La metafisica de "L’operaio" di Ernst Jünger
Luca CADDEO
Ex: http://www.centrostudilaruna.it/
Il progresso tecnico che ancora alla fine dell’800 sembrava condurre l’uomo ad un mondo più giusto e libero dal dolore, pareva mostrare, all’alba del secolo ventesimo, il suo terribile volto di Giano. Gli sfaceli della guerra e la povertà da essa cagionata producevano quelle ingiustizie che, nell’ottica marxista, e ben presto nazionalista e “fascista”, erano il prodromo, per certi versi contraddittorio, all’avvento della “rivoluzione”, fosse questa intesa come un ribaltamento dei rapporti di proprietà o come uno scardinamento del mondo liberale e borghese in previsione della costruzione di una comunità organica. Si iniziò a leggere la tecnica come il segno, se non la causa, della decadenza morale dell’uomo che preludeva al crepuscolo del mondo occidentale o almeno alla sua inevitabile “Krisis”. E’ assai in generale questa la cornice storica e sociale all’interno della quale l’allora celebre scrittore di guerra e giornalista politico Ernst Jünger pubblica, nel 1932, il saggio filosofico e metapolitico Der Arbeiter, Herrschaft und Gestalt (1).
Nelle pagine che seguono cercherò, da un lato, di evidenziare la portata propriamente metafisica del saggio esaminando la metafisica delle forme che ne costituisce l’impianto; dall’altra, avrò modo di rilevare come Ernst Jünger ne L’operaio non abbia l’intenzione di criticare la classe borghese per rinsaldarne, attraverso un artificio ideale, il potere; al contrario, secondo i miei studi, egli mette sotto accusa il borghese e il suo potere volendo, almeno teoricamente, contribuire alla costruzione di un modello metapolitico che, già a partire dai presupposti, si distingua nettamente sia dal liberalcapitalismo che dal collettivismo.
1. Forma e Tipo
Sfogliando L’operaio si ha la sensazione che temi di varia natura siano talmente e finemente interconnessi che appaia assai arduo procedere ad una de-composizione funzionale alla comprensione dei presupposti. Ad una lettura più attenta si “vede” invece perfettamente ciò che, nell’intento dell’acuto “sismografo”, si cela sotto la multiforme matassa. E’ utile a questo punto procedere alla illustrazione di quelli che mi sono sembrati i fondamenti metafisici del saggio del ’32.
Secondo Jünger esisterebbe un “solco” ineffabile definito di sovente eterno e immobile, di cui ogni forma (Gestalt) sarebbe il modo temporale. La Forma è una irradiazione (Strahlung) dell’Indistinto eterno ed immoto, è il modo tramite cui l’essenza numinosa della forma si fa tempo (2); la forma è un tutto che non si riduce alla somma delle sue parti (3). Ciò fa pensare che l’essenza della Gestalt non nasca e non muoia con gli elementi che ne garantiscono l’epifania, anche se il rapporto tra la forma e il suo evento è pressoché necessario (4). L’uomo non ha la possibilità di rappresentare la forma nella sua essenza, non la può cioè porre davanti a sé come un oggetto materiale o spirituale per poi misurarla razionalmente (5). Essa, in sé, è come l’Uno di Plotino (6). Ma l’uomo può “avvicinarsi” (7) alla forma vivendola, cioè incarnandola. Vivere la forma significa dis-porsi alla sovraindividualità che è la modalità grazie a cui la forma si appresta a dominare globalmente. L’uomo travalica la propria individualità facendo spazio al dipanarsi della forma, tras-formandosi in Tipo. La Forma si manifesta infatti nel tipo. Essa è il sigillo, dice Jünger, rispetto al tipo che è l’impronta (8).
Se la forma nelle sue vestigia mortali è una declinazione dell’eternità, il tipo deve, a mio avviso, essere considerato come la guisa temporale della forma. Esso infatti, in un certo senso, attualizza il Destino della Forma. Tale Destino, come suggerito dal titolo de L’operaio, è il Dominio della Forma. Un Dominio che, lo si diceva, non è parziale, che cioè non si espande in un solo piano della realtà, ma a livello del pensare, del sentire e del volere oltre che nello spazio tramite la tecnica e la distruzione che essa comporta. Nello scritto del 1963 Typus, Name, Gestalt si legge che “Tipo” è più di “individuo” nella stessa misura in cui è meno di “forma” (9).
La forma è più vicina all’Indistinto; il tipo, irradiazione della Forma, valicata l’individualità, spalanca le porte all’impersonalità. Questo discorso appare fin qui assai astratto. Per comprendere come effettivamente l’uomo, facendosi Tipo, possa rispecchiare totalmente la forma, è necessario riflettere sul linguaggio della manifestazione della forma. L’uomo infatti si fa tipo (forma nel tempo) praticando, in certo qual modo essendo, il linguaggio della forma. Divenendo tipo, e cioè qualcosa che supera gli esclusivi interessi della propria isolata individualità, si pro-pone al servizio dell’espansione totale della forma. Ora, a parere di Jünger, il linguaggio che la forma, tramite l’uomo, parla nell’epoca della “riproducibilità tecnica” (10) è naturalmente proprio quello della tecnica. Nel periodo de L’operaio la tecnica è un ingranaggio di questo sistema metafisico. Solamente tramite la tecnica infatti la forma può dominare in tutto il mondo. La tecnica è, in altri termini, il modo più efficace tramite cui la Forma può dominare totalmente.
2. L’elementare
Prima di procedere all’analisi del nesso che fonde inestricabilmente, nel pensiero di Jünger, la tecnica alla forma, è bene riflettere su un altro tema che è parimenti inserito nell’impianto metafisico di cui si discute. Mi riferisco alla nozione di “elementare” che, almeno in parte, costituisce uno degli argomenti più “attuali” del pensiero di Jünger (11). Ne L’operaio l’elementare è, da un certo punto di vista, una forza imperitura, sempre uguale a se stessa, ma imprevedibile, poco misurabile, refrattaria al calcolo della ragione strumentale, malamente oggettivizzabile; è dunque un’energia primordiale che non si riduce né all’uomo né alle sue leggi, morali o scientifiche che siano. L’elementare agisce sia come irrefrenabile forza naturale (inumana potenza dei quattro elementi naturali), sia nell’uomo come moto profondo dell’anima impossibile da ponderare, razionalizzare, cattivizzare. Secondo Jünger l’energia del cosmo è sempre uguale a se stessa. Risulta allora perfettamente inutile, anzi assai pericoloso, relegare nell’irrazionale le energie elementari che, in un modo o nell’altro, necessariamente troveranno una valvola di sfogo. Più vengono contratte, più aumenta la loro carica esplosiva, dirompente, agli occhi dell’uomo, terribile. Il borghese porterebbe avanti proprio questo tentativo: piegherebbe l’elementare all’assurdo o, al massimo, all’eccezione che conferma la regola della razionalizzabilità del tutto. A parere del borghese tutto ciò che non può essere ricondotto alla ragione strumentale e alla morale utilitaria deve essere per forza assurdo, dunque irrazionale; l’elementare è così, nell’ottica dell’uomo moderno, destinato ad essere s-piegato, calcolato. Il motivo di questa operazione matematica (12) è per Jünger essenzialmente uno: la paura. L’uomo moderno ha infatti come fine la sicurezza che, insieme alla comodità e all’aponia, vede come il presupposto della sua felicità. L’elementare introduce l’uomo nello spazio del pericolo e dunque lo apre all’esperienza inspiegabile, ma endemica all’umano, del Dolore (13). Crea così le premesse per lo sconvolgimento dell’ordine morale e sociale mettendo a repentaglio la sicurezza che, come si è detto, sarebbe il valore più caro all’uomo borghese. La contraddizione, la sofferenza, la violenza, ma anche la temerarietà, l’entusiamo eroico, fanno parte del sottobosco a cui l’elementare, secondo Jünger, dischiude l’animo umano. Il borghese crede che grazie al progresso, anche tecnico, la società umana possa un giorno pervenire alla costruzione di un paradiso terrestre in cui l’uomo universale, dotato di diritti inalienabili, possa essere rispettato in quanto tale; un paradiso terrestre da dove possa essere bandito il pericolo, il dolore. Jünger contesta l’equazione razionalità-borghese=razionalità. Quella borghese è infatti, ai suoi occhi, una forma di razionalità che strumentalizza ogni fenomeno alla sicurezza e alla comodità dell’uomo. Una forma di ragione che, dopo averlo oggettivizzato, fa di ogni ente un mezzo per raggiungere una forma di felicità terrena che risulterebbe riduttiva, poco appropriata alla grandezza destinale che l’uomo in passato sarebbe stato in grado di incarnare. Nel sistema jüngeriano l’elementare riveste quasi la funzione che in una macchina ha il carburante. E’ infatti l’energia del sistema, è una forza tellurica e immortale che agisce in sintonia con la Forma facendola muovere nello spazio, cioè consentendole di essere nel tempo. Ritornando allo schema generale: così come il tipo permette alla forma di esistere nello spazio, l’elementare permette alla forma di muoversi in esso e dunque, in virtù del legame che tradizionalmente stringe lo spazio col tempo, di essere tempo, cioè fenomeno, evento, Destino. L’Operaio sarebbe capace di scorgere l’elementare nella sua “realtà” senza giudicarlo e “castrarlo”. Non lo relega all’assurdo, ma cerca di amplificarne le potenzialità in vista del Dominio della Forma. Il modo più appropriato che questo eone della Forma ha per liberare la potenza di cui la Forma abbisogna è la tecnica. La tecnica, come è stato accennato e come verrà ribadito, non solo è il tramite che trasforma l’uomo in tipo, ma permette all’elementare di manifestarsi in tutto il suo vigore. La tecnica è dunque rigorosamente innestata nella metafisica elaborata da Jünger, essa appare, ne L’Operaio, come un suo meccanismo imprescindibile (14).
3. La tecnica
La tecnica è “la maniera in cui la forma dell’operaio mobilita il mondo” (15). L’Operaio è così quella Forma che mobilita il mondo tramite la tecnica. Heidegger commenta che allora la tecnica coincide con la mobilitazione -totale- del mondo attuata dalla forma dell’Operaio (16). Alain de Benoist, rifacendosi al saggio del 1930 intitolato Die Totale Mobilmachung, fa presente come ”mobilitare”, nel gergo di Jünger, non significhi solo mettere in movimento, ma vorrebbe indicare anche “essere pronto, rendere pronto”, Alain De Benoist aggiunge, “alla guerra” (17). Mobilitare può significare essenzialmente rendere qualcosa disponibile per qualcos’altro: la mobilitazione del mondo appresta il mondo alla conquista totale della Forma del Lavoro. La mobiltazione va da un lato di pari passo con la distruzione e si realizza nello spazio con la tecnica bellica (18); da un altro lato, già nella sua opera di demolizione, prepara il terreno per la parusia di una nuova Figura e innesca il meccanismo necessario affinché il nuovo Dominio della Forma si realizzi. Come si diceva, il tipo umano è altro dall’individuo. Ora, l’uomo si fa tipo tramite la tecnica, la quale incide sull’essenza dell’uomo grazie alla messa in moto di radicali processi spersonalizzanti che aprono l’individuo alla uni-formità e dunque alla sovra-individualità (19).
Perché lo strumento tecnico possa essere ad-operato dall’uomo, è necessario che questi faccia propria precisamente la razionalità strumentale. Se infatti l’uomo adotta la tecnica come strumento, non ha bisogno di mettere in gioco tutte quelle qualità che lo distinguono dagli altri uomini. Secondo una tradizione di pensiero che si impone già prima di Jünger (Sorel, Spengler, Ortega, Guénon) e che, dopo L’operaio, prosegue, seppur all’interno di concezioni filosofiche assai differenti, tramite Heidegger, Adorno, Arendt e molti altri, il mezzo tecnico (e la conoscenza come dominio) richiede esclusivamente la capacità meccanica e la razionalità sufficiente a farlo funzionare. Il funzionamento dello strumento sembra il fine del processo tecnico. L’uomo stesso appare come un ingranaggio finalizzato al funzionamento del mezzo che, alla stregua di un circolo vizioso, ha come fine la mera funzionalità. Capiamo così come, all’improvviso, l’uomo col suo retaggio di esperienze personali, qualità irripetibili, particolarità, ma anche “razza” (20), differenza etnica, conti poco. E’ invece importante l’esercizio della ragione che, prendendo in prestito la terminologia di Heidegger, definiamo “rappresentativa”. Il Tipo ergendosi a fondamento, a misura del mondo, pone il mondo medesimo davanti a sé come un oggetto. Il mondo è in quanto può essere misurato, forzato al metro umano. Il mondo è, ha valore (è valore, “immagine”) in quanto è strumentale al dominio del Tipo. Conoscere significa dunque misurare, cioè matematicizzare, pre-vedere, mobilitare, indirizzare al dominio (21). Il metro di valutazione del mondo è l’oggettivazione dello stesso ai fini della sua utilizzazione e la conoscenza in quanto tale, laddove si fa tecnica, è dominio. Questo processo è talmente radicale che, a un certo momento, pare che la tecnica come strumento, da mezzo si tramuti in fine e che, dunque, il fine del mobilitare sia strumentalizzare e utilizzare il mondo in vista del dominio. Il fine del mobilitare sembra il mobilitare (22). Il mezzo dell’uomo piega a sé l’uomo.
L’uomo che inizialmente crede di perseguire tramite la tecnica (strumento da lui inteso in senso neutrale) la felicità (la tecnica si propaga facilmente e velocemente e ingenera l’illusione che tramite essa si possa superare il dolore), poi diventa parte del dispositivo che accende.
La spersonalizzazione che la tecnica introdurrebbe prelude al totale oltrepassamento del modo che sino a quel momento, secondo Jünger, si aveva di interpretare la libertà intesa come “misura il cui metro campione venga fissato dall’esistenza individuale del singolo” (23). L’uomo è parte di un processo dove perdono di importanza le qualità e la vita del singolo, dove, come si diceva, risulta fondamentale rendere il mondo funzionante per lavorarlo in vista della produzione, cioè della mobilitazione. Il lavoro, mezzo che la forma utilizza per piegare a sé il mondo, si propaga in ogni settore della vita (24). Si riduce lo spazio che divide i sessi e quello che divide il lavoro in senso proprio dall’ozio; anche lo sport diventa lavoro; ogni cosa tende ad assumere una forma tipica e incarna lo stesso severo, freddo, ascetico stile. Farsi tipo tramite la tecnica significa dunque attualizzare tutta una serie di proprietà che rendono l’uomo adeguato al dominio della forma. Il dominio della forma nel tempo attuale si appaleserebbe così tramite segni inequivocabili che sono una conseguenza diretta dell’uso della tecnica e della mentalità che tale uso esige. Si fa strada una “rigidita’ da maschera” nel volto rasato del soldato, nella sua espressione glaciale e precisa, che non tradisce una differenza psicologica né alcun umano sentimento, ma che mostra una volontà oggettiva, impersonale, automatica, meccanica. L’uniforme fa la sua comparsa in ogni ambito della vita, gli operai assomigliano così ai soldati e i soldati sono operai. La cifra acquista la sua imprescindibile importanza in ogni settore dell’organizzazione statale, si fa strada l’anonimato, la ripetizione (che sostituisce la borghese irripetibilità, eccezionalità), garantisce la sostituibilità di un operaio con un altro. La quantità prevale sulla qualità.
Fin qui pare di leggere una critica alla tecnica e alla ragione che potremmo trovare in molti altri autori in quel tempo (25). Ma Jünger sembra essere originale proprio in quanto, dopo aver individuato le trasformazioni che la tecnica produce sull’uomo, non cede alla tentazione di condannare i mutamenti epocali di cui si è detto. Che l’uomo pensi di poter restare indenne da questi processi totali è infatti, a suo avviso, un’illusione. Egli, che si voglia o no, ne è mutato profondamente. Questa tras-figurazione distrugge negativamente l’individuo borghese; l’Operaio invece, consapevole della necessità dei processi in atto, sacrifica eroicamente i propri desideri contingenti e, nel Lavoro, considerato alla stregua di una missione rivoluzionaria, perviene alla coscienza di partecipare al Destino della Forma assurgendo a vessillo, “geroglifico” del suo totale Dominio. L’essenza della tecnica dunque, come dirà Heidegger, non sarebbe nulla di tecnico ma di nichilistico (26). Essa demolisce ogni vincolo e ogni consuetudinaria misura in quanto costringe ogni ente al suo utilizzo. Le cose perderebbero così il valore armonico, tradizionale, sacrale, cultuale che avevano e diventerebbero oggetti da dominare e da utilizzare facilmente e velocemente. Il fatto che il mobilitare appaia come un mezzo finalizzato al medesimo e cieco mobilitare, è appunto una apparenza che s-vela l’alto livello a cui la tecnica approda nella sua opera di conquista totale. In verità, il mobilitare finalizzato al mobilitare è, nel pensiero che si analizza, esattamente l’”astuto” modo che la Forma attualmente adotta per raggiungere il proprio Dominio. Il protagonista del mobilitare, il suo fine, non è infatti, contrariamente alle apparenze, in ultima istanza, il mobilitare, ma la vittoria totale della nuova Forma. Per questo Jünger distingue chiaramente tra fase dinamico-esplosiva (“paesaggio da officina”) e Dominio della Forma dell’Operaio. La prima è necessaria al secondo, ma il secondo conclude, nel suo compiersi, la fase “anarchica” in cui il mobilitare si esprime in modo tanto potente da ingenerare la credenza che il suo fine sia solo e soltanto la propria cieca, distruttiva e totale manifestazione (27). In questo processo totale, antikantianamente (28), l’uomo scoprirebbe la sua dignità, o, facendo nostro un gergo appropriato allo spirito del tempo in cui Jünger scrive, il suo “onore”, proprio nel trasformarsi in mezzo della manifestazione della forma. La tecnica è così esaltata precisamente perché tras-forma l’uomo da fine isolato a mezzo organico. L’Operaio risulta, nello spirito e nel corpo, glorificato, per così dire, alchemicamente risorto nella Forma.
4. Metapolitica
Questa analisi ci permette di planare dall’orizzonte metafisico a quello metapolitico. Jünger non condivide il presupposto che starebbe alla base del modello economico proposto dalla società liberal-capitalista, secondo cui la felicità e il benessere di una nazione si ottiene tramite la soddisfazione economica degli individui (atomi) che compongono la stessa società (29).
L’idea per la quale soddisfare i propri esclusivi interessi conduca alla felicità della nazione, è fermamente rifiutata da Jünger. Egli ritiene che l’interesse privato debba essere garantito nell’alveo degli interessi sovraindividuali dell’organismo comunitario. Fondare una ideologia che a partire dalla metafisica, tramite l’interpretazione altrettanto metafisica della tecnica, attacchi nei fondamenti l’individuo e la sua idea di libertà, significa chiaramente avere come bersaglio il liberalismo che sull’individuo e sulla tutela dei suoi diritti basa la propria dottrina. I rivoluzionari conservatori si sentivano “vitalisti” proprio nel senso che aderivano nichilisticamente alle contraddizioni della realtà, specialmente laddove queste conducevano alla demolizione dell’apparato politico ed ideologico delle classi dominanti (30). Essi ambivano ad una distruzione da cui potesse originarsi un nuovo gerarchico Ordine e una nuova forma di partecipazione politica. La stessa nozione di forma come qualcosa che non si riduce alla somma delle sue parti, trova riscontro in una comunità politica che non esaurisce la sua essenza nell’addizione dei singoli che la costituiscono. La comunità organica, come la forma, è altro dalle sue parti, è “un altro che si aggiunge”, un di più a cui non si arriva tramite la mera somma di vari elementi. Così l’agire, il pensare e il sentire degli individui non sarebbero in questo contesto finalizzati al possesso della felicità personale, ma al “bene”, alla potenza della comunità che trascende la somma.
Al tempo de L’Operaio la distruzione bellica, grazie alla tecnologia, assunse un livello mai raggiunto fino a quel momento, le lotte sociali si fecero, a causa della misera condizione della classe operaia, ma anche in virtù della diffusione della ideologia marxista, dell’avanzata dei partiti socialisti e dei sindacati, proporzionali all’industrializzazione e alla mobilitazione dei materiali (umani e non) in vista del dominio delle nazioni più sviluppate. Nel dopoguerra, specialmente a causa dell’inflazione e della fortissima svalutazione della moneta, buona parte della classe media perse ogni sua sicurezza e si produssero licenziamenti a catena nelle fabbriche; vari movimenti di destra e di sinistra e altri che si collocavano esplicitamente al di là di questi due cartelli ideali, ottennero così il favore della popolazione stremata dalla crisi economica. Se a ciò si aggiunge la polemica nazionalista contro i firmatari della pesante e probabilmente iniqua pace di Versailles, si capisce come il clima politico e sociale fosse confacente all’avanzata di partiti “radicali” che vedevano nella classe liberale al potere la responsabile dello sfacelo economico e politico della Germania. In un orizzonte in cui il “nuovo nazionalismo”, a cui Jünger aderisce già a partire dalla fine della Prima guerra mondiale, otteneva sempre più consensi, la metafisica delle Forme avrebbe potuto dunque acquistare un significato morale-politico: il superamento del concetto di individuo, negli intenti di Jünger, avrebbe potuto condurre alla creazione di un “Uomo nuovo” che fosse pronto a donare la propria vita e ad immolare i propri desideri per la potenza dello stato organico, per il risanamento totale “patria umiliata”. Nel pantano ideologico della Repubblica di Weimar questa metafisica politica poteva dunque servire, agli occhi del pensatore, a costruire un’etica che ponesse l’uomo in grado di salvarsi, anche a costo di profondi sacrifici personali, dalla grave crisi in cui versava buona parte delle nazioni europee in quel tempo. Il modernismo reazionario, di cui Jünger è “l’idealtipo” (31), ha un preciso fine politico che è chiaro al pensatore tedesco ben prima della stesura de L’operaio: “Chi potrebbe contestare che la Zivilisation è più intimamente legata al progresso della Kultur, che nelle grandi città essa è in grado di parlare la sua lingua naturale e sa utilizzare mezzi e concetti nei cui confronti la Kultur è indifferente o addirittura ostile? La Kultur non si lascia sfruttare a scopi propagandistici, e un atteggiamento che cerchi di piegarla in questo senso non può che esserle estraneo (…)” (32). Jünger crede che il “cupo ardore” che spinse migliaia di giovani ad andare in guerra gridando “per la Germania” offerto ad una nazione “inesplicabile e invisibile”, per quanto fosse bastato a far “tremare i popoli fino all’ultima fibra”, non potesse essere sufficiente per sconfiggere nazioni come quella statunitense che si erano rese disponibili alla mobilitazione totale di tutte le loro energie. Da qui la domanda retorica e assai significativa: “E se soltanto (il cupo ardore di cui si è detto) avesse avuto fin dal primo momento una direzione, una coscienza, una forma?” (33). Il fine politico de L’operaio può allora essere così inteso: creare le premesse metafisiche, dunque “kulturali”, ideali affinché l’ entusiasmo eroico potesse essere veramente efficace, cioè vincente. Jünger si è reso conto non solo del potere ineguagliabile degli strumenti tecnici applicati alla guerra, ma anche della necessità di trasformare la mentalità della nazione nella direzione della mobilitazione totale. Tale mobilitazione implica la fusione della vita col lavoro. Egli cioè pensa che solo se tutto diventa lavoro, tutto viene mobilitato alla potenza e dunque alla vittoria della Germania. Perché ciò accada è necessario che ogni cosa venga piegata allo strumento tecnico. La società diventa “lavoro” se prima è diventata macchina, tecnica. La Kultur tradizionalmente intesa non basta a questo che è chiaramente inteso come uno scopo epocale. C’è bisogno di una Zivilisation che non contraddica la Kultur ma che ne garantisca la vittoria reale. L’operaio ha l’obbiettivo eminentemente politico di sintetizzare la Kultur con la Zivilisation, in qualche modo di rendere culturale e politica la civilizzazione e di civilizzare, “modernizzare” la Kultur (34). Jünger contesta in maniera netta l’individualismo negli articoli scritti tra il 1918 e il 193335e, se si nota che L’operaio è del 1932, lo scritto può essere inteso in senso meramente apolitico molto difficilmente. Gli Operai, nel libro del ’32, sono uomini d’acciaio, incarnazione di un’etica oggettiva -realista-, che ha come fine il dominio della Forma del lavoro, e dunque il lavoro totale in ogni settore della produzione e dell’esistenza. L’individuo borghese che, in questa parabola di pensiero, ha come obbiettivo la comodità e la sicurezza, non sarebbe adatto a rappresentare senza rimpianti e con assoluto rigore un’etica che preveda la rinuncia alle proprie contingenti aspirazioni, alla propria esclusiva e “materiale” felicità. D’altra parte, non sarebbe adatto ad incarnare una simile etica neppure il “proletario” che si sente umiliato e combatte per migliorare le condizioni della sua classe e per ribaltare i rapporti di proprietà. Questi infatti lotta per gli interessi di una parte della nazione e ha un fine, che, dal punto di vista jüngeriano, resta sociale ed economico. L’Operaio invece, come si diceva, non bada al miglioramento della propria condizione economica, non ambisce ad impossessarsi dei mezzi di produzione né crede agli ideali di uguaglianza nei quali, seguendo la tradizione marxiana, il proletario dovrebbe credere. L’Operaio jüngeriano è al servizio della Forma e del suo Dominio; a questo servizio sacrifica ogni sua aspirazione, personale o di classe.
Secondo Jünger, si deve lavorare in primo luogo sullo spirito umano per poter ambire almeno ad una parziale rinascita. Il superamento dell’individualità è da Jünger perseguito tramite gli effetti distruttivi della tecnica che, in altri pensatori, sia di destra che di sinistra, sono abborriti in ogni senso. Jünger, nel periodo de L’operaio, ritiene puerili e dannose le tesi di chi pensa che la tecnica sia di per sé uno strumento del Male, qualcosa rispetto a cui l’uomo si sarebbe posto come un inesperto “apprendista stregone” che non è più in grado di controllare le dinamiche innescate dai suoi esperimenti (36) e, allo stesso modo, non ritiene che l’uomo possa divenire buono, giusto e dunque felice. In ogni quadro epocale domina un tipo di Forma che impregna tutto di sé; ogni cosa in un dato ciclo ha lo stile della forma che domina. Il ciclo sorge in quel periodo definito Interregno (37). L’Interregno è nietzscheanamente quel torno temporale in cui i vecchi valori non sono ancora morti e quelli nuovi che scalpitano non hanno ancora conquistato lo spazio necessario al Dominio. Accade così che alla fine di un ciclo le vecchie forme e i valori fino a quel momento dominanti si svuotino pian piano dal loro interno. Che i valori si s-vuotino significa che perdono la loro essenza di valori; il valore è ciò intorno a cui e grazie a cui l’uomo costruisce il suo senso. Alla fine di un ciclo i valori sono ancora formalmente intatti, il loro involucro è integro, splendente; ma perdono di sostanza: non sono più in grado di orientare la vita dell’uomo, è come se il loro corpo fosse ancora monoliticamente visibile a tutti, ma stesse perdendo il proprio vigore, il proprio potere di movimentare l’uomo e con esso il mondo. E’ così che in questo vuoto assiologico ed ontologico si insinuano nuove forze che aprono lo spazio al dominio inarrestabile di nuove forme. In siffatta dinamica di s-vuotamento delle forme che coincide con un nuovo riempimento, opera la tecnica. La tecnica si insinua in ogni dove, nello spazio e nello spirito, inizialmente come uno strumento puro, assolutamente neutro, grazie a cui l’uomo può vivere più comodamente; attraverso cui ha sempre più l’illusione di esorcizzare, depotenziare il dolore e tramite cui, giorno dopo giorno, trasforma la propria vita. Più l’uomo si innamora del suo strumento, più viene risucchiato nei suoi ingranaggi oggettivizzanti di cui sopra si è detto. La tecnica secondo Ernst Jünger risulta pericolosa proprio là dove si ignora il suo potere necessariamente distruttivo. Risulta pericolosa se la si valuta superficialmente come uno strumento neutrale che l’uomo può con la sua ragione utilitaria piegare ai suoi interessi e alla sua oggettiva felicità restandone essenzialmente immune. Ma risulta pericolosa anche là dove si tenti di negarla rifugiandosi in anacronistici sentimenti romantici. In altri termini, agli occhi dello Jünger del 1932, la tecnica è positiva solo se si è consapevoli del fatidico ruolo metafisico che riveste, se si accetta di intraprendere attraverso il suo utilizzo un percorso e-sistenziale che conduca al superamento dell’io, e se, quasi come si trattasse di una catarsi ontologica, attraverso questo superamento ci si renda poveri contenitori della Forma e del suo fatale Dominio.
Note
1 Der Arbeiter, Herrschaft und Gestalt appare nell’ottobre del 1932 presso Hanseatische Verlagsanstalt (Hamburg). Nello stesso anno si hanno tre nuove edizioni del saggio. Dopo la guerra, Heidegger convince Jünger a ripubblicare il saggio che infatti compare nel sesto volume delle sue opere uscite presso Klett-Cotta a Stoccarda. L’opera è tradotta in italiano solo nel 1984 da Quirino Principe (L’operaio, trad. it., Longanesi, Milano 1984.) dopo che, agli inizi degli anni ’60, Julius Evola la fece conoscere nel riassunto analitico intitolato L’operaio nel pensiero di Ernst Jünger, Armando, Roma 1961. Delio Cantimori preferì tradurre la parola Der Arbeiter con “milite del lavoro” per sottolineare il carattere guerriero della nuova figura (Cfr., Delio Cantimori, Ernst Jünger e la mistica milizia del lavoro, in Delio Cantimori, Tre saggi su Ernst Jünger, Moller van den Brück, Schmitt, Settimo Sigillo, Roma 1985, pp. 17-43.).
2 Qualora le forme, nel loro aspetto fenomenico, non fossero soggette all’annientamento, non si potrebbe agevolmente spiegare la differenza fra un ciclo caratterizzato dal dominio di alcune forme e un altro contraddistinto da forme diverse. Ci fossero sempre le stesse forme cosa muterebbe all’alba di un nuovo ciclo? La valorizzazione di questa dottrina tradizionale giustifica insieme ad altre importanti somiglianze un parallelo fra la metafisica di Jünger e quella a cui si richiamano Evola, Guénon ed in parte Eliade. In particolare, risulta interessante un confronto fra i segni che secondo questi autori caratterizzano il Kali Yuga (L’età Oscura, l’ultima età prima della fine di questo ciclo cosmico) e i segni che, ne L’operaio e in altre opere di Jünger, contraddistinguono l’“Interregno” in cui sorge ed agisce la Forma dell’Operaio. In questo senso, è assolutamente importante anche un paragone con Spengler per il quale si rimanda a: Domenico Conte, Jünger, Spengler e la storia, in A.A. V.V., in Ernst Jünger e il pensiero del nichilismo, a cura di Luisa Bonesio, Herrenhaus, 2002, pp. 153-198; Luciano Arcella, Ernst Jünger, Oltre la storia, in Due volte la cometa, Atti del convegno Roma 28 ottobre 1995, Settimo Sigillo, Roma 1998. Antonio Gnoli e Franco Volpi, I prossimi titani, Conversazioni con Ernst Jünger, Adelphi, Milano 1997, pp. 103, 104. Si veda anche Julius Evola, Spengler e il Tramonto dell’Occidente, Fondazione Julius Evola, Roma 1981. Sulla interpretazione jüngeriana del pensiero di Spengler si legga soprattutto: Ernst Jünger, trad. it., Al muro del tempo, Adelphi, Milano 2000.
3 “Nella forma è racchiuso il tutto che comprende più che non la somma delle proprie parti”. Ernst Jünger, trad. it., L’Operaio, Dominio e Forma, Guanda, Parma 2004, p. 32. “Una parte è certamente così lontana dall’essere una forma così come una forma è lontana dall’essere una somma di parti”. Ibidem.
4 Jünger definisce la storia dell’evoluzione come “il commento dinamico” della forma. Cfr., Ernst Jünger, L’operaio, cit., p. 75. La forma dunque “non esclude l’evoluzione”, la “include come proiezione sul piano della realtà”. Ivi, p. 125. Ciò implica l’avversione non solo alla dottrina del progresso (“ogni progresso implica un regresso”), ma il rifiuto netto di ogni prospettiva storicistica: “La storia non produce forme, ma si modifica in virtù della forma”, ivi. p. 75. Evola commenta: “Le figure non sono storicamente condizionate; invece sono esse a condizionare la storia, la quale è la scena del loro manifestarsi, del loro succedersi, del loro incontrarsi e lottare (…). E’ l’apparire di una nuova figura a dare ad ogni civiltà la sua impronta. Le figure non divengono, non si evolvono, non sono i prodotti di processi empirici, di rapporti orizzontali di causa e di effetto”. Julius Evola, L’operaio nel pensiero di Ernst Jünger, cit., p. 32. Si potrebbe allora sostenere con Eliade che la “valorizzazione” dell’esistenza umana non è “quella che cercano di dare certe correnti filosofiche posthegeliane, soprattutto il marxismo, lo storicismo e l’esistenzialismo, in seguito alla scoperta dell’ “uomo storico”, dell’uomo che si fa da se stesso in seno alla storia”. Mircea Eliade, Il mito dell’eterno ritorno, Archetipi e ripetizioni, Borla, Roma 1999, p. 8. Questa impostazione è molto simile a quella jüngeriana, infatti l’Operaio come Gestalt non può essere considerato un prodotto delle dinamiche storico-economiche. E’ la Forma a fare la storia, non viceversa.
5 Usando il linguaggio heideggeriano si può sostenere che la forma non può essere piegata alla scienza intesa come “ricerca”: “La scienza diviene ricerca quando si ripone l’essere dell’ente” nell’ “oggettività”. Cfr., Martin Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, in id. Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1984, p. 83. La Forma non può essere oggettivizzata, non se ne può fornire una storia dettagliata né, tantomeno, se ne può calcolare in anticipo e con esattezza il corso futuro.
6 Plotino distingue l’essere che è costituito da forme sensibili e intelligibili dall’Uno che può essere considerato amorfo: “L’Uno non è “qualcosa”, ma è anteriore a qualsiasi cosa; e nemmeno non è essere, poiché l’essere possiede (…) una forma, la forma dell’essere. Ma l’Uno è privo di forma, privo anche della forma intelligibile”. Plotino, Enneade VI, in Plotino, Enneadi, Rusconi, Milano 1992, p. 1343. L’Uno “privo di forma” non può essere conosciuto “né per mezzo della scienza né per mezzo del pensiero”. Chi estaticamente ha “visto” o meglio è “stato” (è) l’Uno “non immagina una dualità, ma già diventato altro da quello che era e ormai non più se stesso, appartiene a Lui ed è uno con Lui”. L’Uno non può essere oggettivizzato. L’oggettivazione si fonda infatti sulla distanza e sulla differenza tra il soggetto che oggettiviza e l’ente oggettivizzato. Qualora ci fosse la distanza tra chi contempla l’Uno e l’Uno, quest’ultimo non si potrebbe cogliere come tale ma come “un altro”. Contemplare l’Uno significa farsi riempire dall’Uno, essere Uno. Stabilito ciò, si capisce come l’esperienza dell’Uno non possa essere adeguatamente raccontata. Manca infatti l’oggetto da ricordare. Ne L’operaio la tecnica è il modo attraverso cui l’uomo, superando la propria differenza, si avvicina a rappresentare la Forma che lo trascende.
7 Il concetto di “Avvicinamento” che scopriamo nel saggio del 1963 Tipo Nome Forma viene ripreso nello scritto del 1970 Avvicinamenti, Droghe ed ebbrezza: “L’avvicinamento è tutto, e questo avvicinamento, non ha uno scopo tangibile, uno scopo cui si possa dare un nome, il senso risiede nel cammino”. Ernst Jünger, Avvicinamenti, Droghe ed ebbrezza, Guanda, Parma 2006, p. 53.
8 “(…) nel regno della forma la regola non distingue tra causa ed effetto, bensì tra sigillo ed impronta, ed è una regola di tutt’altra natura”. Ernst Jünger, L’operaio, cit., p. 31.
9 “Il predicare della natura (…) muove dall’oggetto (il giglio indicato), attraverso il tipo (il giglio nominato), alla forma e infine all’indistinto”. Le risposte divengono sempre più ampie e, nel contempo, si riducono le distinzioni. Questa riduzione è il segno dell’avvicinamento all’Indistinto”. Ernst Jünger, Tipo, Nome, Forma, trad. it., Herrenhaus, 2001, p.93.
10 La perdita dell’aura nell’epoca della riproducibilità tecnica è un elemento che Benjamin giudica, al contrario di Adorno e di Horkheimer, funzionale alla possibilità di una rivoluzione sociale. Paradossalmente Jünger, che da Benjamin è stato aspramente criticato in relazione al suo scritto Die Totale Mobilmachung, nella dura recensione Teorie del fascismo tedesco, ritiene anch’egli fatale il sacrificio dell’autenticità dell’arte a favore del suo “uso” rivoluzionario. Naturalmente le prospettive sono opposte in quanto, alla stregua di Lukács (cfr. György Lukács, La distruzione della ragione, Einaudi, Torino 1959, p. 538.), gli “incatesimi runici” di Jünger sarebbero, secondo Benjamin, tesi al rafforzamento di una “classe di dominatori” che “non deve rendere conto a nessuno e meno che mai a se stessa, che, issata su un altissimo trono, ha i tratti sfingei del produttore, che promette di diventare prestissimo l’unico consumatore delle sue merci”. Walter Benjamin, Teorie del fascismo tedesco, in id., Benjamin, Critiche e recensioni, Tra avanguardie e letteratura di consumo, trad. it., Einaudi, Torino 1979, p. 159. Dunque, la rivoluzione di Jünger e dei suoi sodali nazional-rivoluzionari, sarebbe tesa “ideologicamente” a rafforzare lo status quo, cioè lo stato liberalcapitalista e i privilegi dei “padroni”. Secondo i miei studi, Ernst Jünger non critica falsamente (“ideologicamente”) la classe borghese per amplificarne paradossalmente il potere. Egli non ha il fine di favorire lo status quo. Nel corso dell’articolo avrò modo di ribadire come le posizioni di Jünger sono equidistanti sia dal materialismo collettivista sia dall’utilitarismo borghese.
11 Secondo Daniele Lazzari: “Siamo stati persuasi da quasi tre secoli di illuminismo che il pensiero moderno avrebbe piegato le forze elementari ormai scientificamente conosciute, analizzate ed “ingabbiate” dal razionalismo dell’umana specie, ma in barba a queste riflessioni, all’osservatore più attento non può sfuggire il persistere, se non l’accentuarsi, di queste forze elementari. Tra queste la Natura, mai dimentica di sé e della sua eterna potenza non perde occasione di ricordarci la sua grandezza, la sua inarrestabile forza distruttrice con le grandi alluvioni, trombe d’aria e vulcaniche eruzioni”. Daniele Lazzari, Il Signore della Tecnica, in A.A. V.V., Ernst Jünger, L’Europa, cioè il coraggio, Società Editrice Barbarossa, Milano 2003, p. 162.
12 Heidegger ricorda che “Τά μαθήματα significa per i Greci ciò che, nella considerazione dell’ente e nel commercio con le cose, l’uomo conosce in anticipo”. Martin Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, in id., Sentieri interrotti, cit., p. 74. La scienza come matematica determina “in anticipo e in modo precipuo qualcosa di già conosciuto”. Ivi, p. 75. Questo processo che implica la pre-conoscenza di ciò che si conosce e dunque la pre-visione, è il modo tipico attraverso cui, anche per Jünger, l’uomo moderno conosce, calcola e domina il mondo. La verità del mondo sta nella sua esattezza, cioè nella corrispondenza rigorosa col procedimento che si adotta per conoscerlo. Questo modo di conoscere è valido massimamente per la tecnica. La forma tramite la tecnica e la scienza come matematica calcolano e dominano il mondo. Ma, nel pensiero di Jünger, la Forma in se stessa non può certo essere a sua volta misurata, pre-determinanta. La sua verità non è l’esattezza.
13 All’argomento del dolore che, come si sta ricordando, è intrinsecamente legato il tema dell’elementare, e che non è possibile affrontare in tutta la sua ampiezza in questo articolo, Jünger dedica un complesso e profondo saggio nel 1934 in cui si legge: “Là dove si fa risparmio di dolore l’equilibrio verrà ristabilito secondo leggi di un’economia rigorosa, e parafrasando una formula celebre, si potrebbe parlare di una “astuzia del dolore” volta a raggiungere in qualsiasi modo lo scopo”. Ernst Jünger, Sul Dolore, in id. Foglie e Pietre, cit., p. 149.
14 La revisione della tematica della tecnica, che comunque non mi pare possa intaccare nella sostanza i fondamenti della metafisica delle forme, è un argomento molto complesso a cui sarebbe bene dedicare un apposito studio all’interno del quale si analizzino nello specifico almeno i saggi Oltre la linea (trad. it., Adelphi, Milano 1989), Il trattato del Ribelle (trad. it., Adelphi, Milano 1995), Al muro del tempo ( trd. it., Adelphi, Milano 2000), il romanzo filosofico Eumeswil (trad. it., Guanda, Parma 2001) e La forbice (trad. it., Guanda, Parma, 1996). Ne L’operaio, che è l’oggetto di questo articolo, Jünger pensa che l’omonima Figura possa finalizzare alla Rinascita dell’uomo totale l’elementare; la tecnica è dunque vista come lo strumento necessario che l’uomo adotta per disporsi alla Trascendenza della Forma. Successivamente questo strumento, a cui già nel ’32 era stata associata una trasformazione della libertà, non è più adatto a garantire la comunicazione tra la Forma e l’uomo. Da qui l’esigenza di elaborare nuove figure come appunto quella del Ribelle (in Il trattato del Ribelle) o dell’Anarca (in Eumeswil) che arrivano alla propria libertà sovratemporale tramite percorsi individuali.
15 Ernst Jünger, L’operaio, cit., p. 140.
16 Cfr. Martin Heidegger, La questione dell’Essere, trad. it., in Ernst Jünger-Martin Heidegger, Oltre la linea, trad. it., Adelphi, Milano 1989, pp. 130, 131.
17 Cfr., Alain de Benoist, L’operaio fra gli dei e i titani, cit., p. 40.
18 Benjamin identifica con precisione il nesso tra la guerra e la tecnica specialmente riferendosi all’estetizzazione della politica che perseguirebbe il fascismo. La guerra imperialistica sarebbe lo sbocco naturale della società capitalista a causa “della discrepanza di poderosi mezzi di produzione e la insufficienza della loro utilizzazione nel processo di produzione (in altre parole, dalla disoccupazione e dalla mancanza di mercati di sbocco)”. Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966, pp. 46, 47. E’ probabile (anche se non necessario) che la Mobilitazione Totale così come è stata elaborata da Jünger possa sfociare nella guerra. E’ anche vero che i Rivoluzionari-conservatori non contestano la società a partire da idee economiche e che i rapporti di proprietà non costiuiscono il fulcro principale della loro riflessione. E’ infatti lo stesso Operaio “a rifiutare ogni interpretazione che tenti” di spiegarlo “come una manifestazione economica, o addirittura come il prodotto di processi economici, il che significa in fondo, una sorta di prodotto industriale”. Ernst Jünger, L’operaio, cit., p. 29. L’Operaio pronuncia una “dichiarazioone d’indipendenza dal mondo dell’economia”, anche se “ciò non significa affatto una rinuncia a quel mondo, bensì la volontà di subordinarlo ad una rivendicazione di potere più vasta e di più ampio respiro. Ciò significa che non la libertà economica né la potenza economica è il perno della rivolta, ma la forza pura e semplice, in assoluto”. Ibidem.
19 Secondo Evola il “mondo senz’anima delle macchine, della tecnica e delle metropoli moderne”, “pura realtà e oggettività”, “freddo, inumano, distaccato, minaccioso, privo di intimità, spersonalizzante, “barbarico””, non è rifiutato dall’Uomo differenziato. Infatti, “proprio accettando in pieno questa realtà (…) l’uomo differenziato può essenzializzarsi e formarsi (…) attivando la dimensione della trascendenza in sé, bruciando le scorie dell’individualità, egli può enucleare la persona assoluta”. Julius Evola, Cavalcare la Tigre, Edizioni Mediterranee, Roma 1995, pp. 103, 104. Rispetto al complesso rapporto fra Jünger ed Evola, oltre agli scritti evoliani L’operaio nel pensiero di Ernst Jünger ( Armando, Roma 1961), Il cammino del Cinabro (Vanni Scheiwller, Milano 1963) e Cavalcare la Tigre, si legga Francesco Cassata, A destra del fascismo, profilo politico di Julius Evola, Bollati Boringhieri, Torino 2003.
20 Ne L’operaio la caratteristica peculiare della tecnica consiste proprio nella sua capacità di modificare l’essenza dell’uomo verso l’uniformità. La tecnica, che è il più appropriato strumento di dominio dell’Operaio, frantuma ogni tradizione e ogni valore e dunque anche ogni differenza di carattere schiettamente biologico. Allo stesso modo, è vero che chi non avesse la capacità di sfruttare positivamente la distruzione tecnica, sarebbe, nell’ottica di Jünger, destinato alla massificazione amorfa, in altri termini ad una modalità di vita probabilmente inferiore rispetto a quella incarnata dall’Operaio. Solo quest’ultimo, esperita la distruzione di tutti i valori e consapevole della potenza inumana della tecnica, rinasce come eroe della Forma e come protagonista del suo destino di dominio.
21 Cfr., Martin Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, in id. Sentieri interrotti, trad. it., La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 87. Secondo Heidegger, dopo che l’uomo è divenuto sub-jectum issandosi a fondamento dell’essere e dunque a metro della verità, sapere significa dominare. Heidegger confessa che il suo scritto del 1953 La questione della tecnica “deve alle descrizioni contenute nel Lavoratore un impulso durevole”. Martin Heidegger, La questione dell’Essere, in Ernst Jünger-Martin Heidegger, Oltre la linea, cit., p. 118. In effetti, sia la strumentalizzazione del mondo attuata dalla ragione tecnica che il nesso profondo che fonde il darsi della verità col suo nichilistico ritrarsi sono, almeno in parte, tematiche già presenti ne L’operaio. (Cfr. Martin Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, trad. it., Mursia, Milano, 1976.). Adorno e Horkheimer, in La dialettica dell’illuminismo, scrivono che “l’illuminismo nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso”- cioè non solo come illuminismo del secolo XVIII- “ha perseguito da sempre l’obbiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni”. Max Horkheimer, Theodor Adorno, trad. it., Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1966, p. 11. La tecnica è “l’essenza” del sapere come potere”. Ivi, p. 12. Jünger anticipa questa analisi sul sapere moderno che ha la tecnica e la razionalità strumentale come essenza. I pensatori della Scuola di Francoforte però tendono a non considerare in senso positivo il potere catartico della strumentalizzazione della ragione e del sapere come dominio. Secondo Jünger invece, una volta constatata l’irreversibilità delle dinamiche descritte, non resta che viverle. Né per Heidegger né per Jünger si può prescindere dall’essenza nichilistica della tecnica: è proprio esperendo il nichilismo che ci si incammina verso un suo eventuale superamento. Entrambi non condannano la tecnica in quanto ne giudicano necessario l’avvento. Sull’argomento cfr., Michela Nacci, Pensare la tecnica, un secolo di incomprensioni, Laterza, Bari 2000, p. 44.
22 Questo aspetto è stato acutamente evidenziato dal nazionalbolscevico Ernst Niekisch: “(…) La mobilitazione totale, di cui Jünger si fa banditore, è l’azione la quale raggiunge i propri estremi limiti, le punte più alte cui si possa attingere; essa pretende di porre tutto in marcia, non tollera più nulla in stato di riposo, donna, bambino, vegliardo che sia. Incita i lattanti ad arruolarsi, chiama le ragazze sotto le armi, dà fondo alle più segrete riserve; niente ne resta escluso, ogni angolo è frugato, l’ometto più mingherlino viene trascinato al fronte. E’ il bagordo più sfrenato in cui si butta il nichilismo, quando gli è diventato quasi inevitabile dover finalmente fissare il proprio volto”. Ernst Niekisch, Il regno dei demoni, Feltrinelli, Milano 1959, pp. 117, 118. Niekisch descrive perfettamente la mobilitazione totale, ma tace sul fatto che, come più volte Jünger ripete, dietro al movimento si cela immobile la Forma.
23 Ernst Jünger, L’operaio, cit., p. 115.
24 Il lavoro non è interpretato come un fenomeno meramente sociale ed economico, né si ha la minima intenzione di porsi dalla parte degli operai sfruttati, che lavorano troppo. Viceversa, si tenta di introdurre il lavoro come un ideale, si tratta del lavoro come forma dell’uomo e, in un certo qual modo, come forma del mondo. Il mondo e l’uomo mutano la loro forma grazie al lavoro inteso come la missione propria dell’epoca moderna.
25 Si sente l’influenza di Weber laddove si parla della ragione strumentale che finalizza ogni ente all’utile umano, al profitto e che favorisce il superamento disincantato di quella ascesi intramondana che era all’origine del capitalismo medesimo ( cfr., Max Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, trad. it., Rizzoli, Milano 1991, pp. 239, 240.) Ma, fa notare molto precisamente Herf, se “la critica della tecnica era moneta corrente nella cultura di Weimar”, “Ernst Jünger si distingueva, poiché sembrava accogliere positivamente il processo di strumentalizzazione degli esseri umani. Era come se Weber avesse accolto con gioia la prospettiva della gabbia di ferro”. Jeffrey Herf, Il modernismo reazionario, Il Mulino, Bologna 1988, p. 150. Per Jünger invero il fatto che la razionalità finalizzata al profitto si espanda in ogni settore della vita e che il lavoro si propaghi in ogni ambiente, non impedisce che l’Operaio possa, in un certo senso, tornare ad incarnare un’etica ascetica in cui non sia tanto importante il godimento di ciò che viene prodotto, quanto la dedizione totale al lavoro, dunque anche alla produzione. Egli cerca di dividere la missione del lavoro, funzionale al dominio della forma e alla nascita dell’Operaio (che non è un mero consumatore delle merci che produce), dall’etica utilitarista, propria del borghese che produce per raggiungere il suo isolato utile e piacere.
26 “Essere e niente non si danno uno accanto all’altro, ma l’uno si adopera per l’altro, in una sorta di parentela di cui non abbiamo ancora pensato la pienezza essenziale”. Martin Heidegger, La questione dell’essere, in Ernst Jünger, Martin Heidegger, Oltre la linea, cit., p. 157.
27 Ne L’Operaio, e in vari articoli che lo precedono (cfr., ad esempio, Ernst Jünger, “Nazionalismo” e nazionalismo, Das Tagebuch, 21 settembre 1929, in Ernst Jünger, Scritti politici e di guerra 1919-1933, trad. it., Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2005, p. 89.), Jünger loda alla stregua dei futuristi la velocità, la macchina, l’acciao, la violenza che genera distruzione, i paesaggi lunari e freddi tipici del mondo-officina, la guerra come fattore elementare attraverso cui poter esperire una nuova forma di esistenza rinvigorita dal pericolo e dalla morte. Il costante riferimento all’Ordine (all’Essere, all’Immobile) è stato invece interpretato come la differenza più profonda fra Jünger e i futuristi italiani. Secondo Fabio Vander ad esempio poiché “non può esservi calma dopo la tempesta della Krisis, se non come essere della tempesta ovvero essere del divenire, dialettica della differenza”, Jünger “deve rassegnarsi al “semplice dinamismo, attivismo”, deve considerarlo intranscendibile se rifiuta, come rifiuta, la prospettiva dialettica. Allora di fronte alla tragicità di Jünger, meglio il divertissement di Marinetti, che appunto della differenza assoluta non cercava trascendimento, salvezza”. Fabio Vander, L’estetizzazione della politica, Il fascismo come anti-Italia, Dedalo, Bari 2001, p. 55. Secondo Vander, Jünger, ma anche Heidegger, poiché restii ad accettare la dialettica della differenza, non sarebbero stati in grado di sintetizzare l’Essere col Divenire, mentre Marinetti, non avendoci neppure provato, sarebbe stato più coerente. Constatata nel pensiero di Jünger la presenza della nozione “forte” di Forma, ma considerata pure la complicata correlazione che fonde il sensibile al sovrasensibile, non mi sento di ridurre la metafisica delle forme a un fallito tentativo di coniugare l’Essere col Divenire.
28 “Agisci sempre in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia nella persona di ogni altro, sempre come un fine e mai soltanto come un mezzo”. Immanuel Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, trad. it., Laterza, Bari 1992, p. 111. Cesare Cases scrive che “l’etica di Jünger si direbbe l’opposto dell’etica kantiana: l’uomo non vi è concepito come valore in sé, ma come “simbolo”, come mezzo per raggiungere un determinato scopo, in cui si invera e che è in funzione di un’entità metafisica che si chiama volta per volta “idea”, “Forma”, “destino””. Casare Cases, La fredda impronta della Forma, Arte, fisica e metafisica nell’opera di Ernst Jünger, La Nuova Italia, Firenze 1997, p. 39.
29 “E’ l’immensa moltiplicazione delle produzioni di tutte le differenti attività, conseguente alla divisione del lavoro, che, nonostante la grande ineguaglianza nella proprietà, dà origine, in tutte le società evolute, a quell’universale benessere che si estende a raggiungere i ceti più bassi della popolazione. Si produce così una grande quantità di ogni bene, che ve n’è abbastanza da soddisfare l’infingardo e oppressivo sperpero del grande, al tempo stesso, da sopperire largamente ai bisogni dell’artigianto e del contadino. Ciascun uomo effettua una così grande quantità di quel lavoro che gli compete, che può anche produrre qualcosa per quelli che non lavorano affatto e, al tempo stesso, averne in tale quantità che gli è possibile, attraverso lo scambio di quanto gli rimane con i prodotti delle altre attività, di provvedersi di tutte le cose necessarie e utili di cui ha bisogno”. Adam Smith, La ricchezza delle nazioni, trad. it., Editori Riuniti, Roma 1969, p. 14. Anche Jünger crede nella necessità della divisione del lavoro, dunque nella specializzazione e nel nesso che lega questi processi alla complessiva crescita economica della nazione. Non crede invece che il solo mercato, come fosse una “mano invisibile”, possa essere in grado di determinare la ricchezza della nazione e, in definitiva, il benessere complessivo del popolo.
30 L’avvicinamento della metafisica delle Forme alla metafisica della vita può essere pensato con cognizione di causa solo se accanto alle somiglianze si mettono in evidenza le profonde differenze. Fare alla stregua di Lukács della metafisica delle Forme un’enclave della filosofia della vita (cfr. György Lukács, trad. it., La distruzione della ragione, cit., p. 538.), può condurre a incasellare la prima nell’alveo dell’irrazionalismo e dunque può servire a ridurrre la complessa filosofia di Jünger a un sistema teso a criticare la ragione in quanto tale. Se Jünger concorda con filosofi come Simmel sull’importanza della vita intesa come un fiume da cui l’uomo trae i valori e in cui i valori fatalmente nel tempo sono riassorbiti, conferisce anche notevole importanza alla dimensione propriamente metafisica o meglio esattamente Trascendente. La Forma non è qualcosa che fuoriesce per caso dal divenire magmatico. Essa è eterna, immobile. Se non può essere paragonata all’idea platonica è solo perché, benché sia trascendente, la dinamica della sua e-sistenza si estrinseca come evento, ma l’essenza è e rimane atemporale. Questa atemporalità conferisce solidità all’impianto etico de L’Operaio. In questo senso, la riflessione di Jünger può essere avvicinata a quella dei pensatori della Tradizione, ad esempio ad Evola e a Guénon. Infatti questi studiosi, riproponendo la metafisica della “Tradizione”, sostengono che l’uomo, per agire in conformità al proprio destino, debba incarnare principi assoluti e trascendenti, impersonali. L’uomo della Tradizione abbandona i propri desideri, il proprio utile e persegue un’ attività sovraindividuale. La sua è un’ “azione senza desiderio”, un “agire senza agire”. (Cfr. Julius Evola, Cavalcare la Tigre, cit., p. 68.). Anche l’Operaio agisce senza agire, nel senso che è Forma: non è lui ad agire, ma la Forma di cui è impronta. Da qui la preminenza in questo pensiero di concetti “forti” come quello di disciplina, di sacrificio, di eroismo. Il vitalismo mutuato da Nietzsche è dunque inquadrato in un sistema metafisico in cui valori tipicamente guerrieri, aristocratici, tradizionali trovano forza e, nell’intento di Jünger, imperitura conferma.
31 Michela Nacci, Pensare la tecnica, Un secolo di incomprensioni, cit., p. 61.
32 Ernst Jünger, La mobilitazione Totale, in id., Foglie e Pietre, Adelphi, Milano 1997, p. 127.
33 Ibidem.
34 Herf fa presente che la prima guerra mondiale era stata per i rivoluzionari conservatori “il palcoscenico su cui si riconciliavano le dicotomie centrali della modernità tedesca: Kultur e Zivilisation, Gemeinschaft e Gesellschaft”. Jeffrey Herf, Il modernismo reazionario, cit., p. 130. Diversamente da Spengler e da altri “intellettuali di destra” vicini all’“antimodernismo völkisch, Jünger proponeva di assorbire la macchina e la stessa metropoli nella Kultur tedesca, anziché respingere entrambi come prodotti di forze estranee”. Ivi, p. 133.
35 Cfr., Ernst Jünger, Scritti politici e di guerra, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2005.
36 “Si vorrebbe riconoscere all’uomo, a piacere, la qualità di creatore o di vittima di questa stessa tecnica. L’uomo appare qui o un apprendista stregone, il quale evoca forze i cui effetti egli non sa dominare, o il creatore di un progresso ininterrotto che corre incontro a paradisi artificiali”. Ernst Jünger, L’operaio, cit., p. 140.
37 Armin Mohler fornisce una chiara spiegazione del contesto in cui sorge il concetto di “interregno”: “Attraverso la nuova esplosione di movimenti che si determina nel secolo XIX il Cristianesimo (…) si disgrega. Nella realtà politica, conformemente al principio di inerzia, continua ad esistere; tuttavia là dove si prendono le decisioni esso ha perso la sua posizione dominante e rimane, anche nelle sue tradizioni consolidate (Neotomismo e Teologia dialettica), solamente una forza tra le altre. Questo processo è accelerato ulteriormente dalla decomposizione dell’eredità del mondo antico, che aveva aiutato nel corso dei secoli il cristianesimo a raggiungere una forma propria. Gli elementi della realtà precedente sussistono ancora, ma, isolati e senza punti di riferimento, si muovono disordinatamente nello spazio. L’antica struttura dell’Occidente quale unità di mondo classico, cristianesimo e forze di nuovi popoli penetrati nella storia con le invasioni barbariche, è frantumata. Ci troviamo così in questo stato intermedio, in un “Interregnum”, da cui ogni espressione culturale è influenzata”. Armin Mohler, La Rivoluzione Conservatrice in Germania 1919-1932, Una guida, cit., pp. 22, 23.
Robert STEUCKERS (1987):
Postmodern Challenges:
Between Faust & Narcissus, Part 1
In Oswald Spengler’s terms, our European culture is the product of a “pseudomorphosis,” i.e., of the grafting of an alien mentality upon our indigenous, original, and innate mentality. Spengler calls the innate mentality “the Faustian.”
The Confrontation of the Innate and the Acquired
The alien mentality is the theocentric, “magical” outlook born in the Near East. For the magical mind, the ego bows respectfully before the divine substance like a slave before his master. Within the framework of this religiosity, the individual lets himself be guided by the divine force that he absorbs through baptism or initiation.
There is nothing comparable for the old-European Faustian spirit, says Spengler. Homo europeanus, in spite of the magic/Christian varnish covering our thinking, has a voluntarist and anthropocentric religiosity. For us, the good is not to allow oneself to be guided passively by God, but rather to affirm and carry out our own will. “To be able to choose,” this is the ultimate basis of the indigenous European religiosity. In medieval Christianity, this voluntarist religiosity shows through, piercing the crust of the imported “magism” of the Middle East.
Around the year 1000, this dynamic voluntarism appears gradually in art and literary epics, coupled with a sense of infinite space within which the Faustian self would, and can, expand. Thus to the concept of a closed space, in which the self finds itself locked, is opposed the concept of an infinite space, into which an adventurous self sallies forth.
From the “Closed” World to the Infinite Universe
According to the American philosopher Benjamin Nelson,[1] the old Hellenic sense of physis (nature), with all the dynamism this implies, triumphed at the end of the 13th century, thanks to Averroism, which transmitted the empirical wisdom of the Greeks (and of Aristotle in particular) to the West. Gradually, Europe passed from the “closed world” to the infinite universe. Empiricism and nominalism supplanted a Scholasticism that had been entirely discursive, self-referential, and self-enclosed. The Renaissance, following Copernicus and Bruno (the tragic martyr of Campo dei Fiori), renounced geocentrism, making it safe to proclaim that the universe is infinite, an essentially Faustian intuition according to Spengler’s criteria.
In the second volume of his History of Western Thought, Jean-François Revel, who formerly officiated at Point and unfortunately illustrated the Americanocentric occidentalist ideology, writes quite pertinently: “It is easy to understand that the eternity and infinity of the universe announced by Bruno could have had, on the cultivated men of the time, the traumatizing effect of passing from life in the womb into the vast and cruel draft of an icy and unbounded vortex.”[2]
The “magic” fear, the anguish caused by the collapse of the comforting certitude of geocentrism, caused the cruel death of Bruno, that would become, all told, a terrifying apotheosis . . . Nothing could ever refute heliocentrism, or the theory of the infinitude of sidereal spaces. Pascal would say, in resignation, with the accent of regret: “The eternal silence of these infinite spaces frightens me.”
From Theocratic Logos to Fixed Reason
To replace magical thought’s “theocratic logos,” the growing and triumphant bourgeois thought would elaborate a thought centered on reason, an abstract reason before which it is necessary to bow, like the Near Easterner bows before his god. The “bourgeois” student of this “petty little reason,” virtuous and calculating, anxious to suppress the impulses of his soul or his spirit, thus finds a comfortable finitude, a closed off and secured space. The rationalism of this virtuous human type is not the adventurous, audacious, ascetic, and creative rationalism described by Max Weber[3] which educates the inner man precisely to face the infinitude affirmed by Giordano Bruno.[4]
From the end of the Renaissance, Two Modernities are Juxtaposed
The petty rationalism denounced by Sombart[5] dominates the cities by rigidifying political thought, by restricting constructive activist impulses. The genuinely Faustian and conquering rationalism described by Max Weber would propel European humanity outside its initial territorial limits, giving the main impulse to all sciences of the concrete.
From the end of the Renaissance, we thus discover, on the one hand, a rigid and moralistic modernity, without vitality, and, on the other hand, an adventurous, conquering, creative modernity, just as we are today on the threshold of a soft post-modernity or of a vibrant post-modernity, self-assured and potentially innovative. By recognizing the ambiguity of the terms “rationalism,” “rationality,” “modernity,” and “post-modernity,” we enter one level of the domain of political ideologies, even militant Weltanschauungen.
The rationalization glutted with moral arrogance described by Sombart in his famous portrait of the “bourgeois” generates the soft and sentimental messianisms, the great tranquillizing narratives of contemporary ideologies. The conquering rationalization described by Max Weber causes the great scientific discoveries and the methodical spirit, the ingenious refinement of the conduct of life and increasing mastery of the external world.
This conquering rationalization also has its dark side: It disenchants the world, drains it, excessively schematizes it. While specializing in one or another domain of technology, science, or the spirit, while being totally invested there, the “Faustians” of Europe and North America often lead to a leveling of values, a relativism that tends to mediocrity because it makes us lose the feeling of the sublime, of the telluric mystique, and increasingly isolates individuals. In our century, the rationality lauded by Weber, if positive at the beginning, collapsed into quantitativist and mechanized Americanism that instinctively led by way of compensation, to the spiritual supplement of religious charlatanism combining the most delirious proselytism and sniveling religiosity.
Such is the fate of “Faustianism” when severed from its mythic foundations, of its memory of the most ancient, of its deepest and most fertile soil. This caesura is unquestionably the result of pseudomorphosis, the “magian” graft on the Faustian/European trunk, a graft that failed. “Magianism” could not immobilize the perpetual Faustian drive; it has—and this is more dangerous—cut it off from its myths and memory, condemned it to sterility and dessication, as noted by Valéry, Rilke, Duhamel, Céline, Drieu, Morand, Maurois, Heidegger, or Abellio.
Conquering Rationality, Moralizing Rationality, the Dialectic of Enlightenment, the “Grand Narratives” of Lyotard
Conquering rationality, if it is torn away from its founding myths, from its ethno-identitarian ground, its Indo-European matrix, falls—even after assaults that are impetuous, inert, emptied of substance—into the snares of calculating petty rationalism and into the callow ideology of the “Grand Narratives” of rationalism and the end of ideology. For Jean-François Lyotard, “modernity” in Europe is essentially the “Grand Narrative” of the Enlightenment, in which the heroes of knowledge work peacefully and morally toward an ethico-political happy ending: universal peace, where no antagonism will remain.[6] The “modernity” of Lyotard corresponds to the famous “Dialectic of the Enlightenment” of Horkheimer and Adorno, leaders of famous “Frankfurt School.”[7] In their optic, the work of the man of science or the action of the politician, must be submitted to a rational reason, an ethical corpus, a fixed and immutable moral authority, to a catechism that slows down their drive, that limits their Faustian ardor. For Lyotard, the end of modernity, thus the advent of “post-modernity,” is incredulity—progressive, cunning, fatalistic, ironic, mocking—with regard to this metanarrative.
Incredulity also means a possible return of the Dionysian, the irrational, the carnal, the turbid, and disconcerting areas of the human soul revealed by Bataille or Caillois, as envisaged and hoped by professor Maffesoli,[8] of the University of Strasbourg, and the German Bergfleth,[9] a young nonconformist philosopher; that is to say, it is equally possible that we will see a return of the Faustian spirit, a spirit comparable with that which bequeathed us the blazing Gothic, of a conquering rationality which has reconnected with its old European dynamic mythology, as Guillaume Faye explains in Europe and Modernity.[10]
Notes
1. Benjamin Nelson, Der Ursprung der Moderne, Vergleichende Studien zum Zivilisationsprozess [The Origin of Modernity: Comparative Studies of the Civilization Process] (Frankfurt am Main: Suhrkamp, 1986).
2. Jean-François Revel, Histoire de la pensée occidentale [History of Western Thought], vol. 2, La philosophie pendant la science (XVe, XVIe et XVIIe siècles) [Philosophy and Science (Fifteenth-, Sixteenth-, and Seventeenth-Centuries)] (Paris: Stock, 1970). Cf. also the masterwork of Alexandre Koyré, From the Closed World to the Infinite Universe (Baltimore: Johns Hopkins University Press, 1957).
3. Cf. Julien Freund, Max Weber (Paris: P.U.F., 1969).
4. Paul-Henri Michel, La cosmologie de Giordano Bruno [The Cosmology of Giordano Bruno] (Paris: Hermann, 1962).
5. Cf. essentially: Werner Sombart, Le Bourgeois. Contribution à l’histoire morale et intellectuelle de l’homme économique moderne [The Bourgeois: Contribution to the Moral and Intellectual History of Modern Economic Man] (Paris: Payot, 1966).
6. Jean-François Lyotard, The Postmodern Condition: A Report on Knowledge, trans. Geoff Bennington and Brian Massumi. (Minneapolis: University of Minnesota Press, 1984).
7. Max Horkheimer and Theodor Adomo, The Dialectic of Enlightenment, trans. Edmund Jephcott (Stanford: Stanford University Press, 2002). Cf. also Pierre Zima, L’École de Francfort. Dialectique de la particularité [The Frankfurt School: Dialectic of Particularity] (Paris: Éditions Universitaires, 1974). Michel Crozon, “Interroger Horkheimer” [“Interrogating Horkheimer”] and Arno Victor Nielsen, “Adorno, le travail artistique de la raison” [“Adorno: The Artistic Work of Reason”], Esprit, May 1978.
8. Cf. chiefly Michel Maffesoli, L’ombre de Dionysos: Contribution à une sociologie de l’orgie [The Shadow of Dionysus: Contribution to a Sociology of the Orgy] (Méridiens, 1982). Pierre Brader, “Michel Maffesoli: saluons le grand retour de Dionysos” [Michel Maffesoli: Let us Greet the Great return of Dionysos], Magazine-Hebdo no. 54 (September 21, 1984).
9. Cf. Gerd Bergfleth et al., Zur Kritik der Palavernden Aufklärung [Toward a Critique of Palavering Reason] (Munich: Matthes & Seitz, 1984). In this remarkable little anthology, Bergfleth published four texts deadly to the “moderno-Frankfurtist” routine: (1) “Zehn Thesen zur Vernunftkritik” [“Ten Theses on the Critique of Reason”]; (2) “Der geschundene Marsyas” [“The Abuse of Marsyas”]; (3) “Über linke Ironie” [“On Leftist Irony”]; (4) “Die zynische Aufklärung” [“The Cynical Enlightnement”]. Cf. also R. Steuckers, “G. Bergfleth: enfant terrible de la scène philosophique allemande” [“G. Bergfleth: enfant terrible of the German philosophical scene”], Vouloir no. 27 (March 1986). In the same issue, see also M. Kamp, “Bergfleth: critique de la raison palabrante” [“Bergfleth: Critique of Palavering Reason”] and “Une apologie de la révolte contre les programmes insipides de la révolution conformiste” [“An Apology for the Revolt against the Insipid Programs of the Conformist Revolution”]. See also M. Froissard, “Révolte, irrationnel, cosmicité et . . . pseudo-antisémitisme,” [“Revolt, irrationality, cosmicity and . . . pseudo-anti-semitism”], Vouloir nos. 40–42 (July–August 1987).
10. Guillaume Faye, Europe et Modernité [Europe and Modernity] (Méry/Liège: Eurograf, 1985).
Postmodern Challenges:
Between Faust & Narcissus, Part 2
Once the Enlightenment metanarrative was established—“encysted”—in the Western mind, the great secular ideologies progressively appeared: liberalism, with its idolatry of the “invisible hand,”[1] and Marxism, with its strong determinism and metaphysics of history, contested at the dawn of the 20th century by Georges Sorel, the most sublime figure of European militant socialism.[2] Following Giorgio Locchi[3]—who occasionally calls the metanarrative “ideology” or “science”—we think that this complex “metanarrative/ideology/science” no longer rules by consensus but by constraint, inasmuch as there is muted resistance (especially in art and music[4]) or a general disuse of the metanarrative as one of the tools of legitimation.
The liberal-Enlightenment metanarrative persists by dint of force and propaganda. But in the sphere of thought, poetry, music, art, or letters, this metanarrative says and inspires nothing. It has not moved a great mind for 100 or 150 years. Already at the end of the 19th century, literary modernism expressed a diversity of languages, a heterogeneity of elements, a kind of disordered chaos that the “physiologist” Nietzsche analyzed[5] and that Hugo von Hoffmannstahl called die Welt der Bezuge (the world of relations).
These omnipresent interrelations and overdeterminations show us that the world is not explained by a simple, neat and tidy story, nor does it submit itself to the rule of a disincarnated moral authority. Better: they show us that our cities, our people, cannot express all their vital potentialities within the framework of an ideology given and instituted once and for all for everyone, nor can we indefinitely preserve the resulting institutions (the doctrinal body derived from the “metanarrative of the Enlightenment”).
The anachronistic presence of the metanarrative constitutes a brake on the development of our continent in all fields: science (data-processing and biotechnology[6]), economics (the support of liberal dogmas within the EEC), military (the fetishism of a bipolar world and servility toward the United States, paradoxically an economic enemy), cultural (media bludgeoning in favor of a cosmopolitanism that eliminates Faustian specificity and aims at the advent of a large convivial global village, run on the principles of the “cold society” in the manner of the Bororos dear to Lévi-Strauss[7]).
The Rejection of Neo-Ruralism, Neo-Pastoralism . . .
The confused disorder of literary modernism at the end of the 19th century had a positive aspect: its role was to be the magma that, gradually, becomes the creator of a new Faustian assault.[8] It is Weimar—specifically, the Weimar-arena of the creative and fertile confrontation of expressionism,[9] neo-Marxism, and the “conservative revolution”[10]—that bequeathed us, with Ernst Jünger, an idea of “post-metanarrative” modernity (or post-modernity, if one calls “modernity” the Dialectic of the Enlightenment, subsequently theorized by the Frankfurt School). Modernism, with the confusion it inaugurates, due to the progressive abandonment the pseudo-science of the Enlightenment, corresponds somewhat to the nihilism observed by Nietzsche. Nihilism must be surmounted, exceeded, but not by a sentimental return, however denied, to a completed past. Nihilism is not surpassed by theatrical Wagnerism, Nietzsche fulminated, just as today the foundering of the Marxist “Grand Narrative” is not surpassed by a pseudo-rustic neoprimitivism.[11]
In Jünger—the Jünger of In Storms of Steel, The Worker, and Eumeswil—one finds no reference to the mysticism of the soil: only a sober admiration for the perennialness of the peasant, indifferent to historical upheavals. Jünger tells us of the need for balance: if there is a total refusal of the rural, of the soil, of the stabilizing dimension of Heimat, constructivist Faustian futurism will no longer have a base, a point of departure, a fallback option. On the other hand, if the accent is placed too much on the initial base, the launching point, on the ecological niche that gives rise to the Faustian people, then they are wrapped in a cocoon and deprived of universal influence, rendered blind to the call of the world, prevented from springing towards reality in all its plenitude, the “exotic” included. The timid return to the homeland robs Faustianism of its force of diffusion and relegates its “human vessels” to the level of the “eternal ahistoric peasants” described by Spengler and Eliade.[12] Balance consists in drawing in (from the depths of the original soil) and diffusing out (towards the outside world).
In spite of all nostalgia for the “organic,” rural, or pastoral—in spite of the serene, idyllic, aesthetic beauty that recommend Horace or Virgil—Technology and Work are from now on the essences of our post-nihilist world. Nothing escapes any longer from technology, technicality, mechanics, or the machine: neither the peasant who plows with his tractor nor the priest who plugs in a microphone to give more impact to his homily.
The era of “Technology”
Technology mobilizes totally (Total Mobilmachung) and thrusts the individual into an unsettling infinitude where we are nothing more than interchangeable cogs. The machine gun, notes the warrior Jünger, mows down the brave and the cowardly with perfect equality, as in the total material war inaugurated in 1917 in the tank battles of the French front. The Faustian “Ego” loses its intraversion and drowns in a ceaseless vortex of activity. This Ego, having fashioned the stone lacework and spires of the flamboyant Gothic, has fallen into American quantitativism or, confused and hesitant, has embraced the 20th century’s flood of information, its avalanche of concrete facts. It was our nihilism, our frozen indecision due to an exacerbated subjectivism, that mired us in the messy mud of facts.
By crossing the “line,” as Heidegger and Jünger say,[13] the Faustian monad (about which Leibniz[14] spoke) cancels its subjectivism and finds pure power, pure dynamism, in the universe of Technology. With the Jüngerian approach, the circle is closed again: as the closed universe of “magism” was replaced by the inauthentic little world of the bourgeois—sedentary, timid, embalmed in his utilitarian sphere—so the dynamic “Faustian” universe is replaced with a Technological arena, stripped this time of all subjectivism.
Jüngerian Technology sweeps away the false modernity of the Enlightenment metanarrative, the hesitation of late 19th century literary modernism, and the trompe-l’oeil of Wagnerism and neo-pastoralism. But this Jüngerian modernity, perpetually misunderstood since the publication of Der Arbeiter [The Worker] in 1932, remains a dead letter.
Notes
1. On the theological foundation of the doctrine of the “invisible hand” see Hans Albert, “Modell-Platonismus. Der neoklassische Stil des ökonomischen Denkens in kritischer Beleuchtung” [“Model Platonism: The Neoclassical Style of Economic Thought in Critical Elucidation”], in Ernst Topitsch, ed., Logik der Sozialwissenschaften [Logic of Social Science] (Köln/Berlin: Kiepenheuer & Witsch, 1971).
2. There is abundant French literature on Georges Sorel. Nevertheless, it is deplorable that a biography and analysis as valuable as Michael Freund’s has not been translated: Michael Freund, Georges Sorel, Der revolutionäre Konservatismus [Georges Sorel: Revolutionary Conservatism] (Frankfurt a.M.: Vittorio Klostermann, 1972).
3. Cf. G. Locchi, “Histoire et société: critique de Lévi-Strauss” [“History and Society: Critique of Lévi-Strauss”], Nouvelle Ecole, no. 17 (March 1972) and “L’histoire” [“History”], Nouvelle Ecole, nos. 27–28 (January 1976).
4. Cf. G. Locchi, “L’idée de la musique’ et le temps de l’histoire” [“The ‘Idea of Music’ and the Times of History”], Nouvelle Ecole, no. 30 (November 1978) and Vincent Samson, “Musique, métaphysique et destin” [“Music, Metaphysics, and Destiny”], Orientations, no. 9 (September 1987).
5. Cf. Helmut Pfotenhauer, Die Kunst als Physiologie: Nietzsches äesthetische Theorie und literarische Produktion [Art as Physiology: Nietzsche’s Aesthetic Theory and Literary Production] (Stuttgart: J. B. Metzler, 1985). Cf. on Pfotenhauer’s book: Robert Steuckers, “Regards nouveaux sur Nietzsche” [“New Views of Nietzsche”], Orientations, no. 9.
6. Biotechnology and the most recent biocybernetic innovations, when applied to the operation of human society, fundamentally call into question the mechanistic theoretical foundations of the “Grand Narrative” of the Enlightenment. Less rigid, more flexible laws, because adapted to the deep drives of human psychology and physiology, would restore a dynamism to our societies and put them in tune with technological innovations. The Grand Narrative—which is always around, in spite of its anachronism—blocks the evolution of our societies; Habermas’ thought, which categorically refuses to fall in step with the epistemological discoveries of Konrad Lorenz, for example, illustrates perfectly the genuinely reactionary rigidity of the neo-Enlightenment in its Frankfurtist and current neo-liberal derivations. To understand the shift that is taking place regardless of the liberal-Frankfurtist reaction, see the work of the German bio-cybernetician Frederic Vester: (1) Unsere Welt—ein vernetztes System, dtv, no. l0,118, 2nd ed. (München, 1983) and (2) Neuland des Denkens. Vom technokratischen zum kybernetischen Zeitalter (Stuttgart: DVA, 1980). The restoration of holist (ganzheitlich) social thought by modern biology is discussed, most notably, in Gilbert Probst, Selbst-Organisation, Ordnungsprozesse in sozialen Systemen aus ganzheitlicher Sicht (Berlin: Paul Parey, 1987).
7. G. Locchi, “L’idée de la musique’ et le temps de l’histoire.”
8. To tackle the question of the literary modernism in the 19th century, see: M. Bradbury, J. McFarlane, eds., Modernism 1890–1930 (Harmondsworth: Penguin, 1976).
9. Cf. Paul Raabe, ed., Expressionismus. Der Kampf um eine literarische Bewegung (Zürich: Arche, 1987)—A useful anthology of the principal expressionist manifestos.
10. Armin Mohler, La Révolution Conservatrice en Allemagne, 1918–1932 (Puiseaux: Pardès, 1993). See mainly text A3 entitled “Leitbilder” (“Guiding Ideas”).
11. Cf. Gérard Raulet, “Mantism and the Post-Modern Conditions” and Claude Karnoouh, “The Lost Paradise of Regionalism: The Crisis of Post-Modernity in France,” Telos, no. 67 (March 1986).
12. Cf. Oswald Spengler, The Decline of the West, 2 vols., trans. Charles Francis Atkinson (New York: Knopf, 1926) for the definition of the “ahistorical peasant” see vol. 2. Cf. Mircea Eliade, The Sacred and the Profane: The Nature of Religion, trans. Willard R. Trask (San Diego: Harcourt, 1959). For the place of this vision of the “peasant” in the contemporary controversy regarding neo-paganism, see: Richard Faber, “Einleitung: ‘Pagan’ und Neo-Paganismus. Versuch einer Begriffsklärung,” in Richard Faber and Renate Schlesier, Die Restauration der Götter: Antike Religion und Neo-Paganismus [The Restoration of the Gods: Ancient Religion and Neo-Paganism] (Würzburg: Königshausen & Neumann, 1986), 10–25. This text was reviewed in French by Robert Steuckers, “Le paganisme vu de Berlin” [“Paganism as Seen in Berlin”], Vouloir no. 28–29, April 1986, pp. 5–7.
13. On the question of the “line” in Jünger and Heidegger, cf. W. Kaempfer, Ernst Jünger, Sammlung Metzler, Band 20l (Stuttgart, Metzler, 1981), pp. 119–29. Cf also J. Evola, “Devant le ‘mur du temps’” [“Before the ‘Wall of Time’”] in Explorations: Hommes et problems [Explorations: Men and Problems], trans. Philippe Baillet (Puiseaux: Pardès, 1989), pp. 183–94. Let us take this opportunity to recall that, contrary to the generally accepted idea, Heidegger does not reject technology in a reactionary manner, nor does he regard it as dangerous in itself. The danger is due to the failure to think of the mystery of its essence, preventing man from returning to a more originary unconcealment and from hearing the call of a more primordial truth. If the age of technology seems to be the final form of the Oblivion of Being, where the anxiety suitable to thought appears as an absence of anxiety in the securing and the objectification of being, it is also from this extreme danger that the possibility of another beginning is thinkable once the metaphysics of subjectivity is completed.
14. To assess the importance of Leibniz in the development of German organic thought, cf. F. M. Barnard, Herder’s Social and Political Thought: From Enlightenment to Nationalism (Oxford: Clarendon Press, 1965), 10–12.
Postmodern Challenges:
Between Faust & Narcissus, Part 3
In 1945, the tone of ideological debate was set by the victorious ideologies. We could choose American liberalism (the ideology of Mr. Babbitt) or Marxism, an allegedly de-bourgeoisfied version of the metanarrative. The Grand Narrative took charge, hunted down any “irrationalist” philosophy or movement,[1] set up a thought police, and finally, by brandishing the bogeyman of rampant barbarism, inaugurated an utterly vacuous era.
Sartre and his fashionable Parisian existentialism must be analyzed in the light of this restoration. Sartre, faithful to his “atheism,” his refusal to privilege one value, did not believe in the foundations of liberalism or Marxism. Ultimately, he did not set up the metanarrative (in its most recent version, the vulgar Marxism of the Communist parties[2]) as a truth but as an “inescapable”categorical imperative for which one must militate if one does not want to be a “bastard,” i.e., one of these contemptible beings who venerate “petrified orders.”[3] It is the whole paradox of Sartreanism: on the one hand, it exhorts us not to adore “petrified orders,” which is properly Faustian, and, on another side, it orders us to “magically” adore a “petrified order” of vulgar Marxism, already unhorsed by Sombart or De Man. Thus in the Fifties, the golden age of Sartreanism, the consensus is indeed a moral constraint, an obligation dictated by increasingly mediatized thought. But a consensus achieved by constraint, by an obligation to believe without discussion, is not an eternal consensus. Hence the contemporary oblivion of Sartreanism, with its excesses and its exaggerations.
The Revolutionary Anti-Humanism of May 1968
With May ’68, the phenomenon of a generation, “humanism,” the current label of the metanarrative, was battered and broken by French interpretations of Nietzsche, Marx, and Heidegger.[4] In the wake of the student revolt, academics and popularizers alike proclaimed humanism a “petite-bourgeois” illusion. Against the West, the geopolitical vessel of the Enlightenment metanarrative, the rebels of ’68 played at mounting the barricades, taking sides, sometimes with a naive romanticism, in all the fights of the 1970s: Spartan Vietnam against American imperialism, Latin-American guerillas (“Ché”), the Basque separatists, the patriotic Irish, or the Palestinians.
Their Faustian feistiness, unable to be expressed though autochthonous models, was transposed toward the exotic: Asia, Arabia, Africa, or India. May ’68, in itself, by its resolute anchorage in Grand Politics, by its guerilla ethos, by its fighting option, in spite of everything took on a far more important dimension than the strained blockage of Sartreanism or the great regression of contemporary neo-liberalism. On the right, Jean Cau, in writing his beautiful book on Che Guevara[5] understood this issue perfectly, whereas the right, which is as fixated on its dogmas and memories as the left, had not wanted to see.
With the generation of ’68—combative and politicized, conscious of the planet’s great economic geopolitical issues—the last historical fires burned in the French public spirit before the great rise of post-history and post-politics represented by the narcissism of contemporary neoliberalism.
The Translation of the Writings of the “Frankfurt School” announces the Advent of Neo-Liberal Narcissism
The first phase of the neo-liberal attack against the political anti-humanism of May ’68 was the rediscovery of the writings of the Frankfurt School: born in Germany before the advent of National Socialism, matured during the California exile of Adorno, Horkheimer, and Marcuse, and set up as an object of veneration in post-war West Germany. In Dialektik der Aufklärung, a small and concise book that is fundamental to understanding the dynamics of our time, Horkheimer and Adorno claim that there are two “reasons” in Western thought that, in the wake of Spengler and Sombart, we are tempted to name “Faustian reason” and “magical reason.” The former, for the two old exiles in California, is the negative pole of the “reason complex” in Western civilization: this reason is purely “instrumental”; it is used to increase the personal power of those who use it. It is scientific reason, the reason that tames the forces of the universe and puts them in the service of a leader or a people, a party or state. Thus, according to Herbert Marcuse, it is Promethean, not Narcissistic/Orphic.[6] For Horkheimer, Adorno, and Marcuse, this is the kind of rationality that Max Weber theorized.
On the other hand, “magical reason,” according to our Spenglerian genealogical terminology, is, broadly speaking, the reason of Lyotard’s metanarrative. It is a moral authority that dictates ethical conduct, allergic to any expression of power, and thus to any manifestation of the essence of politics.[7] In France, the rediscovery of the Horkheimer-Adorno theory of reason near the end of the 1970s inaugurated the era of depoliticization, which, by substituting generalized disconnection for concrete and tangible history, led to the “era of the vacuum” described so well by Grenoble Professor Gilles Lipovetsky.[8] Following the militant effervescence of May ’68 came a generation whose mental attitudes are characterized quite justly by Lipovetsky as apathy, indifference (also to the metanarrative in its crude form), desertion (of the political parties, especially of the Communist Party), desyndicalisation, narcissism, etc. For Lipovetsky, this generalized resignation and abdication constitutes a golden opportunity. It is the guarantee, he says, that violence will recede, and thus no “totalitarianism,” red, black, or brown, will be able to seize power. This psychological easy-goingness, together with a narcissistic indifference to others, constitutes the true “post-modern” age.
There are Various Possible Definitions of “Post-Modernity”
On the other hand, if we perceive—contrary to Lipovetsky’s usage—“modernity” or “modernism” as expressions of the metanarrative, thus as brakes on Faustian energy, post-modernity will necessarily be a return to the political, a rejection of para-magical creationism and anti-political suspicion that emerged after May 68, in the wake of speculations on “instrumental reason” and “objective reason” described by Horkheimer and Adorno.
The complexity of the “post-modern” situation makes it impossible to give one and only one definition of “post-modernity.” There is not one post-modernity that can lay claim to exclusivity. On the threshold of the 21st century, various post-modernities lie fallow, side by side, diverse potential post-modern social models, each based on fundamentally antagonistic values fundamentally antagonistic, primed to clash. These post-modernities differ—in their language or their “look”—from the ideologies that preceded them; they are nevertheless united with the eternal, immemorial, values that lie beneath them. As politics enters the historical sphere through binary confrontations, clashes of opposing clans and the exclusion of minorities, dare to evoke the possible dichotomy of the future: a neo-liberal, Western, American and American-like post-modernity versus a shining Faustian and Nietzschean post-modernity.
The “Moral Generation” & the “Era of the Vacuum”
This neo-liberal post-modernity was proclaimed triumphantly, with Messianic delirium, by Laurent Joffrin in his assessment of the student revolt of December 1986 (Un coup de jeune [A Coup of Youth], Arlea, 1987). For Joffrin, who predicted[9] the death of the hard left, of militant proletarianism, December ’86 is the harbinger of a “moral generation,” combining in one mentality soft leftism, lazy-minded collectivism, and neo-liberal, narcissistic, and post-political selfishness: the social model of this hedonistic society centered on commercial praxis, that Lipovetsky described as the era of the vacuum. A political vacuum, an intellectual vacuum, and a post-historical desert: these are the characteristics of the blocked space, the closed horizon characteristic of contemporary neo-liberalism. This post-modernity constitutes a troubling impediment to the greater Europe that must emerge so that we have a viable future and arrest the slow decay announced by massive unemployment and declining demographics spreading devastation under the wan light of consumerist illusions, the big lies of advertisers, and the neon signs praising the merits of a Japanese photocopier or an American airline.
On the other hand, the post-modernity that rejects the old anti-political metanarrative of the Enlightenment, with its metamorphoses and metastases; that affirms the insolence of a Nietzsche or the metallic ideal of a Jünger; that crosses the “line,” as Heidegger exhorts, leaving behind the sterile dandyism of nihilistic times; the post-modernity that rallies the adventurous to a daring political program concretely implying the rejection of the existing power blocs, the construction of an autarkic Eurocentric economy, while fighting savagely and without concessions against all old-fashioned religions and ideologies, by developing the main axis of a diplomacy independent of Washington; the post-modernity that will carry out this voluntary program and negate the negations of post-history—this post-modernity will have our full adherence.
In this brief essay, I wanted to prove that there is a continuity in the confrontation of the “Faustian” and “magian” mentalities, and that this antagonistic continuity is reflected in the current debate on post-modernities. The American-centered West is the realm of “magianisms,” with its cosmopolitanism and authoritarian sects.[10] Europe, the heiress of a Faustianism much abused by “magian” thought, will reassert herself with a post-modernity that will recapitulate the inexpressible themes, recurring but always new, of the Faustianness intrinsic to the European soul.
Notes
1. The classic among classics in the condemnation of “irrationalism” is the summa of György Lukács, The Destruction of Reason, 2 vols. (1954). This book aims to be a kind of Discourse on Method for the dialectic of Enlightenment-Counter-Enlightenment, rationalism-irrationalism. Through a technique of amalgamation that bears a passing resemblance to a Stalinist pamphlet, broad sectors of German and European culture, from Schelling to neo-Thomism, are blamed for having prepared and supported the Nazi phenomenon. It is a paranoiac vision of culture.
2. To understand the fundamental irrationality of Sartre’s Communism, one should read Thomas Molnar, Sartre, philosophie de la contestation (Paris: La Table Ronde, 1969). In English: Sartre: Ideologue of Our Time (New York : Funk & Wagnalls, 1968).
3. Cf. R.-M. Alberes, Jean-Paul Sartre (Paris: Éditions Universitaires, 1964), 54–71.
4. In France, the polemic aiming at a final rejection of the anti-humanism of ’68 and its Nietzschean, Marxist, and Heideggerian philosophical foundations is found in Luc Ferry and Alain Renaut, French Philosophy of the Sixties: An Essay on Anti-Humanism, trans. Mary H. S. Cattani (Amherst: University of Massachusetts Press, 1990) and its appendix ’68–’86. Itinéraires de l’individu [’68-’86: Routes of the Individual] (Paris: Gallimard, 1987). Contrary to the theses defended in first of these two works, Guy Hocquenghem in Lettre ouverte à ceux qui sont passés du col Mao au Rotary Club [Open Letter to those Went from Mao Jackets to the Rotary Club] (Paris: Albin Michel, 1986) deplored the assimilation of the hyper-politicism of the generation of 1968 into the contemporary neo-liberal wave. From a definitely polemical point of view and with the aim of restoring debate, such as it is, in the field of philosophical abstraction, one should read Eddy Borms, Humanisme—kritiek in het hedendaagse Franse denken [Humanism: Critique in Contemporary French Thought (Nijmegen: SUN, 1986).
5. Jean Cau, the former secretary of Jean-Paul Sartre, now classified as a polemist of the “right,” who delights in challenging the manias and obsessions of intellectual conformists, did not hesitate to pay homage to Che Guevara and to devote a book to him. The “radicals” of the bourgeois accused him of “body snatching”! Cau’s rigid right-wing admirers did not appreciate his message either. For them, the Nicaraguan Sandinistas, who nevertheless admired Abel Bonnard and the American “fascist” Lawrence Dennis, are emanations of the Evil One.
6. Cf. A. Vergez, Marcuse (Paris: P.U.F., 1970).
7. Julien Freund, Qu’est-ce que la politique? [What is Politics?] (Paris: Seuil, 1967). Cf Guillaume Faye, “La problématique moderne de la raison ou la querelle de la rationalité” [“The Modern Problem of Reason or the Quarrel of Rationality”] Nouvelle Ecole no. 41, November 1984.
8. G. Lipovetsky, L’ère du vide: Essais sur l’individualisme contemporain [The Era of the Vacuum: Essays on contemporary individualism] (Paris: Gallimard, 1983). Shortly after this essay was written, Gilles Lipovetsky published a second book that reinforced its viewpoint: L’Empire de l’éphémère: La mode et son destin dans les sociétés modernes [Empire of the Ephemeral: Fashion and its Destiny in Modern Societies] (Paris: Gallimard, 1987). Almost simultaneously François-Bernard Huyghe and Pierre Barbès protested against this “narcissistic” option in La soft-idéologie [The Soft Ideology] (Paris: Laffont, 1987). Needless to say, my views are close to those of the last two writers.
9. Cf. Laurent Joffrin, La gauche en voie de disparition: Comment changer sans trahir? [The Left in the Process of Disappearance: How to Change without Betrayal?] (Paris: Seuil, 1984).
10. Cf. Furio Colombo, Il dio d’America: Religione, ribellione e nuova destra [The God of America: Religion, Rebellion, and the New Right] (Milano: Arnoldo Mondadori, 1983).