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vendredi, 14 janvier 2011

La metafisica de "L'Operaio" di Ernst Jünger

La metafisica de "L’operaio" di Ernst Jünger

Luca CADDEO

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

Il progresso tecnico che ancora alla fine dell’800 sembrava condurre l’uomo ad un mondo più giusto e libero dal dolore, pareva mostrare, all’alba del secolo ventesimo, il suo terribile volto di Giano. Gli sfaceli della guerra e la povertà da essa cagionata producevano quelle ingiustizie che, nell’ottica marxista, e ben presto nazionalista e “fascista”, erano il prodromo, per certi versi contraddittorio, all’avvento della “rivoluzione”, fosse questa intesa come un ribaltamento dei rapporti di proprietà o come uno scardinamento del mondo liberale e borghese in previsione della costruzione di una comunità organica. Si iniziò a leggere la tecnica come il segno, se non la causa, della decadenza morale dell’uomo che preludeva al crepuscolo del mondo occidentale o almeno alla sua inevitabile “Krisis”. E’ assai in generale questa la cornice storica e sociale all’interno della quale l’allora celebre scrittore di guerra e giornalista politico Ernst Jünger pubblica, nel 1932, il saggio filosofico e metapolitico Der Arbeiter, Herrschaft und Gestalt (1).

Nelle pagine che seguono cercherò, da un lato, di evidenziare la portata propriamente metafisica del saggio esaminando la metafisica delle forme che ne costituisce l’impianto; dall’altra, avrò modo di rilevare come Ernst Jünger ne L’operaio non abbia l’intenzione di criticare la classe borghese per rinsaldarne, attraverso un artificio ideale, il potere; al contrario, secondo i miei studi, egli mette sotto accusa il borghese e il suo potere volendo, almeno teoricamente, contribuire alla costruzione di un modello metapolitico che, già a partire dai presupposti, si distingua nettamente sia dal liberalcapitalismo che dal collettivismo.

1. Forma e Tipo

Sfogliando L’operaio si ha la sensazione che temi di varia natura siano talmente e finemente interconnessi che appaia assai arduo procedere ad una de-composizione funzionale alla comprensione dei presupposti. Ad una lettura più attenta si “vede” invece perfettamente ciò che, nell’intento dell’acuto “sismografo”, si cela sotto la multiforme matassa. E’ utile a questo punto procedere alla illustrazione di quelli che mi sono sembrati i fondamenti metafisici del saggio del ’32.

Secondo Jünger esisterebbe un “solco” ineffabile definito di sovente eterno e immobile, di cui ogni forma (Gestalt) sarebbe il modo temporale. La Forma è una irradiazione (Strahlung) dell’Indistinto eterno ed immoto, è il modo tramite cui l’essenza numinosa della forma si fa tempo (2); la forma è un tutto che non si riduce alla somma delle sue parti (3). Ciò fa pensare che l’essenza della Gestalt non nasca e non muoia con gli elementi che ne garantiscono l’epifania, anche se il rapporto tra la forma e il suo evento è pressoché necessario (4). L’uomo non ha la possibilità di rappresentare la forma nella sua essenza, non la può cioè porre davanti a sé come un oggetto materiale o spirituale per poi misurarla razionalmente (5). Essa, in sé, è come l’Uno di Plotino (6). Ma l’uomo può “avvicinarsi” (7) alla forma vivendola, cioè incarnandola. Vivere la forma significa dis-porsi alla sovraindividualità che è la modalità grazie a cui la forma si appresta a dominare globalmente. L’uomo travalica la propria individualità facendo spazio al dipanarsi della forma, tras-formandosi in Tipo. La Forma si manifesta infatti nel tipo. Essa è il sigillo, dice Jünger, rispetto al tipo che è l’impronta (8).

Se la forma nelle sue vestigia mortali è una declinazione dell’eternità, il tipo deve, a mio avviso, essere considerato come la guisa temporale della forma. Esso infatti, in un certo senso, attualizza il Destino della Forma. Tale Destino, come suggerito dal titolo de L’operaio, è il Dominio della Forma. Un Dominio che, lo si diceva, non è parziale, che cioè non si espande in un solo piano della realtà, ma a livello del pensare, del sentire e del volere oltre che nello spazio tramite la tecnica e la distruzione che essa comporta. Nello scritto del 1963 Typus, Name, Gestalt si legge che “Tipo” è più di “individuo” nella stessa misura in cui è meno di “forma” (9).

La forma è più vicina all’Indistinto; il tipo, irradiazione della Forma, valicata l’individualità, spalanca le porte all’impersonalità. Questo discorso appare fin qui assai astratto. Per comprendere come effettivamente l’uomo, facendosi Tipo, possa rispecchiare totalmente la forma, è necessario riflettere sul linguaggio della manifestazione della forma. L’uomo infatti si fa tipo (forma nel tempo) praticando, in certo qual modo essendo, il linguaggio della forma. Divenendo tipo, e cioè qualcosa che supera gli esclusivi interessi della propria isolata individualità, si pro-pone al servizio dell’espansione totale della forma. Ora, a parere di Jünger, il linguaggio che la forma, tramite l’uomo, parla nell’epoca della “riproducibilità tecnica” (10) è naturalmente proprio quello della tecnica. Nel periodo de L’operaio la tecnica è un ingranaggio di questo sistema metafisico. Solamente tramite la tecnica infatti la forma può dominare in tutto il mondo. La tecnica è, in altri termini, il modo più efficace tramite cui la Forma può dominare totalmente.

2. L’elementare

Prima di procedere all’analisi del nesso che fonde inestricabilmente, nel pensiero di Jünger, la tecnica alla forma, è bene riflettere su un altro tema che è parimenti inserito nell’impianto metafisico di cui si discute. Mi riferisco alla nozione di “elementare” che, almeno in parte, costituisce uno degli argomenti più “attuali” del pensiero di Jünger (11). Ne L’operaio l’elementare è, da un certo punto di vista, una forza imperitura, sempre uguale a se stessa, ma imprevedibile, poco misurabile, refrattaria al calcolo della ragione strumentale, malamente oggettivizzabile; è dunque un’energia primordiale che non si riduce né all’uomo né alle sue leggi, morali o scientifiche che siano. L’elementare agisce sia come irrefrenabile forza naturale (inumana potenza dei quattro elementi naturali), sia nell’uomo come moto profondo dell’anima impossibile da ponderare, razionalizzare, cattivizzare. Secondo Jünger l’energia del cosmo è sempre uguale a se stessa. Risulta allora perfettamente inutile, anzi assai pericoloso, relegare nell’irrazionale le energie elementari che, in un modo o nell’altro, necessariamente troveranno una valvola di sfogo. Più vengono contratte, più aumenta la loro carica esplosiva, dirompente, agli occhi dell’uomo, terribile. Il borghese porterebbe avanti proprio questo tentativo: piegherebbe l’elementare all’assurdo o, al massimo, all’eccezione che conferma la regola della razionalizzabilità del tutto. A parere del borghese tutto ciò che non può essere ricondotto alla ragione strumentale e alla morale utilitaria deve essere per forza assurdo, dunque irrazionale; l’elementare è così, nell’ottica dell’uomo moderno, destinato ad essere s-piegato, calcolato. Il motivo di questa operazione matematica (12) è per Jünger essenzialmente uno: la paura. L’uomo moderno ha infatti come fine la sicurezza che, insieme alla comodità e all’aponia, vede come il presupposto della sua felicità. L’elementare introduce l’uomo nello spazio del pericolo e dunque lo apre all’esperienza inspiegabile, ma endemica all’umano, del Dolore (13). Crea così le premesse per lo sconvolgimento dell’ordine morale e sociale mettendo a repentaglio la sicurezza che, come si è detto, sarebbe il valore più caro all’uomo borghese. La contraddizione, la sofferenza, la violenza, ma anche la temerarietà, l’entusiamo eroico, fanno parte del sottobosco a cui l’elementare, secondo Jünger, dischiude l’animo umano. Il borghese crede che grazie al progresso, anche tecnico, la società umana possa un giorno pervenire alla costruzione di un paradiso terrestre in cui l’uomo universale, dotato di diritti inalienabili, possa essere rispettato in quanto tale; un paradiso terrestre da dove possa essere bandito il pericolo, il dolore. Jünger contesta l’equazione razionalità-borghese=razionalità. Quella borghese è infatti, ai suoi occhi, una forma di razionalità che strumentalizza ogni fenomeno alla sicurezza e alla comodità dell’uomo. Una forma di ragione che, dopo averlo oggettivizzato, fa di ogni ente un mezzo per raggiungere una forma di felicità terrena che risulterebbe riduttiva, poco appropriata alla grandezza destinale che l’uomo in passato sarebbe stato in grado di incarnare. Nel sistema jüngeriano l’elementare riveste quasi la funzione che in una macchina ha il carburante. E’ infatti l’energia del sistema, è una forza tellurica e immortale che agisce in sintonia con la Forma facendola muovere nello spazio, cioè consentendole di essere nel tempo. Ritornando allo schema generale: così come il tipo permette alla forma di esistere nello spazio, l’elementare permette alla forma di muoversi in esso e dunque, in virtù del legame che tradizionalmente stringe lo spazio col tempo, di essere tempo, cioè fenomeno, evento, Destino. L’Operaio sarebbe capace di scorgere l’elementare nella sua “realtà” senza giudicarlo e “castrarlo”. Non lo relega all’assurdo, ma cerca di amplificarne le potenzialità in vista del Dominio della Forma. Il modo più appropriato che questo eone della Forma ha per liberare la potenza di cui la Forma abbisogna è la tecnica. La tecnica, come è stato accennato e come verrà ribadito, non solo è il tramite che trasforma l’uomo in tipo, ma permette all’elementare di manifestarsi in tutto il suo vigore. La tecnica è dunque rigorosamente innestata nella metafisica elaborata da Jünger, essa appare, ne L’Operaio, come un suo meccanismo imprescindibile (14).

3. La tecnica

La tecnica è “la maniera in cui la forma dell’operaio mobilita il mondo” (15). L’Operaio è così quella Forma che mobilita il mondo tramite la tecnica. Heidegger commenta che allora la tecnica coincide con la mobilitazione -totale- del mondo attuata dalla forma dell’Operaio (16). Alain de Benoist, rifacendosi al saggio del 1930 intitolato Die Totale Mobilmachung, fa presente come ”mobilitare”, nel gergo di Jünger, non significhi solo mettere in movimento, ma vorrebbe indicare anche “essere pronto, rendere pronto”, Alain De Benoist aggiunge, “alla guerra” (17). Mobilitare può significare essenzialmente rendere qualcosa disponibile per qualcos’altro: la mobilitazione del mondo appresta il mondo alla conquista totale della Forma del Lavoro. La mobiltazione va da un lato di pari passo con la distruzione e si realizza nello spazio con la tecnica bellica (18); da un altro lato, già nella sua opera di demolizione, prepara il terreno per la parusia di una nuova Figura e innesca il meccanismo necessario affinché il nuovo Dominio della Forma si realizzi. Come si diceva, il tipo umano è altro dall’individuo. Ora, l’uomo si fa tipo tramite la tecnica, la quale incide sull’essenza dell’uomo grazie alla messa in moto di radicali processi spersonalizzanti che aprono l’individuo alla uni-formità e dunque alla sovra-individualità (19).

Perché lo strumento tecnico possa essere ad-operato dall’uomo, è necessario che questi faccia propria precisamente la razionalità strumentale. Se infatti l’uomo adotta la tecnica come strumento, non ha bisogno di mettere in gioco tutte quelle qualità che lo distinguono dagli altri uomini. Secondo una tradizione di pensiero che si impone già prima di Jünger (Sorel, Spengler, Ortega, Guénon) e che, dopo L’operaio, prosegue, seppur all’interno di concezioni filosofiche assai differenti, tramite Heidegger, Adorno, Arendt e molti altri, il mezzo tecnico (e la conoscenza come dominio) richiede esclusivamente la capacità meccanica e la razionalità sufficiente a farlo funzionare. Il funzionamento dello strumento sembra il fine del processo tecnico. L’uomo stesso appare come un ingranaggio finalizzato al funzionamento del mezzo che, alla stregua di un circolo vizioso, ha come fine la mera funzionalità. Capiamo così come, all’improvviso, l’uomo col suo retaggio di esperienze personali, qualità irripetibili, particolarità, ma anche “razza” (20), differenza etnica, conti poco. E’ invece importante l’esercizio della ragione che, prendendo in prestito la terminologia di Heidegger, definiamo “rappresentativa”. Il Tipo ergendosi a fondamento, a misura del mondo, pone il mondo medesimo davanti a sé come un oggetto. Il mondo è in quanto può essere misurato, forzato al metro umano. Il mondo è, ha valore (è valore, “immagine”) in quanto è strumentale al dominio del Tipo. Conoscere significa dunque misurare, cioè matematicizzare, pre-vedere, mobilitare, indirizzare al dominio (21). Il metro di valutazione del mondo è l’oggettivazione dello stesso ai fini della sua utilizzazione e la conoscenza in quanto tale, laddove si fa tecnica, è dominio. Questo processo è talmente radicale che, a un certo momento, pare che la tecnica come strumento, da mezzo si tramuti in fine e che, dunque, il fine del mobilitare sia strumentalizzare e utilizzare il mondo in vista del dominio. Il fine del mobilitare sembra il mobilitare (22). Il mezzo dell’uomo piega a sé l’uomo.

L’uomo che inizialmente crede di perseguire tramite la tecnica (strumento da lui inteso in senso neutrale) la felicità (la tecnica si propaga facilmente e velocemente e ingenera l’illusione che tramite essa si possa superare il dolore), poi diventa parte del dispositivo che accende.

La spersonalizzazione che la tecnica introdurrebbe prelude al totale oltrepassamento del modo che sino a quel momento, secondo Jünger, si aveva di interpretare la libertà intesa come “misura il cui metro campione venga fissato dall’esistenza individuale del singolo” (23). L’uomo è parte di un processo dove perdono di importanza le qualità e la vita del singolo, dove, come si diceva, risulta fondamentale rendere il mondo funzionante per lavorarlo in vista della produzione, cioè della mobilitazione. Il lavoro, mezzo che la forma utilizza per piegare a sé il mondo, si propaga in ogni settore della vita (24). Si riduce lo spazio che divide i sessi e quello che divide il lavoro in senso proprio dall’ozio; anche lo sport diventa lavoro; ogni cosa tende ad assumere una forma tipica e incarna lo stesso severo, freddo, ascetico stile. Farsi tipo tramite la tecnica significa dunque attualizzare tutta una serie di proprietà che rendono l’uomo adeguato al dominio della forma. Il dominio della forma nel tempo attuale si appaleserebbe così tramite segni inequivocabili che sono una conseguenza diretta dell’uso della tecnica e della mentalità che tale uso esige. Si fa strada una “rigidita’ da maschera” nel volto rasato del soldato, nella sua espressione glaciale e precisa, che non tradisce una differenza psicologica né alcun umano sentimento, ma che mostra una volontà oggettiva, impersonale, automatica, meccanica. L’uniforme fa la sua comparsa in ogni ambito della vita, gli operai assomigliano così ai soldati e i soldati sono operai. La cifra acquista la sua imprescindibile importanza in ogni settore dell’organizzazione statale, si fa strada l’anonimato, la ripetizione (che sostituisce la borghese irripetibilità, eccezionalità), garantisce la sostituibilità di un operaio con un altro. La quantità prevale sulla qualità.

Fin qui pare di leggere una critica alla tecnica e alla ragione che potremmo trovare in molti altri autori in quel tempo (25). Ma Jünger sembra essere originale proprio in quanto, dopo aver individuato le trasformazioni che la tecnica produce sull’uomo, non cede alla tentazione di condannare i mutamenti epocali di cui si è detto. Che l’uomo pensi di poter restare indenne da questi processi totali è infatti, a suo avviso, un’illusione. Egli, che si voglia o no, ne è mutato profondamente. Questa tras-figurazione distrugge negativamente l’individuo borghese; l’Operaio invece, consapevole della necessità dei processi in atto, sacrifica eroicamente i propri desideri contingenti e, nel Lavoro, considerato alla stregua di una missione rivoluzionaria, perviene alla coscienza di partecipare al Destino della Forma assurgendo a vessillo, “geroglifico” del suo totale Dominio. L’essenza della tecnica dunque, come dirà Heidegger, non sarebbe nulla di tecnico ma di nichilistico (26). Essa demolisce ogni vincolo e ogni consuetudinaria misura in quanto costringe ogni ente al suo utilizzo. Le cose perderebbero così il valore armonico, tradizionale, sacrale, cultuale che avevano e diventerebbero oggetti da dominare e da utilizzare facilmente e velocemente. Il fatto che il mobilitare appaia come un mezzo finalizzato al medesimo e cieco mobilitare, è appunto una apparenza che s-vela l’alto livello a cui la tecnica approda nella sua opera di conquista totale. In verità, il mobilitare finalizzato al mobilitare è, nel pensiero che si analizza, esattamente l’”astuto” modo che la Forma attualmente adotta per raggiungere il proprio Dominio. Il protagonista del mobilitare, il suo fine, non è infatti, contrariamente alle apparenze, in ultima istanza, il mobilitare, ma la vittoria totale della nuova Forma. Per questo Jünger distingue chiaramente tra fase dinamico-esplosiva (“paesaggio da officina”) e Dominio della Forma dell’Operaio. La prima è necessaria al secondo, ma il secondo conclude, nel suo compiersi, la fase “anarchica” in cui il mobilitare si esprime in modo tanto potente da ingenerare la credenza che il suo fine sia solo e soltanto la propria cieca, distruttiva e totale manifestazione (27). In questo processo totale, antikantianamente (28), l’uomo scoprirebbe la sua dignità, o, facendo nostro un gergo appropriato allo spirito del tempo in cui Jünger scrive, il suo “onore”, proprio nel trasformarsi in mezzo della manifestazione della forma. La tecnica è così esaltata precisamente perché tras-forma l’uomo da fine isolato a mezzo organico. L’Operaio risulta, nello spirito e nel corpo, glorificato, per così dire, alchemicamente risorto nella Forma.

4. Metapolitica

Questa analisi ci permette di planare dall’orizzonte metafisico a quello metapolitico. Jünger non condivide il presupposto che starebbe alla base del modello economico proposto dalla società liberal-capitalista, secondo cui la felicità e il benessere di una nazione si ottiene tramite la soddisfazione economica degli individui (atomi) che compongono la stessa società (29).

L’idea per la quale soddisfare i propri esclusivi interessi conduca alla felicità della nazione, è fermamente rifiutata da Jünger. Egli ritiene che l’interesse privato debba essere garantito nell’alveo degli interessi sovraindividuali dell’organismo comunitario. Fondare una ideologia che a partire dalla metafisica, tramite l’interpretazione altrettanto metafisica della tecnica, attacchi nei fondamenti l’individuo e la sua idea di libertà, significa chiaramente avere come bersaglio il liberalismo che sull’individuo e sulla tutela dei suoi diritti basa la propria dottrina. I rivoluzionari conservatori si sentivano “vitalisti” proprio nel senso che aderivano nichilisticamente alle contraddizioni della realtà, specialmente laddove queste conducevano alla demolizione dell’apparato politico ed ideologico delle classi dominanti (30). Essi ambivano ad una distruzione da cui potesse originarsi un nuovo gerarchico Ordine e una nuova forma di partecipazione politica. La stessa nozione di forma come qualcosa che non si riduce alla somma delle sue parti, trova riscontro in una comunità politica che non esaurisce la sua essenza nell’addizione dei singoli che la costituiscono. La comunità organica, come la forma, è altro dalle sue parti, è “un altro che si aggiunge”, un di più a cui non si arriva tramite la mera somma di vari elementi. Così l’agire, il pensare e il sentire degli individui non sarebbero in questo contesto finalizzati al possesso della felicità personale, ma al “bene”, alla potenza della comunità che trascende la somma.

Al tempo de L’Operaio la distruzione bellica, grazie alla tecnologia, assunse un livello mai raggiunto fino a quel momento, le lotte sociali si fecero, a causa della misera condizione della classe operaia, ma anche in virtù della diffusione della ideologia marxista, dell’avanzata dei partiti socialisti e dei sindacati, proporzionali all’industrializzazione e alla mobilitazione dei materiali (umani e non) in vista del dominio delle nazioni più sviluppate. Nel dopoguerra, specialmente a causa dell’inflazione e della fortissima svalutazione della moneta, buona parte della classe media perse ogni sua sicurezza e si produssero licenziamenti a catena nelle fabbriche; vari movimenti di destra e di sinistra e altri che si collocavano esplicitamente al di là di questi due cartelli ideali, ottennero così il favore della popolazione stremata dalla crisi economica. Se a ciò si aggiunge la polemica nazionalista contro i firmatari della pesante e probabilmente iniqua pace di Versailles, si capisce come il clima politico e sociale fosse confacente all’avanzata di partiti “radicali” che vedevano nella classe liberale al potere la responsabile dello sfacelo economico e politico della Germania. In un orizzonte in cui il “nuovo nazionalismo”, a cui Jünger aderisce già a partire dalla fine della Prima guerra mondiale, otteneva sempre più consensi, la metafisica delle Forme avrebbe potuto dunque acquistare un significato morale-politico: il superamento del concetto di individuo, negli intenti di Jünger, avrebbe potuto condurre alla creazione di un “Uomo nuovo” che fosse pronto a donare la propria vita e ad immolare i propri desideri per la potenza dello stato organico, per il risanamento totale “patria umiliata”. Nel pantano ideologico della Repubblica di Weimar questa metafisica politica poteva dunque servire, agli occhi del pensatore, a costruire un’etica che ponesse l’uomo in grado di salvarsi, anche a costo di profondi sacrifici personali, dalla grave crisi in cui versava buona parte delle nazioni europee in quel tempo. Il modernismo reazionario, di cui Jünger è “l’idealtipo” (31), ha un preciso fine politico che è chiaro al pensatore tedesco ben prima della stesura de L’operaio: “Chi potrebbe contestare che la Zivilisation è più intimamente legata al progresso della Kultur, che nelle grandi città essa è in grado di parlare la sua lingua naturale e sa utilizzare mezzi e concetti nei cui confronti la Kultur è indifferente o addirittura ostile? La Kultur non si lascia sfruttare a scopi propagandistici, e un atteggiamento che cerchi di piegarla in questo senso non può che esserle estraneo (…)” (32). Jünger crede che il “cupo ardore” che spinse migliaia di giovani ad andare in guerra gridando “per la Germania” offerto ad una nazione “inesplicabile e invisibile”, per quanto fosse bastato a far “tremare i popoli fino all’ultima fibra”, non potesse essere sufficiente per sconfiggere nazioni come quella statunitense che si erano rese disponibili alla mobilitazione totale di tutte le loro energie. Da qui la domanda retorica e assai significativa: “E se soltanto (il cupo ardore di cui si è detto) avesse avuto fin dal primo momento una direzione, una coscienza, una forma?” (33). Il fine politico de L’operaio può allora essere così inteso: creare le premesse metafisiche, dunque “kulturali”, ideali affinché l’ entusiasmo eroico potesse essere veramente efficace, cioè vincente. Jünger si è reso conto non solo del potere ineguagliabile degli strumenti tecnici applicati alla guerra, ma anche della necessità di trasformare la mentalità della nazione nella direzione della mobilitazione totale. Tale mobilitazione implica la fusione della vita col lavoro. Egli cioè pensa che solo se tutto diventa lavoro, tutto viene mobilitato alla potenza e dunque alla vittoria della Germania. Perché ciò accada è necessario che ogni cosa venga piegata allo strumento tecnico. La società diventa “lavoro” se prima è diventata macchina, tecnica. La Kultur tradizionalmente intesa non basta a questo che è chiaramente inteso come uno scopo epocale. C’è bisogno di una Zivilisation che non contraddica la Kultur ma che ne garantisca la vittoria reale. L’operaio ha l’obbiettivo eminentemente politico di sintetizzare la Kultur con la Zivilisation, in qualche modo di rendere culturale e politica la civilizzazione e di civilizzare, “modernizzare” la Kultur (34). Jünger contesta in maniera netta l’individualismo negli articoli scritti tra il 1918 e il 193335e, se si nota che L’operaio è del 1932, lo scritto può essere inteso in senso meramente apolitico molto difficilmente. Gli Operai, nel libro del ’32, sono uomini d’acciaio, incarnazione di un’etica oggettiva -realista-, che ha come fine il dominio della Forma del lavoro, e dunque il lavoro totale in ogni settore della produzione e dell’esistenza. L’individuo borghese che, in questa parabola di pensiero, ha come obbiettivo la comodità e la sicurezza, non sarebbe adatto a rappresentare senza rimpianti e con assoluto rigore un’etica che preveda la rinuncia alle proprie contingenti aspirazioni, alla propria esclusiva e “materiale” felicità. D’altra parte, non sarebbe adatto ad incarnare una simile etica neppure il “proletario” che si sente umiliato e combatte per migliorare le condizioni della sua classe e per ribaltare i rapporti di proprietà. Questi infatti lotta per gli interessi di una parte della nazione e ha un fine, che, dal punto di vista jüngeriano, resta sociale ed economico. L’Operaio invece, come si diceva, non bada al miglioramento della propria condizione economica, non ambisce ad impossessarsi dei mezzi di produzione né crede agli ideali di uguaglianza nei quali, seguendo la tradizione marxiana, il proletario dovrebbe credere. L’Operaio jüngeriano è al servizio della Forma e del suo Dominio; a questo servizio sacrifica ogni sua aspirazione, personale o di classe.

Secondo Jünger, si deve lavorare in primo luogo sullo spirito umano per poter ambire almeno ad una parziale rinascita. Il superamento dell’individualità è da Jünger perseguito tramite gli effetti distruttivi della tecnica che, in altri pensatori, sia di destra che di sinistra, sono abborriti in ogni senso. Jünger, nel periodo de L’operaio, ritiene puerili e dannose le tesi di chi pensa che la tecnica sia di per sé uno strumento del Male, qualcosa rispetto a cui l’uomo si sarebbe posto come un inesperto “apprendista stregone” che non è più in grado di controllare le dinamiche innescate dai suoi esperimenti (36) e, allo stesso modo, non ritiene che l’uomo possa divenire buono, giusto e dunque felice. In ogni quadro epocale domina un tipo di Forma che impregna tutto di sé; ogni cosa in un dato ciclo ha lo stile della forma che domina. Il ciclo sorge in quel periodo definito Interregno (37). L’Interregno è nietzscheanamente quel torno temporale in cui i vecchi valori non sono ancora morti e quelli nuovi che scalpitano non hanno ancora conquistato lo spazio necessario al Dominio. Accade così che alla fine di un ciclo le vecchie forme e i valori fino a quel momento dominanti si svuotino pian piano dal loro interno. Che i valori si s-vuotino significa che perdono la loro essenza di valori; il valore è ciò intorno a cui e grazie a cui l’uomo costruisce il suo senso. Alla fine di un ciclo i valori sono ancora formalmente intatti, il loro involucro è integro, splendente; ma perdono di sostanza: non sono più in grado di orientare la vita dell’uomo, è come se il loro corpo fosse ancora monoliticamente visibile a tutti, ma stesse perdendo il proprio vigore, il proprio potere di movimentare l’uomo e con esso il mondo. E’ così che in questo vuoto assiologico ed ontologico si insinuano nuove forze che aprono lo spazio al dominio inarrestabile di nuove forme. In siffatta dinamica di s-vuotamento delle forme che coincide con un nuovo riempimento, opera la tecnica. La tecnica si insinua in ogni dove, nello spazio e nello spirito, inizialmente come uno strumento puro, assolutamente neutro, grazie a cui l’uomo può vivere più comodamente; attraverso cui ha sempre più l’illusione di esorcizzare, depotenziare il dolore e tramite cui, giorno dopo giorno, trasforma la propria vita. Più l’uomo si innamora del suo strumento, più viene risucchiato nei suoi ingranaggi oggettivizzanti di cui sopra si è detto. La tecnica secondo Ernst Jünger risulta pericolosa proprio là dove si ignora il suo potere necessariamente distruttivo. Risulta pericolosa se la si valuta superficialmente come uno strumento neutrale che l’uomo può con la sua ragione utilitaria piegare ai suoi interessi e alla sua oggettiva felicità restandone essenzialmente immune. Ma risulta pericolosa anche là dove si tenti di negarla rifugiandosi in anacronistici sentimenti romantici. In altri termini, agli occhi dello Jünger del 1932, la tecnica è positiva solo se si è consapevoli del fatidico ruolo metafisico che riveste, se si accetta di intraprendere attraverso il suo utilizzo un percorso e-sistenziale che conduca al superamento dell’io, e se, quasi come si trattasse di una catarsi ontologica, attraverso questo superamento ci si renda poveri contenitori della Forma e del suo fatale Dominio.

Note

1 Der Arbeiter, Herrschaft und Gestalt appare nell’ottobre del 1932 presso Hanseatische Verlagsanstalt (Hamburg). Nello stesso anno si hanno tre nuove edizioni del saggio. Dopo la guerra, Heidegger convince Jünger a ripubblicare il saggio che infatti compare nel sesto volume delle sue opere uscite presso Klett-Cotta a Stoccarda. L’opera è tradotta in italiano solo nel 1984 da Quirino Principe (L’operaio, trad. it., Longanesi, Milano 1984.) dopo che, agli inizi degli anni ’60, Julius Evola la fece conoscere nel riassunto analitico intitolato L’operaio nel pensiero di Ernst Jünger, Armando, Roma 1961. Delio Cantimori preferì tradurre la parola Der Arbeiter con “milite del lavoro” per sottolineare il carattere guerriero della nuova figura (Cfr., Delio Cantimori, Ernst Jünger e la mistica milizia del lavoro, in Delio Cantimori, Tre saggi su Ernst Jünger, Moller van den Brück, Schmitt, Settimo Sigillo, Roma 1985, pp. 17-43.).

2 Qualora le forme, nel loro aspetto fenomenico, non fossero soggette all’annientamento, non si potrebbe agevolmente spiegare la differenza fra un ciclo caratterizzato dal dominio di alcune forme e un altro contraddistinto da forme diverse. Ci fossero sempre le stesse forme cosa muterebbe all’alba di un nuovo ciclo? La valorizzazione di questa dottrina tradizionale giustifica insieme ad altre importanti somiglianze un parallelo fra la metafisica di Jünger e quella a cui si richiamano Evola, Guénon ed in parte Eliade. In particolare, risulta interessante un confronto fra i segni che secondo questi autori caratterizzano il Kali Yuga (L’età Oscura, l’ultima età prima della fine di questo ciclo cosmico) e i segni che, ne L’operaio e in altre opere di Jünger, contraddistinguono l’“Interregno” in cui sorge ed agisce la Forma dell’Operaio. In questo senso, è assolutamente importante anche un paragone con Spengler per il quale si rimanda a: Domenico Conte, Jünger, Spengler e la storia, in A.A. V.V., in Ernst Jünger e il pensiero del nichilismo, a cura di Luisa Bonesio, Herrenhaus, 2002, pp. 153-198; Luciano Arcella, Ernst Jünger, Oltre la storia, in Due volte la cometa, Atti del convegno Roma 28 ottobre 1995, Settimo Sigillo, Roma 1998. Antonio Gnoli e Franco Volpi, I prossimi titani, Conversazioni con Ernst Jünger, Adelphi, Milano 1997, pp. 103, 104. Si veda anche Julius Evola, Spengler e il Tramonto dell’Occidente, Fondazione Julius Evola, Roma 1981. Sulla interpretazione jüngeriana del pensiero di Spengler si legga soprattutto: Ernst Jünger, trad. it., Al muro del tempo, Adelphi, Milano 2000.

3 “Nella forma è racchiuso il tutto che comprende più che non la somma delle proprie parti”. Ernst Jünger, trad. it., L’Operaio, Dominio e Forma, Guanda, Parma 2004, p. 32. “Una parte è certamente così lontana dall’essere una forma così come una forma è lontana dall’essere una somma di parti”. Ibidem.

4 Jünger definisce la storia dell’evoluzione come “il commento dinamico” della forma. Cfr., Ernst Jünger, L’operaio, cit., p. 75. La forma dunque “non esclude l’evoluzione”, la “include come proiezione sul piano della realtà”. Ivi, p. 125. Ciò implica l’avversione non solo alla dottrina del progresso (“ogni progresso implica un regresso”), ma il rifiuto netto di ogni prospettiva storicistica: “La storia non produce forme, ma si modifica in virtù della forma”, ivi. p. 75. Evola commenta: “Le figure non sono storicamente condizionate; invece sono esse a condizionare la storia, la quale è la scena del loro manifestarsi, del loro succedersi, del loro incontrarsi e lottare (…). E’ l’apparire di una nuova figura a dare ad ogni civiltà la sua impronta. Le figure non divengono, non si evolvono, non sono i prodotti di processi empirici, di rapporti orizzontali di causa e di effetto”. Julius Evola, L’operaio nel pensiero di Ernst Jünger, cit., p. 32. Si potrebbe allora sostenere con Eliade che la “valorizzazione” dell’esistenza umana non è “quella che cercano di dare certe correnti filosofiche posthegeliane, soprattutto il marxismo, lo storicismo e l’esistenzialismo, in seguito alla scoperta dell’ “uomo storico”, dell’uomo che si fa da se stesso in seno alla storia”. Mircea Eliade, Il mito dell’eterno ritorno, Archetipi e ripetizioni, Borla, Roma 1999, p. 8. Questa impostazione è molto simile a quella jüngeriana, infatti l’Operaio come Gestalt non può essere considerato un prodotto delle dinamiche storico-economiche. E’ la Forma a fare la storia, non viceversa.

5 Usando il linguaggio heideggeriano si può sostenere che la forma non può essere piegata alla scienza intesa come “ricerca”: “La scienza diviene ricerca quando si ripone l’essere dell’ente” nell’ “oggettività”. Cfr., Martin Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, in id. Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1984, p. 83. La Forma non può essere oggettivizzata, non se ne può fornire una storia dettagliata né, tantomeno, se ne può calcolare in anticipo e con esattezza il corso futuro.

6 Plotino distingue l’essere che è costituito da forme sensibili e intelligibili dall’Uno che può essere considerato amorfo: “L’Uno non è “qualcosa”, ma è anteriore a qualsiasi cosa; e nemmeno non è essere, poiché l’essere possiede (…) una forma, la forma dell’essere. Ma l’Uno è privo di forma, privo anche della forma intelligibile”. Plotino, Enneade VI, in Plotino, Enneadi, Rusconi, Milano 1992, p. 1343. L’Uno “privo di forma” non può essere conosciuto “né per mezzo della scienza né per mezzo del pensiero”. Chi estaticamente ha “visto” o meglio è “stato” (è) l’Uno “non immagina una dualità, ma già diventato altro da quello che era e ormai non più se stesso, appartiene a Lui ed è uno con Lui”. L’Uno non può essere oggettivizzato. L’oggettivazione si fonda infatti sulla distanza e sulla differenza tra il soggetto che oggettiviza e l’ente oggettivizzato. Qualora ci fosse la distanza tra chi contempla l’Uno e l’Uno, quest’ultimo non si potrebbe cogliere come tale ma come “un altro”. Contemplare l’Uno significa farsi riempire dall’Uno, essere Uno. Stabilito ciò, si capisce come l’esperienza dell’Uno non possa essere adeguatamente raccontata. Manca infatti l’oggetto da ricordare. Ne L’operaio la tecnica è il modo attraverso cui l’uomo, superando la propria differenza, si avvicina a rappresentare la Forma che lo trascende.

7 Il concetto di “Avvicinamento” che scopriamo nel saggio del 1963 Tipo Nome Forma viene ripreso nello scritto del 1970 Avvicinamenti, Droghe ed ebbrezza: “L’avvicinamento è tutto, e questo avvicinamento, non ha uno scopo tangibile, uno scopo cui si possa dare un nome, il senso risiede nel cammino”. Ernst Jünger, Avvicinamenti, Droghe ed ebbrezza, Guanda, Parma 2006, p. 53.

8 “(…) nel regno della forma la regola non distingue tra causa ed effetto, bensì tra sigillo ed impronta, ed è una regola di tutt’altra natura”. Ernst Jünger, L’operaio, cit., p. 31.

9 “Il predicare della natura (…) muove dall’oggetto (il giglio indicato), attraverso il tipo (il giglio nominato), alla forma e infine all’indistinto”. Le risposte divengono sempre più ampie e, nel contempo, si riducono le distinzioni. Questa riduzione è il segno dell’avvicinamento all’Indistinto”. Ernst Jünger, Tipo, Nome, Forma, trad. it., Herrenhaus, 2001, p.93.

10 La perdita dell’aura nell’epoca della riproducibilità tecnica è un elemento che Benjamin giudica, al contrario di Adorno e di Horkheimer, funzionale alla possibilità di una rivoluzione sociale. Paradossalmente Jünger, che da Benjamin è stato aspramente criticato in relazione al suo scritto Die Totale Mobilmachung, nella dura recensione Teorie del fascismo tedesco, ritiene anch’egli fatale il sacrificio dell’autenticità dell’arte a favore del suo “uso” rivoluzionario. Naturalmente le prospettive sono opposte in quanto, alla stregua di Lukács (cfr. György Lukács, La distruzione della ragione, Einaudi, Torino 1959, p. 538.), gli “incatesimi runici” di Jünger sarebbero, secondo Benjamin, tesi al rafforzamento di una “classe di dominatori” che “non deve rendere conto a nessuno e meno che mai a se stessa, che, issata su un altissimo trono, ha i tratti sfingei del produttore, che promette di diventare prestissimo l’unico consumatore delle sue merci”. Walter Benjamin, Teorie del fascismo tedesco, in id., Benjamin, Critiche e recensioni, Tra avanguardie e letteratura di consumo, trad. it., Einaudi, Torino 1979, p. 159. Dunque, la rivoluzione di Jünger e dei suoi sodali nazional-rivoluzionari, sarebbe tesa “ideologicamente” a rafforzare lo status quo, cioè lo stato liberalcapitalista e i privilegi dei “padroni”. Secondo i miei studi, Ernst Jünger non critica falsamente (“ideologicamente”) la classe borghese per amplificarne paradossalmente il potere. Egli non ha il fine di favorire lo status quo. Nel corso dell’articolo avrò modo di ribadire come le posizioni di Jünger sono equidistanti sia dal materialismo collettivista sia dall’utilitarismo borghese.

11 Secondo Daniele Lazzari: “Siamo stati persuasi da quasi tre secoli di illuminismo che il pensiero moderno avrebbe piegato le forze elementari ormai scientificamente conosciute, analizzate ed “ingabbiate” dal razionalismo dell’umana specie, ma in barba a queste riflessioni, all’osservatore più attento non può sfuggire il persistere, se non l’accentuarsi, di queste forze elementari. Tra queste la Natura, mai dimentica di sé e della sua eterna potenza non perde occasione di ricordarci la sua grandezza, la sua inarrestabile forza distruttrice con le grandi alluvioni, trombe d’aria e vulcaniche eruzioni”. Daniele Lazzari, Il Signore della Tecnica, in A.A. V.V., Ernst Jünger, L’Europa, cioè il coraggio, Società Editrice Barbarossa, Milano 2003, p. 162.

12 Heidegger ricorda che “Τά μαθήματα significa per i Greci ciò che, nella considerazione dell’ente e nel commercio con le cose, l’uomo conosce in anticipo”. Martin Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, in id., Sentieri interrotti, cit., p. 74. La scienza come matematica determina “in anticipo e in modo precipuo qualcosa di già conosciuto”. Ivi, p. 75. Questo processo che implica la pre-conoscenza di ciò che si conosce e dunque la pre-visione, è il modo tipico attraverso cui, anche per Jünger, l’uomo moderno conosce, calcola e domina il mondo. La verità del mondo sta nella sua esattezza, cioè nella corrispondenza rigorosa col procedimento che si adotta per conoscerlo. Questo modo di conoscere è valido massimamente per la tecnica. La forma tramite la tecnica e la scienza come matematica calcolano e dominano il mondo. Ma, nel pensiero di Jünger, la Forma in se stessa non può certo essere a sua volta misurata, pre-determinanta. La sua verità non è l’esattezza.

13 All’argomento del dolore che, come si sta ricordando, è intrinsecamente legato il tema dell’elementare, e che non è possibile affrontare in tutta la sua ampiezza in questo articolo, Jünger dedica un complesso e profondo saggio nel 1934 in cui si legge: “Là dove si fa risparmio di dolore l’equilibrio verrà ristabilito secondo leggi di un’economia rigorosa, e parafrasando una formula celebre, si potrebbe parlare di una “astuzia del dolore” volta a raggiungere in qualsiasi modo lo scopo”. Ernst Jünger, Sul Dolore, in id. Foglie e Pietre, cit., p. 149.

14 La revisione della tematica della tecnica, che comunque non mi pare possa intaccare nella sostanza i fondamenti della metafisica delle forme, è un argomento molto complesso a cui sarebbe bene dedicare un apposito studio all’interno del quale si analizzino nello specifico almeno i saggi Oltre la linea (trad. it., Adelphi, Milano 1989), Il trattato del Ribelle (trad. it., Adelphi, Milano 1995), Al muro del tempo ( trd. it., Adelphi, Milano 2000), il romanzo filosofico Eumeswil (trad. it., Guanda, Parma 2001) e La forbice (trad. it., Guanda, Parma, 1996). Ne L’operaio, che è l’oggetto di questo articolo, Jünger pensa che l’omonima Figura possa finalizzare alla Rinascita dell’uomo totale l’elementare; la tecnica è dunque vista come lo strumento necessario che l’uomo adotta per disporsi alla Trascendenza della Forma. Successivamente questo strumento, a cui già nel ’32 era stata associata una trasformazione della libertà, non è più adatto a garantire la comunicazione tra la Forma e l’uomo. Da qui l’esigenza di elaborare nuove figure come appunto quella del Ribelle (in Il trattato del Ribelle) o dell’Anarca (in Eumeswil) che arrivano alla propria libertà sovratemporale tramite percorsi individuali.

15 Ernst Jünger, L’operaio, cit., p. 140.

16 Cfr. Martin Heidegger, La questione dell’Essere, trad. it., in Ernst Jünger-Martin Heidegger, Oltre la linea, trad. it., Adelphi, Milano 1989, pp. 130, 131.

17 Cfr., Alain de Benoist, L’operaio fra gli dei e i titani, cit., p. 40.

18 Benjamin identifica con precisione il nesso tra la guerra e la tecnica specialmente riferendosi all’estetizzazione della politica che perseguirebbe il fascismo. La guerra imperialistica sarebbe lo sbocco naturale della società capitalista a causa “della discrepanza di poderosi mezzi di produzione e la insufficienza della loro utilizzazione nel processo di produzione (in altre parole, dalla disoccupazione e dalla mancanza di mercati di sbocco)”. Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966, pp. 46, 47. E’ probabile (anche se non necessario) che la Mobilitazione Totale così come è stata elaborata da Jünger possa sfociare nella guerra. E’ anche vero che i Rivoluzionari-conservatori non contestano la società a partire da idee economiche e che i rapporti di proprietà non costiuiscono il fulcro principale della loro riflessione. E’ infatti lo stesso Operaio “a rifiutare ogni interpretazione che tenti” di spiegarlo “come una manifestazione economica, o addirittura come il prodotto di processi economici, il che significa in fondo, una sorta di prodotto industriale”. Ernst Jünger, L’operaio, cit., p. 29. L’Operaio pronuncia una “dichiarazioone d’indipendenza dal mondo dell’economia”, anche se “ciò non significa affatto una rinuncia a quel mondo, bensì la volontà di subordinarlo ad una rivendicazione di potere più vasta e di più ampio respiro. Ciò significa che non la libertà economica né la potenza economica è il perno della rivolta, ma la forza pura e semplice, in assoluto”. Ibidem.

19 Secondo Evola il “mondo senz’anima delle macchine, della tecnica e delle metropoli moderne”, “pura realtà e oggettività”, “freddo, inumano, distaccato, minaccioso, privo di intimità, spersonalizzante, “barbarico””, non è rifiutato dall’Uomo differenziato. Infatti, “proprio accettando in pieno questa realtà (…) l’uomo differenziato può essenzializzarsi e formarsi (…) attivando la dimensione della trascendenza in sé, bruciando le scorie dell’individualità, egli può enucleare la persona assoluta”. Julius Evola, Cavalcare la Tigre, Edizioni Mediterranee, Roma 1995, pp. 103, 104. Rispetto al complesso rapporto fra Jünger ed Evola, oltre agli scritti evoliani L’operaio nel pensiero di Ernst Jünger ( Armando, Roma 1961), Il cammino del Cinabro (Vanni Scheiwller, Milano 1963) e Cavalcare la Tigre, si legga Francesco Cassata, A destra del fascismo, profilo politico di Julius Evola, Bollati Boringhieri, Torino 2003.

20 Ne L’operaio la caratteristica peculiare della tecnica consiste proprio nella sua capacità di modificare l’essenza dell’uomo verso l’uniformità. La tecnica, che è il più appropriato strumento di dominio dell’Operaio, frantuma ogni tradizione e ogni valore e dunque anche ogni differenza di carattere schiettamente biologico. Allo stesso modo, è vero che chi non avesse la capacità di sfruttare positivamente la distruzione tecnica, sarebbe, nell’ottica di Jünger, destinato alla massificazione amorfa, in altri termini ad una modalità di vita probabilmente inferiore rispetto a quella incarnata dall’Operaio. Solo quest’ultimo, esperita la distruzione di tutti i valori e consapevole della potenza inumana della tecnica, rinasce come eroe della Forma e come protagonista del suo destino di dominio.

21 Cfr., Martin Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, in id. Sentieri interrotti, trad. it., La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 87. Secondo Heidegger, dopo che l’uomo è divenuto sub-jectum issandosi a fondamento dell’essere e dunque a metro della verità, sapere significa dominare. Heidegger confessa che il suo scritto del 1953 La questione della tecnica “deve alle descrizioni contenute nel Lavoratore un impulso durevole”. Martin Heidegger, La questione dell’Essere, in Ernst Jünger-Martin Heidegger, Oltre la linea, cit., p. 118. In effetti, sia la strumentalizzazione del mondo attuata dalla ragione tecnica che il nesso profondo che fonde il darsi della verità col suo nichilistico ritrarsi sono, almeno in parte, tematiche già presenti ne L’operaio. (Cfr. Martin Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, trad. it., Mursia, Milano, 1976.). Adorno e Horkheimer, in La dialettica dell’illuminismo, scrivono che “l’illuminismo nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso”- cioè non solo come illuminismo del secolo XVIII- “ha perseguito da sempre l’obbiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni”. Max Horkheimer, Theodor Adorno, trad. it., Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1966, p. 11. La tecnica è “l’essenza” del sapere come potere”. Ivi, p. 12. Jünger anticipa questa analisi sul sapere moderno che ha la tecnica e la razionalità strumentale come essenza. I pensatori della Scuola di Francoforte però tendono a non considerare in senso positivo il potere catartico della strumentalizzazione della ragione e del sapere come dominio. Secondo Jünger invece, una volta constatata l’irreversibilità delle dinamiche descritte, non resta che viverle. Né per Heidegger né per Jünger si può prescindere dall’essenza nichilistica della tecnica: è proprio esperendo il nichilismo che ci si incammina verso un suo eventuale superamento. Entrambi non condannano la tecnica in quanto ne giudicano necessario l’avvento. Sull’argomento cfr., Michela Nacci, Pensare la tecnica, un secolo di incomprensioni, Laterza, Bari 2000, p. 44.

22 Questo aspetto è stato acutamente evidenziato dal nazionalbolscevico Ernst Niekisch: “(…) La mobilitazione totale, di cui Jünger si fa banditore, è l’azione la quale raggiunge i propri estremi limiti, le punte più alte cui si possa attingere; essa pretende di porre tutto in marcia, non tollera più nulla in stato di riposo, donna, bambino, vegliardo che sia. Incita i lattanti ad arruolarsi, chiama le ragazze sotto le armi, dà fondo alle più segrete riserve; niente ne resta escluso, ogni angolo è frugato, l’ometto più mingherlino viene trascinato al fronte. E’ il bagordo più sfrenato in cui si butta il nichilismo, quando gli è diventato quasi inevitabile dover finalmente fissare il proprio volto”. Ernst Niekisch, Il regno dei demoni, Feltrinelli, Milano 1959, pp. 117, 118. Niekisch descrive perfettamente la mobilitazione totale, ma tace sul fatto che, come più volte Jünger ripete, dietro al movimento si cela immobile la Forma.

23 Ernst Jünger, L’operaio, cit., p. 115.

24 Il lavoro non è interpretato come un fenomeno meramente sociale ed economico, né si ha la minima intenzione di porsi dalla parte degli operai sfruttati, che lavorano troppo. Viceversa, si tenta di introdurre il lavoro come un ideale, si tratta del lavoro come forma dell’uomo e, in un certo qual modo, come forma del mondo. Il mondo e l’uomo mutano la loro forma grazie al lavoro inteso come la missione propria dell’epoca moderna.

25 Si sente l’influenza di Weber laddove si parla della ragione strumentale che finalizza ogni ente all’utile umano, al profitto e che favorisce il superamento disincantato di quella ascesi intramondana che era all’origine del capitalismo medesimo ( cfr., Max Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, trad. it., Rizzoli, Milano 1991, pp. 239, 240.) Ma, fa notare molto precisamente Herf, se “la critica della tecnica era moneta corrente nella cultura di Weimar”, “Ernst Jünger si distingueva, poiché sembrava accogliere positivamente il processo di strumentalizzazione degli esseri umani. Era come se Weber avesse accolto con gioia la prospettiva della gabbia di ferro”. Jeffrey Herf, Il modernismo reazionario, Il Mulino, Bologna 1988, p. 150. Per Jünger invero il fatto che la razionalità finalizzata al profitto si espanda in ogni settore della vita e che il lavoro si propaghi in ogni ambiente, non impedisce che l’Operaio possa, in un certo senso, tornare ad incarnare un’etica ascetica in cui non sia tanto importante il godimento di ciò che viene prodotto, quanto la dedizione totale al lavoro, dunque anche alla produzione. Egli cerca di dividere la missione del lavoro, funzionale al dominio della forma e alla nascita dell’Operaio (che non è un mero consumatore delle merci che produce), dall’etica utilitarista, propria del borghese che produce per raggiungere il suo isolato utile e piacere.

26 “Essere e niente non si danno uno accanto all’altro, ma l’uno si adopera per l’altro, in una sorta di parentela di cui non abbiamo ancora pensato la pienezza essenziale”. Martin Heidegger, La questione dell’essere, in Ernst Jünger, Martin Heidegger, Oltre la linea, cit., p. 157.

27 Ne L’Operaio, e in vari articoli che lo precedono (cfr., ad esempio, Ernst Jünger, “Nazionalismo” e nazionalismo, Das Tagebuch, 21 settembre 1929, in Ernst Jünger, Scritti politici e di guerra 1919-1933, trad. it., Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2005, p. 89.), Jünger loda alla stregua dei futuristi la velocità, la macchina, l’acciao, la violenza che genera distruzione, i paesaggi lunari e freddi tipici del mondo-officina, la guerra come fattore elementare attraverso cui poter esperire una nuova forma di esistenza rinvigorita dal pericolo e dalla morte. Il costante riferimento all’Ordine (all’Essere, all’Immobile) è stato invece interpretato come la differenza più profonda fra Jünger e i futuristi italiani. Secondo Fabio Vander ad esempio poiché “non può esservi calma dopo la tempesta della Krisis, se non come essere della tempesta ovvero essere del divenire, dialettica della differenza”, Jünger “deve rassegnarsi al “semplice dinamismo, attivismo”, deve considerarlo intranscendibile se rifiuta, come rifiuta, la prospettiva dialettica. Allora di fronte alla tragicità di Jünger, meglio il divertissement di Marinetti, che appunto della differenza assoluta non cercava trascendimento, salvezza”. Fabio Vander, L’estetizzazione della politica, Il fascismo come anti-Italia, Dedalo, Bari 2001, p. 55. Secondo Vander, Jünger, ma anche Heidegger, poiché restii ad accettare la dialettica della differenza, non sarebbero stati in grado di sintetizzare l’Essere col Divenire, mentre Marinetti, non avendoci neppure provato, sarebbe stato più coerente. Constatata nel pensiero di Jünger la presenza della nozione “forte” di Forma, ma considerata pure la complicata correlazione che fonde il sensibile al sovrasensibile, non mi sento di ridurre la metafisica delle forme a un fallito tentativo di coniugare l’Essere col Divenire.

28 “Agisci sempre in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia nella persona di ogni altro, sempre come un fine e mai soltanto come un mezzo”. Immanuel Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, trad. it., Laterza, Bari 1992, p. 111. Cesare Cases scrive che “l’etica di Jünger si direbbe l’opposto dell’etica kantiana: l’uomo non vi è concepito come valore in sé, ma come “simbolo”, come mezzo per raggiungere un determinato scopo, in cui si invera e che è in funzione di un’entità metafisica che si chiama volta per volta “idea”, “Forma”, “destino””. Casare Cases, La fredda impronta della Forma, Arte, fisica e metafisica nell’opera di Ernst Jünger, La Nuova Italia, Firenze 1997, p. 39.

29 “E’ l’immensa moltiplicazione delle produzioni di tutte le differenti attività, conseguente alla divisione del lavoro, che, nonostante la grande ineguaglianza nella proprietà, dà origine, in tutte le società evolute, a quell’universale benessere che si estende a raggiungere i ceti più bassi della popolazione. Si produce così una grande quantità di ogni bene, che ve n’è abbastanza da soddisfare l’infingardo e oppressivo sperpero del grande, al tempo stesso, da sopperire largamente ai bisogni dell’artigianto e del contadino. Ciascun uomo effettua una così grande quantità di quel lavoro che gli compete, che può anche produrre qualcosa per quelli che non lavorano affatto e, al tempo stesso, averne in tale quantità che gli è possibile, attraverso lo scambio di quanto gli rimane con i prodotti delle altre attività, di provvedersi di tutte le cose necessarie e utili di cui ha bisogno”. Adam Smith, La ricchezza delle nazioni, trad. it., Editori Riuniti, Roma 1969, p. 14. Anche Jünger crede nella necessità della divisione del lavoro, dunque nella specializzazione e nel nesso che lega questi processi alla complessiva crescita economica della nazione. Non crede invece che il solo mercato, come fosse una “mano invisibile”, possa essere in grado di determinare la ricchezza della nazione e, in definitiva, il benessere complessivo del popolo.

30 L’avvicinamento della metafisica delle Forme alla metafisica della vita può essere pensato con cognizione di causa solo se accanto alle somiglianze si mettono in evidenza le profonde differenze. Fare alla stregua di Lukács della metafisica delle Forme un’enclave della filosofia della vita (cfr. György Lukács, trad. it., La distruzione della ragione, cit., p. 538.), può condurre a incasellare la prima nell’alveo dell’irrazionalismo e dunque può servire a ridurrre la complessa filosofia di Jünger a un sistema teso a criticare la ragione in quanto tale. Se Jünger concorda con filosofi come Simmel sull’importanza della vita intesa come un fiume da cui l’uomo trae i valori e in cui i valori fatalmente nel tempo sono riassorbiti, conferisce anche notevole importanza alla dimensione propriamente metafisica o meglio esattamente Trascendente. La Forma non è qualcosa che fuoriesce per caso dal divenire magmatico. Essa è eterna, immobile. Se non può essere paragonata all’idea platonica è solo perché, benché sia trascendente, la dinamica della sua e-sistenza si estrinseca come evento, ma l’essenza è e rimane atemporale. Questa atemporalità conferisce solidità all’impianto etico de L’Operaio. In questo senso, la riflessione di Jünger può essere avvicinata a quella dei pensatori della Tradizione, ad esempio ad Evola e a Guénon. Infatti questi studiosi, riproponendo la metafisica della “Tradizione”, sostengono che l’uomo, per agire in conformità al proprio destino, debba incarnare principi assoluti e trascendenti, impersonali. L’uomo della Tradizione abbandona i propri desideri, il proprio utile e persegue un’ attività sovraindividuale. La sua è un’ “azione senza desiderio”, un “agire senza agire”. (Cfr. Julius Evola, Cavalcare la Tigre, cit., p. 68.). Anche l’Operaio agisce senza agire, nel senso che è Forma: non è lui ad agire, ma la Forma di cui è impronta. Da qui la preminenza in questo pensiero di concetti “forti” come quello di disciplina, di sacrificio, di eroismo. Il vitalismo mutuato da Nietzsche è dunque inquadrato in un sistema metafisico in cui valori tipicamente guerrieri, aristocratici, tradizionali trovano forza e, nell’intento di Jünger, imperitura conferma.

31 Michela Nacci, Pensare la tecnica, Un secolo di incomprensioni, cit., p. 61.

32 Ernst Jünger, La mobilitazione Totale, in id., Foglie e Pietre, Adelphi, Milano 1997, p. 127.

33 Ibidem.

34 Herf fa presente che la prima guerra mondiale era stata per i rivoluzionari conservatori “il palcoscenico su cui si riconciliavano le dicotomie centrali della modernità tedesca: Kultur e Zivilisation, Gemeinschaft e Gesellschaft”. Jeffrey Herf, Il modernismo reazionario, cit., p. 130. Diversamente da Spengler e da altri “intellettuali di destra” vicini all’“antimodernismo völkisch, Jünger proponeva di assorbire la macchina e la stessa metropoli nella Kultur tedesca, anziché respingere entrambi come prodotti di forze estranee”. Ivi, p. 133.

35 Cfr., Ernst Jünger, Scritti politici e di guerra, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2005.

36 “Si vorrebbe riconoscere all’uomo, a piacere, la qualità di creatore o di vittima di questa stessa tecnica. L’uomo appare qui o un apprendista stregone, il quale evoca forze i cui effetti egli non sa dominare, o il creatore di un progresso ininterrotto che corre incontro a paradisi artificiali”. Ernst Jünger, L’operaio, cit., p. 140.

37 Armin Mohler fornisce una chiara spiegazione del contesto in cui sorge il concetto di “interregno”: “Attraverso la nuova esplosione di movimenti che si determina nel secolo XIX il Cristianesimo (…) si disgrega. Nella realtà politica, conformemente al principio di inerzia, continua ad esistere; tuttavia là dove si prendono le decisioni esso ha perso la sua posizione dominante e rimane, anche nelle sue tradizioni consolidate (Neotomismo e Teologia dialettica), solamente una forza tra le altre. Questo processo è accelerato ulteriormente dalla decomposizione dell’eredità del mondo antico, che aveva aiutato nel corso dei secoli il cristianesimo a raggiungere una forma propria. Gli elementi della realtà precedente sussistono ancora, ma, isolati e senza punti di riferimento, si muovono disordinatamente nello spazio. L’antica struttura dell’Occidente quale unità di mondo classico, cristianesimo e forze di nuovi popoli penetrati nella storia con le invasioni barbariche, è frantumata. Ci troviamo così in questo stato intermedio, in un “Interregnum”, da cui ogni espressione culturale è influenzata”. Armin Mohler, La Rivoluzione Conservatrice in Germania 1919-1932, Una guida, cit., pp. 22, 23.

mercredi, 12 janvier 2011

Postmodern Challenges: Between Faust & Narcissus

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Robert STEUCKERS (1987):

Postmodern Challenges:
Between Faust & Narcissus, Part 1

In Oswald Spengler’s terms, our European culture is the product of a “pseudomorphosis,” i.e., of the grafting of an alien mentality upon our indigenous, original, and innate mentality. Spengler calls the innate mentality “the Faustian.”

The Confrontation of the Innate and the Acquired

The alien mentality is the theocentric, “magical” outlook born in the Near East. For the magical mind, the ego bows respectfully before the divine substance like a slave before his master. Within the framework of this religiosity, the individual lets himself be guided by the divine force that he absorbs through baptism or initiation.

There is nothing comparable for the old-European Faustian spirit, says Spengler. Homo europeanus, in spite of the magic/Christian varnish covering our thinking, has a voluntarist and anthropocentric religiosity. For us, the good is not to allow oneself to be guided passively by God, but rather to affirm and carry out our own will. “To be able to choose,” this is the ultimate basis of the indigenous European religiosity. In medieval Christianity, this voluntarist religiosity shows through, piercing the crust of the imported “magism” of the Middle East.

Around the year 1000, this dynamic voluntarism appears gradually in art and literary epics, coupled with a sense of infinite space within which the Faustian self would, and can, expand. Thus to the concept of a closed space, in which the self finds itself locked, is opposed the concept of an infinite space, into which an adventurous self sallies forth.

 

From the “Closed” World to the Infinite Universe

According to the American philosopher Benjamin Nelson,[1] the old Hellenic sense of physis (nature), with all the dynamism this implies, triumphed at the end of the 13th century, thanks to Averroism, which transmitted the empirical wisdom of the Greeks (and of Aristotle in particular) to the West. Gradually, Europe passed from the “closed world” to the infinite universe. Empiricism and nominalism supplanted a Scholasticism that had been entirely discursive, self-referential, and self-enclosed. The Renaissance, following Copernicus and Bruno (the tragic martyr of Campo dei Fiori), renounced geocentrism, making it safe to proclaim that the universe is infinite, an essentially Faustian intuition according to Spengler’s criteria.

In the second volume of his History of Western Thought, Jean-François Revel, who formerly officiated at Point and unfortunately illustrated the Americanocentric occidentalist ideology, writes quite pertinently: It is easy to understand that the eternity and infinity of the universe announced by Bruno could have had, on the cultivated men of the time, the traumatizing effect of passing from life in the womb into the vast and cruel draft of an icy and unbounded vortex.”[2]

The “magic” fear, the anguish caused by the collapse of the comforting certitude of geocentrism, caused the cruel death of Bruno, that would become, all told, a terrifying apotheosis . . . Nothing could ever refute heliocentrism, or the theory of the infinitude of sidereal spaces. Pascal would say, in resignation, with the accent of regret: “The eternal silence of these infinite spaces frightens me.”

 

From Theocratic Logos to Fixed Reason

To replace magical thought’s “theocratic logos,” the growing and triumphant bourgeois thought would elaborate a thought centered on reason, an abstract reason before which it is necessary to bow, like the Near Easterner bows before his god. The “bourgeois” student of this “petty little reason,” virtuous and calculating, anxious to suppress the impulses of his soul or his spirit, thus finds a comfortable finitude, a closed off and secured space. The rationalism of this virtuous human type is not the adventurous, audacious, ascetic, and creative rationalism described by Max Weber[3] which educates the inner man precisely to face the infinitude affirmed by Giordano Bruno.[4]

 

From the end of the Renaissance, Two Modernities are Juxtaposed

The petty rationalism denounced by Sombart[5] dominates the cities by rigidifying political thought, by restricting constructive activist impulses. The genuinely Faustian and conquering rationalism described by Max Weber would propel European humanity outside its initial territorial limits, giving the main impulse to all sciences of the concrete.

From the end of the Renaissance, we thus discover, on the one hand, a rigid and moralistic modernity, without vitality, and, on the other hand, an adventurous, conquering, creative modernity, just as we are today on the threshold of a soft post-modernity or of a vibrant post-modernity, self-assured and potentially innovative. By recognizing the ambiguity of the terms “rationalism,” “rationality,” “modernity,” and “post-modernity,” we enter one level of the domain of political ideologies, even militant Weltanschauungen.

The rationalization glutted with moral arrogance described by Sombart in his famous portrait of the “bourgeois” generates the soft and sentimental messianisms, the great tranquillizing narratives of contemporary ideologies. The conquering rationalization described by Max Weber causes the great scientific discoveries and the methodical spirit, the ingenious refinement of the conduct of life and increasing mastery of the external world.

This conquering rationalization also has its dark side: It disenchants the world, drains it, excessively schematizes it. While specializing in one or another domain of technology, science, or the spirit, while being totally invested there, the “Faustians” of Europe and North America often lead to a leveling of values, a relativism that tends to mediocrity because it makes us lose the feeling of the sublime, of the telluric mystique, and increasingly isolates individuals. In our century, the rationality lauded by Weber, if positive at the beginning, collapsed into quantitativist and mechanized Americanism that instinctively led by way of compensation, to the spiritual supplement of religious charlatanism combining the most delirious proselytism and sniveling religiosity.

Such is the fate of “Faustianism” when severed from its mythic foundations, of its memory of the most ancient, of its deepest and most fertile soil. This caesura is unquestionably the result of pseudomorphosis, the “magian” graft on the Faustian/European trunk, a graft that failed. “Magianism” could not immobilize the perpetual Faustian drive; it has—and this is more dangerous—cut it off from its myths and memory, condemned it to sterility and dessication, as noted by Valéry, Rilke, Duhamel, Céline, Drieu, Morand, Maurois, Heidegger, or Abellio.

 

Conquering Rationality, Moralizing Rationality, the Dialectic of Enlightenment, the “Grand Narratives” of Lyotard

Conquering rationality, if it is torn away from its founding myths, from its ethno-identitarian ground, its Indo-European matrix, falls—even after assaults that are impetuous, inert, emptied of substance—into the snares of calculating petty rationalism and into the callow ideology of the “Grand Narratives” of rationalism and the end of ideology. For Jean-François Lyotard, “modernity” in Europe is essentially the “Grand Narrative” of the Enlightenment, in which the heroes of knowledge work peacefully and morally toward an ethico-political happy ending: universal peace, where no antagonism will remain.[6] The “modernity” of Lyotard corresponds to the famous “Dialectic of the Enlightenment” of Horkheimer and Adorno, leaders of famous “Frankfurt School.”[7] In their optic, the work of the man of science or the action of the politician, must be submitted to a rational reason, an ethical corpus, a fixed and immutable moral authority, to a catechism that slows down their drive, that limits their Faustian ardor. For Lyotard, the end of modernity, thus the advent of “post-modernity,” is incredulity—progressive, cunning, fatalistic, ironic, mocking—with regard to this metanarrative.

Incredulity also means a possible return of the Dionysian, the irrational, the carnal, the turbid, and disconcerting areas of the human soul revealed by Bataille or Caillois, as envisaged and hoped by professor Maffesoli,[8] of the University of Strasbourg, and the German Bergfleth,[9] a young nonconformist philosopher; that is to say, it is equally possible that we will see a return of the Faustian spirit, a spirit comparable with that which bequeathed us the blazing Gothic, of a conquering rationality which has reconnected with its old European dynamic mythology, as Guillaume Faye explains in Europe and Modernity.[10]

Notes

1. Benjamin Nelson, Der Ursprung der Moderne, Vergleichende Studien zum Zivilisationsprozess [The Origin of Modernity: Comparative Studies of the Civilization Process] (Frankfurt am Main: Suhrkamp, 1986).

2. Jean-François Revel, Histoire de la pensée occidentale [History of Western Thought], vol. 2, La philosophie pendant la science (XVe, XVIe et XVIIe siècles) [Philosophy and Science (Fifteenth-, Sixteenth-, and Seventeenth-Centuries)] (Paris: Stock, 1970). Cf. also the masterwork of Alexandre Koyré, From the Closed World to the Infinite Universe (Baltimore: Johns Hopkins University Press, 1957).

3. Cf. Julien Freund, Max Weber (Paris: P.U.F., 1969).

4. Paul-Henri Michel, La cosmologie de Giordano Bruno [The Cosmology of Giordano Bruno] (Paris: Hermann, 1962).

5. Cf. essentially: Werner Sombart, Le Bourgeois. Contribution à l’histoire morale et intellectuelle de l’homme économique moderne [The Bourgeois: Contribution to the Moral and Intellectual History of Modern Economic Man] (Paris: Payot, 1966).

6. Jean-François Lyotard, The Postmodern Condition: A Report on Knowledge, trans. Geoff Bennington and Brian Massumi. (Minneapolis: University of Minnesota Press, 1984).

7. Max Horkheimer and Theodor Adomo, The Dialectic of Enlightenment, trans. Edmund Jephcott (Stanford: Stanford University Press, 2002). Cf. also Pierre Zima, L’École de Francfort. Dialectique de la particularité [The Frankfurt School: Dialectic of Particularity] (Paris: Éditions Universitaires, 1974). Michel Crozon, “Interroger Horkheimer” [“Interrogating Horkheimer”] and Arno Victor Nielsen, “Adorno, le travail artistique de la raison” [“Adorno: The Artistic Work of Reason”], Esprit, May 1978.

8. Cf. chiefly Michel Maffesoli, L’ombre de Dionysos: Contribution à une sociologie de l’orgie [The Shadow of Dionysus: Contribution to a Sociology of the Orgy] (Méridiens, 1982). Pierre Brader, “Michel Maffesoli: saluons le grand retour de Dionysos” [Michel Maffesoli: Let us Greet the Great return of Dionysos], Magazine-Hebdo no. 54 (September 21, 1984).

9. Cf. Gerd Bergfleth et al., Zur Kritik der Palavernden Aufklärung [Toward a Critique of Palavering Reason] (Munich: Matthes & Seitz, 1984). In this remarkable little anthology, Bergfleth published four texts deadly to the “moderno-Frankfurtist” routine: (1) “Zehn Thesen zur Vernunftkritik” [“Ten Theses on the Critique of Reason”]; (2) “Der geschundene Marsyas” [“The Abuse of Marsyas”]; (3) “Über linke Ironie” [“On Leftist Irony”]; (4) “Die zynische Aufklärung” [“The Cynical Enlightnement”]. Cf. also R. Steuckers, “G. Bergfleth: enfant terrible de la scène philosophique allemande” [“G. Bergfleth: enfant terrible of the German philosophical scene”], Vouloir no. 27 (March 1986). In the same issue, see also M. Kamp, “Bergfleth: critique de la raison palabrante” [“Bergfleth: Critique of Palavering Reason”] and “Une apologie de la révolte contre les programmes insipides de la révolution conformiste” [“An Apology for the Revolt against the Insipid Programs of the Conformist Revolution”]. See also M. Froissard, “Révolte, irrationnel, cosmicité et . . . pseudo-antisémitisme,” [“Revolt, irrationality, cosmicity and . . . pseudo-anti-semitism”], Vouloir nos. 40–42 (July–August 1987).

10. Guillaume Faye, Europe et Modernité [Europe and Modernity] (Méry/Liège: Eurograf, 1985).

Postmodern Challenges:
Between Faust & Narcissus, Part 2

Once the Enlightenment metanarrative was established—“encysted”—in the Western mind, the great secular ideologies progressively appeared: liberalism, with its idolatry of the “invisible hand,”[1] and Marxism, with its strong determinism and metaphysics of history, contested at the dawn of the 20th century by Georges Sorel, the most sublime figure of European militant socialism.[2] Following Giorgio Locchi[3]—who occasionally calls the metanarrative “ideology” or “science”—we think that this complex “metanarrative/ideology/science” no longer rules by consensus but by constraint, inasmuch as there is muted resistance (especially in art and music[4]) or a general disuse of the metanarrative as one of the tools of legitimation.

The liberal-Enlightenment metanarrative persists by dint of force and propaganda. But in the sphere of thought, poetry, music, art, or letters, this metanarrative says and inspires nothing. It has not moved a great mind for 100 or 150 years. Already at the end of the 19th century, literary modernism expressed a diversity of languages, a heterogeneity of elements, a kind of disordered chaos that the “physiologist” Nietzsche analyzed[5] and that Hugo von Hoffmannstahl called die Welt der Bezuge (the world of relations).

These omnipresent interrelations and overdeterminations show us that the world is not explained by a simple, neat and tidy story, nor does it submit itself to the rule of a disincarnated moral authority. Better: they show us that our cities, our people, cannot express all their vital potentialities within the framework of an ideology given and instituted once and for all for everyone, nor can we indefinitely preserve the resulting institutions (the doctrinal body derived from the “metanarrative of the Enlightenment”).

The anachronistic presence of the metanarrative constitutes a brake on the development of our continent in all fields: science (data-processing and biotechnology[6]), economics (the support of liberal dogmas within the EEC), military (the fetishism of a bipolar world and servility toward the United States, paradoxically an economic enemy), cultural (media bludgeoning in favor of a cosmopolitanism that eliminates Faustian specificity and aims at the advent of a large convivial global village, run on the principles of the “cold society” in the manner of the Bororos dear to Lévi-Strauss[7]).

 

The Rejection of Neo-Ruralism, Neo-Pastoralism . . .

The confused disorder of literary modernism at the end of the 19th century had a positive aspect: its role was to be the magma that, gradually, becomes the creator of a new Faustian assault.[8] It is Weimar—specifically, the Weimar-arena of the creative and fertile confrontation of expressionism,[9] neo-Marxism, and the “conservative revolution”[10]—that bequeathed us, with Ernst Jünger, an idea of “post-metanarrative” modernity (or post-modernity, if one calls “modernity” the Dialectic of the Enlightenment, subsequently theorized by the Frankfurt School). Modernism, with the confusion it inaugurates, due to the progressive abandonment the pseudo-science of the Enlightenment, corresponds somewhat to the nihilism observed by Nietzsche. Nihilism must be surmounted, exceeded, but not by a sentimental return, however denied, to a completed past. Nihilism is not surpassed by theatrical Wagnerism, Nietzsche fulminated, just as today the foundering of the Marxist “Grand Narrative” is not surpassed by a pseudo-rustic neoprimitivism.[11]

In Jünger—the Jünger of In Storms of Steel, The Worker, and Eumeswil—one finds no reference to the mysticism of the soil: only a sober admiration for the perennialness of the peasant, indifferent to historical upheavals. Jünger tells us of the need for balance: if there is a total refusal of the rural, of the soil, of the stabilizing dimension of Heimat, constructivist Faustian futurism will no longer have a base, a point of departure, a fallback option. On the other hand, if the accent is placed too much on the initial base, the launching point, on the ecological niche that gives rise to the Faustian people, then they are wrapped in a cocoon and deprived of universal influence, rendered blind to the call of the world, prevented from springing towards reality in all its plenitude, the “exotic” included. The timid return to the homeland robs Faustianism of its force of diffusion and relegates its “human vessels” to the level of the “eternal ahistoric peasants” described by Spengler and Eliade.[12] Balance consists in drawing in (from the depths of the original soil) and diffusing out (towards the outside world).

In spite of all nostalgia for the “organic,” rural, or pastoral—in spite of the serene, idyllic, aesthetic beauty that recommend Horace or Virgil—Technology and Work are from now on the essences of our post-nihilist world. Nothing escapes any longer from technology, technicality, mechanics, or the machine: neither the peasant who plows with his tractor nor the priest who plugs in a microphone to give more impact to his homily.

 

The era of “Technology”

Technology mobilizes totally (Total Mobilmachung) and thrusts the individual into an unsettling infinitude where we are nothing more than interchangeable cogs. The machine gun, notes the warrior Jünger, mows down the brave and the cowardly with perfect equality, as in the total material war inaugurated in 1917 in the tank battles of the French front. The Faustian “Ego” loses its intraversion and drowns in a ceaseless vortex of activity. This Ego, having fashioned the stone lacework and spires of the flamboyant Gothic, has fallen into American quantitativism or, confused and hesitant, has embraced the 20th century’s flood of information, its avalanche of concrete facts. It was our nihilism, our frozen indecision due to an exacerbated subjectivism, that mired us in the messy mud of facts.

By crossing the “line,” as Heidegger and Jünger say,[13] the Faustian monad (about which Leibniz[14] spoke) cancels its subjectivism and finds pure power, pure dynamism, in the universe of Technology. With the Jüngerian approach, the circle is closed again: as the closed universe of “magism” was replaced by the inauthentic little world of the bourgeois—sedentary, timid, embalmed in his utilitarian sphere—so the dynamic “Faustian” universe is replaced with a Technological arena, stripped this time of all subjectivism.

Jüngerian Technology sweeps away the false modernity of the Enlightenment metanarrative, the hesitation of late 19th century literary modernism, and the trompe-l’oeil of Wagnerism and neo-pastoralism. But this Jüngerian modernity, perpetually misunderstood since the publication of Der Arbeiter [The Worker] in 1932, remains a dead letter.

Notes

1. On the theological foundation of the doctrine of the “invisible hand” see Hans Albert, “Modell-Platonismus. Der neoklassische Stil des ökonomischen Denkens in kritischer Beleuchtung” [“Model Platonism: The Neoclassical Style of Economic Thought in Critical Elucidation”], in Ernst Topitsch, ed., Logik der Sozialwissenschaften [Logic of Social Science] (Köln/Berlin: Kiepenheuer & Witsch, 1971).

2. There is abundant French literature on Georges Sorel. Nevertheless, it is deplorable that a biography and analysis as valuable as Michael Freund’s has not been translated: Michael Freund, Georges Sorel, Der revolutionäre Konservatismus [Georges Sorel: Revolutionary Conservatism] (Frankfurt a.M.: Vittorio Klostermann, 1972).

3. Cf. G. Locchi, “Histoire et société: critique de Lévi-Strauss” [“History and Society: Critique of Lévi-Strauss”], Nouvelle Ecole, no. 17 (March 1972) and “L’histoire” [“History”], Nouvelle Ecole, nos. 2728 (January 1976).

4. Cf. G. Locchi, “L’idée de la musique’ et le temps de l’histoire” [“The ‘Idea of Music’ and the Times of History”], Nouvelle Ecole, no. 30 (November 1978) and Vincent Samson, “Musique, métaphysique et destin” [“Music, Metaphysics, and Destiny”], Orientations, no. 9 (September 1987).

5. Cf. Helmut Pfotenhauer, Die Kunst als Physiologie: Nietzsches äesthetische Theorie und literarische Produktion [Art as Physiology: Nietzsche’s Aesthetic Theory and Literary Production] (Stuttgart: J. B. Metzler, 1985). Cf. on Pfotenhauer’s book: Robert Steuckers, “Regards nouveaux sur Nietzsche” [“New Views of Nietzsche”], Orientations, no. 9.

6. Biotechnology and the most recent biocybernetic innovations, when applied to the operation of human society, fundamentally call into question the mechanistic theoretical foundations of the “Grand Narrative” of the Enlightenment. Less rigid, more flexible laws, because adapted to the deep drives of human psychology and physiology, would restore a dynamism to our societies and put them in tune with technological innovations. The Grand Narrative—which is always around, in spite of its anachronism—blocks the evolution of our societies; Habermas’ thought, which categorically refuses to fall in step with the epistemological discoveries of Konrad Lorenz, for example, illustrates perfectly the genuinely reactionary rigidity of the neo-Enlightenment in its Frankfurtist and current neo-liberal derivations. To understand the shift that is taking place regardless of the liberal-Frankfurtist reaction, see the work of the German bio-cybernetician Frederic Vester: (1) Unsere Welt—ein vernetztes System, dtv, no. l0,118, 2nd ed. (München, 1983) and (2) Neuland des Denkens. Vom technokratischen zum kybernetischen Zeitalter (Stuttgart: DVA, 1980). The restoration of holist (ganzheitlich) social thought by modern biology is discussed, most notably, in Gilbert Probst, Selbst-Organisation, Ordnungsprozesse in sozialen Systemen aus ganzheitlicher Sicht (Berlin: Paul Parey, 1987).

7. G. Locchi, “L’idée de la musique’ et le temps de l’histoire.”

8. To tackle the question of the literary modernism in the 19th century, see: M. Bradbury, J. McFarlane, eds., Modernism 1890–1930 (Harmondsworth: Penguin, 1976).

9. Cf. Paul Raabe, ed., Expressionismus. Der Kampf um eine literarische Bewegung (Zürich: Arche, 1987)—A useful anthology of the principal expressionist manifestos.

10. Armin Mohler, La Révolution Conservatrice en Allemagne, 1918–1932 (Puiseaux: Pardès, 1993). See mainly text A3 entitled “Leitbilder” (“Guiding Ideas”).

11. Cf. Gérard Raulet, “Mantism and the Post-Modern Conditions” and Claude Karnoouh, “The Lost Paradise of Regionalism: The Crisis of Post-Modernity in France,” Telos, no. 67 (March 1986).

12. Cf. Oswald Spengler, The Decline of the West, 2 vols., trans. Charles Francis Atkinson (New York: Knopf, 1926) for the definition of the “ahistorical peasant” see vol. 2. Cf. Mircea Eliade, The Sacred and the Profane: The Nature of Religion, trans. Willard R. Trask (San Diego: Harcourt, 1959). For the place of this vision of the “peasant” in the contemporary controversy regarding neo-paganism, see: Richard Faber, “Einleitung: ‘Pagan’ und Neo-Paganismus. Versuch einer Begriffsklärung,” in Richard Faber and Renate Schlesier, Die Restauration der Götter: Antike Religion und Neo-Paganismus [The Restoration of the Gods: Ancient Religion and Neo-Paganism] (Würzburg: Königshausen & Neumann, 1986), 10–25. This text was reviewed in French by Robert Steuckers, “Le paganisme vu de Berlin” [“Paganism as Seen in Berlin”], Vouloir no. 28–29, April 1986, pp. 5–7.

13. On the question of the “line” in Jünger and Heidegger, cf. W. Kaempfer, Ernst Jünger, Sammlung Metzler, Band 20l (Stuttgart, Metzler, 1981), pp. 119–29. Cf also J. Evola, “Devant le ‘mur du temps’” [“Before the ‘Wall of Time’”] in Explorations: Hommes et problems [Explorations: Men and Problems], trans. Philippe Baillet (Puiseaux: Pardès, 1989), pp. 183–94. Let us take this opportunity to recall that, contrary to the generally accepted idea, Heidegger does not reject technology in a reactionary manner, nor does he regard it as dangerous in itself. The danger is due to the failure to think of the mystery of its essence, preventing man from returning to a more originary unconcealment and from hearing the call of a more primordial truth. If the age of technology seems to be the final form of the Oblivion of Being, where the anxiety suitable to thought appears as an absence of anxiety in the securing and the objectification of being, it is also from this extreme danger that the possibility of another beginning is thinkable once the metaphysics of subjectivity is completed.

14. To assess the importance of Leibniz in the development of German organic thought, cf. F. M. Barnard, Herder’s Social and Political Thought: From Enlightenment to Nationalism (Oxford: Clarendon Press, 1965), 10–12.

Postmodern Challenges:
Between Faust & Narcissus, Part 3

In 1945, the tone of ideological debate was set by the victorious ideologies. We could choose American liberalism (the ideology of Mr. Babbitt) or Marxism, an allegedly de-bourgeoisfied version of the metanarrative. The Grand Narrative took charge, hunted down any “irrationalist” philosophy or movement,[1] set up a thought police, and finally, by brandishing the bogeyman of rampant barbarism, inaugurated an utterly vacuous era.

Sartre and his fashionable Parisian existentialism must be analyzed in the light of this restoration. Sartre, faithful to his “atheism,” his refusal to privilege one value, did not believe in the foundations of liberalism or Marxism. Ultimately, he did not set up the metanarrative (in its most recent version, the vulgar Marxism of the Communist parties[2]) as a truth but as an “inescapable”categorical imperative for which one must militate if one does not want to be a “bastard,” i.e., one of these contemptible beings who venerate “petrified orders.”[3] It is the whole paradox of Sartreanism: on the one hand, it exhorts us not to adore “petrified orders,” which is properly Faustian, and, on another side, it orders us to “magically” adore a “petrified order” of vulgar Marxism, already unhorsed by Sombart or De Man. Thus in the Fifties, the golden age of Sartreanism, the consensus is indeed a moral constraint, an obligation dictated by increasingly mediatized thought. But a consensus achieved by constraint, by an obligation to believe without discussion, is not an eternal consensus. Hence the contemporary oblivion of Sartreanism, with its excesses and its exaggerations.

The Revolutionary Anti-Humanism of May 1968

With May ’68, the phenomenon of a generation, “humanism,” the current label of the metanarrative, was battered and broken by French interpretations of Nietzsche, Marx, and Heidegger.[4] In the wake of the student revolt, academics and popularizers alike proclaimed humanism a “petite-bourgeois” illusion. Against the West, the geopolitical vessel of the Enlightenment metanarrative, the rebels of ’68 played at mounting the barricades, taking sides, sometimes with a naive romanticism, in all the fights of the 1970s: Spartan Vietnam against American imperialism, Latin-American guerillas (“Ché”), the Basque separatists, the patriotic Irish, or the Palestinians.

Their Faustian feistiness, unable to be expressed though autochthonous models, was transposed toward the exotic: Asia, Arabia, Africa, or India. May ’68, in itself, by its resolute anchorage in Grand Politics, by its guerilla ethos, by its fighting option, in spite of everything took on a far more important dimension than the strained blockage of Sartreanism or the great regression of contemporary neo-liberalism.  On the right, Jean Cau, in writing his beautiful book on Che Guevara[5]  understood this issue perfectly, whereas the right, which is as fixated on its dogmas and memories as the left, had not wanted to see.

With the generation of ’68—combative and politicized, conscious of the planet’s great economic geopolitical issues—the last historical fires burned in the French public spirit before the great rise of post-history and post-politics represented by the narcissism of contemporary neoliberalism.

The Translation of the Writings of the “Frankfurt School” announces the Advent of Neo-Liberal Narcissism

The first phase of the neo-liberal attack against the political anti-humanism of May ’68 was the rediscovery of the writings of the Frankfurt School: born in Germany before the advent of National Socialism, matured during the California exile of Adorno, Horkheimer, and Marcuse, and set up as an object of veneration in post-war West Germany. In Dialektik der Aufklärung, a small and concise book that is fundamental to understanding the dynamics of our time, Horkheimer and Adorno claim that there are two “reasons” in Western thought that, in the wake of Spengler and Sombart, we are tempted to name “Faustian reason” and “magical reason.” The former, for the two old exiles in California, is the negative pole of the “reason complex” in Western civilization: this reason is purely “instrumental”; it is used to increase the personal power of those who use it. It is scientific reason, the reason that tames the forces of the universe and puts them in the service of a leader or a people, a party or state. Thus, according to Herbert Marcuse, it is Promethean, not Narcissistic/Orphic.[6] For Horkheimer, Adorno, and Marcuse, this is the kind of rationality that Max Weber theorized.

On the other hand, “magical reason,” according to our Spenglerian genealogical terminology, is, broadly speaking, the reason of Lyotard’s metanarrative. It is a moral authority that dictates ethical conduct, allergic to any expression of power, and thus to any manifestation of the essence of politics.[7] In France, the rediscovery of the Horkheimer-Adorno theory of reason near the end of the 1970s inaugurated the era of depoliticization, which, by substituting generalized disconnection for concrete and tangible history, led to the “era of the vacuum” described so well by Grenoble Professor Gilles Lipovetsky.[8] Following the militant effervescence of May ’68 came a generation whose mental attitudes are characterized quite justly by Lipovetsky as apathy, indifference (also to the metanarrative in its crude form), desertion (of the political parties, especially of the Communist Party), desyndicalisation, narcissism, etc. For Lipovetsky, this generalized resignation and abdication constitutes a golden opportunity. It is the guarantee, he says, that violence will recede, and thus no “totalitarianism,” red, black, or brown, will be able to seize power. This psychological easy-goingness, together with a narcissistic indifference to others, constitutes the true “post-modern” age.

 

There are Various Possible Definitions of “Post-Modernity”

On the other hand, if we perceive—contrary to Lipovetsky’s usage—“modernity” or “modernism” as expressions of the metanarrative, thus as brakes on Faustian energy, post-modernity will necessarily be a return to the political, a rejection of para-magical creationism and anti-political suspicion that emerged after May 68, in the wake of speculations on “instrumental reason” and “objective reason” described by Horkheimer and Adorno.

The complexity of the “post-modern” situation makes it impossible to give one and only one definition of “post-modernity.” There is not one post-modernity that can lay claim to exclusivity. On the threshold of the 21st century, various post-modernities lie fallow, side by side, diverse potential post-modern social models, each based on fundamentally antagonistic values fundamentally antagonistic, primed to clash. These post-modernities differ—in their language or their “look”—from the ideologies that preceded them; they are nevertheless united with the eternal, immemorial, values that lie beneath them. As politics enters the historical sphere through binary confrontations, clashes of opposing clans and the exclusion of minorities, dare to evoke the possible dichotomy of the future: a neo-liberal, Western, American and American-like post-modernity versus a shining Faustian and Nietzschean post-modernity.

 

The “Moral Generation” & the “Era of the Vacuum”

This neo-liberal post-modernity was proclaimed triumphantly, with Messianic delirium, by Laurent Joffrin in his assessment of the student revolt of December 1986 (Un coup de jeune [A Coup of Youth], Arlea, 1987). For Joffrin, who predicted[9] the death of the hard left, of militant proletarianism, December ’86 is the harbinger of a “moral generation,” combining in one mentality soft leftism, lazy-minded collectivism, and neo-liberal, narcissistic, and post-political selfishness: the social model of this hedonistic society centered on commercial praxis, that Lipovetsky described as the era of the vacuum. A political vacuum, an intellectual vacuum, and a post-historical desert: these are the characteristics of the blocked space, the closed horizon characteristic of contemporary neo-liberalism. This post-modernity constitutes a troubling impediment to the greater Europe that must emerge so that we have a viable future and arrest the slow decay announced by massive unemployment and declining demographics spreading devastation under the wan light of consumerist illusions, the big lies of advertisers, and the neon signs praising the merits of a Japanese photocopier or an American airline.

On the other hand, the post-modernity that rejects the old anti-political metanarrative of the Enlightenment, with its metamorphoses and metastases; that affirms the insolence of a Nietzsche or the metallic ideal of a Jünger; that crosses the “line,” as Heidegger exhorts, leaving behind the sterile dandyism of nihilistic times; the post-modernity that rallies the adventurous to a daring political program concretely implying the rejection of the existing power blocs, the construction of an autarkic Eurocentric economy, while fighting savagely and without concessions against all old-fashioned religions and ideologies, by developing the main axis of a diplomacy independent of Washington; the post-modernity that will carry out this voluntary program and negate the negations of post-history—this post-modernity will have our full adherence.

In this brief essay, I wanted to prove that there is a continuity in the confrontation of the “Faustian” and “magian” mentalities, and that this antagonistic continuity is reflected in the current debate on post-modernities. The American-centered West is the realm of “magianisms,” with its cosmopolitanism and authoritarian sects.[10] Europe, the heiress of a Faustianism much abused by “magian” thought, will reassert herself with a post-modernity that will recapitulate the inexpressible themes, recurring but always new, of the Faustianness intrinsic to the European soul.

Notes

1. The classic among classics in the condemnation of “irrationalism” is the summa of György Lukács, The Destruction of Reason, 2 vols. (1954). This book aims to be a kind of Discourse on Method for the dialectic of Enlightenment-Counter-Enlightenment, rationalism-irrationalism. Through a technique of amalgamation that bears a passing resemblance to a Stalinist pamphlet, broad sectors of  German and European culture, from Schelling to neo-Thomism, are blamed for having prepared and supported the Nazi phenomenon. It is a paranoiac vision of culture.

2. To understand the fundamental irrationality of Sartre’s Communism, one should read Thomas Molnar, Sartre, philosophie de la contestation (Paris: La Table Ronde, 1969). In English: Sartre: Ideologue of Our Time (New York : Funk & Wagnalls, 1968).

3. Cf. R.-M. Alberes, Jean-Paul Sartre (Paris: Éditions Universitaires, 1964), 54–71.

4. In France, the polemic aiming at a final rejection of the anti-humanism of ’68 and its Nietzschean, Marxist, and Heideggerian philosophical foundations is found in Luc Ferry and Alain Renaut, French Philosophy of the Sixties: An Essay on Anti-Humanism, trans. Mary H. S. Cattani (Amherst: University of Massachusetts Press, 1990) and its appendix ’68–’86. Itinéraires de l’individu [’68-’86: Routes of the Individual] (Paris: Gallimard, 1987). Contrary to the theses defended in first of these two works, Guy Hocquenghem in Lettre ouverte à ceux qui sont passés du col Mao au Rotary Club [Open Letter to those Went from Mao Jackets to the Rotary Club] (Paris: Albin Michel, 1986) deplored the assimilation of the hyper-politicism of the generation of 1968 into the contemporary neo-liberal wave. From a definitely polemical point of view and with the aim of restoring debate, such as it is, in the field of philosophical abstraction, one should read Eddy Borms, Humanisme—kritiek in het hedendaagse Franse denken [Humanism: Critique in Contemporary French Thought (Nijmegen: SUN, 1986).

5. Jean Cau, the former secretary of Jean-Paul Sartre, now classified as a polemist of the “right,” who delights in challenging the manias and obsessions of intellectual conformists, did not hesitate to pay homage to Che Guevara and to devote a book to him. The “radicals” of the bourgeois accused him of “body snatching”! Cau’s rigid right-wing admirers did not appreciate his message either. For them, the Nicaraguan Sandinistas, who nevertheless admired Abel Bonnard and the American “fascist” Lawrence Dennis, are emanations of the Evil One.

6. Cf. A. Vergez, Marcuse (Paris: P.U.F., 1970).

7. Julien Freund, Qu’est-ce que la politique? [What is Politics?] (Paris: Seuil, 1967). Cf Guillaume Faye, “La problématique moderne de la raison ou la querelle de la rationalité” [“The Modern Problem of Reason or the Quarrel of Rationality”] Nouvelle Ecole no. 41, November 1984.

8. G. Lipovetsky, L’ère du vide: Essais sur l’individualisme contemporain [The Era of the Vacuum: Essays on contemporary individualism] (Paris: Gallimard, 1983). Shortly after this essay was written, Gilles Lipovetsky published a second book that reinforced its viewpoint: L’Empire de l’éphémère: La mode et son destin dans les sociétés modernes [Empire of the Ephemeral: Fashion and its Destiny in Modern Societies] (Paris: Gallimard, 1987). Almost simultaneously François-Bernard Huyghe and Pierre Barbès protested against this “narcissistic” option in La soft-idéologie [The Soft Ideology] (Paris: Laffont, 1987). Needless to say, my views are close to those of the last two writers.

9. Cf. Laurent Joffrin, La gauche en voie de disparition: Comment changer sans trahir? [The Left in the Process of Disappearance: How to Change without Betrayal?] (Paris: Seuil, 1984).

10. Cf. Furio Colombo, Il dio d’America: Religione, ribellione e nuova destra [The God of America: Religion, Rebellion, and the New Right] (Milano: Arnoldo Mondadori, 1983).

samedi, 08 janvier 2011

Dr. Tomislav Sunic on overcoming differences & on American theology

Dr. Tomislav Sunic on overcoming differences

Dr. Sunic on American theology

vendredi, 07 janvier 2011

Petites réflexions éparses sur l'Ecole de Francfort

Robert STEUCKERS :

Petites réflexions éparses sur l’Ecole de Francfort

 

Exposé prononcé à Gand, salle universitaire « Blandijn », novembre 2008, à l’occasion d’une conférence du Dr. Tomislav Sunic sur les répercussions de l’Ecole de Francfort en Amérique et en Europe, conférence organisée par l’association étudiante KVHV

 

L’Ecole de Francfort est un vaste sujet, vu le nombre de théoriciens importants pour les gauches européennes et américaines qu’elle a fournis. Nous ne pourrons pas aborder tous les aspects de cette école de Francfort. Nous allons nous limiter, comme le Dr. Sunic, aux critiques qu’adressent généralement les mouvements conservateurs européens à cette école de pensée qui a modernisé considérablement les idéologies avancées par les gauches, entre les années 20 et 70 du 20ème siècle. On peut dire qu’aujourd’hui bon nombre de dirigeants européens et américains ont été directement ou indirectement influencés par l’Ecole de Francfort, dans la mesure où ils ont été impliqués dans le mouvement de mai 68 ou dans ses suites immédiates.

 

Les critiques conservatrices de l’Ecole de Francfort s’articulent autour de plusieurs éventails de thématiques :

 

L’Ecole de Francfort aurait forgé les instruments destinés à dissoudre littéralement les fondements des sociétés, de manière à permettre à de petites élites intellectuelles et politiques de prendre le pouvoir, afin d’agir non pas selon des traditions avérées (selon le « mos majorum » romain) mais de manière purement arbitraire et expérimentale, sans la sanction de l’expérience. Il s’agit donc clairement de contre-élites, qui n’entendent pas poursuivre des traditions politiques, demeurer dans un cadre bien établi, mais bouleverser de fond en comble les traditions pour installer une nouvelle forme de pouvoir, qui ne doit plus rien au passé. Pour y parvenir et pour éliminer toute résistance des forces traditionnelles, il faut dissoudre ce qui existe et ce qui fait l’armature des sociétés. On a insinué que les tenants de l’Ecole de Francfort ont coopéré avec l’OSS américaine pendant et immédiatement après la seconde guerre mondiale pour briser les ressorts des sociétés européennes, et surtout de la société allemande. L’idée n’est pas neuve : dans Sun Tzu, on trouve des consignes au Prince pour faire plonger la société de l’ennemi en pleine déliquescence, la neutraliser, l’empêcher de renaître de ses cendres et de passer à la contre-offensive. L’Ecole de Francfort aurait donc été l’instrument des Américains pour appliquer à l’Allemagne et à l’Europe un principe de l’Art de la guerre de Sun Tzu.

 

De l’homme unidimensionnel à la société festiviste

 

OneDimDtBig400pxh.jpgMalgré l’instrumentalisation des corpus doctrinaux de l’Ecole de Francfort et malgré les désastres que cette instrumentalisation a provoqué en Europe, les idées diffusées par l’Ecole de Francfort véhiculent des thèmes intéressants qui, eux, n’ont pas été inclus dans la vulgate, seule responsable des dégâts sociaux et anthropologiques que nous déplorons depuis quelques décennies en Europe. Quand un Herbert Marcuse (1898-1979) nous parle de l’homme unidimensionnel, pour déplorer sa banalisation dans les sociétés industrielles modernes, il ne fait qu’énoncer un état de choses déjà déploré par Nietzsche. L’homme unidimensionnel de Marcuse partage bien des traits en commun avec le « dernier homme » de Nietzsche. Dans « Eros et la civilisation », Marcuse évoque le refoulement du désir dans les sociétés modernes, exactement comme le déploraient certains mouvements de jeunesse alternatifs allemands entre 1896 et 1933 ; cette option philosophique de vouloir libérer les instincts refoulés, en imitant les groupes marginaux ou exclus des sociétés même au détriment des majorités politiques et parlementaires, a eu, avec l’appui de tout un attirail d’interprétations freudiennes, un impact important sur la révolte étudiante des années 67-68 en Allemagne, en France et ailleurs en Europe. Marcuse condamnera toutefois l’usage de la violence et se fera apostropher comme « mou » par certains échaudés, dénommés « Krawallos ». Entre la théorie écrite et la pratique mise en œuvre par les services à partir des années 60 du 20ème siècle, il y a une nette différence. Mais c’est la vulgate, la version instrumentalisée, sloganisée à l’usage des Krawallos, qui a triomphé au détriment de la théorie proprement dite : c’est au départ d’une hyper-simplification du contenu d’ « Eros et la civilisation » que l’on a fabriqué la société festiviste actuelle, une société festiviste incapable de forger un Etat digne de ce nom ou de générer un vivre-ensemble harmonieux et créatif. Tout comme dans le « Meilleur des mondes » d’Aldous Huxley, on vend des drogues et l’on favorise la promiscuité sexuelle pour endormir les volontés.

 

adorno.jpgOutre Marcuse, idole des festivistes de mai 68, l’Ecole de Francfort a surtout aligné, en Allemagne, deux figures notoires, Theodor W. Adorno (1903-1969) et Max Horkheimer (1895-1973). Ces deux philosophes ont été les principaux représentants de la philosophie allemande dans les années 50. Adorno a déployé une critique de l’autoritarisme qui, selon lui, aurait toujours structuré la pensée allemande et, partant, européenne et américaine, faisant courir le risque de voir émerger de nouveaux fascismes à intervalles réguliers dans l’histoire. Il va vouloir déconstruire cet autoritarisme pour enrayer à l’avance toute émergence de nouveaux fascismes. Pour y procéder, il élaborera un système de mesure, consigné dans son célèbre ouvrage, La personnalité autoritaire. On y apprend même comment mesurer sur « l’échelle F » le degré de « fascisme » que peut receler la personnalité d’un individu. Le livre contient aussi un classement des citoyens en « Vorurteilsvollen » et « Vorurteilsfreien », soit ceux qui sont « pleins de préjugés » et ceux « qui sont libres de tous préjugés ». Ceux qui sont pleins de préjugés comptent aussi les « rebelles » et les « psychopathes », les « fous » et les « manipulateurs » dans leurs rangs. Ceux qui sont libres de tout préjugé comptent tout de même des « rigides », des protestataires, des impulsifs et des « easy goings » (« ungezwungene Vorurteilsfreie ») dans leurs rangs, qui sont posés comme sympathiques, comme mobilisables dans un projet « anti-autoritaire » mais dont l’efficacité n’est pas parfaite. Le summum de la qualité citoyenne ne se trouve que chez une minorité  de « Vorurteilsfreien » : les « genuine Liberalen », les « hommes de gauche en soi » qui échappent aux tendances libidineuses et au narcissisme (bref, ceux qui devraient gouverner le monde après la mise au rencart de tous les autres). Ce livre sur la personnalité autoritaire a connu un succès retentissant aux Etats-Unis mais aussi dans la République Fédérale Allemande. Mais ce n’est pas un ouvrage philosophique : c’est un instrument purement manipulatoire au service d’une ingénierie sociale destinée à dompter la société, à contrôler pensées et langages. On peut donc parfaitement interpréter l’impact de cet ouvrage d’ingénierie sociale dans une perspective orwellienne : l’émancipation (par rapport à la personnalité autoritaire) est le terme enjoliveur qui couvre une nouvelle façon, subtile, d’asservir et d’opprimer les masses.

 

Des « genuinen Liberalen » à l’humanité nouvelle

 

Comment supputer la manipulation chez des « genuinen Liberalen », posés par Adorno comme des apolitiques qui ne réagissent que lorsque les injustices sont là, flagrantes, et se dressent alors contre elles sans tenir compte des déboires que cela pourrait leur procurer ? Le « genuiner Liberaler » est un bon naïf, écrit Adorno, comment pourrait-il dès lors manipuler ses concitoyens ? On se le demande, effectivement : non, ce n’est pas lui qui va manipuler, c’est lui qui servira de modèle aux manipulateurs car, eux, ont besoin de naïfs. En effet, le « fascisme » (sous quelque forme que ce soit) n’était plus présent aux Etats-Unis ou en Allemagne, quand Adorno sortait son livre de presse. Rien ne permettait d’envisager son retour offensif. Ce n’est donc pas un fascisme organisé en escouades de combat que cherchent à éliminer Adorno et tous ses disciples armés de « l’échelle F ». Il s’agit bien plutôt de détruire les réflexes structurants de toute société traditionnelle normale, surtout quand elles sont de nature « agnatiques » (centrées autour du patriarche ou du pater familias). Patriarches et pères de famille détiennent forcément une autorité (qui peut être bienveillante ou sévère selon les cas), que ce soit, comme l’a montré Emmanuel Todd, dans la famille centre-européenne (germanique et souvent catholique), dans la famille juive ou dans la famille musulmane nord-africaine (où elle a, selon Todd, des aspects plus claniques). C’est leur pouvoir patriarcal qu’il s’agit de démonter pour le remplacer par des figures alternatives, non clairement profilées : la virago célibataire, la mère fusionnelle, l’ado libre, l’adulescent bambocheur et irresponsable, la grand-mère gâteau, la divorcée agitée de frénésies de toutes sortes, le tonton homosexuel, le grand frère hippy (ou beatnik) ou deux ou trois figures de référence de cet acabit, qui vont déboussoler l’enfant plutôt que l’édifier. Bref nous aurons là la « nouvelle humanité » soi-disant « tolérante » (1), dont ont rêvé beaucoup de ces dissidents qui souhaitaient bouleverser les hiérarchies naturelles et immémoriales : les dissidents « levellers » ou les « Founding Fathers » puritains qui s’en iront au Nouveau Monde créer une « Jérusalem Nouvelle » avant de pendouiller les sorcières de Salem (2), les utopistes ou les phalanstériens en marge de la révolution française ou les communistes soviétiques des années 20, avant la réaction autoritaire du stalinisme. Les pères posés comme « autoritaires » a priori, par certains zélotes de « l’échelle F », sont évidemment un frein au développement échevelé de la société de consommation, telle que nous la connaissons depuis la fin des années 50 en Europe, depuis la fin des années 40 aux Etats-Unis. Les planificateurs de la consommation tous azimuts ont constaté que les pères (autoritaires ou simplement prévoyants) maintenaient généralement les cordons de la bourse plus serrés que les marginaux prodigues et flambeurs, individualités très appréciées des commerçants et des publicitaires. Qui dit structures patriarcales dit automatiquement volonté de maintenir et de préserver un patrimoine de biens meubles et immeubles, qui ne sont pas immédiatement voués à la consommation, destinée, elle, à procurer le bonheur tout de suite. L’élimination de l’autorité patriarcale et la libération sexuelle vont de paire pour assurer le triomphe de la société de consommation, festiviste et flambeuse, par ailleurs fustigée par certains soixante-huitards qui furent tout à la fois, et souvent à leur corps défendant, ses critiques et ses promoteurs.      

 

hork.jpgOutre la composition de cet instrument de contrôle que fut le livre d’Adorno intitulé La personnalité autoritaire (Studien zum autoritären Charakter), les deux philosophes de l’Ecole de Francfort, installés dans l’Allemagne d’après-guerre, en rédigent le principal manifeste philosophique, Die Dialektik der Aufklärung (= « La dialectique des Lumières »), où ils affirment s’inscrire dans la tradition des Lumières, née au 18ème siècle, tout en critiquant certains avatars ultérieurs de cette démarche philosophique. Pour Horkheimer et Adorno, la science et la technologie, qui ont pris leur élan à l’époque des Lumières et dans les premiers balbutiements de la révolution industrielle avec l’appui des Encyclopédistes autour de d’Alembert et Diderot, ont pris au fil du temps un statut marqué d’ambigüité. La technologie et la science ont débouché sur la technocratie, affirment Horkheimer et Adorno dans leur manifeste, et, dans ce processus involutif, la raison des Lumières, d’idéelle est devenue « instrumentale », avec le risque d’être instrumentalisée par des forces politiques ne partageant pas l’idéal philosophique des Lumières (sous-entendu : les diverses formes de fascisme ou les néoconservatismes technocratiques d’après 1945). Le programme promu par La personnalité autoritaire peut être interprété, sans sollicitation outrancière, comme un instrument purement technocratique destiné à formater les masses dans un sens précis, contraire à leurs dispositions naturelles et ontologiques ou contraire aux legs d’une histoire nationale particulière. Alors qu’ils inventent un instrument de nature nettement technocratique, Adorno et Horkheimer critiquent la technocratie occidentale sur des bases sociologiques que nous pouvons pleinement accepter : en effet, les deux philosophes s’inscrivent dans un filon sociologique inauguré, non pas par Marx et ses premiers fidèles, mais par Georg Simmel et Max Weber. Ce dernier voulait lancer, par ses travaux et ceux de ses étudiants, « une science du réel, nous permettant de comprendre dans sa spécificité même la réalité en laquelle nos vies sont plongées ». Pour Simmel et Weber, le développement des sciences et des technologies apporteront certainement une quantité de bienfaits aux sociétés humaines mais elles provoqueront simultanément une hypertrophie des appareils abstraits, ceux de la technocratie en marche, par exemple, ceux de l’administration qui multipliera les règles de coercition sociale dans tous les domaines, conduisant à l’émergence d’un gigantesque « talon d’acier » (iron heel) ou d’une cage d’acier, qui oblitèreront la créativité humaine.

 

Quelle créativité humaine ?

 

L’oblitération de la créativité humaine, telle qu’elle avait été pensée par Simmel et Weber, est le point de départ d’Adorno et Horkheimer. Mais où divergent donc conservateurs critiques de l’Ecole de Francfort et adeptes de cette école ? Dans la définition qu’ils donnent de la créativité humaine. La créativité selon Adorno et Horkheimer est celle d’une intelligentsia détachée de toutes contraintes matérielles, d’une freischwebende Intelligenz, planant haut au-dessus de la réalité, ou d’assistants sociaux, de travailleurs sociaux, qui œuvrent à déconstruire les structures sociales existantes pour créer de toutes pièces un vivre-ensemble artificiel, composé selon les rêves utopiques de sociologues irréalistes, qui glosent ad libitum sur le travail ou sur le prolétariat sans jamais travailler concrètement (Helmut Schelsky) ni trimer dans une véritable usine (les ouvriers d’Opel à Rüsselheim en Allemagne ont chassé les Krawallos qui voulaient les aider dans leur tâche prolétarienne, tout en préparant des comités de contestation, des happenings ou des bris de machine). Le reproche d’abonder dans le sens de cette frange « bohémienne » de la bourgeoisie ou de la Bildungsbürgertum avait déjà été adressé par les conservateurs et les pangermanistes à Nietzsche (« philosophe pour femmes hystériques et pour artistes peintres ») et aux romantiques, qualifiés d’ « occasionnalistes » par Carl Schmitt. On peut constater, dans l’histoire des idées, que la critique de la technocratie a souvent émergé dans les rangs conservateurs, inquiets de voir les traditions oblitérées par une nouvelle pensée pragmatique étrangère à toutes les valeurs traditionnelles et aux modes de concertation hérités, qui finissent alors noyés dans des dédales administratifs nouveaux, posés comme infaillibles. La critique d’Adorno et d’Horkheimer n’est pourtant pas conservatrice mais de gauche, « libérale » au sens anglo-saxon du terme. Adorno et Horkheimer veulent donner plus d’impact dans la société à la freischwebende Intelligenz, aux bohèmes littéraires et artistiques ou aux nouveaux sociologues et pédagogues (Cohn-Bendit) héritiers des plus fumeux et des plus farfelus des « Lebensreformer » (des « réformateurs de la vie ») qui pullulaient en Allemagne entre 1890 et 1933. Le but de cette manœuvre est de maintenir une sorte d’espace récréatif et festif (avant la lettre) en marge d’une société autrement gouvernée par les principes des Lumières, avec, dans le monde du travail, une domination plus ou moins jugulée de la « raison instrumentale ». Cet espace récréatif et festif serait un « espace de non-travail » (Guillaume Faye), survalorisé médiatiquement, où les individus pourraient donner libre cours à leurs fantaisies personnelles ou s’esbaudir dans une aire de garage au moment où l’automatisation des usines, la désindustrialisation ou les délocalisations postulent une réduction drastique de la main-d’œuvre. L’ « espace de non-travail » dore la pilule pour ceux qui sont condamnés au chômage ou à des emplois socio-culturels non productifs. Adorno et Horkheimer situent donc la créativité humaine, qu’ils valorisent, dans un espace artificiel, une sorte de jardin de luxe, en marge des tumultes du monde réel. Ils ne la situent pas dans les dispositions concrètes et ontologiques de la nature biologique de l’homme, en tant qu’être vivant, qui, au départ de son évolution phylogénétique, a été « jeté là » dans la nature et a dû s’en sortir. Critique allemand de l’Ecole de Francfort, le Dr. Rolf Kosiek, professeur de biologie, stigmatise le « pandémonium » de cette tradition sociologique de gauche parce qu’elle ne se réfère jamais à la biologie humaine, à la concrétude fondamentale de l’être humain en tant qu’être vivant. En utilisant le terme « pandémonium », Kosiek reprend quasiment mot pour mot le jugement de Henri De Man, présent à Francfort dès les débuts de l’Institut de sociologie ; dans ses mémoires, De Man écrit : « c’était une bande d’intellectuels rêveurs, incapables de saisir une réalité politique ou sociale ou de la décrire de manière succincte – c’était un pandémonium ».

 

Les écoles biologiques allemandes et autrichiennes, avec Konrad Lorenz, Irenäus Eibl-Eibesfeldt, Rupert Riedl et Wuketits ou les vulgarisateurs américains et anglais Robert Ardrey et Desmond Morris ont jeté les bases d’une sociologie plus réaliste, en abordant l’homme, non pas comme un bohème intellectuel mais comme un être vivant, peu différent dans sa physiologie des mammifères qu’il côtoie, tout en étant, en revanche, très différent d’eux dans ses capacités intellectuelles et adaptatives, dans ses capacités mémorielles. Arnold Gehlen, lui, est un sociologue qui tient compte des acquis des sciences biologiques. Pour Gehlen, l’homme est une créature misérable, nue, sans force réelle dans la nature, sans les griffes et les canines du tigre, sans la fourrure et les muscles puissants de l’ours. Pour survivre, il doit créer artificiellement les organes dont la nature ne l’a pas pourvu. Il invente dès lors la technique et, par sa mémoire capable de transmettre les acquis, se dote d’une béquille culturelle, capable de pallier ses indigences naturelles. D’où la culture (et la technique) sont, pour Gehlen, la vraie nature de l’homme. La créativité, celle qu’oblitère la technocratie (Simmel, Weber, Adorno, Horkheimer) qui provoque aussi la « mort tiède » (Lorenz) par la démultiplication des « expériences de seconde main » (Gehlen), est, pour la sociologie biologisante de Gehlen, la réponse de l’homme, en tant qu’être vivant, à un environnement systématiquement hostile. L’invention de la technique et la culture/mémoire donne à l’homme une plasticité comportementale le rendant apte à affronter une multiplicité de défis.

 

Cette créativité-là est aujourd’hui oblitérée par l’ingénierie sociale de la technocratie dominante, ce qui a pour risque majeur de détruire définitivement les forces qui existent en l’homme et qui l’ont toujours rendu capable d’affronter les dangers qui le guettent par la puissance « pro-active » de son imagination concrète, inscrite désormais dans ses dispositions ontologiques. L’homme à la créativité oblitérée ne peut plus faire face au tragique qui peut à tout instant survenir (la « logique du pire » de Clément Rosset).

 

Konrad Lorenz parlait de « tiédeur mortelle » et Gehlen d’une hypertrophie d’ « expériences de seconde main », où l’homme n’est plus jamais confronté directement aux dangers et aux défis auxquels il avait généralement fait face au cours de toute son histoire.

 

Pour l’Ecole de Francfort, la créativité humaine se limite à celle des bohèmes intellectuelles. Pour les autres, la créativité englobe tous les domaines possibles et imaginables de l’activité humaine, pourvu qu’elle ait un objet concret.

 

Habermas : du patriotisme constitutionnel à l’aporie complète

 

habermas1.jpgHabermas, ancien assistant d’Horkheimer puis son successeur à la tête de l’Institut de Francfort, devient, dès la fin des années 60, la figure de proue de la seconde génération de l’Ecole de Francfort. Son objectif ? Pour éviter la « cristallisation » des résidus de l’autoritarisme et des effets de l’application de la « raison instrumentale », une « cristallisation » qui aurait indubitablement ramené au pouvoir une nouvelle idéologie forte et autoritaire, Habermas s’ingéniera à théoriser une « praxis de la discussion permanente » (s’opposant en cela à Carl Schmitt qui, disciple de l’Espagnol Donoso Cortès, abominait la discussion et la « classe discutailleuse » au bénéfice des vrais décideurs, seuls aptes à maintenir le politique en place, les Etats et les empires en bon ordre de fonctionnement). La discussion et cette culture du débat permanent devaient justement empêcher les décisions trop tranchées amenant aux « cristallisations ». Les évolutions politiques devaient se dérouler lentement dans le temps, sans brusqueries ni hâtes même quand les décisions claires et nettes s’avéraient nécessaires, vu l’urgence, l’ Ernstfall. Cette posture habermasienne ne plaisait pas à tous les hommes de gauche, surtout aux communistes durs et purs, aux activistes directs : sa théorie a parfois été décrite comme l’incarnation du « défaitisme postfasciste », inaugurant, dans l’après-guerre, une « philosophie de la désorientation et des longs palabres ». Habermas est ainsi devenu le philosophe déréalisé le plus emblématique d’Europe. En 1990, il déplore la réunification allemande car celle-ci « met en danger la société multiculturelle et l’unité européenne qui étaient toutes deux depuis quelque temps déjà en voie de réalisation ». La seule alternative, pour Habermas, c’est de remplacer l’appartenance nationale des peuples par un « patriotisme constitutionnel », préférable, selon lui, « aux béquilles prépolitiques que sont la nationalité (charnelle) et l’idée de la communauté de destin » (Habermas s’attaque là aux deux conceptions que l’on trouve en Allemagne : l’idéal nationalitaire de romantique mémoire et l’idéal prussien a-national de participation à la vie et à la défense d’un type particulier d’Etat, à connotations spartiates). Le « patriotisme constitutionnel » est-il dès lors un antidote à la guerre, à ces guerres qu’ont déclenché les patriotismes appuyés sur les deux « béquilles » dénoncées par Habermas, soit l’idéal nationalitaire et l’idéal prussien ? En principe, oui ; en pratique, non, car en 1999 quand l’OTAN attaque la Serbie sous prétexte qu’elle oppresse la minorité albanaise du Kosovo, Habermas bénit l’opération en la qualifiant « de bond en avant sur la voie qui mène du droit des gens classique au droit cosmopolite d’une société mondiale de citoyens ». Et il ajoutait : « les voisins démocratiques (c’est-à-dire ceux qui avaient fait leur l’idée de « patriotisme constitutionnel ») ont le droit de passer à l’action pour apporter une aide de première nécessité, légitimée par le droit des gens ». Contradiction : le « constitutionalisme globaliste de l’OTAN » a sanctifié un réflexe identitaire ethno-national, celui des Albanais du Kosovo, contre le réflexe ethno-national des Serbes. L’OTAN, avec la bénédiction d’Habermas, a paradoxalement agi pour restaurer l’une des béquilles que ce dernier a toujours voulu éradiquer. Tout en pariant sur un élément musulman, étranger à l’Europe, importation turque dans les Balkans, au détriment de l’albanité catholique et orthodoxe, avant de l’être pour la « serbicité » slave et orthodoxe. Le tout pour permettre à l’US Army de se faire octroyer par le nouvel Etat kosovar la plus formidable base terrestre en Europe, Camp Bondsteele, destiné à remplacer les bases allemandes évacuées progressivement depuis la réunification. Camp Bondsteele sert à asseoir une présence militaire dans les Balkans, tremplin pour le contrôle de la Mer Noire, de la Méditerranée orientale et de l’Anatolie turque. Ces déclarations d’Habermas vieillissant ressemblent étrangement à l’agitation de ces chiens qui tentent de se manger la queue. 

 

L’itinéraire d’Habermas débouche donc sur une aporie. Voire sur d’inexplicables contradictions : le « patriotisme constitutionnel », destiné à ouvrir une ère de paix universelle (déjà rêvée par Kant), aboutit en fin de compte à une apologie des « guerres justes » qui, autre oxymoron, promeuvent parfois de bons vieux nationalismes ethniques.

 

Conclusion : L’Ecole de Francfort est une instance qu’il faut étudier avec le regard de l’historien, pour pouvoir comprendre les errements de notre époque, les déraillements de ces deux dernières décennies où, justement, les soixante-huitards marqués par le corpus philosophico-sociologique de cette école, ont tenu le pouvoir entre leurs mains dans la plupart des pays occidentaux. Pour les amener à un bel éventail d’impasses et, plus récemment avec les expéditions en Afghanistan et en Irak (guerres justes selon Habermas), à un certain hybris, tandis que plusieurs puissances chalengeuses, dont la Chine, non contaminée par le fatras francfortiste et guérie des élucubrations de la révolution culturelle maoïste, entamaient une marche en avant. L’Europe doit se débarrasser du « pandémonium » pour pouvoir redresser la barre et, plus prosaïquement, survivre sur le long terme. On ne se débarrasse pas des vieux corpus classiques : ils sont irremplaçables. Toute tentative de les balancer par-dessus bord pour les remplacer par des constructions inventées et bricolées par des sociologues irréalistes conduit aux impasses, aux apories et aux bouffonneries.

 

Robert STEUCKERS.

(novembre 2008)     

 

Notes :

 

(1)    On ne se rend jamais assez compte que le terme « tolérance » a subrepticement changé de sens au fil de ces dernières décennies. Au départ, la tolérance signifiait que l’on tolérait l’existence d’un fait que, sur le fond et sur le plan des principes, l’on condamnait (on condamnait le protestantisme mais on le tolérait par l’Edit de Nantes, édit de tolérance). On tolérait certains faits parce qu’on n’avait pas les moyens matériels de les combattre et de les éradiquer. Ainsi, la prostitution, condamnée sur le fond, était tolérée comme exutoire social. On parlait dans ce sens de « maisons de tolérance » pour désigner les bordels. Quand nous demandions, déjà dans le sens actuel du mot, à nos professeurs d’être « tolérants », ils nous répondaient invariablement : « La tolérance, mon petit monsieur ? Mais il y a des maisons pour cela ! ». Aujourd’hui, le terme « tolérant » signifie accepter le fait dans ses dimensions factuelles (et inévitables) comme sur le plan des principes.

 

(2)    Les « Founding Fathers », qui sont des « pères » comme leur nom l’indique, retrouveront rapidement les réflexes de l’autorité patriarcale, dictée par la Bible juive. La parcimonie, vertu puritaine par excellence et pratiquée jusqu’à la caricature, deviendra un modèle de l’américanisme, qu’Adorno cherchera à déconstruire au même titre que le fascisme allemand, pour faire advenir une humanité atomisée, disloquée par la libération sexuelle qui dissoudra son noyau familial de base, une humanité atomisée prônée par Marcuse, Fromm et Reich, pour faire advenir le règne des individualités plus ou moins originales et farfelues, déconnectées et ahuries par les médias, mais toutes clientes dans les chaines de supermarchés.

 

Bibliographie :

Theodor W. ADORNO, Studien zum autoritären Charakter, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1973.

Max HORKHEIMER /  Theodor W. ADORNO, Dialektik der Aufklärung, Fischer, Frankfurt am Main, 1969.

Max HORKHEIMER, Traditionnelle und kritische Theorie – Vier Aufsätze, Fischer, Frankfurt am Main, 1968.

Max HORKHEIMER, Zur Kritik der instrumentellen Vernunft, Athenäuml/Fischer, Frankfurt am Main, 1974.

Rolf KOSIEK, Die Frankfurter Schule und ihre zersetzenden Auswirkungen, Hohenrain, Tübingen, 2001.

mercredi, 05 janvier 2011

Julien Freund devant l'ennemi

ARCHIVES – 1980

 

Jean-François GAUTIER :

Julien Freund devant l’ennemi

 

« Pas de politique sans ennemi », dit le Prof. Julien Freund. Il analyse la décadence de l’Europe : ennemie d’elle-même, elle s’oppose aux valeurs qui l’ont forgée.

 

freund.jpg« Un âge historique, celui de la Renaissance, est en train de se désagréger. L’Europe est désormais impuissante à assumer le destin qui fut le sien durant des siècles. Nous assistons à la fin de la première civilisation de caractère universel que le monde ait connu ».

 

Sous le titre « La fin de la Renaissance », M. Julien Freund vient de publier un livre qu’il aurait pu tout aussi bien intituler « La décadence européenne ». L’expression revient souvent sous sa plume au fil des pages. Mais cet ancien professeur de la faculté de Strasbourg ne prêche pas le désarroi. Son livre ne veut être qu’un constat. Il est aussi un plaidoyer pour le « vieil esprit » européen.

 

Cheveux blancs coiffés en brosse, lunettes d’écaille, lèvres fines et large sourire, M. Freund est l’un des maîtres de la philosophie politique en Europe. Bien loin des modes de l’intelligentsia marxiste. Dans le restaurant des grands boulevards où je le rencontre, il dénombre en riant les éditeurs qui ont refusé son livre. Théoricien de la politique, il ne s’étonne pas d’avoir quelques ennemis.

 

C’est une notion capitale, me dit-il. Sans le sens de l’ennemi, il n’y a plus d’amis, plus d’alliances, et plus de politique.

 

La carrière de M. Freund a commencé bien loin des bibliothèques universitaires. Socialisant, il avait rejoint dès janvier 1941 le réseau « Libération ». Quelques mois d’opérations et c’est l’emprisonnement pour deux ans.

 

Une expérience extraordinaire m’assure-t-il. Dans la cellule de droite, Emmanuel Mounier, abîmé en prières, récitait son rosaire. A gauche, Jean Nocher rimait des poèmes érotiques sur Paname. Et moi, au milieu, je relisais Spinoza.

 

      Quels étaient les contacts avec le « personnaliste » Mounier ?

 

 Très réduits. Il aimait les discussions sérieuses mais il manquait de rigueur. Je lui ai demandé un jour des précisions sur ses idées en économie. La réponse a été nébuleuse, il m’a avoué qu’il en parlait parce qu’il fallait en parler.

 

A la Libération, M.  Freund est conseiller municipal de Sarrebourg, secrétaire départemental de l’UDSR, rédacteur de L’Avenir lorrain et professeur de lycée. En 1947, il abandonne du jour au lendemain toute activité politique.

 

La déception de la IV° République a été immense, explique-t-il. En prison, je rêvais une politique. Je me suis rendu compte qu’elle était inapplicable. Il fallait penser autre chose.

 

Après l’agrégation de philosophie, en 1949, M. Freund commence une thèse sur les problèmes politiques. Il emprunte une pile de livres à l’université de Strasbourg. Parmi  ceux-ci, La notion du politique du théoricien allemand Carl Schmitt.

 

Un ouvrage sidérant, dit le Prof. Freund (il en préfacera vingt-deux ans plus tard la traduction française chez Calmann-Lévy). Ce fut une révolution, un enthousiasme extraordinaire.

 

Trente ans après, il revit encore son « illumination » d’étudiant. Comme Descartes découvrant son « cogito », il avait trouvé l’idée maîtresse de sa pensée dans la distinction de l’ami et de l’ennemi que Schmitt met à la base de toute politique.

 

Il oublie la salle de restaurant où nous nous trouvons, précise tel aspect de sa pensée, s’aide d’un geste rapide, comme s’il saisissait une idée dans l’air.

 

Je n’avais en tête que « l’adversaire », celui que l’on souhaite toujours récupérer. Schmitt m’apprenait que toute l’impuissance de la politique résidait là.

 

      A qui en avez-vous parlé ?

 

A Paul Ricoeur, le futur doyen de Nanterre, qui enseignait alors à Strasbourg. Je croyais que Schmitt était mort. Ricoeur m’a dit : « Il vit toujours en Allemagne et c’était un nazi ». Ce fut une douche glacée.

 

Comment le résistant socialiste pouvait-il retrouver sa propre pensée dans celle de son ennemi ? M. Freund a lu et relu l’ouvrage, « quarante fois en neuf ans », précise-t-il. En 1959, il écrit à Carl Schmitt, le rencontre à Colmar et devient son ami. Dans sa préface à La notion du politique, il notera plus tard : « On a pris l’habitude de juger son œuvre non pour elle-même mais d’après les fautes que l’on impute à l’homme (…). Parce que la sottise est très répandue, même en milieu intellectuel ».

 

La thèse de M. Freund a elle-même dérangé dans l’Université, à cause de l’un de ses présupposés fondamentaux : « Pas de politique sans ennemi ». Son premier directeur de travaux, Jean Hippolyte, spécialiste de Hegel et l’un des maîtres de la Sorbonne, refusa au nom du pacifisme de présider un jury de thèse sur un tel sujet. M. Freund trouva alors en Raymond Aron un nouveau « patron ».

 

En 1965, peu avant la soutenance, Aron me demanda si Hippolyte ne pouvait pas faire partie du jury. J’ai bien entendu accepté, en précisant qu’il n’était pas mauvais  d’avoir son ennemi en face de soi. Je crois qu’Aron l’a interprété comme une idée fixe.

 

      La réaction d’Hippolyte ?

 

Il est venu. Il a reconnu en pleine Sorbonne s’être trompé dans son premier jugement sur mon travail. Il a ajouté que, si j’avais eu raison dans mes conclusions sur la nature du politique, il ne lui restait plus qu’à cultiver son jardin.

 

      C’était honnête de sa part.

 

Je lui ai surtout répondu qu’il avait commis deux erreurs. La première, il l’avait reconnue. La seconde était de croire que la bienveillance supprime l’ennemi. Erreur grave, car vous pouvez manifester toute l’amitié que vous voudrez, ce n’est pas vous qui désignez l’ennemi, c’est lui qui vous désigne. Et il vous empêchera de cultiver votre jardin.

 

Hippolyte répondit : « Dans ce cas, il ne me reste que le suicide ».

 

Réponse typique d’un intellectuel pacifiste, commente M. Freund. Il préférait s’anéantir plutôt que de reconnaître la réalité.

 

M. Freund retrouve là l’un des thèmes de La fin de la Renaissance. Pour lui, la décadence de l’Europe a partie liée avec la haine de soi-même dont l’Occident fait preuve  dans ses relations complexées avec le tiers monde ; et au reniement de sa puissance, qui est le moteur de la diplomatie européenne.

 

M. Valéry Giscard d’Estaing souhaite, dans sa préface au livre de son ami Samuel Pisar (Transactions entre l’Est et l’Ouest, Dunod), « la mise en œuvre concrète de la coexistence sous la forme la plus pratique des relations humaines : le commerce ». Il ajoute, pour s’en féliciter : « La grandeur des relations commerciales est qu’il n’y a ni succès ni défaite ».

 

Giscard croit que le dialogue avec Brejnev suffit, me dit le Prof. Freund. Il n’a pas compris ce qu’est un ennemi. La politique n’est pas un problème de concordances de vues. Son enjeu  est vital au sens exact du terme : c’est votre vie  que l’ennemi menace.

 

      Qui le dit en Europe ?

 

Pas grand monde. Contrairement à ce que l’on croit, l’intellectualisation des problèmes est une forme de la décadence européenne. Elle perd tout sens de la stratégie, de la tactique sur le terrain. De Gaulle possédait ce sens-là, Adenauer aussi. Helmut Schmidt, que je connais bien, l’avait aussi. Mais Giscard l’a convaincu. Sans lui, il ne serait jamais allé à Moscou.

 

      Vous n’avez plus d’admirations politiques ?

 

Personne depuis De Gaulle. Mais Teng Hsiao-ping  m’impressionne. Le procès avec la veuve de Mao est un bouleversement. Teng a le sens du risque, et surtout des conséquences du risque. Avec un tel goût de l’aventure, il peut faire quelque chose.

 

La femme du dieu vivant au banc des accusés, Confucius réhabilité, tels seraient les leviers de M. Teng pour rouvrir l’aventure chinoise. Un passé limité aux péripéties du dieu vivant Mao, la Longue Marche s’épuisant depuis la révolution culturelle, il fallait faire remonter la mémoire en deçà pour débloquer l’avenir. M. Teng  pense-t-il à tout cela ? M. Freund ne prend pas le temps de détailler ses intuitions sur la stratégie chinoise.  

 

L’Europe, poursuit-il, c’était cela. Une manière de parier sur l’avenir sans rechercher d’abord un « consensus ». C’était aussi la ruse, une vertu maintenant discréditée. On la confond avec la perfidie, la bassesse ou la laideur morale. Mais que vous donne votre ennemi, si ce n’est l’intelligence de la ruse ? Sans elle, vous perdez.

 

M. Freund me dit avoir eu Tocqueville devant les yeux en écrivant son dernier livre et, à un moindre degré, Spengler. Il cite aussi Machiavel. Méditations sur les anciens ?

 

      Elle est indispensable, répond-il.

 

Les enseignants s’imaginent que de débrider l’imagination des enfants suffit à leur former l’intelligence. Ils oublient la mémoire, sans laquelle il n’y a plus ni passé ni avenir. Rappelez-vous Nietzsche : « L’avenir appartient à celui qui a la plus longue mémoire ». Tout cela commence avec l’histoire, la littérature, la récitation. Apprendre La Fontaine, c’est l’embryon de la mémoire nietzschéenne.

 

      Le terme « conservateur » est décrié. Vous le revendiquez ?

 

Conservateur, réactionnaire, tout ce que vous voulez. On me le dit parfois en forme d’insulte. L’important, Descartes l’a vu dans sa IV° méditation : dans toute création, il y a un phénomène de conservation. L’application pratique est évidente : celui qui est incapable de conserver ne crée plus rien.

 

      La leçon est-elle valable pour l’Europe ?

 

Plus que jamais. L’intelligentsia a perdu le sens de la méditation, de la pensée qui revient sur elle-même pour se reprendre. S’il y a encore des chances pour l’Europe, il faut d’abord les discerner selon le vieil esprit de la Renaissance. Notre histoire est celle de la conquête d’un espace. L’Europe ne peut pas se contrôler si elle ne contrôle d’abord son espace.

 

      Avec l’aide d’une couverture américaine ?

 

Là, il faut être précis. Les Russes ont hérité de l’esprit européen de la Renaissance. Ils ont le sentiment d’une aventure illimitée devant eux. A terme, cela signifie qu’ils veulent nous contrôler. Si nous n’avons pas les moyens de nous défendre seuls, une alliance est nécessaire.

 

      N’est-ce pas une dépendance ?

 

L’alliance n’est pas une subordination. Elle le devient si, en défendant l’Europe, nous nous donnons un rôle de couverture des avant-postes américains. Ce n’est pas le cas puisqu’il s’agit de « notre »  espace. Kissinger l’avait compris. Il avait une conception européenne des problèmes stratégiques. A cause de cela, les Européens étaient furieux contre lui. Alors qu’il a appris l’essentiel du Général De Gaulle.

 

Dehors, lorsque je quitte le Prof. Freund, il remet son béret, devenu un autre lui-même « depuis le jour où il a été interdit par les Allemands ». Il y a du collégien provocateur chez cet homme rieur et affable. Et une  terrible lucidité. Dans son livre, il est une question à laquelle il ne répond pas : « Les Européens, demande-t-il, seraient-ils capables de mener une guerre ? ».

 

Jean-François GAUTIER.

(ex : « Valeurs actuelles », 22 décembre 1980).

 

mardi, 04 janvier 2011

Essenza della filosofia e coscienza della sua storicità nel pensiero di Wilhelm Dilthey

Essenza della filosofia e coscienza della sua storicità nel pensiero di Wilhelm Dilthey

Francesco Lamendola

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

 

Sarebbe difficile sopravalutare l’importanza del padre dello storicismo, Wilhelm Dilthey, nel panorama della filosofia del Novecento. Il suo influsso, diretto o indiretto, si propaga in almeno quattro direzioni principali: quella dello storicismo tedesco, i cui massimi esponenti sono stati Ernst Troeltsch e Friedrich Meinecke; quella della sociologia, rappresentata da Max Weber e Karl Mannheim; quella della fenomenologia, con Edmund Husserl e Max Scheler; e infine quella dell’esistenzialismo, con Martin Heidegger e Karl Jaspers.

Nato a Biebrich, in Renania, nel 1833, e morto a Siusi, presso Bolzano, nel 1911, fu docente a Basilea, Kiel e Breslavia, prima di occupare, per quasi un trentennio (dal 1882 alla morte) la cattedra all’Università di Berlino che era già stata, prima di lui, di Rudolph Hermann Lotze e, prima ancora, di G. F. W. Hegel. Nella sua lunga e operosa attività di ricerca e di insegnamento (formò pensatori come Georg Misch e Bernard Groethuysen) fu uno dei massimi rappresentanti di quel prodigioso rigoglio intellettuale che caratterizzò il mondo di lingua tedesca negli ultimi decenni dell’Ottocento e agli inizi del Novecento; quel periodo che, più tardi, gli storici hanno chiamato della belle époque, ma di cui gli Europei del tempo, come osserva giustamente Philippe Daverio, non avevano consapevolezza, perché “bella” sarebbe apparsa poi, nella nostalgia del ricordo: dopo i massacri insensati della prima guerra mondiale.

Le sue opere maggiori sono: Introduzione alle scienze dello spirito (1883); Idee di una psicologia descrittiva e analitica (1894); Storia della giovinezza di Hegel (1905); L’esperienza sensibile e la poesia (1905); L’essenza della filosofia (1907); La costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito (1910); L’analisi dell’uomo e l’intuizione della natura dal Rinascimento al secolo XVIII, una raccolta di studi pubblicati fra il 1891 e il 1904.

Con Wilhelm Dilthey, la filosofia si stacca decisamente sia dalla categorizzazione astratta di stampo idealista, sia dall’ingenuo e ottimistico razionalismo positivista, per tornare verso la vita, verso i suoi fatti concreti e immediati, verso la centralità dell’esperienza. La parola chiave della filosofia di Dilthey, infatti, è proprio l’Erlebnis, che si può tradurre con “esperienza”, “vissuto” o “esperienza vissuta”. L’Erlebnis è un’esperienza interiore, che consente all’individuo di conoscere gli oggetti e gli eventi storici, secondo una esplicita finalità. Non si tratta, comunque, di un atto conoscitivo isolato e, per così dire, frammentario; bensì di una componente della vita psichica individuale che rimanda alla totalità, collegandosi organicamente con tutti gli altri atti e gli altri vissuti, in un rapporto di tipo dinamico.

Non intendiamo esporre qui le linee dettagliate del pensiero diltheyano, cosa che richiederebbe uno spazio molto più ampio; ci limiteremo a una sintesi estremamente rapida, per poi focalizzare la nostra attenzione sull’ultima fase di esso, quella esposta nel libro L’essenza della filosofia, in cui si insiste sulla coscienza della propria storicità che la filosofia matura nel corso degli ultimi secoli della storia occidentale, particolarmente dal Rinascimento e dalla Riforma in poi.

Il pensiero di Dilthey prende le mosse da una critica al movimento neocriticista, che tende a concepire l’uomo come un essere pensante, isolato e avulso da ogni contesto. Già in Kant, massimo esponente dell’illuminismo, tali aspetti erano presenti e sottesi a tutta la sua concezione antropologica. Ma, per Dilthey, l’uomo non è affatto isolato, è anzi l’essere storico per eccellenza; e la sua interiorità non si risolve nella sola dimensione razionale, poiché volontà e sentimento sono le sue caratteristiche concrete più importanti; mentre la ragione è la facoltà che, essendo universale, accomuna gli uomini in una generalità astratta.

In questo senso, la battaglia di Dilthey a favore di una fondazione rigorosa delle «scienze dello spirito» è, in fondo, una battaglia neoromantica per valorizzare quanto, nell’essere umano, è individuale e irripetibile, oltre che una battaglia anti-positivistica per affermare, di contro alle tanto esaltate «scienze della natura», la superiorità del fatto umano, colto nella sua concretezza esperienziale; e qui una analogia può essere fatta in direzione dell’illustre precedente di Giambattista Vico, ma anche con il Bruno degli heroici furori (e al Bruno, infatti, sono dedicate alcune delle pagine più belle del già citato L’analisi dell’uomo e l’intuizione della natura dal Rinascimento al secolo XVIII).

Il compito della filosofia, per Dilthey, non è quello di costruire metafisiche, ma di comprendere i vari momenti storici attraverso i quali l’uomo è giunto a realizzarsi; e, al tempo stesso, di cogliere i sottili ma numerosi e vitali legami che collegano il singolo individuo con la sua società e il suo tempo. In questo senso, la sua filosofia può essere anche definita come una sorta di relativismo storico, perché intende storicizzare ogni prodotto del pensiero e ogni attività pratica, mostrando il legame necessario che esiste fra l’uomo e il suo tempo, fra la parte e il tutto; e quanto le concrete condizioni storiche abbiano influenzato le manifestazioni individuali del pensiero.

Ecco come Dilthey, nello scritto Nuovi studi sulla costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito, compreso nella Critica della ragione storica (traduzione italiana Einaudi, Torino, 1982, pp. 383-384), chiarisce con esemplare limpidezza questo concetto:

La coscienza storica della finitudine di ogni fenomeno storico, di ogni situazione umana e sociale, la coscienza della relatività di ogni forma di fede è l’ultimo passo verso la liberazione dell’uomo. Con esso l’uomo perviene alla sovranità di attribuire a ogni Erlebnis il suo contenuto e di darsi a esso completamente, con franchezza, senza il vincolo di nessun sistema filosofico o religioso. La vita si libera dalla conoscenza concettuale, e lo spirito diventa sovrano dinanzi alle ragnatele del pensiero dogmatico. Ogni bellezza, ogni santità, ogni sacrificio, rivissuti e interpretati, schiudono delle prospettive che rivelano una realtà. E così pure attribuiamo a tutto ciò che c’è di malvagio, di temibile e di brutto in noi, un posto nel mondo, una realtà sua propria, che deve essere giustificata nella connessione del mondo: qualcosa su cui non ci si può illudere. E di fronte alla relatività si fa valere la continuità della forza creatrice come l’elemento storico essenziale.

Così dall’Erleben, dall’intendere, dalla poesia e dalla storia deriva un’intuizione della vita, la quale esiste sempre in e con questa. La riflessione la eleva a distinzione e a chiarezza concettuale. La considerazione teleologica del mondo e della vita viene riconosciuta come una metafisica che poggia su una visione unilaterale, non arbitraria cioè ma parziale della vita, e la dottrina di un valore oggettivo della vita come una metafisica che va oltre ogni possibile esperienza. Ma noi abbiamo esperienza di una connessione della vita e della storia, in cui ogni parte ha un significato. Come le lettere di una parola, la vita e la storia hanno un senso, e come una particella o una coniugazione, nella vita e nella storia vi sono momenti sintattici che hanno un significato. Ogni uomo procede alla sua ricerca. Nel passato si è cercato di penetrare la vita in base al mondo; ma c’è solo la via che procede dall’interpretazione della vita al mondo, e la vita esiste solo nell’Erleben, nell’intendere e nella comprensione storica. Noi non rechiamo nella vita nessun senso del mondo. Noi siamo aperti alla possibilità che il senso e il significato sorgano soltanto nell’uomo e nella sua storia. Ma non nell’uomo singolo, bensì nell’uomo storico. Poiché l’uomo è un essere storico…

In altri termini, se nelle scienze naturali il rigore del metodo consiste nella rigida separazione di soggetto e oggetto, il mondo della storia vive nella ripresa operata dal soggetto storico, operazione che è resa possibile – come bene aveva visto il Vico – nella essenziale unità di soggetto e oggetto, in quella unità della vita che scaturisce dall’Erlebnis, l’esperienza del mondo vissuta direttamente dall’individuo, in tutta la complessità e la ricchezza di quella data situazione storica. In questo senso, anti-intelletualismo, storicismo e vitalismo sono i poli di una filosofia della vita vissuta, che si sforza di comprendere in sé, valorizzandoli al massimo, ogni atto, ogni pensiero, ogni esperienza come fili di una vastissima tela che abbraccia l’intero mondo della realtà storica.

Riassumendo, pertanto, possiamo dire che la filosofia di Dilthey poggia sui seguenti aspetti fondamentali:

1) la valorizzazione dell’individuo, contro ogni generalizzazione di tipo idealistico (facendo sue, ma con diversi presupposti e diverse prospettive, le “rivolte” antihegeliane di Schopnehauer, Kierkegaard e Nietzsche);

2) la centralità della nozione di “esperienza”, contro ogni astrattezza metafisica; riabilitando la dimensione a-razionale dell’uomo e le sue connessioni con le diverse forme del conoscere e del sapere;

3) la volontà di tradurre il mondo “soggettivo” della storia nei termini, scientifici e “oggettivi”, di un vero e proprio sistema di scienze dello spirito;

4) la centralità delle categoria del comprendere (diversa da quella dello spiegare), come elemento indispensabile per la conoscenza dell’oggetto storico da parte del soggetto.

Circa quest’ultimo punto, ci sembra opportuno riportare quanto scrive Sergio Moravia in Educazione e pensiero (Le Monnier, Firenze, 1983, vol. 3, p. 275):

Vertice ed emblema stesso della gnoseologia diltheyana è il principio del «comprendere» (Verstehen), un concetto destinato ad alimentare importanti dibattiti epistemologici anche in anni a noi vicini. In linea generale, il comprendere consiste nell’assunzione di un certo atteggiamento nei confronti della vita, e ciò mediante “sue” categorie «che sono estranee alla conoscenza naturale come tale». Solo grazie al comprendere il soggetto si innalza e distanzia dalla troppo immediata dimensione esistenziale dell’Erleben. Per quanto produca anch’esso un determinato tipo di conoscenza, il comprendere non ha nulla a che fare con lo spiegare: mentre questo tende all’analisi dei fenomeni oggettivi in quanto tali e all’enucleazione delle leggi generali che li governano, quello si sofferma e si applica sull’individuo, sul soggettivo e su tutto ciò che eccede dai quadri oggettivo-nomologici dello spiegare.

La categoria dello spiegare (in tedesco: Erklären), infatti, è la modalità conoscitiva tipica delle scienze della natura, la quale non modifica l’essenza dell’oggetto conosciuto, non genera valori né realizza scopi di sorta. Al contrario, il comprendere (Verstehen) è la modalità conoscitiva tipica dello spirito, nella quale l’atto del conoscere non è diverso da ciò che viene conosciuto, e, inoltre, l’oggetto viene modificato dal comprendere stesso, che si serve delle categorie del fine e del valore e ne crea il significato per l’individuo storico (cfr. Francesco Donadio, voce Dilthey nella Enciclopedia della Filosofia e delle scienze umane, Istituto Geografico De Agostini, Novara, 1996, pp. 219-220).

Per Dilthey, il mondo non può essere veramente compreso nel modo indicato da Hegel, né alla luce dell’immagine iper-razionalistica dell’uomo postulata da Kant. Le tre componenti dell’uomo diltheyano, che è una essere integralmente storico, sono la ragione, il senso e l’intuito.

D’altra parte, specialmente nell’ultima fase del suo percorso speculativo, Dilthey si rese conto che, se il linguaggio e i concetti portano con sé i caratteri della storicità, allora essi non possono essere universali e non possono dare accesso a una verità definitiva. Sentimenti, valori, scienza e verità non sarebbero, dunque, che prodotti dell’evoluzione storica della società, destinati a mutare continuamente nel tempo?

Il filosofo tedesco si rese conto, specie nelle sue ultime opere, che lo spettro del relativismo veniva, così, ad incombere minaccioso sulla intera costruzione del suo pensiero; relativismo che, in seguito, sarebbe stato portato molto più innanzi da Heidegger e, soprattutto, da Feyerabend (cfr. il nostro recentissimo saggio: L’«anarchismo metodologico » di Feyerabend per spezzare la funesta alleanza tra stato e scienza, consultabile sul sito di Arianna Editrice).

Dilthey, comunque, si era reso conto del pericolo e aveva tentato di superare la minaccia del relativismo, che incombeva sulla sua filosofia, proponendo da un lato una “accettazione integrale della vita”, con tutta la sua relatività ineliminabile; dall’altro riconoscendo all’uomo la sola capacità di costituire sensi di natura storica, adeguati alle sue necessità e non eccedenti la misura della sua finitudine.

Questa problematica è specificamente trattata dal filosofo tedesco nel suo libro L’essenza della filosofia (titolo originale: Das Wesen der Philosophie, 1907; traduzione di Giancarlo Penati, Editrice La Scuola, Brescia, 1971, pp. 149-154), nel cui capitolo conclusivo si esprime in questi termini:

La filosofia si manifestò come un’implicanza di funzioni molto diverse che vengono connesse tramite la prospettiva unitaria con un vincolo normativo nell’essenza della filosofia. Una funzione si riferisce sempre a un complesso totale teleologico e descrive un ambito di utilizzazioni attinenti ad esso, che vengono portate a compimento all’interno di questa totalità. Il concetto non è assunto analogicamente dalla vita organica, né indica una facoltà od un potere originario: le funzioni della filosofia si riportano alla struttura teleologica del soggetto filosofante e a quella della società: nell’esplicarle la persona agisce su di sé e insieme al di fuori e in ciò esse sono affini a quelle della religione e della poesia. Così la filosofia è un’attività che sgorga dal bisogno del singolo spirito di riflettere sul suo agire, di dar forma e saldezza al suo operare, di consolidare il suo rapporto con il tutto della società umana, e contemporaneamente essa è una funzione fondata sulla struttura della società e perseguibile per la perfezione della vita stessa: pertanto una funzione che ha luogo similmente in molti uomini e li lega in un tutto sociale e storico. In quest’ultimo senso è un sistema di cultura, poiché le note distintive di questo sono l’eguaglianza della funzione in ogni individuo che appartiene al sistema di cultura e la comunicazione reciproca degli individui in cui ha luogo questa funzione. Questa comunanza prende forme ben definite, che costituiscono le organizzazioni del sistema di cultura. Al di sotto di tutte le connessioni teleologiche arte e filosofia legano gli individui fra loro in modo minimo, poiché la funzione esplicata dall’artista e dal filosofo non é condizionata da alcuna speciale articolazione di vita: la loro religione è quella della massima libertà spirituale. Ed anche quando l’appartenenza del filosofo alle organizzazioni universitarie ed accademiche incrementa la sua funzione sociale, il suo elemento vitale è e rimane la libertà del pensiero, che non deve in alcun modo essere intralciata e dalla quale dipendono non soltanto il suo carattere filosofico, ma anche la fiducia nella sua incondizionata sincerità e con ciò la sua efficacia.

La proprietà più generale che si estende a tutte le funzioni della filosofia è fondata sulla natura della conoscenza oggettiva e del pensiero concettuale. Così considerata la filosofia si presenta semplicemente come il pensiero più conseguente, più solido e comprensivo, e non è distinta dalla coscienza empirica da alcun limite fisso. Deriva dalla forma del pensiero concettuale che il giudicare si avanzi alle più alte generalizzazioni, alla formazione e divisione dei concetti e sino da una loro architettonica che ha per vetta più alta la relazione a un complesso totale onnicomprensivo e la fondazione in un principio ultimo. In questa sua opera il pensiero si riferisce all’oggetto comune di tutti gli atti di pensiero delle varie individualità, all’insieme totale dell’esperienza sensibile, in cui la molteplicità delle cose si ordina spazialmente e la varietà delle loro mutazioni e dislocazioni si dispone temporalmente. A questo mondo sono ordinati tutti i sentimenti e le azioni volontarie tramite la determinazione locale della materia corporea loro attinente e le parti rappresentative in essi implicate. A tal mondo sono organicamente connessi tutti i valori, fini, beni posti in questi sentimenti o azioni volontarie; la vita umana è coinvolta in esso. Ed in quanto aspira ad esprimere e a collegare l’intero contenuto di intuizioni, eventi vissuti, valori, fini come è vissuto e dato nella coscienza empirica all’esperienza e alle scienze empiriche, esso avanza dalla concatenazione delle cose e dai mutamenti nel mondo sino al concetto del mondo, e lo va fondando retrospettivamente in un principio del mondo, in una sua causa prima, cerca di determinare valore, senso e significato del mondo e si interroga circa un suo fine. Ovunque questo processo di universalizzazione, di ordinamento rispetto al tutto, di autofondazione, portato innanzi dal moto del sapere, sganciato dal bisogno particolare, dall’interesse limitato, si tramuta in filosofia. E dovunque il soggetto, riferendosi nel suo operare al mondo, si elevi nello stesso senso alla riflessione sopra questo suo operare, questa riflessione è filosofica. La proprietà fondamentale in tutte le funzioni della filosofia è pertanto il moto dello spirito oltrepassante il vincolo con l’interesse determinato, finito, limitato e aspirante a indirizzare ogni teoria sorta da un bisogno limitato ad un’idea definitiva. Questo moto di pensiero è fondato in un suo proprio insieme di regole, risponde a bisogni propri della natura umana, che a mala pena permettono un’analisi sicura, cioè alla gioia del sapere, al bisogno di una fissazione ultima del posto dell’uomo nel mondo, all’aspirazione di superare il vincolo della vita alle condizioni che la limita. Ogni atteggiamento psichico è in cerca di un punto fermo, al riparo dalla relatività.

Questa funzione generale della filosofia si estrinseca sotto le varie condizioni della vita storica in tutte quelle sue utilizzazioni che abbiamo passato in rassegna. Particolari funzioni di notevole importanza prendono rilievo dalle varie condizioni della vita: la formazione della Weltanschauung in modo universalmente valido, l’autoriflessione del sapere su di sé, la connessione delle teorie che si formano nei vari complessi finalisticamente ordinati, sino al complesso di tutto il sapere, uno spirito critico che pervade tutta la cultura, e conduce al collegamento universale ed alla sua fondazione. Queste si manifestano come funzioni particolari fondate nell’essenza unitaria della filosofia; essa si attaglia infatti ad ogni posizione nello sviluppo della cultura e a tutte le condizioni delle sue tappe storiche. In tal modo si spiega la costante differenziazione delle utilizzazioni filosofiche, la flessibilità e mobilità con cui subito essa si esplica nella gamma dei sistemi, subito fa valere la sua intera forza su di un particolare problema e applica l’efficacia del suo lavoro a sempre nuovi compiti.

Giungiamo così al limite in cui dalla rappresentazione dell’essenza della filosofia viene retrospettivamente chiarita la sua storia e anticipata la spiegazione della sua complessità sistematica. La sua storia verrebbe compresa, se fosse formulabile dall’insieme delle sue funzioni l’ordine in cui, secondo le condizioni della cultura, si presentano i problemi uno accanto all’altro e uno dopo l’altro, e vengono considerate le possibilità della loro soluzione; se si tratteggiasse la riflessione progressiva del sapere su di sé nelle sue tappe principali; se la storia seguisse il modo in cui le teorie nate nelle connessioni finalistiche della cultura vengono riferite al complesso totale del conoscere tramite lo spirito filosofico che le unisce, e così pure ampliate, il modo in cui la filosofia foggia nuove discipline nel campo delle scienze dello spirito e le assegna all’opera delle scienze particolari. E se essa mostrasse in qual modo dalle posizioni coscienziali di un’epoca e dal carattere delle nazioni si possa scorgere il particolare schema strutturale che assumono le Weltanschauungen filosofiche, ed insieme pure il costante progresso dei grandi tipi di esse.

La storia della filosofia lascia al lavoro filosofico sistematico la soluzione dei tre problemi della fondazione, giustificazione e sistemazione unitaria delle scienze particolari ed il compito di soddisfare al bisogno, non riducibile al silenzio, di un’ultima riflessione circa essere, fondamento, valore, fine e circa il loro collegarsi nella Weltanschauung, come pure di determinare in quale forma e direzione questo soddisfacimento possa aver luogo.

Così Dilthey, ne L’essenza della filosofia, ha affrontato il problema delle condizioni e della realtà della filosofia; che, nella nostra epoca – e a differenza delle epoche precedenti – è stata decisamente modificata dalla coscienza della propria storicità e, quindi, dalla relatività delle sue costruzioni spirituali.

In quest’opera Dilthey punta a superare il relativismo storicistico insito nelle premesse del suo stesso pensiero, mediante la teorizzazione di una «filosofia della filosofia» che renda ragione del formarsi delle diverse Weltanschauungen o visioni del mondo. Quella rinascimentale, ad esempio, è diversa da quella medioevale, come pure da quella dell’illuminismo; e tali diversità sono in relazione con il costante mutamento e con la trasformazione delle condizioni storiche e sociali, proprie a ciascuna epoca.

Possiamo tuttavia domandarci se il relativismo diltheyano sia stato davvero superato in questa tensione speculativa degli ultimi anni di attività del filosofo; e rimaniamo con il dubbio che proprio la consapevolezza che ciò non sia compiutamente avvenuto ha costituito il fertile stimolo per tutti i pensatori che, prendendo le mosse dalla filosofia di Dilthey, ne hanno sviluppato le premesse nelle diverse direzioni, di cui parlavamo all’inizio del presente lavoro.

Il filosofo italiano Luigi Stefanini, uno dei massimi esponenti del personalismo, acutamente mette a fuoco la contraddizione intrinseca del suo assunto di partenza: quella di voler evitare la metafisica, pur dichiarando la vita come sufficiente a spiegare se stessa, che è già un modo di fare della metafisica; se la metafisica è, come voleva Aristotele, la filosofia prima che ha in sé la giustificazione di se stessa. Dire che la vita come totalità è unità, significa aver già creato una metafisica della vita. Ma Dilthey, dichiaratamente, non vuol fare della metafisica; pertanto egli è costretto a riconoscere che l’infinito della storia, rivelatrice della vita, è un falso infinito; meglio, un incompiuto, che non potrà mai rendere ragione né di se stesso, né della vita.

D’altra parte, Dilthey vuole restare fedele al suo assunto iniziale, di non voler spiegare la storia e la vita con qualche cosa di esterno all’una e all’altra; e ciò lo costringe ad assumere questo falso-infinito come l’assoluto.

Strana contraddizione, e tuttavia inevitabile per un pensiero che voglia evitare di scivolare nelle aporie inestricabili del relativismo. Stefanini ne parla in una pagina notevole del suo libro Il dramma filosofico della Germania, Cedam, Padova, 1948, p.p. 194-195:

Mettere l’assoluto nel finito della vita e della storia vuol dire corrompere il finito e renderlo inintelligibile. Invece, recidere il nodo che stringe due coimpossibili, vuol dire salvare la stria e la vita e renderle intelligibili. (…) La connessione strutturale che ci salda a noi stessi nel processo delle nostre esperienze storiche, non esaurisce tutto l’essere e tutta la realtà: non esaurisce nemmeno l’essere che noi siamo. La vita non può mantenersi unitaria e coerente senza includere in sé il riconoscimento ch’essa non è il Tutto. È questo riconoscimento l’atto di sincerità iniziale, di vero valore metafisico anche se espresso dalla coscienza ingenua d’un fanciullo o d’un indotto, che salva (…) la coesione vitale dell’io con se stesso, dando all’identità che noi siamo e che noi faticosamente ricostruiamo il valore di simbolo, positivo, reale, ma inadeguato, della totalità nella quale siamo contenuti, anzi dell’assoluta unità vitale, infinitamente trascendente, che contiene tutta se stessa e la totalità dell’essere creato.

In fondo, si torna sempre al problema dibattuto dai filosofi del Settecento e del primo Ottocento, se l’essere umano sia interamente storico, o se vi sia una parte di esso che non si lascia circoscrivere entro le categorie della storia, ma rinvia a una essenza più profonda, imperitura, di origine extra-temporale. È il problema dibattuto, fra l’atro, dagli ideologues parigini che, dopo la scoperta di un ragazzo selvaggio nelle campagne francesi, si interessarono al caso, proprio per le sue evidenti implicazioni di carattere non solo pedagogico (sarebbe stato possibile rieducarlo?), ma anche filosofico (esistono nella mente delle idee innate, o soltanto acquisite?). Ce ne siamo occupati, di recente, nel saggio Il conflitto tra « natura » e « cultura» nel caso del ragazzo selvaggio dell’Aveyron, consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice.

Non vi sono dubbi sulla posizione che avrebbe preso Dilthey, se fosse vissuto all’epoca dei memoriali del medico Itard, ai primi del 1800. L’uomo, per lui, non è che il prodotto della storia.

Ma siamo poi certi che avesse ragione?

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vendredi, 31 décembre 2010

Die Furie des Bösen in der modernen Gesellschaft

Die Furie des Bösen in der modernen Gesellschaft

von Bernd Rabehl

Ex: http://www.hier-und-jetzt-magazine.de/

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Gesellschaften, vor allem in der Formation ihrer erweiterten ökonomischen und technologischen Reproduktion vollziehen als kulturelle und historische Gemeinschaften nach Konrad Lorenz permanente ,,Pendelschläge“. Sie erleiden Mutationen und Pathologien und finden trotzdem, erfolgt nicht der Kollaps, zurück zu einer inneren, allerdings relativen Stabilität und Ordnung. Allen diesen unterschiedlichen Pendelbewegungen entsprechen ,,kulturelle Werte“. Sie tragen auf der ,,linken Seite“ den Anspruch der Individualität und ihrer freien Entfaltung. Auf der ,,rechten Seite“ fordern sie die soziale und kulturelle ,,Gesundheit“. Erst ihre Überspitzungen als soziale Gleichheit oder organische Ordnung führen zu den Prozessen der nationalsozialistischen oder kommunistischen Diktaturen. Deren militärische Zerschlagung oder innerer Zusammenbruch erreichten schließlich eine ausgewogene Mitte, etwa die westliche Demokratie, ehe das Pendel sich weiter bewegte und neue Instabilitäten schuf.

Historisch und persönlich sind Konrad Lorenz und die einzelnen Vertreter der ,,Kritischen Theorie“, etwa Erich Fromm, Theodor W. Adorno, Max Horkheimer, Herbert Marcuse, Franz Neumann u. a. durch diese Pendelbewegungen hindurchgegangen und waren Zeuge der sozialen Exzesse. Der Naturwissenschaftler und Verhaltensforscher, Konrad Lorenz, hatte allein durch seine Forschung und wissenschaftliche Tätigkeit Berührungen mit der rassistischen Weltanschauung des Nationalsozialismus, die ab 1933 eine allgegenwärtige staatliche Macht verkörperte. Sie trumpfte ähnlich wie ihr Gegenpart, der stalinistische Kommunismus, wissenschaftlich auf und schien eine vermeintliche Rassenhierarchie in Europa und der Welt naturwissenschaftlich zu begründen. Dieser wissenschaftliche Anspruch verdeckte allerdings nur oberflächlich die ideologische Zielsetzung. Biologen und Verhaltensforscher, die in Deutschland zu diesem Zeitpunkt arbeiteten, gerieten über ihre Arbeiten und Forschungsinstitute in die Nähe zur NS-Ideologie.

Diese Korrespondenzen waren objektiv gegeben, reichten heute jedoch nicht zum Vorwurf gegen Konrad Lorenz aus, mit dieser Diktatur kollaboriert zu haben. Solange eine langwierige Trennung von diesem „Rassismus“ über die wissenschaftliche Arbeit erfolgte und er selbst nicht Anteil hatte an der „sozialen Pathologie“ von rassistisch begründetem Massenmord, konnte ein derartiger Vorwurf nicht erhoben werden. Die Mitgliedschaft in der NSDAP, in einer fast 10 Millionen starken Transformations- und Massenpartei, die die Bedingung und Voraussetzung sozialer Kontrollen der Bürger in der Diktatur war, bot nicht das Material für eine Anklage, selbst wenn Lorenz sich dem damaligen politischen Jargon verschrieb. Kollaborationen bezogen sich nie auf einen Punkt oder einen Augenblick, sondern mußten über lange Zeitspannen beobachtet werden. Seine wissenschaftlichen Erfolge und Differenzierungen vor und nach 1945 begründeten den Freispruch. Dem immanenten Kreislauf eines sozialen Systems konnte er sowieso nicht entfliehen, es sei denn, daß seine Tätigkeit in der Wehrmacht nach 1942 als eine derartige Flucht angesehen wurde.

Die Vertreter der sogenannten ,,Frankfurter Schule“ verließen Deutschland kurz nach 1933, weil sie keinerlei Illusionen hatten, daß diese Diktatur eine aus den Fugen geratene Welt stabilisieren könnte. Im Gegenteil war diese Macht Auslöser und Faktor wachsender Kriegsgefahr. Sie gingen als deutsche Juden nach Frankreich und danach sehr schnell in die USA, denn die deutsche Unruhe schien Europa zu erfassen und mit Krieg und Gewalt zu überziehen. Hier in den USA blieben sie theoretisch mit der deutschen Kultur verbunden. Sie dachten weiterhin ,,deutsch“ und bemühten die Philosophien von Georg Wilhelm Friedrich Hegel und Karl Marx, aber vor allem von Arthur Schopenhauer und Friedrich Nietzsche, um diesen Umschlag sozialer Entwicklung in Diktatur und Haß zu verstehen. Allein weil ihre Fragen sich auf Aggression, Angst, Entfremdung, Psychologie und Moral bezogen, nahmen sie die Arbeiten von Sigmund Freud und C.G. Jung auf. Ein historischer Optimismus war ihnen so fremd wie die Illusionen über das historische Zeitmaß. Deshalb trennten sie sich vom Kommunismus und der politischen Arbeiterbewegung und standen dem amerikanischen Liberalismus und Konservatismus äußerst skeptisch gegenüber. Letztlich blieben sie deutsche Denker in einem fremden Land. Aber auch sie wurden von dem Pendelschlag gesellschaftlicher Mutationen erreicht. Die USA machten militärisch mobil gegen Japan und das Deutsche Reich und Herbert Marcuse und Franz Neumann stellten sich der Organisation of Strategic Services (OSS), dem Vorläufer der CIA, zur Verfügung.

Gefangen im Labyrinth

Sie bereiteten die militärische Besetzung Deutschlands und Europas vor, indem sie Untersuchungen über den sozialen und ideologischen Zustand der deutschen Gesellschaft vornahmen. Sie schrieben dabei gegen Pläne des amerikanischen Finanzministers Morgenthau an, Deutschland durch einen Bombenkrieg militärisch zu zerstören, politisch zu zerstückeln und zu deindustrialisieren. Nach ihrer Überzeugung hatte das ,,deutsche Volk“ nur bedingt Anteil an dem totalen Krieg gegen die Juden und andere europäische Völker. Ein hochindustrialisiertes Land mit seinen Facharbeitern, Ingenieuren, Wissenschaftlern und Spezialisten durfte weder zerschlagen, bestraft oder erniedrigt werden, sondern mußte zurückgeführt werden in eine westliche Friedensordnung. Die deutschen Kulturleistungen durften nicht ignoriert oder gar zerstört werden. Es wäre heute vollkommen abwegig, Marcuse oder Neumann die Mitarbeit in OSS und CIA vorzuwerfen, zumal sie im Sinne der deutschen Kultur dort positive Arbeit verrichteten. Die politischen Verstrickungen von Konrad Lorenz und den Repräsentanten der ,,Kritischen Theorie“ mit Diktatur oder Geheimdienst waren die Voraussetzungen und die Bedingungen ihrer wissenschaftlichen Arbeit. Niemand konnte dem Labyrinth gesellschaftlicher Zusammenhänge entfliehen. Bedeutsam blieb, inwieweit sie ,,Schuld“ auf sich nahmen und Anteil hatten an den sozialen Exzessen von Diktatur oder ,,Kriegsmaschine“. Es ist deshalb verständlich, daß Konrad Lorenz Herbert Marcuse verteidigte, dem von Seiten der französischen Studentenrevolte nach 1968 vorgeworfen wurde, CIA-Agent gewesen zu sein.

Bei allen methodischen und gedanklichen Unterschieden zwischen dem Naturwissenschaftler und Ethologen Konrad Lorenz und den Philosophen, Psychologen, Rechtswissenschaftlern und Soziologen der ,,Kritischen Theorie“ bestand eine erstaunliche Übereinstimmung in der Einschätzung der ,,sozialen Krankheiten“ der modernen Gesellschaft, deren Inkarnation die USA waren. Lorenz hatte hier vor 1933 studiert und besuchte nach 1948 immer wieder die nordamerikanischen Forschungseinrichtungen, Kongresse und Universitäten. Neumann und Marcuse wurden US-Bürger, andere wie Adorno und Horkheimer kehrten nach 1945 nach Frankfurt/Main zurück, wo sie das Institut für Sozialforschung neu einrichteten. Alle kannten sie die Größe und die Absurditäten dieser Gesellschaft. Was hier passierte, würde sehr bald den ,,Rest“ der Welt erreichen.

Für Lorenz und die kritischen Kritiker waren die USA Ausdruck sozialer Pathologien oder Neurosen, die die soziale Stabilität auflösten und in ein Extrem von ,,Wahnsinn“ und Brutalität trieben. Nach Lorenz wurden hier ökologische Katastrophen vorbereitet und entstanden Menschenkrüppel, die durch ihre Gefühlskälte, durch ihren Konsumtrieb, Arbeitshetze und die wachsende Gleichgültigkeit parasitäre und asoziale Verhaltensweisen vorbereiteten, die jede Lebensgemeinschaft oder Soziität zerfetzen mußten. Die menschliche Gattung bewegte sich in die Selbstzerstörung durch Atomkrieg oder durch ökologische Katastrophen.

Soziale Pathologien

Für die ,,Frankfurter“ waren die USA Beleg für eine ,,negative Dialektik“. Nicht der technologische und soziale Fortschritt wurde durch die gesellschaftliche Entwicklung vorbereitet, sondern der allgemeine Niedergang, Dekadenz und Zerfall zeigten sich in dieser entwickelten Gesellschaft des modernen Kapitalismus. Die NS-Diktatur, der Stalinismus oder der Realsozialismus waren jeweils nur Durchgangspunkte zu einem modernen Totalitarismus, der in den USA seine ,,weiche“ Heimstatt gefunden hatte. Die Auflösung der Klassen und die Formierung von Massen als Objekte politischer oder marktmäßiger Inszenierungen schufen einen konvertiblen Massenmenschen, der mit seiner ,,Persönlichkeit“ den Charakter verloren hatte und der durch die unbewußten Ängste und Aggressionen beliebig manipulierbar war. Er war ein Bündel aus Haß und Wut, der den Fremden als permanente Bedrohung sah und deshalb empfänglich war für rassistische Ideologien oder für eine autoritäre Ordnung. Der Nationalsozialismus feierte in den USA als ,,alltäglicher Faschismus“ seine subtile Auferstehung.

Der Mensch wurde zu einem psychopathologischen Reaktionswesen erklärt, das jeweils auf Reize, Farben, Töne, Versprechungen, Wünsche und Bilder reagierte und von außen geformt wurde und keinerlei Gewissen oder Verantwortung mehr besaß. Der Tod war ihm so egal wie die Liebe. Der Tod wurde verdrängt oder zum Medienspiel verdünnt und die Liebe auf pure Sexualität, Besitz und Macht beschränkt. Der ,,eindimensionale“ Mensch hatte keinerlei Moral und war ein Aggregat aus Reizen und Emotionen, eine Freß-, Sauf- und Konsummaschine, ein Machwerk aus Funktionen und Frustrationen, ein außermenschlicher Mensch, der von Diktatoren oder Manipulatoren beliebig einsetzbar war. Soziale Widersprüche fanden ihren Endpunkt. Das Ende der Geschichte war erreicht. Die Menschen würden sich selbst zerstören und ihre organischen Systeme als Familien, Staaten und Gesellschaften austilgen. Der Planet würde die Gattung Mensch durch die Machenschaften der Menschen verlieren.

Konrad Lorenz würde die Aussagen dieser Kritiker verstehen, aber ihre Begründungen nicht nachvollziehen können, waren sie doch philosophisch, religiös und moralisch angelegt. Umgekehrt würden diese Philosophen Zweifel anmelden, ob soziale Verhaltensweisen, die bei Tieren beobachtet wurden, auf die menschliche Gattung übertragbar waren und ob über Mutationen und Selektionen neue Instinkte beim Menschen entstanden, die alle Kulturleistungen überdeckten bzw. diese umformten. Für diese kritischen Philosophen und Soziologen gab es eine Barriere zwischen Mensch und Tier. Der Mensch als ,,soziales Tier“ distanzierte sich über Sprache, Moral, Religion, Gesellschaft von den Tieren und verlor weitgehend die Instinkte bzw. ersetzte sie durch Denken, Arbeit, Arbeitsteilung, Kultur, Erziehung, Institutionen, Technologie, Maschinen, Religion und Ideologie. Umgekehrt würde Lorenz diese Grenze nicht akzeptieren und deutlich machen, daß sie aus ideologischen und religiösen Gründen gezogen wurde, um das ,,Tier“ im Menschen nicht zu benennen, den ,,Urmenschen“, der aus dem Tierreich gekommen war und viele seine Verhaltensweisen und Instinkte in die entstehenden Gesellschaften hinübergerettet hatte.

Soziales Tier oder „Black Box“?

Konrad Lorenz wußte von den unterschiedlichen Vereinnahmungen der Naturwissenschaften und der Ethologie durch die totalitären Ideologien, bei denen der Marxisrnus-Leninismus viel konsequenter auftrat als der oberflächlich „improvisierte“ Rassismus im Nationalsozialismus. Lorenz war deshalb bestrebt, die Grenzen und Übergänge von Naturwissenschaft, Soziologie und Psychologie zu benennen. Die Denker der Frankfurter Schule würden eher der Logik Hegels folgen und den Widerspruch zwischen Natur- und Sozialwissenschaften herausstellen. Beide Wissenschaftsformen hatten unterschiedliche Objekte ihrer Forschung zur Grundlage und ließen sich nur bedingt übertragen und diese Übersetzung benötigte eine grundlegende Reflektion, um banale und gefährliche Analogieschlüsse zu vermeiden. Bei Lorenz dominierte das Interesse, die Konditionierung von Verhaltensweisen bei Tieren und Menschen, die Instinktbildung und die fortlaufende Pathologisierung bei schnellen Veränderungen der äußeren Bedingungen nachzuweisen. Bei den Frankfurtern interessierten philosophische Fragestellungen, die Trieb und Aggressionslehre der Psychoanalyse, die Fetischisierung von Markt und Marketing.

Die amerikanische Verhaltenswissenschaft stand den Forschungsansätzen der Ethologie von Lorenz konträr entgegen, denn sie ignorierte die natürliche, verhaltensmäßige und soziale Vorgeschichte und Tradition des Menschen und behauptete, daß er als eine ,,black box“ zu behandeln sei, eine ,,tabula rasa“ darstellte, und daß nur interessant war, was er unmittelbar aussagte, vorstellte und welchen Reizen er folgte. Eine derartige ,,Freisetzung“ des Menschen von allen natürlichen und sozialen Bindungen entsprach der amerikanischen Ideologie von Freiheit, Raum und Bewegung und diente dem amerikanischen Traum, alles zu erreichen. Eine derartige Sichtweise akzeptierte, daß der ,,traditionslose“ Mensch Objekt der Manipulationen, Indoktrinationen und Inszenierungen wird.

1 Konrad Lorenz: Die acht Todsünden der zivilisierten Menschheit, München 1973, S. 819, S. 27, S. 33 ff.; Konrad Lorenz in: Enceklopaedia Britannica, 1994 – 2001; Herbert Marcuse: Antidemokratische Volksbewegungen, in. Ders.: Nachgelassene Schriften: Das Schicksal der bürgerlichen Demokratie, Peter Erwin Jansen (Hg.), Lüneburg 1999, s.29 ff;

Ders. Der eindimensionale Mensch, Studien zur Ideologie der fortgeschrittenen Industriegesellschaft, Neuwied 1985, 5.
15,3.18; Alfons SölIner. Zur Archäologie der Demokratie in Deutschland – eine Forschungshypothese zur theoretischen Praxis der kritischen Theorie im amerikanischen Geheimdienst‘ Frankfurt 1987, S. 7ff.;

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jeudi, 30 décembre 2010

Hypathie, Synésios et la philosophie pérenne

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Hypatie, Synésios et la philosophie pérenne

par Claude BOURRINET

Ex: http://www.europemaxima.com/

Agora, l’excellent film de Alejandro Amenabar, qui conte le sort tragique d’Hypatie (ou Hypatia), philosophe néoplatonicienne du IVe siècle, est à voir non comme une reconstitution historique, bien que, somme toute, malgré quelques invraisemblances, dont l’âge de l’héroïne, l’Alexandrie de cette époque soit remarquablement restituée et les événement assez fidèlement respectés,  mais comme une lecture de notre époque.

La loi du genre cinématographique exige une concentration dramatique qui resserre des éléments narratifs et biographiques dont l’étalement dans le temps diluerait l’attention. D’autre part, la dimension romanesque doit aussi avoir sa part. Nous avons fait allusion à l’âge d’Hypatie, trop jeune pour les événements qui sont présentés. En vérité, elle a été assassinée par les fanatiques chrétiens en 415, à l’âge de 45 ans. L’intrigue concernant l’esclave chrétien relève aussi de la pure fantaisie.

Dans le long métrage apparaissent deux personnages très importants, deux de ses élèves, Synésios de Cyrène, un futur évêque, et  Oreste, le futur préfet de la ville, qui, dans le film (mais la relation historique ne confirme pas que ce fût lui qui était en cause), presse vainement la philosophe de ses assiduités amoureuses.

Un spectateur du XXIe siècle, en prenant connaissance d’un épisode assez méconnu de la fin du paganisme, ne peut s’empêcher de transférer dans le champ spatio-temporel contemporain les problématiques d’alors.

Alexandrie d’abord, la ville cosmopolite par excellence, dans les murs de laquelle coexistent depuis plus de sept cents ans, voire davantage, Égyptiens, Grecs et Juifs (et au IVe siècle des chrétiens de toutes origines ethniques), est le centre intellectuel, culturel, au même rang que l’Athènes universitaire, du monde gréco-romain. Ce n’est pas pour rien que l’époque hellénistique, qui court depuis l’épopée d’Alexandre jusqu’à l’occupation de la Grèce par Rome, est aussi appelée époque alexandrine. On y trouve la fameuse bibliothèque, qui est une partie d’un plus vaste ensemble créé en – 288 par un des généraux d’Alexandre, Ptolémée Ier Sôter, le Museiôn (palais des Muses), qui était en fait une université de pointe où les recherches scientifiques étaient particulièrement poussées. Sous César, la bibliothèque groupa jusqu’à 700 000 volumes et dut subir quelques avanies. Certaine hypothèses quant à sa destruction font état du rôle néfaste de l’empereur Théodose qui, en 391, ordonna de détruire les temples païens. Comme le Serapeion, temple dédié au dieu-taureau Apis (assimilé au dieu grec Osiris, fusion qui allait donner Sérapis) contenait la bibliothèque, les troubles religieux fomentés par l’évêque Théophile entraîneront la ruine de cet ensemble cultuel d’une renommée considérable. Mais certains historiens arabes, Abd al-Latif, en 1203, Ibn al-Kifti et le grand Ibn Khaldoun, évoquent la responsabilité du calife Omar, lequel ordonna en 642 à Amr ibn al-As, son général, de détruire les ouvrages inutiles (c’est-à-dire qui ne sont pas le Coran). Il est probable que ces décisions se conjuguèrent pour anéantir l’un des plus grands trésors de l’humanité.

Notre âge connaît aussi un mélange de cultures, un brassage cosmopolite et une tentative de rassemblement du savoir universel. Toute grande métropole occidentale est susceptible de rappeler Alexandrie, singulièrement New York, qui se veut le cœur culturel du Nouvel ordre mondial. On y trouve en effet la présence d’une forte communauté juive, un urbanisme démesuré, une volonté de modernité scientifique et artistique, ainsi qu’une ambition de régenter l’esprit du Monde. Les images en douche qui montrent les heurts entre chrétiens et païens, les gros plans sur les silhouettes noires qui sèment la terreur font irrésistiblement penser à des djihadistes, des talibans du IVe siècle. Aussi n’est-il pas abusif de considérer que le film doit beaucoup au 11 septembre et à ce qui s’est ensuivi. Hypatie n’est-elle pas une femme libre victime de la misogynie et de l’intolérance d’une religion proche-orientale ? C’est évidemment le libéralisme sociétal et politique de l’Occident, face à l’obscurantisme, qui est en partie invoqué derrière la liberté païenne attaquée. Et, par delà, l’intolérance du monothéisme. La nature des « recherches » d’Hypatie, l’expérimentation qu’elle pratique sur un navire, évoquent bien entendu Galilée, son héliocentrisme et son expérience, sur la chute des corps, du sommet de la Tour de Pise. Anachronisme, bien sûr, et pas seulement dans les aspects strictement scientifiques : les Anciens en effet n’appréhendaient pas les lois « physiques » et cosmologiques de manière mécaniste, et le néoplatonisme était par bien des côtés plus proche de la magie (la théurgie) que de la quantification de l’univers. Mais qu’importe : on voit que ce qui est souligné est le parallèle avec la lutte que dut entreprendre la modernité contre la superstition des âges obscurs. Credo quia absurdum, disait-on au Moyen Âge.

La boucle est donc bouclée : comme Hypatie en son temps, nous devons combattre, si nous ne voulons pas que notre civilisation s’effondre, les fanatiques actuels de tous poils (évangélistes compris ?).

Il serait trop long d’expliquer en quoi le monde d’aujourd’hui doit plus qu’il ne croit à la vision chrétienne. Je renvoie à l’ouvrage de Marcel Gauchet, Le désenchantement du monde. Malgré tout, on ne peut pas dire que le pronostic soit totalement erroné, et que la liberté des modernes ne tienne pas, d’un certain point de vue, à celle des païens.

Le christianisme, contrairement aux religions à « mystères », était irrécupérable dans le cadre de la rationalité grecque. Il devait la subvertir en le retournant. Dans la contrainte de justifier rationnellement la foi, il avait emprunté à la philosophie hellénique, mais au prix d’un travestissement du sens et d’un autre emploi du vocabulaire métaphysique. En vérité, la liberté d’interprétation, le libre jeu de la recherche intellectuelle n’avaient plus cours. Nous étions passés sous d’autres cieux, dans lequel un dieu jaloux régnait. Le monde des idées était mis sous tutelle, et le dogme s’imposait, transformant la philosophie en servante de la religion. Le mythe (mythistoire, en ce qui concerne le christianisme) avait dévoré le logos, la fable la raison. La religion à étages qui caractérisait le monde antique (les mythes, les cultes civiques et la « mystique » intellectualisée des philosophes, d’une élite) permettait une économie relativement sereine du « problème divin ». Il s’agissait de réguler le lien entre le ciel et la terre, tout en consacrant l’ordre cosmique, donc par ricochet la sphère politique. L’intention perdure, mais non sans complications. Le dieu subjectif, personnel, absolument transcendant des juifs, dont les chrétiens sont les héritiers, enjoint de manifester sa foi à tous les niveaux, c’est-à-dire dans tous les compartiments de la vie sociale, politique et privée. Le Bas-Empire », qui, depuis les Sévère, manifestait des tendances autocratiques, avec une sacralisation progressive de l’État que Dioclétien renforça, ne pouvait que verser sur la pente d’un totalitarisme dont l’Église chrétienne deviendrait la clef de voûte. Comme Lucien Jerphagnon l’écrit, dans son excellent ouvrage, Les divins Césars : « À la différence des anciens cultes, le christianisme engageait le plan de la conscience personnelle; il exigeait de ses adeptes une adhésion intérieure qui les rendait justiciables d’instances spirituelles censément intermédiaires entre le divin et l’humain. » Une fois l’alliance entre l’Empire et le goupillon scellée, l’obéissance et l’implication subjective, dues à l’une, devait s’appliquer à l’autre, ce qui était tout profit pour les deux s’épaulant, les « agentes in rebus », appelés aussi les «  curiosi « , autrement dit les barbouzes du régime, aidant du reste de leur mieux à convaincre les récalcitrants.

En effet, ce fut sous le premier empereur chrétien qu’un ouvrage, un  pamphlet érudit de Porphyre, Contre les chrétiens, fut l’objet du premier autodafé de l’Histoire ordonné pour des raisons religieuses. C’était un coup d’essai qui ne demandait qu’à se confirmer, et qui était complètement contraire au libéralisme qui régnait dans le monde intellectuel païen. Comme l’affirme Ambroise, l’évêque de Milan, qui impressionna tant Augustin en cette fin du IVe siècle : « On doit le respect d’abord à l’Église catholique, et ensuite seulement aux lois : reverentiam primo ecclesiae catholicae deinde etiam et legibus ». L’Empereur Gratien en sut quelque chose, bien qu’il ne fût pas lui-même un parangon de tolérance.

Ce qu’il y avait aussi d’inédit dans la manière dont le christianisme s’imposait, c’était son prosélytisme, son ambition missionnaire de convertir l’humanité. Il rencontrait certes la logique universaliste de l’Empire romain qui, comme tout Empire, avait vocation à dominer le monde, mais, en même temps, la sage gestion des choses divines, qui prévalait jusqu’alors, était complètement embrouillée. Il n’y avait plus, en droit, plusieurs approches, des interprétations hiérarchisées du monde et des dieux, mais un dogme qu’il fallait mettre à la portée de tous. Nietzsche avait parlé d’un platonisme placé au niveau des masses, dont la grossièreté devenait une source de troubles.

Les « débats » métaphysiques sur les relations entre le Père, le Fils et le Saint-Esprit, en brassant des concepts alambiqués, débordaient sur la place publique. La « démocratisation » de la question religieuse, qui devenait un enjeu idéologique derrière lequel se dissimulaient des conflits ethniques ou nationalistes (les donatistes par exemple expriment le ressentiment berbère, les futurs monophysites se trouveront surtout chez les Égyptiens, à l’esprit particulariste exacerbé) libère dans le démos tous les démons du fanatisme, comme si les cloisons antiques qui permettaient de canaliser les conflits avaient sauté. Les moines, dont le nombre devient vite pléthorique, et qui recrutent en Égypte surtout dans la paysannerie inculte et particulièrement rude, constituent des troupes de choc, souvent violentes, et feront peser sur l’État byzantin un danger constant. Ils se déversent dans la rue en gueulant des slogans, comme nos modernes gauchistes, constituent des sectes, des coteries, des clans, et en même temps l’infanterie lors des combats urbains. Ainsi Cyrille, à Alexandrie, bénéficie-t-il des « services » de ses parabalani (infirmiers ou croquemorts) dévoués corps et âmes à leur chef. Libanios, un des philosophes « païens » qui accompagnèrent Julien dans son épopée, dit de Constance II, bigot qui avait décrété l’interdiction des cultes anciens, qu’il « introduisait à la cour les hommes pâles, les ennemis des dieux, les adorateurs des tombes… ».

L’« Antiquité tardive » est un monde où la haine s’exaspère, les gens des campagnes en voulant à ceux des villes qui les exploitent, détestant encore plus propriétaires et fonctionnaires, les prolétaires en voulant aux bourgeois, et l’armée étant vomie par l’ensemble de la société. Tous les ingrédients étaient présents pour recevoir avec empressement ce dieu d’amour et de revanche qu’était Yahvé-Jésus.

Julien (empereur de 361 à 363) évoquera cette haine du chrétien pour le chrétien, la rabies theologica : « Aucune bête féroce, écrit aussi  Ammien Marcellin (contemporain de Julien), n’est aussi acharnée contre l’homme que le sont la plupart des chrétiens les uns contre les autres. »

Pour en revenir à Alexandrie, on peut dire qu’elle était la matrice d’un courant, le néoplatonisme, qui était la symbiose du platonisme, de l’aristotélisme et du stoïcisme, et qui allait influencer, par Plotin, la pensée occidentale jusqu’à maintenant. Elle avait vu en son sein œuvrer Philon le juif, qui avait essayé de concilier le judaïsme et l’hellénisme, Pantène, Clément, qui étaient chrétiens, et surtout  Ammonios Sakkas, qui n’a rien écrit, mais qui fut le maître d’Origène et de Plotin, ce qui n’est pas rien.

Il faut imaginer Hypatia dans cette atmosphère tendue, en tous points exaltante si l’on considère la tradition dans laquelle elle s’inscrivait, mais ô combien chargée de menaces. En 388, on avait fermé les temples. En 392, on saccageait le Sérapeion. La ville était sous la coupe des patriarches, Théophile et Cyrille, son neveu. Un État dans l’État.

Hypatia était fille de Théon, mathématicien célèbre. Elle était « géomètre » (comme le recommandait Platon), astronome, vierge et vertueuse, s’accoutrait du court manteau des cyniques – le tribon -, symbole d’abstinence plutôt que d’appartenance à l’école des « chiens ». Elle était rémunérée par l’État, mais donnait aussi des cours privés.

Synésios de Cyrène avait réalisé sur ses indications un planisphère.  C’était un fils de bonne famille, intelligent et riche, de même âge que son professeur. Il était fasciné par Hypatia. Plus tard, dans une « lettre à un ami », il écrit : « Nous avons vu et entendu celle qui détient le privilège d’initier aux mystères de la philosophie. » Il l’appela, sur son lit de mort, « sa mère, sa sœur, son maître ».

Comme tout « potentes » de l’époque, il fut contraint à la politique. Voué à la vie philosophique, c’est-à-dire à la contemplation, il n’était sans doute pas emballé par cette charge, mais l’élite gréco-romaine était encore animée par l’éthique stoïcienne, et c’était un devoir auquel on ne se dérobait pas encore. Aussi se retrouva-t-il, au mois d’août 399, à la cour d’Arcadios, une parfaite nullité, fils du sinistre Théodose. Le député de la Cyrénaïque était en fait là pour défendre les intérêts d’une province en grande difficulté économique. Il produisit du même coup un Discours sur la royauté qui reprenait le thème de la royauté idéale, opposée à la tyrannie parce que guidée par la philosophie, pattern redevable à la tradition gréco-latine destinée à asseoir idéologiquement la basileia, c’est-à-dire la royauté, avec tout ce que cela suppose de tempérance, de piété, de bonté, d’imitation de l’excellence divine (la providence royale étant faite à l’image de la pronoia divine, et le basileos étant assimilable à la divinité, homoiôsis theô). Synésios invitait l’Empereur à revenir à la tradition romaine de simplicité, de rudesse, etc. – contre l’amollissement d’une cour corrompue par trop de luxe, qu’il constatait de ses yeux. Et il met pour ce faire en regard le souvenir des anciens empereurs, à la tête des armés, et insiste sur la nécessité de la guerre, matrice de vertus. Comme quoi un néoplatonicien peut avoir les pieds sur terre !

Mais ce qu’il fit de plus intéressant encore, et qui nous concerne pour notre propre chef, ce fut d’engager Arcadios à expulser du Sénat les Barbares germains qui s’y étaient infiltrés et qui avaient la haute main sur tout. Il contredisait ainsi Thémistios – dont Arcadios avait été l’élève – philosophe néoplatonicien « de cour », conseiller de plusieurs empereurs, qui avait invité ses maîtres successifs à « passer aux barbares ». Durant les vingt années qui séparent les deux hommes, le problème barbare avait  beaucoup évolué. Les intelligences lucides y voyaient une menace mortelle pour l’Empire. Il fallait un sursaut, une prise de conscience. Aussi Synésios conseilla-t-il de recruter dans les « campagnes » de l’Empire plutôt que chez les Barbares qui infestaient l’armée et minaient sa cohésion. Il demandait des combattants « nationaux ».

Ce n’est pas tout. Il se maria. C’était un homme qui adorait la chasse et la réflexion. Il était richissime, avait de hautes relations, était sérieux, savant. Il n’en fallait pas plus, en ces temps de détresse, pour être élu évêque. Il accepta sous conditions. Dans la Lettre 105 à son frère (en fait il s’adressait à Théophile), il remercie les habitants de Ptolémaïs qui lui ont fait confiance. Mais il est marié, et refuse une séparation officielle ainsi qu’une vie maritale clandestine. Il veut même avoir « beaucoup de beaux enfants ». Sur le plan philosophique, il n’est pas disposé à abandonner ses convictions auxquelles il adhère par voie de démonstration scientifique : « Il y a plus d’un point où la philosophie s’oppose aux idées communément reçues », c’est-à-dire chrétiennes. Il faut le laisser tranquille par rapport au dogme. Par exemple : « Je n’irai pas dire […] que le monde, en toutes ses parties, est voué à la ruine [cela contre le dogme de la fin l’Apocalypse]. Quant à la résurrection, qu’admet l’opinion courante, c’est là, à mon sens, un mystère ineffable où je ne m’accorde pas, tant s’en faut, avec le sentiment vulgaire. » Et il fixe les bornes entre lesquelles peut s’exercer la liberté de conscience : en public, il est philomuthôn (je prêche toutes les « histoires » qu’on voudra), dans le privé, je suis philosophôn (j’exerce librement ma raison).

On ne connaît pas la suite.

Il resta fidèle à Hypatia. Il mourut en 413, la précédant de deux ans.

Entre-temps, Théophile était mort, Cyrille, son neveu, imposait sa loi à Alexandrie. En mars 415, il y eut des émeutes. Cyrille et Oreste s’opposaient, le pouvoir religieux voulait dominer le pouvoir politique. Oreste sanctionna Hiérax, maître d’école chrétien, sectateur fanatique et agent de Cyrille. Une provocation (l’incendie dans une église) fut le prétexte d’un pogrom contre les juifs, que le pouvoir séculier protégeait. Un commando de cinq cents moines rencontra le préfet, qui fut rossé et sauvé in extremis par des Alexandrins. Cyrille accusa le préfet d’être sous l’influence d’Hypatia, considérée comme la source du conflit.

Un commentateur contemporain, du nom de Socrate raconte ce qui suivit : « Des hommes à l’esprit échauffé ourdirent un complot. Sous la conduite d’un lecteur répondant au nom de Pierre, les voilà qui surprennent la femme alors qu’elle rentrait chez elle, s’en revenant on ne sait d’où. Ils l’extraient de sa litière, l’entraînent à l’église du Kaisaréion, la déshabillent et la tuent à coups de tessons. Ils dépecèrent le corps, en rassemblèrent les morceaux sur la place du Cinaron, et les mirent à brûler. »

Lucien Jerphagnon ajoute : « Ainsi s’achève l’histoire d’Hypatia la philosophe, dont le savoir égalait le charme et la beauté. »

Claude Bourrinet


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mercredi, 29 décembre 2010

"La révolte des masses" de José Ortega y Gasset

Crédits photographiques : Yao Dawei (AP Photo/Xinhua).

"La révolte des masses" de José Ortega y Gasset
 
À propos de José Ortega y Gasset, La révolte des masses (préface de José Luis Goyenna, La vie comme exigence de liberté, Les Belles Lettres (voici le tout nouveau blog de la librairie), coll. Bibliothèque classique de la liberté, 2010).
LRSP (livre reçu en service de presse).

Ex: http://stalker.hautetfort.com/
 
Essai paradoxal (ainsi de ses images, bien souvent frappantes), dans une époque de «descentes et de chutes», de «sérénité dans la tourmente», exploration altière mais jamais prétentieuse du problème de l'homme actuel pour laquelle «il faudrait se résoudre à endosser la tenue des abîmes, vêtir le scaphandre» (1) voici quelques-unes des expressions que l'auteur utilise au sujet de son propre livre.
Observons de quel étrange éclat se parent les mots que José Ortega y Gasset écrivit dans sa Préface pour le lecteur français ajoutée en 1937 à son ouvrage le plus connu, si l'on se souvient que Malcolm Lowry, après la publication de Sous le volcan en 1947, lut le livre et l'aima, lui qui n'hésita point, pour accompagner le Consul là où il fallait qu'il descende, à revêtir un scaphandre capable de le mener aux plus terrifiantes profondeurs.
jose-ortega-y-gasset1.jpgSans doute le grand romancier trouva-t-il aussi dans le livre du philosophe, comme le remarque José Luis Goyenna dans son intéressante (quoique pleine de fautes) préface, en plus d'images étonnantes bien propres à enthousiasmer l'écrivain, une authentique philosophie de la liberté comme accomplissement métaphysique du moi qui, à la différence de celle de Sartre qualifiée par l'auteur d'Ultramarine de «pensée de seconde main» (2), ne se dépêcherait pas bien vite de déposer aux pieds de l'idole le fardeau trop pesant, enchaînant ainsi la liberté à la seule discipline stupide des masses. Tout lecteur de La révolte des masses aime je crois, en tout premier lieu, l'écriture de ce livre érudit, pressé, menaçant, parfois prodigieusement lucide et même, osons ce mot tombé dans l'ornière journalistique, prophétique.
Peut-être trouva-t-il aussi dans ce livre, outre de fulgurantes vues (3), une intention purement kierkegaardienne, aussi rusée que profondément ironique, la sourde volonté consistant à faire comprendre à son lecteur que ce texte, sous les dehors débonnaires d'un essai sur la situation de l'homme européen au sortir de la Première Guerre mondiale, se proposait rien de moins que retourner comme un gant son esprit (et son âme ?), comme veulent toujours le faire, même s'ils prétendent le contraire, les plus grands romans : «C’est la raison pour laquelle le livre doit devenir de plus en plus comme un dialogue caché; il faut que le lecteur y retrouve son individualité, prévue, pour ainsi dire, par l’auteur; il faut que, d’entre les lignes, sorte une main ectoplasmique qui nous palpe, souvent nous caresse ou bien nous lance, toujours poliment, de bons coups de poing» (p. 49). La main ectoplasmique et le coup de poing, nouveaux moyens de réveiller les consciences libres du sommeil dogmatique dans lequel un sort mystérieux les a plongées ?
Quoi qu'il en soit, nous comprenons que l'intention du penseur espagnol est double. Le livre d'Ortega y Gasset semble fonctionner, à vrai dire, comme les ouvrages si profondément retors et érudits de Leo Strauss. D'abord, l'exposé des thèses qui permettent de caractériser le désarroi que constate l'auteur dans le monde occidental. Ensuite (si je puis dire, maladroitement, puisque ces deux phases exotériques ne forment qu'une seule et même phrase complexe, voire ésotérique), ayant défini ce qu'il entendait par l'homme-masse, le fait, subrepticement, de confronter celui qui le lit à une interrogation dont la réponse ne pourra que le glacer ou bien le conforter : est-il, oui ou non, un des innombrables représentants de la masse ? Est-il, ce lecteur lisant un livre qui claque comme un fouet (ou vous administre, poliment, un roboratif coup de poing), un homme creux ou bien un homme qui, après avoir lu, se convertira et agira ?
Intention éminemment existentialiste disais-je et nous pourrions ajouter, socratique, kierkegaardienne bien sûr, puisqu'il s'agit de faire prendre conscience que l'homme des masses n'est jamais l'autre, mais, bien sûr, soi-même non pas comme un autre selon la belle expression de Paul Ricœur, mais soi-même comme tous les autres, soi-même comme termite perdue au sein de la termitière à laquelle, patiemment, inexorablement, nous œuvrons.
Examinons ce qu'est, aux yeux d'Ortega y Gasset, l'homme-masse, au travers de quelques-unes de ses caractéristiques comme, en premier lieu, l'oubli (ou plutôt l'occultation) du passé. «Cet homme-masse écrit l'auteur, c’est l’homme vidé au préalable de sa propre histoire, sans entrailles de passé, et qui, par cela même, est docile à toutes les disciplines dites «internationales». Plutôt qu’un homme c’est une carapace d’homme, faite de simples idola fori. Il lui manque un «dedans», une intimité inexorablement, inaliénablement sienne, un moi irrévocable» (p. 58).
La volonté de faire table rase, si propre aux révolutions (4), ne peut que conduire à la ruine, mener l'homme jusqu'à la barbarie : «Le vrai trésor de l’homme, c’est le trésor de ses erreurs. Nietzsche définit pour cela l’homme supérieur comme l’être «à la plus longue mémoire». Rompre la continuité avec le passé, vouloir commencer de nouveau, c’est aspirer à descendre et plagier l’orang-outang» (p. 77).
C'est aussi s'engluer dans un présent définitif. Assez ironiquement bien que cette ironie ne puisse d'aucune façon être mise sur le compte, nous le verrons, d'une velléité réactionnaire, José Ortega y Gasset critique la croyance au progrès indéfini des connaissances et des techniques : «Sous le masque d’un généreux futurisme, l’amateur de progrès ne se préoccupe pas du futur; convaincu de ce qu’il n’offrira ni surprises, ni secrets, nulle péripétie, aucune innovation essentielle; assuré que le monde ira tout droit, sans dévier ni rétrograder, il détourne son inquiétude du futur et s’installe dans un présent définitif. On ne s’étonnera pas de ce que le monde paraisse aujourd’hui vide de projets, d’anticipations et d’idéals» (pp. 116-7).
Cette volonté maladive de détruire le passé, de vivre dans le perpétuel présent de l'animal, porte ses conséquences néfastes sur le présent comme sur l'avenir : «Et cela c’est être un peuple d’hommes : pouvoir prolonger son hier dans son aujourd’hui sans cesser pour cela de vivre pour le futur, pouvoir exister dans le vrai présent, puisque le présent n’est que la présence du passé et de l’avenir, le lieu où ils sont effectivement passé et avenir» (p. 79). C'est ainsi que, a contrario, l'Angleterre sera analysée par Ortega y Gasset comme le peuple de l'infinie prévoyance, le peuple composé d'hommes qui ne sont point encore les rouages d'une immense machine même si, comme le soulignera le philosophe, ce même peuple a pu se fourvoyer dans le pacifisme : «Ce peuple circule dans tout son temps; il est véritablement seigneur de ses siècles dont il conserve l’active possession» (pp. 78-9).
La révolte des masses, due à la désertion des élites (La désertion des minorités dirigeantes se trouve toujours au revers de la révolte des masses, pp. 116-7), doit aussi sa cause directe dans le fait que la société dans laquelle vivent les hommes ne les contraint plus à vouloir se dépasser. Si le monde ancien était le monde d'un danger permanent, fulgurant, notre époque est celle de la paralysie provoquée par le triomphe du machinisme, la réduction des territoires inexplorés, le prodigieux accroissement des sciences et des techniques contraints de se cantonner dans l'hyper-spécialisation, de la fuite des dieux : «Le monde qui entoure l’homme nouveau depuis sa naissance ne le pousse pas à se limiter dans quelque sens que ce soit, ne lui oppose nul veto, nulle restriction, mais au contraire avive ses appétits, qui peuvent, en principe, croître indéfiniment. Il arrive donc – et cela est très important – que ce monde du XIXe siècle et des débuts du XXe siècle non seulement a toutes les perfections et l’ampleur qu’il possède de fait, mais encore suggère à ses habitants une certitude totale que les jours qui vont suivre seront encore plus riches, plus vastes, plus parfaits, comme s’ils bénéficiaient d’une croissance spontanée et inépuisable» (pp. 130-1).
Ainsi, la vie des hommes du passé, quoique truffée de dangers, était synonyme de dépassement, du moins de possibilité de se dépasser. L'homme-masse est l'homme étriqué, fermé, tandis que l'homme du passé est celui de l'ouverture dans un monde lui-même ouvert à ses innombrables et sanglantes conquêtes : «De cette manière la vie noble reste opposée à la vie médiocre ou inerte, qui, statiquement, se referme sur elle-même, se condamne à une perpétuelle immanence tant qu’une force extérieure ne l’oblige à sortir d’elle-même. C’est pourquoi nous appelons «masse» ce type d’homme, non pas tant parce qu’il est multitudinaire que parce qu’il est inerte» (p. 139).
L'homme-masse est un être dépossédé. Il n'a plus de passé et, parce qu'il l'a perdu, il n'a plus de futur. Il n'est même pas certain, nous l'avons vu, qu'il puisse se targuer de vivre dans la paix perpétuelle d'un présent sans bornes, délesté du poids de ce qui l'a forgé : «L’homme-masse, écrit encore Ortega y Gasset, est l’homme dont la vie est sans projets et s’en va à la dérive. C’est pourquoi il ne construit rien, bien que ses possibilités et que ses pouvoirs soient énormes» (p. 121).
L'homme-masse est un être doublement dépossédé puisqu'il ne sait plus parler. Étrangement, José Ortega y Gasset évoque la dégénérescence du langage de l'homme-masse, qu'il assimile, pour les besoins de sa démonstration, à un habitant de l'Empire, en la rapprochant de celle du latin vulgaire : ainsi, «le symptôme et en même temps le document le plus accablant de cette forme à la fois homogène et stupide – et l’un par l’autre – que prend la vie d’un bout à l’autre de l’empire se trouve où l’on s’y attendait le moins et où personne, que je sache, n’a encore songé à le chercher : dans le langage» (p. 67). L'auteur poursuit en donnant la caractéristique principale du latin vulgaire : «Le premier [trait] est l’incroyable simplification de son organisme grammatical comparé à celui du latin classique» (p. 68), poursuivant : «Le second trait qui nous atterre dans le latin vulgaire, c’est justement son homogénéité. Les linguistes qui, après les aviateurs, sont les moins pusillanimes des hommes, ne semblent pas s’être particulièrement émus du fait que l’on ait parlé la même langue dans des pays aussi différents que Carthage et la Gaule, Tingis et la Dalmatie, Hispalis et la Roumanie. Mais moi qui suis peureux et tremble quand je vois le vent violenter quelques roseaux, je ne puis, devant ce fait, réprimer un tressaillement de tout le corps. Il me paraît tout simplement atroce» (Ibid).
Cette perte du passé qui doit être éradiqué pour laisser se lever de nouveaux soleils d'acier sur une humanité rédimée, cette destruction de toute conscience historique, cette rupture de la continuité, pour employer les mots de Max Picard, ainsi que la simplification du langage, sont les marques des deux principales forces politiques (bolchevisme et fascisme) qui se partagent l'Europe à l'époque où Ortega y Gasset écrit son essai, deux forces remarquablement décrites comme étant des puissances régressives, entropiques, une intuition qui ne deviendra une évidence voire un cliché, pour nombre d'auteurs comme Elias Canetti et à propos du nazisme (5), que des années après la parution de La Révolte des masses : «Mouvements typiques d’hommes-masses écrit d'eux l'auteur, dirigés, comme tous ceux qui le sont, par des hommes médiocres, intempestifs, sans grande mémoire, sans «conscience historique», ils se comportent, dès leur entrée en scène, comme s’ils était déjà du passé, comme si, arrivant à l’heure actuelle, ils appartenaient à la faune d’autrefois» (p. 167). Et l'auteur de poursuivre : «L’un et l’autre – bolchevisme et fascisme – sont deux fausses aurores; ils n’apportent pas le matin de demain; mais celui d’un jour ancien, qui a servi une ou plusieurs fois; ils relèvent du primitivisme. Et il en sera ainsi de tous les mouvements sociaux qui seront assez naïfs pour engager une lutte avec telle ou telle portion du passé, au lieu de chercher à l’assimiler» (pp. 168-9).
L'homme-masse, sans passé, ne vivant que dans un présent qui refuse d'envisager l'avenir autrement que comme la réalisation de rêves somptueux, colossaux (6), l'homme-termite qui est un homme creux, démoralisé, ne peut que se révolter. L'homme-masse, même, n'a pas de vie, et c'est cette absence de vie qui le livrera tout entier, comme un seul homme à la voix envoûtante des dictateurs, dont le règne est annoncé par l'auteur : «Car vivre, c’est avoir à faire quelque chose de déterminé – remplir une charge –, et dans la mesure où nous évitons de vouer notre existence à quelque chose, nous rendrons notre vie de plus en plus vide. On entendra bientôt par toute la planète un immense cri, qui montera vers les étoiles, comme le hurlement de chiens innombrables, demandant quelqu’un, quelque chose qui commande, qui impose une activité ou une obligation» (p. 212).
Cette révolte des masses, provoquée par n'importe quel événement (7), n'est elle-même qu'un leurre, puisqu'elle choisit comme vecteurs le fascisme et le nazisme qui sont condamnés à disparaître, qui ne sont qu'un interrègne (8) : «Je vais maintenant résumer la thèse de cet essai : le monde souffre aujourd’hui d’une grave démoralisation qui se manifeste – entre autres symptômes – par une révolte effrénée des masses; cette démoralisation générale a son origine dans une démoralisation de l’Europe dont les causes sont multiples. L’une des principales est le déplacement de ce pouvoir que notre continent exerçait autrefois sur le reste du monde et sur lui-même. L’Europe n’est plus sûre de commander, ni le reste du monde d’être commandé. La souveraineté historique se trouve aujourd’hui en pleine dispersion» (p. 254).
Ayant soigneusement posé son diagnostic sur la maladie du siècle, Ortega y Gasset, en bon docteur, délivre son ordonnance qui, elle aussi, a valeur d'étonnante prémonition, de véritable prophétie (9) : l'Europe !
C'est sans doute la grande thèse de José Ortega y Gasset, s'accompagnant d'une remise en question cinglante de l'idée, si répandue, de la décadence de l'Occident, qui fait qu'on ne peut l'accuser d'être passéiste ou même réactionnaire, comme tant de mauvais lecteurs l'affirmèrent au moment de la parution du magistral essai : «Mais arrêtez l’individu qui l’énonce [l’idée de décadence de l’Europe] d’un geste léger, et demandez-lui sur quels phénomènes concrets et évidents il fonde son diagnostic; vous le verrez faire aussitôt des gestes vagues, et pratiquer cette agitation des bras vers la rotondité de l’univers, caractéristique de tout naufragé. De fait, il ne sait pas où s’accrocher. La seule chose qui apparaisse sans grandes précisions lorsqu’on veut définir l’actuelle décadence de l’Europe, c’est l’ensemble des difficultés économiques devant lesquelles se trouve aujourd’hui chacune des nations européennes. Mais quand on veut préciser un peu le caractère de ces difficultés, on remarque qu’aucune d’elles n’affecte sérieusement le pouvoir de création de richesses, et que l’Ancien Continent est passé par des crises de ce genre beaucoup plus graves» (p. 221).
L'Europe, incontestablement la puissance civilisatrice du monde, est appelée par l'auteur à son propre dépassement afin, une nouvelle fois, de montrer la voie à prendre et, ainsi, sauver le monde qui se trouve au bord de l'abîme : «La véritable situation de l’Europe en arriverait donc à être celle-ci : son vaste et magnifique passé l’a fait parvenir à un nouveau stade de vie où tout s’est accru; mais en même temps, les structures survivantes de ce passé sont petites et paralysent son expansion actuelle. L’Europe s’est constituée sous forme de petites nations. En un certain sens, l’idée et les sentiments nationaux ont été son invention la plus caractéristique. Et maintenant elle se voit obligée de se dépasser elle-même. Tel est le schéma du drame énorme qui va se jouer dans les années à venir. Saura-t-elle se libérer de ses survivances ou en restera-t-elle prisonnière ? car il est déjà arrivé une fois dans l’histoire qu’une grande civilisation est morte de n’avoir pu modifier son idée traditionnelle de l’État…» (p. 225).
Et une nouvelle fois d'exhorter les élites éclairées et les gouvernements à unir les nations européennes pour donner un nouveau sens à l'idée, caduque ou du moins figée dans la tradition (10), d'État-nation : «On ne voit guère quelle autre chose d’importance nous pourrions bien faire, nous qui existons de ce côté de la planète, si ce n’est de réaliser la promesse que, depuis quatre siècles, signifie le mot Europe. Seul s’y oppose le préjugé des vieilles «nations», l’idée de nation en tant que passé» (p. 254).
Je ne sais s'il ne serait pas trop facile de faire remarquer à l'auteur, s'il vivait encore, que l'édification de l'Europe qu'il appelait de ses vœux les plus ardents allait être à la source de l'hyperdémocratie routinière qu'il accablait par ailleurs, comme illustration monstrueuse d'une démocratie directe, la démocratie des masses (11) qui s'exerce par une force qui n'est plus ultima mais prima ratio (12) : «Aujourd’hui nous assistons au triomphe d’une hyperdémocratie dans laquelle la masse agit directement sans loi, imposant ses aspirations et ses goûts au moyen de pressions matérielles» (p. 89).
Et, de cette action de la masse fascinée par les mots vides pas encore totalement débarrassés de leur ancien prestige (13), l'intelligence de José Ortega y Gasset ne consiste-t-elle pas à nous avoir donné un synonyme, la barbarie, qui est du reste l'inverse même, notons-le, de ce recours aux forêts prôné par Jünger ? : «La civilisation n’est pas vraiment là, elle ne subsiste pas par elle-même, elle est artifice et requiert un artiste ou un artisan. Si vous voulez profiter des avantages de la civilisation, mais sans vous préoccuper de la soutenir… tant pis pour vous ; en un clin d’œil, vous vous trouverez sans civilisation. Un instant d’inattention, et lorsque vous regarderez autour de vous, tout se sera volatilisé. Comme si l’on avait brusquement détaché les tapisseries qui dissimulent la nature vierge, la forêt primitive reparaîtra, comme à son origine. La forêt est toujours primitive, et vice versa, tout le primitif est forêt» (p. 163).

Notes
(1) Voir la Préface pour le lecteur français, pp. 47, 71 et 81. Voici l'une des expressions qu'utilise le philosophe dans son contexte : «Il y a des époques surtout où la réalité humaine, toujours mobile, précipite sa marche, s’emballe à des vitesses vertigineuses. Notre époque est de celles-là. C’est une époque de descentes et de chutes», José Ortega y Gasset, La Révolte des masses [La rebellión de las masas, 1930] (Les Belles Lettres, traduit de l’espagnol par Louis Parrot, préface de José Luis Goyena, 2010), p. 47. Toutes les pages entre parenthèses renvoient à cette édition.
(2) Voir José Lasaga Medina, Malcolm Lowry, lector de Ortega, suivi de Malcolm Lowry, Carta a Downey Kirk, Revista de Estudios Orteguianos, n°18, 2009, Fundación José Ortega y Gasset.
(3) «Tout destin est dramatique et tragique si on le scrute jusqu’au fond. Celui qui n’a pas senti sous sa main palpiter le péril du temps n’est pas arrivé jusqu’au cœur du destin, et, si l’on peut dire, n’a fait qu’en effleurer la joue morbide» (p. 93).
(4) «Dans les révolutions, l’abstraction essaie de se soulever contre le concret. Aussi la faillite est-elle consubstantielle à toute révolution» (p. 75).
(5) Elias Canetti qui décrit, d'une façon toute expressionniste, l'atmosphère explosive du Berlin de l'entre-deux guerres : «L'aspect animal et l'aspect intellectuel, mis au jour et portés à leur apogée, se trouvaient en interaction, comme une sorte de courant alternatif. Quiconque s'était éveillé à sa propre animalité avant d'arriver à Berlin devait la pousser à son maximum pour pouvoir s'affirmer contre celle des autres et se retrouvait ensuite usé et ruiné, si l'on n'était pas d'une solidité exceptionnelle. Celui qui en revanche était dominé par son intellect et qui n'avait encore que peu cédé à son animalité ne pouvait que succomber à la richesse complexe de ce qui était proposé à son esprit. [...] On se traînait ainsi dans Berlin comme un morceau de viande avancée, on ne se sentait pourtant pas encore assez battu et l'on guettait les nouveaux coups», in Histoire d'une vie. Le flambeau dans l'oreille, 1921-1931 (Albin Michel, 1982), p. 314.
(6) «L’époque des masses, c’est l’époque du colossal» (p. 91).
(7) Voir cette image saisissante, où s'annonce un danger que José Ortega y Gasset semble voir confusément : «Quant à l’occasion qui subitement portera le processus à son terme, elle peut être Dieu sait quoi ! la natte d’un Chinois émergeant de derrière les Ourals ou bien une secousse du grand magma islamique» (p. 55).
(8) Notons la justesse de cette vue : «La vie actuelle est le fruit d’un interrègne, d’un vide entre deux organisations du commandement historique : celle qui fut et celle qui sera. C’est ce qui explique pourquoi elle est essentiellement provisoire. Les hommes ne savent pas plus quelles institutions ils doivent vraiment servir que les femmes ne savent quels types d’hommes elles préfèrent réellement. Les Européens ne savent pas vivre, s’ils ne sont engagés dans une grande entreprise qui les unit. Quand elle fait défaut, ils s’avilissent, s’amollissent, leur âme se désagrège. Nous avons aujourd’hui un commencement de désagrégation sous nos yeux. Les cercles qui, jusqu’à nos jours, se sont appelés nations, parvinrent, il y a un siècle, ou à peu près, à leur plus grande expansion. On ne peut plus rien faire avec eux si ce n’est que les dépasser» (p. 256).
(9) «Il est de moins en moins possible de mener une politique saine sans une large anticipation historique, sans prophétie. Les catastrophes actuelles parviendront peut-être à rouvrir les yeux des politiques sur le fait évident que certains hommes, de par les sujets auxquels ils consacrent presque tout leur temps, ou grâce à leurs âmes aussi sensibles que des sismographes ultra-perfectionnés, sont visités avant les autres par les signes du futur» (pp. 279-80).
(10) «[…] notre vie, si nous la considérons comme un ensemble de possibilités, est magnifique, exubérante, supérieure à toutes celles que l’on a connues jusqu’ici dans l’histoire. Mais par le fait même que ses limites sont plus vastes, elle a débordé tous les cadres, tous les principes, normes et idéals légués par la tradition» (p. 119).
(11) «La caractéristique du moment, c’est que l’âme médiocre, se sachant médiocre, a la hardiesse d’affirmer les droits de la médiocrité et les impose partout» (p. 90, l’auteur souligne).
(12) «La force était autrefois l’ultima ratio. Assez sottement d’ailleurs, on a pris la coutume d’interpréter ironiquement cette formule qui exprime fort bien la soumission préalable de la force aux normes rationnelles. La civilisation n’est rien d’autre que la tentative de réduire la force à l’ultima ratio. Nous commençons à le voir clairement maintenant, parce que «l’action directe» consiste à pervertir l’ordre et à proclamer la violence comme «prima ratio», et même comme unique raison. C’est la norme qui propose l’annulation de toute norme, qui supprime tout intermédiaire entre nos projets et leur mise en pratique. C’est la Magna Carta de la barbarie» (p. 149).
(13) «La violence est devenue la rhétorique de notre temps. Les rhéteurs, les cerveaux vides s’en emparent. Quand une réalité a accompli son histoire, a fait naufrage, est morte, les vagues la rejettent sur les rivages de la rhétorique, où, cadavre, elle subsiste longuement. La rhétorique est le cimetière des réalités humaines; tout au moins son hôpital d’invalides. Le nom survit seul à la chose; et ce nom, bien qu’il ne soit qu’un nom, est en fin de compte un nom, c’est-à-dire qu’il conserve quelque reste de son pouvoir magique» (pp. 192-3).

dimanche, 26 décembre 2010

Revista Arjé

theatre-grec-masques.jpg

Revista Arjé nº 5, pensando con Textos

Ex: http://proyectoarje.blogspot.com/ 

Estimados/as, les invito a la lectura del quinto número de la Revista Arjé, en su formato digital (e imprimible). Pueden descargarlo directamente desde el link: http://www.box.net/shared/gdu9ahr3sq (solo “pesa” 900 kb) o solicitando por mail su envío como archivo adjunto en un correo electrónico.

Y para aquellos lectores que quieran comentar, discrepar, coincidir, debatir los artículos expuestos, queda abierta la posibilidad de dejar comentarios en este espacio del blog.

Contenidos

La planchificación social, por Darío Valle Risoto, pág. 2

“Un lenguaje gutural que cambia rápidamente de códigos incomprensibles donde el que no pertenece a la tribu se pierde, una forma extraña de modular las palabras que se pegan y hacen del ejercicio siempre apasionante de la comunicación algo muy parecido a una tortura.
La cultura plancha reivindica lo vulgar, se siente orgullosa de su deformidad y plantea un desafío al buen gusto. Los especímenes planchas detestan los buenos modales, a la gente educada les llaman “chetos” y siempre hacen ruido. Parece que el volumen de su música o su forma espontánea de insultarse como muestra de afecto, deba ser necesariamente soportado por todos.”

Ricardito Fort: chocolate por fuera, merengue de corazón, por Santiago Cardozo, pág. 4

“A esta altura ya son varias las generaciones sometidas a (dominadas por) las leyes del espectáculo: quizás el omnipresente Ricardo Fort, cuyo final mediático está determinado de antemano (aunque no necesariamente visible, puesto que responde a la lógica misma del capitalismo que lo ha creado), constituya hoy el ejemplo más cabal y elocuente, el ejemplo por antonomasia, de la noción de sujeto sin sujeto, de un sujeto sin espesor, paradójicamente expresado por la musculatura de esta entidad que identificamos como un anti-hiperobjeto (Núñez, 2009). Así son las cosas: un anti-hiperobjeto recorre la televisión…”

Mujica y Aristóteles: el futuro de América Latina, por Pablo Romero, pág. 6

“Si hemos de volver a algún punto reivindicable del pasado como proyecto saludable de futuro, quizás diría que tendríamos que irnos unos cuantos siglos atrás, para instalarnos casi en la cuna del nacimiento de la filosofía occidental. Regresar a la obra mayor de nuestra cultura en el terreno de la filosofía política que entiendo es La Política, de Aristóteles. La idea de priorizar la consolidación de una democracia republicana por sobre otros modelos posibles de gobierno y la práctica política vinculada al desarrollo de determinadas virtudes éticas, entre las que cuenta el evitar siempre los extremos y defender la alternancia entre las condiciones de gobernante y gobernado, sigue siendo un proyecto político radical. Algunos entienden que la posición de Aristóteles es conservadora y que su “punto medio” como propuesta ética y política, en donde impera la búsqueda del bien común a partir del cultivo de virtudes como la moderación, la prudencia y la razón dialogante, puede ser finalmente asunto bueno para que nada cambie. Yo, por el contrario, me declaro aristotélico en ese punto de su propuesta y coincido en que hay que evitar los extremos y que radicalizar posiciones es la manera más cómoda de plantarse en la arena política y la mejor manera de ser un conservador. Y en este punto es que quiero tomar la figura de Mujica, el presidente de mi país, como un ejemplo de alguien que ha comprendido cabalmente este asunto.”

Filosofía, Agronomía y Política, por Ariel Arsuaga, pág. 12

“Marx acertó mucho, pero comparto con Juan Grompone que se equivocó en creer que la revolución la harían los obreros porque no tenían nada que perder. Ahora tienen mucho para perder, aunque no tengan el poder y la historia enseña que los oprimidos no son los que hacen las revoluciones. ¿Cuál revolución y por quiénes se estará gestando? ¿Nos dará el tiempo, antes del desastre ecológico, para entender que la equidad es el camino para convivir y que para durar hay que conservar? Yo creo ver que la revolución está en ciernes, desde la hipótesis de Gaia hasta el Proyecto Venus que imagina una economía no monetaria basada en los recursos. ¿Seremos capaces de salir de una economía de la escasez que justifica el precio y las clases y que necesita crecer indefinidamente para sortear la ley de la plusvalía decreciente? ¿Podremos inventar una economía de la abundancia que nos conduzca a la equidad?”

Apología de Diotima, por Mariella Nigro, pág. 14

“En el ágape, la bebida inspira la idea y la retórica estricta, el encomio, la ironía y la mayéutica. Apartado del gineceo, el simposio, en tanto ceremonial discursivo, es una continuación del ágora de la polis, bajo un protocolo dialógico roto en El banquete por la voz de una mujer. El festín intelectual se desarrolla tal vez, en un nivel metafísico, en aquella caverna alegórica donde se proyectan unas sombras que habrán de descifrar los comensales mediante el ejercicio de la razón y la dialéctica. Pero el prisionero de la caverna que se libera llega a conocer el mundo real a través de la preceptora de un gineceo antiguo: Sócrates dice lo que una vez le enseñó sobre el amor la sabia Diotima. Testimonio, relato y prescripción. Y cuestión de género.”

Sobre la reflexión filosófica, por Angelita Parodi, pág. 17

“Tuve oportunidad de leer, hace ya un buen tiempo, en su idioma original, una novela de tono trágico, escrita por el berlinés Christoph Merckel: “Bockshom”, que trata de ciertos dramas del mundo actual, centrados en la figura de dos niños afectados por la marginación, el abandono y la inseguridad de su destino, que se unen para vivir de lo que puedan recoger en su vagabundeo. Pero no me referiré a las aventuras, o más bien desventuras de esos niños. Me llamó la atención un curioso personaje que aparece en uno de sus capítulos, de nombre Viktor, sentado en cuclillas al borde de una carretera, solo, sin compañía humana o animal alguna, vestido con incómoda, pobre y encogida vestimenta y sin pertrecho alguno que le sirviera de defensa o abrigo. Y sin embargo su rostro muestra una sonrisa de inocente placidez. Solo se dedica a contemplar con asombro el tránsito incesante de esa carretera, y en ese asombro se genera en su mente la pregunta que podría expresar el germen de una filosofía de la vida. Todos pasan de largo en apurada carrera, pasan y pasan sin detenerse. ¿Tras de qué corren? ¿Adónde se dirigen? ¿Por qué tanta prisa?, parece preguntarse aunque no lo exprese en palabras.”

Revisión del programa transhumanista de Niels Bostrom, por Alejandro G. Miroli, pág. 19

“Si la filosofía clásica –la matriz que nace en el pensamiento greco-occidental o indostano-oriental- parece incapaz de dar cuenta de dichas mutaciones en la medida que su horizonte propio parecía ser la intencionalidad propia de la sensibilidad humana sin prótesis, otros programas filosóficos asumen la tarea de generar una metafísica para la intencionalidad protésica; y ha sido la filosofía transhumanista la que planteó una Ética y una Antropología filosófica capaces de evaluar y bosquejar programas de acción al proponer una agenda apologética de la Tecnosfera. Entre tales filósofos sobresale el filósofo británico Nick Bostrom por la proyección y radicalidad de su obra.”

Adolfo Sánchez Vázquez a sus 95 años, por Jorge Reyes López, pág. 23

“Asimismo, examina el valor de la ética en el socialismo. Sánchez Vázquez insiste en que la ética socialista a construir no puede derivarse de meros fines utilitarios, egoístas, o privilegiando cualquier medio en el cumplimiento de un cierto fin (aun el de la revolución). En este sentido, la posición de nuestro autor en lo relativo al acto moral consiste en que éste debe de circunscribirse hacia el bien que ofrezca una transformación a favor de su comunidad y su historia. De ahí que tanto la responsabilidad como de la libertad posean un papel imperativo en este proceso. La célebre obra titulada Ética (1968), es el resultado de este periodo. Dentro de estas inquietudes se publicó su obra Del socialismo científico al socialismo utópico (1971), destacando el sentido de la apertura hacia el futuro por construir y la función orientadora de las utopías en la marcha hacia una nueva humanidad.”

mardi, 21 décembre 2010

Der Monismus und Bruno Wille

Der Monismus und Bruno Wille


von Erik Lehnert (Friedrichshagen)

Ex: http://www;friedrichshagener-dichterkreis.de/

Monismus%2.jpgMan muß es so hart sagen: Bruno Wille war weder ein originärer Denker noch ein Philosoph. Damit könnten seine Veröffentlichungen beiseite gelegt und die Person den Lokalhistorikern überlassen werden. Aber die Beschäftigung mit dem Denken Willes ist trotz alledem aufschlußreich. Was seine Schriften erinnernswert macht, ist die Tatsache, daß sie an den weltanschaulichen Auseinandersetzungen der Zeit teilgenommen und so den Zeitgeist gleichzeitig reflektiert, mitgeformt und bekämpft haben. Dabei war Wille Teil einer zeitbedingten Denkströmung, die sich, trotz "fortschrittlicher" Gesinnung, dem Materialismus der Zeit entgegenstellte, wenn auch oft mit zweifelhaften Positionen und Erfolgen. Wille läßt sich aber in einen ewigen Zusammenhang der Philosophie bringen. Er gehört, wenn auch lediglich rezipierend, zu den Bemühungen um eine einheitliche Weltanschauung, die das Denken von Anfang an begleiteten.

Der Monismus ist eines von jenen Schlagwörtern, denen keine eindeutige Definition mehr zukommt, die im Laufe ihrer Begriffsgeschichte manigfaltige Umdeutungen ertragen haben, die sie heute nicht mehr ohne weiteres anwendbar machen. Das griechische "monon", das Eine, ist die Wurzel des Monismus, das durch die Erweiterung zu einem "Ismus" den Charakter einer Lehre von der Einheit bekommt. Bei vielen "primitiven Kulturen" ist die Wahrnehmung monistisch: die Welt ist von Kräften regiert, denen alles unterworfen ist. Auch der Brahmanismus und der Taoismus sind von einem metaphysischen Monismus bestimmt. Das philosophische Ringen um eine solche Weltanschauung ist als Gegenstück und Ergänzung zum Dualismus ebenso alt wie die Philosophie selbst, der Begriff hingegen ist ein Kind der Aufklärung. Beide kommen menschlichen Grundbedürfnissen nach: Der Leib/Seele und Gott/Welt Dualismus ist die Folge des menschlichen Erwachsens aus seinem unbewußten Einssein mit Gott und der Welt (Sokrates). Seit dieser Erkenntnis ist das Gebot und Bestreben in der Welt, hinter der Vielheit die Einheit zu erkennnen (Platon). Der Monismus trägt der Tatsache Rechnung, daß das im Dualismus getrennte von einem einheitlichen verbindenden Prinzip regiert wird, das überhaupt erst die Wahrnehmung der Gegensätze begründet. "Der Dualismus ist eine psychologische Tatsache, aber der Monismus ist sein zureichender Grund. Der Dualismus ist nach alledem nur das vorletzte, der Monismus aber ist das letzte Wort der Philosophie." (Ludwig Stein) Der Begriff "Monismus" ist nicht zuletzt deshalb so belastet, weil seine erste Verwendung (in der Schulphilosophie Chr. Wolffs) in ablehnender Form erfolgte. Monisten sind danach Anhänger der Lehre, die besagt, daß nur eine Grundsubstanz, beispielsweise die Materie, existiert und die restlichen Erscheinungen bedingt. Als Monismus werden deshalb vereinfachend so unterschiedliche Anschauungen wie Materialismus und Idealismus bezeichnet, da beide die Welt aus einem Prinzip erklären. Eine weitere Abwertung erfuhr der philosophische Begriff durch die Verwendung bei Ernst Häckel, der ihn zu einem einseitigen Kampfbegriff popularisierte, um seine diesseitige, materialistisch-naturwissenschaftliche Weltanschauung zu verbreiten. Im "Deutschen Monistenbund" versammelten sich diejenigen, die die Materie oder die Energie (bzw. die Kraft) als die eine grundlegende Substanz ansahen. Seitdem ist der Begriff nicht mehr ohne umständliche Erläuterungen zu gebrauchen. Aber er zeigt beispielhaft ein menschliches Grundbedürfnis: die Gegensätze durch einen oftmals fragwürdigen, und nur selten "goldenen" Mittelweg zu überwinden. Insbesondere über die Problemlage der Jahrhundertwende im weitesten Sinne kann er uns Auskunft geben. Es gab ja nicht nur den Häckelschen Monismus, d.h. den wissenschaftlichen Materialismus. Der Begriff wurde in zahlreichen Ausdeutungen und Neudefinitionen zum Gegenstand des denkerischen Diskurses des Kaiserreichs. Es erschienen unzählige Bücher zum Thema: von Rosenthal "Die monistische Philosophie" (1880) bis Seidel "Das Wesen des Monismus" (1920). Einen Höhepunkt an wissenschaftlicher Intensität wie auch übler Polemik erlebte die Diskussion allerdings erst, nachdem Häckel den Begriff für sich entdeckt hatte - nun wurde die Geschichte des Monismus erforscht und seine zeitgenössischen Vertreter zu Wort gebeten, so daß sich scheinbar mehr als 16 verschiedene Arten des Monismus unterscheiden ließen. In der 1892 erstmals veröffentlichten und bis 1929 in 42 Auflagen verbreiteten "Einleitung in die Philosophie" von dem Berliner Philosophie-Professor Friedrich Paulsen heißt es: "Die Anschauung, der nach meiner Ansicht die Entwicklung des philosophischen Denkens zustrebt, die Richtung, in der die Wahrheit liegt, bezeichne ich mit dem Namen des idealistischen Monismus." Dieser soll die religiöse Weltanschauung (supranaturalistischen Dualismus) und die wissenschaftliche Naturerklärung (atomistischer Materialismus) einander verträglich machen.

Diesem Bemühen hat sich auch Bruno Wille angeschlossen, der dieses Modewort wohl zunächst, durch seinen Freund Bölsche vermittelt, von Häckel übernahm, es aber anders verwendete. Zuvor jedoch promovierte sich Wille nach einem Studium der Philosophie und Theologie 1888 über den "Phänomenalismus des Thomas Hobbes", einer besseren Hauptseminararbeit, und war seitdem als freier Schriftsteller tätig, dessen lyrisches und belletristisches Schaffen nicht ohne Grund vergessen ist. Sein organisatorisches Talent auf kulturellem und sozialpolitischem Gebiet ist hingegen unbestritten. Philosophie im akademischen Sinne hat Wille nicht betrieben, ihm ging es um Moral und Ethik, um eine Weltanschauung für den Menschen des Fortschrittzeitalters. Die Ansichten und Themen Willes variieren deshalb im Laufe seiner Publikationstätigkeit nur wenig. Die Situation seiner Zeit hatte Wille, wie im Grunde auch Häckel (dessen Schluß allerdings darin bestand, den Glauben an etwas Transzendentes ganz abzulehnen), erkannt: die Fortschritte auf dem Gebiet der Naturwissenschaften machten die christliche Religion scheinbar überflüssig, die Religion durfte keine eigene Geltungsebene mehr beanspruchen - es schien, als könne der Mensch sich selbst erlösen. Damit ging ein geistig-moralischer Verfall einher, die christliche Religion wurde als Heuchelei um der Konventionen Willen aufrechterhalten: man gab vor, an Erlösung und die zehn Gebote zu glauben und fand (und findet) doch im täglichen Leben genügend spitzfindige Ausreden. Die Religion befand sich also im Umbruch. Die Kirche konnte den Kampf gegen diesen Atheismus in den Augen der sozialreformerisch orientierten Vordenker nicht wirkungsvoll genug führen, so daß sich eine außerkirchliche Religiösität organisierte, zu der sich auch Wille zählte. Seine Beschäftigung mit religiösen Themen fand u.a. Ausdruck in seiner Tätigkeit als Lehrer und Sprecher der freireligiösen Gemeinde in Berlin. (Da wundert es einen auch nicht mehr, daß Wille Bruder der Loge "Zur aufgehenden Sonne" und Haupt einer "Allgemeinde" war.) Der theoretische Schluß aus der aktuellen Situation heraus war für Wille, da eine Ethik/Moral naturalistisch schwer zu begründen ist, vor allem die christliche Religion ihrer Besonderheit, der Erlöser und Herr Jesus Christus, zu berauben, um so einen vernüftigen Glauben zu erhalten: eine für jedermann verständliche Universalreligion, die die scheinbaren Unterschiede der Religionen überwindet und so das Menschengeschlecht beglückt. Vorbild hierfür ist indirekt der "Positivistische Katechismus" Auguste Comtes aus dem Jahre 1852 (und natürlich der Kult des "Höchsten Wesens" in der französischen Revolution). In Anlehnung an D.F. Strauß erklärt Wille die Evangelienberichte über Jesus zu Mythendichtungen. Jesus ist nur noch ein Gleichnis für das sittliche Streben des Menschen. In der monistischen Neulektüre der Bibel wird das Christentum zur Tradition, christliche Rituale und Symbole zu allgemein-menschheitlichen Mythen und Ideen. Auch aus der deutschen Mystik, insbesondere von Jakob Böhme, nimmt Wille das Material für seine Bemühungen. Man fühlt sich dabei zuweilen an die moderne Esoterik erinnert, die Mystik als eine esoterische Disziplin versteht, und dabei vergißt, daß das Ablegen der Selbstvergottung, durch das der Mensch erst in der Lage ist, Gott zu erkennen, das Wesen der Mystik ist ("Cogitor, ergo sum." Ich werde -von Gott- erkannt, deshalb bin ich. Franz v. Baader), und nicht eine Selbsterkenntnis oder ein sich Gehenlassen und "Einsfühlen" mit den Elementen. (Auch nicht "Teetrinken", wie es in unserem letzten Heft hieß.) Jesus hatte gesagt: "Ihr werdet die Wahrheit erkennen, und die Wahrheit wird euch frei machen." (Joh 8,32) In der "Philosophie der Befreiung durch das reine Mittel", Willes Auseinandersetzung mit Nietzsche und Stirner, heißt es programmatisch: "ein Jeder erarbeite mit Eifer seine eigene Erlösung". Der Übermensch Nietzsches wird zum freien Vernunftmenschen und Stirners Solipsismus hält Wille die "Menschheit" als moralische Kategorie entgegen. Eine merkwürdige Nähe Willes zu den nordamerikanischen "pragmatischen Idealisten" Emerson und Trine, bei denen insbesondere letztgenannter den Pantheismus als Universalreligion zur Selbsterlösung des Menschen predigte, zeichnet sich dort ab. Mit der Feststellung, daß "unsere Erlösung durch den Stellvertreter ... eigentlich unsere Selbsterlösung, wenn diese auch durch Christus bedingt wird" bedeute, kann Wille seine Nähe zum Buddhismus, der ja keine Erlösung in unserem christlichen Sinne kennt, nicht verleugnen. Ebenso ist Willes Abneigung gegen die Geheimlehre Helena Blavatskys, nur aus seiner unbewußten Nähe zu dieser zu verstehen. Sie propagierte eine innere Einheit der Religionen und ein monistisches Gott-Welt-Verständnis, konnte aber die Berechtigung der Naturwissenschaften nicht anerkennen. Willes Motto für seine Spielart des Monismus lautet im postum veröffentlichten Spätwerk "Der Ewige und seine Masken": "Im Ewigen verschmelzen alle Besonderheiten, Bestimmungen und Gegensätze zum Ganzen." Also eher ein Monopluralismus. Zunächst aber erhob Wille die Forderung Goethes "Materie nie ohne Geist" zum Programm, das als Selbstverständnis seiner Weltanschauung im "faustischen Monismus" gipfelt, um sich von den materialistischen Monisten zu unterscheiden, die auch Wille sehr schön als metaphysische Nihilisten entlarvt. "Faustischer Monismus" bedeutet praktisch, in Vorwegnahme der "faustischen Kultur" Spenglers, daß sich "dieser Gottmensch durch die Hingabe des männlichen Tatendranges...an das Reich der ewigen Werte" zeugt. Ein weiterer geistiger Vater, auf den sich Wille offen bezieht, ist Fechner, der als Begründer der Psychophysik, einer exakten Lehre der Abhängigkeiten zwischen Körper und Seele, den Weg für einen zumindest relativen Dualismus und damit relativen Monismus ebnete. "Ich sehe keinen andern Ausweg...als die ausnahmslos psycho-physische Deutung der Natur", sagt Wille deshalb gegen Häckel und dessen Verehrer. Wille hatte erkannt: um Monist sein zu können, muß man Metaphysiker sein, der "Materialismus ist philosophische Gedankenschwäche" (O. Spann). Vorbild wird deshalb auch die Philosophie Brunos, der einen monistischen Pantheismus lehrte, aber an der Transzendenz Gottes festhielt. Der "Giordano-Bruno-Bund" (1900-1908) war das Organisationsforum der idealistischen Monisten, die, um Einigung bemüht, "Naturwissenschaft, Philosophie, Kunst und Andacht harmonisch zusammmenschließen" wollten.

Die monistisch-pantheistische Frömmigkeit die Wille uns zeigt, ist ein ästhetisch geprägter Synkretismus, der Basis für eine einheitliche Ethik sein soll. Das ist problematisch und hat sich nicht in der Lage gezeigt, den Siegeszug des Materialismus aufzuhalten. Man wollte Religion, ohne konservativ oder gar reaktionär zu sein, das war das eigentliche Dilemma. Die Beweggründe, zu solch einer Weltanschauung zu gelangen, sind edler Natur. Es ist das Bestreben, die Entfremdung zwischen Religion und Kultur zu überwinden. Dabei fällt die alte Weisheit, daß der Mensch die Rolle eines "Mitstreiters, ja Mitwirkers Gottes" (Scheler) übernehmen muß, neu auf. Die Einheit ist also noch nicht da, sie muß erst errungen werden. Hegel: "Erst das Christentum hat durch die Lehre von der Menschwerdung Gottes und von der Gegenwart des Heiligen Geistes in der gläubigen Gemeinde dem menschlichen Bewußtsein eine vollkommen freie Beziehung zum Unendlichen gegeben und dadurch die begreifende Erkenntnis des Geistes in seiner absoluten Unendlichkeit möglich gemacht. Nur eine solche Erkenntnis verdient fortan den Namen einer philosophischen Betrachtung." Kierkegaard: "1800 Jahre ist es her, daß Christus lebte, er ist also vergessen / nur seine Lehre besteht: ja das heißt, man hat das Christentum abgeschafft."

Anmerkung: Das hier aus Platzgründen nur angerissene Thema soll in einem Vortrag im "Kulturhistorischen Verein Friedrichshagen" voraussichtlich im Oktober 1999 ausführlicher besprochen werden.

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lundi, 20 décembre 2010

Bruno Wille und die Freidenkerbewegung

Bruno Wille und die Freidenkerbewegung*

von Erik Lehnert (Friedrichshagen)

Ex: http://www.friedrichshagener-dichterkreis.de/


Bruno-Wille-WDR-3.jpgDas Freidenkertum entstand im 17. Jahrhundert in England und gelangte im Laufe des 18. Jahrhunderts auf den europäischen Kontinent, v. a. nach Frankreich. Das ursprüngliche Ziel der Bewegung war die Religionsfreiheit. Das "freie Denken" sollte die Evidenz aller Gegenstände aus der Sache ableiten, nicht aus der Autorität. Erst im "eigentümlichen Freiheitsraum des 19. Jahrhunderts" (Friedrich Heer) vollzog sich innerhalb der Freidenkerbewegung ein Wandel: man organisierte sich, versuchte die ursprünglich elitäre Idee zu popularisieren und so politischen Einfluß auszuüben - man wollte das Denken allgemein von religiösen Vorstellungen befreien. Ein Resultat war, daß die Bezeichnung Freidenker, jetzt zu Recht, synonym für Atheisten gebraucht werden konnte. 1881 wurde der Deutsche Freidenker-Bund (DFB) durch Ludwig Büchner gegründet. 1905 bzw. 1908 folgten sozialdemokratische bzw. proletarische Abspaltungen, die sich 1927 vereinigten. Ihren Höhepunkt hatte die Bewegung am Anfang der 30er Jahre. Am Zweiten Weltkrieg zerbrach der Fortschrittsglaube, mit dem Einflußverlust (und der blutigen Unterdrückung) der Kirchen kam der Hauptfeind abhanden und die Naturwissenschaft stieß v. a. in der Atom- und Astrophysik an Grenzen, die einen weltanschaulichen Materialismus unglaubwürdig machen.

Nietzsche, ein ganz anders gearteter "freier Geist" (Im Nachlaß finden sich sogar "Die zehn Gebote des Freigeistes", von denen das zweite lautet: "Du sollst keine Politik treiben."), war bemüht, sich gegen die organisierten Freidenker abzugrenzen: "Sie gehören, kurz und schlimm, unter die Nivellierer, diese fälschlich genannten 'freien Geister' - als beredte und schreibfingrige Sklaven des demokratischen Geschmacks und seiner 'modernen Ideen'; allesamt Menschen ohne Einsamkeit, ohne eigne Einsamkeit, plumpe brave Burschen, welchen weder Mut noch achtbare Sitte abgesprochen werden soll, nur daß sie eben unfrei und zum Lachen oberflächlich sind, vor allem mit ihrem Grundhange, in den Formen der bisherigen alten Gesellschaft ungefähr die Ursache für alles menschliche Elend und Mißraten zu sehn: wobei die Wahrheit glücklich auf dem Kopf zu stehn kommt!" (Jenseits von Gut und Böse II, 44) Nicht die Umstände sondern die Unvollkommenheit des Menschen ist die Ursache. Ein "freier Geist" wie Nietzsche glaubt nicht einmal an die Wahrheit und demzufolge auch nicht an die Wissenschaft, die natürlich ebenfalls metaphysische Voraussetzungen hat. (Zur Genealogie der Moral III, 24)

Wille tritt erstmals im Oktober 1892 öffentlich im Zusammenhang mit dem DFB in Erscheinung. Er schreibt im Correspondenzblatt des Bundes: "was mich bisher vom Freidenker-Bunde zurückhielt, war die Meinung, hier werde das soziale Problem mit seinen bedeutsamen Konsequenzen für unsere Taktik, Moral und Pädagogik ungenügend oder unrichtig betrachtet und angefaßt." (1. Jg.,1892/93, S. 31) Bereits ein Jahr später übernimmt Wille die Redaktion des "Freidenkers" (bekommt dafür eine Aufwandsentschädigung von 300 Mark jährlich) und wird Vorstandsmitglied des DFB. Ab dem 1. März 1916 ist Wille Herausgeber der Zeitschrift und bleibt dies bis zur Einstellung des Erscheinens 1921. Rückblickend schreibt er 1920: "Zu den Geistesbewegungen, die ich mit besonderer Arbeitsamkeit fördere, gehört neben der Freireligiosität das Freidenkertum. Seit Anfang der neunziger Jahre gehöre ich zur Leitung des Deutschen Freidenkerbundes, redigiere dessen Blatt ("Der Freidenker") und habe auf vielen Kongressen des Bundes gewirkt, auch auf internationalen (Rom und München). Die anfangs im deutschen Freidenkertum vorherrschende Richtung des Materialisten Ludwig Büchner habe ich durch meine idealistische Weltanschauung ergänzt, damit das Freidenkertum sich nicht beschränke auf rationalistischen Volksaufkläricht."

Die Geschichte der Zeitschrift soll hier nicht das Thema sein. Obwohl diese sehr interessante Aufschlüsse über die Organisationstrukturen der freigeistigen Bewegungen etc. geben könnte, da der "Freidenker" im Laufe seines Bestehens zahlreiche Wandlungen vollzog, die sich u. a. in Zusammenschlüssen mit anderen Bünden und deren Zeitschriften zeigen. Die Zeitschrift erschien am 1. Juli 1892 erstmals als "Correspondenzblatt des Deutschen Freidenker-Bundes" und wurde mit der Ausgabe vom 1. Juli 1893 umbenannt in "Der Freidenker. Correspondenzblatt und Organ des Deutschen Freidenker-Bundes". Die Erscheinungsweise war bis zum 1. Juli 1894 vierwöchentlich, danach zweiwöchentlich. Die Verlagsorte wechselten oft, je nachdem welcher Ortsverband mit der Herausgabe betraut war. Von Mitte 1895 an war es für kurze Zeit Friedrichshagen (Berlin). In der Juniausgabe 1906, die rückblickend das 25jährige Jubiläum des Freidenkerbundes feiert, wird ein Ansteigen der Auflage der Bundeszeitschrift von 800 (1892) auf 3600 (1906) Exemplare verzeichnet.(14. Jg., 1906, S. 84-86).

In der September-Ausgabe des "Correspondenzblattes" erschien 1892 ein anonymer Beitrag: "Die Scheidung der Geister". (1. Jg., 1892/93, S. 19-22). Darin versucht der Autor den Idealismus vom Materialismus, der seiner Meinung nach einzig richtigen Weltanschauung, zu scheiden: "Hie Materialismus, dort Idealismus: es giebt keine Ueberbrückung." Die materialistische Position wird auf den Einzelnen und die Gesellschaft angwandt. Der bekannte Schluß lautet, daß alles Geschehen "dem Zwang äußerer und innerer Verhältnisse" unterliegt. Jede Handlung eines Menschen sei, durch seine soziale Lage oder weil ihm der freie Wille fehlt, determiniert. Dieser Beitrag löste eine interessante Debatte aus, die dem Verfasser Widersprüche in seiner Argumentation aufzeigte, insbesondere wie man politisch oder kulturell wertsetzend wirken wolle, wenn man keinen freien Willen hat. Wille beteiligt sich an dieser Diskussion und hebt lobend hervor, daß "die materialistische Geschichtsauffassung [...] den gebührenden Einzug" bei den Freidenkern gehalten hat. (1. Jg., 1892/93, S. 31f.). Wille ist der Auffassung, daß der Determinismus keinen Einschränkungen unterworfen ist und begründet das mit der Definition von Freiheit, als Möglichkeit, zu können was man will. Das Wollen ist allerdings motiviert, d. h. von einer oder mehreren auslösenden Ursachen abhängig bzw. determiniert. So artet die Diskussion in Wortklaubereien aus.
Wille stieß in einer Zeit zur Freidenkerbewegung, als diese an Einfluß verlor. Seit 1890 war den Arbeiterparteien die Versammlungsfreiheit wieder gewährt worden, so daß die Arbeiterschaft ihre eigenen Versammlungen besuchte. Der Gegensatz zwischen der Führung der Freidenker, die aus dem liberalen Bürgertum hervorging, und der Masse der Arbeiter trat jetzt deutlich zu Tage. Eine vermutlich von Wille auf dem Kölner Freidenkerkongreß 1894 eingebrachte Resolution sah zwar die Lösung der sozialen Frage als dringendes Problem, stellte die Wahl der Mittel jedoch dem Einzelnen frei. Der Gegensatz zur marxistischen Sozialdemokratie war offensichtlich. Hinzu kam der beginnende Einfluß Nietzsches und der verschiedener Ersatzreligionen, der nach und nach weite Teile der Bevölkerung erfaßte. Erst die Bestseller Haeckels, ermöglicht durch den "'pathologischen Zwischenzustand' einer philosopischen Anarchie" der Jahrhundertwende (Oswald Külpe), und die internationalen Freidenkerkongresse in Rom und Paris (1904/05) brachten einen neuen Aufschwung der Bewegung. Die Macht der Orthodoxie in der Arbeiterbewegung, die das Freidenkertum als bürgerliche Ideologie ablehnte, ging zunächst zurück. Später jedoch folgte die Auseinandersetzung mit dem 1908 in Eisenach gegründeten "Zentralverband Deutscher Freidenker", einer proletarischen Abspaltung. (Vgl. 16. Jg., 1908, S. 153-156). Wille versuchte sich insbesondere des Vorwurfs, der DFB sei unter seiner Federführung zunehmend sozialliberal und damit (in den Augen der Abspaltung) reaktionär geworden, zu erwehren. Anlaß war eine Äußerung von Wille, in der er ein Zusammengehen von Sozialdemokraten und linksliberalen Freisinnigen ("Linker Block" als sozialliberaler Übergang) in der Kulturpolitik gefordert hatte. (16. Jg., 1908, S. 21). Die Person Willes war oft Ziel solcher Art von Vorwürfen. (Vgl. 3. Jg., 1894/95, S. 3-5, 58-62). Wohl auch weil er kategorisch feststellte: "Parteifanatismus ist nicht minder wie religiöser Fanatismus ein Erbfeind des Freidenkertums." (Ebd. S. 58). Das sollte sich im Laufe der Geschichte bewahrheiten.

Was Freidenkertum seiner Meinung nach sei, schreibt Wille in einer Ausgabe der Zeitschrift "ohne Verbindlichkeit für unseren Bund". (15.Jg.,1907, S. 41f). Dem Namen nach (also bloß oberflächlich?) tritt Freidenkertum für "grundsätzlich freies Denken" und "für schrankenlose Entwicklung der höchsten Geisteskräfte in Persönlichkeit und Volksleben ein". Unterdrückung im geistigen Kampf wird abgelehnt, da die Wahrheit durch "ungehemmten Wettbewerb" (natürliche Zuchtwahl) hervortreten soll. Die Wahrheit müßte demzufolge stärker als die Lüge sein. Heißt es noch sehr frei, der Einzelne ist für die Bildung seiner Überzeugungen selbst verantwortlich, werden wenige Zeilen später letztlich dogmatisch "gewisse Weltanschauungen" abgelehnt: "Wer an ein höchstes Wesen glaubt, das als ein persönlicher Herrscher das Weltall regiert und den Menschen absolut gültige Vorschriften gegeben hat, kann kein Freidenker sein, da ihn seine Unterordnung unter die geglaubte Autorität zur Intoleranz verführt." Gemeint ist hier natürlich v.a. das Christentum, das durch eine "natürliche Weltanschauung" ersetzt werden soll. Damit meint Wille in jedem Fall einen Monismus, sei er nun "idealistisch, materialistisch oder mechanistisch". Der Freidenker kann nach Wille ruhig einer "religiösen Stimmung" nachgeben, da dies auch die alten Ägypter, Babylonier etc. getan hätten. Scheinbar fallen deren Ansichten nicht unter "gewisse" sondern unter "natürliche Weltanschauungen". Eine Unterscheidung, die Wille nicht erläutert. Religion sei nicht das "Glauben an übernatürliche Dinge" sondern: "Hingabe an das Höchste, das ein Mensch erlebt, gleichviel welche Begriffe er damit verbindet." Um den Einfluß der Bewegung zu erhöhen, schlägt Wille die Gründung eines Kartells aller mit den Freidenkern gleichgesinnten Geistesrichtungen vor. 1909 kam es dann tatsächlich zur Gründung des "Weimarer Kartells", in dem Monistenbund, "Bund freireligiöser Gemeinden" und DFB zusammenarbeiteten. Der DFB und der Bund bildeteten 1921 den "Volksbund für Geistesfreiheit" mit der monatlich erscheinenden Zeitschrift "Geistesfreiheit" statt des "Freidenkers" als Organ. Im Nachruf dieser Zeitschrift auf Willes Tod heißt es u. a., daß Wille sich "mit der Richtung des Volksbundes für Geistesfreiheit nicht befreunden" konnte. Aber: "In der Geschichte des Freidenkertums nimmt er eine hervorragende Stelle ein." (37. Jg.,1928, S. 147)
Wie oben angedeutet, sieht Wille die Entwicklung der Wahrheit (für ihn gleichbedeutend mit Wissenschaft) in Analogie zur Entwicklung der Wirtschaft. In beiden solle "freies Spiel der Kräfte" herrschen. Der positive Lauf, den die Wirtschaft seit dem Liberalismus genommen habe, zeige die Möglichkeiten, die in der Wissenschaft ruhen. Durch gleiche Bedingungen für alle soll brachliegendes geistiges Potential freigesetzt werden. (17. Jg.,1909, S. 17-19). Der Wirtschaftsliberalismus setzte tatsächlich ungeheure Energien frei, den notwendigen Konkurrenzkampf gewinnen jedoch die Stärkeren wie in der Natur auf Kosten der Schwachen (Monopolbildung). Eine andere interessante Frage schließt sich daran an: Gehören Darwinismus und Sozialismus zusammen? Bebel sagte ja, Haeckel nein. (2. Jg.,1893/94, S. 65-68) Also: Befördert die Selektionstheorie den Sozialismus oder widerspricht sie ihm? Haeckel bezog das darwinistische Prinzip auf den Einzelnen, Bebel auf die Gesellschaftsform. Auf den ersten Blick scheint eher der Liberalismus dem Darwinismus zu entsprechen, in dem sich der Tüchtigste o.ä. durch setzt. Wille führt dagegen an, daß es in der Natur Schutzbündnisse gebe. Ob aber, wie er behauptet, "gerade der Kampf ums Dasein [...] solche Solidarität" auch in der Menschheit herbeiführen wird, ist zweifelhaft, da Wille nur den Zusammenhalt innerhalb einer Klasse meint. Der Sozialismus nach seiner Definition "sucht die Existenz-Bedingungen nicht etwa durch Abtragung ihrer sonnigen Höhen, sondern durch Zuschüttung ihrer grauenvollen Schluchten zu nivellieren." Er ist davon überzeugt, daß sich die unzweckmäßigen Einrichtungen der Gesellschaft zurückbilden und sich die Volkswirtschaft den Bedürfnissen des Volkes anpaßt. Also kommt der Sozialismus zwangsläufig? Wozu braucht man dann den "Umstürzler" Wille? Die Widersprüche sind dem darwinistischen Dogmatismus geschuldet.

Mit seiner Kritik an Haeckels nationalökonomischer Einstellung zeigt Wille nur einen Teil der unterschiedlichen politischen Auffassungen, die im Freidenkertum nebeneinander existierten. Generell kann man für die Beiträge Willes im "Freidenker" sagen, daß er im wesentlichen die Themen seiner Bücher behandelt und teilweise wörtlich daraus zitiert. Weiterhin nahm er zu aktuellen Fragen in der Regel kurz Stellung und redigierte die Zeitschrift mit einem m. E. erstaunlich hohen Maß an Meinungsfreiheit - getreu dem idealistischen Motto: "Das Freidenkertum ist eine Methode, eine Art zu denken, weniger ein bestimmter Inhalt des Denkens; es betont weniger das Was, als das Wie." (3. Jg.,1894/95, S. 5)

* Anmerkung: Der Text stellt einen Auszug aus einem Vortrag dar, den der Autor am 26. März 2001 auf Einladung des Berliner Landesverbandes der Deutschen Freidenker im Rahmen der philosophisch-weltanschaulichen Gespräche zur 120jährigen Geschichte der Freidenker in Deutschland gehalten hat.

dimanche, 19 décembre 2010

The Return of Carl Schmitt

The Return of Carl Schmitt

 Scott Horton

 

"Woe unto him who has no enemy, for at the Last Judgment I shall be his enemy."
- Carl Schmitt, Ex Captivitate Salus (1950)

 

Schmitt_nomos_de_la_terre-23a63.jpgA recent study points to 108 deaths in detention in the War on Terror, with a substantial part clearly linked to the Bush Administration’s controversial new coercive interrogation practices. Some of the most egregious cases involve the CIA. In this week’s New Yorker, Jane Mayer takes a close look at one case – that of Manadel al-Jamadi. Approximately two years ago, Jamadi died at the infamous Abu Ghraib prison near Baghdad. His death was quickly ruled a homicide, a CIA investigation found clear indicia of criminal wrongdoing, and with that the matter was placed in the hands of Paul McNulty – the U.S. Attorney for the Eastern District of Virginia and now the Bush Administration’s new nominee to serve as Deputy Attorney General. Since that time, from all appearances nothing has been done – the file has languished “in a Justice Department drawer,” in the words of one of Mayer’s informants.

Mayer, whose earlier writings have greatly contributed to the public understanding of the detainee abuse scandal, astutely recognizes the wide-ranging significance of the case. Justice in a homicide case is important enough, but this case raises another and potentially far more troublesome question: Has the Department of Justice been corrupted by its “torture memoranda”? Would a prosecution expose indelible links between the crime and the highest echelons of the Department of Justice? The question is not far-fetched. Indeed, its potential to rock the Bush Administration dwarfs that of the Plamegate scandal. As Marty Lederman established in a lengthy series of posts, the “torture memoranda” served a concrete double function: they overcame Agency objections that certain interrogation techniques violated the law (by furnishing an Attorney General opinion that they were lawful), and they offered effective impunity to CIA agents who uses these techniques. I caution that this is the function they were intended to serve. Whether memoranda of the Office of Legal Counsel can actually shield those who rely on them from prosecution is doubtful.

Let us assume that the techniques employed on Jamadi – including the likely fatal “Palestinian hanging” approach – were within the scope of the torture memoranda. Were charges to be brought against the agent who had custody of Jamadi and used the fatal technique, he would certainly plead the torture memoranda as an affirmative defense. Confronted with such claims, a truly independent prosecutor would have to consider the possibility that the authors of these memoranda counseled the use of lethal and unlawful techniques, and therefore face criminal culpability themselves. That, after all, is the teaching of United States v. Altstötter, the Nuremberg case brought against German Justice Department lawyers whose memoranda crafted the basis for implementation of the infamous “Night and Fog Decree.” Who can imagine Paul McNulty, now nominated to serve as Alberto Gonzales’ deputy, undertaking such an investigation of his boss? Hence, McNulty’s dilemma is understandable, but his failure to act should not be lightly dismissed.

Mayer’s article raises fair and compelling questions about McNulty’s handling of the Jamadi homicide case – and about the role of the Department of Justice in the investigation of detainee homicides generally.

But Mayer’s article is significant for another reason. It sheds new light on one of two of the “torture memoranda” which is not yet in the public domain, but has long been viewed as critical to understanding the inhumane practices that became commonplace in Iraq beginning in the fall of 2003.



A March [14], 2003, classified memo was “breathtaking,” the same source said. The document dismissed virtually all national and international laws regulating the treatment of prisoners, including war-crimes and assault statutes, and it was radical in its view that in wartime the President can fight enemies by whatever means he sees fit. According to the memo, Congress has no constitutional right to interfere with the President in his role as Commander-in-Chief, including making laws that limit the ways in which prisoners may be interrogated. Another classified Justice Department memo, issued in August, 2002, is said to authorize numerous “enhanced” interrogation techniques for the C.I.A. These two memos sanction such extreme measures that, even if the agency wanted to discipline or prosecute agents who stray beyond its own comfort level, the legal tools to do so may no longer exist. Like the torture memo, these documents are believed to have been signed by Jay Bybee, the former head of the Office of Legal Counsel, but written by a Justice Department lawyer, John Yoo, who is now a professor of law at Berkeley.



As has been noted in this space before, the March 14, 2003 Yoo memorandum has assumed a “Rosetta Stone” quality. It was transmitted to the Department of Defense as advice at a critical juncture – as the Iraq War moved off the drawing boards and into reality, and questions were repeatedly raised about how the Geneva Conventions were to be applied. But that's not all. Mayer's article now suggests the existence of other advice which explicitly addressed the situation in Iraq:

By the summer of 2003, the insurgency against the U.S. occupation of Iraq had grown into a confounding and lethal insurrection, and the Pentagon and the White House were pressing C.I.A. agents and members of the Special Forces to get the kind of intelligence needed to crush it. On orders from Secretary of Defense Donald Rumsfeld, General Geoffrey Miller, who had overseen coercive interrogations of terrorist suspects at Guantánamo, imposed similar methods at Abu Ghraib. In October of that year, however—a month before Jamadi’s death—the Justice Department’s Office of Legal Counsel issued an opinion stating that Iraqi insurgents were covered by the Geneva Conventions, which require the humane treatment of prisoners and forbid coercive interrogations. The ruling reversed an earlier interpretation, which had concluded, erroneously, that Iraqi insurgents were not protected by international law.



SCHMITT_HamletHecuba_MED.gifDocuments which have circulated in connection with the Fay/Jones and Taguba Reports made clear that following the issuance of high-level legal advice outside normal Department of Defense channels, command authorities in Iraq no longer considered the Geneva Conventions to restrain them in their handling of detainees. Internal email traffic among military intelligence units is consistent: Once you label the insurgent detainees as “terrorists,” “they have no rights, Geneva or otherwise.” It seems highly improbable that officers carefully trained in the Geneva rules would suddenly discard them on their own initiative. To the contrary, it is reasonably clear that instructions to that effect were transmitted from a very high source. The Yoo memoranda are critical to understanding what happened, and the March 14, 2003 combined with the initial OLC advice concerning treatment of insurgents in Iraq are likely the most significant pieces of the puzzle not yet in place.

But where exactly did Yoo come up with the analysis that led to the purported conclusions that the Executive was not restrained by the Geneva Conventions and similar international instruments in its conduct of the war in Iraq? Yoo’s public arguments and statements suggest the strong influence of one thinker: Carl Schmitt.

The Friend/Foe Paradigm
Perhaps the most significant German international law scholar of the era between the wars, Schmitt was obsessed with what he viewed as the inherent weakness of liberal democracy. He considered liberalism, particularly as manifested in the Weimar Constitution, to be inadequate to the task of protecting state and society menaced by the great evil of Communism. This led him to ridicule international humanitarian law in a tone and with words almost identical to those recently employed by Yoo and several of his colleagues.


Beyond this, Yoo’s prescription for solving the “dilemma” is also taken straight from the Schmittian playbook. According to Schmitt, the norms of international law respecting armed conflict reflect the romantic illusions of an age of chivalry. They are “unrealistic” as applied to modern ideological warfare against an enemy not constrained by notions of a nation-state, adopting terrorist methods and fighting with irregular formations that hardly equate to traditional armies. (Schmitt is, of course, concerned with the Soviet Union here; he appears prepared to accept that the Geneva and Hague rules would apply on the Western Front in dealing with countries such as Britain and the United States). For Schmitt, the key to successful prosecution of warfare against such a foe is demonization. The enemy must be seen as absolute. He must be stripped of all legal rights, of whatever nature. The Executive must be free to use whatever tools he can find to fight and vanquish this foe. And conversely, the power to prosecute the war must be vested without reservation in the Executive – in the words of Reich Ministerial Director Franz Schlegelberger (eerily echoed in a brief submission by Bush Administration Solicitor General Paul D. Clement), “in time of war, the Executive is constituted the sole leader, sole legislator, sole judge.” (I take the liberty of substituting Yoo’s word, Executive; for Schmitt or Schlegelberger, the word would, of course, have been Führer). In Schmitt’s classic formulation: “a total war calls for a total enemy.” This is not to say that in Schmitt’s view the enemy was somehow “morally evil or aesthetically unpleasing;” it sufficed that he was “the other, the outsider, something different and alien.” These thoughts are developed throughout Schmitt’s work, but particularly in Der Begriff des Politischen (1927), Frieden oder Pazifismus (1933) and Totaler Feind, totaler Krieg, totaler Staat (1937).

A Practical Guide to Evasion of the Geneva Conventions
Given this philosophical predisposition, how was a lawyer then to evade the application of the Geneva and Hague Conventions? Here an answer can be drawn not from Schmitt’s academic works, but from a series of determinations by the German General Staff which quite transparently reflected the influence of the then-Prussian State Councilor Carl Schmitt. A careful review of the original materials shows that the following rationales were advanced for decisions not to apply or to restrict the application of the Geneva Conventions of 1929 and the Hague Convention of 1907 during the Second World War:




(1) Particularly on the Eastern Front, the conflict was a nonconventional sort of warfare being waged against a “barbaric” enemy which engaged in “terrorist” practices, and which itself did not observe the law of armed conflict.
(2) Individual combatants who engaged in “terrorist” practices, or who fought in military formations engaged in such practices, were not entitled to protections under international humanitarian law, and the adjudicatory provisions of the Geneva Conventions could therefore be avoided together with the substantive protections.
(3) The Geneva and Hague Conventions were “obsolete” and ill-suited to the sort of ideologically driven warfare in which the Nazis were engaged on the Eastern Front, though they might have limited application with respect to the Western Allies.
(4) Application of the Geneva Conventions was not in the enlightened self-interest of Germany because its enemies would not reciprocate such conduct by treating German prisoners in a humane fashion.
(5) Construction of international law should be driven in the first instance by a clear understanding of the national interest as determined by the executive. To this end niggling, hypertechnical interpretations of the Conventions that disregarded the plain text, international practice and even Germany’s prior practice in order to justify their nonapplication were entirely appropriate.
(6) In any event, the rules of international law were subordinated to the military interests of the German state and to the law as determined and stated by the German Führer.


The similarity between these rationalizations and those offered by John Yoo in his hitherto published Justice Department memoranda and books and articles is staggering. It is of course possible that John Yoo came upon all of this on his own, like a scholar laboring in some parallel universe unaware of the work of others. Possible. But not probable.

It is more likely that Yoo’s work is a faithful, through crude and occasionally flawed interpretation of Schmitt. I say "crude" principally because Schmitt expresses from the outset the severest moral reservations about his concept of "demonization." It is, he fears, subject to "high political manipulation" which "must at all costs be avoided." The use of this technique, he writes, may only be available when "the survival of the people is at stake." Der Begriff des Politischen, pp. 20-33. Yoo expresses no comparable hesitation, preferring simply to place all confidence in the Executive, and justifying this implausibly in the writings of the Founding Fathers.

But Yoo's conclusions are rendered even more inexplicable by another point. After World War II was over and the full horror of what the Axis Powers had done was apparent, a consensus was reached to overhaul the Geneva Conventions with the express intention of repudiating the German evasions of the Conventions listed above. So, while these positions may have been arguable with respect to the two 1929 Geneva Conventions, they hardly could be invoked with respect to the 1949 Conventions. But Yoo continues to cite them, oblivious to the shifts in text and commentary that occurred in 1949.

So how does Yoo come by the work of Carl Schmitt, and why does he fail to acknowledge it in his publications? Yoo is currently a scholar in residence at the American Enterprise Institute, the center stage of the American Neoconservative movement. That movement traces itself back to Leo Strauss, the political philosopher who lived and taught for many years in Chicago. Though a Jew forced to flee Nazi Germany, Strauss was a lifelong admirer of Carl Schmitt, a scholar and teacher of his works. Moreover, Strauss’ early work in Germany played a key role in development of the Begriff des Politischen, and Schmitt’s intercession helped Strauss obtain a key scholarship that made his escape from Germany possible. Though arrested by the Americans and accused of complicity in Nazi crimes, Schmitt achieved a partial rehabilitation late in his life - thanks in large part to Leo Strauss. Indeed, Schmitt emerged as an essential part of the Neocon canon, and his work – including all the relatively obscure works cited here – were translated into English and published by the University of Chicago Press (also Yoo’s publisher). It is therefore hardly plausible to suggest that Yoo would be unfamiliar with the writings of Carl Schmitt. On the other hand, it is easy to surmise why he would fail to acknowledge his reliance on such a highly stigmatized writer. After all, Schmitt was a notorious antisemite best known for crafting the legal cover for Hitler's Machtergreifung.

Why Carl Schmitt Hates America
Carl Schmitt was a rational man, but he was marked by a hatred of America that bordered on the irrational. He viewed American articulations of international law as fraught with hypocrisy, and saw in American practice in the late nineteenth and early twentieth centuries a menacing new form of imperialism (“this form of imperialism… presents a particular threat to a people forced in a defensive posture, like we Germans; it presents us with the greater threat of military occupation and economic exploitation” he writes in 1932 – at a time of almost unprecedented American isolationism)(Die USA und die völkerrechtlichen Formen des modernen Imperialismus, p. 365). He saw in the peculiarly American notion of consensus-democracy an unsustainable foolishness, and in the Jeffersonian vision of small government with a maximum space for individual freedom a threat to his peculiar Catholic values.

Today, President Bush has again defended his indefensible treatment of detainees and claimed for himself rights that all his predecessors firmly disavowed. As president, he has cast aside the values of George Washington, Abraham Lincoln and Dwight Eisenhower – values on which the country was founded and built – and embraced instead those of Carl Schmitt, the lawyer who prostituted his genius to the cause of Fascism and fervently prayed for America’s destruction. What a great irony.

John Yoo and his colleagues present their critique of international humanitarian law as a validation of the sovereigntist tradition of the American Founding Fathers. That such claims can be taken seriously reflects a failure of critical thought in contemporary America. Yoo’s views on international humanitarian law have absolutely nothing to do with the Founding Fathers. They are a cheap, discredited Middle European import from the twenties and thirties. Viewed this way, it becomes increasingly clear where they would lead us.

samedi, 18 décembre 2010

Rob Riemens Kampf gegen Geert Wilders

Rob Riemens Kampf gegen Geert Wilders

Wie der holländische Geistesaristokrat Rob Riemen gegen den Rechtspopulisten Geert Wilders und das Böse kämpft.
Rob%20Riemen.jpgDie moderne Kultur, so klagte einst der italienische Philosoph Julius Evola, beschränke sich nicht darauf, „die aktivistische Orientierung des Lebens abzuspiegeln“. Sie peitsche den menschlichen Aktivismus sogar noch auf, weil sie in ihm etwas sehe, „was sein soll, weil es gut ist, so zu sein“. Und er stellte fest, man sei heute an einem Punkt angelangt, „wo für diejenigen, die noch nicht ganz jene antiken Überlieferungen vergessen haben, auf denen unser wahrer Geistesadel beruhte, sich eine genaue Rechenschaftsablegung über die Lage unter Beziehung eines überlegenen Gesichtspunktes gebieterisch aufdrängt. Unsere ,moderne’ Welt erkennt nur mehr die zeitverhaftete Wirklichkeit an.

Jede transzendente Schau gilt ihr als ,überwunden’.“

So stand es 1933 in dem nationalkonservativen Hamburger Organ „Deutsches Volkstum“, das zuletzt als „Halbmonatsschrift für das Deutsche Geistesleben“ firmierte. Zwei Jahre später erkundete Evola (1898 – 1974) in seinem Hauptwerk „Revolte gegen die moderne Welt“ schon den Begriff des kriegerischen Adels. 1941 verkündete der abtrünnige Katholik „Die arische Lehre von Kampf und Sieg“ und setzte 1943 in „Grundrisse der faschistischen Rassenlehre“ Geistesadel und rassische Identität vollends in eins. Für den Mussolini-Freund war dies eher ein ins Sakrale gewendeter Archaismus als Hitlerei, dessen gedankliche Dürftigkeit er, der sich in besseren Traditionen des deutschen Kulturpessimismus zu Hause wähnte, distanziert gegenüber stand. Aber Heinrich Himmler, Reichsführer der SS, verschlang Evolas esoterische Wirrnisse; sie waren mit den Verbrechen der Nazis zumindest kompatibel.

Um „Adel des Geistes“, wie es Rob Riemen, der Gründer des Tilburger Thinktanks Nexus, im Untertitel seines gleichnamigen Traktates tut, „ein vergessenes Ideal“ zu nennen, braucht es also schon eine gehörige Portion Geschichtsvergessenheit, Selbstbewusstsein oder Naivität. Vielleicht aber auch alles drei – und einen mächtigen Dekontaminator. In Riemens Fall übernimmt Thomas Mann die Rolle des Kammerjägers, ein Schriftsteller, den er so sehr bewundert, dass er von ihm gleich den Titel seines ganzen Buches übernimmt. „Adel des Geistes“ hießen auch die „Sechzehn Versuche zum Problem der Humanität“, mit denen Mann 1945 in Aufsätzen zu Goethe, Kleist, Wagner und Tolstoi einen Humanismus zu rehabilitieren versuchte, den Krieg und Nationalsozialismus ruiniert hatten.

Riemens Ehrgeiz ist dabei ebenso überhistorisch wie aktuell. Sein Traum von einem neuen, aus der Kontemplation wachsenden Geistesadel richtet sich gegen die Vergötzung animalischer Ideale, wie er sie in der heutigen Gesellschaft verkörpert sieht. „Alles ist erlaubt. Sinn ist etwas Unbekanntes; an seine Stelle tritt der Zweck. ,Spaß’ und ,Genuss’ ersetzen das Bewusstsein für Gut und Böse. Da das Bleibende nicht existiert, muss alles sofort passieren, neu und schnell sein.“ Für ihn gibt es keinen Zweifel: „Es ist dieser Nihilismus der Massengesellschaft, der die Kultur, das Bindegewebe der Gesellschaft, wie Krebs angreift und zerstört.“ Und so kämpft er, zum Teil mit Formulierungen, die geradewegs von Julius Evola stammen könnten, gegen den „Totalitarismus der Taliban“ und jedes Verständnis für die „gewalttätige mittelalterliche Theokratie“, die ihn hervorgebracht hat. Im Unterschied zu Evola jedoch verfolgt er einen strikt antifaschistischen Kurs.

In dem soeben erschienenen Essay „Die ewige Wiederkehr des Faschismus“ („De eeuwige terugkeer van het fascisme“, Uitgeverij Atlas) attackiert er den holländischen Rechtspopulisten Geert Wilders und dessen Freiheitspartei, mehr noch aber die Umstände, die die Wahlerfolge des Islamkritikers möglich gemacht haben. Er lamentiert über bürgerliche Parteien, die ihre Ideen verleugnen, über Intellektuelle, die sich dem Nihilismus hingeben, über Universitäten, die in ihrem Bildungsauftrag versagen, über die Gier der Wirtschaft und die Willfährigkeit der Medien. Kurz: das geistige Vakuum, in dem Faschismus gedeihen kann. Ein Wort, das für Wilders zu hoch gegriffen sein mag, gemessen an Riemens übrigen hochtönenden Entwürfen aber seinen Sinn hat.

Nichts von den Diagnosen, die er in „Adel des Geistes“ stellt, ist per se falsch – und trotzdem stimmt etwas Grundsätzliches mit ihnen nicht. Denn wenn die Rettung unseres Zeitalters in der Besinnung auf die Werte der Alten liegt, wie konnte Evola ihnen dann einen so offenkundig antihumanistischen Auftrag abgewinnen? Warum klingt, was Riemen zu sagen hat, so fatal nach zahnlos bundespräsidialen Sonntagspredigten und vatikanischem Geschwätz?

Rob Riemen, 1962 geboren, und damit ein Jahr älter als Geert Wilders, ist eine weltläufige Erscheinung. Sein 1994 drei Jahre nach dem „Nexus Journal“ gegründetes Amsterdamer Nexus Institut bringt, wie er erklärt, „führende Intellektuelle, Künstler, Diplomaten und andere Entscheidungsträger zusammen und lässt sie über die Fragen nachdenken und sprechen, die wirklich von Bedeutung sind. Wie sollen wir leben? Wie können wir unsere Zukunft gestalten? Können wir aus der Vergangenheit lernen? Welche Werte und Ideen sind wichtig?“

Die Abgründe, die Riemens dem Individuum und dem Gewissen verpflichteten Denken von Evolas heidnischem Kraut-und-Rüben-Gebräu trennen, sind schnell benannt. Der Gral, den Julius Evola 1934 in „Das Mysterium des Grals“ beschwor, ist ein anderer als derjenige, den Thomas Mann 1924 im „Zauberberg“ suchte und von dem Riemen schreibt, es sei „nicht der Kelch von Jesu Letztem Abendmahl, sondern ein Geheimnis, ein Rätsel. Es ist das ewige Geheimnis, das der Mensch für sich selbst ist, es sind die unbeantwortbaren Fragen des menschlichen Seins. Nur dann, wenn der Mensch diese ewigen Fragen seiner Existenz respektiert, bleibt er empfänglich für die lebensgebenden Werte und für die Bedeutungen, ohne die es keine menschliche Würde geben kann.“

Und doch gibt es zwischen Riemens aufklärerischem und Evolas antiaufklärerischem Denken, das unter Neonazis und Darkwave-Jüngern höchste Popularität genießt, Verbindendes, einen Ekel wider alles Massenkulturelle, der Evola in den sechziger Jahren zu einem einflussreichen Pasolini von rechts machte – und Riemen heute zum Zeremonienmeister einer hochkulturellen Selbstberuhigung. Er hat das Eremitische des Stefan-Georgelnden Männerbundes Castrum Peregrini in der Amsterdamer Herengracht öffentlichkeitswirksam beerbt.

Erst vor drei Wochen veranstaltete der studierte Theologe an der Tilburger Universität eine Konferenz über die Gespenster von Nationalismus, Antisemitismus und Populismus. Mario Vargas Llosa hielt die Eröffnungsrede. Im Juni mietete er das Amsterdamer Concertgebouw, um über „What is Next for the West? Superman meets Beethoven“ zu debattieren. Diesmal referierte sein Lehrmeister, der Universalgelehrte George Steiner, der der amerikanischen Originalausgabe von „Nobility Of Spirit“ ein Vorwort beisteuerte, das in der deutschen Ausgabe erstaunlicherweise fehlt. Und im vergangenen Februar lud er Daniel Barenboim ein, um über „Die Ethik der Ästhetik“ zu sprechen.

Unter Namen von Weltrang macht es Riemen nicht mehr. Darin liegt auch sein Talent als Fundraiser. Es gibt, wie die Liste der Sprecher und Autoren auf www.nexus-instituut.nl zeigt, wenig bedeutende Denker, die in den letzten Jahren nicht die Wege von Nexus gekreuzt hätten, insofern sie nicht unter Riemens Nihilismus-Verdikt fallen. Denn er sucht nach einem Geist, der in der Lage ist, die dunklen Triebkräfte der Gesellschaft zu zähmen, einer Bildung, die sie vor der Barbarei bewahrt, und einer Elite, die das als Entität imaginierte Böse in Schach hält. Es ist die Idee, politiklos Politik machen zu können.

Die Vorstellung, am künstlerischen Wesen könne die Welt genesen, hat am virtuosesten Friedrich Schiller in seinen „Briefen über die ästhetische Erziehung des Menschen“ formuliert. „Alle Verbesserung im Politischen soll von Veredlung des Charakters ausgehen“, heißt es mit Blick auf die Französische Revolution, „aber wie kann sich unter den Einflüssen einer barbarischen Staatsverfassung der Charakter veredeln? Man müsste also zu diesem Zwecke ein Werkzeug aufsuchen, welches der Staat nicht hergibt, und Quellen dazu eröffnen, die sich bei aller politischen Verderbnis rein und lauter erhalten.“ Und weiter: „Den Stoff zwar wird er von der Gegenwart nehmen, aber die Form von einer edleren Zeit, ja, jenseits aller Zeit, von der absoluten, unwandelbaren Einheit seines Wesens entlehnen.“

Der Mensch, sagt Rob Riemen mit Gracián, „ist ein Barbar, wenn er nicht über das einzige Wissen verfügt, das für seine Würde zählt: dass er sich in den Tugenden und geistigen Werten üben muss, die ein harmonisches Miteinander des Menschen ermöglichen.“

Es geht um „Erhebung aus dem, was der Mensch auch ist: eine blinde Kraft.“ Und er folgert: „Adel des Geistes ist das zeitlose Kulturideal.“ Das wiederum ist George Steiner, weichgespült – weil ohne das dialektische Bewusstsein, mit dem Steiner daran erinnert, dass „die Barbarei des 20. Jahrhunderts im Kernland der europäischen Kultur ausgebrochen“ sei. „Die Todeslager wurden nicht in der Wüste Gobi noch in Äquatorialafrika errichtet.“

Solange Riemen Geistesaristokratie nicht in einen sozialen Kontext stellt und dabei sicher auch Unverträglichkeiten entdeckt, solange führt das Ideal des großen Einzelnen nur zu einer überholten Idee von Märtyrertum. Es ist absurd, in Leone Ginzburg, dem Mitbegründer des Turiner Einaudi Verlags und Ehemann von Natalia Ginzburg, der 1944 im römischen Gefängnis Regina Coeli zu Tode gefoltert wurde, nur den sokratisch Wahrheitsliebenden zu sehen und nicht auch den liberalen Sozialisten, der mit dem Partito d’Azione eine Vorstellung davon hatte, wie Italien auszusehen hätte. Im Namen metaphysischer, von keinem postmodernen Zweifel angekränkelter Überzeugungen ignoriert Riemen das Wechselverhältnis von individueller Moral und Politik, immer auf dem Sprung heraus aus seiner Zeit, hin zu ewigen Werten, zur Natur der Dinge und zum Wesen des Menschen. Als wäre es nicht unsere vornehmste Aufgabe, gegen die Erfahrung, dass alles vermeintlich Unwandelbare eben doch auch ganz anders sein könnte, etwas Humanes zu definieren.

 

 

Actualidad de Werner Sombart

Archives- 1968

Actualidad de Werner Sombart

 

AEI/ Un gran financiero norteamerica­na, batió su propio “record” conclu­yendo en cinco minutos, por teléfo­no, cinco grandes contratos que le proporcionaron una ganancia supe­rior al millón de dolores.

(De los periódicos) 

Werner_Sombart_vor_1930.jpgLa noticia del apresurado y dichoso financiero yanqui, nos trae al re­cuerdo la figura del gran economis­ta alemán profesor Werner Sombart, que ejerció docencia, justamente sonada, como profesor de Economía Política, en la Uni­versidad de Berlín, y cuya obra es una ver­dadera pena que aun no haya sido tra­ducida —que sepamos— al castellano.

Para Werner Sombart, el alma del bur­gués capitalista moderno recuerda el alma del niño a través de un singularísimo pa­recido. El niño, dice, posee cuatro valores fundamentales, que inspiran y dominan su vida toda. 

a) El tamaño, que se manifiesta en su admiración hacia el hombre adulto y más aun hacia el gigante. El burgués moderno —nos referimos siempre a la gran burgue­sía capitalista, especie tal vez a extinguir en este mundo supersónico que ha heredado la tragedia de la economía liberal— estima asimismo el tamaño en cifras o en es­fuerzo. Tener “éxito” en su lenguaje sig­nifica sobrepasar siempre a los demás, aunque en su vida interior, si es que la tiene, no se diferencia en nada de ellos. ¿Ha visto usted en casa de mister X, el Rembrandt que vale 200.000 dólares? ¿Ha contemplado el yate del presidente, que se encuentra desde esta mañana en el puerto, y cuyo valor sobrepasa el millón?…

b) La rapidez de movimientos, tradu­cida en el niño en el juego, en el carrusel, en no saber estarse quieto. Rodar a 120 por hora, tomar el avión más rápido, con­cluir un negocio por teléfono, no reposar, batir “records” financieros de ganancia constituye para el burgués moderno ilu­sión idéntica.

c) La novedad. El niño deja un juguete por otro, comienza un trabajo y lo aban­dona también, por otro, a su vez aban­donado. El hombre de empresa moderno hace lo mismo llamando a esto “sensa­ción”. Si los bailes, en los negocios, en la moda, en los inventos, lo que hoy es “sensacional” mañana se transforma en antigualla, como sucede con los modelos de los coches. Se vive angustiosamente al día, hasta que el corazón falle…

d) El sentimiento de “su poderío”. El niño arranca las patas a las moscas, des­troza nidos, destruye todos sus juguetes… El empresario que “manda” sobre 10.000 trabajadores se encuentra orgulloso de su poder, como el niño que ve a su perro obedecerle a una señal. El especulador afortunado en bolsa o enriquecido por el estraperlo se siente orgulloso de su safio poderío mirando por encima del hombro al prójimo. No existe en él caridad, como generalmente no existe caridad en el niño. Si analizamos este sentimiento veremos que en el fondo es una confesión invo­luntaria e inconsciente de debilidad: “Om­ina crudelitas ex infrimitate”, supo decir nuestro Séneca. 

EL CAPITALISMO MODERNO

Para el genial autor de “El capitalismo moderno”, un hombre grande, natural e interiormente, no concedería nunca un particular valor al poderío externo. El poder no presenta ningún atractivo sin­gular para Sigfrido, pero resulta irresisti­ble para Mimo. Una generación verdade­ramente grande, a la que preocupan los problemas fundamentales del alma huma­na, no se sentirá “engrandecida” ante unos inventos técnicos y no les concederá más que una relativa importancia, la impor­tancia que merecen como elementos del poder externo. En nuestra época resulta tristemente sintomático el que algunos po­líticos, que sólo han sabido sumir al mun­do en el estupor y en la sangre, se deno­minen asimismo como “grandes”.

Para Sombart, el capitalismo burgués que tiene como objetivo la acumulación indefinida e ilimitada de la ganancia, se ha visto hasta nuestros días, pues hoy el concepto se halla en plena crisis aunque su derrumbamiento no sea tal vez inmediato, favorecido por las circunstancias siguien­tes:

1) Por el desenvolvimiento de la téc­nica.

2) Por la bolsa moderna, creación del espíritu sionista, por medio de la cual se rea­bra a través de sus formas exteriores la tendencia hacia el infinito, que caracteriza al capitalismo burgués en su incesante ca­rrera tras el beneficio. 

Estos procesos encuentran apoyo en los siguientes aspectos: 

a) La influencia que los sionistas comen­zaron a ejercer sobre la vida económica europea, con su tendencia hacia la ganan­cia ilimitada, animados por el resentimien­to que, como sabemos, juega tan gran pa­pel en la vida moderna, según Max Scheler nos ha magníficamente demostrado, y por las enseñanzas de su propia religión, que los hace actuar en el capitalismo mo­derno como catalizadores.

b) En el relajamiento de las restric­ciones que la moral y las costumbres im­ponían en sus comienzos al espíritu capi­talista de indudable tinte puritano en la aguda y profunda tesis de Weber. Relaja­miento consecutivo a la debilitación de los principios religiosos y a las normas de ho­nor entre tos pueblos cristianos.

c) La inmigración o expatriamiento de sujetos económicos activos y bien dotados, que en el suelo extraño no se consideran ya ligados con ninguna obligación y es­crúpulo. Nos hallamos así, de nuevo ante el interrogante que se plantea el maestro.

¿Qué nos reserva el porvenir? Los que ven que el gigante desencadenado que lla­mamos capitalismo es un destructor de la naturaleza de los hombres, esperan que llegará un día en que pueda ser de nuevo encadenado, rechazándole hasta los lími­tes franqueados. Para obtener este resul­tado se ha creído encontrar un medio en la persuasión moral. Para Sombart, las tendencias de este género se encuentran aproadas hacia un lamentable fracaso. Para el autor de “El burgués”, el capita­lismo que ha roto las cadenas de hierro de las más antiguas religiones hará saltar en un instante los hilos que le tiendan es­tos optimistas. Todo lo que se pueda hacer en tanto que las fuerzas del gigante que­den intactas, consiste en tomar medidas susceptibles de proteger a los hombres, a su vida y a sus bienes, a fin de extinguir como en un servicio de incendios las brasas que caigan sobre las chozas de nuestra civili­zación. El mismo Sombart señala como sintomático el declive del espíritu capita­lista en uno de sus feudos más intocables: Inglaterra, y esto lo decía en 1924…

El saber lo que sucederá el día en que el espíritu capitalista pierda la fuerza que todavía presenta no interesa particular­mente a Sombart. El gigante, transforma­do en ciego, será quizá condenado, y cual nuevo Sisifó arrastra el carro de la civi­lización democrática. Quizá, escribe, asis­tamos nosotros al crepúsculo de los dio­ses, y el oro sea arrojado a las aguas del Rhin, erigiéndose en trueque valores más altos.

¿Quién podrá decirlo? El mañana, esa cosa que llamamos Historia, quizá. Por ello, más que Juicios, “a priori”, preferimos aquí dar testimonios. Lo que pasa, y lo que pue­da pasar en la ex dulce Francia, funda­mentalmente burguesa y con sentido de la proporción hasta ahora, podrá ser un gran indicio histórico. 

José Mª. CASTROVIEJO

ABC, 19 de junio de 1968.

vendredi, 17 décembre 2010

Cavalcare la crisi

Cavalcare la crisi

di Stefano Zecchi - Marco Iacona

Fonte: scandalizzareeundiritto

p138.jpg-Evola ha costruito gran parte delle sue riflessioni attorno al concetto di crisi. Lei crede che ciò lo allontani da una cultura italiana che nella sua generalità, nel XX secolo, non ha partorito grandi opere su questo tema? 

«Il tema della crisi è un argomento che ha impegnato buona parte della cultura europea e in questo senso Evola si pone come serio interlocutore. In Italia però, nonostante sia ben conosciuta, la cultura della crisi non viene tematizzata perché domina l’idealismo, quello crociano e quello gentiliano. Si pensi al disconoscimento da parte di Croce del valore di un libro famosissimo come Der Untergang des Abendlandes oppure alle ricerche e alle conferenze in tema di crisi di Husserl o alle tematiche heideggeriane. Ecco, alla sua domanda risponderei di sì, Evola si pone al di fuori della cultura filosofica dominante. Certo poi gioca a suo sfavore la collocazione politica che aumenta il distacco della sua ricerca filosofica dalla restante parte della cultura italiana».               

-Perché ha scritto il saggio introduttivo alla V edizione di Cavalcare la tigre (Stefano Zecchi, Evola, o una filosofia della responsabilità contro il nichilismo, Mediterranee 1995)?

«Fu Gianfranco de Turris ad offrirmi quest’opportunità ed io accetti volentieri. Penso che Cavalcare la tigre sia un testo importante. Evola mostra i limiti della modernità nel momento in cui è trionfante e nel momento in cui esprimersi contro di essa era né più e né meno che un’eresia. Il libro s’incrociava anche con i miei studi, nonostante le tematiche svolte fossero assai diverse. La conoscenza di Cavalcare la tigre era fondamentale perché fondamentale era per me la proposta di un angolo di visuale sul tema della modernità e sul concetto di crisi».

 -Cavalcare la tigre esce agli inizi degli anni Sessanta. Qual è il clima culturale italiano di quel periodo?

«È il clima più ostile possibile nei confronti di una critica alla modernità! La cultura di destra era sotterranea quindi non aveva voce all’interno del dibattito culturale; la cultura laico-liberale e quella comunista si sviluppavano invece su prospettive totalmente diverse da una critica all’idea di modernità. Ma non era solo Evola ad essere bistrattato, si pensi a come erano stati trattati Heidegger e Husserl, cioè gli esponenti di una filosofia che usciva fuori da prospettive diciamo così à la page. Di più, in Italia si stava  instaurando, costruita con grande meticolosità, l’egemonia culturale della sinistra, quindi Evola come altri grandi pensatori europei era posto ai margini del dibattito culturale».       

-Cosa pensa dell’interesse in negativo di Evola per gli esistenzialisti?

«Credo che Evola per certi aspetti abbia visto giusto. La critica evoliana agli esistenzialisti per qualche verso mi sembra analoga alla critica fatta da Henry Miller ai surrealisti. Miller scrisse la Lettera aperta ai surrealisti (che si trova nel volume Max e i fagociti bianchi) accusandoli di intellettualismo e di incapacità di toccare a fondo i temi che essi stessi avevano sollevato. Evola mi dà l’idea di sviluppare una critica, diciamo così, metodologicamente analoga a quella di Miller perché mette in evidenza la mistificazione e le ambiguità di un pensiero esistenziale che in realtà non arriva a porre i veri temi dell’esistenza. Un pensiero che resta come una forma superficiale di interrogazione dell’essere umano».

-Lei scrive che Cavalcare la tigre «può essere letto come un manuale di sopravvivenza» «da chi crede che la società moderna porti al disastro personale e sociale, culturale e politico». Ma in quanto strumento di “salvezza” secondo lei Cavalcare la tigre è davvero efficace?

«Paradossalmente le tematiche evoliane, o comunque se non Evola il clima culturale a cui Evola appartiene sono ben più attuali oggi. Con la perdita dell’enfasi sull’idea di sviluppo e di progresso c’è maggior attenzione ai temi della crisi, e quindi i punti che Evola ha toccato sono di maggiore attualità. Ecco, le critiche di Evola (come alcune cose dette da Heidegger e da Husserl) proprio per questa perdita del valore teoretico ed etico del progresso oggi ritornano. Devo dire però che Cavalcare la tigre ci anche ha dato una mano ad attraversare un deserto: così siamo arrivati all’oggi potendo dire che per fortuna i tempi sono molto diversi».

-Lei mostra qualche affinità col pensiero di Evola...

«Io non sono un “evoliano”, il mio pensiero si sviluppa in modo diverso, sebbene, come dicevo, alcuni aspetti della critica della modernità ritornino nei miei libri. Ricordo ad esempio che quando scrissi un libro come La Bellezza (1990) soltanto il termine “bellezza” venne considerato offensivo nei riguardi della modernità».

-Parafrasando il titolo di un suo libro degli anni Novanta (Stefano Zecchi, Sillabario del nuovo millennio, Mondadori 1993), secondo lei Evola potrebbe essere un pensatore capace di decrittare il nuovo millennio?

«Sicuramente sì. Evola è uno dei grandi pensatori del nostro secolo collocabile, come ho detto più volte, all’interno del filone della crisi. Piuttosto, ripeto, su di lui ha giocato negativamente l’esperienza politica e il fatto che la cultura egemone fosse legata al dibattito politico italiano. Penso che Evola paghi un prezzo che col passare del tempo sarà sempre meno salato».

-Un’ultima domanda. Lei ha scritto di televisione e conosce i mezzi di comunicazione. Potremmo fare un parallelo fra Evola e Pasolini dicendo che si tratta di due autori che si sono opposti al potere trionfante dei moderni mezzi di comunicazione?

«Beh, in Evola c’è anche una sorta di filo moralistico, secondo il quale qualunque fenomeno moderno conduce alla massificazione. In Pasolini invece, a parte il tema moralistico, c’e un’accettazione e perfino un utilizzo dei mezzi di comunicazione di massa. Pasolini è più disponibile perché la sua è una critica ad una modernità dimentica degli aspetti originari dell’esistenza, della dimensione rurale e di quella operaia. Pasolini usa cinema, televisione e giornali ed esercita sul campo le sue critiche. Ritengo invece che Evola non avrebbe mai voluto sporcarsi gli abiti inserendosi fra i protagonisti dei più moderni mezzi di comunicazione».

 

 

 

 

 


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D. H. Lawrence on Men & Women

D. H. Lawrence on Men & Women

Derek HAWTHORNE

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1. Love and Strife

Lawrence.jpgIn a 1913 letter D. H. Lawrence writes that “it is the problem of to-day, the establishment of a new relation, or the readjustment of the old one, between men and women.” Lawrence’s views about relations between the sexes, and about sex differences are perhaps his most controversial – and they have frequently been misrepresented. But before we delve into those views, let us ask why it should be the case that establishing a new relation between men and women is “the problem of to-day.” The reason is fairly obvious. The species divides itself into male and female, reproduces itself thereby, and the overwhelming majority of human beings seek their fulfillment in a relationship to the opposite sex. If relations between the sexes have somehow been crippled—as Lawrence believes they have been—then this is a catastrophe. It is hard to imagine a greater, more pressing problem.

Lawrence came to relations with women bearing serious doubts about his own manhood, and with the conviction that his nature was fundamentally androgynous. Throughout his life, but especially as a boy, it was easier for him to relate to women and to form close bonds with them. Thus, when Lawrence discusses the nature of woman he draws not only upon his experiences with women, but also upon his understanding of his own nature. One of the questions we must examine is whether, in doing so, Lawrence was led astray. After all, Lawrence eventually came to repudiate the idea of any sort of fundamental androgyny and to claim that men and women are radically different. In Fantasia of the Unconscious he writes, “We are all wrong when we say there is no vital difference between the sexes.” Lawrence wrote this in 1921 intending it to be provocative, but it is surely much more controversial in today’s world, where it has become a dogma in some circles to insist that sex differences (now called “gender differences”) are “socially constructed.” Lawrence continues: “There is every difference. Every bit, every cell in a boy is male, every cell is female in a woman, and must remain so. Women can never feel or know as men do. And in the reverse, men can never feel and know, dynamically, as women do.”

Lawrence saw relations between the sexes as essentially a war. He tells us in his essay “Love” that all love between men and women is “dual, a love which is the motion of melting, fusing together into oneness, and a love which is the intense, frictional, and sensual gratification of being burnt down, burnt into separate clarity of being, unthinkable otherness and separateness.” The love between men and women is a fusing—or a will to fusing—but one that never fully takes place because the relation is also fundamentally frictional. Again and again Lawrence emphasizes the idea that men and women are metaphysically different. In other words, they have different, and even opposed ways of being in the world. They are not just anatomically different; they have different ways of thinking and feeling, and achieve satisfaction and fulfillment in life through different means.

Lawrence’s view of the difference between the sexes can be fruitfully compared to the Chinese theory of yin and yang.  These concepts are of great antiquity, but the way in which they are generally understood today is the product of an ambitious intellectual synthesis that took place under the early Han dynasty (207 B.C.–9 A.D.). According to this philosophy, the universe is shot through with an ultimate principle or power known as the Tao. However, the Tao divides itself into two opposing principles, yin and yang. These oppose yet complement each other. Yang manifests itself in maleness, hardness, harshness, dominance, heat, light, and the sun, amongst other things. Yin manifests itself in femaleness, softness, gentleness, yielding, cold, darkness, the moon, etc.

Contrary to the impression these lists might give, however, yang is not regarded as “superior” to yin; hardness is not superior to softness, nor is dominance superior to yielding. Each requires the other and cannot exist without the other. In certain situations a yang approach or condition is to be preferred, in others a yin approach. On occasion, yang may predominate to the point where it becomes harmful, and it must be counterbalanced by yin, or vice versa. (These principles are of central importance, for example, in traditional Chinese medicine.) The Tao Te Ching, a work written by a man chiefly for men extols the virtues of yin, and continually advises one to choose yin ways over yang. Lao-Tzu tells us over and over that it is “best to be like water,” that “those who control, fail. Those who grasp, lose,” and that “soft and weak overcome stiff and strong.”

Like the Taoists, Lawrence regards maleness and femaleness as opposed, yet complementary. It is not the case that the male, or the male way of being, is superior to the female, or vice versa. In a sense the sexes are equal, yet equality does not mean sameness. The error of male chauvinism is in thinking that one way, the male way, is superior; that dominance and hardness are just “obviously” superior to their opposites.

Yet the same error is committed by some who call themselves feminists. Tacitly, they assume that the male or yang characteristics are superior, and enjoin women to seek fulfillment in life through cultivating those traits in themselves. To those who might wonder whether such a program is possible, to say nothing of desirable, the theory of the “social construction of gender” is today being offered as support. According to this view, the only inherent differences between men and women are anatomical, and all of the intellectual, emotional, and behavioral characteristics attributed to the sexes throughout history have actually been the product of culture and environment. (And so “yin and yang,” according to this view, is really a rather naïve philosophy which confuses nurture with nature.) Clearly, Lawrence would reject this theory. In doing so, he is on very solid ground.

It would, of course, be foolish not to recognize that some “masculine” and “feminine” traits are culturally conditioned. An obvious example would be the prevailing view in American culture that a truly “masculine” man is unable, without the help of women or gay men, to color-coordinate his wardrobe. However, when one sees certain traits in men and women displaying themselves consistently in all cultures and throughout all of human history it makes sense to speak of masculine and feminine natures. It is plausible to argue that a trait is culturally conditioned only if it shows up in some cultures but not in others. Unfortunately, the “social construction of gender” thesis has achieved the status of a dogma in academic circles. And, in truth, ultimately it has to be asserted as dogma since believing in it requires that we ignore the evidence of human history, profound philosophies such as Taoism, and most of the scientific research into sex differences that has taken place over the last one hundred years.

I said earlier that Lawrence believes men and women to be “metaphysically different,” and in his essay “A Study of Thomas Hardy” he does indeed write as if he believes they actually see the world with a different metaphysics in mind:

It were a male conception to see God with a manifold Being, even though He be One God. For man is ever keenly aware of the multiplicity of things, and their diversity. But woman, issuing from the other end of infinity, coming forth as the flesh, manifest in sensation, is obsessed by the oneness of things, the One Being, undifferentiated. Man, on the other hand, coming forth as the desire to single out one thing from another, to reduce each thing to its intrinsic self by process of elimination, cannot but be possessed by the infinite diversity and contrariety in life, by a passionate sense of isolation, and a poignant yearning to be at one.

So, men seek or are preoccupied with multiplicity, and women with unity. What are we to make of such a bizarre claim? First of all, it seems to run counter to the Greek tradition, especially that of the Pythagoreans, which tended to identify the One with the masculine, and the Many with the feminine. However, if one looks to Empedocles, a pre-Socratic philosopher Lawrence was particularly keen on, one finds a different story. Empedocles posits two fundamental forces which are responsible for all change in the universe: Love and Strife. Love, at the purely physical level, is a force of attraction. It draws things together, and without the intervention of Strife it would result in a monistic universe in which only one being existed. Strife breaks up and divides. It is a force of repulsion and separation. Now, Empedocles seems to identify Love with Aphrodite, and we may infer, though he does not say so, that Strife is Ares. In other words, he identifies his two forces with the archetypal female and male. This can offer us a clue as to what Lawrence is up to.

In Lawrence’s view, it is the female who wants to draw things, especially people, together. It is the female who yearns to heal divisions, to break down barriers. “Coming forth as the flesh, manifest in sensation” she seeks to overcome separateness through feeling, primarily through love. In the family situation, it is the female who tries to unite and overcome discord through love, whereas it is the male, typically, who frustrates this through the insistence on rules and distinctions. The ideal of universal love and an end to strife and division is fundamentally feminine—one which men, throughout history, have continually frustrated. It is characteristic of men to make war, and characteristic of women, no matter what cause or principle is involved, to object and to call for peace and unity.

Now the male, as Lawrence puts it, suffers from a sense of isolation, and a “yearning to be one.” He yearns for oneness, in fact, as the male yearns for the female. Yet his entire being disposes him to see the world in terms of its distinctness, and, indeed, to make a world rife with distinctions. Lawrence implies that polytheism is a “male” religion, and monotheism a “female” one. It is easy to see the logic involved in this. Polytheism sees the divine being that permeates the world as many because the world is itself many. Further, societies with polytheistic religions have always been keenly aware of ethnic and social differences, differences within the society (as in the Indian caste system), and between societies. Monotheism, on the other hand, tends toward universalism. Christianity especially, however it has actually been practiced, declares all men equal in the sight of God and calls for peace and unity in the world. (Lawrence, as we shall see later on, does indeed regard Christianity as a “feminine” religion, and blames it, in part, for feminizing Western men.)

This fundamental, metaphysical difference has the consequence that men and women do, in a real sense, live in different worlds. But perhaps such a formulation reflects a male bias towards differentiation. It is equally correct to say, in a more “feminine” formulation, that it is the same world seen in two, complementary ways. Indeed, it may be the case that it is difficult to see, from a male perspective, how the two sexes and their different ways of thinking and perceiving can achieve a rapprochement. Lawrence believes, of course, that they can live together, and that their opposite tendencies can be harmonized. In this way he is like Heraclitus, Lawrence’s favorite pre-Socratic, when he says “what is opposed brings together; the finest harmony is composed of things at variance, and everything comes to be in accordance with strife.” Heraclitus also tells us that “They do not understand how, though at variance with itself, it [the Logos] agrees with itself. It is a backwards-turning attunement like that of the bow and lyre.” In order to make a lyre or a bow, the two opposite ends of a piece of wood must be bent towards each other, never meeting, but held in tension. Their tension and opposition makes possible beautiful music, in the case of the lyre, and the propulsion of an arrow, in the case of the bow. Both involve a harmony through opposition.

In a 1923 newspaper interview Lawrence is quoted as saying “If men were left to themselves, they would rush off . . . into destruction. But women keep life back at its own center. They pull the men back. Women have enormous passive strength, the strength of inertia.” Here Lawrence uses an image he was very fond of: women are at the center, the hub. This is because they are closer to “the source” than men are.

womeninlove.jpgIn Fantasia of the Unconscious, Lawrence tells us “The blood-consciousness and the blood-passion is the very source and origin of us. Not that we can stay at the source. Nor even make a goal of the source, as Freud does. The business of living is to travel away from the source. But you must start every single day fresh from the source. You must rise every day afresh out of the dark sea of the blood.” Lawrence believes that men yearn for purposive, creative activity, which involves moving away from the source. However, the energy and inspiration for purposive activity is drawn from the source, and so there is a complementary movement back towards it.

In The Rainbow, Lawrence describes how Tom Brangwen, besotted with his wife, seems to lose himself in a sensual obsession with her, and with knowing her sexually. But gradually,

Brangwen began to find himself free to attend to the outside life as well. His intimate life was so violently active, that it set another man in him free. And this new man turned with interest to public life, to see what part he could take in it. This would give him scope for new activity, activity of a kind for which he was now created and released. He wanted to be unanimous with the whole of purposive mankind.

Sex is one means of contacting the source. Men contact the source through women. This does not mean, of course, that blood-consciousness is in women but not in men. Rather, it means that in most men the blood-consciousness in them is “activated” primarily through their relationship to women. Second, in women blood-consciousness is more dominant than it is in men. Women are more intuitive than men; they operate more on the basis of feeling than intellect. It should not be necessary to point out that whereas such an observation might, in another author, be taken as a denigration of women, in Lawrence it is actually high praise. Women are also much more in tune with their bodies and bodily cycles than men are. Men tend to see their bodies as adversaries that must be whipped into shape.

When Lawrence continually tells us that we must find a way to reawaken the blood-consciousness in us, he is writing primarily for men. Women are already there—or, at least, they can get there with less effort. There is an old adage: “Women are, but men must become.” To be feminine is a constant state that a woman has as her birthright. Masculinity, on the other hand, is something men must achieve and prove. Rousseau in Emile states “The male is male only at certain moments, the female is female all of her life, or at least all her youth.” We exhort boys to “be a man,” but never does one hear girls told to “be a woman.” One can compliment a man simply by saying “he’s a man,” whereas “she’s a woman” seems mere statement of fact. The psychological difference between masculinity and femininity mirrors the biological fact that all fetuses begin as female; something must happen to them in order to make them male. It also articulates what is behind the strange conviction many men have had, including many great poets and artists, that woman is somehow the keeper of life’s mysteries; the one closest to the well-spring of nature.

In “A Study of Thomas Hardy,” Lawrence states that “in a man’s life, the female is the swivel and centre on which he turns closely, producing his movement.” Goethe tells us “Das ewig Weiblich zieht uns hinan” (“The Eternal Feminine draws us onwards”). The female, the male’s source of the source, stands at the center of his life. The woman as personification of the life mystery entices him to come together with her, and through their coupling the life mystery perpetuates itself. But he is not, ultimately, satisfied by this coupling. He goes forth into the world, his body renewed by his contact with the woman, but full of desire to know this mystery more adequately, and to be its vehicle through creative expression.

Without a woman, a man feels unmoored and ungrounded, for without a woman he has no center in his life. A man—a heterosexual man—can never feel fulfilled and can never reach his full potential without a woman to whom he can turn. As to homosexual men, it is a well-known fact that many cultivate in themselves characteristics that have been traditionally usually associated with woman: refined taste in clothing and decoration, cooking, gardening, etc. What these characteristics have in common is connectedness to the pleasures of the moment, and to the rhythms and necessities of life. Men are normally purpose-driven and future-oriented. They tend to overlook those aspects of life that please, but lack any greater purpose other than pleasing. They tend, therefore, to be somewhat insensitive to their surroundings, to color, to texture, to odor, to taste. They tend, in short, to be so focused upon doing, that they miss out on being. Heterosexual men look to women to ground them, and to provide these ingredients to life—ingredients which, in truth, make life livable. Homosexual men must make a woman within themselves, in order to be grounded. (This does not mean, however, that they must become effeminate – see my review essay of Jack Donovan’s Androphilia for more details.)

Homosexual men are, of course, the exception not the rule. Lawrence writes, of the typical man, “Let a man walk alone on the face of the earth, and he feels himself like a loose speck blown at random. Let him have a woman to whom he belongs, and he will feel as though he had a wall to back up against; even though the woman be mentally a fool.” And what of the woman? What does she desire? Lawrence tells us that “the vital desire of every woman is that she shall be clasped as axle to the hub of the man, that his motion shall portray her motionlessness, convey her static being into movement, complete and radiating out into infinity, starting from her stable eternality, and reaching eternity again, after having covered the whole of time.” Man is the “doer,” the actor, whereas woman need do nothing. Just by being woman she becomes the center of a man’s universe.

The dark side of this, in Lawrence’s view, is a tendency in women towards possessiveness, and towards wanting to make themselves not just the center of a man’s life but his sole concern. In Women in Love, Lawrence’s describes at length Rupert Birkin’s process of wrestling with this aspect of femininity:

But it seemed to him, woman was always so horrible and clutching, she had such a lust for possession, a greed of self-importance in love. She wanted to have, to own, to control, to be dominant. Everything must be referred back to her, to Woman, the Great Mother of everything, out of whom proceeded everything and to whom everything must finally be rendered up.

Birkin sees these qualities in Ursula, with whom he is in love. “She too was the awful, arrogant queen of life, as if she were a queen bee on whom all the rest depended.” He feels she wants, in a way, to worship him, but “to worship him as a woman worships her own infant, with a worship of perfect possession.”

Woman’s possessiveness is understandable given that the man is necessary to her well-being: she is only happy if she is center to the orbit and activity of some man. Again, for Lawrence, such a claim does not denigrate women, for he has already as much as said that a man is nothing without a woman. Nevertheless, some will see in this view of men and woman a sexism that places the man above the woman. From Lawrence’s perspective, this is illusory. It is true that the man is “doer,” but his perpetual need to act and to do stands in stark contrast to the woman, who need do nothing in order be who she is. It is true, further, that men’s ambition has given them power in the world, but it is a power that is nothing compared to that of the woman, who exercises her power without having to do anything. She reigns, without ruling. The man does what he does, but must return to the woman, and is “like a loose speck blown at random without her” – and he knows this. Much of misogyny may have to do with this. From the man’s perspective, the woman is all-powerful, and the source of her power a mystery.

Many modern feminists, however, conceive of power in an entirely male way, as the active power of doing. Lawrence recognized that in trying to cultivate this male power within themselves, women do not rise in the estimation of most men. Instead they are diminished, for men’s respect for and fascination with women springs entirely from the fact that unlike themselves women do not have to chase after an ideal of who they ought to be; they do not have to get caught up in the rat race in order to respect themselves. They can simply be; they can live, and take joy just in living.

One can make a rough distinction between two types of feminism. The most familiar type is what one might call the “woman on the street feminism,” which one encounters from average, working women, and which they imbibe from television, films, and magazines. This feminism essentially has as its aim claiming for women all that which formerly had been the province of men—including not only traditionally male jobs, but even male ways of speaking, moving, dressing, bonding, exercising, and displaying sexual interest. Ironically, this form of feminism is at root a form of masculinism, which makes traditionally masculine traits the hallmarks of the “liberated” or self-actualized human being.

The other type of feminism is usually to be found only in academia, though not all academic feminists subscribe to it. It insists that women have their own ways of thinking, feeling, and relating to others. Feminist philosophers have written of woman’s “ways of knowing” as distinct from men’s, and have even put forward the idea that women approach ethical decision-making in a markedly different way. It is this form of feminism to which Lawrence is closest. Lawrence’s writings are concerned with liberating both men and women from the tyranny of a modern civilization which cuts them off from their true natures. Liberation for modern women cannot mean becoming like modern men, for modern men are living in a condition of spiritual (as well as wage) slavery. In an essay on feminism, Wendell Berry writes

It is easy enough to see why women came to object to the role of [the comic strip character] Blondie, a mostly decorative custodian of a degraded, consumptive modern household, preoccupied with clothes, shopping, gossip, and outwitting her husband. But are we to assume that one may fittingly cease to be Blondie by becoming Dagwood? Is the life of a corporate underling—even acknowledging that corporate underlings are well paid—an acceptable end to our quest for human dignity and worth? . . . How, I am asking, can women improve themselves by submitting to the same specialization, degradation, trivialization, and tyrannization of work that men have submitted to? [Wendell Berry, “Feminism, the Body, and the Machine,” in The Art of the Commonplace: The Agrarian Essays of Wendell Berry, ed. Norman Wirzba (Washington, D.C.: Counterpoint, 2002), 69–70.]

I will return to this issue later.

Having now characterized, in broad strokes, Lawrence’s views on the differences between men and woman, I now turn to a more detailed discussion of each.

2. The Nature of Man

As we have seen, Lawrence believes that men (most men) need to have a woman in their lives. Their relationship to a woman serves to ground their lives, and to provide the man not only with a respite from the woes of the world, but with energy and inspiration. However, this is not the same thing as saying that the man makes the woman, or his relationship to her, the purpose of his life. In Fantasia of the Unconscious Lawrence writes, “When he makes the sexual consummation the supreme consummation, even in his secret soul, he falls into the beginnings of despair. When he makes woman, or the woman and child, the great centre of life and of life-significance, he falls into the beginnings of despair.” This is because Lawrence believes that true satisfaction for men can come only from some form of creative, purposive activity outside the family.

women1.jpgHaving a woman is therefore a necessary but not a sufficient condition for male happiness. In addition to a woman, he must have a purpose. Women, on the other hand, do not require a purpose beyond the home and the family in order to be happy. This is another of those claims that will rankle some, so let us consider two important points about what Lawrence has said. First, he is speaking of what he believes the typical woman is like, just as he is speaking of the typical man. There are at least a few exceptions to just about every generalization. Second, we must ask an absolutely crucial question of those who regard such claims as demeaning women: why is being occupied with home and family lesser than having a purpose (e.g., a career) outside the home? The argument could be made—and I think Lawrence would be sympathetic to this—that the traditional female role of making a home and raising children is just as important and possibly more important than the male activities pursued outside the home. Again, much of contemporary feminism sees things from a typically male point of view, and denigrates women who choose motherhood rather than one of the many meaningless, ulcer-producing careers that have long been the province of men.

Lawrence writes, “Primarily and supremely man is always the pioneer of life, adventuring onward into the unknown, alone with his own temerarious, dauntless soul. Woman for him exists only in the twilight, by the camp fire, when day has departed. Evening and the night are hers.” Lawrence’s male bias creeps in here a bit, as he romanticizes the “dauntless” male soul. Men and women always believe, in their heart of hearts, that their ways are superior. Nevertheless, Lawrence is not here relegating women to an inferior position. Half of life is spent in the evening and night. Day belongs to the man, night to the woman. It is a division of labor. Lawrence is drawing here, as he frequently does, on traditional mythological themes: the man is solar, the woman lunar.

Lawrence characterizes the man’s pioneering activity as follows: “It is the desire of the human male to build a world: not ‘to build a world for you, dear’; but to build up out of his own self and his own belief and his own effort something wonderful. Not merely something useful. Something wonderful.” In other words, the man’s primary purpose is not having or doing any of the “practical” things that a wife and a family require. And when he acts on a larger scale—Lawrence gives building the Panama Canal as an example—it is not with the end in mind of making a world in which wives and babes can be more comfortable and secure (“a world for you, dear”). He seeks to make his mark on the world; to bring something glorious into existence. And so men create culture: games, religions, rituals, dances, artworks, poetry, music, and philosophy. Wars are fought, ultimately, for the same reason. It is probably true, as is often asserted, that every war has some kind of economic motivation. However, it is probably also true to assert that in the case of just about every actual war there was another, more cost-effective alternative. Men make war for the same reason they climb mountains, jump out of airplanes, race cars, and run with the bulls: for the challenge, and the fame and glory and exhilaration that goes with meeting the challenge. It is an aspect of male psychology that most women find baffling, and even contemptible.

Now, curiously, Lawrence refers to this “impractical,” purposive motive of the male as an “essentially religious or creative motive.” What can he mean by this? Specifically, why does he characterize it as a religious motive?

It is religious because it involves the pursuit of something that is beyond the ordinary and the familiar. It is a leap into the unknown. The man has to follow what Lawrence frequently calls the “Holy Ghost” within himself and to try to make something within the world. He yearns always for the yet-to-be, the yet-to-be-realized, and always has his eye on the future, on what is in process of coming to be. Yet there seems to be, at least on the surface, a strange inconsistency in Lawrence’s characterization of the man’s motive as religious. After all, for Lawrence the life mystery, the source of being is religious object—and women are closer to this source. Man is entranced by woman, and with her he helps to propagate this power in the world through sex, but his sense of “purpose” causes him to move away from the source. So why isn’t it the woman whose “motives” are religious, and the man who is, in effect, irreligious?

The answer is that religion is not being at the source: it is directedness toward the source. Religion is possible only because of a lack or an absence in the human soul. Religion is ultimately a desire to put oneself at-one with the source. But this is possible only if one is not, originally or most of the time, at one with it. In a way, the woman is not fundamentally religious because she is the goddess, the source herself. The sexual longing of the man for the woman, and his utter inability ever to fully satisfy his desire and to resolve the mystery that is woman, are a kind of small-scale allegory for man’s large-scale, religious relationship to the source of being itself. He is, as I have said, renewed by his relations with women and, for a time, satisfied. But then he goes forth into the world with a desire for something, something. He creates, and when he does he is acting to exalt the life mystery (religion and art), to understand it (philosophy and science), or to further it (invention and production).

Lawrence speaks of how a man must put his wife “under the spell of his fulfilled decision.” Woman, who rules over the night, draws man to her and they become one through sex. Man, who rules the day, draws woman into his purpose, his aim in life, and through this they become one in another fashion. The man’s purpose does not become the woman’s purpose. He pursues this alone. But if the woman simply believes in him and what he aims to do, she becomes a tremendous source of support for the man, and she gives herself a reason for being. The man needs the woman as center, as hub of his life, and the woman needs to play this role for some man. Without a mate, though a man may set all sorts of purposes before him, ultimately they seem meaningless. He feels a sense of hollow emptiness, and drifts into despair. He lets his appearance go, and lives in squalor. He may become an alcoholic and a misogynist. He dies much sooner than his married friends, often by his own hand. As to the woman, without a man who has set himself some purpose that she can believe in, she assumes the male role and tries to find fulfillment through some kind of busy activity in the world. But as she pursues this, she feels increasingly bitter and hard, and a terrific rage begins to seethe beneath her placid surface. She becomes a troublemaker and a prude. Increasingly angry at men, she makes a virtue of necessity and declares herself emancipated from them. She collects pets.

In Studies in Classic American Literature Lawrence writes:

As a matter of fact, unless a woman is held, by man, safe within the bounds of belief, she becomes inevitably a destructive force. She can’t help herself. A woman is almost always vulnerable to pity. She can’t bear to see anything physically hurt. But let a woman loose from the bounds and restraints of man’s fierce belief, in his gods and in himself, and she becomes a gentle devil.

If a woman is to be the hub in the life a man, and derive satisfaction from that, everything depends on the spirit of the man. A few lines later in the same text Lawrence states, “Unless a man believes in himself and his gods, genuinely: unless he fiercely obeys his own Holy Ghost; his woman will destroy him. Woman is the nemesis of doubting man.” In order for the woman to believe in a man, the man must believe in himself and his purpose. If he is filled with self-doubt, the woman will doubt him. If he lacks the strength to command himself, he cannot command her respect and devotion. And the trouble with modern men is that they are filled with self-doubt and lack the courage of their convictions.

Lawrence, following Nietzsche, in part blames Christianity for weakening modern, Western men. Men are potent—sexually and otherwise—to the extent they are in tune with the life force. But Christianity has “spiritualized” men. It has filled their heads with hatred of the body, and of strength, instinct, and vitality. It has infected them with what Lawrence calls the “love ideal,” which demands, counter to every natural impulse, that men love everyone and regard everyone as their equal.

Frequently in his fiction Lawrence depicts relationships in which the woman has turned against the man because he is, in effect, spiritually emasculated. The most dramatic and symbolically obvious example of this is the relationship of Clifford and Connie  in Lady Chatterley’s Lover. Clifford returns from the First World War paralyzed from the waist down. But like the malady of the Grail King in Wolfram’s Parzival, this is only (literarily speaking) an outward, physical expression of an inward, psychic emasculation. Clifford is far too sensible a man to allow himself to be overcome by any great passion, so the loss of his sexual powers is not so dear. He has a keen, cynical wit and believes that he has seen through passion and found it not as great a thing as poets say that it is. It is his spiritual condition that drives Connie away from him, not so much his physical one. And so she wanders into the game preserve on their estate (representing the small space of “wildness” that still can rise up within civilization) and into the arms of Mellors, the gamekeeper. Their subsequent relationship becomes a hot, corporeal refutation of Clifford’s philosophy.

In Women in Love, Gerald Crich, the industrial magnate, is destroyed by Gudrun essentially because he does not believe in himself. Outwardly, he is “the God of the machine.” But his mastery of the material world is meaningless busywork, and he knows it. Gudrun is drawn to him because of this outward appearance of power, but when she finds that it is an illusion she hates him, and ultimately drives him to his death. For Lawrence, this is an allegory of the modern relationship between the sexes. Men today are masters of the material universe as they have never been before, but inside they are anxious and empty. The reason is that these “materialists” are profoundly afraid of and hostile to matter and nature, especially their own. Their intellect and “will to power” has cut them off from the life force and they are, in their deepest selves, impotent. The women know this, and scorn them.

In The Rainbow, Winifred Inger is Ursula’s teacher (with whom she has a brief affair), and an early feminist. She tells Ursula at one point,

The men will do no more,–they have lost the capacity for doing. . . .  They fuss and talk, but they are really inane. They make everything fit into an old, inert idea. Love is a dead idea to them. They don’t come to one and love one, they come to an idea, and they say “You are my idea,” so they embrace themselves. As if I were any man’s idea! As if I exist because a man has an idea of me! As if I will be betrayed by him, lend him my body as an instrument for his idea, to be a mere apparatus of his dead theory. But they are too fussy to be able to act; they are all impotent, they can’t take a woman. They come to their own idea every time, and take that. They are like serpents trying to swallow themselves because they are hungry.”

In Fantasia of the Unconscious Lawrence writes, “If man will never accept his own ultimate being, his final aloneness, and his last responsibility for life, then he must expect woman to dash from disaster to disaster, rootless and uncontrolled.”

It is important to understand here that the issue is not one of power. Lawrence’s point not that men must dominate or control their wives. In fact, in a late essay entitled “Matriarchy” (originally published as “If Women Were Supreme”) Lawrence actually advocates rule by women, at least in the home, because he believes it would liberate men. He assumes the truth of the claim—now in disrepute—that early man had lived in matriarchal societies and writes, “the men seem to have been lively sorts, hunting and dancing and fighting, while the woman did the drudgery and minded the brats. . . . A woman deserves to possess her own children and have them called by her name. As to the household furniture and the bit of money in the bank, it seems naturally hers.” The man, in such a situation, is not the slave of the woman because the man is “first and foremost an active, religious member of the tribe.” The man’s real life is not in the household, but in creative activity, and religious activity:

The real life of the man is not spent in his own little home, daddy in the bosom of the family, wheeling the perambulator on Sundays. His life is passed mainly in the khiva, the great underground religious meeting-house where only the males assemble, where the sacred practices of the tribe are carried on; then also he is away hunting, or performing the sacred rites on the mountains, or he works in the fields.

Men, Lawrence tells us, have social and religious needs which can only be satisfied apart from women. The disaster of modern marriage is that men not only think they have to rule the roost, but they accept the woman’s insistence that he have no needs or desires that cannot be satisfied through his relationship to her. He becomes master of his household, and slave to it at the same time:

Now [man’s] activity is all of the domestic order and all his thought goes to proving that nothing matters except that birth shall continue and woman shall rock in the nest of this globe like a bird who covers her eggs in some tall tree. Man is the fetcher, the carrier, the sacrifice, and the reborn of woman. . . . Instead of being assertive and rather insentient, he becomes wavering and sensitive. He begins to have as many feelings—nay, more than a woman. His heroism is all in altruistic endurance. He worships pity and tenderness and weakness, even in himself. In short, he takes on very largely the original role of woman.

Ironically, in accepting such a situation without a fight, he only earns the woman’s contempt: “Almost invariably a [modern] married woman, as she passes the age of thirty, conceives a dislike, or a contempt, of her husband, or a pity which is near to contempt. Particularly if he is a good husband, a true modern.”

3. The Nature of Woman

In Fantasia of the Unconscious Lawrence writes, “Women will never understand the depth of the spirit of purpose in man, his deeper spirit. And man will never understand the sacredness of feeling to woman. Each will play at the other’s game, but they will remain apart.” But what is meant by “feeling” here? Lawrence is referring again to his belief that women live, to a greater extent than men, from the primal self. In the case of most men today, “mind-consciousness” and reason are dominant—to the point where they are frequently detached from “blood-consciousness” and feeling.

In describing the nature of woman Lawrence once again draws on perennial symbols: “Woman is really polarized downwards, towards the centre of the earth. Her deep positivity is in the downward flow, the moon-pull.” The sun represents man, and the moon woman. Day belongs to him, and night to her. However, another set of mythic images associates the earth with woman and the sky with man. The “pull” in women is towards the earth, and this means several things. First, the earth is the source of chthonic powers, and so, as poetic metaphor, it represents the primal, pre-mental, animal aspect in human beings. In a literal sense, however, Lawrence believes that women are more in tune than men with chthonic powers: with the rhythms of nature and the cycle of seasons. Further, the “downward flow” refers to Lawrence’s belief that the lower “centres” of the body are, in a sense, more primitive, more instinctual than the upper, and that women tend to live and act from these centers more than men do. Lawrence writes, “Her deepest consciousness is in the loins and belly. . . . The great flow of female consciousness is downwards, down to the weight of the loins and round the circuit of the feet.”

Finally, to be “polarized downwards, towards the centre of the earth” means to have one’s life, one’s vital being fixed in reference to a central point. If Lawrence intends us to assume that man is polarized upwards then we may ask, toward what? If woman is oriented towards the center of the earth, then–following the logic of the mythic categories–is man oriented toward the center of the sky? But the sky has no center. Man is less fixed than woman; he is a wanderer. He is a hunter, a seeker, a pioneer, an adventurer. Woman, on the other hand, lives from the axis of the world. Mircea Eliade writes that “the religious man sought to live as near as possible to the Center of the World.” Woman is at the center. Man begins there, then goes off. He returns again and again, the phallic power in him rising in response to the chthonic power of the woman. And his religious response is an ongoing effort to bring his daytime self into line with the life force he experiences when in the arms of the woman.

Woman, Lawrence tells us, “is a flow, a river of life,” and this flow is fundamentally different from the man’s river. However, “The woman is like an idol, or a marionette, always forced to play one role or another: sweetheart, mistress, wife, mother.” The mind of the male is built to analyze and categorize. But the nature of woman, like the nature of nature itself, defies categorization. Even before Bacon, man’s response to nature was to force it to yield up its secrets, to bend it to the human will, or to see it only within the narrow parameters of whatever theory was fashionable at the moment. The male mind attempts to do this to woman as well–and the woman, to a great extent, cooperates. She fits herself into the roles expected of her by authority figures, whether it is dutiful daughter-sister-wife-mother, or dutiful feminist and career-woman.

Lawrence writes, “The real trouble about women is that they must always go on trying to adapt themselves to men’s theories of women, as they always have done.” Two opposing wills exist in women, Lawrence believes: a will to conform or to submit, and a will to reject all boundaries and be free. In Women in Love, Birkin compares women to horses:

“And of course,” he said to Gerald, “horses haven’t got a complete will, like human beings. A horse has no one will. Every horse, strictly, has two wills. With one will, it wants to put itself in the human power completely—and with the other, it wants to be free, wild. The two wills sometimes lock—you know that, if ever you’ve felt a horse bolt, while you’ve been driving it. . . . And woman is the same as horses: two wills act in opposition inside her. With one will, she wants to subject herself utterly. With the other she wants to bolt, and pitch her rider to perdition.”

Ursula, who is present at this exchange, laughs and responds “Then I’m a bolter.” The trouble is that she is not.

Lawrence’s fiction is filled with vivid portrayals of women (arguably much more vivid and well-drawn than his portrayals of men). The central characters in several of his novels are women (The Rainbow, The Lost Girl, The Plumed Serpent, and Lady Chatterley’s Lover). All of Lawrence’s major female characters exhibit these two wills, but frequently he presents pairs of women each of whom represents one of the wills. This is the case in Women in Love. Ultimately, in Ursula’s character the will to surrender emerges as dominant. In her sister Gudrun the will to be free and wild dominates, with tragic results. In Lady Chatterley’s Lover, Connie Chatterley exhibits the will to surrender, and her sister Hilda the will to be free. The two lesbians in Lawrence’s novella The Fox are cut from the same cloth. Similar pairs of women also crop up in Lawrence’s short stories. In each case, one woman learns the joys of submitting, not to a man but to the earth, to nature, to the life mystery within her. The man is a means to this, however. The best example of this in Lawrence’s fiction is probably Connie Chatterley’s journey to awakening. In John Thomas and Lady Jane, an earlier version of Lady Chatterley’s Lover, Lawrence has Connie speak of the significance of her lover and of his penis: “I know it was the penis which really put the evening stars into my inside self. I used to look at the evening star, and think how lovely and wonderful it was. But now it’s in me as well as outside me, and I need hardly look at it. I am it. I don’t care what you say, it was penis gave it me.” As to the other woman in Lawrence’s fiction, she tends to be horrified by the primal self in her, and its call to surrender. She lives from the ego. She rages against anything in her nature that is unchosen, and against anything else that would hem her in, especially any man. She views herself as “realistic” and hardheaded, but the general impression she gives is of being hardhearted and sterile.

In his portrayals of the latter type of woman, Lawrence is partly depicting what he believes to be a perennial aspect of the female character, and partly depicting what he regards as the quintessential “modern” woman. It is in the nature of woman to counterbalance the will to submit with an opposing will that “bolts,” and kicks against all that which limits her, including her own nature. Lawrence believes that modern womanhood and all the problems of women today arise from the over-development of that will to freedom.

A “will to freedom” sounds like a good thing, so it is important to realize that essentially what Lawrence means by this is a negative will which tries either to control, or to destroy all that which it cannot control. Lawrence’s critique of modernity is a major topic in itself, but suffice it say that he believes that in the modern period a disavowal of the primal self takes place on a mass, cultural scale. The seeds of this disavowal were sown by Christianity, and reaped by modern scientism, which becomes the avowed enemy of the religion that helped foster it. Individuals live their lives from the standpoint of ego and mental-consciousness, and distrust the blood-consciousness. The negative will in women seizes upon reason and ego-dominance as a means to free herself from the influence of her dark, chthonic self, and from the influence of the men that this dark, chthonic self draws her to. The will to negate, using the mind as its tool, thus becomes the path to “liberation.”

Lawrence writes in Apocalypse:

Today, the best part of womanhood is wrapped tight and tense in the folds of the Logos, she is bodiless, abstract, and driven by a self-determination terrible to behold. A strange ‘spiritual’ creature is woman today, driven on and on by the evil demon of the old Logos, never for a moment allowed to escape and be herself.

And in an essay he writes, “Woman is truly less free today than ever she has been since time began, in the womanly sense of freedom.” This is, of course, exactly the opposite of what is asserted by most pundits today, when they speak of the progress made by woman in the modern era. Why does Lawrence believe that woman is now so unfree? The answer is implied in the quotation from Apocalypse: she is not allowed to be herself.

In Studies in Classic American Literature Lawrence tells us

Men are not free when they are doing just what they like. The moment you can do just what you like, there is nothing you care about doing. Men are only free when they are doing what the deepest self likes.

And there is getting down to the deepest self! It takes some diving.

Because the deepest self is way down, and the conscious self is an obstinate monkey. But of one thing we may be sure. If one wants to be free, one has to give up the illusion of doing what one likes, and seek what IT wishes done.

aaron'srod.jpgWhat Lawrence says here is applicable to both men and women. “To be oneself” in the true sense means to answer to the call of the deepest self. We can only achieve our “fullness of being” if we do so. The mind invents all manner of goals and projects and ideals to be pursued, but ultimately all that we do produces only frustration and emptiness if we act in a way that does not fundamentally satisfy the needs of our deepest, pre-mental, bodily nature.

Lawrence writes further in Apocalypse: “The evil Logos says she must be ‘significant,’ she must ‘make something worth while’ of her life. So on and on she goes, making something worth while, piling up the evil forms of our civilization higher and higher, and never for a second escaping to be wrapped in the brilliant fluid folds of the new green dragon.” Earlier in the same text, Lawrence tells us that “The long green dragon with which we are so familiar on Chinese things is the dragon in his good aspect of life-bringer, life-giver, life-maker, vivifier.” In short, the “green dragon” represents the life force, the source of all, the Pan power. Lawrence is saying that modern woman, in search of something “significant” to do with her life, falls in with all the corrupt (largely, money-driven) pursuits that have brought men nothing but ulcers, emptiness, and early death. “All our present life-forms are evil,” he writes. “But with a persistence that would be angelic if it were not devilish woman insists on the best in life, by which she means the best of our evil life-forms, unable to realize that the best of evil life-forms are the most evil.” Like men, she loses touch with the natural both within herself and in the world surrounding her. Lawrence’s dragon symbolizes both of these: primal nature as such, and the primal nature within me. It is this dragon which Lawrence seeks to awake in himself, and in his readers. The tragedy of modern woman is that she has renounced the dragon, whereas she would be better off being devoured by it.

In John Thomas and Lady Jane Lawrence also links the ideal of fulfilled womanhood to the dragon. Following Connie Chatterley’s musings on the meaning of the phallus (which I quoted earlier), Lawrence writes:

The only thing which had taken her quite away from fear, if only for a night, was the strange gallant phallus looking round in its odd bright godhead, and now the arm of flesh around her, the socket of the hand against her breast, the slow, sleeping thud of the man’s heart against her body. It was all one thing—the mysterious phallic godhead. Now she knew that the worst had happened. This dragon had enfolded her, and its folds were pure gentleness and safety.

Make no mistake, Lawrence believes that women can adopt the ways of men; he believes that they can succeed at traditionally male work. But he believes that they do this at great cost to themselves. “Of all things, the most fatal to a woman is to have an aim,” Lawrence tells us. In general, he believes that the ultimate aim of life is simply living, and that we set a trap for ourselves when we declare that some goal or some ideal shall be the end of life, and believe that this will make life “meaningful.” This applies to men, but even more so to women. Why? Because, again, women are so much closer to the source that men tend to regard women as the life force embodied (“Mother Nature”). For a woman to live for something other than living is to pervert her nature, and her gift. Again, Lawrence’s position is not that a woman is incapable of doing the work of a man, but ultimately she will find it deadening: “The moment woman has got man’s ideals and tricks drilled into her, the moment she is competent in the manly world—there’s an end of it. She’s had enough. She’s had more than enough. She hates the thing she has embraced.”

In our age, many women who have forgone marriage and children in order to pursue a career are discovering this. The body has its own needs and ends, and the organism as a whole cannot flourish and achieve satisfaction unless these needs and ends are satisfied. With some exceptions, women who have chosen not to have children regret it, and suffer in other ways as well (for example, they are at higher risk for developing ovarian cancer than women who have given birth). The same goes for men, many of whom spend a great many “productive” years without feeling a need to reproduce–then are suddenly hit by that need and launch themselves on a frantic, sometimes worldwide search for a suitable mate able to father them a child. Lawrence wrote the following, prophetic words in one of his final essays:

It is all an attitude, and one day the attitude will become a weird cramp, a pain, and then it will collapse. And when it has collapsed, and she looks at the eggs she has laid, votes, or miles of typewriting, years of business efficiency—suddenly, because she is a hen and not a cock, all she has done will turn into pure nothingness to her. Suddenly it all falls out of relation to her basic henny self, and she realizes she has lost her life. The lovely henny surety, the hensureness which is the real bliss of every female, has been denied her: she had never had it. Having lived her life with such utmost strenuousness and cocksureness, she has missed her life altogether. Nothingness!

This quote suggests that Lawrence believes that the woman, the hen, ruins herself by taking up the ways appropriate and natural for the cock – but this is not exactly what he means. In Lawrence’s view, the modern ways of the cock are destroying the cock as well, but they are doubly bad for the hen. What’s bad for the gander is worse for the goose. Lawrence believes that in order to achieve satisfaction in life, we must get in touch with that primal self that the woman is fortunate enough always to be closer to.

4. A New Relation Between Man and Woman

So what is to be done? How are we to repair the damage that has been done in the modern world to the relation between the sexes? How are we to make men into men again, and women into women?

Lawrence has a great deal to say on this subject, but one of his oft-repeated recommendations essentially amounts to saying that relations between the sexes should be severed. By this he means that in order for men and women to come to each other as authentic men and women, they must stop trying to be “pals” with each other. In a 1925 letter he writes, “Friendship between a man and a woman, as a thing of first importance to either, is impossible: and I know it. We are creatures of two halves, spiritual and sensual—and each half is as important as the other. Any relation based on the one half—say the delicate spiritual half alone—inevitably brings revulsion and betrayal.”

In order for men and women to be friends, they must deliberately put aside or suppress their sexual identities and their very different natures. They must actively ignore the fact that they are men and women. They relate to each other, in effect, as neutered, sexless beings. They can never truly relax around each other, for they must continually monitor the way that they look at each other or (more problematic) touch each other. Sitting in too close proximity could awaken feelings that neither wants awakened. If, with respect to their “daytime selves,” men and women are forced to relate to each other in this way regularly, it has the potential of wrecking the ability of the “nighttime self” to relate to the opposite sex in a natural, sensual manner. Once accustomed to the daily routine of suppressing thoughts and feelings, and taking great care never to show a sexual side to their nature, these habits carry over into the realm of the romantic and sexual. Dating and courtship become fraught with tension, each party unsure of the “appropriateness” of this or that display of sexual interest or simple affection. The man, in short, becomes afraid to be a man, and the woman to be a woman. “On mixing with one another, in becoming familiar, in being ‘pals,’ they lose their own male and female integrity.” Writing of the modern marriage, Wendell Berry states

Marriage, in what is evidently its most popular version, is now on the one hand an intimate “relationship” involving (ideally) two successful careerists in the same bed, and on the other hand a sort of private political system in which rights and interests must be constantly asserted and defended. Marriage, in other words, has now taken the form of divorce: a prolonged and impassioned negotiation as to how things shall be divided. During their understandably temporary association, the “married” couple will typically consume a large quantity of merchandise and a large portion of each other.

If we must suppress our masculine and feminine natures in order to be friends with the opposite sex, in what way then do we actually relate to each other? We relate almost entirely through the intellect. Lawrence writes, “Nowadays, alas, we start off self-conscious, with sex in the head. We find a woman who is the same. We marry because we are ‘pals.’” And: “We have made the mistake of idealism again. We have thought that the woman who thinks and talks as we do will be the blood-answer.” Modern men and women begin their relationships as sexless things who relate through ideas and speech. The man looks for a woman, or the woman for a man who thinks and talks as they do; who “knows where they are coming from,” and has “similar values.” They might as well not have bodies at all, or conduct the initial stages of their relationships by telephone or email. Indeed, that is exactly the way many modern relationships are now beginning. But the primary way men and women are built to relate to each other is through the body and the signals of the body; through the subtle, sexual “vibrations” that each gives off, through the sexual gaze (different in the male and in the female), and through touch. No real, romantic relationship can be forged without these, and without feeling through these non-mental means that the two are “right” for each other. We cannot start with “mental agreement” and then construct a sexual relationship around it.

Lawrence, like Rousseau, had a good deal to say about education, and in fact much of what he says is Rousseauian. His ideas on the subject are expressed chiefly in Fantasia of the Unconscious and in a long essay, “The Education of the People.”

In Fantasia of the Unconscious, in a chapter entitled “First Steps in Education,” Lawrence lays out a new program for educating girls and boys: “All girls over ten years of age must attend at one domestic workshop. All girls over ten years of age may, in addition, attend at one workshop of skilled labour or of technical industry, or of art. . . . All boys over ten years of age must attend at one workshop of domestic crafts, and at one workshop of skilled labour, or of technical industry, or of art.” The difference between how boys and girls are to be educated (at least initially) is that whereas both are required to attend a “domestic workshop,” only boys are required to attend a “workshop of skilled labour or of technical industry, or of art.” Keep in mind that Lawrence is laying down the rules for education in his ideal society. He anticipates that whereas all males will work outside the home (in some fashion or other), not all females will. His system is not designed to force women into the role of homemakers, for he leaves it open that girls may, if they choose, learn the same skills as boys. As to higher education, Lawrence leaves this open: “Schools of mental culture are free to all individuals over fourteen years of age. Universities are free to all who obtain the first culture degree.” The system is designed in such a way that individuals are drawn to pursue certain avenues based on their personalities and natural temperaments. Unlike our present society, in Lawrence’s world there would be no universal pressure to attend university: only individuals with certain natural gifts and inclinations would go in that direction. Similarly, the system leaves open the possibility that some women will pursue the same path as men, but only if that is their natural inclination. The intent of Lawrence’s program is not to force individuals into certain roles, but to cultivate their natural, innate characteristics. And as we have seen, Lawrence believes that males and females are innately different.

Lawrence makes it clear elsewhere that in the early years education will be sex-segregated. This is intended to facilitate the development of each student’s character and talents. Males, especially early in life, relate more easily to other males and are better able to devote themselves to their studies in the absence of females. The same thing applies to females. Sex-segregated education in the early years also has the advantage, Lawrence believes, of promoting a healthier interaction between males and females later on. In Fantasia of the Unconscious he states, “boys and girls should be kept apart as much as possible, that they may have some sort of respect and fear for the gulf that lies between them in nature, and for the great strangeness which each has to offer the other, finally.” After all, “You don’t find the sun and moon playing at pals in the sky.”

But this is, of course, all in the realm of fantasy. Lawrence’s system would be practical, if modern society could be entirely restructured, and he is aware that this is not likely to occur anytime soon. So what are we to do in the meantime? Here we encounter some of Lawrence’s most controversial ideas, and most inflammatory prose. He writes, “men, drive your wives, beat them out of their self-consciousness and their soft smarminess and good, lovely idea of themselves. Absolutely tear their lovely opinion of themselves to tatters, and make them look a holy ridiculous sight in their own eyes.” It is this sort of thing that has made Lawrence a bête noire of feminists. Yet, in the next sentence, he adds “Wives, do the same to your husbands.” Lawrence’s intention, as always, is to destroy the ego-centredness in both husband and wife; to destroy the modern tendency for men and women to relate to each other, and to themselves, through ideas and ideals.

As a man and a husband, however, he writes primarily from that standpoint: “Fight your wife out of her own self-conscious preoccupation with herself. Batter her out of it till she’s stunned. Drive her back into her own true mode. Rip all her nice superimposed modern-woman and wonderful-creature garb off her, Reduce her once more to a naked Eve, and send the apple flying.” Does he mean any of this literally? Is he advocating that husbands beat their wives? Perhaps. Lawrence and Frieda were famous for their quarrels, which often came to blows, though the blows were struck by both. Lawrence states the purpose of such “beatings” (whether literal or figurative) as follows: “Make her yield to her own real unconscious self, and absolutely stamp on the self that she’s got in her head. Drive her forcibly back, back into her own true unconscious.”

As we have already seen, Lawrence believes that healthy relations between a man and a woman depend largely on the man’s ability to make the woman believe in him, and the purpose he has set for himself in life. Sex unites the “nighttime self” of men and women, but the daytime self can only be united, for Lawrence, through the man’s devotion to something outside the marriage, and the woman’s belief in the man. This is just the same thing as saying that what unites the lives of men and women (as opposed to their sexual natures) is the woman’s belief in the man and his purpose. And so Lawrence writes:

You’ve got to fight to make a woman believe in you as a real man, a pioneer. No man is a man unless to his woman he is a pioneer. You’ll have to fight still harder to make her yield her goal to yours: her night goal to your day goal. . . . She’ll never believe until you have your soul filled with a profound and absolutely inalterable purpose, that will yield to nothing, least of all to her. She’ll never believe until, in your soul, you are cut off and gone ahead, into the dark. . . . Ah, how good it is to come home to your wife when she believes in you and submits to your purpose that is beyond her. . . . And you feel an unfathomable gratitude to the woman who loves you and believes in your purpose and receives you into the magnificent dark gratification of her embrace. That’s what it is to have a wife.

Friends of Lawrence must have smiled when they read these words, for he was hardly giving an accurate description of his own marriage. As I have mentioned, Lawrence and Frieda frequently fell into violent quarrels, and she would often demean and humiliate him, and he her. Yet, ultimately, Frieda believed in Lawrence’s abilities and his mission in life; he knew it and derived strength from it. Those who may think that Lawrence’s prescriptions for marriage require an extraordinarily submissive and even unintelligent wife should take note of the sort of woman Lawrence himself chose.

Now, some might respond to Lawrence’s description of marriage by asking, understandably, “Where is love in all of this? What has become of love between man and wife?” Yet Lawrence speaks again and again, especially in Women in Love, of love between man and wife as a means to wholeness, as a way to transcend the false, ego-centered self. In a 1914 letter he tells a male correspondent:

You mustn’t think that your desire or your fundamental need is to make a good career, or to fill your life with activity, or even to provide for your family materially. It isn’t. Your most vital necessity in this life is that you shall love your wife completely and implicitly and in entire nakedness of body and spirit. Then you will have peace and inner security, no matter how many things go wrong. And this peace and security will leave you free to act and to produce your own work, a real independent workman.

Initially in these remarks Lawrence seems to be taking a position different from the one he expressed in the later Fantasia of the Unconscious, where he asserts that the man derives his chief fulfillment from purpose, not from the home and family. But Lawrence’s position is complex. He believes that the man requires a relationship to a woman in order to be strengthened in the pursuit of his purpose. Recall the lines I quoted earlier, “Let a man walk alone on the face of the earth, and he feels himself like a loose speck blown at random. Let him have a woman to whom he belongs, and he will feel as though he had a wall to back up against; even though the woman be mentally a fool.” Man fulfills himself through having a purpose beyond the home, but he must have a home and a wife to support him. Through romantic love (which always involves a strong sexual component) the man comes to his primal self, and emerges from the encounter with the strength to carry on in the world. Lawrence is telling his correspondent—and this becomes clear in the last lines of the passage quoted—that in order to accomplish anything meaningful he must first submerge himself, body and soul, into love for his wife.

Of course, this makes it sound as if Lawrence regards married love merely as a means to an end: merely as a means to pursuing a male “purpose.” Elsewhere, however, he speaks of it as if it were an end in itself. This is particularly the case in Women in Love. Early in the novel Birkin tells Gerald, “I find . . . that one needs some one really pure single activity—I should call love a single pure activity. . . . The old ideals are dead as nails—nothing there. It seems to me there remains only this perfect union with a woman—sort of ultimate marriage—and there isn’t anything else.” Again, Lawrence is seeking a way to get beyond idealism, and all the corrupt apparatus of modern, ego-driven life. To get beyond this, to what? To the true self, and to relationships based upon blood-consciousness and honest, uncorrupted sentiment. In Women in Love, Lawrence’s plan for achieving this involves a “perfect union” with a woman (and, as he states in the same novel, “the additional perfect relationship between man and man—additional to marriage”).

Birkin wants to achieve this with Ursula, but he keeps insisting over and over (much to her bewilderment and anger) that he means something more than mere “love.” The reason for this is that Birkin and Lawrence associate “love” with an ideal that is drummed into the heads of people in the modern, post-Christian world. We are issued with the baffling injunction to “love thy neighbor,” where thy neighbor means all of humanity. Any intelligent person can see that to love everyone means to love no one in particular. And any psychologically healthy person would find valueless the “love” of someone who claimed also to love all the rest of humanity. Lawrence is reacting also against the lovey-dovey, white lace, sanitized, billing and cooing sort of “love” that society encourages in married couples. Lawrence’s disgust for this sort of thing is expressed in his short story “In Love.” The main character, Hester, is repulsed by the “love” her fiancé, Joe, shows for her. They had been friends prior to their engagement and got on well

But now, alas, since she had promised to marry him, he had made the wretched mistake of falling “in love” with her. He had never been that way before. And if she had known he would get this way now, she would have said decidedly: Let us remain friends, Joe, for this sort of thing is a come-down. Once he started cuddling and petting, she couldn’t stand him. Yet she felt she ought to. She imagined she even ought to like it. Though where the ought came from, she could not see.

Birkin (like Lawrence) wants to avoid at all costs falling into this sort of scripted, stereotyped love relationship, but Ursula has a great deal of difficulty understanding what it is that he does want. He tries his best to explain it to her:

“There is,” he said, in a voice of pure abstraction, “a final me which is stark and impersonal and beyond responsibility. So there is a final you. And it is there I would want to meet you—not in the emotional, loving plane—but there beyond, where there is no speech and no terms of agreement. There we are two stark, unknown beings, two utterly strange creatures, I would want to approach you, and you me. And there could be no obligation, because there is no standard for action there, because no understanding has been reaped from that plane. It is quite inhuman—so there can be no calling to book, in any form whatsoever—because one is outside the pale of all that is accepted, and nothing known applies. One can only follow the impulse, taking that which lies in front, and responsible for nothing, giving nothing, only each taking according to the primal desire.”

The “final me and you” refers to the primal self. “The old ideals are dead as nails” and so is modern civilization. Birkin does not want his relationship to Ursula to “fit” into the modern social scheme, to become conventional or “safe.” He also fears and abhors the impress of society on his conscious, mental self. He does not want to come together with Ursula “though the ego,” as it were. He wants them to come together through their primal selves and to forge a relationship that is based on something deeper and far stronger than what the overly socialized creatures around him call “love.” Yet, at the same time, one could simply say that what he wants is a truer, deeper love, and that what passes for love with other people is usually not the genuine article. They are doing what one “ought” to do, even when in bed together.

In The Rainbow (to which Women in Love forms the “sequel”), Tom Brangwen offers his views on love and marriage in a famous passage:

“There’s very little else, on earth, but marriage. You can talk about making money, or saving souls. You can save your own soul seven times over, and you may have a mint of money, but your soul goes gnawin’, gnawin’, gnawin’, and it says there’s something it must have. In heaven there is no marriage. But on earth there is marriage, else heaven drops out, and there’s no bottom to it. . . . If we’ve got to be Angels . . . and if there is no such thing as a man or a woman among them, then it seems to me as a married couple makes one Angel. . . . [An] Angel can’t be less than a human being. And if it was only the soul of a man minus the man, then it would be less than a human being. . . . An Angel’s got to be more than a human being. . . . So I say, an Angel is the soul of a man and a woman in one: they rise united at the Judgment Day, as one angel. . . . If I am to become an Angel, it’ll be my married soul, and not my single soul.”

À la Aristophanes in Plato’s Symposium, men and women form two halves of a complete human being. Human nature divides itself into two, complementary aspects: masculinity and femininity. A complete human being is made when a man and a woman are joined together. But they cannot be joined—not really—through the mental, social self, but only through the unconscious, primal self.

In Women in Love, this view returns but in a modified form. Now Birkin tells us, “One must commit oneself to a conjunction with the other—for ever. But it is not selfless—it is a maintaining of the self in mystic balance and integrity—like a star balanced with another star.” And Lawrence tells us of Birkin, “he wanted a further conjunction, where man had being and woman had being, two pure beings, each constituting the freedom of the other, balancing each other like two poles of one force, like two angels, or two demons.” Tom Brangwen’s view implies that men and women, considered separately, do not have complete souls, and that a complete soul is made only when they join together in marriage. There is a suggestion in what he says that the “individuality” of single men and women is false, and that only a married couple constitutes a true individual. Birkin’s ideal, on the other hand, involves the man and the woman each preserving their selfhood and individuality and “balancing” each other.

Despite the fact that Birkin frequently, and transparently, speaks for Lawrence we cannot take him as speaking for Lawrence here. I believe that it is Brangwen’s position that is closest to Lawrence’s own. When Women in Love opens, Birkin is in a relationship with Hermione, who Lawrence portrays as a woman living entirely from out of her head, without any naturalness or spontaneity. Yet there is a bit of this in Birkin as well, which is perhaps why he reacts against it so violently when he sees it in Hermione. After the passage just quoted from Women in Love, Lawrence writes of Birkin, “He wanted so much to be free, not under the compulsion of any need for unification, or tortured by unsatisfied desire. . . . And he wanted to be with Ursula as free as with himself, single and clear and cool, yet balanced, polarised with her. The merging, the clutching, the mingling of love was become madly abhorrent to him.” Lawrence then goes on to describe Birkin’s fear and loathing of women’s “clutching.” Birkin is a conflicted character. He wants to lose himself in a relationship with a woman, but fears it at the same time. He wants Ursula, and talks on and on about spontaneity and the evil of ideals, yet he is continually preaching to Ursula about his ideal relationship which, conveniently, is one in which he can unite with her yet preserve his ego intact. This at first bewilders then infuriates Ursula, who never understands what it is that he wants. In the end, the problem resolves itself, probably just as it would in real life. Drawn to Ursula by a power stronger than his conscious ego, Birkin eventually drops all of his talk, surrenders his will, and settles into a married bliss that is marred only by his continued desire for the love of a man.

Ultimately, Lawrence believes that the “establishment of a new relation” between men and women depends upon a return to the oldest of relationships, and that this is possible only through a recovery of the oldest part of the self. We must, he believes, drop our ideal of the unisex society and be alive again to the fundamental, natural differences between men and women. Men and woman do not naturally desire to enjoy each other’s society at all times. We must not only educate men and women apart, but re-establish “spaces” within civilized society where men can be with men, and women with women. We must not force men and women together and command them to forget that they are men and women. Education and, indeed, much else in society must work to cultivate and to affirm the natural, masculine qualities and virtues in men, and the feminine qualities and virtues in women. Having become true men and women and having awakened, through their apartness, to the mystery and the allure that is the opposite sex, they will then come together and forge romantic alliances that are not based upon talk and “common values” but upon the “pull” between man and woman. Lawrence is not referring here simply to lust. A sexual element is, of course, involved, but what he means is the mysterious, ineffable attraction between an individual man and a woman, what we often call “chemistry,” which has nothing to do with the words they utter or the ideals they pay lip service to. And once this attraction is established, if the two desire to become bound to each other, then they must surrender themselves to the relationship. They must overcome their fear of the loss of ego boundaries. They must drop all talk of “rights” and not fall into the trap of treating the marriage as if it were a business partnership. For both, it is a leap into the unknown but in this case the unknown is the natural. When we plant a seed we must close the earth over it and go off and wait in anticipation. But we know that nature, being what it is, will produce as it has before. If all goes well, in that spot will grow the plant we were expecting. Similarly, marriage is not a human invention but something that grows naturally between a man and woman if its seed is planted in the fertile soil of the primal selves of each.

mercredi, 15 décembre 2010

Antonin Artaud: Sul suicidio e altre prose

Antonin Artaud: SUL SUICIDIO E ALTRE PROSE

di Andrea Ponso

Ex: http://www.camarillaonline.com/

artaud.jpgIl “blocco Artaud” ci permette di entrare nel vivo di una crisi, una crisi di pensiero e di rappresentazione, con un movimento che non può non chiamare in causa il rapporto con il mondo e con il reale, la lucidità e le mille trappole del letterario: tutto il suo lavoro è un vero e proprio corpo a corpo con il sistema delle conoscenze occidentali e non solo, con la religione (certo Artaud non era un ateo: un ateo non lotta così a lungo con Dio) e con le varie suddivisioni dei saperi. Partendo dalla tematica principale attorno alla quale si raccolgono questi scritti (frecciabr.gif Sul suicidio e altre prose, Via del vento, 4 euro) cercheremo di dimostrare, entrando nel vivo di questi brevi ma veramente preziosissimi testi, le frizioni che la macchina da pensiero produce a contatto con la mobilità e il corpo del nostro autore.

La morte è vista da Artaud come un eterno presente:

"… il sentimento dell’uniformità di ogni cosa. Un assoluto magnifico. Avevo senza dubbio appreso ad avvicinarmi alla morte..."
In realtà, la morte è quindi in sé l’abolizione della differenza, dello smembramento (ricordiamo l’invenzione artaudiana del corpo senza organi) ma, tramite il suicidio, non si può raggiungere che attraverso un atto di smembramento, di distacco, di rottura di una uniformità, che ci rende prigionieri ancora una volta del pensiero che lo ha pensato, dividendo e preparando, tra l’altro, l’infiltrazione del divino e di ogni trascendenza che, insinuandosi, crea continuamente il due, la divisione, il “non”, rubandoci il dolore-essere in cambio di una rappresentazione, espropriandoci, eternizzandoci:
"il suicidio non è che la conquista favolosa e lontana degli uomini che pensano bene."
Non una preclusione morale quindi, bensì una impossibilità: il non poter risolvere l’organicità e la differenza con una ulteriore divisione-differenza; non ci sono vie di fuga per il rigore di Artaud e per un pensiero che pensa l’unità di un corpo senza organi da una prospettiva (ma anche qui, di nuovo, ogni prospettiva è una parzialità) che esclude risolutamente ogni metafisica.
In realtà, è da sempre troppo tardi:
"non sento l’appetito della morte, sento l’appetito del non essere, di non essere mai caduto in questo trastullo d’imbecillità, di abdicazioni, di rinunce e di ottusi incontri che rappresenta l’io di Antonin Artaud"
; nonostante ciò, Artaud si rende conto che in questa insofferenza si nasconde la tentazione della trascendenza: 9788887741162g.jpgè in fondo la stessa visione di certo cristianesimo (e non solo) che svaluta la terra e propone prospettive salvifiche future (è lo stesso meccanismo che nella testualità promette un senso a venire e nello stesso momento instaura e salva una oscurità strategica?).
Allora Artaud tronca ogni possibile via di fuga e nello stesso tempo accetta i mille rivoli che smembrano ogni uomo, poiché neanche il corpo senza organi deve essere visto in prospettiva, ma anche (rompendo l’ordine della logica, come succede sempre nei punti di maggiore tensione della scrittura artaudiana) non può che essere visto così: è un In – stante per chi sceglie di rimanere nel cortocircuito, nel punto in cui ogni rappresentazione persiste e non smette di crollare:
"questo io virtuale, impossibile, che si trova tuttavia nella realtà."
Tutta la speculazione di questo autore, il suo continuo cortocircuitare nel pensiero che lo pensa, non è altro che una lotta sul posto, contro il "pensare ciò che mi vogliono far pensare" (del resto, lo ricorda lui stesso nel suo Van Gogh "mi si è suicidato"), infatti ci si sente
"fin nelle ramificazioni più impensabili (…) irriducibilmente determinati ( … ) e il fatto che mi ucciderò è probabilmente inscritto in un ramo qualsiasi del mio albero genealogico"
(viene in mente il lavoro di liberazione dalle ‘parti’ e dal ‘modo’ del teatro di Bene).
Artaud arriva quindi alla perentorietà di questa bruciante affermazione:
"Dio mi ha collocato nella disperazione come in una costellazione di vicoli ciechi il cui irradiamento approda a me stesso. Non posso ne morire, ne vivere, ne desiderare di morire o vivere. E tutti gli uomini sono come me."
C’è una ricerca di chiarezza in questa scrittura, davvero sconvolgente (soprattutto se pensiamo alla vita dell’uomo Artaud, ai suoi dolori, all’elettrochoc e ai vari internamenti psichiatrici) - una chiarezza che, per illuminarsi non accetta la logica e il pensiero sul mondo in vigore ma che non li accantona sbrigativamente ma li vive dal di dentro, li porta come abiti che continuamente si è costretti a togliere e a rimettere: per arrivare alla chiarezza, Artaud non vuole semplificare, bensì adattare il suo sguardo e il suo corpo alla complessità della materia e all’ordine non rappresentativo del mondo poiché
"la vita non mi appare che come un consenso all’apparente leggibilità delle cose e alla loro relazione nello spirito"
e ancora,
"la nostra attitudine all’assurdo e alla morte è quella della migliore ricettività"
, sgombrando da subito il campo da atteggiamenti di passività o maledettismo, e spostando lo sguardo verso l’attenzione e la lucidità, verso un mondo in movimento, privo d’ombra e di rifugi (soprattutto rifugi letterari, artistici: ad Artaud non basta più essere un artista, poiché l’artista è diventato un uomo della consolazione o della rassegnazione infinita; poiché l’artista è anch’esso determinato e inserito nella casella che la divisione aristotelica dei saperi ancora gli impone ).
Insomma, si tratta di scegliere la lucidità, il proprio dolore, la propria pulizia anche (e si badi bene: tutto ciò non presuppone l’accantonamento di quel "trastullo d’imbecillità, di abdicazioni (…) che rappresenta l’io di Antonin Artaud" e, aggiungiamo noi, di tutta l’armatura del nostro occidente …) oppure di rimanere passivi all’esproprio del nostro essere ( del nostro dolore senza motivo) in cambio di una rappresentazione che non è il mondo e che si frappone tra noi e il nostro oggetto.
E a questo proposito, fatte naturalmente le dovute proporzioni, verrebbe forse da pensare agli immensi depositi di larve umane del film Matrix, derubate e risucchiate della propria energia, della propria vita vera (ha senso usare questo aggettivo?), sezionate e aperte da fori, in cambio di una vita che è rappresentazione e spettacolo. E tuttavia questa sorte, che tocca ai poveri umani del film, ricade anche, aldilà della finzione, su ogni singolo spettatore, sommerso da un numero imprecisato di effetti speciali: insomma, sono gli stessi cattivi di Matrix a creare il film, Matrix è il programma e il film stesso.
Il lavoro di Artaud ingloba le dicotomie e le aporie del pensiero senza parificarle, non procede per disgiunzioni ed esclusioni, non sostituisce alla prepotenza della materia un sistema simbolico convenzionale : in questo suo vagabondaggio eversivo, non poteva non approdare ai bordi, alle valvole di sicurezza che il sistema stesso ha ideato, quindi alla medicina e in particolare alla psichiatria – anche qui Artaud soccombe e vince:
"Ecco psichiatri (…) radunatevi attorno a questo corpo (…) è intossicato, vi dico, e si attiene alle vostre inversioni di barriere, ai vostri vuoti fantasmi (…) tu hai vinto, psichiatria, hai vinto ed egli ti oltrepassa"
ed è proprio quel “ed” che mette in crisi il tutto
Sotto l’insopprimibile ombra del dover essere, dietro alla parte determinata, dietro ai modi che ci perseguitano e ci salvano
"in fondo dunque a questo verbalismo tossico, c’è lo spasmo fluttuante di un corpo libero e che riguadagna le sue origini, la muraglia di morte essendo chiara, essendo capovolta e rasente il terreno. Poiché è qui che la morte procede, attraverso il filo di un’angoscia che il corpo non può finire di attraversare."

vendredi, 10 décembre 2010

Machtansprüche

Machtansprüche

Panajotis_Kondylis.gifDer existenzielle Ernst der Lage macht ... den Diskurs nicht nur unmöglich, sondern auch überflüssig, es sei denn, einer der Feinde zeigt sich geneigt, seine Identität (teilweise) aufzugeben bzw. die Objektivierung seiner Entscheidung zurückzunehmen.... Diesen Grundgegebenheiten kann niemand entgehen, so sehr er auch die Notwendigkeit des ’vernünftigen' Diskurses hervorhebt. Selbst dieser Akt hat aber einen polemischen Sinn, er... drückt... die Machtansprüche derjenigen aus, die die eigene starke Seite im Debattieren und Argumentieren erblicken, d.h. er artikuliert in sublimierter Form die Hoffnungen der Kleinbürger des Geistes, sie könnten härteren Kampfformen ausweichen, denen sie nicht gewachsen sind und in denen ihre Stimme und Existenz völlig bedeutungslos wäre.

Panajotis Kondylis, Macht und Entscheidung. Die Herausbildung der Weltbilder und die Wertfrage. Stuttgart, 1984.
 
Gefunden auf: http://rezistant.blogspot.com/

mardi, 07 décembre 2010

Martin Heidegger: Sur la physis

Sur la φύσις

par Martin HEIDEGGER

ex: http://dhdc2917.eu/

« À l’époque du premier et décisif déploiement de la philosophie occidentale chez les Grecs, par lequel le questionner sur l’étant comme tel en totalité prit son véritable départ, on nommait l’étant φύσις. Ce mot de base des Grecs pour l’étant, on a coutume de le traduire par « nature ». On utilise la traduction latine natura, ce qui signifie proprement « naître », « naissance ». Mais, par cette traduction latine, on s’est déjà détourné du contenu originaire du mot grec φύσις, l’authentique force d’appellation philosophique du mot grec est détruite. Cela ne vaut pas seulement pour la traduction latine de ce mot, mais pour toutes les autres traductions de la langue philosophique grecque en « romain ». Cette traduction du grec en romain n’est pas indifférente ni anodine, c’est au contraire la première étape d’un processus de fermeture et d’aliénation de ce qui constitue l’essence originaire de la philosophie grecque. La traduction (übersetzung) romaine fit ensuite autorité pour le christianisme et le Moyen-Âge chrétien. Celui-ci se trans-mit (setzte sich über) dans la philosophie moderne, qui se meut dans le monde de concepts du Moyen-Âge, et créé alors les idées et les notions courantes qu’on emploie aujourd’hui encore pour se rendre compréhensible le commencement de la philosophie occidentale. Ce commencement est considéré comme quelque chose que les gens d’aujourd’hui sont censés avoir dépasser et laisser depuis longtemps derrière eux.

Mais il s’agit maintenant pour nous de sauter par dessus ce processus de déformation et de dégradation, et de chercher à conquérir la force d’appellation intacte de la langue et des mots ; car les mots et la langue ne sont pas de petits sachets dans lesquels les choses seraient simplement enveloppées pour le trafic des paroles et des écrits. C’est seulement dans le mot, dans la langue, que les choses deviennent et sont. C’est pourquoi aussi le mauvais usage de la langue dans le simple bavardage, dans les slogans de la phraséologie, nous fait perdre la relation authentique aux choses. Or, que dit le mot φύσις ? Il dit ce qui s’épanouit de soi-même (par ex. l’épanouissement d’une rose), le fait de se déployer en s’ouvrant et, dans un tel déploiement, de faire son apparition, de se tenir dans cet apparaître et d’y demeurer, bref il dit la perdominance perdurant dans un s’épanouir (das aufgebend-verweilende Walten). Selon le dictionnaire, φύειν veut dire croître, faire croître. Mais que signifie croître ? Cela désigne-t-il seulement le fait de s’agrandir selon la quantité, de devenir plus, et plus grand ?

La φύσις conçue comme épanouissement (Aufgeben) peut être partout, par exemple dans les phénomènes célestes (lever (Aufgang) du soleil), dans la houle marine dans la croissance des plantes, dans la sortie de l’animal et de l’homme du ventre de leur mère. Mais φύσις, la perdominance de ce qui s’épanouit, ne signifie pas seulement ces phénomènes que nous attribuons aujourd’hui encore à la « nature ». Cet épanouissement, ce se tenir-en-soi-vers-le-dehors, cela ne peut être considéré comme un processus observé, parmi d’autres, dans l’étant. La φύσις est l’être même, grâce auquel seulement l’étant devient observable et reste observable.

Les Grecs n’ont pas commencé par apprendre des phénomènes naturels ce qu’est la φύσις, mais inversement : c’est sur la base d’une expérience fondamentale poétique et pensante (dichtend-denkend) de l’être, que s’est ouvert à eux ce qu’ils ont dû nommer φύσις. Ce n’est que sur la base de cette ouverture qu’ils purent être à même de comprendre la nature au sens restreint. Φύσις désigne donc originairement aussi bien le ciel que la terre, aussi bien la pierre que la plante, aussi bien l’animal que l’homme, et l’histoire humaine en tant qu’œuvre des hommes et des dieux, enfin, et en premier lieu, les dieux mêmes dans le pro-de-stin. Φύσις désigne la perdominance de ce qui s’épanouit, et le demeurer (Währen) perdominé (durchwaltet) par cette perdominance. Dans cette perdominance qui perdure dans l’épanouissement se trouvent inclus aussi bien le « devenir » que « l’être » au sens restreint de persistance immobile. Φύσις est la venue au jour, < la pro-sistance > (Ent-stehen), le fait de s’é-mettre (sich herausbringen) hors du latent (das Verborgene), et par là de porter celui-ci à stance (in den stand bringen).

Mais si, comme il arrive le plus souvent, on ne comprend pas φύσις dans le sens originaire de perdominance de ce qui s’épanouit et perdure, mais dans le sens ultérieur et actuel de nature, et si l’on pose en outre que la nature se manifeste fondamentalement par les mouvements des choses matérielles, des atomes, des électrons, c’est-à-dire par ce que la physique moderne soumet à ses investigations comme « physis », alors la philosophie originaire des Grecs devient une philosophie de la nature, une représentation de toutes choses, selon laquelle elles sont proprement de nature matérielle. Le commencement de la philosophie grecque fait alors – et c’est tout à fait conforme à l’idée que le sens commun se fait d’un commencement – l’impression de quelque chose de primitif, comme nous disons encore d’après le latin. Les Grecs deviennent ainsi en somme une espèce un peu améliorée de Hottentots, et par rapport à eux la science moderne est infiniment avancée. Abstraction faite de toutes les absurdités particulières qui se trouvent dans cette façon de concevoir l’origine de la philosophie occidentale comme quelque chose de « primitif », il faut remarquer que cette interprétation oublie qu’il s’agit de la philosophie, qui appartient aux rares grandes choses de l’homme. Or tout ce qui est grand ne peut commencer que grand. C’est même toujours son commencement qui est le plus grand. Ce qui commence petit, c’est seulement le petit, dont la grandeur douteuse consiste à tout rapetisser ; ce qui commence petit c’est la décadence, qui à son tour peut devenir grande au sens de la démesure de l’anéantissement total.

Ce qui est grand commence grand, ne se maintient dans sa persistance que par un libre retour de la grandeur, et, si c’est grand, finit aussi dans la grandeur. Il en est ainsi de la philosophie des Grecs. Elle a fini dans la grandeur avec Aristote. Seul le sens commun et l’homme médiocre s’imaginent que ce qui est grand devrait durer indéfiniment, et en outre identifie cette durée avec l’éternel. »

Martin Heidegger, « La question fondamentale de la métaphysique », in « Introduction à la métaphysique », tel Gallimard, pp. 25-28.

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Amitié et patrie

Amitié et patrie

par Julien Freund

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« Du moment que la concorde est amitié, elle a également pour base une certaine identité des sentiments qui se concrétise dans la notion de patrie. Aucune collectivité ne saurait demeurer unie ni durer si ses membres n’éprouvent pas la nécessité de participer pour ainsi dire affectivement à l’ensemble social qu’ils constituent. Un pays sans patrimoine commun, qu’il soit d’ordre culturel, ethnique, linguistique ou autre, n’est qu’une création artificielle, incapable de résister aux épreuves de la politique. On a beau ironiser sur le concept de patrie et concevoir l’humanité sur le mode anarchique et abstrait comme composée uniquement d’individus isolés aspirant à leur seule liberté personnelle, il n’empêche que la patrie est une réalité sociale concrète, introduisant l’homogénéité et le sens de la collaboration entre les hommes. Elle est même une des sources essentielles du dynamisme collectif, de la stabilité et de la continuité d’une unité politique dans le temps. Sans elle, il n’y a ni puissance ni grandeur ni gloire, mais non plus de solidarité entre ceux qui vivent sur un même territoire. On ne saurait donc dire avec Voltaire, à l’article Patrie de son Dictionnaire philosophique que « souhaiter la grandeur de son pays, c’est souhaiter du mal à ses voisins ». En effet, si le patriotisme est un sentiment normal de l’être humain au même titre que la piété familiale, tout homme raisonnable comprend aisément que l’étranger puisse éprouver le même sentiment. Pas plus que l’on ne saurait conclure de la persistance de crimes passionnels à l’inanité de l’amour, on ne saurait prendre prétexte de certains abus du chauvinisme pour dénigrer le patriotisme. Il est même une forme de la justice morale. C’est avec raison qu’A. Comte a vu dans la patrie la médiation entre la forme la plus immédiate du groupement, la famille et la forme la plus universelle de la collectivité, l’humanité. Elle a pour raison le particularisme qui est inhérent au politique. Dans la mesure où la patrie cesse d’être une réalité vivante, la société se délabre non pas comme le croient les uns au profit de la liberté de l’individu ni non plus comme le croient d’autres à celui de l’humanité ; une collectivité politique qui n’est plus une patrie pour ses membres cesse d’être défendue pour tomber plus ou moins rapidement sous la dépendance d’une autre unité politique. Là où il n’y a pas de patrie, les mercenaires ou l’étranger deviennent les maîtres. Sans doute devons-nous notre patrie au hasard de la naissance, mais il s’agit d’un hasard qui nous délivre d’autres. »

Julien Freund, « Qu’est-ce que la politique ? », Le but spécifique du politique ; 4. La concorde intérieure et la prospérité. Points, 1967.

lundi, 06 décembre 2010

L'occultation de la physis

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L’occultation de la physis

par Arnaud VILLANI

Ex: http://dhdc2917.eu/

Dans les premières décennies du vingtième siècle, malgré les remarquables efforts antérieurs de Schopenhauer et de Nietzsche, mais aussi de von Keyserling, David Herbert Lawrence ou de l’américain David Thoreau pour exprimer haut et fort la spécificité de la physis et en fournir le concept, et alors même que Heidegger y consacre de nombreuses études, l’histoire de la philosophie porte trace de la difficulté que cette notion a rencontrée avant d’acquérir droit de cité dans le champ philosophique. Sans aller jusqu’aux détails, on remarque que le sens originellement physique de la Nature est pour ainsi dire oublié dans le classique ouvrage de John Burnet (Early Greek Philosophy, trad. fr. Reymond, L’aurore de la philosophie grecque Payot 1970 : il ne lui consacre qu’une demie page), et que l’interprétation intuitive de Karl Joël, faisant, dans Der Ursprung der aturphilosophie aus dem Geiste der Mystik (Bâle 1903), une lecture mystique de la nature qu’équivaut à l’affirmation de la physis, est durement critiquée par un historien aussi précis que Pierre-Maxime Schuhl (Essai sur la formation de la pensée grecque, Vrin 1948 p. 191).

Vieille tradition d’aveuglement à l’égard de ce qu’Aristote d’abord, puis la Renaissance et le Romantisme allemand avaient très clairement mis ou remis en lumière, à savoir le caractère naturant de la nature. Cet aspect éminemment actif de la nature est ce qu’on nommait en grec physis, transposé en latin dans la forme de futur de natura. Le radical indo-européen de physis est +bhew-, croître, que certains apparentent à +pha-, la lumière. Or la reconnaissance exacte de ce radical et de son sens précis est une clé indispensable pour penser comme il convient la spécificité philosophique des physikoi milésiens et de leurs successeurs.

Si tous les présocratiques ont intitulé leur œuvre, et Lucrèce bien après eux, De la nature (Peri physeôs, De natura rerum), ce n’est pas pour nous livrer leurs observations sur la nature entendue comme ensemble des étants spontanés et indépendants de l’activité humaine, mais pour examiner, avec leurs moyens, les principes de la puissance qui œuvre dans la nature. Ils recherchent d’abord l’action de la physis1, imperceptible parce qu’elle « aime à se cacher », mais partout sensible dans le résultat de cette action, la physis2. Il serait bien sûr ici très opportun de pouvoir dire physis et phyma, comme on dit poïesis et poïema, comme Spinoza disait naturant et naturé.

Cette simple distinction de suffixe (action / résultat de l’action) modifie en effet tout l’accent de philosophies longtemps restées obscures : Parménide n’est pas le premier logicien, ni même le premier ontologue, mais un théoricien de l’être présent et de la valeur de toutes choses en tant qu’elles se tiennent ; Héraclite ne met ni le flux ni la raison (logos) en première place, mais bien leur harmonie concertante et leur tension ; les sophistes sont les premiers penseurs à analyser le langage en situation et les conditions d’un consensus issu de la lutte, etc. Mon hypothèse est en effet que ces penseurs ont « imité la nature », au sens où ils ont non seulement mis en scène dans leurs œuvres la puissance naturante, mais ont travaillé leur texte et leur pensée jusqu’à ce que cette puissance y devienne affleurante, leur conférant une jeunesse définitive.

Cette distinction aurait en outre permis de rendre justice, le moment venu, à la véritable orientation du romantisme allemand, et au sens profond de son « imitation de la nature », comme imitation, non pas du résultat de la puissance, mais de la puissance elle-même comme procès de production. Tout change en effet, lorsque l’on découvre les tableaux du peintre romantique Caspar David Friedrich, ou les romans de Stifter et, dans un autre registre, les marines de Vernet, ou les œuvres d’Hokusai, si l’on prend conscience qu’ils donnent à voir une physis, autrement dit une nature qui ne se représente que difficilement, mais qui sait se présenter elle-même. On pourrait en dire autant des quelques poèmes conservés de la folie de Hölderlin, qu’il s’agisse de l’étonnant En bleu adorable…, ou de ses Saisons, où la sérénité et la simplicité de la forme laissent deviner clairement l’intention de Hölderlin : il n’imite ni ne représente la nature, mais c’est elle qui vient se montrer telle qu’elle est, dans cet excès de puissance que révèle le calme. Nul doute aussi que l’insistance avec laquelle Friedrich tourne les visages qu’il représente vers l’intérieur du tableau (le Voyageur regarde la mer de nuages, le Moine regarde la mer, le visage est là pour témoigner d’une puissance étrangère), et retourne ses tableaux vers le mur, signale le respect et le recueillement qu’exige la puissance naturelle. Seul ce respect recueilli peut nous faire coïncider de l’intérieur avec cette force, qu’il sait rendre presque tangible dans l’arbre de Paysage champêtre le matin.

Il y a donc toujours deux natures, l’externe et l’interne, celle que l’on représente et celle qui se présente en effets, le théâtre et l’usine, le portrait et la prosopopée. Les Grecs qui ont le mieux senti en eux et autour d’eux la puissance éternelle de la nature, les premiers Stoïciens, ont fait la différence entre l’eidos, la forme externe qui reproduit des types toujours semblables, et l’hexis, la forme interne, autant dire la « tenue » (echein = tenir), qui produit des individus toujours différents, soit la distinction des mathématiques et de la biologie. De la même façon, à partir des lettres de Descartes à Newcastle et à More, s’est établie en philosophie, de Cordemoy à Blumenbach et au-delà, une tradition de résistance à l’idée de réduire la nature à l’étendue et les animaux à des machines, en exploitant précisément les remarques de Descartes sur l’aspect créateur du langage. Il est vrai, cette tradition fera intervenir, sans doute maladroitement, ce qui a été assimilé à des « forces occultes », une vis formativa, une Bildungstrieb, une Urform, qui constituent précisément ce que Descartes voulait éradiquer.

Mais cette tradition a rendu des services. Elle sous-tend la conception essentielle de la souche unique du langage chez Humboldt, elle est requise, avec des retouches, dès que l’on veut analyser le processus de la création artistique (ainsi Ehrenzweig distinguera entre « scanning inconscient » et vision géométrique abstraite, prétendue naturelle), et elle se retrouvera finalement dans l’importante distinction de Chomsky entre structure profonde et structure de surface. On peut se reporter sur ce point à la Linguistique cartésienne de ce dernier auteur.

Bergson reprochait aux philosophes de s’en tenir aux concepts et à la découpe qu’ils pratiquent, pour le compte d’une intelligence fabricatrice et tournée vers les impératifs de la vie sociale, dans le mouvement vivant, le changement et la durée. Il demandait qu’on veuille bien revenir par intuition aux choses mêmes, qui ne se laissent jamais découper, mais persistent dans une continuité, dans une production de nouveauté, dans l’hétérogène. Le philosophe s’en tient trop au mécanique, au statique, au résultat figé. Certes, le rôle de l’intelligence paraît bien réduit dans cette philosophie (elle n’est pas, selon moi, la faculté des outils d’un homo faber, mais bien des machines, en un sens très large de traduction de transposition pour un homo substituens). Mais on ne peut que reprendre ces analyses, et constater qu’une occultation persistante du concept de physis dans la plupart des histoires de la philosophie et conséquemment dans les mentalités jusqu’au milieu du XXe siècle, illustre parfaitement le propos critique de Bergson, fait symptôme et mérite qu’on s’y attarde.

Que signifie occulter la physis ?

Si le problème ne concernait que les manuels ou l’histoire de la philosophie, on pourrait se contenter d’en prendre acte, en se félicitant du fait que la recherche contemporaine a pu corriger, sur ce point également, la tradition déficiente. Mais c’est toute l’histoire de la pensée, son évolution, et les conceptions essentielles de la science, de la technique et de l’homme, qui sont en jeu. Allons du plus simple au plus complexe.

On peut affirmer, sans grand risque de se tromper, que la philosophie scolaire du début de notre siècle ignorait en France à peu près tout de la pensée grecque. Si Brunschvicg n’hésitait pas à prétendre que, pour l’intelligence, Aristote était, comparé à nous, un enfant de sept ans, c’est qu’il ne le connaissait pas. Mais l’on faisait d’Héraclite un mobiliste, de Parménide un logicien, des Sophistes des bandits des grands chemins de la pensée. On n’avait aucune idée de ce que pouvait représenter l’intelligence rusée pour les Grecs, on ne connaissait pas la naissance de leur droit, on ne soupçonnait pas la profondeur de la pensée mythique, ni le modèle homérique du proto-politique, on ne pouvait même se douter de l’existence d’un monde irrationnel grec. Sur ces points, les chercheurs de l’EPHESS, à la suite de Gernet, ont fait des miracles.

Bref, en gros, on jugeait des Grecs, et notamment des Présocratiques, selon Platon. Les chapitres ridiculement insuffisants et erronés sur les Grecs de L’esquisse d’un tableau historique des progrès de l’esprit humain de Condorcet, sont pris pour argent comptant dans la scandaleuse Histoire de la philosophie de Bertrand Russell (parue pourtant dans la prestigieuse Bibliothèque de Philosophie des éditions Gallimard). Aucun effort n’y est fait pour comprendre la philosophie, sinon quand elle parle le langage des Mathématiques et de la Logique. Tout cela signale une ignorance profonde de la tradition et une incompréhension trahissant une forme de mépris. Il ne faut pas s’étonner dès lors si la tradition logiciste, après le caricatural Cercle de Vienne et à la suite de Wittgenstein, prendra, sous sa nouvelle forme « analytique », une allure agressive à l’égard de la philosophie classique. Elle l’accusera, comme le faisait déjà Condorcet pour les Grecs, de ne pas « savoir ce que parler veut dire », ou, ce qui revient au même, de ne savoir que parler.

Nietzsche avait pourtant été très loin dans la réhabilitation de l’intuition centrale des Grecs. C’est lui qui s’exclame dans le Gai savoir (§ 360) : « Vive la Physique ». Et il n’a pas de mots assez durs pour le positivisme, le scientisme et toutes les formes d’ignorance prétentieuse et satisfaite, où une conception triomphaliste et peu sensible à la nuance s’appuie sur les succès de la technique pour ne plus attribuer de rigueur qu’au discours scientifique. De même Heidegger, et il faut absolument le porter à son crédit, est le philosophe qui a le plus insisté sur la physis grecque et le plus attaqué les errements positivistes de la science et l’arrogance tranquille de la technique.

C’est que le concept de physis, à lui seul, s’il est correctement pensé, entraîne toute une réévaluation nécessaire du savoir grec et une remise en cause de la pensée occidentale tout entière. Il risque de placer la philosophie des origines, non pas à la traîne de la pensée, bien loin et en dessous de notre modernité, mais bien devant nous, dans une sagesse (le mot lui-même a été mal compris), disons dans une pensée « inséparée » et symbolique qui nous dépasse et nous attend au mieux, c’est du moins ce que l’on peut espérer, dans le courant du XXIe. Il faudra aussi un jour faire le compte des dégâts que la pensée rationaliste, nécessaire à l’avancée de la science, mais peu scrupuleuse quant à ses conséquences sur d’autres formes de pensée tout à fait respectables, a pu nous coûter et continuera de nous coûter, accumulant sur l’environnement des dettes que nous avons déjà du mal à affronter.

En effet, si la physis signifie d’abord la puissance originante de la nature, occulter la physis signifie retirer a priori à la nature toute spontanéité, tout pouvoir de résistance, tout droit à la parole. Elle devient alors la « mineure » au sens de Kant, ou ce que les Grecs nomment nêpios, l’enfant, celui qui n’a pas voix au chapitre et ne peut intervenir dans un débat, au besoin en haussant le ton. Kant lui-même n’a pas craint (rééditant le « roseau pensant ») dans ses paragraphes sur le sublime dynamique de la Critique de la Faculté de juger, de nier finalement le sublime de la nature sauvage, en son emportement, au prix du sublime de l’éthique humaine. Qui veut noyer son chien l’accuse de la rage, qui veut exploiter la nature la considère comme un esclave soumis. Et rien ne le permet autant que la méthode lucrétienne : rien dans la nature n’est divin. Tout y est entièrement déterminé, intégralement prévisible, mécanique. Cessons de voir la nature comme une déesse, cela nous gâte l’esprit en l’assaillant de scrupules (religieux). Cessons d’y voir la main des dieux. Descartes ne dira rien d’autre, dans son traité du Monde.

Le recours aux dieux, ou à Dieu, n’était en somme qu’une métaphore, comme on fait peur à un enfant pour le protéger. Longtemps les cause-finaliers ont lutté pied à pied contre les mécanistes. Mais, même s’il est possible de conserver un comme si de finalité dans le concept de téléonomie, nous savons maintenant que la finalité de la nature a vécu. Pour autant, et tout le problème est là, cela ne signifie pas que la nature soit à notre disposition, prête pour l’impatience de notre « souci », docile devant notre besoin d’ »étants disponibles » (laVorhandenheit de Heidegger) et « maniables » (la Zuhandenheit), accueillante à notre « dispositif » d’exploitation outrancière (le Gestell). Sans la spontanéité originelle de la nature, sans la capacité de s’auto-organiser, de se réparer, d’inventer, on sait de mieux en mieux comment, mille biais et de privilégier mille nouveautés pour surmonter les difficultés, tout notre bel édifice de savoir, de technique et de science ne serait guère, comme le décrit Nietzsche, qu’un château de fils d’araignée qu’emporte le courant. Quoi qu’on fasse et qu’on dise, l’esprit ne pourra rien si la terre se met à dévier de ses rotations. La terre et la nature, l’univers entier auront toujours ceci de transcendantal (et pas seulement comme conditions de possibilité d’une connaissance, mais bien d’une existence) qu’il faut les supposer sous nos pieds et nous enveloppant avant la moindre possibilité de conscience et la moindre réflexion.

Signe, allégorie et symbole de la nature

Oublier les aphorismes du romantisme allemand en faveur de la nature, poursuivre une course effrénée en faveur de la science, puis de la technique, puis de l’économie, en différant toujours le moment de tout sacrifier pour retrouver et préserver les équilibres vitaux, c’est faire comme si la nature n’était pas notre dernier recours, et pouvait, d’une manière ou d’une autre, par la seule force de la pensée, se remplacer. C’est pourquoi je ne suis pas sûr qu’en philosophie, les oublis de la physis ou la lutte féroce contre les idées de création, de sainteté, de caractère sacré, d’humilité et de pauvreté, de remerciement, de prière, d’asile inviolable, de respect, de pudeur (même s’il est clair que ces idées aussi ont leur part de négatif), soient si naïfs et innocents. Je les crois plutôt sciemment (bien qu’inconsciemment) dirigés en faveur des intérêts économiques et par conséquent techno-scientifiques. La tentation de l’homme neuronal, de l’intelligence intégralement artificielle, pourrait n’être que la forme contemporaine de ce que Weber avait déjà génialement repéré dans l’origine luthérienne (la traduction de Beruf par Arbeit) du capitalisme.

Je crois de plus en plus que l’histoire de la philosophie, peut-être l’histoire de la pensée, est régie par ce grand débat qui gouverne, sans même peut-être que nous le sachions, nos réactions épistémologiques et politiques. La nature est-elle « divine » (au sens de la question : y a-t-il de l’ »intouchable » dans le monde ?) ou se contente-t-elle de servir un anthropocentrisme invétéré que les critiques de Spinoza n’ont pas pu atténuer ? La « Gnose de Princeton » ne signifiait pas, chez de grands chercheurs scientifiques, une sorte d’allégeance infantile et tardive à la religion, mais la découverte, de l’intérieur même de la science, que la nature dépasse tout ce qu’on peut en dire et en imiter. Et qu’en conséquence, il est « sage » de lui laisser un quant-à-soi, une « personnalité » qui certes n’a rien d’humain, donc impensable pour nous, mais qui nous a créés et qui pourrait bien, si nous l’agressons trop, reprendre son bien.

Il est possible de résumer ces idées en appliquant à la nature une distinction bien connue entre signe, allégorie et symbole. C’est le rapport nature/machine qui constituera le signe, où la machine est le signifiant et la nature le signifié. L’un et l’autre sont réputés « présentables » ou représentables, et il n’y a pas dans la relation de perte significative de substance qui puisse empêcher la machine de valoir pour (lieutenance du signe) la nature. Il en résulte que, comme le concept articule un langage, la machine déploie un certain langage de la nature (la critique de la métaphore du code en génétique concerne cette réduction).

Dans l’allégorie, dont les formes fréquentes sont la personnification et la prosopopée, la nature se présente elle-même, en ceci toutefois qu’elle se représente ou est en représentation. Ainsi de Vénus chez Lucrèce, comme s’il voulait se dédouaner de la démythification, du désenchantement qu’il fait subir ensuite à la Nature. La Nature n’est alors qu’approximativement, péniblement représentée par son image. Elle est la mère, enveloppante et nourricière, tithéné du Timée, alma mater en son universalité. Le signifiant est présentable et représentable, le signifié difficilement représentable, d’où le hiatus.

Hiatus définitif et incomblable lorsqu’on passe au symbole. La relation comporte un résidu inassimilable. Quel que soit le signifiant qui tente de traduire la nature comme signifié, il échoue. Nous sommes ici devant le cercle d’une conscience transcendantale qui ne peut cependant empêcher la nature, qui est son vis-à-vis, de porter exactement la même caractéristique transcendantale. Chaque esprit constitue à chaque fois le monde, mais c’est le monde qui constitue dès l’origine et continue de constituer les conditions historiques d’apparition de l’esprit. Cette relation enchevêtrée, en entrelacs ou chiasme, désigne clairement la présence du symbole, ce avec quoi on n’aurait jamais fini, ce qui introduit une relation impure et asymétrique avec un infini. La nature infinie des romantiques, la nature surabondante et surpuissante des présocratiques ou des stoïciens reviennent ici dans leur concept. En tant que poussière d’étoiles dont nous sommes issus, « le ciel étoilé au-dessus de moi » mérite pleinement sa place tout à côté de « la loi morale en moi », autrement dit la conscience de liberté, en débat infini avec une nature dont elle hérite une part, la nature humaine. De façon très étrange, dans cette formule bien connue, Kant semble avoir retenu l’entrexpression du microcosme et du macrocosme, se mirant l’un dans l’autre, comme ils le font dans la résurgence de l’esprit grec à la Renaissance.

Reste à se demander si la constante détermination de Heidegger à dénoncer l’emprise réifiante de la technique sur la nature, dès l’Etre et le Temps, ne veut pas dire simplement que la différence ontologique entre être et étant ne fait elle-même que mimer cette proto-relation de l’homme et de la nature. Le signe, cela serait la nature comme étant disponible et maniable, exploitable par une technique élargie en mentalité planétaire, devenue métaphysique. L’allégorie, ce serait l’étant que l’on laisse être dans la « sérénité », cette rose qui, chez Silésius, « est sans pourquoi, fleurit parce qu’elle fleurit ». Le symbole, ce serait cette façon qu’a l’être de se donner en même temps qu’il se retire. La différence serait symbolique, et l’être la réserve infinie de l’étant, qui le distingue d’une simple pierre sur le chemin. L’être, ce serait le nom, plus abstrait, de la nature. Mais alors, pourquoi ne pas avoir dit « la nature », puisqu’elle seule possède la spontanéité et la puissance permettant de mettre réellement au jour des étants ? On dit que l’être fait être : c’est jouer sur les mots. L’étant a bien de l’être, d’un point de vue grammatical et logique, mais dans les faits, il a de l’existence ou de la présence, que l’être, en tant que tel et à lui tout seul, serait bien en peine de lui donner. Mais il faudrait parler plutôt de l’être du fait de cette capacité, toute judaïque, qu’il a de jouer le deus absconditus ? Mais la nature, elle aussi, « aime à se cacher ».

De sorte qu’il ne paraît pas entièrement insoutenable de dire que, derrière l’être, et sans doute sans le vouloir, c’est constamment de la nature que Heidegger a voulu parler. D’où sa critique forte de la technique, d’où son grand texte sur la Physique d’Aristote, d’où ses émouvants essais : Langue de tradition et langue technique ; Le chemin de campagne ; Pourquoi restons-nous en province ? ; et que l’oubli de l’être a, dans l’histoire de la philosophie et de la pensée, tout à voir avec l’occultation de la physis, dont les conséquences tardives se faisaient encore sentir dans les études des années 5O en nous privant de la majeure partie, la plus pensante sans doute, de la pensée grecque.

Arnaud Villani, « L’occultation de la physis comme forme de l’oubli de l’être dans l’histoire de la philosophie », lien source.

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dimanche, 05 décembre 2010

Ilustracion y progresismo

Ilustración y progresismo

 

Alberto Buela (*)

 

lumieres.jpgSigue siendo el trabajo del filósofo alemán Emanuel Kant (1724-1804) Was ist Aufklärung?(1784) quien mejor ha definido qué es la Ilustración cuando afirmaba: “es la liberación del hombre de su culpable minoría de edad”. Es decir, de su incapacidad de servirse sólo de la razón sin depender de otra tutela, como lo fue la teología para la Edad Media, donde se afirmaba: philosophia ancilla teologíae= la filosofía es sierva de la teología.

El lema de la Ilustración fue el Sapere aude, el atrévete a saber sirviéndote de tu propia razón.

Pero la Ilustración buscando la emancipación del hombre de la teología, los prejuicios y las supersticiones, terminó endiosando a “La Razón” y sus productos: la técnica y el cálculo cuyas consecuencias fueron contradictorias, pues su opera magna fue la bomba atómica de Hiroshima y Nagasaky.

Luego de tamaño zafarrancho volvió el hombre a ser considerado una isla racional pero rodeado de un mar de irracionalidades. La sabiduría premoderna volvió a ser considerada. Lentamente se van teniendo en cuenta aspectos fundamentales del ser humano que habían sido dejados de lado por la Ilustración y sus seguidores, y que pertenecían a la demonizada Edad Media. El hombre postmoderno vuelve a zambullirse en las aguas de los problemas eternos. Pero, claro está, con una diferencia abismal: es un hombre sin fe, desesperanzado, nihilista. Nace así il pensiero débole. Pensamiento débil que puede dar razones del estado actual del ser humano pero que no puede dar sentido a las acciones a seguir para salir del actual atolladero.

Sin embargo, gran parte del mundo intelectual de postguerra sobre todo el vinculado al marxismo, al comunismo y al socialismo continuó en la vía ilustrada, incluso como la Escuela de Frankfurt, quintaesencia del pensamiento judío contemporáneo( Weil, Lukacs, Grünberg, Horkheimer, Adorno, Marcuse, Fromm, Haberlas et alii) que sostuvo en síntesis que estábamos mal no porque los productos del racionalismo ilustrado habían mostrado sus contradicciones flagrantes provocando el mal en el inocente como sucedió con los miles de japoneses nacidos radioactivos y condenados de antemano, sino porque no se habían podido llevar a cabo plenamente los postulados de la Ilustración.

Los vencedores de la segunda guerra mundial adoptan, con variantes socialdemócratas o neoliberales, el remanente del pensamiento ilustrado pasado por las aguas del Jordán de la Escuela de Frankfurt, poseedora del úcase cultural de nuestro tiempo. Así, su producto más logrado es el actual progresismo.

 

Es por esta razón afirma un buen colega nuestro, que “Quizá sea correcto afirmar que el progresismo es lo que queda del marxismo después de su fracaso histórico como opción política, económica y social y su transitoria (¿o definitiva?) resignación al triunfo del capitalismo. Una suerte de retorno, saltando hacia atrás por encima del bolcheviquismo, al reformismo de la socialdemocracia” [1]. El progresismo ha adoptado como lema “no ser antiguo y estar siempre a la vanguardia”. Como vemos, la resonancia con la Ilustración es evidente.

Qué comparte, a su vez, el progresismo con el neoliberalismo: 1) La adopción a raja tabla de la democracia liberal, rebautizada como discursiva, de consenso, inclusiva, de derechos humanos, etc. 2) la economía de mercado, a pesar de su discurso en contra de los grupos concentrados, y c) la homogeneización cultural planetaria, más allá de su discurso sobre el multiculturalismo.

El progresismo es tal, en definitiva porque cree en la idea de progreso. En realidad el progresismo no es una ideología sino mas bien una creencia, porque como gustaba decir Ortega y Gasset las ideas se tienen y las creencias nos sostienen, pues en las creencias “se está”. Y los progresistas “están creídos” que el hombre, el mundo y sus problemas van en la dirección que ellos van. De ahí, que cualquier contradictor a sus creencias es tomado por “un enemigo”. Es que el progresista al ser un creyente no acepta aprehender, y la única enseñanza que acepta, porque su imposición se le torna incuestionable, es la pedagogía de la catástrofe. Así descubre que hay miles de pobres y desocupados cuando se produce una inundación y que las promocionadas computadoras no funcionan porque en las escuelas rurales no hay electricidad o no hay señal. Una vez más, las catorce cuadras iluminadas por Bernardino Rivadavia, nuestro primer ilustrado presidente (1826), terminaban en el fangal de la cuadra quince donde las jaurías de perros cimarrones devoraban a los caminantes.

En resumen, el progresismo y la Ilustración comparten la creencia que la realidad es lo que ellos piensa que es la realidad y no, que la realidad es la verdad de la cosa o del asunto.

El gran contradictor del progresismo es el denominado realismo político (R.Neibuhr, J.Freund, C.Schmitt, R.Aron, H. Morgenthau, G. Miglio) que asume con escepticismo los proyectos teóricos que formulan la posibilidad de una paz perpetua, una organización perfecta de la sociedad en el marco de un progreso ilimitado. Y entiende la historia como el resultado de una tendencia natural del hombre a codiciar el poder y la dominación de los otros.

El realismo político viene a reemplazar al homo homini sacra res= el hombre es algo sagrado para el hombre, de los ilustrados que tomaron de Séneca por el homo homini lupus= el hombre es lobo del hombre de Hobbes, que tomó de Plauto.

El realismo político viene a sostener que se debe trabajar sobre la base de los materiales que se tienen y la realidad es lo que es más lo que puede ser,  en tanto que el progresismo afirma que se debe trabajar en lo que se cree pues las ideas en definitiva se imponen a la realidad.

 

(*) alberto.buela@gmail.com

UTN (universidad tecnológica nacional) 

 



[1] Maresca, Silvio: El retorno del progresismo,(2006) en internet.

samedi, 04 décembre 2010

Violence & "Soft Commerce"

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Violence & “Soft Commerce,” Part 1

Dominique VENNER

Translated by Greg Johnson / Ex: http://www.counter-currents.com/

Violence is not merely a matter of arms. For half a century, a world system has been imposed, the system of “soft commerce.” Soft as bombs. It dominates peoples under the guise of democracy, breaking down the most sacred customs. This new violence reigns thanks to the drugs of consumption and guilt. It is not, however, without resistance.

Georges Sorel is famous for having published his often reprinted Reflections on Violence in 1906.[1] A partisan of revolutionary socialism read by Lenin and Mussolini alike, Sorel made himself the apologist of violence as the motor of history.

In his essay, he worried about an anemic dearth of social violence that he thought he observed in Western Europe and in the United States:

Education is dedicated to so attenuate our tendencies to violence that we are instinctively led to think that any act of violence is a demonstration of a regression towards cruelty. . . . One has to wonder if there is not some silliness in the admiration of our contemporaries for softness.

These remarks, going back one century, could be from today. They certainly grab one’s attention and interest.

Less than ten years after Sorel’s morose report, the Great War commenced, showing something quite different from a general penchant for softness. This war was followed in Russia and Europe by a series of revolutions and civil wars, whose dominating feature was not peace. And the Second World War which followed, together with after-effects like the generalization of terrorism, was also not a demonstration of peaceful tendencies.

Europe in Dormition & Repentance

In other words, one is often misled by forecasts that imagine the future as an extension of the present. Under the effect of unexpected emotions or collective commotions, the softness or flabbiness of one time can suddenly be cast off in irresistible violence. The history of peoples and societies is not governed by a principle of continuity, but by unforeseeable accidents.

In Europe today (but not elsewhere), everything leads one to suppose that history with its violence and politics has reached its final end.  Those who have read my Siècle de 1914 (Century of 1914) know that I have interpreted the time that followed the Second World War as Europe’s entry into dormition after half a century of violent follies. This dormition is not unrelated to a project of culpabilization and demoralization without parallel.

With courage and clarity, this project was analyzed in 2003 by intellectuals worried by the rise in France of anti-Semitism because of Maghrebian immigration. According to these authors, this immigration had been supported by certain Jews who, “making a tragic mistake, believed in a possible alliance between the assertion of Jewish identity and the celebration of minorities and localisms, in short, of ‘the Other’ against the nation.”[2] Intense immigrationist propaganda was seen as an error.

But, the authors said, it was necessary to go back to the 1960s to find the roots of French and European demoralization, when the memory of the “Shoah was imposed as . . . a decisive reference mark of a culpability that does not concern just the Nazis but . . . everyone in Europe, the people as a whole.” For “the Shoah forbids the European people any historical hope and locks up them in remorse.” A disturbing report. Fifty years after, Europeans doze on, crushed by remorse, “outcasts of history.” For how long? That we do not know. But it cannot be forever.

Dreams of Happiness, “Soft Commerce,” &  Violence

In Europe, the anticipated end of history and dreams of hedonism cannot be isolated from a public discourse nourished by the myth of “soft commerce” invented long ago by Adam Smith.

What were its practical effects on lived history? The experience of the last two centuries shows that “soft commerce” is rarely a guarantee against violence. Least of all because it replaces politics (reason) with morality (emotion). Emotion sells more than reason. But, in addition to daydreams, it is often the purveyor of slaughter, both religious wars and in the ideological wars of the twentieth century.

In spite of Adam Smith’s promises, the intensive exercise of “soft commerce” on a global scale was accompanied by not exactly moderate amounts of violence. If one looks at the nineteenth century, there were, inter alia, the Opium Wars (1840–1842, 1858, 1860) in which France and Great Britain forced open the frontiers of China. This was necessary to give China the benefit of biblical morality and opium traffic, at the cost of the destruction of thousand year old traditions. Carried out for the profit of “soft commerce,” the Franco-British armed interventions eventually led China to a series of revolutions, which were preludes to the great slaughters of Maoism.[3]

One can chalk up many more colonial and national conflicts to the benefit of “soft commerce.” It played a large role in the two World Wars, which were not free of economic motives.[4] Globalizing the Anglo-American “free market” was not done without a little breakage . . . One of the more recent instances of damage, masked by moral and democratic justifications (a redundancy), is the war in Iraq begun in 2003. The control of an important source of hydrocarbons necessary to “soft commerce” is the likely reason that Saddam’s Iraq, a regime that was rather brutal (which is nothing unusual) but also stable, was put to fire and sword.

Notes

1. One of the contributions of Georges Sorel (1847–1922) to political thought is the concept of myth to designate the mobilizing images around which great historical movements are constituted (Nouvelle Revue d’Histoire, no. 13, pp. 20–22).

2. Article published in Le Monde, December 30, 2003, under the signature of Gilles Bernheim, chief rabbi and philosopher, Elisabeth de Fontenay, professor of philosophy, Philippe de Lara, professor of philosophy, Alain Finkielkraut, writer and professor, Philippe Raynaud, professor of philosophy, Paul Thibaud, essayist, Michel Zaoui, lawyer.

3. See La Chine et l’Occident, Nouvelle Revue d’Histoire no. 19, July–August 2005.

4. Georges-Henri Soutou, L’or et le sang. Les buts de guerre économiques de la Première Guerre mondiale (Paris: Fayard, 1989). We have discussed this subject in many issues of Nouvelle Revue d’Histoire, notably in nos. 14 and 32.

Source: http://www.dominiquevenner.fr/#/doux-commerce/3272231

Violence & “Soft Commerce,” Part 2

Now that “soft commerce” has been globalized since the end of the 20th century, one must grant that it has the advantage of a plasticity and a capacity for survival enjoyed by few regimes up to the present.

“Soft commerce” is sheathed in abstract concepts like “capitalism” or “liberalism.” But because those have been used for so many indigestible cuisines, their significance is exhausted. Another concept, more recent, is “cosmocracy.” It was coined by American authors and was taken up again by Samuel Huntington in his last book Who are We?[1] I myself have used it. It is explicit. It suggests the character that the globalist oligarchy acquired little by little since the 1960s.[2]

But let us return for a moment to the internal logic of “soft commerce.” What is its goal?  It is the individual financial profit of the capitalist, regardless of the cost to others. Having become dominant in our societies, this objective was promoted to the rank of supreme value, justifying everything, in particular what was at once condemned by common sense and the most elementary social morals. In the Communist Manifesto of 1848, Karl Marx aptly described the unlimited destructive power of the system that he called “bourgeois,” even though the personal behavior of many bourgeois individuals contradicted his thesis. Recall his famous lines:

Everywhere where it seizes power, the bourgeoisie trampled underfoot feudal, patriarchal, and idyllic relations. All the complex and varied ties which linked feudal man to his natural superiors, were mercilessly shattered so that no other tie remained between men but cold self-interest. . . . This constant social upheaval, this agitation, and this perpetual insecurity distinguish the bourgeois era from all preceding ones.

Marx was delighted by soft commerce’s constant pressures against the old European order. In this eyes, they presaged the advent of post-bourgeois society, i.e., of the communist utopia. They presaged a homogenized world and the end of history with a capital “H.” Marx was almost right. He just needed this nuance: “Soft commerce” has ultimately showed itself to be far more durable, although no less perverse, than the communist utopia, some aspirations of which it carries out by other means.

The Convergence between Communism and “Soft Commerce”

The convergence of the two systems was remarkably analyzed by Flora Montcorbier in a wrongfully forgotten book.[3] Economist and philosopher, with a vigorous clarity, she gives us a key to plausibly interpreting the organized chaos that replaced our traditional societies.

No one before her cared to understand the curious outcome of the cold war, the great upheaval. Exactly who won on this fake war? The United States, of course, and “soft commerce.” But also their common religion, the religion of Humanity (with a capital “H”), one, uniform, and universal. And it was not their only affinity.

What did the Communists want? They wanted a planned management of the wealth of humanity. They also wanted the creation of a new man, a rational and universal man, freed of the “obstacles” of roots, nature, and culture. They wanted, finally, to satisfy their hatred of concrete men, the bearers of difference; their hatred of old Europe, multiple and tragic.

And “soft commerce,” in other words, the American West, what did it want?[4] Pretty much the same thing. The differences were in their methods. Rejecting planning and forced collectivism (terror), “soft commerce” sees the financial market as the principal factor of economic rationality and the desired changes.

“Soft commerce,” another name for globalism, does not only share its radiant vision of the final goal with its Soviet brother and former enemy. To change the world, it must also change man, manufacture the Homo oeconomicus of the future, the zombie, the New Man: homogeneous, empty, possessed by the spirit of the universal and unlimited market. The zombie is happy. Happiness consists in satisfying all his desires, the desires caused by the market.

Notes

1. Samuel P. Huntington, Who Are We: The Challenges to America’s National Identity (New York: Simon and Schuster, 2005).

2. Dominique Venner, Le Siècle de 1914 (Paris: Pygmalion, 2006), ch. 10.

3. Flora Montcorbier, Le Communisme de marché [Communism and the Market] (Paris: L’Age d’Homme, 2000).

4. We do not confuse the “Western-American system” with Americans taken individually, who often suffer from it.

Source: http://www.dominiquevenner.fr/#/doux-commerce/3272231

Violence & “Soft Commerce,” Part 3

The System is Nourished by Fake Opposition

One of the characteristics of the system is that it is nourished by its seemingly most extreme opponents. If one is astonished by this surprising fact, one is forgetting that the opposition known as the “left” and the system share the religion of humanity and thirst for deconstruction; they are the same in essence. Thus nobody laughed when the papers of an implacable rebel (Guy Debord) were classified as a “national treasure” by the director of the National Archives in June 2009.

Explanation: “soft commerce” needs the counter-culture and its opposition to nourish the unlimited appetite for “pleasure without boundaries” which feeds the market. The fake rebellion of the cultural realm has been co-opted and institutionalized. The experiments of people who are more than a little crazy renew the language of advertising and haute couture which nourish innovation and excitement. The rights of minorities—ethnic, sexual, etc.—are also extended without limit since they constitute new markets and offer moral support to the system.

The unlimited is the horizon of “soft commerce.” It nourishes the work of moles in the realms of culture, the stage, teaching, the university, medicine, justice, or the prisons. Those who are naively indignant when delirious and repugnant buffooneries are extolled do not understand that they have been promoted to the rank of commodities, and as such they are both ennobled and essential.

The only dissent that the system cannot absorb is that which challenges the religion of humanity and stands for respecting diverse identities. The irreducible ones who cannot be dissolved by “soft commerce” are those who are attached to their city, their tribe, their culture, or their nation, and also honor the attachments of others.  This is why, in spite of their possible electoral representation in the European Parliament, these dissidents are subjected to rigid segregation (except in Italy).

This uncomfortable fate could lead them to think they have only one political option when the system is disrupted and distracted by an emergency, Politics might regain its rights.[1] Then “soft commerce” could be put back in the subordinate and dependent place where it belongs in a world in order.

Appendix: Two Different & Opposed Conceptions of the Economy: Adam Smith & Friedrich List.

Adam Smith (1723–1790). British economist born in Scotland. Traveling to France, he connected with the physiocrats (Turgot). In 1776 he completed his great work, An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, which made him the theorist of economic liberalism. For Smith, the psychological engine of all economic activity is self-interest and the hedonist principle which drive men to seek maximum satisfaction with minimum effort. He believes in the spontaneity and beneficial character of economic activity (the “hidden hand” and “soft commerce”). It realizes the designs of Providence. The State must “laisser faire, laisser passer.” Adam Smith justifies international free trade which is appropriate for maritime powers like Great Britain and later the United States.

Friedrich List (1789–1846). German economist. Partisan of the abolition of tariff barriers between the German States (Zollverein), he could not make himself heard and thus exiled himself to the United States (1824), where he made a fortune. After his return to Germany, when the Zollverein was achieved (1834), he pioneered railroad construction. Ruined by a financial crisis, he committed suicide in 1846. He theorized the autarky of great spaces: an economy that is protectionist externally and liberal internally. Unlike Adam Smith, List did not believe in the mutual enrichment of nations by “soft commerce” but in eternal economic war. His principle, “strong economy and strong army,” would be applied by the great powers: The United States practiced protectionism while prohibiting it for the rest of the world.

Notes

1. Politics with a capital “P” designates the superior principles of power (to command, to judge, to protect. Politics with a small “p” designates practice.

mercredi, 01 décembre 2010

La "tension psychologique insurrectionnelle"

La « tension psychologique insurrectionnelle »

Par Philippe Grasset

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

(…) Dans Notes sur l’impossible “révolution” du 24 septembre 2009, sur dedefensa.org, était exprimée la conviction que les mouve

Honoré Daumier, "L'insurrection" (1860)

ments d’insurrection et de révolte auxquels nous avons l’habitude de nous référer sont définitivement dépassés parce que totalement inefficaces, voire contreproductifs.

Pour diverses raisons exposées dans l’analyse, de tels mouvements sont condamnés par avance s’ils prétendent obtenir directement un résultat décisif correspondant au but d’insurrection de ceux qui l’initient. Pour moi, c’est un fait indiscutable, même si le mouvement parvient à un résultat tangible.

 

(Résultats tangibles de telles actions, si elles pouvaient avoir lieu ? Soit changer le régime des retraites, soit, plus hypothétiquement, prendre d’assaut le Palais de l’Elysée et habiller Sarko en sans-culotte ou en scout du Secours Catholique ; soit même, pour des Irlandais colériques et qu’on sait être coriaces et courageux, des émeutes insurrectionnelles ne menant qu’au même cul de sac de la prise d’un pouvoir politique dont ils ne sauraient que faire puisque leur pays, comme les autres, n’est qu’un maillon du système et rien d’autre. Le seul cas où une action politique réelle peut donner directement un résultat décisif, par son caractère intrinsèque de psychologie insurrectionnelle réalisant effectivement une attaque contre le cœur de la psychologie du système, c’est l’éclatement de l’Amérique avec la destruction de l’American Dream qui s’ensuit, – perspective qui, soit dit en passant, ne doit pas nous paraître rocambolesque lorsqu’on lit le dernier article de Paul Krugman.)

Cette affirmation de “l’impossibilité d’une révolution” selon le sens classique ne doit certainement pas être prise comme une affirmation désespérée, désenchantée et nihiliste si vous voulez, mais simplement comme la prise en compte du fait que nous sommes dans une époque différente, où les forces en action sont complètement différentes de celles qu’on observait dans l’époque précédente (Epoque psychopolitique et plus du tout géopolitique, où il n’y a plus aucun rapport de cause à effet entre une action politique de rupture violente, même réussie, et un changement décisif du système).

Voilà mon postulat de base, qui s’applique essentiellement dans les pays du bloc occidentaliste-américaniste, – c’est-à-dire dans les seules situation où vous pouvez toucher le système au cœur ; dans ces conditions nouvelles, “toucher au cœur le système” deviendrait alors, plutôt qu’effectivement parvenir à sa destruction d’une façon directe, accélérer puissamment, voire décisivement, son mouvement de destruction interne déjà en cours, du fait de ses propres tares fondamentales.

Je vais tenter d’expliquer les caractères de cette nouvelle situation d’abord, ce qui peut être fait ensuite, comment ce qui peut être fait peut être exploité efficacement, sinon décisivement, enfin.

La psychologie, l’arme de l’insurrection

Je mets en avant bien entendu, avant toute chose, le facteur de la psychologie, qui est complètement essentiel dans mon propos. C’est par lui que tout passe, à cause de la puissance du système de la communication, instauré par le système général mais qui, à cause de ses spécificités contradictoires, joue un “double jeu”, alors que l’autre composante du système général, le système du technologisme, est dans une crise si profonde qu’elle pourrait être qualifiée de terminale, – ce qui est ma conviction.

(Sur ce dernier point, quelques mots… Je me demande chaque jour, chaque heure, chaque minute, comment on peut encore substantiver en termes de capacités politiques et militaristes également efficaces jusqu’à lui prêter un caractère de quasi invincibilité, un système dotée de cette puissante effectivement colossale, qui étouffe littéralement sous l’accumulation de centaines et de centaines de milliards de dollars annuels, qui est incapable de fabriquer un avion de combat [JSF], incapable de prendre une décision contractuelle [KC-X], incapable au bout de neuf ans de comprendre les données fondamentales absolument primaires de la guerre où elle se débat comme dans un pot de mélasse [Afghanistan], etc. Et l’on croirait, par exemple, qu’un excrément bureaucratique de plus [le “concept stratégique de l’OTAN”] irait changer quelque chose, sinon accroître encore le désordre général et la paralysie ossifiée de cette bureaucratie ? Il y a parfois l’impression qu’une telle observation du système par ceux qui professent leur immense aversion pour lui, témoigne également de la part de ces mêmes critiques d’une singulière fascination pour lui, comme une croyance paradoxale dans la magie de ce même système. C’est lui faire bien de l’honneur, et s’en informer fort mal.)

Poursuivons… Donc le système de la communication est un Janus. Il sert le système général mais, également, il le trahit joyeusement dès que les arguments auxquels il est sensible (sensationnalisme, méthodologie de l’effet, etc.) se retrouvent dans des appréciations contestataires du système, non par goût de la trahison mais par goût de l’apparat et de l’effet de ces informations, qui ont alors sa faveur puisqu’elles font marcher la machine (Vous savez, cette remarque désolée que fait parfois tel ou tel président, tel ou tel ministre, aux journalistes, même des journalistes-Pravda ses fidèles alliés : “mais pourquoi mettez-vous toujours l’accent sur les mauvaises nouvelles ?” Pardi, parce que c’est ça qui est “sensationnel”, qui fait marcher le système de la communication, et parce qu’il n’y a rien de mieux que les “mauvaises nouvelles” pour faire marcher le système, et qu’en plus il n’y a plus aujourd’hui que des “mauvaises nouvelles”).

Par conséquent, Janus est de tous les coups, il marche avec son temps (“il n’y a plus aujourd’hui que des mauvaises nouvelles”) et il est ainsi devenu, sans intention délibérée, la plus formidable machine à influencer les psychologies dans le sens de la déstructuration du système.

En répercutant les commentaires alarmistes des serviteurs du système concernant les dangers d’insurrection des populations de notre système pourtant si cajolées de mots ronflants, le système de la communication contribue grandement à créer un climat psychologique insurrectionnel. Mais ce climat n’engendre rien de décisif dans ce qu’on juge être décisif, – l’action “révolutionnaire”, – parce que nul ne sait comment s’insurger efficacement de cette façon-là.

C’est cette idée de cette situation sans précédent, qui renverse complètement les situations connues : hier, tout le monde savait ce que serait une “révolte”, c’est-à-dire par le moyen de la “violence révolutionnaire”, l’inconnue résidant dans le fait qu’on ignorait quand existerait une volonté ou une occasion de la faire ; aujourd’hui, tout le monde admet qu’il existe partout une volonté d’insurrection, l’inconnue résidant dans le fait qu’on ignore quelle forme pourrait et devrait prendre cette insurrection.

Alors, il y a partout des protestations, des manifestations, des initiatives spontanées parfois étranges, qui ne débouchent sur rien de définitif, et l’on s’en désole ; mais l’on n’a pas raison parce qu’elles ont aussi l’effet d’accroître constamment cette tension psychologique insurrectionnelle.

L’essentiel est dans ce bouillonnement psychologique. Prenez le cas d’Eric Cantona (voir le texte du 22 novembre 2010) ; type pas sérieux, Cantona, provocateur, people et ainsi de suite. Ce qui est accessoire en l’espèce – mais d’ailleurs sans préjuger des effets éventuels de cette “initiative spontanée” (retrait massif d’argent des banques), car nous ne sommes pas au bout de nos surprises –, c’est de prendre trop au sérieux la proposition de Cantona, en disant et expliquant “ça marchera”, ou bien “ridicule, ça ne marchera pas”.

Pour l’instant (cette restriction bien comprise), l’analyse de la chose n’a strictement aucun intérêt. Ce qui importe et rien d’autre, c’est la contribution involontaire de Cantona, idole people des foules, à la montée de la tension psychologique insurrectionnelle. On pourrait définir ce que je nomme “psychologie insurrectionnelle”, un exemple très précis et extrême à cet égard, dans un texte de l’écrivain et poète US Linh Dinh, sur OnLineJournal, le 15 novembre 2010.

Première phrase du texte : « Revolt is in the air » [La révolte est dans l'air]. Puis un long catalogue des révoltes qui pourraient avoir lieu aux USA, jusqu’à la sécession, jusqu’aux révoltes armées, etc., mais chaque fois avec l’observation que cela ne se fera pas, parce que la population est trop apathique, les conditions ne s’y prêtent pas, etc. Donc, constat pessimiste, sinon désespérant ?

Et puis cette conclusion, qui contredit tout le reste, – sauf la première phrase : «I have a feeling, however, that we may be nearing the end of being jerked back and forth like this, that even the most insensate and silly among us is about to explode » [J'ai le sentiment, toutefois, que nous pourrions bientôt finir d'être trimballés en avant et en arrière comme cela, que même le plus insensé et stupides d'entre nous est sur le point d'exploser].

…Tout cela conduisait, dans le même texte référencé (sur Cantona), à cette conclusion qui me paraît digne d’intérêt pour cette réflexion : «Peut-être déterminera-t-on finalement, selon l’évolution de ce “climat” de la recherche d’une nouvelle forme de révolte et de la tension psychologique que cela ne cesse de renforcer, que c’est le développement même de ce climat qui est, en soi, la nouvelle forme de la révolte…» (Encore une fois, le mot “révolte” n’aurait pas dû être employé, mais bien celui d’“insurrection”.)

Pour conclure cet aspect de l’analyse par une tentative de chronologie datée, je proposerais l’hypothèse que cette phase d’“insurrection psychologique” où nous sommes entrés est la phase suivante de l’évolution des peuples face à la grande crise de notre système et contre ceux qui servent encore ce système, après ce que je nommerais la phase de “résistance psychologique” qui s’est développée entre les années 2003-2004 et 2008-2009…

Cela correspond par ailleurs, et ceci n’est pas sans rapport avec cela, avec ce que j’estime être, dans l’année que nous terminons, l’entrée dans la phase active de la crise eschatologique du monde, cette crise qui se développe comme un volcan entre en activité vers son éruption, au travers de la pression des crises de l’environnement, des ressources, de la crise climatique, etc.

TINA pour nous aussi

Comment analyser d’une façon générale cette situation dans la perspective de ce qui devrait être fait, sinon de ce qui pourrait être fait ?

Je dirais que le but de l’“insurrection” ne doit pas être, n’est pas de “prendre le pouvoir” (c’est-à-dire le système, bien sûr), mais de “détruire” le pouvoir (le système). Il n’est même pas intéressant de l’“affaiblir” avant de le frapper, ce pouvoir, mais, au contraire, de le frapper pour le détruire alors qu’il est au faîte de sa puissance…

Car il est au faîte de sa puissance et le restera, y compris et surtout en conduisant lui-même son processus d’autodestruction, – plus il est puissant, plus sera puissant son processus d’autodestruction, – cela, à l’ombre d’une autre contradiction qui caractérise sa crise terminale : plus il est puissant, plus il est impuissant.

Mises à part les considérations humanitaires dont on connaît l’illusoire vertu et la grandiose inutilité, je dirais que le cynique qui veut la peau du système ne comprendrait pas une seconde ceux qui, se disant eux-mêmes adversaires du système, réclament à grands cris et espèrent ardemment le retrait américaniste d’Afghanistan, même pour les meilleurs motifs du monde.

Que l’OTAN et l’U.S. Army y restent, en Afghanistan, qu’elles y déploient toute leur puissance, tant il est évident qu’elles sont en train de se dévorer elles-mêmes, en aggravant chaque jour leur crise structurelle et la crise psychologique de ceux qui ordonnent et conduisent cette guerre sans but, sans motifs, sans commencement ni fin, sans rien du tout sinon la destruction de soi-même.

Et tout cela doit bien être compris pour ce qui est, au risque de me répéter, pour bien embrasser le caractère complètement inédit de cette situation…

Il n’y a là-dedans ni affrontement classique, ni une sorte de “guerre civile” au sens où nous l’entendons, ni “révolte” justement, comme j’en indiquais la définition au sens classique. Il y a une “attaque” qui est un mélange de pression psychologique et d’action désordonnée suscitées par cette pression psychologique et l’accentuant en retour, – et là, effectivement, nous abordons le champ de l’action qui est possible aujourd’hui, à la place des mouvements “révolutionnaires” classiques et totalement discrédités.

Cette attaque par la “pression psychologique insurrectionnelle” touche le système (ses représentants mais lui-même en tant qu’entité, dirait-on) dans sa propre psychologie, affaiblit cette psychologie dans le sens du déséquilibre, avec toutes les fautes qui en découlent, ce qui accélère effectivement le retournement de sa propre immense puissance contre lui-même.

En attaquant “le pouvoir” (le système), vous attaquez le système, comme l’indiquent justement les parenthèses ; vous n’attaquez pas des hommes mais un système (anthropotechnique si vous voulez, mais aussi bien anthropotechnocratique, etc.), dont j’ai déjà dit ma conviction qu’il évolue de façon absolument autonome, hors de tout contrôle humain, mais au contraire en entretenant une servitude humaine à son avantage, dont celle des dirigeants politiques est une des formes les plus actives.

Ce dernier point indique qu’à la limite, mais une limite qui prend de plus en plus d’importance dans le contexte, l’insurrection réclamée, qui est d’abord une “insurrection psychologique” manifestée par une tension grandissante, doit aussi, et peut-être d’abord, avoir comme objectif naturel de son influence, dans ce cas définie presque comme bienveillante, la psychologie des directions et élites politiques, comme pour venir à leur secours.

Dans cette situation extraordinaire et, contrairement à tous les dogmes et théories sur l’influence, la manipulation, etc., les dernières psychologies “sous influence” de la manipulation du système sont celles des directions et élites politiques, nullement celles des populations. Ces directions et élites politiques sont beaucoup plus prisonnières par auto conditionnement (virtualisme), par aveuglement ou par dérangement psychologique, que complices conscientes et cyniques.

La pression de l’“insurrection psychologique” des peuples doit agir sur elles pour affaiblir leur “dépendance” psychologique du système, pour subvertir leur démarche de soumission et leur position d’asservissement, – en vérité, et j’ironise à peine, pour les libérer, rien de moins…

Pour cette sorte d’action, dont la composante psychologique est essentielle, il faut des mouvements confus, incompréhensibles, parce que justement ces mouvements constituent une force psychologique insurrectionnelle brute semeuse de troubles sans fin dans les psychologies prisonnières du système, qui croient encore à la bonne ordonnance du système, qui craignent le désordre par dessus tout, et ce désordre commençant par la confusion psychologique.

Le seul but, – inconscient, bien plus que conscient, sans aucun doute, – de cette sorte d’action de ces “mouvements confus” est effectivement de “détruire” le pouvoir (le système) ; ces actions ont un aspect nihiliste qui se reflète dans leur confusion, mais ce nihilisme agit comme un contre feu, contre le nihilisme institutionnalisée du système, et elles acquièrent par logique contradictoire un aspect structurant antisystème extrêmement positif… Tout cela, comme vous le constatez, se déroule toujours dans le champ de la psychologie.

Bien entendu, il y a l’exemple de Tea Party. Ne nous lamentons pas si nous ne comprenons pas vraiment le but de Tea Party, bien au contraire ; surtout, surtout, il faut éviter tout jugement idéologique, de celui qu’affectionnent les vieilles lunes de notre establishment progressiste qui se donnent encore la sensation d’exister comme dans les belles années du XXème siècle, autour de la Deuxième Guerre mondiale, en agitant l’épouvantail de l’extrême droite et du “populisme”.

Politiquement, Tea Party c’est tout et rien, et c’est n’importe quoi, – et c’est tant mieux ; c’est, par contre, l’archétype du mouvement né d’une “psychologie insurrectionnelle”, qui doit être considéré pour cette dynamique, cette pression de l’insurrection psychologique qu’il fabrique et nullement pour ses motifs confus… L’on conviendra que tout cela n’est pas sans résultats, et quels résultats quand on voit l’évolution vertigineuse de la panique du système washingtonien.

Depuis le 2 novembre, l’establishment washingtonien ne cesse de grossir Tea Party, son action, son influence, bien plus que ne le justifieraient ses résultats aux élections. On construit à partir de lui des monstres qu’on pensait impossibles à Washington, comme l’annonce d’une aile “neo-isolationniste” au sein du parti républicain, laquelle, à force d’annonces et d’avertissements répétés, finit par exister vraiment.

On envisage des réductions dans le budget de la défense et Paul Krugman nous annonce un affrontement politique de rupture à Washington pour le printemps prochain, où Tea Party ne laissera sa place à personne. C’est cela, “détruire” le pouvoir (le système), le forcer à fabriquer lui-même, dans sa toute puissance, les monstres qu’il abomine et qui vont le dévorer. Et le moteur de tout cela, c’est bien la perception d’une irrésistible tension psychologique insurrectionnelle.

Enfin, dira-t-on en pianotant nerveusement sur la table, devant son écran d’ordinateur, lisant ce texte, où tout cela va-t-il mener ? L’esprit et la raison ne peuvent se départir de leur passion pour l’organisation du monde qui soit à leur mesure, où ils tiennent une place essentielle, dont ils peuvent proclamer la gloire à leur avantage… Bien entendu, la question est hors de propos. Pour l’instant on frappe, on frappe et on frappe encore, et l’on frappe principalement par cette pression psychologique insurrectionnelle…

Et le système fait le reste devant cette pression qu’il ne comprend pas mais qui l’enserre, il transforme son immense et invincible puissance en une force contre lui-même par des réactions stupides, absurdes, des maladresses extraordinaires.

Vous dites que le système est très, peut-être trop puissant ? Qui a parlé de le vaincre sur son terrain ? Surtout pas, il faut retourner contre lui, comme un gant, sa puissance énorme, comme le recommande l’honorable Sun tzi. Il s’effondrera ; d’ailleurs, cela est en cours, l’effondrement…

Et après ? Quel monde organiser? Oh, quelle ambition est-ce là… Laissez donc la montagne de fromage pourri et les murs de Jericho s’écrouler avant d’envisager ce qu’on peut mettre à la place, – non, pardon, avant d’envisager ce qui se mettra en place, de soi-même et irrésistiblement, par la grâce de forces puissantes.

Par cette formule, je veux avancer ceci : si l’hypothèse se vérifie et si la “pression psychologique insurrectionnelle” parvient effectivement à participer, sinon décisivement du moins considérablement, à la déstabilisation et à la déstructuration du système jusqu’à son effondrement, c’est que des forces fondamentales, supérieures à nous, auront évidemment favorisé cette issue qui n’est pas de l’empire de la raison, mais plutôt suggérée par l’intuition ; ces forces resteront présentes pour l’étape d’après la Chute et joueront leur rôle, fondamental à mesure…

Pour ce qui nous concerne, pour l’immédiat, nous autres brillants sapiens de l’espèce vulgum pecus, nous n’avons, à l’image du système, que la perspective TINA (There Is No Alternative) ; mais cela, dans une position de contre force, contre le système, car il n’y a pour nous pas d’alternative à la concentration de toutes nos forces dans le but ardent de la destruction d’un tel système, cette “source de tous les maux” dont l’unique but est aujourd’hui la destruction du monde.

Les sapiens revenus sur terre, à leur place, dans le chaos qu’ils ont tant contribué à créer, sont des acteurs parmi d’autres, et pas les plus grandioses, – certainement nous sommes cela, avec une bonne cure d’humilité à suivre, considérant le monstre extraordinaire que notre “génie” pleinement exprimé dans la modernité a contribué à créer.

Qu’ils s’en tiennent, les sapiens, à ce rôle qui n’est pas sans beauté ni dignité, comme l’est l’humilité devant l’ébranlement du monde dont nous ne tenons plus les fils. Ainsi bien compris, ce rôle n’est pas inutile.

Dedefensa