono scaldate considerevolmente. La Turchia non vede più la Russia come nemica, ed ha (la Turchia) in passato fatto cadere il paese per una lista di potenziali minacce, rendendo più difficile per Washington pianificare contro la Russia, attraverso il Caucaso. Tuttavia, Ankara ha serie ambizioni ed aderisce alla politica di espansione umanitaria mirando soprattutto alla Crimea e Gagauzia (quest’ultima, entità territoriale autonoma della repubblica di Moldavia). Gli strumenti di tale politica, spaziano dalle quote per i caucasici nazionali che risiedono in Turchia, ai grandi investimenti nell’economia della Crimea e della Gagauzia. I Tartari della Crimea sono rappresentati dagli haugue- quartier generali delle nazioni non rappresentate e organizzazioni popolari, e questi possono chiedere al massimo una maggiore autonomia nel panorama ucraino. Nessun dubbio, per ciò che riguarda l’acquisto del loro status, che potrebbe immediatamente risolversi nell’espulsione del Mar Nero russo dalla loro base di Sevastopol.

L’organizzazione dei popoli non riconosciuti è attualmente osservata e vede l’Abkhazia come un potenziale. Considerando che la marina russa non accoglierà la Georgia e la grande Circassia, si alzerebbe una barriera tra la Russia e gran parte della costa del Mar Nero, nel tempo l’Abkhazia potrebbe divenire l’unico sbocco del Mar Nero russo. Perdendo ciò, la Russia si troverebbe costretta all’enclave della marina, conosciuto come il Mare di Azov, dove la marina (russa) può essere facilmente bloccata da forze distribuite in Crimea e nella grande Circassia. Il progetto rumeno scompone la situazione. Diffonde la sua influenza ad est e in molti modi assorbe la Moldavia e parte dell’Ucraina, il paese sta cercando di rafforzare le sue posizioni nel Mar Nero. Come oggi, il Mar Nero è l’unico mare aperto dove la marina statunitense non è presente in pianta stabile. Se il piano dell’ovest di costruire una grande Circassia si materializzasse, la repubblica da poco indipendente, pagherà con l’operazione di separazione della Russia dal Mar Nero. Seri sforzi di buttar giù il regime pro-russo, lungo la costa del Mar Nero, dovrebbero essere visti come un processo parallelo. Il disegno è conosciuto come “l’anello di anaconda”, un piano classico per la geopolitica Usa nell’Eurasia, volto ad escludere i Russi dai mari bloccandoli nell’entroterra. L’occidente evidentemente attribuisce la massima priorità al problema circassiano, essendo la rispettabile fondazione James Town, uno dei punti interessati. Il neo presidente della compagnia RAND, Paul Hansee della rinomata comunità statunitense d’intellgence immagina Paul Globe, che è considerato come il maggior contributo allo sviluppo del progetto Ugro-finnico di separatismo nella repubblica Russa, ugro-finnica. Prende parte negli eventi della fondazione James Town concentrati intorno alla Circassia.

Paesi anglo-sassoni danno attivo supporto agli attivisti circassiani come Khachi Bairam, il leader della diaspora circassiana in Turchia, Zeyaz Hajo un rappresentante circassiano negli USA, il presidente Iyad Youghar, un istituto culturale circassiano, etc.

Ad oggi il movimento circassiano nazionalista è tenuto dai servizi d’intelligence dell’ovest lungo lo spazio post- sovietico. La fratellanza circassiana mondiale ha il suo quartier generale a Los Angeles, un suo presidente Zamir Shukhov è stato fotografato sovente con la bandiera americana sullo sfondo. Un’ideologista circassiano Akhmat Ismagyil, autore della “Guerra Caucasica”, un libro pubblicato in Siria, si apre con l’intenzione di liberare il Caucaso dalla Russia. I circassiani stanno cercando di credere che qualcuno possa far pagare la Russia -materialmente e moralmente- per gli eventi che accaddero due secoli fa.

In Israele l’ideologia è confermata dal leader del gruppo ultra-azionista Bead Artseinu, fautore di un impero israeliano che va dal Nilo all’Eufrate, Shmulevic Avraham (originariamente Nikita Dyomin, un convertito al giudaismo nato in una famiglia, da padre russo e madre ebrea a Murmansk, Russia).

Il parlamento israeliano ha concesso a Shmulevich la cittadinanza onoraria israeliana nel 1984 per il suo attivismo ebraico in URSS. Israele ospita una lunga diaspora circassiana che Tel Aviv utilizza per i propri fini in stretto contatto con Washington.

Lasciateci immaginare che -per quanto incredibile possa sembrare- la repubblica circassiana guadagni l’indipendenza dalla Russia. Il futuro sarebbe simile a quello della Cecenia sotto J.Dadaev, una regione separatista manipolata da Washington, Londra, Ankara, Karachi e Riyad. Tutto ciò, i ceceni ordinari, lo videro come risultato di un combattimento feroce sul proprio suolo. Il piano della grande Circassia muoverebbe semplicemente l’intero Caucaso di un passo più vicino alla stessa situazione.

(Traduzione di Giulia Vitolo)

jeudi, 11 novembre 2010

La nouvelle révolution turque

La nouvelle révolution turque

par Georges FELTIN-TRACOL

Ex: http://www.europemaxima.com/

turkish-army.jpgEn moins de cent ans, la Turquie aura connu deux grandes révolutions, politiques et culturelles, la seconde cherchant à annuler les effets de la première. Telle est la thèse de Tancrède Josserand dans La nouvelle puissance turque, une brillante étude à la croisée de l’histoire des idées politiques, de la sociologie religieuse et de la géopolitique.

Turcophone avisé et jeune directeur de l’« Observatoire du monde turc et des relations euro-turques » de la Lettre Sentinel Analyses et Solutions, Tancrède Josserand apporte au lecteur francophone une vue nouvelle – et novatrice – sur l’évolution passionnante de la Turquie. Sorti fin août, l’ouvrage résonne néanmoins de l’actualité puisque, le 12 septembre 2010, les électeurs turcs ont entériné par plus de 58 % de oui pour une participation de 79 % le référendum révisant la Constitution de 1982. Ils ont ainsi décerné un large quitus au Premier ministre, Recep Tayip Erdogan, et à son parti, l’A.K.P. (Parti de la justice et du développement). Or cet indéniable succès électoral n’est pas le fruit du hasard, mais plutôt le résultat d’un long travail militant, culturel et métapolitique.

Hormis quelques banalités touristiques comme le détroit du Bosphore, la mosquée – cathédrale Sainte-Sophie ou le bazar d’Istanbul, on ne connaît guère la Turquie. Située en Asie Mineure, carrefour naturel de l’Europe, de l’Asie occidentale, du Proche-Orient et du Caucase, peu éloignée des gisements d’hydrocarbures, la Turquie n’est pas aussi homogène qu’elle souhaiterait l’être. Les ethnologues ont recensé quarante-sept minorités ethniques, religieuses et linguistiques parmi lesquelles les Lazes, les Tcherkesses, les Abkhazes, les Albanais, les Arabes, les Assyro-Chaldéens, vingt millions de Kurdes, douze à vingt millions d’Alévis, chiites dissidents qui « ne construisent pas de mosquée, ne font pas de prosélytisme et sont libres de consommer de l’alcool (p. 7) », soit « 32 à 45 millions d’individus sur les 74 millions d’habitants du pays (pp. 173 – 174) ». À l’exception des Grecs, des Arméniens et des Juifs dont l’existence est théoriquement reconnue par le traité de Lausanne de 1923, l’État turc ignore délibérément cette bigarrure humaine qui lui rappelle trop l’héritage ottoman.

De l’Empire ottoman à l’État national-républicain

Puissance se réclamant en partie de l’héritage de Byzance et, par ce truchement, de la Première Rome, l’Empire ottoman fut une théocratie multiculturaliste avant l’heure qui reposait sur l’institution du millet. « Les peuples soumis conservent leurs croyances, leurs institutions juridiques et sociales propres, en échange de l’allégeance au Sultan. Chaque religion forme un millet organisé comme une communauté légale sous la direction des porteurs du sacerdoce. Ce système ne permet pas seulement à l’État de contrôler les communautés à travers leurs institutions religieuses mais également au clergé des différents millet de s’appuyer sur le bras séculier pour réprimer les hérésies. Le système des millet permet à chacune des communautés de vivre ensemble tout en vivant à part (pp. 6 – 7). »

Ce « communautarisme institutionnel » n’est possible que du fait de l’originalité de l’islam turc. Principalement sunnite, il se divise en confréries hanafites ou soufies mystiques qui s’impliquent fortement dans la société et constituent un contre-pouvoir à l’omnipotence despotique du Sultan – Calife – Commandeur des croyants. La prégnance des confréries dans la société actuelle est largement examinée par Tancrède Josserand.

Longtemps gage d’une efficience politique, cette diversité organisée se transforme en faiblesse rédhibitoire au siècle des nationalités qui plonge l’Empire ottoman dans un déclin que ne parvient pas à freiner le mouvement jeune-turc. L’entrée en guerre d’Istanbul aux côtés des Empires centraux en 1914 marque son arrêt de mort. En 1920, par le traité de Sèvres, les Alliés et leurs affidés dépècent l’Empire. Le littoral anatolien est partagé entre les Grecs et les Italiens tandis qu’apparaissent les proto-États kurde et arménien.

Toutefois, la défaite ottomane attise le réveil national turc qui se cristallise autour d’un général aux yeux clairs et aux traits européens, né à Salonique, Mustapha Kemal. Celui-ci entreprend une véritable guerre de libération nationale. Sa victoire remet en cause l’architecture des traités de paix de la Grande Guerre, car elle contraint les Alliés à signer le traité de Lausanne de 1923 qui révise les clauses de Sèvres.

Conscient de la nécessité d’établir une identité turque qui se détourne du passé impérial ottoman, Kemal soutient une vision ethnique et linguistique de la turcité. Il déplace la capitale d’Istanbul au cœur du plateau anatolien à Ankara (Angora), encourage les recherches sur les civilisations hittite et sumérienne, ouvre une chaire universitaire indo-européenne dont le titulaire est le jeune Georges Dumézil et entreprend une vaste réforme civilisationnelle. Pour autant, « l’occidentalisation n’est pas conçue comme un processus d’acculturation visant à faire de la Turquie un pays européen. Au contraire, il s’agit pour Kemal de s’approprier la technique occidentale afin de pouvoir faire revivre l’âme turque d’avant l’islam (p. 11) ». Kemal invite historiens, géographes et ethnologues à déterminer correctement le foyer initial du peuple turc. « Au sud de la forêt sibérienne, les monts désolés de l’Altaï abritent le berceau originel des premiers Turcs. Ces espaces désertiques occupent une place à part dans l’imaginaire national. Ils sont indissociables de la légende de l’Ergenekon. Une louve au pelage gris-bleu aurait recueilli et nourri deux enfants, les derniers survivants d’une tribu turque disparue. Le symbole a été par la suite repris par la droite radicale et l’État turc lui-même. Il figure sur les armes de la “ République turque de Chypre ”  (p. 208). » Cet intérêt pour les mythes fondateurs sert l’unité des Turcs qui expulsent Grecs d’Ionie et d’autres populations allogènes.

Très vite, Ankara s’inspire des expériences communiste soviétique et fasciste italienne. « D’évidentes analogies existent entre les deux États où la nation est définie comme un tout organique, dirigé par un chef et un parti unique, expression de la volonté nationale (p. 14). » Mieux, « en 1937, les six principes ou six flèches du kémalisme (Alti Ock) (nationalisme, populisme, laïcité, étatisme, république, révolution) sont inscrits dans la Constitution (p. 14) ». Par ailleurs, l’impératif  politogénésiaque turc fait que « Kemal va user de barrières douanières prohibitives pour créer une bourgeoisie nationale (p. 12) ».

Mustapha Kemal prône l’émergence d’un homme nouveau turc « viril, vertueux, héroïque (p. 15) », d’où la nécessité de bouleverser en profondeur la société traditionnelle musulmane par une révolution quasi-permanente qui, au jour le jour, « entretient une tension permanente qui doit permettre l’application rapide des décisions arrêtées et la perpétuation des principes édictées (p. 15) ».

L’ambition laïque

Les mesures édictées par Kemal suscitent de violentes protestations qui dégénèrent, ici ou là, en révoltes ouvertes au nom de la défense de l’islam et avec l’implication étroite des confréries. La réponse étatique en est une répression implacable.

Les résistances musulmanes augmentent la méfiance de Kemal envers l’islam. Il veut la restreindre à la seule vie privée, voire à l’intimité du pratiquant. « L’islam, selon Kemal, est une parenthèse débilitante de l’histoire turque, la revanche des Arabes sur leur conquérant. Son message universaliste a dissous l’âme turque dans un magma informe. Preuve de cette volonté de ré-enracinement dans la plus longue mémoire, l’utilisation au début de la République du loup d’Asie centrale comme symbole officiel sur le timbre, les billets de banque (p. 12). »

Tancrède Josserand en vient à évoquer la laïcité turque qui ne correspond pas à la laïcité française. « L’État est laïc au sens où il n’est pas dominé par la religion. La religion est placée sous son contrôle. L’État organise, réglemente la pratique religieuse en restreignant au maximum sa visibilité dans la sphère publique (p. 139). » « La séparation entre l’État et la mosquée, poursuit l’auteur, est purement formelle puisque la vie religieuse s’organise au sein du ministère des Cultes (Dinayet). Outre le traitement des desservants, l’État kémaliste impose à l’islam ses propres orientations nationales (p. 18). » Ainsi, du temps d’Atatürk, l’appel à la prière du haut du minaret se fait en turc et non en arabe ! Le régime reprend la vieille tradition orientale « césaropapiste », chère aux empereurs byzantins… Il conçoit en outre la laïcité comme une religion civique et nationale fondée sur une base ethno-culturelle turque. Ce projet s’apparente-t-il à une religiosité pré-totalitaire ? Il y a pourtant un paradoxe : « l’islam est le creuset identitaire du nouvel État (p. 19) ».

Par conséquent, bien que pourchassées et interdites, les confréries survivent et attendent patiemment l’affaiblissement de l’État républicain. Cet affaiblissement tant survient après la Seconde Guerre mondiale quand les Alliés forcent la Turquie, restée neutre pendant le conflit, à renoncer à son monopartisme pré-totalitaire. Des bourgeois républicains créent le Parti démocrate et accèdent au pouvoir à la fin des années 1940. La réislamisation de la société est relancée de facto ! Dans le même temps, en raison de la Guerre froide et du voisinage soviétique, Ankara se place clairement dans le camp occidental, adhère à l’Alliance Atlantique et pose sa candidature à la C.E.E.

L’établissement d’une démocratie parlementaire avive les tensions politiques et sociales dans les décennies 1960 et 1970. Les campus deviennent le champ de bataille entre étudiants gauchistes, nationalistes et islamistes. Comme en Italie, la Turquie connaît des « années de plomb » et une « stratégie de la tension ». L’instabilité politique entraîne l’intervention de l’armée turque en 1960, en 1971 et en 1980 au nom des intérêts supérieurs de la nation qu’elle défend tout particulièrement.

L’armée, sentinelle de la nation

« La République turque, écrit Tancrède Josserand, est indissociablement liée à l’institution militaire (p. 195). » En effet, « les militaires en Turquie sont les gardiens de l’État et de sa continuité à travers les âges. Corps mystique et éclairé de la nation, l’armée se sent dépositaire d’une légitimité propre qui la place au-dessus des contingences des gouvernements élus. La référence au kémalisme est tout autant si ce n’est plus l’expression d’un lien de solidarité et d’intérêts de pouvoir d’une caste que celui de l’adhésion à un corpus idéologique intangible (p. 24) ». Cette prédominance provient paradoxalement de l’ère ottomane quand « la carrière militaire est une profession prestigieuse qui place le soldat au-dessus du reste de la société (p. 6) ».

Elle se renforce lors de la guerre de libération nationale de 1919 – 1923 et se concrétise avec le rôle quasi-démiurgique du général Kemal sur l’État dont la vocation est d’obtenir une nation turque. Or, afin de mener à bien cet objectif titanesque, le jeune État turc s’ouvre aux officiers si bien que l’armée est à l’origine de l’État lui-même maître-d’œuvre de la nation. De ce fait, « l’armée s’est construit une légitimité au dessus des partis en se statufiant gardienne de l’État (p. 201) ». Cette fonction lui permet par conséquent de mener une série de coups d’État jusqu’en 1997 sans pour autant s’occuper du quotidien. Les différents gouvernements turcs doivent appliquer les recommandations impératives du Conseil de sécurité nationale, l’émanation constitutionnelle de l’armée.

L’armée contrôle aussi de larges pans de l’économie grâce à l’O.Y.A.K. (Fonds de solidarité et d’aides mutuelles des forces armées). Bref, elle fait figure de sentinelle attentives et sourcilleuse de la vie politique turque en prenant après 1945 la posture du commandeur. En 1950, la victoire électorale du Parti démocrate montre l’ascension sociale de couches nouvelles issues de l’islam rural et provincial. Apparaît alors en réaction le Derin Devlet (l’État profond) qui « renvoie à l’existence d’une élite formée de hauts fonctionnaires, militaires, magistrats, membres des différents services de sécurité, et même universitaires pouvant agir à côté du gouvernement pour œuvrer à la conservation de la nation, de l’héritage kémaliste et d’intérêts de pouvoir bien compris… (p. 22) ». Il importe cependant de ne pas assimiler cet État profond aux armées secrètes de l’O.T.A.N. destinée à la lutte anti-communiste en dépit d’évidentes connexions (1).

Longtemps hégémonique, la place de l’armée s’amoindrit depuis une décennie sous les coups de butoir des islamistes et de la Commission européenne de Bruxelles. Elle a perdu de sa superbe; le Conseil de sécurité nationale n’a plus qu’un rôle consultatif. Dépit et résignation parcourent l’encadrement militaire. En 2002, l’armée autorisa le lancement du processus d’adhésion à l’U.E. avec le secret espoir de briser l’emprise de l’A.K.P. sur la population. À tort ! Désormais, « les cercles militaro-laïques opèrent un lien direct entre l’Union européenne, le projet d’islam modéré anglo-saxon et la globalisation (p. 205) », voyant l’instrumentalisation par les islamistes du choix européen.

Sur la défensive depuis la découverte et le démantèlement de divers complots dont ceux du réseau Ergenekon (2), l’armée semble hors-jeu et n’entend plus régir la politique turque. Cependant, certains de ses milieux continuent à résister à la « vague verte », malgré une infiltration islamiste indéniable. Les cénacles anti-musulmans de l’armée réfléchissent à une alternative géopolitique qui délaisserait l’orientation néo-ottomane et l’intégration européenne et pencheraient vers l’eurasisme qu’Alexandre Kadirbayev envisagerait comme « l’union de la steppe et de la forêt, des Turcs et des Slaves (p. 206) ». Il est étonnant que Tancrède Josserand n’évoque pas les thèses pantouraniennes naguère défendues par les Loups gris et le M.H.P. (Parti de l’action nationale). La vision d’un ensemble turcophone coordonné de la mer Adriatique à la Muraille de Chine serait-elle définitivement révolue ?

Il est en tout cas évident que l’armée perd ses repères habituels. « À partir des années 1980, la mondialisation associée à la libéralisation de l’économie, l’adhésion à l’Union européenne, ouvrent la Turquie. Les échelles se sont progressivement brouillées. Le cadre national se retrouve compressé entre le local et le global. À la différence de l’élite laïque aux rigides conceptions jacobines, les élites islamistes se sont coulées dans la nouvelle donne (p. 212). »

Islam radical et postmodernité

« L’A.K.P., explique Tancrède Josserand, c’est l’islam politique à l’heure de la postmodernité. Dans le discours postmoderne, aucune idéologie n’est plus légitime qu’une autre. Conséquence directe de la postmodernité, l’État se voit dépouillé de son droit à désigner une finalité universelle, c’est-à-dire à fixer un discours global et admis par tous. Dans le cas turc, cette remise en cause de l’idéologie d’État aboutit logiquement à la remise en cause de sa religion civique : la laïcité (p. 3). » Les dirigeants de l’A.K.P. ont pris conscience du phénomène et l’ont même accepté. Considérant que « la mondialisation excite l’expression d’identités culturelles sans bases politiques. En même temps, la perte de repères inhérente à la standardisation des modes de vie invite l’individu déraciné à s’accrocher à l’appartenance la plus proche. C’est le réflexe communautaire (pp. 174 – 175) », les islamistes utilisent la vogue du multiculturalisme dans la perspective d’assurer une hégémonie d’abord culturelle, puis politique. Puisque « la remise en cause des prérogatives régaliennes dans le cadre de l’intégration européenne favorise le retour à des conceptions régionalistes (p. 179) », les islamistes n’hésitent pas à favoriser le régionalisme. Or le problème porte sur l’acception du « régionalisme » qui présente un caractère artificiel et administratif plus que charnel, identitaire et enraciné. Sauf quelques exceptions notables, les mouvements régionalistes se revendiquent progressistes, altermondialistes et modernes.

Or, « chez les islamistes turcs la question du fédéralisme n’a jamais été taboue (p. 185) ». Tancrède Josserand cite un idéologue de l’A.K.P., Cemalettin Kaplan, qui déclare que « la laïcité d’Atatürk exclut naturellement les régions; nous sommes contre un État unitaire. Nous fonderons un État anatolien fédéral islamique (p. 185) ». Alors que « dans la droite ligne des principes hérités de la Révolution française, le kémalisme ne reconnaît que la nation et l’individu (p. 180) », les islamistes parient sur la résurgence des identités populaires et sur la réaffirmation de l’Oumma. « Hostile au nationalisme, considéré comme un produit d’exportation occidentale portant en germe les principes de la sécularisation, l’islam politique pose en premier lieu le lien religieux (p. 183). » Ainsi, « en favorisant le retour aux communautés, l’A.K.P. crée les conditions d’une société féodale sans arbitre et sans ordre politique, où les groupes divers imposent leurs codes et leur droit dans un tourbillon sans fin (p. 213) ». L’A.K.P. suivrait-il les travaux novateurs de Michel Maffesoli ? En Turquie, Dionysos s’est fait pour la circonstance mahométan !

Les néo-islamistes ont pris acte de la liquidification du monde ultra-moderne. Ils comprennent qu’« avec la mondialisation, les sociétés s’émancipent des États : les frontières administratives demeurent mais sont effacées ou ignorées. Émerge “ une volatilité identitaire ”. En fonction des enjeux, l’individu modifie à sa guise la hiérarchie de ses appartenances. Les attributs régaliens de l’État sont intégrés dans des structures transnationales, alors qu’à la base, ils sont éclatés en de multiples corps locaux ou intermédiaires (p. 172) ». Dorénavant, « le point de divergence majeur entre l’A.K.P. et l’islam politique classique repose sur la renonciation par les néo-islamistes à la religion d’État (p. 139) ». Les néo-islamistes rêvent de laïcité anglo-saxonne, étatsunienne en particulier, avec une ambiance saturée d’islam. « Très tôt, les néo-islamistes ont compris qu’il était impossible d’ignorer les effets de la mondialisation libérale. Bien au contraire, celle-ci couplée au processus d’adhésion à l’Union européenne est une arme redoutable contre le vieil État-nation kémaliste (p. 54). » Les néo-islamistes ont effectué leur mue culturelle et réussi leur métamorphose intellectuelle.

Une révolution conservatrice ou néo-libérale ?

Cette évolution résulte d’un long processus idéologique souvent parsemé d’échecs formateurs. L’auteur rappelle justement que « les membres fondateurs de l’A.K.P. se sont connus au milieu des années 1970 au sein de l’Union national des étudiants turcs (Milli Türk Talebe Birligi – M.T.T.B.), école des cadres de la droite radicale turque (p. 75) ». Ils affrontent en compagnie des étudiants nationalistes « idéalistes » les gauchistes. Leur activisme les fait remarquer par une véritable centrale de formation islamiste – le Milli Görus (Voie nationale) – qui est une école des cadres et un laboratoire d’idées de plusieurs générations militantes. Comme pour les nationalistes hindous en Inde qui bénéficient des entreprises intellectuelles du V.H.P. (Visva Hindu ParishadConseil mondial hindou) et du R.S.S. (Rashtriya Swayam Sevak SanghAssociation pour la défense des valeurs nationales), les néo-islamistes turcs disposent d’un solide appareil théorique qui permet l’articulation réfléchie du militantisme et de la métapolitique.

La gestation du néo-islamisme de l’A.K.P. fut longue et difficile. Elle date de l’échec gouvernemental du Refah Partisi (Parti de la prospérité) de Necmettin Erbakan. Le Refah se posait en alternative radicale et totale au kémalisme et s’inscrivait dans une veine protestataire qui, dans les décennies 1970 – 1980, se définissait comme tiers-mondiste, anti-impérialiste et identitaire. « Avec la charte dite de “ l’Ordre juste ” (Adil Düzen), le parti islamiste prône une troisième voie économique et sociale (p. 52) » et propose un développement autocentré ! Contre la menace d’extrême gauche, des convergences apparaissent entre islamistes et nationalistes d’où, à la suite du coup d’État de 1980, le désir des militaires d’opérer une synthèse islamo-nationaliste : « kémalisme et islam sont compatibles, la laïcité est nécessaire au développement d’un islam moderne et ami de la science (p. 26) ». Paraît à ce moment un « Rapport sur la culture nationale ». « Préparé sous les auspices d’intellectuels liés à la droite radicale, le document décline les trois piliers de la synthèse islamo-nationaliste : la famille, la mosquée, l’armée. […] Cette synthèse, opérée en rupture avec une partie des principes adoptés à partir de 1923, démontre que le kémalisme si cher à l’armée relève plus d’une logique de défense de l’idée d’État, que d’un corpus idéologique inamovible (pp. 26 – 27). »

En 1997, l’incapacité à gouverner d’Erbakan provoque une rupture entre l’aile traditionaliste qui va constituer le Saadet Partisi (Parti de la félicité) et l’aile modernisatrice, démocrate, libérale et pro-européenne, le futur A.K.P. Depuis, « à la différence des partis islamistes traditionnels, l’A.K.P. ne cherche pas à supprimer la laïcité pour instaurer la charia. Au contraire, les néo-islamistes turcs exigent une vraie laïcité et la fin de l’ingérence de l’État dans la sphère du privé (p. 69) ». Il ressort que « le conservatisme des néo-islamistes turcs n’est pas la réaction. On ne peut renouveler les formes révolues de gouvernement et effacer les grandes ruptures de l’Histoire comme si elles n’avaient jamais eu lieu. Ce conservatisme veut se rattacher au passé mais sans le restaurer. Le principe de conservation n’est pas synonyme d’inertie mais d’évolution de la continuité (p. 64) (3) ». Cette démarche ne se rapproche-t-elle pas des conceptions de la Révolution conservatrice allemande et européenne ?

Proche d’Erdogan et idéologue principal de l’A.K.P., Yulçin Akdogan, a inventé l’expression de « démocrate conservateur » et défend la vision d’« une démocratie organique se propageant de place en place dans l’ensemble du corps politique et social (p. 67) ». Cherchant à combler le fossé entre le peuple et les « élites », il estime – tel Arthur Mœller van den Bruck – que « ce qui fait la démocratie, ce n’est pas la forme de l’État mais la participation du peuple à l’État (p. 67). » Tancrède Josserand ajoute que « très habilement, les néo-islamistes ont compris que l’adéquation entre islam et démocratie prenait en défaut l’ensemble de l’édifice républicain (p. 61) ».

L’A.K.P. se considère comme une véritable force néo-conservatrice. Prenant en compte les données surgies de la mondialisation, il promeut le système capitaliste-libéral et des valeurs morales hostiles au matérialisme. « Dans la lignée d’Hayek et de Burke, l’A.K.P. conçoit les libertés traditionnelles comme partie inhérente de l’ordre social. L’État est là pour restaurer l’autorité et la vie sociale, non pour la liquider. La société est un parapluie sous lequel on peut s’abriter librement, à l’opposé de l’État moderne où l’homme en échange de cette protection fait le sacrifice de sa liberté (p. 71). » Militant en faveur de l’économie de marché, la liberté de conscience et la diversité des appartenances, l’A.K.P. cherche à « dégraisser l’État-Moloch en reconstruisant les mécanismes traditionnels d’entraide et de protection de la société musulmane (p. 72) ». Bref, il souhaite passer de l’État social à l’État de charité et soutient un État minimal. Leur vision correspond au conservatisme compassionnel de Bush fils et à la Big Society du Premier ministre tory David Cameron.

Un autre idéologue néo-islamiste, Mustafa Akyol, n’hésite pas à citer Joseph de Maistre. Ce « disciple de Leo Strauss critique le culte de la raison propre aux Lumières françaises. […] Akyol s’inscrit dans l’école du libéralisme conservateur, un libéralisme critique qui rejette la confusion entre liberté et révolution […]. Akyol n’est donc pas réactionnaire pour cette raison qu’il ignore pas ni ne rejette la donne du monde actuel. Le processus de modernisation auquel il adhère est un processus de modernisation conservatrice (p. 60) ». Verrait-on une modernisation musulmane réussie grâce à ces lecteurs singuliers d’Edmund Burke ? Cet intérêt des néo-islamistes pour Burke, l’un des principaux penseurs de la Contre-Révolution, est logique puisque l’ennemi kémaliste s’inspire, lui, du projet éclairé découlant des idées de 1789.

Il apparaît clairement une très nette convergence entre le néo-islamisme turc et la pensée libérale d’origine anglo-saxonne. Soulignant les nombreux liens noués entre l’A.K.P. et les cénacles néo-conservateurs étatsuniennes, Tancrède Josserand parle d’une « alliance des dévots » entre néo-islamistes et puritains d’outre-Atlantique. On retrouve sur les bords du Bosphore de vieilles recettes pratiquées par Margaret Thatcher et Ronald Reagan dans les années 1980. Il est par conséquent indéniable qu’il existe une « éthique islamique du capitalisme (p. 124) ». Les spécialistes vont même jusqu’à parler de « calvinistes musulmans » quand bien même les intellectuels islamistes dénoncent la Réforme protestante comme un facteur déterminant de sécularisation du monde.

L’A.K.P. n’est pas le F.I.S. (Front islamique du salut) algérien, les wahhabites saoudiens, voire les révolutionnaires néo-traditionalistes iraniens. L’auteur insiste sur le fait que « l’A.K.P. ne correspond pas aux canons habituels de l’islam politique. L’islam est compris comme un corpus moral de valeurs partagées régulateur de l’ordre social, non comme la raison d’être de l’État (p. 3) ». Son besoin vital de vaincre l’idéologie kémaliste persuada le parti néo-islamiste à accepter le processus d’intégration européenne et à se rapprocher du patronat. Le tournant libéral-conservateur des islamistes bouleversa le spectre politique turc : les néo-islamistes adoptent un centrisme ou un centre-droit alors qu’« en Turquie, le terme de centre renvoie à une idéologie officielle : le kémalisme. Cette vision du monde est gravée dans le mot d’ordre : État-nation, État laïc, État unitaire. Traditionnellement, les partis du centre-gauche est dans une moindre mesure de centre-droit alliés à l’appareil bureautico-militaire, en sont les légataires. À l’inverse, la périphérie désigne les secteurs de la population brimés par le système (Kurdes, islamistes, Alévis). Cette périphérie recouvre les différents mouvements islamistes issus du Milli Görus et en dernier ressort l’A.K.P. (pp. 35 – 36) ». Les succès de l’A.K.P. favoriseront-ils l’islamisation de la Modernité ou bien la mise en place d’une contre-modernité ? À moins que le monde ultra-moderne, fluide et liquide, domestique l’islamisme politique… « Loin de constituer un contre-feu au modernisme, estime Tancrède Josserand, l’élaboration d’une doctrine islamique du capitalisme ne fait qu’accélérer l’assimilation de l’islam dans un monde sécularisé, où il se réduit au final à un simple segment du marché (p. 133). »

En abordant la question kurde, Tancrède Josserand apporte des éléments inattendus et intéressants, bien loin des stéréotypes idiots des médias hexagonaux. « Les islamistes voient dans la question kurde un avatar du régime républicain que seule la restauration d’un lien spirituel fort est susceptible de résoudre (p. 173). » On y apprend l’existence du Hizbullah kurde qui lutte contre la guérilla du P.K.K. (Parti des travailleurs du Kurdistan) maoïste. Inspiré par le précédent de la révolution iranienne de 1979, son fondateur, Hüseyin Velioglu, « est à l’origine un transfuge de la droite radicale (p. 186) ». Ce parti de Dieu kurde, plus radical que l’A.K.P., envisage « l’alliance entre les étudiants, les paysans et les déshérités (p. 186) » et « rejette l’animalité végétative du monde moderne (p. 186) ». Sa structure de base, la mesjids (petite mosquée), ressemble aux nids de la Garde de Fer roumaine… Il n’empêche que le Kurdistan continue à poser un grave problème à la géopolitique turque.

Le jeu géopolitique

« La Turquie appartient hiérarchiquement à trois ensembles distincts :

— Le monde musulman au Sud.

— L’Eurasie à l’Est.

— L’Occident à l’Ouest (pp. 41 – 42). »

Notons que les visées panturquistes ou le songe pantouranien semblent totalement évacués des enjeux contemporains pour s’ancrer dans les chimères nostalgiques d’Enver Pacha.

Tout en misant sur l’U.E., les néo-islamistes démocrates-conservateurs réactivent la vieille influence ottomane dans le monde musulman à travers l’Organisation de la Conférence islamique (O.C.I.). Les étroits liens entre Ankara et Israël se distendent depuis qu’Erdogan aspire à devenir le porte-parole de la cause palestinienne auprès de la « Communauté internationale ». L’assaut israélien contre la flotille d’aide à Gaza a provoqué une grave crise diplomatique. Or rien ne dit que, dans les coulisses, Israéliens et islamistes turcs agissent de concert afin de rendre la figure d’Erdogan populaire auprès des masses arabes et de concurrencer celle d’Ahmadinejad.

On définit ce regain turc pour le monde arabe par le concept de « néo-ottomanisme » quand bien même la mémoire arabe garde les séquelles de la longue tutelle de la Sublime Porte. La politique étrangère – multidimensionnelle – de la Turquie est mise en pratique par l’ancien conseiller diplomatique d’Erdogan et actuel ministre des Affaires étrangères, Ahmet Davutuglu, qui pense au rang de son pays dans le monde. Estimant que « de Sarajevo à Bagdad en passant par Istanbul et Grozny, une même communion d’âme existe : l’islam et le souvenir de l’Empire ottoman (pp. 42) », Davutuglu façonne une sorte de diplomatie gaullienne : on conteste l’hégémonie des États-Unis tout en restant leur allié loyal. « Le fait que la Turquie puisse s’affranchir ponctuellement de la tutelle américaine n’est pas forcément nuisible. La Turquie est ainsi plus écoutée; elle devient à la fois une porte ouverte sur l’Ouest et un exemple à suivre (p. 43). »

Tancrède Josserand insiste sur « la convergence d’intérêts existant entre la mouvance islamiste turque et les États-Unis. L’A.K.P. demeure la formation la plus modérée à l’égard de Washington au sein de l’arc politique turc (p. 56) ». En visite aux États-Unis et soucieux d’apparaître en musulman responsable et atlantiste, Erdogan a discouru devant la Fondation Lehman Brothers, l’American Entreprise Institut, la Rand Corporation, l’Anti-Difamation League et l’American Jewish Congress. Une véritable alliance objective s’est réalisée puisque, « palliant l’absence d’un réel lobby turc, les groupes de pression pro-israéliens remplissent au Congrès ce rôle, surtout lorsqu’il s’agit de faire obstacle aux menées des instances communautaires arméniennes en vue de faire reconnaître le génocide de 1915. Cette appellation est réfutée tout par les Turcs que par les Juifs au nom du caractère unique de la Shoah (pp. 57 – 58) ».

Si la politique extérieure turque écarte le pantouranisme, elle n’hésite pas, en revanche, parallèlement à son atlantisme, à regarder aussi vers l’Est. « En Asie centrale, Davutoglu rappelle le rôle fondamental des populations turques. L’empire des steppes, la Horde d’Or, de la mer d’Aral à l’Anatolie est un point fixe de sa pensée. La Turquie a tout intérêt à revivifier cette vocation continentale et à se rapprocher du groupe de Shanghaï sous la baguette de la Chine et de la Russie (pp. 42 – 43). » La Turquie n’a pas encore dit son dernier mot (géo)politique…

La nouvelle puissance turque. L’adieu à Mustapha Kemal de Tancrède Josserand secoue les lieux communs les plus éculés et montre d’une lumière nouvelle les facettes de ce voisin de l’Europe. Regrettons cependant qu’il n’a pas été apporté à cet essai toute la rigueur scientifique attendue : nombreuses coquilles, absence de cartes, d’index et de bibliographie appropriés. Espérons donc qu’une prochaine édition rectifiera ces manques pour que ce livre de référence atteigne l’excellence.

Georges Feltin-Tracol

Notes

1 : cf. Daniele Ganser, Les Armées secrètes de l’O.T.A.N. Réseaux Stay Behind, Gladio et terrorisme en Europe de l’Ouest, Éditions Demi-Lune, coll. « Résistances », 2007, 416 p.

2 : Berceau mythique des Turcs, Ergenekon désigne aussi une vaste conspiration anti-islamiste, anti-atlantiste et anti-européenne nouée entre des cadres de l’armée, de l’intelligentsia et de la pègre mise en lumière par la police et les journalistes.

3 : Souligné par nous.

• Tancrède Josserand, La nouvelle puissance turque. L’adieu à Mustapha Kemal, Éditions Ellipses, 2010, 219 p., 20 €.


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dimanche, 31 octobre 2010

Neo-Ottoman Turkey: A Hostile Islamic Power

Neo-Ottoman Turkey: A Hostile Islamic Power

By Srdja Trifkovic

Ex: http://www.hellenesonline.com/

Map: Turkish sphere of influence 2050?

Turkey-2050.jpgThe fact that Turkey is no longer a U.S. “ally” is still strenuously denied in Washington; but we were reminded of the true score on March 9, when Saudi King Abdullah presented Turkish Prime Minister Recep Tayyip Erdogan (shown above with wife and friends) with the Wahhabist kingdom’s most prestigious prize for his “services to Islam” (from AltRight). Erdogan earned the King Faisal Prize for having “rendered outstanding service to Islam by defending the causes of the Islamic nation.”

Services to the Ummah – Turkey under Erdogan’s neo-Islamist AKP has rendered a host of other services to “the Islamic nation.” In August 2008 Ankara welcomed Mahmoud Ahmadinejad for a formal state visit, and last year it announced that it would not join any sanctions aimed at preventing Iran from acquiring nuclear weapons. In the same spirit the AKP government repeatedly played host to Sudan’s President Omer Hassan al-Bashir — a nasty piece of jihadist work if there ever was one — who stands accused of genocide against non-Muslims. Erdogan has barred Israel from annual military exercises on Turkey’s soil, but his government signed a military pact with Syria last October and has been conducting joint military exercises with the regime of Bashir al-Assad. Turkey’s strident apologia of Hamas is more vehement than anything coming out of Cairo or Amman. (Talking of terrorists, Erdogan has stated, repeatedly, “I do not want to see the word ‘Islam’ or ‘Islamist’ in connection with the word ‘terrorism’!”) simultaneous pressure to conform to Islam at home has gathered pace over the past seven years, and is now relentless. Turkish businessmen will tell you privately that sipping a glass of raki in public may hurt their chances of landing government contracts; but it helps if their wives and daughters wear the hijab.

Ankara’s continuing bid to join the European Union is running parallel with its openly neo-Ottoman policy of re-establishing an autonomous sphere of influence in the Balkans and in the former Soviet Central Asian republics. Turkey’s EU candidacy is still on the agenda, but the character of the issue has evolved since Erdogan’s AKP came to power in 2002.

When the government in Ankara started the process by signing an Association agreement with the EEC (as it was then) in 1963, its goal was to make Turkey more “European.” This had been the objective of subsequent attempts at Euro-integration by other neo-Kemalist governments prior to Erdogan’s election victory eight years ago, notably those of Turgut Ozal and Tansu Ciller in the 1990s. The secularists hoped to present Turkey’s “European vocation” as an attractive domestic alternative to the growing influence of political Islam, and at the same time to use the threat of Islamism as a means of obtaining political and economic concessions and specific timetables from Brussels. Erdogan and his personal friend and political ally Abdullah Gul, Turkey’s president, still want the membership, but their motives are vastly different. Far from seeking to make Turkey more European, they want to make Europe more Turkish — many German cities are well on the way — and more Islamic, thus reversing the setback of 1683 without firing a shot.

The neo-Ottoman strategy was clearly indicated by the appointment of Ahmet Davutoglu as foreign minister almost a year ago. As Erdogan’s long-term foreign policy advisor, he advocated diversifying Turkey’s geopolitical options by creating exclusively Turkish zones of influence in the Balkans, the Caucasus, Central Asia, and the Middle East… including links with Khaled al-Mashal of Hamas. On the day of his appointment in May Davutoglu asserted that Turkey’s influence in “its region” will continue to grow: Turkey had an “order-instituting role” in the Middle East, the Balkans and the Caucasus, he declared, quite apart from its links with the West. In his words, Turkish foreign policy has evolved from being “crisis-oriented” to being based on “vision”: “Turkey is no longer a country which only reacts to crises, but notices the crises before their emergence and intervenes in the crises effectively, and gives shape to the order of its surrounding region.” He openly asserted that Turkey had a “responsibility to help stability towards the countries and peoples of the regions which once had links with Turkey” — thus explicitly referring to the Ottoman era, in a manner unimaginable only a decade ago: “Beyond representing the 70 million people of Turkey, we have a historic debt to those lands where there are Turks or which was related to our land in the past. We have to repay this debt in the best way.”
This strategy is based on the assumption that growing Turkish clout in the old Ottoman lands — a region in which the EU has vital energy and political interests — may prompt President Sarkozy and Chancellor Merkel to drop their objections to Turkey’s EU membership. If on the other hand the EU insists on Turkey’s fulfillment of all 35 chapters of the acquis communautaire — which Turkey cannot and does not want to complete — then its huge autonomous sphere of influence in the old Ottoman domain can be developed into a major and potentially hostile counter-bloc to Brussels. Obama approved this strategy when he visited Ankara in April of last year, shortly after that notorious address to the Muslim world in Cairo.
Erdogan is no longer eager to minimize or deny his Islamic roots, but his old assurances to the contrary — long belied by his actions — are still being recycled in Washington, and treated as reality. This reflects the propensity of this ddministration, just like its predecessors, to cherish illusions about the nature and ambitions of our regional “allies,” such as Saudi Arabia and Pakistan.
The implicit assumption in Washington — that Turkey would remain “secular” and “pro-Western,” come what may — should have been reassessed already after the Army intervened to remove the previous pro-Islamic government in 1997. Since then the Army has been neutered, confirming the top brass old warning that “democratization” would mean Islamization. Dozens of generals and other senior ranks — traditionally the guardians of Ataturk’s legacy — are being called one by one for questioning in a government-instigated political trial. To the dismay of its small Westernized secular elite, Turkey has reasserted its Asian and Muslim character with a vengeance.
Neo-Ottomanism – Washington’s stubborn denial of Turkey’s political, cultural and social reality goes hand in hand with an ongoing Western attempt to rehabilitate the Ottoman Empire, and to present it as almost a precursor of Europe’s contemporary multiethnic, multicultural tolerance, diversity, etc, etc.
In reality, four salient features of the Ottoman state were institutionalized discrimination against non-Muslims, total personal insecurity of all its subjects, an unfriendly coexistence of its many races and creeds, and the absence of unifying state ideology. It was a sordid Hobbesian borderland with mosques.
An “Ottoman culture,” defined by Constantinople and largely limited to its walls, did eventually emerge through the reluctant mixing of Turkish, Greek, Slavic, Jewish and other Levantine lifestyles and practices, each at its worst. The mix was impermanent, unattractive, and unable to forge identities or to command loyalties.
The Roman Empire could survive a string of cruel, inept or insane emperors because its bureaucratic and military machines were well developed and capable of functioning even when there was confusion at the core. The Ottoman state lacked such mechanisms. Devoid of administrative flair, the Turks used the services of educated Greeks and Jews and awarded them certain privileges. Their safety and long-term status were nevertheless not guaranteed, as witnessed by the hanging of the Greek Orthodox Patriarch on Easter Day 1822.
The Ottoman Empire gave up the ghost right after World War I, but long before that it had little interesting to say, or do, at least measured against the enormous cultural melting pot it had inherited and the splendid opportunities of sitting between the East and West. Not even a prime location at the crossroads of the world could prompt creativity. The degeneracy of the ruling class, blended with Islam’s inherent tendency to the closing of the mind, proved insurmountable.
A century later the Turkish Republic is a populous, self-assertive nation-state of over 70 million. Ataturk hoped to impose a strictly secular concept of nationhood, but political Islam has reasserted itself. In any event the Kemalist dream of secularism had never penetrated beyond the military and a narrow stratum of the urban elite.
The near-impossible task facing Turkey’s Westernized intelligentsia before Erdogan had been to break away from the lure of irredentism abroad, and at home to reform Islam into a matter of personal choice separated from the State and distinct from the society. Now we know that it could not be done. The Kemalist edifice, uneasily perched atop the simmering Islamic volcano, is by now an empty shell.
A new “Turkish” policy is long overdue in Washington. Turkey is not an “indispensable ally,” as Paul Wolfowitz called her shortly before the war in Iraq, and as Obama repeated last April. It is no longer an ally at all. It may have been an ally in the darkest Cold War days, when it accommodated U.S. missiles aimed at Russia’s heartland. Today it is just another Islamic country, a regional power of considerable importance to be sure, with interests and aspirations that no longer coincide with those of the United States.
Both Turkey and the rest of the Middle East matter far less to American interests than we are led to believe, and it is high time to demythologize America’s special relationships throughout the region. Accepting that Mustafa Kemal’s legacy is undone is the long-overdue first step.

By Srdja Trifkovic
Saturday, 13 Mar 2010

 

mercredi, 19 mai 2010

Il nuovo accordo russo-ucraino: un'interpretazione geopolitica

Il nuovo accordo russo-ucraino: un’interpretazione geopolitica

di Alessio Bini

Fonte: eurasia [scheda fonte]


* Alessio Bini è dottore in Relazioni internazionali (Università di Bologna)
Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

Il nuovo accordo russo-ucraino: un’interpretazione geopolitica

I fatti in breve

Il Presidente Viktor Janukovič ha mantenuto la parola data: durante la campagna elettorale presidenziale aveva promesso, in caso di vittoria, di condurre le relazioni con il potente vicino russo fuori dalla situazione di stallo che si era venuta a creare durante la presidenza di Viktor Juščenko. La promessa è stata mantenuta e lo scorso 21 aprile si è concretizzata in un nuovo trattato tra i due Paesi. In quell’occasione, il Presidente della Federazione Russa Dmitrij Medvedev ed il suo omologo ucraino Viktor Janukovič si sono incontrati nella città Kharkiv, situata nella parte orientale dell’Ucraina, per stipulare un accordo che segna una nuova ed importante tappa nelle relazioni tra Russia ed Ucraina.

I cosiddetti accordi di Kharkiv sono caratterizzati dalla volontà di tenere unite questioni militari, strategiche ed economiche.

Il trattato ha una dimensione geopolitica che non può e non deve essere sottovalutata. Mosca ottiente un’estensione di 25 anni (vale a dire fino al 2042 con la possibilità di rimanere fino al 2047) del contratto di affitto delle infrastrutture portuali a Sebastopol, città in cui è ormeggiata la sua flotta del Mar Nero mentre Kiev ottiene come contropartita un aumento per quell’affitto (circa 1.8 miliardi di dollari all’anno) e una riduzione per 10 anni del prezzo del gas russo pari a 100 dollari ogni 1000 metri cubi o, nel caso in cui il prezzo dell’oro blu dovesse scendere sotto i 330 dollari ogni 1000 metri cubi, uno sconto del 30%. Poichè i vertici ucraini hanno già fatto sapere che gradirebbero ricevere l’affitto della base di Sebastopol sotto forma di gas, l’intesa è stata ribattezzata ‘gas for fleet deal’.

 


Questo accordo è paragonabile, per importanza geopolitica, a quello stipulato nel maggio 1997 tra Eltsin e Kučma al fine di mettere termine al contenzioso nato dalle discussioni sul futuro della ex flotta sovietica ancorata a Sebastopol (flotta che contava allora circa 835 vascelli). In quell’occasione la Russia ottenne, tramite contratto di affitto di durata ventennale (con scadenza 2017), la gestione delle infrastrutture portuali cittadine. Curiosamente, ma solo per coloro che non hanno molta dimestichezza con le questioni russo-ucraine, anche allora entrò nelle discussioni la questione del gas: infatti l’Ucraina accettò di trasferire alla Russia buona parte delle navi ottenute dall’accordo di spartizione al fine di coprire parte del debito che si era accumulato nel corso degli anni. Senza alcun intento malizioso, vogliamo ricordare come quelli fossero anni non sospetti: infatti l’Ucraina riceveva gas ad un prezzo veramente basso e Vladimir Putin, accusato oggi da molti di usare con spietato cinismo l’arma delle risorse emergetiche russe al fine di soggiogare i territori ex sovietici, era un personaggio sconosciuto ai più.

I rispettivi parlamenti hanno già ratificato il trattato migliorando il clima tra i due Paesi e rendendo la strada verso altri accordi su questioni strategiche quali l’industria aeronautica e la cooperazione nucleare civile molto meno impervia. A tal proposito è degno di nota quanto affermato da Kostjantyn Gryščenko, attuale Ministro degli esteri ucraino, che parlando della imminente visita del Presidente Russo a Kiev dice di aspettarsi non solo gesti simbolici da parte di Medvedev ma soprattutto concreti passi verso l’implementazione di progetti volti a cementare le relazioni bilaterali in sfere importanti della vita politica ed economica dei due Paesi. Tutto ciò permette alla Russia di mantenere e rafforzare la propria presenza in Ucraina, Paese ritenuto vitale per la propria sicurezza contro i tentativi più o meno dichiarati di accerchiamento da parte dell’Alleanza Atlantica.

Nelle loro dichiarazioni ufficiali entrambi i governi sostengono che l’accordo sia vantaggioso per entrambi e si richiama l’attenzione sui guadagni di natura strategica da parte della Federazione Russa e su quelli di natura economica da parte dell’Ucraina. Si parla infatti di questo accordo come un esempio di win-win situation.

Non è certo nostra intenzione negare che entrambi gli Stati ottengono dei risultati concreti ed importanti, tuttavia, concentrando la nostra attenzione sugli aspetti più propriamente geopolitici ci sembra che dal tavolo dei negoziati emerga una realtà differente e meno bilanciata, una situazione caratterizzata dalla presenza di un ‘vincitore’, cioè Mosca, e di uno ‘sconfitto’, vale a dire Kiev. Riteniamo che tale situazione abbia origine dalla differenza esistente tra la Federazione Russa, uno Stato dotato di una dirigenza che persegue con una certa coerenza gli interessi geopolitici del Paese e l’Ucraina, uno Stato che fin dalla sua indipendenza sembra incapace di esprimere una dirigenza autorevole ed in grado di tracciare prima e promuovere poi gli interessi nazionali e che per questo condanna il proprio Paese a giocare il ruolo di perno piuttosto che di attore geopolitico.

Fin dal principio ci sembra corretto e doveroso chiarire che l’accordo stipulato a Kharkiv il 21 aprile scorso non è ancora stato reso pubblico (e forse non lo sarà mai), di conseguenza l’analisi geopolitica che ci proponiamo di elaborare si baserà, da un lato, su ciò che i protagonisti hanno reso pubblico di tale accordo (vale a dire informazioni utili ed importanti) e, dall’altro, sulle tendenze di medio e lungo periodo che ci sembra caratterizzino le relazioni tra i due Paesi.

 

Perchè la Russia vince

 

Dall’accordo stipulato qualche settimana fa a Kharkiv la Federazione Russa ottiene un risultato molto importante, vale a dire la permanenza nel porto si Sebastopol della propria Flotta del mar Nero. L’importanza di questo risultato è difficilmente sottovalutabile e riposa su molti fattori. Innanzittutto il prolungamento dell’affitto ha un significato identitario: volenti o nolenti, il volto di Sebastopol è stato modellato dal popolo russo che ha fondato la città poco dopo la conquista militare del Khanato tataro di Crimea nel 1783 e che vi ha lasciato un’impronta indelebile. A sua volta, la città ed i gesti di eroismo e di sacrificio compiuti dai russi in quel preciso luogo sono entrati a pieno titolo nella mitologia e nella memoria collettiva di questo popolo. Una volta preso atto di tutto ciò si capisce perchè gli abitanti di Sebastopol dichiarino orgogliosamente la propria identità russa e vedano nella Flotta non uno strumento al servizio di politiche neo-imperialiste russe, come qualche commentatore occidentale sostiene, bensì un simbolo in cui identificarsi e di cui essere orgogliosi.

Con molta probabilità la partenza della Flotta nel 2017, anno in cui i russi avrebbero dovuto lasciare Sebastopol secondo quanto pattuito nell’accordo siglato nel 1997, sarebbe stato un vero e proprio choc per l’intera nazione, un evento da evitare a tutti i costi!

Sia chiaro che quanto appena detto non significa che la città, o peggio ancora l’intera penisola di Crimea, debba tornare sotto la sovranità di Mosca, come molti politici e intellettuali russi pensano, ma chiarire come in quell’angolo di mondo l’identità russa sia vissuta come un fatto naturale e che, di conseguenza, ogni tentativo di negare ciò da parte di molti, nazionalisti ucraini in primis, non può che generare tensioni che indeboliscono l’Ucraina e che si irradiano su tutta la regione del mar Nero, una regione importante per la stabilità e la pace mondiale.

Altrettanto importante è il significato strategico della permanenza della Flotta russa a Sebastopol: sebbene della temibile Flotta sovietica e dei suoi 800 e più vascelli rimanga solo il ricordo (e per molti, la nostalgia), i russi a Sebastopol mantengono ancora un dispositivo militare credibile e temibile composto da circa 50 vascelli da guerra e 12 di supporto.

La Flotta russa è più potente di tutte le flotte degli altri Paesi rivieraschi messe assieme e la potenza dei suoi vascelli più importanti potrebbe permetterle di ottenere la vittoria su nemici più potenti.

Tutto ciò permette alla Russia di adempiere ad un triplice compito ritenuto irrinunciabile:

 

  • garantire la sicurezza dei suoi confini meridionali, ritenuti da Mosca un’area altamente instabile e foriera di problemi;
  • mantenere un controllo ed una presenza attiva nel bacino del mar Nero al fine di scoraggiare i progetti politici antagonisti sostenuti da altri (Stati e/o Alleanze) e proteggere i propri corridoi energetici esistenti ed in via di progettazione;
  • mantenere una posizione ben salda da cui partire per proiettare la propria potenza nel Mar Mediterraneo e nell’Oceano Indiano, bacini su cui Mosca non nasconde la propria volontà di giocare le proprie carte;

 

Mosca è perfettamente cosciente del fatto che la Flotta del Mar Nero sta diventando sempre più obsoleta (basti dire che è ancora in servizio una nave varata nel lontano 1915) e necessita di investimenti consistenti e mirati. Secondo il parere autorevole di molti esperti di affari militari russi, nei prossimi anni la Flotta dovrebbe ricevere, al fine di sostituire i vascelli più datati, circa 50 navi da guerra di nuova generazione. Se tale ricambio avverrà dipenderà da molti fattori, soprattutto di natura economica.

Quella degli investimenti è quindi una questione strategica centralissima da cui dipenderà la futura credibilità navale russa. Detto ciò, vogliamo comunque ribadire che l’aver mantenuto la base a Sebastopol è un successo strategico indiscutibile che ci mostra come la Russia abbia compreso a fondo il principio secondo cui la geopolitica non ammette vuoti. Nel corso della sua storia Mosca ha più volte toccato con mano tale principio, alcune volte sfruttandolo a proprio favore altre volte subendolo, spesso con conseguenze drammatiche (l’avanzamento della NATO verso l’Europa Orientale durante la fase di debolezza che la Russia ha attraversato negli anni novanta è un esempio che i russi non dimenticheranno tanto facilmente). Nel caso di Sebastopol, la Russia ha capito che se la Flotta russa avesse dovuto lasciare la città nel 2017 la posizione russa nel Mar Nero si sarebbe indebolita a dismisura portando ad un arretramento fino alla costa orientale del bacino. Non solo, dal momento che l’Ucraina non avrebbe avuto le risorse necessarie da investire per subentrare in modo autorevole con la propria marina a quella russa, si sarebbe aperto un vuoto (una vera e propria finestra di opportunità) che altri Stati, o Alleanze, avrebbero riempito tempestivamente al fine di conquistare una posizione che fino a quel momento la presenza russa gli aveva impedito di ottenere.

 

Last but not least, bisogna prendere in considerazione il significato economico della permanenza della Flotta russa a Sebastopol. Anche in questo caso la Russia sembra proprio aver riportato una vittoria. Come il Presidente Medvedev ha ammesso il prezzo pagato per il rinnovo dell’affitto delle strutture portuali a Sebastopol non è poi così alto. La Russia pagherà ogni anno all’Ucraina 1.8 miliardi di dollari, pagamento che, come già accennato, avverrà non in contanti ma sotto forma di gas.

Inoltre bisogna prendere anche in considerazione altri costi che con l’accordo la Russia non è obbligata a sostenere. Infatti, potendo lasciare il grosso della propria Flotta del Mar Nero a Sebastopol la Russia non è obbligata a fare investimenti massicci al fine di sviluppare la base russa a Novorossijsk e a trovare una soluzione abitativa adeguata per l’equipaggio che attualmente vive a Sebastopol. Chiaramente, poter risparmiare in un momento complesso e difficile come quello in cui ci troviamo a vivere è di per se un elemento di cui andare orgogliosi. Non solo, quel denaro risparmiato può essere usato per investimenti più urgenti come il rinnovo della Flotta. Tutto questo, combinato con la valenza strategica della permanenza a Sebastopol di cui abbiamo detto sopra ci fa capire perchè quella russa è una vera e propria vittoria.

Se veniamo poi alla questione dello sconto sul prezzo del gas applicato dalla Russia all’Ucraina capiamo anche in questo ambito che la Russia non ha dovuto compiere rinunce dolorose, anzi. Come detto, la Russia si impegna a ridurre per 10 anni il prezzo del gas russo per una somma pari a 100 dollari ogni 1000 metri cubi o, nel caso in cui il prezzo dell’oro blu dovesse scendere sotto i 330 dollari ogni 1000 metri cubi, uno sconto del 30%. Qualcuno potrebbe vedere in questo sconto un’abdicazione della Russia (e di GAZPROM) al principio più volte ribadito negli ultimi anni di voler innalzare i prezzi di vendita del gas russo agli ex Paesi sovietici al fine di raggiungere i livelli di mercato ed un’ennesima riprova della strumentalità con cui Mosca usa le proprie risorse energetiche. A ben vedere le cose stanno in modo diverso: il gesto compiuto da Mosca, che il Cremlino ha dipinto come un gesto magnanimo seppur costoso volto ad aiutare concretamente un Paese amico ad uscire dalla crisi, in realtà ha avuto un costo relativamente contenuto. Vediamo di capire perchè: la crisi ha ridotto i consumi in Europa e le compagnie europee hanno chiesto e ottenuto di rivedere al ribasso i prezzi concordati al punto che, ad esempio, alla fine di aprile il Regno Unito pagava 183 dollari ogni mille metri cubi di gas e la Germania 210. Di conseguenza lo sconto che la Russia applica all’Ucraina rende comunque la bolletta di Kiev più costosa rispetto a quella degli acquirenti dell’Unione Europea. Quindi Mosca compie un gesto importante, soprattutto per la propria immagine pubblica, che è costato molto meno di quanto in realtà voglia far credere poichè quello che viene definito uno sconto non fa altro che portare il prezzo del gas venduto all’Ucraina vicino ai livelli pagati dai Paesi europei durante questo periodo di flessione dei consumi.

In conclusione, ci sembra che la Russia stia dimostrando di essere un Paese in grado di perseguire i propri obiettivi geopolitici in modo calibrato ed intelligente, cosa che, come presto cercheremo di dimostrare, l’Ucraina sembra incapace di fare.

 

Perchè l’Ucraina perde

 

L’Ucraina è un Paese che si trova ad affrontare una fase decisamente critica della propria esistenza come Stato indipendente. Le difficoltà economiche e la crisi politica in corso ormai da anni si intrecciano senza soluzione di continuità creando una situazione che in certi momenti sembra essere fuori controllo. A farne le spese sono la popolazione, messa all’angolo dalle ristrettezze economiche, e la credibilità del Paese, incapace di proporsi come interlocutore affidabile e soggetto geopolitico attivo che riesce a promuovere i propri interessi nelle relazioni internazionali. Sembra evidente come in questo momento la credibilità del Paese agli occhi di molti Stati sia abbastanza bassa, ed il comportamento defilato dell’Unione Europea e degli USA ne sembrano la riprova.

La nuova amministrazione sta cercando di dare una svolta alla politica interna ed estera del Paese rispetto al vicolo cieco in cui l’avevano condotta il Presidente ed il Primo Ministro precedenti. La volontà di riallacciare i rapporti con la Russia dopo la breve e fallimentare parentesi arancione fa parte di questo progetto. Questo obiettivo ci appare giusto, doveroso e sensato, visto e considerato che la Russia gioca un ruolo importantissimo nelle faccende ucraine (e vice versa). Ciò che invece non ci convince è il modo con cui l’Ucraina si propone e si muove nella politica internazionale. Sebbene sia più che doveroso concedere al nuovo Presidente il beneficio del dubbio, le speranze che egli sappia dare una svolta decisiva al sistema ucraino ci sembrano molto basse. La spiegazione di ciò riposa nel fatto che Janukovič è, in un certo senso, parte del problema (come del resto chi lo ha preceduto) che affligge il Paese e non certo la soluzione. Non dobbiamo mai dimenticare che il potere di Janukovič si basa su una rete di interessi politici, economici e criminali che è totalmente disinteressata delle sorti del Paese e che pensa solo ed esclusivamente al proprio tornaconto personale. Fin dall’indipendenza le istituzioni ucraine sono state così deboli e delegittimate che hanno finito per essere facile preda degli interessi particolari.

Venendo al caso concreto, ci preme ribadire che l’Ucraina detiene una delle reti di distribuzione del gas più sviluppate al mondo e la sua importanza nell’assicurare la sicurezza energetica del Continente europeo è così grande che i progetti russi volti a scavalcare Kiev, cioè il Nord ed il South Stream, non impediranno che il 50% del gas russo continui a transitarvi (attualmente ve ne transita più del 70%). Ora questa vera e propria gallina dalle uova d’oro nelle mani degli ucraini ha un problema: è obsoleta e necessita dunque di investimenti volti a modernizzarla e, perchè no, espanderla. Investimenti che devono anche combinarsi a massicci sforzi volti a rendere il settore economico del Paese meno inefficiente ed affamato di energia. Purtroppo però, ad oggi, non è stato fatto nulla degno di nota ed il gas non è visto come un patrimonio strategico di cui il Paese dovrebbe servirsi al fine di rafforzare la propria posizione geopolitica in un’area del mondo abbastanza problematica bensì continua ad essere trattato come un settore in cui tuffarsi al fine di speculare e guadagnarsi un posto d’onore tra le fila delle elite parassitarie di questo Paese. Ci sembra che l’ultimo accordo stipulato tra Russia ed Ucraina il 21 aprile non faccia altro che confermare quanto appena detto. Vediamo di capire perchè. L’Ucraina si è seduta al tavolo delle trattative al fine di ottenere benefici economici, visto e considerato che la situazione del Paese era ed è tutt’altro che rosea. Poichè la nuova amministrazione non era (e tuttora non è) intenzionata a tagliare la spesa per i servizi sociali (che anzi ha contribuito ad innalzare) ed il Fondo Monetario Internazionale non era pronto a riprendere le discussioni per lo scongelamento dell’ultima tranche di 16,4 miliardi di dollari di un prestito concesso al Paese (la causa del congelamento fu proprio l’innalzamento della spesa sociale proposta dal Partito delle Regioni ed approvata dal parlamento durante il premierato di Julia Timošenko che avrebbe sforato il tetto imposto del 6% al deficit pubblico), l’amministrazione Janukovič individua nella diminuzione del prezzo del gas russo l’unica possibile soluzione a cui il Paese può guardare al fine di risolvere i problemi economici, almeno a breve termine. Dalle trattative tra i due governi scaturisce l’accordo di Kharkiv del 21 aprile.

Ora, ciò che ci porta a dire che l’Ucraina è uscita sconfitta dal tavolo dei negoziati sta nel fatto che riteniamo abbia ottenuto qualcosa, uno sconto sul gas in cambio del prolungamento dell’affitto della base di Sebastopol ai russi, che poteva essere raggiunto senza una concessione così grande ed importante. Come abbiamo già detto nel paragrafo precedente, i Paesi europei hanno rinegoziato il prezzo del gas con la Russia ed alcuni pagano un prezzo anche inferiore rispetto a quello pagato dagli ucraini.

Gli ucraini si sono detti pienamente soddisfatti dicendo di essere riusciti a portare a casa un ottimo accordo che permetterà all’Ucraina di risparmiare 3-4 miliardi di dollari all’anno e che ha permesso l’adozione del bilancio (approvato lo stesso giorno in cui il Parlamento ucraino, in una seduta burrascosa in cui è volato di tutto, dalle uova alle bombe carta, ha ratificato l’accordo con la Russia) che permette di tenere il deficit sotto al 6% e permette quindi di riaprire le discussioni con il FMI.

A ben vedere non c’è molto di cui essere soddisfatti, perchè, a nostro avviso:

  • tenendo conto dei tagli ai prezzi fatti dalla Russia ai Paesi Europei a causa della diminuzione dei consumi non vi è nessuno vero sconto sul prezzo del gas e Kiev avrebbe potuto ottenere la cifra pattuita senza fare una concessione come quella fatta su Sebastopol;
  • non è detto che il FMI sia disposto a pagare l’ultima tranche all’Ucraina visto e considerato che l’accordo, che permette al deficit pubblico di scendere matematicamente sotto la soglia del 6%, non rimuove chiaramente le cause che hanno portato all’esplosione dei conti pubblici ucraine, cause che vanno ricercate nelle mancate riforme che le elite politiche non vogliono intraprendere e nella corruzione dilagante. Si tratterà poi di vedere se sussistono le condizioni politiche per il pagamento dell’ultima tranche e qui molto dipenderà da Washington;
  • Poichè riteniamo che la permanenza della Flotta russa del Mar Nero a Sebastopol sia un elemento di stabilità per l’Ucraina, almeno fino a quando non sarà pronta a subentrare alla Russia in modo autorevole e a rivendicare un ruolo di primo piano per sè nel Mar Nero, riteniamo che l’aver prolungato il contratto ai russi è una scelta saggia, tuttavia, a nostro avviso, non lo sono nè i modi, nè i tempi;

 

Riprendendo il terzo punto al fine di approfondire meglio la questione, riteniamo che l’Ucraina avrebbe dovuto:

 

  • chiedere una contropartita reale, e non accontentarsi di uno sconto fittizio;
  • prendere più tempo, fosse anche pochi mesi in più, per arrivare ad una modifica della Costituzione al fine di prevedere lo stazionamento di truppe straniere sul proprio territorio in modo da evitare logoranti sedute parlamentari in cui governo e opposizione si lanciano accuse reciproche dimenticando i veri problemi del Paese;
  • prolungare il contratto d’affitto per un numero di anni uguale (e non superiore come accade adesso dove i russi offrono uno ‘sconto’ sul gas per dieci anni e gli ucraini concedono la base di Sebastopol per ben venticinque anni) al numero di anni per cui i russi si impegnano a elargire benefici;

  • chiedere precise garanzie nel caso in cui la Russia entri in guerra e la sua base di Sebastopol diventi un bersaglio lecito;

 

Detto ciò vogliamo anche ribadire che l’obiettivo di una politica estera ucraina degna di questo nome non è e non può essere quello di sfidare e contenere la Russia, bensì quello di avere con essa rapporti amichevoli, mutualmente fruttuosi e bilanciati. Se questo non accade significa che manca nel Paese una dirigenza in grado di comprendere quali siano gli interessi del Paese e come promuoverli nell’arena internazionale. Nel caso specifico, l’attuale accordo non farà altro che rafforzare ed arricchire gli oligarchi che sostengono il Presidente e che si erano già arricchiti a discapito della popolazione e degli interessi nazionali. Inoltre, il fatto che si siano levate voci, e non solo dall’opposizione, che per un attimo hanno messo in discussione il trattato appena ratificato, non fa altro che alimentare il sospetto, purtroppo sostenuto da molti fatti, che l’Ucraina sia un Paese incapace di rispettare gli accordi presi. Questo chiaramente intacca la credibilità del Paese.

E’ chiaro che quando un Paese con le idee confuse e una dirigenza inesistente come l’Ucraina si confronta con un Paese come la Russia, dove esiste una guida molto più consapevole di quali obiettivi il Paese deve raggiungere, non può aversi un risultato equilibrato.

 

 

 

 

Conclusione

 

Poichè l’argomento di discussione di questa nostra breve analisi è stata la dimensione geopolitica del nuovo accordo russo-ucraino sulla Flotta e sul gas stipulato in aprile non abbiamo ampliato la nostra discussione alle altre questioni chiave che caratterizzano le relazioni tra i due Paesi; se lo avessimo fatto avremmo comunque rafforzato e non indebolito la tesi centrale della nostra analisi e cioè che dall’accordo tra Russia e Ucraina la seconda esce sconfitta a causa delle proprie debolezze interne e dell’incapacità della dirigenza nazionale, passata e presente, di intraprendere i passi necessari volti a rafforzare la posizione del proprio Paese nell’arena internazionale.

Qualcuno pensa che l’Ucraina dovrebbe rafforzarsi al fine di scrollarsi di dosso il giogo russo, ma questa idea è sbagliata e profondamente pericolosa per la stabilità ucraina visto e considerato che la Russia gioca e continuerà a giocare in ogni caso un ruolo chiave per la politica, l’economia e la sicurezza ucraina. La verità è che Kiev deve rafforzare il proprio sistema interno, cominciando dalle riforme economiche, al fine di poter proiettare e tutelare i propri interessi nell’arena internazionale e di diventare un interlocutore affidabile per tutti, Russia in primis. Nonostante ciò che pensano molti, Mosca non sa che farsene di un Paese debole, in preda ad un’instabilità cronica ed inaffidabile: crediamo al contrario che il Cremlino abbia bisogno di un interlocutore affidabile che sappia avanzare le proprie richieste e difenderle in modo credibile, un Paese che dopo aver sottoscritto un impegno poi lo rispetta fino in fondo. L’incapacità ucraina di essere un interlocutore del genere danneggia tuttti: l’Unione Europea, la Russia e soprattutto la stessa Ucraina che lentamente ed inesorabilmente perde credibilità e la capacità di essere un soggetto geopolitico.

Nessuno dovrebbe sorprendersi dunque se la Russia, con le sue idee (tendenzialmente) chiare ed i suoi obiettivi geopolitici coerenti ottiene delle vittorie geopolitiche a scapito dell’Ucraina, come quella verificatasi in occasione dell’accordo di Kharkiv, una vittoria che è destinata a pesare sugli equilibri regionali per molti decenni a venire.

 

 

jeudi, 06 mai 2010

A. Dugin: "Russia strongly rejects any presence of US Navy in the Black Sea

Aleksandr Dugin – „Russia strongly rejects any presence of US Navy in the Black Sea”

CP: – Mr. Dugin, we daily see demonstrations of the people in all major parts of the world. It’s a democratic way to express their disagreement. In Russia, the radical measures of the authorities but also the inability of the opposition led the right to protest in ridiculous. Population doesn’t believe in this „institution” of citizen. Maybe that’s why Kaliningrad episode was so much fuss. How see you this episode ?

AD: – There are some problemes with the functioning of democracy in Russia, I agree. But I think that there is the very big problem with the democracy as such in the West and in the other part of the world. The mass protest actions couldn’t reach the only real goal – to overthrow the capitalist system based on the expropriation of  the real value of human work. The democracy on the global scale is bogus. It is completeness faked. What we call «democracy» is an Spectacle, with or without special glasses. Namely: in the advanced societies the Spectacle is very impressive as the 3D technology as in Avatar movie. In the more tradition societies, like Russia, with less davanced technologies, the illusions of Spectacle are much poorer. We, Russsians, are living in the first stage of capitalist lie. So our Spectacle of democracy is bad and the cruelty of capitalist exploitation is not masked properly.

The capitalism is something that is not compatible with the real democracy, human right and freedom and social justice. The only difference that I see consists in the fact that modern Russian capitalism is much cruder.

CP: – Remaining at the public perception. In Kaliningrad, the population turned out to be enthusiastic at speech of opposition leaders who rushed to claim disapproval of Putin’s regime (I say Putin and stop because nobody  protests against Medvedev !). What errors underlying opposition to failure as a legitimate political force that must be taken into account ? What should be done to change the things ?

AD: – The problem is that now we haven’t real opposition in Russia. The majority is disinterested in politics and aproves in general features the course and discourse of Putin. Medvedev proves to be nothing at all, so he is not mentioned. The only group that is moving still are the marginals, paid by USA and other NATO countries, without political programm and having the only goal – distabilize the situation and to cause the problems to Putin’s souvereign rule. Sometime they manage get mass support – as in Kaliningrad case – but it is casual and without any effect on the national scale. In the distant zones of Russia the social problems are really very serious and that is the reason of some action of protest. Not associated with opposition politics. But in the USA, we are witness at much more animated mass action that usally lead nowhere. In my view, the Kaliningrad case is overestimated in the West. In Russia nobody knows and doesn’t wants to know either.

CP: Media spoke of a future presidential party. What would be the logic and purpose of setting up a party of President Medvedev ? It spoke at a time of possible fractionation United Russia party. We’ll witness at a migration to a presidential party ?

AD: – There has been some speculation on this subject. But nobody speaks clear of such possibility yet. I doubt that it would be possible. Medvedev is completely zero as the man. Political man, I mean. United Russia is not the real political party either, but it is fully under Putin control. So for create „presidential party”, we need a real President. But that is exactly what we lack.

CP: – What means exactly in your view that “United Russia is not the real political party” ?

AD: I mean the United Russia is an organisation without a clear ideology, without any political ideas, programms or common goals, existing only on the basis of Putin’s personal popularity and the political technology of the power in Kremlin, with zero grade of the autonomy. That is not good nor bad, just the state of affairs corresponding to the concrete historic situation. On that note as such.

CP: – Recently, Russia has changed protective speech on Iran issue. Then returned at more good feelings. And after has tightened speech… What is the real vision ? or Russian criticism just was a momentary attitude in the context of recently ended negotiations on START 2 ? We are talking about a very important treaty with global implications, so it is important each argument.

AD: – Iranian nuclear issue is likely to worry many leaders. But I think that the Russia has no reason at all to support West in its anti-Iranian position and considers Iran to be rather geopolitical ally of Russia. The NATO contrarily is regarded as possible enemi. That explains the ambivalent attitude of Russia in time. Russia had itself arguments that were useful in negotiations on START 2. We look carefully developments in the Iranian problem. But a decision to sign to sanction Iran would be only if there are conclusive evidences. Iran is our friend. It could turn once to becom nuclear friend. So is Israel. Israel is friend of USA and possesses the nuclear weapon. So is Pakistan also. Geopolitical speaking, there should be the symmetry.

CP: – For that spoke about START 2, it said that Russia’s anger (about the location of the missile shield elements in Eastern Europe) was still clamp for use in negotiations. U.S. officials said that last year ago Russia knew where will be new locations shield. And recently, Secretary of State Hillary Clinton said that these two are very different and not conditional on one another. So, Russia feels really threatened or just claim an reason to negotiate ?

AD: – Yes, Russia feels threatened because NATO keeps moving Eastward from the end of 80-s. Any step of NATO in the Eastern direction is a confirmation of the reasonability of our concerns. No one can persuade us that all this are friendly. The real frindly step was made by Gorbachov dissolving the Warsaw Pact. What followed ? The move on NATO to the East. It is unfriendly step and correctly perceived as an agression. All the other similar initiatives should be regarded and analized in this light.

CP: – Analysts argue that non-involvement of Western in elections in Ukraine were a fair trade with Russia on the location of the shield elements in the Black Sea. What do you think about ? Moreover, these two aspects – Ukraine as a buffer and new location of shield elements – something radically change on geopolitical building in this area ?

AD: – The Ukraine is the part of Russian influence. So the West has nothing to do with this. And the Orange Revolution is over. Russia strongly reject any presence of USA NAVI in the Blacksea. We will not tolerate the american vision of Caucases. Or the plan of the Greater Middle East project. I think that the Ukraine will be part of Russian-Eurasian defense system. Or this defensive system not included shield of U.S. I don’t see such cooperation possible. At least, not in this context.

Gabriela Ionita

mardi, 06 avril 2010

South Stream: Russlands Pipeline-Strategie gegenüber der Türkei

»South Stream«: Russlands Pipeline-Strategie gegenüber der Türkei

F. William Engdahl - Ex: http://info.kopp-verlag.de/

Während Moskau inzwischen zahlreiche politische Hindernisse beim Bau der »Nord Stream«-Gaspipeline nach Greifswald in Deutschland überwinden konnte, konzentriert Washington seine geopolitische Strategie auf den Aufbau einer zweiten Front im russisch-amerikanischen »Pipelinekrieg«: eine durch die Türkei verlaufende südosteuropäische Konkurrenz-Pipeline namens »Nabucco«. Der Name ist von der berühmten Verdi-Oper entlehnt, die vom erzwungenen Exil des hebräischen Volkes unter dem babylonischen König Nebukadnezar handelt. Washington setzt sich ganz offen für das Projekt »Nabucco«-Pipeline ein. Moskau dagegen wirbt für das eigene Projekt, die »South Stream«, eine südeurasische Schwesterpipeline zur »Nord Stream« im nördlichen Teil Europas. Für beide Seiten steht enorm viel auf dem Spiel.

South_Stream_map.pngAm 12. Dezember 2009 gab die Regierung von Bulgarien – ehemaliges Mitgliedsland des Warschauer Pakts und heute NATO- und EU-Mitglied – bekannt, man werde sich ungeachtet erheblichen Drucks vonseiten Washingtons an Moskaus South-Stream-Projekt beteiligen.

Im Juni 2007 haben Gazprom und der italienische Energiekonzern ENI eine Absichtserklärung über Planung, Finanzierung, Bau und Betrieb der South Stream unterzeichnet. ENI, der größte italienische Industriekonzern, der in den 1950er-Jahren vom legendären Enrico Mattei gegründet worden ist, befindet sich teilweise in Staatsbesitz und ist seit Anfang der 1970er-Jahre in Gasgeschäften mit Russland tätig.

Der Offshore-Abschnitt der South Stream wird in einer Länge von ca. 550 Kilometern von der russischen zur bulgarischen Küste in einer Tiefe von bis zu zwei Kilometern durch das Schwarze Meer verlaufen; die volle Kapazität der Pipeline wird 63 Milliarden Kubikmeter, also mehr als die der Nord Stream, betragen.

In Bulgarien wird sich die South Stream in zwei Stränge teilen, der nördliche Strang verläuft über Rumänien, Ungarn und die Tschechische Republik nach Österreich, der südliche durch Bulgarien nach Süditalien. Die neue Gaspipeline soll 2013 in Betrieb genommen werden.

Gazprom hat vertraglich zugesichert, Italien bis 2035 mit Gas zu versorgen, South Stream ist dabei die wichtigste Lieferroute. Das Unternehmen South Stream AG, ein Joint Venture zu gleichen Teilen zwischen Gazprom und ENI, ist in der Schweiz eingetragen. Bisher hat Gazprom Transitabkommen für die Pipeline mit Serbien, Griechenland und Ungarn geschlossen. (1) Darüber hinaus hat das Unternehmen im Januar 2008 51 Prozent der Anteile des serbischen staatlichen Energiemonopolisten NIS aufgekauft, um sich die Präsenz in diesem Land zu sichern.

Welchen Druck Washington bezüglich der Beteiligung an der russischen South Stream auf Bulgarien ausübt, wurde daran deutlich, dass Bulgarien sich im Dezember 2009 auch zur Beteiligung an dem Nabucco-Projekt verpflichtet hat. Gegenüber der Presse kommentierte der bulgarische Regierungschef Boyko Borisov die doppelte Unterschrift: »Nabucco bedeutet für die Europäische Union eine Priorität, gleichzeitig kommt die russische South Stream sehr schnell vorankommt; fast täglich beteiligen sich weitere europäische Länder daran.« (2) 

Am 3. März 2010 hat die neue kroatische Regierung von Ministerpräsidentin Jadranka Kosor eine Vereinbarung mit dem russischen Ministerpräsidenten Wladimir Putin unterzeichnet, nach der die Pipeline über kroatisches Gebiet geführt werden darf. Ein neu gegründetes Joint Venture zu gleichen Anteilen wird den Bau ausführen.

Laut Kosor liefert die Vereinbarung »Über Bau und Nutzung einer Gaspipeline auf kroatischem Territorium« den rechtlichen Rahmen für die Beteiligung Kroatiens an South Stream und ermöglicht den beteiligten Parteien die Bildung eines Joint Ventures zu gleichen Teilen. Zwei Tage später schien der Zuspruch zu dem Gazprom-Projekt bereits lawinenartig gewachsen: die bosnische Republika Srpska kündigte an, auch sie werde sich an der South-Stream-Gaspipeline beteiligen. Sie schlägt den Bau einer 480 Kilometer langen Pipeline in Nord-Bosnien vor, die an die South Stream angeschlossen werden soll. Damit ist die Zahl der Länder, die entsprechende Verträge mit Gazprom unterzeichnet haben, auf sieben angewachsen. (3)

Zusätzlich zur bosnischen Republika Srpska sind mittlerweile Bulgarien, Ungarn, Griechenland, Serbien, Kroatien und Slowenien Partner von Gazprom. Das entspricht praktisch derselben Route über den Balkan wie bei der umstrittenen Bagdad-Bahn, die in den britischen Machenschaften, die letztendlich nach der Ermordung des österreich-ungarischen Thronfolgers Erzherzog Franz Ferdinand zum Ersten Weltkrieg führten, eine äußerst wichtige Rolle spielte. (4)

Die zentrale Frage der beiden konkurrierenden Pipelineprojekte South Stream und Nabucco ist nicht, wer das transportierte Gas kaufen wird. Wie bereits erwähnt, geht man allgemein davon aus, dass die Nachfrage nach Erdgas in Europa in den kommenden Jahren dramatisch steigen wird. Wichtiger ist die Frage, woher das Gas stammen wird, das die Pipeline füllt. Hier hat Moskau jetzt offensichtlich alle Trümpfe in der Hand.

Zusätzlich zu dem Gas, das direkt von den russischen Gasfeldern stammt, wird ein erheblicher Teil des durch die South Stream transportierten Gases aus Turkmenistan und Aserbaidschan kommen, ein weiterer Teil möglicherweise aus dem Iran. Im Dezember 2009 reiste der russische Präsident Dmitri Medwedew zur Unterzeichnung umfangreicher Vereinbarungen über eine Kooperation im Bereich Energie nach Turkmenistan.

Bis zum Zerfall der Sowjetunion im Jahr 1991 zählte Turkmenistan als Turkmenische Sozialistische Sowjetrepublik oder TuSSR zu den Teilrepubliken der Sowjetunion. Das Land grenzt im Südosten an Afghanistan, im Süden und Südwesten an den Iran, im Osten und Nordosten an Usbekistan, im Norden und Nordwesten an Kasachstan und im Westen an das Kaspische Meer. Bisher war die russische Gazprom der dominierende Wirtschaftspartner des Landes, in dem erst kürzlich neue Gasvorkommen bestätigt worden sind. Das Gas aus Turkmenistan ist für die Lieferkette von Gazprom sehr bedeutsam, und das bereits seit der Zeit, als Turkmenistan noch zur Sowjetunion gehörte und Teil der sowjetischen Wirtschaftsinfrastruktur war.

Als der »auf Lebenszeit gewählte Präsident« Saparmyat Nyasov, der auch als »Türkmenbaşy« oder »Führer der Turkmenen« bekannt war, im Dezember 2006 unerwartet verstarb, weckte dies in Washington die Hoffnung, den neuen Präsidenten Gurbanguly Berdimuhamedow von Russland lösen und unter amerikanischen Einfluss bringen zu können. Bislang allerdings ohne großen Erfolg.

Das Abkommen zwischen Medwedew und Berdimuhamedow vom Dezember umfasste neue Vereinbarungen über langfristige Lieferung von turkmenischem Gas an Gazprom, mit dem entweder die South-Stream-Pipeline direkt gefüllt werden oder die entsprechende Menge russischen Gases ersetzt werden soll – was bedeutet: Nabucco zieht den kürzeren.

 

Nabucco auf dem Trockenen …

Mit ihrer aktiven Pipeline-Diplomatie der vergangenen Monate setzen Russland und die Gazprom dem Nabucco-Projekt, der von Washington favorisierten Alternative, schwer zu. Mit der geplanten Nabucco-Pipeline soll die Region um das Kaspische Meer und der Nahe Osten über die Türkei, Bulgarien, Rumänien, Ungarn mit Österreich verbunden werden, und von dort aus sollen die Gasmärkte in Zentral- und Westeuropa beliefert werden. Bei einer Länge von ca. 3300 Kilometern würde sie von der georgisch-türkischen und/oder iranisch-türkischen Grenze nach Baumgarten in Österreich führen. Sie soll parallel zu der bereits bestehenden, von den USA unterstützten Ölpipeline Baku-Tiflis-Erzurum verlaufen und jährlich 20 Milliarden Kubikmeter Gas transportieren. Zwei Drittel der geplanten Pipeline würden über türkisches Gebiet verlaufen.

Nach seinem zweitägigen Ankara-Besuch im April 2009 sah es zunächst so aus, als habe US-Präsident Obama einen Sieg für Nabucco errungen, denn der türkische Ministerpräsident Erdogan willigte ein, das Projekt nach mehrjähriger Verzögerung im Juli 2009 mit seiner Unterschrift abzusegnen. Nabucco ist Teil der amerikanischen Strategie, die vollständige Kontrolle über die Energieversorgung nicht nur der EU-Länder, sondern ganz Eurasiens zu übernehmen. Die Pipeline wurde explizit so geplant, dass sie nicht über russisches Territorium führt; die Kooperation zwischen Russland und Westeuropa im Bereich Energie soll dadurch geschwächt werden. Diese bisherige Kooperation war ihrerseits ein maßgeblicher Beweggrund für die deutsche und französische Regierung, dem Druck aus Washington für die Aufnahme Georgiens und der Ukraine in die NATO nicht nachzugeben.

Heute steht die Zukunft von Nabucco in den Sternen, denn die russische Gazprom hat sich langfristige Verträge mit praktisch allen potenziellen Gaslieferanten für Nabucco gesichert. Nabucco sitzt also auf dem Trockenen. Deshalb werden jetzt Aserbaidschan, Usbekistan, Turkmenistan, Iran und Irak als potenzielle Lieferanten für Nabucco umworben.

Bisher war Aserbaidschan als Hauptgaslieferant für Nabucco vorgesehen. Die großen aserbaidschanischen Ölvorkommen hat sich ein anglo-amerikanisches Konsortium unter Führung der BP bereits gesichert, das unabhängig von Moskau Öl aus Baku am Kaspischen Meer nach Westen transportiert. Die Ölpipeline Baku-Tiflis-Ceyhan war ein wichtiges Motiv für Washington, 2004 die »Rosen-Revolution« in Georgien zu unterstützen, die den Diktator Micheil Saakaschwili an die Macht brachte.

Im Juli 2009 reisten Russlands Präsident Medwedew und Gazprom-Chef Alexei Miller gemeinsam nach Baku und unterzeichneten dort einen langfristigen Vertrag über den Kauf der gesamten Erdgasproduktion auf dem dortigen Offshore-Gasfeld Shah Denzi II, auf das auch die Planer von Nabucco spekuliert hatten. Aserbaidschans Präsident Alijew spielt anscheinend ein Katz-und-Maus-Spiel mit Russland auf der einen und mit der EU und Washington auf der anderen Seite. In der Hoffnung, dabei den höchstmöglichen Preis herauszuschlagen, versucht er, beide gegeneinander auszuspielen. Gazprom hat eingewilligt, den ungewöhnlich hohen Preis von 350 Dollar für 1.000 Kubikmeter Shah-Deniz-Gas zu bezahlen – eine offensichtlich politisch, nicht wirtschaftlich motivierte Entscheidung der Regierung in Moskau, die die Mehrheitsbeteiligung an Gazprom hält. (5) Anfang Januar 2010 gab die Regierung von Aserbaischan auch den Verkauf von einem Teil ihres Gases an den benachbarten Iran bekannt, ein weiterer Rückschlag für die Belieferung für Nabucco. (6)

Selbst wenn Aserbaidschan einwilligen sollte, Gas zu verkaufen und selbst wenn Nabucco dieses zu vergleichbaren Bedingungen wie Gazprom kaufen würde, so reichte das aserbaidschanische Gas alleine nach Auskunft von Branchenkennern nicht aus, die Pipeline zu füllen. Woher könnte das verbleibende Volumen kommen? Eine Möglichkeit wäre der Irak, die andere der Iran. Doch beides würde Washington, vorsichtig formuliert, gewaltige geopolitische Probleme bereiten.

Zurzeit ist nicht einmal ein Minimal-Abkommen zwischen der Türkei und Aserbaidschan über die Lieferung von aserbaidschanischem Öl in Sicht. Trotz der 2009 mit großer Fanfare bekannt gegebenen Entscheidung der türkischen Regierung, dem Nabucco-Projekt beizutreten, befinden sich die Gespräche zwischen der türkischen und aserbaidschanischen Regierung in der Sackgasse. Trotz wiederholter Interventionen vonseiten des amerikanischen Sondergesandten für eurasische Energiefragen, Richard Morningstar, ein Abkommen zustande zu bringen, sind die Gespräche derzeit noch immer blockiert. Washingtons Nabucco-Träume wurden zusätzlich getrübt, als die österreichische OMV, ein weiterer wichtiger Nabucco-Partner, Ende Januar gegenüber der Nachrichtenagentur Dow Jones erklärte, Nabucco werde nicht gebaut, wenn es keine ausreichende Nachfrage gebe. (7)

Auch andere in Washington ins Spiel gebrachte Optionen wären problematisch. Um beispielsweise irakisches Gas in die Nabucco-Pipeline einzuspeisen, müsste dieses auf irakischer und türkischer Seite über kurdisches Gebiet transportiert werden, was der jeweiligen kurdischen Minderheit eine willkommene neue Einkommensquelle bescheren würde – und das kommt in Istanbul gar nicht gut an. Den Iran hat Washington gegenwärtig als Gaslieferanten wegen der Spannungen über das iranische Atomprogramm nicht auf der Rechnung; wichtiger ist allerdings noch der enorme iranische Einfluss auf die Zukunft des Irak mit seiner mehrheitlich schiitischen Bevölkerung.

Usbekistan und Turkmenistan verfügen zwar beide über erhebliche Erdgasvorkommen, kommen jedoch politisch und geografisch schwerlich als Gaslieferanten für ein im Kern anti-russisches Projekt infrage. Ihre entfernte Lage bedeutet darüber hinaus enorme Kosten, denn dieses Gas wäre erheblich teurer als das vom Konkurrenten Gazprom über die South-Stream-Pipeline transportierte.

In klassischer Manier byzantinischer Diplomatie hat der türkische Ministerpräsident Recep Tayyip Erdogan sowohl Russland als auch den Iran eingeladen, sich an dem Nabucco-Projekt zu beteiligen. Laut RIA Novosti erklärte Erdogan: »Wir möchten, dass sich der Iran an dem Projekt beteiligt, wenn es die Bedingungen erlauben, und hoffen ebenfalls auf die Beteiligung Russlands.« Während Putins Besuch in Ankara im August 2009, also nur wenige Wochen nach der formellen Unterzeichnung des Nabucco-Vertrags mit den USA, gewährte die Türkei dem staatlichen russischen Erdgasmonopolisten Gazprom die Nutzung der territorialen Gewässer im Schwarzen Meer. Russland will die South-Stream-Pipeline nach West- und Südeuropa durch das Schwarze Meer führen. Im Gegenzug sagte Gazprom den Bau einer Pipeline vom Schwarzen Meer zum Mittelmeer über türkisches Gebiet zu. (8)

Anfang Januar 2010 bestärkte die türkische Regierung während eines zweitägigen Moskau-Besuchs von Ministerpräsident Erdogan, bei dem über Energie und die Süd-Kaukasus-Region gesprochen wurde, die entstehenden Bindungen an Russland. Washingtons Radio Liberty spricht von einer »neuen strategischen Allianz« zwischen den früheren erbitterten Gegnern im Kalten Krieg. Die Türkei ist schließlich auch Mitglied der NATO. (9)

Diese Entwicklung ist keine vorübergehende Modeerscheinung. In den Medien beider Länder ist von einer russisch-türkischen »strategischen Partnerschaft« die Rede. (10) Heute bildet die Türkei den größten Markt für den Export von russischem Öl und Gas. Beide Länder beraten auch über russische Pläne für den Bau des ersten Kernkraftwerks in der Türkei zur Deckung des dortigen Energiebedarfs. Der Handel zwischen beiden Ländern erreichte im vergangenen Jahr ein Volumen von 38 Milliarden Dollar; damit war Russland der größte Handelspartner der Türkei. Für die nächsten fünf Jahre wird eine Steigerung um etwa 300 Prozent erwartet, dementsprechend bildet sich in der Türkei eine solide und wachsende pro-russische Handelslobby. Die beiden Länder verhandeln derzeit konkret über weitere Handelsabkommen in Höhe von ca. 30 Milliarden Dollar, einschließlich des geplanten Kernkraftwerks in der Türkei sowie der Gaspipelines South Stream und Blue Stream zwischen Russland und der Türkei sowie einer Ölpipeline Samsun–Ceyhan von Russland an die türkische Mittelmeerküste. (11)

Doch den Nabucco-Befürwortern, besonders denen in Washington, droht noch manch anderer politische Sprengsatz: So verabschiedete das türkische Parlament zwar am 4. März 2010 ein Gesetz zum Bau der Nabucco-Pipeline, doch am selben Tag stimmte der Auswärtige Ausschuss des US-Repräsentantenhauses für eine nicht-bindende Resolution, in der die Morde an den Armeniern in der Zeit des Ersten Weltkriegs als Völkermord bezeichnet werden.

Sofort nach diesem Votum wurde der türkische Botschafter aus Washington zurückgerufen. Immerhin kann genau dieses Votum zu einer engeren Zusammenarbeit zwischen Moskau und Ankara in Fragen von beiderseitigem Interesse führen, South Stream eingeschlossen.

Die Europäische Union hat gerade ein drei Milliarden Dollar schweres Konjunkturpaket bewilligt, das auch 273 Millionen Dollar für Nabucco beinhaltet. Angesichts erwarteter Gesamtkosten von elf Milliarden Dollar bedeutet dieser Betrag nicht gerade eine überwältigende Unterstützung für Nabucco. Außerdem liegt das Geld bis zum endgültigen Start von Nabucco auf Eis, was darauf hindeutet, dass die EU-Länder weit weniger darauf erpicht sind als Washington, bei der riskanten Gegenstrategie Nabucco zu Moskaus South Stream mitzumachen. Die EU hat erklärt, das Geld werde für andere Zwecke verwendet, falls es zwischen den Nabucco-Befürwortern und Turkmenistan nicht innerhalb von sechs Monaten zu einer Einigung über die Gaslieferung käme.

Das zeitliche Zusammentreffen der Neutralisierung eines NATO-Beitritts der Ukraine mit dem Beginn des Baus der strategisch wichtigen Nord-Stream-Pipeline von Russland nach Deutschland sowie Russlands Pläne für die South-Stream-Gaspipeline hat die Nabucco-Pipeline, Washingtons Gegenmaßnahme, praktisch wertlos gemacht. Durch diese Entwicklungen ist gewährleistet, dass Russland wichtigster Energielieferant für Europa bleibt. In den vergangenen Jahren ist der Anteil russischer Energielieferungen nach Europa auf fast 30 Prozent aller Energieimporte gestiegen, beim Erdgas ist Russland sogar der wichtigste Lieferant. (12) Das Ganze hat weitreichende strategische und geopolitische Bedeutung, was Washington sicher nicht entgangen sein dürfte.

 

 

__________

(1) Gazprom, »Major Projects: South Stream«, unter http://old.gazprom.ru/eng/articles/article27150.shtml

(2) Trend, »Bulgaria ready to participate in both South Stream and Nabucco«, Baku, Aserbaidschan, 5. Dezember 2009, unter http://en.trend.az

(3) Olja Stanic, »Bosnian Serbs to join Russia-led gas pipeline«, Reuters, 5. März  2005, Banja Luka, Bosnien, unter http://in.reuters.com/article/oilRpt/idINLDE6241B920100305

(4) Mehr über diese faszinierende und fast vergessene Geschichte der deutsch-britischen imperialen Rivalität in Bezug auf die Bagdad-Bahn im Vorfeld des Ersten Weltkriegs siehe: F. William Engdahl, Mit der Ölwaffe zur Weltmacht – Der Weg zur neuen Weltordnung,  Kopp Verlag, Rottenburg, 3. Auflage 2008, S. 42ff. (Englische Originalausgabe: A Century of War: Anglo-American Oil Politics and the New World Order, Pluto Press, London 2004, pp. 22–28)

(5) Mahir Zeynalov, »Azerbaijan-Gazprom agreement puts Nabucco in jeopardy, Today’s Zaman« 16. Juli 2009, unter http://www.todayszaman.com/tz-web/sabit.do?sf=aboutus

(6) Saban Kardas, »Delays in Turkish-Azeri Gas Deal Raises Uncertainty Over Nabucco«, Eurasia Daily Monitor, Jhrg. 7, Heft 39, 26. Februar 2010

(7) Ebenda

(8) Rian Whitmore, »Moscow Visit by Turkish PM Underscores New Strategic Alliance«, Radio Liberty/Radio Free Europe, 13. Januar 2010, unter http://www.rferl.org/content/Moscow_Visit_By_Turkish_PM_Underscores_New_Strategic_Alliance/1927504.html

(9) Ebenda

(10) Faruk Akkan, »Turkey and Russia move closer to building strategic partnership«, RIA Novosti, 15. Januar 2010, unter http://en.rian.ru/valdai_foreign_media/20100115/157554880.html

(11) RIA Novosti, »Russian delegation to discuss Turkey nuclear power plant plan«, Ankara, 18. Februar 2010, unter http://en.rian.ru/world/20100218/157927131.html

(12) Kommersant, »Nabucco's future depends on Turkmenistan«, Moscow, 9. März 2010, unter http://en.rian.ru/papers/20100309/158135872.html

 

Mittwoch, 31.03.2010

Kategorie: Allgemeines, Geostrategie, Wirtschaft & Finanzen, Politik

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mercredi, 31 mars 2010

Die geopolitische Bedeutung der Ukraine heute

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Die geopolitische Bedeutung der Ukraine heute

F. William Engdahl

Ex: http://info.kopp-verlag.de/

Am 14. Februar 2010 hatte die Wahlkommission der Ukraine Viktor Janukowytsch in der heiß umkämpften Stichwahl für das Amt des Staatspräsidenten zum Sieger erklärt. Seine unterlegene Gegnerin ist Julija Tymoschenko, die ehemalige Premierministerin und Galionsfigur der Orangenen Revolution. So sehr sich Washington jetzt auch bemüht, den Ereignissen etwas Positives abzugewinnen, sie bedeuten definitiv das Ende der einst umjubelten »Orangenen Revolution«. – Nun fragt sich, was dieses Scheitern der Orangenen Revolution in der Ukraine zum jetzigen Zeitpunkt für die Zukunft des Eurasischen Herzlandes – so bezeichnete der britische Geopolitiker Halford Mackinder einst diese Region – bedeutet. Noch wichtiger ist die Frage, was es für das Pentagon bedeutet, das seit 20 Jahren unentwegt versucht, gemäß dem gefährlichen und überehrgeizigen Plan der sogenanntenFull Spectrum Dominance Russland als Militärmacht zu schwächen, letztendlich sogar auszuschalten.

Um die langfristige Bedeutung der Wahl in der Ukraine für die globale geopolitische Balance zu verstehen, sollten wir die Orangene Revolution von 2004 noch einmal Revue passieren lassen. Damals war Viktor Juschtschenko der handverlesene Kandidat Washingtons, insbesondere der Neokonservativen im Umfeld der Bush-Regierung, die bemüht waren, die historischen und wirtschaftlichen Verbindungen der Ukraine zu Russland zu kappen und das Land gemeinsam mit dem Nachbarland Georgien in die NATO aufzunehmen.

 

Die wirtschaftliche und politische Geografie der Ukraine

Ein Blick auf die Landkarte zeigt die strategische Wichtigkeit der Ukraine, und zwar sowohl für die NATO als auch für Russland. Im Osten grenzt das Land direkt an Russland, außerdem verlaufen russische Gaspipelines nach Westeuropa über ukrainisches Gebiet. Über diese Pipelines werden rund 80 Prozent des exportierten russischen Gases transportiert, die Russland lebenswichtige Einnahmen – in Dollar – bringen.

Um eine wirksame Verteidigung gegen die wachsende Einkreisung des russischen Territoriums durch die NATO aufrechterhalten zu können, ist Russland ebenso dringend auf die Nutzungsrechte für den ukrainischen Schwarzmeerhafen Sevastopol angewiesen, den Heimathafen der russischen Schwarzmeerflotte. Gemäß einem russisch-ukrainischen Abkommen nutzt die Flotte außerdem noch den Hafen Odessa. Dieser wichtige bilaterale Vertrag über die Nutzungsrechte der Schwarzmeerflotte läuft, sofern er nicht verlängert wird, 2017 aus. Nach dem russisch-georgischen Konflikt im August 2008 hatte der ukrainische Präsident Juschtschenko laut über eine vorzeitige Beendigung des Vertrages nachgedacht, was Moskau seiner strategisch wichtigsten Marinebasis beraubt hätte. Die russische Marine nutzt Sevastopol, seit Russland 1783 die gesamte Region annektiert hat.

In der an Russland grenzenden Ost-Ukraine leben über 15 Millionen Russen, dieses Gebiet ist dank seiner äußerst fruchtbaren Böden noch immer buchstäblich der Brotkorb für Osteuropa. 2009 war die Ukraine nach den USA und der EU noch vor Russland und Kanada der drittgrößte Getreideexporteur der Welt. (1) Die berühmte schwarze Erde der Ukraine, Chernozem, gilt als fruchtbarster Boden der Welt, man findet sie auf zwei Dritteln der Fläche des Landes. (2) Die Region in der Umgebung der Flüsse Dnjepr und Dnjestr ist das einzige Gebiet auf der Welt, in dem die sogenannte »süße« schwarze Erde eine Breite von 500 Kilometern erreicht. Der Boden gehört zu den größten Reichtümern des Landes, weil er sehr gute Ernten garantiert. Westliche Agrobusiness-Unternehmen wie Monsanto, Cargill, AMD und Kraft Foods lecken sich angeblich angesichts der Aussichten auf ein Ende der internen politischen Pattsituation in der Ukraine in der Hoffnung auf satte Gewinne aus dieser Region bereits die Finger. (3)

Das Gebiet Donetzk im östlichen Donezbecken oder Donbass ist die politische Basis des neu gewählten Präsidenten Janukowytsch. Es ist die bevölkerungsreichste Region der Ukraine und das Zentrum der Kohle-, Stahl- und Metallindustrie, ferner gibt es Wissenschaftszentren und Universitäten. Die Kohle-, Gas- und Ölvorkommen im ukrainischen Donbass-Becken werden auf 109 Milliarden Tonnen geschätzt.

Insgesamt zählt die Ukraine zu den Gebieten mit den reichsten Rohstoffvorkommen in ganz Europa. Die großen Granit-, Graphit- und Salzvorkommen bilden eine reiche Quelle für die Metall-, Porzellan- und chemische Industrie, die Keramikwaren und Baumaterialien herstellen. (4)

Kurz: die Eroberung der Ukraine im Jahr 2004 bedeutete für Washington einen Gewinn von höchster strategischer Bedeutung auf dem Weg zur »Full Spectrum Dominance« – so die Bezeichnung des Pentagon für die Kontrolle über den gesamten Planeten: Boden, Luftraum, Ozeane und Weltraum. Schon 1919 schrieb der britische Vater der Geopolitik in seinem einflussreichen Buch Democratic Ideals and Reality (zu Deutsch: Demokratische Ideale und Wirklichkeit):

Wer Osteuropa regiert, der beherrscht das Herzland – Wer das Herzland regiert, der beherrscht die Weltinsel – Wer die Weltinsel regiert, der beherrscht die ganze Welt. (5)

Mackinder rechnete die Ukraine und Russland zum Herzland. Als Washington mit dem de facto von den USA organisierten Putsch namens Orangene Revolution die Ukraine von Russland absprengte, kam man damit dem Ziel der vollständigen Beherrschung nicht nur Russlands und des Herzlands, sondern ganz Eurasiens, einschließlich eines dadurch eingekreisten China, einen gewaltigen Schritt näher. Kein Wunder, dass die Regierung Bush-Cheney so viel Energie darauf verwendete, ihren Mann, Juschtschenko, als Präsident und De-facto-Diktator an die Macht zu bringen. Er sollte die Ukraine in die NATO führen. Was er für seine Landsleute tat, das bekümmerte die Planer von Bushs Politik herzlich wenig.

Hätte der ebenfalls handverlesene Präsident von Georgien, der per Rosen-Revolution ins Amt gekommene Michail Saakaschwili, im August 2008, also wenige Wochen vor der Abstimmung der NATO-Minister über eine Mitgliedschaft Georgiens und der Ukraine, nicht Truppen losgeschickt, um die abtrünnigen Regionen Süd-Ossetien und Abchasien Georgien wieder einzukassieren, dann hätte Juschtschenko mit den entsprechenden Plänen vielleicht sogar Erfolg gehabt. Nach der schnellen militärischen Antwort Russlands, durch die der georgische Vorstoß gestoppt und Saakaschwilis zusammengewürfelten Truppen eine vernichtende Niederlage beigebracht wurde, bestand auch keine Aussicht mehr, dass Deutschland oder andere Mitgliedsländer einer NATO-Mitgliedschaft zustimmen und sich damit dazu verpflichten würden, Georgien oder der Ukraine in einem Krieg gegen Russland beizustehen. (6)

 

Die Bedeutung der Orangenen Revolution

Die »Revolution«, die Viktor Juschtschenko auf einer Welle von amerikanischen Dollars und mit Unterstützung amerikafreundlicher »Nicht-Regierungs-Organisationen« (NGOs) ins Amt gebracht hat, war ursprünglich bei der von Washington finanzierten RAND Corporation ausgeheckt worden. RAND hat die Bewegungsmuster von Bienenschwärmen und ähnliche Phänomene studiert und die Ergebnisse auf moderne mobile Kommunikation, Textübertragung und zivile Proteste als Taktik für Regimewechsel und verdeckte Kriegsführung angewendet. (7)

Die Transformation der Ukraine von einer früheren unabhängigen Sowjetrepublik zu einem pro-amerikanischen Satellitenstaat gelang im Jahr 2004 mithilfe der sogenannten »Orangenen Revolution«. Die Aufsicht führte damals John Herbst, der im Mai 2003 zum amerikanischen Botschafter in der Ukraine ernannt worden war, nur wenige Monate vor Beginn der Unruhen. Beschönigend beschrieb das US State Department die Aktivitäten des Botschafters:

»Während seiner Amtszeit war er bemüht, die amerikanisch-ukrainischen Beziehungen zu verbessern und zum fairen Ablauf der Präsidentschaftswahl in der Ukraine beizutragen. In Kiew war er Zeuge der Orangenen Revolution. Botschafter John Herbst hatte zuvor als US-Botschafter in Usbekistan eine entscheidende Rolle dabei gespielt, einen amerikanischen Stützpunkt aufzubauen, mit dessen Hilfe die Operation Enduring Freedom in Afghanistan durchgeführt werden konnte.« (8)

Washington entschied sich dann für Viktor Juschtschenko als den richtigen Mann für den inszentierten Regimewechsel. Der damals 50-Jährige war zuvor Gouverneur der Zentralbank der Ukraine gewesen und hatte in dieser Position in den 1990er-Jahren im Rahmen der brutalen »Schocktherapie« des IWF die Deindustrialisierung des Landes betrieben. Juschtschenkos IWF-Programm hatte für seine Landsleute verheerende Folgen. Die Ukraine wurde 1994 gezwungen, die Devisenkontrollen aufzuheben und die Währung abstürzen zu lassen. Als Zentralbankchef führte Juschtschenko die Aufsicht über die geforderten Abwertungsmaßnahmen, die innerhalb weniger Tage zu einem Anstieg der Preise für Brot um 300 Prozent, für Strom um 600 Prozent und beim öffentlichen Transport um 900 Prozent führte. Bis 1998 waren die Reallöhne in der Ukraine im Vergleich zu 1991, als die Ukraine ihre Unabhängigkeit erklärte, um 75 Prozent gesunken. Ohne Zweifel war Juschtschenko der richtige Mann, um Washingtons Pläne in der Ukraine umzusetzen. (9)

Juschtschenkos in Chicago geborene Frau Kateryna, eine amerikanische Staatsbürgerin, hatte während der Regierungszeit von Reagan und H.W. Bush für die US-Regierung und das State Department gearbeitet. Sie war als Vertreterin der US-Ukraine Foundation in die Ukraine gekommen. Im Vorstand dieser Stiftung saß Grover Norquist, der zu den einflussreichsten Republikanern in Washington zählte. Norquist wurde damals allgemein »Geschäftsführer des rechten harten Kerns« genannt, er war der entscheidende Mann, der rechtsgerichtete Organisationen für die Unterstützung der Präsidentschaft George W. Bush gewann. (10)

Kernpunkt von Juschtschenkos geschickter Präsidentschaftskampagne war sein Eintreten für den Beitritt der Ukraine zur NATO und zur Europäischen Union. Bei seiner Kampagne kamen massenweise orangefarbene Fahnen, Banner, Poster, Ballons und andere Requisiten zum Einsatz, was unweigerlich zur Folge hatte, dass die Medien fortan von einer »Orangenen Revolution« sprachen. Washington finanzierte »demokratische« Jugendgruppen, die eine wichtige Rolle bei der Organisation gewaltiger Massendemonstrationen spielten. Diese Demonstrationen trugen wesentlich zu Juschtschenkos Erfolg bei der Wiederholung der angefochtenen Wahl bei.

In der Ukraine trat Juschtschenkos Bewegung mit dem Motto »Pora« (»Es ist Zeit«) an. Dabei mischten Leute mit, die aus der »Rosen-Revolution« in Georgien bekannt waren, wie beispielsweise Givi Targamadse, Vorsitzender des georgischen Parlamentsausschusses für Sicherheit und Verteidigung, ein ehemaliges Mitglied des georgischen Liberty Institute oder die Jugendgruppe Kmara. Die ukrainischen Oppositionsführer zogen die Georgier über Techniken der gewaltlosen Auseinandersetzung zu Rate. Die georgischen Rockbands Zumba, Soft Eject und Green Room, die die Rosen-Revolution unterstützt hatten, organisierten 2004 ein Solidaritätskonzert in Kiew zur Unterstützung von Juschtschenkos Kampagne. (11)

Auch die PR-Firma Rock Creek Creative aus Washington spielte eine bedeutende Rolle bei der Orangenen Revolution, sie entwickelte eine Website mit dem orangefarbenen Logo und zum sorgfältig gewählten Farbenthema. (12)

Juschtschenko unterlag 2004 bei der Wahl zunächst gegen Janukoytsch. Verschiedene Elemente trugen zu dem Eindruck bei, die Ergebnisse seien gefälscht, die Öffentlichkeit verlangte daraufhin die Wiederholung der Stichwahl. Mit der Hilfe von Pora und anderen Jugendgruppen sowie speziellen Wahlbeobachtern und in enger Koordination mit wichtigen westlichen Medien wie CNN und BBC wurde die Wahl im Januar 2005 wiederholt. Juschtschenko gewann mit knapper Mehrheit und erklärte sich zum Präsidenten. Dem Vernehmen nach hat das US State Department etwa 20 Millionen Dollar ausgegeben, um in der Ukraine ein Amerika genehmes Wahlergebnis zu gewährleisten. (13)

Dieselben von den USA unterstützten NGOs, die in Georgien aktiv gewesen waren, waren auch für das Ergebnis in der Ukraine verantwortlich: das Open Society Institute von George Soros, Freedom House (dem damals der ehemalige CIA-Direktor James Woolsey vorstand), das National Endowment for Democracy und seine Ableger, das National Republican Institute und das National Democratic Institute. Berichten aus der Ukraine zufolge waren die amerikanischen NGOs gemeinsam mit der konservativen US-Ukraine Foundation im ganzen Land aktiv, sie halfen der Protestbewegung von Pora und Znayu und schulten wichtige Wahlbeobachter. (14)

Präsident Viktor Juschtschenko, Washingtons Mann in Kiew, machte sich sofort daran, die wirtschaftlichen Verbindungen mit Russland zu kappen, unter anderem wurde die Lieferung von russischem Erdgas nach Westeuropa über ukrainische Transit-Pipelines unterbrochen. Mit diesem Schritt versuchte Washington, die EU-Länder, besonders Deutschland, davon zu überzeugen, Russland wäre ein »unzuverlässiger Partner«. Etwa 80 Prozent des russischen Erdgases wurde über Pipelines exportiert, die in der Ära der Sowjetunion gebaut worden waren, als die beiden Länder noch eine politische und wirtschaftliche Einheit bildeten. (15) Juschtschenko arbeitete auch eng Präsident Michail Saakaschwili zusammen, Washingtons Mann im Nachbarland Georgien.

Das Endergebnis der Wahl in der Ukraine Anfang 2010 zeigt, dass die Wähler Juschtschenko, den »Helden« der Orangenen Revolution, mit überwältigender Mehrheit ablehnen: er erhielt kaum fünf Prozent der abgegebenen Stimmen. Nach fünf Jahren des wirtschaftlichen und politischen Chaos wünschen sich die Menschen in der Ukraine offensichtlich zumindest etwas Stabilität. Meinungsumfragen in der Ukraine haben ergeben, dass die Mehrheit den Beitritt zur NATO ablehnt.

In westlichen Medien wird der neue ukrainische Präsident Viktor Janukowytsch als eine Art Marionette Moskaus dargestellt, doch das scheint völlig falsch. Die meisten seiner Unterstützer aus der Industrie wünschen sich harmonische Wirtschaftsbeziehungen mit der Europäischen Union und mit Russland gleichermaßen.

Janukowytsch hat bekannt gegeben, dass ihn seine erste Auslandsreise nicht nach Moskau, sondern zu Gesprächen mit führenden Vertretern der EU nach Brüssel führen wird. Danach wird er sofort nach Moskau fliegen, wo Präsident Medwedew bereits jetzt eine verbesserte Zusammenarbeit signalisiert hat, als er Russlands Botschafter in die Ukraine entsandte, dessen Ernennung nach Monaten politischer Spannungen zwischen Juschtschenko und Moskau zunächst auf Eis gelegt worden war.

Das Wichtigste ist jedoch, dass Janukowytsch entgegen den unablässigen Versuchen seines Vorgängers, die Ukraine auf Drängen Washingtons in die NATO zu bringen, angekündigt hat, er werde sich in Brüssel nicht mit NATO-Vertretern treffen. In Interviews mit ukrainischen Medien erklärte Janukowytsch unmissverständlich, er beabsichtige nicht, die Ukraine in die EU oder – was für Moskau noch wichtiger ist – in die NATO zu führen.

Janukowytsch hat versprochen, seine Aufmerksamkeit stattdessen auf die Wirtschaftskrise und die Korruption in der Ukraine zu konzentrieren. An die Adresse Moskaus gerichtet versichert er, Russland sei in einem Konsortium willkommen, das gemeinsam für die Betreuung des Gaspipeline-Netzes in der Ukraine zuständig sein soll. Damit erhält Moskau den Einfluss zurück, den Juschtschenko und dessen ehrgeizige Premierministerin Julija Tymoschenko unterbinden wollten. Ein anderes wichtiges Signal, das in NATO-Kreisen nicht gerade für Begeisterung sorgt, ist Janukowytschs Ankündigung, er werde den für Russland strategisch wichtigen Nutzungsvertrag für den ukrainischen Schwarzmeerhafen Sevastopol verlängern, der 2017 ausläuft. (16)

 

Russlands neues geopolitisches Kalkül

Es ist offensichtlich, dass sich Janukowytschs erbitterte Gegnerin im Wahlkampf, die Veteranin der Orangenen Revolution und ehemalige Premierministerin Julija Tymoschenko, nachdrücklich dessen Politik widersetzt, weil sie ihre eigenen politischen Ambitionen verfolgt und als schlechte Verliererin bekannt ist. Nachdem sie mit der Anfechtung des Wahlergebnisses vom Februar vor ukrainischen Gerichten gescheitert ist, erklärte sie, sie werde Janukowytsch mit ihrer Parlamentskoalition blockieren. Normalerweise hätte sie als Premierministerin zurücktreten müssen, als Janukowytschs Wahlsieg (mit einer Mehrheit von einer Million Stimmen) bestätigt wurde, was dieser nach seiner Wahl am 10. Februar auch verlangt hat. Sie weigerte sich jedoch. Als Präsidentschaftskandidatin war sie von Bundeskanzlerin Angela Merkel und anderen führenden Politikern in der EU bevorzugt worden. (17)

Der Sieg von Janukowytsch wurde von einigen der mächtigsten Unternehmer-Oligarchen des Landes unterstützt, darunter Rinak Akhmetow, der der reichste Mann der Ukraine und Fußballmilliardär ist. Wie Janukowytsch stammt er aus der Stahlregion im Osten der Ukraine. Auch Dmitry Firtash, ein Gashändler und Milliardär, der gemeinsam mit dem russischen Konzern Gazprom das Gasunternehmen RosUkrEnergo betreibt; Premierministerin Tymoschenko hatte im vergangenen Jahr seine Handelsgeschäfte untersagt.

Das Parlament der Ukraine sprach sich am 3. März bei einem Misstrauensvotum mit 243 von 450 Stimmen mehrheitlich gegen die amtierende Regierung von Premierministerin Tymoschenko aus. Für Tymoschenkos Fraktion der Orangenen Revolution von 2004 bedeutete das den Todesstoß. Jetzt bietet sich die Chance, die seit der Orangenen Revolution von 2004 bestehende politische Pattsituation unter den politischen Fraktionen der Ukraine zu durchbrechen. Janukowytsch ist am Zug. (18)

Bevor sie eine führende Rolle bei der Orangenen Revolution übernahm, war Julija Tymoschenko Anfang der 1990er-Jahre Präsidentin der ukrainischen Firma United Energy Systems gewesen, einem privaten Importeur von russischem Erdgas in die Ukraine. In Moskau warf man ihr vor, sie habe Ende der 1990er-Jahre große Mengen gestohlenen russischen Erdgases weiterverkauft und Steuern hinterzogen. Deswegen verpasste man ihr in der Ukraine den Spitznamen »Gasprinzessin«.

Darüber hinaus wurde ihr vorgeworfen, sie habe ihrem politischen Mentor, dem ehemaligen Premierminister Pavlo Lazarenko, Schmiergelder dafür gezahlt, dass ihre Firma die Gasversorgung des Landes in der Hand behielt. (19) Lazarenko wurde in Kalifornien wegen Erpressung, Geldwäsche, Betrug und Verschwörung zu einer Haftstrafe verurteilt, in der Ukraine wird ihm ein Mord zur Last gelegt. (20)

Wenn man davon ausgeht, dass Janukowytsch jetzt in der Lage ist, das Land nach der Niederlage der Regierung Tymoschenko wie angekündigt zu stabilisieren, dann bedeutet das für Moskau eine deutliche Verschiebung der tektonischen Platten des Eurasischen Herzlands, selbst bei einer strikt neutralen Ukraine.

Zunächst ist die strategische militärische Einkreisung Russlands – über die versuchte Rekrutierung Georgiens und der Ukraine in die NATO – eindeutig blockiert und damit vom Tisch. Der russische Zugang zum Schwarzen Meer über die ukrainische Krim scheint ebenfalls gesichert.

Tatsächlich bedeutet die Neutralisierung der Ukraine einen gewaltigen Rückschlag für Washingtons Strategie der völligen Einkreisung Russlands. Der Bogen von aktuellen oder künftigen NATO-Mitgliedsländern an der Peripherie Russlands und dem noch immer engen Verbündeten Belarus – von Polen bis zur Ukraine und nach Georgien – ist durchbrochen. Der weißrussische Präsident Alexander Lukaschenko hat einer Rosen-Revolution à la Ukraine erfolgreich widerstanden, indem er der Finanzierung von Lukaschenko-feindlichen NGOs durch das State Department einen Riegel vorgeschoben hat. Belarus verfolgt noch immer weitgehend eine zentrale Planwirtschaft, sehr zum Missfallen der freimarktwirtschaftlich orientierten westlichen Regierungen, ganz besonders der in Washington. Weißrussland unterhält enge wirtschaftliche Verbindungen zu Russland, die Hälfte des Außenhandels wird mit Russland abgewickelt, ein Beitritt zur NATO oder zur EU ist nicht geplant. (21)

Diese veränderte geopolitische Konfiguration in Zentraleuropa nach der Niederlage der Orangenen Revolution bedeutet einen großen Schub für Russlands langfristige Energie-strategie – eine Strategie, die man auch als »Russlands Nord-Süd-Ost-West-Strategie« bezeichnen könnte.

 

__________

(1) Press Trust of India, 2009: »Ukraine Becomes World’s Third Largest Grain Exporte«, unter http://blog.kievukraine.info/2009_12_01_archive.html.

(2) Stepan P. Poznyak, »Ukrainian Chornozem: Past, Present, Future«, Beitrag zum 18. World Congress of Soil Science, 9.–15. Juli 2006, unter http://www.ldd.go.th/18wcss/techprogram/P12419.HTM.

(3) Amerikanische Handelskammer in der Ukraine, Chamber Members, unter http://www.chamber.ua/.

(4) KosivArt, »Ukraine Natural Resources«, unter http://www.kosivart.com/eng/index.cfm/do/ukraine.natural-resources.

(5) Halford J. Mackinder, Democratic Ideals and Reality, 1919, Nachdruck 1942, Henry Holz and Company, S. 150.

(6) F. William Engdahl, »Entry into NATO Put Off Indefinitely«, unter http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=11277. Deutsche Version »NATO-Beitritt Georgiens und der Ukraine auf unbestimmte Zeit vom Tisch«, 4. Dezember 2008, unter: http://info.kopp-verlag.de/redakteure/f-william-engdahl/browse/12.html.

(7) John Arquilla, David Ronfeldt, Swarming and the Future of Conflict, Santa Monica, RAND, 2000.

(8) US Department of State, John E. Herbst Biography, unter http://state.gov/r/pa/ei/biog/67065.htm.

(9) Michel Chossudovsky, »IMF Sponsored ›Democracy‹ in the Ukraine«, 28. November 2004, unter http://www.globalresearch.ca/articles/CH0411D.htm.

(10) Kateryna Yushchenko, Biographie, auf My Ukraine: Persönliche Website von Viktor Juschtschenko, 31. März 2005, unter http://www.yuschenko.com.ua/eng/Private/Family/2822/

(11) Wikipedia, Orange Revolution, unter http://en.wikipedia.org/wiki/Orange_Revolution, deutsch unter http://de.wikipedia.org/wiki/Pr%C3%A4sidentschaftswahlen_in_der_Ukraine_2004 

(12) Andrew Osborn, »We Treated Poisoned Yushchenko, Admit Americans«, The Independent, Großbritannien, 12. März 2005, unter http://www.truthout.org/article/us-played-big-role-ukraines-orange-revolution.

(13) Dmitry Sudakov, »USA Assigns $20 million for Elections in Ukraine, Moldova«, Pravda.ru, 11. März 2005.

(14) Nicolas, »Forces Behind the Orange Revolution«, Kiev Ukraine News Blog, 10. Januar 2005, unter http://blog.kievukraine.info/2005/01/forces-behind-orange-revolution.html.

(15) Jim Nichol u.a., »Russia’s Cutoff of Natural Gas to Ukraine: Context and Implications«, US Congressional Research Service Report for Congress, Washington, D.C., 15. Februar 2006.

(16) Yuras Karmanau, »Half-empty chamber greets Ukraine’s new president«, Associated Press, 25. Februar 2010, unter http://news.yahoo.com/s/ap/20100225/ap_on_re_eu/eu_ukraine_president.

(17) Inform: Bloc of Yulia Tymoshenko Release #134, »EPP Throws Weight Behind Tymoshenko«, 16. Dezember 2009, unter http://www.ibyut.com/index_files/792.html.

(18) Stefan Wagstyl und Roman Oleachyk, »Ukraine Election Divides Oligarchs«, London, Financial Times, 15. Januar 2010.

(19) TraCCC, Pavlo Lazarenko: »Is the Former Ukrainian Prime Minister a Political Refugee or a Financial Criminal?«, Organized Crime and Corruption Watch, Bd. 2, Nr. 2, Sommer 2000, Washington, D.C., American University Transnational Crime and Corruption Center.

(20) Ian Traynor, »Ukrainian Leader Appoints Billionaire as his PM«, The Guardian, 24. Januar 2005.

(21) Botschaft der Vereinigten Staaten in Minsk, US Government Assistance FY 97 Annual Report, United States Embassy in Minsk, Weißrussland, 1998, unter: http://belarus.usembassy.gov/assistance1997.html.

 

Donnerstag, 25.03.2010

Kategorie: Allgemeines, Geostrategie, Enthüllungen, Wirtschaft & Finanzen, Politik

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vendredi, 05 mars 2010

Analyse dissonante des élections en Ukraine

Analyse dissonante des élections en Ukraine

Un peu moins de 900.000 voix voix séparent Viktor Ianoukovitch (48.95% et 12 480 053 voix), et Youlia Timoshenko (45.47% et 11 589 638 voix) mais c'est le premier qui a été élu président, au cours d'une élection, dont la transparence a été soulignée par tous les grands états et les principales instances internationales mais qui a surtout mis un terme au mythe de la « démocratie Orange ». Seule la ravissante Youlia (l'Evita Peron de la mer noire), malheureuse perdante, a quelque peu tardé à reconnaitre le choix de ce peuple qui l'avait pourtant généreusement soutenu en 2004, veillant dans le froid et la nuit sur la place centrale de Kiev.

Orangisme, mauvaise gestion et dérives nationalistes
La gestion économique et politique des Orangistes n'a pas été brillante, aggravée il est vrai par la crise économique qui a très durement frappé le pays, comme le montre le graphique dessous sur l’évolution du PIB sur la période 2006-2009. 





Les brimades linguistiques à l'encontre de la minorité Russophone n'ont certainement pas contribué à favoriser leur implantation électorale à l'est du pays et le président sortant Viktor Iouchenko, héros de la démocratie et chouchou de l’Occident en 2004 (!), a réuni moins de 6% des suffrages et a choisi de décorer (entre les deux tours) la figure historique Ukrainienne de la collaboration nazie, Stepan Bandera, (dont les hommes ont tués plus de 100.000 Polonais pendant la seconde guerre mondiale). Il est d'ailleurs assez surprenant de n'avoir entendu aucun commentaire des démocraties Occidentales a propos de cette "émouvante cérémonie" de l’entre deux tours. Le premier ministre ayant alors affirmé que le président Ukrainien « crachait au visage de ses anciens sponsors». Logiquement, au second tour, les mouvements d'extrême droite Ukrainiens  ont appelé à soutenir le candidat Orange.
Cet échec flagrant des Orangistes est à la fois électoral mais également financier, la crise ayant privé de crédits leurs principaux bailleurs de fonds, les stratèges des diverses ONGs qui pullulent dans les pays frontaliers de la Russie, Ukraine et Géorgie en tête.
La victoire du candidat bleu n'est pas cependant une surprise totale pour tout commentateur initié, elle était même au contraire relativement prévisible. Un sondage de l'institut Ramsukov (pourtant affilié au parti du président défait) montre bien l'évolution forte des mentalités en Ukraine de 2005 (révolution Orange) à 2009 et le basculement "a l'est". En 2009 un sondage durant l'été montrait que le gouvernement Orange d'Ukraine était le gouvernement avec le soutien populaire le plus faible au monde, 85% des Ukrainiens désapprouvant l'action de leur gouvernement.

L'Ukraine plus unie qu'il n'y parait
Les élections de 2004 avaient dévoilées l'existence de deux Ukraines, la bleue (orientale, tournée vers la Russie) et l'orange (tournée vers l'Occident). Cette coupure n'est pas seulement politique et culturelle. Elle est aussi linguistique, les Ukrainiens « bleus » lorsqu'ils ne se considèrent pas comme Russes sont souvent Russophones voir parlent un dialecte local Ukraino-russe. Dans la partie Orange les populations sont Ukraïnophone (ou parlent un dialecte local Ukraino-polonais).

Les élections de 2010 ont quelque peu atténués cette coupure, comme le précise Jean Marie Chauvier, Ianoukovitch et son Parti remportent leurs plus grands succès dans les régions à majorité russophone de l’Est et du Sud : 90% à Donetsk (Donbass), 88% à Lugansk, 71% à Kharkov, 71% à Zaporojie, 73% à Odessa, 79% à Simféropol (Crimée), 84% à Sébastopol. Le leader « régionaliste » avait reçu l’appui du Parti Communiste et d’autres formations de gauche, en très net recul au premier tour.  Mais Ianoukovitch remporte également de substantiels succès dans l’Ouest ukraïnophone : 36% à Jitomir, 24% à Vinnitsa, 18% à Rovno, 41% en Transcarpatie…C’est seulement dans les régions de Galicie (Lvov, Ternopol, Ivano-Frankovsk), traditionnels bastions du nationalisme radical antirusse et antisémite, que ses scores sont les plus faibles : inférieurs à 10%.
Une remarque symétrique s’impose pour les résultats de Ioulia Timochenko. Majoritaire à l’Ouest (de 85 à 88% dans les régions galiciennes, 81% à Lutsk, 76% à Rovno, 71% à Vinnitsa, mais seulement 51% en Transcarpatie), elle remporte également des succès remarquables à l’Est (29% à Dniepropetrovsk, 34% à Kherson, 22% à Kharkov). Les 29% à Dniepropetrovsk ne sont pas le fruit du hasard : Ioulia en est originaire, et le clan industriel de cette région est rival de celui de Donetsk que domine Ianoukovitch. Comme quoi, là non plus, le clivage « est-Ouest » ou « Russophones contre ukraïnophones ne joue pas. La ville de Kiev se partage entre 65% pour Ioulia et 25% pour Viktor Ianoukovitch, alors que cette capitale est très majoritairement russophone. Le leader de l’Est industriel et ouvrier n’y est pas reconnu par une bourgeoisie et une « classe moyenne » pourtant très attachée à la langue et à la culture russes.
Enfin la percée du 3ième homme Sergueï Tiguipko montre bien que la lassitude des électeurs envers cette scission et l’intérêt que porte une grande partie d’entre eux à une éventuelle 3ième voie.


L'Ukraine nouvelle, pont entre l'est et l'ouest
Pourtant contrairement à ce que beaucoup de journalistes ou commentateurs ont affirmé, le résultat des élections en Ukraine ne traduit pourtant pas du tout un retour de l’Ukraine dans le giron Russe ou une quelconque résurgence impériale Russe qui serait un danger pour l’Ouest. Bien au contraire, la victoire bleue affirme la position de l’Ukraine comme nation périphérique de la Russie, sur la « route vers l’Europe » mais également comme « partenaire de nouveau fiable » pour la Russie. La position de Ianoukovitch de tendre la main à l’ouest et à l’est ne fait que confirmer la situation économique réelle du pays (afflux de capitaux Russes) mais également son besoin de capitaux Européens pour moderniser le pays et faire face au problèmes économiques aggravés depuis l’été 2008. A ce titre l’Ukraine de Ianoukovitch pourrait se retrouver dans la position d’un « pont » entre l’Europe et la Russie et non plus d’un fusible dirigé par Washington pour déstabiliser les relations Euro-Russes (guerre du gaz, conflits de pipelines etc.). La volonté du nouveau président de faire ses deux premiers voyages à Bruxelles et Moscou devrait rassurer les chancelleries Européennes mais également le Kremlin quand à la création du cartel énergétique Ukraino-Russe mais également du maintien de la flotte Russe en Crimée ou son opposition à ce que l’Ukraine rejoigne l’OTAN.

Comme l'a précisé le président Ukrainien lors de son investiture : " L'Ukraine poursuivra l'intégration avec l'Europe et les pays de l'ex-URSS en tant qu'Etat européen n'appartenant à aucun bloc ... L'Ukraine sera un pont entre l'Est et l'Ouest, une partie intégrante de l'Europe et de l'ex-URSS en même temps, l'Ukraine se dotera d'une politique extérieure qui nous permettra d'obtenir un résultat maximum du développement des relations paritaires et mutuellement avantageuses avec la Russie, l'UE, les Etats-Unis et autres pays qui influencent le cours des événements dans le monde". (source de l'extrait).

L’élection de Ianoukovitch semble donc ancrer l’Ukraine entre Bruxelles et Moscou, mais l’éloigner de Washington et cette ligne « globale » semble être souhaitée par le peuple Ukrainien, au début de l’année, un sondage du Kiev post montrait que 60% des Ukrainiens souhaitaient l’intégration à l’UE, 57% sont contre l’intégration à l’OTAN et seuls 7% voient la Russie comme un état hostile, 22% souhaiteraient un état unique Russie-Ukraine (Source :
Johnson Russia List 2010 issue 34 number 2).

Ianoukovitch, un « poutine ukrainien » pour la presse Occidentale ?
Il est symptomatique de voir à quel point la presse anglo-saxonne a critiqué les résultats de l’élection, l’égérie Kremlinophobe du Moscow Times, Youlia Latynina allant même jusqu’à expliquer le résultat des élections comme logique, les électeurs pauvres étant tentés par des votes Poujadistes (« letting poor people vote is dangerous »). Pas de chance pour elle, la carte électorale montre bien que c’est la partie la plus riche d’Ukraine, la plus industrielle qui est majoritairement « bleue » et pro Russe. 



Autre critique plutôt surprenante du résultat des élections, l'oligarque en exil Boris Berëzovski qui s'est fendu d'un commentaire des plus insultants (Uk / Ru), après avoir affirmé qu'il avait soutenu et financé la révolution orange.

L’Ukraine au cœur de l’Eurasie.
Le 1er janvier 2012 entrera en vigueur l’Espace économique commun Russie-Biélorussie-Kazakhstan impliquant la liberté de circulation des capitaux et des travailleurs. L’Ukraine est fortement invitée à s’y joindre ou, du moins, à s’en rapprocher. Les Russes insistent sur « l’intérêt pour l’Europe » d’encourager la formation de ce nouveau « marché commun » opérant une sorte de trait d’union entre les parties orientales (principalement la Chine) et occidentale (Union Européenne) de l’Eurasie. 
On peut se poser la question de savoir si le futur du continent ne se dessine pas également via la création de ces deux «zones», celle Occidentale de Bruxelles et celle Eurasiatique de Moscou. Une scission entre ces deux Europes, l’Occidentale, et l’Orientale reprenant la délimitation territoriale telle que le définit le projet de sécurité Européenne proposé par la Russie qui définit dans son point 10 la zone de Vancouver à Vladivostok comme séparée en deux, avec une partie qualifiée d’Euro-Atlantique et l’autre partie qualifiée d’Eurasiatique.

Pour l’heure comme le souligne l’expert Michael Averko, la tentative d’installer le nouveau mur entre les Europes à Kiev a échoué. L’impatience de l’OTAN et son extension à l’est forcenée, ou ses différentes actions militaires anti Serbes ont finalement contribué à involontairement et indirectement améliorer l’image de la Russie.

vendredi, 08 janvier 2010

Catherine II prend la Crimée

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8 janvier 1784 : Le Sultan ottoman est contraint de céder la Crimée à la Tsarine Catherine II. Celle-ci avait pour politique principale d’étendre la Russie vers le Sud, vers la Mer Noire et le monde grec. Elle avait tourné le dos à la politique russe antérieure, qui était de prendre la Baltique toute entière et d’affronter, pour y parvenir, le royaume de Suède et la Pologne. Catherine II tourne donc toutes ses forces vers le Sud. L’année précédente, elle avait protégé le khan de Crimée contre ses sujets révoltés, alors que ce khan était vassal de la Sublime Porte. Celle-ci est trop affaiblie pour réagir, et l’ambassadeur de France, Vergennes, dissuade le Sultan de riposter. Vergennes participe à une grande politique continentale : la France n’est plus l’ennemie de l’Autriche, car Louis XVI a épousé Marie-Antoinette ; et Joseph II, Empereur d’Autriche, qui a succédé en 1780 à sa mère Marie-Thérèse, souhaite la paix avec la France et avec la Russie. Implicitement, il existe à l’époque un Axe Paris/Vienne/Saint-Pétersbourg, donc une sorte de bloc eurasiatique ou eurosibérien avant la lettre. Quand Catherine II prend la Crimée, en rêvant d’y réaliser une synthèse russo-germano-grecque, l’Empereur Joseph II gagne pour l’Autriche le droit de faire circuler ses navires dans les Détroits. Contrairement à ce qui va se passer à la fin du 19ème siècle, après l’occupation de la Bosnie par les Autrichiens en 1878, il n’y avait pas, au départ, d’animosité russo-autrichienne, mais un franc partage des tâches, dans une harmonie européenne, que la révolution française, invention des services de Pitt le Jeune, va ruiner.

 

 

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mardi, 01 décembre 2009

Nuevas bases americanas en el mar Negro

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Nuevas bases americanas en el mar Negro

El gobierno de Estados Unidos destinará más de $ 100 millones para construir nuevas bases militares en Bulgaria y Rumanía aunque la administración Obama haya suspendido recientemente sus planes para crear un escudo defensivo anti-misiles en otras partes de Europa oriental.

Según la revista semanal del ejército de los EE.UU. “Barras y Estrellas”, este último compromiso del Pentágono consiste en una base militar de $ 50 millones en Rumanía y otra de $ 60 millones en Bulgaria, que albergarán a 1.600 y 2.500 soldados estadounidenses respectivamente.

Se espera que la base de Rumanía esté terminada en los próximos dos meses, mientras que la apertura de la base búlgara está programado para el 2011 o 2012.

Las bases, financiadas por los Estados Unidos, aunque propiedad de los gobiernos de Rumanía y Bulgaria, serán compartidas por fuerzas americanas y de los países anfitriones, según la revista semanal.

Más de 2.000 soldados se encuentran realizando maniobras cerca de las dos naciones de Europa Oriental.

Durante una reciente visita a Rumanía, el vicepresidente Joe Biden dijo que Bucarest respaldaba la nueva configuración del escudo anti-misiles americano que Washington anunció tras la suspensión de su despliegue de misiles defensivos previstos en Polonia y la República Checa.

Esto significa que elementos del complejo anti-misiles americano pueden aparecer en Rumanía.

Además, los expertos estadounidenses dicen que la construcción de dos nuevas bases en Rumanía y Bulgaria está plenamente en consonancia con la redistribución de las tropas que el ex-presidente George W. Bush anunciara en 2004. Muchos analistas creen que el movimiento de tropas americanas hacia Rumanía y Bulgaria forma parte de una estrategia de redistribución mundial que comenzó en los primeros años de la administración Bush con el objetivo de desplazarlas de Alemania hacia hacia el este.

El Pentágono explica todo esto por la necesidad de llevar sus fuerzas cerca del inestable Oriente Medio.

Rusia lo ve como una amenaza directa a sus intereses por temor a que lo que comienza con una presencia relativamente pequeña del ejército americano en Rumania y Bulgaria, pueda finalmente verse aumentada en gran medida.

Además, la aparición de bases de la OTAN en el Mar Negro se suma a las instalaciones militares que Occidente tiene en el Mar Báltico, y que pone a Rusia en un aprieto.

En otra señal alarmante, cadetes de la academia militar de West Point están ahora recibiendo un curso intensivo de cultura y lengua rusa. Al igual que hicieran en los tres años previos a la invasión de Irak.

Preparándose para apropiarse de la riqueza de petróleo del Mar Caspio, Washington lo hará apoyándose en sus bases de Rumanía y Bulgaria y aumentando la inestabilidad en el Caucaso. ¿Para qué? Para poder enviar a sus fuerzas de paz allí para garantizar la seguridad del transporte de petróleo y gas. Y aquí el contingente americano en Rumanía y Bulgaria puede ser de mucha utilidad.

Traducido por Martin (investigar11S)
New US Bases on the Black Sea, by Mike Sullivan

vendredi, 13 novembre 2009

Cambia el eje geopolitico de Medio Oriente

Turkey_to_israel_pipes.gifCambia el eje geopolítico de Medio Oriente

Las cinco derrotas consecutivas de Estados Unidos e Israel fueron directamente de Estados Unidos en Irak y Afganistán, e indirectamente a través de su aliado Israel contra las guerrillas chiíta de Hezbolá en Líbano sur y sunnita-palestina en Gaza, así como su apuntalamiento al aventurerismo de Georgia en Osetia del Sur, donde Rusia le propinó una severa paliza, lo cual desembocó, a nuestro juicio, en el cambio dramático de la geoestrategia mundial. Asistimos a la eclosión de una nueva pentapolaridad en la región medio-oriental. A la añeja triada de Israel, sumada de dos países sunnitas árabes (Egipto y Arabia Saudita), se ha agregado ahora el renacimiento de dos añejas potencias hoy islámicas no-árabes: la sunnita-mongol Turquía y la chiíta-aria Irán.

Hechos

No son los mejores momentos de Israel ni en el Medio Oriente ni a escala global. Su fracaso en aplastar a la guerrilla palestina sunnita Hamas en Gaza (apuntalada por Irán y Siria) le ha traído graves cefaleas al fundamentalista partido hebreo Likud. La opinión pública mundial (que incluye increíblemente el pleito del primer ministro “Bibi” Netanyahu con el gobierno sueco) conoce, a través del Reporte Goldstone sobre Gaza, de la Organización de las Naciones Unidas (ONU), los “crímenes de guerra” y las exacciones y agravios de Israel en contra de la humillada población civil palestina. La Comisión de Derechos Humanos en Ginebra ha amonestado a Israel.


Cabe un paréntesis: el “México neoliberal”, en su fase aciaga calderonista, optó por la política del avestruz al no haber seguido la corriente histórica, tanto global como del restante de los países suramericanos que condenaron severamente con su voto la criminalidad israelí.

Es muy probable que la postura antihistórica de Calderón, tanto a nivel local como global, a favor de Israel (aunque haya sido mediante un voto “neutral”), probablemente se deba a su estrecha amistad con el seudohistoriador Enrique Krauze Kleinbort, el ideólogo de la extrema derecha superbélica (no hay que olvidar que ha sido expuesto como miembro del siniestro Comité del Peligro Presente: Committee on the Present Danger). Cabe destacar que la progenitora de Krauze Kleinbort, la muy respetable señora Helen Krauze, funge como publirrelacionista oficiosa de la embajada de Israel en México: una de sus tareas consiste en invitar a “comunicadores” mexicanos al Estado hebreo con todos los gastos pagados.

Siempre dijimos que el barómetro del humanismo del siglo XXI lo representa el etnocidio perpetrado en Gaza por Israel, un estigma indeleble y cuyas reverberaciones impactaron, para no decir fracturaron, el otrora sólido eje militar de Turquía e Israel.

Cabe recordar cómo el combativo primer ministro turco Recip Tayyip Erdogan censuró las exacciones y crímenes de guerra de Israel directamente a su presidente Shimon Peres, en el reciente Foro Económico Mundial de Davos.

El primer ministro turco ha sido muy severo, con justa razón, con Israel–tomando en cuenta que hasta hace poco era su principal aliado militar en la región– al increpar al Estado hebreo de haber matado deliberadamente a los niños en Gaza, lo que ha valido un programa especial en la televisora estatal en horario estelar, y que ha indignado todavía más a la población islámica turca que empieza a exigir la ruptura de relaciones con el Estado etnocida e infanticida hebreo.

Entre otras varias razones del reacomodo y el surgimiento de la nueva pentapolaridad de las medianas potencias en el Medio Oriente, Turquía ha usado el estandarte de Gaza como una de sus justificaciones para alejarse espectacularmente de Israel, que pierde así a su principal aliado islámico en el seno de la Organización del Tratado del Atlántico Norte (OTAN). No es poca cosa, ya que se trata, guste o disguste, de dos importantes fuerzas militares regionales.

En fechas recientes, Turquía no solamente se ha alejado de su antiguo aliado israelí, sino que ha emprendido en paralelo un gran acercamiento con los siguientes actores regionales que incluyen al Transcáucaso: Rusia, Irán, Siria y Armenia (además de las guerrillas de Hamas, sunnita-palestina, y Hezbolá, chiíta-libanesa: dos aliadas de Irán y Siria).

Es evidente que Turquía, gobernada por un régimen democrático islámico “moderado” (de acuerdo con la clasificación muy sesgada de los multimedia occidentales para quienes “moderado” es aquel que se somete a sus designios, y “radical”, quien los confronta), entiende perfectamente su gran calidad de “país pivote” –en la encrucijada estratégica del Mar Negro, Mar Caspio, el Trancáucaso, Asia Central y el Medio Oriente–, que le ha valido ser aceptado notablemente como mediador de varios conflictos en su periferia de parte de un buen número de países (con la excepción de Israel).

Desde luego que el alejamiento de Turquía con Israel –y por extensión, con Estados Unidos, Gran Bretaña y la zona del euro– tiene otras motivaciones anteriores a Gaza, cuando prohibió, pese a ser el único miembro islámico de la OTAN, el vuelo de los aviones de la dupla anglosajona por sus cielos para bombardear a Irak, en ese entonces gobernado por Saddam Hussein.

El “factor kurdo” ha acercado notoriamente a Turquía con Irán, Siria e Irak, quienes comparten el mismo contencioso incandescente.

No hay que perder de vista que Israel (apuntalado por Estados Unidos y Gran Bretaña) busca la secesión de la zona kurda en el norte de Irak, tan pletórica en yacimientos petroleros en la región de Kirkuk.

Sin duda, la alianza subrepticia de Israel con el norte kurdo ha jugado un papel determinante en su alejamiento gradual que ha llegado hasta cesar el entrenamiento aeronáutico de las dos potencias militares.

Ahora leamos lo que dicen los israelíes de extrema derecha como Caroline Glick, en The Jerusalem Post (15 de octubre de 2009): “Turquía, la otrora apoteosis de una democracia islámica dependiente y prooccidental, abandonó oficialmente esta semana la alianza occidental y se volcó como pleno miembro del eje iraní”.

Aquí no cuenta la exactitud de los asertos de Glick, sino su exagerada emotividad que alcanza la histeria geopolítica. Se le va a la yugular al partido islámico “AKP”, que obtuvo el control del gobierno turco desde las elecciones de 2002 con su dirigente Recip Tayyip Erdogan.

En su visión hiperbólicamente israelocéntrica, la amazona Glick aduce que Turquía ha optado por “el campo islámico radical (¡super-sic!) poblado (sic) por sus similares (sic) de Irán, Siria, Hezbolla, Al-Qaeda y Hamas”. ¿A poco cree la amazona Glick que Al-Qaeda existe? ¿No sabrá, acaso, que Al-Qaeda es un montaje hollywoodense de “Al-CIA”, como demostró excelsamente un reportaje histórico de la televisora británica BBC?

En forma perturbadora, Glick tilda de “escandalosamente imbéciles (¡super-sic!) y flagelantes” a los medios que le han dado cabida a los ataques de Turquía en contra de Israel.

Para Glick, el alejamiento de Turquía y su vuelco a favor del “eje iraní” vienen desde muy atrás: desde la prohibición del vuelo de los aviones de Estados Unidos para bombardear Irak, pasando por la recepción de los líderes de Hamas por su triunfo electoral en Gaza, hasta el paso de armas iraníes por suelo turco destinadas a Hezbolá.

Para la amazona Glick, lo intolerable llegó “con el apoyo abierto (sic) al programa de armas (sic) nucleares de Irán y su galopante comercio con Teherán y Damasco, así como su hospital a los financieros de Al-Qaeda”.

Con todo nuestro respeto a la desinformadora y deformadora Glick, pero hasta ahora nadie –mucho menos, en el seno de la Agencia Internacional de Energía Atómica de la ONU– ha podido demostrar que Irán posee “armas nucleares”, como tampoco Irak, en la etapa de Saddam Hussein, las tuvo.

El colmo para la amazona Glick llegó con “la desinvitación de la fuerza aérea israelí a los ejercicios aéreos con Turquía y la OTAN” (la operación conjunta Águila de Anatolia).

Lo más interesante radica en que Turquía se aleja de Israel, mientras se acerca, en la misma proporción, a Siria, con quien ha entablado una alianza militar que será sellada con próximos ejercicios militares conjuntos, lo que establece que Ankara ha optado por jugar el papel estratégico de pivote que le corresponde y cesar de ser un aliado indefectible de Israel que no le aporta nada en la dinámica coyuntural del “Gran Medio Oriente”.

Conclusión: en una cosa tiene razón Caroline Glick, quien se cuestiona amargamente: “¿Cómo Israel perdió a Turquía?” Amén.

Alfredo Jalife-Rahme

Extraído de Red Voltaire.

~ por LaBanderaNegra en Noviembre 3, 2009.

vendredi, 06 novembre 2009

Genocidio armenio hoy: Las sombras de 1915

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Genocidio armenio hoy: Las sombras de 1915

 

por Garabed Arakelian

Recientes expresiones públicas del primer ministro turco Recip Erdogan, amenazando con el exilio a más de 40 mil armenios que residen en Turquía, han reavivado las heridas y el recuerdo del Genocidio cometido por el estado turco en perjuicio de la población armenia que vivía ancestralmente –antes de la llegada de los turcos- en los territorios que hoy integran los dominios de ese país.

“Vamos a terminar con la Cuestión Armenia, terminando con los armenios”, comenzaron a decir los dirigentes turcos sobre fines del siglo XIX, cuando el tema de los armenios ingresó en la agenda de los asuntos internacionales y se constituyó en la Cuestión Armenia, reconociendo y otorgando derechos de diversa índole a esa minoría.

 

Años después, luego del visible fracaso de esa política, pues Turquía no pudo eliminar a los armenios y tampoco a la Cuestión Armenia -que, aunque con otro formato, sigue existiendo y es una piedra grande en sus babuchas- el Primer Ministro turco Recep Tayyip Erdogan el pasado 16 de mayo de 2009 en Varsovia, volvió a amenazar afirmando: “Hay 40 mil armenios que viven en Turquía en la actualidad. Ellos llegaron a nuestro país porque había dificultades en Armenia (“They came to our country because they had difficulties in Armenia"), y concluyó: y si es necesario, los vamos a exiliar ("If necessary, we will exile them, but I think it will be inhuman”, ” confirmó y agregó con humor, seguro que el auditorio internacional le acompañaría en su ingeniosa deducción: “pero creo que nos podrían tachar de inhumanos” Lo cual es una forma socarrona pero indecente de decir: lo hemos hecho, sabemos como hacerlo, podemos volver a hacerlo. Pero también algo para prevenir, pues Turquía ha demostrado que no se detiene en detalles para distinguir entre exilio y deportación.

 

Pero como las cosas no se juzgan de manera aislada sino en su contexto, en el que valen también los antecedentes, a Turquía se le podría tachar no sólo de inhumana, y no sólo los armenios podrían hacerlo, también judíos, griegos, kurdos y una cantidad de minorías que han sufrido y sufren las consecuencias de la política xenófoba de Turquía pueden hacerlo recurriendo a una larga lista de excelentes adjetivos disponibles para tachar la inconducta turca con respecto a los Derechos Humanos, desde hace mucho, mucho tiempo hasta el presente.

 

Pero es interesante advertir queErdogan profiere estas amenazas en momentos en que negocia con Armenia la apertura de fronteras, cerradas unilateralmente por iniciativa turca desde 1992. Pero, mientras declara solemne que tiene interés en dicha apertura, hace lo posible, para que eso no se convierta en realidad. Con el expreso apoyo de agencias de noticias internacionales, y medios de comunicación muy poderosos, Turquía despliega desde sus dependencias gubernamentales una importante política informativa a nivel internacional para hacer creer que el tema de la liberación de fronteras está resuelto y que Armenia ya ha aceptado dichas condiciones.

 

La maniobra publicitaria turca para cercar a Armenia creando opinión pública en el terreno internacional, en la diáspora y dentro de Armenia, para hacer creer que ésta ha cedido posiciones es evidente: los ministros de Exteriores de los dos países anunciaron el pasado miércoles 22 de abril -en vísperas de un nuevo aniversario del Genocidio- que habían llegado a un acuerdo para "normalizar" sus relaciones mediante un delicado proceso de acercamiento. Citando "fuentes del ministerio de Exteriores", los principales diarios turcos, "Sabah", "Hurriyet" y "Radikal", informaron de inmediato que varias comisiones elaborarían medidas graduales para la reapertura de las fronteras y el restablecimiento de las relaciones comerciales y diplomáticas entre ambos Estados.

 

En definitiva, esto es en términos generales y con suaves matices diferenciales, lo que reprodujeron las agencias internacionales haciéndose eco de la versión aparecida en tres periódicos turcos que, curiosamente, reflejan la posición oficial, aunque tengan orientaciones políticas diferentes y no sean coincidentes con el gobierno

 

Según estas informaciones y trascendidos de fuente otomana que han hallado eco en los medios internacionales, Armenia habría aceptado las condiciones turcas que se sintetizan así: 1)designación de una comisión de “sabios” o “eruditos” que investigarán acerca de si hubo genocidio o nó; 2) Armenia renunciaría a plantear reclamos territoriales y las fronteras quedan tal como están ahora aceptando un acuerdo firmado entre Turquía y la Unión Soviética; 3) Nagorno Gharapagh pasa a ser parte de Azerbeydján y se agregan algunos detalles instrumentales de nombramientos de embajadores y otros etcéteras.

 

Obama estuvo con Erdogan antes del 24 de abril último, tuteándose cordialmente luego de intercambiar cariñosos besos islámicos en ambas mejillas y anunció que no se iba expedir sobre el tema Genocidio, respetando que los dos países estaban tratando de encontrar una vía de solución. Es decir, traicionó a los armenios a quienes prometíó en su campaña electoral que si era presidente reconocería el Genocidio y le echó una mano a su socio y amigo, argumentando que una definición en ese sentido sería como una injerencia en problemas entre dos estados soberanos. Pero además, Erdogan ya le había advertido que no debía entrometerse en ese problema que era entre Armenia y Turquía. De modo que, juicioso, Obama explicó que entrometerse no era correcto. Doble puntaje: aparece como respetuoso de esas delicadezas internacionales, que seguramente no forman parte de su menú cotidiano al tiempo que no reconoce la existencia del Genocidio y deja a Armenia a expensas de su poderoso vecino.

 

Al día siguiente, en el seno de la Unión Europea, olvidó ese fugaz principio de respeto a la soberanía y se metió de lleno en ese organismo internacional para decirle a Sarkozy que los europeos debían aceptar el ingreso de Turquía en su seno. Como se vé, siempre jugando a favor de Turquía, aunque no le sirvieron de mucho esos esfuerzos, porque su socio y amigo es como las o los amantes que retienen a su querido/a no por amor sino por chantaje: el 24 de abril se cuidó de utilizar las palabra genocidio, estuvo haciendo filigranas con el lenguaje y se hizo el simpático al referirse al hecho expresándose en idioma armenio y utilizando la expresión “Gran Tragedia” para referirse al mismo y se dolió de las muertes y los excesos, etc. etc..pero Erdogan , que lo había despedido de Ankará, la capital de Turquía, afirmando que el presidente de USA se iba con ideas más claras y definidas sobre el tema del Genocidio Armenio, se sintió defraudado y realizó declaraciones públicas manifestando su disgusto. Es que Obama no dijo lo que tenía que decir y tal como le había indicado que debía decirlo.

 

Entretanto, fiel al cariño manifestado y al compromiso aceptado, USA continúa haciendo sus deberes para con Turquía y presiona a Armenia para que entregue Gharapagh. Con ese respaldo, el jerarca turco después de haber firmado con Armenia lo que se conoce como "hoja de ruta" en torno a una posible apertura de fronteras, dice públicamente que mientras no se solucione el problema entre Armenia y Azerbaydján no habrá liberación de esos límites.

 

La posición de Armenia es débil: sin salida al mar, acosada por países vecinos con los cuales vive una histórica desconfianza mutua, siente además el asedio de Rusia, que la quiere su aliada pero sin comprometerse mucho en ello, y la de USA que desea liquidarla para satisfacer a su socio y amigo de Ankará. Hitler se preguntó y le preguntó a sus soldados, cuando iban a invadir Polonia con la orden expresa de no perdonar vidas: “quién se acuerda de Armenia ahora?" USA y sus sucesivos gobiernos guiados por cálculos "Pentagónicos", están diciendo algo semejante: "¿qué son tres millones y medio de armenios? ¿Quién se acordará de ellos cuando nuestro cine y nuestra televisión, que manejamos globalmente, hará que eso se olvide?"

 

No hay razones para dudar que esto suceda, o que ya esté planeado que suceda. Por lo tanto sí hay razones para preocuparse.

 

Esta no es una deducción vana, los datos objetivos lo demuestran: Obama asume posición de no ingerencia para perjudicar a Armenia frente a Turquía y cuando tiene que repartir la torta de su presupuesto último, rebaja la ayuda a Armenia y se la aumenta a Azerbeydján. No pueden haber equívocos ni dudas tampoco respecto a cuál es su posición.

 

Esta región del Cáucaso es una zona históricamente conflictiva donde siempre hay muchos más factores en juego que los que se dicen y ven a simple vista y para los cuales la explicación fácil suelen ser la existencia de diferencias religiosas. Sin negar que ese detalle incide no hay que olvidar que allí hay petróleo, minerales raros y escasos que se utilizan en las más modernas tecnologías, allí hay vías de cruce y acceso a esas riquezas cada vez más codiciadas y por eso el dominio allí significa tener poder en los términos actuales de la organización mundial. Y para el oocidente político significa hacer retroceder los límites del oriente, el este político.

 

Por ahora Turquía está pisando fuerte: se sabe necesaria por la posición geopolítica que detenta. Importante para los intereses de muchos que la necesitan, pero también sabe que no la quieren. Ella, Turquía, sabe que es la mal querida, y se esfuerza en ser aceptada. Casi siempre lo consigue por las malas, pues tiene, por ahora, argumentos contundentes para lograrlo. Pero por encima de estas realidades no hay que olvidar que ella ha fortalecido su posición en la medida en que juega como peón de USA quien le permite salidas de tono como las que mencionamos.

 

Pero también es cierto que los demonios que crea el imperio suelen tomar vida propia pues los sueños imperiales que sostiene el panturquismo están aún vigentes día a día en la enseñanza y en la sociedad turca. De modo que para Armenia el peligro se duplica: al asedio histórico al que la somete Turquía, se agrega el pase libre que USA le otorga a su -socio y amigo- aliado privilegiado, y la desembozada actitud negacionista que asume frente a Armenia.

 

Armenia y su diáspora deberían plantearse, y quizás lo hagan, que la hoja de ruta es el pretexto que los enemigos le ponen por delante para que se discuta lo que a ellos les conviene y que podrán concretar o nó. Quizás lo importante para Armenia sea tener un claro objetivo común que integre al pueblo armenio, el de adentro y el de la diáspora, que es lo que su bando enemigo no quiere que suceda. Quizás los armenios debieran pensar en el concepto de "pueblo armenio" y actualizar su contenido para analizar los avatares próximos de su historia. Aunque se debe reconocer que, por ahora, están jugando con las reglas que le marca el enemigo.

·- ·-· -······-·
Garabed Arakelian

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mardi, 03 novembre 2009

Les refus récurrents et rédhibitoires de la Turquie

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Andreas MÖLZER:

 

Les refus récurrents et rédhibitoires de la Turquie

 

C’est par des louanges exagérées que l’on a célébré récemment la signature de deux protocoles, où la Turquie déclare vouloir améliorer, en toute apparence mais en apparence seulement, ses relations avec l’Arménie. Très peu de temps après la signature de ces protocoles, le Premier Ministre turc Erdogan a émis une restriction: Ankara ne fera aucun pas en direction de sa voisine mal aimée, tant que l’Arménie ne  retire pas ses troupes du Haut-Karabakh, région montagneuse qui appartient de jure à l’Azerbaïdjan. Il appert donc que, pour la Turquie, la protection qu’elle entend offrir au peuple frère azéri est plus importante que l’entretien permanent de bonnes relations de voisinage avec l’Arménie, comme en entretiennent entre eux les peuples d’Europe. En émettant cette restriction par la voix de son Premier Ministre, la Turquie, faut-il l’ajouter, exprime une conception fondamentale: elle se profile, par la définition qu’elle se donne d’elle-même, comme un Etat non européen et comme la puissance d’avant-garde des peuples turcophones, dont l’aire de peuplement s’étend très profondément en Asie centrale.

 

Mais il y a un autre comportement de l’Etat turc qui prouve son immaturité à adhérer à l’UE; il a été soumis à débat vers la mi-octobre 2009 dans la Commission des affaires étrangères du parlement européen. La Turquie refuse toujours obstinément d’appliquer le protocole dit d’Ankara, qui prévoyait l’ouverture des ports et aéroports turcs aux navires et avions grecs-cypriotes, ce qui impliquait aussi de reconnaître  indirectement Chypre, Etat membre de l’UE. Cette situation a provoqué de nombreuses critiques au sein de la Commission des affaires étrangères du parlement européen. On sait que la question cypriote, depuis la fin de l’année 2006, a entraîné le gel de huit chapitres relatifs aux négociations quant à l’adhésion turque: les Turcs ont été invités à attendre et à reconsidérer leur attitude. Depuis lors, effectivement, Ankara n’a pas avancé d’un millimètre, attitude de refus pour laquelle il convient désormais de tirer les conséquences. Finalement, c’est la Turquie qui est demanderesse pour entrer dans l’UE et non le contraire. Par ailleurs, il n’est pas question d’accepter que la Turquie, comme elle le croit en apparence, dicte à Bruxelles ses conditions.

 

Fin octobre 2009, lors du Sommet de l’UE, nous aurons enfin la chance de rompre les négociations en vue de l’adhésion turque. C’est le chef des socialistes autrichiens et président de la république autrichienne, Faymann, qui devra agir. Avec ses amis rouges du parti socialiste, il a toujours promis aux Autrichiens qu’ils pourront décider par référendum s’ils acceptent ou non la candidature turque, une fois les négociations achevées. Une question demeure toutefois ouverte: pourquoi Faymann attendrait-il encore de  nombreuses années, alors que l’écrasante majorité de nos concitoyens autrichiens rejettent absolument l’adhésion turque?

 

Andreas MÖLZER.

(article paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°43-44/2009).

vendredi, 30 octobre 2009

The Ankara candidacy

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The Ankara candidacy

A translation by Fred Scrooby / http://majorityrights.com/  

The following article, which appeared at the end of September at Robert Steuckers’ Euro-synergies, was written by Jean-Gilles Malliarakis, a well-known commentator in radical-right circles in France.

THERE’S NO LACK OF RATIONAL ARGUMENTS FOR DRAWING CONCLUSIONS ABOUT ANKARA’S CANDIDACY

Today I close the dossier on the Turkish question, my small book, a little heavier than anticipated.

As I write this, intending to get it finished, seemingly unbeknown to the Europeans important changes are shaking up debate in Turkey itself.  Involved are probably real developments, in part.  The current majority party, AKP, and the alliance of forces which it represents, are making their moves for essentially national reasons.  But the program for reform was developed at the end of June with the candidacy for membership in the European Union explicitly in mind, with a view to making it presentable.  This was repeated by Prime Minister Erdogan and Abdullah Gül, President of Turkey. 

Thus did we see a diplomatic offensive aimed at the Armenians, promising them the future reopening of a border whose shutting has completely closed off their country.  There’s been vague talk of normalizing the status of religious minorities (the latter are so small in number, one wonders how they could possibly be a threat to touchy Turkish Jacobinism) — thus are their representatives taken hostage to use as agents of Turkish diplomacy, in the tradition of totalitarian countries.

The most important advance is said to have been proposed to the Kurds.  After the head of government had received certain Kurdish leaders, from August 25 to September 22 there is said to have been considerable antagonism between the political leaders and the Chief of Staff of the Turkish Army, General Basbug.  In August Gen. Basbug had stated that the Army could not accept, and would therefore oppose, any plan that was in violation of Article 3 of the Constitution which declared that Turkey was a single and indivisible state and its language was Turkish.  The Kemalist and nationalist opposition joined in chorus to decry government betrayal.  There could be no clearer threat of a coup d’état as has been a recurrent event in this country’s political life since the 1946 adoption of democratic pluralism.

In less than a month, and despite Ramadan, the head of government and of the AKP Party went on television to deny all rumors of genuinely radical reform, and finally on September 22 at Mardin, Gen Basbug declared he had obtained what he wanted and there was no longer cause for concern.  The officers should no longer even watch the false, depressing news being broadcast by their beautiful country’s television networks.  There would be no real linguistic or institutional concessions made to the Kurds.  The Army hadn’t even needed to take the steps it took in the winter of 1996-7 when it forced the government to resign.  The Army considered it had won, and contented itself at summer’s end with giving stern looks.

This whole affair had been part of an effort to put on a good face for the encounters in Brussels with very representative individuals like Emma Bonino, Michel Rocard and other spiritual guides who relay the propaganda of our dear friends.  The promised reforms will remain cosmetic or they won’t even materialize.  But that will be enough to make some European negotiators proclaim new “hopes,” hypothetical “expected agreements,” supposed “progress made in negotiations,” as false as in the past.

And frankly, when over a period of years one obliges oneself to follow the progress of Ankara’s candidacy for E.U. membership, one experiences real difficulty understanding the logic of those who persist.  These fishermen can call that fish all the tender names they want, they won’t succeed in getting the poor thing to swim close by them, and they’ve been trying for 20 years.  With all their lying, however, they’ll finally appear convincing, and victory will seem a good bet.

Turgut Özal submitted his dossier in 1987, almost a quarter-century after the first trade agreement in 1963.  At that time, as designated prime minister of a dictatorship, he reassured business interests and set in motion the transition to a civilian régime that would be in conformity with the conditions stipulated by the military coup d’état of September, 1980.  General Evren ran the country in his capacity as president appointed by the Army General Staff.  The aim was to normalize the appearance of political life but also the country’s international image.  At that time almost no one in Europe could really believe in this Turkish candidacy to join Europe.  In Brussels they were asking themselves, “How do we get out of this without creating ill feeling?”

Özal initiated this request at a time when the Delors Commission was preparing to take the first steps toward E.U. political construction, prolonging the economic community of the first treaties.  This evolution would bring about the European Union that was agreed on in Maastricht in 1991.  Now, Turkey was then finagling to become the thirteenth member of a community still only 12 members strong.  Today the number of countries has reached 27.  Other new applications for membership (Croatia, Iceland for example) are viewed as more likely and more prepared than that of the pillar of NATO.

To tell the truth, considering all the problems, the State Department in Washington would seem to be the only bureaucracy that has always believed — or pretended to — in this country joining Europe.  And because they’ve never paid a price for doing so, U.S. presidents have regularly repeated, when meeting with their Turkish counterparts, conventional expressions of support, to the great satisfaction of Istanbul’s media. 

But overestimating the importance of such diplomatic statements tends to mask the culpability of the idiotic European Union, because at the same time, in the halls of Brussels, the project continues quietly to advance.  It proceeds at a snail’s pace, to be sure.  It disregards all questions of likelihood, to be sure.  It wends its way in the most complete opaqueness, to be sure.  In 2007 a candidate for the French presidency got elected in part by promising to oppose Turkey’s request for membership, to be sure.  Nevertheless in 2008 a wide-ranging constitutional reform, passed at Versailles, allowed the suppression, without informing the citizens, of the stipulations introduced by the short-lived Article 88-5.  That article had been touted as the supreme guarantee against unpopular expansion of the E.U.  According to the old 1958 amendment to the Constitution, any treaty of this kind must be submitted for ratification to the French people in the form of a referendum.  But alas, nothing guaranteed the guarantee!  It was deep-sixed a year after the election victory. 

In addition, “topics for negotiation” keep opening one by one, like a chocolate bar nibbled bit by bit before disappearing:  35 topics, then ratification.  Has anyone ever seen a thing so extraordinary as a last piece of chocolate, the 36th, remaining stoically, chastely uneaten, abandoned in its foil wrapper, after 35 of its mates have vanished? 

What they’re going to try to do, then, is use force to overcome the natural resistance of systems of law, of politicians, and of citizens, for imaginary geo-strategic motives dreamed up in sterilized bureaus totally cut off from every flesh-and-blood European reality.  Then they’re going to hand down their orders of the day through all their footsoldiers of the politically correct world.

Every one of us has encountered one of these fine thinkers.  Though docile, they believe in their unproven but peremptory astrology as firmly as a steel trap, as if it’s been handed down since Antiquity thanks to the Wise Men of Chaldea or Ancient Persia.  They press us to bypass a stage they themselves have doubtless never even reached, that of possessing a national, ethno-racial, or European consciousness; to hear them talk, “we must look higher and further into the future of humanity than that.” The weight of Geography means nothing to them.  The Tragedy of History escapes them.  All that matters is their desire to seem intelligent, and if that illusion proves impossible they want at least to be in step with the latest fashion. 

Now, the idea of considering Turks Europeans would rather merit standing out for its ineptitude, its contradiction, and even, when you get down to it, its ridiculousness. 

We can cite the rational arguments one by one.  There’s no lack of them. […]

Let’s summarize them, to serve as sort of a spark:

1) Geographic argument: This country is simply not situated in Europe.  It therefore has no more reason for participating in the confederation of our continent than France’s possession of French Guiana has to make France part of South America.

2) Memorial argument: Rationally one will doubtless admit that, even if the leaders in Ankara agreed to recognize the Armenian Genocide, that still wouldn’t move the seat of their government from Asia to Europe.  But that this state obstinately denies the crimes committed by its 1915 predecessor because they involved the Young Turk government and the Ottoman Empire speaks volumes about the difference in mentality between the present-day government of this country and those of the nations of Europe.

3) Linguistic argument: Turkish isn’t a European language.  The culture it represents comes from Central Asia, mixed over the course of history with influences from other Oriental cultures, Persian and Arabic.

4) Social violence argument: Turkish society is based on the permanent acceptance of a violence from which Europe has been free for several centuries.

5) Justice system argument: Several times since the XIXth Century, first the Ottoman Empire then the Kemalist Republic have sought to import “on paper” the West’s judicial principles and practice.  But the legal system there is very far from having transformed itself.  A number of laws considerably hinder freedom of expression, private property rights, etc.  The importation of 85,000 pages of E.U. rules and regulations will prove inapplicable and illusory.

6) Economy argument: The overlapping of national economies is something we often hear invoked.  In reality the decisive step, taken in 1993 under pressure from the president of France with influence coming from Messrs. Balladur and Juppé, compelling the European Parliament to ratify the Customs Union, created a paradoxical situation.  Serving as an industrial sub-contractor for Europe is helping develop Turkey’s economy based on the fact that Turkey is not a member of the Eurozone or subject to regulation by Brussels.  It’s the same with some other developing countries:  China is in a comparable situation.  This form of economic cooperation rules out any judicial, monetary, social, or political integration. 

7) Cost argument: The agricultural politics and all the subsidies and varieties of redistribution which Europe practices couldn’t be adapted to this immense country, Turkey, with its considerable needs, in less than decades given present community budgets, without drastic modification of the financing capabilities of Brussels.  It will be noted, for example, that Turkey’s gross fixed capital formation is barely greater than that of Greece which has one-seventh the population.  Europe still must make great changes before it will be able to completely integrate countries of the East.  Who is going to pay?

8) Historic argument: Certainly most European nations have been in conflict with or alliances against one another.  The only common enemy of Europeans since the XVth Century has been Turkey.  Never has a Turkish princess married a single European king.

9) Argument of criminal realities: Though it never in the past sent Europe its princesses, this country sends Europe its mafiosi, its drug traffickers, its illegal immigration networks, its huge counterfeiting of our product brands, etc.  That’s called being “a great, friendly nation.”

10) Argument of European homogeneity: Clearly, this intrusion would rupture all perspective on creating a European society, all natural evolution of the European Union toward confederation first, then federation.  One understands better why advocates of “A Europe of States,” called “intergovernmental,” who are passionate opponents of any federalism because they are opponents of Europe, push this candidacy.  [Scroob note:  I don’t see how this is true:  plenty of opponents of European integration whether “federal” or “confederal” oppose Turkey’s addmission to the E.U.  He’s got this wrong.]

11) Argument of the size and power of institutions: Inserted in democratic Europe, Turkey would become, thanks to its population alone, the principal state, it would have the most European Parliament members, etc. 

12) Democratic argument: The people don’t want it.  That should suffice for our rulers.

Finally, an argument that must be considered separately is that of Europe’s Christian roots.  The faithful of the various Churches are legitimately concerned, and this has been mentioned by John Paul II and Benedict XVI.  This can’t just be ignored.  One can also state that there are European roots of Christianity:  Plato influenced the Church Fathers; Aristotle can be found in St. Thomas Aquinas; etc., manifesting as a mutual impregnation of the two realities.  But one also sees this invoked especially a contrario by those who claim they “don’t want to offend Moslems,” who want to “keep Europe from being a Christian club.” But strictly no one has ever proposed such a thing.  One wonders finally whether their argument consists in considering the real reason, the best justification for this exotic country’s entering the European Family, to be the fact that it’s never been part if it.  One wonders if it’s a question of wanting more than anything this country’s entry, of supporting contrary to all reason this burdensome candidacy, precisely because it is Moslem.

Biographical Note

Jean-Gilles Malliarakis was born in Paris in 1944, son of a well-known French artist of Greek and French extraction.  At one time a member of the movement “Occident,” which he left in 1967, he founded his own movement, ”l’Action nationaliste”, when he was a student at l’Institut d’Études Politiques in Paris.  In 1976 Malliarakis bought a Paris publisher and bookstore, La Librairie française, which became a meeting place in Paris for activists of what today’s controlled media refer to as the political “far-right” (but which is, of course, merely the political center seeking to re-establish sanity, and opposed by an entrenched extreme-left-radical fringe which has usurped hegemony and now masquerades as the “center”).  Very interested in economic questions, Malliarakis was at the time a critic of liberalism and planned to found an organization devoted to the analysis of economic theory and economic reality (S.P.A.R.T.E), but this project was not realized.  He was director of several organisations:  the ”Mouvement nationaliste révolutionnaire” (MNR), then ”Troisième Voie”, a movement opposed to both capitalism and communism.  Following 1991’s eruption of the Third Way onto the scene, he collaborated with Christian Poucet, president of ”CDCA Européen” (European Federation for the Protection of Small Businessmen, Tradesmen, and Artisans), until Poucet’s still unsolved 2001 murder.  Long considering himself a “neofascist” and admirer of Mussolini, Malliarakis evolved over the years toward classical liberalism.  Closing his bookstore, he became the director of a small publishing house, ”les Éditions du Trident,” and concerned himself with political and economic commentary.  Every other week he was host of the program ”Libre Journal” on Radio Courtoisie in Paris, until he left this position in 2007 as a result of disagreements with the station’s new directors.  He began doing internet audio commentary, called Lumière 101, that same year.

Jean-Gilles Malliarakis is the author of several books.

mercredi, 21 octobre 2009

Le nouveau rôle de la Turquie

610x.jpgLe nouveau rôle de la Turquie

 

Commentant les récentes négociations turco-arméniennes, menées sous l’oeil vigilant d’Hillary Clinton, le journaliste Stephen Kinzer écrit dans les colonnes de l’”International Herald Tribune”: “Depuis près de 86 ans qu’elle existe telle quelle en tant qu’Etat, la Turquie avait gardé un profil bas dans le monde. Ces jours-là sont finis. Maintenant, la Turquie cherche à jouer un rôle régional très ambitieux en tant que puissance conciliatrice, s’efforçant d’établir partout la paix. Lorsque les officiels turcs débarquent dans des pays cruellement divisés comme le Liban, l’Afghanistan ou le Pakistan, chaque faction cherche fébrilement à engager un dialogue avec eux. Il n’y a pas un pays au monde dont les diplomates sont autant les bienvenus, que ce soit à Téhéran ou à Jérusalem, à Moscou ou à Tbilissi, à Damas ou au Caire. En tant que pays musulman intimement lié à la région qui l’entoure , la Turquie peut se présenter partout, amorcer des partenariats et conclure des accords que ne peuvent conclure les Etats-Unis”.

 

Plus sceptique dans la suite de son article, Kinzer rappelle tout de même les défauts à la cuirasse turque: Chypre, le problème kurde, les persécutions larvées de toutes les minorités religieuses, chrétiennes ou non sunnites.

 

Kinzer: “Dans d’autres circonstances, l’Egypte, le Pakistan ou l’Iran auraient pu émerger en tant que leaders du monde islamique. Leurs sociétés, toutefois, sont faibles, fragmentées voire en voie de décomposition. L’Indonésie ferait un candidat hegemon plus plausible mais elle n’a aucune tradition historique en matière de leadership et est très éloignée du centre de la zone de crise du monde musulman. Reste donc la Turquie. Elle essaie de prendre ce rôle d’hegemon”.

 

Kinzer parle très  certainement le langage de Washington, qui a un besoin urgent de “proxy”, de mandataire, dans la région. Les accords turco-arméniens vont dans le sens des intérêts pétroliers américains. La Turquie a donc bien joué son rôle dans le Caucase-Sud. Et pour qu’elle continue à bien pouvoir le jouer, il faut créer artificiellement des diversions, des faux conflits où le “politiquement correct” est apparemment écorné, où l’idéologie officielle de l’Occident est  bafouée. D’où les incidents avec Israël à propos des manoeuvres aériennes et d’une série télévisée turque présentant Tsahal sous un jour fort glauque. Ces artifices servent, avec le néo-islamisme/néo-ottomanisme d’Erdogan et de Davutoglu, de leurres pour appâter les Arabes.

 

‘Source: Stephen KINZER, “A new role for Turkey”, in: “International Herald Tribune”, Oct. 16, 2009).

jeudi, 15 octobre 2009

Le faux accord turco-arménien de Zurich ne doit pas nous tromper

Le faux accord turco-arménien de Zurich ne doit pas nous tromper

Ex: http://www.insolent.fr/

091012L'accord diplomatique signé à Zurich le 10 octobre, en présence de Mme Clinton, entre les ministres des Affaires étrangères turc et arménien est présenté au monde comme une avancée historique.

Il ne fait pas novation, pourtant, par rapport à une observation patiente des actes concrets accomplis, année après année, par le gouvernement d'Ankara (1).

Faut-il relever par exemple qu'en 1959, il y a exactement 50 ans par conséquent, et en la même ville de Zurich étaient convenus les accords gréco-turcs supposés régler le problème de Chypre. Celui-ci, cependant, aujourd'hui encore attend son règlement, supposant le simple respect des droits d'un État souverain, reconnu comme tel par les Nations-Unies, membre lui-même de l'Union européenne, à laquelle son envahisseur prétend adhérer.

À l'époque la Grande-Bretagne faisait office de puissance tutélaire.

Le cabinet de Londres songeait, paraît-il, à préserver, – sans aucune considération pour les engagements donnés depuis des décennies, – à ses intérêts stratégiques et pétroliers, tant au proche orient qu'à l'est de Suez.

À peine déplacées dans leur localisation les mêmes préoccupations président aujourd'hui à la présence sur la photo de la très épanouie Mme Clinton, triomphatrice du jour. En accord avec M. Lavrov, son homologue russe, elle pourra croire assuré le transit du pétrole et du gaz d'Asie centrale.

Inutile de souligner que la question symbolique de la reconnaissance du génocide arménien de 1915 n'a toujours pas reçu de réponse positive de la part du grand diplomate Davutoglou. On la renvoie encore une fois à une réunion d'experts, vieille manipulation turque. Le caractère négationniste de cette sempiternelle proposition ne devrait pourtant échapper à personne. Le débat a déjà eu lieu, notamment au parlement européen, qui a reconnu le génocide arménien le 18 juin 1987. La remise en cause de ce vote devrait exclure de toute perspective européenne ceux qui s'y adonnent.

Est-ce à dire, dès lors, que rien ne change sous le soleil d'Anatolie ?

Bien au contraire. Il se passe en effet beaucoup de choses en Turquie, depuis les élections européennes de juin 2009. Et comme d'habitude les médiats hexagonaux, particulièrement lorsqu'ils se font les propagandistes de l'adhésion, n'en parlent que très peu. Ils ne pointent, de loin en loin, que de fugaces et fragiles apparences de rapprochements, espoirs de solutions, promesses de réformes. Ils ne daignent jamais en évaluer, pour éclairer leurs auditeurs et lecteurs, le caractère cosmétique sinon irréaliste.

Tout l'été par exemple une polémique s'est développée, en Turquie même, à propos de l'amplitude des réformes que le gouvernement allait proposer aux Kurdes, tout en écartant les révolutionnaires du PKK. Même les chefs militaires ont dû consentir, à l'inverse des dirigeants du parti kémaliste, la nécessité de certaines évolutions. Cela n'a pas empêché la cour pénale de poursuivre 4 des 20 députés du parti DTP, qualifié de "pro-kurde". On les convoque en décembre devant la 11e Chambre du Tribunal correctionnel d'Ankara pour des propos qu'ils auraient tenus lors de la campagne électorale de 2007 : leurs opinions supposées les fait tomber, en effet, sous le coup de l'article 14 de la constitution.

Ce texte dispose que :

"aucun des droits et libertés fondamentaux inscrits dans la Constitution ne peut être exercé dans le but de porter atteinte à l’intégrité indivisible de l’État du point de vue de son territoire et de sa nation…"

L'intention séparatiste, ou même la simple revendication de l'autonomie culturelle, le fait de parler sa langue maternelle, l'affirmation suspecte de l'identité, étant appréciée par les tribunaux, ce dispositif fait explicitement exception à l'article 83 de la même constitution qui protège, en principe, la liberté d'expression et assure l'immunité des parlementaires.

Le premier ministre Erdogan, dont l'habileté n'est plus à découvrir, est allé jusqu'à protester contre cette démarche de l'autorité judiciaire et à proposer que l'on révise ces articles 14 et 83.

Reconnaissons qu'il serait bien avisé de passer à l'acte et de ne pas se contenter d'effets d'annonce.

La grande affaire consiste en effet à rendre le dossier de candidature présentable, pour le rapport qui sera établi en novembre, en vue de la conclusion en décembre de la présidence suédoise, conjoncture la plus favorable depuis fort longtemps. Rappelons à ce sujet que le rapport annuel sur l'avancée des négociations entre Bruxelles et Ankara avait été particulièrement pessimiste en novembre 2008.

En fait on sait aujourd'hui que la majorité des responsables européens partagent l'hostilité à l’entrée de la Turquie dans l’Union européenne, mais que la plupart d’entre eux n’osaient pas publiquement le faire savoir.

Profitons de la circonstance pour donner des nouvelles des positions les plus récentes prises officiellement par notre sous-ministre Lellouche affecté aux Affaires européennes à propos du sujet qui nous préoccupe et qui nous sépare de cette surprenante personnalité qui n'hésite pas à se dire lui-même "l'ami" du négociateur turc Bagis.

Lors de son passage du 23 septembre 2009 devant la commission des affaires européennes M. Lellouche a sobrement déclaré :

"Quant à notre position sur la Turquie, elle n'a pas varié. Comme l'a précisé le Président de la République, nous voulons une Turquie avec l'Europe mais pas dans l'Europe."


Jolie formule. Bien balancée. Elle dit beaucoup de choses en peu de mot, y compris au sujet de l'alignement de M. Lellouche sur la diplomatie présidentielle.

Du point de vue que je développe dans mon petit bouquin "La Question turque et l'Europe" qui vient de sortir, se pose quand même la question de ce que veut dire "la Turquie avec l'Europe". (2)

Je constate que ce pays qu'on insiste à déclarer "ami" agit actuellement contre l'Europe. Vis-à-vis des 3 pays de l'Union qui lui sont limitrophes, elle développe avec arrogance de véritables tensions frontalières permanentes, des provocations militaires, des revendications territoriales. Vis-à-vis des 24 autres sa position n'en est pas moins conquérante et cynique. etc.

Plus prolixe sur le sujet lors de son audition, le 16 septembre 2009, par la Commission chargée des affaires européennes de l'Assemblée nationale, il avait détaillé cette position française, et la sienne, de la manière suivante :

"Reste le dossier, cher à plusieurs d'entre vous, de la candidature turque. La position française est sans ambiguïté : nous souhaitons ardemment entretenir et enrichir encore une relation bilatérale pluriséculaire avec nos amis turcs - je recevrai d'ailleurs demain soir le ministre d'État turc chargé de la négociation avec l'Union européenne, Egemen Bagis, qui est un ami personnel -, nous sommes favorables au lien le plus fort entre la Turquie et l'Europe, mais nous sommes opposés à l'adhésion de la Turquie à l'Union européenne. Le président Nicolas Sarkozy s'y était engagé avant son élection, et les Français ont approuvé ce choix. 'Nous sommes pour une association aussi étroite que possible avec la Turquie, sans aller jusqu'à l'adhésion' : c'est en ces termes qu'il s'était exprimé devant les ambassadeurs, en août 2007, au lendemain de son élection. Cette position n'a pas varié. Elle est celle du gouvernement, et je m'y tiendrai.
Nous avons accepté de poursuivre les négociations avec la Turquie sur les trente chapitres compatibles avec une issue alternative à l'adhésion ; en revanche, les cinq chapitres qui relèvent directement de la logique d'adhésion sont laissés de côté.
J'ajoute que, depuis ma nomination, j'ai rencontré de nombreux collègues européens ; la plupart m'ont confié qu'ils partageaient la position française, mais qu'ils ne pouvaient le dire publiquement."


Cette dernière confidence de M. Pierre Lellouche me semble décisive.

Pourquoi cette pusillanimité demandera-t-on ?

Individuellement les responsables politiques européens savent ce projet d'élargissement préjudiciable au projet commun, et même fondamentalement contraire aux objectifs que s'est assignés l'Union européenne.

Cet élargissement extravagant, les peuples n'en veulent pas. Le grand espoir turc, du point de vue des partisans de l'adhésion, reposait sur l'hypothèse le 27 septembre d'une victoire aux élections allemandes du parti social démocrate, lequel a recueilli 55 % des voix au sein des 600 000 électeurs d'origine turque, mais 23 % seulement des suffrages de l'ensemble des Allemands.

Le manque de courage, le manque de clarté, le manque de vision de nos dirigeants me semble justifier que l'on oppose à l'Europe des États, qui nous prépare sans le vouloir peut-être, comme inexorablement, l'entrée de l'État turc dans son club, l'Europe des peuples, la vraie.

JG Malliarakis


Apostilles

  1. Dès le lendemain de l'accord ça recommençait : "Ouverture des frontières entre la Turquie et l’Arménie : Erdogan pose ses conditions" cf. 20 Minutes du 11.10.09 à 15 h 38.
  2. Vign-questionturqueCe petit livre sur "La Question Turque et l'Europe" est paru ce 2 octobre. Conçu comme un outil argumentaire, contenant une documentation, des informations et des réflexions largement inédites en France, vous pouvez le commander directement au prix franco de port de 20 euros pour un exemplaire, 60 euros pour la diffusion de 5 exemplaires.
  3. Règlement
  4. par chèque à l'ordre de "l'Insolent" correspondance : 39 rue du Cherche Midi 75006 Paris.

ou sur le site des Éditions du Trident par débit sécurisé de votre carte bleue

mercredi, 05 août 2009

Géorgie: l'opposition veut un dialogue avec Moscou

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Géorgie: l’opposition veut un dialogue avec Moscou

 

Il n’y a rien de pire, pour un pays, puissant ou non, que de s’engager dans un “angle mort”  et d’y rester coincé. Car il n’en sort plus. Il lui est inutile d’attendre le bon vouloir de ses alliés: il doit se retrousser les manches et agir seul, se dépatouiller sans l’aide de personne. C’est le point de vue que semble avoir adopté le chef de l’opiniâtre opposition géorgienne, Irakli Alasania. Le 22 juillet dernier, il a accordé un entretien au quotidien russe “Kommersant” où il évoquait la nécessité de normaliser les rapports entre Moscou et Tbilissi. Il a déclaré: “C’est simple: il n’y a pas d’autre solution, il faut rétablir les relations russo-géorgiennes. Ni la Russie ni la Géorgie ne peuvent promouvoir une stabilité durable dans la région sans entamer un dialogue direct”.

 

Le jeune leader de l’opposition, qui est aussi le président du parti libéral-démocratique “Notre Géorgie”, est convaincu que, dans un avenir proche, il sera possible de négocier directement avec le Kremlin. Tout simplement parce que, comme il l’a dit, il n’y a pas d’autre solution.  Alasania est aussi l’un des candidats potentiels pour les futures élections présidentielles, quand Saakachvili ne pourra plus briguer de mandat supplémentaire. Pour Alasania, il serait idiot de commettre les mêmes erreurs impardonnables que son prédécesseur. Pendant ce temps, l’actuel gouvernement géorgien perd du crédit jour après jour et continue à hurler au scandale lorsque les autorités russes rendent une visite officielle, sans y être autorisées par Tbilissi, à la République indépendante d’Ossétie du Sud, jadis territoire géorgien. 

 

(article paru dans “Rinascita”, Rome, 23 juillet 2009, trad.  franç.: Robert Steuckers).

samedi, 25 juillet 2009

Les drônes géorgiens survolent l'Abkhazie

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Les drônes géorgiens survolent l’Abkhazie

 

 

La république indépendante d’Abkhazie, qui était auparavant une région autonome de la  Géorgie, ne trouve pas la  paix: des drônes envoyés par le gouvernement de Tbilissi recommencent à survoler continuellement  le territoire, a annoncé le 8 juillet dernier un communiqué du ministère abkhaze des affaires étrangères. D’après ce ministère, quatre de ces appareils télécommandés sont entrés dans l’espace aérien abkhaze. Si la Serbie avait envoyé des drônes au-dessus du Kosovo, tous aurait crié au scandale et décrété que Belgrade violait la souveraineté d’un Etat légitime. Deux poids, deux mesures.

 

(article paru dans “Rinascita”, Rome, 09  juillet 2009).

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lundi, 01 juin 2009

La diplomatie turque instrumentalise un Islam de faux semblants

La diplomatie turque instrumentalise un islam de faux semblants

090526Une inquiétude circule en ce moment sur la toile, à propos de l'ouverture d'un bureau de propagande islamique, pardon : d'information, à Bruxelles, par le gouvernement d'Ankara. Et, certes, on peut s'inquiéter des contrevérités que déversera cette structure en direction des gogos européens, sur la prétendue tolérance coranique et autres mythes.

Mais je crois nécessaire aussi d'attirer l'attention sur un autre aspect du marché de dupes que la diplomatie de ce pays entretient en instrumentalisant, à son profit, et toujours à sens unique, le fait religieux.

Ainsi, le chef de l'État turc M. Abdullah Gül s'est rendu en Syrie, du 15 au 17 mai en visite officielle. Sur l'étonnante photo du dîner protocolaire à Damas, on peut voir MM. Assad et Gül aux côtés de leurs deux épouses. Et bien évidemment celle qui arbore son foulard traditionnel islamique vient d'Ankara.

Ce signe, devenu totalement banal n'intéresse pas les médiats, sauf pour les plus radicaux, peut-être les moins aveuglés, à y voir une preuve supplémentaire des distances, que prend, avec la laïcité constitutionnelle de la république, le gouvernement de l'AKP.

Ce commentaire vient immédiatement à l'esprit. Il peut cependant contenir une illusion, et par conséquent un danger. De tout temps la puissance ottomane a su se servir de la religion mahométane : elle n'a jamais sacrifié à celle-ci le moindre de ses intérêts.

Et cela continua même sous un Mustapha Kemal. Si dégagé de l'influence des sultans, si méprisant de la religion ancestrale, il aurait proclamé un jour : "cette théologie putride rêvée par un Bédouin immoral est un cadavre qui empoisonne nos vies". (1) Mais il n'a pas répugné à confier à une administration, le soin d'organiser des prêches du vendredi dans toutes les mosquées, de tous les villages du pays, dans la langue de l'État, et non plus du Prophète, et en conformité avec les directives du gouvernement.

Aujourd'hui l'objectif du gouvernement de l'AKP, théorisé par l'expert Davutoglu dont on vient de faire un ministre, consiste à remettre en selle l'influence de la Turquie dans un proche orient arabe incapable de se structurer par lui-même ni de se fixer des objectifs réalistes dans son contentieux avec Israël.

En cela le passage de Abdullah Gül à la Banque islamique de développement en Arabie saoudite, de 1983 à 1991, va évidemment au-delà du symbole. Ses biographes insistent sur la rupture qui l'aurait séparé du chef historique de l'islamo-nationalisme turc, M. Necmettin Erbakan. Or celui-ci avait été évincé par l'armée en 1997 alors qu'il présidait un gouvernement de coalition. On n'a jamais trop explicité ce qui le rendait infréquentable et ce qui, à l'inverse, permet aux deux compères Gül et Erdogan, ses disciples d'alors, de passer, aujourd'hui, pour acceptables.

L'explication la plus probable me semble tenir au système d'alliance qu'impliquerait aux yeux des musulmans turcs leur appartenance solidaire à la communauté islamique.

Pour Erbakan, l'expression de celle-ci eût conduit à la rupture de l'alliance militaire avec Israël. Cela, l'État-major et le Conseil de sécurité nationale d'Ankara (MGK) ne pouvaient l'admettre.

Pour Gül et Erdogan, plus subtils, il s'agit de se présenter désormais comme les porte-parole naturels et traditionnels des peuples musulmans : les déclarations du Premier ministre en janvier à Davos puis en avril celles du chef de la diplomatie (2) allaient explicitement dans ce sens et le voyage de Damas le confirme. Et, au nom de leurs frères, les compères demanderont à l'État hébreu de faire un certain nombre de concessions, bref de se montrer plus "raisonnable" que pendant les 8 années de la présidence de GW Bush. Cette habile attitude va par ailleurs dans le sens des préoccupations actuelles du département d'État à Washington.

Je n'en retire pas cependant, bien au contraire, la conviction que, par cette démarche, la Turquie prouve son appartenance à la famille des nations européennes. Pour cette raison et pour plusieurs autres je ne crois pas sérieux de vouloir l'imposer au sein de l'Union européenne.

 

Apostilles

  1. J'avoue apprécier, de cette affirmation, la radicalité existentielle. Souvent citée, cependant, je ne lui ai jamais trouvé d'autres sources que la biographie de Kemal par Benoist-Méchin
  2. M. Ali Babakan, après un forcing qui indisposa les Européens, fut remplacé par M. Ahmet Davutoglu.
JG Malliarakis