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vendredi, 14 octobre 2011

Il Dio di Ezra Pound

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Il Dio di Ezra Pound

di Luca Leonello Rimbotti


Fonte: mirorenzaglia [scheda fonte]

 

 

Il contraltare di Evola, dal punto di vista di una lettura “pagana” del Fascismo, fu certamente Ezra Pound. Se il primo del regime mussoliniano intese fare un risultato moderno delle virtù guerriere ario-romane, un’epifania della potenza, il secondo ne scorse i connotati di religione agreste, la cui continuità sarebbe stata garantita – più che non ostacolata – da forme di cristianesimo non dogmatiche, legate alle credenze arcaiche relative alla sacralità della terra. Se Evola vide nel movimento dei fasci una rinascenza del fato di gloria, qualcosa dunque di “uranico”, Pound rimase colpito invece dalla natura tellurica, diremmo quasi Blut-und-Boden, del comunitarismo fascista del suolo e del seme. Il significato è comunque, nei due casi, quello di una continuità ininterrotta, ben rappresentata dal particolare tipo di imperialismo veicolato dal Fascismo, tutto incentrato sull’idea di redenzione del suolo, di lavoro dei campi, di civilizzazione attraverso la coltivazione e la valorizzazione della terra.

Ezra Pound è stato probabilmente il maggiore e più profondo cesellatore del ruralismo fascista, che giudicò elemento direttamente proveniente dagli arcaici riti latini legati alla fertilità e ai cicli di natura. La “battaglia del grano”, l’impresa delle bonifiche, la celebrazione del pane quale simbolo di vita santificato dalla fatica quotidiana, non sarebbero stati, per il poeta americano, che altrettanti momenti in cui gli antichi misteri pagani tornavano a parlare al popolo, e sotto la sollecitazione ideologica di un regime che fu allo stesso tempo quanto mai attento alla modernità. E che registrò il passaggio dell’Italia a nazione più industriale che agricola, con un numero di operai che per la prima volta nel 1937 superò quello dei contadini.

Questo doppio registro, tipico del Fascismo, di portare avanti insieme i due comparti, senza deprimerne uno a vantaggio dell’altro, questa simmetrica capacità di operare lo sviluppo industriale e quello agricolo, iniettando la modernizzazione nelle tecniche di coltura ma rinforzando l’attaccamento atavico al suolo, fu la formula adottata da Mussolini per promuovere il progresso senza intaccare – ma anzi rinsaldandolo – il patrimonio immaginale legato alla terra, e per di più abbinandolo ad un reale incremento della capacità produttiva, affidata alla scelta autarchica. Della terra, con costante perseveranza, si celebrò la sacralità, facendo del suolo patrio, quello da cui il popolo ricava la fonte di vita, una vera e propria religione di massa. Questa religione popolare fascista, riscoperta intatta dall’antichità e dotata di moderne applicazioni anti-utilitariste ed anti-speculative, ebbe in Pound un cantore geniale.

La recente uscita del libro di Andrea Colombo Il Dio di Ezra Pound. Cattolicesimo e religioni del mistero (Edizioni Ares) ce ne fornisce un nuovo attestato. In questo agile ma importante lavoro noi riscopriamo tutta la profondità di una concezione del mondo incentrata su ciò che Pound definitiva “economia sacra”. Come già fatto da Caterina Ricciardi nel 1991, nella sua antologia di scritti giornalistici di Pound, anche Colombo sottolinea questa impostazione del poeta che, forte della sua recisa ostilità al mondo liberista del profitto finanziario e nemico giurato dell’usura, vide nella sana e naturale economia fascista un preciso riverbero di ancestrali tendenze sacrali. In una serie di articoli pubblicati sul settimanale “Il Meridiano di Roma” fra il 1939 e il 1943, Pound andò indagando le origini italiche, perlustrandone la vena religiosa relativa ai misteri e ai riti di fertilità. In tal modo, «Roma è Venere, l’antica dea dell’amore che ritorna a restituire il sogno pagano agli uomini», realizzando il contatto vivente fra l’antichità e il presente moderno: «E Mussolini, il Duce della bonifica e della battaglia del grano, diventa per il poeta il riesumatore dell’antica cultura agraria, la religione fondata sul mistero sacro del grano, mistero di fertilità».

Entro questi grandi spazi ideologici di rinascita moderna delle logiche arcaiche, Pound ingaggiò la sua personale lotta contro quel mondo di speculatori, affaristi privi di scrupoli e autentici criminali da lui individuato nei governanti angloamericani, che in nome dell’usura finanziaria e dell’idolatria dell’oro non avevano esitato a scatenare contro i popoli a economia organica la più distruttiva delle guerre. Proveniente per nascita egli stesso dal pericoloso milieu presbiteriano, come Colombo ricorda, Pound ben presto se ne distaccò, avvicinandosi ad una interpretazione del cristianesimo come continuità pagana sotto specie devozionale ai santi locali, alle varie Madonne, alle processioni popolari d’impronta rurale. Convinto – e a ragione – di una netta presenza neoplatonica nella stessa teologia cattolica, Pound finì col considerare la religione di Cristo come una forma neopagana di accettazione del mistero della vita. Egli contestava alla radice la filiazione del cristianesimo dall’ebraismo, affermando che invece ciò che si doveva stabilirne era la continuità con l’ellenismo e con il politeismo in auge nell’Impero romano, al cui interno il cristianesimo poté inserirsi senza traumi particolari, in virtù della sua sostanza di religione dapprima solare, erede del mitraismo, poi anche tellurica, erede delle venerande liturgie agresti.

Pound conobbe gli scritti di Frazer e di Zielinski, allora famosi, ma noi possiamo aggiungere che questa lettura poundiana, tutt’altro che peregrina, ha trovato conferma in molti studiosi di religione anche molto importanti, da Cumont a Wind, da Seznec fino a Wartburg: il cristianesimo, ed ivi compreso talora anche il papato, veicolavano sostanziose dosi di neoplatonismo pagano. L’interesse di Pound per figure come Gemisto Pletone o Sigismondo Malatesta – esemplari del neopaganesimo rinascimentale – furono il lato filosofico di un mondo ammirato profondamente da Pound, quello dell’etica economica medievale e proto-moderna, coi suoi fustigatori dell’interesse e della speculazione: un San Bernardino, ad esempio, che combatté tutta la vita l’usura, in forme anche violente e non meno anticipatrici di certi argomenti moderni.

Pound nel paganesimo, e di nuovo nel cristianesimo francescano (notoriamente di ispirazione neoplatonica), vide l’antefatto di quella guerra aperta alla schiavitù dell’interesse che solo con il Fascismo, e con la sua ideologia corporativa del “giusto prezzo”, divenne movimento mondiale di lotta al disumano profitto liberista. Il prezzo della merce, quando stabilito dalla mano pubblica, dà garanzie di giustizia, è regolato dal potere politico, ha veste legale, è insomma pretium justum; quando invece è affidato al gioco incontrollato degli interessi privati, come accade nelle economie liberiste, fornisce l’evidenza di una guerra belluina fra speculatori, a tutto danno del popolo e del suo lavoro.

Questi concetti Pound li martellò in scritti e discorsi alla radio italiana durante la guerra, e sono massicciamente presenti anche nei Cantos. E questo gli costò, come noto, l’infamia della gabbia e del manicomio, cui lo destinarono i “democratici” vincitori. Questa di Pound fu una battaglia a difesa del lavoro onesto contro la bolgia degli speculatori. A difesa della sacralità dell’economia – che è lavoro del popolo – e contro quanti al denaro attribuiscono un demoniaco potere assoluto.

Pound era in prima fila, non faceva l’intellettuale ben ripagato e ben protetto, magari pronto a cambiare bandiera al primo vento contrario. Propagandava idee, lanciava fulmini e saette contro l’ingiustizia sociale e la speculazione, come un moderno Bernardino da Feltre ci metteva la faccia del predicatore intransigente e la parola infiammata del profeta che vede prossimo l’abisso. La sua condanna dell’usura e dell’usuraio ebbe aspetti di radicalismo medievale in piena guerra mondiale.

Quest’uomo vero fu pronto a pagare di persona, senza mai rinnegare una sola parola. Si esponeva senza remore. E parlava chiaro e forte. Come ad esempio in quella lettera – riportata da Colombo – indirizzata a don Calcagno (il sacerdote eresiarca fondatore di “Crociata Italica” durante la RSI e vicino a Farinacci) nell’ottobre 1944, in cui si scagliò contro la doppiezza vaticana di Pio XII: «Credete che un figlio d’usuraio, venduto e stipendiato, o indebitato agli ebrei sia la persona più adatta a “portare le anime a Cristo”? La Chiesa una volta condannava l’usura».

Ezra Pound non era un sognatore fuori dal mondo, e nemmeno un visionario ingenuo, come hanno cercato di farlo passare certi suoi non richiesti ammiratori antifascisti. Era un perfetto lettore della realtà e un geniale interprete dell’epoca in cui visse. Ebbe chiarissima davanti a sé l’entità della prova che si stava svolgendo con la Seconda guerra mondiale. Comprese come pochi che quella era la lotta decisiva fra l’usuraio e il contadino, e che difficilmente per il vinto ci sarebbe stata una rivincita. Quando la guerra piegò verso il trionfo degli usurai – allorché, come scrisse, «i fasci del littore sono spezzati» – partecipò fino in fondo all’esperienza tragica della Repubblica Sociale, consapevole di vivere, come dice Colombo, «l’età apocalittica della fine».

L’uomo europeo deve molto a Pound. Gli deve una grande passione ideale e una formidabile attrezzatura ideologica, che è grande poesia e a volte anche grande prosa. Proprio mentre l’usura universale sta facendo a pezzi un popolo dietro l’altro, proprio mentre infuria la volontà di scannare i popoli per arricchire piccole oligarchie di speculatori apolidi, quella di Pound appare come una gigantesca opera di profezia e di riscatto.


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jeudi, 13 octobre 2011

Pericles & the Athenian Ideal

Pericles & the Athenian Ideal

By Troy Southgate

Ex: http://www.toqonline.com/

Bust of Pericles bearing the inscription “Pericles, son of Xanthippus, Athenian”. Marble, Roman copy after a Greek original by Cresilas, ca. 430 BC (Museo Pio-Clementino)

Bust of Pericles bearing the inscription “Pericles, son of Xanthippus, Athenian”. Marble, Roman copy after a Greek original by Cresilas, ca. 430 BC (Museo Pio-Clementino)

There is already much discussion in our circles about the example of Sparta, not least as a result of the recent Hollywood blockbuster 300 [1] which was rather loosely based on the exploits of King Leonidas, but in this article I intend to examine Sparta’s chief rival Athens.

The Athenian statesman, Pericles (495 – 429 BCE) once claimed that his city was an educational role model for the whole of Greece, but how far was this really true?

Pericles’ boast is part of his funeral oration recorded by Thucydides (460 – 395 BCE) in his The Peloponnesian War [2]. The aim of Pericles’ oration is to establish that Athens was a society worth dying for. Thus the speech is designed to exploit in his listeners deep-seated feelings of local pride and identity, inviting them to recall the glory of Athenian growth and prosperity. His verbal tapestry begins by lauding Athenian ancestry, emphasizing the fact that the people’s “courage and virtues have handed on to us, a free country.”

He mentions “the constitution and the way of life that has made us great” and points to certain social improvements such as power being democratically channeled into the hands “of the whole people,” the fairness and “equality before the law” and the fact that, in terms of social classification, status is not determined by “membership of a particular class, but the actual ability which the man possesses.” Pericles was also careful to mention the prevailing moral ethos which underpinned fifth-century Athenian society, that of sovereign, “unwritten laws which it is an acknowledged shame to break.”

Then Pericles lists what he considered to be the noblest attributes of his native city, with particular reference to the cultural activities that provided “recreation for our spirits.” This tactic was designed to pave the way for a contrasting description of the traditional enemy, Sparta.

Pericles then polemically denounced Spartan militarism and the rigorous training to which it “submitted” its youth, lauding the Athenian educational system by contrast. He also praised Athens for apparently maintaining a confident superiority above and beyond all other Greek states, emphasizing the importance of thought before action.

When Pericles finally describes Athens as “an education to Greece,” he explains precisely why he considers this to be the case. Athens stands for the freedom of the citizen, who is “rightful lord and owner of his own person.” Because of its constitution, Athens has waxed powerful: “Athens, alone of the states we know, comes to her testing time in a greatness that surpasses what was imagined of her . . . future ages will wonder at us, as the present age wonders at us now.” But with greatness comes peril: “it is clear that for us there is more at stake than there is for others who lack our advantages.”

Pericles then offers an inspiring account of the necessity of personal sacrifice. The slain warriors, in whose honor the funeral had been held, were depicted as heroes who had lain down their very lives for the continuation of Athenian culture, heritage and tradition, itself “a risk most glorious.” Pericles then challenges the living to emulate the honored dead, making “up your minds that happiness depends on being free, and freedom depends on being courageous .  .  . for men to end their lives with honor, as these have done, and for you honorably to lament them: their life was set to a measure where death and happiness went hand in hand.”

But can Athens really can be considered to have been a role model for the whole of Greece, or was Pericles merely deluding  himself and his contemporaries? Let us examine the historical record.

Pericles is renowned for the prominent role he played in the democratization of the Athenian political system, which itself had “been fixed by Cleisthenes (570 – 507 BCE) and further reformed after the battle of Marathon” (J. B. Bury, A History of Greece to the Death of Alexander the Great [3] [Macmillan, 1951], 346).

After overthrowing Thucydides and assuming the leadership of the people, Pericles and Ethialtes (d. 461 BCE) set about reducing the power of the judiciary in the Areopagus. At this time, the archons or chief magistrates were appointed by lot, but only from a select number of pre-elected candidates. Pericles abolished this system with the result that the archons themselves became “appointed by lot from all the eligible citizens [who now] had an equal chance of holding political office, and taking part in the conduct of political affairs” (Bury, 349). This system was also extended to the Boule, or Council of the Five Hundred.

In addition, Pericles effectively dismantled the hereditary powers of the traditionally oligarchic Areopagus completely, restricting its activities in order to redefine its role as little more than a “supreme court for charges of murder” (A. R. Burn, Pericles and Athens [4] [English Universities Press, 1964], 46). In 462 BCE, Pericles also initiated a scheme whereby jurors and those holding offices of state received payment for their services to the city, “a feature which naturally won him popularity with the masses” (Bury, 349).

This very popularity, in fact, had been deliberately engineered by Pericles himself in order to counteract the large support that Cimon (510 – 450 BCE), an accomplished naval hero, was able to command from the Athenian nobility. Although Pericles was himself an aristocrat, he “decided to attach himself to the people’s party and to take up the cause of the poor and the many instead of that of the rich and the few, in spite of the fact that this was quite contrary to his own temperament”(Plutarch, The Rise and Fall of Athens: Nine Greek Lives [5] [Penguin, 1960], 171).

Indeed, Thucydides attacked Periclean reforms and labeled them “democracy in name, but in practice government by the first citizen” (Plutarch, 173). So what began as Greek democracy under Cleisthenes around 500 BCE had become a dictatorship under Pericles by 430 BCE.

Despite all the speculation surrounding Pericles motives for initiating democratic reforms, in terms of her constitution and statecraft Athens undoubtedly stood far ahead of her rivals.

One measure of the seriousness of Athenian democratization was the introduction of new political technologies, such as allotment-machines, water-clocks, juror’s ballots, and juror’s tickets.

Another sign of Athenian political acumen is the transfer of the headquarters and treasure of the Delian league from Delos to Athens in 454 BCE. The Delian League was a crucial alliance of 150 Greek city-states established prior to the Peloponnesian wars to defend Hellas from the Persians. The transfer of its headquarters to Athens gave the Athenians enormous political and economic influence over the member states.

Sparta had an entirely different political structure. In Bury’s words, Sparta was imbued with a “conservative spirit.” The Spartan constitution, unlike its continually revised and reformed counterpart in Athens, had remained virtually the same since its inception.

Sparta had a mixed constitution with monarchical, aristocratic, and democratic elements. Sparta was ruled nominally by kings, an order going back to the times of Homer. The aristocratic element was the Council of Elders, or Gerusia, which consisted of thirty men who were elected for life and chosen by acclamation in the general assembly of citizens. Membership was described as a prize for virtue. However, the Spartan Assembly of the People, or Apella, contained only males over thirty years of age who decided matters of state purely on the basis of a particular speaker receiving the loudest cheers from those in attendance. Theoretically, the Spartan constitution was democratic, but if the elders and magistrates did not approve of the decision of the majority, they could annul the proceedings by refusing to proclaim the decision.

The Athenians were always very keen to stress the political differences between themselves and their Peloponnesian rivals. Many island states — often artificially created by colonial means — usually followed the example of Athens rather than Sparta. Athenian democracy, unlike the American variety, was not spread around the world at gunpoint. Instead, the states that adopted the Athenian system seemed genuinely inspired by her example.

Sparta, on the other hand, had few imitators, and the states that did resemble Sparta did not appear to imitate her. So as far as Athenian politics was concerned, at least, Pericles was right to claim that Athens was the educator of Greece.

Athens was an example to Greece in politics. But what about the economic and cultural realms?

According to Plutarch, Athens became fantastically wealthy after Themistocles (524 – 459 BCE) had directed the revenue of the city’s lucrative silver mines at Laurium towards the construction of a strong navy, including a new fleet of triremes, which made possible the reconquest of Athens after its inhabitants had been forced to flee from the invading Persians.

When Athens became host to the treasury of the Delian League in 454 BCE, Pericles used its funds for the rebuilding of Athenian temples, claiming they had been destroyed by the Persians in the common cause of Greece, thus it was appropriate that they be rebuilt from the common funds.

In 449 BCE, a pan-Hellenic Congress was proposed to raise funds for further projects. This plan met with fierce opposition from Thucydides among others. According to Plutarch, Pericles answered his critics by declaring that “the Athenians were not obliged to give the allies an account of how their money was spent, provided that they carried on the war for them and kept the Persians away.” Pericles had effectively plundered the common treasure of Greece and turned it into the adornment of Athens.

Athenian trade also began to flourish during the rule of Pericles, and Themistocles’ fortification of the Piraeus made Athens one of the greatest ports in Greece. The decline of merchant cities in Ionia also contributed greatly to the Athenian economy.

But the most striking developments in fifth-century Athens took place in the cultural sphere.

Although Greek philosophy began in Ionia, it flourished in Athens. Because of her wealth, political power, and cultural refinement, she attracted the best minds from all over Greece. The Sophists, in particular, contributed much to the development of political theory, rhetoric, and logic and stimulated the thought of Athens’ native geniuses Socrates and Plato.

Athens is also renowned for her great architecture, a matter in which Pericles himself played a prominent role. Pericles enlisted Pheidias (480 – 430 BCE) to be the director of his building program, assisted by such skilled architects as Callicrates, Ictinus, Coroebus, and Metagenes. Among their projects were the Parthenon, the Temple of Athena, the adornment of the Acropolis, the Odeon, the Concert Hall, and the temples of Eleusis and Hephaistos.

When Pericles was attacked for his lavish use of public funds, he offered to pay for the construction work himself, if he could take all the glory. This did the trick. Even Pericles’ most zealous critics wished to share in his renown, so they insisted that he complete the buildings at public expense.

Pericles’ construction projects were remarkable not merely for their expense, but also for their artistry, craftsmanship, and good taste, which no other Greek states were able to match, least of all Sparta. In fact, C. M. Bowra wrote that the “remains of Sparta are so humble that it is hard to believe that this was the power which for many years challenged and finally conquered Athens” (Periclean Athens [Wiedenfeld and Nicolson, 1971], p. 180). But although Pericles’ construction program clearly was an “education” to the rest of Greece, it was no safeguard against eventual Spartan conquest.

What we call ancient Greek drama is better deemed ancient Athenian drama. The great tragedians Aeschylus, Sophocles, and Euripedes were Athenians, as were the comic playwrights Aristophanes and Menander. Sparta had its share of talented poets — among them Tyrtaeus during the mid-seventh century BCE — but they could not compete with the new trends being set in Athens. As Bury put it, when a stranger visited Sparta he must have experienced “a feeling of being transported into an age long past, when men were braver, better, and simpler, unspoiled by wealth, undeveloped by ideas” (p. 134).

The social status of women in Athens was far lower than it was in Sparta. Athenian women took no part in public life and were instructed solely in domestic arts. In his Funeral Oration, Pericles said that women should merely aim “to be least talked about by men, whether they are praising you or criticising you.” In Sparta, however, women were permitted to engage in gymnastic training and “enjoyed a freedom which was in marked contrast with the seclusion of women in other Greek states” (Bury, p. 133). So as far as respect for women was concerned, Athens could not really claim to have exported an policy worthy of emulation, although Ionia also shared the fundamental Athenian weakness of excluding women from education.

Religious and sporting festivals were much the same throughout Greece and, although it is always the Athenians who are remembered for their gods and sporting heroes, most other Greek states were equally advanced.

Thus when Pericles declared that Athens was “an education to Greece.” he was, on the whole, making an accurate observation. This is not to say that Athens was superior to Sparta in every respect, of course, and her democratic system left much to be desired.

Although other Greek states shared some Athenian political, social and economic principles, it remains the case that Athens gave birth to some of the finest Greek accomplishments. These accomplishments, moreover, provided key elements for the development of European art, architecture, drama, philosophy, rhetoric, and politics for 2500 years. Thus Athens continues to serve not only as an “education” for Greece, but for the world.


Troy Southgate is from Crystal Palace in South London and has been a Revolutionary Nationalist activist and writer for almost 25 years. He has also been involved with more than twenty music projects. He is a founder of National Anarchism and author of Tradition and Revolution (Aarhus, Denmark: Integral Tradition).

dimanche, 09 octobre 2011

Eléments nietzschéens pour une critique des biotechnologies

Eléments nietzschéens pour une critique des biotechnologies

http://www.granarolo.fr/textes

 

Philippe GRANAROLO

[ Article publié pour la première fois dans l’ouvrage collectif Génétique, biomédecine et société, sous la direction de Philippe Pedrot, Presses Universitaires de Grenoble, 2005]
 
 
La philosophie de Nietzsche contient, comme chacun sait, une thématique majeure : celle du dépassement de l’humain, auquel Zarathoustra nous exhorte sitôt redescendu de sa caverne. Un siècle et quelques décennies plus tard, ce dépassement est présenté par bon nombre de nos biologistes comme l’un des axes fondamentaux de leurs programmes de recherche, quand ce n’est pas comme l’un des principaux chantiers d’ores et déjà ouverts. Dans un ouvrage de vulgarisation largement commenté, le professeur Bernard Debré annonce comme inéluctable la prochaine apparition des types biologiques qui prendront la relève de l’ « homo sapiens » [1]. La parenté entre ces programmes et la pensée nietzschéenne semble évidente pour la plupart, même si tous les commentateurs ne partagent pas nécessairement les certitudes provocatrices d’un Peter Sloterdijk dont les « règles pour le parc humain » [2] ont suscité de très vives polémiques.
Il est certes incontestable que, sorties de leur contexte, d’innombrables maximes nietzschéennes semblent se prêter aisément à une reprise et à une adoption par les partisans de l’application à l’humain des biotechnologies. Au-delà des simples formules, Nietzsche et les biologistes du XXIème siècle ont en commun, nous ne saurions le dissimuler, un certain nombre de convictions que nous commencerons par mettre en évidence. Mais s’arrêter là, n’est-ce pas gommer scandaleusement toute l’entreprise généalogique de Frédéric Nietzsche ? N’est-ce pas, en particulier, accorder à la techno-science, aussi bien qu’aux institutions politiques chargées de mettre en œuvre ses programmes, une puissance créatrice que le philosophe leur a refusée ? Il nous faudra donc, dans un deuxième temps de notre exposé, mettre à jour les éléments qui interdisent, selon nous, de faire de Nietzsche le philosophe des biotechnologies. Ce serait néanmoins le trahir que de durcir cette opposition pour faire de lui un adversaire éternel et irréductible des transformations que rendent possibles les biotechnologies. Nous terminerons donc notre recherche en nous interrogeant à la fois sur ce que l’on nous autorisera à dénommer un « principe nietzschéen de précaution », et sur les conditions qui pourraient un jour rendre acceptables la naissance d’une « biurgie » [3] s’inscrivant dans la perspective de la surhumanité.
 
 
I) Nietzsche eugéniste ?
 
1) L’homme comme figure transitoire
            
      Le premier texte philosophique écrit par Nietzsche alors qu’il avait à peine dix-sept ans (Fatum et histoire) inscrit ses premières intuitions dans le cadre de ce qu’il convient de qualifier d’évolutionnisme, aussi ambigu que soit ce terme. Pour preuve ces quelques interrogations : « L’homme ne pourrait-il pas être seulement le développement de la pierre à travers le médium de la plante et de l’animal ? Aurions-nous alors déjà atteint ici la perfection, n’y aurait-il pas ici aussi une histoire ? Ce devenir éternel ne prend-il jamais fin ? » [4], interrogations qui ne le quitteront jamais plus. Vingt ans plus tard, son porte-parole Zarathoustra chantera l’au-delà de l’humain. Soixante ans après, le théoricien de l’eugénisme George Vacher de Lapouge s’exprimera en ces termes en 1921 lors du second congrès international d’eugénisme : « Américains, il dépend de vous, je l’affirme fortement, de sauver la civilisation et de faire de vous un peuple de demi-dieux ». Ce peuple de demi-dieux, dont les eugénistes du début du XXème siècle annoncent la venue, ne fait-il pas écho au rêve nietzschéen du Surhumain ? Comment ne pas classer Nietzsche dans la tribu des eugénistes dont la techno-science du XXIème siècle viendrait combler les vœux ?
 
2) La désacralisation de la nature
 
Un second thème nietzschéen s’inscrit dans la même perspective : celui de la désacralisation de la nature. Arrachée à tout providentialisme, livrée au jeu du hasard sans qu’aucune finalité ni qu’aucune téléologie ne mènent le bal, la nature conçue par Nietzsche, et au sein de cette nature, l’ensemble de la biosphère, semblent bien s’identifier à une simple matière première dont notre puissance créatrice va s’emparer. Lorsque Gilbert Hottois écrit : « L’humanité n’apparaît plus comme un donné à servir et à parfaire, mais comme une matière indéfiniment plastique » [5], ne reprend-il pas, jusque dans son vocabulaire, ces propos de Par-delà Bien et Mal : « L’homme est matière, fragment, superflu, glaise, fange, non-sens, chaos ; mais l’homme est aussi créateur, sculpteur, dur marteau, spectateur divin et repos du septième jour : comprenez-vous cette différence ? » [6]. Un autre aspect de cette désacralisation du vivant consiste à dénoncer le scandale que représente le décalage entre les soins mis par nos ancêtres à améliorer l’animal et l’anarchie qui règne sur la plan de la procréation humaine, le scandale de l’opposition frappante entre la passion des hommes pour l’amélioration des espèces animales et le désintérêt qu’ils portent au perfectionnement de l’espèce humaine. Libérée de l’emprise du divin par le déclin des croyances religieuses, la procréation humaine n’a pas pour autant suscité nos préoccupations. Il nous faut cependant remarquer que depuis les écrits de Cabanis au XVIIIème siècle, ce scandale n’a cessé d’être très régulièrement dénoncé dans le camp matérialiste, et qu’à l’époque de Nietzsche une telle dénonciation était d’une grande banalité. Tout comme était dans l’air du temps l’inquiétude d’une dégénérescence de l’espèce humaine, dont Herder, Gobineau, Vacher de Lapouge furent quelques-uns des plus célèbres pourfendeurs : Nietzsche, quand épisodiquement il fustige à son tour les dangers d’une possible dégénérescence de l’espèce humaine, exprime moins une pensée personnelle qu’il ne se fait l’écho de cette préoccupation alors extrêmement répandue.
 
3) L’âge des expériences
 
Quant aux textes prophétiques des années 1878-1881, ils sont nombreux à dresser le panorama d’une civilisation à venir en laquelle l’humanité acquérra la maîtrise de son devenir biologique, maîtrise fondée sur les acquis de la science. Nietzsche ne voit pas comment la maîtrise prévisible de la terre pourrait ne pas s’accompagner d’une exploitation scientifique de tous les moyens d’améliorer l’espèce humaine. La libération de l’esprit rendra peu à peu intolérables les hasards de la procréation, et il ne saurait faire de doute que, d’une manière ou d’une autre, l’humanité à venir voudra réguler cette loterie qui, depuis la nuit des temps, a dû multiplier à l’infini les numéros pour laisser apparaître quelques billets gagnants. S’il lui arrive de tenir sur ces questions des propos naïfs ou inquiétants, imaginant par exemple des transplantations de population destinées à éradiquer certaines maladies héréditaires [7], c’est tout simplement qu’à l’instar de ses contemporains, il sous-estime la puissance de la science et n’a pas la moindre intuition des possibilités manipulatoires que commence à nous apporter aujourd’hui une biologie devenue génie génétique.
 
 
 
Notons toutefois que s’il est possible de qualifier, au sens large, ces prophéties d’ « eugénistes », elles ne prennent jamais la forme d’une transformation planifiée et politiquement organisée. Qu’en particulier à aucun moment on ne saurait y repérer la moindre coloration raciste, le philosophe considérant même que cette application de la biologie à l’amélioration de l’humain contribuera puissamment à réduire « la vieille pleutrerie des races, des luttes raciales, des fièvres nationales » [8]. Nietzsche semble surtout intéressé par les progrès de la connaissance que rendront possibles ces expérimentations. Certaines de ses annonces sont d’une étonnante actualité. Je ne retiendrai ici que la suivante : « L’époque des expérimentations ! Les affirmations de Darwin sont à vérifier – par des expérimentations ! De même la naissance d’organismes supérieurs à partir des plus bas. Il faut inaugurer des expérimentations pour plusieurs millénaires ! Eduquer des singes pour en faire des hommes ! » [9]. Si nous avons qualifié ce type de textes de « prophétiques », c’est qu’il ne s’agit en effet de rien d’autre que d’annonces concernant les prochains siècles, de rien d’autre que de l’énonciation de ce qui résultera nécessairement des capacités que l’humanité est en train d’acquérir. « L’humanité peut d’ores et déjà faire absolument d’elle-même ce qu’elle veut », affirme avec la plus grande netteté en 1879 un aphorisme d’Opinions et sentences mêlées [10].
 
II) Eléments critiques
 
Enonciation de ce qui ne manquera pas de résulter de nos capacités, venons-nous de dire. Mais dans quelle direction seront-elles mises en œuvre ? « Libre pour quoi ? », se demande Zarathoustra [11], une fois qu’il a pris la mesure de ce dont l’homme s’est libéré. Laissons la parole à Pierre-André Taguieff, qui, préfaçant le récent ouvrage de Catherine Bachelard-Jobard, L’eugénisme, la science et le droit, que l’on peut considérer dès à présent comme un texte de référence, s’interroge en ces termes : « Que peut et que doit faire l’espèce humaine de ce pouvoir d’auto-transformation dont elle semble désormais dotée ? » [12]. Oublier la présence, dans l’œuvre nietzschéenne, des multiples interrogations préfigurant celle de Taguieff et de certains de nos contemporains, c’est mutiler scandaleusement la pensée nietzschéenne. C’est parce que Nietzsche est aussi prophète que ses commentateurs prennent trop souvent le factuel de la prévision pour une projection de la volonté.
 
1) L’antifinalisme nietzschéen
 
Au premier chef, ce qu’oublient ceux qui veulent trouver chez Nietzsche les plus anciens appels aux manipulations biologiques de l’humain, c’est la constante et rigoureuse dénonciation de tout finalisme d’un bout à l’autre de son œuvre. L’humanité, répète-t-il, n’a à ce jour aucun but au service duquel elle pourrait consacrer ses capacités transformatrices. On trouvera en particulier dans Aurore plusieurs aphorismes présentant le mixte caractéristique de l’époque qui s’ouvre, mélange de libération liée à la destruction des impératifs anciens et d’incapacité radicale d’une orientation téléologique. « C’est seulement si l’humanité avait un but universellement reconnu que l’on pourrait proposer : «il faut agir comme ceci ou comme cela ». Pour l’instant il n’existe aucun but de ce genre » [13]. Cette absence, si elle déstabilise, comme cela est généralement compris, toute prétention moralisante, contribue tout autant à interdire de supposer la présence chez notre philosophe d’un appel à mettre notre savoir au service d’une amélioration planifiée de l’espèce humaine.
 
Ce qui rendrait plus dérisoire encore un tel appel, c’est l’incapacité où nous sommes, selon Nietzsche, de prétendre à la possession d’un critère de perfection qui nous servirait d’étalon dans nos entreprises transformatrices. Les fragments non publiés abondent en paragraphes fustigeant la prétention philosophique à dessiner l’horizon vers lequel l’humanité chemine, que cette prétention prenne la forme de la philosophie hégélienne de l’histoire, ou celle, plus modeste en apparence, de la téléologie kantienne. Parmi ces fragments, ces quelques lignes de l’automne 1881 : « L’humanité n’a pas plus de but que n’en avaient les sauriens, mais elle a une évolution : c’est-à-dire que son terme n’a pas plus d’importance qu’un point quelconque de son parcours ! Par conséquent on ne saurait définir le bien en en faisant le moyen d’atteindre le « but de l’humanité ». Serait-ce ce qui prolongerait l’évolution le plus longtemps possible ? Ou ce qui la porterait à son point le plus haut ? Mais cela présupposerait derechef un critère pour mesurer ce point le plus haut ! Et pourquoi le plus longtemps possible ? Ou le minimum de déplaisir dans l’évolution ? C’est à cela qu’aujourd’hui tout aspire – mais cela signifie aussi l’évolution la moins puissante possible, un auto-affaiblissement général, un terne adieu à l’humanité antérieure, jusqu’au point limite où les animaux redeviennent nos maîtres ! » [14]. Tout aussi incapable de proposer un critère de perfection qu’à l’époque de Nietzsche, nos contemporains biologistes ne savent imaginer qu’une possible addition de propriétés nouvelles en guise de perfectionnement. Bernard Debré, déjà cité, envisage que l’on pourrait un jour « améliorer l’homme en lui greffant un gène de la vue de la chouette pour voir la nuit, ou de l’ouïe du dauphin pour percevoir des ultrasons » [15] ? Qu’il nous permette de lui recommander la lecture de Nietzsche qui l’a de loin précédé, en présentant la rencontre de son Zarathoustra avec une créature réduite à l’état d’oreille, mais d’une très performante oreille [16], préfiguration ironique de l’homme-dauphin du professeur Debré.
 
2) Science, Etat et uniformisation
 
Autre oubli, plus mutilant encore, celui de la mise en évidence par Nietzsche, en ses analyses les plus originales, du mouvement général de l’histoire comme mouvement uniformisant. Présentes dans l’œuvre publiée, ces analyses sont souvent plus radicales encore dans l’œuvre posthume. En 1878, Nietzsche écrit dans ses cahiers : « Le développement à peu près uniforme de la raison et du sentiment est le but de la civilisation […] C’est là que réside la signification de puissances mondiales comme l’Empire romain, le christianisme, avant tout la science […] L’histoire est le récit des moyens, des canalisations et des voies de communication menant peu à peu à l’uniformité » [17].
 
La science, visée ici, est inscrite pleinement, depuis son origine socratique repérée à l’époque de La naissance de la tragédie, dans cette dynamique standardisante, ce qui conduit fréquemment Nietzsche à la qualifier de « barbare » dans ses textes de jeunesse [18]. Nous sommes ici en présence de l’un des invariants les plus remarquables d’une philosophie trop souvent dénoncée comme contradictoire. Sitôt qu’il entrera en possession du concept de nihilisme, c’est ce concept qu’il utilisera pour diagnostiquer les forces dominantes qui s’expriment dans la science. Recourons, là encore, à l’œuvre non publiée ; en 1881 s’inscrit dans les cahiers de Nietzsche l’une des expressions les plus nettes de ce nihilisme de la science, même si le concept de nihilisme n’est pas encore dans les bagages du philosophe : « Une formidable cruauté a existé depuis le début de la vie organique, éliminant tout ce qui « ressentait » autrement – La science n’est peut-être qu’un prolongement de ce processus éliminatoire, elle est totalement inconcevable si elle ne reconnaît pas l’ « homme normal » en tant que la « mesure » suprême, à maintenir par tous les moyens » [19]. L’instinct qui anime la science moderne est l’aboutissement provisoire de l’instinct de normalisation qui a guidé pendant des millénaires l’humanité archaïque, et avant même l’apparition de l’homme la vie sous toutes ses formes. Au terme du parcours, terme probable même s’il n’est pas inéluctable, le « sable de l’humanité » [20] : c’est en effet par la métaphore du sable que le philosophe illustrera le plus souvent cette fin angoissante qu’il ne nous présente que pour nous exhorter à y échapper.
 
Un examen, qui ne pourra ici qu’être des plus sommaires dans le cadre de ce bref exposé, suffira à vérifier la pertinence du soupçon nietzschéen. Ainsi que nous l’avons déjà entrevu, la « perfection » que prétendent atteindre les biotechnologies renvoie nécessairement à un modèle. Dès à présent, les avortements thérapeutiques, les analyses prénatales, le diagnostic préimplantatoire, bref l’arsenal biologique qui ira grandissant, sont mis en œuvre au service d’un eugénisme négatif qui répugne à dire son nom. Quant à l’eugénisme positif encore timide, ses récentes manifestations nous indiquent clairement à partir de quels paramètres sera élaboré le modèle de la perfection recherchée. « Enfant parfait », « homme parfait », « santé parfaite » marquent bien, comme le signale entre autres Pierre-André Taguieff, « le retour de l’imaginaire eugéniste » [21]. Ces perfections, conçues comme éradication du mal, du négatif, de la souffrance, ne relèvent-elles pas de l’hôte nihiliste si inquiétant dont Nietzsche a le premier dessiné le visage ? Ainsi le diagnostic préimplantatoire multiplie de façon exponentielle, comme le fait remarquer Jacques Testard, l’exclusion d’enfants potentiels que permet le diagnostic prénatal. Un risque évident de normalisation se profile, car rien ne permet de dire où s’arrêtera la liste des éléments testés par ces diagnostics. Prétendre, comme le font certains, que nous ne serions nullement en présence d’un eugénisme, puisque les décisions relèvent de la responsabilité individuelle, c’est bien sûr « ignorer délibérément le poids énorme des conformismes, la pression sociale qui pousse chacun à se plier aux modèles en vigueur à un moment donné », ainsi que le remarque fort justement Jean-Claude Guillebaud [22]. Jugement renforcé par les pressions économiques allant dans la même direction. Les forces uniformisantes sont donc hypocritement ignorées de ces discours pseudo-libéraux renvoyant à la seule responsabilité individuelle. Or Nietzsche est par excellence le philosophe qui a consacré ses efforts à repérer et à mesurer ces forces. Lorsqu’elle se demande si « les possibilités actuelles […] ne risquent pas de mener progressivement vers la normalisation de l’individu, voire de l’espèce humaine » [23], Catherine Bachelard-Jobard nous semble bien timide. Ce risque de normalisation n’a rien d’un possible, il relève de la logique même de la science. Nietzsche nous a aidés à comprendre que ce mouvement a toujours été présent dans l’histoire, et nous pouvons nous appuyer sur ses analyses pour percevoir que la techno-science n’est rien d’autre qu’un nouvel instrument au service de l’uniformisation. Ce qui pourrait faire de cet instrument un outil plus puissant que ses prédécesseurs, ce n’est peut-être rien d’autre que la domination peu à peu sans partage des forces réactives.
 
Que le diagnostic à la fois informé et prudent de Catherine Bachelard-Jobard ne lui interdise pas d’évoquer une « marche vers la normalisation », un « courant d’hypernormativité ambiante », confirme notre soupçon à propos de la direction que prennent et que prendront plus encore demain les applications à l’homme des biotechnologies. Peut-on se contenter de la conclusion interrogative de l’ouvrage L’eugénisme, la science et le droit : « Il reste à savoir si les parents peuvent encore choisir de mettre au monde un enfant différent et si l’on ne se dirige pas vers un monde d’enfants parfaits. Les barrières posées par le législateur sont-elles suffisantes ? A cette question, seul l’avenir répondra »  [24] ? Venons-en en effet au travail du législateur. Ne peut-on pas reprocher une certaine naïveté à François Dagognet qui ne prend guère le temps, aussi fouillée et pertinente que soit son approche de ces questions, d’interroger sérieusement la capacité de la puissance politique à conduire la maîtrise du vivant ? Affirmer ex abrupto que « seul l’Etat et son administration peuvent mettre en application ce qui aura été jugé « le meilleur » [25], n’est-ce pas asseoir sur un postulat des plus contestables la rationalité de cette maîtrise ? Sans aller nécessairement jusqu’à considérer à la manière de Nietzsche la classe politique des démocraties modernes comme « un ensemble d’individus avisés de type grégaire » [26], lui prêter sans précautions la capacité de conduire ce que Dagognet nomme avec bonheur la « biurgie » des temps à venir nous semble fort contestable.
 
3) L’égypticisme des biotechnologies
 
Une dernière dominante de la philosophie nietzschéenne est gommée par ceux qui tentent de le récupérer au service des manipulations de l’humain : il s’agit de la conception de la temporalité, centrale dans sa pensée. Défini comme « péché originel des philosophes » [27], le manque de sens historique caractérise en fait la totalité de l’idéologie moderne. Nietzsche est par excellence le penseur qui ne cesse d’insister sur le lien qui nous unit inconsciemment au passé immémorial de nos ancêtres, et au-delà des humains qui nous ont précédés, de la totalité de l’aventure de la vie terrestre. Il s’exprime souvent à la première personne pour indiquer à quel point la saisie de ce lien définit une part essentielle de sa pensée, ainsi qu’il le fait dans le paragraphe 54 du Gai Savoir, texte majeur en lequel nous trouvons ces mots : « J’ai découvert pour ma part que la vieille humaine animalité, voire la totalité des temps originels et du passé de tout être sensible continuaient en moi à poétiser, à aimer, à haïr, à construire des déductions … ». Lorsque A. Giudicelli, après avoir rappelé que la vie terrestre a des milliards d’années, que la vie de l’espèce humaine au moins trois millions d’années, se demande « ce qui qualifierait notre génération ou la suivante à transformer notre espèce », il ouvre un chemin interrogatif déjà remarquablement balisé par la méditation nietzschéenne.
 
Toujours en ce qui concerne la temporalité, en notant que « l’idée eugénique s’intègre dans le projet platonicien de la Cité idéale » [28], Catherine Bachelard-Jobard pointe à juste titre la haine du devenir qui anime tout eugénisme. Ce que le Crépuscule des Idoles nomme avec subtilité l’ « égypticisme » du platonisme et à sa suite de toute la philosophie occidentale,  est-il absent des fantasmes de nos biologistes ? Tout nous amène à le nier. Dans « le rêve d’éradiquer définitivement de l’humanité toute malformation congénitale » se manifeste à n’en pas douter un égypticisme scientifique qui, prétendant éliminer le hasard, tend à éliminer par là même la temporalité différenciante de la procréation. Quand elle remarque à ce propos qu’ « à chaque génération, des accidents modifient gènes et chromosomes» et que ces accidents rendent dérisoire ce rêve [29], Catherine Bachelard-Jobard soulève deux séries de questions. D’une part, elle soupçonne à juste titre les biotechnologies d’avoir pour fin d’immobiliser le devenir, d’autre part elle pronostique l’échec inévitable de ce projet. Sur ce second point, elle semble oublier que la combinaison probable de la thérapie germinale et du diagnostic préimplantatoire, dont elle repère séparément les risques, pourrait un jour prochain permettre sinon d’atteindre ce but, du moins de s’en rapprocher. Or le risque d’une immobilisation de l’humanité est très présent dans les écrits nietzschéens : ce qui différencie le plus nettement l’homme de l’animal est pour le philosophe le fait que l’homme est l’animal non encore fixé, qu’il est essentiellement promesse. Le mouvement de la civilisation, couronné par la puissance de la science, pourrait ravaler l’homme au rang de l’animal. « Je doute que cet homme durable », écrit-il par exemple, « que produirait finalement l’utilitarisme de la sélection de l’espèce, parvienne à un niveau beaucoup plus élevé que le Chinois […] le but est de rendre l’homme aussi régulier que cela s’est produit pour la plupart des espèces animales » [30]. Sous les promesses séduisantes des biologistes, n’est-ce pas le « dernier homme » et son clin d’œil qui se dessine en filigrane ?
 
III) Les conditions d’une rencontre
 
1) Un principe nietzschéen de précaution
 
Un abîme sépare à l’heure actuelle les annonces un peu terrifiantes de certains scientifiques, tel Bernard Debré, et la prudence de la plupart des philosophes et des juristes. La thérapie germinale rencontre de très fortes résistances, et un vaste consensus s’accorde avec l’interdit énoncé par exemple par Noëlle Lenoir qui affirme catégoriquement qu’ « on n’a pas le droit de prendre le risque, fût-ce pour des motifs thérapeutiques, de modifier l’homme, valeur inestimable en soi, voire de transformer le genre humain » [31]. Cet interdit, dont Jean-Claude Guillebaud a esquissé la légitimation dans son livre Le principe d’humanité [32], est-il acceptable d’un point de vue nietzschéen ? La réponse est oui, même si la connivence qui en résulte entre un humanisme à fondement religieux et l’iconoclaste philosophe du soupçon pourrait au départ nous inquiéter. Ce n’est pas, bien sûr, parce que le type atteint aléatoirement par l’homme serait intouchable et revêtu d’une quelconque sacralité, qu’on s’appropriera l’interdit énoncé. Rien d’immuable, et pas la moindre origine transcendante, dans l’humain tel que le devenir de la vie terrestre en a à ce jour dessiné les contours. Nous allons y revenir. Mais prendre le risque de modifications irréversibles en un moment historique où « toutes les formes d’originalité ont pris mauvaise conscience », modifier le patrimoine génétique de l’espèce à l’heure où « l’horizon des meilleurs est devenu encore plus sombre » [33], c’est prendre le risque insensé d’assurer au nihilisme un triomphe définitif. Si Nietzsche ne s’est pas trompé en considérant que nous sommes entrés dans le nihilisme pour les trois ou quatre siècles à venir, on peut sans scrupule se réclamer de sa pensée pour redonner aux hommes de notre temps le sens du temps biologique et cosmique, et tenter de les arracher à une précipitation que le philosophe n’a cessé de dénoncer d’un bout à l’autre de son œuvre. « Tenir en réserve », comme le préconise François Dagognet, « les essences qu’on a momentanément écartées » [34], est une précaution élémentaire, une précaution qu’il va falloir imposer à la biologie. Mais concernant l’homme, une telle « réserve » ne saurait suffire. Ajouter à notre Déclaration des droits de l’homme, comme le suggère le professeur Jean Dausset, un article qui proclamerait les droits de l’homme face aux manipulations génétiques, pourrait être, sans bien sûr s’illusionner sur la force du Droit, une manifestation nette de ce principe nietzschéen de précaution.
 
2) Une biurgie au service de la différence
 
« Parce que de cimes elle a besoin, elle a besoin de degrés et de contradiction entre les degrés et ceux qui les gravissent » [35] : ce propos de Zarathoustra, parmi bien d’autres, exprime la conception différentialiste du vivant qui caractérise la pensée de Nietzsche. Une standardisation accomplie au nom de la perfection immobiliserait un jeu dont nous ne constituons qu’une étape sans doute éphémère. Il est certainement plus conforme à la vision nietzschéenne de revendiquer un droit à la différence qui pourrait prendre par exemple la forme du « droit à la maladie » , que d’accompagner le génie génétique dans son rêve d’une « santé parfaite », utopie dénoncée il y a quelques années par L. Sfez [36]. Si la « biurgie », troisième âge de la biologie selon François Dagognet, prolonge l’enrichissement des formes que le philosophe croit inscrit dans la logique du vivant, s’il ne s’agit que d’une maîtrise palliant les échecs de la vie dans « sa recherche de la maximalité et de l’ampleur », si effectivement la techno-science se contente de prolonger la « polyphénoménalité sans frein » de la nature et de « favoriser son déploiement » [37], on ne voit pas au nom de quel principe une philosophie se réclamant de Nietzsche pourrait s’opposer à cette « biurgie ». Rien n’interdit même de laisser à nos spécialistes en biurgie l’initiative de produire un jour à partir de la souche humaine de nouvelles espèces. Quand Tristram H. Engelhardt, cité par Gilbert Hottois, écrit ces lignes : « A long terme […] il n’y a pas de raison de penser qu’une seule espèce sortira de la nôtre. Il pourrait y avoir autant d’espèces qu’il y aura d’opportunités invitant à remodeler substantiellement la nature humaine … » [38], nous ne saurions trouver dans le corpus nietzschéen un élément d’opposition radicale à un tel projet. A condition toutefois d’accentuer les premiers mots de la phrase : « à long terme », en effet, et en fonction d’un projet qu’aujourd’hui la techno-science est totalement incapable de construire. Faute de ce but, elle ne pourrait qu’investir ses instruments dans un programme uniformisant gelant peut-être définitivement l’aventure de la vie terrestre.
 
3) Une place pour le chaos
 
Que l’évolution biologique ait laissé émerger des formes nouvelles aboutissant, de mutations en mutations, à ce terme provisoire qu’est l’homme, il serait aussi vain qu’aberrant de le nier. Mais que ces émergences expriment la logique du vivant, comme le répète François Dagognet, c’est beaucoup plus contestable. Pour Nietzsche, lointain ancêtre de Jacques Monod, la logique de la vie est une logique répétitive et uniformisante, dont on peut simplement constater qu’elle a laissé, à travers ses failles, émerger de nouvelles formes. De même la sélection darwinienne est moins lutte pour la prééminence que pression uniformisante exercée sur tous les membres d’une espèce. Nietzsche est sur ce plan profondément antidarwinien : la lutte, nous dit-il, « se termine au détriment des forts, des privilégiés, des heureuses exceptions ! Ce n’est pas en perfection que croissent les espèces. Les faibles l’emportent de plus en plus sur les forts » [39]. Le darwinisme est pour le philosophe un avatar de l’hégélianisme, un providentialisme habillé aux couleurs du discours objectif.
 
Même si François Dagognet tient des propos différentialistes qui ont pu apparaître nietzschéens à certains de ses lecteurs, son différentialisme ne rejoint que dans ses conclusions le nietzschéisme, à partir de prémisses qui sont aux antipodes de la conception nietzschéenne de la vie. Les textes de Nietzsche qui exigent le plus grand effort de lecture sont ceux dans lesquels il met en évidence le caractère aléatoire de l’apparition de la supériorité. Quand L’Antéchrist, résumant d’innombrables formules des cahiers non publiés, affirme que la question fondamentale est celle de savoir « quel type d’homme il faut élever, il faut vouloir … », pour conclure que « ce type d’homme d’une valeur supérieure s’est déjà bien souvent présenté, mais à titre de hasard heureux, à titre d’exception, jamais parce que voulu » [40], une lecture au premier degré repère dans ce genre de formules un appel évident à la maîtrise et à la prise en mains par l’humanité de son devenir biologique. Faut-il approuver une telle lecture ? Nous ne le pensons pas. D’une part ce serait négliger totalement le soupçon nietzschéen à l’égard de la volonté, dont le Crépuscule des idoles rappelle qu’elle n’est « qu’un mot » [41]. D’autre part et surtout, ce serait prêter naïvement à l’homme un pouvoir créateur dont toute l’histoire des civilisations démontre la faiblesse. Si l’exception a surgi au sein d’une histoire dominée par les forces uniformisantes, c’est malgré la volonté des hommes. Par-delà Bien et Mal l’affirme avec une particulière netteté : « Les hommes ordinaires […] ont été et sont toujours avantagés ; l’élite, les plus raffinés, les plus singuliers, les plus difficiles à comprendre demeurent souvent seuls, succombent aux accidents du fait de leur isolement et se perpétuent rarement. Il faut une prodigieuse force adverse pour contrecarrer ce naturel, trop naturel progressus in simile qui cantonne l’existence humaine dans le semblable, l’ordinaire, le médiocre, le grégaire, - le commun » [42]. Les appels à vouloir un type supérieur d’humanité doivent donc être entendus très modestement comme une exhortation à ne pas capituler sans condition devant la logique de la vie et de la civilisation, comme un encouragement à veiller à sauvegarder, dans la trame de la nécessité, les déchirures chaotiques d’où naissent périodiquement les étoiles dansantes.
 
 
Conclusion
 
Partons, pour conclure, de cette formule de Maurice Bellet, affirmant que « l’humain de l’humain n’est pas évident, c’est une formidable et improbable émergence au sein de l’univers » [43], formule que Nietzsche aurait faite sienne. Et remplaçons le mot « humain » par le mot « surhumain ». Face à une conception figée de l’homme, et aux pièges d’une philosophie occidentale enfermée dans l’égypticisme platonicien, Nietzsche prêche pour le Surhumain. Mais le Surhumain ne saurait résulter d’un programme de fabrication confiée à une techno-science essentiellement animée par les forces uniformisantes. Le Surhumain résultera, s’il doit un jour advenir comme ont pu émerger tous les vivants qui l’ont précédé, d’un jeu que nul ne peut prétendre maîtriser, d’un jeu issu du chaos, d’une petite part non encore stabilisée tapie au cœur de nos cellules, « dernier petit fragment  du monde où quelque chose de nouveau se combine » [44].
 
Que les biotechnologies tiennent une place, encore difficile à évaluer, dans l’ensemble des conditions d’émergence de la surhumanité, cela ne semble guère douteux. Mais confier à la techno-science du XXIème  siècle le soin de programmer la construction de l’homme supérieur, c’est franchir un pas dont tout nous porte à croire qu’il contredirait les options les plus essentielles de la pensée nietzschéenne. Il nous faut accepter, même si cela s’oppose à nos naïves illusions de maîtrise, que nous vivons un âge expérimental et que les échafaudages que nous construisons sont comme en attente d’un édifice que nul ne peut voir aujourd’hui. Nietzsche a préféré à cette image architecturale une métaphore botanique, celle que  Le voyageur et son ombre nous offre en 1879  : « On n’a pas le droit de juger trop sévèrement les ouvriers du présent s’ils décrètent à grand bruit que le mur et l’espalier sont à eux seuls la fin et le but dernier ; c’est qu’en effet personne ne voit encore le jardinier et les arbres fruitiers pour lesquels l’espalier est là » [45]. Les prochaines générations auront-elles la force que suppose une telle modestie ?
 
  
 
NOTES

 

 

[1]  Bernard DEBRE, La grande transgression, Paris, Michel Lafon, 2000.
[2]  Peter SLOTERDIJK, Règles pour le parc humain, tr. fr. Olivier Mannoni, Paris, Mille et une
        nuits, 2000.
[3]  Terme que j’emprunte à François DAGOGNET auquel je me réfère un peu plus loin. Voir en
        particulier  La maîtrise du vivant, Paris, Hachette, 1988.
[4]   Fatum et histoire, in Ecrits autobiographiques 1858-1869 , tr. fr. Marc Marcuzzi, Paris, P.U.F.,
        1994, p. 191.
[5]  Gilbert HOTTOIS, « Ethique et technoscience : entre humanisme et évolutionnisme »,
        in Science et éthique, Bruxelles, Editions de l’Université de Bruxelles, 1987.
[6]  Par-delà Bien et Mal, § 225, O.C. de Nietzsche, tome VII, Paris, Gallimard, 1971, p. 144.
[7]   Cf. Le voyageur et son ombre, § 188, O.C. de Nietzsche, tome III, volume 2, Paris, Gallimard,
       1968,  p. 236-237.
[8]   Fragment posthume, Printemps-automne 1881, f.p. 11 [276], O.C. de Nietzsche, tome V, Paris,
       Gallimard, 1982, p. 414.
[9]    F.P. 11 [177], ibidem, p. 376.
[10] Opinions et sentences mêlées, § 179, O.C. de Nietzsche, tome III, volume 2, op. cit., p. 84.
[11] Ainsi parlait Zarathoustra, première partie, « De la voie du créateur », O.C. de Nietzsche,
        tome VI, Paris, Gallimard, 1971, p. 76.
[12] Catherine BACHELARD-JOBARD, L’eugénisme, la science et le droit, Paris, P.U.F., 2001,
         p. XIII.
[13] Aurore, § 108, O.C. de Nietzsche, tome IV, Paris, Gallimard, 1970, p. 87.
[14] Fragment posthume, automne 1880, f.p. 6 [59], O.C. de Nietzsche, ibidem, p. 488.
[15] Bernard DEBRE, La grande transgression, op. cit., p. 122.
[16] Ainsi parlait Zarathoustra, seconde partie, « De la rédemption », op. cit., p. 159.
[17] Fragment posthume, automne 1878, f.p. 32 [24], O.C. de Nietzsche, tome III, volume 2,
        op. cit., p. 378-379.
[18] Par exemple dans les deux premières Considérations inactuelles ou dans Le livre du
        philosophe.
 
[19] Fragment posthume, Printemps-automne 1881, f. p. 11 [252], O.C. de Nietzche, tome V,
        op. cit., p. 404.
[20] Entre autres occurrences, fragment posthume printemps 1880, f. p. 3 [98], O.C. de Nietzsche,
        tome IV, op. cit., p. 356.
[21] L’eugénisme, la science et le droit, préface, op. cit., p. IX.
[22] Jean-Claude Guillebaud,  Le principe d’humanité, Paris, Seuil, 2001, p. 257.
[23] L’eugénisme, la science et le droit, op. cit., p. 4.
[24] Ibidem, p. 304.
[25] François DAGOGNET, La maîtrise du vivant, op cit., p. 10.
[26] Par-delà Bien et Mal, § 199, op. cit., p. 111.
[27] Humain trop humain, § 2, O.C. de Nietzsche, tome III, volume 1, Paris, Gallimard, 1968, p. 24.
[28] L’eugénisme, la science et le droit, op. cit., p. 15.
[29] Ibidem, p. 120.
[30] Fragment posthume, Printemps-automne 1881, f. p. 11 [44], O.C. de Nietzsche, tome V,
        op. cit., p. 329.
[31] Cité par Catherine BACHELARD-JOBARD, L’eugénisme, la science et le droit, op. cit., p. 119.
[32] Jean-Claude GUIILLEBAUD, Le principe d’humanité, op. cit.
[33Aurore, § 9, O.C. de Nietzsche, tome IV, op. cit., p. 25.
[34] François DAGOGNET, La maîtrise du vivant, op cit., p. 193.
[35] Ainsi parlait Zarathoustra, seconde partie, « Des tarentules », op. cit., p. 118.
[36] Lucien SFEZ, La santé parfaite, critique d’une nouvelle utopie, Paris, Seuil, 1995.
[37] François DAGOGNET, La maîtrise du vivant, op cit., p. 69, p. 145, etc.
[38] Cité par Gilbert HOTTOIS, Essais de philosophie bioéthique et biopolitique, Paris, Vrin,
        1999.
[39Crépuscule des Idoles, « Divagations d’un inactuel », § 14, O.C. de Nietzsche, tome VIII,
        volume 1,
        Paris, Gallimard, 1974, p. 116.
[40] Antéchrist, § 3, O.C. de Nietzsche, tome VIII, volume 1, ibidem, p. 162.
[41] Crépuscule des Idoles, « La « raison » dans la philosophie », § 5, O.C. de Nietzsche,
        tome VIII, volume 1, ibidem, p. 78.
[42] Par-delà Bien et Mal, § 268, op. cit., p. 194.
[43] Maurice Bellet, revue « Etudes », décembre 2000.
[44] Fragment posthume, Printemps-automne 1881, f. p. 11 [121], O.C. de Nietzsche, tome V,
        op. cit., p. 354.
[45] Le voyageur et son ombre, § 275, O.C. de Nietzsche, tome III, volume 2, op. cit., p. 269.

 

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samedi, 08 octobre 2011

Sobre el continente/incontinente o el hombre común

Sobre el continente/incontinente o el hombre común

 Alberto Buela (*)

A los estudiosos de Aristóteles en lengua castellana     

En la medida en que pasan los años y uno va leyendo y releyendo, aprendiendo y enseñando,  los textos correspondientes a  la filosofía práctica de Aristóteles: Protréptico, Ética eudemia, Ética nicomaquea, Gran ética y Sobre las virtudes y los vicios, más vamos llegando al convencimiento de que el realismo del Estagirita está asentado sobre lo verosímil, lo contingente y lo voluble del obrar humano.

El realismo contundente de su Metafísica con la primacía de to on h on, se transforma en los escritos sobre el obrar en un realismo amable, sutil, dúctil que invita a su realización. Principios como: “no hay que buscar la exactitud de la misma manera en todo, sino que en cada caso lo que la materia admite” (1098ª 26) y “no investigamos para saber qué es la virtud sino para hacernos buenos” (1103b 27) muestran la vigencia perenne del realismo antropológico frente al cual han fracasado todas las ideologías modernas y postmodernas.

Muchas veces nos hemos preguntado por el por qué en la Nicomaquea Aristóteles pasa luego de estudiar la felicidad, la naturaleza de la virtud, los actos voluntarios y sus contrarios, las virtudes éticas e intelectuales y la justicia, a estudiar la continencia (egkráteia) y su contrario, la incontinencia (akrasía). Cuando él podía haber seguido, naturalmente, estudiando las consecuencias de la virtud como la amistad y la felicidad.

Sin embargo, se detiene en lo humano, “demasiado humano”, hablando como Nietzsche, de la continencia/incontinencia.

Y pasa lo mismo en la Ética eudemia  cuando termina el libro II hablando de lo voluntario y de lo involuntario. Y lo mismo en la Magna Moralia cuando en el último libro luego de la equidad empieza a hablar de la continencia/incontinencia.

Es decir, hay en Aristóteles una tendencia natural a hablar de lo que sucede al hombre común, al hombre de a pie, en orden al obrar humano diario, antes de llegar a los frutos o consecuencias  de la virtud, como son la amistad y la felicidad.

En primer lugar hay que señalar que la teoría de la continencia/incontinencia=Egkrateia/ Akrasia, funda la doctrina de la responsabilidad moral de todo hombre respecto de su obrar. Si entendemos por continencia o continente aquel que sabe qué es lo correcto y tiene la tendencia de hacer lo contrario, pero finalmente termina gracias a la razón forzando al deseo. Es por eso que la continencia no es una virtud como la templanza sino “una especie de mezcla” (1128 b 34). Una semi virtud, que se da en la mayoría (hoi polloi) de los hombres. Esa mezcla de Museta y de Mimi como dice el tango, ese ser “mistongo” que es el hombre, ni tan dios ni tan bestia. Por eso inmediatamente trata de la theriótes=bestialitas y de su contrario, la virtud heroica y divina=théios (1145ª 20).

Si la continencia no llega a ser una virtud como la templanza (el templado no recibe las  solicitaciones de los deseos que recibe el continente), por la misma razón la incontinencia no llega a ser un vicio, sino que ambos, continente e incontinente, “representan estados intermedios y conflictivos en el campo de la moralidad humana” [1].

Esta batalla que se libra en el interior del hombre entre lo que desea y lo correcto, entre lo bueno que le cuesta y la tendencia a realizar lo menos trabajoso. Este dominio político, siempre laborioso y no despótico, de la razón sobre los deseos y apetitos: esto es el hombre común (hoi polloi) y lo que es estudiado a través de la continencia/incontinencia.

El incontinente actúa porque desea no porque elija, el continente, por el contrario, actúa porque elije, no porque desea. Existe una diferencia sutil entre el continente (egkartos) y el moderado (sophrón) y es que en este último los deseos están en concordancia con la razón y entonces no los padece como el continente

El incontinente al obrar a sabiendas mal por causa y dominio de su pasión, pues no la puede dominar por la razón, ejerce su libertad: mal, pero la ejerce. El continente, por el contrario, domina las solicitaciones de su pasión (epithymía) a través de su razón. Pero, unos y otros son el hombre, por lo tanto, estamos obligados a inculcar el ejercicio de la virtud o excelencia en todo hacer y en todo obrar. Hay que actuar y hay que obrar bien, esto es, en forma perfecta y acabada, de acuerdo a la materia sobre la que se actúa y según la recta razón (orthos lógos).

Contrariamente a lo que opinaba nuestro Sarmiento “las cosas hay que hacerlas, mal o bien, pero hacerlas”, Aristóteles nos viene a enseñar que las cosas hay que hacerlas bien, en forma acabada y perfecta, porque es la única manera en que la acción se aquieta, en que la acción descansa.

Este desgarramiento en el interior del hombre, esta tensión permanente entre “lo que veo como mejor y lo apruebo, pero sigo lo peor”  como lo vio el poeta latino Ovidio, pinta al hombre real de carne y hueso con todas sus limitaciones.

Es el concepto de continencia/incontinencia el que lleva obligatoriamente a Aristóteles a rechazar la tesis de Sócrates y Platón, de que el mal se realiza por ignorancia y en forma involuntaria. Porque él lo ha sabido extraer de la realidad de la vida misma, del obrar histórico situado de la Grecia de su tiempo. Contra la tesis socrato-platónica va a levantar su propuesta: que está en el dominio del hombre el ser malo o bueno y ahí aparece la concupiscencia para mostrarnos que gracias a ella el acto se hace voluntario antes que involuntario.

De modo que el incontinente sabe que actúa mal pero lo hace por carecer del dominio de sus pasiones o deseos, y por el hecho de saber, podemos además afirmar que la incontinencia no es un vicio pues el vicioso, en general, no tiene conciencia de su vicio.

La incontinencia se relaciona más con los placeres del tacto y el gusto como los sexuales y los de la comida y bebida.

 

El estudio de la continencia/incontinencia, si bien recorre toda la ética aristotélica, encuentra su tratamiento específico en el libro VII de la Ética nicomaquea y allí comienza afirmando que existen tres formas de conductas morales o tipos de caracteres (perí ta éthe)  que hay que evitar: el vicio o maldad (kakía), la incontinencia y la bestialidad o brutalidad (theriótes) a las que contrapone tres formas contrarias: la virtud, la continencia y la virtud sobrehumana, heroica y divina.

Ello lo hace para ubicar el marco de la discusión que está por iniciar sobre la continencia/incontinencia, en medio de dos extremos a rechazar: la maldad y la bestialidad y de dos extremos a seguir: la virtud y la heroicidad cuasi divina como la de Héctor que  “No parecía ser hijo de un hombre mortal, sino de un dios”.. Pero como es muy raro encontrar tanto un varón divino como un hombre bestial, se va a ocupar de lo que se presenta en la mayoría de los casos: el hombre común.

Lo primero que hace es vincular la continencia con  la perseverancia (kartería) y la incontinencia con la flaqueza (malakía) y la molicie (tryphé), una especie de debilidad frente a las dificultades. Mientras que el que huye del trabajo es, propiamente, el haragán.

¿Para qué ha de beber agua el que está atragantado con agua? (1146 a 33). Que es como decir: ¿cómo se podría convencer al incontinente de lo que es correcto si ya lo sabe?. La conclusión es que: “el agua buena de la persuasión no lo ayuda, sino que lo sofoca, afirma de Aquino en su Comentario 1325, in fine.

Entonces, ¿es el incontinente incorregible?. Esta es la cuestión principal que intenta resolver a lo largo de la primera mitad del libro VII.

La continencia y la incontinencia se aplican a los mismos objetos que el desenfreno o intemperancia y la templanza o moderación, pero la diferencia estriba en que el incontinente actúa sin elección deliberada persiguiendo los placeres necesarios (los que se refieren al cuerpo y atañen a la alimentación y el comercio sexual) mientras que el desenfrenado o intemperante actúa por elección. Tanto a las conductas bestiales, básicamente antinaturales, como al que actúa en  estado enfermo no se les puede aplicar el término de incontinentes, pues están, en cierta medida, más allá de lo humano. Pero la bestialidad es un mal menor que el vicio o la maldad porque en el hombre vicioso hay una corrupción del principio superior que es el intelecto (nous) de ahí que: “el hombre malo puede hacer diez mil veces más mal que la bestia o el hombre bestial” (1150 b 8) porque su “entendimiento torcido”, para hablar como Jaime Balmes, puede concebir muchas y diversas maldades.

Llega así al capítulo VII donde fija límite de la terapéutica de la virtud: “el incapaz de arrepentirse es incurable” (1150 b 22) y ése es el intemperante, desenfrenado o licencioso, cuya actitud es continua, mientras que el incontinente es curable porque puede arrepentirse dado que su malicia no es continua sino intermitente. Siguiendo con esta terapéutica vemos como de las dos especies de incontinencia la que es más fácil de curar es la de los incontinentes por temperamento excitable y no la de aquellos que deliberan bien pero no perseveran en ello. Además son más curables los incontinentes por costumbre que por naturaleza, porque es más fácil cambiar la costumbre que la naturaleza.

Esto empuja a Aristóteles a enunciar el principio de su teoría de la acción según el cual “el principio en las acciones es el fin por el cual se obra o dicho de otra manera, en las acciones la causa final es el principio”. Y los principios del obrar no se muestran por el razonamiento sino por medio del hábito de la virtud, natural o adquirida por la costumbre, alcanzando así el hombre, el recto sentido al obrar. “El principio-en el obrar- es el hecho (to hoti) y si este se pone suficientemente de manifiesto, no habrá necesidad de estudiar la causa (to dióti)” (1095 b 7-8). Así, los principios del obrar, que se caracteriza por ser una experiencia (empeiría) guiada por la costumbre, son conocidos por la virtud en los hechos mismos y no por el razonamiento.

De difícil arrepentimiento son los obstinados, pertinaces o testarudos que se mantienen en su opinión propia contra viento y marea, son de difícil convivencia con los demás y se asimilan más a los incontinentes que a los continentes. A su vez la diferencia de estos con los moderados es que los continentes padecen malos apetitos y los templados no. El continente se deleita más allá de la razón pero el moderado no. Pero ninguno de los dos es conducido por la pasión.

Termina acá el estudio de la continencia/incontinencia y pasa a partir del capítulo XI hasta el final del libro VII a ocuparse del tema del placer o deleite y del dolor o tristeza. Tema que retomará en los cinco primeros capítulos del libro X y último de la EN.

 

Conclusión

 

La Ética nicomaquea  puede interpretarse como una teoría de los tipos de caracteres que se expresan a través de una ética de las virtudes, cuya finalidad no es conocer o saber sino hacernos buenos, creando en nosotros hábitos de carácter para que podamos realizar acciones buenas.

De modo tal que es una falsedad, es un sofisma de eruditos al ñudo, pretender distinguir en la EN una teoría de la acción por un lado y una teoría de los caracteres por otro. Los eruditos, aquellos especialistas de lo mínimo, de lo cual los comentaristas ingleses de la EN son especialistas, no pueden ver el todo. Tiene una ceguera axiológica para ello. Y Platón se encarga de decirles que no son filósofos pues: “dialéctico es el que ve el todo, y el que no, no lo es ”(Rep. 537 c 10-15).

Ver el todo en el tema de la continencia/incontinencia es ver al hombre como un ser deficiente, un ser no del todo completo, un ser a completarse. Como dice la chacarera “el hombre es el único animal que se tropieza dos veces con la misma piedra”. La incontinencia no es “una debilidad moral” como afirman los eruditos ingleses (G. Lloyd, y compañía), la incontinencia es una instancia en el despliegue y desarrollo moral de todo hombre. Salvo casos excepcionales como la de los hombres bestiales o los poseedores de la virtud sobrehumana o divina.

Cuando al principio de esta exposición trajimos a cuenta el apotegma de Ovidio en Metamorfosis, VII, 8 21 “video meliora proboque deteriora sequor” quisimos mostrar todo el realismo que el derecho romano le debe a Aristóteles y al mismo tiempo recuperar para nosotros, hombres del siglo XXI, la vigencia de un pensamiento perenne por realista y por verdadero.

De qué nos sirve a nosotros, de qué le sirve a la filosofía que nos atiborremos de citas y de citaciones eruditas sobre mínimos detalles (p.ej.: si el incontinente no usa la premisa menor en el silogismo práctico, H.H. Joachim. Rackham et allii dixint )[2]. ¿ Llegará un día en que la filosofía pueda leer como un todo los temas y problemas de la ética?. No sabemos. El búho de Minerva sale a volar al atardecer, cuando ya ocurrió lo que tenía que ocurrir, pero lo cierto es que para nosotros es una realidad de vida la filosofía y sobre todo la ética, que nos ha permitido ser mejores de lo que naturalmente éramos. De modo que encaramos los estudios clásicos bajo dos premisas: como una respuesta siempre actual a los problemas del presente y tratando que se venga abajo el andamiaje de la erudición para que aflore aquello que es cultura de verdad.

 

 

 

(*) alberto.buela@gmail.com

arkegueta, eterno comenzante, mejor que filósofo

www.disenso.org

UTN (universidad tecnológica nacional)



[1]Gómez Robledo, Antonio: Introducción a la Ética eudemia, Unam, México, 1994, p. XIX.

[2] Además en el texto esto se presenta como obvio, lo que agrega estulticia a los eruditos al ñudo, pues Aristóteles afirma explícitamente: “Nada impide que alguien aún cuando posea ambas (la premisa universal y la particular) actúe en contra de su ciencia si utiliza la universal y no la particular, pues las acciones posibles son las particulares”(1147 a 1-3). Y luego pone un ejemplo, que como todo ejemplo es rengo. Esto es el que complica la clara explicación que dio, pues al afirmar “a todo hombre le convienen los alimentos secos”, “yo soy hombre” o “tal alimento es seco”  plantea dos silogismos. Uno que dice: El alimento seco es bueno para todos los hombres, y como yo soy hombre, el alimento seco es bueno para mí. Y otro que dice: El alimento seco es bueno para mí, este pedazo de pan es alimento seco, luego es bueno para mí.

Les idées claires et la République européenne

Les idées claires et la République européenne

Entretien avec Pierre Le Vigan

Jean-Marie Soustrade : Quel est la réception de votre dernier livre La tyrannie de la transparence ?

 

Pierre Le Vigan : J’ai de bons échos d’un certain type de public : les gens qui aiment les idées claires, loin de tous les excès de l’intellectualisme à la Derrida mais qui veulent aller au bout des idées claires. L’homme aime bien mettre en place, dit Clément Rosset, « des stratégies pour obscurcir des vérités simples ». Il faut faire le contraire, remettre de la clarté là on a mis du brouillard. Sans pour autant s’illusionner sur la simplicité toute relative des choses.

J.-M.S. : Vous abordez des sujets variés mais qu’est ce qui fait l’unité de votre démarche ?

 

P.L.V. : Ce qui en fait l’unité, c’est tout d’abord l’unité de l’auteur, mais c’est aussi – et on me l’a fait remarquer – le fait que mon sujet, c’est en fait la société tout entière ou encore le monde moderne tout entier. La variété d’angles de vue qui sont les miens n’est qu’une façon de remettre sur le métier la même interrogation : comment peut-on encore « faire société » dans une société où les valeurs les plus essentielles sont soit niées soit relativisées : aimer sa patrie serait affaire de goût, ou de simple préférence culinaire, le bien commun ne serait que la somme des intérêts particuliers voire n’existerait pas, etc.

 

J.-M.S. : Vous citez souvent Tocqueville dans La tyrannie de la transparence. Vous n’êtes pourtant pas connu pour être un libéral ?

 

P.L.V. : Il y a une ambiguïté du mot « libéral ». Pour moi, la liberté de l’individu ne peut être le critère principal de l’organisation d’une société. C’est d’ailleurs une évidence et c’est pourquoi les libéraux radicaux disent que « la société n’existe pas; il n’existe que des individus », une formule qui est de Margaret Thatcher. Ce qui veut dire non pas seulement que le tout n’est que la somme des parties mais que le tout n’existe pas. À l’inverse de ce point de vue, je pense que la notion de bien commun doit primer. Ceci étant, je suis bien entendu pour la liberté et surtout, très concrètement, pour les libertés. Mais dans le domaine économique, les libertés ne peuvent être absolues, il y a des impératifs qui doivent primer : des impératifs  politiques, l’indépendance nationale et européenne, et des impératifs sociaux, la cohésion sociale, et la justice sociale, ou encore l’équité. Je ne suis pas convaincu dans ce domaine que l’on puisse faire l’impasse sur John Rawls, qui n’est pas exactement un libéral, à moins d’avoir une conception très extensive du libéralisme.

 

Il faut d’ailleurs penser ensemble certaines analyses communautariennes et celle de Rawls. Ce qui est sûr c’est qu’on ne reviendra pas sur l’individu-sujet et que l’immersion communautaire holiste n’est plus de ce monde, qu’on le regrette ou non (le regretter est au demeurant totalement dépourvu de sens puisque personne de contemporain ne l’a connu sauf peut-être des anciens des « kibboutz », un mot qui veut dire « ensemble » ou « assemblée »).

 

J.-M.S. : Vous parlez avec sympathie d’une République européenne. Mais encore ?

 

P.L.V. : L’Europe doit évoluer vers une République européenne, mais aussi encore un Empire républicain. En quel sens républicain ? Républicain pour la dimension unitaire : défense commune, politique extérieure commune, égalité des citoyens face à la loi, politique économique européenne autocentrée. La République, c’est aussi l’élitisme républicain contre la communautarisation au nom de la « diversité » et contre la politique des quotas, et au fond contre la reproduction sociale de la super-classe mondiale au service de la finance.

 

Pourquoi aussi un Empire républicain ?  Un « Empire » pour le respect de certaines différences : il peut y avoir une monnaie commune mais pas forcément unique, les réglementations peuvent être différentes dans certains domaines, les langues nationales et régionales doivent être préservées. C’est la notion d’Empire, mais pas au sens d’impérialisme : ni l’Empire éphémère et artificiel  de Napoléon, ni le Reich pangermaniste et raciste de Hitler, ni l’Amérique expansionniste et liberticide de Bush ne sont un modèle, bien au contraire. C’est l’Empire au sens d’un équilibre entre unité et autonomies, entre universalité et différences, comme l’Empire austro-hongrois, à qui il ne manquait guère que de devenir un Empire austro-tchéco-hongrois en donnant toute sa place à la Bohème-Moravie, ou comme le Brésil, qui conjugue unité et diversité de ses peuples, fut un Empire et est une République fédérale.

 

L’Empire républicain, c’est au plan constitutionnel un fédéralisme, mais avec une dimension qui va au-delà du patriotisme constitutionnel, car l’Empire, c’est aussi une idée unificatrice, un certain type de civilisation à aimer, à défendre, à vivre. Une certaine idée de nous même à affirmer. La vie sociale avant le productivisme, la solidarité avant l’enrichissement sans frein, la relocalisation et non la mondialisation. Le reterritorialisation et non le nomadisme.

 

J.-M.S. : Quels sont vos auteurs favoris ?

 

P.L.V. : Il faudrait toujours demander « en ce moment », car s’il y a des permanences, il y a aussi des inflexions dans les lectures de chacun. Je suis assez inconditionnel de Clément Rosset, de Frédéric Schiffter, de philosophes moraux comme vous le voyez.

 

J.-M.S. : Quel est le domaine de la pensée le plus important pour vous ?

 

P.L.V. : Le plus important, je ne sais pas répondre à cette question, mais le plus fascinant, c’est pour moi la cosmologie. Il y a en effet trois domaines de la philosophie : la morale, c’est-à-dire comment se tenir, la philosophie politique, c’est-à-dire comment se gouverner ensemble, et la vision du monde, qui inclue la cosmologie et même, en un sens, la morale et la politique.

 

Propos recueillis par Jean-Marie Soustrade.

 

Pierre Le Vigan, La tyrannie de la transparence, Paris, L’Æncre, coll. « À nouveau siècle, nouveaux enjeux », 2011, 177 p., préface d’Arnaud Guyot-Jeannin, diffusé sur Internet par Librad et disponible à la Libraire Primatice : 10, rue Primatice, 75013 Paris.


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Au temps de la Méduse

Au temps de la Méduse

par Georges FELTIN-TRACOL

En 2009, Pierre Le Vigan avait publié Le front du Cachalot, un épais ouvrage de réflexions, d’analyses et de notes de lectures. Il récidive avec un nouveau volume plein de fureur et de jubilation, La tyrannie de la transparence.

 

Collaborateur aux magazines Éléments, Flash, Le Spectacle du Monde, ainsi qu’aux sites L’Esprit européen, Vox N.-R. et, bien sûr, Europe Maxima, Pierre Le Vigan scrute, dissèque, démonte les tares de notre époque. Il s’attaque tout particulièrement au désir artificiel de transparence de nos congénères. Hormis le port du vêtement, tout devrait être mis à nu afin que tout un chacun puisse épier son prochain depuis sa bulle ! « Cette transparence devenue obligatoire, je l’associe à un animal bien particulier. […] La méduse est un animal marin sans os qui prolifère particulièrement en notre époque, sans doute en liaison avec les transformations de la planète dues à l’homme. Il n’est pas interdit de voir dans la prolifération de cet animal quasi-transparent et invertébré […] tout un symbole (pp. 11 – 12). » C’est aussi une allusion évidente à la célèbre Gorgone de la mythologie antique dénommée la Méduse qui pétrifiait de son regard les inconscients venus la défier.

 

 

Par des textes relativement courts qui se rapprochent des aphorismes, Pierre Le Vigan montre qu’il est un grand lecteur et un cinéphile averti. Il examine l’influence intellectuelle des Lumières et du P.C.F. de Marchais, salue les grands acteurs français des années 1920 – 1930, cite Montherlant et Michéa, disserte sur le film La traversée de Paris de Claude Autant-Lara, réfléchit sur les œuvres de Rousseau, de Benjamin Constant et de Tocqueville, ce critique précoce du nihilisme alors naissant, etc. Il nous rappelle aussi le courage héroïque, fort peu connu de nos jours, des troupes françaises lors de la campagne de France en mai – juin 1940. On ne partage pas toujours toutes ses appréciations. Sur Giorgio de Chirico par exemple. Sur Talleyrand « un traître intelligent (p. 96) ». Certes, du 14 juillet 1790 à son décès en 1838, l’ancien évêque d’Autun, le « Diable boiteux » a servi tous les régimes afin de préserver ses intérêts lucratifs. Néanmoins, il ne faut pas oublier que le diplomate en chef qu’il fut permit au jeune Consulat d’être accepté sur la scène internationale et qu’il atténua, en 1815 après les Cent-Jours, le second traité de Paris… Malgré tous ses défauts, ses vices même, un tel personnage nous manque, surtout si on le compare à Philippe Douste-Blazy, Bernard Kouchner ou Alain Juppé.

 

Une grande méfiance envers une croissance prédatrice qui tend vers la démesure incite ce connaisseur de Serge Latouche et de Pierre Rabhi à « louer le sens de la mesure, chercher à la retrouver, redécouvrir le bienfait d’une certaine rareté des biens pour le bénéfice possible de l’abondance des savoirs et du geste sans cesse renouvelable de l’exercice plein et entier des cultures, ce qui suppose leur réenracinement (p. 39) ».

 

L’ami Le Vigan appartient donc aux « objecteurs de croissance », non par idéalisme, mais par réalisme et parce qu’il côtoie dans sa vie courante les méfaits de cette croissance. À diverses reprises dans La tyrannie de la transparence reviennent les questions d’habitat, d’architecture et d’urbanisme. Et pour cause ! Sa profession le confronte à la souffrance existentielle dans les grands ensembles et au travail segmenté, précarisé, jetable. Il dénonce la « dictature de la santé (p. 59) » et l’avènement de Big Mother – l’État thérapeute omniscient – qui remplace le dorénavant désuet Big Brother au point que « notre société est […] de l’économique – la loi de la jungle – tempéré par du juridique (p. 75) ».

 

Pierre Le Vigan constate qu’à l’heure actuelle, « les partis politiques sont à la remorque des associations, ce qui est beaucoup plus grave que les problèmes posés par l’existence même des partis politiques (p. 142) », ce qui dévalorise la politique. Dans sa sympathique préface, Arnaud Guyot-Jeannin le décrit comme un « homme de droite de gauche (p. 10) ». Pourquoi lui appliquer ce schéma convenu et dépassé, lui qui sait que « dans de nombreux domaines, on ne peut même plus renvoyer dos à dos la droite et la gauche car tout simplement il n’y a plus de pensée de droite et pas non plus de pensée de gauche (p. 115) » ? Lucide, il explique que « la gauche a longtemps été vue par elle-même comme le contraire de la droite. […] Maintenant, la gauche (une certaine gauche bien sûr) est le laboratoire de recherche de la droite. Elle explore, au nom de la “ liberté ” libertaire, ce que seront les champs possibles, demain, de la marchandisation (pp. 57 – 58) ».

 

Cette situation résulte de la domination d’une nouvelle idéologie mortifère. Il faut « caractériser notre époque comme celle d’un nouveau totalitarisme post-démocratique. L’obscurantisme et l’inculture ont eu raison de la démocratie. L’immigration a déplacé le terrain des débats idéologiques. La pensée a suivi une pente primitiviste. L’idéologie des droits de l’homme est devenue un nouvel obscurantisme pseudo-démocratique qui tue à petit feu le droit et la démocratie. Malgré l’usage inflationniste du terme “ citoyen ”, plus rien ne renvoie à la réalité de ce mot, et l’homme abstrait et interchangeable a supplanté le citoyen (p. 19) ». Pierre Le Vigan développe une autre approche du droit des hommes. En effet, « tant qu’on n’aura pas compris que les droits de l’homme ne peuvent être qu’une conséquence des droits des peuples, les droits des peuples à exister, à perdurer, à avoir leur terre, leur langue, leur autonomie, leur identité, leurs mœurs, leur façon d’écrire leur histoire et ainsi tout simplement leur avenir, on ne fera jamais avancer concrètement les droits humains. Car l’homme concret appartient à un peuple. C’est par la mise en œuvre des droits des peuples – le droit notamment de contrôler leurs ressources -, de s’émanciper de la dictature mondiale des marchés, de l’empire de la finance – que les droits humains peuvent être pris en compte. L’homme est d’abord un être social, un être en communauté, un être politique (p. 36) ».

 

Arnaud Guyot-Jeannin qualifie Pierre Le Vigan de « républicain subsidiariste, démocrate organiciste et socialiste populiste, […] attaché au(x) peuple(s) de façon charnelle. Son populisme, jamais démagogique, est exigeant, aristocratique et anagogique. Il s’agit d’un aristo-populisme (p. 9) ». C’est bien vu, d’autant que « P.L.V. » encourage une combinaison inédite et originale des formes participative et représentative de la démocratie. Mieux, en réponse au débat lancé à la fin des années 1980 par Régis Debray entre « républicains » et « démocrates », il déclare clairement : « je crois que la République – et la distinction citoyen – étranger, et la nécessaire existence de critères pour passer d’un statut à un autre -, est la condition de la démocratie. La République ce ne sont pas des frontières infranchissables – ce serait alors des murailles – mais c’est le sens des frontières. En ce sens, je suis républicain avant tout – mais non pas “ à la place ” – d’être démocrate. Je suis républicain comme condition pour être démocrate (pp. 65 – 66) ».

 

Pierre Le Vigan se proclame en outre Européen. Son Europe n’est pas celle de Bruxelles, de Maastricht et de Lisbonne. Elle n’est pas non plus euro-régionaliste. Pour lui, « L’Europe aux cent drapeaux (Yann Fouéré), c’est l’Europe aux cent Kossovo. C’est une zone de faiblesse où s’engouffreraient plus encore les vents de l’impérialisme (p. 129) ». L’Europe qu’il souhaite serait une organisation politique politique des nations européennes à vocation impériale ultime. Mais « l’Empire doit être républicain, avant même d’être démocratique (avant, pas à la place de, car la République est la condition de la démocratie) (p. 126) ». Il rappelle qu’entre 1804 et 1808, « les monnaies françaises portaient l’inscription : “ République française. Napoléon Ier Empereur ” (p. 126) ». Certes, l’article Ier du sénatus-consulte du 28 floréal an XII (18 mai 1804) proclame : « le gouvernement de la République est confié à un Empereur ». Paradoxal ? Non, car l’oncle et le neveu portent le titre d’empereurs des Français comme Louis XVI lors de l’expérience de monarchie constitutionnelle en 1791 – 1792 et Louis-Philippe Ier sous la Monarchie de Juillet (1830 – 1848) sont rois des Français. Dans les quatre cas, et les textes institutionnels sont formels, ils tiennent leur fonction de la nation et, par conséquent, de la souveraineté nationale. Or peut-on bâtir une communauté européenne cohérente à partir de la souveraineté nationale ? Très certainement pas, surtout que le précédent napoléonien d’unification européenne est loin d’être pertinent et probant… Et la souveraineté populaire ? Peut-être, à la condition sine qua non de redéfinir ce que sont les peuples et non ces masses agglomérées et individualisées gavées de télévision.

 

Cette redéfinition essentielle nécessitera une libération des esprits de l’idéologie du bonheur matérialiste. « Reconstruire des patries et des peuples se fera en sortant du règne de l’argent (p. 173). » Mieux, à l’indispensable impératif géopolitique, il est primordial que l’idée impériale soit « une idéologie alternative à l’imaginaire marchand. Il faut l’idée, et même le mythe, d’un ordre nouveau en Europe. Un ordre post-productiviste et post-consumériste (p. 26) ». Ce nouvel ordre révolutionnaire devra être territorial. Vient alors le dilemme entre l’Eurosibérie et l’Eurasie. Hostile à la conception ethnosphérique blanche de l’Eurosibérie, Pierre Le Vigan opte pour la vision grand-continentale de l’Eurasie. Mais une telle immensité est-elle compatible avec la démocratie organique interne des communautés de peuples autochtones ? Voilà un bien beau débat en perspective, en toute transparence, bien sûr…

 

Georges Feltin-Tracol

 

Pierre Le Vigan, La tyrannie de la transparence, Paris, L’Æncre, coll. « À nouveau siècle, nouveaux enjeux », 2011, 177 p., préface d’Arnaud Guyot-Jeannin.

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mercredi, 05 octobre 2011

Emil Cioran - Un siècle d'écrivains (1999)

Emil Cioran - Un siècle d'écrivains (1999)

dimanche, 02 octobre 2011

"Der Orgasmus steht rechts, das ist die Schlüsselerfahrung der Postmoderne"

Warum macht man sich eigentlich die Mühe und seziert das Gedankengut eines philosophischen Vielschreibers, wenn eigentlich alles Wesentliche in einem Satz gesagt werden kann.

Im FOCUS-Archiv bin ich auf ein Interview mit Peter Sloterdijk aus dem Jahr 1997 gestoßen, daß als ein Bericht über die Leichtigkeit von metaphorischen Gegenwartsanalysen gelesen werden muß:

FOCUS: Der heutige Sexualstil sei „medikalisiert, versportlicht, diätisch“, haben Sie geschrieben, und: „Der Orgasmus steht rechts, das ist die Schlüsselerfahrung der Postmoderne.“ Warum?

Sloterdijk: Weil Genießen etwas ist, was Menschen extrem privat und idiotisch werden läßt, und ein gewisser idiotischer Privatismus auch im Kern von reaktionärer oder rechter Politik steht. Die Unfähigkeit zur Generosität, die fanatische Entschlossenheit, eine Politik zu betreiben, die den eigenen Vorteil über alles stellt: Das sind Kriterien der ewigen Rechten.

Der Interviewer stellt nun die nachvollziehbare Frage, was dann eigentlich die 68er-Sexrevolution gewesen ist. Oder mit einem Reaktionär gesprochen: “Devise für den jungen Linken: Revolution und Fotze.” (Nicolás Gómez Dávila in: Einsamkeiten)

FOCUS: Was Sie idiotischen Genuß nennen, kann man auch mit dem im Schwange befindlichen Begriff Hedonismus bezeichnen – und das ist ein Hauptschimpfwort der Konservativen, wenn sie gegen die linksliberale Spaßkultur zu Felde ziehen.

Sloterdijk: Man muß hier unterscheiden. Es gab vor langer Zeit einmal einen asketischen Konservatismus, der hinsichtlich seiner sozialen Energie viel potenter war als die sogenannte hedonistische Linke. Es gab eine aus dem alten Adel herkommende Gesinnung, sich für den Staat zu verbrauchen und dabei die eigenen Genußansprüche zurückzustellen. Aber diese Selbstopferkultur ist untergegangen. Im Augenblick führen alle Begründungen von Lebensentwürfen letztendlich in den Selbstgenuß der letzten Menschen. Die Orgasmusdebatte, wenn sie auch skurril anfängt, ist in letzter Instanz sinnvoll, weil sie den Horizont einer projektlosen Gesellschaft beschreibt, die keine Zukunft kennt, sondern nur die Vorspannung auf die nächste Entladung. Die letzten Menschen sind an der Macht.

Oh, Nietzsche also …

FOCUS: Die letzten Menschen haben, laut Nietzsche, das kleine Glück für jedermann erfunden – und das sollen tendenziell Rechte sein?

Sloterdijk: Insofern als die anthropologische Wette der hedonistischen Linken, daß der sexuell und kulinarisch genießende Mensch der sozial nützlichere sei, verloren ist. Die Lebensverbesserung der einzelnen hat keinen Überlauf ins Allgemeine. Die Vermehrung der Privatvergnügen macht die Gesellschaft als ganze nicht froh – auch das war ein Teil der alten linken Utopie. Es entsteht vielmehr eine Frustrationsklassengesellschaft, eine rasende Neidgesellschaft.

Wir lernen: Die hedonistische Frustrationsklassengesellschaft ist gescheitert und trotzdem verbleiben wir in diesem Modus, weil wir keinen Ausweg wissen. Aber der Sloterdijk, der Philosoph, weiß doch sicher einen … Oder doch nicht? Na dann machen wir weiter im Fragebogenstil.

FOCUS: War Ernst Nolte taktlos?

Sloterdijk: Er hat intuitiv exakte Taktlosigkeiten begangen und damit gegen ein linksliberales Kartell verstoßen. Wer überhaupt einen Sinn für die Funktion eines intellektuellen Feldes besitzt, der muß mit Bestürzung beobachten, daß man gegenüber einer Person wie Nolte nicht argumentative, sondern exorzistische Methoden anwendet. Es wäre mir übrigens lieber, man müßte solche Plädoyers für Linke halten statt für Rechtsintellektuelle. Was auf dem Spiel steht, ist die Würde des intellektuellen Feldes im ganzen. Darum müßten jetzt auch die deutschen Intellektuellen eine Amnestie für Toni Negri* fordern!

FOCUS: Würden Sie bitte zu den folgenden Personen je einen Satz sagen: Michael Jackson.

Sloterdijk: Der erste perfekte Mutant. Ich bin von ihm fasziniert, weil er wie noch nie jemand vor ihm es fertiggebracht hat, für eine absolute Lächerlichkeit vergöttert zu werden.

FOCUS: Ernst Jünger.

Sloterdijk: Ich bin bereit, ihn auf einer kalten Ebene bedeutend zu finden.

FOCUS: Joseph Ratzinger.

Sloterdijk: Auf die Gefahr hin, daß das hochmütig klingt: Er gehört zu den Menschen, die mir auf eine bestimmte Art leid tun. Er spielt in einer Komödie mit, wo Männer in Frauenkleidern durch große Gebäude laufen und so tun, als würden sie kochen. Der Priester ist ja ein Koch des Heils, der an einem Tisch steht, ein Gericht zubereitet und einer angeblich hungrigen Menge verabreicht – aber er versteht nie, daß das kein Drei-Sterne-Restaurant ist.

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La fabrique du temps nouveau

« La fabrique du temps nouveau » de Jean de Maillard

 

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

Jean de Maillard, inspecteur du travail dans les années 1970 puis magistrat spécialisé dans la criminalité financière, répond dans « La fabrique du temps nouveau » aux questions de Karim Mahmoud-Vintam, éditeur de Temps présent.

Une analyse en profondeur de la mondialisation financière dans ces attendus et ses conséquences.

La fabrique du temps nouveau est une généalogie du néo-libéralisme (que l’auteur ne distingue pas de l’ultralibéralisme ou encore du mondialisme, en tant que système) – replacé dans le temps long de l’Histoire, ce temps long dont Dominique Venner dit qu’il est la seule mesure pertinente de l’évolution des sociétés humaines.

Il est aussi manifestement une autopsie anticipée de l’humanité de l’homme.

Pour Jean de Maillard, le néolibéralisme est en effet une arme de destruction massive de l’ensemble des entités naturelles qui ont porté la conception traditionnelle de la nation, telle que Renan l’a définie dans sa fameuse conférence de 1882 : « Une nation est une âme, un principe spirituel (…) une grande solidarité, constituée par le sentiments de sacrifices qu’on a faits et de ceux qu’on est disposé à faire encore (…) Une grande agrégation d’hommes, saine d’esprit et chaude de coeur, crée une conscience morale qui s’appelle une nation ».

La socialisation horizontale remplace l’héritage et la transmission

 

La société qui émerge est pour Jean de Maillard une société de réseaux, qu’il qualifie également de fractale – par analogie avec ces objets mathématiques dont chaque partie est isomorphe au tout -. Cette société de connexion, façonné par le néolibéralisme, est en rupture radicale avec la société traditionnelle, fondée sur la transmission. « On peut relire les évolutions contemporaines, écrit l’auteur, comme le passage d’une société verticale, intergénérationnelle, reposant sur des institutions qui en quelque sorte évoluent à l’intérieur et transmettent un savoir vivre ensemble, à une socialisation horizontale, reposant sur l’instantanéité de la connexion des réseaux, des individus, des choses, à la place de la mémoire et de la transmission ».

La société d’avant était ainsi celle de l’héritage. De génération en génération, se transmettaient un savoir, une culture, une histoire. Ce qui supposait un socle immémoriel fondé sur la famille, le peuple, l’identité, la langue, la culture, la nation… Depuis l’après-guerre, le travail de sape néo-libéral a substitué à cet ordre qui semblait immuable une société sans mémoire collective et sans racine. Une société qui se veut cosmopolite et non discriminante. Tout individu est ainsi, virtuellement, citoyen du monde, un monde sans frontière ni hiérarchie, du moins en droit et en apparence. Car si aucune barrière ne saurait être reconnue comme pertinente entre les individus qui la compose, ni linguistique, culturelle ou sociale, ni – encore moins – ethnique ou raciale, les inégalités sociales, quant à elles, explosent. [...]

Dictature du devoir de mémoire et du politiquement correct

L’inconscient collectif, précise Jean de Maillard, est l’ensemble des croyances auxquels adhèrent les membres d’une même société. Il s’articule autour de principes réputés transcendants sur lesquels tout questionnement est intempestif, voire scandaleux. [...] Explosion des inégalités et des communautarismes, perte du sens et du lien social, dictature du devoir de mémoire et du politiquement correct, fin de l’espace public comme lieu d’expression d’individus libres, obligation d’absolue transparence, d’absolue équivalence… « Finalement, s’interroge Jean de Maillard, la question n’est-elle pas celle-ci : nous vivons dans une société ouverte, qui a perdu toute unité, et si nous n’avions pas cet inconscient et cet imaginaire pour nous obliger à la supporter [c’est nous qui soulignons], ne risquerions-nous pas de la rejeter avec une telle violence que nous pourrions voir ressurgir de nouveaux pogroms ? ». [...]

De même, fort prudemment, Jean de Maillard rejette toute téléonomie humaine dans la manière dont la convergence néolibérale s’est opérée : « [S]ans qu’il existe une quelconque coordination, et moins encore de volonté ni même de perception de cette complémentarité, tout va se mettre à peu près en même temps, et dans une direction qui va permettre la constitution d’un nouvel ordre logique et cohérent, mais sans lien visible entre toutes ces mutations ». Difficile, à vrai dire, de suivre l’auteur dans ce discours irénique et croire que la mutation néolibérale n’est que le fruit d’une succession de hasards. Chaque avènement d’un « nouvel ordre » mondial est le résultat d’un long travail de groupes de pression au sein des élites dirigeantes.

Les politiques par lesquelles, depuis un demi-siècle, les peuples de la vieille Europe ont été invités à réprimer leur identité profonde et à s’approprier l’impératif du métissage et du multiculturalisme – puissants marqueurs du néolibéralisme en acte – paraissent trop efficaces pour ne pas résulter d’une stratégie mûrement réfléchie de puissants groupes d’intérêt mondiaux. En matière d’idéologie, il ne saurait y avoir de génération spontanée…

La finance internationale réseau sanguin de la mondialisation

Le déclin du capitalisme fordien et la montée du capitalisme financier articule le passage du libéralisme au néolibéralisme, marqué par la financiarisation de l’économie. « La finance internationale est un peu le réseau sanguin de la mondialisation, et peut-être de tout le système économique de la mondialisation », souligne Jean de Maillard. Cette virtualisation des échanges nécessite elle-même une virtualisation des individus. L’auteur évoque à ce propos la réduction de ces derniers au rang de monades leibnitziennes, qui sont autant de noeuds d’un réseau totalement désincarné, au comportement égoïste, versatile et veule : « [L]‘homme post-moderne (…) n’accepte plus que les solidarités qu’il crée lui-même, quitte d’ailleurs à les briser à sa guise si elle ne lui conviennent plus ». Le travail ne crée plus de lien social, car chaque « agent de marché », plongé dans une « démocratie de marché » (Clinton), en concurrence continuelle avec tous les autres, simple « entrepreneur de lui-même » (Schumpeter) doit perpétuellement se réinventer s’il veut rester compétitif sur le marché du travail.

« Virtualisation » des individus, contractualisation et marchandisation des rapports sociaux

Les institutions – famille, école, justice… – qui constituaient autant de matrices de la socialisation, laissent place à une contractualisation des rapports sociaux, en symbiose avec l’essence-même du néolibéralisme. « Aujourd’hui, remarque l’auteur, tout se passe comme si l’enfant avait implicitement passé un contrat avec ses parents : si les parents ne remplissent pas le contrat, un tiers peut juger les parents selon différentes modalités – jugement pénal, jugement civil – et éventuellement leur retirer la garde de l’enfant (…) Aujourd’hui, les justiciables peuvent attaquer la personne du juge en déposant plainte contre lui. Il a perdu sa position transcendante (…)

[L]‘institution scolaire elle-même a banni l’asymétrie du rapport enseignant-enseigné au profit d’une contractualisation de la relation entre le professeur et l’élève, [qu'elle a] marchandisé (…) On pourra en dire de même du rapport entre hommes et femmes (…) l’homme était celui qui assurait le rapport de la famille avec l’extérieur, un rapport dominant certes, mais qui ne plaçait pas pour autant la femme dans un simple état de domination, puisqu’elle était l’élément structurant à l’intérieur de la famille ». La récente introduction de la théorie du genre dans l’enseignement des Sciences de la Vie et de la Terre au lycée est à cet égard symptomatique : cette théorie déconnecte en effet sexe et genre. Si le sexe est un fait de nature, l’appartenance à un genre est, quant à elle, le résultat d’un contrat passé entre l’individu et la société…

Les systèmes de surveillance se substituent au lien social Si l’homme de la post-modernité n’accroche plus son char à la moindre étoile, il désire néanmoins encore quelque chose, du fond de son égoïsme et de sa solitude : la sécurité. D’où l’explosion toute rhétorique des « droits à » (droit au travail, droit à la paresse, droit au logement…, avec ce résultat antinomique que « tous les droits = aucun droit »), et, plus concrètement, de la surveillance. « Ce n’est pas un État totalitaire de surveillance qui se met en place, prévient Jean de Maillard, mais une surveillance généralisée parce que tout le monde a peur de tout le monde. La société post-moderne, c’est la surveillance de tout le monde par tout le monde ». Si, comme l’affirme Jean de Maillard, « la généralisation des systèmes de surveillance [compense] la disparition du lien social », on pourra également remarquer que l’insécurité est une modalité de la bonne gouvernance néo-libérale : des individus qui ont peur sont en effet des individus dociles au système.

L’homme post-moderne, monade néo-libérale, noeud d’un vaste réseau déshumanisé, est profondément athée. Il ne rêve plus non plus de Progrès ni encore moins de Révolution. Cet absolu désenchantement du monde avait été prophétisé par Nietzsche, qui, dans le prologue de son Zarathoustra, décrit l’avènement du dernier des hommes. « Dieu est mort, mais Hegel aussi », ironise Jean de Maillard. On referme son livre avec un fort sentiment de désespérance. Si les analyses de Jean de Maillard sont fondées, les voies par lesquelles l’homo occidentalis pourrait échapper à ce destin annoncé passent nécessairement par l’effondrement du capitalisme financier, un effondrement cataclysmique dont nous pressentons les prémisses, et dont il serait illusoire de croire qu’il sera indolore…

Henri Dubost

Jean de Maillard, La fabrique du temps nouveau – Entretiens sur la civilisation néolibérale, Collection Racines & ruptures, Éditions Temps présent, 2011, 234 pages

Polémia

vendredi, 30 septembre 2011

Eustace Mullins e i segreti del poeta

Eustace Mullins e i segreti del poeta

Washington DC – primavera del 1949, St. Elizabeths Hospital in una camera del Mental Health Department un illustre “ospite”: Ezra Pound

di Gian Paolo Pucciarelli

Ex: http://www.rinascita.eu/

Eustace Mullins ha un rispettabile impiego alla Library of Congress, una laurea alla Washington University e un vivo interesse per le avanguardie europee del primo Novecento.
Lo attraggono i dipinti di Picasso e di Kandinski e in genere il Modernismo.
La Biblioteca del Congresso è la più grande del mondo (ventotto milioni di volumi).
Monumentale compendio dell’intero scibile umano e (con qualche disagio) campionario assortito di crisi e fulgori della cultura occidentale. Di quest’ultima un semplice bibliotecario può comprendere ambiguità e contraddizioni, a stento nascoste sotto il peso dell’architettura neoclassica, della tradizione liberale e della memoria di un presidente.
L’imponente Jefferson Building, appunto. E tutto quello che c’è dentro.
Ubicazione: 101 Independence Avenue – Washington – DC, qualche minuto a piedi dalla Casa Bianca, mezz’ora d’autobus e due secoli d’inutile fuga dall’oscurantismo per raggiungere il 1100 dell’Alabama Avenue e il… “Nido del Cuculo”.
La storia dei manicomi, vero o falsa che sia, lascia concrete tracce d’archetipi. Uno di questi si trova su una lieve altura, in direzione sud-est, quasi alla confluenza del Potomac con l’Anacostia.
Il punto in cui sostano gli uccelli migratori in cerca della giusta rotta e sbagliano… nido.
Ottanta piedi d’altezza, linee tardogotiche in segno d’austerità e non trascorsi orrori, sovrapposti ai tanti frantumi del sogno americano, in modo che ne risulti un sinistro edificio. (L’ispirazione è di Milos Foreman che venticinque anni più tardi, tenterà di spiegare le terapie psichiatriche in uso negli States, con buoni appoggi di Upjohns, Roche e le Multinazionali delle benzodiazepine).
Nome ufficiale: St. Elizabeths Hospital.
A causa di ben note imprecisioni nel distinguere la follia individuale da quella collettiva, i cartelli indicatori all’ingresso del nosocomio non recano la scritta “Mental Health”. Anche perché non è bene si sappia che fra gli 8.000 “ospiti” dell’Ospedale sono selezionati i “forensic patients” da sottoporre al test della lobotomia.
I Civils “beneficiano” invece di quotidiane terapie… elettroconvulsive.
Le visite ai ricoverati non sono concesse facilmente. Per via del lezzo di urina secolare misto ai vapori dell’acido ipocloroso, causa di svenimenti e complicazioni polmonari.
Poi perché non sono ancora tanto lontani i tempi in cui Mr. Donovan, già Chief dell’ O.S.S., inaugurò al St. Elizabeth l’uso della scopolamina per farne il siero della verità.
Nel complesso di edifici dell’Alabama Avenue si conservano in formaldeide 1.400 cervelli umani e corre voce che vi sia finito anche quello di Mussolini (ritenuto d’interesse sociale e utile un domani a chi intendesse esaminare le cellule del Capo del Fascismo a scopi didattici, misurando gli effetti dell’irrazionalità delle masse sui lobi cerebrali del Duce).
Eustace Mullins ha appena varcato i cancelli del St. Elizabeth, dopo aver ottenuto il “passi” e non prima di aver svuotato la propria vescica urinaria. Fra tante amenità, recentemente apprese, mentre s’incammina lungo il viale che attraversa un ampio prato fino all’entrata principale, sente l’irrefrenabile impulso di affondare una mano nella tasca dei pantaloni per tastarsi ripetutamente i testicoli. Gesto salvifico, anche se irrispettoso, per la vicinanza di Mrs. Dorothy che, pur mesta e pensosa, con lui procede, affiancandolo.
Poco dopo, preda dell’emozione e degli scongiuri, Mullins si guarda intorno circospetto, avvertendo invisibili presenze di spettri in divisa.
Sono i fantasmi dei 500 Soldati Blu (e Grigi) sepolti nell’area circostante, vittime della guerra civile e dell’oblio. I loro poveri resti giacciono dispersi per sempre nel sottosuolo, mentre ignari tagliaerba, ordinando il prato che li sovrasta senza alcun segno tombale, continuano a cancellarne la memoria. Mullins sembra udire grida di vendetta, soffocate da metri di terra e fastidiosi ronzii di tagliatrici. Ma è solo un’impressione. Non gli resta che accennare un sorriso, sul quale si protende un filo di persistente amarezza.
 
Appare il cartello Mental Health Department. Prima di varcarne l’ingresso, il “visitatore” guarda il lontano e quasi immobile Potomac, da cui sembra levarsi il frastuono delle battaglie combattute novant’anni prima. L’illusione sonora s’interrompe, per via delle voci, quasi irreali, che provengono dall’interno. Mullins, controllando a stento la propria emozione, si affida a Mrs. Dorothy che lo accompagna alla camera di un illustre “ospite” del dipartimento: Ezra Pound.
Fuori, lo struttural-funzionalismo alla Talcott Parsons propone tregua ai conflitti sociali, solidale col noto impostore che raccomanda “Società Aperte” senza far uso di volantini.
Bastano l’abbaglio del benessere e l’abitudine a invisibili moltiplicatori del debito pubblico.
La cella del St. Elizabeth in cui “alloggia” Pound è occupata da un maleodorante giaciglio e un tavolo di metallo, su cui si ammucchiano quaderni di appunti. Lo spazio esiguo della cella consente di ospitarvi il solo recluso, esempio del trattamento riservato alle vittime della moderna inquisizione. Sebbene Mrs. Dorothy cerchi di tranquillizzare Mullins, si fa presto strada in lui la tentazione di concludere la visita con un rapido, liberatorio congedo, ancor prima che si proceda con le presentazioni. L’ambiente è impressionante. Il Poeta del resto, poco incline ai convenevoli, esclusi quelli strettamente di rito, dopo un breve scambio di parole, non sembra propenso al dialogo. Lunghi silenzi, interrotti da brevi domande sullo stato di salute del recluso, restano senza risposta, con evidente imbarazzo di Mullins, che più volte rivolge lo sguardo a Mrs. Dorothy, mentre gli occhi di Pound, seminascosti da cispose sopracciglia, lo fissano con insistenza.
“Lei ha fatto la guerra?” Chiede il Poeta. E la domanda riduce l’impaccio del bibliotecario, ma ne aumenta comunque la sudorazione corporea.
“Sì. Ho prestato servizio nell’US Army, e nel 1945 facevo parte delle Forze di occupazione in Baviera.”
“ Si è mai chiesto perché?”
“Come?”
“Perché?”
“Perché ho servito la mia Patria.”
“No. No. Si è mai chiesto perché è scoppiata la guerra?”
Mullins impallidisce.
“Si è mai chiesto che cosa rappresentano gli enormi e profondi crateri di Hiroshima, scavati e modellati nella calda estate del 1945?”
“Lei sa che cos’è la Federal Reserve Bank?”
“La Banca Centrale degli Stati Uniti.”
“Non esattamente. E’ la responsabile della Prima e della Seconda Guerra Mondiale!”
Mullins ascolta attonito.
Nel linguaggio di Pound ricorre la parola Usura, che vuol dire International Loan System, rete dei prestiti pubblici organizzata dall’Investment Banking, cui spetta il diritto di intermediazione su ogni scambio internazionale. La memoria di un passato non più recente, ma incancellabile, emerge, imperiosa e sgradita, componendo immagini che velocemente si sovrappongono per ricordare ferite inguaribili, inflitte nel profondo dell’animo.
Tempi e luoghi diversi evocano il lungo soggiorno europeo e il passo dell’esule, cadenzato sui ritmi poetici del Cavalcanti e l’Alighieri, per tradurlo nel linguaggio, illuminante e faticoso dei Cantos. Parigi e la Bella Signora Italia, più volte violentata e offesa. Venezia, la Riviera. Il 1945 è anno cruciale. Oltre all’arresto del cittadino americano “traditore” che osò denunciare i responsabili di due guerre mondiali, si segnalava nei pressi del lago di Como, la presenza di un britannico obeso, con l’orecchio all’ascolto di sempre più fievoli eco, disperse nel vuoto, fino alla decisa pressione d’uno scarpone militare straniero; un brindisi di compiacimento per festeggiare la morte di Radio Roma e i trionfi del Dio della Guerra.
Un’analisi retrospettiva è essenziale, dice il Poeta, non certo per convincere chi baratta la libertà con la miopia, ma per… vederci chiaro. La sorpresa non manca, quando Pound afferma che in quella occasione l’agenda di Winston Churchill non valeva meno dei diari di Mussolini e di una cartella marrone, contenente carte compromettenti.
Il premier inglese era solito annotarvi date importanti, usando la matita rossa, come per esempio “Yalta – 4 febbraio 1945”.
Per Dresda preferiva il colore blu, che ricorda le bombe al fosforo, stilando di suo pugno le note su quanto sarebbe avvenuto nella città tedesca undici giorni dopo.
Perché mai la Conferenza economica di Bretton Woods ebbe luogo un mese dopo lo sbarco in Normandia? Una direttiva del “War Production Board”, o un ordine preciso del “Pool” di Banche Internazionali che finanziavano le industrie di armamenti? Chi aveva voluto la guerra, manovrando astutamente “dietro le quinte”? Chi pretendeva il controllo della finanza mondiale?
Mullins è impressionato.
Pound continua…
Provincia di Como, Giulino di Mezzegra e dintorni – 28 aprile 1945
Lo stesso signore sovrappeso, calvo e vestito di scuro, la matita rossa e blu nel taschino, pronta a scrivere luoghi e date, e a tracciare una bella “X” trasversale sopra un nome importante e troppo scomodo. Che cosa fa costui, quando gli Alleati sono alle porte e il Cln combatte la “sua” guerra di ritorsione? Dipinge mediocri acquarelli sulle rive del lago.
Alle creazioni artistiche assistono a breve distanza i suoi attenti custodi, agenti del Secret Operations Executive (SOE).
Fra i cadaveri, che entro poche ore penderanno a testa in giù in Piazzale Loreto, ci sarà anche quello dell’uomo che voleva difendersi e sapeva troppe cose.
Il signore obeso, vestito di scuro, che non conosce le sventure di Mani, l’eretico, né l’orrenda fine di Dioniso, o del Paracleto consolatore, due volte crocifisso, traccia due “X” in rosso su quel nome e riprende a pasticciare acquarelli.
Nelle orecchie risuonano i primi sette versi del Canto Pisano 74, (scritti su carta igienica, all’interno di una gabbia per animali, esposta alle intemperie in aperta campagna).
Lì si apprende che rischia la condanna a morte chiunque raccomandi la “moneta a scadenza” di Silvio Gesell, le teorie monetarie del Maggiore Douglas e osi maledire il “putrido” gold standard e i Banchieri usurai. Ma dal ventoso viale di Washington, dove si aprono i portali della Suprema Corte giunge l’eco della sentenza, nella severa voce di un giudice che si appresta a decretare insanità mentali.
Il “folle” avrebbe fatto anche l’uomo in gabbia per manifestare i tormenti del secolo breve e il grande inganno, di cui il mondo sarebbe stato vittima, senza il bisogno di cercare conferme fra gli appunti di Winston Churchill.
In America intanto i sondaggi già tendono a far crescere l’ottimismo, mentre di fatto la vita continua fra incertezze e paure.
Per altro, nessuno crede più alla casualità di quel che accade in politica. Né alle stime che confermano il prevalere degli “accidentalisti” sui “cospirazionisti”. Ma chi se la sentiva allora di smentire il compianto Presidente, Franklin Delano Roosevelt, autorevole pedina di Wall Street, e quanto egli avrebbe confidato al proprio ambasciatore a Londra, Joseph (Joe) Kennedy: “ In politics nothing happens by chance, if it happens you may bet it was planned that way”?
Nel grande Paese della Libertà si vive intanto l’età dell’ansia, da secoli sofferta e pianificata per i decenni a venire.
“The Age of Anxiety” è, fra l’altro, poema fresco di stampa, che guadagna il Pulitzer, la buona fama di W.H. Auden e crea non pochi equivoci nella società americana del dopoguerra, più incline a ingoiare ansiolitici che a leggere versi (ignorando che le strade della follia spesso non portano al manicomio).
Pound si congeda, pregando Mrs. Dorothy di accompagnare il visitatore all’uscita.
Al commiato, un biglietto di 10 dollari si protende verso Mullins ed è accettato volentieri. Rimborso spese settimanali per svolgere una piccola inchiesta.
Dove? Alla Library of Congress, naturalmente. Lì c’è tutto quello che occorre sapere sul Vreeland-Aldrich Act, e molto altro ancora. Per esempio quanto accadde in una stazione ferroviaria del New Jersey durante una sera d’autunno del 1910.
Il bibliotecario intanto accetta l’incarico che gli costerà, subito dopo, il posto di lavoro.


23 Settembre 2011 12:00:00 - http://rinascita.eu/index.php?action=news&id=10489

jeudi, 29 septembre 2011

Der Staat in interiore homine: Die Staatskonzeption Giovanni Gentiles

Der Staat in interiore homine: Die Staatskonzeption Giovanni Gentiles

Giovanni B. Krähe

http://geviert.wordpress.com

Giovanni Gentile war bereits in den Jahren um den Ersten Weltkrieg eine Leitfigur des italienischen Geisteslebens. Als der Faschismus zum Regime wurde, wurde er im ersten Kabinett Mussolinis Erziehungsminister (Oktober 1922 – Juni 1924) und führte eine tiefgreifende Reform der Schulen und Universitäten durch (Canistraro 1982; Fossati 1998; Ragazzini 1998). Als persönlicher Vertreter Mussolinis verfasste Gentile die faschistische Staatslehre (Dottrina del Fascismo, 1928-1929) und leitete L’istituto fascista di cultura (1925), so dass er lange Zeit die führende Persönlichkeit der Intellektuellen blieb, die sich für den Faschismus entschieden hatten. Als die militärische Niederlage des Faschismus bereits offensichtlich war, hielt Gentile dem Regime Treue und nahm an der von Mussolini gegründeten Repubblica di Salò (1943-1945) teil, bis er am 15. April 1944 von kommunistischen Partisanen erschossen wurde. Nach Campi (2001) war der gewaltsame Tod von Gentile für die Kommunistische Partei Italiens notwendig, wenn sie eine neue politische Hegemonie nach dem Sturz des Faschismus durchführen wollte. Dieses hegemonische Projekt „era finalizzato ad imprimere al Partito comunista Italiano una base ideologica nazionale ed a sostituire l’egemonia crociano-gentiliana con quella marx-gramsciana …” (Campi 2001: 152). Die theoretische Grundlage der Staats-philosophie Gentiles und damit die Ideen über die Rolle des Staats als politische Institution wurden aber von Gentile formuliert, bevor der Faschismus als solcher existierte. Tatsächlich schrieb Gentile seine ersten politischen Schriften während des Ersten Weltkriegs. Seine Überlegungen über den Zusammenhang zwischen Philosophie und Politik hatten damals einen besonderen Stellenwert in Gentiles politischem Denken:

La realtà nota alla filosofia moderna è lo spirito inteso come quella realtà appunto che il filosofo attua filosofando … E però filosofare è precisamente conoscere (e quindi costruire) non una generica personalità politica e il sistema al quale essa può appartenere, ma la propria personalità attuale nel sistema della politica del proprio paese. E soltanto attraverso la determinatezza di questa individualità storica si fa strada l’universalità del concetto, a cui la filosofia oggi aspira (Gentile 1918d: 153-154).

Der Krieg, an dem Italien seit 1915 auf Seiten der Entente teilnahm, wurde von Gentile nicht als der Sieg oder die Niederwerfung konkurrierender Nationen, sondern als symbolisches Ereignis sowie moralische Pflicht aufgefasst, der sich niemand entziehen durfte. Der politische und geistige Zusammenschluss der Italiener, der in Friedenszeiten nicht möglich wäre, wurde nach Gentile durch die außergewöhnliche Anstrengung der Kriegszeit erreicht: „Politisches Endziel bleibt die Verpflichtung aller auf das nationale Interesse und insoweit die Schaffung einer einheitliche Gemeinschaft im Gegensatz zu einer zersplitterten Gesellschaft“ (Schattenfroh 1999: 101). Diese totalisierende Konzeption des Kriegsereignisses, die den Anstoß, so Gentile, zu einer politisch-moralischen Erneuerung des Lebens in Italien gibt, übernimmt eine integrative Funktion, indem das Schicksal jedes Einzelnen mit dem Schicksal der Nation verflochten wurde: Der Bürger wird mit seinem Staat durch den starken Charakter des Kriegserlebnisses politisch identifiziert und der Staat wird gleichzeitig durch Ontologisierung zum Garanten dieses Identitätsprinzips. Darin, dass Gentile dieses  Identitätsprinzip mit dem Kriegserlebnis als moralischer Pflicht gleichsetzt, liegt die erste Grundlage des Staatsbewusstseins als Garanten der Einheit zwischen Gesellschaft und Staat, d.h. als Stato etico (ethischer Staat) (vgl. Gentile 1918b: 13). Sowohl die Nationsidee als transzendente Einheit aller politischen Fraktionen (Gentile 1919a, 1919b), als auch die Tendenzen zum aktiven Veränderungswillen als  Handlungsmodell setzen sich in den ersten philosophischen Überlegungen Gentiles fort (vgl. Gentile 1918b: 17; 1918c).

 

In Gegensatz zur klassischen liberalen Staatskonzeption, die in der modernen gesellschaftlichen Entwicklung eine unterscheidbare sowie autonome Zivilgesellschaft sieht, integriert Gentile die Staatlichkeit als organische Leitidee in das Bewusstsein des Individuums. Daraus aber resultiert, dass der faktische Staat als politische Institution und damit sein Machtapparat den Einzelwillen nicht auflöst, insofern als der Staat als verinnerlichte soziale Institution ein Lebenszweck des Individuums wird:

Lo Stato non è inter homines, come pare, ma in interiore homine: non è niente di materiale, ma una realtà spirituale, che è in quanto vale; e vale nella coscienza del cittadino. Il quale non riconosce fuori di sé la società, di cui è parte, se non in quanto la instaura dentro di se medesimo, come parte essa stessa, della sua vita morale (Gentile 1919c: 113 Hervorhebung von mir).

Die These der Identität von Staat und Bürger leitet sich  aus den philosophischen Grundlagen der aktualistischen Ethik Gentiles ab. Die „Philosophie des Akts“ bzw. „der aktualistischen Idealismus“, kurz „Aktualismus“, fokussiert das Interesse auf die Struktur des menschlichen Geistes, der als Denkprozess betrachtet wird (Gentile 1987).

Auf einer erkenntnistheoretischen Ebene folgert Gentile tatsächlich alle Wirklichkeit aus der Tätigkeit des Denkens, indem die Außenwelt dem menschlichen Geist in Form des „absoluten Ichs“ zugesprochen wird (Gentile 1987: 18 ff.). Die Außenwelt als Produkt des menschlichen Geists wird aber in einem Subjektivismus nicht aufgelöst, insofern als das Verhältnis zwischen absolutem Ich und Individuum nicht unmittelbar ist. In Gegensatz zu den philosophischen Voraussetzungen des klassischen Idealismus, erweist sich der Aktualismus „als eine totalisierende Philosophie des menschlichen Tuns an sich“ (Schattenfroh 1999: 64), insofern als sich die Tätigkeit des denkenden Ichs nicht auf das Objekt, sondern auf den praktischen Akt des Willens, auf den „pensiero pensante“, stützt (Gentile 1987: 44).

Durch die zentrale Stellung des „reinen“ Akts als philosophisches Prinzip entsteht aber ein spezifisches Verhältnis zwischen dem „absoluten Ich“ Gentiles und dem Individuum: Das  „absolute“ Ich kann sich als Tätigkeit des Denkens eines partikulären Individuums nicht erweisen – wenn ja, würde daraus resultieren, dass die Erkenntnis der Außenwelt nicht total durch den Akt, sondern partial durch das relativistische Verhältnis Objekt-Subjekt, wie beim klassischen Idealismus geschehen würde. Im Vordergrund der Begriffsbildung Gentiles steht also der Mensch als solcher, nicht die konkreten Individuen. Gentile nennt individualistische Konzeptionen sowie ihre politischen Erscheinungsformen – Liberalismus und Sozialismus – unterschiedslos „Materialismus“, da sowohl eine abstrakt-theoretische Einheit (die Pluralität von Individuen), als auch ein Telos (der Kommunismus) von beiden Denkströmungen monistisch  vorausgesetzt werden:

L’idealismo assoluto e il materialismo storico sono tutti due monismi e per la forma e per la sostanza. Tutto è continuo divenire: monismo della forma. Tutto è essenzialmente idea … o materia, monismo della sostanza (Gentile 1957: 148).

Auf einer sozialphilosophischen Ebene sieht also Gentile nicht im dialektischen Prozess der verschiedenen individuellen Akte, sondern im Moment des menschlichen Willens als Akt des absoluten Subjekts die Entstehung der Gesellschaft. Am Ausgangspunkt der Staatskonzeption Gentiles wird die Pluralität von Personen ausgeklammert, da die Gesellschaftlichkeit mit der Universalität des aktualistischen Willens als überindividueller Wille gleichgesetzt wird. Die Individuen werden durch diesen überindividuellen Willen als Staat in interiore homine aufgelöst, der Spiegelbild des faktischen Staates ist.

Der faktische Staat ist aber für Gentile ständiger Prozess eines nie ganz vollendeten idealen Staates. Auf der Tendenz zur Einheit von Einzel- und Gemeinschaftswillen durch ein normatives Staatsmodell – den ethischen Staat -  beruht  der politische Charakter der Pädagogik Gentiles und dadurch die Rolle der kulturellen Sphäre in der Gesellschaft (Gentile 1925a, 1927). Der Zusammenhang zwischen Politik und Kultur, zwischen politischen Institutionen und gesellschaftlichen Zeichenpraktiken beruht auf der Möglichkeit, dass ein vollendeter ethischer Staat zu einem Erzieherstaat werden kann. Nach Gentile kann der Staat Bestand haben, wenn er ein kollektiv-einheitliches politisches Bewusstsein durch ein politisch-edukatives Programm ermöglicht (vgl.Gentile 1925b). In Gegensatz zum klassischen Liberalismus, der die freie individuellen Entfaltungsmöglichkeiten betont, hebt Gentile die Überwindung der Trennung von subjektivistisch-individueller sowie entpolitisierter „Kultivierung des Geistes“ und überindividuellem Willen als idealer Kulturstaat in interiore homine hervor:

E noi, in mezzo al popolo italiano e tra le scuole in cui esso ha incominciato a rinnovarsi e temprarsi al nuovo ideale della vita nazionale, vogliamo levare una bandiera che possa richiamare e raccogliere intorno a sé uomini di pensiero e uomini di azione in una società che faccia sentire al pensiero la sua immanente responsabilità pratica e all’azione la sua segreta scaturigine nei sentimenti che il pensiero educa e alimenta  (Gentile 1925a: 65; vgl. dazu 1918a).

Im Erzieherstaat als Schöpfer jeder Semantik in der Gesellschaft erschienen klar die hegemonischen Elemente von Gentiles Staatsideen. Durch die Überwindung der Trennung von Kultur und Politik/Staat wurde so das politisch-edukative Programm Gentiles zur Hegemoniekonzeption des italienischen Faschismus.


 

Fossati, Roberta (1998): Giovanni Gentile. In: Alberto di Bernardi/ Scipione Guarracino (Hrsg.): Il Fascismo. Dizionario di storia, personaggi, cultura, economia, fonti e dibattito storiografico. Milano: Mondadori.

Ragazzini, Dario (1998): Riforma Gentile. In: Alberto di Bernardi/ Scipione Guarracino (Hrsg.): Il Fascismo. Dizionario di storia, personaggi, cultura, economia, fonti e dibattito storiografico. Milano: Mondadori.

Schattenfroh, Sebastian (1999): Die Staatsphilosophie Giovanni Gentiles und die Versuche ihrer Verwirklichung im faschistischen Italien. Frankfurt a.M.: Peter Lang Verlag.

Gentile, Giovanni/Mussolini, Benito/ Volpe, Gioacchino (1932): Dottrina del Fascismo. In: Enciclopedia Italiana di scienze, lettere ed arti. Bd. XIV. Roma: Treccani. S. 847-884.

Gentile, Giovanni (1918a): L’unità della cultura. In: Giovanni Gentile: Fascismo e cultura. Hrsg. von Istituto nazionale fascista di cultura. 1928. Milano: Fratelli Treves Editori. S. 1-15.

-  (1918b): Il significato della vittoria. In: Giovanni Gentile: Dopo la vittoria. Opere. Bd.  XLIV. 2., erweit. Aufl. 1989. Firenze: Le Lettere. S. 5-18.

-  (1918c): Lo spettro bolscevico. In: Giovanni Gentile: Dopo la vittoria. Opere. Bd. XLIV. 2., erweit. Aufl. 1989. Firenze: Le Lettere. S. 27-30.

-  (1918d): Politica e filosofia. In: Giovanni Gentile: Dopo la vittoria. Opere. Bd. XLIV. 2., erweit. Aufl. 1989. Firenze: Le Lettere. S. 138-158.

-  (1919a): Stato e categorie. In: Giovanni Gentile: Dopo la vittoria. Opere. Bd. XLIV. 2., erweit. Aufl. 1989. Firenze: Le Lettere. S. 69-72.

-  (1919b): Ordine. In: Giovanni Gentile: Dopo la vittoria. Opere. Bd. XLIV. 2., erweit. Aufl. 1989. Firenze: Le Lettere. S. 31-34.

-  (1919c): L’idea monarchica. In: Giovanni Gentile: Dopo la vittoria. Opere. Bd. XLIV. 2., erweit. Aufl. 1989. Firenze: Le Lettere. S. 108-118.

-  (1919d): Liberalismo e liberali. In: Giovanni Gentile: Dopo la vittoria. Opere. Bd. XLIV.   2., erweit. Aufl. 1989. Firenze: Le Lettere. S. 120-131.

-  (1925a): Discorso inaugurale dell’istituto nazionale fascista di cultura. In: Giovanni Gentile: Fascismo e cultura. Hrsg. von Istituto nazionale fascista di cultura. 1928. Milano: Fratelli Treves Editori. S. 17-37.

-  (1925b): Contro l’agnosticismo della scuola. In: Giovanni Gentile: Fascismo e cultura. Hrsg. von Istituto nazionale fascista di cultura. 1928. Milano: Fratelli Treves Editori. S. 39-43.

-  (1927): I propositi dell’istituto. In: Giovanni Gentile: Fascismo e cultura. Hrsg. von Istituto nazionale fascista di cultura. 1928. Milano: Fratelli Treves Editori. S. 77-81.

 -  (1957): La filosofia di Marx. Studi critici [zuerst 1899]. In: Giovanni Gentile. Opere. Bd. XVIII. Firenze: Sansoni.   

 -  (1987): Teoria generale dello spirito come atto puro [zuerst 1916]. 7., bearb. Aufl. In: Giovanni Gentile. Opere. Bd. III. Firenze: Le Lettere. S. 1-86.

Canistraro, Philip. V. (1982): Giovanni Gentile. In: Ders. (Hrsg.): Historical dictionary of Fascist Italy. Connecticut: Greenwood Press.Campi, Alesandro (2001): Giovanni Gentile e la RSI. Morte “necessaria” di un filosofo. Milano: Asefi.

Masa y Poder: Ezra Pound pedagogo

Presentación del libro de Ezra Pound; Guía de la Kultura, Capitán Swing, Madrid, 2011

“I was twenty years behind the Times”
(Ezra Pound, ‘Contemporania’, 1913)

Masa y Poder: Ezra Pound pedagogo

Por Nicolás González Varela

http://geviert.wordpress.com

 

“GUÍA DE LA CULTURA. Título ridículo, truco publicitario. ¿Desafío? Guía debería significar ayuda a otra persona a llegar a un sitio. ¿Debemos de despreciarlo? Tiros de prueba.”[1] El único libro del economista-poeta Ezra Loomis Pound que salió en el annus memorabilis de 1938[2] fue una anomalía desde todo punto de vista. Su título: Guide to Kulchur (GK). En sus páginas puede disfrutarse del mejor Pound vanguardista, que como Minerva nace armado con su método ideogramático, un Pound sin temor ni temblor a fundir en una nueva síntesis, en una Summa de su pensamiento, nada menos que a Jefferson, Mussolini, Malatesta, Cavalcanti y Confucio. Pound vive en la Italia fascista desde fines de 1924, ha vivido la consolidación, estabilización y maduración del regimen fascista, desde cuyas fórmulas políticas e instituciones económicas, cree con fervor, puede plantearse una terza via entre el capitalismo liberal en bancarrota y el socialismo burocrático de Stalin. También son los años en que Pound, demostrando su estatura intelectual, pasa de las preocupaciones estéticas a las éticas. El libro tiene su propia historia interna, una poco conocida tortured history: en febrero de 1937 Pound inicia una correspondencia con el playful in-house editor Frank Morley (a quién Pound llamaba cariñosamente por su tamaño Whale, ballena), de la editorial inglesa Faber&Faber. Pound le informa acerca de un nuevo libro revolucionario de prosa. Estaría muy bien, le contestaba Morley, que en lugar de escribir algo similar a su ABC of Reading, de 1934, publicara sus ideas sobre lo que entiende por la Cultura con mayor extensión y profundidad. Inmediatamente Pound le contesta que pensaba en primer lugar en una obra que se llamaría The New Learning (El nuevo Aprendizaje), luego sugirió el nombre de Paideuma, pero desde el principio el editor Morley lo consideraría, más que como un Hauptwerk exhaustivo sobre el tema, como una introducción o guía, por lo que surgió el nombre de Guide to Cultur, que llevaría un subtítulo curioso luego desechado “The Book of Ezro”: “un libro que pueda funcionar como una educación literaria para el aspirante a todas las excavaciones y que desea hacer volar el mundo académico antes que hacer su trabajo.”[3] Morley además le aseguraba que para un popular textbook como del que hablaba, existía un amplio mercado potencial de lectores. En una carta dirigida al editor Pound en febrero de 1937 describía el proyecto como “lo que Ez (Ezra) sabe, todo lo que sabe, por siete y seis peniques” (y en tamaño más portable que el British Museum)[4], y le explicaba que introduciría algunos contrastes entre la decadencia de Occidente y Oriente y que también mencionaría los aspectos “raciales” de la Cultura. Además describía el esqueleto de su futura obra en tres grandes bloques: I) Método (basado en las Analectas de Confucio); II) Filosofía (en tanto una exposición y a la vez crítica de la Historia del Pensamiento) y III) Historia (genealogía de la acción o los puntos cruciales del Clean Cut).[5] Finalmente se firmó el contrato formal entre ambas partes y el libro se denominaba en él como Ez’ Guide to Kulchur.

GK fue publicada entonces por la editorial Faber&Faber[6] en el Reino Unido en julio de 1938 y por la editorial New Directions, pero bajo el título más anodino de Culture, en noviembre de 1938 en la versión para los pacatos Estados Unidos. Pound la escribió de corrido en un mes durante la primavera de 1937 (marzo-abril), bajo un estado anímico al que algunos biógrafos como Tytell denominaron “a sense of harried desperation”.[7] Como saben los que conocen su vida y obra, cada movimiento que propugnaba lo tomaba como un asunto de emergencia extrema y límite. Según el irónico comentario del propio Pound “el contrato de la editorial habla de una guía DE la cultura no A TRAVÉS de la cultura humana. Todo hombre debe conocer sus interioridades o lo interno de ella por sí mismo.” y efectivamente no defraudó a sus editores en absoluto. El libro (si podemos denominarlo así) era un escándalo antes de ver la luz. Aparentemente nadie de la editorial leyó en profundidad el manuscrito en su contenido polémico y cercano al libélo. Ya había ejemplares encuadernados, listos para entregar al distribuidor, cuando la editorial inglesa Faber&Faber decidió que, posiblemente, algunos pasajes eran radicalmente difamatorios. Al menos, según cuentan especialistas y biógrafos confiables, se arrancaron quince páginas ofensivas, se imprimieron de nuevo y se pegaron con prisa; también se imprimieron nuevos cuadernillos de páginas para los ejemplares que no habían sido encuadernados todavía.[8] No nos extraña: sabemos que Pound como crítico “jamás experimentó el temor de sus propias convicciones”, en palabras de Eliot. Quod scripsi scripsi. Lo extraño y maravilloso es que el libro como tal haya sobrevivido a semejante desastre editorial. GK fue finalmente publicado el 21 de julio de 1938, estaba dedicada “A Louis Zukofsky y Basil Bunting luchadores en el desierto”. Zukofsky era un mediocre poeta objetivista neyorquino, autodefinido como communist, al que Pound adoptó como discípulo y seguidor de sus ideas[9]; a su vez Bunting era un poeta británico, conservador e imperialista, que Pound ayudó con sus influencias intelectuales y el mecenazgo práctico.[10] Pound mismo consideraba GK, circa 1940, como la obra en la que había logrado desarrollar su “best prose”[11], además la ubicaba, junto a The Cantos, Personae, Ta Hio, y Make It New, en el canon de sus opera maiorum. También lo consideraba uno de sus libros más “intensamente personales”, una suerte de ultimate do-it-yourself de Ezra Pound. Su amigo, el gran poeta T. S. Eliot afirmó que tanto GK como The Spirit of Romance (1910) debían ser leídos obligatoriamente con detenimiento e íntegramente. Aunque puede considerarse el más importante libro en prosa escrito por Pound a lo largo de su vida[12], sin embargo Guide to… no cuenta con el favoritismo de especialistas y scholars de la academia (a excepción de Bacigalupo, Coyle, Davie, Harmon, Lamberti, Lindberg y Nicholls).[13] El mejor y más perceptivo review sobre el libro lo realizó su viejo amigo el poeta Williams Carlos Williams, en un artículo no exento de críticas por sus elogios desmesurados a Mussolini titulado “Penny Wise, Pound Foolish”. En él, Williams señalaba que a pesar de todas su limitaciones o errores involuntarios, GK debía ser leído por el aporte de Pound en cuanto a revolucionar el estilo, por su modo de entender la nueva educación de las masas y por iluminar de manera quirúrgica muchas de las causas de la enfermedad de nuestro presente.[14] En cambio nosotros no consideraremos a GK ni como un libro menor, ni como un divertido Companion a su obra poética, ni como un torso incompleto, ni siquiera como un proyecto fallido. En realidad GK es una propedeútica al sistema poundiano, su mejor via regia, un acceso privilegiado a lo que podríamos denominar los standard landmarks[15] de su compleja topografía intelectual: la doctrina de Ch’ing Ming, el famoso método ideogramático, su libro de poemas The Cantos entendido como un tale of the tribe, la figura de la rosa in steel dust,[16] la forma combinada de escritura paratáctica[17], el uso anti y contrailustrado de la cita erudita, su deriva hacia el modelo fascista (la economía volicionista y su correspondiente superestructura cultura)[18], la superioridad en el conocimiento auténtico de la Anschauung[19] como ars magna y el concepto-llave de Paideuma. GK puede ser además considerado un extraordinario postscript a su opera maiorum, hablamos de la monumental obra The Cantos, en especial a los poemas que van del XXXI al LI, publicados entre 1934 y 1937. Pound se propone incluso romper con su propia prosa pasada: “Estoy, confío de manera clara, haciendo con este libro algo diferente de lo que intenté en Como leer, o en el ABC de la Lectura. Allí estaba tratando abiertamente de establecer una serie o un conjunto de medidas, normas, voltímetros; aquí me ocupo de un conjunto heteróclito de impresiones, confío que humanas, sin que sean demasiado descaradamente humanas.”[20]

propaganda americana contra la cultura alemana

US propaganda contra la cultura alemana, I Guerra

 

En primer término, y por encima de todo, debemos señalar al lector ingenuo que Ezra Loomis Pound ha sido un pedagogo y un propagandista antes que nada y se propone nada más ni nada menos que GK sea un Novum Organum, al mejor estilo baconiano[21], de la época incierta que se abre ante sus pies. Llamarlo Kulchur tiene su explicación filosófica y política: Pound quería referirse al concepto alemán de Cultura (Kultur) pero para diferenciarlo del tradicional que utiliza la élite (irremediablemente lastrado de connotaciones clasistas, nacionalistas y raciales), lo escribe según la pronunciación; y al mismo tiempo anula la indicación tradicional que tiene el concepto Cultur en inglés. Este sesgo nuevo y revolucionario a lo que entendemos en la Modernidad por Cultura es el primer paso para la tarea de un New Learning de masas y la posibilidad histórica de un nuevo Renacimiento en Europa, ya que “las democracias han fallado lamentablemente durante un siglo en educar a la gente y en hacerle consciente de las necesidades totalmente rudimentarias de la democracia. La primera es la alfabetización monetaria.” Su significado temático revolucionario, intentar comprender de otro modo al Hombre, la Naturaleza y la Historia, debemos señalarlo, excede el mero ejercicio de escribir poesía. Es una vigorosa reacción contra la Aufklärung, que para Pound es una período de lenta decadencia, la verdadera Dark Age de Occidente, signado por la subsunción de toda la Cultura a la usura y el mercantilismo más brutal (institucionalizados en una forma perversa: la banca): “Hemos ganado y perdido cierto terreno desde la época de Rabelais o desde que Montaigne esbozó todo el conocimiento humano.”[22] Como Nietzsche, Pound rescata de las Lumiéres tan solo a Bayle y Voltaire y si Nietzsche intentó este nuevo desaprendizaje-aprendizaje contra la Modernidad desde la forma literario-política del aforismo, Pound lo intentará desde el ideograma y el fragmento citacional, buscando el mismo efecto pedagógico en las masas, en el hombre sin atributos, que había experimentado en persona en la Mostra della Rivoluzione Fascista[23] inaugurada en el Palazzo delle Esposizioni de Roma en 1932.

¿El libro es en realidad un enorme ideograma de acceso a la verdadera Kulchur? Recordemos que para Pound Cultura con mayúsculas es cuando el individuo ha “olvidado” qué es un libro, o también aquellos que queda en el hombre medio cuando ha olvidado todo aquello que le han enseñado.[24] Y que entonces de alguna manera la auténtica Cultura se correlaciona con una forma privilegiado de relación entre el sujeto y el objeto, la Anschauung, opuesta sin posibilidad de cancelación con el Knowledge de la Modernidad, un producto amnésico y totalitario (en sentido gestáltico, no político) prefabricado a través de un enfoque deficiente de el Arte, la Economía, la Historia y la Política. La Anschauung es superior, tanto epistémica como políticamente: “La autoridad en un mundo material o salvaje puede venir de un prestigio acumulado, basado en la intuición. Confiamos en un hombre porque hemos llegado a considerarle (en su totalidad) como hombre sabio y bien equilibrado. Optamos por su presentimiento. Realizamos un acto de fe.”[25] Siempre hay que subrayar que Pound no tiene como propósito exclusivamente el regodeo narcisista de transmitir “descubrimientos”, ni progresar en algún tipo de carrerismo académico, sino que su pathos radical presionaba a que sus tesis deben ser llevadas a la práctica, y por ello él mismo nos muestra el camino y custodia con celo la senda adecuada para tal traducción material: “Y al llegar aquí, debemos hacer una clara diferencia entre dos clases de «ideas». Ideas que existen y/o son discutidas en una especie de vacío, que son como si fueran juguetes del intelecto, e ideas que se intentan poner en «acción» o guiar la acción y que nos sirven como reglas (y/o medidas) de conducta.”[26] La distinción de Pound fijada en el concepto técnico de “Clean Cut” entre ideas in a vacuum y las ideas in action (básicas como reglas de conducta) es crucial en este sentido.[27] Pound decía que al final GK no era más que “su mapa de carreteras, con la idea de ayudar al que venga detrás a alcanzar algunas pocas de las cimas, con menos trabajo que el que uno ha tenido…” Para lograr una educación profunda y postliberal, decía Pound que el alumno debía dominar las siguientes bases mínimas: todo Confucio (en chino directamente o en la versión francesa de M. G. Pauthier), todo Homero (en las traducciones latinas o en la francesa de Hughes Salel), Ovidio, Catulo y Propercio (utilizando como referencia la Metamorfosis de Golding y los Amores de Marlowe), un libro de canciones provenzales (que al menos incluya a los Minnesingers y a Bion), por supuesto Dante (además treinta poemas de sus contemporáneos, en especial de Cavalcanti), “algunos otros temas medievales… y algún esbozo general de la Historia del Pensamiento a través del Renacimiento, Villon, los escritos críticos de Voltaire (incluyendo una pequeña incursión en la prosa contemporánea), Stendhal, Flaubert (y por supuesto los hermanos Goncourt), Gautier, Corbière y Rimbaud.”[28] GK es la Guía Baedeker, que puede superar en un solo mandoble las limitaciones tanto de la Modernidad liberal como el Comunismo de sello staliniano[29], a través de una nueva genealogía basada en lo que denomina the Best Tradition, o en palabras de Pound “En lo esencial, voy a escribir este nuevo Vademécum sin abrir ningún otro volumen, voy a anotar en la medida de lo posible solamente lo que ha resistido a la erosión del tiempo y al olvido. Y en esto hay un poderoso argumento. Cualquier otro camino significaría que me vería obligado a tener que citar un sinnúmero de historias y obras de referencia.”[30]

El primer efecto del método poundiano en el lector ingenuo y tradicional es la desorientación en el maremagnum de las yustaposiciones y la interrupciones en la ilación lógica. Además es evidente que Pound “juega” con el diseño gráfico de la página, trasciende la linearidad del texto, subvierte las normas establecidas de signos y morfología, trascendiendo el contenido a través de imágenes: reproducción de ideogramas, partituras musicales, fragmentos citacionales de temas diversos, citaciones ad verbatim, déjà-vus semánticos, formas coloquiales anónimas et altri. Esto efectos no son meramente buscados en busca de algún efecto visual “vanguardista”, “lúdico” o “creativo”, en absoluto (aunque co-existan en GK como efectos de composición) sino de crear un nuevo soporte, mitad estilo mitad icónico, capaz de vehicular, de soportar como medio comunicativo eficaz, la nueva sensibilidad que reclama Occidente en decadencia: “El lector con prisas puede decir que escribo en clave y que mis afirmaciones se deslizan de un punto a otro sin conexión u orden. La afirmación es, sin embargo, completa. Todos los elementos están ahí, y el más perverso de los aficionados a los crucigramas debería ser capaz de resolverlo o de verlo.”[31] Pound reclama en GK su idea de One-Image Poems, paradigma poético-icónico,  o incluso podemos llamarlo una suerte de “lenguaje mosaico”, que como hemos señalado, se eleva sobre el sólido fundamento de la yuxtaposición paratáctica de texto e imágenes diversas, creando una suerte de espacio acústico.[32] El aspecto formal del método ideogramático es muy importante para Pound, y uno de sus componentes centrales es su propia definición de imagen como una presencia compleja que implica tanto lo intelectual como lo puramente emocional en una simultaneidad: “an Image is that which presents an intellectual and an emotional complex in an instant of time.”[33] Una definición totalmente bergsoniana: la inmediata, la interacción intuitiva inmediata con la imagen, el mismo instante del tiempo en que esta interacción se produce, el espontáneo crecimiento formativo por la presencia del élan vital, el retorno a los horned Gods y la libertad total con respecto de los límites “normales” que determinan el cuadro perceptivo burgués, tienen directa contraparte con el concepto de evolución creadora de la filosofía de Henri Bergson.

GK es concebido por Pound para las grandes masas, el gran público amorfo de la infernal sociedad industrial-mercantilista[34], el despreciado uomo qualunque, al cual el poeta intenta re-educar en un modo revolucionario, polémico y de mortal enfrentamiento con el sistema institucional y académico burgués y para sobrevivir a la sobre información generada por la opinión pública moderna: “Estoy, en el mejor de los casos, tratando de suministrar al lector medio unas pocas herramientas para hacer frente a la heteróclita masa de información no digerida con que se le abruma diaria y mensualmente, y lista a enmarañarle los pies por medio de libros de referencia.”[35] La hipótesis no explícita de Pound es el reconocimiento de la irrupción irreversible en la Historia de una nueva “masa”, heterogénea y segmentada (aunque tanto el tardoliberalismo como el burocratismo soviético intentarán homogeneizarla y uniformarla), que empuja a revisar axiomas y arcani imperii consolidados: estado, economía, política, cultura, organismo social, poder. Es a esta masa, que soporta el efecto reaccionario de los new media, es el objeto privilegiado de intervención al que se dirige GK con la ideología a la que adhiere Pound, tanto en lo personal (las nuevas teorías económicas de Gesell, el confuso antisemitismo)[36] como en lo corporativo (el Stato totale de la Italia fascista como anticipación)[37]. El método ideogramático se coloca así como una refinadísima actividad de agitprop, con la capacidad de retomar fuentes de la tradición culta (consciente y críticamente seleccionadas)[38], elementos literarios como la voz y la autoridad autoral (que le otorga credibilidad e identidad al texto), para refundirlos con los nuevas necesidades de consenso y reproducción que han generado en el sustrato popular los nuevos medios de comunicación (¡de masas!) de la esfera pública burguesa, así como las modalidades de consumo y ocio. Y es por ello la importancia hoy de volver a leer GK como un laboratorio que lleva a sus límites la propia Weltanschauung tardomodernista, en esa experimentación entre desarrollo formal y la voluntad de generar nuevos “efectos” que van más allá de lo meramente poético en el uso de herramientas retóricas.

Pound persigue regenerar un Total Man, pero revulsivo y de signo inverso al de la ideología demo-liberal, que puede realizar una conversión y metamorfosis de tal magnitud que le permita “conversar” con los grandes filósofos y generar buenos líderes. Esta “regeneración”, por supuesto, es incompleta y unilateral si no se logra que los vórtices del Poder y los vórtices de la Cultura coincidan[39], por lo que la efectividad de GK sólo podrá verse reflejada cuando la forma estado en Occidente tienda hacia el Stato totale[40] de la Italia fascista. Y del elemento corporativo deberían aprender con humildad las deficientes y corruptas democracias liberales, en especial Reino Unido y los Estados Unidos de América, ya que “NINGUNA democracia existente puede permitirse el pasar por alto la lección de la práctica corporativa. El ‘economista’ individual que trate de hacerlo, o bien es un tonto o un sinvergüenza o un ignoramus.” En otro polémico libro, Jefferson and/or Mussolini, Pound lo describe de esta manera: “Un buen gobierno es aquel que opera de acuerdo con lo mejor de lo que se conoce y del pensamiento. Y el mejor gobierno es el que traduce el mejor pensamiento más rápidamente en acción.”[41] De igual manera lo expresa mucho más pristínamente en GK: “El mejor gobierno es (¿naturalmente?) el que pone a funcionar lo mejor de la inteligencia de una nación.”[42] Es esa simultaneidad expresada en un Best Government es la que abrirá la puerta en Europa a un nuevo Renacimiento, a una Era of Brillance libre de la Ley del valor capitalista (explotación) y de su efecto más funesto: la usura: “Si el amable lector (o el delegado a una conferencia internacional económica de U.S.A.) no puede distinguir entre su sillón y la orden de un alguacil, que permita a este último secuestrar dicho sillón, entonces la vida le ofrecerá dos alternativas: ser explotado o ser más o menos alcahuete, mimado por los explotadores, hasta que le llegue el turno de ser explotado.”[43] La nueva Kulchur debería ser una arma masiva y práctica contra la explotación, una arma que trasciende tanto la burocrática proletarskaya kultura de la URSS como la falsa meritocracia del sistema demo-liberal anglosajón, cuya alma oculta es el mecanismo de la usura. La usura, un tema omnipresente en la obra de Pound, es definida en su libro The Cantos, en una nota bene al canto XLV como: “Usura: gravamen por el uso del Poder adquisitivo, impuesto sin relación a la producción, a veces sin relación a las posibilidades de la producción (de ahí la quiebra del banco de los Medici)”.[44] Para Pound, como para muchos intelectuales no-conformistas de los 1930’s, el mundo se dividía, no en proletariado y capitalistas, sino en una peculiar lucha de clases entre productores y usurers. La única posibilidad epocal de superación de este estado contra naturam del hombre, dominado por el finance Capitalism, era la coincidencia de la Paideuma con un regimen autoritario-corporativo. Y para ello era necesario un salto en la conciencia de las masas por medio de una acción pedagógica militante. Pound siempre sostuvo un compromiso con los temas educativos y una pasión vocacional por la pedagogía, hasta tal punto de planificar literary kindergartens. Se podría decir que GK es un esfuerzo más en el ideal de una sociedad basada en un nuevo aprendizaje y en medios educativos revolucionarios.

Merece un párrafo su especial relación intelectual ambivalente con Karl Marx, del cual pueden verse rescoldos en GK. La formación económica de Pound se realizó íntegramente a través de de economistas heterodoxos, algunos importantes aún hoy en día, como el economista anarquista Silvio Gesell (discípulo de Proudhon) y otros que han pasado al justo olvido, como C. H. Douglas u Odon. Ya en pleno fascismo italiano Pound dio conferencias sobre economía planificada y la base histórica de la economía en la Universidad de Milán a partir de 1933. Al inicio del ‘900 en sucesivos artículos Pound defiende las reformas socialistas llamadas Social Credit, en clave proudhonnistes y sus economistas de cabecera es siempre Douglas y Gesell, de quienes decía habían lograda acabar con the Marxist era. Como muchos pre fascistas, Pound cree que modificando la esfera de la circulación y la distribución podría nacer una nueva sociedad sin tocar las estructuras sociales y políticas, sin tocar el derecho de propiedad básico. El Fascismo es el único, entre el Comunismo y el detestable capitalismo liberal, de llevar a buen término, la justicia económica. Pound se percibe con muchas afinidades con Marx, valora su figura de social Crusader, alaba la noble indignación tal como surge en la retórica de Das Kapital, sabemos que Pound pudo leerlo en traducción italiana, pero una indignación que sin embargo es como una nube que confunden al lector. Además Marx esta en una siniestra genealogía filonietzscheana que desde la Ilustración radical desemboca en una nueva forma de décadence. Para Pound la verdad de lo que denomina Marxism materialist está en sus resultados prácticos en Lenin y Stalin, en la burocracia soviética y el Gulag: “El fango no justifica la mente. Kant, Hegel, Marx terminan en OGPU. Algo faltaba.”[45] Pound también comparte con Marx que las relaciones económicas materiales son fundamentales para la comprensión exacta de la dinámica social, y adhiere completamente a la crítica de la avaricia y la crueldad del British industrialism. Siguiendo en esto a Gesell, Pound cree que el Marxismo qua ideología fijada en un estado en realidad no significa ningún desafío al capitalismo liberal, al bourgeois demo-liberal: “Los enemigos de la Humanidad son aquellos que fosilizan el pensamiento, esto es lo MATAN, como han tratado de hacerlo los marxistas en nuestra época, lo mismo que un sin número de tontos y de fanáticos han tratado de hacerlo en todos los tiempos, desde la cadencia musulmana, e incluso antes. HACEDLO NUEVO”[46] La doctrina de Marx murió en 1883, el mismo día de su muerte: solo quedan sus acólitos construyendo un nuevo y esclerótico dogma. Del mismo Gesell, Pound tomará acríticamente su endeble crítica a la teoría de la moneda y de la ley del valor marxiana. Por ello Marx jamás podrá dañar definitivamente al Capital: “El error de la izquierda en las tres décadas siguientes fue que querían usar a Marx como el Corán. Supongo que la verdadera apreciación, esto es, el verdadero intento de apreciar el mérito verdadero de Marx empezó con Gesell y con la afirmación de Gesell de que Marx nunca ponía en duda el dinero. Lo aceptó buenamente tal como lo encontró.”[47] Sabemos que sus conocimientos de Marx son pocos y fragmentados, centrados literariamente en el capítulo VIII de Das Kapital, que se ocupa de la lucha por la jornada laboral.[48]

¿Podía calificarse a Pound de nietzscheano? Aunque se discute si existe algún elemento de nietzscheanismo difuso en Pound, es evidente que conceptos-llave de su Weltanschauung, están derivados o de Nietzsche o de seguidores, inclusive el mismo término Paideuma acuñado por Frobenius está inspirado en última instancia de un nietzscheano radical auténtico como Oswald Spengler. Se puede hablar de afinidades electivas y de influencias indirectas del Nietzschéisme en la conformación del paradójico Aristocratism side del individualismo metodológico de Pound sin lugar a dudas.[49] Pound ya utilizaba terminus technicus nietzscheanos, como Over Man (Superhombre) a inicios del ‘900, aunque producto de una lectura fragmentada y a tirones, o como él mismo confesaba en un poema I believe in some parts of Nietzsche/I prefer to read him in sections.[50] Incluso llega a aceptar como válida las consecuencias biológicas de la filosofía de Nietzsche y su oposición intransigente a toda conclusión cooperativa o colectivista: “I, personally, may prefer the theory of the dominant cell, a slightly Nietzschean biology, to any collectivist theories whatsoever.”[51] En un poema-funerario dedicado a su admirado amigo Gaudier-Brzeska titulado “Reflection”, Pound hace otro acto de fe hacia Nietzsche: “I know what Nietzsche said is true…”[52] La afinidad electiva es más que obvia, los une pasión pedagógica y una hybris reactiva: Nietzsche también estuvo obsesionado por la Paideia como base del estado, por la cuestión formativa y las reformas educativas que pudieran detener la decadencia burguesa de Occidente.[53] También como en Nietzsche, como en Mann o como en Heidegger, Pound sostiene la creencia que el stress de los costos extras de la dominación burguesa, que implica la constante revolución de las fuerzas productivas y el avance tecnológico, es insostenible, decadente y alienante. Coexisten en Pound el interés por la alta o nueva tecnología con el pesimismo sobre la interrupción vital de la fluidez de la imaginación, la negra posibilidad de la hegemonía del hombre sin atributos y sus consecuencias en la Cultura. Es la típica ambivalencia ideológica del Modernismo a la que no escapa Pound: mientras la techné es celebrada como una extensión proteica de la voluntad de poder del hombre en la máquina, el efecto total debido a la forma de dominio bourgeois es ácidamente atacada como una totalidad falsa, despersonalizada, inauténtica y vacía. Contra este gigantesco movimiento milenario de decadencia y empobrecimiento es que Pound levanta su New Learning, su revolucionaria Guía a la Cultura, y por ello afirma sin hesitar que sus ojos are geared for the horizon.[54]

La obra de Pound tanto poética como en prosa es difícil o de imposible lectura, decía sabiamente Borges, aunque reconocía la obligatoriedad de su lectura, ya que con él la literatura norteamericana y la ensayística universal había tocado las alturas más temerarias. Invitamos al lector al desafío de sumergirse en uno de las mejores ensayos del siglo XX, ahora disponible en una exquisita edición crítica y completa.

[1]Ezra Pound; Guía de la Kultura, Capitán Swing, Madrid, 2011, p. 195.

[2] En su Guide to… Pound coloca la fecha exacta de su urgente escritura: “16 de marzo anno XV Era Fascista”. Desde 1931 Pound utilizaba el nuevo calendario fascista. Los biógrafos creen que la ansiedad de Pound se debía a las consecuencias inmediatas de la crisis de Münich, el Tratado de Rapallo y la posibilidad de una guerra europea catastrófica. No estaba equivocado en absoluto.

[3] Morley le afirmaba que “seeryus & good sized home university library for the seeryus aspiring & highminded youth… a book that would function as… litry education for the aspirant with all the excavations you wish blowing up what it is the academics do instead of their job.”, en: Pound Papers, February, 1937, Yale Collection of American Literature, Beinecke Rare Book and Manuscript Library, New Haven, Connecticut; parcialmente on-line: http://beinecke.library.yale.edu/digitallibrary/pound.html

[4] Pound decía: “Wot Ez knows, or a substitute (portable) fer the Bruitish museum”, en: ibidem, February, 1937. Lo de “Bruitish” una ironía bien poundiana.

[5] Un esquema básico que mantendrá en GK: “Ningún ser viviente sabe lo suficiente para escribir: Parte I. Método; Parte II. Filosofía, la historia del pensamiento; Parte III. Historia, o sea, la acción; Parte IV. Las Arles y la Civilización.”, en: Ezra Pound; Guía de la Kultura, Capitán Swing, Madrid, 2011, p. 57.

[6] La editorial Faber fue la editorial en inglés más importante en la difusión de la entera obra de Pound, llegando a editar más de veinte títulos entre 1930 y 1960; en ella trabajaba como primary literary editor su amigo, el poeta T. S. Eliot.

[7] Tytell, John; Ezra Pound: The Solitary Volcano,  Anchor P, New York, 1987, p. 247.

[8] Stock, Noel; Ezra Pound; Edicions Alfons El Magnànim, Valencia, 1989, p. 441 y ss. Pound conservó como un tesoro cinco ejemplares de GK no expurgados. Lo señala también Gallup en su definitiva obra bibliográfica: Gallup, Donald; A Bibliography of Ezra Pound. 1963, edición revisada y ampliada: Ezra Pound: A Bibliography, University Press of Virginia, Charlottesville, 1983, quién enumera en detalle las modificaciones finales. Como dato curioso: desapareció de la versión final el nombre del vilipendiado poeta español Salvador de Madariaga.

[9] Véase la voz “Zukofsky, Louis (1904-1978)”, en: Adams, Stephen J./ Tryphonopoulos, Demetres P. (Editors); The Ezra Pound Encyclopedia, Greenwood Press, Westport, 2005, p. 309.

[10] Véase la voz “Bunting, Basil (1900–1985)”, en: ibidem, p. 22.

[11] La carta con la autointerpretación sobre GK en: Norman, Charles; Ezra Pound; Funk &Wagnalls, New York, 1968, p. 375.

[12] Los numerosos libros de prosa de Pound, algunos poco conocidos y agotados, son en orden cronológico: The Spirit of Romance (1910) Gaudier-Brzeska. A Memoir (1916), Pavannes and Divisions (1918), Instigations. . . Together with an Essay on the Chinese Written Character (1920), Antheil and the Treatise on Harmony (1924), How to Read (1931), ABC of Economics (1933), ABC of Reading (1934), Make It New (1934), Jefferson and/or Mussolini (1935), Social Credit: An Impact (1935), Polite Essays (1937), Guide to Kulchur (1938) y Literary Essays (ed. T. S. Eliot, 1954).

[13] Bacigalupo, Massimo. The Formed Trace: The Later Poetry of Ezra Pound, Columbia University Press, New York, 1980; Coyle, Michael; Ezra Pound, Popular Genres, and the Discourse of Culture, University Park: Pennsylvania State UP, 1995; Davie, Donald. Studies in Ezra Pound. Manchester,  Carcanet, 1991;  Lamberti, Elena; “’Guide to Kulchur’: la citazione tra sperimentazione modernista e costruzione del Nuovo Sapere”, en: Leitmotiv, 2, 2002, pp. 165-179; Lindberg, Kathryne V.; Reading Pound Reading: Modernism after Nietzsche, Oxford UP, New York:, 1987; Nicholls, Peter; Ezra Pound: Politics, Economics, and Writing: A Study of The Cantos, Humanities Press, Atlantic Highlands, 1984. El rechazo in toto de la academia sería para Pound justamente un elogio indirecto a su método heterodoxo de aprendizaje y educación radicalmente revolucionario.

[14] Williams, William Carlos; “Penny Wise, Pound Foolish”, en: The New Republic, 49, 28, june, 1939, pp. 229-230. Williams llamaba en la recensión a Pound “a brave Man” por su honestidad intelectual y valentía política. La única crítica de Pound a Mussolini en GK es que en su mente todavía quedan residuos de Aristóteles: “… an Aristotelic residuum…”, e: Ezra Pound; Guía de la Kultura, Capitán Swing, Madrid, 2011, p. 305.

[15] Pound los denomina nuclei, sus núcleos.

[16] Dice bellamente Pound: “La forma, el inmortal concetto, el concepto, la forma dinámica que es como el dibujo de la rosa hundido en las muertas limaduras de hierro por el imán, no por contacto material con el imán mismo, sino separado del imán. Separados por una capa de cristal, el polvo y las limaduras se levantan y se ponen en orden. Así la forma, el concepto resucita de la muerte.”, en: Ezra Pound; Guía de la Kultura, Capitán Swing, Madrid, 2011, p. 166.

[17] Parataxis: se entiende como una construcción de dos oraciones sintácticamente independientes que están en una relación de subordinación implícita en virtud de lo que se conoce como una “curva melódica” común, que hace innecesario el uso de la conjunción, uniéndolas en una relación íntima de dependencia. Véase: Mounin, Georges (Dirigido por); Diccionario de Lingüística, Labor, Barcelona, 1979, p. 139-140. Estilísticamente puede decirse que mientras la hipotaxis (relación explícita mediante un signo funcional) señala un discurso meditado y racional, incluso de cierta “distinción” social en el nivel cultural de quién la emplea, la parataxis, propia de la expresión de emociones, es de un lenguaje más popular y llano. Pound: “The Homeric World, very human”, en: GK, p. 38.

[18] Además en GK se muestra claramente, como en Cantos, el milieu intelectual fascista en el cual se mueve Pound alrededor de los círculos romanos de Edmondo Rossoni, ministro de Agricultura del Duce y editor de la influyente revista cultural La Stirpe: “Eran personalidades serias, como las que Confucio, San Ambrosio o su Excelencia Edmondo Rossoni podrían y desearían reconocer como personalidades serias.”; en esta edición, vide infra, p.  Sobre Pound y el Fascismo italiano, véase: Redman, Tim; Ezra Pound and Italian Fascism, Cambridge University Pres, Cambridge, 1991.

[19] Pound utiliza la palabra alemana Anschauung, un erkenntnistheoretischer Begriff introducido por Kant aunque ya utlizado por místicos como Notker o Meister Eckhart, para referirse a la superioridad epistemológica de la inducción y la intuición: “…la facultad que le permite a uno «ver» que dos líneas rectas no pueden encerrar una superficie, y que el triángulo es el más sencillo de todos los polígonos posibles.” Por ejemplo, el pedagogo iluminista Pestalozzi lo utilizó en un contexto operativo educativo, tal como pretende re-utilizarlo Pound. En esta revalorización de la Anschauung Pound aquí coincide no casualmente no sólo con Nietzsche sino con el neokantismo, Husserl y Heidegger, y en sus comentarios críticos a Aristóteles (Arry), Pound ubica a la intuición por encima de la sophia.

[20] Ezra Pound; Guía de la Kultura, Capitán Swing, Madrid, 2011, p. 217.

[21] Pound dixit: “Bacon. No creo que la coincidencia con mis puntos de vista sea debida a memoria inconsciente, dos hombres en momentos diferentes pueden observar que los caniches tienen el pelo rizado sin necesidad de referirlo o derivarlo de una «autoridad» precedente.”

[22]Ezra Pound; Guía de la Kultura, Capitán Swing, Madrid, 2011, p. 57.

[23] La Mostra… fue realizada con motivo del décimo aniversario de la Toma del Poder por Mussolini, tras la marcha fascista sobre Roma. Fue una idea de Dino Alfieri, futuro ministro de Cultura Popular. Pound visitó la Mostra… en diciembre de 1932, poco después de su inauguración oficial, quedando impresionado como la organización anti-museo Risorgimiento de iconografía, objetos cotidianos (el propio escritorio de Mussolini en el diario Il Popolo d’Italia) y collages de imágenes promovía la incitación del visitante a la acción. Sobre la Mostra… y su formato conservador-revolucionario, véase: Andreotti, Libero; “The Aesthetics of War: The Exhibition of the Fascist Revolution”, en: Journal of Architectural Education, 45.2, 1992, pp. 76-86; finalmente el trabajo de Jeffrey Schnapp: Anno X. La Mostra della Rivoluzione fascista del 1932: genesi-sviluppo-contesto culturale-storico-ricezione. With an afterword by Claudio Fogu, Piste – Piccola biblioteca di storia 4, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Rome-Pisa, 2003 y su artículo: “Fascism’s Museum in Motion”; en: Journal of Architecture Education 45.2, 1992,  pp. 87-97.  Pound elogiará el aspecto radical y pedagógico de la Mostra… en su Cantos, el número XLVI, publicado en 1936. No es de extrañar: arquitectos liberales como Le Corbusier o un nietzscheano de izquierda como Georges Bataille también tuvieron una impresión profunda de la Mostra

[24] Pound dice: “when one HAS ‘forgotten-what-book’ ” (GK 134) y más adelante: “what is left after man has forgotten all he set out to learn” (GK 195); véase: Ezra Pound; Guía de la Kultura, Capitán Swing, Madrid, 2011, p. 151 y 197.

[25] Ezra Pound; Guía de la Kultura, Capitán Swing, Madrid, 2011, p. 178.

[26] Ibidem, , p. 76.

[27] En GK, p. 34. Un ejemplo concreto de esta “limpieza directa” sería la obra de Gaudier-Brzeska.

[28] El famoso “Pound’s Pentagon”, su canon clásico y la superestructura cultural de un estado noble, lo constituye las Odas de Confucio, los Epos de Homero, la Metamorfosis de Ovidio, la Divina Comedia de Dante y las obras teatrales de Shakespeare.

[29] “El Comunismo como rebelión contra los ladrones de cosechas  fue una tendencia admirable.  Como revolucionario, me niego a aceptar una pretendida revolución que intenta inmovilizarse o moverse hacia atrás.”; en: Ezra Pound; Guía de la Kultura, Capitán Swing, Madrid, 2011, p. 202.

[30] Ibidem, p. 65.

[31]Ezra Pound; Guía de la Kultura, Capitán Swing, Madrid, 2011, p. 78. No es casualidad que Pound indique formalmente al lector placentero del diario burgués típico.

[32] Pound había estudiado en detalle el método similar de sobreposición y parataxis que funciona en el Haiku japonés a través de los trabajos de Fenellosa.

[33] Pound, E.; “A Few Don’ts By an Imagiste”; en: Poetry, 1, 1916.

[34] “This book is not written for the over-fed. It is written for men who have not been able to afford a university education or for young men, whether or not threatened with universities, who want to know more at the age of fifty than I know today, and whom I might conceivably aid to that object.”, en: GK, p. 6.; en esta edición, vide infra, p.  Pound consideraba, en una particular estadística personal, que en la sociedad burguesa podía encontrarse un lector reflexivo y serio por cada 900 lectores ingenuos o masificados.

[35] Ezra Pound; Guía de la Kultura, Capitán Swing, Madrid, 2011, p. 57.

[36] Sobre el controversial antisemitismo ad hoc de Pound en GK, véase: Chace, William M.; The Political Identities of Ezra Pound & T. S. Eliot, Stanford University Press, Stanford, 1973, Chapter Five, “A Guide to Culture: Antisemitism”, p. 71 y ss.

[37] “El genio de Mussolini era ver y afirmar repetidamente que había crisis no EN, sino DE sistema. Quiero decir que lo vio claro y temprano. Muchos lo vemos ahora.”

[38] “¿Y qué hay sobre anteriores guías a la Kulchur o Cultura? Considero que Platón y Plutarco podrían servir, que Herodoto sentó un precedente, que Montaigne ciertamente suministró una guía tal en sus ensayos, lo mismo que lo hizo Rabelais y que incluso Brantôme podría tomarse como una guía del gusto.”; en: Ezra Pound; Guía de la Kultura, Capitán Swing, Madrid, 2011, p. 216.

[39] Dice Pound: “When the vortices of power and the vortices of culture coincide, you have an era of brilliance”.

[40] Pound en realidad llama a esta Océana ideal de su filosofía política Regime Corporativo.

[41] Pound, Ezra; Jefferson and/or Mussolini, Stanley Nott, New York, 1935, p. 96: “A good government is one that operates according to the best that is known and thought. And the best government is that which translates the best thought most speedily into action.”

[42] “The best Government is (naturally?) that which draws the best of the Nation’s intelligence into use.”, en: Ezra Pound; Guía de la Kultura, Capitán Swing, Madrid, 2011, p. 266.

[43] Ibidem, p. 247.

[44] Dice Pound: “Usury: A charge for the use of purchasing power, levied without regard to production; often without regard to the possibilities of production.” Es una conclusión extraída de las enseñanzas sobre el Social Credit del economista Douglas.

[45] En: Ezra Pound; Guía de la Kultura, Capitán Swing, Madrid, 2011, p. 183.

[46] Ibidem, p. 278.

[47] Pound nunca llegó a conocer los escritos juveniles de Marx, donde se analiza a fondo el papel del Dinero, por ejemplo.

[48] Amplias citas de Das Kapital en su obra The Cantos, en particular en el canto XXXIII.

[49] Véase el trabajo de Kathryine V. Lindberg: Reading Pound Reading: Modernism After Nietzsche, Oxford University Press, New York & Oxford, 1987. Lindberg analiza la larga influencia del reaccionario pensamiento nietzscheano en la ideología y estética del Modernismo hasta el Postestructuralismo. De Gourmont recibió además Pound el impacto de la ideología derivada de Lamarck

[50] Pound, Ezra; “Redondillas, or Something of That Sort”, en: Ezra Pound: Poems and Translations, ed. by Richard Sieburth, Library of America, New York, 2003, pp. 175–182 (la stanza se encuentra en la p. 181). El poema “Redondillas…” es de mayo de 1911 y en él Pound también reconoce que lee a Nietzsche con la devoción con la que un cristiano se enfrenta a la sagrada Biblia.

[51] Pound, Ezra; “The Approach to Paris, III”, en: New Age, 13, Nº 21, 18 September 1913, pp. 607-609. Ahora en: Ezra Pound’s Poetry and Prose, 11 vols, Garland, London, 1991, I, C-95, pp. 156-159.

[52] Pound, Ezra; “Reflection”, en: Smart Set, 43, Nº 3, july, 1915, p. 395. Ahora en: Ezra Pound: Poems and Translations, ed. by Richard Sieburth, Library of America, New York, 2003, p. 1179.

[53] Sobre Nietzsche como pedagogo y reformador educativo, un aspecto infravalorado por los estudios y hagiografías, nos permitimos remitir al lector a nuestro libro: Nietzsche contra la Democracia, Montesinos, Mataró, 2010, capítulo V, “Pathein Mathein: la educación reaccionaria y ¿racista? del Futuro”, p. 173  y ss.

[54] Ezra Pound; Guía de la Kultura, Capitán Swing, Madrid, 2011, p. 84.

Les illusions de la « protection »

Les illusions de la « protection »

par Michel GEOFFROY

ex.: http://www.polemia.com/

Les Français vivent sous une double ombre tutélaire : celle de Big Brother et celle de Big Mother. Big Brother leur dit ce qu’il faut penser ; Big Mother veille à les protéger. Ainsi tous les discours officiels tournent autour de la « protection » : une défense maternisante du système en place couplée avec une présentation anxiogène des propositions alternatives. Avec humour Michel Geoffroy montre les faux-semblants du discours de « protection ».

Polémia

L’euro nous protège et nous rend plus fort : mais quand même ce n’est pas tout à fait le cas pour la Grèce, pour l’Italie, pour l’Espagne et sans doute aussi pour le Portugal. Un Etat de la zone euro ne peut pas faire faillite : mais quand même, le défaut de la Grèce est désormais de l’ordre du possible.

L’Union européenne nous protège : mais le secrétaire d’Etat au Trésor M. Geithner a quand même déclaré que « l’Europe doit agir plus vigoureusement pour susciter la confiance dans sa capacité à résoudre la crise et dans sa volonté de le faire ».

Les traités européens nous protègent : mais pour tenter d’enrayer la crise financière, il faut quand même que la BCE finance la dette des Etats, ce qui lui était interdit jusqu’en 2008, et il faudrait que la Grèce abandonne la zone euro, ce qui n’est pas prévu non plus par les traités européens. Des Etats réclament aussi de rétablir des contrôles aux frontières en contradiction avec l’espace Schengen. Conclusion : les traités européens nous protègent de mieux en mieux.

Les gouvernements comptent sur la croissance pour nous protéger du chômage : mais les prévisions de croissance pour la zone euro ont quand même encore été révisées à la baisse : 1,6% contre 2% pour 2011 et 1,1% contre 1,7% pour 2012. Et le président de la BCE, M. Trichet, a quand même déclaré le 8 septembre que « le message principal dans ce domaine c’est l’incertitude ».

Un peu d’efforts et de rigueur et tout ira mieux : mais quand même ni en Grèce ni en Grande-Bretagne la rigueur ne parvient à diminuer la dette souveraine.

Les dépôts dans les banques sont protégés et « quels que soient le scénario grec et les provisions à passer, les banques françaises ont les moyens d’y faire face » (F. Baroin le 12/9/11) : mais quand même les banques européennes ont perdu 200 Mds € avec la crise des dettes souveraines selon le FMI (Les Echos du 22/9/2011). Le commissaire européen M. Barnier a pour sa part évoqué des pertes de 400 Mds € le 22 septembre 2011, soit deux fois plus ; depuis le 22 juillet les valeurs de la Société Générale, du Crédit Agricole et de BNP Paribas ont quand même perdu respectivement 60, 55 et 53 points (Les Echos du 23 septembre 2011).

Les révolutions arabes leur ont apporté la « démocratie » et N. Sarkozy a « protégé » les Libyens d’un méchant dictateur ennemi du genre humain : mais quand même les partis islamistes vont donc pouvoir démocratiquement être portés au pouvoir, et les Palestiniens n’ont pas droit à la même protection ; ils ne réclament qu’un Etat.

Les contribuables seront « protégés ». Il n’y aura pas de hausse d’impôts, a déclaré N. Sarkozy le 16/11/2010 : mais quand même il y aura une réduction des « niches fiscales » et une augmentation des taxes.

Les citoyens sont protégés et l’insécurité recule. D’ailleurs, les caméras de vidéosurveillance s’appellent désormais caméras de « vidéoprotection » : mais quand même les cambriolages ont augmenté de 17,8% en un an (Le Monde du 22/9/2011).

Michel Geoffroy
24/09/2011

Voir aussi :

L'Etat, Big Mother

Correspondance Polémia – 25/09/2011

mercredi, 28 septembre 2011

Carisma político, éxtasis, orgía: descubrir al Weber oculto

Ahí,
donde los gritos ancestrales
pueblan el jacinto de vida.

Sofía Tudela Gastañeta

Carisma político, éxtasis, orgía: descubrir al Weber oculto

Por Giovanni B. Krähe

http://geviert.wordpress.com/

Urmensch und Spätkultur (1956) de Arnold Gehlen es uno de los textos claves y necesarios para cualquier compresión o teoría moderna de las instituciones. Las ciencias sociales alemanas reconocen, en efecto, la importancia de la antropología filosófica gehleniana para la teoría institucionalista. En Urmensch, Gehlen nos invita a considerar con suma atención la sociología de la religión de Max Weber. Esta parte de la obra de Weber, menos conocida o limitada únicamente al debate sobre la ética protestante, es, como para Carl Schmitt, el lugar de la intuición que fundamenta la antropología de las instituciones de Gehlen. Según éste, Max Weber nos da los elementos necesarios para la compresión de la génesis de las instituciones, de la forma institucional. Para el autor de Urmensch, el fundamento de la forma institucional es el mito: dos elementos esenciales forman parte de cualquier estructura o sistema mítico (Mythenssystem). El primer elemento es la orgía (Orgiastik), el segundo es la mímesis (cfr. Gehlen, prefacio a Urmensch; Weber, Sociología de la religión, 105 ss.). Veamos brevemente el segundo elemento. El rito imitatorio, circular, mecánico del culto animista pre-cristiano, tiene su fundamento en la realización de una idea de representación como conducta, como forma de conducta (Verhaltensform). Esta inmanencia entre representación (idea) y conducta (forma), a través de la mímesis cultual, es posible gracias a la completa y necesaria ausencia de cualquier contenido espurio o idea de trascendencia. Según Weber, el culto animista primitivo es extraño a cualquier idea de trascendencia en su sentido cristiano, monoteísta. Se podrá notar fácilmente que esta premisa modifica radicalmente el significado del espacio cultual para el rito mimético: el lugar no será un ámbito religioso definitivo dedicado a un abstracto deus absconditus, sino simplemente cualquier lugar consagrado en cuanto únicamente separado del resto (de donde deriva el término sacer, sacro). En la visión del mundo pre-cristiana, cualquier lugar y cualquier circunstancia hacen posible el advenimiento y la ausencia del Dios, que no es único (se piense en los numina en Roma). La relación con los objetos rituales y cotidianos cambia radicalmente, gracias a una relación diferente que se tiene con la tierra y finalmente con la materia misma. Ya una fina autora como Marie-Louise von Franz afirmó que el núcleo más íntimo de la religiosidad pre-cristiana no está en la compresión de un corpus abstracto de divinidades colocadas en una trascendencia indeterminada e idealizada en el sueño poético-pastoral (según la lectura moderna del mito), sino únicamente en la compresión del vínculo religioso e in-mediato entre dos aspectos fácticos evidentes: mito y materia. Ninguna trascendencia o tardía miseria escatológica ocupa el espacio inmanente entre el mito y la materia. Tampoco algún tipo de práctica simbólica. En efecto, en la mímesis no hay símbolo, solo acto puro (Weber, p. 107, Cfr el concepto de uno actu en Gehlen). Para Weber, la génesis de aquello que modernamente es entendido corrientemente como símbolo, contenido simbólico, acto simbólico, simbología y demás combinaciones culturológicas, es tardía, no pertenece al mito en los dos aspectos que hemos señalado, la orgía y la mímesis. De la misma forma es tardío aquel pensamiento abstracto que manipula símbolos. La manipulación obsesiva y viciosa de conceptos a través de la denominada “reflexión” (acto autístico por antonomasia) tampoco pertenece al acto mimético-religioso. Todos estos bagajes del individuo y la modernidad son extraños a la forma de conducta mimético-religiosa en su relación con la representación. En efecto, aquello que ahora es entendido modernamente como una mera disposición mental-ideacional (Mannheim) o peor, categorial-conceptual (el moderno concepto de representación, el representarse algo mentalmente, intelectualmente, reflexivamente, hermenéuticamente), es recuperado y completamente depurado por Weber en su forma originaria de acto y forma de conducta según su análisis idealtípico de las religiones primitivas.

¿De qué tipo de forma de conducta nos habla Weber exactamente? Se trata de una forma de conducta religiosa que se relaciona con la materia en una forma específica (el culto mimético), determinando un vínculo directo con el espacio que ha sido escogido para el acontecimiento religioso. Tal vínculo no es religioso en el sentido de una presunta re-ligio trascendente o soteriológica, plagada de viciosos dualismos (cuerpo/alma, espíritu/materia y símiles). Tampoco está fundado en esquemas dogmáticos o escatológicos según una supuesta y espuria ideología de la redención á la Rosenzweig: la forma de la conducta mimético-religiosa que Weber nos quiere mostrar es stricto sensu de carácter ordinario, “mundano”, fáctico (Weber, Cap. V). En esta “mundanidad” que Weber observa, los aspectos racionales de la conducta mimético-religiosa (la repetición circular, el ritmo acústico del rito, la búsqueda del espacio consagrado, el obsequio, el don, la maravilla) están completamente engarzados en la re-presentación (es decir, en su permamente reiteración en el presente) de una idea que es completamente irracional (1). La racionalidad del rito mundano (sus reglas) permite, entonces, la re-presentación, permite re-introducir la irracionalidad de la idea en el mundo ordinario del tiempo humano y la materia. La forma de conducta mimético-religiosa repite circularmente la irrupción de aquello que será re-presentado en el culto, “prepara” el cuerpo comunitario a la irrupción de la idea que será representada cultualmente en el mundo. Este tipo particular de “mundanidad inmanente”, “ordinaria”, relacionada con la forma de conducta mimético-religiosa, es ordinaria porque simplemente distingue el momento sacro a través de la separación del espacio consagrado. Gehlen llamará a este mundo ordinario Transzendenz ins Diesseits (trascendencia mundana). Este término es introducido por Gehlen para marcar una diferencia neta con el concepto tardío de transcendencia extra-mundana, monoteísta, judeo-cristiana (Transzendenz ins Jenseits). Para Gehlen, no se trata de recuperar un “materialismo religioso” o debatir con la crítica clásica del “naturalismo” pre-cristiano, sino más bien de observar qué tipo de forma de conducta religiosa se relaciona (y es adecuada) con el ámbito de los eventos de la physis y en la physis no fuera de ella. Se trata, entonces, más precisamente, de un ejercicio de comprensión fisiológica (la primera filosofía) dirigido a esta forma de conducta mimético-religiosa. Por el lado del participante a la mímesis cultual, se note, a su vez, que la forma de conducta mimético-religiosa no significa el desarrollo de una supuesta “interioridad” psicológica, personal en su relación con lo divino (ese deísmo sofisticado, timorato y ocasionalista del “dios privado” de los posmodernos). Porque, en efecto, en la mímesis, en la reproducción automática y circular del acto mimético-cultual, no hay ni persona, ni conciencia. Un gran estudioso del mito como Walter F. Otto añadirá: mito es solo la realización de un simple acto ritual como porte y disposición corpórea (Haltung).

 

Según Weber, aquel que cultiva un tipo de conducta ritual, mimético-religiosa, en el ámbito de una realidad que hemos denominado “mundana” y ordinaria (porque es simplemente in-mediata, irreflexiva), se distingue inmediatamente en la comunidad por su virtud. Tal persona que vive en esta realidad ordinaria se caracteriza poco a poco por poseer un don extra-ordinario que cultiva y posee. Con estas comparaciones terminológicas (ordinario/extra-ordinario), Weber quiere introducir el rol de la magia al interior de las primeras formas sociales (!) de conducta mimético-religiosa (p. 116). Se note que, según nuestro breve análisis, estamos entrando ahora en el ámbito de una forma de conducta mimético-religiosa de tipo social, colectiva. A este don extra-ordinario que es de tipo mágico en el sentido propio del término, don que puede ser innato o producto de un relación particular con la materia (la gratia infusa), Weber le pondrá el nombre de Carisma. El rito mimético religioso mencionado hace posible, entonces, una forma social de conducta particular al interior del culto y de la vida ordinaria: se trata de la conducta carismática de la guía, del mana, orenda (derivado del iraní, mago, mágico). Aquel que posee el mencionado carisma y lo cultiva, hace posible socialmente la reiteración comunitaria, en el tiempo, del rito mimético-religioso mencionado, conferiéndole el carácter de rito mimético colectivo. Por este motivo, el carisma, el carácter carismático – en cualquiera de las acepciones psicologistas que se le quiera dar al término – siempre es socialmente reconocido y aceptado como expresión virtuosa de la persona que lo posee ( en la práctica social de la adivinación, por ejemplo). El moderno carisma que conocemos como mero perfil psicológico es, pues, un residuo (en la terminología del gran elitista Vilfredo Pareto) de esta primera forma social de conducta mimético-religiosa. Una forma de conducta carismático-comunitaria que todavía es evidente, según Weber, en el fenómeno secular del carisma político, típico de las democracias plebiscitarias. Weber creará e introducirá un término nuevo (sumamente polémico entre los habermasianos y el debate alemán interno) para comprender el nexo entre este tipo de carisma y la dimensión de la política: plebizistäre Führerdemokratie (democracia plebiscitaria del líder). La dimensión de esta nueva relación social que se instaura, cada vez, como nueva forma extra-individual, posee dos momentos interelacionados entre sí, a saber (1) la forma de conducta mimética y el carisma como don, por un lado y, por el otro, (2) el carisma mismo, pero como ejercicio de un rol público en la comunidad cultual propiamente dicha (el mago, el sacerdote, el líder carismático). Según Weber, esta nueva forma extra-individual de mímesis colectiva tiene un nombre específico: éxtasis (p.107).

Tenemos, entonces, una forma de conducta mimético-religiosa (la mímesis) que es carismática, por el lado de su guía religioso, y extática, por el lado de la praxis religioso-comunitaria de sus miembros. Intentemos unir estas dos relaciones con la siguiente pregunta: en esta caso ¿cuál sería la correspondiente forma que re-representaría a esta específica experiencia colectiva de carácter extático, señalada por Weber? ¿Cuál es el rito mimético-religioso correspondiente que conservaría y mantendría el culto en el tiempo de este nuevo vínculo extático-comunitario? Según Weber, la primera forma pre-institucional o proto-institucional si se quiere – en cuanto se trata de la primera definición social de roles y vínculos extra-individuales al interior de la praxis religiosa y cultual, hasta llegar al concepto de representación en su significado político más moderno - es la orgía (Weber, p. 107). A partir de aquí, Gehlen notará cómo estos dos elementos weberianos claves – la orgía, como primera forma social extra-individual, pre-institucional y la mímesis, como forma de conducta social bajo la guía del carisma – formarán parte, en su desarrollo tardío, secularizado y despolitizado, de la génesis de las instituciones modernas.
 
 
 
 
 
(1) la idea de la irracionalidad como elemento formante del acto racional será desarrollada por Weber en su famoso texto sobre la ética protestante y el espíritu del capitalismo. La forma de conducta que Weber observará ideltípicamente, en este caso, es la ética intra-mundana puritana, calvinista. Su forma económico-social correspondiente será lo que Weber denominará conjuntamente como el “espíritu del capitalismo”. Schmitt, por su lado, hará lo mismo paralelamente, tomando la misma intuición y método, explicando en su caso la génesis del espíritu de la política (parafraseando a Weber) según la forma del catolicismo romano. “Catolicismo romano y forma política”, al igual que la “teología política” de Schmitt, son textos en diálogo (crítico) con su maestro Weber.

Textos recomendados:

Arnold Gehlen: Urmensch und Spätkultur. Frankfurt/M.: Klostermann, 1956.
Max Weber: Economía y sociedad, cualquier edición (cap. V, sociología de la religión y tipos de comunidad religiosa).

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Contre la dictature des chiffres : le monde n’est pas une addition

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Contre la dictature des chiffres : le monde n’est pas une addition

par Pierre LE VIGAN

Tous les jours des chiffres. Même dans le secteur social et humain, il est question de quantitatif. Quelle est le chiffre de votre « file active » ? Combien de contrats d’insertion par mois ? C’est la tyrannie du nombre. Et plus encore la tyrannie du calcul. Tout se compte, s’évalue en nombre. Le corps se réduit à son poids, l’intelligence se réduit à la mesure de sa performance. Isabelle Sorente, polytechnicienne, femme de théâtre et aussi amateur de voltige aérienne a consacré un livre à ce phénomène. « Compter, toujours compter, les heures, les minutes, c’est ce qui nous perd ». Le titre du livre : addiction générale. Un titre un peu trompeur. On croira qu’il s’agit d’un livre sur les addictions, les dépendances excessives en d’autres termes. Ce n’est pas tout à fait cela. C’est un livre sur la dépendance aux chiffres. La dépendance aux additions. La volonté de tout chiffrer. Même les malheurs du monde. Peut-être pour les exorciser. « Nous nous trouvons dans la même situation que les hommes du dix-huitième siècle, face au défi de réhabiliter la raison, non pas devant un Dieu mais devant une croyance réductrice, addictive, un obscurantisme aussi toxique pour l’individu que pour son environnement, ce mythe naïf qui veut qu’un chiffre fasse le bonheur. Il est temps d’en finir avec cette superstition » dit Isabelle Sorente (entretien à R.F.I., 3 juillet 2011). L’imitation de la machine calculante a remplacé pour les esprits modernes l’Imitation de Jésus-Christ, note-t-elle encore.

La pensée calculante remplace l’expérience

Calculer est souvent nécessaire mais calculer seulement c’est plus souvent encore ne pas comprendre et ne pas ressentir. La pensée calculante remplace l’expérience. Le res cogitans est rabattu sur le res extensa, le non mesurable sur le mesurable. D’où une dichotomie néfaste à l’équilibre humain : dans le travail, tout est calcul mais l’homme étant ce qu’il est, on lui concède de se « lâcher » ailleurs, dans un cadre bien précis : clubs, vacances, … « On nous force à avoir des affects séparés de la raison » remarque très justement Isabelle Sorente. Comme s’il fallait compenser un abrutissement par un autre. Face à cela, il faut réhabiliter plusieurs choses. Il s’agit d’abord de la compassion. « J’appelle compassion ce déplacement élémentaire de l’esprit humain, qui permet de s’imaginer à la place d’un autre. »  La compassion n’est pas la pitié. C’est bien plutôt le complément de la sympathie chez David Hume (Traité de la nature humaine, 1740). « La compassion est la seule façon de penser notre relation bien réelle d’interdépendance au reste du monde, de la penser sans romantisme ni naïveté. Elle n’est pas réservée aux croyants, aux psychanalystes ou âmes sensibles. […] La compassion est ce qui distingue la raison multidimensionnelle, créatrice, humaine, d’un calcul linéaire, compulsif, largement insuffisant à penser les mutations technologiques et écologiques que nous sommes en train de vivre » (entretien d’Isabelle Sorente avec Fraterphilo, 19 février 2011). La compassion ne suffit pas à faire une politique mais elle y entre pour une part : c’est la pensée du « care », c’est-à-dire du soin. « Celui qui veut retrouver la raison doit pouvoir se mettre à la place d’une bête. » Le « care » est une idée qui a été développée par le sociologue Carol Dilligan, elle est en rapport avec une justice proche de l’équité telle que John Rawls l’a défendue dans Théorie de la justice. On est bien sûr loin de Rousseau et de ses rêves sympathiques mais sans doute impraticables de souveraineté populaire absolue. Deuxième valeur : retrouver la distance à soi. C’est précisément parce que la compassion n’est pas la pitié ni la fusion que la distance à soi et aux autres est nécessaire pour retrouver le meilleur de l’individuation, à savoir l’autonomie du sujet, être social et politique : jamais sans les autres mais jamais non plus noyé dans les autres. Bonne antidote contre les totalitarismes, non seulement ceux d’hier mais aussi ceux d’aujourd’hui, particulièrement pernicieux car avançant masqués : masque de l’hygiénisme, du politiquement correct, etc. Au moment où l’individualisme se réduit à des choix marchands (se distinguer des autres par sa  voiture ou son écran de télé), la distance à soi est le moyen de retrouver les vertus de l’individu sujet raisonnant et sensible à la fois, non plus arraisonné par les machines et par une société machinale. Comme l’avait bien vu Marcuse, l’homme n’est pas unidimensionnel. Il est pluridimensionnel. C’est pourquoi il faut sortir à la fois du calcul et de la dictature de l’urgence que notre société génère. C’est pourquoi il faut retrouver la bonne distance aux autres : « Trop loin, l’autre n’existe pas plus qu’un passant sans visage. Confondu à moi, nous nous perdons ensemble dans le délire fusionnel » écrit Isabelle Sorente. « L’ami présent en cas de coup dur ne nous remonte pas seulement le moral, il nous fait aussi retrouver la raison. » Sortir donc du « tout tout-de-suite ». Réhabiliter la raison contre les superstitions modernes de la maîtrise de tout, y compris de l’espace et du temps. Ne pas croire que la maladie ou l’échec vient forcément d’erreurs de calcul dans le programme de la vie mais d’une erreur plus fondamentale : croire que la vie est un programme.

Éloge de la sobriété

Compassion, distance, mais aussi une troisième valeur : la sobriété. Savoir se limiter. Trouver les chemins de la sobriété heureuse, comme dit Pierre Rabhi. « Nous vivons dans une société qui n’a mis aucune limite à la recherche de satisfaction de nos besoins réels et imaginaires » dit Pierre Rabhi. » La modernité, dans son principe premier et ses intentions originelles, aurait pu, en s’appuyant sur la révolution industrielle, être une chance pour l’humanité. Mais elle a commis une erreur fatale, dont nous commençons seulement à mesurer les conséquences désastreuses avec la grande crise d’aujourd’hui : elle a subordonné le destin collectif, la beauté et la noblesse de la planète Terre dans sa globalité à la vulgarité de la finance. » De là s’impose la nécessité de se recentrer sur l’essentiel. Un programme à engager de suite mais en prenant son temps : l’avenir dure longtemps.

Pierre Le Vigan

Isabelle Sorente, Addiction générale, J.-C. Lattes, 2011, 220 p., 17 €.

Pierre Rabhi, Vers la sobriété heureuse, Actes Sud, 2010, 140 p., 15 €.


Article printed from Europe Maxima: http://www.europemaxima.com

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mardi, 27 septembre 2011

Summer 1942, Winter 2010: An Exchange

Summer 1942, Winter 2010: An Exchange

By Michael O'Meara

Ex: http://www.counter-currents.com/

In the Summer of 1942 — while the Germans were at the peak of their powers, totally unaware of the approaching fire storm that would turn their native land into an inferno — the philosopher Martin Heidegger wrote (for a forth-coming lecture course at Freiberg) the following lines, which I take from the English translation known as Hölderlin’s Hymn “The Ister”:[1]

“The Anglo-Saxon world of Americanism” — Heidegger noted in an aside to his nationalist/ontological examination of his beloved Hölderlin – “has resolved to annihilate Europe, that is, the homeland, and that means: [it has resolved to annihilate] the commencement of the Western world.”

In annihilating the commencement (the origins or breakout of European being) – and thus in annihilating the people whose blood flowed in American veins — New World Europeans, unknowingly, destroyed the essence of their own being — by disowning their origins – denigrating the source of their life-form, denying themselves, thus, the possibility of a future.

“Whatever has commencement is indestructible.”

Americans destined their self-destruction by warring on their commencement – by severing the root of their being.

But Europe — this unique synergy of blood and spirit — cannot be killed, for her essence, Heidegger tells us, is the “commencement” — the original — the enowning — the perpetual grounding and re-asserting of being.

Europe thus always inevitably rises again and again — like she and her bull from under the waters, which sweep over her, as she undauntedly plunges into what is coming.

Her last stand is consequently always her first stand — another commencement — as she advances to her origins — enowning the uncorrupted being of her beginning – as she authenticates herself in the fullness of a future which enables her to begin over and over.

* * *

The opposite holds as well.

America’s annihilation of her commencement revealed her own inherent lack of commencement.

From the start, her project was to reject her European origins — to disown the being that made her who she was — as her Low Church settlers pursued the metaphor of Two Worlds, Old and New.

For Heidegger, America’s “entry into this planetary war is not [her] entry into history; rather, it is already, the ultimate American act of American ahistoricality and self-devastation.”

For having emerged, immaculately conceived, from the jeremiad of her Puritan Errand, America defined herself in rejection of her past, in rejection of her origins, in rejection of her most fundamental ontological ground — as she looked westward, toward the evening sun and the ever-expanding frontier of her rootless, fleeting future, mythically legitimated in the name of an ‘American Dream’ conjured up from the Protestant ethic and the spirit of capitalism.

Americans, the preeminent rational, rootless, uniform homo oeconomics, never bothered looking ahead because they never looked back. Past and future, root and branch – all pulled up and cut down.

No memory, no past, no meaning.

In the name of progress — which Friedrick Engels imagined as a ‘cruel chariot riding over mounds of broken bodies’ – American being is dissolved in her hurly-burly advance toward the blackening abyss.

Yet however it is spun, it was from Europe’s womb that Americans entered the world and only in affirming the European being of their Motherland and Fatherhood was there the possibility of taking root in their “New” World – without succumbing to the barbarians and fellaheen outside the Mother-soil and Father-Culture.

Instead, America’s founders set out to reject their mother. They called her Egyptian or Babylonian — and took their identity – as the ‘elect’, the ‘chosen’, the ‘light to nations’ — from the desert nomads of the Old Testament — alien to the great forests of our Northern lands — envious of our blue-eye, fair-hair girls – repelled by the great-vaulted heights of our Gothic Cathedrals.

The abandonment of their original and only being set Americans up as the perpetual fixers of world-improvement — ideological champions of consummate meaninglessness – nihilism’s first great ‘nation’.

* * *

While Heidegger was preparing his lecture, tens of thousands of tanks, trucks, and artillery pieces started making their way from Detroit to Murmansk, and then to the Germans’ Eastern front.

A short time later, the fires began to fall from the sky — the fires bearing the curse of Cromwell and the scorched-earth convictions of Sherman — the fires that turned German families into cinders, along with their great churches, their palatial museums, their densely packed, sparkling-clean working-class quarters, their ancient libraries and cutting-edge laboratories.

The forest that took a thousand years to become itself perishes in a night of phosphorous flames.

It would be a long time — it hasn’t come yet — before the Germans — the People of the Center — the center of Europe’s being — rise again from the rubble, this time more spiritual than material.

* * *

Heidegger could know little of the apocalyptic storm that was about to destroy his Europe.

But did he at least suspect that the Führer had blundered Germany into a war she could not win?  That not just Germany, but the Europe opposing the Anglo-American forces of Mammon would also be destroyed?

* * *

“The concealed spirit of the commencement in the West will not even have the look of contempt for this trial of self-devastation without commencement, but will await its stellar hour from out of the releasement and tranquility that belong to the commencement.”

An awakened, recommencing Europe promises, thus, to repudiate America’s betrayal of herself — America, this foolish European idea steeped in Enlightenment hubris, which is to be forgotten (as a family skeleton), once Europe reasserts herself.

In 1942, though, Heidegger did not know that Europeans, even Germans, would soon betray themselves to the Americans, as the Churchills, Adenauers, Blums — Europe’s lickspittle — rose to the top of the postwar Yankee pyramid designed to crush every idea of nation, culture, and destiny.

That’s Europe’s tragedy.

* * *

Once Europe awakes – it will one day – she will re-affirm and re-assert herself – no longer distracted by America’s glitter and tinsel, no longer intimidated by her hydrogen bomb and guided missiles – seeing clearly, at last, that this entertainment worthy of Hollywood conceals an immense emptiness — her endless exercises in consummate meaninglessness.

Incapable therefore of beginning again, having denied herself a commencement, the bad idea that America has become is likely, in the coming age of fire and steel, to disintegrate into her disparate parts.

At that moment, white Americans will be called on, as New World Europeans, to assert their “right” to a homeland in North America — so that there, they will have a place at last to be who they are.

If they should succeed in this seemingly unrealizable fortune, they will found the American nation(s) for the first time – not as the universal simulacrum Masons and deists concocted in 1776 — but as the blood-pulse of Europe’s American destiny.

“We only half-think what is historical in history, that is, we do not think it at all, if we calculate history and its magnitude in terms of the length . . . of what has been, rather than awaiting that which is coming and futural.”

Commencement, as such, is “that which is coming and futural” — that which is the “historical in history” — that which goes very far back and is carried forward into every distant, unfolding future – like Pickett’s failed infantry charge at Gettysburg that Faulkner tells us is to be tried again and again until it succeeds.

* * *

“We stand at the beginning of historicality proper, that is, of action in the realm of the essential, only when we are able to wait for what is to be destined of one’s own.”

“One’s own” — this assertion of ourselves — Heidegger contends, will only come if we defy conformity, convention, and unnatural conditioning to realize the European being, whose destiny is ours alone.

At that moment, if we should succeed in standing upright, in the way our ancestors did, we will reach ahead and beyond to what is begun through every futuristic affirmation of who we European-Americans are.

This reaching, though, will be no ‘actionless or thoughtless letting things come and go . . . [but] a standing that has already leapt ahead, a standing within what is indestructible (to whose neighborhood desolation belongs, like a valley to a mountain).”

For desolation there will be — in this struggle awaiting our kind – in this destined future defiantly holding out a greatness that does not break as it bends in the storm — a greatness certain to come with the founding of a European nation in North America – a greatness I often fear that we no longer have in ourselves and that needs thus to be evoked in the fiery warrior rites that once commemorated the ancient Aryan sky gods, however far away or fictitious they have become.

–Winter 2010

 Note

1. Martin Heidegger, Hölderlin’s Hymn ‘The Ister’, trans W. McNeill and J. Davis (Bloomington: Indiana University Press, 1996), p. 54ff.


Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

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Clausewitz como pensador politico

Clausewitz como pensador politico

Por Sergio Prince C.

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Los estudios sobre Clausewitz son abundantes en cantidad y calidad, por lo tanto, es aventurado escribir sobre este maestro de la estrategia y no caer en repeticiones y lugares comunes. Entre los más destacados estudiosos, podemos citar a Peter Paret, Profesor de Historia en la Universidad de Stanford y autor de una amplia gama de trabajos sobre temas militares y estratégico, entre los que destaca su trabajo titulado Clausewitz and the State (Paret, 1979); Michael Howard, historiador de la Universidad de Oxford (Howard, 1983) y Bernard Brodie, profesor de Ciencia Política en la Universidad de California, autor de varias obras de gran influencia en el pensamiento estratégico moderno. En el año 2005, se realizó una renovada  reflexión sobre Clausewitz en el congreso Clausewitz in the 21st Century organizado por la Universidad de Oxford, cuyos resultados fueron publicados el año 2007 (Strachan & Herberg – Rothe, 2007). En lo que va corrido de 2010, han aparecido cientos de trabajos que tratan de Clausewitz o que, a partir de él, estudian el fenómeno de la guerra y las relaciones internacionales. Así, Castro se ocupa de la guerra, la vida y la muerte reflexionando sobre Clausewitz a partir del psicoanálisis (Castro, 2010), Kaldor evalúa la vigencia de Clausewitz en tiempos de globalización (Kaldo, 2010), Sibertin-Blanc y  Richter (2010) visualizan a Deleuze y Guattari como lectores de Clausewitz (Sibertin-Blanc & Richter, 2010), Guha realiza un estudio sobre la guerra desde Clausewitz a la guerra de redes del siglo XXI (Guha, 2010) y Diniz realiza una comparación epistemológica entre Clausewitz y Keegan (Diniz, 2010), entre otras tantas obras que se pueden mencionar.

Ante este panorama y sin pretender erudición alguna, ruego al lector que disculpe los vacíos bibliográficos que puedan existir, pero ellos son de mi absoluta responsabilidad y resultado de las limitaciones propias de mi investigación. En esta sección, discutiré el alcance del dictum clausewitziano ‘la guerra es la continuación de la política por otros medios’. Mostraré que: 1.- Que el pensamiento del estratega prusiano va más allá de lo meramente militar y tiene una dimensión política; 2.- Qué esta dimensión se reconoce fundamentalmente a partir de de un documento elaborado por Clausewitz en febrero de 1812 y 3.- Que desde esta dimensión se puede entender con claridad la relación política-guerra absoluta en la cual se abre la posibilidad de afirmar que la política es continuación de la guerra por otros medios en una situación extrema.

Desde esta podemos decir que su afirmación sólo intenta separar lo político de lo estratégico y no indica compromiso alguno con la ontología ni la epistemología de la guerra en sí. La afirmación se puede entender como operacional- metodológica, sin considerar ningún compromiso existencial. En otras palabras, quiero mostrar que el dictum tiene un alcance limitado a la relación de lo político-militar y no pretende involucrarse en asuntos ontológicos. Entonces, me pregunto cuál es la relevancia de la sentencia de Clausewitz. En que ámbitos del conocimiento tiene mayor impacto ¿En la filosofía? ¿En la política? ¿En la estrategia? Como ya hemos insinuado, la lectura filosófica de esta frase se puede hacer desde, al menos, tres dimensiones. La ontológica, la epistemológica y la metodológica. Si nos preguntamos por la existencia de la guerra como continuación de la política, no es lo mismo que si nos preguntamos qué quiere decir esta afirmación, cómo sabemos lo que quiere decir y bajo qué condiciones cambiaríamos de opinión. Tampoco sería lo mismo que preguntarse cómo la guerra llega a ser la continuación de la política por otros medios. Las tres aproximaciones filosóficas demandan distintos tipos de respuestas. Ahora bien ¿Qué quiso decir Clausewitz con lo que dijo?

Antes de comenzar, creo que es necesario recordar que, para el año 1812, Clausewitz bajo las órdenes de Scharnhorst y Gneisenau, junto con sus colaboradores Boyen y Grolmann, eran parte activa del proceso de reformas militares  encaminadas a la formación de un ejército nacional. Pese a la reducción de tropas decretadas por Napoleón, los reformadores lograron implementar un sistema de reservistas por medio de la aplicación del sistema Krümper (adiestramiento rápido). Del mismo modo, establecieron un sistema de ascensos por mérito, prohibieron los castigos corporales y fundaron la Academia de Guerra. Estas actividades de orden castrense tendrían una enorme repercusión política, como veremos más adelante. Fue en febrero de este mismo año, en un documento llamado el Memorándum-Confesión, que  Clausewitz devela su genio como pensador político declarándose partidario de la lucha existencial contra Napoleón ya fuese a) como reacción espontánea del corazón y voz del sentimiento o b) Por motivos de razón política, que no se deja afectar por el miedo y que conduce a la conciencia de que Napoleón es el enemigo irreconciliable de Prusia, y que tampoco se dejará reconciliar por la sumisión o c) a base de un cálculo de la situación militar, cuya última y realmente desesperada esperanza es una sublevación popular armada. (Clausewitz C. V., 1966) (Schmitt, 1969, pág. 6).

 

El carácter peculiar de la enemistad existencial (política) que manifiesta Clausewitz contra Napoleón es lo que, en opinión de Schmitt, lo transforma en un  pensador político: “Como enemigo de Napoleón, Clausewitz llegó a ser el creador de una teoría política de la guerra. Dice Schmitt que lo fundamental de este documento es la respuesta a una pregunta clara: ¿Quién es el verdadero enemigo de Prusia? La respuesta, cuidadosamente pensada y reflexionada en toda su problemática, es: Napoleón, emperador de los franceses (Schmitt, 1969). Esta identificación certera del enemigo es una declaración política ya que coincide con lo esencialmente político: la identificación de quiénes son amigos y quiénes los enemigos. Mirando desde tal perspectiva, en esta declaración, Clausewitz realiza una confesión puramente política. Esta idea sobre el carácter político de la declaración del estratega se refuerza al momento de referirse a temas económicos y de la bancarrota económico-social que amenazaba a su patria debido a las acciones del Corso:

En su segunda confesión — que se refiere a la razón no afectada por el miedo — Clausewitz habla de la economía, que califica como “el principio vital más común de nuestra constitución social”. Recuerda la penosa situación económica que se derivó del bloqueo continental, el cataclismo que amenaza y que sería “una verdadera bancarrota, es decir, una bancarrota multiplicada de cada uno contra cada uno”, y que no se podría “comparar con una bancarrota estatal corriente”. La situación económica es la consecuencia de las medidas de un “general victorioso desde el Ebro hasta el Niemen” (Schmitt, 1969).

Quisiera agregar al comentario schmittiano un hecho que me parece relevante. En febrero de 1812, Federico Guillermo III había firmado un acuerdo con Napoleón por medio del cual le brindaba el apoyo de Prusia a Francia. La petición de Clausewitz resultaba altamente impertinente, en especial, por el carácter eminentemente político de esta. Tiempo después de escribir el memorándum, Clausewitz solicitó la baja del ejército y se dirigió, clandestinamente, a Rusia para apoyar al Zar en contra de Prusia con la esperanza de que el ejército zarista liberara a su patria del yugo francés. Estos son actos eminentemente políticos y refuerzan el carácter existencial de la lucha contra Napoleón a la que llama el estratega prusiano. Su viaje clandestino es otra declaración eminentemente política que va más allá de la fuerza de cualquier escrito. Clausewitz llevó el carácter político de sus confesiones a la práctica, aunque esto implicara luchar en contra sus camaradas de armas.

Otro rasgo que caracteriza el pensamiento puramente político de Clausewitz es su interés por la guerrilla española de 1808. La guerra de guerrillas es la guerra política por excelencia, el evento en donde con más claridad se aprecia que la política es la continuación de la guerra por otros medios ya que es una lucha existencial en donde se desata la violencia originaria justo después de reconocer y declarar al enemigo. Los guerrilleros españoles iniciaron una lucha en su patria chica mientras su rey no declaraba a su enemigo, no sabía quién era el enemigo. Al igual que el rey Federico Guillermo III el monarca español se debatía en un país dividido por la simpatía que su elite afrancesada sentía por Napoleón. Los guerrilleros con el mismo sentimiento de Clausewitz se preguntaron ¿Quién es el verdadero enemigo de España? Napoleón, emperador de los franceses respondieron y, con una decisión política sin igual y ajena a los monarcas, emprendieron una lucha existencial en contra del Corso. Los españoles estaban en condiciones de afirmar que por motivos de razón política – que no se deja afectar por el miedo – Napoleón era el enemigo irreconciliable de España. Esta es una declaración política soberana por que el redactor del texto declara al enemigo lo que llevara al fin a la incomprensión de los movimientos guerrilleros que incluso impulsaron la independencia de América. Pero el interés en la guerrilla no fue sólo de Clausewitz. Prusia recepcionó el espíritu guerrillero y lo transformo en norma jurídica.

A pesar que durante el siglo XIX el ejército prusiano-alemán era el más reputado del mundo su reputación se basaba en el hecho de ser un ejército regular que derrotaba a otros ejércitos regulares. Su primer encuentro con fuerzas “irregulares” ocurrió en la guerra franco-prusiana de 1870/1871, en territorio francés, cuando enfrentaron a un equipo de francotiradores. Lo “regular” primaba en el pensamiento militar. Por esta razón, el documento prusiano del 21 de abril de 1813 tiene una singular importancia (para Schmitt este documento es una especie de Carta Magna de la Guerrilla). El Landsturm establece que cada ciudadano está obligado a oponerse con toda clase de armas al invasor:

Hachas, herramientas de labranza, guadañas y escopetas se recomiendan en forma especial (en el § 43). Cada prusiano está obligado a no obedecer ninguna disposición del enemigo, y por el contrario, a causarle daño con todos los medios que se hallen a su alcance. Nadie debe obedecer al enemigo, ni siquiera cuando este trate de restablecer el orden público por que a través de ello se facilitan las operaciones militares del enemigo. Se dice expresamente que “los excesos de los malvivientes descontrolados” resultan menos adversos que una situación en la cual el enemigo puede disponer libremente de todas las tropas. Se garantizan represalias y terror instrumentado en defensa de los guerrilleros y se amenaza al enemigo con estas medidas (Schmitt, 2007b).

En Prusia no se llego a concretar una guerra de guerrillas contra Napoleón y el edicto fue modificado el 17 de julio de 1813. Corta vida, muy corta. Entonces, ¿cuál es la importancia de este edicto?           Es un documento oficial que legitima la guerrilla ante un grupo de intelectuales y militares extraordinariamente cultos – según la expresión de Schmitt – entre los que se contaba el filósofo Johann Gottlieb Fichte, Scharnhorst, Gneisenau y Clausewitz. El compromiso de este último con la guerrilla política y revolucionaria no fue menor. Relata el jurista de Plettenberg que el primer contacto con esta la tuvo a través de los planes insurreccionales prusianos de los años 1808 al 1813, luego fue conferencista entre 1810 a 1811 sobre la “guerra a pequeña escala” en la Escuela General de Guerra en Berlín. Se dice que fue uno de los especialistas militares más destacados de esta clase de guerra y no sólo en el sentido profesional: “para él, al igual que los demás reformadores de su círculo, la guerra de guerrillas se convirtió “de modo principal en una cuestión eminentemente política de carácter directamente revolucionario”. Citando al historiador militar Werner Hahlweg (1912–1989), Schmitt dice que la aceptación de la idea del pueblo en armas, insurrección, guerra revolucionaria, resistencia y sublevación frente al orden constituido todo eso es una gran novedad para Prusia, algo ‘peligroso’, algo que parecía caer fuera  de la esfera del Estado basado en el Derecho” (Schmitt, 2007b, pág. 28).

Otro aspecto que nos permite observar el carácter político del pensamiento de Clausewitz es la diferencia entre la enemistad ideológica de Fichte contra Napoleón y la enemistad política del estratega prusiano. Esto nos permite comprender al pensador político en su autonomía y en su carácter particular (Schmitt, 1969). A partir de 1807 aparece en la escena el gran enemigo de Fichte: Napoleón. Toda la enemistad que puede sentir un filósofo revolucionario se concentra ahora en Fichte contra el emperador francés tomando forma concreta. Fichte es el verdadero filósofo de la enemistad contra Napoleón. Se puede incluso decir que lo es en su mismísima existencia como filósofo. Su comportamiento frente a Napoleón es el caso paradigmático de una clase muy precisa de enemistad. Su enemigo Napoleón, el tirano, el opresor y déspota, el hombre que fundaría una nueva religión si no tuviera otro pretexto para subyugar el mundo, este enemigo es su propia pregunta como figura, un no-yo creado por su propio yo como contra-imagen de auto-enajenación ideológica. El impulso nacional-revolucionario de Fichte generó una amplia literatura, sin embargo, no llegó a penetrar en la conciencia de los alemanes. La idea de una legitimidad nacional-revolucionaria se disipó, cuando Napoleón estaba vencido y ya no había un enemigo en el campo de batalla. A pesar de esto, el breve contacto con el espíritu nacional-revolucionario, concentrado en los reformadores militares prusianos de 1807 a 1812, les llamó a tomar una decisión transcendental contra Napoleón e inspirar el documento político redactado por Clausewitz con la ayuda de Boyer (Schmitt, 1969).

Aunque Fichte con sus Discursos a la Nación Alemana puede ser considerado el padrino del Memorándum-Confesión clusewitziano de 1812 en este documento los reformadores del ejército prusiano se guiaron sólo por consideraciones políticas. No eran ni fundadores de religiones, ni teólogos; tampoco eran ideólogos ni utopistas. El libro De la guerra (Clausewitz C. V., On War, 1976) no fue escrito por un filósofo, sino por un oficial del Estado Mayor. Cualquier político inteligente puede leer, comprender y practicar este libro sin saber nada de Fichte y de su filosofía. La autonomía de las categorías de lo político – según Schmitt – se hace evidente: en el caso de Clausewitz las categorías políticas se imponen en toda su pureza, libres de todas las propagaciones ideológicas y utópicas del genial Fichte. Por su parte, el sociólogo francés Julien Freund demuestra que la teoría de la guerra como continuación de la política consigue que la guerra meramente militar se deje limitar encajándola en la realidad de lo político. Enemistad y guerra son inevitables. Lo que importa en su delimitación. Hay que evitar el desencadenamiento inhumano de los medios de destrucción que proporciona el progreso científico. Según Freund, el objeto de la lucha política no es la destrucción del enemigo, sino arrebatarle el poder. También Clausewitz entiende la llamada “batalla de destrucción” como una competición de fuerzas, entre dos ejércitos organizados, lo cual no indica la destrucción de una parte de la humanidad por la otra (Freund, 1968, págs. 746 – 752). En otras palabras Clausewitz no pensaba en una guerra de aniquilación sino que en una guerra limitada, encajada por lo político, una guerra política llevada adelante por otros medios. En resumen, Clausewitz puede ser considerado tanto un pensador estratégico como tanto como político. La evidencia de este hecho nos la brinda el Manifiesto- Confesión de febrero de 1812 recogido por Carl Schmitt (Clausewitz C. V., 1966).De aquí se desprende su interés por la guerrilla española de 1808 – 1813 así como las diferencias de su pensamiento con las del filósofo Fichte. Esta distinción corrobora el carácter político de su pensamiento que se expresa claramente cuando afirma que existe al menos un  tipo de guerra, la absoluta, en la cual hay coincidencia entre el objetivo propiamente militar y la meta política. Es en este momento en el que la guerra puede usurpar  el lugar de la política. Si esto llegara a ocurrir, podríamos afirmar que al menos existe una circunstancia bajo la cual la política es la continuación de la guerra por otros medios.

Le spectacle est devenu « la meilleure des polices »

Le spectacle est devenu "la meilleure des polices"

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Ex: http://ungraindesable.hautetfort.com/

En exergue de ce livre figurent deux belles citations de Guy Debord et Jean-Claude Michéa particulièrement bien choisies. L’auteur est très curieux à  voir l’abondante bibliographie (Jean-Pax Méfret, Murray, Michéa, Debord, Debray,Raymond Boudon, etc) ; ce livre est donc particulièrement intéressant car il s’attaque à de vrais sujets, de vrais problèmes.

Selon l’auteur, le lien est évident entre Murray et Debord ; « l’ordre spectaculaire et festif a pour conséquence (…) la disparition du réel . La " société hyperfestive " apparaît comme l’aboutissement de " la société du spectacle "».

Ce livre est une violente et véritable attaque contre le libéralisme mais sous un angle plutôt proche de Michéa que de Besancenot.
 

« (…) dans la société libérale, aucun vice ne doit en lui-même être à priori réprimé (…) Par ailleurs, et pour en revenir au présent , un taux relativement élevé de criminalité ne nuit pas au bon fonctionnement du « système libéral », au contraire. Prenons un exemple contemporain avec les émeutes urbaines : les voitures brûlées doivent être remplacées, les vitrines brisées réparées, etc. Et, comme le note avec ironie le philosophe Jean-claude Michéa dans L’emprise du moindre mal, le « système libéral «  dans sa grande ruse, a su aussi produire en parallèle toute « une industrie de l’excuse, voire de légitimation politique », se proclamant de gauche ou d’extrême gauche, mais en fait culturellement et politiquement libérale : « C’est le travail habituellement confié aux rappeurs, aux cinéastes « citoyens » et aux idiots utiles de la sociologie d’Etat. »

Il aborde ensuite le milieu du showbiz avec le politique et la corruption.

Il conclue ainsi « (…) Chaque époque a ses tabous et son idéologie dominante. Sous l’Ancien Régime, l’Eglise catholique » aujourd’hui « son influence a bien pâli » (…) le dieu caché du temps présent : la nouvelle religion spectaculaire et festive, diffuse, fluide et totalisante, avec ses prêtres et ses dévots de la médiasphère et du show-business (…) de nouvelles hiérarchies sociales, des tabous d’un genre nouveau, un conformisme inédit, tout un système dans lequel les troubadours jouent désormais les premiers rôles(d’anesthésistes). Car ainsi que le note Jean-claude Michéa, « il serait temps de reconnaître enfin que de nos jours, c’est le spectacle lui-même qui est devenu « la meilleure des polices » »

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Guy Debord, Georges Laffly, Léon Bloy, de belles connexions

Guy Debord, Georges Laffly, Léon Bloy, de belles connexions

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Guy DebordLecture d'un numéro d'Archives et Documents Situationnistes (N°3). Si le premier numéro m'avait déçu, j'avais dû y consacrer un petit article sur ce blog, celui-ci regorge de notes, lettres inédites et quelques fois étonnantes ; ainsi ce commentaire de Ricardo Paseyro sur Debord  d'où j'ai extrait les passages les plus passionnants
"Comme Guy le prévoyait, nous avons disséqué l'Establishment, et vérifié nos goûts respectifs : ils coincidaient -et nos éthiques aussi ; nous détestions les arrivistes, les pédants, les avares , les plagiaires...Entre nous, il n'y aura jamais le moindre malentendu.
Autant Guy méprisait les sots et la pacotille, autant son esprit ouvert appréciait les excellents auteurs situés aux antipodes de lui. Quand Georges Laffly  hésita à lui adresser son livre, mes écrivains politiques ,je le transmis à Debord .Il en résulta , le 12mars  1993 une lettre singulière qui étonnera peut- être les sectaires.  En voici des fragments :
<<Cher Ricardo ,
J 'ai lu avec beaucoup d'intérêt le livre de votre ami Georges  Laffly , les catholiques extrémistes  sont les seuls qui me paraissent sympathiques , Léon Bloy notamment. Cest un livre comme on en rencontre très peu : il a un air de parfaite sincérité .>> Il s'explique :<<...Du point de vue de l'auteur  je considère comme cohérent qu' il attribue tant de malheurs à la disparition de  Dieu ; e t je ne dirai certes pas improbable que tout finisse par  quelque abominable "meilleur  des  mondes". Mais enfin nous sommes  embarqués.N'était-il pas dans notre essence d'être imprudents ?">>

Superbe chute , ä laquelle Debord ajoute  une douzaine de lignes relatives à lui_ même ,(...)Ni pessimiste ni optimiste : clairvoyant ,il ressentait le poids à peine supportable de la vie actuelle ,plus chaotique chague matin .Excédé un jour par le bruit et l'inconfort  de Paris,que je voulais fuir,Guy déclara ma plainte vaine, car toutes les métropoles sécrètent maintenant à peu près les mêmes foules hybrides, le même "urbanisme" démentiel, les mêmes moeurs et usages: impossible d'échapper à l'uniformité. (...)"

Retrouvé dans ma bibliothèque ce petit livre de Georges Laffly mais le vrai  "Mes livres politiques". Sur Wikipédia on précise bien que "Ce livre évoque plusieurs auteurs dont Guy Debord qui lut le livre en 1993 et en parle dans une lettre à Ricardo Paseyro (cf. Correspondance, volume 7, Fayard, 2008, page 397)." Dans Rivarol le critique PL Moudenc avait même rendu compte des Mémoires politiques et littéraires, de Ricardo Paseyro . Je vous recommande ce savoureux livre de Laffly d'une grande liberté intellectuelle.


Robert Steuckers, n'en déplaise à Christophe Bourseiller, a bien raison :  on ne peut enfermer Debord dans"le cadre restreint et désuet  d'un gauchisme pieux et bon teint." .
Dans un texte intiulé "La planète malade" qui est aussi le titre d'un de ces livres, Guy Debord avait très bien analysé le thème de la pollution et de sa représentation. Ce texte commence ainsi :


"La <<pollution >> est aujourd'hui a la mode, exactement de la même maniere que la révolution : elle s'empare de toute la vie de la société, et elle est representée llusoirement dans le spectacle. Elleest bavardage assommant dans une pléthore d'ecrits et de discours erronés et mystificateurs, et elle prend tout le monde a la gorge dans les faits. Elle s'expose partout en tant qu'idéologie, et elle gagne du terrain en tant que processus reel.
Ces deux mouvements antagonistes, le stade suprême de la production marchande et le projet de sa négation totale, également riches de contradictions en eux-mêmes, grandissent ensemble. Ils sont les deux cotés par lesquels se manifeste un même moment historique longtemps attendu, et souvent prevu sous des figures partielles inadequates : l'impossibilité de la continuation du fonctionnement du capitalisme.
L'époque qui a tous les moyens techniques d'altérer absolument les conditions de vie sur toute la Terre est egalement l'epoque qui, par le meme developpement technique et scientifique separe, dispose de tous les moyens de controle et de prevision mathematiquement indubitable pour mesurer exactement par avance ou ène - et vers quelle date - la croissance automatique des forces productives
alienees de la societe de classes : c'est a dire pour mesurer la dégradation rapide des conditions memes de la survie, au sens le plus géneral et le plus trivial du terme."

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lundi, 26 septembre 2011

Remembering Martin Heidegger

Remembering Martin Heidegger:
September 26, 1889–May 26, 1976

by Greg Johnson

Ex: http://www.counter-currents.com/

Martin Heidegger is one of the giants of twentieth-century philosophy, both in terms of the depth and originality of his ideas and the breadth of his influence in philosophy, theology, the human sciences, and culture in general.

Heidegger was born on September 26, 1889, in the town of Meßkirch in the district of Sigmaringen in Baden-Württemberg, Germany. He died on May 26, 1976 in Freiburg and was buried in Meßkirch.

Heidegger was from a lower-class Catholic family. His family was too poor to send him to university, so he enrolled in a Jesuit seminary. But Heidegger was soon rejected by the Jesuits due to a heart condition. He then studied theology at the University of Freiburg from 1909–1911, after which time he switched his focus to philosophy. Eventually Heidegger broke entirely with Christianity.

In 1914 Heidegger defended his doctoral dissertation. In 1916, he defended his habilitation dissertation, which entitled him to teach in a German university. During the First World War, Heidegger was spared front duty because of his heart condition.

From 1919 to 1923, Heidegger was the salaried research assistant of Edmund Husserl at the University of Freiburg. Husserl, who was a Jewish convert to Lutheranism, was the founder of the phenomenological movement [2] in German philosophy, and Heidegger was to become his most illustrious student.

In 1923, Heidegger was appointed assistant professor of philosophy at the University of Marburg. There his intense and penetrating engagement with the history of philosophy quickly became known throughout Europe, and students flocked to his lectures, including Hans-Georg Gadamer, who became Heidegger’s most eminent student, as well as such Jewish thinkers as Leo Strauss, Hannah Arendt, and Hans Jonas. In 1927, Heidegger published his magnum opus, Being and Time [3], the foundation of his world-wide fame. In 1928, Husserl retired from the University of Freiburg, and Heidegger returned to replace him, remaining in Freiburg for the rest of his academic career.

Heidegger was elected rector of the University of Freiburg on April 21, 1933. Heidegger joined the ruling National Socialist German Workers Party on May 1, 1933. In his inaugural address as rector on May 27, 1933, and in political speeches and articles from the same period, he expressed his support for the NSDAP and Adolf Hitler. Heidegger resigned as rector in April 1934, but he remained a member of the NSDAP until 1945. After the Second World War, the French occupation authorities banned Heidegger from teaching. In 1949, he was officially “de-Nazified” without penalty. He began teaching again in the 1950–51 academic year. He continued to teach until 1967.

A whole academic industry has grown up around the question of Heidegger and National Socialism. It  truly is an embarrassment to the post-WW II intellectual consensus that arguably the greatest philosopher of the twentieth century was a National Socialist. But the truth is that Heidegger was never a particularly good National Socialist.

Yes, Heidegger belonged intellectually to the “Conservative Revolutionary” milieu. Yes, he thought that the NSDAP was the best political option available for Germany. But Heidegger’s view of the meaning of National Socialism was rather unorthodox.

Heidegger viewed the National Socialist revolution as the self-assertion of a historically-defined people, the Germans, who wished to regain control of their destiny from an emerging global-technological-materialistic system represented by both Soviet communism and Anglo-Saxon capitalism. This revolt against leveling, homogenizing globalism was, in Heidegger’s words, “the inner truth and greatness” of National Socialism. From this point of view, the NSDAP’s biological racism and anti-Semitism seemed to be not only philosophically naive and superficial but also political distractions.

Heidegger knew that Jews were not Germans, and that Jews were major promoters of the system he rejected. He was glad to see their power broken, but he also had cordial relationships with many Jewish students, including extramarital affairs with Hannah Arendt and Elisabeth Blochmann (who was half-Jewish).

In the end, Heidegger believed that the Third Reich failed to free itself and Europe from the pincers of Soviet and Anglo-Saxon materialism. The necessities of re-armament and war forced a rapprochement with big business and heavy industry, thus Germany fell into the trammels of global technological materialism even as she tried to resist it.

Heidegger was not, however, a Luddite. He was not opposed to technology per se, but to what he called the “essence” of technology, which is not technology itself, but a way of seeing ourselves and the world: the world as a stockpile of resources available for human use, a world in which there are no limits, in principle, to human knowledge or power. This worldview is incompatible with any sort of mystery, including the mystery of our origins or destiny. It is a denial of human differentiation — the differentiation that comes from multiple roots and multiple destinies.

Yet, as Heidegger slyly pointed out, the very idea we can understand and control everything is not something we can understand or control. We don’t understand why we think we can understand everything. And we are literally enthralled by the idea that we can control everything. But once we recognize this, the spell is broken; we are free to return to who we always-already are and destined to be.

But on Heidegger’s own terms, it is still possible to combine a technological civilization with an archaic value system, to reject the essence of technology and affirm rootedness and differentiation. This is what Guillaume Faye calls “archeofuturism.”

Ultimately, Heidegger’s philosophy — particularly his account of human being in time, his fundamental ontology, his account of the history of the West, and his critique of modernity and technology — is of greater significance to the project of the North American New Right than his connection with National Socialism. It is a measure of the embryonic nature of our movement that we just beginning to deal with his work. Heidegger is widely cited [5] in our pages. But so far, we have published only the following pieces related to Heidegger:

There is also some discussion of Heidegger in Trevor Lynch’s review essay [12] on Christopher Nolan’s The Dark Knight.

When we commemorate Heidegger’s birthday again next year, I hope this list will have grown considerably.

Heidegger is a notoriously difficult stylist. But he was a brilliant lecturer, and his lecture courses are far more accessible than the works he prepared for publication. There are two useful anthologies of Heidegger’s basic writings: Basic Writings [13], ed. David Farrell Krell and The Heidegger Reader [14], ed. Günther Figal.

Eventually, every reader of Heidegger will have to conquer Being and Time [3], but a useful preparation for reading Being and Time is the contemporary lecture course History of the Concept of Time: Prolegomena [15]. Being and Time was never finished, but one can get a sense of how the book would have been completed by reading another highly lucid lecture course, The Basic Problems of Phenomenology [16].

Other essential lecture courses are Introduction to Metaphysics [17] and Nietzsche, which comprises four lecture courses (plus supplemental essays). Originally published in English in four volumes, the Nietzsche lectures are now available in two large paperbacks: Nietzsche: Vols. 1 and 2 [18] and Nietzsche: Vols. 3 and 4 [19].

There is an immense secondary literature on Heidegger, but most of it is no more accessible than Heidegger himself. The best biography is Rüdiger Safranski, Martin Heidegger: Between Good and Evil [20]. Another highly interesting biographical work is Heinrich Wiegand Petzet, Encounters and Dialogues with Martin Heidegger, 1929-1976 [21], which gives a vivid sense of the highly cultivated people in Heidegger’s generally right-wing and National Socialist milieu.

As for Heidegger’s philosophy, Richard Polt’s Heidegger: An Introduction [22] is a lucid overview of the whole range and development of Heidegger’s thought. Julian Young is another very lucid expositor. He is the author of three books on Heidegger: Heidegger’s Later Philosophy [23], Heidegger’s Philosophy of Art [24], and Heidegger, Philosophy, Nazism [25]. I highly recommend them all.

 


Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

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Guerra y Estado

Guerra y Estado

Por Sergio Prince C.

http://geviert.wordpress.com/

Schmitt comparte con Hegel algunos aspectos fundamentales de la teoría del Estado, los que resultan de suma importancia al momento de estudiar la relación de la guerra con lo político. En general, las convergencias se dan en torno a la ética del Estado y a la importancia que ambos asignan al ius publicum europaeum y se pueden apreciar entre  los siguientes documentos:

a] la conferencia dictada por Schmitt en 1929, titulada en alemán Staatsethik und pluralistischer Staat [El Estado ético y el Estado pluralista] (Schmitt, 1999) que dice relación con la importancia que ambos autores asignan a la ética en el Estado y las obras de Hegel «La Filosofía del derecho» (Hegel, 2009) y  «La Constitucion de Alemania» (Hegel, 1972),

b] la obra del mismo Schmitt «El nomos de la tierra» (Schmitt, 2002) , donde el autor lleva a cabo su proyecto de reconstrucción del orden juridico estatal e interestatal de la Europa Moderna y la ya citada« Filosofía del derecho» (Hegel, 2009).

En [a],  la Conferencia de 1929, encontramos al menos dos coincidencias:

[1] Schmitt coincide con Hegel en el carácter ético del Estado. Dice nuestro autor:

El acto propio del Estado consiste en determinar la situación concreta, en el seno de la cual sólo puede estar en vigor, en un plano general, normas morales y jurídicas. En efecto, toda norma presupone una situación normal. No hay norma en vigoren el vacío, en una situación a – normal [con respecto a la norma]. Si el Estado «pone las condiciones exteriores de la vida ética», esto quiere decir que crea la situación normal (Kervégan, 2007, pág. 157).

En otras palabras, ambos autores estiman que el Estado es el requisito fundamental para que exista la vida ética a nivel jurídico – político y a nivel particular: la familia y la sociedad civil. Si bien es cierto que hay que buscar la raíces del Estado en estas instituciones, las dos son histórica y empíricamente posteriores a él, pues sólo la existencia del Estado permite que se diferencien  dos entidades éticas sin causar la disolución de la unidad política.

 

[2] Otra coincidencia entre el filósofo y el jurista  es que este último, haciendo uso del lenguaje hegeliano, se refiere al Estado  como “el divino terrestre”, el “Reino de la razón objetiva y la eticidad”, “la unidad monista del universum” y “los problemas que conciernen al Espíritu Objetivo”. Por otra parte, Schmitt cita de modo casi idéntico ciertas fórmulas de «La Constitución de Alemania» (Hegel, 1972) donde el filósofo de Jena opone al desorden político del Imperio alemán un Estado fuerte. Para Schmitt, la situación alemana al finalizar la República de Weimar es idéntica a la vivida por Hegel con el derrumbe del Sacro Imperio Romano Germano (Kervégan, 2007).

En [b],  «El Nomos de la Tierra», encontramos al menos una coincidencia:

[1] Schmitt reconoce a la FD como un monumento grandioso, como la expresión conceptual más elaborada de la forma – Estado y del derecho interestatal propio de este período de la historia. Este Estado ha actuado, al menos en el suelo europeo, como el portador del progreso en el sentido de una creciente racionalización y acotación de la guerra. Comenta Kervégan que, en el fondo, se trata de reconocer al Estado moderno “el mérito absoluto de haber asegurado la paz exterior e interior, gracias al monopolio que conquistó sobre el espacio político” (Schmitt, 2002, págs. 136-137) (Kervégan, 2007, págs. 159-160).

En resumen, hasta aquí, las coincidencias entre Schmitt y Hegel son 1] que ambos piensan en el Estado como una entidad fundamentalmente ética, 2] que ambos viven épocas similares, tiempos de desorden político que los hace pensar que la era del Estado y de la europäische Staatlichkeit [legislación europea] habían llegado a su fin y 3] ambos reconocen al Estado haber aportado a la paz. Para nuestro análisis, esto indica que, si la guerra es fundamento de lo político-jurídico, entonces es la guerra la creadora de la entidad ética fundamental, en el seno de la cual se configuran la familia y la sociedad civil como espacios éticos primordiales para la ordenación de la paz. Revisemos estas conclusiones provisorias.

Para Schmitt (Schmitt, 2006, pág. 64), la guerra es el horizonte de lo político, “es el presupuesto que está siempre dado como posibilidad real, que determina de una manera peculiar la acción y el pensamiento humanos, originando así una conducta específicamente política”. Por su parte, para Hegel la guerra es:

[1] La determinación del Estado que, por medio de la fuerza, acalla las divisiones e intereses particulares.

[2] Un medio que permite al Estado develarse y desempeñar de modo óptimo su función.

[2.1] La configuración que permite el predominio del Estado sobre la sociedad, la particularidad y la diversidad.

[2.2] La ordenación que une las esferas particulares en la unidad del Estado.

[2.3] La representación que afirma la naturaleza del Estado y del patriotismo exigiendo y obteniendo del individuo el sacrificio de lo que, en tiempos de paz, parecía constituir la esencia misma de su existencia: la familia, su propiedad, sus opiniones, su vida.

 

Escribe Hegel en FD §324: “Se hace un cálculo  muy equivocado cuando, en la exigencia de este sacrificio, el Estado es considerado sólo como Sociedad Civil, y como su fin último es solamente tenida en cuenta la garantía de la vida y la propiedad de los individuos; puesto que esa garantía no se obtiene con el sacrificio de lo que debe ser garantido, sino al contrario.”. “De este modo, aunque la guerra trae consigo la inseguridad de la propiedad y de la existencia, es una inseguridad saludable, conectada con la vida y el movimiento. La inseguridad y la muerte son desde luego necesarias, pero en el Estado se vuelven morales al ser libremente escogidas” (Hegel, 2009, pág. 264) (Hassner, 2006):

“La guerra […], constituye el momento en el cual la idealidad de lo particular alcanza su derecho y se convierte en realidad; ella consigue su más elevado sentido en que, por su intermedio, como ya lo he explicado en otro lugar “la salud ética de los pueblos se mantiene en su equilibrio frente al fortalecimiento de las determinaciones finitas del mismo modo que el viento preserva al mar de la putrefacción, a la cual la reduciría una durable  o más aún,  perpetua quietud.”

Ahora bien, toda esta vitalidad ética, este dinamismo que manifiesta la guerra no se reduce a la positividad de la igualdad consigo misma sino que se realiza, se objetiva en la enemistad, ante la presencia del enemigo. Esto como resultado de la soberanía que aparece, en primer lugar, como una relación de exclusión frente al otro, al extraño. La soberanía, la independencia es un ser para sí excluyente. Veamos brevemente cuál es la tesis de Carl Schmitt  sobre la enemistad. Primero, definamos antítesis  amigo-enemigo y, luego, revisemos algunas características de esta.

[1] La antítesis amigo-enemigo es una categoría conceptual, concreta y existencial de lo político. Sin enemigos no hay guerra, no hay política, no hay Estado, no hay Derecho. En palabras de Kervégan, para Schmitt “el enemigo es una determinación especulativa, la figura exteriorizada de la negatividad constitutiva de la identidad consigo positiva de la vida ética.” Así, la soberanía del Estado aparece como una relación de exclusión frente a otros Estados (Kervégan, 2007, pág. 161).

A la antítesis amigo-enemigo se pueden asignar muchas características pero, siguiendo a Herrero López, destaco tres de las más relevantes para mi investigación:

[1] El Enemigo «es el otro público», es otro extranjero, algo distinto y extraño con  quien se puede llegar a pelear una guerra. ¿Qué significa este otro? Resumiendo a Schmitt, responde Herrero López: Enemigo  es más que el sujeto individual, se refiere a la totalidad de los hombres que luchan por su vida. El enemigo privado es aquel que sólo me afecta “a mí”. Por el contrario, el otro público es el que afecta a toda la comunidad, al pueblo en su conjunto y sólo al final me molesta personalmente.

[2] El enemigo es hostis no inimicus. Esta es la distinción que introduce Schmitt para señalar el matiz enunciado supra [1]. Para hacerla, se funda en Platón, en los evangelios de Mateo (5, 44) y Lucas (6,27) y en el diccionario de latín Forcellini Lexicon totius Latinitatis. Platón, llama guerra sólo a aquella que se lucha entre helenos y bárbaros, entre griegos y extranjeros. Por su parte, los evangelios dicen “diligite inimicos vestros” pero no dicen “diligite hostis vestros”, lo que indica a Schmitt que existe una clara distinción entre inimicus y hostis. Como ejemplo, cita la lucha entre el cristianismo y el Islam diciendo que no se puede entregar Europa por amor a los sarracenos y que sólo en el ámbito individual tiene sentido el amor al enemigo. No se puede amar a quien amenaza destruir al propio pueblo, por lo tanto, en opinión de Schmitt, la sentencia bíblica no afecta al enemigo político. Ahora bien, consultando el diccionario Forcellini, Schmitt se encuentra con la definición de hostis que versa como sigue: “Hostis  is est cum quo publice Bellum habemus […] in quo ab inimico differt, qui est is, quoqum habemus privata odia.Dstingui etiam sic possunt in inimicus sit qui nos odit: hostis qui oppungat” (Herrero López, 1997).

[3] El hostis supone una enemistad pública y existencial que incluye la posibilidad extrema de su aniquilación física, de su muerte. Al concepto de enemigo y residiendo en el ámbito de lo real, corresponde la eventualidad de un combate. La guerra es el combate armado entre unidades políticas organizadas; la guerra civil es el combate armado en el interior de una unidad. Lo esencial en el concepto de “arma” es que se trata de un medio para provocar la muerte física de seres humanos. Al igual que la palabra “enemigo”, la palabra “combate” debe ser entendida aquí en su originalidad primitiva esencial. Los conceptos de amigo, enemigo y combate reciben su sentido concreto por el hecho de que se relacionan, especialmente, con la posibilidad real de la muerte física y mantienen esa relación. La guerra proviene de la enemistad puesto que ésta es la negación esencial de otro ser. La guerra es solamente la enemistad hecha real del modo más manifiesto. No tiene por qué ser algo cotidiano, algo normal; ni tampoco tiene por qué ser percibido como algo ideal o deseable. Pero debe estar presente como posibilidad real si el concepto de enemigo ha de tener significado (Schmitt, 2006).

Ya hemos dicho que Schmitt y Hegel piensan en el Estado como una entidad fundamentalmente ética creada por la guerra. Aún más, la guerra es el atributo que afirma la naturaleza del Estado exigiendo y obteniendo del individuo el sacrificio de lo que en tiempos de paz parecía constituir la esencia misma de su vida En otros términos el Estado, como espacio ético, requiere del valor militar para su consolidación y su defensa, lo que implica el enfrentar a un enemigo que tiene la intención y la posibilidad real de causarle la muerte.

Guerra, ética y  Estado

Más allá de las circunstancias y los acontecimientos que provocan la guerra, esta sobrelleva una necesidad que le confiere una grandeza ética. Dice Kervégan que la guerra hace accidental y material lo que es en sí y para sí accidental y material: la vida, la libertad, la propiedad, aquello que en la paz tiene mayor valía a los ojos de los individuos-ciudadanos. La guerra es la penosa advertencia de la verdad cardinal de la ética hegeliana del Estado: la supervivencia de éste es la condición de existencia toda otra disposición ética. La guerra hace insubstancial la frivolidad y la trivialidad. La guerra, por todos los sacrificios que impone, ilustra la sumisión positiva, racional, práctica y reflexiva de lo finito a lo infinito, de lo contingente a lo necesario, de lo particular a lo universal (Kervégan, 2007).

Asimismo, “porque el sacrificio por la individualidad del Estado consiste en la relación sustancial de todos y es, por lo tanto, un deber general, al mismo tiempo como un aspecto de la idealidad, frente a la realidad de la existencia particular y le es consagrada una clase propia: el valor militar. Ahora bien, para que llege a existir esta clase, para que existan ejércitos permanentes, se deben argumentar – las razones, las consideraciones de las ventajas y las desventajas, los aspectos exteriores e interiores como los gastos con sus consecuencias, los mayores impuestos-,  muy respetuosamente ante la conciencia de la Sociedad Civil.  (Hegel, 2009, págs. 265-266) (§ 325-326).

Es clara la relación entre valor militar y sociedad civil. Son un devenir dialéctico de la configuración y la reconfiguración permanente del Estado ante el espectro de la guerra presente en su horizonte. Pero ¿qué es el valor militar, cuáles son sus contenidos? Escribe Hegel que el valor militar es  por sí “una virtud formal, porque es la más elevada abstracción de la libertad de todos los fines, bienes, satisfacciones y vida particulares; pero esa negación existe en un modo extrínsecamente real y su manifestación como cumplimiento no es en sí misma de naturaleza espiritual: es interna disposición de ánimo, éste o aquel motivo; su resultado real no puede ser para sí, sino únicamente para los demás (Hegel, 2009, pág. 266) (§ 327). En otros términos, podemos decir que las principales características del valor militar son, al menos, cuatro. A saber, carácter axiológico, moralista, contingente y filantrópico:

[1] Carácter axiológico: Una virtud formal.

[2] Carácter moralista: Es la más elevada abstracción de la libertad

[3] Carácter contingente: No es de naturaleza espiritual

[4] Carácter filantrópico: Su resultado es para los demás

Siguiendo esta línea argumentativa, Hegel dirá que el contenido del valor militar, como disposición de ánimo, se encuentra en la Soberanía., es decir, por medio de la acción y la entrega voluntaria de la realidad personal la Soberanía es obra del fin último del valor militar. Este encierra el rigor de las cuatro grandes antítesis:

[1]  entrega – libertad. La entrega misma pero como existencia  de la libertad.

[2]  independencia – servicio. La independencia máxima del ser por sí cuya existencia es realidad, a la vez en el mecanismo de su orden exterior y del servicio

[3]  obediencia – decisión. La obediencia y el abandono total de la opinión y del razonamiento particular, por lo tanto, la ausencia de un espíritu propio; la presencia instantánea, bastante intensa y comprensiva del espíritu y de la decisión,

[4]  hostilidad – bondad. El obrar más hostil y personal contra los individuos, en la disposición plenamente indiferente, más bien buena, hacia ellos en cuanto individuos.

Comenta Hegel que arriesgar la vida es algo más que sólo temer la muerte pero, por esto mismo, arriesgar la vida es mera negación y no tiene ni determinación ni valor por sí. Sólo lo positivo, el fin y el contenido de este acto proporciona a este al valor militar ya que ladrones y homicidas también arriesgan la vida con su propio fin delictuoso, lo que es un acto de coraje pero carece de sentido. Ahora bien, el valor militar ha llegado a serlo en su sentido más abstracto ya que el uso de armas de fuego, de la artillería no permite que se manifieste el valor individual, sino que permite la demostración del valor por parte de una totalidad (Hegel, 2009).

El Estado, como espacio ético, requiere del valor militar para su consolidación y su defensa, lo que implica enfrentar a un enemigo que tiene la intención y la posibilidad real de causarle la muerte. Pero arriesgar la vida es un acto valioso dependiendo del objetivo así como la definición y las características del valor militar nos muestran que este existe en una tensión dialéctica ante el horizonte siempre actualizable de la guerra que viven la familia, la Sociedad Civil y el Estado. En otros términos, el valor militar sólo cobra sentido en la objetivación del todo jurídico-político, en su relación dialéctica con la Sociedad Civil. No es una virtud fuera de esta.

Conclusión

La unidad de pensamientos entre algunos escritos de Hegel y el pensamiento de Schmitt nos da señales de una unidad intelectual entre los dos filósofos tudescos, la que nos permitió realizar nuestro estudio del Valor Militar utilizando a Schmitt como un apoyo interpretativo de lo dicho por Hegel en la Filosofía del Derecho. Ambos dan señales claras de entender una relación clara entre guerra, política y Estado. Aún más, para estos autores, la guerra es el atributo que afirma la naturaleza del Estado exigiendo y obteniendo del individuo el sacrificio de lo que en tiempos de paz parecía constituir la esencia misma de su vida. En otros términos, el Estado, como espacio ético, requiere del valor militar para su consolidación y su defensa, lo que implica enfrentar a un enemigo que tiene la intención y la posibilidad real de causarle la muerte.

El Estado, como espacio ético, requiere del valor militar para su consolidación y su defensa, lo que involucra necesariamente enfrentar a un enemigo que tiene la intención y la posibilidad real de causarle la muerte, pero arriesgar la vida es un acto valioso dependiendo del objetivo así como la definición y las características del valor militar nos muestran que este existe en una tensión dialéctica ante el horizonte siempre actualizable de la guerra que viven la familia, la Sociedad Civil y el Estado.

Como ya hemos dicho, el valor militar sólo cobra sentido en la objetivación del todo jurídico-político, en su relación dialéctica con la Sociedad Civil. No es una virtud fuera de esta. Se sigue que el valor militar es una virtud abstracta propia del estamento militar, de las Fuerzas Armadas que tienen a cargo la Defensa del Estado. Se trata de una determinación propia de un cuerpo de profesionales que se manifiesta sólo en circunstancias extraordinarias, cuando está en peligro la existencia misma del Estado. La valentía militar es necesaria pero no es de naturaleza espiritual. Sin embargo, se caracteriza por lo que podríamos llamar altas virtudes espirituales en los ámbitos axiológico, moral, contingente y filantrópico.

Finalmente, son dignas de destacar las antítesis que componen la naturaleza del valor militar. Estas podrían llamarse con toda libertad, virtudes del soldado: la entrega, el servicio, la obediencia y la bondad. Todo en una tensión dialéctica que requiere de la inteligencia para poder equilibrarlas dentro de sus opuestos y así cumplir con su objetivo: defender la Soberanía de Chile.

Trabajos Citados

Hassner, P. (2006). George W. F. Hegel [1770-1831]. En L. Strauss, & J. Cropsey, Historia de la filosofía política (págs. 689-715). México: Fondo de Cutura Económica.

Hegel, G. (2009). Filosofía del derecho (1 ed., Vol. 1). (Á. Mendoza de Montero, Trad.) Buenos Aires, Argentina: Claridad.

Hegel, G. (1972). La Constitución de Alemania (1ª ed., Vol. 1). (D. Negro Pavon, Trad.) Madrid, España: Aguilar S.A.

Herrero López, M. (1997). ElNnomos y lo político: La filosofía Política de Carl Schmitt. Navarra: EUNSA.

Kervégan, J. F. (2007). Hegel, carl Schmitt. Lo político entre especulación y posotividad. Madrid: Escolar y Mayo.

Schmitt, C. (2006). El concepto de lo político. Madrid: Alianza Editorial.

Schmitt, C. (2002). El nomos de la tierra en el Derecho de Gentes del Ius Publicum Europaeum (1 ed., Vol. 1). (J. L. Moreneo Pérez, Ed., & D. S. Thou, Trad.) Granada, España: Editorial Comares S.L.

Schmitt, C. (1999). Ethic of State and Pluratistic State. En C. Mouffe, & C. Mouffe (Ed.), The Challenge of Carl Schmitt (Inglesa ed., Vol. 1, págs. 195 – 208). Londres, Inglaterra: Verso.

Life Styles: Native and Imposed

Life Styles: Native and Imposed

By Kevin Beary

http://www.counter-currents.com/

For decades now, African American leaders have been calling for a formal United States apology for the American role in the slave trade, with some even demanding reparations. Indian tribes proclaim their tax-exempt status as something they are owed for a legacy of persecution by the United States. Mexican Americans in the southwest United States seek to incorporate this region, including California, into Mexico, or even to set up an independent nation, Aztlan, that will recreate the glories of the Aztec empire, destroyed centuries ago by the imperialistic Spaniards.

That we live in an age of grievance and victimhood is not news. But did these peoples — these Mexican-Americans, these Native Americans, these African-Americans — really lose more than they gained in their confrontation with the West? Were they robbed of nobility, and coarsened? Or did White subjugation force them to shed savagery and barbarousness, and bring them, however unwillingly, into civilized humanity?

Today our children our being taught that the people who lived in the pre-Columbian Western Hemisphere were not “merciless Indian savages” (as Jefferson calls them in the Declaration of Independence), many of whom delighted in torture and cannibalism, but rather spiritually enlightened “native Americans” whose wise and peaceful nobility was rudely destroyed by invading European barbarians; that the Aztecs were not practitioners of human sacrifice and cannibalism on a scale so vast that the mind of the 20th-century American can hardly comprehend it, but rather defenders of an advanced civilization that was destroyed by brutal Spanish conquistadores; and that Africans were not uncultured slave traders and cannibals, but unappreciated builders of great empires.

But just how did these peoples live before they came into contact with Europeans? Although historical myth is ever more rapidly replacing factual history, not only in popular culture but also in our schools and universities, we may still find accurate historical accounts buried in larger libraries or in used book stores.

Aztec Civilization

In his famous work, The Conquest of New Spain, Bernal Diaz del Castillo describes the march on Mexico with his captain, Hernan Cortés, in 1519. The Spanish forces set out from the Gulf of Mexico, and one of the first towns they visited was Cempoala, situated near the coast, where Cortés told the chiefs that “they would have to abandon their idols which they mistakenly believed in and worshipped, and sacrifice no more souls to them.” As Diaz relates:

Every day they sacrificed before our eyes three, four, or five Indians, whose hearts were offered to those idols, and whose blood was plastered on the walls. The feet, arms, and legs of their victims were cut off and eaten, just as we eat beef from the butcher’s in our country. I even believe that they sold it in the tianguez or markets.

Of their stay in Tenochtitlan, the present-day Mexico City and the heart of the Aztec empire, Diaz writes that Emperor Montezuma’s servants prepared for their master

more than thirty dishes cooked in their native style. . . . I have heard that they used to cook him the flesh of young boys. But as he had such a variety of dishes, made of so many different ingredients, we could not tell whether a dish was of human flesh or anything else. . . . I know for certain, however, that after our Captain spoke against the sacrifice of human beings and the eating of their flesh, Montezuma ordered that it should no longer be served to him.

In renouncing cannibalism, was Montezuma cooperating in the destruction of his Aztec “cultural roots,” or was he aiding a victory of civilized custom over barbaric?

A few pages later, Diaz provides a detailed description of

the manner of their [that is, the Aztecs'] sacrifices. They strike open the wretched Indian’s chest with flint knives and hastily tear out the palpitating heart which, with the blood, they present to the idols in whose name they have performed the sacrifice. Then they cut off the arms, thighs, and head, eating the arms and thighs at their ceremonial banquets. The head they hang up on a beam, and the body of the sacrificed man is not eaten but given to the beasts of prey.

Diaz also describes the great market of Tenochtitlan, and its

dealers in gold, silver, and precious stones, feather, cloaks, and embroidered goods, and male and female slaves who are also sold there. They bring as many slaves to be sold in that market as the Portuguese bring Negroes from Guinea. Some are brought there attached to long poles by means of collars round their necks to prevent them from escaping, but others are left loose.

Following the ceremony in which humans are sacrificed to their gods, high-ranking Aztecs eat the flesh of the victims. A Spanish witness commented:

This figure demonstrates the abominable thing that the Indians did on the day they sacrificed to their idols. After [the sacrifice] they placed many large earthen cooking jars of that human meat in front of their idol they called Mictlantecutli, which means lord of the place of the dead, as it is mentioned in other parts [of this book]. And they gave and distributed it to the notables and overseers, and to those who served in the temple of the demon, whom they called tlamacazqui [priests]. And these [persons] distributed among their friends and families that [flesh] and these [persons] which they had given [to the god as a human victim]. They say it tasted like pork meat tastes now. And for this reason pork is very desirable among them.

Plainly it was the Spanish who stamped out human sacrifice and cannibalism among the people of pre-Cortesian Mexico. As for slavery, it is as obvious that the Europeans did not introduce it to the New World as it is that they eradicated it, albeit not immediately. Moreover, the moral impulse to end slavery came from the West, specifically out of England. Had the Aztecs, Indians, and Africans been left to their own devices, slavery might well have endured in North and South America, as it does in parts of present-day Africa.

North American Natives

In his epic work France and England in North America, the great American historian Francis Parkman describes the early 17th-century recreational and culinary habits of the Iroquois Indians (also known as the Five Nations, from whom, some will have it, the United States derived elements of its Constitution). He tells that the Iroquois, along with other tribes of northeastern United States and Canada, “were undergoing that process of extermination, absorption, or expatriation, which, as there is reason to believe, had for many generations formed the gloomy and meaningless history of the greater part of this continent.” Parkman describes an attack by the Iroquois on an Algonquin hunting party, late in the autumn of 1641, and the Iroquois’ treatment of their prisoners and victims:

They bound the prisoners hand and foot, rekindled the fire, slung the kettles, cut the bodies of the slain to pieces, and boiled and devoured them before the eyes of the wretched survivors. “In a word,” says the narrator [that is, the Algonquin woman who escaped to tell the tale], “they ate men with as much appetite and more pleasure than hunters eat a boar or a stag . . .”

The conquerors feasted in the lodge till nearly daybreak . . . then began their march homeward with their prisoners. Among these were three women, of whom the narrator was one, who had each a child of a few weeks or months old. At the first halt, their captors took the infants from them, tied them to wooden spits, placed them to die slowly before a fire, and feasted on them before the eyes of the agonized mothers, whose shrieks, supplications, and frantic efforts to break the cords that bound them were met with mockery and laughter . . .

The Iroquois arrived at their village with their prisoners, whose torture was

designed to cause all possible suffering without touching life. It consisted in blows with sticks and cudgels, gashing their limbs with knives, cutting off their fingers with clam-shells, scorching them with firebrands, and other indescribable torments. The women were stripped naked, and forced to dance to the singing of the male prisoners, amid the applause and laughter of the crowd . . .

On the following morning, they were placed on a large scaffold, in sight of the whole population. It was a gala-day. Young and old were gathered from far and near. Some mounted the scaffold, and scorched them with torches and firebrands; while the children, standing beneath the bark platform, applied fire to the feet of the prisoners between the crevices. . . . The stoicism of one of the warriors enraged his captors beyond measure . . . they fell upon him with redoubled fury, till their knives and firebrands left in him no semblance of humanity. He was defiant to the last, and when death came to his relief, they tore out his heart and devoured it; then hacked him in pieces, and made their feast of triumph on his mangled limbs.

All the men and all the old women of the party were put to death in a similar manner, though but few displayed the same amazing fortitude. The younger women, of whom there were about thirty, after passing their ordeal of torture, were permitted to live; and, disfigured as they were, were distributed among the several villages, as concubines or slaves to the Iroquois warriors. Of this number were the narrator and her companion, who . . . escaped at night into the forest . . .

Of the above account, Parkman writes: “Revolting as it is, it is necessary to recount it. Suffice it to say, that it is sustained by the whole body of contemporary evidence in regard to the practices of the Iroquois and some of the neighboring tribes.”

The “large scaffold” on which the prisoners were placed, is elsewhere in his narrative referred to by Parkman as the Indians’ “torture-scaffolds of bark,” the Indian equivalent of the European theatrical stage, while the tortures performed by the Indians on their neighbors — and on the odd missionary who happened to fall their way — were the noble savages’ equivalent of the European stage play.

If the descendants of the New England tribes now devote their time to selling tax-free cigarettes, running roulette wheels, or dealing out black jack hands, rather than to the capture, torture, and consumption of their neighboring tribesmen, should we not give thanks to those brave Jesuits who sacrificed all to redeem these “native Americans”?

Native Africans

What kind of life did the African live in his native land, before he was brought to America and introduced to Western civilization? That slavery was widely practiced in Africa before the coming of the white man is beyond dispute. But what sort of indigenous civilization did the African enjoy?

In A Slaver’s Log Book, which chronicles the author’s experiences in Africa during the 1820s and 1830s, Captain Theophilus Conneau (or Canot) describes a tribal victory celebration in a town he visited after an attack by a neighboring tribe:

On invading the town, some of the warriors had found in the Chief’s house several jars of rum, and now the bottle went round with astonishing rapidity. The ferocious and savage dance was then suggested. The war bells and horns had sounded the arrival of the female warriors, who on the storming of a town generally make their entry in time to participate in the division of the human flesh; and as the dead and wounded were ready for the knife, in they came like furies and in the obscene perfect state of nakedness, performed the victorious dance which for its cruelties and barbarities has no parallel.

Some twenty-five in number made their appearance with their faces and naked bodies besmeared with chalk and red paint. Each one bore a trophy of their cannibal nature. The matron or leader . . . bore an infant babe newly torn from its mother’s womb and which she tossed high in the air, receiving it on the point of her knife. Other Medeas followed, all bearing some mutilated member of the human frame.

Rum, powder, and blood, a mixture drunk with avidity by these Bacchantes, had rendered them drunk, and the brutal dance had intoxicated them to madness. Each was armed also with some tormenting instrument, and not content with the butchering outside of the town of the fugitive women, they now surrounded the pile of the wounded prisoners, long kept in suspense for the coup de grâce. A ring was formed by the two-legged tigresses, and accompanied by hideous yells and encouraging cry of the men, the round dance began. The velocity of the whirling soon broke the hideous circle, when each one fell on his victims and the massacre began. Men and women fell to dispatching the groaning wounded with the most disgusting cruelties.

I have seen the tiger pounce on the inoffensive gazelle and in its natural propensity of love of blood, strangle its victim, satiate its thirst, and often abandon the dead animal. But not so with these female cannibals. The living and dying had to endure a tormenting and barbarous mutilation, the women showing more cannibal nature in the dissection of the dead than the stronger sex. The coup de grâce was given by the men, but in one instance the victim survived a few minutes when one of those female furies tormented the agony of the dying man by prostrating herself on his body and there acting the beast of double backs.

The matron, commander of these anthrophagies, with her fifty years and corpulous body, led the cruelties on by her example. The unborn babe had been put aside for a bonne bouche, and now adorned with a string of men’s genital parts, she was collecting into a gourd the brains of the decapitated bodies. While the disgusting operating went on, the men carved the solid flesh from the limbs of the dead, throwing the entrails aside.

About noon the butchering was at an end, and a general barbecuing took place. The smell of human flesh, so disgusting to civilized man, was to them the pleasing odor so peculiarly agreeable to a gastronomer …

The barbecuing over, an anthrophagous repast took place, when the superabundant preserved flesh was packed up in plantain leaves to be sent into the Interior for the warriors’ friends. I am silent on the further cruelties that were practiced this day on the unfortunate infirm and wounded that the different scouting parties brought in during the day, supposing the reader to be sick enough at heart at the above representation.

Vanishing History

This is the history that has been handed down to us by men who either were present when the recorded events took place — that is, Diaz and Conneau — or who had access to period documents — that is, Parkman. But this factual history has suffered greatly at the hands of politically correct myth-mongers. The books themselves are disappearing from the shelves: Conneau’s book has been out of print for nearly a generation; perhaps Diaz’s and Parkman’s will follow in the next 20 years. In its place, the most absurd historical fantasies are substituted. As the seemingly inexorable forces of political correctness grind on, we may be left with as much knowledge of our true history as Orwell’s Winston Smith had of his.

Were it not for their subjugation by Europeans, Mexicans would perhaps have continued to practice the Aztec traditions of slavery, human sacrifice, and cannibalism; many American Indians would probably still be living their sad and perilous life of nomadism, subsistence farming, and warfare; and Africans would likely be expiring in even greater numbers on the fields of mayhem and slaughter (as the world has noted to its horror in Rwanda, Liberia and Congo), when not being bought and sold as slaves (as still is done in Sudan and Mauritania).

In his 1965 work, The Course of Empire: The Arabs and their Successors, the sagacious Glubb Pasha wrote in defense of Western colonialism:

Foreign military conquest has not only enabled backward people to acquire the skills and the culture of the conquerors, but it has often administered a salutary shock to the lethargic mentality of the inhabitants, among whom the desire to rise to equality with the foreigners has roused a new spirit of energy. . . . Britain has permeated Asia and Africa with her ideas of government, of law and of ordered civilization. The men of races who less than a hundred years ago were naked are now lawyers, doctors and statesmen on the stage of the world.

But if the present trend of denigrating the West’s mission civilisatrice continues, the achievements of that great civilizing venture might well be squandered and lost forever. If we permit inhumane customs and mores to reassert themselves, the ultimate dissolution of the West itself is not an impossibility. In his famous poem “White Man’s Burden,” Rudyard Kipling eloquently spelled out the fate of a culture that loses faith in itself and its mission:

And when your goal is nearest
The end for others sought,
Watch Sloth and heathen Folly
Turn all your hope to naught.

Journal of Historical Review 17, no. 3 (May–June 1998), 7–11.

Online source: http://library.flawlesslogic.com/lifestyles.htm [2]


Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

vendredi, 23 septembre 2011

Révolte, irrationnel, cosmicité et... pseudo-antisémitisme

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1987

Révolte, irrationnel, cosmicité et... pseudo-antisémitisme

par Michel FROISSARD

Ex: http://vouloir.hautetfort.com/

[Pour Matthes, Mattheus et Bergfleth, la philosophie doit se replonger dans l'élémentaire de la vie et de la mort et quitter le petit monde politisé dans lequel les tenants de l'École de Francfort et Habermas avaient voulu l'enfermer. Le jeu d'ombre de cette photographie expressionniste de Frantisek Drtikol exprime bien l'émergence d'une féminité élémentaire où se mêlent désirs érotiques et engouements pour les puissances de le physis. Le mélange d'érotisme et de thanatomanie se répère dans les sculptures tombales. La photographe Isolde Ohlbaum a consacré un ouvrage illustré à cet art des cimetières (Denn alle Lust will Ewigkeit : Erotische Skulpturen auf europäischen Friedhöfen, Greno, Nördlingen). Plus bas, une photographie tirée de ce livre.]

Contre les pensées pétrifiées, il faut recourir à la révolte, disent les animateurs de la maison d'éditions Matthes & Seitz de Munich, éditrice des textes les plus rebelles de RFA et propagatrice de la pensée d'un Bataille et d'un Artaud, d'un Drieu et d'un Dumézil, d'un Leiris et d'un Baudrillard. Attentifs au message de cette inclassable pensée française, rétive à toute classification idéologique, Matthes, Mattheus et Bergfleth, principales figures de ce renouveau, si impertinent pour le conformisme de la RFA, estiment que c'est par ce détour parisien que la pensée allemande prendra une cure de jouvence. Mattheus et Matthes avaient, fin 1985, publié une anthologie de textes rebelles qu'ils avaient intitulée d'une phrase-confession, inspirée de Genet : “Ich gestatte mir die Revolte” (Je me permets la révolte...). Leur révolte, écrit l'essayiste hongrois Laszlo Földényi, dans une revue de Budapest, n'a rien de politique ; elle ne se réfère pas à telle ou telle révolution politique concrète ni à l'aventure soixante-huitarde ni à de quelconques barricades d'étudiants ; elle se niche dans un héritage culturel forcément marginal aujourd'hui, où notre univers est club-méditerranisé, elle campe dans de belles-lettres qui avivent les esprits hautains, s'adressent à des cerveaux choisis.

Une révolte à dimensions cosmiques

Ces derniers, eux, doivent se réjouir d'une anthologie où Hamann et Hebbel sont voisins de Céline et de Bataille, et où tous ces esprits éternels conjuguent leur puissance pour dissoudre les pétrifications, pour sauver la culture de ce que Friedrich Schlegel nommait la « mélasse de l'humanisme » (Sirup des Humanismus). “Révolte”, ici, n'implique aucune démonstration de puissance politique, de force paramilitaire et/ou révolutionnaire, note Földényi, mais, au contraire, une retenue avisée de puissance, dans le sens où Mattheus et Matthes nous enseignent à nous préparer à l'inéluctable, la mort, pour jouir plus intensément de la vie ; de renoncer aux pensées unilatérales : « L'extrémisme politique institutionalisé transforme souvent l'État en maison d'arrêt : c'est là la forme déclinante de la radicalité... ».

Les réflexions cosmiques d'un Bataille, les outrances céliniennes recèlent davantage de potentialités philosophiques, affirment Matthes et Mattheus, que les programmes revendicateurs, que les spéculations strictement sociologiques qui se sont posés comme objets de philosophie dans l'Allemagne de ces 3 ou 4 dernières décennies. Contrairement à Camus, moraliste, et aux exégètes de l'École de Francfort, Matthes, Mattheus et Bergfleth pensent que la “Révolte”, moteur de toute originalité de pensée, ne vise pas à l'instauration d'un Bien pré-défini et que l'activité humaine ne se résume pas à un processus sociologique de production et de reproduction ; elle indique bien plutôt cette “Révolte” à dimensions cosmiques, l'expression des outrances les plus violentes et les plus audacieuses de l'âme humaine qu'aucune codification de moralistes étriqués et qu'aucun utilitarisme calculateur ne pourront jamais appréhender dans leur totalité, dans leur profusion cosmique et tellurique.

La “Révolte” comme force innée

La raison des philosophes et des idéologues n'est qu'un moyen pratique et commode pour affronter une quotidienneté sans reliefs importants. Dans une lettre du peintre André Masson, reproduite dans l'anthologie de Matthes et Mattheus, on trouve une réflexion qui rejoint la préoccupation du groupe éditorial munichois : aucun enthousiasme révolutionnaire n'est valable, s'il ne met pas à l'avant-plan les secrets et les mystères de la vie et de la mort. C'est pourquoi l'attitude “Révolte” détient une supériorité intrinsèque par rapport au phénomène “révolution” qui, lui, est limité dans un espace-temps : il commence et il se termine et, entre ces 2 points, une stratégie et une tactique ponctuelles s'élaborent.

La “Révolte”, elle, est “primitive” et “a-dialectique” ; elle fait irruption à des moments intenses et retourne aussitôt vers un fonds cosmo-tellurique d'où, récurrente, elle provient, revient et retourne. La “Révolte” est un principe constant, qu'une personnalité porte en elle ; elle est un sentiment, une attitude, une présence, une rébellion. La plupart des hommes, faibles et affaiblis par nombre de conformismes, oublient ce principe et obéissent aux “ordres pétrifiés” ou remplacent cette force innée par une caricature : la dialectique oppositionnelle.

Et si le dialecticien politisé croit à un “télos” bonheurisant, sans plus ni projets ni soucis, réalisable dans la quotidienneté, le “révolté”, être d'essence supérieure, sait la fragilité de l'existence humaine, et, dans la tension qu'implique ce savoir tragique, s'efforce de créer, non nécessairement une œuvre d'art, mais un ordre nouveau des choses de la vie, frappé du sceau de l'aventureux. Avec le romantique Novalis, Matthes et Mattheus croient à la créativité de ce rassemblement de forces que l'homme, conscient de sa fragilité, est capable de déployer.

Retour à l'irrationnel ?

[Sculpture érotique d'une tombe. Photographie d'I. Ohlbaum. « Tout désir veut l'éternité » : tel est le titre de son superbe recueil de photographies, renvoyant à ce fameux vers de Nietzsche : « Doch alle Lust will Ewigkeit – will tiefe, tiefe Ewigkeit ! » (Also sprach Zarathustra)]

Témoignent de cette créativité foisonnante toutes les poésies, toutes les œuvres, toutes les pensées imperméables aux simplifications politiciennes. C'est précisément dans cette “zone imperméable” que la philosophie ouest-allemande doit retourner, doit aller se ressourcer, afin de briser le cercle vicieux où elle s'enferre, avec pour piètre résultat un affrontement Aufklärung-Gegenaufklärung, où l'Aufklärung adornien donne le ton, béni par les prêtres inquisiteurs du journalisme. Pour Matthes et Mattheus, tout prosélytisme est inutile et rien ne les poussera jamais à adopter cette répugnante praxis. La “Révolte” échappe à l'alternative commode “rationalisme-irrationalisme”, comme elle échappe aux notions de Bien et de Mal et se fiche de tout establishment.

Le carnaval soixante-huitard n'a conduit à aucun bouleversement majeur, comme l'avait si bien prévu Marcel Jouhandeau, criant aux étudiants qui manifestaient sous son balcon : « Foutez-moi le camp ! Dans dix ans, vous serez tous notaires ! ». La tentation politicienne mène à tous les compromis et à l'étouffement des créativités. L'objectif de Matthes et Mattheus, c'est de recréer un climat, où la “Révolte” intérieure, son “oui-non” créateur, puisse redonner le ton. Un “oui” au flot du devenir, aux grouillements du fonds de l'âme et à la violence puissante des instincts et un “non” aux pétrifications, aux modèles tout faits. C'est au départ de cet arrière-plan que se développe, à Munich, l'initiative éditoriale de Matthes. Ce dernier précise son propos dans une entrevue accordée à Rolf Grimminger  :

« Le traumatisme des intellectuels allemands, c'est “l'irrationalisme”. Le concept “irrationalisme” a dégénéré en un terme passe-partout, comme le mot “fascisme” ; il ne signifie plus rien d'autre qu'une phobie, que j'aimerais, moi, baptiser de “complexe de l'irrationalisme”. Je pose alors la question de savoir dans quelle mesure la raison est si sûre d'elle-même quand elle affronte son adversaire, aujourd'hui, avec une telle véhémence d'exorciste. Fébrile, la raison diffame tout ce qui lui apparaît incommensurable et sa diffamation use des vocables “non-sens”, “folie”, “anormalité”, “perversion”, bref le “mal” qu'il s'agit d'exclure.

Par cette exclusion, on exclut l'homme lui-même : tel est mon argument personnel. La raison n'est et n'a jamais été une valeur en soi ; il lui manque toute espèce de souveraineté ; elle est et reste un pur moyen pratique. L'homme, pour moi, est certes un animal doté de raison, mais il n'est pas assermenté à la raison et ses potentialités et ses aspirations ne s'épuisent pas dans la raison. Et celui qui affirme le contraire, ne peut avoir pour idéal que le camp de travail » (Die Ordnung, das Chaos und die Kunst, Suhrkamp, Frankfurt/M., 1986, p. 253).

En France : la Cité ; en Allemagne : la Raison

Le lecteur français, en prenant acte de tels propos, ne percevra pas immédiatement où se situe le “scandale”... En France, la polémique tourne autour des notions d'universalisme et de cosmopolitisme, d'une part, et d'enracinement et d'identité, d'autre part. BHL parie pour Jérusalem et la Loi, qui transcendent les identités “limitantes”, tandis qu'un Gérald Hervé, condamné au silence absolu par les critiques, parie pour Rome, Athènes et les paganités politiques (in : Le mensonge de Socrate ou la question juive, L'Âge d'Homme, 1984). Dans la querelle actuelle qui oppose philo-européens et philo-sémites (car tel est, finalement, qu'on le veuille ou non, le clivage), le débat français a pour objet premier la Cité et celui de la citoyenneté-nationalité), tandis que le débat allemand a la question plus abstraite de la raison.

La Raison, que dénoncent Bergfleth et Matthes, est, en RFA, l'idole érigée dans notre après-guerre par les vainqueurs américains et aussi la gardienne conceptuelle d'une orthodoxie et la garante d'un culpabilisme absolu. Pour provoquer l'establishment assis sur ce culte de la raison, établi par l'École de Francfort, et ce philo-sémitisme obligé, soustrait d'office à toute critique, Bergfleth écrit, au grand scandale des bien-pensants :

« La judéité des Lumières (aufklärerisches Judentum) ne peut, en règle générale, appréhender le sens de la spécificité allemande, des nostalgies romantiques, du lien avec la nature, du souvenir indéracinable du passé païen germanique... ».

Ou, plus loin :

« Ainsi, une nouvelle Aufklärung a généré un non-homme, un Allemand qui a l'autorisation d'être Européen (CEE, ndlr), Américain, Juif ou autre chose, mais jamais lui-même. Grâce à cette rééducation perpétrée par la gauche, rééducation qui complète définitivement sa défaite militaire, ce non-homme est devenu travailleur immigré dans son propre pays, un immigré qui reçoit son pain de grâce culturel des seigneurs cyniques de l'intelligentsia de gauche, véritable mafia maniant l'idéologie des Lumières ».
 

L'inévitable reproche d'antisémitisme

Plus pamphlétaire que Gérald Hervé, moins historien, Bergfleth provoque, en toute conscience de cause, le misérable Zeitgeist ouest-allemand ; il brise allègrement les tabous les plus vénérés des intellectuels, éduqués sous la houlette de Benjamin et d'Adorno et de leurs nombreux disciples. Son complice Matthes, qui ne renie nullement ce que Benjamin et Adorno lui ont apporté, estime que si ce philo-sémitisme est absolu et exclut, parce qu'il est asséné en overdose, des potentialités intellectuelles, philosophiques, culturelles et humaines, il limite la liberté, occulte des forces sous-jacentes que le philosophe a le devoir de déceler et de montrer au grand jour. Une telle attitude n'est pas assimilable à l'anti-sémitisme militant habituel, pense Matthes : la critique d'une pensée issue de la théologie judaïque est parfaitement légitime. Cette critique n'exclut pas d'office ce que la théologie et le prophétisme judaïques ont apporté à la culture humaine ; elle a pour objectif essentiel de ne laisser aucune culture, aucun héritage, en marge des spéculations contemporaines.

La philosophie ne consiste pas à répéter une vérité sue, déjà révélée, à encenser une idole conceptuelle par des psaumes syllogistiques, mais de rechercher au-delà de la connaissance “ce que la connaissance cache”, c'est-à-dire d'explorer sans cesse, dans une quête sans fin, le fond extra-philosophique, concret, tangible, tellurique, l'humus prolifique, la profusion infinie faite d'antagonismes, qui précèdent et déterminent toutes les idées. Où est l'anti-sémitisme propagandiste dans une telle démarche, à l'œuvre depuis les Grecs pré-socratiques ? Peut-on sérieusement parler, ici, d'anti-sémitisme ? Ce simple questionner philosophique qui interroge l'au-delà des concepts ne saurait être criminalisé, et s'il est criminalisé et marqué du stigmate de l'anti-sémitisme, ceux qui le criminalisent. sont ridicules et sans avenir fecond.

Les aphorismes de Mattheus

Criminaliser les irrationalismes, cela a été une marotte de l'après-guerre philosophique allemand, sous prétexte d'anti-fascisme. En France, il restait des espaces de pensée irrationaliste, en prise sur la littérature, avec Artaud, Bataille, Genet, etc. C'est le détour parisien que s'est choisi Bernd Mattheus, éditeur allemand d'Artaud et biographe de Bataille, pour circonvenir les interdits de l'intelligentsia allemande. Celle-ci, dans son dernier ouvrage, Heftige Stille (Matthes & Seitz, 1986), n'est pas attaquée de front, à quelques exceptions près ; le style de vie cool, soft, banalisé, consumériste, anhistorique, flasque, rose-bonbon, empli de bruits de super-marchés, de tiroirs-caisses électroniques, qu'indirectement et malgré la critique marcusienne de l'unidimensionalité, la philosophie francfortiste de la raison a généré en RFA, est battu en brèche par des aphorismes pointus, inspirés des moralistes français, qui narguent perfidement les êtres aseptisés, purgés de leur germanité, qui ont totalement (totalitairement ?) assimilé au thinking packet franfortiste, comme ils ingurgitent les lunch packets de Mac Donald.

Laissons la parole à Mattheus :

« Ô combien ennuyeux l'homme qui n'a plus aucune contradiction » (p. 102).

« Ne jamais perdre de vue la lutte contre la pollution de notre intériorité » (p. 123).

« Le désenchantement rationaliste du monde, c'est, d'après Ludwig Klages, la triste facette du travail de l'intellect humain. Pour déréaliser le monde, on peut se servir soit de la ratio soit de la folie. Mais chacune de ces deux voies indique que l'homme ne peut supporter le monde réel tel quel et cherche à s'en débarrasser. Si l'on juge ces deux voies d'après la situation dans laquelle évoluent les sujets qui leur sont livrés, la déréalisation semble plutôt accentuer les souffrances et le désespoir ; d'où le dilemme : soit bêtifié et heureux soit fou et malheureux (Ernst Jünger) » (p. 166).

« Les systèmes libéraux n'ont nul besoin de censure ; la sélection des “biens culturels” se fait aux caisses des magasins et cette sélection-là est bien plus rigoureuse que ne le serait n'importe quelle sélection politique » (p. 183-4).

« Pourquoi Artaud, pourquoi Bataille ? Parce que j'apprécie l'ivresse lucide » (p. 257).

Une stratégie de l'attention

Disloquer les certitudes francfortistes, et le “prêt-à-penser” médiatique qu'elles ont généré, passe par un plongeon dans l'extra-philosophique et par ce style aphoristique de La Rochefoucauld, déjà préconisé par Nietzsche. Prendre connaissance, dans l'espace linguistique francophone, du travail de Bergfleth, Matthes et Mattheus, et s'habituer au climat qu'ils contribuent à créer à l'aide de productions philosophiques françaises, c'est travailler à la constitution d'un axe franco-allemand autrement plus efficace et porteur d'histoire que la ridicule collaboration militaire dans le cadre de l'OTAN, où les dés sont de toute façon pipés, puisque l'Allemagne et son armée n'ont aucun statut de souveraineté. De notre part, l'initiative de Bergfleth, Matthes et Mattheus, doit conduire à une efficace stratégie de l'attention.

♦ Bernd Mattheus, Axel Matthes (Hrsg.), Ich gestatte mir die Revolte, Matthes & Seitz, München, 1985, 397 S., 22

♦ Laszlo FÖLDENYI, article paru à Budapest, reproduit dans le catalogue 1986 de la maison Matthes & Seitz.

Michel Froissard, Vouloir n°40-42, 1987.

jeudi, 22 septembre 2011

Carl Schmitt toujours plus actuel

Carl Schmitt toujours plus actuel

par Georges FELTIN-TRACOL

 

« Une métamorphose de la notion d’espace est aujourd’hui en marche, en profondeur, sur un large front, dans tous les domaines de la pensée et de l’action humaines (p. 198) », relève en observateur avisé Carl Schmitt en 1941. Lancée par la Première Guerre mondiale, accélérée par la Seconde, amplifiée par la Décolonisation, la Guerre froide et la construction européenne, puis d’autres ensembles régionaux (A.S.E.A.N., Mercosur, Union africaine…), cette mutation majeure arrive à sa plénitude dans la première décennie du XXIe siècle.

 

Les deux textes de Carl Schmitt, « Le tournant vers le concept discriminatoire de la guerre » et « Le droit des peuples réglé selon le grand espace proscrivant l’intervention de puissances extérieures. Une contribution au concept d’empire en droit international », qu’éditent en un seul volume les Éditions Krisis, agrémentés d’une préface de Danilo Zolo, d’un appareil rigoureux de notes et d’explications réalisé par Günter Maschke et assortis en appendices de deux articles hostiles d’un juriste S.S., Werner Best, apportent une nouvelle fois une puissante confirmation au cours du monde. À l’heure où l’Occident bombarde la Libye, sanctionne la Syrie et l’Iran, intervient au Kossovo, en Irak, en Afghanistan, en Côte d’Ivoire ou au Congo ex-Zaïre, les pertinences de l’auteur de la Théorie de la Constitution apparaissent visionnaires.

 

 

En dépit d’approches apparentes dissemblables, ces deux écrits sont en réalité complémentaires. En juriste classique, Schmitt considère que « le droit international, jus gentium, donc droit des gens ou des peuples, est un ordre concret, que détermine d’abord l’appartenance des personnes à un peuple et à un État (p. 144) ». Or les traités de paix de 1919 et la fondation de la Société des nations (S.D.N.) explicitement responsable du maintien de la paix entre les États, modifient le cadre juridique traditionnel. Le S.D.N., organisme supranational et embryon d’une direction politique mondiale, réhabilite les notions de « guerre juste » et de « guerres injustes », ce qui est une véritable révolution. Jusqu’en 1914, « le droit international est bel et bien un “ droit de la guerre et de la paix ”, jus belli ac pacis, et le restera tant qu’il sera un droit des peuples autonomes, organisés dans un cadre étatique, c’est-à-dire : tant que la guerre entre États, et non une guerre civile internationale (p. 41) ». Avec la nouvelle donne, Schmitt remarque que « la problématique du droit de la S.D.N. […] a très clairement mis en évidence qu’il n’agit plus, et ce depuis longtemps, de normes nouvelles, mais d’ordres nouveaux auxquels de très concrètes puissances s’efforcent de donner forme concrète (p. 47) ». Émanant du trio occidental États-Unis – France – Grande-Bretagne, une soi-disant « communauté internationale » (qui ignore la Chine, l’Inde, le Brésil, la Russie) cherche à s’imposer avec la ferme intention d’exercer un droit de regard total sur les autres souverainetés étatiques. La S.D.N. semblait prêt à susciter un tel ensemble constitutionnel planétaire flou dont la loi fondamentale deviendrait un droit international supérieur au droit des États. Dans cette perspective, « tout individu est donc en même temps citoyen du monde (au plein sens juridique du terme) et citoyen d’un État (p. 59) ».

 

Carl Schmitt devine déjà le déclin de l’État-nation, d’autant que celui-ci se retrouve sous la menace permanente de rétorsion, car, dans cette nouvelle configuration, « pour défendre la vie et la liberté des individus, même ressortissants de l’État en question, les autres gouvernements, et tout particulièrement la S.D.N., possèdent en droit international la compétence de l’intervention […]. L’intervention devient une institution juridique normale, centrale dans ce système (p. 59) ». Il en résulte un incroyable changement de paradigme dans les relations inter-étatiques. « Dès lors par conséquent qu’un ordre de droit international distingue, en vertu d’une autorité supra-étatique reconnue par les États tiers, entre guerres justifiées et injustifiées (entre deux États), l’opération armée n’est autre, du côté justifié, que mise en œuvre du droit, exécution, sanction, justice ou police internationale; du côté injustifiée, elle n’est que résistance à une action légitime, rébellion ou crime, autre chose en tous cas que l’institution juridique connue sous le nom de “ guerre ” (pp. 86 – 87). » Ces propos présentent une tonalité particulièrement actuelle avec l’existence du T.P.I.Y. (Tribunal pénal international pour l’ex-Yougoslavie) ou de la C.P.I. (Cour pénale internationale).

 

Ne nous étonnons pas ensuite que les pouvoirs occidentaux violent leurs propres constitutions. De même qu’en 1939, contre la Serbie en 1999, puis contre la Libye en 2011, les organes législatifs étatsunien, britannique ou français n’ont jamais voté la moindre déclaration de guerre. Ils ne font qu’entériner a posteriori la décision belliciste de leurs exécutifs. Il ne s’agit pas, pour ces derniers, de combattre un ennemi; il s’agit plutôt d’extirper une manifestation du Mal sur Terre. Par ailleurs, les opinions manipulées n’aiment pas le mot « guerre ». En revanche, les expressions « maintien de la paix », « défense des populations civiles », « lutte contre la dictature sanguinaire et pour la démocratie et les droits de l’homme » permettent l’adhésion facile des masses aux buts de guerre de l’hyper-classe oligarchique.

 

Bien avant George W. Bush et ses « États-voyous », Carl Schmitt parle d’« État-brigand (p. 91) ». Mieux, dès 1937, il décrit la présente époque : « lorsqu’on exerce des sanctions ou des mesures punitives de portée supra-étatique, la “ dénationalisation ” de la guerre entraîne habituellement une différenciation interne à l’État et au peuple, dont l’unité et la cohésion subissent un clivage discriminatoire imposé de l’extérieur, du fait que les mesures coercitives internationales, à ce qu’on prétend du moins, ne sont pas dirigées contre le peuple, mais seulement contre les personnes se trouvant exercer le pouvoir et leurs partisans, qui cessent par lui-même de représenter leur État ou leur peuple. Les gouvernants deviennent, en d’autres termes, des “ criminels de guerre ”, des “ pirates ” ou – du nom de l’espèce moderne et mégalopolitaine du pirate – des “ gangsters ”. Et ce ne sont pas là des expressions convenues d’une propagande survoltée : c’est la conséquence logique, en droit, de la dénationalisation de la guerre, déjà contenue dans la discrimination (p. 90) ». On croirait que Schmitt commente les événements survenus à Belgrade, à Bagdad ou à Tripoli !

 

La distinction entre le peuple et ses dirigeants tend même à s’effacer. Pressentant l’hégémonie du tout-anglais simplifié, Carl Schmitt remarque : « lorsqu’un grand peuple fixe de sa propre autorité la manière de parler et même de penser des autres peuples, le vocabulaire, la terminologie et les concepts, c’est là un signe de puissance politique incontestable (note 53, p. 169) ». Et on n’était alors qu’aux balbutiements de la radio, du cinéma et de la télévision ! L’intervention n’est pas que militaire; elle comporte aussi des facettes économiques et culturelles indéniables. Plus que les dirigeants, les idéologies ou les États, ce sont les peuples que le nouveau droit international entend éliminer. Jugeant que « l’individualisme et l’universalisme sont les deux pôles entre lesquels se meut ce système de droit international (p. 57) », Carl Schmitt prévoit qu’« avant de supprimer le concept de guerre et de passer de la guerre des États à la guerre civile internationale, il faut supprimer l’organisation étatique des peuples (p. 93) ». En outre, il importe d’exclure dans ce nouveau contexte la notion de neutralité qui amoindrirait toute intervention militaire internationale.

 

En partant du fait que « tout ensemble ordonné de peuples sédentaires, vivant côte à côte en bonne intelligence et dans le respect réciproque, relève, outre les déterminations personnelles, de l’espace ordonné d’un territoire concret (p. 144) », Carl Schmitt préconise le recours au grand espace et à l’empire. « Les mots de “ grand espace ” expriment pour nous la métamorphose des représentations de l’espace terrestre et de ses dimensions qui dicte son cours à la politique internationale d’aujourd’hui […]. Le “ grand espace ” est pour nous une notion d’actualité, concrète, historico-politique (p. 145) ». Par maintes références, Schmitt montre qu’il a lu les écrits de Karl Haushofer et qu’il suit avec un intérêt certain les nombreux travaux des géographes allemands. Dès cette époque, il nourrit sa réflexion des apports du droit et de la géopolitique.

 

Admirateur de l’État-nation, en particulier dans ses formulations française et espagnole, l’auteur n’abandonne pas le concept. Il considère seulement que tous les peuples n’ont pas à avoir leur propre État parce qu’« il faut aujourd’hui, pour un nouvel ordre planétaire, pour être apte à devenir un sujet de premier plan du droit international, un potentiel énorme, non seulement de qualités “ naturelles ”, données telles quelles par la nature, mais aussi de discipline consciente, d’organisation poussée, et la capacité de créer par ses propres forces et de gouverner d’une main sûre l’appareil d’une collectivité moderne, qui mobilise un maximum d’intelligence humaine (p. 185) ». L’empire s’impose donc dès lors.

 

On ne doit pas croire pour autant que « l’empire est plus qu’un État agrandie (p. 192) ». L’empire dépasse, transcende les souverainetés étatiques, nationales, par sa souveraineté spatiale. « L’ordre du grand espace appartient à la notion d’empire, grandeur spécifique du droit international. […] Sont “ empires ” […] les puissances dirigeantes porteuses d’une idée politique rayonnant dans un grand espace déterminé, d’où elles excluent par principe les interventions de puissances étrangères. Le grand espace n’est certes pas identique à l’empire, au sens où l’empire serait lui-même le grand espace qu’il protège des interventions […]. Mais il est certain que tout empire possède un grand espace où rayonne son idée politique, et qui doit être préservé de l’intervention étrangère. La corrélation de l’empire, du  grand espace et du principe de non-intervention est fondamentale (pp. 175 – 176). » Carl Schmitt aimerait que l’empire et le grand espace soient l’alternative à la fallacieuse « communauté internationale ».

 

On sait que l’auteur a élaboré la théorie du grand espace à partir du précédent étatsunien avec la doctrine Monroe (« L’Amérique aux Américains »). Au cours d’un discours devant le Congrès en 1823, le président James Monroe (1817 – 1825) apporte son soutien à l’émancipation des colonies espagnoles d’Amérique et dénie à la Sainte-Alliance qu’il pense fomentée depuis Londres (1) le droit d’intervenir et de rétablir l’ordre colonial. Tout au long du XIXe siècle, l’hémisphère occidental, l’ensemble continental américain, du détroit de Béring au Cap Horn, va se transformer progressivement en un espace privilégié de l’influence, directe ou non, des Étatsuniens, leur « jardin », leur « arrière-cour ». Cette doctrine n’empêchera toutefois pas la guerre de l’Espagne contre le Pérou de 1864 à 1866. Napoléon III tentera, lui aussi, de contrecarrer cette logique de domination spatiale par son action militaire au Mexique entre 1861 et 1867. Longtemps tellurocratique avec la guerre contre le Mexique (1846 – 1848) et la « conquête de l’Ouest », les États-Unis prennent une nette orientation thalassocratique après la Guerre de Sécession (1861 – 1865) (2). Ils achètent à la Russie l’Alaska en 1867, annexent les îles Hawaï en 1898, battent l’Espagne la même année, imposent un protectorat à Cuba et aux Philippines, s’emparent de Porto Rico et d’une partie des îles Vierges dans les Antilles, fomentent la sécession du Panama contre la Colombie en 1903 et achèvent le creusement du canal transocéanique. Cette politique s’accomplit vraiment sous la présidence de Theodore Roosevelt (1901 – 1909) avec des interventions militaires répétées en Amérique centrale et la médiation de paix entre la Russie et le Japon en 1905. Toutes ces actions démontrent l’intention de Washington de surveiller le continent américain en l’encadrant par le contrôle des marges maritimes et océaniques. Dès la fin des années Trente, Schmitt comprend que la Mer est « un “ espace ” de domination humaine et de déploiement effectif de la puissance (p. 190) ».

 

Toutefois, Carl Schmitt ne souhaite pas généraliser son raisonnement. Il insiste sur l’inadéquation des perceptions géostratégiques étatsuniennes et britanniques. Le grand espace étatsunien va à l’encontre de la stratégie de Londres qui « ne porte pas sur un espace déterminé et cohérent, ni sur son aménagement interne, mais d’abord et avant tout sur la sauvegarde des liaisons entre les parties dispersées de l’empire. Le juriste, surtout de droit international, d’un tel empire universel tendra donc à penser, plutôt qu’en espaces, en routes et voies de communication (pp. 163 – 164) ». En effet, « l’intérêt vital des routes maritimes, des lignes aériennes (air-lines), des oléoducs (pipe-lines) est incontestable dans l’empire disséminé des Britanniques. Disparité et opposition, en droit international, entre pensée spatiale et pensée des voies et des routes, loin d’être abolies ou dépassées, ne font que se confirmer (p. 164) ». Au zonisme continental, Schmitt met donc en évidence le linéairisme ou le fluxisme du dessein britannique et surtout anglais depuis John Dee et le XVIe siècle (3). Il en ressort que « le mode de pensée juridique qui va de pair avec un empire sans cohérence géographique, dispersé sur toute la planète, tend de lui-même aux arguments universalistes (p. 163) ». Parce que les Britanniques entendent s’assurer de la sécurité de leurs voies de communication afin de garantir le commerce maritime et la sûreté de navigation, Londres pense le monde en archipels épars alors que Monroe et ses successeurs le voient en continents.

 

Devenue puissance mondiale au cours du XXe siècle, les États-Unis adoptent à leur tour la vision britannique au grand dam des « paléo-conservateurs » et pour le plus grand plaisir des néo-conservateurs ! Avant de connaître la passation définitive du sceptre de Neptune de Londres à Washington, Carl Schmitt explique que « la “ liberté ” n’est […] rien d’autre, dans les crises de la politique, qu’une périphrase de l’intérêt, aussi particulier que compréhensible, de l’empire britannique pour les grandes voies de circulation du monde (p. 168) ». Cela implique la dissolution de toute structure ferme et l’avènement d’un brouillard conceptuel perceptible dans la formulation du droit. « Aujourd’hui, la vraie question n’est donc plus : guerre juste ou injuste, autorisée ou non autorisée ? Mais : guerre ou non-guerre ? Quant au concept de neutralité, on est déjà rendu à l’alternative : y a-t-il encore neutralité ou n’y en a-t-il plus ? (p. 85) »

 

Contre cette tendance lourde, Carl Schmitt propose le grand espace et l’empire comme concepts ordonnateurs et vecteurs du nouvel ordre de la Terre garant de la pluralité des groupes politiques humains enchâssés sur leurs terrains, leurs sites, leurs terroirs parce que « tout ordre concret, toute communauté concrète ont des contenus locaux et spatiaux spécifiques (p. 205) ». De fort belles réflexions à lire d’urgence et à méditer longuement ! Gageons enfin que cette parution déplaira à Yves Charles Zarka. On s’en réjouit d’avance !

 

Georges Feltin-Tracol

 

Notes

 

1 : Cette hostilité envers la Grande-Bretagne n’est pas surprenante. La Seconde Guerre d’Indépendance américaine entre 1812 et 1815 était encore dans toutes les mémoires avec l’incendie en 1814 de la Maison Blanche de la Maison Blanche. L’apaisement définitif entre Londres et Washington se produira vers 1850.

 

2 : On peut néanmoins déceler des velléités thalassocratiques bien avant 1865. La Quasi-Guerre (1798 – 1800) contre la France est uniquement un conflit naval et économique. En août 1815, la marine de guerre étasunienne intervient en Méditerranée contre les pirateries d’Alger, de Tunis et de Tripoli (qui avait déclaré la guerre à la jeune République étatsunienne entre 1803 et 1805). En 1816, Washington négocia auprès du royaume des Deux-Siciles une base militaire et économique sur l’île de Lampedusa. Les États-Unis durent renoncer à ce projet devant le mécontentement de Londres.

 

3 : cf. Philippe Forget, « Liens de lutte et réseaux de guerre », dans Krisis, n° 33, « La guerre ? », avril 2010, en particulier pp. 149 – 153.

 

• Carl Schmitt, Guerre discriminatoire et logique des grands espaces, Paris, Éditions Krisis (5, rue Carrière-Mainguet, 75011 Paris), 2011, 289 p., 25 €, préface de Danilo Zolo, notes et commentaires de Günter Maschke, traduction de François Poncet.


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dimanche, 18 septembre 2011

Oswald Spengler et l’âge des “Césars”

Max OTTE:

Oswald Spengler et l’âge des “Césars”

 

Fonctionnaires globaux, négociants libre-échangistes, milliardaires: les questions essentielles posées par Spengler et ses sombres prophéties sont d’une étonnante actualité!

 

spenglerosw.jpgIl y a 75 ans, le 8 mai 1936, Oswald Spengler, philosophe des cultures et esprit universel, est mort. Si l’on lit aujourd’hui les pronostics qu’il a formulés en 1918 pour la fin du 20ème siècle, on est frappé de découvrir ce que ce penseur isolé a entrevu, seul, dans son cabinet d’études, alors que le siècle venait à peine de commencer et que l’Allemagne était encore un sujet souverain sur l’échiquier mondial et dans l’histoire vivante, qui était en train de se faire.

 

L’épopée monumentale de Spengler, son “Déclin de l’Occident”, dont le premier volume était paru en 1918, a fait d’edmblée de ce savant isolé et sans chaire une célébrité internationale. Malgré le titre du livre, qui est clair mais peut aisément induire en erreur, Spengler ne se préoccupait pas seulement du déclin de l’Occident. Plus précisément, il analysait les dernières étapes de la civilisation occidentale et réfléchissait à son “accomplissement”; selon lui, cet “accomplissement” aurait lieu dans le futur. C’est pourquoi il a développé une théorie grandiose sur le devenir de la culture, de l’histoire, de l’art et des sciences.

 

Pour élaborer cette théorie, il rompt avec le schéma classique qui divise le temps historique entre une antiquité, un moyen âge et des temps modernes et veut inaugurer rien moins qu’une “révolution copernicienne” dans les sciences historiques. Les cultures, pour Spengler, sont des organismes supra-personnels, nés d’idées matricielles et primordiales (“Urideen”) auxquelles ils demeurent fidèles dans toutes leurs formes et expressions, que ce soit en art, en diplomatie, en politique ou en économie. Mais lorsque le temps de ces organismes est révolu, ceux-ci se figent, se rigidifient et tombent en déliquescence.

 

Sur le plan de sa conception de la science, Spengler se réclame de Goethe: “Une forme forgée/façonnée (“geprägt”), qui se développe en vivant” (“Geprägte Form, die lebend sich entwickelt”). Dans le germe d’une plante se trouve déjà tout le devenir ultérieur de cette plante: selon la même analogie, l’ “Uridee” (l’idée matricielle et primordiale) de la culture occidentale a émergé il y a mille ans en Europe; celle de la culture antique, il y a environ trois mille ans dans l’espace méditerranéen. Toutes les cultures ont un passé ancien, primordial, qui est villageois et religieux, puis elle développent l’équivalent de notre gothique, de notre renaissance, de notre baroque et de nos époques tardives et (hyper)-urbanisées; ces dernières époques, Spengler les qualifie de “civilisation”. Le symbole originel (“Ursymbol”) de la culture occidentale est pour Spengler la dynamique illimitée des forces, des puissances et de l’espace, comme on le perçoit dans les cathédrales gothiques, dans le calcul différentiel, dans l’imprimerie, dans les symphonies de Beethoven, dans les armes capables de frapper loin et dans les explorations et conquêtes des Vikings. La culture chinoise a, elle aussi, construit des navires capables d’affronter la haute mer ainsi que la poudre à canon, mais elle avait une autre “âme”. L’idée matricielle et primordiale de la Chine, c’est pour Spengler, le “sentier” (“der Pfad”). Jamais la culture chinoise n’a imaginé de conquérir la planète.

 

Dans toutes les cultures, on trouve la juxtaposition d’une volonté de puissance et d’un espace spirituel et religieux, qui se repère d’abord dans l’opposition entre aristocratie et hiérocratie (entre la classe aristocratique et les prêtres), ensuite dans l’opposition politique/économie ou celle qu’il y a entre philosophie et sciences. Et, en fin de compte, au moment où elles atteignent leur point d’accomplissement, les civilisations sombrent dans ce que Spengler appelle la “Spätzeit”, l’ “ère tardive”, où règne une “seconde religiosité” (“eine zweite Religiosität”). Les masses sortent alors du flux de l’histoire et se vautrent dans le cycle répétitif et éternel de la nature: elles ne mènent plus qu’une existence simple.

 

La “Spätzeit” des masses scelle aussi la fin de la démocratie, elle-même phase tardive dans toutes les cultures. C’est à ce moment-là que commence l’ère du césarisme. Il n’y a alors “plus de problèmes politiques. On se débrouille avec les situations et les pouvoirs qui sont en place (...). Déjà au temps de César les strates convenables et honnêtes de la population ne se préoccupaient plus des élections. (...) A la place des armées permanentes, on a vu apparaître progressivement des armées de métier (...). A la place des millions, on a à nouveau eu affaire aux “centaines de milliers” (...)”. Pourtant, Spengler est très éloigné de toute position déterministe: “A la surface des événements mondiaux règne toutefois l’imprévu (...). Personne n’avait pu envisager l’émergence de Mohammed et le déferlement de l’islam et personne n’avait prévu, à la chute de Robespierre, l’avènement de Napoléon”.

 

La guerre dans la phase finale de la civilisation occidentale

 

La vie d’Oswald Spengler peut se raconter en peu de mots: né en 1880 à Blankenburg dans le Harz, il a eu une enfance malheureuse; le mariage de ses parents n’avait pas été un mariage heureux: il n’a généré que problèmes; trop de femmes difficiles dans une famille où il était le seul garçon; il a fréquenté les “Fondations Francke” à Halle; il n’avait pas d’amis: il lisait, il méditait, il élaborait ses visions. Il était loin du monde. Ses études couvrent un vaste champs d’investigation: il voulait devenir professeur et a abordé la physique, les sciences de la nature, la philosophie, l’histoire... Et était aussi un autodidacte accompli. “Il n’y avait aucune personnalité à laquelle je pouvais me référer”. Il ne fréquentait que rarement les salles de conférence ou de cours. Il a abandonné la carrière d’enseignant dès qu’un héritage lui a permis de mener une existence indépendante et modeste. Il n’eut que de très rares amis et levait de temps à autre une fille dans la rue. On ne s’étonnera dès lors pas que Spengler ait choisi comme deuxième mentor, après Goethe, ce célibataire ultra-sensible que fut Friedrich Nietzsche. Celui-ci exercera une profonde influence sur l’auteur du “déclin de l’Occident”: “De Goethe , j’ai repris la méthode; de Nietzsche, les questions”.

 

L’influence politique de Spengler ne s’est déployée que sur peu d’années. Dans “Preussentum und Sozialismus” (“Prussianité et socialisme”), un livre paru en 1919, il esquisse la différence qui existe entre l’esprit allemand et l’esprit anglais, une différence qui s’avère fondamentale pour comprendre la “phase tardive” du monde occidental. Pour Spengler, il faut le rappeler, les cultures n’ont rien d’homogène: partout, en leur sein, on repère une dialectique entre forces et contre-forces, lequelles sont toujours suscitées par la volonté de puissance que manifeste toute forme de vie. Pour Spengler, ce qui est spécifiquement allemand, ou prussien, ce sont les idées de communauté, de devoir et de solidarité, assorties du primat du politique; ces idées ont été façonnées, au fil du temps, par les Chevaliers de l’Ordre Teutonique, qui colonisèrent l’espace prussien au moyen âge. Ce qui est spécifiquement anglais, c’est le primat de la richesse matérielle, c’est la liberté de rafler du butin et c’est l’idéal du Non-Etat, inspiré par les Vikings et les pirates de la Manche.

 

“C’est ainsi que s’opposent aujourd’hui deux grands principes économiques: le Viking a donné à terme le libre-échangiste; le Chevalier teutonique a donné le fonctionnaire administratif. Il n’y a pas de réconciliation possible entre ces deux attitudes et toutes deux ne reconnaissent aucune limite à leur volonté, elles ne croiront avoir atteint leur but que lorsque le monde entier sera soumis à leur idée; il y aura donc la guerre jusqu’à ce que l’une de ces deux idées aura totalement vaincu”. Cette opposition irréconciliable implique de poser la question décisive: laquelle de ces deux idées dominera la phase finale de la civilisation occidentale? “L’économie planétaire prendra-t-elle la forme d’une exploitation générale et totale de la planète ou impliquera-t-elle l’organisation totale du monde? Les Césars de cet imperium futur seront-ils des milliardaires ou des fonctionnaires globaux? (...) la population du monde sera-t-elle l’objet de la politique de trusts ou l’objet de la politique d’hommes, tels qu’ils sont évoqués à la fin du second Faust de Goethe?”.

 

Lorsque, armés du savoir dont nous disposons aujourd’hui, nous jetons un regard rétrospectif sur ces questions soulevées jadis par Spengler, lorsque nous constatons que les lobbies imposent des lois, pour qu’elles servent leurs propres intérêts économiques, lorsque nous voyons les hommes politiques entrer au service de consortiums, lorsque des fonds quelconques, de pension ou de logement, avides comme des sauterelles affamées, ruinent des pans entiers de l’industrie, lorsque nous constatons que le patrimoine génétique se voit désormais privatisé et, enfin, lorsque toutes les initiatives publiques se réduisent comme peau de chagrin, les questions posées par Spengler regagnent une formidable pertinence et accusent une cruelle actualité. En effet, les nouveaux dominateurs du monde sont des milliardaires et les hommes politiques ne sont plus que des pions ou des figures marginalisées.

 

Spengler a rejeté les propositions de Goebbels

 

Spengler espérait que le Reich allemand allait retrouver sa vigueur et sa fonction, comme l’atteste son écrit de 1924, “Neubau des Deutschen Reiches” (= “Pour une reconstruction du Reich allemand”). Dans cet écrit, il exprimait son désir de voir “la partie la plus valable du monde allemand des travailleurs s’unir aux meilleurs porteurs du sentiment d’Etat vieux-prussien (...) pour réaliser ensemble une démocratisation au sens prussien du terme, en soudant leurs efforts communs par une adhésion déterminée au sentiment du devoir”. Spengler utilise souvent le terme “Rasse” (= “race”) dans cet écrit. Mais ce terme, chez lui, signifie “mode de comportement avéré, qui va de soi sans remise en question aucune”; en fait, c’est ce que nous appelerions aujourd’hui une “culture d’organisation” (“Organisationskultur”). Spengler rejetait nettement la théorie folciste (= “völkisch”) de la race. Lorsqu’il parlait de “race”, il entendait “la race que l’on possédait, et non pas la race à laquelle on appartient. La première relève de l’éthique, la seconde de la zoologie”.

 

A la fin des années 20, Spengler se retire du monde et adopte la vie du savant sans chaire. Il ne reprendra la parole qu’en 1933, en publiant “Jahre der Entscheidung” (= “Années décisives”). En quelques mois, le livre atteint les ventes exceptionnelles de 160.000 exemplaires. On le considère à juste titre comme le manifeste de la résistance conservatrice.

 

Spengler lance un avertissement: “Nous ne vivons pas une époque où il y a lieu de s’enthousiasmer ou de triompher (...). Des fanatiques exagèrent des idées justes au point de procéder à la propre annulation de celles-ci. Ce qui promettait grandeur au départ, se termine en tragédie ou en comédie”. Goebbels a demandé à Spengler de collaborer à ses publications: il refuse. Il s’enfonce dans la solitude. Il avait déjà conçu un second volume aux “Années décisives” mais il ne le couche pas sur le papier car, dit-il, “je n’écris pas pour me faire interdire”.

 

Au début du 21ème siècle, l’esprit viking semble avoir définitivement triompher de l’esprit d’ordre. Le monde entier et ses patrimoines culturels sont de plus en plus considérés comme des propriétés privées. La conscience du devoir, la conscience d’appartenir à une histoire, les multiples formes de loyauté, le sens de la communauté, le sentiment d’appartenir à un Etat sont houspillés hors des coeurs et des esprits au bénéfice d’une liberté que l’on pose comme sans limites, comme dépourvue d’histoire et uniquement vouée à la jouissance. La politique est devenue une marchandise que l’on achète. Le savoir de l’humanité est entreposé sur le site “Google”, qui s’en est généralement emparé de manière illégitime; la conquête de l’espace n’est plus qu’un amusement privé.

 

Mais: “Le temps n’autorise pas qu’on le retourne; il n’y aurait d’ailleurs aucune sagesse dans un quelconque retournement du temps comme il n’y a pas de renoncement qui serait indice d’intelligence. Nous sommes nés à cette époque-ci et nous devons courageusement emprunter le chemin qui nous a été tracé (...). Il faut se maintenir, tenir bon, comme ce soldat romain, dont on a retrouvé les ossements devant une porte de Pompéi; cet homme est mort, parce qu’au moment de l’éruption du Vésuve, on n’a pas pensé à le relever. Ça, c’est de la grandeur. Cette fin honnête est la seule chose qu’on ne peut pas retirer à un homme”.

 

Et nous? Nous qui croyons à l’Etat et au sens de la communauté, nous qui sentons au-dessus de nous la présence d’un ciel étoilé et au-dedans de nous la présence de la loi morale, nous qui aimons les symphonies de Beethoven et les paysages de Caspar David Friedrich, va-t-on nous octroyer une fin digne? On peut le supposer. S’il doit en être ainsi, qu’il en soit ainsi.

 

Max OTTE.

(article paru dans “Junge Freiheit”, Berlin, n°19/2011 – http://www.jungefreiheit.de/ ).

 

Max Otte est professeur d’économie (économie de l’entreprise) à Worms en Allemagne. Dans son ouvrage “Der Crash kommt” (= “Le crash arrive”), il a annoncé très exactement, dès 2006, l’éclatement de la crise financière qui nous a frappés en 2008 et dont les conséquences sont loin d’avoir été éliminées.