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mardi, 22 juin 2010

Torheiten

Mourning_Athena.jpgTorheiten

Ex: http://rezistant.blogspot.com/
Die persönlichen Interessenverflechtungen sind in einer durchentwickelten Volksgemeinschaft derartig vielgestaltig und wegen des Spezialistentums so unlösbar, dass es weder zu einer erhöhten Freiheit noch zu einer wirklichen Brüderlichkeit und vor allem niemals zu einer echten Gleichheit kommen kann. In jedem einzelnen der unzähligen Fachgebiete muss es stets Zuständigkeiten, Befehlsbefugnisse, Verantwortlichkeiten, Kritikverbote und Gehorsamsverpflichtungen geben. Das ganze komplizierte Gebäude der Zusammenarbeit würde sehr schnell auseinander brechen, wenn jedermann in jeder Sache über seine spezielle Berufung hinaus ein Mitbestimmungsrecht ausüben würde, und sei es auch nur in personellen Fragen.

In der Politik kann es sich nicht anders verhalten, und infolgedessen pflegen politische Diskussionen in einer Demokratie unfachlich und praktisch unfruchtbar zu sein. Sie bedeuten eine ungeheuerliche Kraft- und Zeitvergeudung, wie es immer der Fall ist, wenn sich Laien in fachliche Dinge einmischen - noch dazu ohne für ihre Torheiten zur Verantwortung gezogen werden zu können - oder wenn Staatsführungen ihre Massnahmen auf ein laienhaftes Verständnis abstimmen müssen.

Hans Domizlaff, Die Seele des Staates. - Die Geburtsfehler der Demokratie. Privatdruck, Hamburg 1957.

dimanche, 20 juin 2010

L'occidentalizzazione del mondo nel pensiero di Aleksandr Zinov'ev

L’occidentalizzazione del mondo nel pensiero di Aleksandr Zinov’ev

di Francesco Lamendola

Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]





Se n’è andato, alla fine, nel 2006, il terribile vecchio, all’età di ottantatre anni.
Filosofo prestigioso, specializzato in questioni di logica; matematico geniale; romanziere amaro ed eccentrico; critico implacabile di tutto e di tutti: del comunismo e del post-comunismo; della Russia e dell’Occidente; del totalitarismo e della democrazia; uomo contro per eccellenza, ostinato, implacabile accusatore e irriducibile derisore di ogni conformismo, di ogni pigrizia mentale, di ogni acquiescenza al potere, qualunque esso sia: tale è stato Aleksandr Zinov’ev. Se l’è portato via, ancora indomito, un tumore al cervello; ma non se n’è andato in punta di piedi, bensì ruggendo e irridendo tutte le ipocrisie e tutte le forme di demagogia.
In Occidente non se ne sono accorti in molti, perché il personaggio era talmente scomodo che si è fatto di tutto per non propagarne li pericoloso messaggio: aveva attaccato Stalin e criticato Gorbaciov, accusato Eltsin e denunciato Putin; aveva, soprattutto, messo in guardia contro la ridicola pretesa occidentale (Fukuyama e soci) che, con la caduta dell’Unione Sovietica, anche il comunismo fosse finito per sempre. «Ritornerà - aveva detto - magari in forme inusuali ed inedite»; e non già perché ne avesse nostalgia, lui che fin dal 1976 era stato costretto all’esilio a causa della pubblicazione, in Germania, del suo romanzo «Cime abissali», ma che pure, davanti alle brutture del post-comunismo in Russia, aveva fatto il tifo per Gennadij Zjuganov, leader del vecchio Partito Comunista russo.
Gli avevano tolto tutti gli incarichi universitari; lo avevano espulso dalle istituzioni sovietiche; gli avevamo perfino strappato dal petto le decorazioni al valor militare guadagnate durante la seconda guerra mondiale (era stato un valoroso pilota di aviazione); ma non erano riusciti a ridurlo al silenzio. Poi, però, una volta caduta l’Unione Sovietica (come lui aveva previsto, allorché aveva criticato la “katastrojka” gorbacioviana), l’Occidente non aveva più avuto bisogno di lui; di lui che si era mostrato subito estremamente critico verso le forme sgangherate e mafiose del neocapitalismo proliferate in Russia sulle ceneri dell’ideologia marxista-leninista e che aveva denunciato come la sua patria fosse divenuta una semplice “colonia” dell’Occidente. Di lui che, soprattutto, si era mostrato critico implacabile delle “magnifiche sorti e progressive” promesse all’intera umanità dai fautori della globalizzazione.
Per lui, c’era qualcosa di ancor peggiore, sociologicamente parlando, dell’”uomo comunista”, ed era l’”homo sovieticus”: un tipo umano che voleva unire l’ozio e il parassitismo sociale, tipico della vecchia Unione Sovietica, con lo sfrenato desiderio del “tutto e subito” della Russia eltsiniana e putiniana, dominata da innominabili cricche e da squali della finanza e da avventurieri al caviale, mentre la massa del popolo faceva ancora le code nei negozi e non era in grado di pagarsi l’affitto di una abitazione decente.
Non che il mito del “popolo” facesse molta presa in lui, critico corrosivo ed implacabile demistificatore di tutte le ideologie umanitarie e progressiste della modernità; la stessa “umanità” era, per lui, una delle più subdole e delle più esiziali invenzioni dell’Occidente.
Vittorio Strada, in un celebre articolo sul «Corriere della Sera» del 30 dicembre 1997, così riassumeva le sue idee in proposito:

«C’era una volta l’Umanità… Inventata dagli stoici, spiritualizzata dal cristianesimo, secolarizzata dall’illuminismo, l’umanità, non come specie biologica classificata tra i mammiferi, ma come entità culturale inclassificabile tra gli organismi, è giunta al suo più alto grado di sviluppo o, meglio, di progresso,che ne segna però il tramonto, già iniziato in questa fine di secolo. […]  Iniziato con  la lieta novella che il nostro è forse “l’ultimo secolo umano”, cui seguiranno secoli di “storia superumana o postumana”questo “romanzo sociofuturologico” [ossia «L’umanaio globale»] non è tutto tenebroso, poiché a rischiararlo qua e là intervengono squarci di nostalgiche rievocazioni del comunismo sovietico che Zinov’ev criticò non per abbatterlo ma per salvarlo. Un comunismo che egli, in una variante mostruosamente peggiorata perché totalmente razionalizzata, ritrova proprio nell’umanaio occidentale, del quale la Russia, disse crucciato Zinov’ev, è diventata una colonia…»

Ora, di “occidentalizzazione” del mondo ci aveva già parlato Serge Latouche, ma con riferimento pressoché esclusivo ai paesi del Terzo e Quarto Mondo; mentre il punto di vista di Zinov’ev è molto più interessante, perché è quello di un russo che ha visto la sua patria “occidentalizzarsi” a tappe forzate, nel giro di pochi anni o pochissimi decenni; benché il processo fosse iniziato già da alcuni secoli e si fosse accelerato con l’azione riformatrice dello zar Pietro il Grande, per non parlare della “grande” Caterina, la sovrana illuminata…
Il punto di vista di Zin’ov è più ampio e più penetrante: da russo che ha visto e vissuto il traumatico passaggio dal totalitarismo sovietico, burocratico e inefficiente, al capitalismo d’assalto e semi-mafioso, ma con le stesse classi dirigenti gattopardescamente traghettate dall’uno all’altro, egli ci aiuta ad osservare il fenomeno dell’occidentalizzazione non solo nella sua dimensione coloniale o semicoloniale, ma anche in quella, più sottile e insidiosa, della cooptazione ideologica in guanti di velluto, basata sulla seduzione consumista e sulla filosofia cialtrona e irresponsabile del “tutto e subito”.
Il grande Dostojevskij lo aveva previsto o quantomeno paventato: occidentalizzandosi, la Russia avrebbe perduto la propria anima in cambio di un piatto di lenticchie. Ma Zinov’ev non ha più nemmeno l’illusione della “santa Russia”, l’illusione di quella arcaica e patriarcale Rus’ in cui ancora Sergej Esenin, ai primi del Novecento, aveva creduto, o voluto credere, con tutto il suo palpitante e disperato amore di poeta. Ciò rende l’analisi di Zinov’ev amara, impietosa, ma lucidissima e difficilmente confutabile.
Citiamo un passaggio chiave da «L’umanaio globale» (titolo originale: «Globalnyj Celovejnik», Mosca, Tsentrpoligraf, 1997; traduzione italiana di Alexei Hazov e Anna Cau, Milano, Spirali, 1998, pp. 167-173):

«I paesi occidentali si sono strutturati storicamente in “stati nazionali”, come organizzazioni sociali di livello organizzativo relativamente superiore al resto dell’umanità, come particolare “sovrastruttura” superiore alle altre.  Essi hanno sviluppato al loro interno  forze e capacità dio conquista  e di dominio sugli altri popoli.  E il concorso delle circostanze storiche ha dato loro la possibilità  di sfruttare il proprio vantaggio.  Io on ravviso in questo niente di amorale e di criminale.  I criteri della morale e del diritto non hanno senso se applicati ai processi storici.
L’aspirazione dei paesi occidentali a dominare il mondo  circostante non è soltanto frutto di malafede o di qualche loro particolare ambito. È condizionata dalle leggi dell’essere sociale.  L’influsso esercitato sull’evoluzione dell’umanità è stato contraddittorio. È stata una possente fonte di progresso. Ma è stata anche una non meno possente fonte di sciagure.  Ha prodotto innumerevoli guerre sanguinose, comprese due guerre mondiali “calde” e una “fredda”. Non solo non è scomparsa  col tempo, ma si è rafforzata.  Ha assunto nuove forme. Tra l’altro, la conquista di altri paesi e popoli è diventata una condizione indispensabile  per la sopravivenza dei paesi e dei popoli dell’Occidente. La tragedia della grande storia non consiste nel fatto che qualche uomo  malvagio, rapace e stupido spinga  l’umanità nella direzione sbagliata, ma nel fatto che l’umanità  è costretta a muoversi in questa direzione nonostante la volontà e i desideri di uomini buoni, generosi e intelligenti.
Con l’ovestismo l’Occidente ha sviluppato al suo interno un metabolismo incredibilmente intenso. Ha bisogno di risorse naturali, di mercati di sbocco,  di sfere d’investimento dei capitali, di forza lavoro a basso costo, di fonti di energia, ecc., in misura sempre crescente. Ma le possibilità sono limitate. E compaiono nuovi concorrenti,  che limitano ancora di più queste possibilità fino a minacciare l’esistenza  e il benessere dell’Occidente. La spinta dell’Occidente  al dominio mondiale, qualsiasi veste ideologica indossi,  è il bisogno vitale di conservare le posizioni raggiunte e sopravvivere in condizioni storiche rischiose.  L’intero sviluppo storico induce l’Occidente a perseguire un ordine mondiale  rispondente ai suoi interessi. E ha le forze per farlo. Durante la guerra fredda l’Occidente aveva elaborato una strategia politica, volta a stabilire un nuovo ordine conforme alla nuova situazione mondiale. Io l’ho denominata “occidentalizzazione” (“wetsernizzazione”).L’occidentalizzazione è l’aspirazione del’Occidente a rendere gli altri paesi simili a sé per ordinamento sociale, sistema economico e politico, ideologia, psicologia e cultura.  Dal punto di vista ideologico viene presentata come una missione umanitaria, disinteressata e liberatoria dell’Occidente, che ha la sua massima espressione nello sviluppo ella civiltà e nella concentrazione di tutte le virtù concepibili.  Noi siamo liberi, ricchi e felici - dice l’Occidente ai popoli da occidentalizzare - e vogliamo aiutarvi  a diventare liberi, ricchi e felici. Ma la reale sostanza dell’occidentalizzazione è tutt’altra.
Lo scopo dell’occidentalizzazione è assorbire gli altri paesi nella propria sfera d’influenza, , di potere e di sfruttamento. Assorbirli non con il ruolo di partner a pari potere e diritto - è praticamente impossibile vista la disparità di fatto delle forze -, ma con quello che l’Occidente ritiene più vantaggioso per sé. Tale ruolo può soddisfare una parte di cittadini dei paesi occidentalizzati, sia oppure per breve tempo. Ma nel complesso, è un ruolo di secondo piano e ausiliario. L’Occidente ha una potenza tale da non consentire la comparsa di paesi di tipo occidentale da esso indipendenti., che minacciano il suo dominio su una parte del pianeta conquistata e, in prospettiva, sull’intero pianeta.
L’occidentalizzazione di un dato paese non è solamente un’influenza dell’occidente su di esso, non è semplicemente l’imitazione di singoli fenomeni del modo di vita occidentale, non significa utilizzare i valori prodotti dall’Occidente, non è la possibilità di viaggiare in Occidente, ecc., ma è  qualcosa di molto più profondo e importante per esso.  È la ristrutturazione delle sue stesse fondamenta, della sua organizzazione sociale, del sistema di governo dell’ideologia, della mentalità della popolazione. Queste trasformazioni non sono fini a se stese, ma sono un mezzo per ottenere  quanto abbiamo detto prima.
L’occidentalizzazione non esclude la volontà dei paesi occidentalizzati, e neanche il desiderio, di percorrere questa via. Proprio a questo aspira l’Occidente: che la vittima predestinata si offra da sola al sacrificio, e che provi, per questo, anche riconoscenza. A tal fine è stato creato un potente sistema di seduzione e d’indottrinamento ideologico delle masse. Ma in ogni circostanza l’occidentalizzazione è unì’operazione attiva dell’Occidente, che non esclude neppure la violenza. La volontà da parte dei paesi occidentalizzabili non significa che tutta la loro popolazione accetti già questo orientamento della propria evoluzione. All’interno vi sono categorie in lotta  a favore o contro l’occidentalizzazione. L’occidentalizzazione non sempre riesce a spuntarla, come, ad  esempio,  è successo in Iran e in Vietnam.
L’intera attività di liberazione e di  civilizzazione dell’Occidente ha avuto in passato un unico scopo: la conquista del mondo per sé e non per gli altri, l’assoggettamento del pianeta ai propri interessi  e non a quelli altrui. Ha trasformato tutto ciò che lo circonda, perché gli stessi paesi occidentali potessero viverci comodamente. Quando qualcuno ha cercato di ostacolarlo, non ha avuto scrupoli a ricorrere a qualsiasi mezzo.  Il percorso storico del mondo è stato costellato di violenza, truffa e rappresaglia. Adesso le condizioni sono cambiate. L’Occidente è ormai diverso.  Ha mutato la propria strategia e tattica. La sostanza però  non è cambiata. Del resto non può essere diversamente, perché è una legge della natura. Ora, l’Occidente propugna la soluzione pacifica dei problemi, perché quella militare è pericolosa, e i metodi pacifici  gli creano una reputazione di arbitro supremo e giusto. Tali metodi pacifici hanno una particolarità: sono pacifico-coercitivi.  L’Occidente ha una potenza economica, propagandistica ed economica sufficiente a costringere i recalcitranti con metodi pacifici a fare ciò che gli serve. L’esperienza dimostra  che i mezzi pacifici possono essere integrati da quelli militari. Per questo motivo, qualunque sia la fase iniziale dell’occidentalizzazione di questo o quel paese, si evolverà comunque in un’occidentalizzazione forzata.
Per operare l’occidentalizzazione è stata messa a punto una tattica speciale. Vengono utilizzati i seguenti provvedimenti. Gettare discredito su tutti i principali attributi dell’ordinamento sociale del paese da occidentalizzare. Destabilizzarlo. Favorire la crisi dell’economia, dell’apparato statale e dell’ideologia. Dividere la popolazione in gruppi reciprocamente ostili, disgregarla, sostenere qualsiasi movimento d’opposizione, corrompere l’élite intellettuale e gli strati privilegiati. Contemporaneamente, propagandare i pregi della vita occidentale. Incitare la popolazione a invidiare l’abbondanza occidentale.  Creare l’illusione che quest’abbondanza sia raggiungibile anche da esso in brevissimo tempo se si porrà sulla via  delle trasformazioni seguendo i modelli occidentali.  Contagiarlo con i vizi della società occidentale, presentandoli  come manifestazioni di autentica liberà individuale. Aiutare economicamente il paese solo nella misura in cui ciò favorisce la distruzione della sua economia e la rende dipendente dall’Occidente,m mentre l’Occidente appare come suo disinteressato salvatore dai mali del modello di vita recedente.
L’occidentalizzazione è una forma particolare di colonialismo, in seguito al quale nel paese colonizzato si crea un modello sociopolitico di “democrazia coloniale” (secondo la mia terminologia),. Per alcuni tratti è la continuazione della vecchia strategia coloniale dei paesi occidentali, soprattutto della Gran Bretagna. Ma nel complesso è un uovo fenomeno, tipico del mondo contemporaneo. La sua paternità può essere attribuita, a ragion veduta, agli Usa.
La democrazia coloniale non è il risultato dell’evoluzione naturale dei paesi  colonizzati, in virtù  delle condizioni  interne e delle regole del suo ordinamento sociopolitico.  È qualcosa di artificioso, imposto dall’esterno e contro le tendenze evolutive manifestatesi storicamente. È sostenuta  dai metodi del colonialismo. Inoltre,  il paese colonizzato viene staccato dal sistema preesistente di rapporti internazionali. Ciò si ottiene distruggendo  i blocchi di paesi e disintegrando i grandi paesi, come è successo al blocco sovietico, all’Unione Sovietica e alla Jugoslavia.
Il paese avulso dal precedente sistema di rapporti   mantiene una parvenza di sovranità. Con esso si stabiliscono rapporti di partenariato apparentemente alla pari.  Gran parte della popolazione mantiene alcuni aspetti del modo di vivere precedente.  Si creano oasi economiche di modello quasi occidentale., sotto il controllo delle banche e delle compagnie occidentali,  nonché imprese  esclusivamente occidentali o miste. Ho usato la parola “quasi”, poiché queste oasi economiche  sono solo un’imitazione dell’economia occidentale moderna.
Al paese vengono imposti attributi esteriori  del sistema politico occidentale: multipartitismo,  parlamento, libere elezioni,  presidente, ecc. In realtà sono solo la copertura  di un sistema affatto democratico, ma piuttosto dittatoriale (“autoritario”). Lo sfruttamento del paese nell’interesse dell’Occidente  avviene con l’aiuto di una parte irrilevante della popolazione, che si nutre di questa funzione. Questi uomini hanno un elevato livello di vita, paragonabile a quello dei più ricchi strati dell’Occidente.
Il paese da colonizzare viene ridotto in uno stato tale che non può più funzionare autonomamente. Viene poi smilitarizzato fino a non essere più assolutamente in grado di opporre resistenza. Le forze armate servono solo a contenere le proteste della popolazione e a circoscrivere i tentativi dell’opposizione di cambiare lo status quo.
La cultura nazionale scade a un livello pietoso. Il suo posto viene occupato dai campioni più primitivi di cultura, o meglio, di pseudocultura occidentale. Alle masse vengono concessi: un surrogato della democrazia sotto forma  di libertinaggio, una blanda sorveglianza  da parte delle autorità, accesso ai divertimenti, un sistema di valori che affranca gli uomini dalla necessità di controllarsi e dalla morale.»

Come si vede, la posizione di Zinov’ev non è moralistica, poiché egli sgombra li terreno della storia dalla morale fin dall’inizio e sostiene (un residuo dell’hegelismo e dello stesso marxismo?) che la direzione della storia è quella che è, e pertanto che sarebbe vano deprecare certe conseguenze, una volta compresa la “necessità” delle premesse.
Ciò non toglie che la sua analisi sia lucida, penetrante, quasi spietata. Zinov’ev è un formidabile demistificatore: leggendo le sue pagine, non si può fare a meno di correre col pensiero all’Afghanistan, all’Iran, a tutti quei casi nei quali la posta in gioco del conflitto con l’Occidente è, appunto, l’occidentalizzazione, intesa come omologazione totale di quei Paesi ai valori, ai sistemi economici e finanziari, alla mentalità occidentale; ossia, allo scardinamento irreparabile dei precedenti sistemi social, economici e culturali, attuato nell’interesse di una parte minoritaria della popolazione e a danno della maggioranza di essa.
La democrazia, il parlamentarismo, non sono che specchietti per le allodole. Oppure qualcuno pensa davvero che il corrotto Kharzai sia preferibile al mullah Omar, non per l’egoistico tornaconto dell’Occidente, ma per gli interessi reali del popolo afghano? E che dire del tam-tam mediatico scatenato dall’Occidente intorno all’opposizione interna iraniana, spingendo migliaia di studenti a farsi massacrare dai Guardiani della Rivoluzione di Teheran, nell’interesse e col denaro dei servizi segreti occidentali, americani in primis?
C’è tuttavia una precisazione da fare, secondo noi, riguardo alle riflessioni sviluppate da Zinov’ev in merito al termine e al concetto stesso di “occidentalizzazione”.
Da buon russo, Zinov’ev considera “Occidente” tutto ciò che sta ad ovest della Russia, a cominciare dalla Polonia; e, d’accordo con la terminologia invalsa già da alcuni decenni, non distingue affatto tra Europa centro-occidentale e l’entità Stati Uniti-Canada; anzi, è fuori di dubbio che egli vi includa mentalmente anche l’Australia e la Nuova Zelanda.
Questa, però, è una grossolana semplificazione. Per un Italiano, un Francese o un Tedesco, “Occidente” è un termine ambiguo, che accomuna come se fossero omogenee, delle parti profondamente differenziate. Proponiamo pertanto che non si parli di “occidentalizzazione” del mondo, ma di “americanizzazione” : processo che è iniziato durante la prima guerra mondiale e che ha ricevuto la spinta decisiva durante la seconda, per poi proseguire “a tappeto” nella seconda metà del Novecento, grazie non solo al Piano Marshall, ma anche a Hollywood, al “blues”, al “jazz”, al “rock and roll”, alla televisione, alla pubblicità, a Hemingway, Faulkner, Fitzgerald, alla bomba atomica, alla Coca-Cola, al chewing-gum, alla conquista della Luna, alla “gioventù bruciata”, al mito scintillante di Manhattan e di Las Vegas, alla rivolta di Berkeley.
L’Italia, per esempio: cuore della civiltà europea per almeno tre volte - con l’Impero Romano, con la Chiesa cattolica e con il Rinascimento - non è diventata “Occidente” se non a partire dalla seconda guerra mondiale: prima con i devastanti bombardamenti arerei dei “liberatori” criminali, nel 1943-45; poi con il pane bianco, le sigarette e i dollari “generosamente” profusi dagli Usa per la ricostruzione; infine con il mito del “boom” economico e la distruzione della civiltà contadina, fra gli anni Cinquanta e Sessanta del ‘900.
Lo schema è sempre lo stesso: prima la seduzione culturale dell’american way of life, della musica leggera, del cinema (come è avvenuto tra le due guerre); poi l’attacco armato, brutale, spietato, scientificamente distruttivo; infine, di nuovo, l’invasione culturale, resa ancor più irresistibile dall’alone di gloria che sempre circonfonde i vincitori di turno. È lo stesso schema che abbiamo visto in atto nell’Afghanistan, dopo il 2001: come gli Afghani, anche noi abbiamo sperimentato i tre tempi: seduzione culturale; guerra e bombardamenti; invasione economico-finanziaria e nuova, definitiva ondata culturale.
Sarebbe ora di distinguere fra “Occidente” ed “Europa”. L’Europa, come giustamente affermava De Gaulle, va dall’Atlantico agli Urali. Comprende la Russia (senza la parte asiatica), di certo non comprende gli Stati Uniti e il Canada; a nostro avviso, inoltre, comprende solo in parte la Gran Bretagna. Il Canale della Manica è molto più largo di quel che non dica la geografia: fin dai tempi di Elisabetta Tudor, anzi fin dai tempi della Guerra dei Cent’Anni, per gli Inglesi l’Europa è “il continente”, una trascurabile appendice della loro inimitabile isola; per loro (ed hanno perfettamente ragione), gli Stati Uniti sono molto più vicini della Francia o dell’Olanda, in tutti i sensi; per non parlare dell’Ungheria, della Svezia o della Russia.
Loro guidano a sinistra; non si sentono veramente europei, ma isolani; l’Europa è quel continente che hanno sempre cercato di tenere diviso, indebolito, pieno di rancori, per poterlo meglio dominare finanziariamente ed economicamente.
Quando non ci sono più riusciti con le sole loro forze, a partire dal 1917, hanno chiesto aiuto ai loro nipotini americani.
Anche noi siamo stati occidentalizzati, caro Zinov’ev, nel senso di americanizzati: col bastione e con la carota; e anche noi, da ultimo, lo abbiamo fatto con zelo, con entusiasmo, addirittura con frenesia.


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mardi, 15 juin 2010

D. H. Lawrence

D.H. Lawrence

Ex: http://www.oswaldmosley.com/

D.H. Lawrence 1885-1930 is acknowledged as one of the most influential novelists of the 20th Century. He wrote novels and poetry as acts of polemic and prophecy. For Lawrence saw himself as both a prophet and the harbinger of a New Dawn and as a leader-saviour who would sacrificially accept the tremendous responsibilities of political power as a dictator so that humanity could be free to get back to being human.

Much of Lawrence's outlook is reminiscent of Jung and Nietzsche but, although he was acquainted with the works of both, his philosophy developed independently. Lawrence was born in Eastwood, a coal-mining town near Nottingham, into a family of colliers. His father was a heavy drinker, and his mother's commitment to Christianity imbued the house with continual tension between the parents. At college, he was an agnostic and determined to become a poet and an author. Having rejected the faith of his mother, Lawrence also rejected the counter-faith of science, democracy, industrialisation and the mechanisation of man.

LOVE, POWER AND THE "DARK LORD"

dh-lawrence.jpgFor Lawrence capitalism destroyed the soul and the mystery of life, as did democracy and equality. He devoted most of his life to finding a new-yet-old religion that will return the mystery to life and reconnect humanity to the cosmos.

His religion was animistic and pantheistic, seeing the soul as pervasive, God as nature, and humanity as the way God is self-realised. The relations between all things are based on duality -opposites in tension. This duality is expressed in two ways: love and power. One without the other results in imbalance. Hence, to Lawrence, the love of Christianity is a sentimentality that destroys the natural hierarchy of social relations and the inequality between individuals. The critique of Christianity is reminiscent of Nietzsche.

Love and power are the two "threat vibrations" which hold individuals together, and emanate unconsciously from the leadership class. With power, there is trust, fear and obedience. With love, there is "protection" and "the sense of safety". Lawrence considers that most leaders have been out of balance with one or the other. That is the message of his novel Kangaroo. Here the Englishman Richard Lovat Somers although attracted to the fascist ideology of "Kangaroo" and his Diggers movement, ultimately rejects it as representing the same type of enervating love as Christianity, the love of the masses, and pursues his own individuality. The question for Somers is that of accepting his own dark master (Jung's Shadow of the repressed unconscious). Until that returns no human lordship can be accepted:

"He did not yet submit to the fact of what he HALF knew: that before mankind would accept any man for a king. Before Harriet would ever accept him, Richard Lovat as a lord and master he, this self-same Richard who was strong on kingship, must open the doors of his soul and let in a dark lord and master for himself, the dark god he had sensed outside the door. Let him once truly submit to the dark majesty, creaking open his doors to this fearful god who is master, and entering us from below, the lower doors; let himself once admit a master, the unspeakable god: the rest would happen."

What is required, once the dark lord has returned to men's souls in place of undifferentiated 'love' is a social order based on a hierarchical pyramid culminating in a dictator. The dictator would relieve the masses of the burden of democracy. This new social order would be based on the balance of power and love, something of a return to the medieval ideal of protection and obedience.

The ordinary folk would gain a new worth by giving obedience to the leader, who would in turn assume an awesome responsibility and would lead by virtue of his being "circuited" to the cosmos. Through such a redeeming philosopher-king individuals could reconnect cosmically and assume Heroic proportions through obedience to Heroes.

"Give homage and allegiance to a hero, and you become yourself heroic, it is the law of man."

HEROIC VITALISM
Hence, heroic vitalism is central to Lawrence's ideas. His whole political concept is antithetical to what he called "the three fanged serpent of Liberty, Equality, Fraternity." Instead, "you must have a government based on good, better and best."

In 1921 he wrote: "I don't believe in either liberty or democracy. I believe in actual, sacred, inspired authority." It is mere intellect, soulless and mechanistic, which is at the root of our problems; it restrains the passions and kills the natural.

His essay on Lady Chatterley's Lover deals with the social question. It is the mechanistic, arising from pure intellect, devoid of emotion, passion and all that is implied in the blood (instinct) that has caused the ills of modern society.

"This again is the tragedy of social Itfe today. In the old England, the curious blood connection held the classes together. The squires might be arrogant violent, bullying and unjust, yet in some ways they were at one with the people, part of the same blood stream. We feel it in Defoe or Fielding. And then in the mean Jane Austen, it is gone...So, in Lady Chatterley's Lover we have a man, Sir Clifford, who is purely a personality, having lost entirely all connection with his fellow men and women, except those of usage. All warmth is gone entirely, the hearth is cold the heart does not humanly exist. He is a pure product of our civilisation, but he is the death of the great humanity of the world."

Against this pallid intellectualism, the product the late cycle of a civilisation, writing in 1913 Lawrence posited: "My great religion is a belief in the blood, as the flesh being wiser than the intellect. We can go wrong in our minds but what our blood feels and believes and says, is always true."

The great cultural figures of our time, including Lawrence, Yeats, Pound and Hamsun, were Thinkers of the Blood, men of instinct, which has permanence and eternity. Rightly, the term intellectual became synonymous since the 1930s with the "Left", but these intellectuals were products of their time and the century before. They are detached from tradition, uprooted, alienated bereft of instinct and feeling. The first 'Thinkers of the Blood' championed excellence and nobility, influenced greatly by Nietzsche, and were suspicious, if not terrified of the mass levelling results of democracy and its offspring communism. In democracy and communism, they saw the destruction of culture as the pursuit of the sublime. Their opposite numbers, the intellectuals of the Left, celebrated the rise of mass-man in a perverse manner that would, if communism were universally triumphant, mean the destruction of their own liberty to create above and beyond the state commissariats.

Lawrence believed that socialistic agitation and unrest would create the climate, in which he would be able to gather around him "a choice minority, more fierce and aristocratic in spirit" to take over authority in a fascist like coup, "then I shall come into my own."

Lawrence's rebellion is against that late or winter phase of civilisation, which the West has entered as, described by Spengler. It is marked by the rise of the city over the village, of money over blood connections. Like Spengler, Lawrence's conception of history is cyclic, and his idea of society organic.

Against this pallid intellectualism, the product the late cycle of a civilisation, writing in 1913 Lawrence posited: "My great religion is a belief in the blood, as the flesh being wiser than the intellect. We can go wrong in our minds but what our blood feels and believes and says, is always true."

The great cultural figures of our time, including Lawrence, Yeats, Pound and Hamsun, were Thinkers of the Blood, men of instinct, which has permanence and eternity. Rightly, the term intellectual became synonymous since the 1930s with the "Left", but these intellectuals were products of their time and the century before. They are detached from tradition, uprooted, alienated bereft of instinct and feeling. The first 'Thinkers of the Blood' championed excellence and nobility, influenced greatly by Nietzsche, and were suspicious, if not terrified of the mass levelling results of democracy and its offspring communism. In democracy and communism, they saw the destruction of culture as the pursuit of the sublime. Their opposite numbers, the intellectuals of the Left, celebrated the rise of mass-man in a perverse manner that would, if communism were universally triumphant, mean the destruction of their own liberty to create above and beyond the state commissariats.

Lawrence believed that socialistic agitation and unrest would create the climate, in which he would be able to gather around him "a choice minority, more fierce and aristocratic in spirit" to take over authority in a fascist like coup, "then I shall come into my own."

Lawrence's rebellion is against that late or winter phase of civilisation, which the West has entered as, described by Spengler. It is marked by the rise of the city over the village, of money over blood connections. Like Spengler, Lawrence's conception of history is cyclic, and his idea of society organic.

RELIGION OLD AND NEW
Lawrence sought a return to the pagan outlook with its communion with life and the cosmic rhythm. He was drawn to blood mysticism and what he called the dark gods. It was the 'Dark God' that embodied all that had been repressed by late civilisation and the artificial world of money and industry. His quest took him around the world. Reaching New Mexico in 1922, he observed the rituals of the Pueblo Indians. He then went to Old Mexico where he then stayed for several years.

It was in Mexico that he encountered the Plumed Serpent, Quetzalcoatl, of the Aztecs. Through a revival of this deity and the reawakening of the long repressed primal urges, Lawrence thought that Europe might be renewed. To the USA, he advised that it should look to the land before the Spaniards and the Pilgrim Fathers and embrace the 'black demon of savage America'. This 'demon' is akin to Jung's concept of the Shadow, (and its embodiment in what Jung called the "Devil archetype"), and bringing it to consciousness is required for true wholeness or individuation.

Turn to "the unresolved, the rejected", Lawrence advised the Americans (Phoenix). He regarded his novel The Plumed Serpent as his most important; the story of a white women who becomes immersed in a social and religious movement of national regeneration among the Mexicans, based on a revival of the worship of Quetzalcoatl.

Through the American Indians Lawrence hoped to see a lesson for Europe. He has one of the leaders of the Quetzalcoatl revival, Don Ramon, say: "I wish the Teutonic world would once more think in terms of Thor and Wotan and the tree Yggdrasill...".

Looking about Europe for such a heritage, he found it among the Etruscans and the Druids. Yet although finding his way back to the spirituality that had once been part of Europe, Lawrence does not advocate a mimicing of ancient ways for the present time; nor the adoption of alien spirituality for the European West, as is the fetish among many alienated souls today who look at every culture and heritage except their own. He wishes to return to the substance, to the awe before the mystery of life. "My way is my own, old red father: I can't cluster at the drum anymore", he writes in his essay Indians and an Englishman. Yet what he found among the Indians was a far off innermost place at the human core, the ever present as he describes the way Kate is affected by the ritual she witnesses among the followers of Quetzalcoatl.

In The Woman Who Rode Away the wife of a mine owner tired of her life leaves to find a remote Indian hill tribe who are said to preserve the rituals of the old gods. She is told that the whites have captured the sun and she is to be the messenger to tell them to return him. She is sacrificed to the sun... It is a sacrifice of a product of the mechanistic society for a reconnection with the cosmos. For Lawrence the most value is to be had in "the life that arises from the blood"

THE LION, THE UNICORN AND THE CROWN
Lawrence's concept of the dual nature of life, in which there is continual conflict between polarities, is a dialectic that is synthe-sised. Lawrence uses symbolism to describe this. The lion (the mind and the active male principle) is at eternal strife with the unicorn (senses, passive, female). But for one to completely kill the other would result in its own extinction and a vacuum would be created around the victory. This is so with ideologies, religions and moralities that stand for the victory of one polarity, and the repression of the other. The crown belongs to neither. It stands above both as the symbol of balance. This is something of a Tao for the West, of what Jung sought also, and of what the old alchemists quested on an individual basis.

The problems Lawrence brought under consideration have become ever more acute as our late cycle of Western civilisation draws to a close, dominated by money and the machine. Lawrence, like Yeats, Hamsun, Williamson and others, sought a return to the Eternal, by reconnecting that part of ourselves that has been deeply repressed by the "loathsome spirit of the age".


Kerry Bolton

lundi, 14 juin 2010

Nietzsche et l'hyperphysique de la morale

Nietzsche et l’hyperphysique de la morale

par Pierre LE VIGAN

nietzsche.jpgL’interrogation sur la morale est au cœur de la pensée de Nietzsche. « Je descendis en profondeur, je taraudais la base… je commençais à saper la confiance en la morale » (Aurore). La démarche de Nietzsche est une démarche de soupçon sur le pourquoi des choses. En conséquence, Nietzsche annonce qu’il faut de méfier à la fois de la morale et des moralistes. « J’ai choisi le mot d’immoraliste comme signe distinctif ou comme distinction », écrit-il dans Ecce homo.

Le rapport à la morale de Nietzsche va toutefois bien au-delà de la dimension de provocation, d’où la nécessité d’une généalogie de Nietzsche quant à la question morale. Le propos du philosophe André  Stanguennec consiste d’abord en cela : retracer l’apparition et les remaniements du thème de la morale chez Nietzsche. Il vise ensuite à étudier son traitement dans la Généalogie de la morale, cette œuvre étant vue comme l’unification de la théorie du problème moral chez Nietzsche Enfin, la troisième partie du travail de Stanguennec est consacrée à des mises en perspectives critiques d’origines diverses (Kant, Fichte, une certaine philosophie matérialiste – celle d’Yvon Quiniou), critiques présentées sous une forme dialogique.

Il faut donc effectuer un retour sur l’approche que fait Nietzsche de la morale. Nietzsche s’oppose d’abord à Socrate et à ses trois idées : 1) le savoir est condition de la vertu, 2) on ne pêche que par ignorance, 3) il est possible de chasser le mal du réel. Comment Nietzsche voit-il la question de la morale ? Sous l’angle du perspectivisme, « condition fondamentale de toute vie » (Aurore), perspectivisme d’abord humain, puis supra-humain. Il s’agit en d’autres termes de mettre en perspective les actions de chacun par rapport à son itinéraire, à ses valeurs, et cela sans référence à une morale transcendante, ni à une origine commune de celle-ci quels que soient les hommes.

Rien n’est responsabilité et tout est innocence pour Nietzsche (Humain, trop humain). Il reste la probité c’est-à-dire la rigueur et l’exigence vis-à-vis de soi-même. Quand Nietzsche dit qu’il n’y a pas de responsabilité des actes humains, en quel sens peut-on le comprendre ? En ce sens que : c’est le motif le plus fort en nous qui décide pour nous. Nous sommes agis par ce qui s’impose à nous en dernière instance : soit une force qui nous dépasse (ainsi la force de la peur qui nous fait fuir), soit une force qui nous emporte (ainsi la force de faire face conformément à l’idée que nous avons de nous-mêmes). Mais dans les deux cas, il n’y a pas de responsabilité à proprement parler.

La notion de responsabilité de l’individu est rejetée par Nietzsche pour deux raisons. L’une est qu’il ne s’agit pas pour lui de se référer à l’individu en soi. La seconde raison est que la notion de responsabilité supposerait l’univocité du sens de nos actions – univocité à laquelle Nietzsche ne croit pas. Quand Nietzsche oppose le « divisé » à « l’indivisé » qu’est l’individu (Aurore), il plaide pour un individu acceptant la division même de son être. Et c’est pour cet être et pour lui seul que se pose la question de la morale. Cette question de la morale prend ainsi sens à partir de la mort du dieu moral, le dieu des apparences, le surplombant (le Père), à partir de la mort du dieu d’amour (le Fils), et à partir de la mort du dieu devenu homme (le dieu modeste et humanisé qu’est aussi le Fils).

Loin d’être à l’origine des comportements « vertueux », la morale est pour Nietzsche une interprétation de ceux-ci a posteriori. Et une interprétation parmi d’autres. En ce sens, pour Nietzsche, cette interprétation est toujours fausse parce qu’incomplète. L’interprétation morale a posteriori nie ce qui s’est incarné dans l’acte – le flux de forces, l’énergie, la mise en perspective de soi (toujours le perspectivisme). La morale de l’intention ne dit jamais avec probité ce qui vraiment a fait advenir les actes. C’est pourquoi il y a selon Nietzsche un fondement « amoral » à une autre morale possible et souhaitable selon lui. Quelle est-elle ? Une morale en un sens plus restreint, une morale plus tranchante, avec laquelle on ne peut biaiser. « Ce qui fait le caractère essentiel et inappréciable de toute morale, répétera Nietzsche dans Par-delà bien et mal, c’est d’être une longue contrainte … c’est là que se trouve la “ nature ” et le “ naturel ” et non pas dans le laisser-aller » (paragraphe 188).

La morale est la théorie du déplacement des jouissances du monde. Qu’est-ce qui ordonne le passage d’une jouissance à une autre ? Quelle structure ? C’est là qu’est la morale selon Nietzsche, en un sens donc, à la fois étroit et ambitieux. Tout le reste est conséquence de ce questionnement ainsi formulé. Nietzsche peut être pacifiste ou belliciste en fonction de ce qui permet le mieux l’apparition d’un type humain supérieur. Il peut être pour un certain type de sélection si elle permet l’apparition d’un type d’homme supérieur, mais contre la forme actuelle du progrès donc de la sélection contemporaine : « Le progrès n’est qu’une idée moderne, donc une idée fausse », écrit Nietzsche (Antéchrist).

S’il y a une morale pour Nietzsche, elle consiste donc, exactement et strictement, à remonter aux origines des actes humains. Il faut comprendre que « le corps est une grande raison » (Zarathoustra). Il faut aussi enregistrer qu’il y a la vraie morale (c’est-à-dire l’éducation d’une contrainte par la contrainte) de ceux qui savent « digérer le réel » et la fausse morale-alibi des autres. « Un homme fort et réussi digère ses expériences vécues (faits, méfaits compris) comme il digère ses repas, même s’il doit avaler de durs morceaux » (in Généalogie de la morale). Le vouloir-lion ne se résume à aucune morale, aucun « tu dois ».

L’homme-lion ne refuse pas la douleur, à la manière de l’épicurien. Ce serait là vouloir un bouddhisme européen, une Chine européenne, une Europe devenue « Petite Chine ». L’homme-lion ne recherche pas non plus à tout prix le plaisir, à la manière du gourmand tel Calliclès (qui ne se réduit bien sûr pas à cette dimension et est notamment le fondateur de la généalogie de la morale et du droit).

L’homme-lion n’est ni masochiste (et donc certainement pas chrétien) ni hédoniste (d’où l’écart dans lequel se trouve Michel Onfray quand il défend Nietzsche au nom, à la fois, du matérialisme et de l’hédonisme). En d’autres termes, pour Nietzsche, tout « oui » à une joie est aussi un « oui » à une peine (cf. « Le chant du marcheur de nuit », in Zarathoustra, IV, paragraphe 10). « Toutes choses sont enchaînées, enchevêtrées, éprises. »

La morale de Nietzsche ne consiste jamais à représenter quelque chose et surtout pas l’esthétique du sublime qu’il attribue à Kant et à Fichte. Elle consiste à présenter, à affirmer, à produire. Elle est métaphorique. André Stanguennec le montre bien : si l’anti-nihilisme de Nietzsche  est clair et net, son rapport au bouddhisme est ambivalent : sa conception du Moi comme illusion, et illusion à tenir à distance de soi-même plaît à Nietzsche. Et dans le même temps il perçoit fort bien comment un bouddhisme « épuré » psycho-physiologiquement (cf. A. Stanguennec, p. 277) pourrait rendre « vivable » le nihilisme – et même –, car Nietzsche mène toujours une analyse biface du réel – circonscrire ce nihilisme à un espace et à une population tels que d’autres horizons s’ouvrent au(x) surhomme(s). Le nihilisme servirait alors stratégiquement de bénéfique abcès de fixation à la médiocrité.

Cette nouvelle morale de Nietzsche est donc tout le contraire d’un « bouddhisme européen » (au sens de « européanisé ») consistant à « ne pas souffrir », et à « se garder » (en bonne santé). La grande santé n’est en effet pas la bonne santé. Elle est la santé toujours en conquête d’elle-même et en péril de n’être assez grande. Le bouddhisme européen est donc une fausse solution.

L’alternative n’est pas entre bouddhisme et hédonisme. La morale de Nietzsche n’est pas non plus le finalisme, qui postule qu’il faudrait se conformer à un sens déjà-là. C’est à l’homme, selon Nietzsche, de donner une valuation – une valeur dans une hiérarchie de valeurs – aux choses. Et ces valeurs sont conditionnées par leur utilité sociale. À quoi servent-elles ? Que légitiment-elles ? Voilà les questions que pose et se pose Nietzsche Ne le cachons pas : il existe un risque, au nom d’une vision « réalitaire », au nom d’une philosophie du soupçon, de croire et faire croire que l’homme n’a que des rapports d’instrumentalisation avec ce qu’il proclame comme « ayant de la valeur » pour lui. Des rapports purement stratégiques avec les valeurs : les valeurs de sa stratégie et non la stratégie de ses valeurs. « Nietzsche concède donc, écrit en ce sens André Stanguennec, qu’une part non négligeable de vérité a été découverte dans la perspective sociologique et utilitariste sur la morale » (p. 225).

Deux composantes forment la morale de Nietzsche : surmonter la compassion, surmonter le ressentiment. Il n’y a pour Nietzsche  jamais de fondement de la morale mais toujours une perspective. Cette perspective est ce qui permet au fort de rester fort. Il s’ensuit que ce qui met en perspective la morale de chacun se distribue selon Nietzsche en deux registres : morale des faibles et  morale des forts. Le terme « morale » n’est au demeurant pas le meilleur. Il s’agit – et le mot dit bien la brutalité dont il est question – d’un fonctionnement. Morale des faibles : elle se détermine par rapport à l’autre; le jugement (attendu et redouté en même temps) des autres précède l’action qui n’est qu’une réaction. Morale des forts : le sentiment de soi prévaut sur le sentiment de l’autre ou des autres; l’action s’en déduit, le jugement – qui est un diagnostic en tout état de cause sans repentir – intervient après l’action. Pour le fort, il ne saurait y avoir de faute puisqu’il ne saurait y avoir de dette vis-à-vis d’autrui. Il peut juste y avoir un déficit du surmontement de soi par soi, c’est-à-dire une mise en défaut de la volonté de puissance.

Ce qui est moral pour Nietzsche c’est de vouloir la multiplicité infinie des perspectives. Nietzsche s’oppose donc aux philosophes ascétiques, adeptes d’une volonté de puissance à l’envers, et dont le mot d’ordre est de « vouloir le rien » (attention : la volonté de néant des ascétiques ne se confond pas avec le bouddhisme, volonté du néant de la volonté – « ne rien vouloir »). Ensuite, contrairement à Kant, Nietzsche refuse la distinction entre l’apparence des choses et les choses en soi. Pour Nietzsche, la référence de la morale, c’est le monde comme totalité inconditionnée, totalité ni surplombante ni substantielle mais parcourue par les volontés de puissance qui sont comme les flux du vivant.

Nietzsche tente de dépasser la question du choix entre l’infinité ou la finitude du monde. Il tente de la dépasser par un pari sur la joie et sur la jubilation. C’est en quelque sorte la finitude du monde  corrigée par l’infinité des désirs et des volontés de puissance. La physique de Nietzsche est peut-être ainsi non pas une métaphysique – ce qui est l’hypothèse et la critique de Heidegger – mais une hyperphysique.

Cette hyperphysique nietzschéenne du monde consiste en l’impossibilité d’une morale du « moi ». Le « moi » renvoie à l’idée d’un dieu unique qui serait le créateur du « moi » comme sujet. Or, Nietzsche substitue au « moi » un « soi » comme « grande raison » du corps (Zarathoustra). Le dernier mot de la morale est alors la même chose que la vision de soi acceptée comme ultime. Nietzsche nous délivre sa vision : « Je ne veux pas être un saint … plutôt un pitre » (Ecce homo). Toutefois c’est une saillie marginale que cette remarque de Nietzsche. Ce qui est bien pour Nietzsche, c’est d’être soi, c’est d’approfondir non sa différence aux autres, mais son ipséité, c’est se référer non aux autres mais à soi. Nietzsche rejoint Fichte quand celui-ci précise : « Ce que l’on choisit comme philosophie dépend ainsi de l’homme que l’on est » (Première introduction à la doctrine de la science, 1797).

Ainsi, il n’y a pas pour Nietzsche de vrai choix possible d’une philosophie ou d’une morale : « Nos pensées jaillissent de nous-mêmes aussi nécessairement qu’un arbre porte ses fruits » (Généalogie de la morale, avant-propos). S’il n’y a pas de vrai choix, il n’y a pas pour autant de transparence. Nietzsche affirme : « Nous restons nécessairement étrangers à nous-mêmes, nous ne nous comprenons pas, nous ne pouvons faire autrement que de nous prendre pour autre chose que ce que nous sommes » (Généalogie de la morale). Étrange platonisme inversé que celui que développe Nietzsche. Car dans sa perspective, notre possibilité d’être, et notre force d’être elle-même, repose sur l’acceptation et même sur le pari de notre inauthenticité, de notre être-devenir « à côté de nous-mêmes ». Et c’est un autre problème, au-delà du travail de Stanguennec, que de savoir si cette position est tenable.

Pierre Le Vigan

André Stanguennec, Le questionnement moral de Nietzsche, Presses Universitaires du Septentrion, 59659 Villeneuve d’Ascq, 2005, 367 p., 24 €.


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El hombre integro (spoudaios) como norma del obrar

19296D1_apollon_v.jpgEl hombre íntegro (spoudaios) como norma del obrar

Alberto Buela (*)

 

En estos días que nos hemos enterado por un estudioso amigo, que los ingleses de Oxford, que solo se citan a sí mismo en los estudios aristotélicos, han citado nuestra vieja traducción de 1981 del Protréptico de Aristóteles, única obra en castellano citada por ellos desde la época del ñaupa.

Y además, luego de haber visto como el gallego Megino Rodríguez se hizo el burro en su lamentable traducción del 2005, no haciendo ni siquiera mención a la existencia de nuestro trabajo, es que vamos a  encarar lo que para nosotros es la médula de la ética del hijo de Efestiada de Calcide.

Y lo vamos a hacer porque a esta altura de la soirée [1] pretendemos ofrecer, al lego en forma simple y clara, la idea fuerza que funda la ética aristotélica y que recorre toda la obra del esposo de Pythia y de Herpilis.  

La intención expresa que nos guía es dejar de lado toda actitud erudita, llevándonos del consejo del Don Miguel Reale, ese gran pensador brasileño cuando afirmaba: cultura es aquello que queda cuando el andamiaje de la erudición se viene abajo.

 

El tutelado de Próxenes se ocupó durante toda su vida del tema ético, desde sus primeros escritos como el Protréptico hasta sus últimos como la Magna Moralia [2]. O sea, desde sus treinta y un años siendo aún discípulo de Platón hasta los sesenta y dos cercanos a su muerte.

 

Antes que nada, cabe destacar la exigencia aristotélica en ética; de llevar a la práctica aquello que se estudia y así lo afirma en forma tajante y definitiva: “Lo que hay que hacer después de haberlo aprendido, lo aprendemos haciéndolo… practicando la justicia nos hacemos justos y practicando la temperancia temperantes” (EN. 1103 a 31). “Puesto que el presente estudio no es teórico como los otros, pues investigamos- en ética- no para saber qué es la virtud sino para ser buenos” (EN. 1103 b 28). El realismo aristotélico es el signo de su filosofía, es por ello que el genial Rafael pinta a Aristóteles señalando con su índice la tierra mientras camina junto a Platón.

 

Y de qué tipo y clase es ese hombre bueno que nos propone el maestro de Alejandro?  Es el spoudaios (spoudaioV), el phronimos(fronimoV). Es la idea fuerza, es el centro de toda le ética aristotélica, de modo que si caracterizamos acabadamente estos conceptos vamos a comprender su mensaje ético.

Ya en uno de sus primeros escritos, el Protréptico,  afirma:“Además qué regla (kanon) o qué determinación precisa (oroV  akribesteroV) de lo que es bueno podemos tener sino el criterio del hombre sapiente (fronimoV). Frag. 39. “todos estamos de acuerdo que el hombre más íntegro dirija (spoudaiotaton arcein). Frag. 38.

Al respecto afirma en la Ética Nicomaquea: “El spoudaios enjuicia correctamente todas las cuestiones prácticas y en todas ellas se le devela lo verdadero…quizá el spoudaios difiere de los demás por ver lo verdadero en cada cuestión como si fuera el canon y la medida en ellas”  (EN. 1113 a 29-32). Como se dijo la areté (excelencia) y el spoudaios parecen ser la medida de todas las cosas. Éste está de acuerdo consigo mismo y tiende con toda su alma a fines que no divergen entre sí” (EN. 1166 a 12-19). Y más adelante, casi al final de la ética va ser mucho más explícito: “En los hombres los placeres varían mucho pues las mismas cosas agradan a unos y molestan a otros… Esto ocurre con las cosas dulces, que no parecen lo mismo al que tiene fiebre que al que está sano y lo mismo ocurre con todo lo demás. Pero en tales casos, se considera que lo verdadero es lo que le parece al spoudaios, y si esto es cierto, y la medida de cada cosa son la areté (excelencia) y el spoudaios como tal, son placeres los que a él le parecen y agradables aquellas cosas en que se complace” (EN. 1176 a 17-19).

 

 

Vemos por estas y otras muchas citas[3] que podríamos agregar que los términos spoudáios y phrónimos van a tener, desde sus primeros escritos hasta los últimos, un peso significativo y determinante en toda la ética del padre de Nicómano. Ellos son el centro y el fundamento de toda su ética.

El primer significado del término spoudáios menta el esfuerzo serio y sostenido aplicado a una cosa digna y en una segunda acepción se vincula a las nociones de areté (excelencia o perfección) y agathós (bien).

Esta valoración del spoudaios, por el padrino de Nicanor, como última  regla y norma en las cuestiones prácticas y morales es asombrosa. Erróneamente, como le ocurrió a Dirlmeier, el último traductor al alemán, se puede pensar que se asemeja al adagio del sofista Protágoras: “el hombre es la medida de todas las cosas”, pero en realidad el dueño de Tacón, Filón y Olímpico se distancia porque el spoudaios no es el hombre común del sofista sino el hombre digno. Y con esta afirmación se aleja también de Platón y sus normas universales para el obrar.

Sin quererlo nos ayuda, el maestro de Teofrastro, a enfrentar la filosofía moral moderna y la certeza que busca ésta en los juicios ético-morales. Ante el rigorismo ético del pensamiento ilustrado, de la ética autónoma, del formalismo kantiano, y la ética veterotestamentaria, Aristóteles nos propone el criterio de lo verosímil como guía y norma del hacer y del obrar. “Pues no se puede buscar del mismo modo el rigor en todas las cuestiones, sino en cada una según la materia que subyazca a ellas” (EN. 1098 a 27).

 

 

Viene ahora la cuestión de cómo traducir estos dos términos cruciales para la comprensión de la filosofía práctica del hijo de Nicómaco.

 

Así para spoudaios [4]J. Tricot traduce por “l´homme de bien o vertueux”. Pallí Bonet y E.Sinnott  por “hombre bueno”. J. Montoya y T. de Koninck por “hombre virtuoso”.  Emile Bréhier  David Ross y Nicola  Abbagnano por “sofós”, esto es por sabio, sage o saggio. En cambio ya el español Antonio Tovar en 1953 lo traduce por “diligente” y muchos años después el alemán Harder lo traduce por “hombre noble y serio”. Y el argentino Pablo Maurette por “hombre circunspecto”, “ya que el adjetivo castellano expresa a la vez la idea de sabiduría pero también anuncia seriedad, paz interior y perseverancia. P.Aubenque la traduce por “diligente y serio”.

 

En nuestro criterio, traducir spoudaios por bueno tiene una connotación exclusivamente moral que el término griego supera. En cuanto a la traducción por virtuoso, el término no existe en griego.

Traducir por sabio es una visión intelectualista. Más cerca del original están las versiones de hombre noble, serio o circunspecto pero dejan de lado el aspecto práctico del spoudáios. En cuanto a la traducción por diligente, a la inversa que la anterior, se limita solo al aspecto práctico del spoudáios, es por eso que Aubenque (l´éponge) se percata y agrega el término serio.  

 

Nosotros preferimos traducirlo por “hombre íntegro y diligente” pues cada vez que se plantea el tema del criterio en la elección ética o en la vida práctica es el spoudáios quien aparece. Y es como hombre digno que agota en sí la función propia del hombre (juzga adecuadamente)  y como diligente actúa siempre de acuerdo con la areté (la excelencia o perfección) de cada cosa, acción o situación.

Aquello que asombra de esta idea del spoudaios es que éste no es ni se alza como una regla trascendente, como los diez mandamientos, sino que el spoudaios mismo es quien se convierte en la medida de la acción perfecta tanto en el hacer como en el obrar.

 

En el spoudaios su deseo se refiere siempre al bien y como cada cual es bueno para sí mismo es, en definitiva para nosotros para quienes queremos el bien, ya que la preferencia de sí mismo se encuentra en el fondo de todos los deseos.

El spoudaios es el que realiza al grado máximo las potencialidades de la naturaleza humana. Lo que caracteriza al spoudaios es contemplar la verdad en cada acción o tarea y el es la referencia y la medida de lo noble y agradable.

El spoudaios hace lo que debe hacer de manera oportuna. Es el hombre que actúa siempre con la areté. Este concepto de areté no se limita simplemente al plano moral como sucede cuando se la traduce por “virtud” sino que debe de ser entendida como excelencia o perfección de las cosas y las acciones y así podemos hablar de la areté del ojo que es percibir bien, la del caballo que es correr, la del ascensor que es subir y bajar. Es decir que la areté expresa y tiene tanto un contenido moral y ético como funcional, y es por ello que debemos traducir y entender el término areté como excelencia, perfección o acabamiento de algo.

Y esto es lo que logra el spoudaios con su obrar y con su hacer, transformase, él mismo, en canon y la medida que se presenta como norma no trascendente de la sociedad,[5] y es por esta última razón que sólo a partir de él podemos conseguir la implantación de un verdadero y genuino humanismo.

 

En cuanto al concepto de phrónesis hace ya muchos años en nuestra traducción al castellano del Protréptico (1981) hemos sostenido: “La aparición por primera vez del término phrónesis, capital para la interpretación jaegerdiana del Protréptico, nos obliga a justificar nuestra traducción del vocablo. Hemos optado por traducir phronimos por sapiente y phrónesis por sapiencia por dos motivos. Primero porque nuestra menospreciada lengua castellana (no se aceptaban comunicaciones en castellano en los congresos internacionales de filosofía en la época) es la única de las lenguas modernas que, sin forzarla, lo permite. Y segundo, porque dado que la noción de phrónesis implica la identidad entre el conocimiento teorético y la conducta práctica, el traducirla por “sabiduría” a secas, tal como se ha hecho habitualmente, es mutilar parte del concepto. Ello implica in nuce una interpretación platónica del Protréptico, y traducirla por “prudencia” la limita a un aspecto moral que el concepto supera, mientras que “sapiencia o saber sapiencial”, implica no sólo un conocimiento teórico sino también su proyección práctica“ [6].

Ya observó hace más de medio siglo ese agudo traductor de Aristóteles al castellano que fue el mejicano Antonio Gómez Robledo: “Hoy la prudencia tiene que ver con una cautela medrosa y no con el heroísmo moral, el esfuerzo alto y sostenido de la virtud”.

 

Sobre este tema es interesante notar que los scholars ingleses, especialistas desde siempre en los estudios aristotélicos, se han jactado de sus traducciones por lo ajustado de las mismas a la brevedad de la expresión griega. Sin embargo en esta ocasión tanto el inglés como el francés han tenido que ceder a la precisión del castellano. Así para phrónesis ellos necesitan de dos términos, sea practical wisdom o saggesse practique, en tanto que al castellano le alcanza con uno: sapiencia.[7] Ya decían nuestros viejos criollos: Hay que dejar de ser léido para ser sapiente. Así la tarea del sapiente consiste en saber dirigir correctamente la vida. Su saber, a la vez,  teórico y práctico le permite distinguir lo que es bueno de lo que es malo y encontrar los medios adecuados para nuestros fines verdaderos: “los sapientes buscan lo que es bueno para ellos y creen que es esto lo que debe hacerse” (EN. 1142 a 1).

 

Spoudaios y phronimos, íntegro y sapiente, son dos caras de una misma moneda, son dos términos que pintan conceptos similares, solo se distinguen por los matices, uno destaca la integridad, la seriedad que viene del verbo spoudázein y otro el matiz más intelectual que viene del verbo phronéin.

Así el hombre íntegro y sapiente será aquel que sabe actuar en la vida cotidiana de forma tal que sus acciones, por lo incierta que es la vida en sí misma, se transforman en norma y medida de lo que debe hacerse para el buen vivir.

 

 

(*) arkegueta, aprendiz constante

Universidad Tecnológica Nacional (UTN)

alberto.buela@gmail.com                                                                                 



[1] Es que llevamos 40 años leyendo sistemáticamente al Discípulo.

[2] Los escritos que tratan específicamente de la ética son: Protréptico, Ética Eudemia, Ética Nicomaquea, Magna Moralia (algunos (Aubenque) dicen que no sería de Aristóteles y otros (Ackrill) que sí), y uno pequeño De virtutibus et vicis donde no hay en toda la opera omnia  de Aristóteles ni en ninguno de los sesudos comentaristas del Estagirita una síntesis más acabada de su teoría de las virtudes como la que nos brinda este pequeño tratado. Está bien, no salió de la pluma de Aristóteles, pero quien quiera que haya escrito este opúsculo conocía al Filósofo como los mejores.

[3] Cf. EN 1179 b 20; 1155 a 12-19; EE 1218 b 34; Rhet 1367 b 21, etc.

[4] Cf. EN, 1109a 24, 1113a 25, 1114b 19, 1130b 25, 1144a 17 y 1154a 6

[5] Salvando la distancia teológica que media, el spoudaios nos recuerda el Jesús existencial que se alza como norma, aquel del: ego sum via, veritas et vita  o “el que no está conmigo está contra mi”.

[6] Aristóteles: Protréptico, Bs.As., Ed. Cultura et labor, 1983, p. 44

[7] Existe una anécdota de José Luís Borges quien ante la jactancia inglesa de la brevedad de su expresión tomó un cuento inglés y lo escribió en castellano mucho más breve. De ello se dio cuenta André Malreaux cuando caracterizó el mérito de Borges afirmando: “su genio está en la economía y belleza de su expresión”.

dimanche, 13 juin 2010

Georges Sorel

Georges Sorel

Ex: http://www.oswaldmosley.com/

sorel1.jpgGeorges Sorel was born in Normandy in 1847 and, after receiving a private education there, attended the Ecole Polytechnique, where he distinguished himself in mathematics. He entered the civil service as an engineer and retired after the requisite twenty-five years, then promptly took up writing, and through innumerable books, established his place as a major social critic. The most famous and most extreme advocate of syndicalism, Georges Sorel's passion for revolutionary activity in place of rational discourse made him most influential in shaping the direction of fascism, especially in Mussolini's Italy.

Georges Sorel stated his theory of "social myths" most clearly in a letter to Daniel Halevy in 1907. .....Men who are participating in a great social movement always picture their coming action as a battle in which their cause is certain to triumph. These constructions, knowledge of which is so important for historians, I propose to call myths; the syndicalist "general strike" and Marx's catastrophic revolution are such myths. As remarkable examples of such myths, I have given those which were constructed by primitive Christianity, by the Reformation, by the Revolution and by the followers of Mazzini. I now wish to show that we should not attempt to analyze such groups of images in the way that we analyze a thing into its elements, but that they must be taken as a whole, as historical forces, and that we should be especially careful not to make any comparison between accomplished fact and the picture people had formed for themselves before action.

I could have given one more example which is perhaps still more striking: Catholics have never been discouraged even in the hardest trials, because they have always pictured the history of the Church as a series of battles between Satan and the hierarchy supported by Christ; every new difficulty which arises is only an episode in a war which must finally end in the victory of Catholicism.

In employing the term myth I believed that I had made a happy choice, because I thus put myself in a position to refuse any discussion whatever with the people who wish to submit the idea of a general strike to a detailed criticism, and who accumulate objections against its practical possibility. It appears, on the contrary, that I had made a most unfortunate choice, for while some told me that myths were only suitable to a primitive state of society, others imagined that I thought the modern world might be moved by illusions analogous in nature to those which Renan thought might usefully replace religion. But there has been a worse misunderstanding than this even, for it has been asserted that my theory of myths was only a kind of lawyer's plea, a falsification of the real opinions of the revolutionaries, the sophistry of an intellectual.

If this were true, I should not have been exactly fortunate, for I have always tried to escape the influence of that intellectual philosophy, which seems to me a great hindrance to the historian who allows himself to be dominated by it.

In can understand the fear that this myth of the general strike inspires in many worthy progressives, on account of its character of infinity, the world of today is very much inclined to return to the opinions of the ancients and to subordinate ethics to the smooth working of public affairs, which results in a definition of virtue as the golden mean; as long as socialism remains a doctrine expressed only in words, it is very easy to deflect it towards this doctrine of the golden mean; but this transformation is manifestly impossible when the myth of the "general strike" is introduced, as this implies an absolute revolution. You know as well as I do that all that is best in the modern mind is derived from this "torment of the infinite"; you are not one of those people who look upon the tricks by means of which readers can be deceived by words, as happy discoveries. That is why you will not condemn me for having attached great worth to a myth which gives to socialism such high moral value and such great sincerity. It is because the theory of myths tends to produce such fine results that so many seek to refute it....

As long as there are no myths accepted by the masses, one may go on talking of revolts indefinitely, without ever provoking any revolutionary movement; this is what gives such importance to the general strike and renders it so odious to socialists who are afraid of a revolution....

The revolutionary myths which exist at the present time are almost free from any such mixture; by means of them it is possible to understand the activity, the feelings and the ideas of the masses preparing themselves to enter on a decisive struggle: the myths are not descriptions of things, but expressions of a determination to act. A Utopia is...and intellectual product; it is the work of theorists who, after observing and discussing the known facts, seek to establish a model to which they can compare existing society in order to estimate the amount of good and evil it contains. It is a combination of imaginary institutions having sufficient analogies to real institutions for the jurist to be able to reason about them; it is a construction which can be taken to pieces, and certain parts of it have been shaped in such a way that they can...be fitted into approaching legislation. While contemporary myths lead men to prepare themselves for a combat which will destroy the existing state of things, the effect of Utopias has always been to direct men's minds towards reforms which can be brought about by patching up the existing system; it is not surprising, then, that so many makers of Utopias were able to develop into able statesmen when they had acquired a greater experience of political life.

A myth cannot be refuted, since it is, at bottom, identical with the conviction of a group, being the expression of these convictions in the language of movement; and it is, in consequence, unanalyzable into parts which could be placed on the plane of historical descriptions. A Utopia, on the other hand, can be discussed like any other social constitution; the spontaneous movements it presupposes can be compared with the movements actually observed in the course of history, and we can in this way evaluate its verisimilitude; it is possible to refute Utopias by showing that the economic system on which they have been made to rest is incompatible with the necessary conditions of modern production.

For a long time Socialism was scarcely anything but a Utopia; the Marxists were right in claiming for their master the honor of bringing about a change in this state of things; Socialism has now become the preparation of the masses employed in great industries for the suppression of the State and property; and it is no longer necessary, therefore, to discuss how men must organize themselves in order to enjoy future happiness; everything is reduced to the revolutionary apprenticeship of the proletariat. Unfortunately Marx was not acquainted with facts which have now become familiar to us; we know better than he did what strikes are, because we have been able to observe economic conflict of considerable extent and duration; the myth of the "general strike" has become popular, and is now firmly established in the minds of the workers; we possess ideas about violence that it would have been difficult for him to have formed; we can then complete his doctrine, instead of making commentaries on his text, as his unfortunate disciples have done for so long.

In this way Utopias tend to disappear completely from Socialism; Socialism has no longer any need to concern itself with the organization of industry since capitalism does that....

People who are living in this world of "myths," are secure from all refutation; this has led many to assert that Socialism is a kind of religion. For a long time people have been struck by the fact that religious convictions are unaffected by criticism, and from that they have concluded that everything which claims to be beyond science must be a religion. It has been observed also that Christianity tends at the present day to be less a system of dogmas than a Christian life, i.e., moral reform penetrating to the roots of one's being; consequently, new analogy has been discovered between religion and the revolutionary Socialism which aims at the apprenticeship, preparation, and even reconstruction of the individual -- a gigantic task....

...by the side of Utopias there have always been myths capable of urging on the workers to revolt. For a long time these myths were founded on the legends of the Revolution, and they preserved all their value as long as these legends remained unshaken. Today the confidence of the Socialists is greater than ever since the myth of the general strike dominates all the truly working-class movement. No failure proves anything against Socialism since the latter has become a work of preparation (for revolution); if they are checked, it merely proves that the apprenticeship has been insufficient; they must set to work again with more courage, persistence, and confidence than before; their experience of labor has taught workmen that it is by means of patient apprenticeship that a man may become a true comrade, and it is also the only way of becoming a true revolutionary. (July 15, 1907)

G. Sorel: Electoral Democracy and Stock Exchange

sorelrv.jpgGeorges Sorel: Electoral Democracy and Stock Exchange

"Electoral democracy greatly resembles the world of the Stock Exchange; in both cases, it is necessary to work upon the simplicity of the masses, to buy the cooperation of the most important papers, and to assist chance by an infinity of trickery; there is not a great deal of difference between a financier who puts grand-sounding concerns on the market, which come to grief in a few years, and the politician who promises his fellow citizens an infinite number of reforms, which he does not know how to bring about and which resolve themselves simply into an accumulation of parliamentary papers. Neither one nor the other knows anything about production and yet they manage to obtain control over it, to misdirect it and to exploit it shamelessly: they are dazzled by the marvels of modern industry and they each imagine that the world is so rich that they can rob it on a large scale without causing any great outcry amongst the producers; to bleed the taxpayer
without bringing him to the point of revolt, that is the whole art of the statesman and the great financier. Democrats and businessmen have a very special science for the purpose of making deliberative assemblies approve of their swindling; parliamentary regimes are as fixed as shareholders' meetings. It is probably because of the profound psychological affinities resulting from these methods of operation that they both understand each other so perfectly: democracy is the paradise of which unscrupulous financiers dream."

(Reflections on Violence, Cambridge, Cambridge University Press, 1999, pp. 221-222.)

samedi, 12 juin 2010

Nations et nationalismes (E. Hobsbawm)

Ex: http://www.scriptoblog.com/

Nations et nationalismes (E. Hobsbawm)

« Nations et nationalisme » est un recueil de conférences prononcées par l’historien Eric Hobsbawm en 1985.

Hobsbawm_Eric.jpgPour Hobsbawm, la nation est un mystère. Tant qu’on ne nous demande pas ce que c’est, nous le savons. Dès qu’on nous le demande, ça devient beaucoup moins évident. Aucune définition de « la nation » n’est valable pour toutes les nations et à toutes les époques – et certaines nations n’ont même pas de définition spécifique à un instant « T » : elles existent, mais personne n’arrive à dire ce qu’elles sont. En fait, le seul moyen de vérifier qu’une nation existe, c’est de s’assurer qu’il existe des gens, assez nombreux, qui estiment lui appartenir.

Le nationalisme paraît plus clair à Eric Hobsbawm. C’est une doctrine qui exige, en substance, que l’unité politique et l’unité nationale se recouvrent. En ce sens, la nation est, à ses yeux, indissociable au fond de l’Etat-nation (soit comme réalité, soit comme revendication). De fait, une nation se reconnaît au fait que des gens estiment lui appartenir et veulent défendre (ou instituer) un Etat qui la recouvre. Donc, pour dire les choses simplement, aux yeux d’Eric Hobsbawm, le nationalisme crée la nation – et non l’inverse. Et donc, puisque le nationalisme est un produit de la modernité, la nation (au sens où nous l’entendons aujourd’hui) est une notion moderne.

 

*

Cette définition de la nation s’est constituée progressivement, par un glissement sémantique étalé sur plusieurs siècles. La nation est, au départ, formée par les gens issue de la même lignée. C’est une manière de classer les gens racialement – par un ancêtre commun, ou un groupe d’ancêtres communs. Le concept est moins éloigné qu’on pourrait le croire de celui de patrie : pendant longtemps, être né à un endroit impliquait presque systématiquement qu’on descendait de gens eux-mêmes nés à cet endroit. Au début du XVIII° siècle encore, la nation désigne, dans la plupart des pays européens, une « petite patrie » dont on est issu par le lieu de naissance et, généralement, par le sang.

Au cours du XVIII° et surtout du XIX° siècle, progressivement, la nation émerge dans un sens nouveau : elle est une collectivité unifiée par l’Etat. Ce sens nouveau relègue  l’ancien signifié « nation » au signifiant « province ». Il y a déplacement du contenu des mots : le terme « nation » est en quelque sorte capturé par l’Etat, ce qui impose que, pour décrire l’ancien concept, on déplace insensiblement le périmètre d’un autre concept, « province », afin de lui donner un sens légèrement modifié. Amorcé sous la Révolution Française (très ambiguë sur la question nationale), ce jeu de translations conceptuelles est généralisé à l’Europe par les révolutions de 1830. La nation devient l’ensemble des membres d’une même nationalité, qui sont supposés désirer être dirigés par une partie d’eux-mêmes (Stuart Mill). Une assimilation non dite se constitue entre Etat, nation, peuple, et Peuple Souverain.

Dans une très large mesure, comme le montre Hobsbawm, il s’agit là d’une ruse conceptuelle : on permet, en créant un champ sémantique peu ou mal balisé, l’enclenchement d’un processus flou, un peu comme une mécanique dont les pièces s’ajustent les unes aux autres grâce au jeu excessif qu’on a toléré initialement, et qu’on réduit ensuite peu à peu. En France, par exemple, la « nation » des révolutionnaires est d’abord un concept purement politique (le Peuple Souverain, incarné dans l’Assemblée Législative), qui se teinte très vite d’une forme d’ethnicisme non racial, car fondamentalement linguistique (est français qui parle français et reconnaît le pouvoir de la Convention). Il y a donc une assimilation implicite entre nationalité (linguistique) et souveraineté populaire, assimilation dont le propos réel est de cautionner l’Etat, figure centrale du triptyque.

Le XIX° siècle est consacré en Europe à la généralisation de cette formule de pensée (en Allemagne, de 1813 à 1871 ; en Italie, de 1848 à 1865 ; en Autriche-Hongrie, en 1867, en Pologne, à partir de 1830). Cette généralisation recouvre toujours à peu près, au fond, les mêmes mécanismes profonds : le principe national s’impose parce qu’il permet à la bourgeoisie (alors nationale) de stabiliser le mouvement révolutionnaire (la nation détruit ou transforme le royaume, donc l’aristocratie, tout en interdisant la prolongation du mouvement jusqu’à la révolution prolétarienne). Sous cet angle, la nation du « nationalisme bourgeois » est un leurre (en lisant Hobsbawm, ici, on pense inévitablement au chef d’œuvre de Visconti, « Le guépard »).

Concrètement, au XIX° siècle, apparaît ainsi peu à peu, par un mélange de flou savamment entretenu dans le champ politique et de précision solide sur les catégories de l’économie, une certaine idée de la nation : un territoire d’une taille et d’une population suffisante pour constituer un marché adapté aux besoins du capitalisme de l’époque, doté d’une élite appuyée sur une tradition sérieuse (idéologie bourgeoise XIX° siècle du mérite), capable de se défendre militairement (voire de pratiquer l’impérialisme), et pourvue d’une homogénéité facilitant l’unification (langue en général). La « nation » au sens contemporain était née, issue du nationalisme bourgeois. Elle était, fondamentalement, pensée comme une étape vers l’unification mondiale sous la domination incontestée de la classe maîtresse du capital : la bourgeoisie.

*

Fondamentalement, donc, pour Hobsbawm, le nationalisme est une création bourgeoise. Mais, ajoute-t-il, cette création a été récupérée, détournée, assimilée en partie par les peuples.

Le leurre bourgeois valait aussi concession à la réalité vécue par les peuples. Il a correspondu aux intérêts des bourgeoisies nationales, mais limitait potentiellement les capacités du Marché à structurer, à travers  le capitalisme international, l’embryon d’une globalisation. Sous l’angle de l’analyse marxiste, la nation est donc le lieu d’une dialectique : leurre manipulé par les bourgeoisies nationales, elle est aussi un frein à l’émergence de la bourgeoisie transnationale. Grâce au nationalisme, la bourgeoisie nationale fabrique l’Etat dont elle a besoin ; mais comme cet Etat repose sur la notion de Peuple Souverain, il définit une volonté potentiellement rivale de celle constituée par l’alliance transnationale des bourgeoisies : unificatrice des marchés nationaux, l’idée nationale est potentiellement un frein au libre-échange promu par l’Empire Britannique. Du point de vue des économistes libéraux du XIX° siècle, la nation est un pis-aller en attendant l’économie mondiale intégrée – mais du point de vue des peuples, c’est aussi, potentiellement, un lieu de souveraineté. Cette communauté imaginée par la bourgeoisie peut donc, progressivement, être réinvestie par la vie réelle des peuples.

Comment ce réinvestissement se produit-il ? Comment la bourgeoisie gère-t-elle cette situation complexe, au fil de son histoire, jusqu’au milieu du XX° siècle ?

Pendant longtemps, le « nationalisme » a été pour les peuples, pour les nations (au sens ancien du terme), une idéologie impensable. Il repose sur la dimension quasi-mythique d’une langue unitaire qui, bien souvent, est le résultat d’une homogénéisation imposée. On a ainsi calculé qu’en 1860, seulement un Italien sur quarante utilisait l’Italien « pur », aujourd’hui celui qu’on écrit, comme langue d’usage quotidien. En 1789, un Français sur deux ne parlait pas le Français d’Île de France, et seulement un sur huit le parlait correctement.

En outre, le nationalisme suppose un niveau d’abstraction tout à fait incompatible avec  le vécu de populations fondamentalement paysannes. Hobsbawm s’attarde ici longuement sur les étymologies et documents historiques. Son observation la plus frappante : encore aujourd’hui, être russe, c’est être « russki », de « Rus », la patrie issue de la tradition médiévale « de toutes les Russies » (au pluriel) – le terme pour « la » Russie, « Rossyia », est un néologisme créé par les Tsars moscovites. Ainsi, pour un Russe, encore aujourd’hui, son pays est « Rossya » (« la » Russie) parce qu’étant « russki », il se rattache à sa « Rus » (« une » Russie, orthodoxe avant tout).

Pour les peuples, ce qui est réel, ce n’est donc pas la nation du nationalisme : ce sont des petites nations (provinces), reliées par l’appartenance à un même « monde mental » (la religion). C’est pourquoi, remarque Hobsbawm au passage, la « Sainte Russie » ne définit pas une « nation » au sens que ce terme a pris en Occident (elle n’est définie ni par la langue, ni par le Peuple Souverain, mais par l’inscription des terroirs dans un monde mental partagé). On en trouve une version fort différente, mais finalement tout aussi éloignée de la conception contemporaine de la « nation », dans le cas très particulier de la Suisse : unie ni par la langue, ni par l’ethnie, la Suisse l’est par un contrat reliant des cantons, le niveau d’homogénéisation restant très local. Dans les deux cas, l’architecture générale renvoie à une conception de la communauté charnelle très restreinte, encadrée par un « monde mental », ou par un « monde contractuel » supérieur, mais qui ne prétend pas traduire une réalité charnelle quotidienne.

Cette ancienne conception des très grands ensembles fédérateurs (assez proche au fond de celle du Royaume de France), antérieure au nationalisme, a été en Occident balayée avec la chute des monarchies de droit divin (en France, en 1789). Le nationalisme, idéologie bourgeoise (cf. ci-dessus) a permis de recycler une partie de cette mystique dans un cadre favorable à la domination bourgeoise. Mais ce recyclage implique qu’à l’intérieur de l’idéologie bourgeoise, des éléments fondamentalement extérieurs au monde bourgeois ont été importés.

D’où une situation fondamentalement chaotique, religion, communautarisme local et autres vecteurs d’identification collective venant constamment interagir avec la conception héritée du nationalisme bourgeois, pour la nourrir et, en même temps, la parasiter. Concrètement, la nation est certes  aujourd’hui structurée par la conscience partagée d’avoir appartenu à une entité politique durable ; mais cette conscience elle-même est éclatée entre divers niveaux, qui coexistent anarchiquement. En pratique, donc, l’organisation du monde bourgeois par l’échelon national est structurellement instable.

Cette instabilité implique que le contenu de l’idée nationale est constamment renégociable. Donc, il est susceptible, suivant les moments de l’Histoire, d’être investi soit par les bourgeoisies, soit par leurs adversaires. Le nationalisme, en ce sens, n’est pas un acteur de l’Histoire, mais un enjeu, un lieu où s’affrontent les véritables acteurs. Hobsbawm, ici, souligne que la « Nation » révolutionnaire de 1790-1793, en France, a constitué un cas d’école : à la fois inscription de tous les Français dans le cadre conceptuel produit par la bourgeoisie nationale, elle a, aussi, impliqué que ce cadre était théoriquement co-construit par tous les citoyens. En réalité, derrière la définition de la nation, se cache donc le combat pour la définition de sa définition. Le combat visible oppose les centralistes aux partisans de l’ancienne conception. Mais sous ce combat, un autre combat oppose, au sein des centralistes, ceux qui veulent la nation comme outil de la domination bourgeoise et ceux qui la veulent comme instrument d’encadrement et de dépassement de cette même domination.

Combat gagné par la bourgeoisie (Thermidor). Pour Hobsbawm, la démocratie bourgeoise a été au XIX° siècle et au début du XX°, fondamentalement, le cadre construit par la bourgeoisie pour rester maîtresse du nationalisme. Il s’agissait d’ouvrir au débat un espace clos, afin de le laisser s’épancher tout en le gardant sous contrôle. Ainsi, le patriotisme, potentiellement une force révolutionnaire, devint l’instrument d’une conception réactionnaire de la nation en devenir – d’où le chauvinisme, idéologie qui devait aider au déclenchement de la Première Guerre Mondiale, et son expression extrême, le racisme d’Etat.

En conclusion et pour résumer : aux yeux d’Hobsbawm, le patriotisme n’est pas, en soi, une idéologie bourgeoise. C’est une idéologie captée par la bourgeoisie – à travers les nationalismes d’Etat. Le caractère réactionnaire de l’idée de nation ne tient pas à la substance de cette idée (en elle-même assez évanescente), mais à la capacité que développa la bourgeoisie d’instrumentaliser le concept, et d’en maîtriser habilement l’investissement émotionnel collectif. D’où, exemple paroxystique souligné par Hobsbawm, la coexistence, dans les nationalismes des années 30, de fascisme, d’antifascisme, de droite et de gauche – comme si, à tout moment, dès qu’une tendance politique desserre son étreinte sur le manche du drapeau, la tendance opposée voulait s’en saisir.

*

Et maintenant ?

Hobsbawm commence, pour analyser la situation présente, par démolir méthodiquement le discours sur le déclin des nationalismes. En réalité, fait-il observer, avec l’explosion de la Yougoslavie et de l’URSS, le nombre d’entités souveraines se réclament plus ou moins ouvertement du principe des nationalités n’a cessé d’augmenter. Inversement, le monde musulman semble travaillé par une remise en cause des nationalismes arabes. Le mouvement n’est donc nullement homogène, et le principe des nationalités, fort ici, est affaibli là. Il n’y a ni déclin, ni expansion du nationalisme : il y a mutation.

C’est que le nationalisme est devenu, pour l’essentiel, une expression de défense face à la globalisation – alors qu’il avait été, par le passé, une offensive contre les structures locales. C’est donc toujours une force agie, mais au lieu de l’être par des bourgeoisies nationales qui veulent un marché national, elle l’est tantôt par une bourgeoisie transnationale qui veut détruire les Etats-nations (désormais dépassés) en soutenant des micro-nationalismes, tantôt par des opposants à la bourgeoisie transnationales, qui veulent eux préserver ces Etats, contre un gouvernement mondial latent.

L’ambiguïté du nationalisme, agi plus qu’acteur, s’est maintenue, mais elle le positionne sur un nouveau front, selon de nouveaux clivages. C’est pourquoi le nationalisme est de plus en plus difficile à penser comme il le fut jadis : la brique de base de l’internationalisme. Ce n’est plus une étape vers l’unification, c’est un frein à l’étape ultérieure. Investi par des revendications identitaires traduisant souvent une véritable panique face à un monde devenu totalement indéchiffrable, le nationalisme est devenu une idéologie défensive : telle est la thèse d’Eric Hobsbawm.

De toute évidence, c’est la thèse d’un adversaire des nationalismes – Hobsbawm voit en eux une fausse idée, simple leurre des véritables forces agissantes.

Mais c’est aussi, pour les nationalistes, la thèse d’un adversaire intelligent, qu’il faut lire et comprendre.

jeudi, 10 juin 2010

In Honor of Julius Evola

In Honor of Julius Evola

Giulio Cesare Andrea Evola

b. May 19, 1898 – d. June 11, 1974


May 19, 2009 marks the 111th anniversary of Julius Evola's birth.


Some quotes to remember him on his birthday:


"Pure action does not mean blind action. The rule is to care nothing for the consequences to the shifting, individualistic feelings, but not in ignorance of the objective conditions that action must take into account in order to be as perfect as possible, and so as not to be doomed to failure from the start. One may not succeed: that is secondary, but it should not be owing to defective knowledge of everything concerning the conditions of efficacy, which generally comprise causality, the relations of cause to effect, and the law of concordant actions and reactions."

— Julius Evola, Ride the Tiger

p. 71 Chapter XI, Acting Without Desire, The Casual Law


"There are still men who do not belong to this modern world, and whom nothing in this world could lead astray, exalt or humiliate—men who despite all are ready to fight this world with all their strength, as soon the hour to do so strikes."

— Julius Evola, Heathen Imperialism

p.146 Chapter V, Our European Symbol


"Before the vision of the Iron Age, Hesiod exclaimed: 'May I have not been born in it!' But Hesiod, after all, was a Pelasagic spirit, unaware of a higher vocation. For other natures there is a different truth; to them applies the teaching that was also known in the East: although the Kali Yuga is an age of great destructions, those who live during it and manage to remain standing may achieve fruits that were not easily achieved by men living in other ages."

— Julius Evola, Revolt Against the Modern World

p. 366 Chapter 38, Conclusion

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mercredi, 09 juin 2010

Le terrorisme, l'Etat et la mafia

Le terrorisme, l’État et la mafia

Article placé par Frédéric Courvoisier (Genève)

Ex: http://www.mecanopolis.org/

Alors que, sur de nombreux sites et forums « spécialisés », les indices et rumeurs d’une « attaque terroriste » de grande ampleur s’intensifient depuis quelques semaines, il nous apparait utile, sinon même urgent, de replacer ce texte qui fut à l’origine de l’élaboration de notre site.

anton

« La société qui s’annonce démocratique semble être admise partout comme étant la réalisation d’une perfection fragile. De sorte qu’elle ne doit plus être exposée à des attaques, puisqu’elle est fragile ; et du reste n’est plus attaquable, puisque parfaite comme jamais société ne fut.
Cette démocratie si parfaite fabrique elle-même son inconcevable ennemi : le terrorisme. L’histoire du terrorisme est écrite par l’État, elle est donc éducative. Les populations ne peuvent certes pas savoir qui se cache derrière le terrorisme, mais elles peuvent toujours en savoir assez pour être persuadées que, par rapport à ce terrorisme, tout le reste devra leur sembler plutôt acceptable, en tout cas plus rationnel et plus démocratique. »
Guy Debord, Commentaires sur la société du spectacle, 1988


L’exaltation idéologique peut conduire à toutes sortes de crimes, et l’héroïsme individuel comme les assassinats en série appartiennent à toutes les sociétés humaines. Ces sortes de passions ont contribué depuis toujours à construire l’histoire de l’humanité à travers ses guerres, ses révolutions, ses contre-révolutions. On ne peut donc être surpris qu’un mitrailleur, un kamikaze ou un martyre commettent des actes dont les résultats politiques seront exactement opposés à ceux qu’ils prétendent rechercher, car ces individus ne sont pas ceux qui négocient sur le marché des armes, organisent des complots, effectuent minutieusement des opérations secrètes sans se faire connaître ni appréhendés avant l’heure du crime.

Quoiqu’elle veuille s’en donner l’allure, l’action terroriste ne choisit pas au hasard ses périodes d’activités, ni selon son bon plaisir ses victimes. On constate inévitablement une strate périphérique de petits terroristes islamistes, dont il est toujours aisé de manipuler la foi ou le désir de vengeance, et qui est, momentanément, tolérée comme un vivier dans lequel on peut toujours pécher à la commande quelques coupables à montrer sur un plateau : mais la « force de frappe » déterminante des interventions centrales ne peut-être composée que de professionnels ; ce que confirme chaque détails de leur style.

L’incompétence proclamée de la police et des services de renseignements, leurs mea-culpa récurrent, les raisons invoquées de leurs échecs, fondées sur l’insuffisance dramatique de crédits ou de coordination, ne devraient convaincre personne : la tâche la première et la plus évidente d’un service de renseignements est de faire savoir qu’il n’existe pas ou, du moins, qu’il est très incompétent, et qu’il n’y a pas lieu de tenir compte de son existence tout à fait secondaire. Pourtant, ces services sont mieux équipés techniquement aujourd’hui qu’ils ne l’ont jamais été.

Tout individu notoirement ennemi de l’organisation sociale ou politique de son pays, et, d’avantage encore, tout groupe d’individus contraint de se déclarer dans cette catégorie est connu de plusieurs services de renseignements. De tels groupes sont constamment sous surveillance. Leurs communications internes et externes sont connues. Ils sont rapidement infiltrés par un ou plusieurs agents, parfois au plus haut niveau de décision, et dans ce cas aisément manipulable. Cette sorte de surveillance implique que n’importe quel attentat terroriste ait été pour le moins permis par les services chargés de la surveillance du groupe qui le revendique, parfois encore facilité ou aidé techniquement lorsque son exécution exige des moyens hors d’atteinte des terroristes, ou même franchement décidé et organisé par ces services eux-mêmes. Une telle complaisance est ici tout à fait logique, eu égard aux effets politiques et aux réactions prévisibles de ces attentats criminels.

Le siècle dernier, l’histoire du terrorisme a démontré qu’il s’agit toujours, pour une faction politique, de manipuler des groupes terroristes en vue de provoquer un revirement avantageux de l’opinion publique dont le but peut être de renforcer des dispositifs policiers pour contrer une agitation sociale, présente ou prévisible, ou de déclancher une opération militaire offensive, et son cortège d’intérêts économiques, à laquelle s’oppose la majorité de la nation.

Etat et Mafia

On se trompe chaque fois que l’on veut expliquer quelque chose en opposant la Mafia à l’Etat : ils ne sont jamais en rivalité. La théorie vérifie avec efficacité ce que toutes les rumeurs de la vie pratique avaient trop facilement montré. La Mafia n’est pas étrangère dans ce monde ; elle y est parfaitement chez elle, elle règne en fait comme le parfait modèle de toutes les entreprises commerciales avancées.

La Mafia est apparue en Sicile au début du XIXe siècle, avec l’essor du capitalisme moderne. Pour imposer son pouvoir, elle a du convaincre brutalement les populations d’accepter sa protection et son gouvernement occulte en échange de leur soumission, c’est-à-dire un système d’imposition directe et indirecte (sur toutes les transactions commerciales) lui permettant de financer son fonctionnement et son expansion. Pour cela, elle a organisé et exécuté systématiquement des attentats terroristes contre les individus et les entreprises qui refusaient sa tutelle et sa justice. C’était donc la même officine qui organisait la protection contre les attentats et les attentats pour organiser sa protection. Le recours à une autre justice que la sienne était sévèrement réprimé, de même que toute révélation intempestive sur son fonctionnement et ses opérations.

Malgré ce que l’on pourrait croire, ce n’est pas la Mafia qui a subvertit l’Etat moderne, mais ce sont les Etats qui ont concocté et utilisé les méthodes de la Mafia. Tout Etat moderne contraint de défendre son existence contre des populations qui mettent en doute sa légitimité est amené à utiliser à leur encontre les méthodes les plus éprouvées de la Mafia, et à leur imposer ce choix : terrorisme ou protection de l’Etat.

Mais il n’y a rien de nouveau à tout cela. Thucydide écrivait déjà, 400 ans avant Jésus-Christ, dans « La guerre du Péloponnèse » : « Qui plus est, ceux qui y prenaient la parole étaient du complot et les discours qu’ils prononçaient avaient été soumis au préalable à l’examen de leurs amis. Aucune opposition ne se manifestait parmi le reste des citoyens, qu’effrayait le nombre des conjurés. Lorsque que quelqu’un essayait malgré tout des les contredire, on trouvait aussitôt un moyen commode des les faire mourir. Les meurtriers n’étaient pas recherchés et aucune poursuite n’était engagée contre ceux qu’on soupçonnait. Le peuple ne réagissait pas et les gens étaient tellement terrorisés qu’ils s’estimaient heureux, même en restant muet, d’échapper aux violences. Croyant les conjurés bien plus nombreux qu’ils n’étaient, ils avaient le sentiment d’une impuissance complète. La ville était trop grande et ils ne se connaissaient pas assez les uns les autres, pour qu’il leur fût possible de découvrir ce qu’il en était vraiment. Dans ces conditions, si indigné qu’on fût, on ne pouvait confier ses griefs à personne. On devait donc renoncer à engager une action contre les coupables, car il eût fallut pour cela s’adresser soit à un inconnu, soit à une personne de connaissance en qui on n’avait pas confiance. Dans le parti démocratique, les relations personnelles étaient partout empreintes de méfiance, et l’on se demandait toujours si celui auquel on avait à faire n’était pas de connivence avec les conjurés ».

Aujourd’hui, les manipulations générales en faveur de l’ordre établi sont devenues si denses qu’elles s’étalent presque au grand jour. Pourtant, les véritables influences restent cachée, et les intentions ultimes ne peuvent qu’être assez difficilement soupçonnée, presque jamais comprises.

Notre monde démocratique qui, jusqu’il y a peu, allait de succès en succès, et s’était persuadé qu’il était aimé, a du renoncer depuis lors à ces rêves ; il n’est aujourd’hui plus que l’arme idéologique du projet mondialiste.

Mecanopolis

Giovanni Gentile: Fascism's Ideological Mastermind

Mussolini’s ‘Significant Other’

Giovanni Gentile: Fascism’s Ideological Mastermind

 

Ex: http://magnagrece.blogspot.com/


Professore Giovanni Gentile: the “Philosopher of Fascism.”


“Philosophy triumphs easily over past, and over future evils, but present evils triumph over philosophy.” – François de La Rochefoucauld: Maxims, 1665


In writing the history of a country or of an ethnos, all too often even the most well-meaning people are tempted out of patriotism to embellish the truth by either building up the good or omitting certain ‘unsavory’ facts about the past. On an emotional level this is understandable. After all, in a certain sense an ethnic group is a vastly extended family. The country, on the other hand, can be considered a sizable prolongation of the borders of one’s home. Who but the crassest enjoys speaking ill of home and family?


Nevertheless, if one wishes to strive for accuracy and objectivity in their writings, one must inevitably confront the specter of those who, during the course of their lives, engaged in actions that today go against the grain of established social mores. Otherwise, one risks being exposed to the charge of chauvinism (or worse).


It has been the stated purpose of this writer to show the reader how his people, the DueSiciliani, have carved out a place for themselves in this world in spite of the loss of their homeland, the Kingdom of the Two Sicilies, to the forces of the Piedmontese and their allies in 1861. Thus far, I and other like-minded folk posting on this blog have written of the commendable members of our people who have significantly added to Western Civilization through their contributions to the arts, sciences, philosophy (and even sports).


Men like Ettore Majorana, Salvator Rosa, Vincenzo Bellini and “the Nolan”, Giordano Bruno have unquestionably made this world better by being in it.


Similarly, we have written of those whose legacies provoke more ambivalent feelings. Men like Paolo di Avitabile and Michele Pezza, the legendary “Fra Diavolo”, led lives that to this day are considered controversial.


It now falls to this writer the hapless task of telling the tale of one of our own who went down “the road less traveled” to a decidedly darker place in the chapters of history – among the creators of 20th century totalitarian movements. As the reader will soon see, this journey cost him friends, a loftier place in the history books, and eventually his life!


Giovanni Gentile was born in the town of Castelvetrano, Sicily on May 30th, 1875 to Theresa (née Curti) and Giovanni Gentile. Growing up, his grades were so good he earned a scholarship to the University of Pisa in 1893. Originally interested in literature, his soon turned to philosophy, thanks to the influence of Donato Jaja. Jaja in turn had been a student of the Abruzzi neo-Hegelian idealist Bertrando Spaventa (1817-1883). Jaja would “channel” the teachings of Spaventa to Gentile, upon whom they would find a fertile breeding ground.


During his studies he found himself inspired by notable pro-Risorgimento Italian intellectuals such as Giuseppe Mazzini, Antonio Rosmini-Serbati and Vincenzo Gioberti. However, he also found himself drawn to the works of German idealist and materialist philosophers like Johann Gottlieb Fichte, Karl Marx, Friedrich Nietzsche and especially Georg Hegel. He graduated from the University of Pisa with a degree in philosophy in 1897.


He completed his advanced studies at the University of Florence, eventually beginning his teaching career in the lyceum at Campobasso and Naples (1898-1906).


Benedetto Croce

Beginning in 1903, Gentile began an intellectual friendship with another noted philosopher from il sud: Benedetto Croce. The two men would edit the famed Italian literary magazine La critica from 1903-22. In 1906 Gentile was invited to take up the chair in the history of philosophy at the University of Palermo. During his time there he would write two important works: The Theory of Mind as Pure Act (1916) and Logic as Theory of Knowledge (1917). These works formed the basis for his own philosophy which he dubbed “Actual Idealism.”


Giovanni Gentile’s philosophy of Actual Idealism, like Marxism, recognized man as a social animal. Unlike the Marxists, however, who viewed community as a function of class identity, Gentile considered community a function of the culture and history in a nation. Actual Idealism (or Actualism) saw thought as all-embracing, and that no one could actually leave their sphere of thinking or exceed their own thought. This contrasted with the Transcendental Idealism of Kant and the Absolute Idealism of Hegel.


He would remain at the University of Palermo until 1914, when he was invited to the University of Pisa to fill the chair vacated by the death of his dear friend and mentor, Donato Jaja. In 1917, he wound up at the University of Rome, where in 1925 he founded the School of Philosophy. He would remain at the University until shortly before his murder.


After Italy’s humiliating defeat at the disastrous Battle of Caporetto in November, 1917, Gentile took a greater interest in politics. A devoted Nationalist and Liberal; he gathered a group of like-minded friends together and founded a review, National Liberal Politics, to push for political and educational reform.


Gentile’s writings and activism attracted the attention of future Fascist dictator Benito Mussolini. Immediately after his famous “March on Rome” at the end of October, 1922, Mussolini invited Gentile to serve in his cabinet as Minister of Public Instruction. He would hold this position until July, 1924. Surviving records show that on May 31st, 1923 Giovanni Gentile formally applied for membership in the partito nazionale fascista, the National Fascist Party of Italy.


With his new cabinet position Gentile was given full authority by Mussolini to reform the Italian educational system. On November 5th, 1923 he was appointed senator of the realm, a representative in the Upper House of the Italian Parliament. Gentile was now at the pinnacle of his political influence. With the power and prestige granted him by his new office, he began the first serious overhaul of public education in Italy since the Casati Law was passed in 1859.


Gentile saw in Mussolini’s authoritarianism and nationalism a fulfillment of his dream to rejuvenate Italian culture, which he felt was stagnating. Through this he hoped to rejuvenate the Italian “nation” as well. As Minister of Public Instruction Gentile worked laboriously for 20 months to reform what was most certainly an antiquated and backward system. Though successful in his endeavor, ironically, it was the enactment of his plan that caused his political influence to wane.


In spite of this, Mussolini continued to grant honors on him. In 1924, after resigning his post as Minister, “Il Duce” invited him to join the “Commission of Fifteen” and later the “Commission of Eighteen” basically in order to figure out how to make Fascism fit into the Albertine Constitution, the legal document that governed the state of Italy since its formation after the infamous Risorgimento in 1861.


On March 29th, 1925 the Conference of Fascist Culture was held at Bologna, in northern Italy. The précis of this conference was the document: the Manifesto of the Fascist Intellectuals. It was an affirmation of support for the government of Benito Mussolini, throwing a gauntlet down to critics who questioned Mussolini’s commitment to Italian culture. Among its signatories were Giovanni Gentile (who drew up the document), Luigi Pirandello (who wasn’t actually at the conference but publicly supported the document with a letter) and the Neapolitan poet, songwriter and playwright Salvatore Di Giacomo.


It was that last name that provoked a bitter dispute between Gentile and his erstwhile friend and mentor, Benedetto Croce. Responding with a document of his own on May 1st, 1925, the Manifesto of the Anti-Fascist Intellectuals, Croce made public for all to see his irreconcilable split (which had been brewing for some time) with the Fascist Party of Italy…and Giovanni Gentile. In his document he dismissed Gentile’s work as “…a haphazard piece of elementary schoolwork, where doctrinal confusion and poor reasoning abound.” The two men would never collaborate again.


From 1925 till 1944 Gentile served as the scientific director of the Enciclopedia Italiana. In June of 1932 in Volume XIV he published, with Mussolini’s approval (and signature) and over the Roman Catholic Church’s objections, the Dottrina del fascismo (The Doctrine of Fascism). The first part of the Dottrina, written by Gentile, was his reconciling Fascism with his own philosophy of Actual Idealism, thereby forever equating the two.


Giovanni Gentile approved of Italy’s invasion of Ethiopia in 1935. Though he found aspects of Hitler’s Nazism admirable, he disapproved of Mussolini allying Italy with Germany, believing Hitler’s intentions could not be trusted and that Italy would wind up becoming a vassal state. His views on this were shared by General Italo Balbo and Count Galeazzo Ciano, Mussolini’s son-in-law and Foreign Minister. Nevertheless, Gentile continued to support Mussolini. Since he recognized that Italy was a polity but not a nation in the true sense of the word, he believed “Il Duce’s” iron-fisted rule to be the only thing sparing the Italian pseudo-state from civil war.


With the collapse of Italy’s Fascist regime in September, 1943 and Mussolini’s rescue by Hitler’s forces, Gentile joined his emasculated master in exile at the so-called Italian Social Republic; an ad hoc puppet state created by Hitler in an ultimately futile attempt to shore up his rapidly crumbing 1,000-year Reich. Even then, he served as one of the principal intellectual defenders of what was obviously a failed political experiment.


On April 15, 1944 Professore Giovanni Gentile was murdered by Communist partisans led by one Bruno Fanciullacci. Ironically, he was gunned down leaving a meeting where he had argued for the release of a group of anti-Fascist intellectuals whose loyalty was suspect. He was buried in the Church of Santa Croce in Florence where his remains lie, perhaps fittingly, next to those of Florentine philosopher and writer Niccolò Machiavelli.


As one might imagine, after his death Gentile’s name was scorned if not forgotten entirely by historians. In recent years, however, scholars have begun to re-examine his legacy. Political theorist A. James Gregor (née Anthony Gimigliano), a recognized expert on Fascist and Marxist thought and himself an American of Southern Italian descent, believes that Gentile actually exerted a tempering influence on Italian Fascism’s proclivities towards violence as a political tool. This, he argues, is one (of several) of the reasons why Mussolini’s Italy never indulged in the more draconian excesses of Hitler’s regime.


Even his former friend and colleague Benedetto Croce later recognized the superior quality of Gentile’s scholarship and the quantity of his publications in the history of philosophy. Yet he differed sharply from him in political ideology and temperament. While both men forsook any loyalty to i Due Sicilie in favor of the pan-Italian illusion of the Risorgimento, they disagreed mightily as to the nature of the Italian state and to what course it should pursue.


For Gentile the actual idealist, the state was the supreme ethical entity; the individual existing merely to submit and merge his will and reason for being to it. Rebellion against the state in the name of ideals was therefore unjustifiable on any level. To Gentile, Fascism was the natural outgrowth of Actual Idealism.


Croce the neo-Kantian, on the other hand, argued forcefully the state was merely the sum of particular voluntary acts expressed by individuals (who were the center of society) and recorded in its laws. To Croce, Gentile’s metaphysical concepts regarding the state approached mysticism.


Thus, while both men have sadly been largely forgotten, even in the intellectual circles they once traversed, Croce’s legacy survives in a much better light than the man he once called friend.


Niccolò Graffio


Further reading:

  • A. James Gregor: Giovanni Gentile: Philosopher of Fascism; Transaction Publishers, 2001.
  • Giovanni Gentile and A. James Gregor (transl): Origins and Doctrine of Fascism: With Selections from Other Works; Transaction Publishers, 2002.
  • M.E. Moss: Mussolini’s Fascist Philosopher: Giovanni Gentile Reconsidered; Peter Lang Publishing, Inc., 2004.

lundi, 07 juin 2010

Hommage au Prof. B. Willms: entre Hobbes et Hegel

 

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1991

 

Hommage au Professeur Bernard Willms

 

(7.7.1931 - 27.2.1991)

Entre Hobbes et Hegel

 

par le Dr. Thor von WALDSTEIN

 

A Bochum vient de mourir le Fichte de notre époque, le Professeur Bernard Willms.

 

«C'est parce que vous mentez sur ce qui est, qu'en vous ne naît pas la soif de connaître ce qui adviendra» (Friedrich NIETZSCHE).

 

Lorsqu'une Nation dominée par des puis­san­ces étrangères n'a pas encore définiti­vement renoncé à s'auto-déterminer, elle doit impérativement travailler à une chose en priorité: reconnaître son propre état des lieux. Dans l'Allemagne vaincue d'après 1945, c'est surtout un tel bilan, clair, net, précis, qui a manqué. Privés de souverai­neté, privés de la possibilité de décider pour eux-mêmes, les Allemands ont honoré des valeurs, certes importantes, comme la «dé­mo­cratie», les «droits de l'Homme», la «paix», la «stabilité». Valeurs qui, sans ré­fé­rence à la Nation et sans souveraineté, de­meuraient de tristes coquilles linguis­tiques vides, exportées d'Outre-Atlantique et n'a­yant plus qu'une seule fonction: jeter un voi­le pudique sur l'impuissance impolitique des Allemands. Mais, comme lors de la Guerre des Paysans du XVIième siècle, lors des com­bats pour la libération du territoire en 1813-1814, lors du Vormärz de 1848, à la fin de l'ère wilhelminienne et sous Weimar, l'Al­lemagne a eu des penseurs brillants et courageux; pendant l'éclipse de Bonn aussi: des hommes qui ont su désigner les profi­teurs de notre misère nationale. Plus la dé­mission de la politique allemande s'insti­tu­tio­nalisait, plus la domination étrangère, don­née factuelle éminemment concrète, se dissimulait derrière le rideau de fumée des «valeurs occidentales», plus les régisseurs de la dogmatique politique am­biante, solide­ment installée, réagissaient avec fiel et ai­greur contre les hommes cou­rageux et civi­ques qui dégageaient la réalité de la cangue médiatique, où on l'avait enser­rée, et mon­traient clairement aux Alle­mands dans quel­le situation ils vivaient.

 

Parmi ces hommes: Bernard Willms.

 

En écrivant cette phrase, «L'homme existe po­litiquement ou n'existe pas», dans son re­marquable article intitulé «Antaios oder die Lage der Philosophie ist die Lage der Na­tion» (= Antaios ou la situation de la philoso­phie est la situation de la Nation), Willms, en 1982, réveillait brusquement la philoso­phie universitaire fonctionnarisée de son som­meil théorique et réclamait un ancrage (Ver­ortung)  de la philosophie dans le con­cept de Nation. Willms relançait ainsi dans le débat une thématique que les déten­teurs de chaires universitaires, en Alle­magne de l'Ouest, avaient enfouie pendant quarante ans sous un tas de scories dogma­tiques occi­dentales, prétextant que toute philosophie allemande après Auschwitz avait cessé d'exis­ter. Au cours du renouveau national des années 80, Bernard Willms est devenue une figure-clef de la nouvelle re­naissance allemande, un homme qui «éloigne de soi ce qui est vermoulu, lâche et tiède» (Stefan Geor­ge) et mange le «pain dur de la vérité philosophique» (Willms).

 

Celui qui étudie la biographie de ce philo­so­phe allemand constatera que son évolu­tion, qui le conduira à devenir un nouveau Fichte dans un pays divisé, n'a pas été dictée par les nécessités.

 

Né en 1931 à Mönchengladbach dans un mi­lieu catholique, Willms a étudié la philoso­phie à Cologne et à Münster, après avoir été pendant quelque temps libraire. Il rédige un mémoire à Münster en 1964, dont Joachim Ritter est le promoteur. Titre de ce travail: Die totale Freiheit. Fichtes politische Philo­sophie (= La liberté totale. Philosophie poli­tique de Fichte). Pendant la seconde moitié des années 60, lorsque l'Ecole de Francfort transformait l'Université allemande en un se­cond-mind-shop, Willms était l'assistant du célèbre sociologue conservateur Helmut Schelsky. A cette époque-là, Willms visite éga­lement, de temps en temps, les Sémi­nai­res d'Ebrach, où Ernst Forsthoff attire les esprits indépendants et les soutient. En 1970, Willms est appelé à l'Université de la Ruhr à Bochum, où il acquiert une chaire de profes­seur de sciences politiques avec comme thé­ma­tiques centrales, la théorie politique et l'histoire des idées. Marqué profondément par Hegel  —Willms s'est un jour décrit com­me «hégélien jusqu'à la moëlle»—  il avait abordé et approfondit, depuis son pas­sage chez Schelsky, la philosophie de l'An­glais Thomas Hobbes. En 1970, Willms fait paraître Die Antwort des Leviathans. Tho­mas Hobbes' politische Theorie  (= La ré­pon­se du Léviathan. La théorie politique de Tho­mas Hobbes). En 1980, il complète ses études sur Hobbes en publiant Der Weg des Levia­than. Die Hobbes-Forschung von 1968 bis 1978  (= La voie du Léviathan. Les re­cherches sur Hobbes de 1968 à 1978). En 1987, enfin, il résume ses vingt années de ré­flexions sur le vieux penseur de Malmesbury dans Das Reich des Leviathan  (= Le Règne du Lévia­than). Pendant ces deux dernières décen­nies, Willms est devenu l'un des meil­leurs connaisseurs de la pensée de Hobbes; il était devenu membre du Conseil Honoraire de la International Hobbes Association  à New York et ne cessait de prononcer sur Hobbes quantité de conférences dans les cercles aca­démiques en Allemagne et ail­leurs.

 

Tout en assurant ses positions, en devenant profond connaisseur d'une matière spéciale, Willms n'a jamais perdu le sens de la globa­lité des faits politiques: son souci majeur était de penser conjointement et la philoso­phie et la politique et de placer ce souci au centre de tous ses travaux. De nombreux livres en témoignent: Die politischen Ideen von Hobbes bis Ho Tschi Minh  (= Les idées politiques de Hobbes à Ho Chi Minh, 1971); Entspannung und friedliche Koexistenz  (= Détente et coexistence pacifique, 1974); Selbst­be­hauptung und Anerkennung  (= Au­to-affirmation et reconnaissance, 1977), Ein­führung in die Staatslehre  (= Introduc­tion à la doctrine de l'Etat, 1979) et Politische Ko­existenz  (= Coexistence politique, 1982).

 

Au cours des années 80, Bernard Willms fonde une école de pensée néo-idéaliste, en opérant un recours à la nation. Cette école désigne l'ennemi principal: le libéralisme qui discute et n'agit pas. En 1982, paraît son ouvrage principal, Die Deutsche Nation. Theorie. Lage. Zukunft  (= La nation alle­man­de. Théorie. Situation. Avenir) ainsi qu'un autre petit ouvrage important, Identi­tät und Widerstand  (= Identité et résis­tance). Entre 1986 et 1988, Willms édite en trois vo­lumes un Handbuch zur deutschen Nation  (= Manuel pour la nation allemande), trois recueils contenant les textes scientifiques de base pour amorcer un renouveau national. En 1988, avec Paul Kleinewefers, il publie Erneuerung aus der Mitte. Prag. Wien. Ber­lin. Diesseits von Ost und West  (= Renou­veau au départ du centre. Prague. Vienne. Berlin. De ce côté-ci de l'Est et de l'Ouest), ouvrage qui esquisse une nouvelle approche géopolitique du fait centre-européen (la Mit­teleuropa),  qui a prévu, en quelque sorte, les événements de 1989. Dans son dernier ar­ticle, intitulé Postmoderne und Politik  (= Postmodernité et politique, 1989), Willms re­lie ses références puisées chez Carl Schmitt et chez Arnold Gehlen à la critique française contemporaine de la modernité (Foucault, Lyotard, Derrida, Baudrillard, etc.). Sa dé­monstration suit la trajectoire suivante: la négation de la modernité doit se muer en principe cardinal des nations libres.

 

Si Bernard Willms a bien haï quelque chose dans sa vie, c'est le libéralisme, qu'il conce­vait comme l'idéologie qui fait disparaître le politique: «Le libéralisme par essence est hostile aux institutions; sur le plan politique, il n'a jamais existé qu'à l'état parasitaire. Il se déploie à l'intérieur même des ordres po­litiques que d'autres forces ont forgés. Le li­bé­ralisme est une attitude qui vit par la ma­xi­misation constante de ces exigences et qui ne veut de la liberté que ce qui est agréable». La phrase qu'a prononcée Willms avant la réunification à propos du libéra­lisme réel ouest-allemand n'a rien perdu de sa perti­nen­ce, après l'effondrement du mur. Ju­geons-en: «La République Fédérale n'a des amis qu'à une condition: qu'elle reste ce qu'elle est».

 

Ceux qui, comme Willms, s'attaquent aux «penseurs débiles du libéralisme» et stigma­tisent la «misère de notre classe politique», ne se font pas que des amis. Déjà au début des années 70, quelques énergumènes avaient accroché des banderoles sur les murs de l'Université de Bochum, avec ces mots: «Willms dehors!». Quand, pendant les années 80, les débats inter-universitaires ont tourné au vinaigre, d'autres drôles ont sur­nommé Willms «le Sanglant», démontrant, en commettant cette ahurissante et ridicule sottise, combien ils étaient libéraux, eux, les défenseurs du libéralisme, face à un homme qui, somme toute, ne faisait que sortir des sentiers battus de l'idéologie imposée par les médias et appelait les choses par leur nom. La remarque d'Arno Klönne, qui disait que Willms était le principal philosophe du néo-nationalisme, et le mot du Spiegel,  qui le dé­signait comme «le fasciste le plus intelligent d'Allemagne», sont, face à l'ineptie de ses contradicteurs les plus hystériques, de véri­tables compliments et prouvent ex negativo que ses travaux de Post-Hegelien serviront de fil d'Ariane pour une nouvelle génération d'Allemands qui pourront enfin penser l'Al­lemagne dans des catégories philoso­phiques allemandes, sans rêver aux pompes et aux œuvres d'Adolf Hitler.

 

Bernard Willms était un philosophe qui pre­nait au sérieux le mot de Cicéron, vivere est cogitare,  vivre, c'est penser. Avec sa mort, la nation perd la meilleure de ses têtes philo­sophiques des années d'avant le 9 novembre 1989, jour de la chute du Mur. Ernst Jünger nous a enseigné que la tâche de tout auteur est de fonder une patrie spirituelle. Chose rare, Bernard Willms est l'un de ceux qui ont réussi une telle œuvre d'art. Dans un in­terview, en 1985, il avait répondu: «On écrit des livres dans l'espoir qu'ils seront lus et compris par les hommes qui doivent les lire et les comprendre». Une jeune génération, formée par son école néo-idéaliste, a donc désormais la mission de témoigner de l'idéal national de Willms, d'utiliser ses livres et ses idées comme des armes pour construire, à Berlin et non plus à Bonn, une Allemagne nouvelle, au-delà des gesticulations stériles des bonzes qui la gouvernent aujourd'hui.

 

A Münster en Westphalie, ses disciples l'ont porté en terre sous les premiers rayons d'un pâle soleil de mars. Sur son cercueil, ils avaient fixé une plaque en cuivre, reprodui­sant la page de titre qui figurait sur la pre­mière édition du Léviathan, écrit par le Sage de Malmesbury. Bernard Willms avait l'ha­bitude, au cours des années 80, de pro­noncer une phrase, imitée de Caton, à la suite de chacune de ses nombreuses confé­rences: ceterum censeo Germaniam esse restituen­dam (je crois que l'Allemagne doit être resti­tuée). C'est le message et la mission qu'il nous laisse. Soyons-en digne.

 

Dr. Thor von WALDSTEIN,

14 mars 1991.

 

dimanche, 06 juin 2010

Hommage à Bernard Willms

DerStaat.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1991

Hommage à Bernard Willms

prononcé par Robert Steuckers à l'occasion du XXIVième Colloque du GRECE (Paris,

24 mars 1991)

 

Mesdames, Mesdemoiselles, Messieurs, Chers amis et camarades,

 

Si notre ami Alexandre Dou­gui­ne n'a­vait pu parler à cette tri­bune, j'avais été chargé de le remplacer et de pro­noncer une conférence sur les no­tions de «na­tion» et d'«empire», telles que les con­ce­vait l'idéalisme de tradi­tion fich­téenne. Et pour parfaire cette tâche, j'a­vais très peu de temps devant moi. J'ai préparé une allocution au départ de tex­tes é­pars, que j'avais déjà écrits pour di­vers édi­teurs. Parmi ces textes, il y a un hom­mage à un ami qui, comme Pier­re Gri­pari ou Marc Augier dit «Saint-Loup», vient de mourir, le Pro­fesseur Bernard Willms de l'Université de Bo­chum. Ber­nard Willms avait été pres­sen­ti pour participer à notre dernier collo­que mais n'avait pu y venir parce qu'il pré­parait une étude sur la post-mo­der­nité et le po­litique. Cette étude est pa­rue à Berlin, dans la plus grande revue de politologie en Europe, Der Staat, dont il était le co-rédac­teur, no­tamment avec Helmut Qua­ritsch, grand spé­cialiste de Carl Schmitt et l'un des pre­miers Allemands diplômé de l'ENA. Pro­fesseur de philo­sophie po­litique,  Ber­nard Willms était, lui, l'un des plus grand spécia­liste au monde de la pensée de Thomas Hobbes et de cel­le de Fichte. Bon nombre de définitions que j'aurais dû vous administrer aujour­d'hui sont is­sues de son œuvre, encore totalement inconnue du public franco­phone. Ber­nard Willms est mort le 27 février der­nier, à l'âge de 59 ans, lais­sant derrière lui une œuvre impression­nante en quan­tité et en densité. Les thé­matiques de l'idéalisme philosophique, de la na­tion, du politique, de la notion de plan, de post-modernité poli­tique, du nomina­lis­me, du grand espace confédé­ral, ont été, chez lui, approfondies pour plu­sieurs gé­nérations. Je saisis l'occa­sion de ce col­loque pour lui rendre un pre­mier hom­mage public dans l'espace lin­guistique francophone et pour vous dire que son décès prématuré nous in­cite à pour­suivre son œuvre en en fai­sant l'exé­gèse, en l'explicitant, en la tra­dui­sant, en témoi­gnant d'elle. Merci.

 

samedi, 05 juin 2010

Algo sobre el poder y el poderoso

Algo sobre el poder y el poderoso

Alberto Buela (*)

A Germán Spano, que me lo obsequió

 

Se reeditó recientemente el pequeño Diálogo sobre el poder y acceso al poderoso del iusfilósofo alemán Carl Schmitt, que fuera publicado tanto en Alemania como en España en 1954[1], y que naciera como un diálogo radiofónico, que en un principio tendría el autor y el politólogo francés Raymond Arón o el sociólogo Helmut Schelsky o el filósofo Arnold Gehlen, pero los tres se rehusaron. Claro está la demonización mediática que pesaba sobre Schmitt era tal que cuando en el semanario Die Zeit, su jefe de redacción escribe a propósito del Diálogo: “En la República Federal de Alemania, el gran jurísta Carl Schmitt es una figura controvertida. Sin embargo, incluso sus enemigos deberían prestar atención cuando hace observaciones originales y sagaces…Nadie que se proponga escribir sobre el poder debería abordar el tema sin haber leído el texto de Carl Schmitt”(N° 9 del 2/7/54), al jefe de redacción lo echaron del trabajo y le prohibieron la entrada al edificio.

 

La naturaleza del poder

 

Se trata de hablar específicamente del poder que ejercen los hombres sobre otros hombres, pues el poder no procede ni de la naturaleza ni de Dios, al menos para la sociedad desacralizada de nuestro tiempo.

El poder establece una relación de mando-obediencia entre los hombres que cuando desaparece la obediencia, desparece el poder. Se puede obedecer por confianza, por temor, por esperanza, por desesperación que se busca junto al poder, pero “la relación entre protección y obediencia sigue siendo la única explicación para el poder”.

 

El acceso al poderoso

 

Como todo poder directo está sujeto a influencias indirectas, quien presenta un proyecto al poderoso, quien lo informa, quien lo ayuda o asesora ya participa del poder. Esto ha desvelado a los hombres que en el mundo han ejercido poder directo. Existen cientos de anécdotas al respecto, de cómo los poderosos han tratado de romper el círculo de influencias indirectas que los rodeaban. “Delante de cada espacio de poder directo se forma una antesala de influencias y poderes indirectos, un acceso al oído, un pasaje a la psique del poderoso”. Y cuanto más concentrado está ese poder en una cima, más se agudiza la cuestión del acceso a la cima. Más violenta y sorda se vuelve la lucha de aquellos que están en la antesala y controlan el pasaje al poder directo.

Quienes tienen  acceso al poder ya participan del poder y como consecuencia no permiten u obstruyen el acceso de otros al poder. En una palabra, el poder no se comparte, solo se ejerce.

 

Maldad o bondad del poder

 

Si el poder que ejercen los hombres entre sí no procede de la naturaleza ni de Dios sino es una cuestión de relación entre los hombres ¿es bueno, es malo, o qué es?, se pregunta.

Para la mayoría de los hombres el poder es bueno cuando lo ejerce uno y malo cuando lo ejerce su enemigo. El poder no hace a los hombres buenos o malos sino que cuando se ejerce muestra en sus acciones si el poderoso es bueno o malo, que es otra cosa distinta.

Para San Pablo todo poder viene de Dios, y para San Gregorio Magno la voluntad de poder es mala, pero el poder en sí mismo siempre es bueno.

Pero actualmente la mayoría de las personas siguen el criterio expresado por Jacobo Burckhardt que “el poder en sí mismo es malo”. Lo paradójico que esto fue escrito a partir de los gobiernos de Luís XIV, Napoleón y los gobiernos populares revolucionarios surgidos a partir de la Revolución Francesa. Es decir, que en plena época del humanismo laico, de los derechos humanos del hombre y el ciudadano se difunde la universal convicción de que el poder es malo.

 

A que se debe este cambio de ciento ochenta grados en la concepción del poder que pasó de bueno hasta finales del siglo XVIII, a malo hasta nuestros días.

El avance exponencial de la técnica, transformada luego en tecnología y finalmente en tecnocracia ha hecho que sus productos se desprendan del control del hombre y por lo tanto el poderoso no puede asegurar la protección que supone el tener poder sobre aquellos que le obedecen. Se supera así la relación protección obediencia que caracteriza la naturaleza del poder.

El poder es se ha transformado en algo objetivo más fuerte que el hombre que lo emplea.

El concepto de hombre ha cambiado y es vivido como más peligroso que cualquier otro animal, es el homo homini lupus de Hobbes, autor reverenciado por Schmitt.

 

Nota bene:

Sin cuestionar la excelencia de este brevísimo diálogo, quisiéramos observar que aun cuando Schmitt quiere hablar sobre el poder en general, se limita sin quererlo al poder político pues no tiene en cuenta el poder que nace de la autoridad, esto es el poder que nace del saber o conocer algo en profundidad y que pueda ser enseñado. No es por obediencia, al menos primariamente, que un discípulo se acerca a un verdadero maestro, ni por protección que un maestro ejerce su profesión, sino en busca de la transmisión genuina del saber.

Es que la obediencia a la autoridad se funda en el saber de dicha autoridad, y no en la mayor o menor protección que pueda brindar dicha autoridad.

 

(*) arkegueta- UTN(Universidad Tecnológica Nacional)

alberto.buela@gmail.com

 



[1] Revista de estudios políticos N° 78, Madrid, 1954

vendredi, 04 juin 2010

La Tara hispanica

La Tara hispánica

(a propósito del Príncipe de Asturias)

                                                                                               

Alberto Buela (*)

 

Una vez más, el más importante premio a “las humanidades”, el Príncipe de Asturias, ha sido otorgado a afamados ensayistas que no tienen nada que ver con España, la lengua de los hispanos y su particular tradición cultural.

Hace varias décadas atrás un muy buen pensador español, Gonzalo Fernández de la Mora, en un libro memorable, La envidia igualitaria, sostuvo que “la envida es el vicio capital de los hispanos y la causa decisiva de sus caídas históricas. La inferioridad de los españoles no sería intelectual sino emotiva”.

Nosotros, remedando a de la Mora, vamos a sostener que la imitación, el remedo, la mala copia, sobretodo del mundo centro europeo – Alemania, Inglaterra y Francia- es la tara hispánica. Y la frutilla del postre es este Premio Príncipe de Asturias a Alain Touraine y Zygmunt Barman, dos personajes que en el mundo del pensamiento más profundo y serio, no significan absolutamente nada, el primero por oportunista (se ha acomodado toda su vida a las más variadas circunstancias políticas para quedar al calor del poder) y el otro, por sionista y loobista pro hebreo.

 

Cómo será el carácter acomodaticio de Touraine que inmediatamente declaró: “Este premio aumenta aun más mi conciencia de ser un intelectual latino”.  Una vez más la apelación a la latinité, cuando les conviene. Este llamado a “lo latino” nos recuerda a Chevalier, el canciller de Napoleón III, que inventó el concepto de “latinidad” para poder justificar su intervención en Méjico con motivo de la aventura un príncipe europeo, Maximiliano, para Méjico.

Ya lo dijo Jorge Luís Borges: no ve venga a vender eso de la latinidad que yo solo veo argentinos, colombianos, españoles o italianos. Es un invento francés para curarse en salud en tierras americanas. Y Borges sería conservador y antiperonista, pero era un parapeto a la mediocridad.

En cuanto a Bauman respondió con el típico argumento hebreo de que ellos son “maestros de humanidad”, sobre todo cuando son laicos y agnósticos, y así dijo: “el Premio es un reconocimiento a mi modesta contribución a la autoconciencia de la humanidad”.

Pero si la humanidad no tiene manos ni pies, decía Kierkeggard, a lo que agregaba don Miguel de Unamuno: el adjetivo humanus me es tan sospechoso como su sustantivo abstracto humanitas. Ni uno ni otro, sino el sustantivo concreto: el hombre”. Y Proudhon más tajante aún sostenía por doquier: “cada vez que escucho humanidad, sé que quieren engañar”.

 

Habiendo tantos y tan buenos ensayistas, sociólogos, filósofos, historiadores, politólogos de lengua española van a buscar a dos intelectuales más mediáticos que sustanciales, más frívolos que serios, a dos intelectuales que están reñidos con lo mejor de la tradición cultural de los pueblos hispánicos.

 

Es que la tara hispánica es la imitación. La imitación al estilo de un espejo opaco como es este caso, que imita y encima imita mal, en forma desdibujada.

 

Nosotros por nuestra profesión lo vemos en la filosofía y más específicamente en la filosofía antigua donde los estudiosos de lengua castellana se desesperan por citar autores ingleses, franceses y alemanes dejando de lado la citación de nosotros mismos. Todas las traducciones del griego al castellano hecha por, generalmente buenos investigadores de origen hispano, comentan traducen e interpretan al modo los scholars ingleses o franceses o alemanes, y cuando citan algún trabajo en lengua castellana es el de ellos mismos y de nadie más. Esto último no hace más que confirmar la envidia señalada por de la Mora.

Los investigadores de origen hispano han cedido ante “los especialistas de lo mínimo” la interpretación de la filosofía, al menos de la antigua, y han postergado aquello que fue signo de la inteligencia hispana durante siglos: “la visión del todo de lo estudiado”. Esa buena herencia de Grecia y Roma expresada por Platón: “dialéctico es el que ve el todo y el que no, no lo es” (Rep 537 c 14-15).

La diferencia entre el análisis moderno y el clásico es que el primero descompone hasta lo mínimo y allí se queda, mientras que el clásico, descompone hasta lo mínimo para luego sintetizar en “un todo” de sentido.

Esta carrera de ciegos para ver la nada ha que se ha sometido el pensamiento de lengua y raíz hispana en los últimos cincuenta años ha producido en filosofía, además de los especialistas de lo mínimo, lo que podemos llamar “la viaraza gallega”. Esto es, la reacción intempestiva y arbitraria al estilo de del Valle Inclán.

El mejor ejemplo que conozco, obviamente, es la de los traductores al castellano de las obras de filosofía, y ello se nota especialmente en los tecnicismos filosóficos, cuyo mayor productor ha sido Aristóteles.

Así las palabras técnicas de uso universal en filosofía como sustancia, accidente, acto, potencia, ser, ente, felicidad, virtud, etc., que son fundamentales para entenderse entre los filósofos, han sido traducidas de las maneras más arbitrarios y caprichosas que se nos puedan ocurrir, por los investigadores desde hace unos cincuenta años para acá.

Vayan algunos ejemplos: a) García Yebra traduce en su Metafísica el término griego ousia por “esencia”, en lugar de sustancia como se lo tradujo durante dos mil años. b) Hernán Zucchi (argentino) se “le ocurre” traducir ousia por “entidad”, provocando un galimatías ininteligible en su traducción de la Metafìsica de Aristóteles. c) También “se le ocurre” a Pallí Bonet (que debe ser catalán, pero la viaraza gallega lo alcanza) al traducir la Ética Nicomaquea el término técnico héxis que se traduce históricamente por hábito, por la expresión “modo de ser”, con lo cual no se entiende nada. d) Eduardo Sinnott (argentino) realiza la mejor traducción anotada de la Ética Nicomaquea, pero la echa a perder cuando “se le ocurre” dejar de traducir el término eudaimonía  por felicidad, para traducirlo por “dicha”. Esto es, gozo individualista del hombre vulgar o dicharachero. d) Quintín Racionero que “se le ocurre” en su anotada traducción de la Retórica, no traducir un término fundamental como “antístrofa”, y luego cuando tiene que traducir otra palabra fundamental como phornimós, en lugar de hacerlo por “prudente”, por un prejuicio anticristiano, lo traduce por el término burgués “sensato”. f) Dejo para el final el caso de Mengino Rodríguez quien en su reciente traducción del Protréptico (2007) ignoró supinamente la nuestra (1983) y se atribuyó a sí mismo la primera traducción del texto aristotélico.[1]

 

Esta tara “gallega” es la que marca la capitis diminucio con la cual estos se aproximan a los estudios clásicos. Sin ir más lejos el año pasado fue rechazado un proyecto presentado por la muy buena filósofa catalana Margarita Mauri de investigación sobre la filosofía práctica de Aristóteles  porque,”el grupo solicitante no acredita publicaciones en espacios internacionales reconocidos “(léase: revistas inglesas, francesas o alemanas) en torno a los estudios aristotélicos…..los participantes en el proyecto no han optado por los espacios de discusión aristotélica más consolidados (revistas internacionales, etc).” afirmó el Comité de selección del Ministerio de ciencia e innovación de España. Tuvo que aparecer una carta del profesor norteamericano de la insignificante Northwestern University para que “los gallegos” del comité de selección aceptaran el proyecto.

 

Hoy el más encumbrado tribunal en estudios humanísticos del mundo hispano acaba de otorgarle el premio más importante en euros (son 50.000) a dos personajes, que con su obra y su prédica denostan al mundo que los premia. En el fondo, este encumbrado tribunal hispánico se ha portado como un cabrón, ha gastado los dineros de los españoles en premiar a aquellos cuya producción y verba ha ido siempre contra España y aquello que lo hispano representa en el mundo.

 

(*) arkegueta, aprendiz constante, eterno comenzante.

alberto.buela  gmail.com

 

 



[1] Confrontar nuestro artículo A propósito del Protréptico de Aristóteles, en Internet.

jeudi, 03 juin 2010

L'Addictature: la tyrannie de la dépendance

L'Addictature : La tyrannie de la dépendance

Ex: http://www.polemia.com/

Polémia a reçu un excellent texte sur « l’addictature ». « L’addictature », c’est la dictature du système marchand, mondialiste et médiatique à travers l’addiction : l’addiction aux images, l’addiction à la consommation ; notamment par la prise du contrôle des esprits par les publicitaires et la décérébration scientifique, une addiction à la consommation à la publicité et au commerce qui est, selon l’auteur, la principale cause du politiquement correct. C’est le chef d’entreprise, le publicitaire et l’éditorialiste qui cherchent à éviter tout ce qui peut nuire à un « bon climat », ce qui les conduit à privilégier le conformisme et à craindre la liberté de l’esprit.

Polémia

1/ Consommer c’est détruire

Londres, été 2000, à proximité du célébrissime Hyde Park, une réunion se tient dans les locaux d’une agence de publicité regroupant une vingtaine de « marqueteurs » du monde entier… Face à l’agence, un panneau publicitaire de 4m sur 3 attire l’attention du passant, dérange la bonne société londonienne et émerveille nos jeunes cadres un brin efféminés, grands prêtres de l’impact pour l’impact, adeptes des idées décalées qui « feraient bouger le monde », ennemis jurés de la normalité d’emblée jugée réactionnaire ou simplement emmerdante.

Sur l’affiche géante : une femme septuagénaire ridée comme une pomme, le visage révulsé et bestial, un corps misérable au deux tiers dénudé, simplement sanglé dans une combinaison sado-maso de latex noir clouté ; dans sa main droite un fouet hérissé d’épines de métal, dans sa main gauche une boîte de pastilles à la menthe et un « claim », une signature, un message : « Draw the pleasure from the pain » (tirez votre plaisir de la souffrance). Un clin d’œil bien british à la gloire du menthol contenu dans ces anodines pastillettes mais qui pourrait en dire long sur la dégradation de notre rapport au monde ô combien tourmenté.

Et si consommer c’était consumer et se consumer, altérer l’objet et s’altérer soi-même… et si consommer c’était avant tout détruire ? Le désir est castré par la totale accessibilité des biens. Contrairement au discours des publicitaires, les médias ne créent jamais le désir mais surinforment sur l’hyper-disponibilité des biens et des plaisirs qu’ils sont censés générer. Mais, au fait, peut-on réellement désirer quelque chose de prêt à consommer ? Tout est susceptible d’être consommé : des derniers yaourts à boire à la jeune blonde siliconée. Les fabricants de biens de consommation sont des créateurs d’éphémère et les consommateurs les destructeurs compulsifs de ces biens. Cette évidence met en lumière un malaise profond dans la relation de l’homme à l’objet, de l’Etre à l’Avoir. L’acquisition du bien est sacrée mais curieusement le bien ne l’est plus car son destin est d’être rapidement détruit. Cette évidence fonde le non-respect des choses, mais aussi des personnes ou de soi-même, ce qui est l’une des origines de l’apologie du morbide dans notre société. Les clins d’œil publicitaires d’un goût douteux ne sont d’ailleurs pas les seuls à cultiver cette pulsion destructrice, cette pathologie collective.

2/ De la répression à la dépression

Le système marchand mondialisé et son paravent droit-de-l’hommiste mis en majesté par la médiacratie n’en finit pas de stigmatiser les répressions pour mieux nous faire sombrer en dépression. Lorsqu’il n’y a plus de résistance, de combats, d’appartenance, il reste la dépendance. Lorsqu’il n’y a plus de tradition il reste les addictions.

Les épouvantails dressés par l’addictature sont les paravents bien pratiques d’une redoutable machine à lobotomiser le cerveau humain. A la manière des sectes, qui dénoncent le pouvoir répressif du milieu familial pour mieux couper la nouvelle recrue de ses racines, le système diabolise les points d’ancrage intangibles (gisements potentiels d’éclairs de lucidité) pour mieux pratiquer ses lavages de cerveau.

3/ La machine à générer le manque

Imaginons l’espace d’un instant un historien du futur portant un regard critique sur l’ère des marchands. Que décrirait-il en vérité ? Un monde dont le fonctionnement peut se résumer à la relation du dealer au toxicomane. Un monde hanté par la phobie du manque et de la répression au point de lui préférer la décérébration, l’aliénation, l’addiction. Personne ne semble échapper à la grande machine à générer le manque… Ni les oligarques, tour à tour marchands et consommateurs, ni les intellectuels les plus éclairés voire les plus dissidents. La véritable dissidence n’est possible dans l’addictature que si, et seulement si, la prise de conscience des aberrations du système, la réinformation et l’éveil du sens critique sont accompagnés d’un véritable sevrage au sens le plus addictologique du terme. La société de consommation agit sur l’homme comme une drogue, comme l’ont approché bon nombre de sociologues depuis Jean Baudrillard. Mais un drogué pourra avoir conscience que son dealer est son bourreau tout en mettant tout en œuvre pour le protéger car il a besoin de sa dose. Cette relation morbide et masochiste du drogué au dealer est l’une des principales caractéristiques d’une machine à détruire. Détruire les biens (consommer c’est consumer), détruire la planète (on ne peut indéfiniment ou « durablement » détruire des ressources finies), détruire l’homme (privé de tout repère, vidé de tout projet, de toute valeur et de tout désir).

La soif de nouveauté et son corollaire, l’insatisfaction permanente, traduisent non pas une envie de vie, mais un manque, là encore au sens toxicologique du terme.

4/ La manipulation marchande au cœur du réacteur médiatique

Ne cherchons pas derrière l’hypnose médiatique la main d’un « Big Brother » idéologue et manipulateur. Ils sont des milliers, les « Big Brothers » du système marchand, et leur seul dieu, leur unique idéal est l’Argent ; un système multicéphale ultra-matérialiste, qui a pour seul objectif de réduire le citoyen à l’état de consommateur. Régis Debray dans son cours de médiologie générale observe : « Pour s’informer de ce qui se passe au dehors, il faut regarder la télévision et donc rester à la maison. Assignation à résidence bourgeoise car un “chacun pour soi” était en filigrane, qu’on le veuille ou non, dans le “chacun chez soi”. La démobilisation du citoyen commence par l’immobilisation physique du téléspectateur. »

La tyrannie médiatique n’est en vérité que l’un des moyens mis en œuvre par le véritable bras armé du système qu’est le marketing. Son aversion pour le dissensus, son penchant pour la pensée unique, le politiquement correct, découlent très directement d’un impératif absolu dans toute relation d’affaire : le bon climat. Le bon climat, c’est la confiance et l’éviction de tout ce qui pourrait gêner, choquer, distraire de ce qui est l’objectif principal : l’échange.

Le dealer se montre toujours rassurant sur les risques encourus, sur l’environnement, la qualité de la marchandise ou sur les conséquences du shoot… La confiance est la clé, surtout pas les vagues : l’origine de la bien-pensance est très exactement là ! Plus un seul éditorialiste ne peut ignorer les postes clés du compte d’exploitation du journal qui l’emploie et les chiffres clés du nombre d’abonnés et du chiffre d’affaires lié aux annonceurs. Nous pouvons faire le pari que c’est la « consophilie » ou la « consodépendance » du médiacrate qui le rend politiquement correct avant même ses partis pris idéologiques. La liberté de la presse, malgré ses postures et sa prétendue et arrogante indépendance, apparaît désormais bien plus libérale au sens idéologique du terme que réellement libérée.

L’addictature se met ainsi en place pas à pas en agissant grâce à un formidable rouleau compresseur : le mix-marketing. Actions sur les produits (toujours innovants ou mieux emballés) ; actions sur la diffusion (des relais, des distributeurs) ; actions sur le prix (attractif, promotionnel, compétitif) ; actions sur la communication (un objectif et une promesse par cible, bien intelligible, un ton bien testé, un choix média pertinent) ; actions sur la connaissance des cibles.

Ce dernier point en dit long sur un processus de décérébration quasi scientifique : outre les études quantitatives qui permettent de segmenter et de croiser de façon très fiable les comportements d’achat sur différentes catégories de biens de consommation, le marketing a recours à des « focus groups », véritables séances de psychanalyse où des consommateurs-cobayes sont exposés à des projets, des produits, des signatures de communication (plus une seule campagne publicitaire n’échappe à des pré-tests approfondis où l’impact et la « valeur incitative » sont pré-évalués et l’offre réajustée).

Plus récemment, les publicitaires et marqueteurs se sont intéressés à notre cerveau. On connaissait les tests de pupimétrie (évaluation de la dilatation de la pupille en fonction des stimuli visuels) ; les études de « eye-tracking » (observation du cheminement du regard sur un rayon de supermarché en vue de hiérarchiser la place en linéaire ; les observations in situ par caméras du comportement du consommateur, analysé par des spécialistes en comportement animal sur le lieu de vente, le tout complété d’interviews in vivo…

Mais voici venue l’ère du « neuro-marketing » qui vient parachever le système de surveillance de l’addictateur marchand sur nos misérables vies de toxicos soi-disant libérés. En mars 2007, le journal Le Monde révélait dans l’indifférence générale que Omnicom, leader mondial de l’achat publicitaire, avait recours aux neurosciences pour comprendre et influencer les consommateurs. L’imagerie par résonance magnétique fonctionnelle (IRMF) peut en effet livrer désormais des images du cerveau et de ses réactions à toutes sortes de stimulations. Le Collège de médecine de Houston a largement contribué à populariser ces techniques jusqu’à « interroger » les cerveaux pour leur poser une question du type : « Etes-vous plutôt Pepsi ou Coca ? ». Lorsque Patrick Le Lay rappelait, en 2005, que ce qu’il vendait à Coca Cola c’était du temps de cerveau disponible, il ne croyait pas si bien dire. Ses successeurs sont désormais en mesure de vendre une part de cerveau qualifié, pré-testé, encadastré, radiographié, formaté. Il est aujourd’hui possible de prédire l’acte d’achat en observant à l’IRMF l’activation des circuits neuronaux. De la même manière, il est possible d’évaluer la mémorisation d’une campagne de communication en fonction de la répétition du message et du couplage de plusieurs médias pour sa diffusion.

5/ Des barbelés dans nos têtes

Sucrée, sans tyrans identifiables, sans miradors ni répressions visibles, l’addictature à pas de velours a tressé des barbelés dans nos têtes en exécutant le désir par l’hyper-disponibilité des biens, en nous emprisonnant dans la néophilie et l’insatisfaction permanente, en digérant les germes des contestations, en entretenant une névrose, une obsession : remplir un vide (comme un puits sans fond). La tyrannie de la dépendance est en marche, de la découverte d’une drogue jusqu’à la quête insatiable d’un plaisir pour aboutir à la dépendance absolue et à l’overdose. Toxicomanes, cyber-addicts, consommateurs, même combat !! Seul le fil à la patte change de forme, seule la dose change d’aspect.

Le dealer (oligarque ou revendeur) est peut-être l’archétype de la réussite moderne, mais lui aussi est tour à tour victime et bourreau, esclave et maître. Il devient alors difficile de désigner la tête, le tyran responsable, ce qui est généralement très confortable dans une démarche révolutionnaire classique.

Pourtant, lorsqu’une névrose s’érige en système de valeurs, que l’Avoir prend le pas sur l’Etre et que des milliards de cerveaux passent au micro-ondes, il serait inconcevable qu’une certaine dissidence émanant de quelques rescapés ne puisse émerger pour organiser au bout du compte : une rupture.

6/ Des ratés qui nourrissent l’espoir

Comme toujours, les organismes (des plus simples aux plus complexes) portent en eux les germes de leur propre destruction. Des cellules s’altèrent, mutent et compromettent tout à coup un équilibre par essence précaire voire miraculeux : le principe vital. Le système dans lequel nous vivons, aussi technomorphe et désincarné soit-il, n’en reste pas moins une production humaine dont le matériau, le carburant principal, demeure l’homme et à ce titre comporte le même niveau de vulnérabilité biologique. L’idée selon laquelle le système marchand occidental serait un aboutissement, la fin de l’histoire, le bonheur universel ou le salut éternel est une vue de l’esprit englué dans un mythe progressiste, d’origine chrétienne, laïcisé par les Lumières. Les crises actuelles sont en train de venir à bout de ce mythe.

7/ Radioscopie de la dissidence

Rendre le dissensus possible n’est pas à la portée de tous. Deux voies très différentes s’offrent à nous : la dissidence révolutionnaire avouée, extrémiste, anarchiste ; elle est l’élément extérieur au système qui l’attaque frontalement tel un chevalier parti à l’assaut des moulins ; autre voie, la dissidence métastatique : lovée au cœur du système elle œuvre contre lui à son insu en amplifiant de façon exagérée ses caractéristiques jusqu’à les rendre toxiques pour le système lui-même. Une mutation, un cancer dont l’exemple le plus parlant est ce que représente le capitalisme financier en regard du capitalisme industriel : les traders et les banques d’investissement auront finalement fait beaucoup plus contre le capitalisme que des décennies d’idéologies anticapitalistes. On connaissait les idiots utiles, voici venue l’ère des intelligences cyniques. La menace endogène se révèle toujours plus efficace pour détruire un modèle politique que les attaques exogènes. Le cancer qui pénètre chaque jour un peu plus le système marchand aura raison de lui ; il se nourrit de lui, vit à ses dépens, lui pompe toutes ses réserves, son énergie, sa moelle, son avenir.

Vouloir mieux encore retourner les armes du système contre le système peut aujourd’hui nous inciter à maîtriser la méthodologie marketing afin d’optimiser la pénétration des idées. A cet égard le « marketing idéologique » pourrait représenter une sorte de combat post-gramsciste où l’entrisme socio-culturel laisserait la place à une stratégie rigoureuse et marquettée d’ajustement des thématiques en fonction des cibles (sans les travestir car nous ne nous situons pas dans une approche de marketing de la demande mais dans un marketing de l’offre, c'est-à-dire, un peu comme dans l’industrie du luxe, un marketing « Gardien du Temple », éloigné d’un clientélisme façon démocratie participative). A ces ajustements il conviendrait d’adjoindre une réflexion approfondie sur la diffusion de ces thématiques et de leurs meilleurs porte-drapeaux ainsi qu’un plan détaillé sur la communication desdites thématiques (message, ton, supports médias…). Vaste programme !!!

8/ De l’idéologie de la destruction aux valeurs de la création

Le sevrage par la déconsommation semble être la condition préalable. Rien ne sera possible dans la procrastination sur le registre « J’arrête demain » ou le constat passif du type « Ce monde est fou… ». Impossible de transiger sur la normalité et les fonctions vitales. Impossible de ne pas hurler que l’essence même de l’humain est de créer, de procréer, de se surpasser et que l’appartenance vaut mieux que toute dépendance.

Les marchands doivent quitter le temple et rejoindre le marché. Il est pour le moins paradoxal de faire le constat aujourd’hui que l’homme matérialiste (libéral ou marxiste) aura été en réalité un antimatérialiste, c’est-à-dire au sens propre du terme un destructeur de matières, de biens, d’environnement. Les ruptures mortelles se sont multipliées depuis la mainmise de certaines visions monothéistes et de leurs produits dérivés pseudo-humanistes sur nos consciences : rupture organisée du corps avec l’âme ; du matériel avec le spirituel ; de l’Homme avec la Nature ; du Peuple avec sa terre.

Passer de l’idéologie de la destruction aux valeurs de la préservation et de la création, c’est redonner tout à la fois à l’homme et à la matière leur noblesse, leur statut… C’est affirmer et même sacraliser la filiation des matières entre le minéral, le végétal, l’animal et l’humain… C’est redonner à l’homme ses attaches dans le temps et dans l’espace, loin des mystifications, loin des addictions… C’est remettre l’Homme à sa place et retrouver les liens fondamentaux… ceux qui délient les chaînes.

H. Calmettes

19/05/2010

Correspondance Polémia 24/05/2010

T. Sunic: Sex and Politics

Ex: http://www.theoccidentalobserver.net/authors/Sunic-Sex&Politics.html#TS


Sex and Politics

Tom Sunic

May 29, 2010 

Political mores often reflect sexual attitudes. Conversely (and more commonly) political environment affects sexual mores. In our so-called best of all worlds, “free love” has become an aggressive ideology transmitted by left-wing opinion makers. The underlying assumption, going back to the Freudian-Marxist inspired student revolts of 1968, is that by indulging in wild sex a muscled regime can be muzzled and any temptation for an authoritarian rule can be tamed.  

Palaver about “free love equals no war” is still a prevalent dogma in the liberal system. Hans Eysenck, the late psychologist and expert on race and intelligence (also occasionally defamed as a ‘racist’), deconstructed the Freudian fraud in his book The Decline and Fall of the Freudian Empire: “Freud’s place is not with Copernicus and Darwin but with Hans Christian Andersen and tellers of fairy tales.  Psychoanalysis is at best a premature crystallization of spurious orthodoxies; at worst a pseudo-scientific doctrine that has done untold harm to psychology and psychiatry alike” (1990, p. 208). One could infer from Eysenck’s statement what a great many Whites have known for decades, but have been afraid to utter aloud: Freudianism has been an excellent tool for pathologizing Whites into feelings of guilt in regard to their traditional attitudes toward sex and politics.  

Politically correct — sexually incorrect 

Freudianism, instead of curing alleged sexual neuroses and phobias, has ended up creating far more serious ones. Fifty years after the “sexual revolution” the West is replete with men suffering from sexual impotence, with an ever growing number of women and men indulging in odd, perverted and criminal sexual behavior. Yet, despite the fact that the quackery of Sigmund Freud and Wilhelm Reich is no longer trendy, the topic of sex continues to play a crucial role in social interaction. In order to liberate White youth from their feelings of traditional European shame (which is not the same as the Judaic concept of guilt), the non-stop media parading of geometric Hollywood beauties makes many young Whites develop the inferiority complex about their own sexual equipment — or performance in the bedroom.  As a result, a classical nucleus of society — the family — falls apart. 

There is a widespread assumption fostered by liberal and leftist opinion-makers that right-wingers and nationalists are sexual perverts, misogynists, or wild macho-types suffering from a proto-totalitarian Oedipus complex — which accordingly, must lead to proverbial anti-Semitic pogroms. Such a diagnosis of the White man was offered by Erich Fromm in his famed The Anatomy of Human Destructiveness, a book in which the ultimate symbols of evil, the incorrigible Hitler and Himmler, are routinely depicted as “case studies of anal-hoarding-necrophilic sadists.” (1973, pp. 333–411). Fromm’s and Freud’s avalanche of nonsense may tell us more about their own troubled childhood and their obsession with their own misshapen anal-nasal-oral-circumcised-penile-protrusions than about the non-Jewish objects of their descriptions. 

Once could invert the Freudian dogma regarding the alleged pathogenic sexuality of young Whites and supplant it by solid empirical data offered by renowned sociobiologist Gérard Zwang,  an expert on sex and sexual pathologies and a contributor to European New Right journals — and someone who enjoys the occasional privilege of being labeled a ‘racist’.

If one was to assume that traditional child rearing is conducive to a White man’s sexual aberrations and his violent behavior in the political arena, then one should start with Oriental and African practices of circumcision first — which in Europe, ever since the ancient Greeks and Romans has been viewed as an act of morbid religious fanaticism.  

Back from the Exodus, 500 years later, the "dictatorship" of Moses established circumcision as an absolute obligation, for fear of being excluded from the Chosen People. The prescription is still valid for the Orthodox Jew and for Israelis. ... In France, the pro-circumcision followers argue that the prepuce would be a parasitic remnant of the femininity inside a masculine body. The myth of "native bisexuality" is an old craze with disastrous consequences. … In our territory (France), the very numerous circumcisions requested by Jewish or Muslim parents are often paid by the Social Security of a so-called secular country!  ... The ideal should obviously be one day the definitive extinction of the dismal monotheistic religions, of their unacceptable dogmas, and of their ridiculous prescriptions. (G. Zwang, “Demystifying Circumcision)

 

 

Auguste Rodin, „The Kiss,“ 1889 

Liberal pontificators are quick to denounce the practice of infibulation (female mutilation of clitoris) on many immigrant African women residing in Europe, but hardly will they utter a word to denounce equally painful circumcision on new-born Jews or Muslims. 

With or without this strange Levantine make-believe metaphysical mimicry of penile pseudo-castration, unbridled sexual activity has become today a quasi categorical imperative, largely dependent on the whims of the capitalist market. According to the logic of supply and demand one should not rule out that the liberal system may soon issue a decree for mandatory multiracial marriages. Marriage of White couples may be “scientifically” attested as an “unhealthy union at variance with democratic principles of ethnic sensitivity training.”  Never has the West witnessed so much psycho-babble about “love”, “interracial tolerance,” “gender mainstreaming,” “women’s rights,” “gay rights,” etc. — at the time when suicidal loneliness, serial divorces, sexual narcissism, and sexual violence have become its only trademarks of survivability. 

The Ancients were no less sexually active (and probably even more so) than our contemporaries, as testified by their plastic art showing naked women in warm embrace of their men, or as depicted by Homer in his numerous stories of cupid gods and goddesses. Apuleius, a Roman writer of Berber origin, writes explicitly about a woman enchanted by the sex act. From the 14th-century ItalianBoccaccio, to modern Henry Miller, countless European authors offer us graphic stories of love making between White women and White men. But there is one crucial distinction. In the modern liberal system sex has become an aggressive ideology consisting of mechanistic rituals whose only goal is a “dictatorship of the mandatory orgasm,” thus becoming the very opposite of what sex once was.  

In societies marked by the Puritan spirit, which is still the case among large segments of the White American population, the century-old scorning of sexual encounters has had its logical postmodern backlash: prudishness, promiscuity and pornography. The English-born poet and novelist, D. H. Lawrence was a remarkable man who is close to what we call today a “revolutionary conservative” and is highly popular among European White nationalists. In his essayPornography and Obscenity he wrote how one must reject Puritanism and sentimentalism. “Puritan is a sick man, soul and body sick, so why should we bother about his hallucinations. Sex appeal, of course, varies enormously. There are endless different kinds and endless degrees of each kind.”  (The Portable D.H. Lawrence, 1977, p. 652,). 

Despite globalization, “Americanization” and the increasing difficulty to distinguish between sexual mores in White America and in White Europe, some differences are still visible and often lead to serious misunderstanding among transatlantic partners. This time, the inevitable cultural factor, and not a genetic factor, takes the upper hand. 

White Spectral Lovers  

What may be viewed as vulgar sexual conduct from the perspective of WhiteAmerica is often hailed as something natural in Europe. A sharp and well-travelled European eye, even with no academic baggage, notices a strong dose of hypermoralism and sentimentalism among White American males and females. Examples abound. For instance, public tearful confessions by an American male, either on the podium or at the pulpit about cheating on his wife, while viewed as normal in America, are viewed as pathetic in Europe. Many European White males and women, when visiting America, are stunned when an intelligent American speaker, gripped by emotions, starts shedding tears on his microphone, regardless of whether the theme of his allocution is the plight of Jesus Christ or the predicament of the White race.  

One might explain this phenomenon by suggesting that on a psychological level White Americans, given the early and strong influence of the Old Testament, have been more influenced by the Judaic spirit of guilt than White Europeans, who have traditionally been far more obsessed with a sense of shame. Judaic feelings of guilt were, in the 20th century, successfully transposed in a secular manner by the Marxist Frankfurt School on the entire White population all over the West, and particularly on the German people. By contrast, in the ancient Greek drama and even later among heroes of the Middle Ages, one can hardly spot signs of guilt. Instead, characters are mostly immersed in endless introspective brooding about some shameful act they may or may have not committed. 

Conversely, many White American women rightly conclude that sexual behavior of European males is often erratic, quirky and disorderly. European males are often poorly groomed when dating or mating, often lacking respect for their female partners. For a newcomer to Europe, the overkill of pornographic literature all over public places and the torrents of x-rate movies aired on prime time are indeed unnerving. There is also a different conceptualization of sex and decadence by White Europeans and White Americans respectively.  

Many European White nationalists like to brag about their Dionysian spirit, which often borders on undisciplined behavior. Numerous Catholic holidays in Europe, such as St. Anthony’s day in June, St. Patrick’s day in March, St. George day in April etc., are celebrated from Ireland to Flanders. Typical are Flemishkermesse celebrations depicted by Pieter Breughel.  

Pieter Brueghel the Younger, „The Kermesse of St. George“ (1628)

These celebrations are not meant for Bible preaching, but rather as an occasion to release residual, primordial and pagan feelings. The pent-up sense of the tragic, the accumulated sorrows that come along with age, must be wildly vented, even at the price of appearing grotesque in foreigners’ eyes.

The duration of such mega-feasts is strictly limited. Over the centuries, the Catholic Church has been shrewd enough to incorporate the pagan heritage into Catholic feasts, because otherwise its monotheistic dogma would not have lasted long. Not surprisingly, kermesses and carnivals are in reality far more prophylactic and effective for good sex than all the Viagra and Freudian shrinks combined. On such occasions, still alive in Catholic rural Europe, everybody revels, drinks, everybody pinches each other’s backside, as shown long time ago on Rubens’ and Breughel’s paintings. However, when the fun is over the same revelers go back to their traditional family chores.      

It is a common practice among high intellectual classes in Europe for a married man to flirt with an unknown attractive woman at a social gathering — even in the presence of his own spouse. In fact, for a married man in Europe courting an intelligent woman is considered a sign of good upbringing and chivalry — with a tacit ocular understanding between the two that they may end up in bed together — but with no strings attached. On public beaches from France’s Saint Tropez to Croatia’s Dalmatia, all the way to public parks in Copenhagen, it is normal in hot summers to observe naked women of all ages sunbathing and skinny-dipping in the presence of young children. This is something unimaginable on the Santa Cruz Riviera in California, as it would immediately attract a crazed local peeping tom or a stern-faced police officer. 

Several years ago a scandal broke out in the USA caused by the former US President William Clinton’s sexual escapade with a Jewish woman, Monika Lewinsky. Clinton’s sexual adventures literally became a federal case in America, with many American journalists across the political spectrum demanding his resignation. In Europe, Clinton’s extramarital affair was received by many with a shrug of shoulders. One can hardly imagine a voter in Europe asking for the president to be removed from office just because he was cheating on his wife. Having a mate, a concubine a maitresse has been an age-old practice among European politicians, deliberately ignored  by their spouses, approved by their constituencies, and tolerated by the Church, and in no way seen as a sign of character weakness.  

Thousands of Western scientists, artists and poets, who had an organic view of love making, have disappeared now from the academic radar screen. The antebellum South, still demonized as a backward place, was the last place in the West that had at some point in history salvaged White European medieval customs of honor, virility, generosity and chivalry. This can be seen in the tragic poetry of unreconstructed Southerners, such as John Crowe Ransom.  

By night they haunted a thicket of April mist, 
Out of that black ground suddenly come to birth, 
Else angels lost in each other and fallen on earth. 
Lovers they knew they were, but why unclasped, unkissed? 
Why should two lovers be frozen apart in fear? 
And yet they were, they were.

(John Crowe Ransom, “Spectral Lovers”)  

An iconic French nationalist scholar, an artist, and a political prisoner in France after WWII, Maurice Bardèche  was well aware of the slow coming darkness in the West following the defeat of the South in the Civil War:

Firstly, to be a Southerner is to see and feel that one of the biggest catastrophes of our times was the capture of Atlanta. The defeat atSedan is for me nothing more than an event of history; a sad event, but as any other event colorless and historical.  As for the defeat atWaterloo – I cannot convince myself that it has changed the destiny of the world. Even the collapse of Germany, although it seems to me an injustice, a bad whim of God and as any other appearance against all good sense — I do not consider irrevocable.  But the capture of Atlanta — this is for me an irreparable event, the fatal beacon of History. It is the victory of the Barbarians. (Sparte et les Sudistes, 1969, p. 96). 

  

Tom Sunic (http://www.tomsunic.info; http://doctorsunic.netfirms.com) is author, translator, former US professor in political science and a member of the Board of Directors of the American Third Position. His new book, Postmortem Report: Cultural Examinations from Postmodernity, prefaced by Kevin MacDonald, has just been released. Email him.  

Permanent link: http://www.theoccidentalobserver.net/authors/Sunic-Sex&am...

mardi, 25 mai 2010

Die Abschaffung des Todes durch Einfrieren

Die Abschaffung des Todes durch Einfrieren

Baal Müller

Ex: http://www.jungefreiheit.de/

hibernatus-affiche_158334_13426.jpgDie Vorstellung eines ewigen Lebens ist in den „klassischen Religionen“ bekanntlich mit der einer ewigen Glückseligkeit verknüpft. Wer möchte schon ewig leben, wenn er dann ewig zu leiden hätte? In der endlosen höllischen Peinigung – und nicht im ewigen Tod – sah man früher die eigentlich teuflische Strafe.

Der moderne Mensch hingegen fürchtet (heideggerisch gesprochen) eher die „Nichtung“, das Verlöschen aller Gedanken und Gefühle im Nichts; ein immerwährendes Glück erscheint seinem hedonistisch geprägten Sensualismus geradezu undenkbar, denn jedes Bewußtseinsereignis hat eine bestimmte Intensität, und auch das Glück ist folglich stärker oder schwächer, ein ewiges, höchstes Glück mithin nicht vorstellbar. (Ähnlich ist auch der Begriff der Allmacht widersprüchlich, denn jeder Begriff von Macht setzt einen, sie zugleich beschränkenden, Widerstand voraus.)

„Paradiese sind langweilig“, sagt Torsten Nahm daher im Interview mit der Zeitschrift Geo. Nahm ist Anfang dreißig, Mathematiker, Manager bei der Commerzbank – und Kryoniker. Als solcher möchte er zwar noch nicht gleich ewig leben, aber nach seinem Tod immerhin solange eingefroren werden – kryos (griechisch) bedeutet „Frost“ –, bis er in einer medizinisch fortgeschritteneren Zukunft aufgetaut und wiederbelebt werden kann. Wie diese Reanimierung ablaufen soll, ist derzeit nicht absehbar; sie muß aber, angesichts der schon lange bestehenden Möglichkeit, Samen- oder Organbanken anzulegen, nicht mehr als völlig utopische science fiction betrachtet werden.

Zumindest technisch ist immerhin die nahezu verfallsfreie Konservierung des Leichnams in flüssigem Stickstoff  bei minus 196 Grad, sofern das Einfrieren schnell und gewebeschonend erfolgt und das Blut durch Frostschutzmittel ersetzt wird, kein Problem, wohl aber – jedenfalls in Deutschland – juristisch, weshalb Nahm und andere Mitglieder der „Deutschen Gesellschaft für Angewandte Biostase e.V.“ darauf angewiesen sind, sich nach dem vorläufigen Ende ihrer Lebensfunktionen – von „Tod“ sollte nicht mehr gesprochen werden – schnell vereisen und in die Vereinigten Staaten überführen zu lassen, wo die Alcor Life Extension Foundation in Scottsville die professionelle Lagerung übernimmt. Die Vereinigten Staaten sind also nicht nur für lebende Gegner des staatlichen deutschen Schulzwanges, sondern auch für tote Kryoniker ein politisches Asyl; und tatsächlich sind ja nicht nur die Bestattungsvorschriften in Deutschland reaktionär und freiheitsfeindlich.

Die Kryonik wirft philosophische Fragen auf

Ungeachtet des optimistischen Glaubens an die Möglichkeiten künftiger Wissenschaft und Technik wirft die Kryonik mancherlei philosophische Fragen auf: Als erstes denkt man vielleicht an das ethische Problem, welche Instanz eines Tages darüber befindet, wer eingefroren wird und wer zu vermodern hat, wer des Auftauens würdig ist und wer nicht, und ob man den „Überschuß“, wie der experimentelle Gerontologe Klaus Sames ein wenig provokant formuliert, eines Tages auf den Mars „hochschießen“ darf.

Wahrscheinlich gibt es aber grundsätzliche Schwierigkeiten, die mit der Struktur des Bewußtseins zusammenhängen: Aus Kostengründen wird zumeist nur das Gehirn „kryonisiert“; der Rest gilt als prinzipiell ersetzbar. Muß ein so verderbliches Material aber überhaupt weiterhin als Gedächtnisspeicher und Bewußtseinsträger dienen? Könnte man nicht alle „Daten“ auf einen haltbareren Speicher „kopieren“? Setzt die Kryonik mit ihrer Hoffnung auf die „Auferstehung des Fleisches“ nicht auf das falsche Pferd? Ist das Gehirn überhaupt eine Art Computer, in dem geistige Regungen durch neuronale Funktionen hervorgebracht werden und sich lokalisieren lassen, oder gibt es doch eine primäre geistige Entität, die sich des Gehirns lediglich bedient?

Und selbst wenn man die Auffassung vom Gehirn als Speicher zugesteht: Wie könnte ein endliches Medium der unendlichen Datenmenge eines sich ewig fortsetzenden Bewußtseinsstromes zur Verfügung stehen? Von Zeit zu Zeit müßte die neuronale Festplatte wohl gelöscht und gereinigt werden, so daß die Kontinuität des erwünschten ewigen Lebens auch auf der Bewußtseinsebene unterbrochen wäre, was einem leiblichen Tod, den man durch geeignete „Reparaturmaßnahmen“ abzuschaffen hofft, gleichkommen würde.

Ein personales ewiges Leben ist wohl ebensowenig vorstellbar wie ewige Glückseligkeit oder unbeschränkte Macht.

 

Baal Müller, freier Autor und Publizist, geboren 1969 in Frankfurt/Main, studierte Germanistik und Philosophie in Heidelberg und Tübingen; 2004 Promotion zum Dr. phil. Für die JF schreibt er seit 1998. 2005 legte er eine belletristische Neubearbeitung des Nibelungenliedes vor. Jüngste Buchveröffentlichung: Der Vorsprung der Besiegten – Identität nach der Niederlage, Schnellroda 2009. Er ist Inhaber des Telesma-Verlags


lundi, 24 mai 2010

Politique et tyrannie de la transparence

Politique et tyrannie de la transparence

par Pierre LE VIGAN

Transparenz-142834.jpgOn vit une époque étonnante. Tout le monde s’épanche. Tout le monde y va de sa petite larme, de Jospin à Hillary Clinton. Il ne manque plus qu’Obama. Nous nageons dans l’épanchement intime. « J’ai bien connu votre “ papa ” (ou votre “ maman ”) » dit à l’un Michel Drucker dans son émission Vivement Dimanche –  il n’y a plus de père et de mère, plus que des papa et des maman. Ségolène Royal l’avait compris, elle qui se présentait en disant : « Je suis une maman ». Chacun juge utile de se « livrer », de se dévoiler, de faire si besoin son coming out. Les politiques comme les people. « J’ai souffert », affirme l’un. « J’ai changé », dit l’autre (ou le même). « Je me reconstruis », susurre une troisième. D’où la pipolisation de la politique. À tel point que cela finit par agacer d’autres politiques. « Ségolène [Royal] va trop loin dans la description de sa vie privée », disait récemment le socialiste Jean-Marie Le Guen.

La question est : faut-il « tout dire » ? Pour nous dire quoi ? Des choses que nous n’avons pas demandé à savoir ? Tel concurrent U.M.P. de Mme Pecresse en Île-de-France nous dit qu’il préfère les garçons. Et alors ? Cela n’a pas plus d’intérêt politique que de savoir s’il aime ou non les œufs au plat. Nous sommes dans l’expression brute des subjectivités, et non des idées. C’est le grand déballage des narcissismes. Exhibition et voyeurisme obligatoires : on parle à ce sujet de l’idéologie de transparence, et même à juste titre de la tyrannie de la transparence. C’est l’idée que tout doit être dit. Pour montrer qu’on est sincère et authentique. Et pour « trouver une solution » à tout.

Car si on dit tout, si on est transparent à soi et aux autres, « ça » devrait mieux « communiquer ». Donc, les conflits devraient disparaître. Exemple : la réponse au stress, ce sont les outils de gestion du stress, la réponse à l’angoisse c’est « trouver quelqu’un à qui parler » (un psy). La société de la transparence est aussi la société du « tout est psy ». Sortir du mal-être et des conflits c’est au fond une question… d’organisation et de communication.

La transparence, ce sont aussi les émissions de « sexo-réalité » dans lesquelles chacun vit en direct des expériences intimes. Ainsi, l’homme devient un objet manipulable. Il devient l’enjeu des dispositifs et des outils de gestion de la « ressource humaine ». C’est L’extension du domaine de la manipulation dont parle très bien Michela Marzano (Grasset, 2008). Car vouloir apparaître sincère et ouvert, c’est d’abord une stratégie de communication et donc une stratégie de pouvoir. La transparence repose sur la négation de la séparation entre ce qui est public et ce qui relève du privé. Les Grecs ne connaissaient pas cette séparation sous cette forme. Pour eux, il y avait ce qui est « naturel », zoologique, et n’avait en fait aucune importance, et ce qui est politique et public, et est seul important. C’est pourquoi les critiques de l’exposition de l’intime ne sont pas forcément des puritains. Ce sont des gens qui estiment que ce n’est pas important. Ou encore, ce sont des gens qui estiment qu’en ne parlant pas de tout, on préserve justement la possibilité des échanges. En effet, comme l’écrit Yves Jeanneret, la transparence est une illusion car « le langage ne donne directement accès, ni à l’être, ni à la vérité de celui qui parle ».

Les conséquences de l’exposition publique de qui était auparavant privé ne sont pas minces. C’est la réduction de l’espace public et de la politique au traitement d’affaires privées, en tout cas singulières et particulières. L’horizon du bien commun disparaît, les manifestations des ego de chacun prennent le pas sur lui. La politique se dilue dans l’expression d’intérêts particuliers, généralement humanitaires, qui appellent des réponses elles-mêmes segmentées : faire « quelque chose » pour les femmes battues, pour les handicapés, pour les supposés descendants d’esclaves, etc. Des objectifs parfois estimables mais parcellaires. Il y a là les ferments d’une privatisation du politique. « Le programme politique, l’expérience, la vision d’ensemble comptent moins que l’image personnelle, les anecdotes privées, les mésaventures mêmes qui pourront alimenter une chronique médiatique », écrivait la revue Esprit en janvier 2007 au seuil de la dernière campagne présidentielle.

Depuis Sarkozy et Royal, la médiatisation de la vie privée a pris des proportions inédites. Le privé est devenu la norme du politique. « La vie, la santé, l’amour sont précaires. Pourquoi  le travail échapperait-il à cette loi ? », disait récemment Laurence Parisot, patronne du MEDEF. C’est une façon de faire des incertitudes de la vie personnelle de chacun la norme du social et du politique. Sophisme et cynisme du grand patronat.

En conséquence, le statut de l’intime, le plus privé du privé, est chamboulé. Exposé et surexposé, l’intime devient trivial. Quand il faut « tout dire », l’homme est privé de l’intime comme l’explique Michael Foessel dans La privation de l’intime (Seuil, 2008). L’intime s’évanouit : il ne supporte pas la lumière. Pas plus qu’il ne supporte l’excès de manipulation. La privatisation du politique a ainsi pour corollaire la privation de l’intime.

Mais l’instrumentalisation de l’intime a peut-être atteint ses limites.  Le culte de la transparence aussi. Loin d’être dupe, le public est devenu méchant. Il ricane plus qu’il ne sourit. Et surtout il ne respecte plus les politiques et se détourne de la politique. Il faudra pourtant bien y revenir. Sous des formes nouvelles peut-être.

Pierre Le Vigan

dimanche, 23 mai 2010

Alessandro Herzen alla scoperta dell' "Ultima Thule"

Alessandro Herzen alla scoperta dell' "Ultima Thule"

di Francesco Lamendola

Ex:
http://www.juliusevola.it/

Herzen.gifIl nome di Aleksandr Herzen (1812-1870) è familiare a quanti conoscono, anche superficialmente, la storia della Russia moderna: è quello del massimo esponente del populismo russo, amico di Michaìl Bakunin e fondatore del leggendario giornale La Campana. (1) Qui però non vogliamo parlare di lui, ma del maggiore dei figli che ha avuto da Natalia Ogareva (1817-1852), lui pure di nome Aleksandr, nato in Russia, a Vladimir, il 13 giugno 1839 e morto in Svizzera, a Losanna, il 24 agosto 1906, dopo una vita errabonda e irrequieta. Dopo di lui nascono Natalia, nel 1844 (morta nel 1936) e Olga, nel 1850 (morta nel 1853, come pure due fratelli maschi che muoiono prima di diventare adulti).

Dopo una giovinezza trascorsa in Gran Bretagna, Alessandro Herzen junior si trasferisce in Svizzera, a Berna, come tanti altri esuli russi di idee liberali o democratiche, cui non sorride l'idea di vivere in Russia sotto l'autocrazia zarista. Nella capitale della Confederazione Elvetica egli segue i corsi del fisiologo tedesco Maurizio Schiff, laureandosi in medicina nel 1861. Quando, due anni dopo - nel 1863 - Schiff si trasferisce in Italia come professore di anatomia e fisiologia a Firenze e fonda, in via Gino Capponi, il Laboratorio di fisiologia umana, Herzen lo segue e lavora nella capitale provvisoria del Regno d'Italia come suo assistente. L'attività dei due studiosi, però, dà esca a una violenta polemica sulla vivisezione. Nel 1873 si giunge addirittura a un processo, poiché alcuni nobili fiorentini accusano lo Schiff di turbare la quiete a causa di certi "ululati strazianti e grida di dolore [...degli] animali viventi come cani, gatti, ed ogni altra specie di animali". Herzen partecipa alla polemica con uno scritto vivace e battagliero intitolato Gli animali martiri, i loro protettori e la fisiologia. (2) In esso, fra l'altro, sostiene che "Gli animali martiri degli esperimenti fisiologici sono poca cosa rispetto agli animali martiri delle altre attività dell'uomo (sostentamento, comodo, lusso, "ghiottoneria", ignoranza, capriccio, ferocia e vanagloria, divertimento)". Da Firenze e dall'Italia, la polemica si amplifica e rimbalza in tutta Europa, coinvolgendo importanti giornali stranieri, tra i quali il Times di Londra e il Daily News; né accenna a placarsi se non dopo la partenza di Schiff dalla città in riva all'Arno. Il suo giovane assistente, comunque, ha potuto farvisi numerose amicizie, tanto che quando - nel 1876 - Schiff lascia Firenze, egli viene chiamato a ricoprire la cattedra del maestro. Herzen rimane all'Istituto di Studi superiori per altri cinque anni, fino al 1881, quando il suo temperamento inquieto lo spinge a lasciare l'Italia, per andare ad insegnare all'Accademia di Losanna. Egli si muove nel contesto del positivismo di fine Ottocento e, come epistemologo, elabora una forma di materialismo dinamico, analogo a quello professato, allora, dal fisiologo olandese Jakob Moleschott (1822-1893), autore di importanti studi sulla respirazione dei tessuti e sulla fisiologia dei nervi cardiaci, e dal geologo e chimico norvegese Johan Herman Lie Vogt (1858-1932), autore di studi fondamentali sui processi di cristallizzazione nelle scorie dei forni. Tra le sue opere scientifiche ricordiamo almeno Analisi fisiologica del pensiero umano, pubblicata a Firenze nel 1879, e - in francese - Le cerveau et l'activité cérebrale, edita a Parigi nel 1889. (3)

A noi, della sua esistenza cosmopolita dei suoi molteplici interessi culturali, importa qui il periodo fiorentino, perché nel corso di esso egli decide di partecipare ad una spedizione scientifica verso l'Artide e precisamente all'isola di Jan Mayen, nel 1861. Sperduta fra la Norvegia e l'Islanda, l'isola (372,5 kmq.) è leggermente più grande di Maiorca, la maggiore delle Baleari e, benché geograficamente appartenga all'Europa, trovandosi a 71° di latitudine Nord e a 8°30' di longitudine Ovest rientra nella zona polare, in pieno Mare di Groenlandia. (550 km. a Nord-est dell'Islanda).. Ha pressappoco la forma di un femore lungo 53,7 km. ed è allineata da Nord-est a Sud-ovest, con le due parti montuose collegate da un istmo di soli 2,5 km. che ospita due lagune d'acqua dolce. La sommità meridionale, chiamata Sörlandet, tocca gli 843 m. con la Elisabethtoppen (che però, a quella latitudine, corrispondono a un'alta montagna delle Alpi), mentre la parte settentrionale o Norlandet, assai più vasta, culmina nel massiccio vulcanico del Beerenberg, a 2.277 metri s. l. m., ricoperto da una calotta glaciale, con una decina di lingue che scendono fino al mare. Il cratere, largo più di 1 km., ha una cavità profonda 200 m. e interamente riempita di ghiaccio; dai 300 m. di quota le sue pendici sono coperte di neve e ghiaccio. L'ultima eruzione del vulcano risale al 1732; poi, nel 1818, è stata osservata una notevole fuoriuscuta di vapori, che in piccola parte sono ancora visibili. Le coste dell'isola sono alte e precipiti, innalzandosi da fondali profondi tra i 2 e i 3.000 m.; le ripe presentano in più punti un'altezza di 300 metri e sono a strapiombo, specialmente sul versante settentrionale e orientale del Beerenberg.(4) Scoperta da Henry Hudson nel 1608, che la chiamò con il suo nome, Jan Mayen fu riscoperta e ribattezzata più volte negli anni successivi, ha ricevuto il suo nome definitivo da un capitano olandese nel 1614. Il clima è il bizarro risultato dell'incrociarsi di due correnti marine, una calda e una fredda: la Corrente del Golfo e la Corrente della Groenlandia orientale. Le temperature medie invernali registrano una media di - 6°, quelle estive fra 5° e 6°. D'inverno l'isola è interdetta alle navi a causa del pack, e questa è una delle ragioni per cui, benché sia stata più volte raggiunta da cacciatori e coloni, non è mai stata abitata permanentemente fino al 19121, quando i Norvegesi vi hanno installato una stazione radio e meteorologica. Tra il 1958 e il 1963 vi è stato costruito un campo di atterraggio per gli aerei destinati a rifornire i meteorologi che lavorano nella stazione, situata presso la costa occidentale; ma, quando la vista la spedizione scientifica italiana del 1861, questa terra isolata e sperduta, una delle più solitarie del mondo, non è popolata che da una fauna ricchissima di uccelli marini e migratori e di mammiferi (5) Tra questi ultimi, la volpe artica sulla terra e le foche nel mare erano quelli maggiormente cacciati dall'uomo. La flora vanta la presenza di 51 specie complessive.

Questa, dunque, l'isola che Aleksandr Herzen visita nel 1861, quando ha soli 22 anni ma un forte spirito d'osservazione e una marcata curiosità scientifica. Parla e scrive l'italiano piuttosto bene; ma la sua relazione di viaggio non viene pubblicata che nove anni dopo, sul Bollettino della Società Geografica Italiana, col titolo assai modesto di Una gita a Jan Mayen. (6) Ma è tempo di cedere la parola al giovane Herzen, nel cui racconto sentiamo lo stupore e al tempo stesso l'acutezza dello sguardo di una mente pervasa di spirito scientifico.

"Da quando abbiamo lasciato la Norvegia, noi non abbiamo letteralmente veduto che il cielo e l'acqua; il 10 e l'11 [agosto 1861] abbiamo ancora trovato dei porci marini (Phocaena) e qualche balena; i primi venivano a centinaia a giuocare, a far capitomboli ed a nuotare cercando chi primo passasse la prora dello schooner; le balene al contrario, non si facevano vedere che da lontano; era al disotto della loro volontà occuparsi di noi; esse si divertivano a lanciare maestosamente un potente getto d'acqua colle loro nari, ed a percuotere le onde colla loro immensa coda, producendo un suono similea lontanissimo cannoneggiamento. Rari uccelli avevano ancora attraversata l'aria, tutti palmipedi, soprattutto dei gabbiani di differenti specie. Qualche Cyanaea ed Aurelia, le meduse più comuni di queste regioni furono gli ultimi animali invertebrati che noi potemmo scoprire nell'acqua ed anche questi finalmente sparirono…

"A misura che avanzavamo, la Procellaria glacialis diveniva di più in più frequente; noi non l'avevamo scorta che rarissimamente lungo la costa norvegiana, e sempre da lontano. Qui potevamo studiarne a piacere il volo e le abitudini. È un uccello grande come un gabbiano ordinario, d'un bianco giallognolo con mantello grigio. Il suo volo è pesante ed imbarazzato, allorché vuole elevarsi, ma graziosissimo, elegante e rapido allorché sdrucciola sulla superficie dei cavalloni, inclinando le sue ali immobili secondo l'ondulazione loro e sfiorando qualche volta colla punta di una di esse la cresta aguzza d'un'onda più alta… Non potevamo a meno di meravigliarci del loro numero, e soprattutto della facilità colla quale essi trovavano di che nutrirsi, mentre, colla più grande attenzione, ci era impossibile scoprire nell'acqua la più piccola traccia di esseri viventi…

"
[Il giorno 19, a tavola]
il capitano ci dichiarò con sicurezza ch'egli aveva verificato il suo calcolo, e che noi dovevamo in questo stesso giorno, verso le 4 dopo mezzogiorno, o battere le rocce di Jan Mayen colla prua della nave od oltrepassare l'isola senza vederla a causa della nebbia. Vi fu un momento di silenzio, non sapevamo che dire, tutti desideravamo girar di bordo, ma nessuno aveva il coraggio d'essere il primo a proporlo francamente. Il capitano si alza da tavola e va sul ponte, per vedere se tutto è in ordine; noi restiamo un poco pensierosi, e continuiamo a masticare in silenzio. Ad un tratto il capitano apre con fracasso l'invetriata della nostra cabina e grida con tutta la forza dei suoi polmoni: - Venite, salite, presto, si vede Jan Mayen! -. Ci alziamo subito, con un sol movimento, i piatti rotolano, i bicchieri si rompono, il cane si getta sopra la salsa rovesciata e noi ci precipitiamo sul ponte.

"- Dove, dove?-. - Là, là…nella nebbia. - - Ma non vedo nulla!-. È troppo tardi, tutto è sparito, si è scoperta un momento la cima del vulcano, ma la cortina nebbiosa si è subito rinchiusa…un momento dopo la nebbia si dirada in un punto che il vento scaccia dinanzi a sé, si apre, si chiude, si riapre di nuovo, e sparisce. Di nuovo una lacuna nelle nubi, si avvicina alla montagna, ma tornerà a chiudersi come le altre prima di lasciar intravedere… Ah! Eccola! Una maestosa vetta, coperta di neve e di ghiaccio, apparisce nell'azzurro del cielo, brillante, diafana; ma la nebbia l'inviluppa nuovamente, e noi attendiamo invano la grazia d'un secondo colpo d'occhio. In quel momento il cielo si oscura, la nebbia diviene d'uno spessore impenetrabile. Al livello del mare si stendeva una zona d'un violetto carico, quasi nero; vi si distingueva di tanto in tanto la schiuma delle onde lanciata ad un'altezza prodigiosa; le onde non battevano evidentemente su d'una riva unita, ma venivano a rompersi con violenza contro rupi scoscese o contro i bordi taglienti d'una cintura di ghiaccio…

"
[L'indomani] il mare rassomigliava meno che nei giorni antecedenti al piombo liquido, la nebbia lasciava distinguere i contorni delle nubi, ornati delle tinte calde e vive dell'aurora, di quando in quando ci sembrava scoprire, dietro le masse di nebbia che scorrevano silenziosamente lungo le onde, qualche cosa d'immobile, un'indicazione di ghiaccio, un'ombra di rocce; l'orizzonte si rischiara al Nord-est; le colonne di nebbia spariscono una dietro l'altra, diventano diafane, passano più rapidamente davanti i contorni ancora incerti, ma sempre più determinati, e qualche momento più tardi abbiamo davanti a noi il Baerenberg in tutta la splendidezza della sua nudità, arrossendo ai primi raggi del sole. La sua enorme sommità, a 7.000 piedi al disopra il livello del mare, coperta di neve, brillava gaiamente al sole e rifletteva delle tinte ardenti d'oro, e di rosa delicato; nove ghiacciaie [ la forma maschile "ghiaccio" non aveva ancora, alla metà dell'Ottocento, soppiantato quella femminile in uso già dal settecento, "ghiacciaia": nota di F. Rodolico]
increspate e fesse serpeggiavano sui fianchi della montagna, trasparenti come smeraldo fin nel mare; le ondate schiumanti venivano a rompersi qua, contro i ghiacci ridenti e diafani, là contro le rocce nere e lugubri. Il mare era d'un celeste carico, il cielo ancora pallido, un silenzio assoluto regnava intorno a noi, non vi era traccia alcuna d'essere umano, era un momento veramente grandioso e noi restammo molto tempo senza parlare…

"
[Nella]
mattinata… la costa diviene più distinta; incontriamo più frequentemente dei pezzi di ghiaccio strappati ai piedi delle ghiacciaie; gli uccelli marini di tutte le specie diventano più numerosi ed in mezzo ad essi l'antica nostra conoscenza, la Procellaria glacialis; dei piccoli uccelli neri nuotano, s'immergono e spariscono; dei grandi uccelli bianchi volano pesantemente; la nostra venuta mette tutta questa popolazione dalle piume, in un'agitazione straordinaria; è un andare e venire, correre, tuffarsi, nuotare senza posa, e tutto questo con un'aria profondamente seria, come se adempissero ad un loro sacro dovere. Le loro opinioni a nostro riguardo, circa alle nostre intenzioni pacifiche o bellicose non si accordavano niente affatto, almeno a giudicarne dai suoni stridenti de abbominevolmente falsi che uscivano dai loro becchi largamente aperti, la produzione dei quali sembrava sovente costasse loro uno sforzo considerevole. Speravo ancora, ed il mio cuore si contraeva a questa folle speranza, incontrare in qualche lontano ridotto l'ultimo rappresentante della nobile razza degli Alca impennis!

"A misura che noi ci avvicinavamo, l'aspetto della montagna diveniva sempre più fantastico e variato. Le rocce mostravano, su di un fondo uniformemente opaco, delle tracce ora rosse, ora gialle, indicanti i diversi strati della lava; vi erano dei punti d'un verde bellissimo, ma non potevamo distinguere se era erba, muschio, o qualche massa minerale. Le superfici liscie che le ghiacciaie presentavano al mare, si elevavano perpendicolarmente, come mura di smeraldo, si sentiva di quando in quando affondarsi qualche massa di ghiaccio, diveniva evidente che noi non potevamo abbordare, le onde urtavano le rocce con tal violenza, , che non osavamo nemmeno tentare la prova; esse ammucchiavansi di più come per prendere uno slancio e gittarsi quindi confusamente da una roccia all'altra, per coprire colla loro schiuma le più ardite aguglie…

"
[Solo dopo qualche giorno fu possibile lo sbarco] sopra una lunga diga posta fra il mare ed un piccolo lago d'acqua dolce, che ha forse trenta metri di larghezza per due chilometri di lunghezza. Si può traversare a guado in quasi tutti i punti… I grandi uccelli bianchi, i soli che io desideravo possedere, non si lasciarono avvicinare; corsi invano un'intiera ora, il fucile sempre armato, senza arrivare a tirare un colpo solo; mi misi allora a cercare delle piante e delle pietre. Non si vedeva che di quando in quando qualche piccola pianta mal cresciuta, che uscivano appena dalle screpolature della lava; le loro foglie erano quasi secche e pallide; sembravano avessero paura di mostrarsi al giorno e cercassero qualche briciola d'un nutrimento parco in quei fessi oscuri, dove il vento dimentica per caso un po' di polvere. Sulla lava stessa non vi era che qualche traccia di vegetazione crittogama, un muschio giallognolo copriva il lembo umido delle colline: ma il nero ed il grigio predominavano dappertutto. Regnava un silenzio perfetto: niente si muoveva; soli, gli ammassi di lava mi circondavano sparpagliati nel modo più strano, essi stessi di forme fantastiche e stravaganti, rassomiglianti alle ruine di una città abbandonata, costrutta da esseri favolosi, estranei a noi; quelle punte, quegli angoli taglienti mi facevano l'effetto d'edifizi, di torri, di chiese, resti affondati d'un mondo del tutto diverso. Dimenticai me stesso per qualche tempo in mezzo a quelle forme misteriose e m'immaginai che davanti a me passasse la processione magica che Heine vide, dalla capanna d'Uraka, allorché andò ad uccidere Atta Troll, il terribile orso di Ronceval [episodio del poemetto satirico Atta Troll del grande poeta tedesco Enrico Heine, 1799-1856; n. di F. Rodolico]
… Un grido sperduto mi richiamò da tali fantasticherie: uno dei grandi uccelli bianchi, oggetto dei miei desideri, circolava al disopra della mia testa; impugnare il fucile e sparare fu affare d'un istante; l'uccello cadde ai miei piedi; lo credetti morto, ma quando andai a prenderlo, ebbe ancora la forza di mordermi fortemente il dito; era una specie di gabbiano piuttosto raro…

"Dopo il pasto, decidemmo di traversare l'isola al punto più stretto e meno elevato, onde vedere la costa del Nord. Prendemmo i nostri fucili nella vaga speranza d'incontrare delle volpi, le cui tracce erano così numerose intorno a noi. Marciando, trovammo rimasugli d'uccelli evidentemente divorati dalle volpi, ma non potemmo trovare una sola di queste… Mi contentai di avanzarmi fino al punto culminante del colle, ove ebbi sull'Oceano glaciale, la vista la più estesa. Con mia grande sorpresa vidi svolgersi a me davante, verso il Nord-ovest, un mare perfettamente chiaro, un orizzonte lontano che non presentava alcun indizio di ghiaccio. La linea tremante dell'orizzonte non era interrotta che in due punti: all'est della corona colossale del Baerenberg ed all'Ovest da una collina, un cratere secondario, la cui tinta nera contrastava colla bianchezza di quella faccia…

"Infrattanto il sole si avvicinava all'orizzonte, le lave prendevano una tinta d'un rosso carico, come se esse si riscaldassero nuovamente e volessero muoversi, ardenti, distruggendo spietatamente tutto quanto esse incontrassero sul loro cammino."
(7)

Da queste pagine si ricava l'impressione di uno scrittore che sa equilibrare l'aspetto scientifico della relazione di viaggio, prendendo nota degli strati geologici e delle specie di uccelli, con quello propriamente letterario, mostrando capacità di tratteggiare scene umoristiche, come quella del cane che si getta sopra la salva rovesciata; poetiche, come quella della prima luce dell'alba che si fa strda tra la nebbia, animando il grandioso paesaggio dell'isola; e quasi di evocazione surreale, come quello scenario di rocce che, nel gran silenzio, pare animarsi dei profili d'una ciclopica città perduta. Ricaviamo inoltre l'impressione che Herzen abbia intrapreso la lunga e rischiosa crociera nei mari nebbiosi a nord della Scandinavia inseguendo un suo sogno segreto e quasi inconfessabile: la riscoperta dell'alca gigante, speranza rivelatasi purtroppo illusoria. Infatti, come scrive il naturalista svizzero Vinzenz Ziswiler, "L'irresponsabile razzia [delle uova] fu fatale già nel secolo scorso all'alca gigante (Alca impennis). Questa - la più grande della famiglia degli Alcidi, le cui ali, come nel pinguino, non erano più atte al volo, era già sterminata intorno al 1850. Solamente pochi e preziosi esemplari conservati nei musei permettono oggi di farci un'idea di questo uccello." (8) Dispiace invero quel colpo di fucile nel magico, arcano silenzio di Jan Mayen, e quel grande uccello colpito a morte, senza un'ombra di rincrescimento, per amore della scienza; così come, anni dopo, in nome della scienza sosterrà il buon diritto di vivisezionare le cavie nel Museo di Storia naturale di Firenze… Ma tant'è,: nonostante qualche venatura romantica (si noti, ad esempio, quel riferimento ad Heinrich Heine), Herzen è pur sempre uno scienziato positivista, che avrebbe considerato una forma di sentimentalismo quella di impietosirsi per il destino di qualche uccello artico. In ciò sta il limite della sua impostazione culturale, almeno dal nostro punto di vista di uomini del XXI secolo: ora che i ghiacci dell'Artico si stanno sciogliendo, ora che tante e tante altre specie animali e vegetali sono andate estinte a causa della "civiltà"; ora che gli sconvolgimenti climatici e ambientali rischiano di privarci, per sempre, di un pianeta ospitale e accogliente in cui vivere.

Note

(1) HERZEN, Aleksandr (senior), Passato e pensieri, Milano, Mondadori, 1970

(2) HERZEN, Alessandro, Gli animali martiri, i loro protettori e la fisiologia, introd. A cura di Giovanni Landucci, Firenze, Giunti, 1997 (in Appendice: Sopra il metodo seguito negli esperimenti sugli animali viventi nel Museo di Storia Naturale di Firenze, cenni del prof. Maurizio Schiff).

(3) PALMERINI, Agostino, voce H. della Enciclopedia Italiana, ed. 1949, vol. XVIII

(4) AHLMANN, Hans von, voce J. M. della Enc. Ital., vol. XVIII

(5) Cfr. il Milione. Enciclopedia di tutti i paesi del mondo, Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1968, vol. 4, p. 141

(6) HERZEN, Alessandro, Una gita a Jan Mayen, in Boll. Della Reale Soc. Geogr. Ital., fasc. 5 (parte 3 a) del 15 novembre 1870

(7) RODOLICO, Francesco (a cura di), Meraviglie della natura negli avventurosi viaggi degli esploratori italiani dell'Ottocento, Firenze, Le Monnier, 1968, pp. 1-5.

(8) ZISWILER, Vinzenz, Animali estinti e in via di estinzione, Milano, Mondadori, 1975, p. 27.

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samedi, 22 mai 2010

Carlo Michelstaedter: il coraggio dell'impossibile

Carlo Michelstaedter: il coraggio dell'impossibile

di Miro Renzaglia

Fonte: secolo d'italia


«So che faccio cose inopportune e a me non convenienti». Avrebbero potuto essere le parole iniziali del recente intervento di Gianfranco Fini alla direzione nazionale del Pdl e, invece, sono quelle di Sofocle che troverete in epigrafe alla prefazione della tesi di laurea di un giovane studente di Gorizia, Michelstaedter, di cui quest'anno ricorre il centenario della morte, avvenuta per suicidio il 17 ottobre 1910, proprio alla vigilia della discussione accademica.
E quella tesi, mai discussa appunto, è diventata negli anni una delle opere di filosofia più enigmatiche e affascinanti del nostro panorama sapienziale novecentesco, portandone lo stesso titolo voluto dall'autore: La persuasione e la retorica. È il testo unico che ci ha lasciato. Oddio, proprio unico non è: fra poesie ed epistolario non c'è praticamente riga vergata dal goriziano che non abbia visto luce editoriale. Compreso quel Dialogo della salute e altri scritti sull'esistenza che viene riproposto da Mimesis (pp.210, € 16,00), a cura e con l'approfondito saggio introduttivo di Giorgio Brianese, docente di Ontologia dell'esistenza e Propedeutica filosofica all'Università Ca' Foscari di Venezia.
«Carlo Michelstaedter - afferma Brianese - scrisse il Dialogo della salute nel 1910, mentre lavorava alla stesura della tesi di laurea, e lo concluse il 7 ottobre. Dieci giorni dopo si sarebbe tolta la vita. Cosa può significare riflettere, dialogando socraticamente, sulla salute trovandosi nel contempo in prossimità di una morte volontaria? Non si creda che Michelstaedter, nelle sue pagine, irrida il nostro "stato mortale", come sembra fare il custode del cimitero nella pagina che apre il Dialogo. Piuttosto egli c'invita a essere pienamente
noi stessi ritrovando la verità profonda della nostra esistenza: chi ha la "salute" può guardare in faccia persino la morte, la quale "di fronte a lui è senz'armi". Perché l'oscurità, per lui, "si fende in una scia luminosa", ed egli "sa godere la luce del sole"». La persuasione e la retorica, la salute e la morte, l'essere e il divenire, l'esistenza e il nulla, sono queste le dicotomie intorno alle quali il pensiero di Carlo Michelstaedter si arrovella, concentrandosi sull'unico fattore che le risolva tutte in un colpo solo e alla radice: la libertà. La libertà di essere autentici in sé senza lasciarsi ingabbiare in uno qualsiasi dei ruoli che «la comunella dei malvagi», o della società che tutto omologa, pretende di assegnarci. Come per Nietzsche, anche per lui il campione della mistificazione della libertà resta Platone (e Aristotele), con la sua repubblica perfetta e ideale dove a ognuno è affidato una funzione e, soprattutto, una finzione: quella di essere «liberi di essere schiavi». Schiavi delle convenzioni, del possesso di cose e virtù omologate, della carriera, del successo, del denaro e, soprattutto, schiavi del futuro. Quel futuro che rinviandoci continuamente ad un sole dell'avvenire sempre prossimo e successivo ci espropria dell'unica vera libertà che abbiamo: quella di essere qui e di esserlo adesso. È la «via della salute»: «Ci son cose che distruggono la salute stessa e del corpo e dell'anima, contro le quali né forza fisica vale né animo libero, cose che ti tolgono appunto questa libertà e questa forza e ti tengono debole e miserabile in lor balìa […]. Quale forza fisica o quale virtù ti potrà mai salvare dalla morte? No: val meglio coglier l'attimo che fugge, sani o malati, e fuggire con lui, quando che voglia il caso» (dialogo 2). L'oraziano carpe diem, quindi: cogli il giorno, prendi l'attimo, vivi il presente e quam minimum credula postero, confida il meno possibile nel domani, sembra essere la ricetta dell'uomo in salute, del persuaso. Sennonché a dettare l'ode di Orazio è quel «dio del piacere», quella «philopsichia», che Michelstaedter aborrisce reputandola responsabile di creare l'illusione che una sopravvivenza qualsiasi sia la vita stessa nella pienezza del suo significato. Così non è e, infatti: «Quando si parla comunemente dei "piaceri" come di posizioni determinate che danno il piacere, siamo ormai nella posizione ammalata: e andiamo a cercare il piacere per sé, a sfruttare la nostra posizione verso una cosa per avere un sapore che in quanto lo andiamo a cercare non lo abbiamo più. Vogliamo godere due volte di noi: non più "godo - perché sono" - ma "son io che godo", e in realtà non godiamo più» (dialogo 8).
Carlo Michelstaedter vede con chiarezza dov'è il trucco e lo svela: tutto ciò che crediamo vita non è altro che una serie infinita di espedienti per sfuggire al dolore. E il principio del piacere è il primo fra tutti gli inganni. Ma il dolore è vita e la fuga dal dolore
non è altro che fuga dalla vita, rinviando all'infinito del verbo divenire, l'essere vivo. Ha ragione Brianese quando osserva che sussiste in Michelstaedter un principio di contraddizione, o di non risoluzione, quando pretende attingere per il suo apologo sulla "salute" e sulla "persuasione", sia da Eraclito, profeta del panta rei, tutto scorre, e quindi del "divenire" che da Parmenide maestro dell'immobilità dell'"essere in quanto è". Ciononostante, non fu il primo a tentare una sintesi avendo come predecessore Empedocle e contemporaneo quel Nietzsche che vaticinava nell'eterno ritorno il punto di massima approssimazione del divenire all'essere. La massima nicciana: «Si diviene ciò che si è», avrebbe potuto essere sottoscritta, l'avesse conosciuta, anche dal goriziano. Ed entrambi, riconoscenti intellettualmente a Schopenhauer, partivano dal suo assunto secondo il quale: «Reale è solo il dolore», perché noi: «Sentiamo il dolore, non l'assenza di dolore». Ed è la lotta contro il dolore, non la fuga in derivati anestetizzanti, che insegna a vivere. È, come appare elementare, una lotta di liberazione e non di supina accettazione della sofferenza, magari come via salvifica all'ultraterreno: «Davanti al tiranno (dolore) io sono senza colpa», dirà Nietzsche. Con Michelstaedter che invoca: «Il coraggio di sopportare / tutto il peso del dolore».
Che uno (l'ex professore basilese) sia morto pazzo, e l'altro (lo studente goriziano) suicida, nonostante fossero due menti votate entrambe alla "salute", forse non depone molto in favore del fatto che le loro teorie fossero facilmente e
felicemente praticabili. E Giorgio Brianese, almeno nel caso di Michelstaedter, non manca di rilevarlo con un certo grado di pessimismo realista: «La persuasione è dunque l'ideale limite al quale l'uomo non potrà mai giungere, ma al quale non per questo deve rinunciare a tendere. La rettorica è ciò che si sa che va negato, la persuasione è ciò che si sa che va attuato; e tuttavia la persuasione è impossibile e la rettorica risulta vincente». Ma di nuovo e tuttavia, quando il palio della partita che si gioca «a ferri corti con la vita», è la libertà stessa di autodeterminarsi uomini, anziché ciechi e assuefatti ingranaggi di un sistema che ce ne espropria, varranno per sempre i versi del sommo Dante: «Libertà vo cercando, ch'è si cara, / come sa chi per lei vita rifiuta...». O, se si preferisce e come sembra più appropriato in questa conclusione, con le parole di Carlo Michelstadter stesso: «Il coraggio dell'impossibile è la luce che rompe la nebbia, davanti a cui cadono i terrori e il presente divien vita».

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Eugen Lemberg: anthropologie des systèmes idéologiques

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1987

Eugen Lemberg: anthropologie des systèmes idéologiques

Eugen LEMBERG, Anthropologie der ideo­logischen Systeme, Nomos Verlag­sgesellschaft, Baden-Baden, 1987, 168 S., DM 39, ISBN 3-7890-1144-4.

Deuxième édition d'un ouvrage capital de po­lito­logie paru immédiatement après le décès de l'auteur en 1976. Ce livre se veut le couron­ne­ment de l'œuvre sociologique de son auteur et une analyse comparative des systèmes reli­gieux, philosophiques et politiques qui structu­rent les sociétés en leur communiquant des va­leurs et des normes et en dirigeant leur compor­tement global. D'où la question principale à la­quelle répond Lemberg: quelles sont les pulsions motrices, les systèmes-guides de l'espèce hu­maine? Quel est le rôle de l'idéologie sociale dans la pensée et dans l'agir? Dans la veine des grands fondateurs de la sociologie, Ratzenhofer, Pareto, Gumplowicz, Mosca, etc., Lemberg a écrit un classique incontournable. Il étudie les mobiles instinctifs, institutionnels et idéolo­gi­ques de l'agir social et politique. Il en retrace la phylogénèse et en examine les fonctions (for­mation des groupes, désignation de l'en­nemi, po­sitionnement dans l'environnement politico-culturel, polarisations diverses, etc.). Les sys­tè­mes idéologiques, en­suite, donnent à leurs adep­tes une explication du monde simple, «clé sur porte». Explication qui génère des vérités et des fois qu'ébranlera l'avènement des démar­ches empiriques. Lem­berg étudie aussi le rôle des dubitatifs, des héré­tiques et des dissidents dans les sociétés. L'une des fonctions essen­tiel­les des systèmes idéolo­giques est de guider le com­portement, ce qui a pour effet de stabiliser les sociétés. Stabilisation qui peut déchoir dans la rigidité ou, au contraire, permettre la persis­tan­ce d'un terreau fécond. Dans toute société, s'o­pè­re un partage des rôles entre idéologues et prag­matiques. Les hiérar­chies fonctionnantes sont dès lors marquées par un dosage de principes im­muables et de prag­matisme souple. Enfin, les systèmes idéolo­giques sont soit marqués du sceau du sacré soit rationnels. Conclusion de Lemberg: les idéolo­gies sont tantôt une malé­dic­tion tantôt une béné­diction.

 

 

mercredi, 19 mai 2010

Breve sobre indios e indigenistas

Jes3.jpgBreve sobre indios e indigenistas

 

Alberto Buela(*)

 

Ya empezamos mal hablando de indios cuando lo políticamente correcto es hablar de aborígenes, término que viene del sufijo latino ab que indica procedencia, más el sustantivo origo-inis que significa origen, nacimiento. Cuando decimos aborigen nos queremos referir a alguien originario del suelo donde vive.

Aparece aquí la primera contradicción los indigenistas que se auto titulan con un término del latín como aborigen, en lugar del indio que es mucho más genuino y originario. Es verdad que nació de un error de Colón, pero eso es todo, no existió una manipulación ex profesa del término, como ocurrió y ocurre con el de aborigen.

Ahora bien en el caso de los aborígenes de la Patagonia y de la Pampa argentina no son originarios para nada, eso no es cierto, es una falsedad de toda falsedad. Los que hoy se denominan mapuches son un cuento, son un bluff, lo decimos en inglés porque la oficina política de estos “indios” está en Londres. Ellos llegan a La Pampa a partir de 1770 y eran pehuenches de Ranquil (hoy Chile) y se instalan en pleno cladenar (montes del Caldén) de la Pampa central, llamada también Mamil Mapu (país del monte). Vemos como estos indios son menos originarios que los criollos viejos de la Pampa. Y en la Patagonia, cuando invadieron por esa misma época, mataron a los tehuelches sus verdaderos habitantes originarios.

Sobre este tema se puede consultar el excelente artículo de Fredy Carbano Julio Argentino Roca y la gran mentira mapuche que está en Internet.

 

Es sabido que hoy día uno de los temas y asuntos más aprovechados políticamente por el progresismo, tanto de izquierda como liberal, es el del indigenismo.

No existe prácticamente ningún gobernante- nacional o provincial- de Nuestra América que no cante loas al mundo precolombino, a los indios, a los autóctonos, a los pueblos originarios.

Ni que decir de los militantes políticos del progresismo  y los intelectuales del pensamiento único, el tema está comprado en bloque. Es como si una voz de orden venida del imperialismo yanqui dijera: “Así como para nosotros el único indio que vale es el indio muerto, para Uds. lo único valioso es: que todos sean o se declaren indios”.

 

Para apoyar este principio de dominación política y cultural nos han vendido, y nuestra intelligensia  ha comparado, la teoría del multiculturalismo que hace pedazos la poca unidad nacional que hemos logrado luego de 500 años de existencia. Esta teoría ruin se expresa en el apotegma: la minorías tienen derechos por el sólo hecho de ser minorías, tenga o no algún valor lo suyo.

¿y la voluntad de las mayorías? Solo sirve para convalidar en el momento de votar a la élite ilustrada que gobernará para las minorías, llámense grupos concentrados de la economía (Etztain, Grobocopatel, Mildin, Werthein), de la cultura (gays, lesbianas, bisexuales, homosexuales), de la farándula mediática (Leuco, Eliaschev, Sofovich, Gelblung), del pensamiento (Feimann, Forster, Kovaldof, Abraham). Gringos de la peor laya que viven esquilmando a nuestros pueblos bajo la mascarada democrática de servirlos.

Y así como es políticamente correcto criticar a los fumadores y a los cazadores de ciervos, por el contrario, es políticamente incorrecto criticar a cualquiera de las mil variantes del indigenismo americano.

La crítica al indigenismo inmediatamente nos demoniza, porque el indigenismo es un mecanismo más de dominación del imperialismo y como tal funciona. Su verborrea criminaliza a quien se opone. Su lenguaje busca despertar sentimientos primarios a dos puntas: se presentan como víctimas y criminaliza a quienes se le oponen o ponen simplemente reparos.

Lo grave del indigenismo es que en nombre de las falsas razones de origen que dan ellos, nos quitan, al menos a los criollos americanos, nuestro lugar de origen. Y nosotros los criollos bajo la firma de gauchos, huasos, cholos, montuvios, jíbaros, ladinos, gaúchos, borinqueños, charros o llaneros somos lo mejor, el producto más original que dio América al mundo. Ya lo decía Bolivar sobre él mismo: ni tan español ni tan indio.

Es este mundo criollo que dio el barroco americano y que peleó por la independencia y libertad de nuestros pueblos. Este mundo criollo que tuvo sus mejores frutos intelectuales en la universidad de Chiquisaca, llamada La Plata, Charcas y hoy Sucre. ¿O por qué se piensan que Bolivia, así pobre y desmantelada como la vemos, ha sido la que mayor cantidad de pensadores nacionales hispanoamericanos ha dado en el siglo XX? Porque funciona sobre una matriz de pensamiento que tiene medio milenio.

Qué es ser criollo sino la mejor forma de sentir lo nuestro, lo propio, lo auténtico. No es necesario andar vestido de gaucho, huaso o llanero, ni tener diez generaciones de americanos. Criollo puede ser un bancario, y un plomero, un cura o un médico, un rico o un pobre, el inmigrante italiano o alemán, el turco o el judío. Lo criollo es la captación del valor de lo genuino en nosotros. La valoración del modo gaucho de vida con sus costumbres y tradiciones. No porque nos vistamos de gauchos vamos a ser más criollos, yo conozco tantos gauchos de tienda. Hace muchos años, Juan Carlos Neyra, el padre del Colorado Neyra, escribió: Criollo es aquel que interpreta al gaucho y lo criollo es un modo de sentir, una aproximación afectiva a lo gaucho. Es por  eso que lo gaucho es necesariamente criollo pero un criollo puede no ser gaucho. De allí que esos viejos camperos de antes decían: Nunca digas que sos gaucho, que los otros lo digan de vos.[1]

 

Hace unos días escribió Solíz Rada desde Bolivia un brillante artículo El canciller y las hormigas donde el canciller de su país afirma: “para nosotros los indios están primero las mariposas y las hormigas y en último lugar está el hombre. A lo que comenta Solíz: Lo inaceptable es separar la preservación de la Madre Tierra de la defensa del género humano. Recuérdese que los nazis también pensaban que judíos y gitanos valían menos que hormigas y bacterias.” Lo postulado por su canciller viene a coincidir con los planes de John Rokeffeller III de control de la natalidad de los países del tercer mundo.

El historiador y amigo chileno Pedro Godoy nos dice: “Chile no escapa del plan desmembrador. Modas primermundistas nos contaminan: tatuajes, grafitis, piercing, swingers, punkies… Ahora adquiere fuerza otra: los indigenista bajo el grito “cada etnia una nación” ¡Inquietante!. Los asesores rubios de esta campaña motorizan, hoy como ayer, la leyenda negra. Aportan así a acentuar nuestra crisis de identidad”

La instrumentación política que está detrás del indigenismo la hace notar muy bien Félix Rodríguez Trelles cuando afirma: “Los mal llamados "originarios" son el brazo de la quinta columna interior. El experimento imperial ha logrado un éxito notable al controlar Bolivia con el cocalero manejado desde atrás por García Linera (el Cohn-Bendit boliviano), y acechan con fuerza en Ecuador (no es casual que a Correa los "originarios" lo ataquen cuando repudia la deuda externa)” (cfr. En Internet su artículo Los pueblos originarios: una operación de pizas).

Tanto Andrés Solíz Rada como Pedro Godoy, dos hombres de la izquierda nacional suramericana, como Trelles un hombre del peronismo genuino, quieren poner el acento y distinguir entre la existencia y primacía de la identidad de la comunidad política de origen (aquella que nos da el Estado-nación al que pertenecemos)  y una identidad adquirida o secundaria que es la que cada uno puede darse o crearse por estudio o convicciones (comunidad mapuche, gaucha, gringa, judía o árabe). Si no tenemos en cuenta esta distinción política fundamental caemos en el error todos los separatismos.

 

Y así todo suma y sigue, y podríamos poner mil ejemplos.

 

De este indigenismo se desprende la primera mentira mayúscula: la matanza de indios que realizaron los españoles fue de 120 millones según Escarrá Malavé, presidente de la comisión de relaciones exteriores del Congreso de Venezuela, de ahí que Chávez hable equivocadamente de “holocausto aborigen”. De 70 millones según el sociólogo brasileño Darcy Ribeiro y así siguen los números más inverosímiles.  Pero estas cifras son solo suposiciones artificiosas teñidas por el odio a España y lo español producto de la “leyenda negra” creada por las oficinas políticas de Holanda e Inglaterra.

El filósofo e historiador mejicano José Vasconcelos, nada hispanista, hace constar en su Breve historia de México que no había más de seis millones de indios en todo el norte de América, tesis que años después convalidarían las investigaciones del antropólogo W. Denevan.  Mientras que don Angel Rosemblat, profesor de historia de América colonial y nada sospechoso de prohispanismo, estimó una población a la llegada de Colón de trece millones y medio para toda América. La que disminuyó en gran parte no por las matanzas, que ciertamente las hubo sobre todo en los primeros treinta años de la conquista,  pero ni por asomo con la magnitud que se les otorga, sino por las epidemias que los españoles trajeron: gripe, viruela, sífilis, etc.

Angel Rosemblat nació en Polonia en 1902 en el seno de una familia judía y llegó a Buenos Aires a los seis años, realizó sus estudios en la Universidad de Buenos Aires, se perfeccionó en Europa y en 1946 se afincó en Venezuela contratado por ese gran pensador venezolano que fue Mariano Picón Salas, y allí murió en 1984.Este filólogo y antropólogo cultural se destacó por su continuado trabajo de treinta años sobre el tema de la población originaria de América a la llegada de Colón y en un libro memorable que tiene muchas ediciones La población de América en 1492. Viejos y nuevos cálculos, FCE, México, 1967.

Afirma Pierre Chaunu, historiador francés y protestante, el mayor revisionista de la Revolución Francesa junto con Francois  Furet, escribe: “La leyenda antihispánica en su versión norteamericana (la europea hace hincapié sobre todo en la Inquisición) ha desempeñado el saludable papel de válvula de escape. La pretendida matanza de los indios por parte de los españoles en el siglo XVI encubrió la matanza norteamericana de la frontera Oeste, que tuvo lugar en el siglo XIX. La América protestante logró librarse de este modo de su crimen lanzándolo de nuevo sobre la América católica.

La tenaz y reiterativa acusación de genocidio a los españoles por parte de los indigenistas contrasta con el silencio sobre uno de los episodios más terribles y duraderos, la matanza y explotación de indios y negros por parte de las oligarquías americanas ilustradas luego de la independencia. Así durante casi todo el siglo XIX las oligarquías locales masónicas y liberales bajo régimen de esclavitud  hicieron desaparecer pueblos enteros como los charrúas en Uruguay, los mayas en México y varias etnias en el Brasil amazónico.

 

Nosotros al no ser antropólogos culturales, sólo conocemos tres trabajos serios sobre el tema en Argentina: a) los de Ernesto Sánchez Ance para el área norte del país. b) el libro del antropólogo  Jorge Fernández C., fallecido hace unos años, titulado Historia de los indios ranqueles, Bs.As. Ed. Inst.Nac.Antropología y Pensamiento Americano, 1998, en donde con lujo de detalles desarma el mito de los indios pampas o ranqueles como originarios, sino que llegaron a La Pampa en 1770 corridos de Chile por los españoles y vivieron allí, gracias a la industria sin chimeneas –el malón y el cautivaje -  hasta 1879, cuando cae Baigorrita, su último cacique. c) el libro de P. Meinrado Hux: Memorias de un ex cautivo Santiago Avendaño, Bs.As. Ed. Elefante Blanco, 1999. En donde se muestra palmariamente cómo era la tan mentada cultura indígena, con sus sacrificios humanos y el desollar viva a la gente.

 

Invitamos a los que quieran profundizar, a leer estos trabajos que están al alcance de todos.

 

 

 

(*) alberto.buela@gmail.com

Arkegueta, apendiz constante, mejor que filósofo

 



[1] Neyra, JC: Introducción criolla al Martín Fierro, Huemul. BsAs., 1979

lundi, 17 mai 2010

De crisis van het humanisme

De crisis van het humanisme

Ex: http://yvespernet.wordpress.com/

Onlangs ben ik een paar interessante boeken tegengekomen die een gezonde kritiek geven op het (atheïstische) humanisme. Een kritiek die geen reactionaire bedenkingen bevat en durft stellen dat het humanisme ook goede dingen heeft voortgebracht. Denken we maar aan het vallen van de absolute vorsten, de vooruitgang in de geneeskunde en het algemeen onderwijs. Maar we moeten eerlijk zijn, tegenover die verwezenlijkingen staat een grote “MAAR”.

In één van die boeken “Onbehagen met het modernisme”, later meer over deze boeken, staat een mooie anekdote over Georges Sorel. De man zelf was een orthodoxe marxist en trok dan ook ten strijde tegen de gevestigde orde, inclusief tegen God. Rebelleren tegen de Almachtige is immers simpel en atheïsten gedragen zich dan ook vaak als de ongelovige versie van de Taliban. Tegenover God plaatsen zij daarboven ook nog eens de verheerlijking van de wetenschap. Een menselijk gegeven dus dat faalbaar is. Het perfecte en het Allerhoogste wordt dus niet langer als streefdoel, met het volle besef dat het onbereikbaar is, gezien, maar wel het feilbare en het middelmatige. Generaties humanisten en atheïsten hebben dan ook geprobeerd om hun visie te funderen op sterke menselijke voorbeelden, maar mensen als George Sorel (maar ook Nietzsche) beseften dat ze daarin jammerlijk begonnen te falen:

Sorel [bestudeert] in ‘Le système historique de Renan’ de deelname van het christendom aan het ontstaan van een nieuwe cultuur: martelaars en monniken hebben door hun geloof en hun voorbeeld een nieuwe wereld helpen scheppen. Sorel, die een aandachtige lezer van Ernest Renan is geweest [...] was geobsedeerd door een vraag van de auteur ‘Vie de Jésus’ over het postchristendom: ‘De religieuze mensen leven van een schaduw. Wij leven van de schaduw van een schaduw. Waarvan zal men na ons leven?’ Die vraag drukte inderdaad op zeer acute en paradigmatische wijze de vrees van Sorel uit: welk geloof (welke mythe) zal de nodige morele en sublieme inspiratie geven na het verdwijnen van het christendom?

Onbehagen met de moderniteit“, Uitgeverij Pelckmans, Kapellen, 2001, p. 48

Ondertussen kunnen we wel zeggen welke mythe dat is geworden. De mythe van het materialisme, de massaconsumptie en de gecommercialiseerde maatschappij. Geen God, geen moraal. Atheïsme is een moordende wereldvisie. Niet zozeer omdat het streeft om God te doden, maar omdat het de moraal van de mens (al dan niet onbewust) doodt. Uiteindelijk zullen wij zonder God niet meer worden dan consumerende dieren. En als dat het kroonstuk moet zijn op duizenden jaren beschaving, dan kan ik enkel met een grote droefheid naar de geschiedenis kijken.

12 mei 2010 Geplaatst door Yves Pernet

00:25 Publié dans Philosophie | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : philosophie, humanisme, crise, crise des valeurs | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

vendredi, 14 mai 2010

Evola e gli altri

Evola e gli altri

di Marco Iacona - 09/05/2010

Fonte: secolo d'italia

http://www.controcorrentedizioni.it/images/Evola-Maestro-cop.jpg
Siamo oramai giunti alla terza edizione del tradizionale convegno di studi sulla figura e l’opera di Julius Evola (quest’anno dal 7 all’8 maggio e dal titolo: “Evola e la filosofia”), organizzato dalla Scuola romana di filosofia politica insieme alle fondazioni “Evola” e “Abbadia” e al Comune di Alatri, il paese della ciociaria che ha sempre ospitato il seminario. Dal 2006, con cadenza biannuale, studiosi e curiosi di mezz’Italia si danno infatti convegno per seguire e mettere a confronto opinioni sul “maestro della tradizione” e in generale su ciò che potrebbe essere accostato – idee e personaggi – al pensatore di origini siciliane, morto nel 1974 dopo più di mezzo secolo di attività intellettuale.
Quest’anno molte le defezioni. Da quella di due importanti studiosi evoliani come Piero Di Vona e Renato Del Ponte, autori e curatori di saggi fondamentali a quella di Giano Accame scomparso come si sa da poco più di un anno. Intervistato al Tg1 durante il convegno del 2008, Accame aveva rilasciato alcune importanti dichiarazioni circa la rilevanza acquisita dal pensiero evoliano: «Franco Volpi, uno dei più interessanti filosofi della nuova generazione, professore all’università di Padova, collaboratore di Repubblica, ha detto che bisogna ormai mettersi d’accordo, i grandi del pensiero italiano del ‘900 sono tre: Croce, Gentile e Evola». Ci mancherà... Unica delle tre storiche “D” (de Turris-Del Ponte-Di Vona) sarà invece presente Gianfranco de Turris, segretario della fondazione “Evola” e artefice e promotore di studi e pubblicazioni sul filosofo dell’“individuo assoluto”. Lo abbiamo sentito e ci ha anticipato parte della sua relazione introduttiva: «Si tratterà come sempre di un seminario di studi seri ma non formalisti. L’aggettivo “serio” varrà in due direzioni: nei confronti di una cultura, come quella italiana che nonostante i passi avanti non sembra accettare completamente un pensatore così eterodosso come Evola; e dall’altra quegli ambienti, spesso giovanili e facili agli entusiasmi, che vedono qualche volta con fastidio il lavoro di chi si dedica ad approfondire le complesse tematiche di Evola». Il convegno di quest’anno sembra muovere da un tema sottinteso, il raffronto fra il pensiero evoliano – oramai abbondantemente “sdoganato” in seno all’Accademia – e quello di altri noti studiosi, e da un suo corollario: il “maestro della tradizione” fu tutt’altro che un pensatore naif. Evola fu isolato per il contenuto delle sue speculazioni (spesso in anticipo sui tempi), per la sua “equazione personale” eccessivamente critica e per una serie di circostanze che attesero alla sue scelte nel primo e nel secondo dopoguerra; ma Evola fu soprattutto un uomo libero – sovente costretto a difendersi da attacchi precipitosi – il cui pensiero fin dai primi anni non poté non indirizzarsi verso quella “libertà” di cui ha scritto con grande acutezza Massimo Donà.
Di un Evola come anticipatore di tematiche “aspre” si occuperà Vitaldo Conte presente ad Alatri con una relazione dal titolo I nudi di Evola come “metafisica del sesso”, uno studio che strizza l’occhio all’attività pittorica di Evola (ma non quella degli anni Dieci, bensì la ripresa degli anni Sessanta) e a uno dei libri più importanti del filosofo – ma meno letti – pubblicato per la prima volta nel 1958: Metafisica del sesso. Per Conte curatore dell’imminente mostra leccese “Eros parola d’arte”, i quadri del secondo periodo evoliano presentano una loro attualità di pensiero: «la figura femminile emerge dal precedente astrattismo con evidenti allusioni e simbologie erotico-sessuali e possono essere letti «come una sorta di manifesto visivo delle peculiarità della donna».
I parallelismi fra Evola e altri studiosi ben accreditati cominciano poi a partire da due mostri sacri della filosofia: Hegel pensatore di orizzonti quasi sterminati (a seguire queste tracce sarà lo scrittore Giandomenico Casalino) e l’antintellettualista Nietzsche (protagonista sarà invece Domenico Caccamo dell’università “la Sapienza” della Capitale); il saggista Stefano Arcella relazionerà poi su un Evola “vicino” a Gianbattista Vico e il sociologo Carlo Gambescia lo accosterà a Vilfredo Pareto teorico delle élite. Giuliano Borghi dell’università di Teramo metterà a confronto Evola e Ernst Jünger o meglio Evola e la figura dell’anarca jüngeriano, mentre Giovanni Sessa ancora della “Sapienza”, parlerà della coppia Evola-Andrea Emo, filosofo morto nell’83, allievo di Gentile e molto vicino a Cristina Campo. Per Sessa, come già per Roberto Melchionda storico interprete del pensatore romano, Evola e Emo costruiscono «una via filosofica che porta a moderna compiutezza quella negazione nichilistica che è presente in forma potenziale nelle categorie dell’idealismo, ma che i più (tra i critici) non avvertono». Un accostamento che continuerà a far discutere, sembra evidente. Fra i relatori anche Davide Bigalli dell’università di Milano, Claudio Bonvecchio dell’università dell’Insubria, Gian Franco Lami della “Sapienza”, Agostino Carrino della “Federico II” di Napoli (il titolo del suo studio sarà: Evola filosofo della politica?) e i saggisti Giuseppe Gorlani, Marco Rossi, Sandro Giovannini e Hans Thomas Hakl che tratterà della collaborazione evoliana al periodico Antaios, un’importante rivista uscita dal ‘59 al ’71, curata da Mircea Eliade e Jünger. Un periodico che approfondiva «argomenti mitologici, simbolici, scientifico-esoterici e letterari» per il quale Evola scrisse cinque articoli, uno dei quali ebbe parecchia influenza sul conte di Dürckheim. Infine Giampiero Moretti storico delle religioni dell’“Orientale” di Napoli, presenterà il volume appena uscito in una nuova edizione Le madri e la virilità olimpica (Mediterranee) di J. J. Bachofen, un autore tradotto e introdotto in Italia dallo stesso “maestro della tradizione”.

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