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samedi, 03 avril 2010

Intervista a Gabriele Adinolfi

Intervista a Gabriele Adinolfi

Ex: http://augustomovimento.blogspot.com/


Gabriele Adinolfi è nato a Roma nel 1954. Tra i fondatori di Terza Posizione, è analista politico e scrittore. Ha collaborato a numerose iniziative culturali, tra cui «Orion», gestisce il sito di informazione «Noreporter» e ha istituito il Centro Studi Polaris.


Quali sono i miti, gli autori e le esperienze che consideri parte integrante del tuo bagaglio politico-culturale?

Silla, Cesare, Augusto, Giuliano, gli Ottoni, Barbarossa, Carlo V, Napoleone e i grandi dell’Asse.
Poi, sul piano degli scrittori, Friedrich Nietzsche, in cui è essenziale lo sforzo poetico dello spirito guerriero, il coraggio di guardare la nudità senza arrossire; Pierre Drieu La Rochelle, la sobria e cosciente concezione di vivere la tragedia; Julius Evola, il nume che ti presenta direttamente la tua verità ancestrale e quella divina; Benito Mussolini, il pensiero lineare e lirico in geometrie perfette; Luigi Pirandello, come dice lui stesso, «le maschere nude», quindi l’ironia divina nell’introspezione della commedia umana; Jean Mabire, la capacità di disegnare paesaggi e personaggi eroici propri ad un romanziere, che è stato ufficiale di commando e che resta legato ad un immaginario pagano; infine Alexandre Dumas, l’espressione delle gerarchie valoriali che si rivelano nel pieno delle passioni umane. Ma penso si debbano aggiungere anche Emilio Salgari che con i suoi capolavori di avventura ha creato un immaginario impareggiabile invitandoci a vivere sul serio, ed Edmondo De Amicis che con il libro Cuore ha insegnato e formato tantissimo le generazioni che vanno da quella cresciuta immediatamente prima del fascismo alla mia.


Soppressione delle libertà politiche, leggi razziali, imperialismo coloniale, alleanza con Hitler. Queste sono le classiche accuse rivolte al Fascismo dalla vulgata corrente. Che cosa rispondi a chi presenta tutto ciò come la definitiva condanna in sede storiografica e politica del Ventennio?

Che chi lo pensa è ignorante, male informato o prevenuto.
Il Fascismo e l’Asse hanno rappresentato l’espressione piena e vitale della libertà e della dignità dei popoli e lo hanno fatto da ogni punto di vista: esistenziale, politico, culturale, finanziario, economico, energetico e sociale.
Chi ha conculcato le libertà, oltre ad aver eliminato centinaia di milioni di uomini, chi ha imposto il sistema criminale e mafioso in cui versa oggi un pianeta allo sbando, preda dello sfruttamento integrale di popoli, individui e risorse, della speculazione intensiva ed estensiva che si estende al sistematico utilizzo del narcotraffico e alle miliardarie e delinquenziali operazioni farmaceutiche che apportano epidemie e impediscono qualsiasi cura di successo, è proprio chi alla Germania dichiarò guerra nel 1939 e poi combatté contro di noi ed il Giappone. Si tratta di quegli stessi che, dopo aver commesso il genocidio completo dei nativi americani, hanno compiuto i massacri al fosforo, al napalm e con le bombe atomiche.
Non possono così che suonare grottesche le accuse mosse all’Asse; in particolare quella che va ultimamente alla moda di prendersela con il Fascismo per le leggi razziali, stilate peraltro al varo dell’Impero, «dimenticando» che tra i «buoni» le leggi razziste erano attive, dall’arrivo dei «progressisti» al potere, come in Francia dove furono introdotte da un premier israelita o negli Usa dove rimasero attive fino al 1964. Pretendere che queste fossero un motivo di differenziazione e di scontro è ridicolo come lo è la distrazione odierna, visto che nessuno si scandalizza per quelle tuttora in vigore in Liberia e in Israele.
Che i padrini della mafia americana e cosmopolita o i lacchè dello stalinismo possano aver presentato, a posteriori, il Fascismo e l’Asse in questo modo falso e fittizio ci sta pure: hanno vinto e possono fare quello che vogliono, anche imporre leggi contro la ricerca storica. Poiché poi la menzogna è tipica della loro cultura, è normalissimo che la propaghino ovunque a mascheratura della loro sozzura.
Quello che non si può invece avallare è il tentativo pietoso di coloro che, avendo frequentato ambienti diversi dai dominanti, ambienti in cui proprio la conoscenza storica è la prima attività politica, si affannino a dire bestialità di questo tipo nel vile e servile conato di essere accettati. Non si sa bene da chi vogliano esserlo né come sperino di riuscirci perché chi striscia non piace neppure a colui verso cui si prosterna. Ma mi chiedo anche perché mai costoro dovrebbero fare carriera.
Cos’hanno, infatti, da farci la Nazione, il popolo, la stessa umanità, di gente così?
Infine ci sono quelli a cui, come si dice a Roma «non regge la pompa»: quelli che hanno paura di essere giudicati e cercano di farsi strada a gomitate «prendendo le distanze» da questo o da quell’aspetto, in modo da non sentirsi scomunicati. La scala di valori tra costoro varia: molti sono semplicemente dei deboli, altri sono degli influenzati, comunque scarsamente combattivi, parecchi invece sono dei banali miserabili.
Non hanno la forza e il coraggio di andare in fondo nella ricerca della giustizia e della verità e preferiscono evitare di pagare dazio, gettando al mare la memoria dei vinti perché tanto non costa nulla. Infatti perdono solo la dirittura e la dignità.


Uno sguardo all’attualità. Come giudichi sinteticamente Berlusconi e la sua politica estera?

Berlusconi è un po’ Craxi, un po’ Pacciardi e un po’ Cossiga. Ovviamente è soprattutto craxiano, anche se il ruolo dell’Italia è cambiato sulla questione palestinese; infatti, a differenza di Craxi, Berlusconi è filo-israeliano. Ma non dimentichiamoci che non c’è più Arafat dalla parte dei palestinesi, e quindi mancano le parti con cui dialogare.


Oltre a un’innegabile componente craxiana, in Berlusconi rivedi confluite anche altre tradizioni politiche, per esempio di un Giolitti?

Sicuramente Berlusconi ha una componente giolittiana. Nondimeno il presidente più simile a Giolitti è stato Andreotti.


Che ne pensi della politica economica dell’attuale governo?

L’Italia, dal punto di vista capitalista, diplomatico ed energetico, sta seguendo le linee di politica estera già abbozzate e poi delineate da Mussolini verso est e sud. Ribadisco che tuttavia il modello politico, sociale e culturale non è sicuramente mussoliniano.


Sul caso Alitalia, come giudichi il comportamento dell’esecutivo?

In Italia il capitalismo funziona sul consociativismo e sul co-interesse. Ossia: più do da mangiare ad un nemico e meno lo ho contro.


Quale reputi che sia l’influenza della massoneria oggi?

Nei precedenti governi, compresi quelli Berlusconi, ci furono certamente uomini con una forte connotazione massonica e con un passato di quel marchio, ma oggi i poteri forti sono altra cosa: a livello nevralgico c’è una compenetrazione di interessi vaticani, laici, protestanti, israeliti che convivono tramite strutture miste. L’«Ancien Régime» vuole questo consociativismo con le comunità islamiche, e questo modello è dettato da Usa e Francia.


Come giudichi la caduta dell’ultimo Governo Prodi?

Vista la situazione internazionale, con il Trattato di Lisbona, è interesse dei centri di potere che vengano fatte determinate riforme. I poteri forti volevano Prodi, ma è impossibile governare ricorrendo ogni volta al voto determinante dei senatori a vita. Quindi, dopo aver concepito l’irrimediabilità della bancarotta per il governo Prodi, i centri di potere hanno permesso nuovamente a Berlusconi di gestire la situazione. Tuttavia Murdoch, i magistrati e la CEI sono in conflitto con il Cavaliere, che però è supportato dal Vaticano. Le oligarchie comunque non sono di certo filo-berlusconiane.


La Mafia è, secondo te, un potere forte?

Non totalmente. Lo Stato non la può abbattere e non ha i mezzi per farlo. Ma, qualora acquisisse tutto questo, lo potrebbe fare sicuramente.


Perché Berlusconi è entrato in politica?

Entra in politica per salvare le tv. Poi, dopo averci preso gusto, ha deciso di rimanerci ed ampliare il suo impero, entrando in collisione con i magistrati.


Che cosa ne pensi delle affermazioni di Gelli su Berlusconi? Secondo te chi ha fatto entrare il Cavaliere in politica?

A proposito di Gelli, non è affatto vero che la P2 voleva bloccare l’avanzata comunista al governo. Inoltre va detto che ricevere complimenti da Gelli non è affatto positivo; magari Gelli li ha fatti perché, avendo perso la leadership, è geloso di Berlusconi. Resta comunque una persona poco credibile e, quel che è certo, non è stato lui a far entrare il Cavaliere in politica, ma piuttosto Bettino Craxi e Francesco Cossiga.


Capitolo «Gianfranco Fini»: con le sue ultime scelte, dove vuole arrivare?

Innanzitutto voglio precisare che ritengo che Fini sia mosso dall’invidia nei confronti di Berlusconi. Ad ogni modo, il suo sogno è fare il Presidente della Repubblica, ma forse ha fatto calcoli inesatti, perché nel suo giochino «scandalistico» ottiene consenso a sinistra, che tuttavia è effimero: la sinistra infatti non lo sosterrebbe mai a discapito di un suo esponente. Un altro suo possibile errore è l’eccessiva convinzione che sembra nutrire di essere tutelato e garantito da centri di potere esteri, che, a parte Londra, non hanno motivi per appoggiarlo.


Ultimamente si sono accese roventi polemiche sul ruolo effettivo di Di Pietro in Tangentopoli. Tu come la vedi?

Americani e comunisti, sapendo che non avrebbe mai potuto affossare il Pci, hanno fatto fare a Di Pietro una manovra politico-giudiziaria che ha spazzato via tutti i partiti politici del tempo, escludendo solo il Pci. Non a caso, per darsi una collocazione politica, si è fatto aiutare da Occhetto che, comunque, resta per me il vero regista della manovra di Tangentopoli.


Passiamo velocemente alla storia. Riguardo alla Guerra Fredda, che cos’è che non ci ha raccontato la storiografia ufficiale?

La Guerra Fredda si è combattuta realmente in Asia, non in Europa. Kennedy e Krusciov, che passano per moderati, sono stati coloro che hanno alzato maggiormente il tiro e rischiato seriamente di arrivare ad uno scontro armato. Da questa situazione chi ne ha tratto vantaggio è stata la Cina, perché è stata utilizzata dagli USA in funzione anti-sovietica.


Non furono in pochi coloro che, dopo la disfatta bellica, traslocarono dal Pfr al Pci, come ad es. Stanis Ruinas. Come giudichi questa scelta? Fu un tradimento o un percorso rivoluzionario alternativo?

A mio giudizio è dura passare il solco tra Fascismo e Pci, in particolare dopo le stragi ignobili commesse dai partigiani; anche se il Msi è lontano anni luce dal Fascismo, non bisogna dimenticare che il Movimento Sociale non aveva spazi e perciò, invece che scomparire, ha dovuto fare delle scelte. Il problema di quel partito, secondo me, è comportamentale, perché questo al suo interno aveva personaggi rivoluzionari, ma aveva una gestione para-statale. Comunque in politica non esiste il «giusto» o «sbagliato»: ciò che conta è l’uomo e nel Msi purtroppo vi fu molto l’inversione delle gerarchie con tutto quello che ne è conseguito.


Torniamo alla politica attuale. Quali prospettive per CasaPound?

Innanzitutto dipenderà dal ritmo che CasaPound avrà, anche se a mio parere gli allargamenti numerici sono stati negli ultimi tempi un po’ eccessivi e la obbligano a un forte impegno per rispondere al suo clamoroso successo. Ma dal punto di vista della creazione artistica e delle capacità dialettiche e mediatiche, CasaPound sta bruciando qualsiasi record. Proprio per questo ci vuole tenuta. Ad oggi è difficile capire quali siano i limiti che possa incontrare e quali gli obiettivi che le possano essere preclusi, se riesce a mantenere una corsa cadenzata.


Come giudichi le accuse di entrismo, giunte sia da destra che da sinistra, rivolte a CasaPound?

CasaPound ha abbandonato l’infantilismo destro-terminale e lo ha fatto senza sottostare alle logiche dell’entrismo. Questo fa letteralmente impazzire i duri e puri della «masturb-azione» che vedono ogni giorno la fotografia dell’essere radicali, idealisti e concreti e non hanno alibi per motivare la loro mancanza di azione.


Parliamo di Polaris. Come nasce questo centro studi, e perché?

Nel sistema moderno ed oligarchico, un ruolo essenziale nella formazione delle élites è dovuto ai think tank, che restano comunque un modello americano. Anche in Europa esistono, mentre in Cina e in India si stanno sviluppando. In Italia i centri studi, se hanno forza, producono programmi scientifici (come la Fondazione Ugo Spirito), oppure sono salotti correntizi dei politici che hanno tendenza alla superficialità. Il think tank fa analisi, propone soluzioni e strategie per conto di poteri forti economici privati. Polaris prova una terza via, cioè tracciare e proporre analisi e strategie per tutti gli operatori politici ed a vantaggio della nazione. Facendo un esempio, è come un’agenzia di servizi per le questioni politiche, giuridiche ed economiche; al contrario di come spesso avviene, Polaris è cresciuta gradualmente e da marzo editerà una pubblicazione trimestrale, che si pone ai livelli e nelle competenze trattate di riviste come «Limes» o «Aspenia».


Come è possibile coniugare movimentismo futur-ardito, attività culturale d’avanguardia ed elaborazioni strategiche ad ampio respiro?

Essenzialmente bisogna coniugare strutture a importanti reti relazionali.



vendredi, 02 avril 2010

Vers une guerre commerciale entre la Chine et les Etats-Unis?

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Vers une guerre commerciale entre la Chine et les États-Unis?

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

« Le ciel qui surplombe le commerce mondial est noir de nuées d’orage. Les tambours de guerre battent de plus en plus fort. Certains guettent déjà l’équivalent de l’assassinat de l’archiduc François-Ferdinand. Une étincelle suffirait à embraser la planète. » Voilà, dans le journal boursier britannique The Financial Times, l’introduction d’un article consacré aux relations commerciales sino-américaines. L’assassinat de l’archiduc avait été le prélude de la la Première Guerre mondiale. Le risque est réel de voir, le 15 avril, un rapport du trésor américain sur la monnaie chinoise provoquer le choc qui, à son tour, déclencherait la guerre commerciale entre les États-Unis et la Chine. Personne, dans le monde, n’échapperait aux retombées d’une telle guerre.

Depuis quelques mois déjà, d’agressifs sinophobes mènent tambour battant une offensive contre la monnaie chinoise, le yuan. Le sénateur de Pennsylvanie Arlen Specter disait en février : « Les Chinois raflent nos marchés et nos emplois. Entre 2001 et 2007, ils nous ont volé 2,3 millions d’emplois. Les subsides à leur industrie et la manipulation de leur monnaie sont des formes de banditisme international. »

Obama confirme que la Chine doit tolérer pour le yuan un cours de change « centré sur le marché .» Le cours bas du yuan coûte à notre pays des centaines de milliers, voire des millions d’emplois, ajoute le président. Un porte-parole de la Maison-Blanche menace : « Si la Chine ne corrige pas le cours du yuan, les États-Unis seront mis sous pression afin de prendre des mesures contre cette situation. »

Quelques jours plus tard, 130 sénateurs et membres de la Chambre des représentants adressent au président une lettre dans laquelle ils exigent que le gouvernement américain prenne des mesures au cas où les Chinois s’obstinent à ne pas relever le cours de leur monnaie. Le représentant du Maine, Michael Maud, déclare : « Si notre gouvernement n’entreprend aucune action, il met un frein à la relance économique, il entrave la possibilité pour les industriels et les petites entreprises des États-Unis d’étendre leur production et d’accroître l’emploi. »

Le raisonnement est donc le suivant : les produits chinois sont bon marché parce que le cours de la monnaie chinoise est très bas. Les marchés américains sont de ce fait inondés de produits chinois, ce qui fait que les usines américaines ne trouvent plus de débouchés. Et, ainsi, le chômage augmente. Les Chinois doivent réduire leurs importations en réévaluant le yuan. De la sorte, leurs produits aux États-Unis coûteront plus cher, les usines américaines tourneront mieux et pourront mettre plus de gens au travail.

Voilà le raisonnement. La question est celle-ci : qu’y a-t-il de vrai, dans tout cela ?

Le yuan est-il coupable ?

En 2004 déjà, nombre de membres du Parlement américain exigent que le gouvernement chinois relève le cours du yuan de quelque 25 pour cent. En juillet 2005, le gouvernement chinois décide de ne plus fixer le cours du yuan, mais de le laisser évoluer de façon limitée selon une baisse ou une hausse de son cours de tout au plus 0,3 pour cent par jour. Ce faisant, à la mi-2008, le yuan a grimpé de 21 pour cent par rapport au dollar. Durant cette période, l’afflux de marchandises chinoises aux États-Unis ne diminue pas. La réévaluation de 21 pour cent n’a pas résolu le problème. Aujourd’hui, les Américains exigent à nouveau une réévaluation du yuan.

 

La mémoire américaine aurait sans doute besoin de phosphore, mais pas celle des Chinois. Ceux-ci n’ont toujours pas oublié comment, dans les années 70 et 80, les Américains étaient venus insister chez leurs alliés japonais afin qu’ils réévaluent le yen et ce, pour les mêmes raisons, précisément, que celles invoquées aujourd’hui pour la réévaluation du yuan. Pour commencer, les Japonais avaient relevé leur monnaie de 20 pour cent. Et ils l’avaient fait cinq ou six fois d’affilée. En 1970, il fallait payer 350 yen pour un dollar. Aujourd’hui, 90 yen. Pour une réévaluation, c’en est une ! Mais le Japon exporte toujours beaucoup plus de produits vers les États-Unis qu’il n’en importe des mêmes États-Unis. Ceux-ci ont désormais un déficit commercial vis-à-vis du Japon qui, calculé par habitant, est même très supérieur au déficit commercial américain vis-à-vis de la Chine. Et ce, malgré l’énorme réévaluation du yen japonais.

Bon nombre d’économistes américains n’embraient pas sur cette campagne contre la Chine. Ainsi, Albert Keidel, du Georgetown Public Policy Institute, qui déclare : « Je ne suis absolument pas convaincu que les autorités chinoises manipulent le yuan et que son cours est trop bas. Comment peut-on d’ailleurs déterminer si un cours est trop bas ? Il n’existe pas de méthode concluante pour ce faire. »

Pieter Bottelier est un économiste du Carnegie Endowment for International Peace (Fondation Carnegie pour la paix mondiale). Il dit : « Prétendre que la Chine manipule le yuan est absurde. La preuve en est, d’ailleurs, qu’après la chute de Lehman Brothers, le dollar a grimpé. Le yuan a grimpé en même temps. Si les Chinois manipulaient leur monnaie, ils l’auraient bien empêché de grimper. »

Robert Pozen, économiste de la Harvard Business School, n’est pas convaincu non plus de la chose. Il déclare : « Imaginez que les Chinois réévaluent leur monnaie de 15 pour cent. Cela changerait-il quelque chose ? À peine ? »

Daniel Griswold, directeur du Center for Trade Policy Studies à l’Institut Cato de Washington, ne suit pas non plus cette croisade contre le yuan. Il estime : « Un yuan réévalué n’apporterait pas beaucoup d’oxygène à l’économie américaine, pas même s’il était réévalué de 25 pour cent. Depuis 2002, le dollar a perdu beaucoup de sa valeur par rapport au dollar canadien et à l’euro européen et, pourtant, notre déficit commercial via-à-vis du Canada et de l’Europe ne cesse de s’accroître. La réévaluation d’une autre monnaie est rarement une solution aux problèmes internes d’une économie. »

Stephen Roach, chef pour l’Asie de la banque d’affaires américaine Morgan Stanley, ne veut pas entendre parler du lauréat du prix Nobel Paul Krugman qui, dans deux pièces d’opinion publiées dans le New York Times, réclamait des taxes à l’importation sur les produits chinois afin d’augmenter de la sorte de 25 à 40 pour cent le prix de ces produits aux États-Unis. Roach explique : « Le conseil de Krugman est particulièrement mauvais et complètement déplacé. Le yuan est en réalité une bouée éclairante dans la tempête qui nous entoure. Il y a chez nous des gens qui s’époumonent contre la Chine mais qui ne voient pas que les problèmes de notre économie se situent dans notre économie même. Il est temps que Krugman soit fermement remis à sa place. »

Même le Wall Street Journal écrit : « On ne peut en croire ses oreilles. Il y a réellement des hommes politiques et des hommes d’affaires américains qui prétendent que la cause de nos problèmes réside chez les Chinois. Ils utilisent le yuan comme bouc émissaire. »

Le Fonds monétaire international ne pense pas non plus que la réévaluation du yuan puisse être très salutaire : « Une réévaluation du yuan chinois aidera un peu l’économie américaine, mais ne résoudra pas les problèmes internes. Si le yuan chinois est réévalué de 20 pour cent et s’il se passe la même chose avec la monnaie des autres marchés asiatiques en pleine croissance, l’économie américaine pourra peut-être connaître une croissance de 1 pour cent. »

Ces économistes et institutions renvoient aux problèmes internes de l’économie américaine. Examinons l’un des principaux problèmes de cette dernière

Plus de produits avec moins de main-d’œuvre

Les États-Unis, soit à peine 5 pour cent de la population mondiale, produisent presque 25 pour cent de ce qui est produit annuellement dans le monde en marchandises et services. Il y a dix ans, ils n’en étaient encore qu’à 20 pour cent. Malgré la montée de la Chine, malgré « l’envahissement du marché américain, » la part des États-Unis dans la production mondiale a augmenté, passant d’un cinquième à un quart. La production s’étend, la part américaine de la production mondiale augmente. On se poserait la question : De quoi se plaint l’establishment américain, en fait ? Mais le problème est celui-ci : Cette production de plus en plus importante est réalisée par de moins en moins de travailleurs.

 

Le ministère américain de l’Emploi dit qu’en 1979, 19,5 millions de personnes travaillaient dans le secteur industriel (manufacturier) américain. Vingt-six ans plus tard, au premier trimestre 2005, ils sont encore 14,2 millions. La production réalisée par ces 14,2 millions de travailleurs en 2005 était le double de celle des 19,5 millions de 1979. Avec 25 pour cent de travailleurs en moins, on produit deux fois plus. Au cours des 15 premières années qui ont suivi 1979, date de départ du calcul du ministère de l’Emploi, il y avait peu de produits chinois sur le marché américain et, pourtant, les emplois disparaissaient constamment en masse. Le ministère estime qu’un pour cent seulement de ces emplois liquidés sont dus à l’influence de la Chine.

Au cours des 10 années écoulées, chaque travailleur aux États-Unis a produit en moyenne 2,5 pour cent de plus chaque année. Cette hausse de la productivité n’est pas utilisée pour alléger le travail, pour augmenter les salaires, pour appliquer une diminution de la durée du temps de travail ni non plus pour créer plus d’emplois. Les entrepreneurs américains font précisément le contraire : le fruit accru du travail est utilisé pour supprimer des emplois.

Pour les hommes politiques et le monde économique des États-Unis, il est plus facile de montrer du doigt la Chine et le yuan que de vérifier où en sont les choses dans l’économie américaine et de tenter de dégager une solution à ce problème.

L’impact positif de la Chine sur l’économie américaine

Le fait de montrer la Chine du doigt est encore plus étonnant quand on examine tout ce que l’économie américaine doit à la Chine. L’an dernier, au plus fort de la crise, les exportations globales des États-Unis baissaient de 17 pour cent, mais les exportations des États-Unis vers la Chine, par contre, ne régressaient que de 0,22 pour cent. Une aubaine, pour l’économie américaine.

Quelque 50.000 entreprises américaines sont actives en Chine. L’écrasante majorité y gagne beaucoup d’argent. Pour certaines, la Chine constitue même un ange salvateur. Le Financial Times écrit : « Si la General Motors croit en Dieu, elle doit sans doute être en train de prier à genoux pour le remercier de l’existence de la Chine. L’an dernier, la vente des voitures GM en Chine a augmenté de 66 pour cent, alors qu’aux États-Unis, elle baissait de 30 pour cent. Sans la Chine, la GM n’aurait pu être sauvée. »

Les chiffres de vente élevés de la General Motors et de la plupart des autres entreprises américaines en Chine ne sont possibles que parce que l’économie et le pouvoir d’achat de la population y croissent rapidement. C’est une bonne chose, non seulement pour les entreprises américaines en Chine, mais pour toute l’économie mondiale. La Chine est devenue le principal moteur économique de la planète. Le journal du dimanche britannique The Observer écrit : « La Chine tient la barre de la relance mondiale. Elle aide le reste de l’Asie et des pays comme l’Allemagne, qui exporte beaucoup vers elle, à sortir de la récession. La Chine est l’un des principaux facteurs à avoir empêché, en 2009, que le monde ne s’enfonce encore plus dans la crise. »

The Economist écrit dans le même sens : « La Chine connaît une croissance rapide alors que les pays riches sont en récession. Comment osent-ils montrer la Chine du doigt ? »

Chris Wood, un analyste du groupe financier CLSA Asia-Pacific Markets, dit que la Chine s’emploie davantage que les États-Unis à faire face à la crise. Les autorités chinoises accroissent le pouvoir d’achat des gens et c’est un puissant stimulant pour l’économie, ajoute-t-il.

Les chiffres lui donnent raison. Selon le bureau d’étude Gavekal-Dragonomics, le revenu net des ménages chinois dans la période 2004-2009 a augmenté en moyenne et par an de 7,7 pour cent à la campagne et de 9,7 pour cent dans les villes. Depuis le début de la crise, cette tendance s’amplifie encore. On peut le voir dans le tableau ci-dessous, qui reprend les divers indicateurs de l’économie chinoise pour les deux premiers mois de cette année.

Les indicateurs économiques en Chine, évolution en pour cent par rapport à la même période en 2009

jan-fév 2010
Croissance valeur industrielle ajoutée + 20,7 %
Production d’électricité + 22,1 %
Investissements (croissance réelle) + 23,0 %
Vente au détail (croissance réelle) + 15,4 %
Exportations + 31,4 %
Importations + 63,6 %
Vente de biens immobiliers + 38,2 %
Revenu autorités centrales + 32,9 %

Source : Dragonweek, Gavekal, 15 mars 2010, p. 2

Aucune économie occidentale ne peut présenter de tels chiffres. Les indicateurs économiques occidentaux n’atteignent même pas 10 pour cent des indicateurs chinois. Comme l’écrit The Economist : « Comment osent-ils montrer la Chine du doigt ? »

Parcourons un peu la situation :

–les États-Unis savent que l’économie chinoise est un moteur de progrès pour toute l’économie mondiale et également, de ce fait, pour l’économie américaine ;
–ils savent que le yuan a à peine un effet négatif sur l’emploi aux États-Unis mêmes ;
–ils savent que c’est le Canada et non la Chine qui est le premier exportateur vers les États-Unis ;
–ils savent que 56 pour cent des exportations chinoises vers les États-Unis ne sont pas dues à des firmes chinoises mais viennent de multinationales américaines ;
–ils savent qu’un produit étiqueté « Made in China » aux États-Unis devrait généralement porter une étiquette « Made in China, the US, Japan, S-Korea, Taiwan, Thailand, Indonesia, Philippines, Vietnam, Singapore, Malaysia » car, pour 55 pour cent des exportations chinoises, la Chine n’est que le lieu où les diverses composantes sont assemblées, alors que ces composantes ont été produites en dehors de la Chine ;
–ils savent que, du prix de vente des produits assemblés en Chine, une petite part seulement va à la Chine et la plus grosse part va aux producteurs des composantes de ces produits ;
–ils savent que, du fait que l’assemblage est confié à la Chine, les autres pays est-asiatiques exportent beaucoup moins vers les États-Unis, mais bien plus vers la Chine et que le total des exportations est-asiatiques, chinoises y compris, vers les États-Unis, ne sont pas plus importantes, mais moins importantes, qu’il y a dix ans.

Et, pourtant, la Chine et son yuan sont les têtes de Turcs. Daniel Griswold, du Center for Trade Policy Studies, déclare : « L’attitude agressive de Washington à l’égard de Beijing est inspirée par des considérations politiques et non économiques. »

Les motivations

Les États-Unis exigent que le yuan soit réévalué mais ils exigent également, et c’est plus important, que le yuan soit libéré. Actuellement, c’est la Banque nationale chinoise, qui détermine quotidiennement le cours du yuan – depuis juillet 2008, son cours est d’entre 8,26 et 8,28 yuan pour un dollar. Le président Obama a dit : « Le cours du yuan doit être davantage centré sur le marché. » Ce qui signifierait que son cours ne serait plus déterminé par la Banque nationale, mais par le marché. Ce serait une défaite pour l’économie planifiée chinoise et une victoire pour le marché. Car, alors, l’État perdrait l’un des moyens de sa politique financière indépendante et souveraine. L’UNCTAD, l’organisation des Nations unies pour le commerce et le développement, voit où les États-Unis veulent en venir et écrit dans un rapport concernant les dangers entourant le yuan : « Le repos et le calme après la tempête financière sont tout à fait révolus. Le casino qui s’est vidé voici un an, est à nouveau rempli. Une fois de plus, on joue et on parie jusqu’à plus outre. De même, la foi inébranlable dans le fondamentalisme du marché est tout à fait revenue. Cette foi naïve estime toujours que les problèmes économiques peuvent être résolus en confiant le cours des monnaies aux marchés financiers sauvages. Ceux qui pensent que la Chine va permettre aux marchés absolument non fiables de déterminer le cours de sa monnaie ne se rendent pas compte à quel point la stabilité interne de la Chine est importante pour la région et pour le monde. »

En d’autres termes, laisser le cours du yuan au marché, c’est la même chose que de confier vos enfants à un pédophile. Mais l’offensive des États-Unis contre le « cours très bas » du yuan et contre « l’emprise de l’État chinois sur la monnaie » encourage un groupe d’économistes et d’entrepreneurs chinois à réitérer leur appel en faveur d’« une monnaie plus libre, centrée sur le marché. » Les points de vue en faveur du marché et de moins d’intervention de l’État gagnent en force dans une certaine section du monde économique et universitaire chinois et ce n’est surtout pas pour déplaire aux États-Unis.

 

La deuxième raison de l’offensive américaine contre la politique financière du gouvernement chinois est à chercher aux États-Unis mêmes. Le chômage U6 aux États-Unis est à 16,8 pour cent. U6 désigne le chômage officiel plus les chômeurs qui ne cherchent plus de travail parce qu’ils sont convaincus qu’ils ne trouveront quand même pas d’emploi, plus les travailleurs à temps partiel qui aimeraient bien travailler à temps plein mais ne parviennent pas à trouver un emploi de ce type. Le chômage effrayant de 16,8 %, la crise économico-financière la plus grave depuis 1929, l’incertitude quant à savoir si l’Amérique va sortir de la crise et si les entreprises et les familles seront encore en mesure de rembourser leurs dettes, l’incapacité du gouvernement et des entreprises à éviter toute cette misère… tout cela renforce la question : Qui a provoqué cela ? Qui doit en payer la facture ? La Chine est un coupable tout indiqué. Si l’opinion publique emprunte cette direction, les problèmes internes et les contradictions mêmes de l’économie américaine n’apparaîtront pas à la surface. Le journal Monthly Review écrit : « L’intention consiste à convaincre les travailleurs américains que la cause des problèmes ne réside pas dans le système économique même mais dans le comportement d’un gouvernement étranger. »

Tertio, la Chine est également une cible pour une partie de plus en plus importante du monde politique et du monde des affaires des États-Unis pour des raisons géostratégiques. Dans le monde entier, la Chine grignote l’influence américaine. Avant notre ère et jusqu’au milieu du 19e siècle, le centre du monde a été l’Est de l’Asie. Après cela, il s’est déplacé vers l’Europe occidentale et les États-Unis. Aujourd’hui, il retourne vers l’Est de l’Asie. Les États-Unis cherchent des moyens de contrer ce processus et de l’inverser. Ils ne tolèreront pas de ne plus occuper la première place dans le monde. La Chine est de ce fait cataloguée comme un facteur négatif, menaçant. D’où le fait qu’on voit paraître aujourd’hui, aux États-Unis, des ouvrages comme « La Chine est-elle un loup dans le monde ? », de George Walden, et dans lequel le pays est décrit comme une menace de mort pour le monde entier, pour la liberté et la démocratie. Et d’où le fait aussi qu’un film comme « Red Dawn »  (L’aube rouge) va bientôt sortir dans les salles américaines. Allez le voir et vous découvrirez avec effroi comment l’Armée populaire chinoise envahit la ville de Detroit.

Comment réagissent les autorités chinoises ?

Depuis 1991, les relations entre la Chine et les États-Unis sont plus ou moins stables. Cela parce que des dizaines de milliers d’entreprises américaines présentes en Chine gagnent à ce qu’il en soit ainsi. Cela tient également du fait que la Chine est le principal financier extérieur de la dette publique américaine. Et que l’exportation de tant de produits chinois vers les États-Unis tempère la hausse des prix à la consommation, ce qui est positif pour l’économie américaine.

Il semble toutefois que les motivations d’une bonne relation commencent à céder le pas devant les motifs d’attitude agressive envers la Chine. L’offensive des gens qui détestent la Chine fait céder les partisans américains des bonnes relations. Le journal britannique The Telegraph décrit le climat comme suit : « On est convaincu que les relations américano-chinoises sont importantes, mais on ne pense pas qu’une collision frontale entre les deux mènerait à une destruction mutuelle. Washington sortira vainqueur de la lutte. » Cette conviction fait reculer les entreprises américaines qui, ensemble, ont investi 60 milliards de dollars en Chine. Myron Brilliant, vice-président de la Chambre américaine de commerce, déclare : « Je ne pense pas que le gouvernement chinois puisse espérer que le monde américain des affaires va arrêter notre parlement. Notre Chambre de commerce reste un pont entre la Chine et les États-Unis, mais nous ne pouvons plus retenir les loups. »

 

En attendant, le gouvernement chinois résiste pied à pied. Il ne pliera en aucun cas face aux pressions américaines. En ce moment, le gouvernement examine comment les secteurs des importations et des exportations réagiront lors d’une réévaluation du yuan. Les autorités ont l’intention de réévaluer légèrement le yuan, entre 4 et 6 pour cent, pour des raisons macroéconomiques. Une réévaluation rendra les produits chinois plus chers, mais les produits importés seront meilleur marché. L’an dernier, la Chine a importé 1.000 milliards de dollars ; la réévaluation du yuan peut être salutaire à la diminution de l’important excédent commercial. La réévaluation conviendra également à la politique visant à transformer l’appareil économique en le faisant passer d’une production à bas prix à une production de valeur élevée. Et, conformément aux intentions des autorités chinoises, la réévaluation peut également déplacer certaines parties de l’appareil économique vers l’intérieur et l’Ouest du pays. Bref : si une réévaluation a bel et bien lieu, ce sera parce qu’elle cadrera avec la politique macroéconomique.

Mais une réévaluation légère du yuan sera absolument insuffisante aux yeux des gens hostiles à la Chine. Ils veulent une réévaluation d’entre 27 et 40 pour cent. La prochaine étape des « loups » (dixit Myron Brilliant, le vice-président de la Chambre américaine de commerce) sera le rapport semestriel du Trésor américain, qui sortira au plus tard le 15 avril. Il y a de fortes chances que le Trésor accuse la Chine de manipuler le yuan. Ce sera le signal, pour des membres de la Chambre des représentants, d’instaurer des taxes élevées à l’importation sur toute une série de produits chinois. Le Financial Times écrit : « Ca revient à utiliser une bombe atomique. » Car les autorités chinoises prendront des contre-mesures. La guerre commerciale sera alors un fait. La plus importante relation bilatérale dans le monde, celle qui existe entre les États-Unis et la Chine, va sombrer tout un temps dans un mutisme mutuel, avec toutes les conséquences qu’on devine pour les problèmes mondiaux qui ne pourraient être résolus que dans une approche collective.

Cet article a été écrit par Peter Franssen, rédacteur de www.infochina.be, le 26 mars 2010.

Sources
(dans l’ordre d’utilisation)
-Alan Beattie, « Skirmishes are not all-out trade war » (Les escarmouches n’ont rien d’une guerre commerciale totale), The Financial Times, 14 mars 2010.
-Gideon Rachman, « Why America and China will clash » (Pourquoi l’Amérique et la Chine vont se heurter), The Financial Times, 18 janvier 2010.
-Foster Klug, « US lawmakers attack China ahead of Nov. Elections » (Les législateurs américains attaquent la Chine bien avant les élections de novembre), Associated Press, 15 mars 2010.
-Andrew Batson, Ian Johnson et Andrew Browne, « China Talks Tough to U.S. » (Le langage musclé de la Chine à l’adresse des USA), The Wall Street Journal, 15 mars 2010.
-« US lawmakers urge action on renminbi » (Les législateurs américains veulent hâter les mesures sur le renminbi), The Financial Times, 15 mars 2010.
-Leah Girard, « US Clash w/ China of Currency Manipulation Heats Up » (Le choc entre les États-Unis et la Chine à propos de la manipulation des devises s’échauffe), Market News, 17 mars 2010.
-Xin Zhiming, Fu Jing et Chen Jialu, « Yuan not cause of US woes » (Le yuan n’est pas la cause des malheures américains), China Daily, 17 mars 2010.
-« Stronger yuan not tonic for US economy » (Un yuan plus fort n’aurait rien de tonique pour l’économie américaine), Xinhua, 18 mars 2010.
-Li Xiang, « Sharp revaluation of yuan would be ‘lose-lose’ situation » (Une forte réévaluation du yuan serait une opération perdante pour les deux pays), China Daily, 22 mars 2010.
-« The Yuan Scapegoat » (Le yuan, bouc émissaire), The Wall Street Journal, 18 mars 2010.
-« RMB is not a cure-all for US economy: IMF » (Le renminbi n’a rien d’une panacée pour l’économie américaine, prétend le FMI), Xinhua, 17 février 2010.
-Dan Newman et Frank Newman, « Hands Off the Yuan » (Ne touchez surtout pas au yuan), Foreign Policy in Focus, 16 mars 2010.
-William A. Ward, Manufacturing Productivity and the Shifting US, China and Global Job Scenes – 1990 to 2005 (La productivité manufacturière et le déplacement de la scène de l’emploi américaine, chinoise et mondiale – de 1990 à 2005), Clemson University Center for International Trade, Working Paper 052507, Clemson, 2005, p. 6.
-Daniella Markheim, « Le yuan chinois : manipulé, mal aligné ou tout simplement mal compris ?), Heritage Foundation, 11 septembre 2007.
-Brink Lindsey, Job Losses and Trade – A Reality Check (Pertes d’emplois et commerce – un contrôle de la réalité), Trade Briefing Paper, Cato Institute, n° 19, 17 mars 2004.
-« Premier Wen Says China Will Keep Yuan Basically Stable » (La Premier ministre Wen affirme que la Chine va maintenir la stabilité fondamentale du yuan), Xinhua, 14 mars 2010.
-Patti Waldmeir, « Shanghai tie-up drives profits for GM » (Shanghai fait grimper les bénéfices de GM), The Financial Times, 21 janvier 2010.
-Ashley Seager, « China and the other Brics will rebuild a new world economic order » (La Chine et les autres pays du BRIC vont rebâtir un nouvel ordre économique mondial), The Observer, 3 janvier 2010.
-« Currency contortions » (Contorsions monétaires), The Economist, 19 décembre 2009.
-« Fear of the dragon » (La crainte du dragon), The Economist, 9 janvier 2010.
-DragonWeek, Gavekal, 8 février 2010, p. 2.
-Daniel Griswold, « Who’s Manipulating Whom ? China’s Currency and the U.S. Economy » (Qui manipule qui ? La monnaie chinoise et l’économie américaine), Trade Briefing Paper, Cato Institute, n° 23, 11 juillet 2006.
-« China and the US Economy » (La Chine et l’économie américaine), The US-China Business Council, janvier 2009, p. 2.
-Ambrose Evans-Pritchard, « Is China’s Politburo spoiling for a showdown with America ? » (Le Politburo chinois cherche-t-il une confrontation avec l’Amérique ?), The Telegraph, 14 mars 2010.
-Martin Hart-Landsberg, « The U.S. Economy and China: Capitalism, Class, and Crisis » (L(« conomie américain et la Chine : capitalisme, classe et crise), Monthly Review, Volume 61, n° 9, février 2010.
-« Global monetary chaos: Systemic failures need bold multilateral responses » (La chaos monétaire mondial : les échecs systémiques nécessitent d’audacieuses réponses multilatérales), UNCTAD, Policy Brief n° 12, mars 2010.
-Ho-fung Hung, « The Three Transformations of Global Capitalism » (Les 3 transformations du capitalisme mondial), et Giovanni Arrighi, « China’s Market Economy in the Long Run » (L’économie de marché chinoise dans le long terme), tous deux dans : Ho-fung Hung, China and the Transformation of Global Capitalism (La Chine et la transformation du capitalisme mondial), John Hopkins University Press, Baltimore, 2009, pp. 3-9 et 23.
-Ambrose Evans-Pritchard, op. cit.
-James Politi et Patti Waldmeir, « China to lose ally against US trade hawks » (La Chine va perdre un allié contre les faucons du commerce américain), The Financial Times, 21 mars 2010.
-Keith Bradsher, « China Uses Rules on Global Trade to Its Advantage » (La Chine utilise à son propre profit les règles du commerce mondial), The New York Times, 14 mars 2010.

mardi, 30 mars 2010

Rusia, clave de boveda del sistema multipolar

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RUSIA, CLAVE DE BÓVEDA DEL SISTEMA MULTIPOLAR

 de Tiberio Graziani *

 

El nuevo sistema multipolar está en fase de consolidación. Los principales actores son los EE.UU., China, India y Rusia. Mientras la Unión Europea está completamente ausente y nivelada en el marco de las indicaciones-diktat procedentes de Washington y Londres, algunos países de la América meridional, en particular Venezuela, Brasil, Bolivia, Argentina y Uruguay manifiestan su firme voluntad de participación activa en la construcción del nuevo orden mundial. Rusia, por su posición central en la masa eurasiática, por su vasta extensión y por la actual orientación imprimida a la política exterior por el tándem Putin-Medvedev, será, muy probablemente, la clave de bóveda de la nueva estructura planetaria. Pero, para cumplir con tal función epocal, tendrá que superar algunos problemas internos: entre los primeros, los referentes a la cuestión demográfica y la modernización del país, mientras, en el plano internacional, tendrá que consolidar las relaciones con China e India, instaurar lo más pronto posible un acuerdo estratégico con Turquía y Japón y, sobre todo, tendrá que aclarar su posición en Oriente Medio y en Oriente Próximo.

 

               Consideraciones sobre el escenario actual

 

Con el fin de presentar un rápido examen del actual escenario mundial y para comprender mejor las dinámicas en marcha que lo configuran, proponemos una clasificación de los actores en juego, considerándolos ya sea por la función que desempeñan en su propio espacio geopolítico o esfera de influencia, ya sea como entidades susceptibles de profundas evoluciones  en base a variables específicas.

El presente marco internacional nos muestra al menos tres clases principales de actores. Los actores hegemónicos, los actores emergentes y, finalmente, el grupo de los seguidores y de los subordinados. Por razones analíticas, hay que añadir a estas tres categorías una cuarta, constituida por las naciones que, excluidas, por diversos motivos, del juego de la política mundial, están buscando su función.

 

                        Los actores hegemónicos

 

Al primer grupo pertenecen los países que, por su particular postura geopolítica, que los identifica como áreas pivote, o por la proyección de su fuerza militar o económica, determinan las elecciones y las relaciones internacionales de las restantes naciones. Además, los actores hegemónicos influyen directamente también sobre algunas organizaciones globales, entre las cuales se encuentran el Fondo Monetario Internacional (FMI), el Banco Mundial (BM), y la Organización de las Naciones Unidas (ONU). Entre las naciones que presentan tales características, aunque con matices diversos, podemos contar a los Estados Unidos, China, India y Rusia.

La función geopolítica que actualmente ejercen los EE.UU. es la de constituir el centro físico y el mando del sistema occidental nacido al final de la Segunda Guerra Mundial. La característica principal de la nación norteamericana, con respecto al resto del planeta, está representada por su expansionismo, llevado a cabo con una particular agresividad y mediante la extensión de dispositivos militares a escala global. El carácter imperialista debido a su específica condición de potencia marítima le impone comportamientos colonialistas hacia amplias porciones de lo que considera impropiamente su espacio geopolítico (1). Las variables que podrían determinar un cambio de función de los EE.UU. son esencialmente tres: a) la crisis estructural de la economía neoliberal; b) la elefantiasis imperialista; c) las potenciales tensiones con Japón, Europa y algunos países de la América centro-meridional.

China, India y Rusia, en cuanto naciones-continente de vocación terrestre, ambicionan desempeñar sus respectivas funciones macro-regionales en el ámbito eurasiático sobre la base de una común orientación, por otra parte, en fase de avanzada estructuración. Tales funciones, sin embargo, están condicionadas por algunas variables entre las cuales destacamos:

 

a) las políticas de modernización;

b) las tensiones debidas a las deshomogeneidades sociales, culturales y étnicas dentro de sus propios espacios;

c) la cuestión demográfica que impone adecuadas y diversificadas soluciones para los tres países.

 

Por cuanto respecta a la variable referente a las políticas de modernización, observamos que, al estar estas demasiado interrelacionadas en los aspectos económico-financieros con el sistema occidental, de modo particular con los Estados Unidos, a menudo quitan a las naciones eurasiáticas la iniciativa en la arena internacional, las exponen a las presiones del sistema internacional, constituido principalmente por la triada ONU, FMI y BM (2) y, sobre todo, les imponen el principio de la interdependencia económica, histórico eje de la expansión económica de los EE.UU. En relación a la segunda variable, observamos que la escasa atención que Moscú, Pekín y Nueva Delhi prestan a la contención o solución de las respectivas tensiones endógenas ofrece a su antagonista principal, los Estados Unidos, la ocasión de debilitar el prestigio de los gobiernos y obstaculizar la estructuración del espacio eurasiático. Finalmente, considerando la tercera variable, apreciamos que políticas demográficas no coordinadas entre las tres potencias eurasiáticas, en particular entre Rusia y China, podrían a la larga crear choques para la realización de un sistema continental equilibrado.

Las relaciones entre los miembros de esta clase deciden las reglas principales de la política mundial.

En consideración de la presencia de hasta 4 naciones-continente (tres naciones eurasiáticas y una norteamericana) es posible definir el actual sistema geopolítico como multipolar.

 

                        Los actores emergentes

 

La categoría de los actores emergentes reagrupa, en cambio, a las naciones que, valorando particulares bazas geopolíticas o geoestratégicas, tratan de desmarcarse de las decisiones que les imponen uno o más miembros del restringido club del primer tipo. Mientras la finalidad inmediata de los emergentes consiste en la búsqueda de una autonomía regional y, por tanto, en la salida de la esfera de influencia de la potencia hegemónica, que ha de llevarse a cabo mediante articulados acuerdos y alianzas regionales, transregionales y extracontinentales, la finalidad estratégica está constituida por la participación activa en el juego de las decisiones regionales e incluso mundiales. Entre los países que asumen cada vez más la connotación de actores emergentes, podemos enumerar a Venezuela, Brasil, Bolivia, Argentina y Uruguay, la Turquía de Recep Tayyip Erdoğan, el Japón de Yukio Hatoyama y, aunque con alguna limitación, Pakistán. Todos estos países pertenecen, de hecho, al sistema geopolítico llamado “occidental”, guiado por Washington. El hecho de que muchas naciones de lo que, en el periodo bipolar, se consideraba un sistema cohesionado puedan ser hoy señaladas como emergentes y, por tanto, entidades susceptibles de contribuir a la constitución de nuevos polos de agregación geopolítica induce a pensar que el edificio puesto a punto por los EE.UU. y por Gran Bretaña, tal y como lo conocemos, está, de hecho, en vías de extinción o en una fase de profunda evolución. La creciente “militarización” que la nación guía impone a las relaciones bilaterales con estos países parece sustanciar la segunda hipótesis. La común visión continental de los emergentes sudamericanos  y la realización de importantes acuerdos económicos, comerciales y militares constituyen los elementos base para configurar el espacio sudamericano como futuro polo del nuevo orden mundial (3).

Los actores emergentes aumentan sus grados de libertad en virtud de las alianzas y de las fricciones entre los miembros del club de los hegemónicos así como de la conciencia geopolítica de sus clases dirigentes.

El número de los actores emergentes y su colocación en los dos hemisferios septentrionales (Turquía y Japón) y meridional (países latinoamericanos) además de acelerar la consolidación del nuevo sistema multipolar, trazan sus dos ejes principales: Eurasia y América indiolatina.

 

                        Los seguidores-subordinados y los subordinados

 

La designación de actores seguidores y subordinados, aquí propuesta, pretende subrayar las potencialidades geopolíticas de los pertenecientes a esta clase con respecto a su transición a las otras. Hay que calificar como seguidores-subordinados a los actores que consideran útil, por afinidad, intereses varios o por condiciones históricas particulares,  formar parte de la esfera de influencia  de una de las naciones hegemónicas. Los seguidores-subordinados reconocen al país hegemónico la función de nación-guía. Entre estos podemos mencionar, por ejemplo, la República Sudafricana, Arabia Saudí, Jordania, Egipto, Corea del Sur. Los subordinados de este tipo, dado que siguen a los EE.UU. como nación guía, a menos que surjan convulsiones provocadas o gestionadas por otros, compartirán su destino geopolítico. La relación que mantienen estos actores y el país hegemónico es de tipo, mutatis mutandis, vasallático.

En cambio, se pueden considerar completamente subordinados los actores que, exteriores al espacio geopolítico natural del país hegemónico, padecen su dominio. La clase de los países subordinados está marcada por la ausencia de una conciencia geopolítica autónoma o, mejor todavía, por la incapacidad de sus clases dirigentes de valorar los elementos mínimos y suficientes para proponer y, por tanto, elaborar una doctrina geopolítica propia. Las razones de esta ausencia son múltiples y variadas, entre estas podemos mencionar la fragmentación del espacio geopolítico en demasiadas entidades estatales, la colonización cultural, política y militar ejercida por la nación hegemónica, la dependencia económica hacia el país dominante, las estrechas y particulares relaciones que mantienen el actor hegemónico y las clases dirigentes nacionales, que, configurándose como auténticas oligarquías, están preocupadas más de su supervivencia que de los intereses populares nacionales que deberían representar y sostener. Las naciones que constituyen la Unión Europea entran en esta categoría, con excepción de Gran Bretaña por la conocida special relationship que mantiene con los EE.UU. (4).

La pertenencia de la Unión Europea a esta clase de actores se debe a su situación geopolítica y geoestratégica. En el ámbito de las doctrinas geopolíticas estadounidenses, Europa siempre ha sido considerada, desde el estallido de la Segunda Guerra Mundial, una cabeza de puente tendida hacia el centro de la masa eurasiática (5). Tal papel condiciona las relaciones entre la Unión Europea y los países exteriores al sistema occidental, en primer lugar, Rusia y los países de Oriente Próximo y de Oriente Medio. Además de determinar el sistema de defensa de la UE y sus alianzas militares, este particular papel influye, a menudo incluso profundamente, en la política interior y las estrategias económicas de sus miembros, en concreto, las referentes al aprovisionamiento de recursos energéticos (6) y de materiales estratégicos, así como las elecciones en materia de investigación y desarrollo tecnológico. La situación geopolítica de la Unión Europea parece haberse agravado ulteriormente con el nuevo curso que Sarkozy y Merkel han imprimido a las respectivas políticas exteriores, dirigidas más a la constitución de un mercado trasatlántico que al reforzamiento del europeo.

Las variables que, en el momento actual, podrían permitir a los países miembros de la Unión Europea pasar a la categoría de los emergentes tienen que ver con la calidad y el grado de intensificación de sus relaciones con Moscú en referencia a la cuestión del aprovisionamiento energético (North y South Stream), a la cuestión de la seguridad (OTAN) y a la política próximo y medio-oriental (Irán e Israel). Que lo que acabamos de escribir es algo posible lo demuestra el caso de Turquía. A pesar de la hipoteca de la OTAN que la vincula al sistema occidental, Ankara, apelando precisamente a las relaciones con Moscú en lo referente a la cuestión energética, y asumiendo, respecto a las directivas de Washington, una posición excéntrica sobre la cuestión israelo-palestina, está en el camino hacia la emancipación de la tutela americana (7).

Los seguidores y subordinados, debido a su debilidad, representan el posible terreno de choque sobre el que podrían confrontarse los polos del nuevo orden mundial.

 

Los excluidos

 

En la categoría de los excluidos entran lógicamente todos los otros estados. Desde un punto de vista geoestratégico, los excluidos constituyen un obstáculo a las miras de uno o más actores de los actores hegemónicos. Entre los pertenecientes a este grupo, asumen un particular relieve, con respecto a los EE.UU. y el nuevo sistema multipolar, Siria, Irán, Myanmar y Corea del Norte. En el marco de la estrategia estadounidense para cercar la masa eurasiática, de hecho, el control de las áreas que actualmente se encuentran bajo la soberanía de esas naciones representa un objetivo prioritario que ha de ser alcanzado a corto-medio plazo. Siria e Irán se interponen a la realización del proyecto norteamericano del Nuevo Gran Oriente Medio, es decir, al control total sobre la larga y amplia franja que desde Marruecos llega a las repúblicas centroasiáticas, auténtico soft underbelly de Eurasia; Myanmar constituye una potencial vía de acceso en el espacio chino-indio a partir del Océano Índico y un emplazamiento estratégico para el control del Golfo de Bengala y del Mar de Andamán; Corea del Norte, además de ser una vía de acceso hacia China y Rusia, junto al resto de la península coreana (Corea del Sur) constituye una base estratégica para el control del Mar Amarillo y del Mar del Japón.

Los excluidos más arriba citados, en base a las relaciones que cultivan con los nuevos actores hegemónicos (China, India, Rusia) y con algunos emergentes podrían entrar nuevamente en el juego de la política mundial y asumir, por tanto, un importante papel funcional en el ámbito del nuevo sistema multipolar. Este es el caso de Irán. Irán goza del status de país observador en el ámbito de la OTSC, la Organización del Tratado de Seguridad Colectiva, considerada por muchos analistas la respuesta rusa a la OTAN, y es candidato al ingreso en la Organización para la Cooperación de Shangai, entre cuyos miembros figuran Rusia, China y las repúblicas centroasiáticas. Además, tiene sólidas relaciones económico-comerciales con los mayores países de la América indiolatina.

 

                

                

               La reescritura de las nuevas reglas

 

Los países que pertenecen a la clase de los actores hegemónicos anteriormente descrita tratan de proyectar, por primera vez después de la larga fase bipolar y la breve unipolar, su influencia sobre todo el planeta con la finalidad de contribuir, con recorridos y metas específicas, a la realización de la nueva configuración geopolítica global. A finales de la primera década del siglo XXI se asiste, por tanto, al retorno de la política mundial, articulada esta vez en términos continentales (8). La puesta en juego está constituida, no sólo por el acaparamiento de los recursos energéticos y de las materias primas, por el dominio de importantes nudos estratégicos, sino, sobre todo, considerando el número de actores y la complejidad del escenario mundial, por la reescritura de nuevas reglas. Estas reglas, resultantes de la delimitación de nuevas esferas de influencia, definirán, con toda probabilidad durante un largo periodo, las relaciones entre los actores continentales y, por tanto, también un nuevo derecho. No ya un derecho internacional exclusivamente construido sobre las ideologías occidentales, sustancialmente basado en el derecho de ciudadanía como se ha desarrollado a partir de la Revolución Francesa y en el concepto de estado-nación, sino un derecho que tenga en cuenta las soberanías políticas tal y como se manifiestan y se estructuran concretamente en los diversos ámbitos culturales de todo el planeta.

Los Estados Unidos, aunque actualmente se encuentren en un estado de profunda postración causado por una compleja crisis económico-financiera (que ha evidenciado, por otra parte, las carencias y debilidades estructurales de la potencia bioceánica y de todo el sistema occidental), por el duradero impasse militar en el teatro afgano y por la pérdida del control de vastas porciones de la América meridional,  prosiguen, sin embargo, en continuidad con las doctrinas geopolíticas de los últimos años, con la acción de presión hacia Rusia, área geopolítica que constituye su verdadero objetivo estratégico con  vistas a la hegemonía planetaria. En el momento actual, la desestructuración de Rusia, o, por lo menos, su debilitamiento, representaría para los Estados Unidos, no sólo un objetivo que persigue al menos desde 1945, sino también una ocasión para ganar tiempo y poner remedios eficaces para la solución de su propia crisis interna y para reformular el sistema occidental.

Precisamente, teniendo bien presente tal objetivo, resulta más fácil interpretar la política exterior adoptada recientemente por la administración Obama con respecto a Pekín y Nueva Delhi. Una política que, aunque tendente a recrear un clima de confianza entre las dos potencias euroasiáticas y los Estados Unidos, no parece dar en absoluto los resultados esperados, a causa del excesivo pragmatismo y de la exagerada ausencia de escrúpulos que parecen caracterizar tanto al presidente Barack Obama como a su Secretaria de Estado, Hillary Rodham Clinton. Un ejemplo de esa ausencia de escrúpulos y del pragmatismo, así como de la escasa diplomacia, entre otros muchos, es el referente a las relaciones contrastantes que Washington ha mantenido recientemente con el Dalai Lama y con Pekín.

Tales comportamientos, dadas las condiciones de debilidad en que se encuentra la ex hyperpuissance, son un rasgo del cansancio y del nerviosismo con que el actual liderazgo estadounidense trata de enfrentarse y taponar el progresivo ascenso de las mayores naciones eurasiáticas y la reafirmación de Rusia como potencia mundial. Las relaciones que Washington cultiva con Pekín y Nueva Delhi trascurren por dos vías. Por un lado, sobre la base del principio de interdependencia económica y mediante la ejecución de específicas políticas financieras y monetarias, los EE.UU. tratan de insertar a China e India en el ámbito del que denominan como sistema global. Este sistema, en realidad, es la proyección del occidental a escala planetaria, ya que las reglas en las que se basaría son precisamente las de este último. Por otro lado, a través de una continua y apremiante campaña denigratoria, la potencia estadounidense trata de desacreditar a los gobiernos de las dos naciones eurasiáticas y de desestabilizarlas, sirviéndose de sus  contradicciones y de sus tensiones internas. La estrategia actual es sustancialmente la versión actualizada de la política llamada de congagement (containment, engagement), aplicada, esta vez, no sólo a China sino también, parcialmente, a India.

Sin embargo, hay que subrayar que el dato cierto de esta administración demócrata, que tomó posesión en Washington en enero de 2009, es la creciente militarización con la que tiende a condicionar las relaciones con Moscú. Más allá de la retórica pacifista, el premio Nobel Obama, de hecho, sigue, con la finalidad de alcanzar la hegemonía global, las líneas-guía trazadas por las precedentes administraciones, que se reducen, de forma sumamente sintética, a dos: a) potenciación y extensión de las guarniciones militares; b) balcanización de todo el planeta según parámetros  étnicos, religiosos y culturales.

rusland_retreat.jpgAnte la clara y manifiesta tendencia de los EE.UU. hacia el dominio global –en los últimos tiempos marcadamente sustentada por el corpus ideológico-religioso veterotestamentario (9) más que por un cuidadoso análisis del momento actual que llevase la impronta de la Realpolitik –China, India y Rusia, al contrario, parecen ser bien  conscientes de las condiciones actuales que les llaman a una asunción de responsabilidades tanto a nivel continental como global. Tal asunción parece desarrollarse mediante acciones tendentes a la realización de una mayor y mejor articulada integración eurasiática así como mediante el apoyo de las políticas pro-continentales de los países sudamericanos.

 

                        La centralidad de Rusia

 

La reencontrada estatura mundial de Rusia como protagonista del escenario global impone algunas reflexiones de orden analítico para comprender su posicionamiento tanto en el ámbito continental como global, así como también las variables que podrían modificarlo a corto y medio plazo.

Mientras en relación a la masa euroafroasiática, la función central de Rusia como su heartland, tal y como fue sustancialmente formulada por Mackinder, es nuevamente confirmada por el actual marco internacional, más problemática y más compleja resulta, en cambio, su función en el proceso de consolidación del nuevo sistema multipolar.

 

Espina dorsal de Eurasia y puente eurasiático entre Japón y Europa

 

Los elementos que han permitido a Rusia reafirmar su importancia en el contexto eurasiático, muy esquemáticamente, son:

a)      reapropiación por parte del Estado de algunas industrias estratégicas;

b)      contención de los impulsos secesionistas;

c)      uso “geopolítico” de los recursos energéticos;

d)     política dirigida a la recuperación del “exterior próximo”;

e)      constitución del partenariado Rusia-OTAN, como mesa de discusión destinada a contener el proceso de ampliación del dispositivo militar atlántico;

f)       tejido de relaciones a escala continental, orientadas a una integración con las repúblicas centroasiáticas, China e India;

g)      constitución y cualificación de aparatos de seguridad colectiva (OTCS y OCS).

 

Si la gestión, antes de Putin y ahora de Medvedev, del agregado de elementos más arriba considerados ha mostrado, en las presentes condiciones históricas, la función de Rusia como espina dorsal de Eurasia, y, por tanto, como área gravitacional de cualquier proceso orientado a la integración continental, sin embargo, no ha puesto en evidencia su carácter estructural, importante para las relaciones ruso-europeas y ruso-japonesas, es decir, el de ser el puente eurasiático entre la península europea y el arco insular constituido por Japón.

Rusia, considerada como puente eurasiático entre Europa y Japón, obliga al Kremlin a una elección estratégica decisiva para los desarrollos del futuro escenario mundial: la desestructuración del sistema occidental. Moscú puede conseguir tal objetivo con éxito, a medio y largo plazo, intensificando las relaciones que cultiva con Ankara por cuanto respecta a las grandes infraestructuras (South Stream) y poniendo en marcha otras nuevas con respecto a la seguridad colectiva. Acuerdos de este tipo provocarían ciertamente un terremoto en toda la Unión Europea, obligando a los gobiernos europeos a tomar una posición neta entre la aceptación de una mayor subordinación a los intereses estadounidenses o la perspectiva de un partenariado euro-ruso (en la práctica, eurasiático, considerando las relaciones entre Moscú, Pekín y Nueva Delhi), que respondiera en mayor medida a los intereses de las naciones y de los pueblos europeos (10). Una iniciativa análoga debería ser tomada por Moscú con respecto a Japón, incluyéndose como socio estratégico en el contexto de las nuevas relaciones entre Pekín y Tokio y, sobre todo, poniendo en marcha, siempre junto a China, un proceso apropiado de integración de Japón en el sistema de seguridad eurasiático en el ámbito de la Organización para la Cooperación de Shangai (11).

 

Clave de bóveda del nuevo orden mundial

 

Con respecto al nuevo orden mundial, Rusia parece poseer los elementos base para cumplir una función epocal, la de clave de bóveda de todo el sistema. Uno de los elementos está constituido precisamente por su centralidad en el ámbito eurasiático como hemos expuesto anteriormente, otros dependen de sus relaciones con los países de la América meridional, de su política en Oriente Próximo y en Oriente Medio y de su renovado interés por la zona ártica. Estos cuatro factores resultan problemáticos ya que están estrechamente ligados a la evolución de las relaciones existentes entre Moscú y Pekín. China, como se sabe, ha estrechado, al igual que Rusia, sólidas alianzas económico-comerciales con los países emergentes de la América indiolatina, lleva en Oriente Medio y en Oriente Próximo una política de pleno apoyo a Irán y, además, manifiesta una gran atención por los territorios siberianos y árticos (12). Considerando lo que acabamos de recordar, si las relaciones entre Pekín y Moscú se desarrollan en sentido todavía más acentuadamente eurasiático, prefigurando una especie de alianza estratégica entre los dos colosos, la consolidación del nuevo sistema multipolar se beneficiará de una aceleración, en caso contrario, sufrirá una ralentización o entrará en una situación de estancamiento. La ralentización o el estancamiento proporcionarían el tiempo necesario para que el sistema occidental pudiera reconfigurarse y volviera a entrar, por tanto, en el juego en las mismas condiciones que los otros actores.

 

El nudo gordiano de Oriente Próximo y de Oriente Medio – la obligación de una elección de campo

 

Entre los elementos más arriba considerados, referentes a la función global que Rusia podría desempeñar, la política próximo y medio-oriental del Kremlin parece ser la más problemática. Esto es así a causa de la importancia que este tablero representa en el marco general del gran juego mundial y por el significado particular que ha asumido, a partir de la crisis de Suez de 1956, en el interior de las doctrinas geopolíticas estadounidenses. Como se recordará, la política rusa, o mejor, soviética, en Oriente Próximo, después de una primera orientación pro-sionista de los años 1947-48, que, por otra parte, se extendió hasta febrero de 1953, cuando se consumó la ruptura formal entre Moscú y Tel Aviv, se dirigió decididamente hacia el mundo árabe. En el sistema de alianzas de la época, el Egipto de Nasser se convirtió en el país central de esta nueva dirección del Kremlin, mientras el neo-estado sionista representó el special partner de Washington. Entre altibajos, Rusia, tras la licuefacción de la URSS, mantuvo esta orientación filo-árabe, aunque con algunas dificultades. En el cambiado marco regional, determinado por tres acontecimientos principales: a) inserción de Egipto en la esfera de influencia estadounidense; b) eliminación de Irak; c) perturbación del área afgana que atestiguan el retroceso de la influencia rusa en la región y el contextual avance, también militar, de los Estados Unidos, el país central de la política próximo y medio-oriental rusa está lógicamente representado por la República Islámica de Irán.

Mientras esto ha sido ampliamente comprendido por Pekín, en el marco de la estrategia orientada a su reforzamiento en la masa continental euroafroasiática, no se puede decir lo mismo de Moscú. Si el Kremlin no se da prisa y declara abiertamente su elección de campo a favor de Teherán, disponiéndose de esa manera a cortar el nudo gordiano que constituye la relación entre Washington y Tel Aviv, correrá el riesgo de anular su potencial función en el nuevo orden mundial.

 

* Director de Eurasia. Rivista di studi geopolitici – www.eurasia-rivista.org - direzione@eurasia-rivista.org

 

(Traducido por Javier Estrada)

 

 

1. El sistema occidental, tal y como se ha afirmado desde 1945 hasta nuestros días, está estructuralmente compuesto por dos principales espacios geopolíticos distintos, el angloamericano y el de la América indiolatina, a los que se añaden porciones del espacio eurasiático. Estas últimas están constituidas por Europa (península eurasiática y cremallera euroafroasiática) y por Japón (arco insular eurasiático). La América indiolatina, Europa y Japón han de ser considerados, por tanto, en relación al sistema « occidental », más propiamente, como esferas de influencia de la potencia del otro lado del Océano.

2. La ONU, el FMI y el BM, en el ámbito de la confrontación entre el  sistema occidental guiado por los EE.UU. y las potencias eurasiáticas, de hecho, desempeñan la función de dispositivos geopolíticos por cuenta de Washington.

3. Por cuanto respecta al redescubrimietno de la vocación continental de la América centromeridional en el ámbito del debate geopolítico, madurado en relación a la oleada globalizadora de los últimos veinte años, nos remitimos, entre otros, a los trabajos de Luiz A. Moniz Bandeira, Alberto Buela, Marcelo Gullo, Helio Jaguaribe, Carlos Pereyra Mele, Samuel Pinheiro Guimares, Bernardo Quagliotti De Bellis; señalamos, además, la reciente publicación de Diccionario latinoamericano de seguridad y geopolitíca (dirección editorial a cargo de Miguel Ángel Barrios), Buenos Aires 2009.

4. Luca Bellocchio, L'eterna alleanza? La special relationship angloamericana tra continuità e mutamento, Milán 2006.

5. Por motivaciones geoestratégicas análogas, siempre referentes al cerco de la masa eurasiática, los EE.UU. consideran Japón una de sus cabezas de puente, muy semejante a la europea.

6. En el específico sector del gas y del petróleo, la influencia estadounidense y, en parte, británica determinan la elección de los miembros de la UE respecto a sus socios extra-europeos, a las rutas para el transporte de los recursos energéticos y la proyección de las consiguientes infraestructuras.

7. Un enfoque teórico referente a los procesos de transición de un Estado de una posición de subordinación a una de autonomía respecto a la esfera de influencia en que se inscribe, ha sido recientemente tratado por el argentino Marcelo Gullo en el ensayo La insubordinación fundante. Breve historia de la construcción  del poder de las naciones, Buenos Aires 2008.

8. A tal respecto, son significativos los llamamientos constantes de Caracas, Buenos Aires y Brasilia a la unidad continental. En el apasionado discurso de toma de posesión de la presidencia de Uruguay, que tuvo lugar en la Asamblea general del parlamento nacional el 1 de marzo de 2010, el recién elegido José Mujica Cordano, ex tupamaro, subrayó con vigor que “Somos una familia balcanizada, que quiere juntarse, pero no puede. Hicimos, tal vez, muchos hermosos países, pero seguimos fracasando en hacer la Patria Grande. Por lo menos hasta ahora. No perdemos la esperanza, porque aún están vivos los sentimientos: desde el Río Bravo a las Malvinas vive una sola nación, la nación latino-americana”.

9. Eso también en consideración de la  política “prosionista” que Washington lleva en Oriente Próximo y en Oriente Medio. Véase a tal propósito el largo ensayo de J. Mearsheimer e Stephen M. Walt, La Israel lobby e la politica estera americana, Milán, 2007 (Hay versión española, El lobby israelí, Taurus, 2007).

10. Una hipótesis de partenariado euro-ruso, basado en el eje París-Berlín-Moscú, fue propuesto en un contexto diverso del actual en el brillante ensayo de Henri De Grossouvre, Paris, Berlin, Moscou. La voie de la paix et de l’independénce, Lausana 2002.

11. La ampliación de las estructuras continentales (globales en el caso de la OTAN) de seguridad y defensa parece ser el índice del grado de consolidación del sistema multipolar. Además de la OTAN, la OTSC y las iniciativas en el ámbito de la OCS, hay que recordar también el Consejo de Defensa Suramericano (CDS) de  la Unión de Naciones Suramericanas (UNASUR).

12. Linda Jakobson, China prepares for an ice-free Arctic, Sipri Insights on Peace and Securiry, no. 2010/2 Marzo 2010.

 

lundi, 29 mars 2010

Eric Zemmour: "Il y a aujourd'hui en France une ambiance maccarthyste"

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Eric Zemmour : « Il y a aujourd’hui en France une ambiance maccarthyste »

PARIS (NOVOPress) : Tout va très vite dans ce qui est désormais « l’affaire Zemmour ». Ce soir, la Licra laisse entendre qu’elle va retirer sa plainte contre le journaliste. Une plainte qu’elle avait annoncé le 16 mars, dix jours après que le chroniqueur avait affirmé au cours de Salut les Terriens, l’émission animée par Thierry Ardisson sur Canal +, que « les Français issus de l’immigration [sont] plus contrôlés que les autres parce que la plupart des trafiquants sont noirs et arabes… C’est un fait ».

Ce retrait probable de la plainte de la Licra fait suite à une rencontre organisée entre Eric Zemmour et Alain Jakubowicz, le président de la Ligue internationale contre le racisme et l’antisémitisme. Le président de la Licra, qui estimait par un communiqué du 11 mars que les propos de Zemmour « exaltent un racisme primaire et décomplexé », débattra en direct avec Eric Zemmour après demain jeudi en direct sur BFM TV à 12h 30 dans la tranche info animée par Ruth Elkrief. Un débat sous haute surveillance, qui a été organisé après que Eric Zemmour a adressé au président de la Licra un courrier d’explications – et non d’« excuses » comme l’a écrit l’Agence France Presse –, publié en exclusivité aujourd’hui par Marianne.fr [1] et que nous venons de nous procurer à notre tour.

Etienne Mougeotte, directeur général des rédactions du groupe Le Figaro, a jusqu’à lundi, jour de convocation d’Eric Zemmour pour l’entretien préalable à son licenciement du [2]Figaro [2], pour la méditer. Voici cette lettre en intégralité.

« Monsieur le président,

Je fais suite à notre rencontre à l’instigation de mon avocat, Olivier P. Cette rencontre nous a permis de nous rendre compte qu’il y avait bien eu un malentendu et une confusion non seulement dans la reprise de mes propos par les médias, mais également dans l’analyse qui a pu ensuite en être faite et qui a conduit à ce déchaînement médiatique à mon encontre.

En effet, je n’ai jamais dit contrairement à ce qui a pu être colporté dans les médias que « tous les délinquants sont Arabes et noirs », mais que « la plupart des délinquants sont Arabes et noirs ».

Ma volonté n’a jamais été de stigmatiser «  les Noirs ou les Arabes » comme des délinquants, mais si cette phrase, sortie de tout contexte, a pu heurter, je le regrette.

La mise en scène tout de gouaille cynique d’un Ardisson sur Canal +, qui prévient d’avance par un panneau comme dans les dessins animés de Tex Avery : « Attention, Zemmour dérape », et qui mime un effarement scandalisé d’autant plus surjoué qu’il est enregistré et inséré a posteriori, tandis que pendant l’émission, il avait pris un air patelin, pour me glisser à l’oreille : « Tu as un rôle très important dans la société de dire les vérités qui dérangent… Ne t’inquiète pas, je te protégerai au montage… » Car si mes propos étaient si infâmes à ses yeux, que ne les a-t-il coupés au montage ?

D’autres sont allés plus loin. J’aurais déclaré : « Tous les Arabes et noirs sont délinquants. » C’est ainsi que l’a pris – ou a voulu le comprendre – un membre éminent du CSA, Rachid Arhab, qui a rétorqué à la cantonade : « On peut être Arabe et membre du CSA. » Mais était-ce le sujet ? Des journalistes m’ont même demandé si j’avais voulu dire qu’ils « étaient délinquants parce qu’arabes et noirs ». Et ils se sont étonnés que je refuse de leur répondre.Je n’ai bien entendu pas voulu dire tout cela. Je connais trop la souffrance réelle de mes compatriotes « arabes et noirs », honnêtes travailleurs, parents intègres, qui se sentent « salis » par les exactions des bandes de jeunes gens qui ont la même origine qu’eux. Je le sais d’autant mieux qu’avec mon patronyme, je me souviens du temps pas si lointain – les années 70 – où une bande de truands célèbres – les frères Zemmour – défrayaient la chronique criminelle, la honte dans les yeux de mon grand-père ; et accessoirement, l’attente interminable dans les aéroports pour la vérification vétilleuse – et sans ordinateur – de mon identité. Mon grand-père souffrait en silence pour « son nom traîné dans la boue », mais il n’a jamais prétendu que nos homonymes n’étaient pas des brigands de grand chemin !

On a volontairement oublié que ma désormais fameuse phrase n’était qu’une réponse aux arguments développés par les autres intervenants selon laquelle « la police n’arrête que les « Arabes et Noirs ». Cette double « stigmatisation » – et de la police républicaine – et des « Arabes et Noirs » ne choque personne. Les « Arabes et Noirs » peuvent être distingués du reste « de la communauté nationale » s’ils sont héros (le livre de Thuram exaltant les héros noirs) ou victimes. Dans tous les autres cas, il est infâme de les distinguer. Cette injonction universaliste conviendrait assez bien à mon tempérament assimilationniste. J’ai tendance à ne voir dans tous les Français que des enfants de la patrie, sans distinction de race ni de religion, comme dit le préambule de notre Constitution.

Mais voilà que l’on me reproche aussi cette position, que l’on juge désuète, très IIIe République, exhalant un fumet néo-colonialiste. Au nom du droit à la différence, de la modernité, on doit pouvoir exalter ses racines et l’enrichissement d’une société multiculturelle. Mais quand vous avez l’outrecuidance de montrer l’envers de ce décor riant, on redevient furieusement universaliste !

J’ai eu le malheur d’ajouter : c’est un fait ! J’aurais sans doute dû ajouter « malheureusement ». Je ne me réjouis ni pour eux ni pour la société française; mais l’autruche n’est pas mon modèle. On me rétorque un peu facilement qu’il n’y a pas de statistiques ethniques pour prouver mes dires. Pourtant, devant une commission parlementaire du Sénat, Christian Delorme, surnommé « le curé des Minguettes », ne déclarait il pas : « En France, nous ne parvenons pas à dire certaines choses parfois pour des raisons louables. Il en est ainsi de la surdélinquance des jeunes issus de l’immigration qui a longtemps été niée, sous prétexte de ne pas stigmatiser. On a attendu que la réalité des quartiers, des commissariats, des tribunaux, des prisons, impose l’évidence de cette surreprésentation pour la reconnaître publiquement. Et encore, les politiques ne savent pas encore en parler. »

Il y a quelques années, une enquête commandée par le ministère de la justice, pour évaluer le nombre d’imans nécessaires, évaluait le pourcentage de « musulmans dans les prisons » entre 70 et 80 %. En 2004, l’islamologue Farhad Khosrokhavar, dans un livre L’Islam dans les prisons (Balland) confirmait ce chiffre. En 2007, dans un article du Point, qui avait eu accès aux synthèses de la Direction centrale de la Sécurité publique (DCSP) et de la Direction centrale de la Police judiciaire (DCPJ), on évaluait entre 60 et 70 % des suspects répertoriés issus de l’immigration. Il y a près de dix ans, la commissaire Lucienne Bui Trong, chargée des violences urbaines à la direction centrale des RG, relevait que 85 % de leurs auteurs sont d’origine maghrébine. Dans un article du Monde, du 16 mars 2010, les rapports des RG sur les bandes violentes établissaient que 87 % étaient de nationalité française ; 67 % d’origine maghrébine et 17 % d’origine africaine. La « plupart » est donc, au regard de ces chiffres, le mot qui convient.

Mes contempteurs pourraient d’ailleurs me rétorquer que ces chiffres prouvent bien que les personnes issues de l’immigration sont défavorisées, puisque depuis Victor Hugo, on sait bien que c’est la misère qui crée la délinquance. On pourrait aussi rappeler que dans tous les pays d’immigration, les derniers arrivés donnent souvent les gros effectifs à la délinquance – Irlandais dans l’Amérique du XIXe siècle, Marocains dans l’Israël des années 50, Russes aujourd’hui. Ces arguments ne sont d’ailleurs pas sans fondement, mais on ne me les présente nullement. On exige seulement que je me taise.

On me reproche aussi de contester le principe de « discrimination ». Mais je continue de penser que le concept même de « discrimination » est dangereux, qu’il pousse à la délation et l’irresponsabilité. Depuis quand n’a-t-on plus le droit en France de contester le bien fondé d’une loi ? Cette question des discriminations est potentiellement explosive dans un pays égalitaire comme la France. Quand certains grands patrons déclarent qu’ils n’embaucheront plus désormais que [3]« des gens issus de l’immigration, et en tout cas pas des mâles blancs » [3], c’est aussi une discrimination, mais personne ne s’en soucie. C’est pour éviter ces querelles sans fin que j’explique que « la discrimination, c’est la vie », c’est à dire la liberté de choix. Il faut traiter les problèmes réels autrement. En tout cas, on peut en débattre dans un pays libre.Il existe aujourd’hui une ambiance délétère dans le débat démocratique français. Le pays de Voltaire – « Je ne suis pas d’accord avec vous mais je me battrai pour que vous puisiez le dire » – devient le pays de Torquemada qui tue l’hérétique pour sauver son âme. Pourquoi les journalistes qui prétendent faire un portrait de moi, s’empressent ils de demander à mes employeurs s’ils me garderont leur confiance ? Il y a aujourd’hui en France une ambiance maccarthyste qui réclame « l’interdiction professionnelle » comme exutoire des dérapages. C’est ma mort sociale qui est réclamée.

Notre rencontre a eu le mérite d’ouvrir un dialogue qui je l’espère pourra se prolonger, hors de l’enceinte d’un tribunal.

Je vous prie de croire, Monsieur le président, à l’assurance de mes sentiments distingués.

Eric Zemmour »
[
cc [4]] Novopress.info, 2010, Dépêches libres de copie et diffusion sous réserve de mention de la source d’origine
[
http://fr.novopress.info [5]]


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[1] Marianne.fr: http://www.marianne2.fr/Exclusif-Zemmour-repond-a-la-LICRA,-Mougeotte-se-fache,-ses-lecteurs-aussi_a189913.html

[2] jour de convocation d’Eric Zemmour pour l’entretien préalable à son licenciement du : http://fr.novopress.info/54025/enquete-exclusive-%E2%80%93-qui-veut-virer-eric-zemmour-du-figaro/

[3] qu’ils n’embaucheront plus désormais que : http://fr.novopress.info/35617/anne-lauvergeon-la-presidente-d%E2%80%99areva-veut-discriminer-%C2%AB-les-males-blancs-%C2%BB/

[4] cc: http://creativecommons.org/licenses/by-nc-sa/2.0/fr/

[5] http://fr.novopress.info: http://fr.novopress.info/

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dimanche, 28 mars 2010

Presseschau - 04/März 2010

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Presseschau

04/ März 2010

Einige Links. Bei Interesse anklicken...

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Kritik der instrumentellen Vernunft und des Atomismus

Charles Taylor über den Widerstreit der Ideale von Aufklärung und Romantik als Grundmotiv der neuzeitlichen bzw. im engeren Sinne modernen Entwicklung:

(...)
Soweit habe ich eine Karte unserer moralischen Landschaft gezeichnet, wie sie aus dem neunzehnten Jahrhundert hervorgeht, wobei ich die typisch neuzeitlichen moralischen Forderungen und die sie speisenden Moralquellen als Anhaltspunkte genommen habe. Es gibt jedoch eine weitere wichtige Problematik, die sich zum Schluß bemerkbar gemacht hat, und das ist der auch weiterhin stattfindende Kampf zwischen Aufklärung und Romantik. Wie die Auseinandersetzung zwischen Anhängern der technischen Entwicklung und Umweltfreunden bezeugt, geht dieser Kampf überall in unserer Kultur weiter. Diese beiden Stränge haben von Anfang an im Streit miteinander gelegen, denn expressivistische Theorien treten zum Teil als Kritik der Eindimensionalität der instrumentellen Vernunft in Erscheinung. Aber es ist auch zu seltsamen Koexistenzweisen innerhalb unserer Kultur gekommen. Um das besser zu verstehen, sollten wir zunächst die Wirkung und dann die nacheinander eintretenden Umgestaltungen des romantischen Expressivismus näher betrachten.
Der romantische Expressivismus entsteht aus dem Protest gegen das Aufklärungsideal der desengagierten instrumentellen Vernunft und die daraus hervorgehenden Formen des sittlichen und gesellschaftlichen Lebens: gegen eindimensionalen Hedonismus und Atomismus. Dieser Protest wird während des ganzen neunzehnten Jahrhunderts in verschiedenen Formen fortgesetzt und gewinnt immer mehr an Bedeutung, indes die Gesellschaft durch den kapitalistischen Industrialismus immer stärker in atomistischer und instrumenteller Richtung umgemodelt wird. Der Vorwurf gegen diese Daseinsweise besagt, daß sie das menschliche Leben fragmentiert: Sie teilt es in unverbundene Einzelbereiche wie Vernunft und Gefühl; sie scheidet uns von der Natur; und sie trennt uns voneinander. Dies ist der Vorwurf, den Schiller im sechsten seiner Briefe über die ästhetische Erziehung des Menschen erhebt, und bei Matthew Arnold stoßen wir wieder darauf. Überdies wird diese Daseinsweise beschuldigt, sie vermindere oder verhindere die Sinngebung. Das Leben werde eindimensional als Streben nach homogener Lust gesehen, ohne daß eine mit höherer Bedeutung ausgestattete Zielsetzung hervorsteche.
Daneben gibt es aber noch eine dritte Kritik, die expliziter politisch formuliert ist und darauf hinausläuft, daß der Atomismus – also ein Zustand, in dem jeder die eigenen Absichten individualistisch definiert und nur aus instrumentellen Gründen an der Gesellschaft festhält – die eigentliche Basis des Zusammenhalts zersetzt, den eine freie, partizipatorische Gesellschaft braucht, um am Leben zu bleiben. Auch dieser Kritik gibt Schiller im sechsten Brief eine einflußreiche Formulierung. Doch auf einer diffizileren Ebene wird sie von Tocqueville aufgegriffen, der sie mit der ganzen Tradition des Denkens über republikanische Regierungsformen in Zusammenhang bringt. Tocqueville geht der alten Vorstellung nach, derzufolge ein zu großes Interesse an Selbstbereicherung eine Gefahr für die öffentliche Freiheit darstellt, die verlangt, daß wir uns dem öffentlichen Leben widmen, anstatt in der Sorge um das individuelle Wohl aufzugehen, das wir durch rein instrumentelle Vernunft anstreben.
Freiheitsliebe ist, wie Tocqueville schreibt, unerläßlich für die Bürger.

„Die Freiheit allein [...] ist fähig, die Bürger dem Kult des Geldes und den täglichen kleinlichen Plagen ihrer Privatangelegenheiten zu entreißen, um sie jeden Augenblick das Vaterland über und neben ihnen wahrnehmen und fühlen zu lassen; sie allein läßt von Zeit zu Zeit die Lust am behaglichen Leben durch tüchtigere und erhabenere Leidenschaften verdrängen, bietet dem Ehrgeiz edlere Gegenstände als die Erwerbung von Reichtümern [...].“

Seit Schiller, seit Tocqueville, auch seit Humboldt und gewissermaßen auch seit Marx ist die Romantik eine Teilquelle eines wichtigen Bereichs politischer Alternativanschauungen, die die im Abendland heranwachsende instrumentalistische, bürokratische und industrielle Gesellschaft kritisieren. (...)

(Charles Taylor: Quellen des Selbst. Die Entstehung der neuzeitlichen Identität, 3. Auflage, Frankfurt am Main 1999, S. 720 ff.)

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Vor Merkels Ankara-Besuch
Erdogan will das Türkische in Deutschland stärken
Der türkische Ministerpräsident Recep Tayyip Erdogan verlangt von der Bundesregierung eine andere Integrationspolitik. Unter anderem fordert er türkisch geprägte Ausbildungen und die doppelte Staatsbürgerschaft. Denn auch wenn ein Türke seine Staatsbürgerschaft ablege, ändere das nichts an seiner ethnischen Herkunft.
http://www.welt.de/politik/deutschland/article6908359/Erdogan-will-das-Tuerkische-in-Deutschland-staerken.html

Treffen mit Merkel
Erdogan fordert türkische Gymnasien in Deutschland
Kurz vor dem Türkei-Besuch von Angela Merkel legt Ministerpräsident Recep Tayyip Erdogan seinen Forderungskatalog vor: In einem Interview plädiert er für türkische Gymnasien in Deutschland und fordert die EU-Vollmitgliedschaft.
http://www.spiegel.de/politik/ausland/0,1518,685438,00.html

Alternativvorschlag: Wie wäre es denn mit Türkisch-Kursen im Heimatland zwecks Reintegration in der Türkei im Rahmen eines großangelegten Rückkehrprogramms?

Maltesische Notizen I
Von Karlheinz Weißmann
Im kleinen Museum der Zitadelle von Victoria findet sich eine Gedenkplatte, die an Bernardo Dopuo erinnert. Mit dürren Worten wird der Besucher darüber informiert, daß es sich um einen Soldaten handelte, der angesichts der türkischen Belagerung der Festung Frau und Töchter getötet habe, um sie nicht in die Hände des Feindes fallen zu lassen.
http://www.sezession.de/13334/maltesische-notizen-i.html

Den nationalen Selbstbehauptungswillen kann man ihnen jedenfalls nicht absprechen (im Gegensatz zur politischen Klasse in Großbritannien, Deutschland und anderswo in Europa) ...
Killerkommando gegen Hamas-Führer
London gibt Israel Schuld an Dubai-Mord
Bislang gab es nur vage Verdächtigungen. Jetzt hat Großbritannien als erstes westliches Land Israel für das mutmaßliche Attentat auf einen Hamas-Anführer in Dubai verantwortlich gemacht – und weist einen israelischen Diplomaten aus. Laut „Times“ könnte es sich um den Londoner Mossad-Chef handeln.
http://www.spiegel.de/politik/ausland/0,1518,685307,00.html

Bundesrepublikanischer Irrsinn ...
Kundus-Bombardement
Bundesanwaltschaft ermittelt gegen Oberst Klein
Die Bundesanwaltschaft hat im Fall des Kundus-Bombardements ihre Zuständigkeit erklärt. Oberst Klein steht im Verdacht, ein Kriegsverbrechen begangen zu haben.
http://www.zeit.de/politik/deutschland/2010-03/oberst-klein-bundesanwaltschaft

Hier klingt es schon etwas anders ...
Kunduz-Affäre
Bundesanwälte laden Oberst Klein vor
Von Matthias Gebauer
Deutschlands oberste Staatsanwälte starten ihre Ermittlungen gegen Oberst Klein: In dieser Woche müssen der Bundeswehrkommandeur, sein Flugoffizier und zwei weitere Soldaten in Karlsruhe zum umstrittenen Bombenbefehl von Kunduz aussagen. Um eine Anklage wegen Kriegsverbrechen werden sie wohl herumkommen.
http://www.spiegel.de/politik/deutschland/0,1518,685099,00.html

Afghanistan
Nato-Soldaten fürchten neue Taliban-Bombe
Von Florian Flade
Die RAF benutzte eine solche Bombe beim Attentat auf Alfred Herrhausen. Im Irak wird sie von US-Soldaten gefürchtet. Jetzt setzten die Taliban die EFP-Bombe in Afghanistan ein. Ein Anschlag wurde per Video dokumentiert. Seit die Taliban mit EFP bomben, steigt die Zahl der Anschlagsopfer unter den Nato-Soldaten stetig.
http://www.welt.de/politik/ausland/article6911353/Nato-Soldaten-fuerchten-neue-Taliban-Bombe.html

Srebrenica
US-General gibt Schwulen Mitschuld an Massaker
http://www.abendblatt.de/politik/ausland/article1428113/US-General-gibt-Schwulen-Mitschuld-an-Massaker.html
http://www.tagesspiegel.de/politik/art771,3062308

Wut auf russischen Ölmulti
Unfalltote zweiter Klasse
Von Matthias Schepp, Moskau
Zwei Frauen starben in Moskau, weil der Vizechef des russischen Ölkonzerns Lukoil sich nicht an die Verkehrsregeln hielt. Eine beispiellose Wutwelle im Internet verhindert, daß der Unfall vertuscht wird – jetzt verlangt sogar Präsident Dmitrij Medwedew Aufklärung.
http://www.spiegel.de/politik/ausland/0,1518,685234,00.html

Proteste begleiten CDU-Parteitag
MÜNSTER. Mit einer Protestaktion haben Mitglieder der Aktion „Linkstrend stoppen“ am Sonnabend zu Beginn des CDU-Landesparteitags in Münster auf den Verlust christlich-konservativer Werte in der Union hingewiesen.
Mit einem Transparent mit der Aufschrift „Wir sind die Basis“ sorgten die Protestierer für Aufmerksamkeit und Unmut unter den Delegierten in der Münsterlandhalle.
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M5bb8eaf4cbe.0.html

Impressionen aus Berlin
Einsatz beim kleinen Parteitag der CDU in Berlin
Heute führte ein Team von Aktivisten der Aktion Linkstrend Stoppen einen Einsatz beim „kleinen Parteitag“ (Bundesausschuß) der CDU in Berlin durch.
Von Parteiordnern und Polizei auf Abstand gehalten konnten dennoch Flugblätter mit dem Manifest gegen den Linkstrend der CDU verteilt werden und auch eine Protestaktion vor der Parteizentrale der CDU durchgeführt werden.
http://www.linkstrend-stoppen.de/index.php?id=45&tx_ttnews%5Btt_news%5D=62&cHash=8ff0c6d5d053389851a1b9fceb333307

Merkel: „Wir können das wuppen“
Von Robin Alexander
Kleiner Parteitag der CDU – Gröhe als Generalsekretär gewählt
Berlin – Auch früher kam vor, daß Veranstaltungen der CDU von Demonstranten belagert wurden. Aber die zwei Handvoll junge Leute in T-Shirts mit dem Aufdruck „Linkstrend stoppen!“, die sich gestern vor dem Bundesausschuß, dem sogenannten kleinen Parteitag, filmen lassen, sind selber die CDU. Jedenfalls behaupten sie das: „Wir sind die Basis“ steht auf ihrem Transparent. Sie klagen, die Führung gebe konservative Positionen auf. Die meisten Delegierten sehen mit ihnen keinen Gesprächsbedarf – sie gehen wortlos vorbei.
http://www.welt.de/die-welt/politik/article6890270/Merkel-Wir-koennen-das-wuppen.html

EU-Länder einigen sich
Griechenland-Hilfe wird für Deutschland teuer
Von Katharina Schäder
Kanzlerin Merkel hat sich beim EU-Gipfel durchgesetzt. Die Euro-Länder stimmten dem Entwurf von Merkel und Sarkozy zu – freiwillige bilaterale Kredite und Finanzspritzen des Internationalen Währungsfonds. Deutschland müßte bis zu fünf Milliarden Euro zahlen. Griechenland will mögliche Kredite aber nicht nutzen.
http://www.welt.de/politik/deutschland/article6930616/Griechenland-Hilfe-wird-fuer-Deutschland-teuer.html

Uns fehlen 6,2 Billionen Euro
Generationenbilanz zeigt: Staatsverschuldung ist weit größer als angenommen
Von Dorothea Siems
Berlin – Die Verschuldung des deutschen Staates ist weit größer als offiziell ausgewiesen. Nach Berechnungen des Freiburger Finanzwissenschaftlers Bernd Raffelhüschen im Auftrag der liberalen Stiftung Marktwirtschaft klafft in den öffentlichen Haushalten eine Nachhaltigkeitslücke von 6,2 Billionen Euro. Zur Begleichung dieser tatsächlichen Schuldenlast müßte jeder Bundesbürger – also vom Neugeborenen bis zum Rentner – bis zum Lebensende zusätzlich zu seinen Steuern und Sozialabgaben jeden Monat 279 Euro an den Staat abführen.
http://www.welt.de/die-welt/wirtschaft/article6876456/Uns-fehlen-6-2-Billionen-Euro.html

Kampagne „Man spricht Deutsch“
Westerwelle will Siegeszug des Englischen stoppen
Von Stephanie Lob
Deutsch soll Arbeitssprache im Auswärtigen Dienst der EU werden. Dafür kämpft Außenminister Guido Westerwelle. Deutsch ist die am meisten gesprochene Muttersprache in Europa. Europa-Politikern geht Westerwelles Ansinnen dennoch zu weit. Sie verspotten seine „Man-spricht-Deutsch“-Kampagne.
http://www.welt.de/politik/deutschland/article6898037/Westerwelle-will-Siegeszug-des-Englischen-stoppen.html

Sperrgesetz
Ministerrat drängt auf europäischen Web-Filter
Das Stopp-Schild ist zurück: Auf europäischer Ebene wird weiter auf Sperrlisten und Filtersysteme gegen die Darstellung von Kindesmißhandlungen im Internet gesetzt. In einem Entwurf unterstützt der Ministerrat den Einsatz der Netzfilter in ganz Europa.
http://www.spiegel.de/netzwelt/netzpolitik/0,1518,685533,00.html

Nahrungsmittel
EU nennt deutsches Brot ungesund, Bäcker empört
Die EU-Kommission hat sich auf deutsches Brot eingeschossen. Angeblich sei der Salzgehalt zu hoch, das Grundnahrungsmittel sei daher ungesund. Nun soll der Salzgehalt kennzeichnungspflichtig werden. Das deutsche Bäckerhandwerk fürchtet um seinen guten Ruf.
http://www.welt.de/wirtschaft/article6891266/EU-nennt-deutsches-Brot-ungesund-Baecker-empoert.html

Energiegewinnung
Bill Gates will mit Mini-Meilern die Kernkraft revolutionieren
Microsoft-Gründer Bill Gates treibt seinen Traum von effizienter und sauberer Energie voran. Eine von dem Multimilliardär finanzierte Firma lotet den Bau von Mini-Atomkraftwerken aus. Sie sollen jahrzehntelang ohne Wartung Strom produzieren.
http://www.spiegel.de/wissenschaft/technik/0,1518,685289,00.html

Die Zukunft des Kapitalismus
Kapitalismus ist unser faustischer Pakt
Von Charles Taylor
Ohne wirtschaftliche Entwicklung können wir nicht leben. Aber gleichzeitig droht die entfesselte Ökonomie, unsere ökologischen und kulturellen Grundlagen zu zerstören
http://www.zeit.de/2005/19/Kapitalismus_2fTaylor

Interessante Diskussion ...
Der linksliberale Gutmensch
[Lesenswert sind eigentlich nur die Beiträge von „Agrippa“!]
http://www.politik-forum.at/der-linksliberale-gutmensch-t834.html

Wirbel um „bock“, eine neue nationalistische Schülerzeitschrift aus Hannover ...
http://www.taz.de/1/nord/artikel/1/nazis-haben-bock-auf-schueler/
http://de.altermedia.info/general/schuelerzeitung-in-hannover-%E2%80%9Ebock%E2%80%9C-auf-veraenderung-11-03-10_41554.html
http://www.redok.de/content/view/1670/36/
http://ag-voralb.net/?p=386
http://www.endstation-rechts.de/index.php?option=com_k2&view=item&id=4592%3Ahausfriedensbruch-rechtsextreme-sch%C3%BClerzeitung-bock-in-schule-verteilt&Itemid=467
http://hannovergegennazis.blogsport.de/2010/03/11/hannover-neonazis-verteilen-schuelerzeitung/
http://www.jungepresse-online.de/
http://dokmz.wordpress.com/2010/03/11/broschuren-mit-rechtem-inhalt-an-schulen-in-hannover-verteilt/

Auch das ist Werbung ...
NDR und Schülerzeitung „bock“
http://de.altermedia.info/general/auch-das-ist-werbung-der-ndr-und-die-schulerzeitung-bock-21-03-10_42178.html

So sah der „ausgewogene“ Beitrag des NDR-Kulturjournals zur Schülerzeitung der „bock“ aus ...
Kulturjournal
NDR: Mo, 22.03.2010, 22:30–23:00 Uhr
http://www.youtube.com/watch?v=xlB2KYMnqRs

Nach Polizistentod durch Hells-Angels-Mitglied: Verbot von Rockerbanden schwierig
http://www.rp-online.de/panorama/deutschland/justiz/Verbot-von-Rockerbanden-schwierig_aid_834264.html

Christian Pfeiffer zieht Vergleich von Rockerbanden und Neonazis
Pfeiffer: Neonazis und Rockerbanden sind „desselben Geistes Kind“
http://www.dradio.de/dkultur/sendungen/thema/1146298/

Potsdam
Extremismus: „Explosives Gemisch“
Polizeichef befürchtet, daß die rechte Szene sich verfestigt
http://www.maerkischeallgemeine.de/cms/beitrag/11756049/60709/Polizeichef-befuerchtet-dass-die-rechte-Szene-sich-verfestigt.html#

System-Journalisten kaufen „Nazis“ bzw. Nazidarsteller ...
FPÖ: Strache: Vernehmungsprotokolle beweisen ORF-Manipulation!
http://www.ots.at/presseaussendung/OTS_20100324_OTS0268

Umfrage
Viele Deutsche scheuen Leben im Sozialismus nicht
Sozialismus statt Demokratie: Eine große Mehrheit der Deutschen kann sich laut einer Umfrage vorstellen, in einem sozialistischen Staat zu leben. Fast jeder Vierte wünscht sich demnach sogar hin und wieder die Mauer zurück.
http://www.spiegel.de/politik/deutschland/0,1518,683548,00.html

Umfrage: Jeder Vierte wünscht sich Mauer zurück
http://nachrichten.rp-online.de/article/politik/Umfrage-Jeder-Vierte-wuenscht-sich-Mauer-zurueck/70970
http://www.welt.de/news/article6782109/Mauer-noch-nicht-aus-Koepfen-verschwunden.html

Verlagsgebäude attackiert
Wilmersdorf – Unbekannte haben am Wochenende Farbbeutel gegen die Fassade eines Geschäftsgebäudes am Hohenzollerndamm geworfen, in dem die bei Rechten beliebte Zeitung „Junge Freiheit“ ihren Sitz hat. Ein Zeuge hatte die Sachbeschädigungen am Sonntagabend festgestellt. Auch ein Firmenschild wurde von den Tätern beschmiert. Der Staatsschutz ermittelt. AG
http://www.tagesspiegel.de/berlin/art270,3063930
http://www.berlin.de/polizei/presse-fahndung/archiv/159536/index.html

Tramfahrer legte umstrittene Zeitung aus
Potsdam – Ein Straßenbahnfahrer des Potsdamer Verkehrsbetriebs (ViP) steht in der Kritik, für eine umstrittene Zeitschrift geworben zu haben. Wie ViP-Chef Martin Weis bestätigte, habe es bereits am vergangenen Donnerstag eine entsprechende telefonische Beschwerde gegeben. Auch im Internet existieren Einträge über den Vorfall.
So soll ein Tramfahrer in der Linie 99 ein Exemplar der Wochenzeitung „Junge Freiheit“ offen sichtbar in die Auslage hinter dem Fahrersitz gesteckt haben – sonst der Platz für Eigenwerbung und andere Handzettel des Verkehrsunternehmens. Die „Junge Freiheit“ gilt unter Politikwissenschaftlern als Publikationsorgan von rechtsgerichteten Intellektuellen, ohne aber offen rechtsextreme Positionen zu vertreten. Der verantwortliche Fahrer ist inzwischen bekannt, ob es Konsequenzen gibt, ließ Weis offen: „Wir werden mit ihm sprechen.“ Es sei generell nicht erlaubt, in ViP-Fahrzeugen ungenehmigte Werbung zu machen. Zudem würde in den Fahrzeugen prinzipiell auf politische, religiöse und weltanschauliche Meinungen verzichtet, so Weis: „Unsere Fahrer sind außerdem angewiesen, an Endhaltestellen die Auslagen zu prüfen.“ HK
http://www.tagesspiegel.de/berlin/Brandenburg;art128,3064900

Wirbel um Potsdamer Straßenbahnfahrer, der JUNGE FREIHEIT liest
JF-Chefredakteur Dieter Stein kündigt Verteilaktion in Potsdam an und lädt in den Verlag ein
http://www.news4press.com/Wirbel-um-Potsdamer-Stra%C3%9Fenbahnfahrer-d_521019.html

Die ganz große Volksverdummung beim inszenierten „Aufstand der Anständigen“: „Die meisten Straftaten gehen noch immer auf das Konto der extremen Rechten“
von André F. Lichtschlag
Und vor allem: „Tramfahrer legte umstrittene Zeitung aus!“
http://ef-magazin.de/2010/03/24/1952-die-ganz-grosse-volksverdummung-beim-inszenierten-aufstand-der-anstaendigen-die-meisten-straftaten-gehen-noch-immer-auf-das

Linke Gewalt in Deutschland steigt stark an
BERLIN. Die Zahl linker Straftaten hat im vergangenen Jahr stark zugenommen. Wie das Bundesinnenministerium am Dienstag mitteilte, sei im „Phänomenbereich politisch motivierte Kriminalität – links“ mit 9.375 registrierten Straftaten ein Anstieg um 39,4 Prozent zu verzeichnen gewesen. Die politisch motivierte Kriminalität von rechts sei dagegen um 4,7 Prozent auf 19.468 festgestellte Taten zurückgegangen.
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M587ef4816bb.0.html

Innenminister de Maiziere besorgt über steigende Gewalt gegen Polizisten
http://www.focus.de/politik/weitere-meldungen/deutschland-innenminister-de-maiziere-besorgt-ueber-steigende-gewalt-gegen-polizisten_aid_492267.html

„Der Linksextremismus wurde unterschätzt“
Bundesinnenminister Thomas de Maizière über brennende Autos, prügelnde Jugendliche und schärfere Gesetze
http://www.welt.de/die-welt/politik/article6904991/Der-Linksextremismus-wurde-unterschaetzt.html

Ulla Jelpke übt sich in der kommunistischen „Jungen Welt“ in der üblichen Verharmlosung linker Gewalt und propagiert zugleich den Anspruch, die Erteilung oder Verweigerung der demokratischen Grundrechte in die eigene Hand nehmen zu wollen ...
Verlogene Propaganda
„Weckruf“ des Innenministers
http://www.jungewelt.de/2010/03-25/035.php

Punk-Foto-Archiv
Rund 4400 Bilder von 1978–2007. Jede Menge ganz frühes Material, dazu Chaos-Tage, APPD etcpp.
http://www.punkfoto.de

Die Grüne Pest – ein Multikulturelles Forum? Aber ja!
http://die-gruene-pest.com/index.php

„Rotlackierte Faschisten“: CDU-Politiker erhält Rüge im Bundestag
BERLIN. Der hessische CDU-Abgeordnete Peter Tauber ist von Bundestagsvizepräsidentin Karin Göring-Eckardt (Grüne) gerügt worden, weil er die Linkspartei als „rotlackierte Faschisten“ bezeichnet hat. Die Linkspartei will nun Strafanzeige gegen Tauber wegen Volksverhetzung stellen.
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M58f01cad71c.0.html

Stasi-Fall Lötzsch: Wieland fordert eine Erklärung
Von Dirk Banse;Uwe Müller
Berlin – Nach der Enttarnung des Ehemanns der designierten Linkspartei-Chefin Gesine Lötzsch als Stasi-Spitzel fordert der innenpolitische Sprecher der Grünen im Bundestag, Wolfgang Wieland, seine Abgeordnetenkollegin zu einer umfassenden Erklärung auf. „Frau Lötzsch ist schon des öfteren als Fürsprecherin von ehemaligen Stasi-Mitarbeitern aufgetreten, hat deren Untaten aber nicht erwähnt. Die spannende Frage ist, ob sie diesen Beschützerinstinkt nun auch für ihren Mann entwickelt“, sagte Wieland der WELT.Unter Berufung auf Dokumente aus der Birthler-Behörde hatte diese Zeitung berichtet, daß sich Ronald Lötzsch (78) im März 1962 zu einer inoffiziellen Zusammenarbeit mit dem Ministerium für Staatssicherheit (MfS) verpflichtet und bis in die 80er Jahre als IM „Heinz“ vor allem Kollegen an der Akademie der Wissenschaften in Berlin bespitzelt hatte. Bislang hatte Gesine Lötzsch ihren Mann, der 1957 wegen angeblicher Beihilfe zum Staatsverrat zu drei Jahren verurteilt worden war und davon 23 Monate in Bautzen absaß, stets ausschließlich als Opfer dargestellt. Jetzt will sie nicht mehr über ihn reden.
http://www.welt.de/die-welt/politik/article6811044/Stasi-Fall-Loetzsch-Wieland-fordert-eine-Erklaerung.html

Der unvermeidliche Kellerhoff. Auch in diesem Artikel wiederholt er sein Mantra von deutscher „Alleinschuld“ und einem angeblich von der Wehrmacht geführten allgemeinen „Vernichtungskrieg“ ...
Dresden
Bundeswehr baut Militärmuseum der Superlative
Von Sven Felix Kellerhoff
In Dresden entsteht das größte Geschichtsmuseum Deutschlands. Von Ende 2011 an wird dort Kriegsgeschichte präsentiert wie nirgends sonst weltweit. Das Museum ist keine stolze Waffenschau, sondern zeigt in aller Härte die Wirkung militärisch organisierter Gewalt gegen Menschen.
http://www.welt.de/kultur/article6870718/Bundeswehr-baut-Militaermuseum-der-Superlative.html

Vom Elend der deutschen Zeitgeschichte
Von Stefan Scheil
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M50123411494.0.html

Pathologisch ...
Mittenwald erinnert mit Denkmal an Opfer der Gebirgsjäger
MITTENWALD. In Mittenwald ist am Sonntag ein umstrittenes Denkmal eingeweiht worden, mit dem eine linke Gruppe an Opfer von Kriegsverbrechen im Zweiten Weltkrieg erinnern will. Erstellt wurde das Denkmal mit dem Titel „Stein des Anstoßes“ vom „Arbeitskreis Angreifbare Traditionspflege“. Die Gruppierung organisiert seit Jahren die Proteste gegen die traditionelle Gedenkfeier am Ehrenmal für die Gefallenen der Gebirgstruppe am Hohen Brendten bei Mittenwald.
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M5fc3aa3b6e4.0.html

Nicht jeder mag von Massenvergewaltigungen wissen
Von Ellen Kositza
In der Februar-Ausgabe der Sezession (2010) verfaßte unser Autor Olaf Haselhorst eine kleine Rezension zum Buch des Völkerrechtlers und ehemaligen Hamburger Justizsenators Ingo von Münch, „Frau, komm!“ Massenvergewaltigungen deutscher Frauen und Mädchen aus dem Ares-Verlag. Der letzte Satz aus Haselhorsts Besprechung lautete: „Die grauenhaften Tatschilderungen müssen jeden Leser zutiefst erschüttert zurücklassen.“
http://www.sezession.de/13315/nicht-jeder-mag-von-massenvergewaltigungen-wissen.html

Dresdner Opferzahlen
Nach wissenschaftlichen Gesichtspunkten gearbeitet
Den Bombenangriffen auf Dresden sind nach Ansicht der von der Stadt eingesetzten Historikerkommission 25.000 Menschen zum Opfer gefallen. Das Ergebnis hat für heftige Reaktionen gesorgt und der Kommission den Vorwurf eingebracht, sie habe die Zahlen kleingerechnet. Der Luftkriegsexperte Horst Boog verteidigt in der JUNGEN FREIHEIT die Forschungsergebnisse
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M5b48c42a19a.0.html

Dresden: Historiker zu Bombennacht
Mindestens 20.000 Tote, keine Tiefflieger
http://www.sueddeutsche.de/politik/104/506286/text/

25.000 starben in der Dresdner Bombennacht
http://www.sz-online.de/nachrichten/artikel.asp?id=2415552

Weltbürgerkrieg der Ideologien ...
Urteilsspruch
Die feigen Morde des Heinrich Boere
http://www.focus.de/politik/deutschland/tid-17670/tid-17671/urteilsspruch-die-feigen-morde-des-heinrich-boere_aid_492220.html

Linkstrend der konfliktscheuen Union ist offenbar nicht zu stoppen ...
Berliner CDU setzt sich für Kopftuch ein
BERLIN. Der Berliner CDU-Landesverband hat ein Integrationskonzept vorgestellt, mit dem gezielt Zuwanderer angesprochen werden sollen. „Integration muß zur Chefsache werden“, sagte der CDU-Vorsitzende Frank Henkel bei der Präsentation des Positionspapiers vergangene Woche. Berlin stehe am Scheideweg „eines friedlichen Zusammenlebens oder eines steigenden gesellschaftlichen Konfliktes“.
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M560bf5d6ed6.0.html

In diesem Zusammenhang und auch mit Blick auf die neuerlichen Forderungen Erdogans lesenswert ...
Offener Brief an Merkel
http://www.sezession.de/wp-content/uploads/2009/08/Offener-Brief-an-Merkel.pdf

Nicht mehr ganz neu, aber trotzdem bezeichnend ...
Deligöz: Zu wenig türkischstämmige Migranten in den Parlamenten
Grünen-Abgeordnete Ekin Deligöz habe gesagt, daß sowohl in den Landesparlamenten als auch in den Stadträten zu wenige türkischstämmige Migranten vertreten sind. Die Zeit sei schon längst gekommen, daß diejenigen, die seit 50 Jahren teilweise mehr für das Land getan haben als die eigenen Bürger und es mehr als manch anderer verinnerlichen und lieben, nun auch gleichberechtigt in den jeweiligen Parlamenten vertreten werden. (SABAH)
http://www.migazin.de/2009/10/15/turkische-presse-europa-14-10-2009-sarrazin-bertrams-integrationsministerium/2/

Riß durch Delmenhorster FDP
Kommunalpolitik Ex-Parteimitglieder: Kreisverband türkisch-national unterwandert
Das Tischtuch ist zerschnitten zwischen dem Delmenhorster FDP-Vorstand und der Ratsfraktion. Die letzteren wollen jetzt eine eigene Gruppe aufmachen.
von Wolfgang Bednarz, Redaktion Delmenhorst
http://www.nwzonline.de/Region/Artikel/2300788/Riss+durch+Delmenhorster+FDP.html
http://www.pi-news.net/2010/03/moslems-spalten-fdp-kreisverband/#more-126661

Türkischer Geheimdienst in Einbruchserie bei Berliner Behörden verwickelt
München. Der türkische Geheimdienst MIT war offenbar in drei spektakuläre Einbrüche bei Berliner Behörden im Juli 2009 involviert. Das berichtet das Nachrichtenmagazin FOCUS unter Berufung auf Erkenntnisse der Berliner Staatsanwaltschaft. Die Behörde hat laut FOCUS Ende Februar unter dem Aktenzeichen 68 JS 57/10 Anklage gegen einen mutmaßlichen Täter erhoben. Anfang Juli 2009 hatten Einbrecher in der Berliner Ausländerbehörde und in zwei Bürgerämtern über 5000 Reisedokumente erbeutet. Darunter waren Blanko-Exemplare von vorläufigen Reisepässen, Visa, Aufenthalts- und Niederlassungserlaubnissen sowie Dienstsiegel und Stempel.
http://www.focus.de/magazin/kurzfassungen/focus-12-2010-tuerkischer-geheimdienst-in-einbruchserie-bei-berliner-behoerden-verwickelt_aid_491572.html

Überfall im Grand Hyatt
Poker-Ganoven sollen im Auftrag gearbeitet haben
Die vier Täter sind alle in Haft – aber sind sie auch die Drahtzieher des Überfalls auf das große Pokerturnier in Berlin? Eine Berliner Zeitung berichtet nun von Hinweisen, daß die Täter nicht selbständig handelten. Die Festnahmen wiederum sollen mit einer Clan-Fehde zusammenhängen.
http://www.spiegel.de/panorama/justiz/0,1518,684843,00.html

Polizeigewerkschaft: Familienclans bilden eine massive Bedrohung in Berlin
Berlin (ddp-bln). Die Deutsche Polizeigewerkschaft sieht durch kriminelle Clans aus Zuwandererfamilien die Sicherheit in Berlin stark gefährdet. „Wenn man kriminelle Großfamilien aus dem Verkehr ziehen würde, ginge es Berlin viel besser“, sagte der Landesvorsitzende der Deutschen Polizeigewerkschaft Berlin (DPolG), Bodo Pfalzgraf, in einem Gespräch mit der Nachrichtenagentur ddp. In der Hauptstadt gebe es 15 ausländische Familienbanden, die ihr „Einkommen ausschließlich über Sozialleistungen oder kriminelle Machenschaften beziehen“. Am Pokerraub auf das Berliner Grand Hyatt Hotel am 6. März waren nach Pfalzgrafs Worten Angehörige von zwei dieser Großfamilien beteiligt.
„Deutsches Recht interessiert solche Banden nicht“, sagte der DPolG-Landesvorsitzende. Die Entscheidungen treffe das Familienoberhaupt. In Berlin seien die 13 arabischen und zwei türkischen Großfamilien unter anderem durch Schutzgelderpressung, Drogenhandel oder Prostitution aufgefallen. Teils hätten die betroffenen Familien in Neukölln, Wedding und Spandau „ganze Straßenzüge“ unter sich aufgeteilt.
http://www.dernewsticker.de/news.php?id=179911&i=ndhfnd

Auch hier waren es „Südländer“ ...
Hamburg-Billstedt
Gang prügelt brutal auf jungen Mann ein
Sie traten und schlugen gnadenlos zu. Immer wieder – bis sich das Opfer nicht mehr rührte. Etwa fünf bis sechs Heranwachsende haben in der Nacht zum Sonnabend in Billstedt einen 19jährigen für ein paar Euro beinahe umgebracht.
VON THOMAS HIRSCHBIEGEL
http://www.mopo.de/2010/20100321/hamburg/panorama/gang_pruegelt_brutal_auf_jungen_mann_ein.html

„Gewalt ist eine Lösung“
Von Felix Menzel
Seine Gewaltkarriere begann als Jugendlicher. Eine Türkengang schikanierte den 14jährigen Stefan Schubert über Wochen und Monate hinweg. Aber im Gegensatz zu der Mehrzahl der „Drecks-Kartoffelfresser“ ließ er sich dies nicht ewig gefallen. Zwei Jahre lang hartes Training mit seinen Freunden und dann zeigte der junge Kerl aus der Bielefelder „Bronx“, „wer zukünftig Angst vor dem Schulweg haben sollte“.
http://www.sezession.de/13292/gewalt-ist-eine-loesung.html



24jähriger sticht 22jährigen in Offenbach nieder
Offenbach – Blutiges Ende eines Wortgefechts: Nach einem lautstarken Streit hat ein Mann gestern abend in der Offenbacher Innenstadt einen 22jährigen niedergestochen. Von Alexander Klug
http://www.op-online.de/nachrichten/offenbach/mann-sticht-mann-nieder-680537.html

Offenbach
Ein Raubüberfall und seine Folgen: Opfer steht unter Schock und ist arbeitsunfähig
Räuber kehrt als Kunde zurück
http://www.op-online.de/nachrichten/offenbach/taeter-kehrt-kunde-zurueck-686599.html

Heusenstamm
Internationale Wochen gegen Rassismus laufen auch im Jugendzentrum
Warum Freunde wichtig sind
http://www.op-online.de/nachrichten/heusenstamm/warum-freunde-wichtig-sind-675787.html

Dietzenbach
Schlägerei: Zwei Helfer mischen sich ein
http://www.op-online.de/nachrichten/dietzenbach/couragiert-gehandelt-674016.html

Dietzenbach
CDU will Moschee verhindern (oder auch wieder nicht) ...
http://www.fr-online.de/frankfurt_und_hessen/nachrichten/kreis_offenbach/2439025_Dietzenbach-CDU-will-Moschee-verhindern.html

Dazu der unvermeidliche Kommentar der linksgestrickten „Frankfurter Rundschau“ …
Kommentar
Gefährdet: Der soziale Frieden
http://www.fr-online.de/frankfurt_und_hessen/nachrichten/kreis_offenbach/2441839_Kommentar-Gefaehrdet-Der-soziale-Frieden.html

Vereinigung türkischer Akademikerinnen
Die gängigen Klischees widerlegen
http://www.op-online.de/nachrichten/frankfurt-rhein-main/gaengigen-klischees-widerlegen-675841.html

Lerngruppen, keine Noten, mehr Lehrer
Grundschulen in Hessen auf neuen Wegen
http://www.op-online.de/nachrichten/frankfurt-rhein-main/grundschulen-hessen-neuen-wegen-685278.html

Bildung
Frühe Einschulung verbaut Chance auf Gymnasium
Eine frühe Einschulung sollte eigentlich das Kind fördern: Doch auf dem Weg in die weiterführende Schule werden jüngere Kinder von den Lehrkräften trotz ausreichender intellektueller Fähigkeiten oft falsch eingeschätzt. Dadurch erfahren sie einen gravierenden Nachteil, behaupten Bildungsexperten.
http://www.welt.de/wissenschaft/article6884435/Fruehe-Einschulung-verbaut-Chance-auf-Gymnasium.html

Embryonalentwicklung
Was ein Baby im Bauch schon alles lernen kann
Von Sophia Seiderer
Sie lachen, lieben Gedichte und sind musikalisch: Ungeborene können mehr als Daumenlutschen. „Die Gebärmutter ist das erste Klassenzimmer des Menschen“, sagen Psychologen. Für viele ist es die schönste Schulzeit des Lebens – manche werden aber vom Ehrgeiz der späteren Eltern überfordert.
http://www.welt.de/wissenschaft/medizin/article6882632/Was-ein-Baby-im-Bauch-schon-alles-lernen-kann.html

Urmenschen
Aufrechter Gang ist 3,6 Millionen Jahre alt
Der aufrechte Gang wurde offenbar schon vor 3,6 Millionen Jahren erfunden. Das hat jetzt ein biomechanisches Experiment ergeben. Es basierte auf versteinerten Fußspuren – und Menschen, die versucht haben, wie Schimpansen zu laufen.
http://www.spiegel.de/wissenschaft/mensch/0,1518,684698,00.html

Sensationeller Knochenfund
Forscher finden Spur zu unbekannter Menschenart
Von Cinthia Briseño
Haben Forscher einen Homo incognitus entdeckt, eine bisher unbekannte Menschenart? In Südsibirien wurde der Fingerknochen einer 30.000 Jahre alten Leiche gefunden – die Gene unterscheiden sich von jenen des modernen Menschen und des Neandertalers. Die Wissenschaftler wähnen sich auf der Spur einer Sensation.
http://www.spiegel.de/wissenschaft/mensch/0,1518,685333,00.html

Ethik
„Was ist so schlimm am Sterben?“
Der Rettungsmediziner Michael de Ridder über seine Erlebnisse mit Todkranken, die Lebenserhaltung um jeden Preis und die ärztliche Beihilfe zum Suizid.
http://www.spiegel.de/spiegel/0,1518,684976,00.html

Maskuline Züge
Volksgesundheit beeinflußt Partnerwahl
Wer besonders maskulin aussieht, bringt gutes Genmaterial mit - das zumindest scheinen Frauen zu hoffen, die in Gesellschaften mit schlechter öffentlicher Gesundheit leben. Sie schwärmen eher für männliche Partner als für weniger kantig aussehende Männer, wie eine Studie ergab.
http://www.spiegel.de/wissenschaft/mensch/0,1518,684087,00.html

Aktuelle Studie
Übergrößen-Models sind keine gute Werbung
Immer häufiger lächeln uns Übergrößen-Models von Plakatwänden und aus dem Fernseher an. Werbekampagnen wie die der Kosmetikmarke Dove wollen Frauen mit durchschnittlicher Figur beweisen, daß schön nicht gleich schlank bedeuten muß. Eine aktuelle Studie zeigt jedoch, daß sie das Gegenteil bewirken.
http://www.welt.de/lifestyle/article6842371/Uebergroessen-Models-sind-keine-gute-Werbung.html

Antarktis
Nasa findet höhere Lebensformen in ungeahnter Tiefe
http://grenzwissenschaft-aktuell.blogspot.com/2010/03/nasa-findet-hohere-lebensformen-in.html

Warum Castingshows Kulturkampf sind
http://newsticker.sueddeutsche.de/list/id/961199

Tränen im TV
Fast-Food-Fans bringen Starkoch Oliver zum Heulen
Jamie Oliver hat ein hehres Ziel: Die Menschen sollen gesundes Essen auf den Tisch bekommen. In seiner britischen Heimat ist er seit Jahren kulinarisch-missionarisch unterwegs, nun hat er sich die USA vorgenommen. Doch sein erster Einsatz war zum Heulen.
http://www.spiegel.de/panorama/leute/0,1518,685394,00.html

samedi, 27 mars 2010

Sociaal kan enkel nationaal

Pieter VAN DAMME / http://www.n-sa.be/
Sociaal kan enkel nationaal
dam_workers.jpgIn het huidige sociaal-economische bestel is het patronaat, samen met diegenen die het financierskapitaal inbrengen en beheren met voorsprong de machtigste partij. Sociaal overleg is gebaseerd op een belangenstrijd waarbij werkgeversorganisaties overleggen met de vakbonden en waarbij uitgegaan wordt van een conflictsituatie met tegengestelde belangen én waarbij de ene partij machtiger is dan de andere. Veel solidarisme komt er in gans dit gebeuren niet aan te pas. In onze visie wijzen we klassenstrijd tussen loonarbeid en het industriële ondernemerschap af, omdat het beide “partijen” van de gemeenschappelijke strijd tegen het internationale woekerkapitaal dat beiden uitbuit afleidt van de kern van de zaak. Zolang er echter aanzienlijke delen van het ondernemerschap deze gemeenschappelijke noodzaak ontkennen en de lasten van de renteslavernij eenzijdig op de loontrekkenden afwentelen, moet sociale strijd op de werkvloer en aan de fabriekspoorten gesteund worden om tot een gemeenschappelijk front van alle scheppende krachten, zowel leidende als uitvoerende, tegen het financierskapitaal te komen. Onder meer daarom zal N-SA zich niet aan de zijde van populistisch rechts (VB, LDD) scharen dat te pas maar vooral te onpas de vakbonden met alle zonden van de wereld overlaadt.

Ja, meerdere kritieken op de werking van de vakbonden in dit verwerpelijke sociaal-economische systeem zijn juist en gerechtvaardigd. Ja de vakbondstop heeft haar belangen in het behoud van dit systeem. Ja, er is te weinig interne democratische besluitvorming. Ja, de klassieke kleurvakbonden beschermen hun positie door wettelijke afscherming tegen nieuwkomers op hun speelterrein. Enzovoort, enzovoort… Maar telkens gaat dit niet naar de kern van de zaak, tenzij deze zou zijn het nastreven van beschadiging of zelfs de vernietiging van die vakbonden zonder dat men het sociaal-economische systeem in vraag stelt. Wie de dupe van gans dit verhaal zou worden is snel bekend: de gewone man, de gesalarieerde! En daar doet N-SA niet aan mee.

De noodzakelijke kritiek op de vakbonden is in de eerste plaats dat hun visie niet aangepast is aan de kapitalistische omgeving van de vroege 21ste eeuw, waar multinationale ondernemingen (MNO’s) de wet dicteren. Vakbonden leveren hier achterhoedegevechten om de eenvoudige reden dat ze vanuit hun foutieve internationalistische reflex telkens weer de tanden stuk bijten op het nationalisme. Wanneer multinationale ondernemingen besparen en vestigingen sluiten, wordt het nationalisme springlevend. Elk land, elke vestiging, de meeste vakbondsvertegenwoordigers en arbeiders of bedienden schermen en strijden dan in de eerste plaats voor hun vestiging. Politici lopen de benen vanonder hun lijf om de CEO’s op hun knieën te gaan smeken toch maar de fabriek in hun land te sparen. De ganse Opel-Antwerpen-saga heeft het voldoende aangetoond: in andere landen waren de arbeiders blij dat niet hun fabriek maar wel Antwerpen sluit, volkomen begrijpelijk! In plaats van tegen dit nationalisme te vechten, zou men het nochtans kunnen en moeten gebruiken als wapen!

Sommigen in de vakbondswereld lijken dit ook te beseffen, maar om tot een consequente nationalistische ingesteldheid te komen is het water blijkbaar nog veel te diep. Zeer vaak schermt men nog met de stelling dat er op Europees vlak een vakbondseenheid moet komen. Blijkbaar beseft men niet dat de EU net een creatie is die de belangen van het patronaat en het financierskapitaal moet dienen. Voortdurend vraagt men een tegennatuurlijke houding aan de loontrekkenden aan te nemen, namelijk “solidair” te zijn met de arbeiders in andere landen zonder dat men met een concreet voorstel voor de dag kan komen om voorgestelde besparingen of vestigingssluitingen bij een MNO op te lossen zonder sociale bloedbaden in minstens één van de landen waar de MNO in kwestie actief is. En zelfs bij pogingen daartoe komt al snel een nationalistisch denken naar boven. Zo stelde Marc De Wilde, voorzitter van de ACV-centrale Metea recent in een vraaggesprek in Knack (3 feb. 2010, pp. 28-29) dat het belangrijk is ervoor te ijveren dat beslissingscentra in ons land blijven en in te zetten op “technologische en sociale innovatie”. Juist, en allemaal goed en wel, maar dit wordt ernstig bemoeilijkt (om niet te zeggen onmogelijk gemaakt) door diezelfde EU waar nog alle heil van wordt verwacht. Het liberaal extremisme van “vrij verkeer van goederen, diensten, personen en kapitaal” bepaalt de realiteit! En dus gaan de beslissingscentra al dan niet samen met productie-eenheden daar waar hen de meeste financiële en commerciële voordelen geboden worden. Het is geen toeval dat de nationale staten voortdurend door de EU uitgehold worden in hun slagkracht en bevoegdheden. Nu reeds is een aanzienlijk percentage van het aantal gestemde wetten in feite gewoon een formele invoering van wat door de EU werd opgelegd.

Kortom, wat noodzakelijk is, is een ommekeer in het denken bij velen die de sociale strijd genegen zijn en niet de volledige maatschappij willen overlaten aan het liberalistische marktextremisme. Sociaal kan enkel nationaal! Sociaal kan enkel door een performante nationale overheid die de winstbelangen van het internationale financierskapitaal en het erbij meeheulende patronaat een halt toeroept. Enkel het wetgevend organisme dat beschikt over het geweldmonopolie is bij machte regels uit te vaardigen en naleving ervan af te dwingen. Regels, die aan elke staatsburger naast een cultureel-identitaire zekerheid ook een sociale en economische zekerheid kunnen bieden. Romantische koekjesdozenpraat over internationale eenheid waarbij men wereldwijd (of Europa-wijd) elkaars handje vasthoudt heeft geen plaats meer in de sociaal-economische realiteit noch in de noodzakelijke hervormingen en veranderingen die moeten gebeuren. Samenwerking dient te berusten op een verspreiding en een versterking van nationale volksstaten over gans Europa. Staatsgrenzen zijn dé strijdmiddelen van de toekomst tegen het internationalistische grootkapitaal en zijn volgelingen. Daarom ijvert N-SA in de eerste plaats voor Vlaamse sociale republiek en steunt het gelijkgezinde bewegingen in de rest van Europa.


P. Van Damme
Coördinator N-SA 

jeudi, 25 mars 2010

En hommage à Hubert de Sy (1921-2010)

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En hommage à Hubert de Sy (1921-2010)

 

 

Nous avons appris avec tristesse le décès, en date du 3 mars 2010, dans sa quatre-vingt-neuvième année, d’Hubert de Sy, personnage extraordinaire dans la mesure où il incarnait encore un style soigné, une belle diction néerlandaise sans lourdeurs ni emphases pimentée d’understatements à la britannique, où transparaissaient humour et lucidité. Toujours tiré aux quatre épingles comme un digne représentant de la gentry, il donnait rendez-vous dans un bel établissement du centre de Bruxelles, de préférence dans les Galeries Royales Saint-Hubert, pour s’adonner, avec ses commensaux, à l’art de la conversation, dont il tirait la substance des réflexions qu’il couchait ensuite sur le papier.

 

Du Congo au « Vlaams Economisch Verbond »

 

Ce natif d’Ostende, au nom évoquant un village du cœur des Ardennes wallonnes, avait décidé de s’installer à Roosdaal dans le Pajottenland brabançon. De formation, Hubert de Sy était professeur du secondaire inférieur pour les langues néerlandaise et française et pour l’histoire. En 1946, il s’embarque pour le Congo belge : il va y accomplir des tâches administratives au Kivu et devenir ensuite attaché auprès du gouverneur de cette province congolaise du temps des colonies. Dans le cadre de cette fonction, il suivra un cours d’islamologie à l’Université Libre de Bruxelles, sous la houlette du Professeur Armand Abel. Le Kivu, province congolaise qui jouxte les petits pays de la zone de turbulences des Grands Lacs et qui subit aujourd’hui les affres d’une guerre qui n’en finit pas, était à l’époque déjà sous l’influence de prosélytes musulmans issus du Tanganyika (devenue « Tanzanie » après la fusion du Tanganyika, l’ex-Afrique orientale allemande, et de Zanzibar). L’administration coloniale belge voulait aborder le problème d’un éventuel télescopage entre islam, d’une part, animisme autochtone et catholicisme des pères blancs, d’autre part. Revenu des colonies africaines, Hubert de Sy entame une riche vie professionnelle dans les secteurs privés et publics et termine sa carrière au « Vlaams Economisch Verbond » en 1984.

 

Retraité, il décide de s’adonner à l’écriture, une écriture politique qui prend pour objet principal, sinon exclusif, la question flamande dans le cadre de l’Etat belge. Pour Hubert de Sy, qui se découvre flamand et même flamingant de raison à la fin de sa vie, cette Flandre rebelle se borne à protester, mais sans aucun résultat tangible. Quand ses représentants se retrouvent à la table des négociations, ils capitulent généralement sur toute la ligne ou se contentent de vagues compromis périphériques. Hubert de Sy va axer ses réflexions sur la question flamande au départ de la thèse de Lode Claes, énoncée au commencement des années 80, immédiatement après le début du processus de dissolution de la Volksunie et l’émergence timide (à l’époque) du Vlaams Blok, promettant plus de radicalité dans les revendications flamandes. Lode Claes, retiré de la politique car il ne souhaitait ni les capitulations ni les dérives gauchistes de la Volksunie ni les positions plus musclées du Vlaams Blok, avait parlé des Flamands comme d’une « majorité absente », c’est-à-dire d’une majorité numérique incapable de faire valoir ses desiderata dans le jeu démocratique et parlementaire. Le débat était ouvert et n’est pas encore clos : quels sont les facteurs qui font que cette majorité numérique demeure une minorité politique ? C’est la question que se posent les esprits indépendants de la veine d’un Hubert de Sy.

 

Faiblesses du mouvement flamand

 

L’ouvrage de notre auteur, Het belgicistisch regime en de Vlaamse maar versnipperde Beweging (*), entend répondre à cette question cruciale que les événements politiques, qui ont suivi les élections législatives de 2007, ont rendu plus pertinente que jamais. Hubert de Sy voulait choquer, voulait une thérapie de l’électrochoc et ses thèses se succèdent au fil des pages, prenant bon nombre de certitudes et de postures politiciennes à rebrousse-poil : la communauté flamande ne s’est nullement émancipée en dépit de ses affirmations bruyantes et de ses rodomontades médiatisées ; elle ne possède pas d’autonomie administrative réelle en dépit de son parlement installé à Bruxelles ; le mouvement flamand présente plus de faiblesses que de forces, des faiblesses qui viennent, d’une part, d’un discours tonitruant dans les meetings, les éditoriaux ou les manifestes, où l’on répète trop souvent des idées toutes faites détachées de toute analyse factuelle et, d’autre part, des nomenklatura politiques qui s’empressent d’oublier la radicalité de leurs propos pour participer à l’assiette au beurre, bricoler des montages boiteux et accepter n’importe quels compromis ; les discours de ce mouvement flamand, en théorie populaire et démocratique, ne dénoncent que fort rarement l’établissement financier belge, premier responsable du lent pourrissement du pays, toutes communautés confondues.

 

Ce pourrissement total est apparu aux yeux de l’univers entier avec les grandes crises des années 90 (Dutroux, dioxine) qui n’ont provoqué aucune réaction salutaire de la part de l’établissement qui, au contraire, s’est enfoncé toujours plus profondément dans ses turpitudes, au point de transformer l’Etat en un « champs de ruines éthiques », dixit Hubert de Sy. Les assassinats que l’on commet en pleine rue à Bruxelles, les agressions systématiques que subissent ses habitants, le développement de zones de non-droit dans certains vieux quartiers de la capitale sont décrits par les édiles socialistes corrompues et crapuleuses (au sens strictement étymologique terme) comme des « faits divers », alors qu’ils reflètent bien l’absence des pouvoirs publics dans les tâches qui lui seraient dévolues au sein de tout Etat normal. A cela s’ajoutent la déliquescence des systèmes scolaires (où la Flandre est encore épargnée mais plus pour longtemps), le chômage à grande échelle et le détricotage sournois de tous les acquis sociaux qui avaient fait, pendant deux brèves décennies, l’excellence du « modèle belge ». Les délocalisations néo-libérales, auxquelles les pouvoirs publics n’ont pu s’opposer (Renault/Vilvorde, Volkswagen, Opel, Carrefour, etc.) et la crise bancaire de l’automne 2008 (dont les ravages sont loin d’être terminés) parachèvent le pourrissement que nous évoquions.

 

La majorité minorisée et… diabolisée

 

Revenons à la « majorité minorisée » des Flamands et, par suite, on peut l’ajouter, de toutes les communautés véritablement populaires du royaume, de tout le peuple qui travaille et qui peine pour payer les effets des gabegies politiciennes. Les mésaventures du démocrate chrétien Yves Leterme et du néo-nationaliste post-volksuniste Bart de Wever, qui étaient parvenus à former une majorité flamande en région flamande, se sont retrouvés dans le collimateur d’une propagande dénigrante à souhait et ont été posés comme des para-nazis infréquentables dans toute la presse internationale, celle de Paris en tête. La majorité s’est bien retrouvée minorisée et diabolisée, confirmant les thèses de Claes et de de Sy.

 

Les discours pré-électoraux, promettant une plus large autonomie, ont été vidés de leur contenu pour obtenir des places dans le gouvernement fédéral. De lion rugissant, le cartel démocrate chrétien et post-volksuniste s’est transformé bien rapidement en caniche édenté, prouvant par là même que la teneur de ses discours émancipateurs participait d’une mauvaise analyse de la situation : il aurait fallu avertir l’électeur des dangers qui guettaient toute politique émancipatrice et le préparer à une résistance plus solide, comme celles que livrent aujourd’hui les peuples islandais et grec. Quant à la crise financière internationale de l’automne 2008, qui a suivi immédiatement la crise politique belge de 2007, elle montre que les secteurs bancaires, dépositaires des avoirs populaires, sont totalement indépendants des pouvoirs publics. Les banksters ne respectent ni l’Etat ni les institutions de ce dernier ni leurs propres actionnaires ni la population dont ils encaissent les avoirs. Les banques belges, où la majorité minorisée a thésaurisé ses avoirs et placé ses épargnes, ont été vendues à des groupes bancaires français, exactement comme le secteur énergétique : ils vont désormais pomper l’argent d’un peuple travailleur pour financer les gabegies de l’Hexagone, permettre à celui-ci de financer son fonctionnariat surnuméraire, son armée et sa bombinette et de se payer une bonne tranche de démagogie en diminuant les frais d’énergie pour tous les ménages hexagonaux ; les Flamands, les Wallons, les Germanophones et les immigrés maroxellois, turco-schaerbeekois ou Congolais de Matongé, qu’ils soient chômeurs ou bien nantis, paieront, chaque jour qui passe, pour chaque ampoule allumée le soir, pour chaque frigo en état de fonctionnement, pour chaque rasage électrique le matin. Pour maintenir à flot le sarkozisme, ses pompes et ses œuvres, pour entretenir les gaspillages et les inconséquences voulues par les gauches françaises, de Ségolène Royale à Daniel Cohn-Bendit.

 

Arbitraire d’en haut et arbitraire d’en bas

 

La ponction qui s’exercera ainsi sur les Flamands, mais aussi sur les Wallons et les Allemands d’Eupen et de Saint-Vith, est une ponction démesurée que ni les Algériens ni les Malgaches n’ont subie aux temps des colonies. Mais les Algériens et les Malgaches se sont battus : les ressortissants des anciens Pays-Bas Royaux n’ont pas ce courage, alors que deux ou trois démonstrations de force, une ou deux manifestations de grande envergure contre Electrabel et/ou BNP-Paribas feraient capituler sans gloire aigrefins et escrocs de cet immonde secteur bancaire, véritable lèpre des sociétés contemporaines. Cette passivité face aux menées inacceptables des secteurs énergétique et bancaire vient de la capitulation des gauches flamandes, minoritaires mais bien présentes dans l’arène politique parce qu’elles collaborent sans vergogne avec l’établissement, contre le peuple, contre les travailleurs qu’elles affirment défendre. Si la gauche avait une éthique naturelle, et donc nationale car la nation est un facteur naturel, elle se battrait à l’unisson avec toutes les autres forces émancipatrices du pays : sa trahison livre la population à l’arbitraire, à l’arbitraire d’en haut, celui de l’établissement et des banksters, et à l’arbitraire d’en bas, celui des petites frappes qui écument les rues, pillent, rançonnent et recyclent l’argent de leur came dans les réseaux des… banksters. Voilà pourquoi elles apparaissent bien plus sympathiques à l’établissement que le boulanger de Lessines ou de Maaseik, que le chef de petite entreprise de Bütgenbach ou de Furnes : ils apportent bien moins de flouze noir dans les circuits financiers, ils ne sont que des minables face aux caïds du shit, ils ne méritent guère de lignes de crédit. Voilà pourquoi leurs dérapages sont des « faits divers », selon certains socialistes, parce que le fait essentiel est évidemment cet apport non négligeable que constituent les recettes de la vente du cannabis… Les édiles communales, la magistrature dévoyée, les banksters ne vont pas tirer sur d’aussi lucratifs pourvoyeurs de fonds. Voilà pourquoi on ignore délibérément les analyses posées par l’UNESCO, l’OMS, les Observatoires des Drogues de l’UE ou d’autres instances internationales sur les divers trafics de drogues ou sur la formation de réseaux mafieux dans les diasporas du globe. Voilà pourquoi on n’emprisonne pas les dealers, forcément mineurs. Voilà pourquoi on libère à qui mieux mieux les délinquants qu’on jette parfois en ergastule pour un bref laps de temps. Car il faut qu’ils continuent leur petit jeu, si profitable à une brochette de messieurs sentencieux, en col, cravate et costume trois pièces, qui vont aller vendre nos avoirs à leurs homologues parisiens. Si un bijoutier d’Uccle se fait braquer et si une mère de famille se fait tirer une balle dans la tête par un agent de la société des transports publics de la Région bruxelloise, recyclé en braqueur par un beau jour de congé, eh bien, c’est pour sûr un « fait divers » : on ne va tout de même pas incriminer outre mesure un travailleur, actif dans le plus gros fromage socialiste de la capitale du royaume, qui engage, à la sortie des prisons  —apprend-on depuis le drame d’Uccle—  un personnel supplétif inutile, au nom de l’intégration, alors que cet organisme compte déjà plus d’employés que la RATP parisienne qui, elle, œuvre sur une aire géographique et sur un charroi bien plus impressionnants. Et pour parachever l’horreur : quelques jours à peine après l’abominable crime d’Uccle, un autre employé de la même société et du même service que le pistolero de l’Avenue Brugmann était impliqué dans une lourde affaire de braquage… Encore un « fait divers »…

 

Pour un retour aux meilleures théories politiques

 

Cette dérive sur l’actualité la plus récente permet d’expliquer l’une des dernières thèses émises par Hubert de Sy, dans son ouvrage, rédigé en français pour qu’il ait un impact en dehors des circuits politiques flamands, L’Etat belge en crise existentielle. Hubert de Sy y évoque la « débâcle éthique » de l’Etat, en puisant ses exemples dans la corruption politique et le népotisme qui en est son plus flagrant corollaire et qui sévit en Wallonie, sans pour autant épargner la Flandre, reconnaît notre auteur. Mais la « débâcle éthique » en Belgique est bien plus profonde que celle qu’attestent de simples faits de corruption et de népotisme. Sur base des travaux de Claes et de de Sy, un chantier infini peut s’ouvrir, non seulement pour le mouvement populaire flamand, pour ceux qui entendent à gauche sortir de l’ornière d’un socialisme flamand établi, pour ceux qui entendent réhabiliter un solidarisme bien structuré face aux dérives du néo-libéralisme mais aussi pour tous ceux qui veulent une démocratie exemplaire et bien huilée en ce pays, pour les Wallons et autres francophones qui veulent un changement. Et qui seront plus nombreux sans doute à lire cet hommage en français à Hubert de Sy, le gentleman policé, et un peu isolé faut-il l’ajouter, du mouvement flamand, qui publiait à compte d’auteur, cherchant ainsi à consolider son indépendance personnelle, à laquelle il tenait beaucoup, signe de son excellence, signe d’une attitude noble qui disparaît de nos horizons sous les coups de la vulgarité contemporaine. Les Wallons liront d’ailleurs les thèses de Claes et de Sy en parallèle avec le seul sénateur qui soit capable de désigner les tares du royaume dans l’espace francophone et wallon du pays : je veux nommer Alain Destexhe et ses compagnons en écriture, Alain Eraly et Eric Gillet (cf. Démocratie ou particratie ? 120 propositions pour refonder le système belge, éd. Labor, Bruxelles, 2003). Destexhe s’inscrit dans la tradition de Paul Hymans, homme politique libéral des années 90 du 19ème et de la première décennie du 20ème siècle.  Paul Hymans avait voulu œuvrer dans le sillage de la critique italienne de la partitocratie émergente, portée par son homologue Minghetti, lui-même influencé par la théorie de la circulation des élites formulée par Gaetano Mosca, maître à penser de Vilfredo Pareto. Plus tard, Roberto Michels et Max Weber, Charles Benoist et Moshe Ostrogovski parachèveront la théorie critique des oligarchies et des dérives des partitocraties. Nous voilà ramenés dans l’espace élevé, où l’air est vif, des meilleures théories politiques.

 

Courage politique ?

 

Nous avons donc en main toutes les théories critiques pour fustiger et éliminer les fauteurs de pourrissement et de « débâcle éthique ». Nous avons aussi pour nous les analyses factuelles de bon nombre d’instances internationales (ONU, UNESCO, OMS). Nous avons les exemples des peuples grec et islandais. Il manque évidemment l’ingrédient essentiel : le courage politique. Dans ses rodomontades pré-électorales de 2007, où il affirmait qu’on allait voir ce que l’on allait voir, Leterme avait prononcé ces paroles fortes : « Vijf minuten politieke moed », « Cinq minutes de courage politique ». Sa résistance a en effet duré cinq minutes. Pas beaucoup plus. Il faut former des hommes et des femmes qui n’ont pas pour caractéristique première l’agaçante intempérance d’aller plastronner sur les strapontins d’un parlement, quel qu’il soit, mais qui possèdent l’endurance, la volonté d’œuvrer sur le long terme pour opérer une révolution métapolitique qui, en bout de course, dressera partout les garde-fous nécessaires pour qu’un régime de capitulation, de mépris de la population, de corruption, de débâcle éthique, de crime, de laxisme, de dysfonctionnements, de favoritisme anti-démocratique ne soit plus possible. Et laissons à Hubert de Sy le soin de conclure en citant un sociologue espagnol, Manuel Vazquez Montalban : « Coller un nom sur ce qui porte préjudice à nos intérêts, nous aide à résister ».

 

(21 mars 2010, jour de l’équinoxe de printemps).

 

Note :

(°) ISBN 90-5466-362-6 – Diffusion « Roularta ».

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H. de Sy: "De top van de Vlaamse Beweging is even Jacobijns als Parijs"

Hubert de Sy: "De top van de Vlaamse beweging is even Jacobijns als Parijs"

Christian Dutoit 

Ex: http://www.meervoud.org/

Vlaams.jpgEen hekelschrift. Zo noemt auteur Hubert de Sy zelf het boek dat hij vorig jaar uitgaf met als merkwaardige titel 'Het belgicistisch regime en de Vlaamse maar versnipperde beweging'. Volgens de achterflap verkondigt het boek 'politiek uiterst non-correcte meningen en stellingen.'
Het boek kende enig succes en is binnenkort aan zijn derde druk toe. Tijd voor Meervoud om een gesprek aan te gaan met de auteur over zijn 'hekelschrift' en over wat hem ertoe brengt zich als nestor (de Sy werd geboren in 1921) en na een lange en zeer gevarieerde carrière (oud-koloniaal ambtenaar, directeur van de Vlaamse Elsevier, VEV,...) in te laten met die 'versnipperde' Vlaamse beweging.

- Uw boek wordt door velen die het gelezen hebben, waaronder ikzelf, als nogal 'pessimistisch' aangevoeld. In een inleiding laat u Trends-directeur Crols ongeveer zeggen dat Brussel een blok aan het been is van de rest van Vlaanderen, en u schijnt zich daarbij aan te sluiten.

Hubert de Sy: Ik wens dat niet, maar ik denk dat er geen andere mogelijkheid meer is. Brussel heroveren, dat vind ik een utopie. Een dwaasheid. Niet alleen kunnen we niet op tegen de Franstalige belgicisten, maar binnen vijf jaar zijn de Arabieren baas. Hoe kunnen wij dat omkeren? Waar ik aan denk is, als Vlaanderen onafhankelijk is of zelfbestuur heeft, Brussel af te kopen. Met geld, veel geld. Brussel en Wallonië leven maar dank zij het geld van de Vlamingen. Je mag dat draaien of keren zoals je het wil.

- Eigenlijk geeft u nu Henri Simonet postuum gelijk, die ooit beweerde dat de verfransing van Brussel een 'onomkeerbaar sociologisch feit was'?

Hubert de Sy: Dat is een maatschappelijk fenomeen, daar kan je niet tegenop. Dat kun je niet tegenhouden met wetten.

- Maar Brussel 'afkopen'? Dat is een zachte variatie op wat Guido Tastenhoye van het Vlaams Blok hier ooit in deze kolommen verkondigde. Hij wou natuurlijk wel de ring afsluiten of de Brusselaars eventueel onder water zetten. Maar goed, ...

Hubert de Sy: Kijk, Brussel kan niet leven zonder geld van Vlaanderen. Dus kan Vlaanderen zeggen: je krijgt geld, mààr!

- Brussel is toch een economisch verlengstuk van Vlaanderen?

Hubert de Sy: Brussel is inderdaad een economisch verlengstuk van Vlaanderen, maar of er nu een Belgisch, een federaal of een confederaal systeem is, die economische relatie tussen Vlaanderen en Brussel heeft daar niets mee te maken. De structuur van de staat verandert niets aan de commercie. De Vlamingen gaan blijven verkopen. Als Delhaize of GB goedkoper varkensvlees vinden in Vlaanderen, dan gaan ze toch niet zeggen:Vlaanderen, dat is een andere staat. Dan gaan ze dat toch gewoon kopen. De economische middens trekken zich niets aan van het staatsbestel.

- In het verleden is het toch al gebeurd dat Wallonië liever bussen ging kopen in Frankrijk dan in Koningshooikt, de Van Hool-affaire.

Hubert de Sy: Dat is toch zeker zeer marginaal.

- En onlangs dreigde Di Rupo er nog mee Vlaamse producten te boycotten als er een nieuwe ronde in de staatshervorming zou komen?

Hubert de Sy: Dat is een politiek discours. In de praktijk kan dat misschien werken voor vijf procent van de economische uitwisseling.

- Ik kom nog even terug op de commentaren op uw boek. De meeste commentatoren en recensenten noemen het pessimistisch. Bent u pessimist van nature of het geworden?

Hubert de Sy: Ik moet toegeven dat mijn vrouw dat ook soms zegt. Maar als iemand iets zegt dat niet strookt met 'la pensée unique', dan ben je automatisch een pessimist. Ik beweer dat ik mijn best gedaan heb om rekening te houden met naakte feiten, en te trachten nuchtere gevolgtrekkingen te maken. Dat is mijn standpunt. Ik geef u het voorbeeld, dat voor mij emblematisch is, van de splitsing van Brussel-Halle-Vilvoorde. In dit geval heeft zelfs de top van de Vlaamse intellegentsia gezegd aan de Vlaamse politici dat ze eindelijk eens gebruik moesten maken van hun parlementaire meerderheid. Het heeft niet geholpen. Ze hebben het een tweede keer gedaan. Het heeft absoluut niet geholpen, integendeel. De resultaten van de kieswet zijn erger wat er ooit geweest is en ze zijn nu definitief vergrendeld. Brussel-Halle-Vilvoorde staat nu als kiesdistrict compleet open voor de propaganda van Franstalige politici. Wat heeft dat met pessimisme te maken? Het heeft te maken met het aanhalen van concreet controleerbare onbetwistbare feiten die aantonen dat de Vlaamse beweging niet alleen meer vooruit gaat maar integendeel achteruit gaat. Je kan zo honderd voorbeelden aanhalen.

- Hoewel het economisch niet zo goed voor de wind gaat doet Vlaanderen het voorlopig nog economisch beter dan Wallonië en Brussel. Hebt u er een verklaring voor waarom dat zich niet politiek vertaalt?

Hubert de Sy: Je bedoelt dat de economische macht zich politiek niet uitdrukt? Dat wordt moeilijk. Ik was toen actief in het Vlaams Economisch Verbond, toen de eerste regionalisering plaatsvond. Toen ging het goed met de inkomsten van het VEV, omdat ik het argument had om via die regionalisering te pleiten voor een grotere samenwerking met het VEV eerder dan met het VBO. Rekening houdende met een nieuwe economisch-politieke context. Zeer vlug hebben wij dan vastgesteld - na vijf of tien jaar - dat de Vlaamse economische middens ingezien hebben dat de macht van het Belgisch establishment, het Belgisch kapitaal, belgicistisch gebleven was en dat ze daar niets tegen konden doen. Een zakenman moet geld verdienen of vooral in leven blijven. Ze hebben ingezien dat ze in een Belgische context leven en dat het zakelijk gevaarlijk is zich flamingant op te stellen. Omdat ze te doen hebben met de macht van de Générale, Paribas enzovoort. Kort na de oorlog had je nog fabrikanten, ik denk aan Sabbe, die hun bedrijf De Vlaamse Tapijtweverij noemden. Het is ondenkbaar dat men vandaag een bedrijf opricht dat zich 'Vlaams' noemt. Die mensen kwamen uit Vlaamse college's waar ze liederen zongen als 'Mijn Vlaandren heb ik hartlijk lief' en 't zijn weiden als wiegende zeeën'. Dat is nu totaal gedaan. Wat doen de katholieke scholen vandaag? Die leren veilig vrijen.

- Kom, de tijden zijn toch ook wel enigszins veranderd.

Hubert de Sy: Ik wil maar zeggen dat het identiteitsbewustzijn maar kan komen uit de familie en uit het onderwijs. Dat gezeur, dat emmeren over identiteit heeft geen zin. Welk onderwijsprogramma is er vandaag nog dat de Vlaamse beweging uitlegt? Dat is toch essentieel, niet alleen voor Vlaanderen maar ook voor België.

- OK, u bent een weinig pessimistisch. Probeert u eens na te gaan wat er vandaag dan wèl nog goed is aan de Vlaamse beweging?

Hubert de Sy: Wat is er verkeerd aan de Vlaamse beweging? Wel, ik ga natuurlijk niet akkoord met Schiltz die zegt dat de Vlaamse beweging afgedaan heeft omdat we nu een Vlaams parlement hebben.

- Rekent u Schiltz tot de Vlaamse beweging?

Hubert de Sy: Neen. Hij en de Spirit-groep hebben de Vlaamse beweging ontmand. En de Spiritgroep, met Anciaux aan de kop, heeft ze afgemaakt. De Vlaamse beweging is nu meer dan ooit nodig. Maar de strategie is verkeerd. Sedert dertig jaar is men bezig over de Vlaamse identiteit en over de eerbaarheid van het Vlaams-nationalisme. Kijk, die Vlaamse identiteit: elk volk heeft zijn identiteit. Waarom moet dat bewezen worden? Het moet eventueel via het onderwijs en de kleine verenigingen uitgelegd worden. De Vlaamse identiteit bestaat, maar het identiteitsbewustzijn bestaat niet. De strategie is verkeerd omdat men bezig is met dingen die evident zijn. Nationalisme is gelijk een broodmes, je kunt ermee doen wat je wil. Je kunt er brood mee snijden, en dat is goed, maar je kunt ook de nek oversnijden van de vijand. In 'Doorbraak' heeft Manu Ruys dat 'Byzantijns' academisme genoemd. Centraal voor de Vlaamse beweging zijn het gedachtegoed van Maurits Van Haegendoren, en Lode Claes. De eerste zei: red de democratie, en Vlaanderen zal gered zijn. En de tweede had het over de 'afwezige meerderheid'. De Vlaamse beweging moet zich toespitsen op diegenen die potentieel iets kunnen veranderen aan de situatie. En dat zijn namelijk de politici. Je kan maar een wet baren en doen uitvoeren via het parlement. Je gaat er toch niet van uit, zoals Tastenhoye, dat we gaan opstaan en plaats nemen in de loopgraven. Dat is toch te knettergek. Enkel de parlementairen kunnen Vlaanderen zelfstandigheid geven of, voor degenen die het wensen, onafhankelijkheid. Die moeten dus het vuur aan de schenen gelegd worden. Aan de electorale schenen dus. Ach, als je die Nieuwe Politieke Cultuur van Verhofstadt nu ziet. Er zijn nog nooit zoveel politieke benoemingen geweest. En de groenen doen daar hevig aan mee. De Vlaamse beweging heeft geen boodschap aan steriel academisme. De top van de Vlaamse beweging is even Jacobijns als Parijs. Kijk naar dat recente congres over identiteit...

- Van de Marnixring?

Hubert de Sy: Inderdaad. Manu Ruys heeft daar zeer kritisch op gereageerd. Er waren 40 sprekers, het was internationaal, en er waren 500 of 600 aanwezigen. Het bewijs dat het gelukt was is het feit dat de voorzitter achteraf uitgenodigd werd op een drietal internationale congressen. Hoeveel schuppen aarde zal dat aan de Vlaamse zaak bijbrengen? Niets. Niets, niets.

- Wat zou u dan wel willen zien?

Hubert de Sy: Twee dingen. Eerst de strategie. Er zijn honderden kleine Vlaamse verenigingen en honderden kleine blaadjes. Men moet die basis inschakelen. Er is geen middenveld die de idealen van de Vlaamse beweging vertaalt naar het gewone volk. En ten tweede moet aan de Vlamingen uitgelegd worden wat de economische en culturele nadelen zijn van de huidige politiek. Cultureel de verfransing van Vlaams-Brabant. Economisch het aantal euro's dat jaarlijks gespendeerd wordt aan de Franstaligen. Dit soort dingen moet gevulgariseerd worden. We moeten opnieuw samen bewegen. En nu beweegt iedereen in zijn eigen hoekje. Maar ik heb weinig vertrouwen in de Vlaamse intelligentsia. Hoeveel zouden er zich nog als Vlaming durven uiten? Zou het vijf procent zijn? Kijk naar een Guido Van Gheluwe (oprichter van de Orde van den Prince, nvdr). Dat is een hevige flamingant, bijna Blokker aan het worden vrees ik zelfs. Maar die durven niet naar buiten treden. Hij is dolgelukkig met mijn boek, omdat ik zeg wat hij niet durft zeggen.

- Er zijn ook mensen die juist omwille van het Vlaams Blok niet meer naar buiten treden.

Hubert de Sy: Het Vlaams-nadelige van het Vlaams Blok is dat men alles wat Vlaamsgezind is amalgameert met het Blok.

- In die zin is het Vlaams Blok dan een blok aan het been van de Vlaamse beweging?

Hubert de Sy: Dat schrijf ik letterlijk. Het cordon sanitaire is natuurlijk totaal ondemocratisch, maar dat belet niet dat de situatie zodanig geëvolueerd is dat de reputatie van het Vlaams Blok door dat systematisch amalgameren door mannen als Ludo Dierickx, Mark Spruyt en onze filosoof daar, hoe heet hij ook weer...

- U bedoelt Dieter Lesage?

Hubert de Sy: Ja, iemand die zich altijd filosoof verklaart. Die zijn erin geslaagd de Vlaamse beweging te demoniseren. En dat is een drama.

- Nu even iets helemaal anders. Wat vindt u van de activiteiten van het TAK?

Hubert de Sy: TAK? (denkt even na). Zeer positief. Kijk, twintig of dertig jaar geleden hadden wij 'taaltuinen'. Met Mark Galle, op de radio. Als je vandaag naar Ninove gaat, dan daag ik u uit om te verstaan wat ze daar zeggen. Antoon Roosens, die ik in mijn boek citeer, heeft ooit gezegd dat een volk zich niet kan laten respecteren als het geen cultuurtaal heeft. En wat doet de Vlaamse beweging daarvoor? Niets. Niets, sorry, niets.

- Maar nu verwart u het TAK een beetje met de Vereniging Algemeen Nederlands of de vroegere ABN-kernen.

Hubert de Sy: Het TAK, ik vind dat perfect. Het TAK, u bedoelt daar dus mee de mensen die tegen het Frans en het Engels zijn.

- Laten we even verder gaan. De Vlaamse Volksbeweging? De vorige voorzitter, Ivan Mertens, voorspelde de Vlaamse onafhankelijkheid voor vorig jaar...

Hubert de Sy: De VVB is even belangrijk als ze ooit geweest is. Maar ze volgt een verkeerde strategie. Ze werkt defensief. Vlaanderen Staat in Europa, dat spreekt niet tot de bevolking. Hoeveel Vlamingen kennen het verschil tussen volk, staat, natie, enzovoort... Ze houdt zich bezig met identiteit en de eerbaarheid van de Vlamingen. Ze moet veel agressiever worden. Ze moet vooral de basis betrekken.

- Hoe staat u dan tegenover het Vlaams Blok? Die partij heeft een volkse basis, of niet?

Hubert de Sy: Interessant. Daar kun je niet in twee woorden op antwoorden. Het Vlaams Blok is opgericht door Hugo Schiltz. Dat heeft Mark Grammens gezegd. Daar ga ik 100% mee akkoord. Het verraad van Hugo Schiltz ligt aan de oorsprong van het VB. In het VB heb je de overschotten, de restanten of de naweeën van de collaboratie en vooral van de repressie die het grootste schandaal van de Belgische geschiedenis is. Die rechtse of zelfs uiterst-rechtse strekking zindert vandaag nog altijd na bij mensen van het VB. Denk ik toch.

- Anderzijds recruteren ze een flink deel van hun electoraat bij vroegere SP-kiezers. Hoe verklaart u dat dan?

Hubert de Sy: Da's toch makkelijk. Als er op de markt een ruimte komt, dan is er altijd wel iemand die erin springt. De SP is een kaviaar-SP geworden en wordt het elke dag nog iets meer. Het Vlaams Blok is daar natuurlijk ingesprongen. Het VB is naar de gewone mens gegaan met het Vlaamse idee en natuurlijk ook met het migrantenidee. Het VB heeft rekening gehouden met de gewone Vlaamse mensen die in buurten wonen die overstelpt worden met migranten, en gaat ervan uit dat dit ook mensen zijn. En dat die mensen soms gedurende twee generaties gewerkt hebben voor een eigen huis, en dat hun eigen huis vandaag niets meer waard is. En daar houdt pater Leman géén rekening mee. En dat vind ik onzindelijk. Dat vind ik schandalig. Die mensen worden veel meer gediscrimineerd - vind ik - dan sommige migranten. OK, migranten worden wel gediscrimineerd, maar positief gediscrimineerd, sorry. Maar positieve of negatieve discriminatie, discriminatie is altijd verkeerd en ondemocratisch.

- Via uw talloze lezersbrieven bent u een actief medewerker van 't Pallieterke.

Hubert de Sy: Kijk, 't Pallieterke is een troostappel voor veel flaminganten. Daar lezen ze wat ze graag horen. Daar kunnen ze hun zeg kwijt. Het is vooral de troostappel voor de ouderwetse flamingant. Ik vind het zeer belangrijk, maar nog eens, de belgicistische middens zijn er ook in geslaagd 't Pallieterke te demoniseren. Van het bij Hitler te zetten. Dat is spijtig, maar wat kun je eraan doen? De belgicistische middens hebben àlle media in handen.

- Wat vindt u van de huidige evolutie bij het Ijzerbedevaartcomité?

Hubert de Sy: Wel, Lionel Vandenberghe heeft het Comité ontluisterd en vandaag loopt hij over naar de SP.a. Alle overlopers zijn onzindelijke mensen, maar hij is nog veel onzindelijker want hij loopt over van het Vlaamse naar het Waalse kamp. SP.a is een aanhangsels, via handen, voeten en portefeuilles, zetels en prebendes gebonden aan de PS en die PS is dé echte pest voor Vlaanderen. Omdat ze de macht hebben. Hij is dus de schaamte en de schande voorbij.

- Bent u ooit op de Ijzerbedevaart geweest?

Hubert de Sy: Ja, één keer. Maar de bedevaart is kapotgemaakt door de politieke partijen. In het begin de Volksunie, later de CVP. Zij hebben het dus gepolitiseerd. En al wat gepolitiseerd is, is rot. Per definitie. Vrede en geen oorlog, dat is het essentiële. Men had nooit die nazi's uit Holland en vooral uit Duitsland naar Diksmuide moeten laten komen. Dat was een fout van het Comité, dat kunnen ze zelfs niet aan het Blok verwijten. Het Vlaams Blok heeft daar overigens ook stommiteiten gedaan. Verreycken gedroeg er zich als een feldwebel. Daar is het Vlaams Blok enorm fout geweest.

- Hoe staat u tegenover N-VA?

Hubert de Sy: Ik vind Bourgeois een enorm charmant man. Ik wil de N-VA vergelijken met de VU van vóór Schiltz. Ik vind het schandalig dat men bang is voor de 'V' van de CD&V maar vind de 5%-regeling al even schandalig. Ik hoop werkelijk dat ze het halen. Kijk, nu kun je als Vlaming die afzijdig wil blijven van het Vlaams Blok weer stemmen voor een Vlaamse partij.

- Voor een 'proper' Vlaams Blok dus, zoals Bérénice Vaeskens in dit nummer van Meervoud stelt?

Hubert de Sy: Dat men mij dan die term 'proper' eens uitlegt. Zijn de socialisten 'proper' met Agusta? Het grote euvel van het VB is dat die partij stemmen heeft afgepakt van de SP. En het feit dat ze tegen de koning zijn.

- Een laatste vraagje, wat vindt u nu eigenlijk van een fenomeen als Meervoud?

Hubert de Sy: Ik vind dat een oase in de Vlaamse pers. Wat ik vooral apprecieer is dat Meervoud links is. Maar dat er weinigen zo hevig kritiek durven uitbrengen op de kaviaarsocialisten van de SP. Dat vind ik eerlijke journalistiek.

Hubert de Sy. Het belgicistisch regime en de Vlaamse maar versnipperde beweging. Mechelen, 2002, 387 p. Verkrijgbaar via Roulartabooks, Meiboomlaan 33, 8800 Roeselare. E-post: Jan.Ingelbeen@roularta.be

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H. de Sy: De middelen van de macht - De machtigen onderdrukken het debat

leviathan_gr1.jpgHubert de Sy:
DE MIDDELEN VAN DE MACHT

De machtigen onderdrukken het debat

Het ligt voor de hand dat een staat die zich bedreigd voelt in zijn bestaan zelf, alle hens aan dek roept voor de verdediging van de positie en belangen van de gegadigde machtshebbers ervan. In eerste instantie van de monarchie en de uitgebreide koninklijke familie, maar tevens van de politieke, maatschappelijke en financiële omgeving ervan. Een elitaire kring die in het journalistiek en sociologisch jargon benoemd wordt als ‘establishment’ of ‘machtsconsortium’.


1.- De Koning Boudewijn Stichting

a- Portret van de KBS

De KBS werd opgericht in 1976 naar aanleiding van de 25ste verjaardag van de troonbestijging van koning Boudewijn. Haar officiële doelstelling is de levensomstandigheden van de bevolking helpen verbeteren. De leiding benoemt die taak als eigentijdse filantropie. (De vroegere bonnes oeuvres). De motor zijn van sociale vernieuwing beschouwt zij als haar opdracht en taak. Met het oog op haar internationale uitstraling – en derhalve die van het koninkrijk België en van de koninklijke familie- heeft de KBS ook een ‘Europese stichting’ opgericht. Zij is zelfs present in de VSA. De Stichting beschikt blijkbaar over vrijwel onbeperkte middelen. De voorzitter is de heer Guy Quaden, ere-voorzitter van de Nationale Bank. Op hun beurt zijn de lokale verantwoordelijken van de Nationale bank voorzitter van de lokale KBS-afdeling. De Nationale Loterij verleent elk jaar een dotatie. Voor 2005 was dat 12.147.581 euro.
In Vlaanderen functioneren daarenboven zgn. Steunfondsen (West-Vlaanderen, Oost-Vlaanderen, Antwerpen en in mindere mate Limburg) die aan systematische fundraising doen. Zij worden geanimeerd door Vlaamse prominenten waaronder Baron Buyse, o.a. voorzitter van Beckaert, de heer Balthazar, ex-gouverneur van Oostvlaanderen en de Brugse zakenman van CVP-signatuur, Van den Abeele.
Elk jaar organiseren de Steunfondsen een galabal. Jaarlijkse aankondiging: “Prins Filip en prinses Mathilde vereren die manifestaties met hun doorluchtige aanwezigheid”.


b- Doelstellingen van de KBS

b.1- De openbaar verkondigde zgn. ‘eigentijdse filantropie’

. Deze grootmoedige doelstelling wordt op onbetwistbare wijze en op brede schaal verwezenlijkt. De KBS is erin geslaagd een het hele land overspannend netwerk uit te bouwen dat zijn gelijke niet kent en om zo te zeggen, het volledige maatschappelijk veld bestrijkt. Zij is ‘alomtegenwoordig’, tot in kleinere dorpen, tot in vele van de lokale verenigingen. Op die wijze onderhoudt zij gestructureerde contacten met honderden vooraanstaande geografische Vlamingen en tienduizenden burgers van het zgn. grote publiek. Via diverse van haar activiteiten beantwoordt zij zonder twijfel aan een aantal reële menselijke behoeftes en noden. Geen zinnig mens kan dit loochenen of ook maar in twijfel trekken.


b.2- Collaterale creatie van aanhorigheid bij deVlaamseonderdanen.

In de context van de uitzichtloze communautaire conflictensituatie stemt het tot nadenken dat - alhoewel er in Wallonië minstens evenveel menselijke nood is als in Vlaanderen - de hoger vermelde steunfondsen enkel in Vlaanderen werden opgericht. Deze steunfondsen zijn in feite propaganda antennes van de Belgische staat ter attentie van de Vlaamse bevolking. Alleen al dit feit geeft kracht aan de mening van sommige waarnemers dat de verklaring/reden daarvoor het bestaan is van die tweede, meer discrete functie van de KBS: de emotionele aanhechting aan de leden van de koninklijke familie - en dus aan de monarchie als dusdanig – van twee categorieën van haar Vlaamse onderdanen. Enerzijds een zo groot mogelijk aantal gewone Vlaamse burgers waarvan de emotionele aanhankelijkheid verondersteld wordt te fungeren als legitimatie van de monarchie. Aan de andere kant een keurgroep van kapitaalkrachtige en invloedrijke Vlaamse prominenten, die rechtstreeks of onrechtstreeks financiële middelen kunnen aanbrengen en/of hun aanzien kunnen doen gelden op lokaal vlak.

Deze strategie leidt tot wat men in huidige journalistieke taal verwoord als inkapseling. Met andere woorden tot een vorm van intellectuele braindrain vanuit de nog enigszins Vlaams bewuste kringen, richting Belgisch machtsconsortium. Met als gevolg een verarming van het economisch en financieel patrimonium en een stuk daaruit voortvloeiende maatschappelijke verzwakking.


c- Strategie van de KBS

De leiders en raadgevers van de KBS zijn zich terdege bewust van het belang van de moderne communicatietechnieken en doen een systematisch beroep op de media. In 2005 heeft de stichting een samenwerking op het getouw gezet met de belangrijkste media van de geschreven pers. Met alle Vlaamse regionale televisiezenders via ’De Pluim’ en via ‘Coup de Chapeau’ met de RTBF. Het strategisch plan 2006-2008 legt nadrukkelijk het accent op “communicatie als hefboom”. De KBS wordt dus blijkbaar beheerd op professionele en efficiënte wijze. Ook vandaar, benevens de geldstromen, haar gestage groei.
Een van de doorslaggevende psychologische wapens van haar actie bestaat in het intelligent inspelen op de natuurlijke menselijke ijdelheid en praalzucht. Wie is ongevoelig voor het feit te mogen ‘samenwerken’ met vooraanstaande vertegenwoordigers van het Hof?
Soms even in de nabijheid te mogen vertoeven van koningen en koninginnen, van prinsen en prinsessen? Vrijwel niemand.
De verwezenlijking van deze diepmenselijke droom, het mede genieten van een soort afgeleide ‘luister’, smeedt hechte banden van aanhankelijkheid t/m sociale afhankelijkheid. Banden die kunnen uitmonden in politiek correcte keuzes.
Een doeltreffend hulpmiddel tot de beoogde inkapseling is de vermenigvuldiging van rechtstreeks gemediatiseerde contacten met leden van het Hof. Dit geldt ook voor de door sommige lokale prominenten begeerde bevestiging van hun belangrijkheid via zgn. ‘onderscheidingen’. Het te bereiken en meestal bereikte doel is zoveel mogelijk onderdanen op te nemen in het maatschappelijke en politieke kamp van de monarchie en van het belgicistisch consortium. Het is in dezelfde geest dat Boudewijn – in vergelijking met de vorige koningen – een uitzonderlijk hoog aantal Vlamingen in de adel verhief.
Die ‘inkapseling’
wordt in de praktijk verwezenlijkt dank zij de zelden of nooit besproken, alhoewel grootschalige en ononderbroken public relations campagne ten gunste van de monarchie, van de leden van de koninklijke familie en van de brede entourage van het Hof. Het is nl. in grote mate het nostalgische opkijken naar de luister van de hogere sferen van het land dat heel wat lokale vooraanstaanden en een niet onaanzienlijk deel van de bevolking aanzet tot actieve medewerking en inzet. Het zijn juist de vermelde massale public relations campagnes die er voor zorgen dat dit ‘opkijken naar’ bestendigd wordt.


d. “Raison garder”

Nu, in een staat die zich democratie aanmatigt mag het feit van een brede positieve waardering over een menselijke activiteit niet beletten een en ander aspect ervan te relativeren. Wel te verstaan op basis van vaststellingen, deze laatste te formuleren en ze te situeren in de bredere context van de permanente conflictsituatie waarin dit land zich sedert decennia bevindt. Elke louter hagiografische benadering van om het even welke persoon, vereniging of menselijke activiteit oogt naar volksverlakkerij en is derhalve in se ondemocratisch. Zeker als het een activiteit betreft die invloed kan uitoefenen op aanzienlijke en diverse lagen van de bevolking.
Het is nl. ook zo dat deze campagnes een belangrijke politieke functie zijn gaan uitoefenen. Zij situeren zich in de breed opgezette contrareformatie tegen de zgn. middelpunt vliedende krachten in België; vooral dan in Vlaanderen.


d. Besluit

Het kan moeilijk ontkend worden dat dus ook de KBS deel uitmaakt van het machtige staatsapparaat en ingeschakeld werd in de assertieve ‘défense et illustration’ van de vigerende Belgische machthebbers.
Het is tevens duidelijk dat de stichting over de middelen, de macht en de adequate relaties beschikt om ook die tweede opdracht - de medewerking aan de Belgische contrareformatie - in goede banen te leiden.
Wat voorafgaat noopt tot ernstig nadenken van Vlaamse kant. En, als het enigszins kan, tot overdacht, concreet en vooral gecoördineerd tegenwerk.


2.- De overheidsmedia

De graad en de wijze waarop die media gebruikt en misbruikt worden neemt vaak burleske vormen aan. De potsierlijkheid ervan is soms zo groot dat zij bij een aantal kijk- en luisteraars afwijzende en dus averechtse reacties uitlokt. Dit schaadt uiteraard aan de geloofwaardigheid van het medium en schept twijfels, ook bij het behandelen van andere thema’s.
Zo brengt de VRT regelmatig dweperige verhaaltjes over het optreden – in de sfeer van de zgn. miraculeuze ‘verschijningen’ - van een of ander lid van de uitgebreide von Saxen-Coburg-familie. Steeds “uitbundig toegejuicht door een enthousiaste massa van koningsgezinde onderdanen”. Waaronder vaak opgetrommelde schoolkinderen die blij wuiven met uitgedeelde vaderlandse vlagjes.
Dit alles in de context van een als spontaan voorgewende ‘diepe verering en onverstoorbare aanhankelijkheid’. Sommige commentatoren excelleren in het melig tot flemerig situeren van de huidige koninklijke familie in een naïef, kinderlijk tot kinderachtig sprookjesverhaal.
Met Sneeuwwitje als model.

De RTBF blijft niet in gebreke. Soms wanen nuchtere waarnemers zich teruggebracht naar de glorieuze tijd van de absolute monarchieën.
Dit belet niet dat er inderdaad nog steeds een tanend maar nog aanzienlijk deel van de bevolking emotioneel koninggezind is. Vooral de meest recente blunders van sommige Saksen-Coburgers hebben er wel voor gezorgd dat de Belgische monarchie geen taboe-thema meer is en dat zij meer en meer in vraag wordt gesteld.


3. De zgn. ‘regime-pers’

”Ik behoor niet tot degenen die achter elke hoek het spook van Albert Frère (Groep Brussel-Lambert) zien opduiken. Toch stel ik objectief vast dat er een soort Frans-Vlaamse mediacoalitie ontstaat rond Frère-Paris-Bas-Cobepa, waarin André Leysen (Gevaert VUM, GBL )de hoofdrol speelt” .Lucas Tessens in Lokalisering van de beslissingscentra over de verankering van de Vlaamse media. (in Brockmans, p.117).



De Vlaamse pers is in de handen van het geografisch Vlaams, per definitie conservatief en dus belgicistisch establishment.
Zij handelt zoals zij hoort te handelen, volgens haar aard en in functie van haar commerciële belangen. Conservatief van een aantal waarden waaronder de monarchie als een van de laatste nog enigszins werkzame bindmiddelen van dit land.

De zgn. vrije pers zit nl. in een economisch en maatschappelijk keurslijf waar ze zich onmogelijk kan uitwringen zonder zelfbeschadiging. De vrijheid van de journalist beperkt zich tot het schrijven van wat moet en mag gepubliceerd worden in de krant die hem tewerkstelt. Kortom, de wezenlijke vrijheid van de pers is een fictie.

Het is de eigenaar van de krant die de grenzen bepaalt van wat men journalistieke vrijheid pleegt te noemen. Vele burgers en de meeste journalisten betreuren dat. Cynici stellen dat zowel de journalisten als de burgers er zich mogen in verheugen dat die vrijheidsbeperking zich afspeelt binnen een ‘democratisch’ regime. In totalitaire regimes – en, wat sommige (s)linkse progressievelingen ook mogen vertellen, zijn dat hoofdzakelijk linkse regimes - stelt de journalist niet enkel zijn broodwinning, maar zijn leven op het spel. Een magere troost voor ons ‘democraten’, maar een troost.

Er is ten slotte geen enkele reden waarom de pers zou ontsnappen aan de vercommercialisering van alle menselijke activiteiten, van alle producten, van alle waarden,

Wat voorafgaat belet niet dat een aanzienlijk deel van de Vlaamse bevolking zich, zoniet verraden dan toch verlaten voelt door een categorie van de Vlaamse bovenlaag waar de eigenaars van de in het Nederlands gestelde kranten toe horen. Zo betreurden vele lezers de beslissing van de huidige directie het vertrouwde AVV-VVK, dat het ijkmerk was van De-Standaard-van-toen -, een onbetwiste kwaliteitskrant - te verwijderen van de frontpagina. Zij ergerden zich dood toen zij op de plaats van het vroegere AVV-VVK, de nationale driekleur zagen prijken. Dit was dan ook een nogal gratuite en laag bij de grondse vorm van provocatie. Nu, Iedereen heeft het recht te leven en te ageren op zijn eigen moreel niveau.

Kanttekening: wat voorafgaat belet niet dat een aantal journalisten standvastig blijk geven van een duidelijke Vlaamse reflex.
Zij volgen echter de Vlaamse beweging, het Vlaams Belang en de N-VA niet in de eis van onafhankelijkheid tout court.
Zij huiveren blijkbaar voor een van de oude en contraproductieve Vlaamse kwalen: wishful thinking. Hun mening is volstrekt achtenswaardig. In sensu strictu behoren ook zij tot de zgn regimepers.
Vanzelfsprekend zonder de gebruikelijke pejoratieve connotatie die aan die term plakt. Een broodschrijver is even eerbaar als een ‘broodarbeider’.


Exit de Financieel Economische TIJD, uit de VEV-schoot.

De FET was ooit het kroonjuweel en het symbool van de Vlaamse economische verrijzenis.
Hij werd opgericht op initiatief van enkele prominenten uit de kringen van het Vlaams Economisch Verbond.
Frans Wildiers, de charismatische afgevaardigd beheerder (1963-1971) van het VEV was de bedenker van, en de drijvende kracht achter het project.
“Hij was er sinds geruime tijd van overtuigd dat de groei van de Vlaamse economie een financiekrant nodig had.” (Gaston Durnez in de Encyclopedie van de Vlaamse beweging).
Onder de bekwame leiding van René De Feyter (later op zijn beurt afgevaardigde beheerder van het VEV) kende de krant een snelle groei. Zij groeide uit tot een geduchte concurrent van L’Echo de la Bourse, een Belgisch monument bij uitstek. In de kringen van het VEV speelden sommigen zelfs met het idee L’Echo over te nemen. (t Kan verkeren….

Vandaag is de FET, thans De Tijd, een uitgave van de vennootschap Mediafin die op haar beurt voor telkens 50 procent in handen is van De Persgroep (de uitgever van onder meer Het Laatste Nieuws en De Morgen) en Rossel (Le Soir). De verhuis naar Brussel is een gevolg van die overname.
De Persgroep en Rossel kochten ook de Franstalige zusterkrant L’Echo. Het besluit viel alle diensten op één plaats samen te brengen, om te komen tot meer efficiëntie en samenwerking.

Er zijn voorlopig geen aanduidingen dat De Tijd zijn vroegere journalistieke onafhankelijkheid en Vlaamse reflex volledig zou verloren hebben; of riskeert te verliezen. Afhankelijkheid van De Persgroep (van uitgesproken belgicistische signatuur) en de inkapseling in de kringen van L’Echo (die vaart onder ultra Belgische vlag) en van Le Soir (journalistiek speerpunt van de Brusselse anti-Vlaamse bourgeoisie en “moniteurke van het Vlaminghatend FDF) stemt toch tot nadenken. En tot enige vrees voor een mogelijke verwaseming van de Vlaamse identiteit.


4.- Het groot-kapitaal

Begrijpelijkerwijze is het groot kapitaal al altijd en principieel tegen verdere regionale bevoegdheden, tegen confederalisme en uiteraard tegen de opsplitsing van België geweest. Die kringen zijn per definitie conservatief.
Het tegenovergestelde zou tegennatuurlijk zijn.
De haute finance is een van de essentiële bestanddelen en steunpilaren van het belgicistisch consortium: Hof, nabije entourage, propaganda organen (KBS, B+, BSP), pers, vakbonden, traditionele partijen en dies meer. En derhalve van het huidige Belgisch jacobijns regime. Zijn invloed op de eventuele verdere evolutie van het beheer van ons land is discreet maar aanzienlijk.



5.- De Vakbonden

“In België groeide de vakbeweging, ontstaan uit gezellenverenigingen ter bevordering van de vakbekwaamheid als van de verzekering tegen ziekte en werkloosheid, vrij spoedig uit tot een verzuilde strijdorganisatie voor het behartigen van de belangen (arbeidsvoorwaarden, de plaats in de maatschappij) van de aangesloten werknemers”. (cf. Winkler Prins).

Laten we duidelijk zijn. De vakbonden zijn een van de meest onontbeerlijke organisaties van de, gisteren geïndustrialiseerde, vandaag hoogtechnologische samenleving en tegen de ‘vluchtige en voortvluchtige’ globalisering. Mochten ze niet bestaan, zouden ze bij hoogdringende prioriteit dienen te worden opgericht. Zij zijn de voornaamste rem tegen de ook vandaag nog niet – noch morgen - uitgestorven uitbuiting van de werknemer door sommige kapitaalkrachtige zakenkringen. Maar…..

De vakbonden zouden de enigen zijn die ‘de taal spreken van het werkvolk’. In de werkelijkheid spreken de leiders van hun sanhedrins even goed en soms even luid de taal van de machtsgeilheid en van het in hun geval omfloerste kapitalisme. Zij zijn als de dood voor elke beperking van hun exorbitante macht en voor elke vorm van inzage, laat staan toezicht op hun (occulte?) financiële massamiddelen. Zij zijn radicaal wars van al wet zij gemeenlijk en met bewuste vooringenomenheid ‘institutionele avonturen’ noemt. Zij vrezen nl. de opsplitsing van materies die hen aanbelangen. En vooral de opsplitsing van hun macht en kapitaal. En dus van elke verdere afschuiving van bevoegdheden naar de regio’s. Zij ijveren gans in tegendeel voor her-federalisering van sommige bevoegdheden.

Waarnemers verbazen er zich over dat de ‘verdedigers van de arbeider’ in de rangen figureren van de onvoorwaardelijke voorvechters van het neo-unitaire België. Akkoord, op het eerste gezicht horen zij niet thuis bij de oude adel, de haute bourgeoisie, het groot-kapitaal, kortom in de elitaire kringen rond het Hof. Zij vormen er nochtans een van de sterkere steunpilaren van. Ook hun invloed op sommige politieke partijen is enorm, vaak buitensporig. In de periode dat Verhofstadt nog democratische hervormingen predikte, reed hij zich te pletter tegen die muur van macht.

Dergelijke tegennatuurlijke politieke machtspositie hoort echter niet thuis in een regime dat zich democratie aanmatigt.

Zij danken deze machtspositie en hun statuut van onbestaande kapitalistische organisatie aan de exclusiviteit op de uitbetaling van de werklozensteun die hen door de politieke klasse werd verleend. Een wereldwijd unicum.

Exclusiviteit die zij op hun beurt danken aan de macht waarover de zgn. CVP-staat ooit beschikte. (Zie Encyclopedie van de Vlaamse Beweging)
Die exclusiviteit verleent hen een, in se ondemocratisch en immoreel chantage-wapen ten overstaan van talrijke arbeiders en bedienden die geen zin hebben zich aan te sluiten bij een partijpolitiek syndicaat. Wat ten slotte hun democratisch recht is.
Voor die uitbetaling innen de bonden een royale, volgens sommigen exorbitante vergoeding. Dit lijkt erg op een self service operatie vanwege de door de vakbonden naar het parlement en de regering uitgevaardigde militanten. Een unicum in de westerse wereld.
Er is echter meer, zowel op wettelijk als op democratisch vlak. De vakbonden bestaan namelijk niet. Zij hebben geen maatschappelijk statuut. Niemand kan er welke controle dan ook op uitoefenen, noch ze richtlijnen opleggen. Zij zijn onaantastbaar in hun spook-bestaan en in hun gedragingen. Zij nemen wel verdragende beslissingen ten bate of ten koste van bedrijven en van de lokale of nationale economie. Zij hanteren wel fabuleuze geldsommen. En toch bestaan ze niet. Vraag: in hoeverre kunnen ‘onbestaande’ verenigingen legaal zijn? Belgischer, surrealistischer dus, is moeilijk denkbaar.


Onaantastbaarheid , de antithese van democratie

Aangezien zij niet bestaan kan geen enkele instantie controle uitoefenen op hun financiële verrichtingen, noch op hun financiële situatie. Vreemd dat deze ondemocratische anomalie zelden en hoogstens even en terloops wordt vermeld. Zij wordt dus blijkbaar geduid door de opeenvolgende parlementen en regeringen. Ook de pers is ter zake voorzichtig. Een bewijs te meer van hun buitensporige invloed en macht. Zo nemen zij bijv., in staatsbelangrijke materies politieke stellingnemingen in. Zelfs tegen die van de partij van hun zuil; wanneer ook maar een deel,van hun positie in vraag wordt geteld.

In die geest wordt vaak gesteld dat de echte voorzitter van het CD&V niet de officiële voorzitter is. Wel de voorzitters van het ACW en van het ACV. Vroeger was die invloed discreet en op basis van intern overleg tussen beschaafde lui van beide vleugels van de zuil. Vandaag matigen zich zowel Renders (ACV) als Cortebeeck (ACW) publieke, louter politieke stellingnemingen aan. Is dat enkel macho-gedrag? Of hebben zij een verborgen agenda. Die van de onbespreekbare eenheid van het land.

Men moet geen ethische, democratische of andere edele motieven zoeken achter de keuze pro, en de rabiate verdediging van een in essentie unitair gebleven België. De vakbonden danken nl. macht en geld aan het huidig centralistisch bestel.


Besluit:

De vakbonden speelden en spelen een onontbeerlijke en onvervangbare sociale rol. Laat dat duidelijk zijn. Toch zou het vanuit democratisch en moreel oogpunt aangewezen zijn dat de politieke rol van deze juridisch en financieel nebuleuze organisaties uitgeklaard wordt. Maar, zie hierboven.

mardi, 23 mars 2010

la Grèce préfigure la tiers-mondialisation de l'Europe

g1-583.jpgLa Grèce préfigure la Tiers-Mondialisation de l’Europe

Par Bernard Conte, Maître de conférences à l’université de Bordeaux

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

La cure d’austérité drastique à laquelle la Grèce est sommée de se soumettre, trouve son modèle dans les politiques d’ajustement structurel qui ont été imposées par le FMI aux pays du Sud, après la crise de la dette déclenchée par la remontée des taux de la Fed en 1982, note l’économiste Bernard Conte. A l’époque, comme aujourd’hui, la véritable difficulté consistait à faire accepter aux peuples de supporter le coût de la crise.

Mais depuis lors, les politiques permettant de faire passer ces purges amères ont été peaufinées, prévient-il, rappelant que l’OCDE a rédigé à toutes fins utiles un guide décrivant les stratégies à employer en de telles circonstances.

On peut par exemple y lire que « si l’on diminue les dépenses de fonctionnement, il faut veiller à ne pas diminuer la quantité de service, quitte à ce que la qualité baisse. On peut réduire, par exemple, les crédits de fonctionnement aux écoles ou aux universités, mais il serait dangereux de restreindre le nombre d’élèves ou d’étudiants. Les familles réagiront violemment à un refus d’inscription de leurs enfants, mais non à une baisse graduelle de la qualité de l’enseignement. »

Cela ne vous évoque rien ?

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La Grèce est très endettée et la finance internationale attaque ce maillon faible de la zone euro pour tester la cohésion de l’ensemble, avant éventuellement de spéculer contre d’autres pays pour générer d’énormes profits.

La réaction à cette attaque devrait entraîner la mise « sous tutelle » de la Grèce par la Commission européenne, par ses partenaires au sein de la zone euro et/ou par un éventuel Fonds monétaire européen.

A l’instar des pays du Tiers-Monde à partir des années 1980, la Grèce va se voir imposer un programme d’ajustement économique et social drastique, traduisant sa Tiers-Mondialisation qui préfigure sans doute celle d’autres pays européens.

La Grèce enregistre des déficits publics importants qui doivent être financés par l’emprunt dont le cumul accroît le volume de la dette de l’État. Pour rétablir la confiance de ses bailleurs de fonds privés, le pays doit réduire son endettement. A défaut, la prime de « risque », réclamée par les bailleurs, qui s’ajoute au taux d’intérêt « normal » pourrait conduire à un taux usuraire. Georges Papandréou n’a pas le choix, il doit impérativement s’endetter moins, voire diminuer le volume de la dette grecque.

L’exemple du Tiers-Monde en 1982

La situation de la Grèce, liée au « surendettement », n’est pas sans rappeler celle des pays du Tiers-Monde lors de la crise de la dette de 1982. En effet, pour pouvoir faire face à leurs obligations financières, les pays du Sud, en quasi cessation de paiements, ont été « aidés » par le FMI et par la Banque mondiale. Ces institutions ont accordé des prêts aux pays du Sud afin qu’ils puissent rembourser leurs banques créancières. Lesdites banques ont ainsi pu transférer au FMI et à la Banque mondiale une bonne partie de leurs créances « pourries » (ou « actifs toxiques » en langage politiquement correct). En contrepartie, les pays « aidés » se sont vus imposer des programmes d’ajustement structurel, traduction du consensus de Washington d’inspiration néolibérale monétariste.

A travers l’application de ses dix commandements, le consensus de Washington vise à permettre aux pays sous ajustement de recouvrer la capacité d’assurer le service (principal + intérêts) de leur dette extérieure. Il faut, à n’importe quel prix, dégager des fonds pour payer les créanciers.

Réduire le déficit de l’État

Cette démarche passe par la compression des dépenses et l’augmentation des recettes de l’État.

L’action sur la dépense publique implique la réduction :

► de la masse salariale de la fonction publique (baisse des effectifs et/ou du niveau des traitements)

► des autres dépenses de fonctionnement (éducation, social…)

► des subventions (services publics, associations…)

► des investissements publics (infrastructures…)

L’augmentation des recettes réclame :

► l’alourdissement de la fiscalité

► la privatisation de services publics rentables (eau, électricité…)

Plus généralement, la croissance est censée élargir les marges de manœuvre par le développement de l’activité économique qui, mécaniquement, augmente les recettes de l’Etat. La croissance peut être tirée par les exportations si la production nationale gagne en compétitivité externe, grâce à la dévaluation de la monnaie nationale, ou, si cette opération se révèle impossible, par la désinflation compétitive (comme pour le franc CFA avant la dévaluation de 1994, cf. Bernard Conte, Dévaluation du Franc CFA et équilibre des paiements) qui consiste à obtenir un taux d’inflation plus faible que celui des pays concurrents.

La philosophie des programmes d’ajustement est, in fine, d’une part, de tenter d’augmenter la production locale de surplus (par la croissance) et, d’autre part, de réduire la consommation locale dudit surplus afin de l’exporter. En aucun cas, il s’agissait de se préoccuper du bien-être des populations.

Un bilan des ajustements dramatique

Malgré de nombreuses études financées par la Banque mondiale et le FMI, tendant à démontrer que l’ajustement générait de la croissance et, par effet de ruissellement, bénéficiait même aux pauvres. Les conséquences sociales négatives ont été rapidement mises à jour et dénoncées [Voir par exemple : Cornia, Giovanni Andrea, Richard Jolly, and Frances Stewart : Adjustment with a human face. Protecting the vulnerable and promoting growth, vol 1. Oxford, Clarendon Press, 1987]. Ainsi, la pauvreté s’est accrue et les classes moyennes préexistantes ont été paupérisées. Les populations du Sud ont subi les conséquences funestes de l’ajustement pour rembourser des dettes dont elles n’avaient que peu profité.

La Grèce « inaugure » les politiques d’ajustement en Europe

Jusqu’à présent, l’ajustement néolibéral imposé était réservé aux pays « non développés ». La Grèce inaugure le processus de Tiers-Mondialisation de l’Europe en passant sous les fourches caudines de « l’ajustement ». A l’instar des pays du Tiers-Monde, il s’agit de dégager des marges de manœuvre budgétaires pour rembourser la dette extérieure à travers la réduction du périmètre de l’État, la privatisation, la dérégulation, les coupes claires dans les budgets de santé, d’éducation…

La Grèce est un test pour l’Europe néolibérale

L’inconnue reste la réaction populaire. La population va-t-elle accepter l’austérité ? Déjà, des grèves et des manifestations se déroulent. Hier, le 11 mars, plus de 100 000 personnes manifestaient dans les rues d’Athènes. Au Portugal et en Espagne, la mobilisation sociale s’opère. L’ajustement va-t-il buter sur l’obstacle social ? D’autant plus que les conséquences des troubles sociaux pourraient atteindre le domaine politique avec l’émergence et l’éventuelle arrivée au pouvoir de forces politiques situées en-dehors du « consensus » : droite « molle » – gauche « caviar ». Mais, là aussi, les élites complices peuvent trouver l’inspiration dans l’expérience du Tiers-Monde pour faire « passer » les réformes.

La faisabilité politique de l’ajustement

Dans les années 1990, de nombreux travaux ont été menés, au sein de l’OCDE, sur la faisabilité politique de l’ajustement néolibéral [Cf. Christian Morrisson, La faisabilité politique de l’ajustement, Paris, Centre de développement de l’OCDE, Cahier de politique économique n° 13, 1996. (jusqu’à la dernière note, les numéros de page des citations se réfèrent au présent document)]. Christian Morrisson prévient : « l’application de programmes d’ajustement dans des dizaines de pays pendant les années 1980 a montré que l’on avait négligé la dimension politique de l’ajustement. Sous la pression de grèves, de manifestations, voire d’émeutes, plusieurs gouvernements ont été obligés d’interrompre ou d’amputer sévèrement leurs programmes » (p. 6). Il convient de minimiser les risques et adopter une stratégie politique adéquate.

Prendre des mesures politiquement et socialement peu risquées

A partir de plusieurs études-pays, Christian Morrisson met en avant « l’intérêt politique de certaines mesures [...] : une politique monétaire restrictive, des coupures brutales de l’investissement public ou une réduction des dépenses de fonctionnement ne font prendre aucun risque à un gouvernement. Cela ne signifie pas que ces mesures n’ont pas des conséquences économiques ou sociales négatives : la chute des investissements publics ralentit la croissance pour les années à venir et met sur-le-champ des milliers d’ouvriers du bâtiment au chômage, sans allocation. Mais nous raisonnons ici en fonction d’un seul critère : minimiser les risques de troubles » (p. 16). Peu importe, « dans la réalité, les entreprises du bâtiment souffrent beaucoup de telles coupures [dans les investissements publics] qui multiplient les faillites et les licenciements. Mais ce secteur, composé surtout de petites et moyennes entreprises, n’a quasiment aucun poids politique » (p.17). « La réduction des salaires et de l’emploi dans l’administration et dans les entreprises parapubliques figure, habituellement, parmi les principales mesures des programmes [d’ajustement] » (p. 29).

Selon Christian Morrisson, cette mesure est « moins dangereuse politiquement » que d’autres « et elle touche les classes moyennes plutôt que les pauvres » (p. 29). En cas de troubles (grèves…), « le gouvernement a toutefois les moyens de faire appel au pragmatisme des fonctionnaires. Il peut, par exemple, expliquer que, le FMI imposant une baisse de 20 pour cent de la masse salariale, le seul choix possible est de licencier ou de réduire les salaires et qu’il préfère la seconde solution dans l’intérêt de tous. Les expériences de plusieurs gouvernements africains montrent que ce discours peut être entendu » (p. 29). Ce qui est vrai en Afrique l’est certainement sous d’autres cieux.

Agir sur la qualité des services publics

« Si l’on diminue les dépenses de fonctionnement, il faut veiller à ne pas diminuer la quantité de service, quitte à ce que la qualité baisse. On peut réduire, par exemple, les crédits de fonctionnement aux écoles ou aux universités, mais il serait dangereux de restreindre le nombre d’élèves ou d’étudiants. Les familles réagiront violemment à un refus d’inscription de leurs enfants, mais non à une baisse graduelle de la qualité de l’enseignement et l’école peut progressivement et ponctuellement obtenir une contribution des familles, ou supprimer telle activité. Cela se fait au coup par coup, dans une école mais non dans l’établissement voisin, de telle sorte que l’on évite un mécontentement général de la population » (p. 30). Sans commentaire !

Diviser et opposer pour imposer

« Un gouvernement peut difficilement [ajuster] contre la volonté de l’opinion publique dans son ensemble. Il doit se ménager le soutien d’une partie de l’opinion, au besoin en pénalisant davantage certains groupes. En ce sens, un programme qui toucherait de façon égale tous les groupes (c’est-à-dire qui serait neutre du point de vue social) serait plus difficile à appliquer qu’un programme discriminatoire, faisant supporter l’ajustement à certains groupes et épargnant les autres pour qu’ils soutiennent le gouvernement. » (p. 17). Comme « la plupart des réformes frappent certains groupes tout en bénéficiant à d’autres, [...] un gouvernement peut toujours s’appuyer sur la coalition des groupes gagnants contre les perdants » (p. 18). Il faut donc diviser et opposer pour imposer.

Un régime « dictatorial » serait idéal pour imposer les réformes

« Une comparaison pour les pays d’Amérique latine entre des régimes démocratiques comme la Colombie, l’Équateur, le Pérou, et des régimes militaires, comme l’Argentine et le Chili, en 1981-82, montre que les troubles sont plus rares lorsque le régime est militaire [...] La comparaison entre les deux expériences de l’Argentine sous un régime militaire (en 1981) et en démocratie (1987) est parlante : le niveau de protestation a été trois fois plus élevé en 1987 et il y a eu beaucoup plus de manifestations » (p. 12). Ainsi, un régime dur serait idéal pour imposer les réformes. Le néolibéralisme serait-il en train de déraper ?

Au total, la Grèce préfigure bien la Tiers-Mondialisation de l’Europe.

Contre Info

Pourquoi sommes-nous des soldats politiques?

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES- 2003

Rodolphe LUSSAC:
Pourquoi sommes-nous des soldats politiques?

"Sol-stitium"-quand la loi marque un point d'arrêt tout comme le soleil à son solstice".

Andreas-Hofer-2.jpgNous sommes avant tout soldats, car nous servons l'idéal de la renaissance grande européenne, une cause impérieuse, pure et dure comme le sont nos bannières. Soldats, car nous rejetons toute forme de replâtrage réformiste du système dominant qui, par la voie des compromissions électoralistes et politiciennes, les prébendes partisanes et la duperie parlementaire, assure l'autorégulation, le recyclage permanent des “élites” (?) corrompues et le maintien du système ploutocratique.

Soldats nous sommes car nous pensons que le salut des nations européennes réside dans la destruction du système dominant. Soldats nous servons et ne discutons pas, nous réfléchissons et nous agissons. Nous servons la cause du politique au sens où l’entendait un Julien Freund, à savoir que, pour nou,s l'essence de l'action réside dans l'action. La triple dimension praxéologique, téléologique et eschatologique du politique transcende le stade purement opératoire, pragmatique et sécularisé du politique au sens moderne du terme. En poussant plus loin notre réflexion, nous pensons que la propagande par l'idée est une chimère et que les idées résultent des actes et non l'inverse. C'est pourquoi nous reprenons à notre compte la dialectique révolutionnaire de Carlo Pisacane ( http://28.1911encyclopedia.org/P/PI/PISACANE_CARLO.htm ), Enrico Malatesta ( http://www.britannica.com/ebi/article?tocId=9328937 ), Carlo Cafiero ( http://recollectionbooks.com/bleed/Encyclopedia/CafieroCarlo.htm ), Paul Brousse ( http://perso.club-internet.fr/ytak/avril1.html ) et José Antonio, qui prônaient la propagande par l'action, l'action accoucheuse des idées.

Notre foi et notre fidélité de soldat nous la devons à l'idéal national révolutionnaire qui veut un nouvel ordre étatique, aristocratique, hiérarchique, anti-démocratique et anti-égalitariste, ancré dans le cadre d'une grande Europe continentale, géopolitiquement autocentrée, déconnectée de l’économie globale, indépendante du servage euro-atlantiste et enracinée dans une conception civilisationnelle eurocentrée, fondée sur les valeurs de la terre et du sang.

Soldats, car nous concevons l'histoire comme une dialectique conflictuelle entre forces antagonistes dont les peuples sont les éléments constitutifs. L'agonalité et l'antagonisme sont le propre de tout système comme l'ont démontré Stéphane Lupasco et les travaux de Max Planck et de Pauli. L'histoire est constituée de luttes constantes entre les peuples organisés auxquels sont associés des cultures et des sociétés singulières, mues chacune par un désir d'expansion et de domination réciproque d'une manière consciente ou inconsciente.

Soldats, nous combattons pour la restauration du principe "politique" au sens noble du terme, de la politea, de l' imperium et de l' auctoritas, dans sa fonction évolienne, anagogique, c'est-à-dire capable d'imprégner aux peuples des valeurs métapolitiques, spirituelles et antimatérialistes spécifiques puis d'assurer une adhésion spontanée des masses. Pour nous, comme Carl Schmitt l’a si bien souligné le politique est le lieu privilégié de démarcation entre l'ami et l'ennemi. C'est pourquoi nous rejetons les fonctions managériales et gestionnaires de la politique politicienne, les fonctions modernes et ludiques de l'Etat contemporain qui favorisent la frénésie hédonistique de l'homo ludens moderne, décervelé et dévirilisé, manipulé par la société de consommation et par les médias, cet Etat-maquereau qui organise, dirige et patronne l'activité ludique du groupe pour mieux l'asservir et neutraliser les ressorts révolutionnaires en les dissolvant dans l'hyperfestif et dans la fausse cité de la joie permanente.

Soldats, nous prônons l'idéal de l'Etat polémologique qui sera chargé de défendre la survie et le développement de la puissance des peuples  européens face aux assauts conjugués de l'hégémonisme américain, de l'islamisme radical et de la colonisation extra-européenne de nos vieilles terres. En ce sens, nous rejetons en bloc la conception sociétaire et contractualiste de la nation et nous entendons restaurer le sens de la nation conçue comme un corps mystique alliant les générations passées, présentes et futures. La nation reste avant tout déterminisme, prédestination, nécessité et volonté.

Soldats, car nous croyons que l'activité guerrière est le degré suprême du processus de complexification civilisationnelle et le levier primordial dans l'histoire de la fondation des villes-mères et des cités Etats. La guerre comme source héraclitéenne de toute chose reste sous-jacente dans les relations internationales comme aux temps de Thucydide ou de Machiavel. Comme l'avait si bien souligné Hegel,  la guerre est la plus haute expression de l'Etat, celle où il atteint sa plus grande conscience et sa plus grande efficacité. L'Etat est et restera avant tout une machine de guerre et toutes ses autres attributions s'effacent devant celle-là, alors que la conception bourgeoise et gestionnaire de l'Etat démocratique dominant ne fait que gérer un état de chose déliquescent fait de stabilité et de prospérité fictives. L'autorité internationale d'un Etat se mesure à sa capacité de nuire, et l'histoire a montré que seuls réussissent à triompher de l'attachement au mos majorum (“la loi des ancêtres”) et de l'opposition conservatrice des différentes forces centrifuges les souverains auréolés de gloire militaire: à Rome, Auguste ou Dioclétien, en Russie, Pierre le Grand et Lénine, en Islam, Mehmet Ali et Mustapha Kemal, en Chine, Che-Huang-ti ou Mao Tsé-Toung; tous avaient remportés des victoires intérieures et extérieures avant d'oser imposer les profondes transformations politiques révolutionnaires en lesquelles ils avaient foi.

Soldats politiques, nous voulons restaurer l'idéal de la vocation politique au-dessus de l'économicisme contemporain et cela, au sens wébérien du terme, qui reste seul l'apanage d'hommes d'exception, cumulant et articulant l'éthique de la conviction et l'éthique de la responsabilité et du devoir. Dans le cadre des démocraties bourgeoises qui nous gouvernent, prolifère la classe des politiques professionnels et gestionnaires, des démagogues et arrivistes de tous genres, des mercenaires qui traquent des hautes fonctions politiques pour des raisons purement pécuniaires et carriéristes. Soldats, nous ferons le coup de balais nécessaire pour envoyer au diable tous ces imposteurs et fossoyeurs de l'idéal politique grand européen et nous voulons voir marcher côte à côte animé d'une même foi révolutionnaire l'empereur et le prolétaire, paradigme du nouvel héros moderne.

Nous établissons une contiguïté essentielle entre Etat d'exception et souveraineté politique, qui constitue le point de déséquilibre entre le droit public et le fait politique. Nous prônons l'avènement  d'un Etat d'exception voulu pour instaurer l'Etat comme émanation de l'ordre nouveau. La suspension de l'ordre juridique bourgeois, propre du système dominant, s'impose pour mettre un terme à l'anomie généralisée et au désordre établi. Le syntagme "force de loi" s'appuie sur une longue tradition de droit romain et médiéval et signifie "efficacité, capacité d'obliger". Nous voulons restaurer d'un point de vue opérationnel l'archétype de l'institution juridique romaine du "iustitium". Lorsque le Sénat romain était averti d'une situation compromettant la république, il prononçait un senatus consultum ultimum qui comprenait les mesures pour assurer la sécurité de l'Etat, ce qui impliquait un décret qui proclamait le tumultus, compris comme un état d'urgence causé par un désordre intérieur ou une insurrection. Cette institution de l'état d'urgence renvoie au "sol-stitium" : "quand la loi marque un point d'arrêt tout comme le soleil à son solstice".

Soldats politiques , car nous sommes avant tout des militants. Etymologiquement, le sens du mot “militant” renvoie à la distinction théologique de l'église militante par rapport à l'église triomphante. Ainsi, l'on peut faire l'analogie entre le militant et le fidèle qui détient la vérité dans son essence et sa totalité. Le militant lutte, attaque et paie de sa personne pour le triomphe de ses idéaux. Le verbe “militer” vient du latin"militari" qui veut dire “soldats” (au pluriel), lequel appartient à une église, une armée, ce qui suppose un esprit de discipline, d'abnégation et de sacrifice. C'est pourquoi le militantisme est au coeur de notre combat politique. Le militant idéal doit être un véritable intellectuel révolutionnaire qui lie dialectiquement sa pratique et ses connaissances théoriques, et la compréhension globale de la société dans laquelle il vit. Il se soumet volontairement à une praxis rigide qui réalise une unité dialectique entre théorie et pratique.

Soldats politiques, nous ne croyons pas au caractère automatique, évolutionniste ou naturel et spontané d'une révolution, car il n'existe pas de fatalité en politique et en économie; l'ordre libéral et capitaliste dominant sait se régénérer, il sait déplacer ses contradictions pour survivre. Les masses ne sont pas seulement exploitées, mais elles sont avant tous mentalement manipulées et aliénées. Il n'y a pas d'avancée révolutionnaire, sans processus de développement, et sans montée de la lutte des peuples. La lutte des peuples se présente dans la réalité sous des formes multiples de luttes sectorielles et locales (au niveau de l'entreprise, des régions, etc.). Ces luttes ne sont pas spontanées mais liées à des prises de conscience et des efforts militants venus de la base et dirigés d'en haut. Les luttes à la base, si elles sont exemplaires, restent néanmoins insuffisantes pour déclencher un changement global du système, car elles s'adressent à des vécus particuliers, prisonniers du contexte social général. Elles doivent en outre être liées entre elles et se coordonner pour pouvoir s'exprimer politiquement. Toute lutte de peuple a besoin d'un prolongement politique sous la forme d'une lutte avant-gardiste globale et idéologique, capable de poser le problème du point de vue central et global. C'est pourquoi il convient d'éviter l'écueil d'un élitisme trop rigide et d'un réformisme frileux, faute d'assurer une liaison dialectique entre lutte globale et lutte à la base, action politique avant-gardiste et mouvement de masse.

Soldats politiques, nous prônons une révolution qui insiste non seulement sur les changements structurels, économiques et politiques, mais aussi un changement humain, dans une dimension ontologique, en vue de réaliser l'homme nouveau et intégral, débarassé de l'égoïsme et de l'individualisme bourgeois. En ce sens, une telle “révolution totale” modifierait les rapports et l'éthique inter-relationnelle globale de la vie quotidienne. La révolution que nous prônons est celle d'un retour aux origines ,"revolvere", et qui vise à rétablir l'ordre-Etat autoritaire, l’économie dirigée, et la conception exclusive de l'identité, en harmonisant les institutions avec les mentalités originelles des peuples européens, selon le principe de l'homologie qui purgera les institutions et les mentalités des éléments allogènes et corrupteurs.

Soldats politiques, nous sommes irrémédiablement imprégnés d 'une conception tragique de la vie, à savoir, comme l'a si bien démontré Alfred Weber, que nous sommes conscients que tout ordre supérieur finit par perpétuer un certain chaos en proportion de la croissance de sa propre puissance. Tragique, car nous avons conscience de la grandeur impondérable de l'univers et du monde et de l'imperfectibilité et de la finitude de la nature humaine. Face à ce constat et ce paradoxe métaphysique, nous prônons une re-poétisation du monde et une esthétisation de l'Etat dans la lignée des romantiques allemands, Goethe, Novalis, Schlegel et Müller, conscient que les idées illuministes de la révolution française et le processus de désécularisation ont fini de dépoétiser le monde,  le politique finissant par générer le fameux "désenchantement du monde", dont nous parlait Max Weber. Comme Novalis, nous voulons que notre révolution devienne une totalité organique et poétique dans laquelle l'Etat nouveau sera l'incarnation existentielle et esthétique de la perfectibilité humaine. Et lorsque nous aurons réalisé notre tâche, nous nous en irons ailleurs, ailleurs, toujours plus loin, là-bas avec nos dieux.

Rodolphe Lussac.

lundi, 22 mars 2010

La Turquie: un partenaire peu fiable

Andreas MÖLZER:

La Turquie: un partenaire peu fiable

 

erdoganturquiecarioca.jpgC’est à un gel diplomatique que nous assistons entre Washington et Ankara. En effet, la Turquie a rappelé son ambassadeur en poste aux Etats-Unis parce que la Commission des affaires étrangères de la Chambre américaine des représentants a qualifié la persécution des Arméniens par l’Empire ottoman pendant la première guerre mondiale de génocide. Pour Ankara, cela n’a apparemment aucune importance que les Etats-Unis soient le principal soutien pour toutes les tentatives turques d’adhérer à l’UE. On s’aperçoit une fois de plus que la Turquie ne tient jamais compte de ses partenaires officiels et, en lieu et place d’une attitude de circonspection, ne poursuit que ses seuls intérêts, quel qu’en soit le prix.

 

La crise diplomatique qui sévit aujourd’hui entre les Etats-Unis et la Turquie doit constituer un sérieux avertissement pour l’Union Européenne: on s’imagine ce qui lui pend au nez si d’aventure Ankara devenait membre à part entière de l’Union. Les Turcs dicteraient sans vergogne leurs conditions à leurs “partenaires” européens, a fortiori parce que l’Union Européenne a tout de même nettement moins de poids que les Etats-Unis. Ensuite, l’ultime conséquence d’une éventuelle adhésion turque serait de voir basculer le centre de gravitation de l’Union de Bruxelles vers Ankara, ce qui signifierait, pour tous les Etats européens, un dangereux statut de vassalité. Pour éviter une telle horreur, qui serait sans fin, il faut tout de suite rompre, et définitivement, les négociations en cours pour l’adhésion pleine et entière de la Turquie à l’UE.

 

Le refus entêté de la Turquie, d’évaluer objectivement les pages sombres de son passé, prouve, une fois de plus, que ce pays est mentalement très éloigné de l’Europe. Bien sûr, personne n’exige des Turcs qu’ils battent indéfiniment leur coulpe, comme le font les Autrichiens et les Allemands à cause des faits et gestes d’un natif de Braunau, cultivant de la sorte un pénible national-masochisme. Pourtant, reconnaître que le massacre de près d’un million et demi d’Arméniens chrétiens était bel et bien un génocide constituerait un geste important pour enfin améliorer les relations entre la Turquie et l’Arménie.

 

Pour l’Union Européenne, enfin, qui cherche à tout prix à faire adhérer la Turquie, l’enjeu de la question arménienne est important : il implique ni plus ni moins la crédibilité même de l’Union. Déjà l’adhésion de la République Tchèque avait été assorti d’un blanchiment scandaleux : on avait accepté d’oublier les décrets de Benes qui avaient enfreint les droits de l’homme et le droit des gens. Ce fut un gifle retentissante au visage des Allemands des Sudètes chassés de leurs terres et donc un péché capital pour la « communauté de valeurs », reposant sur le respect de ces droits, qu’entend être l’UE.  Un péché qui ne devrait pas se répéter.

 

Andreas MÖLZER.

(article paru dans l’hebdomadaire viennois « zur Zeit », n°10/2010 ; trad.. franc. : Robert Steuckers).

R. Steuckers: itinéraire métapolitique et idiosyncratique

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2004

Itinéraire métapolitique et idiosyncratique

Réponses de Robert Steuckers
au questionnaire d’un étudiant, dont le mémoire de fin d’études porte sur l’anti-américanisme dans les milieux néo-droitistes, nationaux-révolutionnaires  et extrême-droitistes en Belgique
[Fait à Forest/Flotzenberg, août 2004].

Photo: Beloeil, Parc du Chäteau du Prince de Ligne, 20 août 2007 /  Copyright: AnaR

ANN92.doc 165.jpg1. Comment vous définissez-vous au niveau idéologique?

Première remarque : la notion d’idéologie n’est pas adéquate en ce qui me concerne. L’idéologie fonctionne selon un mode constructiviste, elle procède de ce que Joseph de Maistre nommait l’“esprit de fabrication”, elle tente de plaquer des concepts flous, soi-disant universellement valables, relevant du « wishful thinking », sur un réalité effervescente, qui procède, elle, qu’on le veuille ou non, d’une histoire, d’une réalité vivante, d’un flux vivant, souvent violent, rude, âpre. D’emblée, nous avons voulu une immersion dans ce flux, certes cruel, où le moralisme des systèmes idéologiques dominants n’a pas sa place, et non pas le repli frileux dans les espaces idéologisés, strictement contrôlés, qui ronronnent des ritournelles et qui ânonnent des poncifs dans le triste espace politico-intellectuel belge (français, allemand, etc.). Cette option implique un ascétisme rigoureux : celui qui refuse sinécures et prébendes, celui qui s’astreint à lire et à archiver sans état d’âme, sans désir vénal de voir ses efforts rémunérés d’une façon ou d’une autre. Un ascétisme aussi qui n’est jamais qu’une transposition particulière, et peut-être plus rigoureuse, de l’option de Raymond Aron qui se déclarait « spectateur désengagé ». Aprés plus de trente ans de combat métapolitique assidu, je ne regrette pas mon option première, celle de l’adolescent, celle de l’étudiant. Je n’ai tué ni l’enfant, ni l’adolescent, ni l’étudiant qui est en moi. Je garde les mêmes sentiments, la même moquerie, le même mépris pour le monde politique et intellectuel de ce pays qui crève sous la sottise des politicards véreux, qui se prétendent « démocrates ». « L’enfant qui joue aux dés », disait Nietzsche, grand poète. Et je ris. Tout à la fois de bon coeur et méchamment. Mélange des deux. Comme les enfants.

Pour revenir au terme « idéologie », je vous rappelle que l’objet de mon mémoire à l’institut de traducteurs-interprètes portait justement sur l’ « idéologie », comme articulation de la domination des préjugés. Ce petit ouvrage d’Ernst Topitsch et de Kurt Salamun (« Ideologie als Herrschaft des Vorurteils »)  —dont j’ai fait une traduction raisonnée et commentée—  démontrait comment tout discours idéologique masquait le réel, travestissait les réalités historiques, camouflait derrière des discours ronflants ou moralisants des réalités bien plus prosaïques et vénales. Topitsch, Salamun et Hans Albert, leur maître à penser, s’inscrivaient dans une tradition philosophique mettant l’accent sur le pragmatisme et la raison. Par conséquent, j’ai toujours estimé qu’il ne fallait jamais raisonner et analyser les faits de monde au travers du prisme d’une doctrine idéologique, quelle qu’elle soit. Au contraire l’attitude politique et intellectuelle qu’il convient de recommander est celle de Tite-Live, de Tacite et des « tacitistes » espagnols, dont faisait partie notre compatriote Juste-Lipse : recenser les faits, comparer, retenir des points récurrents, écrire des « annales d’empire », afin de pouvoir trancher vite en cas d’urgence, de décider sur base de faits d’histoire et de géographie, qui sont toujours récurrents. En effet, l’homme politique ne peut raisonner qu’en termes de temps et d’espace, puisqu’il est jeté, comme tous ses semblables, dans ce monde troublé, en perpétuelle effervescence, hic et nunc. L’idéologue est celui qui croit trouver des recettes soustraites aux affres du temps et de l’espace. Impossible. Il est donc un escroc intellectuel. Et un piètre politique. Il inaugure des ères de ressac, de déclin, de décadence, de déchéance.

A cette option « tacitiste », j’ajouterai la marque de Johann Gottfried Herder, théoricien au 18ième siècle d’une vision « culturaliste » de l’histoire, opposée aux schématismes de l’idéologie des « Lumières ». La vision herdérienne de l’histoire a eu un impact politique considérable en Flandre, en Allemagne, dans tous les pays slaves et scandinaves, en Irlande. Elle estime que le patrimoine culturel d’un peuple est un éventail de valeurs impassables, que l’homme politique ne peut négliger, ni mettre « à disposition », comme le dit Tilman Meyer, pour satisfaire une lubie passagère, une mode, un schéma idéologique boiteux, qui n’aura aucun lendemain ou, pire, inaugurera une ère de sang et d’horreur, comme à partir de Robespierre.

Ma position, face à la question qui interpelle tout publiciste quant à ses options idéologiques, est donc la suivante : je ne m’inscris nullement dans le cadre étroit, artificiel et fabriqué d’une « idéologie », mais dans le cadre d’une histoire européenne, qu’il faut connaître et qu’il faut aimer.

2. Quels sont les penseurs les plus importants pour vous?


J’estime que tous les penseurs politiques sont importants et que l’homme engagé, sur le plan métapolitique comme sur le plan politique, doit avoir une solide culture générale. On mesure pleinement le désastre aujourd’hui, quand on voit des huitièmes de savant se pavaner grossièrement sur la scène de la politique belge et européenne. Des huitièmes de savant passés maîtres évidemment dans l’art de hurler des slogans idéologisés, qui valent ce qu’ils valent, c’est-à-dire rien du tout. S’il est un penseur important à approfondir ou à redécouvrir aujourd’hui, c’est sans nul doute Carl Schmitt. Que des dizaines de politologues, dans le monde entier, et surtout près de chez nous aux Pays-Bas, sont en train de faire revivre. Mais Carl Schmitt a commencé à écrire à seize ans, a produit son dernier article à l’âge de 91 ans. Sa culture classique et sa connaissance des avant-gardes du 20ième siècle étaient immenses. Au-delà de son oeuvre qui insiste, comme vous le savez, sur l’esprit de décision, sur les constitutions, sur la notion de « grand espace », etc., nous découvrons au fil des pages, et surtout de son journal, Glossarium, —paru seulement après sa mort, à sa demande—, une connaissance très vaste de la culture européenne, non seulement politique, mais aussi littéraire et artistique. Ce constat, après lecture du Glossarium de Schmitt ou des Journaux de Jünger, m’induit à refuser cette facilité, très courante chez bon nombre de publicistes, qui consiste à sélectionner quelques figures, à les isoler du vaste contexte dans lequel elles ont émergé, à les simplifier, à en faire de vulgaires sources de slogans à bon marché, à les couper de leurs sources, souvent innombrables. Ce vain exercice de sélection et de simplification conduit trop souvent à des discours creux, tout comme l’exaltation des schémas idéologiques.

Je plaide par conséquent pour une connaissance réelle de toute la trajectoire de la pensée européenne, pour une connaissance des trajectoires arabo-musulmanes ou asiatiques, comme l’ont fait des auteurs comme Henry Corbin pour le monde iranien ou la mystique islamique, Thierry Zarcone pour cet étonnant mélange de soufisme et de chamanisme qui structure le monde turc, comme Giuseppe Tucci pour les mondes chamaniques et bouddhistes d’Asie centrale, etc. Aucune personnalité du monde intellectuel, aussi pertinente soit-elle, aucune époque, aussi riche soit-elle, ne sauraient être isolées des autres. L’Europe et le reste du monde ont besoin de retrouver le sens de la chronologie, le sens du passé: c’est la réponse nécessaire aux épouvantables  ravages qu’a fait le progressisme en jugeant, de cette manière si impavide qui est la sienne, tout le passé comme un ensemble hétéroclite de méprisables reliquats, juste bons à être oubliés. La leçon du Prix Nobel de littérature V. S. Naipaul est à ce titre fort intéressante : on ne peut gommer le passé d’un peuple; toute conversion, aussi complète puisse-t-elle paraître, ne saurait oblitérer définitivement ce qu’il y avait « avant ». Naipaul nous enseigne à respecter le passé, à nous méfier des « convertis » aux discours tapageurs, tissés de haine. Pour moi, cette haine est certes le propre des talibans, que l’on a vu à l’oeuvre à Bamiyan en Afghanistan, est le propre des tueurs musulmans d’Indonésie, bien évidemment, mais aussi, chez nous, le propre du mental des tristes avataras de l’idéologie des Lumières: les ruines de l’abbaye de Villers-la-Ville et le trou béant de la Place Saint Lambert à Liège l’attestent, pour ne pas mentionner les autres sites en ruines depuis la révolution française, dont l’historien René Sédillot a dressé le bilan affligeant. La rage d’éradiquer, la frénésie de détruire sont bel et bien le propre de certaines conversions, de certaines idéologies, notamment de celles qui tiennent, ici chez nous, aujourd’hui, le haut du pavé.

Il nous faut donc retrouver le sens des humanités, comme on disait à la Renaissance, c’est-à-dire renouer avec nos antiquités et dire, avec Goethe, que « rien d’humain ne doit nous demeurer étranger ». Les faux « humanistes » professionnels, qui écervèlent les jeunes générations depuis mai 1968, et tiennent le pouvoir aujourd’hui, trahissent cet humanisme en usurpant justement le terme « humanisme », pour en faire, avec la complicité des médias, le synonyme de leurs forfaitures. Nos faux « humanistes », parlementaires ou « chiens de garde » du système dans les médias, vont à contre-sens de ceux qui ont donné à V. S. Naipaul un Prix Nobel que cet écrivain indo-britannique a très largement mérité. Quand, comme ces politiciens et ces médiacrates incultes, on pense que le discours, que l’on développe, est une panacée universelle indépassable, qu’elle incarne le « multiculturalisme », l’imposture éclate au grand jour: pour ces gens « tout ce qui est humain, c’est-à-dire tous les héritages situés » leur est étranger; leur « multiculturalisme » n’est ni multiple, puisqu’il vise l’homologation universelle, ni culturel, car toute culture est située, animée d’une logique propre, que le respect des choses humaines nous induit à préserver, à maintenir et à cultiver, comme nous l’enseigne Naipaul.

Donc il faut tout lire, tout découvrir et re-découvrir. Chacun selon ses choix (Goethe: « Ein jeder sieht, was er im Herzen trägt »), chacun selon ses rythmes.

3. Ce qui est frappant dans votre anti-américanisme de « droite », c’est qu’il est le pendant négatif de votre européanisme radical et qu’il est aussi multiforme : puisqu’il critique les aspects sociaux, culturels, économiques, géopolitiques et législatifs (questions de droit international) des Etats-Unis?

D’abord, je perçois dans votre question une anomalie fondamentale due sans doute aux mauvaises habitudes lexicales et sémantiques nées de la Guerre Froide. L’anti-américanisme n’est pas le propre des gauches. Historiquement parlant, c’est faux. L’anti-américanisme est une très vieille idée « conservatrice ». Petit rappel: l’inquiétude face à la proclamation de la doctrine de Monroe dans l’Europe de la Restauration était réelle. Ainsi, Johann Georg Hülsemann, le ministre autrichien des affaires étrangères en 1823, au moment où le Président américain Monroe proclame sa célèbre doctrine, avertit l’Europe du danger que représentent les principes dissolvants de l’américanisme. Tocqueville voit émerger une « démocratie », atténuée, jugulée ou contrôlée par des lobbies, forte de sa pure brutalité et de ses discours simplistes, dépourvus de toutes nuances et subtilités. L’aventure mexicaine de Maximilien a l’appui d’une Europe conservatrice qui veut remplacer outre Atlantique une Espagne qui n’est plus capable, seule, d’assurer là-bas sa mission. En 1898, les forces conservatrices européennes sont du côté de l’Espagne agressée et scandaleusement calomniée par les médias imprimés (déjà les mêmes tactiques de diabolisation outrancière!). Quand Sandino et ses partisans se dressent au Nicaragua contre l’emprise économique américaine, les forces conservatrices catholiques sont à ses côtés. La littérature française d’inspiration conservatrice fourmille de thématiques anti-américaines et dénonce le quantitativisme, la frénésie et l’économisme de l’American Way of Life.

Hülsemann décrit l’opposition de principe entre l’Amérique et l’Autriche-Hongrie comme un choc imminent, opposant des « antipodes ». Il avait vu clair. En effet, les politiques menées au nom d’une continuité millénaire, comme celle qu’incarnait l’Empire austro-hongrois, héritier de l’impérialité romaine-germanique, et celles menées au nom de la nouveauté intégrale, qui entend rompre avec tous les passés, comme l’incarnent les Etats-Unis, sont irréconciliables dans leurs principes, surtout si l’on veut transposer la nouveauté américaine dans le contexte européen et danubien. Dans cette lutte duale, et métaphysique, je suis évidemment du côté des continuités, quelles qu’elles soient et où qu’elles s’incarnent sur la planète.

Pour ce qui concerne la Russie, elle a été, dès la fin de l’ère napoléonienne, le bouclier de la Tradition dans le concert des puissances européennes, avec le dessein de ne plus laisser se déchaîner l’hydre révolutionnaire, qui, à cause de ses obsessions idéologiques et de sa volonté de transformer le réel de fond en comble, met fin aux guerres de « forme », idéologise les conflits et entraîne la disparition de la distinction entre civils et militaires, comme le montre les horreurs commises en Vendée. Dostoïevski, pourtant révolutionnaire décembriste au début de sa carrière, s’est, avec la maturité, parfaitement rendu compte de la mission « katéchonique » de son pays. Son Journal d’un écrivain explicite les grandes lignes de sa vision politique et géopolitique. Le traducteur allemand de ce Journal d’un écrivain n’est autre que la figure de proue de la « révolution conservatrice », Arthur Moeller van den Bruck. Ce dernier, sur base d’une connaissance très profonde de l’oeuvre de Dostoïevski, énonce la théorie russophile de la « révolution conservatrice » : la Russie est éternelle dans son refus des mécanismes révolutionnaires et du rationalisme étriqué qui en découle. Même si, en surface, elle devient « révolutionnaire », elle ne le sera jamais dans ses tréfonds. Donc l’Allemagne conservatrice doit s’allier à la nouvelle Russie soviétique pour se dégager de la cangue politique et économique que lui impose l’Occident libéral. Pour Moeller van den Bruck, le soviétisme n’est qu’un « habit », qui revêt, momentanément, une Russie « illibérale » qui ne peut se trahir. Cette idée revient à l’avant-plan dans le sillage de mai 68: en Occident, les derniers restes de bienséance traditionnelle, les institutions qui reflètent le fond ontologique de l’homme, sont battus en brèche par la nouvelle idéologie, alors qu’au même moment, en Union Soviétique, on assiste à un retour à de nouvelles formes de slavophilie traditionnelle.

Dans l’espace néo-droitiste allemand, cette renaissance slavophile faisait germer l’espoir d’une nouvelle alliance russe, pour secouer le joug américain, faire quitter le territoire allemand par les Britanniques et voir les Français retraverser le Rhin.

Dans l’espace néo-droitiste français, surtout sous l’impulsion indirecte du créateur de bandes dessinées Dimitri, l’image d’une humanité russe fruste mais honnête, intacte en son fond ontologique, agitait aussi les esprits. Pour certains, qui allaient évoluer vers un néo-national-bolchevisme, et redécouvrir, à la suite de la thèse de doctorat du Prof. Louis Dupeux, l’oeuvre d’Ernst Niekisch  —le national-bolchevique du temps de la révolution spartakiste et de la République de Weimar—,  la société soviétique était un modèle de décense face à un Occident perverti par l’idéologie soixante-huitarde, la permissivité générale et la déliquescence des moeurs.

Pour d’autres, mieux ancrés dans les rouages étatiques en Occident, l’affaire des missiles, le retour à l’idéologie d’un occidentalisme missionnaire des droits de l’homme, d’une idéologie de l’Apocalypse (l’Armaggedon, disait-on), l’évolution de la praxis politique internationale des Etats-Unis était inadmissible. Elle signifiait une immixtion totale. Elle assimilait l’ennemi au Mal absolu, ravivait en quelque sorte les guerres de religion, toujours horribles dans leur déroulement. Elle n’admettait plus la neutralité librement choisie d’Etats, pourtant en théorie libres et souverains, et assimilait la modération à de la tiédeur, de la lâcheté ou de la trahison. On a revu le même scénario pendant la guerre d’Irak: la diplomatie appartenait au passé, annonçaient les nouveaux bellicistes anti-européens à la Kagan; le monde devait suivre l’ « Empire » et punir tous les récalcitrants, posés d’office comme « immoraux ». Finalement, Staline et sa diplomatie des rapports bilatéraux entre Etats apparaissait comme un modéré, qui avait arrondi les angles d’une praxis internationale révolutionnaire et bolchevique, également apocalyptique, binaire et manichéenne.

Cette pratique des rapports bilatéraux permettait aux petites puissances des deux blocs en Europe d’amorcer, du moins en théorie et au nom de la liberté des peuples et des Etats de disposer d’eux-mêmes, des relations bilatérales sans l’intervention des deux superpuissances. Ce créneau théorique, notre ministre des affaires étrangères de l’époque, Pierre Harmel, a tenté de l’occuper. Il a voulu dégager les pays européens, au nom d’une idée d’ « Europe Totale », de l’étreinte mortelle du duopole américano-soviétique. Cette oeuvre de paix lui a valu d’être traité de « crypto-communiste ». Les atlantistes, comme le remarque Rik Coolsaet, qui entend s’inscrire dans la tradition harmélienne de notre diplomatie, ont torpillé cette initiative belge et ramené notre pays dans l’ordre atlantique. Cette immixtion intolérable dans notre liberté d’action postule, bien évidemment, pour tous les patriotes, de considérer l’atlantisme comme l’ennemi numéro un et les atlantistes comme des traitres, non seulement à la patrie belge, mais aussi aux patries flamande et wallonne et à la Grande Patrie européenne. La caballe contre Harmel, menée avec des complicités intérieures, surtout socialistes, constitue une intolérable ingérence dans les affaires européennes.

L’affaire Harmel a rebondi vers 1984, quand éclate à l’OTAN le scandale Kiessling. Le général allemand Kiessling voulait raviver la « Doctrine Harmel », qu’il défendait avec brio dans les colonnes de la presse ouest-allemande. Il souhaitait un partage des tâches plus équitable au sein de l’OTAN et l’accès d’officiers européens aux commandements réels. Les services américains ont considéré que cette exigence de justice et d’équité constituait une révolte inacceptable de la part d’un minable « foederatus » du nouvel empire thalassocratique. De toutes pièces, on a monté une caballe contre le Général Kiessling, en poste au SHAPE à Mons, arguant qu’il avait des rapports homosexuels avec son chauffeur. Au même moment, avec beaucoup de courage, Rik Coolsaet, haut fonctionnaire au ministère des affaires étrangères, ose, à son tour, réhabiliter la Doctrine Harmel, dans un livre qui comptera plusieurs rééditions. La tradition européiste reste donc malgré tout bien présente dans notre pays. Dans le cadre de votre travail, ou dans tout développement ultérieur de celui-ci, il serait bon que vous procédiez à une étude parallèle de l’européisme officiel de Harmel et de l’européisme « marginal » de Thiriart.

Le cadre de l’anti-américanisme de mes publications s’inscrit donc dans cette critique conservatrice de l’américanisme, bien étayée depuis les écrits de Hülsemann. Pour Hülsemann, qui écrit juste après la proclamation de la Doctrine de Monroe, l’américanisme peut tranquillement se développer derrière la barrière océanique que constitue l’Atlantique. Mon objectif n’est donc pas de critiquer tel ou tel aspect de la vie politique, sociale ou économique des Etats-Unis, car ils sont libres de développer les formes sociales qu’ils souhaitent voir advenir dans leur réalité quotidienne. Pour répondre à la deuxième partie de votre question, je dirais que si nous avons quelques fois critiqué certains aspects de la société américaine, c’est dans la mesure où ces aspects peuvent s’exporter en d’autres espaces de la planète, comme le craignait Hülsemann. Dans L’ennemi américain, j’ai surtout choisi de développer et de solliciter les arguments de Michel Albert dans son célèbre ouvrage Capitalisme contre capitalisme. Michel Albert, dont l’inspiration est essentiellement « saint-simonienne », défend le capitalisme ancré dans un espace donné, patrimonial et investisseur, soucieux de la survie des secteurs non marchands et démontre la nocivité des doctrines importées depuis le monde anglo-saxon, qui privilégient la spéculation boursière et ne se soucient nullement des dimensions non marchandes, nécessaires à la survie de toute société. Par conséquent, toute critique de tel ou tel aspect de la société américaine doit porter uniquement sur leurs aspects exportables et dissolvants. S’ils sont dissolvants, ils ne faut pas qu’ils soient importés chez nous. S’ils ne le sont pas et permettent au contraire de fortifier notre société, il faut les adopter et les adapter. Au cas par cas.

La géopolitique américaine a entièrement pour vocation de contrôler les rives européenne et africaine de l’Atlantique et les rives asiatiques du Pacifique, afin qu’aucune concentration de puissance économique ou impériale ne puisse s’y consolider. En réponse à ce défi, nous devons, malgré les innombrables difficultés, oeuvrer pour qu’un jour l’émergence de blocs soudés par l’histoire, en Europe et en Asie, redevienne possible. Autre nécessité, pour y parvenir: manifester une solidarité pour les continentalistes latino-américains, qui entendent se dégager de l’emprise nord-américaine. Le panaméricanisme n’est jamais que le camouflage du colonialisme de Washington, dans une vaste région du monde aux réflexes catholiques et traditionnels, qui respectent le passé européen. Dans le cadre de l’église catholique, il y a eu assez de voix pour plaider pour l’indépendance ibéro-américaine, des voix qui ont pris tantôt une coloration idéologique de droite, tantôt une coloration idéologique de gauche, notamment au temps de la « théologie de la libération ». Ces colorations n’ont pas d’importance de fond: ce qui importe, c’est l’indépendance continentale ibéro-américaine. Car si cette indépendance advient, ou si les Etats-Unis éprouvent de manière constante des difficultés à maintenir leur leadership, la cohésion du « nouveau monde » face à l’Europe et à l’Asie recule, à notre bénéfice commun.  

Quand vous évoquez les aspects « législatifs » de notre critique de l’américanisme, vous voulez sûrement mentionner notre critique des principes non traditionnels de droit international que les Etats-Unis ont imposés à la planète depuis Wilson. Depuis le Président Wilson, sous l’impulsion des Etats-Unis, le droit international devient un mixte biscornu de théologie à bon marché, de principes moraux artificieux et d’éléments réellement juridiques qui ne servent que de decorum. Théologie, principes moraux et éléments de droit que l’on va modifier sans cesse au gré des circonstances et des intérêts momentanés de Washington. Les bricolages juridico-idéologiques des Kellogg et Stimson, manipulés contre les intérêts vitaux du Japon dans les années 20 et 30, les manigances de l’Administration Clinton dans l’affaire yougoslave en 1998-1999, les appels à détruire définitivement les principes de la diplomatie traditionnelle avant l’invasion de l’Irak au printemps 2003, attestent d’une volonté d’ensauvager définitivement les moeurs politiques internationales. Position évidemment inacceptable. L’oeuvre de Carl Schmitt nous apprend à critiquer cette pratique barbare de Washington, véritable négation des principes policés de la civilisation européenne, établis au cours du 18ième siècle, après les horreurs des guerres de religion. Dans l’idéologie américaine, les théologies violentes et intolérantes du puritanisme religieux s’allient aux folies hystériques de l’idéologie révolutionnaire française. Cette combinaison calamiteuse a contribué à ruiner la culture européenne et son avatar moderne, la civilisation occidentale. Sur base de leur excellente connaissance de l’oeuvre de Carl Schmitt, Günter Maschke, en Allemagne, et Nikolaï von Kreitor, en Russie, travaillent actuellement à élaborer une critique systématique de la pratique bellogène qui découle de ce « mixtum compositum » théologico-juridique.

4. Il y a chez vous, et c’est lié à vos études je suppose, un grand intérêt pour le monde germanique, à la fois au niveau historique et géopolitique, mais aussi au niveau de l’histoire des idées politiques et notamment au travers de la révolution conservatrice. Qu’en est-il?

Certes, mais, quantitativement, le « monde germanique », comme vous dites, est celui qui, au cours de l’histoire européenne, a produit le plus de textes politiques, philosophiques et idéologiques, tout simplement parce que la langue allemande est la langue européenne la plus parlée entre l’Atlantique et la frontière russe. Peut-on comprendre réellement les grands courants idéologiques contemporains en Europe et dans le monde, tels le marxisme, le freudisme, l’existentialisme, etc., sans se référer aux textes originaux allemands et sans connaître le contexte, forcément germanique, dans lequel ils ont d’abord émergé. J’ai toujours été frappé de constater combien étaient lacunaires les productions soi-disant marxistes ou freudiennes d’individus ne maîtrisant pas l’allemand. La même remarque vaut pour les conservateurs ou néo-droitistes ou nationaux-révolutionnaires qui se piquent de connaître les protagonistes allemands de « leur » idéologie, tout en ne sachant pas un traître mot de la langue tudesque. Le premier résultat de cette ignorance, c’est qu’ils transforment cet univers mental en une panoplie hétéroclite de slogans décousus, d’imageries naïves, de transpositions plus ou moins malsaines, panoplie évidemment détachée de son contexte historique, essentiellement celui qui s’étend de 1815 à 1914. La « révolution conservatrice », que vous évoquez dans votre question, est certes importante, dans le sens où elle exprime cette sorte de « néo-nationalisme » des années 20, sous la République de Weimar, soit un ensemble de courants idéologiques non universalistes, opposés au marxisme de la social-démocratie ou au libéralisme économique, ensemble assez diversifié qu’ont défini des auteurs comme Armin Mohler ou Louis Dupeux (Zeev Sternhell préférant parler, pour la France, de « droite révolutionnaire »). Cependant, si Mohler, par exemple, a dû opérer une coupure temporelle et limiter sa recherche aux années qui vont de la défaite allemande de 1918 à l’avènement de Hitler au pouvoir en janvier 1933, cet ensemble de courants  idéologiques n’est évidemment pas hermétiquement fermé aux époques qui l’ont précédé et à celles qui l’ont suivi. Cette « révolution conservatrice » de 1918-1932 a des racines qui plongent profondément dans le 19ième siécle : notamment via la lente réception de Nietzsche dans les milieux parapolitiques, via les mouvements sociaux non politiques de « réforme de la vie », dont les plus connus restent le mouvement de jeunesse « Wandervogel » et le mouvement de l’architecture nouvelle, Art Nouveau ou Jugendstil, notamment l’école de Darmstadt et, chez nous, celles de Horta et de Henry Vandevelde (tous deux également très actifs en Allemagne). Ces mouvements sociaux étaient plutôt socialistes, voyaient l’avènement du socialisme d’un oeil bienveillant, mais, simultanément, offraient à ce socialisme naissant, une culture que l’on pourrait parfaitement qualifier d’ « archétypale », offraient des référents germanisants, celtisants ou néo-médiévaux, mettaient l’accent sur l’organique plutôt que sur le mécanique. La social-démocratie autrichienne de la fin du 19ième siècle présente ainsi des références qui sont davantage schopenhaueriennes, wagnériennes et nietzschéennes que marxistes. Sous le national-socialisme, certaines trajectoires intellectuelles se poursuivent sans être censurées. Et ces mêmes trajectoires se prolongent dans les années fondatrices de la République Fédérale, jusque très loin dans les années 60 et sous des étiquettes non nationalistes et non politiques.

Par ailleurs, la « révolution  conservatrice » n’est pas un monde exclusivement allemand. Les passerelles sont très nombreuses : l’influence de Maeterlinck, par exemple, est prépondérante dans la genèse d’une nouvelle pensée organique en Allemagne avant 1914. J’ai déjà évoqué brièvement l’influence de l’école belge de Horta en Allemagne, et vice-versa, l’influence des écoles de Vienne et de Darmstadt, voire de Munich, sur l’Art Nouveau en Belgique, à Nancy et à Paris. La philosophie de Henri Bergson joue également un rôle capital dans la genèse de la révolution conservatrice. Un homme comme Henri De Man se situe lui aussi dans cette zone-charnière entre le socialisme vitaliste et populaire de la sociale-démocratie d’avant 1914 et les théories économiques non libérales du « Tat-Kreis » révolutionnaire-conservateur. Les influences des Pré-Raphaëlites anglais, de l’architecture théorisée par Ruskin, du mouvement « Arts & Crafts » en Grande-Bretagne ont influencé considérablement les théoriciens allemands du Jugendstil, d’une part, et l’architecture organique d’un Paul Schulze-Naumburg avant, pendant et après le national-socialisme, d’autre part. L’expressionnisme, mouvement complexe, diversifié, influence l’époque toute entière, une influence qui retombe forcément aussi sur l’espace intellectuel « révolutionnaire conservateur ».  On ne saurait négliger l’influence des grands courants ou des grandes personnalités scandinaves telles Kierkegaard, Hamsun, Strindberg, Ibsen, Munch, Sibelius, Nielsen, etc. L’Espagne est présente aussi, par l’intermédiaire d’Ortega y Gasset, très apprécié en Allemagne, surtout chez les protagonistes catholiques de la « révolution conservatrice », dont Reinhold Schneider, qui a atteint le sommet de sa célébrité dans les années 50. Entre l’oeuvre de l’Anglais D. H. Lawrence et cet ensemble « révolutionnaire conservateur », d’une part, et le monde artistique contestataire et organique de l’époque, d’autre part, est-il possible d’établir une césure hermétique? Non, évidemment. La Russie, avec ses penseurs slavophiles, avec Leontiev et Dostoïevski, ensuite via l’émigration blanche à Berlin, pèse, à son tour, d’un poids prépondérant sur l’évolution des penseurs « révolutionnaires conservateurs ». La France, outre Bergson, influence les jeunes néo-nationalistes, dont Ernst Jünger, qui sont de grands lecteurs de Léon Bloy, de Maurice Barrès, de Charles Péguy, de Charles Maurras (en dépit de l’anti-germanisme outrancier de celui-ci).

La « révolution conservatrice » n’est donc pas vraiment une spécialité germanique, mais l’expression allemande, localisée dans le temps de la République de Weimar, d’un vaste mouvement européen. Il convient donc d’étudier les passerelles, de mettre en exergue les influences réciproques des uns sur les autres, de ne pas isoler cette « révolution conservatrice » de ses multiples contextes, y compris celui de la social démocratie d’avant 1914.

Connaissant la langue allemande, j’ai pris cet ensemble « révolutionnaire conservateur » comme tremplin, pour entamer une quête dans toute la culture européenne des 19ième et 20ième siècles. J’ai également utilisé les travaux de Zeev Sternhell (La droite révolutionnaire et Ni gauche ni droite) ainsi que les classifications du Professeur français René-Marill Albérès, spécialiste de l’histoire littéraire européenne. Albérès est justement l’homme qui m’a aidé à bien percevoir les innombrables passerelles entre courants littéraires provenant de toutes les nations européennes. Partant, la maîtrise des classifications d’Albérès, ajoutées à celle de Mohler, de Sternhell et de Dupeux (et du national-révolutionnaire historique Paetel), me permettait d’opérer une transposition vers la sphère des idéologies politiques.

Pour terminer ma réponse, je dirais que cet ensemble de courants idéologiques ne relève nullement du passé: le retour « postmoderne » à une architecture moins fonctionnelle, la nécessité ressentie de voir triompher un urbanisme de qualité à l’échelle humaine (comme le voulaient Horta et l’école de Darmstadt), la sensibilité écologique qui doit davantage à Bergson, Klages, Friedrich-Georg Jünger, D. H. Lawrence, Jean Giono et tant d’autres qu’aux soixante-huitards et marxistes recyclés dans la défense d’une nature à laquelle ils ne comprennent généralement rien, le mouvement altermondialiste qui cherche à jeter les bases d’une économie nouvelle, la guerre en Irak qui a fait prendre conscience de l’inanité de l’interventionnisme systématique des Etats-Unis (à l’instar de Carl Schmitt), l’engouement généralisé pour les grands courants religieux et mystiques, le goût du public pour l’aventure et les épopées, notamment sur les écrans de cinéma, montrent tous que les filons philosophiques, qui ont donné naissance à la « révolution conservatrice », qui l’ont irriguée et ont suscité de nouvelles veines, qui sont ses héritières, demeurent vivants.  

5. Dans vos revues, il y a beaucoup de traductions d’articles provenant du monde germanophone, mais aussi latin (hispanique et italien) et, plus original encore, de l’Europe slave, en particulier de la Russie. D’une certaine façon, ne peut-on pas considérer votre revue comme une sorte de « Courrier International » de la pensée européiste?

En effet, le poids prépondérant de thématiques germanisantes au début de l’histoire de Vouloir, faisait dire, à quelques néo-droitistes parisiens jaloux, qui n’ont pas digéré entièrement l’anti-germanisme maurrassien en dépit de leurs dénégations et de leur germanomanie de pacotille, que mes publications étaient des « revues allemandes en langue française ». J’ai donc suivi des cours accélérés en langues espagnole, italienne et portugaise, de façon à acquérir une connaissance passive de ces langues et de traduire, avec l’aide d’amis et de mon ex-épouse, les articles de nos innombrables amis hispaniques et italiens. D’autres, que je remercie, m’ont aidé à traduire des articles du polonais et du russe. L’objectif a donc toujours été de dire « non » aux enfermements; « non » à un enfermement dans le carcan très étroit du belgicanisme institutionnel (ce qui n’est évidemment pas le cas de notre culture, qui a un message serein à offrir à tous), « non » à un enfermement dans le carcan de la francophonie officielle, « non » au carcan de l’eurocratisme, « non » au carcan de l’atlantisme. Par ailleurs, « non » aux carcans idéologiques et politiques, « non » aux deux carcans du « démocratisme chrétien » et du « laïcisme libre(!!!!!)-penseur » à la belge. La masse de textes, de thématiques diverses et variées, qu’offraient les éditeurs et les revues allemandes permettait de rebondir dans tous les domaines et dans tous les espaces culturels européens et d’éviter toute forme d’enclavement idéologique.

Au fond, je vais confesser ici pour la première fois que cette idée est très ancienne chez moi: elle vient de la victoire électorale du FDF aux élections communales de 1970. Flamand de Bruxelles, littéralement assis sur deux cultures, cette victoire électorale a fait pâlir mon père, l’angoisse se lisait sur le visage de cet homme de 57 ans, qui craignait la minorisation des Flamands de Bruxelles, un homme simple qui n’avait pas envie de subir l’arrogance d’une bourgeoisie et d’une petite bourgeoisie qui se piquait d’une culture française (qu’elle ne connaissait évidemment pas en ses réels tréfonds), un pauvre petit homme qui devinait aussi, instinctivement, que ce francophonisme de brics et de brocs, plus braillard que créateur de valeurs culturelles véritables, barrait la route de beaucoup aux cultures néerlandaise, allemande et anglaise, auxquelles les Flamands ont un accès plus aisé. Ensuite, ce qui le rendait malade, c’était les rodomontades des « traitres » : les Flamands de souche, installés à Bruxelles, qui croyaient s’émanciper, échapper à la culture, souvent rurale, qu’avaient abandonnée leurs parents en venant travailler dans la grande ville. Tout cela était confus dans la tête de mon père, qui aimait les Wallons, quand ils étaient authentiques. Il avait travaillé à Liège, comme beaucoup de Limbourgeois. Il aimait les Ardennais et surtout les Hesbignons, dont les Limbourgeois du Sud sont si proches et auxquels ils sont si souvent liés par des liens matrimoniaux. Et les Wallons du quartier, où nous vivions, n’avaient cure du bête « francophonisme » des nouveaux francophonissimes originaires de Flandre ou de Campine, qui n’avaient rien de wallon, qui agaçaient les vrais Wallons. Et les Ardennais de Bruxelles, comme mon père du Limbourg, ne reniaient pas leur culture catholique et rurale, qu’ils ne retrouvaient évidemment pas dans les rodomontades émancipatrices des zélotes du nouveau parti de Lagasse et de « Spaakerette ». Dans ma tête d’adolescent, tous ces affects paternels s’entrechoquaient, provoquaient des réflexions, sans doute fort confuses, mais qui allait être à la base de toutes mes entreprises ultérieures et surtout de ma décision d’étudier les langues germaniques. Car que proposaient les braillards du FDF, dont l’insupportable Olivier Maingain perpétue la triste tradition? Rien d’autre qu’un réductionnisme intellectuel, inacceptable en notre pays, carrefour entre quatre grandes langues européennes. Le multilinguisme est une nécessité et un devoir: à quatorze ans, j’en étais bien conscient. Mon père aussi. J’allais donc devoir, adulte, me battre contre l’ineptie qui venait de triompher, par la grâce des dernières élections. Il fallait commencer la bataille tout de suite. A cette heure, je n’ai pas encore déposé les armes.

Mais, il fallait que je me batte en français car le vin avait été tiré, j’étudiais dans cette langue, depuis ma première primaire, sans renier mes racines; il me fallait donc utiliser la langue de Voltaire pour commencer le travail de reconquista qu’il s’agissait d’entreprendre, non pas tant contre le FDF, manifestation éphémère, politicienne et périphérique d’un « francophonisme » bizarre, mixte monstrueux d’ « illuminisme » révolutionnaire et de « postmaurrasisme panlatiniste » (qui ne voulait pas s’avouer tel), mais contre tous les simplismes et réductionnismes que le (petit) esprit, se profilant derrière sa victoire, amenait dans son sillage. Toute cette bimbeloterie francophonisante finissait par m’apparaître comme des « plaquages » artificiels, des agitations superficielles sans fondements. La culture rurale matricielle me paraissait seule authentique (quelques mois plus tard, Mobutu évoquait l’authenticité zaïroise, banalisait le terme d’ « authenticité » et je ne pouvais m’empêcher de lui donner raison...). Cette notion d’authenticité était valable pour la Flandre et le Brabant thiois, pour la Wallonie et les Ardennes. Elle était valable aussi pour la seule région d’Europe que je connaissais à l’époque: le haut plateau franc-comtois dans le département du Doubs, les Franches Montagnes, fidèles à la tradition burgonde, fidèles à l’Espagne et à l’Autriche contre le Roi-Soleil, comme l’écrivait, dans un opuscule anti-jacobin, un certain Abbé Mariotte, auteur d’une petite histoire de la Franche-Comté, que je lisais avidement, avec amour, chaque été, quand nous étions là-bas, à l’ombre du clocher de Maîche. Une authenticité que m’avait fait découvrir un cadeau du concierge permanent du formidable manoir qui nous hébergeait à Maîche: Le loup blanc de Paul Féval, roman chouan et bretonnant, qui accentuait encore plus cette volonté d’aller aux racines les plus profondes, ici les racines celtiques d’Armorique, comme là le « saxonnisme » de Walter Scott, avec Ivanhoe et Robin des Bois. L’homme était donc tributaire de (et non déterminé par) l’appartenance au terroir de ses ancêtres et le nier ou l’oublier équivalait à basculer dans une sorte de folie, de démence maniaque, qui s’acharnait à éradiquer passé, souvenirs, liens, traces... jusqu’à rendre l’homme totalement anémié, vidé de tout ce qui fait son épaisseur, son charme, sa personnalité. Un tel homme est incapable de créer de nouvelles formes culturelles, de puiser dans son fonds archétypal: les portes sont ouvertes alors pour faire advenir une « barbarie technomorphe ».

1970, l’année de mes quatorze ans et l’année du triomphe du FDF, a déterminé mon itinéraire de façon radicale: au-delà des agitations politiciennes, jacobines, modernistes, toujours aller à l’authentique, avoir une démarche « archéologique » et « généalogique », sortir du « francophonisme » d’enfermement, s’ouvrir au monde et d’abord au monde proche, tout proche, qui commence à Aix-la-Chapelle, qui nous ouvre à l’Est, comme la langue française, non reniée et cultivée, ouvre au Midi. Quelques semaines après la victoire électorale du FDF, je m’en vais d’ailleurs, muni d’un catalogue du « Livre de Poche », quémander au Frère Marcel, une liste de bons livres à lire: il m’a fait découvrir Greene et surtout Koestler, sources de mon engouement pour la littérature anglaise. Mais aussi tous les classiques de la littérature française à l’époque: Cesbron, Mauriac, Bazin, Troyat...

Le « germanisme » était présent, comme la matrice culturelle du Flamand de Bruxelles, du fils d’immigré limbourgeois. Mais le germanisme était ouvert, tant au français (qui n’est pas le « francophonisme ») qu’à la latinité, que nous faisait aimer notre professeur de latin, l’inoubliable Abbé Simon Hauwaert. Balzac, Stendhal, Baudelaire et Flaubert sont d’ailleurs des exposants ante litteram de la « révolution conservatrice », en sont la matrice à bien des égards, dans leur critique incisive du « bourgeoisisme »: donc, une fois de plus, pas de frontière entre un espace français, qui serait hermétique, et un espace germanique, qui serait tout aussi hermétique. Par ailleurs, ce sont le baron Caspar von Schrenck-Notzing, directeur de Criticón (Munich), qui me fait découvrir l’Espagne de Balthazar Gracian, puis Günther Maschke (et Arnaud Imatz), qui me font découvrir Donoso Cortès. C’est par des études allemandes, ou traduites en allemand, que je découvre d’Annunzio et Pessoã. Plus tard, j’allais constater que la culture italienne est très ouverte à l’Allemagne et à l’Autriche, qu’elle traduit bien plus que l’édition parisienne, sans perdre la moindre once de sa latinité. Un exemple à suivre...

La lecture conjointe de Herder et de Heidegger allait donner des assises philosophiques à ce magma informel de l’adolescent.

6. Justement, une spécificité importante de votre démarche réside dans votre philo-slavisme et votre anti-soviétisme modéré qui s’est manifesté dès le début de votre itinéraire (à l’époque, où, sous l’impulsion de Ronald Reagan, on renoue avec la Guerre Froide la plus glaciale) et que vous partagez, quoique dans une autre optique, avec le PCN. Qu’en dites-vous aujourd’hui?

Entre 1970, que je viens de vous évoquer, et le début de l’aventure de Vouloir, treize années se sont écoulées. La Guerre Froide s’enlise. Le duopole n’a rien d’autre à proposer qu’une partition définitive du monde entre deux camps, animés chacun par une idéologie hostile aux matrices culturelles et aux authenticités fécondes, décrétées « archaïsmes » ou « fascismes » (à la suite notamment des hypersimplifications d’un Georges Lukacs). Derrière cette partition du monde, se profile une histoire européenne pluri-millénaire, où les horizons sont toujours vastes, où l’on ne bute pas sur un « Rideau de fer », à 350 km à vol d’oiseau de Bruxelles. Où l’on pouvait aller à Prague, à Varsovie et à Budapest, sans passer à travers un champ de mines, surveillé par des miradors. Le dégel avait fait espérer un assouplissement et voilà, soudain, que le reaganisme réactive la Guerre Froide, éloignant la possibilité d’une réconciliation européenne. La déception est immense, surtout, j’imagine, pour ceux qui avaient espéré que la « Doctrine Harmel », voire l’Ostpolitik de Brandt, allaient porter des fruits. La division européenne apparaît dès lors comme l’oeuvre d’un « talon d’acier », une anomalie scandaleuse, qu’il fallait combattre, à la suite de Thiriart et de son mouvement « Jeune Europe », afin de retrouver le dynamisme européen en direction du Sud-Est et des profondeurs du continent asiatique, conquis vers 1600 avant JC par les cavaliers iraniens, puis, à partir du 16ième siècle, par les Cosaques des Tsars. C’était un idéal d’ « Europe Totale », mixte de Harmel et de Thiriart. Et, derrière eux, se profilaient tout à la fois 1) un projet « démocrate-chrétien » (en réalité « conservateur » au sens metternichien du terme) de rééditer, cette fois sous le signe d’une pensée inspirée de « Rerum Novarum », la « Sainte-Alliance » conservatrice de 1814, Europe de l’Est voire Russie comprises, ou 2) une vision plus pragmatique, géopolitique et technique, comme celle d’Anton Zischka, inspirateur majeur du jeune Thiriart. Elle impliquait d’étudier les dynamiques à l’oeuvre dans ces espaces immenses. Une telle étude postule non seulement de connaître les atouts économiques de l’espace euro-sibérien, dans le sillage de Youri Semionov, mais aussi, à la suite de l’historien italien des religions, Giuseppe Tucci, l’héritage spirituel de ces peuples à la charnière de l’Europe et de l’Asie. Parmi les multiples aspects de cet héritage spirituel, la slavophilie et l’oeuvre de Leontiev, partisan d’une alliance avec les forces asiatiques contre un Occident « libéral-manchesterien » qui a trahi la  Russie lors de la Guerre de Crimée. Raison pour laquelle mes amis et moi, nous n’avons cessé de nous intéresser à ces thématiques.

Le PCN, dans ses démarches, ne semble pas fort s’intéresser à la pensée organique russe. Or peu avant que la Guerre Froide ne reprenne sous Reagan, le dissident Yanov, établi en Californie, sort un ouvrage universitaire intitulé The Russian New Right, où il démontre que la pensée slavophile et néo-orthodoxe, fondamentalement anti-occidentale, et l’oeuvre de Soljénitsyne, impulsent, tant chez les établis que chez les dissidents de l’ex-URSS, une nouvelle révolution conservatrice, ou « nouvelle droite », avec des écrivains comme Valentin Raspoutine ou Youri Belov. Quant aux tenants de l’idéologie occidentaliste, on les retrouvait aussi, d’après Yanov, dans les deux camps. A Moscou, Alexandre Prokhanov, que j’allais rencontrer en 1992, était à l’époque directeur de la revue Lettres soviétiques. Il avait publié, pour la première fois dans une publication soviétique officielle, un numéro consacré à Dostoïevski, qui avait été mis à l’écart à l’ère soviétique la plus sourcilleuse. Prokhanov innovait. Je me suis procuré un exemplaire de cette revue à la « Librairie de Rome » à Bruxelles. Au même moment, Etudes sociales, autre publication émanant de l’Académie soviétique des sciences, réhabilitait le passé païen russe, dans un optique très semblable à celle de la « nouvelle droite ». Ces textes attestaient d’un changement et d’un abandon graduel des vieilles lunes progressistes du marxisme institutionnalisé, abandon qu’aucune officine « marxiste » belge ou française ne jugeait bon de faire. Les archaïsmes étaient toujours de mise chez nos communistes locaux. Leur déphasage par rapport aux legs de l’histoire et au réel ne faisait que s’accentuer. Rien n’a changé sur ce chapitre.

Ce chassé-croisé d’occidentalisme et de slavophilie chez les dissidents comme chez les établis, et le succès des néo-slavophiles, notamment dans l’orbite cinématographique, laissaient espérer une transformation lente de l’URSS en une nouvelle Russie conservatrice, capable de damer le pion à la superpuissance libérale, vectrice de toutes les déliquescences morales et spirituelles, fautrice du déclin intellectuel généralisé de l’Occident et matrice de la vulgarité marchande. Ce que nous haïssions dans le communisme s’estompait et ce que nous n’avons cessé de haïr, du plus profond de nos tripes, dans le libéralisme ne cessait de s’amplifier, jusqu’à atteindre l’effroyable monstruosité qu’il a acquise aujourd’hui, un monde où le banquier, être infect et infécond, inculte et vulgaire, accumulateur et comptable, vaut plus que le joueur d’accordéon du coin de la rue, être touchant de sincérité et de spontanéité. Chez nous, les acteurs de théâtre sont sûrs de crever de misère quand ils ne pourront plus monter sur les planches. En Italie, les professeurs d’université s’étaient mobilisés à l’époque contre les MacDo, qui finançaient Reagan et recevaient en échange le droit de s’établir dans tous les coins et recoins de l’américanosphère. Ces professeurs voulaient organiser un boycott général de la chaîne de « fast food »; chez nous, quand les étudiants de Gand ont voulu faire de même, par solidarité avec le corps académique italien, la minable crapule assurant la gérance d’une de ces auges de la mal-bouffe a eu le culot d’appeler les flics, qui ont verbalisé, et le corps académique, veule et lâche, n’a rien dit. On mesure aujourd’hui l’étendue du désastre. L’empoisonneur avait la « liberté » de commercer... et on ne pouvait y porter atteinte. La chaîne de ces fast-foods avait acquis le droit, grâce à Reagan, qu’elle avait financé, d’abaisser l’âge requis pour travailler dans le secteur de la restauration: depuis lors, les lycéens travaillent pour gagner l’argent de leurs cartes de GSM et le niveau d’instruction et d’éducation ne cesse de baisser; le monde sans relief des « petits jobs et boulots », stigmatisé par Hannah Arendt, est devenu la référence suprême.

Face à cette involution, perceptible dès le début des années 80, la société soviétique, malgré son caporalisme, sa froide rigueur idéologique, sa langue de bois, laissait entrevoir une renaissance, un dépassement de l’horreur économique par un retour aux valeurs qui avaient enthousiasmé les premiers slavophiles du 19ième siècle, ces disciples russes de Herder. Ensuite, sous les coups du néo-libéralisme triomphant, l’Europe perdait et le sens de l’Etat et le respect de ses héritages culturels. Face au « Dieu Argent », désormais honoré sans plus aucune retenue morale ou éthique en Occident, dans l’ « américanosphère » (Faye), Moscou semblait conserver un sens de l’Etat, avec une armée qui respectait des traditions russes (donc européennes), et un appareil culturel et académique, dont le Bolchoï, par exemple, était un fleuron. Les titres académiques semblaient mieux respectés qu’en Europe ou en Amérique. Le « fast food » est la manifestation sociale la plus tangible de cet avènement du « tout-économique », qui nous a tant scandalisé à l’époque, jusqu’à en devenir, je le concède, une véritable obsession récurrente, qu’atteste la littérature néo-droitiste et nationale-révolutionnaire.

Ensuite, Reagan et ses conseillers étaient bien conscients du fait qu’un discours exclusivement néo-libéral ne pouvait consolider leur pouvoir ni constituer une propagande efficace. Ils ont alors puisé dans le registre de l’idéologie religieuse puritaine, l’héritage américain des « Founding Fathers » et des « Pèlerins du Mayflower », où l’accent est souvent mis sur l’Apocalypse, jugée imminente, portée par le « Mal absolu », qu’il s’agit de combattre et d’éradiquer. Ce langage réactive les affects qui préfigurent les guerres de religion, alors que la pensée d’un Hobbes et toute l’évolution de la pensée politique européenne après les horreurs de la guerre de Trente Ans visaient justement à éviter de tels débordements. Le reaganisme met un terme définitif aux « formes » de la guerre et de la diplomatie traditionnelles. Cet infléchissement était inacceptable, même dans une optique conservatrice traditionnelle. Il ne faut pas se leurrer: si Reagan a été décrit par les gauches comme un « néo-conservateur », cette  manière de percevoir les choses est fondamentalement erronée. Le puritanisme apocalyptique des « Pères Fondateurs » et des Puritains du 17ième siècle est le contraire diamétral des options « tacitistes » et « machiavéliennes », de la tradition régalienne européenne en général. Ce n’est d’ailleurs pas un hasard si le retour, après Cromwell, du Roi en Angleterre ait contraint ces zélotes, à l’idéologie bibliste, à franchir l’Atlantique, où, espérait-on en Europe, ils allaient pouvoir vivre leurs utopies irréalistes et anti-historiques en vase clos.

Les Etats-Unis sont spécialisés dans le bricolage idéologico-théologique quand il s’agit de créer des vulgates médiatisables pour faire passer leur volonté dans les faits. Avec Reagan, nous avions, outre le néo-libéralisme, qui dissout toutes les formes politiques et culturelles, l’idéologie de l’Apocalypse, qui entend faire table rase des legs de l’histoire, et, surtout, une interprétation messianique des « droits de l’homme », impliquant un interventionnisme tous azimuts, qui flanquait tous les principes de la diplomatie traditionnelle par terre! Le Général Jochen Löser s’est dressé, à l’époque, et avec vigueur, contre ce mixte idéologico-théologico-économique, qui revient aujourd’hui à l’avant-plan avec Bush junior; avec l’armement moderne, cette nouvelle idéologie agressive risquait de déclencher une guerre d’annihilation totale en Europe centrale. Si les Etats-Unis maniaient une telle idéologie, la fidélité à l’alliance atlantique pouvait être remise en question. Harmel s’était proposé d’assouplir la « Doctrine Hallstein », rigide et pérennisant par son intransigeance la césure européenne, afin de mettre lentement fin à la chape pesante qu’était le duopole né à Yalta. La « Doctrine Harmel » était aussi un retour à la diplomatie traditionnelle, laquelle devait recevoir à nouveau la préséance. Löser et Kiessling entendaient y revenir au début des années 80, juste avant la perestroïka de Gorbatchev. Ce débat n’est pas clos: au printemps 2003, quand les troupes anglo-américaines entrent pour la deuxième fois en Irak, et que les Européens s’insurgent en arguant que toutes les voies diplomatiques n’avaient pas été exploitées, Robert Kagan, idéologue au service de la politique de Bush junior, annonce clairement, sans circonlocutions inutiles, que la diplomatie, « c’est du passé » et que l’avenir appartient à ceux qui ne s’en soucient nullement. La « Vieille Europe » est donc celle de la diplomatie, à l’idéologie « machiavello-tocquevillienne » et « tacitiste ». La « Nouvelle Europe » est celle qui va renier cet héritage pour suivre aveuglément le nouvel « Empire » qui agit arbitrairement selon ses intérêts immédiats.

Je ne crois pas que le PCN ait vraiment mis tous ces éléments dans la balance: il m’a donné la triste impression de se muer en un calque maladroit du stalinisme (revu par la propagande américaine du temps de la Guerre Froide), attitude typique des mouvements politiques marginaux qui cherchent à attirer l’attention sur eux par des prises de position qui font bêtement scandale.

7. Autre point commun avec le PCN et, par-delà cette formation, avec Jean Thiriart, vous avez fait, vous aussi, votre pèlerinage à Moscou. Quelles sont les perspectives avec les Russes et notamment avec Alexandre Douguine et l’actuel président russe Vladimir Poutine, de créer cet empire européen que vous appelez de vos voeux?

Je n’ai pas souvenir que le PCN, ou l’un de ces dirigeants, ait fait le « voyage à Moscou ». Fin mars, début avril 1992, je m’y suis effectivement rendu avec Alain de Benoist et Jean Laloux (secrétaire de rédaction de la revue Krisis). Les activités principales de ce voyage ont été 1) une conférence de presse où nous avons présenté les grandes lignes de la « nouvelle droite »; 2) un débat, dans les locaux de la revue moscovite Dyeïnn (« Le Jour ») avec Ziouganov et Volodine, exposants du parti communiste russe. Le dialogue a tourné autour de la notion de « Troisième Voie » en économie, c’est-à-dire, pour moi, ce que Perroux, Albertini et Silem ont nommé les « voies hétérodoxes », héritières de l’école historique allemande de Schmoller, Rodbertus, etc. Douguine et Prokhanov étaient les deux organisateurs de ces rencontres. Douguine a fait du chemin depuis lors. Il appuie aujourd’hui Vladimir Poutine, qui, à ses yeux, tente de redresser une Russie ruinée par le clan Eltsine et les oligarques.

Quelques mois plus tard, Thiriart, Schneider, Battarra et Terracciano se retrouvaient à leur tour à Moscou. En 1996, une équipe de « Synergies européennes », composée de Sincyr, Sorel et de Bussac, visite à son tour Moscou et rencontre d’autres personnalités, dont l’ex-dissident, le sorélien Ivanov, l’anthropologue Avdeev, et d’autres. Ces hommes oeuvrent dans d’autres perspectives. L’hispaniste Toulaev s’est joint à eux. Notre ami autrichien Gerhoch Reisegger s’est également rendu à plusieurs reprises à Moscou, ramenant de ses voyages des informations d’ordres économique et factuel très intéressantes. Wolfgang Strauss continue à publier une chronique permanente sur cet espace idéologique russe, dans les colonnes de la revue Staatsbriefe, qui paraît à Munich sous la direction du Dr. Sander. Tous les aspects de la pensée non conformiste —hétérodoxe—  russe nous intéressent.

Quant à savoir si Poutine emportera le morceau, il me semble que la réponse se situe dans les extraits du dernier ouvrage de Reisegger que nous avons traduits. La consolidation du poutinisme dépend de l’organisation des transports (routes et chemins de fer), des gazoducs et oléoducs de l’Asie centrale, de la Sibérie, de concert avec l’Inde, le Japon et la Chine. Si une synergie parvient à s’établir, l’Eurasie demeurera eurasiatique. Sinon, les Américains préparent d’ores et déjà la riposte: le stratège Thomas Barnett propose aujourd’hui à l’établissement américain d’abandonner l’alliance européenne, de laisser l’Europe périr dans ses contradictions et de miser sur l’Inde et la Chine, voire sur une Russie détachée de l’Europe, afin de conserver les atouts américains en Asie centrale, acquis par la conquête de l’Afghanistan et la satellisation de l’Ouzbékistan. Barnett apporte la réponse américaine au projet de Henri de Grossouvre, soit le projet de créer un Axe Paris-Berlin-Moscou.

8.Après plus de vingt ans d’activités politiques et intellectuelles, quel est le bilan que vous tirez? Notamment sur les Etats-Unis et l’Europe?

Premier bilan, évidemment, comme Thiriart et de Benoist, et même comme Faye, c’est d’avoir constaté l’immense, l’incommensurable bêtise du « milieu identitaire ». En hissant la préoccupation au niveau européen, Thiriart avait voulu dépasser l’étroitesse des « petits nationalismes ». Avec son option « métapolitique », de Benoist avait voulu briser le cercle infernal des répétitions et des rengaines. Ils se sont tous deux heurtés à une incompréhension générale, hormis quelques notables exceptions qui ont tenté de poursuivre le combat. Thiriart n’a pas trop bien su emballer sa marchandise.Ses textes, denses, toujours au moins partiellement actuels, figuraient certes au milieu de dessins satiriques de toute première qualité, mais les écrits des autres « journalistes », dans la feuille du mouvement, laissaient vraiment à désirer et étalaient les fantasmes habituels du « petit nationalisme » ou de l’« extrême droite » au mauvais sens du terme. Thiriart a vraiment tout essayé pour gommer définitivement ces dérives: il avouait, dans un entretien accordé à l’avocat espagnol Gil Mugarza, n’avoir pas pu enrayer les multiples expressions de cette « psychopathologie » politique. Les hommes de notre temps ne raisonnent plus en termes de temps et d’espace, mais se laissent aveugler par les idéologies, les « blueprints » de Burke, déviance encore accentuée par la propagande médiatique, qui atteint désormais des proportions incroyables. Ignorant tout de la géographie, nos contemporains ne comprennent pas les enjeux spatiaux, seuls enjeux réels des conflits qui ensanglantent la planète. Leurs horizons sont vraiment limités, alors que l’on n’a jamais autant parlé de « mondialisme » ou d’« universalisme ».

Alain de Benoist, pour sa part, a tenté d’élargir et d’européaniser l’horizon culturel du milieu nationaliste français, dans lequel, dès l’adolescence, il avait fait ses premiers pas. Il lui a présenté des thématiques inhabituelles, fort intéressantes au départ, mais, en bout de course, force est de constater qu’il en a trop fait, qu’il a jonglé avec une quantité de choses diverses que ce public ne pouvait pas assimiler à la vitesse voulue. Alain de Benoist changeait trop souvent de sujet et son propre public, au sein du GRECE, ne suivait pas la cadence. Il s’en désolait, tempètait, rouspétait; on l’écoutait poliment, mais, au fond, on semblait lui dire, par le regard: « Cause toujours, tu m’intéresses! ». D’où, ce que j’appelle le « mouvement brownien » des brics et brocs culturels et cultureux agités par de Benoist. Henry de Lesquen parlait, à son propos, de prurit « noviste ». Deux handicaps marquaient la démarche du « Pape de la nouvelle droite »: une incapacité —en fin de course, et non pas, curieusement, au début de sa trajectoire—  à opérer une synthèse et à se concentrer sur l’essentiel; bref, la dispersion et la confusion; ensuite, un désintérêt pour l’histoire et ses dynamiques, au profit d’une sorte d’idolâtrie pour les idées toutes faites, pour les corpus moraux plus ou moins bien échafaudés, pour le clinquant de concepts immédiatement médiatisables (dans l’espoir d’être enfin accepté, comme figurant ou comme acteur, dans le « PIF » ou « paysage intellectuel français »). Enfin, l’homme est tenaillé par l’inquiétude, par d’inexplicables angoisses, par un doute incapacitant, aux dimensions qui laissent pantois. Si Thiriart a été une cohérence au milieu des incohérences de l’extrême droite belge et italienne de son époque, de Benoist, lui, a démarré dans la cohérence pour se disperser dans un fatras de thématiques différentes et divergentes, dans un capharnaüm conceptuel qu’il est désormais incapable de maîtriser. Il m’apparaît aujourd’hui comme une sorte d’âne de Buridan, qui n’a pas à choisir entre deux picotins d’avoine, mais est perdu au milieu d’une foultitude de picotins, tous aussi alléchants, et ne sait plus où donner de la tête.

Ne cédons pas à cette aigreur, que l’on retrouve aussi chez un Guillaume Faye, qui la tourne en cynisme avec son sens du canular qui est inégalable, ou chez un Christian Bouchet, qui ne mâche pas ses mots pour fustiger l’inculture du « milieu identitaire ». Cette inculture n’est pourtant pas le propre de ce milieu mais bien le lot général de notre temps. La gauche n’est plus aussi « intellectuelle » qu’elle ne l’a été. Sachons que l’OSS visait, dès l’entrée en guerre des Etats-Unis en 1941-42, à faire perdre à l’Europe son leadership intellectuel. L’effervescence de mai 68 et les pédagogies démissionnaires qui en découlent, en dépit de l’excellence de ce que Luc Ferry appelle la « pensée 68 » (avec Deleuze, Guattari, Foucault, Lévi-Strauss, etc.), a donné le coup de grâce aux établissements d’enseignement en Europe. La vague néo-libérale a simplement parachevé l’horreur. La méditation, la lecture, l’étude, la recherche sont des activités qui prennent du temps, qui empêchent de gagner vite beaucoup d’argent, pour pouvoir consommer tout aussi rapidement. Et empêcher l’adolescent ou l’étudiant de gagner de l’argent, même au détriment de ses études, relève, au regard du mental contemporain, d’un « archaïsme », méchant et pernicieux, d’un « fascisme » rétrograde. Au bout d’une décennie à peine, on a des instituteurs, des régents et des licenciés mal formés, qui ont moins lu, qui n’ont pas de passions littéraires bien étayées, qui ont butiné bêtement autour de toutes les loupiotes médiatiques faites de variétés de plus en plus vulgaires (Loft, Star Academy, etc.), qui ont gagné des sous pour se payer de la bimbeloterie high tech ou des fringues ridicules et, partant, ne se sont pas constitué de bibliothèques personnelles. L’influence des sous-cultures et des modes est de plus en plus désastreuse. A cela s’ajoute que le milieu identitaire est tout aussi indiscipliné que le reste de la société, que les « egos » y sont encore plus surdimensionnés, générant à la pelle des personnalités caractérielles. Très difficile dès lors de faire éclore dans un tel milieu une conscience historique prospective et volontariste, comme le voulait Thiriart, ou d’entamer une longue bataille métapolitique, comme le voulait de Benoist.

Pourtant, de nouvelles initiatives voient le jour. Elles sont au moins portées par des hommes au caractère plus trempé. De vrais travailleurs. Qui multiplient les initiatives et sont très présents sur internet. Cette nouvelle génération semble ouverte sur le monde. Elle est européiste, même en France, car la France contemporaine, qui se veut championne des abstractions universalistes les plus délirantes, l’a déçue. L’avenir nous dira ce que ce travail parviendra à réaliser. Deux éceuils à éviter: se méfier des modes, ne pas y succomber (comme Ulysse face au chant des sirènes); ne pas tomber dans la dispersion.

Ensuite, force est de constater que les Etats-Unis ont gagné la guerre: en Europe en 1945 (mais ça, tout le monde le sait déjà), dans les Balkans en 1999, ce qui leur permet de contrôler l’espace-tremplin de l’Europe vers le Moyen-Orient, utilisé par Alexandre le Grand puis par les Ottomans, en Afghanistan en 2001, ce qui leur permet de contrôler l’Asie centrale, en Irak en 2003, où ils se sont emparé des principales réserves énergétiques du monde, en Afrique centrale et occidentale, ce qui leur permettra de contrôler les ressources pétrolières inexploitées du continent noir. Cette série de victoires est due à leur avance technologique, notamment sur le plan satellitaire. Pire: la riposte européenne ne sera guère possible car en s’emparant d’Avio en Italie, de Santa Barbara Blindados en Espagne, de l’usine de sous-marins allemand, bientôt de Rheinmetall, les consortiums américains, dont le fameux Groupe Carlyle, ont mis la main, par des coups en bourse, sur les entreprises qui forgent les armes européennes. Le Général allemand Franz Ferdinand Lanz a déclaré à ce propos: « Toute armée dépendant d’une industrie militaire étrangère est une armée de deuxième classe ». « Dans tous les cas de figure, l’armée est l’expression et la garante de la souverainté d’un Etat ». « Seules les puissances qui disposent d’un potentiel stratégique produit par une industrie militaire indépendante, sont en mesure de s’affirmer, même modestement, sur la scène internationale ». Cette fois, il n’y a pas lieu de parler de la simple souveraineté d’un Etat, mais de celle de tout un continent, de toute une matrice de civilisation. L’Europe est donc aujourd’hui une « impuissance » édentée.

9. Dans vos revues, au cours des années 80, vous avez défendu des positions neutralistes; est-ce la même logique qui vous fait défendre un monde multipolaire ou constitués de grands blocs qui ne pratiqueraient pas entre eux la politique d’ingérence et d’immixtion, qui semble dominante aujourd’hui?

Entendons-nous d’abord sur le terme « neutralisme ». Le neutralisme n’est pas une idéologie démissionnaire, un pacifisme bêlant comme celui des gauches qui manifestaient contre l’installation des missiles américains, au début des années 80. Le neutralisme, pour moi, est armé et même surarmé. L’exemple est helvétique et suédois, autrichien et yougoslave. Il s’agissait d’organiser une armée de citoyens, capable de mailler totalement le territoire. Il impliquait la fusion armée/nation. Sur le plan diplomatique, il s’interdisait de participer à des alliances, comme l’OTAN, par exemple, et mettait l’accent sur l’indépendance et la souveraineté nationales. Parallèlement à ce neutralisme classique, de type suisse, il y avait aussi le gaullisme, ou la sanctuarisation nucléaire du territoire national. Cette option neutraliste ou gaullienne impliquait aussi de conserver des usines d’armement nationales et de créer les conditions d’une autarcie militaire. La Suède y parvenait. L’Europe, à plus grande échelle, aurait parfaitement pu réussir sa déconnexion, par rapport aux blocs atlantique et soviétique. C’est aussi ce que réclamait les Tchèques lors du printemps de Prague: rappelez-vous le Paris-Match de l’époque, avec cette jeune fille pragoise, blonde et fort maigre, qui, devant les chars soviétiques qui entraient dans la ville, portait sur la poitrine un écriteau, avec ce seul mot: « Neutralitu ». Elle exprimait le désir de la population tchèque et slovaque de se dégager du bloc soviétique sans pour autant vouloir se noyer dans le bloc capitaliste. Un mouvement neutraliste, de part et d’autre du Rideau de Fer, suite logique d’une application graduelle de la « Doctrine Harmel », aurait rendu à l’Europe son indépendance et sa puissance.

En 1984, quand j’ai rencontré le Général Löser, lors de la Foire du Livre de Francfort, il venait de sortir un livre programmatique, appelant ses compatriotes, les ressortissants des trois Etats du Bénélux, les Hongrois, les Tchèques, les Slovaques et les Polonais à se dégager des blocs. Ce livre s’intitulait justement Neutralität für Mitteleuropa. Löser, ancien Commandeur de la 24ième Panzerdivision de la Bundeswehr et rescapé de Stalingrad, était aussi un théoricien militaire qui s’alignait sur les stratèges Spannocchi (Autriche), Brossolet (France gaullienne), sur leurs homologues yougoslaves, suisses et suédois. Sa neutralité n’était pas une neutralité désarmée, mais, au contraire, une neutralité vigilante et citoyenne, centrée sur elle-même et non aliénée par l’appartenance à un bloc, dominé par une superpuissance, qui oblitérait les spécificités nationales et tenait sa part d’Europe sous tutelle.

Le monde est effectivement multipolaire. On ne peut réduire l’inépuisable diversité humaine à deux blocs ou à un monde global unifié,comme le voudrait le « nouvel ordre mondial » de Bush-le-Père et de son théoricien Francis Fukuyama (qui a révisé ses positions depuis ses euphories du début des années 90). Les Etats-Unis veulent imposer leur modèle et utilisent, pour y parvenir, l’idéologie des « droits de l’homme », indéfinie, mise à toutes les sauces, manipulable à l’envi (on l’a vu au Kosovo, où elle a servi à mettre en place un régime de mafieux et de maquereaux). L’idée d’un « nouvel ordre mondial », outre ses aspects missionnaires, part du principe d’un genre humain indifférencié ou de l’idée d’un genre humain amnésique, épuré de tous les legs de l’histoire, dévalorisés a priori comme s’ils n’étaient que de vulgaires scories. Or les hommes ont été appelés à créer des formes, variées et différentes, sur la Terre. Ce sont ces formes qui font l’humanité, qui permettent de dépasser le stade purement animal et générique de l’espèce. Par conséquent, l’espace politique de la Terre n’est pas un « uni-versum », mais un « pluri-versum ». Le respect du passé, des formes, des continuités, comme nous l’enseigne Naipaul, postule de respecter ces acquis, de ne pas vouloir revenir à un stade purement générique et de ne pas vouloir éradiquer purement et simplement, avec une rage frénétique, ce qui a été, est et demeurera. L’acceptation de la nature « pluri-verselle » de l’échiquier mondial implique de reconnaître la multiplicité des pôles politiques dans le monde. C’est donc bien une option « multipolaire ».

Face à la volonté américaine d’établir un « nouvel ordre mondial », la Chine, notamment, a suggéré des « amendements ».D’abord, elle a souhaité une adaptation de la notion de « droits de l’homme » à chaque aire civilisationnelle de la planète. Chaque aire de civilisation adapterait ainsi la déclaration universelle des droits de l’homme à ses propres spécificités culturelles, et la Chine, par exemple, lui donnerait une connotation « confucéenne ». La Chine a demandé à l’Occident de « respecter l’étonnante pluralité des valeurs et des systèmes sociaux, économiques et politiques », de « renoncer à toutes manoeuvres coercitives d’unification ou d’uniformisation ». Les Chinois estiment, à juste titre, que: « ces dix mille choses peuvrent croître de concert, sans se géner mutuellement, et les taos peuvent se déployer parallèlement sans se heurter ». C’est l’esprit de la « Déclaration des Droits de l’Homme de Bangkok », proclamée le 2 avril 1993. La Chine a tenté de faire front, de s’opposer à la volonté américaine d’homogénéisation de la planète. Elle s’est expressément référée à la notion de « pluralité ». Sa volonté était aussi d’imposer un modèle des relations internationales, reposant sur les « cinq principes de la coexistence pacifique »: 1) le respect mutuel de la souveraineté et de l’intégrité territoriale des Etats; 2) le principe de non-agression; 3) le refus de toute immixtion dans les affaires intérieures d’Etats tiers; 4) l’égalité des partenaires sur l’échiquier international; 5) le respect des besoins vitaux de chacun (auxquels il est illicite de porter atteinte). Ces cinq principes, me semble-t-il, résument parfaitement nos propres positions « multipolaristes ». Ils sont l’expression d’une antique sagesse, qu’il serait sot de ne pas écouter.

10. Votre vision d’une Europe impériale est donc tout-à-fait antinomique de tout impérialisme à l’intérieur ou à l’extérieur de celle-ci. Qu’en est-il?

Le débat qui porte sur l’Europe impériale, sur les impérialismes intérieur et extérieur est sans fin. La notion d’Empire en Europe remonte aux Romains. La personnalité collective, porteuse de cet Empire, est le « Senatus Populusque Romanus », soit le Sénat et le Peuple romains. Par la « Translatio Imperii », elle passe aux Francs de Charlemagne (« Translatio Imperii ad Francos »), puis, avec Othon Ier, à l’ensemble des peuples germaniques (« Translation Imperii ad Germanos »). Ou plus exactement, aux ressortissants des territoires relevant du « Saint Empire Romain de la Nation Germanique ». Cela a été tout théorique, surtout après l’élimination de la descendance de Frédéric II de Hohenstaufen. Outre les vicissitudes dynastiques du Saint Empire, le noyau territorial concret de cet ensemble, forgé depuis César (Caesar / Kaiser), implique d’unir le continent européen autour de trois bassins fluviaux, le Rhône (conquis depuis Marius), le Rhin et le Danube, plus le Pô en Italie du Nord. C’est à partir de ces trois bassins, et des territoires qui se situent entre eux, et à partir de la plaine nord-européenne aux fleuves parallèles, de l’Yser au Niémen, que l’Europe doit se former. C’est, disait le géopolitologue autrichien, le Général-Baron Jordis von Lohausen, la paume de la main « Europe », dont les doigts sont les espaces périphériques: scandinave, ibérique, italique, balkanique, britannique. Sans une cohésion solide de cette paume, pas d’unification européenne possible. Et sans cette unification, c’est l’anarchie et la dissolution. Or c’est ce désordre et cette dispersion qui ont été le lot de l’Europe au cours de l’histoire post-romaine. Napoléon a voulu l’unifier à partir de la frange occidentale de la paume, l’espace gaulois, dont les bassins fluviaux portent vers l’Atlantique et non pas vers le cœur du continent, dont l’artère majeure est le Danube, symbole fluvial de l’Europe comme forme de vie. La tentative napoléonienne est donc grevée d’une impossibilité physique et géographique. L’ « hegemon » ne pouvait être français, à cause des faits géographiques et hydrographiques, qui sont évidemment incontournables. Hitler est prisonnier de la vision « ethniste », qui domine en Allemagne à son époque. Il se vaut libérateur et émancipateur, fondateur d’un nouvel ordre social, plus juste et plus efficace pour les ouvriers et les paysans. Il séduit. Incontestablement. Mais quand ses troupes entrent en Bohème tchèque, à Prague, elles réduisent ipso facto à néant le principe cardinal de la politique allemande, depuis la « prussianisation » protestante du « Reich ». En entrant dans l’espace linguistique tchèque, les armées de Hitler remettaient en question le fondement même du Reich protestantisé, et donc particulariste, et la propre propagande ethniste du national-socialisme. Une contradiction qui n’a jamais pu être surmontée, avant la  fin du deuxième conflit mondial. De Gaulle, après 1945, et surtout dans les années 60, veut assumer une sorte de leadership, mais sa France, bien que souveraine et membre du Conseil de sécurité de l’ONU, n’est plus prise au sérieux: la défaite de 1940 est toujours dans les têtes, le pays paraît pauvre et archaïque (cf. les études d’Eugen Weber sur la France rurale), ne séduit pas les Nord-Européens qui le regardent avec commisération, les défaites coloniales d’Indochine et d’Algérie écornent son prestige. La France gaullienne, en dépit de ses efforts, ne sera pas le « Piémont » d’une Europe dégagée des blocs. Le retour à une Europe impériale ne sera possible que s’il y a unanimité des Européens, sans autre « hegemon » que la volonté organisée et structurée des européistes de toutes nationalités.

Il est évident que le colonialisme de papa, essentiellement capitaliste dans son essence, est inacceptable dans la situation actuelle. En Indochine, par exemple, l’imbroglio de 1940 à 1946, entre Japonais, Français de Vichy et de Londres, Britanniques, Américains, Indochinois de droite et Vietminh, semblait insoluble. Les Japonais avaient appuyé les mouvements d’émancipation anticolonialistes; les Américains avaient pris le relais. Il était évident que la seule solution raisonnable, pour la France de Londres, qui appartenait au camp des vainqueurs, aurait été de négocier directement avec le Vietminh, plus nationaliste que communiste au lendemain de l’occupation japonaise. Un accès graduel mais rapide à l’indépendance des territoires indochinois aurait permis de sauver une certaine présence française, donc européenne, de se faire le champiuon de l’émancipation coordonnée des peuples extra-européens, dans ce territoire hautement stratégique, où se situent les embouchures des grands fleuves asiatiques, qui prennent leurs sources sur les flancs de l’Himalaya (Fleuve Rouge, Mékong, ...). Les hésitations, l’illusion de vouloir perpétuer un empire colonial du 19ième siècle dans les conditions très différentes d’après 1945 a empêché les uns et les autres de trouver une solution rapide et harmonieuse.

La défaite de Dien Bien Phu encourage ensuite la rébellion algérienne, qui couvait depuis les événements sanglants de Sétif en 1945. Mais, l’Algérie se trouvant aux portes de l’Europe, l’histoire de sa conquête et de sa colonisation est fort différente de celle de l’Indochine. Si la présence française en Extrême-Orient est due à la course effrénée de toutes les puissances européennes pour se tailler une fenêtre sur le Pacifique, la conquête de l’Algérie, après 1830, provient d’une volonté européenne d’imposer à la France une tâche « réparatrice », après les guerres révolutionnaires et napoléoniennes. La France avait été l’alliée des Ottomans et des Barbaresques contre la légitimité impériale; elle s’était mise ainsi au ban des nations européennes. Comme la piraterie barbaresque ne cessait de sévir au début du 19ième siècle, l’Europe de la Sainte-Alliance a décidé d’y mettre un terme et de charger la France de cette mission. La présence d’une puissance européenne en Afrique du Nord se justifiait par la nécessité de sécuriser la Méditerranée, de garantir la libre circulation des navires européens et d’éviter les rafles d’esclaves sur les côtes chrétiennes de la Méditerranée. Si la France n’avait pas imposé son système jacobin aberrant en Algérie, la révolte n’aurait pas été aussi sauvage et la décolonisation aurait sans doute pu s’opérer dans l’harmonie. En dépit de cela, l’Europe aurait dû se montrer solidaire des Européens d’Algérie, appuyer la France et les colons espagnols et italiens d’Algérie. L’Espagne avait un droit d’intervenir en Oranie, où la population européenne de souche espagnole était majoritaire. L’Europe, et surtout l’Espagne (avant même la France), a le droit d’entretenir des troupes en Afrique du Nord en représailles des agressions sarazines et barbaresques, qui ont duré  plus d’un millénaire. On ne peut transposer l’idée d’une libération nationale et anticoloniale, comme elle s’est exprimée en Indochine, en Afrique du Nord, puisque l’intervention française est la réponse européenne à des agressions répétées et particulièrement horribles. Au nom du Testament de Charles-Quint, qui doit constituer le bréviaire de tout homme politique qui se respecte en Belgique, en Allemagne, en Autriche, en Hongrie, en Croatie, en Italie et en Espagne, les zones d’Afrique du Nord doivent être tenues constamment sous surveillance. La présence espagnole à Ceuta et Melilla est ainsi entièrement justifiée, ne peut être soumise à révision, même si nos concitoyens de souche marocaine ne le comprennent pas.

Toute démarche impériale offensive, en dehors de la zone initiale d’un Empire, est justifiable si elle est dictée par des motifs stratégiques et géopolitiques. En revanche, elle est injustifiable si elle est dictée par des motifs économiques. De même, autre facteur dont il faut tenir compte: la  proximité spatiale. En Indochine, la France est une « raumfremde Macht » (une puissance étrangère à l’espace), exactement comme l’Allemagne avait été une « raumfremde Macht » en Micronésie avant 1918, ce que reconnaissait pleinement le géopolitologue Haushofer. En Afrique du Nord, aucune puissance européenne riveraine de l’Atlantique et de la Méditerranée n’est une « raumfremde Macht », puisque toutes ont subi les agressions sarazines ou barbaresques pendant près d’un millénaire. L’Europe a le droit inaliénable de protéger ses abords, même en constituant des glacis hors de son espace propre. En Europe même, aucun colonialisme intérieur n’est acceptable.

Les Etats-Unis sont en train de créer un OTAN-Sud comprenant tous les pays arabes d’Afrique du Nord, du Maroc jusqu’à l’Egypte, Libye comprise, afin de pénétrer l’Afrique subsaharienne et d’y puiser les richesses du sous-sol, non encore pleinement exploitées. L’OTAN-Sud arabophone a donc deux fonctions: 1) parachever l’encerclement de l’Europe; 2) contrôler l’Afrique subsaharienne et servir de verrou entre l’Europe et celle-ci. Ce projet n’est possible que sans présence européenne en Afrique du Nord, d’où la bienveillance américaine à l’égard des terroristes algériens en lutte contre la France jadis, à l’égard du Maroc contre l’Espagne à la fin des années 50, enfin, à l’égard de l’agression marocaine contre Perejil et l’Espagne en juillet 2002. Les Etats-Unis misent sur le trop-plein démographique nord-africain, sur le « Youth Bulge » comme disent leurs stratèges, afin d’y recruter des mercenaires pour bloquer l’Europe par le Sud et engager des troupes le long des nouveaux oléoducs qui achemineront le brut africain vers les côtes de l’Atlantique, si des troubles ou des rébellions enflamment la région. L’émergence imminente d’un OTAN-Sud aurait dû inciter les autorités européennes à la vigilance. L’Europe perd toutes ses cartes en Afrique.

La question de l’impérialisme extérieur est donc bien trop complexe pour la réduire à ces schémas  binaires dont se gargarisent les belles âmes de gauche.

11. Actuellement, il semble que l’anti-américanisme soit à la mode. Quelles sont vos critiques à l’égard de celui-ci et de l’anti-Bushisme médiatique?

Si l’anti-américanisme a le vent en poupe actuellement, c’est dû essentiellement à une décennie et demie d’interventions américaines dans le monde. La disparition de la « Soviétie », et donc la fin de la Guerre Froide, avait fait espérer, surtout en Europe, l’avènement d’une longue ère de paix, de reconstruction, de fraternité, où les deux parties de l’Europe se seraient lentement mais sûrement resoudées. Les Etats-Unis ont déçu cet espoir. C’est la raison majeure de l’anti-américanisme réel et sincère qui déferle sur la planète et surtout sur l’Europe. Mais il existe aussi un « anti-américanisme » fabriqué, notamment dans les milieux « altermondialistes ». Christian Harbulot, officier et stratége français, spécialiste de la « guerre cognitive », constate que l’ouvrage théorique majeur, censé exprimer la sensibilité altermondialiste, Empire de Hardt et Negri, évoque lourdement la nécessité d’organiser une « résistance » en « réseaux », dont la caractéristique majeure serait d’être non territorialisée. Cette idée est devenu le « joujou » de la nouvelle gauche actuelle. Or, on ne peut résister sans avoir de base territoriale, sans restructurer des souverainetés territorialisées, de préférence à l’échelle continentale. Par conséquence, une « résistance » déterritorialisée ne débouche sur rien, comme le constate très justement Harbulot. La gauche est aussi très excitée parce que Bush est républicain. Or les démocrates, que cette gauche juge plus pacifiques, sont tout aussi bellicistes, comme l’a prouvé l’Administration Clinton, en déclenchant la guerre dans les Balkans. Kerry, nouvelle figure de proue démocrate, accepte le fait de la guerre en Irak et appartient vraisemblablement au même groupe étudiant de Yale, la fameuse société « Skull & Bones », dont les Bush ont fait partie et qui semble être le noyau dur, dont sont issus les dirigeants américains actuels. La gauche ne tient pas un raisonnement géopolitique mais « moraliste ». Or on ne riposte pas à une agression militaire, permanente et planétaire, par des déclarations moralisantes. Elles ont toujours eu, ont et auront un effet nul.

L’anti-bushisme se borne à ridiculiser le Président américain, à dire qu’il est un « idiot », alors que la démarche impériale qu’il poursuit a été jusqu’ici couronnée de succès. Certes, c’est au détriment de l’Europe, de la Russie et du nationalisme arabe laïc, mais, objectivement, cette stratégie, assortie de culot et d’audace, foulant aux pieds le droit international, paie. Les lamentations ne servent donc à rien et l’anti-bushisme à la Michael Moore n’est finalement qu’une dérivation, qui sert à dire : « Voyez, nous sommes réellement démocrates, nous tolérons la critique, nous admettons que l’on soit outrancièrement irrévérencieux à l’égard du Président ». Pendant ce temps, les chars tirent sur Bagdad, les grandes entreprises logistiques comme Halliburton entrent en action, les satellites espions ne cessent pas de fonctionner.

12. Les mouvements d’extrême-gauche sont aussi souvent très anti-américains. Que pensez-vous de leurs thèses?

Les mouvements d’extrême-gauche devraient se livrer à un petit travail d’anamnèse. La gauche extrême, qui existe aujourd’hui, est l’héritière de ceux qui scandaient, en Allemagne et à Paris entre 1967 et 1969: « Ho Ho Ho Chi Minh!». Or cet homme politique vietnamien, qui a dégagé son pays des tutelles japonaise, française et américaine, a d’abord négocié avec Washington dans le dos des Français, immédiatement après la seconde guerre mondiale. Ho Chi Minh a d’abord été un agent américain, avant de devenir un ennemi de Washington dans le Sud-Est asiatique. Après le départ des troupes américaines en 1975, les relations américano-vietnamiennes se sont rapidement « normalisées », prouvant que, malgré l’horreur de la guerre du Vietnam (bombardements sur Hanoï, défoliation des forêts tropicales indochinoises par l’agent orange, etc.), des passerelles entre les deux pays existaient, tout comme d’ailleurs, entre la Chine de Mao et les Etats-Unis, notamment par l’intermédiaire de brillants journalistes sinologues.

Ce qui caractérise les diverses extrêmes gauches, c’est l’absence de rétrospective historique, c’est l’amnésie, c’est une propension agaçante à raisonner en termes figés, à ériger des mythologies propagandistes au rang de vérités historiques. J’ai toujours trouvé de bonnes analyses factuelles dans les publications et chez les auteurs dits d’« extrême gauche », mais les conclusions étaient trop souvent erronées, car elles partaient de raisonnements détachés du flux de l’histoire, lequel ne s’arrête pas. On a assisté plus d’une fois à des débats stériles pour tenter d’interpréter les nouvelles donnes qui surgissaient sur l’échiquier international. Je me rappelle surtout des discussions sans fin (et sans objet) au moment du rapprochement sino-soviétique en 1972, puis, dans la foulée, entre partisans du Vietnam devenu entièrement communiste et partisans du Cambodge de Pol Pot. Tout cela a fini par lasser le public. L’extrême gauche relève donc, le plus souvent, d’un rituel sans impact politique réel. Tout comme l’extrême droite d’ailleurs, qui cultive d’autres fantasmes.

Aujourd’hui, les thèses les plus intéressantes débattues dans le petit espace de l’extrême gauche internationale sont indubitablement celles de Noam Chomsky. L’analyse géopolitique n’y est pas clairement énoncée. L’option moraliste et internationaliste de ce corpus ne permet pas d’incarnation politique réelle, puisqu’elle entend se situer au-delà des Etats nationaux, tout en admettant que les nations du tiers-monde, mais elles seules, ont un droit à l’auto-détermination. L’Europe est généralement assimilée, ni plus ni moins, au camp « impérialiste », alors qu’elle est sous tutelle et ne dispose d’aucune marge de manœuvre réelle! Tous les faits énoncés par Chomsky, Chossudovsky, etc. doivent être inclus et assimilés dans les analyses géopolitiques classiques, qui se hissent bien évidemment au-dessus des étiquettes et clivages idéologiques. La fusion des deux corpus pourrait donner à terme un outil politique efficace. Quant à l’altermondialisme, je le répète, il ne peut se laisser piéger par le leurre qu’on lui agite sous le nez, à savoir cette idée de « réseaux » sans ancrage territorial.

13. Quelle est votre opinion sur la Guerre Froide? A-t-elle été une mascarade et, si oui, pourquoi les Etats-Unis ont-ils poussé à la chute de l’URSS?

La Guerre Froide est un répit. Il s’agissait d’assiéger, de « contenir » l’URSS, soit, dans le langage du géopolitologue britannique Mackinder, de coincer la puissance maîtresse du « Heartland » continental, de l’enserrer dans un jeu d’alliances, dont les maillons se situent sur l’ « anneau extérieur littoral », afin qu’elle ne puisse conquérir cette frange périphérique et maritime du vaste continent eurasien. Auparavant, il s’était agi d’utiliser les forces du « Heartland » pour harceler les puissances organisatrices de la « Forteresse Europe », dont l’Allemagne, pièce géographique centrale de la « Zwischeneuropa », et du Japon, organisateur de la « sphère de coprospérité est-asiatique ». Les Etats-Unis, ont bien assimilé la dialectique théorisée par Mackinder pour affaiblir toutes les puissances d’Eurasie. Après les ennemis principaux, Allemands et Japonais, il fallait mettre hors jeu l’allié principal, le « spadassin continental » soviétique (« kontinentaler Haudegen », dixit Ernst von Reventlow). Pour y parvenir, il fallait organiser le « containment », l’encerclement de l’ancien allié, maître de la « Terre du Milieu », en organisant sur les « franges continentales » (ou « rimlands »), des systèmes d’alliance, tels l’OTAN, l’OTASE, le CENTO, etc. L’objectif était évidemment d’éviter tout rapprochement germano-soviétique, ou euro-soviétique, après 1945. Le terme « mascarade » ne me paraît dès lors pas adéquat. La Guerre Froide est la suite logique des deux premières guerres mondiales. L’intention des puissances thalassocratiques anglo-saxonnes a toujours été, depuis les préludes de la Guerre de Crimée au 19ième siècle, de détruire la puissance russe, de la faire imploser. En 1941, après la défaite de la France, l’Allemagne est le danger primordial. Il faut dès lors la détruire en utilisant le potentiel militaire et démographique de la seconde puissance du continent: en l’occurrence, l’URSS de Staline. Une fois le danger allemand écarté, on passe à l’étape suivante: détruire la Russie. Le même scénario s’observe au Moyen-Orient, où les Etats-Unis ont armé Saddam Hussein contre l’Iran, puis désigné l’Irak comme ennemi du genre humain, pour qu’il ne puisse exercer aucun contrôle de type hégémonique dans la région. Après 1945, la France, alliée, est évincée de ses positions extra-européennes en Indochine, avec la complicité des Etats-Unis, qui se retournent ensuite contre leurs alliés communistes vietnamiens du départ. La dernière phase consiste à organiser des « abcès de fixation » sur les franges extérieures de la Fédération de Russie, aux frontières déjà complètement démembrées depuis la chute de l’Union Soviétique. L’imbroglio tchétchène, qui s’étend à l’Ingouchie, à l’Ossétie et au Daghestan, en est un exemple d’école. Ces processus n’étonnent que ceux qui prennent les vérités de propagande anti-hitlériennes, anti-staliniennes, anti-nasseriennes, anti-irakiennes pour des faits objectifs et imaginent que les services américains croient à leur propre propagande: en fait, ils ne font que manipuler un discours, qu’ils savent parfaitement construit et amplifié par les grands médias internationaux, undiscours qui sert à réaliser des buts géopolitiques, définis depuis des décennies sinon des siècles.

14. Comment voyez-vous l’évolution des Etats-Unis au cours de ces prochaines années?

Je ne possède pas de boule de cristal, me permettant de voir l’avenir. La seule chose que l’on puisse dire avec suffisamment de certitude, au vu de l’évolution actuelle de la situation internationale, c’est que les Etats-Unis cherchent, au Moyen-Orient et en Afrique Noire, à s’emparer du maximum de ressources pétrolières, de gagner la bataille des énergies pour conserver les rentes que leur offre le pétrole, afin de les investir dans les recherches de haute technologie. Ainsi, les Etats-Unis pourront forger les armes et les technologies satellitaires qui leur permettront de conserver leur leadership pendant un siècle ou deux. Ils s’assureront une domination très confortable sur les autres et pérenniseront leur puissance. Je me méfie des discours récurrents, qui apparaissent dans les médias et qui prévoient le déclin imminent des Etats-Unis.

15. Pourquoi les atlantistes en Europe, mais aussi aux Etats-Unis ne militent-ils pas pour la création des Etats-Unis d’Occident, comme le suggère « Xavier de C*** » dans son livre « L’Edit de Caracalla ou plaidoyer pour des Etats-Unis d’Occident », paru chez Fayard en 2002?

Les atlantistes européens sont des internationalistes qui croient à la propagande de Washington. Mais les vrais détenteurs du pouvoir américain, qui orchestrent cette propagande « mondialiste » ne le sont que d’une certaine façon. Ils croient à l’ancrage américain. Imaginez la situation qui émergerait, si l’Europe votait toujours pour des pacifistes ou si son poids démographique contribuait à faire élire exclusivement des présidents européens, qui feraient une géopolitique européenne et non plus américaine. Les programmes géopolitiques américains, définis depuis si longtemps, ne pourraient plus être mis en œuvre. L’écoumène atlantiste ne serait plus américanocentré. Le protestantisme puritain deviendrait minoritaire, sous le poids du catholicisme européen et latino-américain. Ce « Xavier de C***»  ignore que le moteur religieux de l’américanisme est ce protestantisme dissident, puritain et fanatique des « Founding Fathers ». Son projet « caracallien »  minorise ipso facto ce puritanisme, donc fait perdre à l’Amérique sa spécificité fondatrice. C’est un projet d’atlantiste européen naïf et non pas un projet puritain-américain réaliste, car un tel projet n’imaginerait pas une fusion globale où il ne serait plus qu’un facteur périphérique et marginalisé.

vendredi, 19 mars 2010

L'Allemagne, Israël, l'Iran et la bombe: entretien avec M. van Creveld

L’Allemagne, Israël, l’Iran et la bombe

 

Entretien avec l’historien militaire israélien Martin van Creveld

 

creveldxxxxcccvvv.jpgNé en 1946 à Rotterdam, Martin van Creveld est un historien attaché à l’Université Hébraïque de Jérusalem. Cet expert israélien est considéré comme l’un des théoriciens les plus réputés au monde en histoire militaire. Il étonne ses lecteurs en énonçant des thèses non conventionnelles, notamment quand il écrivait récemment dans les colonnes de l’ « International Herald Tribune » : « Si les Iraniens ne tentaient pas de se doter d’armes nucléaires, c’est alors seulement qu’il faudrait les considérer comme fous ! ». Ses ouvrages principaux sont « The Transformation of War » (1991), où il avait prévu les formes de guerre nées après les événements du 11 septembre 2001. En 2009, il a publié en allemand « Gesichter des Krieges » (= « Visages de la guerre ») où il décrit les conflits armés de 1900 à aujourd’hui et émet des prospectives sur le 21 siècle.  

 

Q. : Professeur van Creveld, la Chancelière Angela Merkel menace l’Iran de sanctions. Les Iraniens sont-ils impressionnés par cette menace ?

 

MvC : Je me permets d’en douter. D’après mes estimations, les Iraniens considèrent que leur programme nucléaire est une question d’importance nationale. Les sanctions, par conséquent, ne les impressionnent pas ; au contraire, elles conduiront les Iraniens à se ranger tous derrière Ahmadinedjad.

 

Q. : Dans un essai pour l’hebdomadaire « Die Zeit », vous avez récemment posé un constat provocateur, en écrivant que l’Iran, s’il devenait puissance nucléaire, « ne serait pas plus dangereux qu’Israël ou les Etats-Unis »…

 

MvC : Oui, de fait, et pas plus dangereux que l’autre « Etat voyou », comme on le décrit, qu’est la Corée du Nord. Force est d’ailleurs de constater que cet Etat, depuis la fin de la Guerre de Corée, n’a plus fait la guerre à personne. C’est une prestation que les deux autres Etats, que vous mentionnez, ne peuvent pas se vanter d’avoir réalisé.

 

Q. : D’après vous, dans quelle mesure les Etats-Unis et Israël sont-ils des Etats dangereux ?

 

MvC : Oui, longue histoire. Pour faire simple, posez la question à Slobodan Milosevic ou à Saddam Hussein. Ces deux personnalités politiques ont directement expérimenté la dangerosité que déploient les Etats-Unis lorsqu’un pays exprime son désaccord avec la politique américaine. Et pour l’expérimenter, il faut ajouter deux conditions supplémentaires : le pays visé doit d’abord être inférieur aux Etats-Unis sur le plan conventionnel ; ensuite il ne doit pas posséder d’armes nucléaires. Quant à la dangerosité d’Israël, posez la question aux habitants du Liban ou de la Syrie…

 

Q. : Donc, pour vous, le danger que représenterait un Iran devenu puissance nucléaire est largement exagéré…

 

McV : C’est évident et le calcul qui se profile derrière cette stigmatisation de l’Iran saute aux yeux : les Etats-Unis ont toujours tout entrepris pour empêcher les autres puissances de posséder des armes dont ils disposaient eux-mêmes depuis longtemps. Dans le cas d’Israël, le motif est différent : officiellement, il s’agit d’obtenir de l’argent d’autres pays, comme l’Allemagne et les Etats-Unis. Les sionistes jouent ce petit jeu depuis cent ans, et avec grand succès, m’empresserai-je d’ajouter.

 

Q. : Et vous dites tout cela sans la moindre réticence…

 

McV : Je suis un historien et je peux me permettre de dire ouvertement la vérité, telle que je la vois. Bien sûr, vous n’entendrez jamais pareil aveu de la part d’un représentant gouvernemental. Israël a attaqué l’Irak en 1981 et la Syrie en 2007. Dans ces deux actes hostiles, la surprise a été décisive : c’est elle qui a fait le succès des opérations. Mais, alors, ne vous étonnez-vous pas que dans le cas de l’Iran nous parlons depuis des années de lancer des opérations similaires et que nous ne faisons rien ? Le fait qu’on en parle depuis tant de temps éveille le soupçon : l’enjeu doit donc être autre ; en l’occurrence, obtenir des armes et de l’argent.

 

Q. : La Chancelière Merkel est allée dans ce sens…

 

MvC : Non, les choses ne s’agencent pas tout à fait  ainsi. Le Président Bush était peut-être un idiot, mais ni Obama ni Merkel ne le sont. La possibilité d’une attaque israélienne n’est pas à exclure à 100%. C’est la raison pour laquelle on tente de donner à Israël suffisamment d’argent et d’armes pour que l’Etat hébreu s’abstienne de toute initiative malheureuse. Pour tous les intervenants, le jeu s’avère extrêmement délicat car il implique des éléments de Realpolitik, de tromperie et d’hypocrisie.

 

Q. : En 2008, Angela Merkel a prononcé des paroles historiques en déclarant que le droit d’Israël à l’existence relevait de la raison d’Etat allemande. Cette déclaration d’amour vous touche-t-elle ?

 

MvC : Des déclarations de ce genre me rendent certes très heureux mais en cas d’urgence les possibilités de Madame Merkel seraient très limitées.

 

Q. : Pensez-vous que l’Allemagne risquerait sa propre existence et enverrait la Bundeswehr pour intervenir dans une grande guerre en faveur d’Israël ?

 

MvC : Bien sûr que non. Mais à l’évidence, je dois vous révéler quel était l’objectif poursuivi au moment où l’on a fondé l’Etat d’Israël. Pendant 2000 ans, les Juifs n’ont pas pu dormir tranquilles parce qu’ils se faisaient du souci : devaient-ils se défendre eux-mêmes ou, si ce n’était possible, quelle puissance allait-elle prendre leur défense ? Israël a été créé pour que les Juifs puissent enfin dormir d’une traite pendant toute la nuit, parce qu’ils n’auraient plus à se casser la tête pour répondre à cette question. Donc, très logiquement, tout en respectant les propos de Mme Merkel, et en tenant compte de cette nécessité impérieuse de toujours dormir tranquille, je ne souhaite pas me poser la question de savoir si mon sommeil paisible doit dépendre ou non de l’armée allemande actuelle. Israël doit pouvoir se fier à lui seul. Et si l’improbable survenait et si Israël devait faire face à son propre anéantissement, je ne m’étonnerais pas d’apprendre que nous voudrions entrainer le plus de monde possible dans l’abîme avec nous.

 

Q. : Que voulez-vous dire par là ?

 

MvC : Songez à l’histoire du héros juif Samson.

 

Q. : « Qui en mourant tua plus de monde que pendant toute sa vie », comme le dit la Bible. Mais concrètement, qu’est-ce que cela signifie ?

 

TransformationGuerre.jpgMvC : Je laisse votre imagination répondre à cette question.

 

Q. : Pourquoi Angela Merkel se trompe-t-elle lorsqu’elle semble nous dire qu’un Iran devenu puissance nucléaire serait plus dangereux que les autres puissances atomiques ?

 

MvC : Que voulez-vous que je vous dise ? Je n’ai encore jamais rencontré d’expert iranologue qui croit vraiment que Khamenei (l’homme qui, en réalité, tire toutes les ficelles en Iran), Ahmadinedjad et le peuple perse en général sont tous fous et souhaitent voir leur magnifique pays réduit à un désert radioactif.

 

Q. : Vous voulez dire que le principe de la dissuasion fonctionne également chez les Iraniens ?

 

MvC : Sans aucun doute. Comme partout, il y a également en Iran des scientifiques qui savent très bien ce que signifierait une guerre nucléaire pour leur pays. Et si ce n’était pas le cas, je leur conseillerais de lire le travail réalisé par mon bon ami Anthony Cordesman, ancien membre du Conseil National de Sécurité des Etats-Unis, travail dans lequel il explique ce qu’Israël pourrait infliger à l’Iran avec les mégatonnes qu’il possède dans ses arsenaux.

 

Q. : Pourquoi l’Iran veut-il la bombe ?

 

MvC : Pour attaquer Israël ? Non, très vraisemblablement non. Ce serait trop dangereux car toute puissance qui utilise des armes nucléaires risque, tôt ou tard, de voir d’autres puissances en utiliser contre elle. L’Iran veut-il menacer ou faire chanter ses voisins ? Peut-être. Mais sans doute pas tout de suite, plus tard vraisemblablement.

 

Q. : Et cela ne vous inquiète pas ?

 

MvC : Non. Ceux qui devraient s’inquiéter, ce sont les Etats du Golfe. D’ailleurs ils le sont. Parce qu’ils sont très éloignés d’Israël et qu’Israël, pour sa part, n’a ni l’intérêt ni les moyens d’aider ces Etats sans la moindre réticence. Nous avons donc affaire à un problème qui ne concerne que les Etats-Unis : eux devront l’affronter.

 

Q. : Ahmadinedjad ne planifie-t-il pas un nouvel holocauste ?

 

MvC : Je suppose qu’il le ferait si seulement il en avait les moyens…

 

Q. : Et cela, non plus, ne vous inquiète pas ?

 

MvC : Israël dispose de ce qu’il faut pour l’en dissuader.

 

Q. : Dans l’essai que vous avez récemment publié dans « Die Zeit », vous dites qu’Ahmadinedjad ne veut pas construire la bombe par conviction antisémite ; vous dites qu’il veut la construire pour des motifs d’intérêt national.

 

MvC : Cela ne fait aucun doute qu’Ahmadinedjad hait Israël. Certes, il éradiquerait bien ce pays de la surface de la Terre, mais seulement s’il en avait les moyens. Mais ce n’est pas la raison pour laquelle il cherche à se doter d’armes nucléaires. Alors pourquoi ? Depuis 2002, la situation stratégique de l’Iran s’est considérablement détériorée. En effet, les mollahs peuvent tourner leurs regards vers n’importe quel point cardinal, le nord-est, le sud-est, le sud ou l’ouest, toujours ils verront des troupes américaines déployées. Autour de l’Iran stationne un quart de million de soldats américains, pour être précis. Le cas irakien a appris deux choses aux mollahs : d’abord, qu’avec leur armée, ils n’ont aucune chance contre les troupes américaines. Ensuite, ils ne peuvent pas exclure l’hypothèse qu’un jour un président américain voudra quand même les attaquer. C’est en y réfléchissant qu’ils ont eu l’idée de fabriquer une bombe car se doter d’armes nucléaires est le seul moyen auquel ils peuvent recourir pour échapper au déséquilibre des forces.

 

Q. : Pourquoi ces raisons-là ne sont-elles jamais évoquées dans les médias allemands ?

 

MvC : Pourquoi me posez-vous cette question ?

 

Q. : Pourquoi ne la poserais-je pas ? Vous êtes un expert : que supposez-vous en constatant ce silence ?

 

MvC : Non, je ne peux pas répondre à la place des médias allemands.

 

Q. : Peter Scholl-Latour aime vous citer, et surtout cette phrase-ci : « Si j’étais iranien, je voudrais aussi avoir la bombe ! »…

 

MvC : Oui, et alors ?

 

Q. : Pourquoi les Allemands aiment-ils citer des Juifs pour donner plus de poids à leurs arguments ?

 

MvC : D’accord, cette question s’explique quand on connaît la situation allemande, mais en soi que signifie-t-elle ? Toutefois, ce n’est pas mon problème, mais le vôtre, à vous Allemands, de trouver une voie pour vous réconcilier avec votre passé, en l’occurrence avec l’holocauste…

 

Q. : Le gouvernement allemand sait-il de quoi il parle quand il évoque la question iranienne ou bien tous les propos qu’il tient sont-ils oblitérés par le besoin de surmonter le passé récent de l’Allemagne aux dépens de toute politique étrangère rationnelle ?

 

MvC : Je n’ai pas à émettre de jugement à ce propos. Posez la question à Madame Merkel elle-même.

 

Q. : En tenant des propos qui minimisent le danger de la bombe iranienne, ne vous attirez-vous pas des inimitiés en Israël ?

 

MvC : Ces derniers mois, j’ai eu maintes fois l’occasion de m’exprimer publiquement sur ce thème et je puis vous dire que non, en fait ma position ne m’attire aucune antipathie particulière. Les gens réagissent surpris, c’est évident, mais ils ne se mettent pas en colère. Aussi peu en colère d’ailleurs qu’Ehud Olmert, lorsque j’ai discuté avec lui de ces choses-là, quand il était encore premier ministre.

 

Q. : Dans votre longue contribution à « Die Zeit », vous insistez sur le véritable danger qui guette la région et qui n’est pas la bombe iranienne…

 

MvC : … ce véritable danger qui serait une attaque contre l’Iran pour l’empêcher de construire sa bombe. Pour vous en rendre compte, il suffit de jeter un coup d’œil sur la carte du Golfe Persique, la région la plus riche en pétrole du monde ; vous comprendrez alors pourquoi. Une attaque de cette nature pourrait précipiter l’économie mondiale dans une crise qui serait pire que toutes les autres qui l’ont précédée. Or, c’est bien connu, les crises économiques peuvent avoir des conséquences politiques et militaires très lourdes.

 

Q. : Comment une attaque contre l’Iran pourrait-elle se dérouler et, dans le pire des cas, que se passerait-il ?

 

MvC : L’Iran est un pays trop grand pour être occupé ; donc on aurait recours plutôt à l’engagement d’unités de commandos ou l’on mènerait une guerre aérienne, celle du tapis de bombes. Plusieurs stratégies sont alors possibles mais aucune d’entre elles ne garantirait la destruction totale du programme nucléaire iranien. Ensuite, il serait bien possible qu’une attaque contre l’Iran déclencherait une guerre entre Israël et la Syrie ou le Liban. Une telle guerre aurait de terribles conséquences sur le prix du pétrole, donc sur l’économie européenne et sans doute aussi sur la structure qu’est l’Union Européenne. Vous pouvez aisément imaginer tout cela…

 

Q. : L’attaque contre l’Iran se déclenchera-t-elle tôt ou tard ? Et si oui, quand ?

 

MvC : Depuis des années, je défends l’opinion qu’une telle guerre n’aura jamais lieu. Mais pour être honnête, il m’est arrivé de me tromper dans le passé et certains de mes pronostics se sont avérés faux. Il est toujours possible qu’un fou arrive à  prendre le pouvoir…

 

(entretien paru dans l’hebdomadaire berlinois « Junge Freiheit », n°11/2010, mars 2010 ; propos recueillis par Moritz Schwarz ; trad..  franç. : Robert Steuckers).  

 

Altbundeskanzler H. Schmidt vergleicht Obama mit Hitler

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Altbundeskanzler Helmut Schmidt vergleicht Obama mit Hitler

Gerhard Wisnewski / http://info.kopp-verlag.de/

»Beckmann« am 22. Februar 2010: War da was? Eigentlich nicht. Vielleicht bis auf die Kleinigkeit, dass Altbundeskanzler Helmut Schmidt den US-Präsidenten Barack Obama in eine Reihe mit Hitler und Stalin stellte. Skandal? Aufschrei? Nicht doch. Stattdessen eisernes Schweigen. Das Zentralorgan »Spiegel Online« erklärte auch warum: Der darf das!

Man schrieb den 22. Februar 2010. In der Talksendung Beckmann saßen dem Moderator zwei Talkgäste gegenüber. Ein weißhaariger, qualmender Helmut Schmidt im Rollstuhl und der jüdische Historiker Fritz Stern. Beide sollen an diesem Abend von Beckmann ordentlich Publicitiy für ihr politisch korrektes Gesprächsbuch Unser Jahrhundert bekommen. Doch dann wird es plötzlich alles andere als politisch korrekt.

»Es gibt eine Regel bei Diskussionen über aktuelle Themen: die sich jeder Teilnehmer merken sollte«, schrieb einmal der jüdische Journalist Henryk M. Broder: »Wer zuerst Hitler, Nazis, Drittes Reich sagt, hat die Arschkarte gezogen. So einer ist entweder NS-Sympathisant oder – noch schlimmer – er missachtet das 11. Gebot: Du sollst nicht vergleichen!«

Nur ganz besondere Persönlichkeiten können sich über dieses 11. Gebot hinwegsetzen, ja, eigentlich gibt es nur einen Deutschen, bei dem man sich das vorstellen kann. Und das ist der quasi unantastbare Altbundeskanzler Helmut Schmidt, der nun auch noch mit seinem jüdischen Freund im Studio saß.

Was Helmut Schmidt »an der Redeart von Barack Obama« nicht gefalle, wollte Gastgeber Reinhold Beckmann (ARD) wissen.

Darauf Schmidt: »Ich habe nichts gegen die Art der Rede. Aber ich habe erlebt, dass Charismatiker hinterher mehr Unheil gestiftet haben, als sie sich selber vorgestellt haben. Immerhin – Adolf Hitler war auch ein Charismatiker.«

Pause. Beckmann und Stern hat es die Sprache verschlagen. Im Studio und in Millionen von Wohnzimmern konnte man eine Stecknadel fallen hören. Stalin und Mao Tse-Tung seien auch Charismatiker gewesen, sagte Schmidt in die Stille hinein, was die Sache nicht besser, sondern nur noch »schlimmer« machte.

Nur, um das einmal festzuhalten: Der ehemalige und wahrscheinlich beste Bundeskanzler, den Deutschland je hatte (was eine relative Wertung ist, keine absolute), stellte den amerikanischen Präsidenten Obama in eine Reihe mit Massenmördern, die Abermillionen von Menschen auf dem Gewissen haben. Und das sollte man nie vergessen – denn eines ist sicher: unüberlegt oder zufällig hat Helmut Schmidt das bestimmt nicht getan.

Daher lautete die spannende Frage: Wie würden Politik und unsere »Qualitätsmedien« reagieren? Antwort: Man erlebte den Versuch, ein aufflackerndes Feuer durch Brennstoffmangel auszuhungern. Aber eine Sendung, die von Millionen Zuschauern gesehen wurde, kann man doch nicht totschweigen! Oh, doch. Man mag es nicht glauben, aber selbst vor einem Millionenpublikum ausgebreitete Skandale und Sensationen kann man ungeschehen machen, indem man sie einfach nicht wahrnimmt und nicht über sie berichtet.

Nehmen wir an, jemand würde einen riesigen Felsbrocken ins Wasser werfen, und auf dem Wasser würden sich nicht die kleinsten Wellen bilden – wäre das nicht der beste Beweis, dass mit diesem Wasser etwas nicht stimmen kann?

Na de Armeense genocide, nu een deportatie?

Na de Armeense genocide, nu een deportatie?

hamid-cari.jpgRecent keurden de Amerikaanse en Zweedse parlementen een motie goed waarin de Armeense genocide eindelijk de erkenning krijgt die ze “verdient”. Dit heeft uiteraard zijn gevolgen.

  • Voor het Armeense volk eindelijk een zeer kleine tegemoetkoming, het gedane leed kan men immers nooit terugbetalen.
  • Voor Turkije een kaakslag omdat zij blijven beweren dat er helemaal geen genocide. De heer Alfred Vierling vertelde mij tijdens de reis naar Bretagne trouwens dat de Turkse visie op de Armeense genocide samen te vatten valt als volgt: “Ze heeft nooit plaatsgevonden, maar was wel nodig.”
  • Voor de Amerikaanse president Obama is het dan weer een probleem omdat Turkije de belangrijkste moslimpartner is en in de NAVO zit. Waarschijnlijk zal men dit goedmaken door de Amerikaanse president nogmaals hard te laten pleiten voor de toetreding van Turkije in de EU, wat meerdere presidenten reeds gedaan hebben.

De reactie vanuit de Turkije is dan ook weer veelzeggend. Omdat de Armeense genocide eindelijk als genocide erkend wordt, denkt de Turkse premier Erdogan hardop aan een deportatie van alle Armeniërs in Turkije.

De Turkse premier Tayyip Erdogan heeft gedreigd 100.000 Armeniërs zijn land uit te zetten, nadat Zweedse en Amerikaanse resoluties de Turkse vervolging van Armeniërs in de Eerste Wereldoorlog hebben bestempeld als ‘genocide’. Dat zei Erdogan in een interview met BBC. ’Er zijn op dit moment 170.000 Armeniërs in ons land,’ aldus Erdogan. ‘Slechts 70.000 daarvan zijn Turkse staatsburgers. De overige 100.000 tolereren we.’

Bron: http://www.elsevier.nl/web/Nieuws/Buitenland/260796/Premier-Turkije-dreigt-met-deportatie-100.000-Armeniers.htm

En met dit land willen ze gaan onderhandelen om te laten toetreden tot de EU? Een land dat de Koerdische rechten dagelijks fysiek schendt, dat martelt in hun gevangenissen en dat nu besluit om een genocide weg te duwen aan een deportatie denkt. Nu ja, anderzijds is Spanje ook toegelaten tot de EU en daar worden de rechten van de Basken ook dagelijks geschaad. Men kan op zo’n momenten merken dat de EU gebouwd is met Amerikaans geld, bijeengebracht en doorgesluisd via de CIA;

Tussen eind 1949 en begin 1960 zou het ACUE ruim 4 miljoen dollar CIA-geld naar de Europese beweging sluizen – in hedendaagse euro’s nagenoeg 32 miljoen. Het eerste tastbare succes: Robert Schumans plan voor een Europese Gemeenschap voor Kolen en Staal. ”Wat wij in Europa hebben gedaan, was onmogelijk geweest zonder de hulp van het American Committtee on United Europe”, zo schrijft een dankbare Paul Henri-Spaak in 1960 aan de toenmalige ACUE-directeur.

Bron: http://knack.rnews.be/nieuws/wereld/-cia-financieerde-europese-eenmaking-/site72-section26-article48016.html

Amerika een bondgenoot van Europa? Turkije een land dat tot de EU moet toegelaten worden? Laat me niet lachen…

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jeudi, 18 mars 2010

L'Egypte, nouvel allié d'Israël

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Matteo BARNABEI :

L’Egypte, nouvel allié d’Israël

 

Le Caire voudrait exclure le Hamas de la conférence de Tripoli – Le leader de la Ligue Arabe se tait

 

Sur l’échiquier du Proche Orient, l’Egypte pourrait bientôt assumer un rôle de plus en plus prépondérant dans un sens pro-américain et pro-israélien. L’Egypte, désormais proche des positions de Washington et de Tel Aviv, prendra-t-elle prochainement la place qu’occupait Ankara dans le dispositif américain, lorsque la Turquie était le principal allié d’Israël dans la région. La donne a changé depuis la nouvelle ligne politique adoptée par la Turquie à la suite de l’opération « Plomb fondu ». Durant l’offensive armée des forces israéliennes contre le Hamas dans la Bande de Gaza, le premier ministre turc Erdogan a exprimé clairement son désaccord face à cette initiative musclée, tandis que le président égyptien Hosni Mubarak donnait son appui inconditionnel à l’Etat hébreu. Cet appui allait jusqu’à tolérer le bombardement d’une petite portion du territoire national égyptien, proche de la Bande de Gaza pour permettre aux Israéliens de frapper et de détruire les tunnels qui reliaient l’enclave palestinienne au monde extérieur.

 

Depuis ce moment-là, les coopérations israélo-égyptiennes de cette nature se sont poursuivies. Il suffit de penser aux opérations conjointes de l’armée égyptienne, de Tsahal et des forces américaines et à la construction d’une barrière très contestée, dite « barrière d’acier », tout au long des limites de la Bande de Gaza. L’aide que fournit l’Egypte à Tel Aviv n’est pas seulement d’ordre logistique et militaire mais aussi d’ordre politique. C’est probablement ce facteur politique qui s’avèrera le plus déterminant, vu le rôle prépondérant que joue l’Egypte au sein de la Ligue Arabe, en tant que puissance fondatrice et grâce au soutien américain ; la Ligue Arabe, rappelons-le, a toujours été présidée par un Egyptien, mis à part de brèves parenthèses, l’une tunisienne, l’autre libanaise. Ces jours-ci, nous assistons à un exemple macroscopique de la bienveillance que Le Caire montre désormais à l’égard de Tel Aviv. L’Egypte, depuis quelque temps, critique sévèrement le rôle du Hamas dans le monde arabe et ne reconnaît pas la légitimité de son gouvernement. On s’en doute, mais sans plus, depuis que les Egyptiens dénoncent les tentatives de rapprochement entre le Hamas et ses rivaux du Fatah. Ainsi, par exemple, lorsqu’une délégation de la Ligue Arabe s’est récemment rendue à Gaza pour exprimer son soutien à la population palestinienne et à l’exécutif local face à la menace israélienne, on a dû constater l’absence du président de l’organisation, l’Egyptien Amr Mussa, alors que l’initiative était importante. Amr Mussa ne s’est pas exprimé sur la question et, malgré les invitations réitérées du Hamas, ne s’est jamais rendu dans la bande de Gaza. Vendredi 19 février, tous les doutes quant à la position réelle de l’Egypte se sont évanouis car les déclarations émises par les instances gouvernementales égyptiennes dans les colonnes du quotidien « Al Misriyoon » font clairement savoir que la présence du mouvement islamiste palestinien au pouvoir à Gaza lors du sommet arabe qui se tiendra le mois prochain à Tripoli n’était pas souhaitée, vu qu’elle « pourrait avoir un impact négatif sur les négociations inter-palestiniennes ».

 

Les dirigeants égyptiens contestent la présence des délégués du Hamas lors de cette rencontre dans la mesure où seuls des représentants gouvernementaux y ont théoriquement accès. Il nous paraît inutile de rappeler que c’est le Hamas qui a gagné les élections en 2006, élections qui se sont tenues sous le regard d’observateurs internationaux, et non pas le mouvement guidé par l’actuel président de l’ANP, Mahmud Abbas. L’Egypte tire quelques bénéfices de son attitude. Contrairement à ce qui se passe en Iran, où le président a été élu par le peuple lors d’élections régulières, et où chaque fois que la police disperse une manifestation non autorisée, on crie au scandale et à la violation des « droits de l’homme », en Egypte, le pouvoir peut garder sa forme purement dictatoriale, sous un masque à peine dissimulant de démocratie. Chaque fois qu’il y a une élection en Egypte, personne ne se présente contre Mubarak et si, par hasard, quelqu’un venait à protester, il serait aussitôt arrêté. Cette situation n’intéresse ni Tel Aviv ni Washington ni aucun de leurs très fidèles alliés. Le gouvernement égyptien interdit toute manifestation en faveur du retour au pays de Muhammad el Baradei qui souhaiterait défier le président égyptien actuel lors de prochaines élections ; c’est anti-démocratique mais personne n’évoque cet interdit dans les milieux politiques conformistes en Europe ou ailleurs. Personne non plus, ni chef de gouvernement ni parti politique ni association humanitaire, n’a protesté contre l’arrestation de trois jeunes femmes coupables d’avoir manifesté en brandissant un portrait de l’ancien président de l’AIEA. Evidemment, puisque l’Egypte rend désormais de bons services à Washington et à Tel Aviv.

 

Il est temps que tombe le masque d’hypocrisie qui recouvre les yeux de tant d’observateurs politiques officiels et que l’on se rende compte que, dans les crises politiques internationales, notamment dans l’actuelle crise iranienne, l’intérêt véritable n’est pas le contenu de la déclaration des droits de l’homme  ou les principes de la liberté civile mais uniquement l’argent. [On apprend par ailleurs qu’un accord  sera signé entre l’Egypte et la Jordanie, d’une part, et Israël, d’autre part, pour la construction de nouvelles centrales énergétiques. Le site de la principale centrale sera situé sur le territoire égyptien, produira de l’électricité pour l’Egypte et pour Israël et vendra le surplus aux pays voisins sauf à la Bande de Gaza, précipitant cette dernière dans une précarité de plus en plus problématique…].

 

Matteo BARNABEI.

(article paru dans le quotidien « Rinascita », Rome, 20/21 février 2010 ; http://www.rinascita.eu/ ).

Aussenpolitik

BELANGRIJK :
Beste vrienden, Hier een vormingspaper van de jeudgorganisatie van de Oostenrijkse FPÖ over buitenlandse politiek.  Benutten voor eigen vorming, ook om de Atlantisch-Trotskistische-Neokonservative subversie te bestrijden, die door sommige koddige figuren in eigen rangen wordt geörkestreerd ! Niet vergeten : zonder een enge samenwerking tussen Oostenrijkers en Vlamingen op het gebied van buitenlandse politiek, zullen wij op Europees niveau NIETS bereiken. De Atlantisten zijn dus degenen, die onze inspanningen kelderen ! Weg ermee ! Het model in buitenlandse politiek is ofwel Oostenrijks ofwel Padanisch.
 

RFJ-Grundsatzreihe - Band 6
Außenpolitik
Verfasser: Andreas Zacharasiewicz
Alle Rechte sind dem Verfasser vorbehalten
Kontakt für Fragen und Anregungen: E-Post: a.zacharasiewicz@gmx.at
<mailto:a9651269@unet.univie.ac.at>
www.rfj-wien.at

europavvvvvbbbbbnnnn.jpgZusammenfassung
In einer zunehmend globalisierten Welt stellen sich Fragen der internationalen Politik für einen Staat um so drängender. Sie machen es für jede politische Gruppierung erforderlich, über ein logisch zusammenhängendes außenpolitisches Konzept zu verfügen, das in diesem Beitrag skizziert wird.

Dazu werden in Kap. 2 die globale Lage analysiert und die wichtigsten weltweiten Entwicklungen beschrieben. Zu diesen gehören: Die Herrschaft durch die einzige Weltmacht USA, die Globalisierung in Verbindung mit Tendenzen der Regionalisierung, ein Zusammenprallen der Kulturkreise (S. Huntington) und ein sukzessiver Niedergang des Westens.

Ein Rückblick auf die Geschichte Europas bestätigt den Bedeutungsverlust unseres Kontinents im letzten Jahrhundert (Kap. 3).

In dieser Situation lassen sich fünf langfristige Ziele für eine österreichische Außenpolitik heraus arbeiten, die aufgrund der weltweiten (wirtschaftlichen, demografischen, historischen und machtpolitischen) Entwicklung nur mehr in einem europäischen Kontext gedacht werden kann (Kap. 4).

Dazu zählt an erster Stelle in Anbetracht von Masseneinwanderungen und Geburtenschwund die Erhaltung der ethnischen Identität Europas, um den sozialen Frieden, den staatlichen Zusammenhalt, aber auch den unverwechselbaren Charakter der europäischen Völker zu erhalten. Vor allem der Prozess der Globalisierung bedroht die globale kulturelle Vielfalt und führt zu Vereinheitlichungstendenzen.

Gleichzeitig geht es darum, dass die europäischen Staaten in einem wirtschaftlichen Standortwettbewerb mit anderen Weltregionen konkurrenzfähig bleiben. Dazu bedarf es Steuersenkungen, innerstaatlicher Reformen und Budgetkonsolidierungen.

In verteidigungspolitischer Hinsicht gilt es auf nationaler, aber auch auf europäischer Ebene mehr Finanzmittel zur Verfügung zu stellen, um die Sicherheit und Unabhängigkeit Europas bewahren zu können (Transportkapazitäten, Satelliten!).

Die zuletzt von den USA geführten Kriege sind ungerechtfertigt, völkerrechtswidrig, nicht im europäischen Interesse und gefährden den Weltfrieden. Sie belegen aber die Notwendigkeit einer europäischen Einigung. Eine engere Zusammenarbeit mit Russland könnte den politischen Handlungsspielraum Europas vergrößern.

1. Einleitung: Österreich und die Weltpolitik

Sich auch mit der Außenpolitik des eigenen Staates auseinander zu setzen hat aus mehreren Gründen einen Sinn: 1.) verlangen Ereignisse der internationalen Politik, wie z.B. Krisen, Kriege, multilaterale[1] <#_ftn1> Abkommen, Wirtschaftskonferenzen, ...etc. eine klare Positionierung der Regierung, aber auch jeder politischen Gruppierung.
2.) Muss jede politische Gruppierung für sich über eine kohärente[2] <#_ftn2> , logisch nachvollziehbare Konzeption einer Außenpolitik verfügen. Diese Politik soll nicht nur auf das Verhalten anderer internationaler Akteure passiv reagieren, sondern sich auch aktiv aus den Werten der politischen Gruppierung ableiten.
 
Gerade weil Österreich ein kleiner Staat ist, ist es um so wichtiger, sich die Faktoren und Entwicklungen der internationalen Politik vor Augen zu führen, da die Republik Österreich stärker als ein großer Staat von den weltweiten Entwicklungen betroffen ist. Daher wollen wir zuerst in Kap. 2 die globale Entwicklung der internationalen Beziehungen analysieren und in Kap. 3 uns dann auf den europäischen Kontinent konzentrieren und in Kap. 4 eine kohärente Politik für Österreich in Europa entwerfen.

2. Die globale Lage

Die Lage der Weltpolitik hat sich durch den Fall der Berliner Mauer im Jahr 1989, den Zerfall des Ostblocks und der Auflösung der Sowjetunion im Jahr 1991 grundlegend geändert.

Davor war die internationale Politik durch die ideologische Konfrontation der zwei Machtblöcke Sowjetunion plus Verbündete und USA plus Verbündete geprägt. Eine dieser Konfliktlinien verlief mitten durch Europa und mitten durch Deutschland und Berlin (Berliner Mauer).

Nach der Auflösung des Ostblocks ist die internationale Politik von neuen Entwicklungen und Trends geprägt:

1.)   Eine Weltmacht: Als Sieger aus der ideologischen Konfrontation beider Blöcke gingen die USA hervor, die heute die einzig verbliebene Weltmacht darstellen. In allen Bereichen, die für eine globale Vorherrschaft wichtig sind, das sind militärische, wirtschaftliche, technische und kulturelle Macht, stehen die Vereinigten Staaten an der Spitze. Vor allem im militärischen Bereich verfügen die USA bekanntlich über eine Militärmacht und einen technischen Vorsprung, der Europa weiter hinter sich lässt. Die USA haben auch den Willen diese Macht selektiv für ihre Interessen einzusetzen.

2.)   Kulturelle Differenz: Nach dem Zerfall des Ostblocks treten ideologische Differenzen in der internationalen Politik in den Hintergrund und kulturelle und ethnische Differenzen gewinnen an Bedeutung. Die Völker und Staaten orientieren sich in ihrer Außenpolitik verstärkt nach ihrer jeweiligen kulturellen Zugehörigkeit zu einem der ca. acht weltweit existierenden Kulturkreise. Der weltbekannte Politologe Prof. Samuel Huntington zählt zu diesen Kulturkreisen: den westlichen, den islamischen, den sinischen, den japanischen, den hinduistischen, den orthodoxen, den lateinamerikanischen und (mit Einschränkungen) den afrikanischen (für Details vgl. Huntington 1997, 57f.). Jeder dieser Kulturkreise verfügt über ein unterschiedliches Wertesystem, das mit dem „Westen“ zwar Gemeinsamkeiten hat, aber auch entscheidende Differenzen. Die Welt wird daher zunehmend zu einem „Pluriversum“, in dem sich kulturelle Blöcke gegenüber stehen, die sich nicht auf einen gemeinsamen Nenner bringen lassen.

3.)   Niedergang des Westens: Obwohl, wie unter Punkt 1 erläutert, die USA im Moment unangefochten die dominierende Weltmacht sind, werden sich in den nächsten Jahren und Jahrzehnten die weltweiten Kräfteverhältnisse massiv verschieben (vgl. auch hier im Detail die Analysen bei Huntington 1997). Der „Westen“, damit meint Samuel Huntington v.a. die USA und West- und Mitteleuropa zusammen, werden in den nächsten Jahrzehnten an Einfluss in der Welt verlieren und die Macht anderer Kulturkreise wird steigen. So wird der Anteil der westlichen Bevölkerung an der Weltbevölkerung stark abnehmen, ebenso wie der Anteil an der globalen Wirtschaftsleistung. Gleichzeitig werden andere Kulturkreise stärker. So sind etwa die Staaten Südostasiens im Bereich der Wirtschaftsleistung auf dem Weg zur Weltspitze. Die nicht-westlichen Völker werden zunehmend alphabetisierter, gesünder und sind jünger als die überalterten Bevölkerungen des Westens. Der „Westen“ wird sich daher mit einer Reduktion seines Einflusses in Zukunft abfinden müssen, wenn er nicht mit den Völkern anderer Kulturkreise unnötig auf Konfrontationskurs segeln will. Bezüglich Huntington ist darauf hinzuweisen, dass zwischen Europa und den USA nicht unbeträchtliche Unterschiede existieren, die die gemeinsame Zusammenlegung zum „Westen“ nicht immer sinnvoll erscheinen lassen.

4.)   Globalisierung und Regionalisierung: Durch den Wegfall des „Eisernen Vorhangs“ verstärkt, kam es in den 1990er Jahren zu einem Prozess, der als „Globalisierung“ bezeichnet wird. Mit „Globalisierung“ ist ein Vorgang gemeint, der darin besteht, dass sich Handels- Kommunikations- und Finanzströme zunehmend vernetzen und in ihrem Umfang steigen. Diese Globalisierung führt auch dazu, dass sich die Konsumgewohnheiten, Lebensweisen und Werthaltungen der US-amerikanischen Zivilisation weiter global ausbreiten, da die USA in gewisser Weise das Zentrum der Globalisierung sind. Die Globalisierung ist daher auch eine Amerikanisierung. Parallel dazu und zum Teil als Reaktion darauf, kommt es zu einem Prozess der Regionalisierung, der wiederum zwei Facetten hat. Einerseits bilden sich auf kontinentaler Ebene einzelne große Macht- und Wirtschaftsblöcke, die zunehmend integriert sind. Dazu zählen etwa in Nordamerika die NAFTA[3] <#_ftn3> , als Bündnis der USA, Kanadas und Mexikos, in Europa die EU und in Asien die ASEAN[4] <#_ftn4> . Andererseits gewinnen auch die Regionen im Kleinen an Bedeutung. Es bilden sich an der „Basis“ zum Teil Widerstände gegen eine globale kulturelle Vereinheitlichung. Diese können unterschiedliche Formen annehmen, vom Protest einzelner Indiostämme in Mexiko, über das Streben nach Autonomie in europäischen Regionen, wie in Flandern, Norditalien („Padanien“), im Baskenland oder in Tschetschenien bis zum Aufbrechen von künstlich gezogenen Staatsnationen in Afrika.

3. Die europäische Lage – Rückblick

Wie stellt sich nun im Zusammenhang mit den oben beschriebenen langfristigen Entwicklungen die Lage Europas dar?

Innerhalb Europas bildet sich mit der Europäischen Union der global am stärksten integrierte Block heraus, über den einmal zutreffend gesagt wurde, er sei „wirtschaftlich ein Riese, politisch ein Zwerg und militärisch ein Wurm“.

Das war nicht immer so. Ein Blick zurück an den Beginn des 20.Jhts, oder ins 19.Jht. oder noch länger, zeigt uns, dass Europa früher das Zentrum weltweiter Macht war. So haben etwa zahlreiche Hochkulturen ihre Wurzeln in Europa (antikes Griechenland, Rom, ...etc.).

Aber bereits davor gab es frühe Hochkulturen, die über einen bemerkenswerten Entwicklungsstand verfügten, von denen spätere Kulturen profitieren konnten. So gab es etwa in Westeuropa die „atlantische Westkultur“, deren Angehörige die Erfinder des Pyramidenbaus waren. Diese atlantische Westkultur, auch „Megalithtreich“ genannt (Megalith = „Riesenstein“) tauchte mindestens 5000 Jahre v.d.Ztw. in Westeuropa auf (Stichwörter: Stonehenge, „Atlantis“) und erfand den Pyramidenbau (etliche Pyramidengräber in z.B. Frankreich zeugen noch heute davon). Ein Pyramidenbau, der viele Jahrhunderte später in der ägytischen Hochkultur seine gewaltige Vollendung fand (z.B. Cheopspyramide).

Auch auf die spätere Entwicklung können wir Europäer mit Stolz blicken. So haben sich unsere Vorfahren oft gegen die widrigsten Umstände und in den größten Gefahren bewährt. Es gelang wiederholt außereuropäische Eroberer aus Europa fern zu halten. So konnten die Hunnen im 5.Jht. n.t.Ztw. siegreich geschlagen werden[5] <#_ftn5> , der Einfall der Mongolen im 13.Jht. konnte abgewehrt werden, die Mauren konnten aus Spanien vertrieben werden und den Türkenanstürmen konnte 1529 und 1683 vor Wien standgehalten werden. Über all die Jahrhunderte hat sich Europa als „Wiege der Weißen“ bewährt.

Bis vor 150 Jahren - um 1850 - wurde der Großteil der Welt von europäischen Mächten beherrscht und die heute tonangebenden Mächte gab es noch gar nicht. Die USA waren zum Gutteil noch gar nicht besiedelt, Russland war eine Macht wie jede andere, Japan ein mittelalterlicher Feudalstaat.

Im 1.Weltkrieg änderte sich das grundlegend: In einem sinnlosen, selbstmörderischen Bruderkrieg mit der Hereinnahme einer raumfremden Macht - der USA - verliert Europa seine bis dahin bestehende, absolute, weltweite Vorrangstellung. England tritt seinen ersten Platz in der Weltrangliste an die USA ab, Frankreich und Deutschland sind „ausgeblutet“ und auch Italien ist kein wirklicher Sieger. Also ein Krieg, der auf dem europäischen Kontinent nur Verlierer und viel Elend zurücklässt.

Der 2.Weltkrieg, der im Wesentlichen eine Wiederholung des 1.Weltkrieges darstellte, war in seinen Auswirkungen für Europa noch katastrophaler. Osteuropa wurde von der UdSSR militärisch und ideologisch besetzt, Deutschland, das geografische Zentrum Europas, wurde von den einzigen Siegermächten USA und UdSSR geteilt, Westeuropa kam unter amerikanischen Einfluss.

Mit der welthistorischen Wende von 1989 eröffneten sich für uns Europäer völlig neue Möglichkeiten.


4. Österreich, Europa und die Herausforderungen des 21.Jhts.

 

Im Zusammenhang mit den in Kap. 2 genannten langfristigen Trends muss die österreichische Außenpolitik im Zusammenhang mit einer europäischen Außenpolitik gedacht werden. Was sind nun die Ziele einer solchen Politik?

Wir leben – wie gesagt – in einer globalisierten, kulturell gespalten und differenzierten, von einer einzigen Supermacht dominierten Welt und gleichzeitig in einem Kulturkreis, dessen Macht sich laufend reduziert. In dieser Situation kann das vorrangige Ziel nur sein:

Die Identität Österreichs zu bewahren.

Dabei geht es natürlich auch darum, die Identität Europas zu bewahren, da Europa zunehmend eine Schicksalsgemeinschaft ist. Auf globaler Ebene sollte das Ziel sein, die Vielfalt der Völker und Kulturen zu erhalten, da in dieser Vielfalt der kulturelle Reichtum der Menschheit liegt. Dieser Reichtum wird gegenwärtig durch Tendenzen der Globalisierung und Uniformisierung der Lebensweisen massiv bedroht. Folgende Ziele und Probleme, die natürlich auch in die Innenpolitik hinein spielen, sind vor allem zu beachten:

1.)  Die ethnische Identität Europas bewahren: Während in den „Entwicklungsländern“ die Bevölkerungen nach wie vor stark wachsen, sinkt die einheimische Bevölkerung in Europa seit einigen Jahren/Jahrzehnten kontinuierlich ab (vgl. dazu im Detail die „Grundsatzschrift Band 2“). Hier entsteht ein starker Einwanderungsdruck auf die europäischen Staaten, die wiederum einen Sog bilden. Auch steigt das Durchschnittsalter der Europäer laufend - Europa veraltert daher. Es ist daher alleine schon aufgrund des staatlichen Zusammenhalts, der inneren Sicherheit und des sozialen Friedens nötig, in den europäischen Staaten ein gewisses Mindestmaß an ethnischer Homogenität zu bewahren. Dieses Ziel, nämlich Europa als Wiege der Weißen zu bewahren bzw. die ethnische Identität Europas zu erhalten, kann als das gemeinsame Grundziel für alle europäischen patriotischen Parteien dienen, quasi als „kleinster gemeinsamer Nenner“. Hier ist eine gemeinsam überwachte europäische Außengrenze genauso notwendig wie ein einheitliches Asylsystem und eine geburtenfördernde Politik in Hinblick auf die europäische Bevölkerung. Ähnliches fordert Samuel Huntington übrigens auch für die USA, wo er die staatliche Handlungsfähigkeit durch die Verkünder einer „multikulturellen Gesellschaft“ untergraben sieht. Der Begriff „Festung Europa“ wird gegenüber den stark anwachsenden, leider oftmals verarmten und im politischen Chaos lebenden Bevölkerungsmassen des Südens, ein positiv besetzter Begriff werden.  Er wird einen Kontinent bezeichnen, der sich demgegenüber Wohlstand und Sicherheit bewahren kann – vorausgesetzt natürlich er grenzt sich strikt ab!

2.)  Global konkurrenzfähig bleiben: Die wirtschaftliche Globalisierung und die Öffnung des Ostblocks und der Volkrepublik China für internationale Investoren führt dazu, dass mehr und mehr Staaten sich in einem ökonomischen Konkurrenzkampf befinden. In einem globalen „Standortwettbewerb“ geht es darum, Investoren im eigenen Land zu behalten, wozu niedrige Steuern, hohes Bildungsniveau, geringe Staatsverschuldung und eine klare Rechtslage für Investoren wichtig sind. Man kann diesen internationalen Konkurrenzkampf bedauern und Alternativen anstreben (vgl. Punkt 3), aber nicht daran vorbei regieren und so tun, als ob diese Dinge einen nicht betreffen. Dies erfordert eine Sanierung der europäischen Staatshaushalte, Reformen in den Pensionssystemen, eine Entbürokratisierung, eine Steuervereinfachung und Steuersenkung, ein leistungsfähiges Bildungssystem, verstärkte Investitionen in Forschung & Entwicklung und andere politisch unbequeme Reformen.

3.)  Die Globalisierung gestalten (Kultur, Steuern, Terrorbekämpfung, ...): Der Prozess der Globalisierung ist kein Naturereignis, sondern das Produkt von willentlich gesetzten Maßnahmen, wie etwa der Deregulierung des Kapitalverkehrs. Die Globalisierung hat Vor- und Nachteile. Ihre Vorteile zu nutzen und ihre Nachteile abzumildern wird eine zentrale Aufgabe sein. Zu den Nachteilen gehört etwa, dass die Superreichen laufend noch reicher werden, während das Einkommen von Kleinverdienern stagniert, oder sogar schrumpft. Hier ist es notwendig, dass Steuerschlupflöcher weltweit geschlossen werden und eine transparente Rechtslage herrscht, die von genügend Beamten kontrolliert wird. Dies gilt auch für multinationale Unternehmen, die ihre Gewinne in Steueroasen sehr gering versteuern lassen und damit dem Zugriff des eigenen Staates entziehen. Um einen „Wettlauf nach unten“ bezüglich Steuer- Sozial- und Umweltstandards zu vermeiden, ist es notwendig, für die wirtschaftliche Sphäre globale Mindeststandards zu definieren. Schließlich wollen wir ja nicht, dass unsere Arbeiter mit Kinderarbeit und fehlender Mindestversicherung in Afrika und Asien konkurrieren müssen. Des weiteren wird man der grenzüberschreitenden Kriminalität und dem internationalen Terrorismus nur dadurch die Basis entziehen können, indem man in Europa keine ausländischen oder islamischen Ghettos entstehen lässt, also keine Einwanderung aus kulturfernen Räumen zulässt. Wie schon erwähnt, führt die Globalisierung auch zu einer kulturellen Vereinheitlichung auf globaler Ebene. Um die eigene Kultur dabei zu bewahren ist es notwendig, diese aktiv zu pflegen (Schule!). Dabei muss auch die eigene Sprache gepflegt und vor einem Übermaß an Anglizismen geschützt werden. Auf internationaler Ebene ist es wichtig, der eigenen Sprache einen höheren Stellenwert einzuräumen, etwa in internationalen Organisationen.

4.)  Den Frieden erhalten: Die zurückgehenden Machtressourcen des Westens und die steigenden Ressourcen nicht-westlicher Kulturkreise (vgl. Kap. 1) bringen Samuel Huntington dazu, eine defensive Außenpolitik zu empfehlen. Ein globaler Wertpluralismus ist zu akzeptieren, ein „Menschenrechtsfundamentalismus“ zu vermeiden und der eigene Staat zu konsolidieren. Nichts gefährdet den Weltfrieden mehr, als die Überheblichkeit einer Supermacht, die ihre eigenen Werte für absolut hält. Es ist schlimm, wenn man einen Krieg führen muss, noch schlimmer aber ist es, wenn man glaubt, die Kriege anderer führen zu müssen. Wenn die USA der Meinung sind einen Krieg irgendwo auf der Welt anfangen zu müssen, dann können wir Europäer sie ohnehin nicht daran hindern, sind aber töricht, wenn wir uns an einem solchen Krieg beteiligen. Die europäische Sicherheit wird am Hindukusch genauso wenig verteidigt, wie seinerzeit in Stalingrad oder in Bagdad, sondern an der europäischen Außengrenze. Grundsätzlich gilt, dass der Frieden leichter gewahrt werden kann, wenn jedes Volk in seinem Land selbstbestimmt leben kann (vgl. „Grundsatzschrift 4“, „Ethnopluralismus“). Hingegen kommt es in Vielvölkerstaaten (z.B. Ex-Jugoslawien) und in Staaten mit (unterdrückten) Minderheiten (z.B. Indonesien, Sri Lanka, Ruanda,... etc.) regelmäßig zu bewaffneten Konflikten.

5.)  Außenpolitisch handlungsfähig werden: Unter den geschilderten Umständen außenpolitisch handlungsfähig zu bleiben/werden ist nicht leicht. Es erfordert zum Einen eine enge Abstimmung mit den anderen europäischen Staaten um mit einer Stimme sprechen zu können. Andererseits erfordert es natürlich, dass für die eigene Verteidigung und Sicherheit auch die notwendigen finanziellen Mittel zur Verfügung gestellt werden. Dies auch innerhalb einer europäischen Verteidigungsarchitektur. Hier muss jeder Staat seinen Beitrag leisten. Hauptprobleme für Europa sind gegenwärtig in dem Bereich: fehlende Transportmöglichkeiten für Truppen (da Großraumhubschrauber und –flugzeuge fehlen), ein noch zu wenig ausgebautes europäisches Satellitenprogramm, damit Europa unabhängig von den USA sich Informationen beschaffen kann und der Bereich der Präzisionswaffen.  Eine gemeinsame europäische Rüstungsindustrie ist für größere Projekte (wie den „Eurofighter“) unumgänglich. Wenn die europäischen Staaten aber weiterhin nicht gewillt sind, für ihre Sicherheit mehr Geld auszugeben, dürfen sie sich nicht darüber beklagen, wenn sie sich im Schlepptau der USA befinden und international (etwa im Nahostkonflikt von Israel) nicht ernst genommen werden. Um die militärische und politische Schwäche Europas ausgleichen zu können und mehr Handlungsspielraum zu gewinnen, bietet sich eine engere geopolitische Zusammenarbeit mit Russland an. Russland kann vom technischen know-how der Europäer und vom europ. Investitionskapital profitieren und Europa von den Energieressourcen und Rohstoffen Russlands. Für politische Parteien ist es darüber hinaus unbedingt notwendig, sich auf europäischer Ebene zu Fraktionen zusammenzuschließen, da mittlerweile in Brüssel der Großteil der politischen Entscheidungen getroffen werden. Dies gilt vor allem auch für die FPÖ. Neben dem nationalen Interesse, das primär für die Außenpolitik entscheidend ist und noch vor dem globalen Interesse der gesamten Menschheit (Erderwärmung, Regenwald, Artensterben, ...etc.) gibt es eine mittlere Ebene auf europäischem Niveau, wo ebenfalls Interessen wahrgenommen werden müssen, die ich hoffe, hier in aller Kürze näher gebracht zu haben.

5. Literatur

Brzezinski, Zbigniew 1999: Die einzige Weltmacht; Amerikas Strategie der Vorherrschaft, Fischer Taschenbuch Verlag, 2. Auflage

Huntington, Samuel P. 1997: Der Kampf der Kulturen; The Clash of Civilizations. Die Neugestaltung der Weltpolitik im 21. Jahrhundert, Europaverlag München – Wien, 5. Auflage

Verlag Ploetz 1991: Volks-Ploetz; Auszug aus der Geschichte; Schul- und Volksausgabe; 5. Aktualisierte Auflage, Verlag Ploetz, Freiburg - Würzburg

Fußnoten :

[1] <#_ftnref1>  „multilateral“ (= „mehrseitig“) heißt, dass sich an einem Abkommen mehr als zwei Staaten beteiligen, z.B. bei internationalen Abkommen zum Schutz der Umwelt; das Gegenteil ist „bilateral“, also ein Abkommen zwischen nur zwei Staaten.

[2] <#_ftnref2>  „kohärent“ heißt „zusammenhängend“.

[3] <#_ftnref3>  NAFTA steht für „North American FreeTrade Area“, dt.: Nordamerikanische Freihandelszone.

[4] <#_ftnref4>  ASEAN ist die Abkürzung für „Association of South East Asian Nations“, dt.: Verband Südostasiatischer Staaten.

[5] <#_ftnref5>  Im Jahre 451 besiegen der Römer Aetius und die Westgoten unter ihrem König Theoderich I. (gefallen) in einer gewaltigen Schlacht die Hunnen unter Attila (=Etzel) in der „Schlacht auf den Katalaunischen Feldern“ bei Troyes (vgl. Volk-Ploetz 1991, 167).

lundi, 15 mars 2010

L'Armenia tra Erdogan e Obama

armeniasvg_2.pngL'Armenia tra Erdogan e Obama

di Michele Paris

Fonte: Altrenotizie [scheda fonte]

La recente condanna, da parte di una commissione parlamentare del Congresso americano, del genocidio di un milione e mezzo di armeni in Turchia nel 1915, è giunta in un momento molto delicato nei rapporti tra Washington e Ankara. Oltre a mettere a rischio la collaborazione turca su cui contano gli USA in più di una questione in Medio Oriente e in Asia sud-occidentale, il voto della scorsa settimana minaccia contemporaneamente di far saltare il complicato processo di distensione in corso tra Turchia e Armenia.

Ad agitare le acque è stato il voto (23 favorevoli e 22 contrari) con cui la Commissione Esteri della Camera dei Rappresentanti americana giovedì scorso ha bollato come “genocidio” il massacro della popolazione armena durante la Prima Guerra Mondiale. Secondo la Turchia, quei fatti non rappresenterebbero invece uno sterminio di massa deliberatamente progettato, ma andrebbero piuttosto inseriti nel caos del conflitto mondiale e del crollo in atto dell’Impero Ottomano, assediato da più parti, inclusa una ribellione interna armena appoggiata dalla Russia.

La risoluzione, promossa dal deputato democratico della California Howard Berman, dovrebbe così invitare il presidente degli Stati Uniti a impiegare la parola “genocidio” per descrivere la strage del 1915 nel corso del consueto discorso annuale che si terrà il prossimo mese di aprile. Per ottenere la definitiva approvazione, tuttavia, l’iniziativa della Commissione Esteri dovrà prima assicurarsi il voto dell’aula, ipotesi piuttosto improbabile alla luce delle reazioni che essa ha immediatamente suscitato.

Per impedire il passaggio della risoluzione sul genocidio armeno, il governo turco del Primo Ministro Recep Tayyip Erdogan aveva inviato a Washington alcuni parlamentari del partito di maggioranza ed era ricorso anche ai servizi di una nota compagnia americana di pubbliche relazioni per influenzare i politici coinvolti nel processo di voto. Nonostante gli sforzi é arrivata però l’approvazione e Ankara ha proceduto con il richiamo del proprio ambasciatore negli USA, promettendo ritorsioni più gravi in caso di un prossimo voto dell’intera Camera dei Rappresentanti sulla questione.

“Siamo seriamente preoccupati che il voto di condanna possa danneggiare le relazioni tra Stati Uniti e Turchia e impedire gli sforzi di normalizzazione nei rapporti tra Turchia e Armenia”, ha riassunto una nota dell’ambasciata turca a Washington. Le stesse preoccupazioni devono aver turbato anche il presidente Obama e il segretario di Stato, Hillary Clinton, entrambi impegnati nel vano tentativo di impedire il voto in commissione - sia pure tardivamente e nonostante il loro parere favorevole alla definizione di “genocidio” espresso in campagna elettorale nel 2008.

Con l’aumentare della sua influenza su scala regionale, d’altra parte, gli USA fanno affidamento sulla Turchia in relazione a molteplici questioni, a cominciare dalla pace tra palestinesi e israeliani, per passare al nucleare iraniano, al ripristino di normali rapporti con la Siria e alla stabilizzazione dell’Afghanistan. In quest’ultimo paese, inoltre, Ankara ha da poco incrementato il proprio contingente militare, mentre consente agli americani l’accesso ad alcune basi militari sul proprio territorio per facilitare i collegamenti logistici con l’Iraq occupato.

La potente comunità armena che vive negli Stati Uniti aveva già ottenuto qualche risultato parziale in passato sulla strada verso il riconoscimento del genocidio del 1915. Nel 1975 e nel 1984 la Camera dei Rappresentanti aveva approvato risoluzioni simili, le quali non avevano però mai raggiunto il Senato. Più recentemente, nel 2007, la Commissione Esteri della Camera si era espressa ancora una volta a favore, ma la fortissima opposizione proveniente dalla Casa Bianca occupata da George W. Bush aveva impedito il voto definitivo dell’aula.

A far sentire il proprio peso in quell’occasione era stata un’altra lobby molto influente dall’altra parte dell’oceano, quella israeliana. Un’influenza pro-turca sul Congresso che era iniziata sul finire degli anni Ottanta in concomitanza con la costruzione dell’alleanza strategica tra Israele e Ankara. Il deteriorarsi dei rapporti tra i due paesi negli ultimi tempi – a partire almeno dall’operazione “Piombo Fuso” lanciata a Gaza da Israele a fine 2008 e duramente condannata dal governo di Erdogan – può in parte spiegare il nuovo voto sulla condanna del genocidio armeno. Tanto più che lo stesso deputato Berman, e altri membri della Commissione Esteri che hanno appoggiato la mozione, risultano tradizionalmente vicini alle lobby israeliane in America.

Come a Tel Aviv, in molti ambienti filo-israeliani negli USA si guarda infatti con crescente preoccupazione al sempre maggiore coinvolgimento della Turchia nelle vicende del mondo arabo. Allo stesso modo, i settori neo-conservatori vicini a Israele ritengono che il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) che governa ad Ankara stia pericolosamente indebolendo il tradizionale secolarismo delle istituzioni turche, facendo scivolare il paese verso una deriva islamista.

D’altro canto, altre associazioni filo-israeliane di destra, come l’Istituto Ebraico per la Sicurezza Nazionale (JINSA), e giornali conservatori, come il Wall Street Journal, si sono invece opposti alla condanna del genocidio armeno, precisamente per timore di un possibile ulteriore inasprimento dei rapporti con la Turchia, un alleato troppo importante per Israele e Stati Uniti. Una divergenza di opinioni che potrebbe aver diviso il fronte pro-israeliano e dato il via libera alla condanna del genocidio.

L’altro e più immediato effetto del voto in America sulla questione armena, come già anticipato, potrebbe riguardare il congelamento del processo di riavvicinamento tra Yerevan e Ankara. Da qualche tempo, il governo di Erdogan aveva mostrato una certa disponibilità nei confronti del vicino orientale per rivedere i sanguinosi eventi del 1915. Il nuovo atteggiamento aveva portato lo scorso settembre al ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra Turchia e Armenia e alla riapertura dei rispettivi confini, chiusi fin dal 1993.

Con la mediazione della Svizzera, e con il sostegno di Washington, era stato anche raggiunto un accordo per un trattato tra i due paesi, vincolato in ogni caso alla risoluzione della disputa territoriale tra Armenia e Azerbaijian - paese alleato della Turchia - per l’enclave territoriale del Nagorno-Karabakh. Il voto alla Commissione Esteri della Camera americana ha però spinto Ankara a bloccare la ratifica dell’accordo, assestando potenzialmente un colpo letale alle prospettive del già difficile processo di riconciliazione turco-armeno.


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Faut-il se garder d'une "russophilie" excessive?

omon.jpgFAUT-IL SE GARDER D’UNE « RUSSOPHILIE » EXCESSIVE ?

 

Entretien avec Pascal LASSALLE

 

Pascal LASSALLE est historien, professeur et conférencier. Il a fait ses classes militantes au sein des réseaux de la « Nouvelle Culture » (G.R.E.C.E, Synergies Européennes, Terre et Peuple), et reste plus que jamais attaché à la promotion d’une Europe-puissance souchée sur ses patries charnelles.

Il s’intéresse depuis quelques années aux problématiques est-européennes, en particulier celles qui concernent la Russie et son « étranger proche ».

Il est déjà intervenu à plusieurs reprises dans le cadre du G.R.E.C.E , Terre et Peuple (Tables rondes de 1999 et 2006, bannières locales), du cercle Sainte Geneviève ainsi que sur les ondes de Radio Courtoisie et Radio Bandiera Nera.

Il a dirigé les adaptations françaises des ouvrages de Gabriele Adinolfi, Noi Terza Posizione  (Nos belles années de plomb, l’Aencre, 2004) et Tortuga, l’isola che (non) c’è. (Pensées corsaires, abécédaire de lutte et de victoire, Editions du Lore, 2008) et collabore occasionnellement au mensuel le Choc du mois, à l’agence d’informations Novopress et au site d’analyses et de débats métapolitiques Europe maxima.

 

 

 

ID Mag: L’opposition grandissante de la Russie rénovée à la toute puissance américaine, associée à la personnalité « volontariste et patriote » de Vladimir Poutine, engendre un très vif engouement des milieux nationalistes et identitaires pour la patrie des Tsars et son actuel gouvernement. De votre côté, tout en soulignant les forces et les réalisations de la Russie nouvelle, vous mettez en garde contre un soutien systématique et sans nuance à toutes les prises de positions russes et une vision étroitement et uniquement  « géopolitique » de nos relations avec « l’empire de l’Est ». Pouvez-vous préciser et expliciter votre position ?

 

 

PL : Je suis depuis plus d’une vingtaine d’années partisan pour des raisons géopolitiques et civilisationnelles d’une synergie continentale euro-russe qu’un Guillaume Faye a pu qualifier d’ eurosibérienne . Depuis la prise de pouvoir par Vladimir Vladimirovitch Poutine, j’observe l’œuvre de redressement et de restauration en cours avec beaucoup d’intérêt, dans un premier temps assez captivé par la figure de cet Octave/Auguste de l’Est ou plutôt ce nouveau Mikhaïl Romanov qui a mis fin aux « temps des troubles » eltsiniens.

Les événements ukrainiens de 2004 et une découverte approfondie de ce pays « fantôme de l’Europe » pour reprendre l’expression de l’historien Benoist-Méchin ont agi sur moi comme un puissant révélateur de tendances et de phénomènes à l’oeuvre en Russie qui peuvent aisément nous échapper, vu que la patrie de Pouchkine a constitué de tous temps une réalité qui ne se laisse pas facilement appréhender.

Depuis, je m’efforce d’être un observateur attentif, dépassionné et lucide des évolutions en cours dans la Fédération russe et son « étranger proche », car lire régulièrement la presse locale ou regarder quotidiennement le journal télévisé de RTR Planeta pour ne citer que ces exemples vous permet d’entrevoir d’autres réalités pas toujours perceptibles au premier abord.

Je le fais en ayant toujours à l’esprit l’impératif civilisationnel d’une fédération impériale grande-européenne respectueuse de ses patries constitutives, sans négliger les intérêts géopolitiques et stratégiques d’une AlterEurope à venir.

À partir de là, je crois que tout patriote identitaire européen conséquent devrait se faire plus critique sur plusieurs aspects de la politique russe mis en œuvre depuis quelques années.

Un tel engouement confinant parfois à une certaine « russolâtrie » ne m’étonne pas vraiment quand il émane de cénacles nationalistes et souverainistes communiant encore et toujours dans le culte d’un état-nation jacobin, l’illusion d’un renouveau républicain, la promotion d’une Europe des nations, voire une europhobie et un antifédéralisme primaires (alors qu’au contraire, le machin de Bruxelles est beaucoup plus jacobin qu’autre chose).

Pour autant, une adhésion inconditionnelle au régime de Poutine chez des représentants de la mouvance identitaire ou néo-droitiste, voire nationaliste-révolutionnaire, me surprend davantage.

Encore que, je suis bien conscient des motifs avancés pour cela.

On peut évoquer la nécessité de faire contrepoids à l’hégémonie américaine et de contribuer à l’émergence d’un monde multipolaire, des phénomènes de compensation psychologiques (« c’est un Poutine qu’il nous faudrait ») ou l’espoir d’un « salut » venu de l’Est (« les divisions russes vont nous sortir de notre décadence et assainir nos banlieues »).

On soulignera également l’impératif d’une construction continentale de Brest à Vladivostok et l’affirmation que la Russie est pleinement européenne d’un point de vue identitaire, avec le constat que certaines réalités déplaisantes ne peuvent être que des épiphénomènes pudiquement évacués, voire occultés au nom d’une realpolitik bien pensée et de la crainte de faire le jeu du camp atlantiste.

Un désenchantement et une déception à l’égard des pays frères d’Europe centrale et orientale est palpable chez beaucoup, indéniablement à la hauteur des espoirs soulevés en 1989-91.

L’auteur de ces lignes fut l’un d’entre eux, mais il s’efforce de faire la part des choses,  ayant pris acte du fait que la plupart de ces pays ex-communistes ont embrassé la cause de l’atlantisme : ce positionnement plus que regrettable ne les transforme pas pour autant en états parias[1]

On trouvera aussi la fascination de certains pour les constructions intellectuelles néo-eurasistes et le statut envié d’un Alexandre Douguine qui s’est propulsé d’une marginalité nationale-bolchevique jusqu’aux périphéries du pouvoir poutinien.

Le numéro 131 d’avril-juin 2009 de la revue Eléments intitulé « Demain les Russes ! », illustre bien ces positionnements et se révèle d’ailleurs bien décevant dans son conformisme convenu, son absence de point de vue propre (pas d’articles étoffés, seulement un éditorial et trois longs entretiens) et de débat constructif : le sujet méritait incontestablement mieux ![2]

Qu’en est-il de ces réalités et équivoques que je m’efforce régulièrement de mettre en évidence ?

Tout d’abord le fait que la Russie du tandem Poutine/Medvedev entrevoit son avenir en regardant dans le rétroviseur d’une histoire mythifiée, voire falsifiée lorsqu’on se réfère aux « vérités » d’une historiographie soviétique dont la rigueur scientifique est devenue proverbiale. Entre amnésie sélective, raccourcis fulgurants, manipulations du réel et réhabilitations posthumes (le généralissime Staline), celle-ci a permis d’éviter à la Russie de connaître une culpabilisation collective à l’allemande, mais l’a fait tomber dans l’excès inverse, celui d’une « Histoire qui ne veut pas passer » et qui bégaye à nouveau, de manière durable semblerait-il.

Ces enjeux mémoriels et historiques ne doivent pas être négligés et considérés comme un épiphénomène somme toute secondaire.

Bien au contraire, ils apparaissent primordiaux dans l’esprit du pouvoir russe actuel avec l’écho démesuré qui leur est accordé. En témoignent par exemple l’ouvrage d’une Natalia Narotchnitskaia[3], qui, à l’exception de Dominique Venner[4], a souvent suscité des réactions plutôt complaisantes dans les mouvances précitées, l’importance donnée aux commémorations du 9 mai et de la « Grande guerre patriotique »[5] ou la mise en place le 19 mai 2009 d’une commission chargée de lutter contre les falsifications de « l’histoire commune » contraires aux « intérêts » russes dans les pays baltes ou en Ukraine[6].

On peut également évoquer la guerre culturelle qui se déploie sur les écrans avec la promotion de superproductions historiques nationales-patriotiques souvent sponsorisées par le Kremlin.

Ces longs-métrages, souvent intéressants et bien réalisés, n’hésitent pas à dépeindre sous les traits les plus sombres  un Occident éternellement hostile, que ce soient les Polonais (1612 de Vladimir Khotinenko, Taras Boulba de Vladimir Bortko) ou les Suédois (Alexandre,la bataille de la Neva de Igor Kalenov), alors que les cosaques zaporogues ukrainiens sont dépeints comme des combattants pour la « terre russe orthodoxe » ! (encore Taras Boulba). Attendons de voir le film de Fëdor Bondartchouk sur Stalingrad, en cours de production …

De fait, les Russes ont le grand mérite de cultiver une longue mémoire historique que nous avons ici reléguée aux oubliettes afin se reconstruire légitimement une identité post-soviétique.

Mais ils le font sur des bases problématiques et discutables, autant pour eux que pour nous.

On y perçoit l’extrême difficulté, voire l’incapacité qu’ils ont de se penser en dehors de l’empire, un empire originellement expansionniste (« tout territoire ayant un jour été russe est destiné à le rester ou le redevenir ») aux frontières toujours mal définies, centralisateur et russificateur. Cette tendance lourde, déclinée sur le mode d’un complexe post-impérial, n’a jamais disparu depuis la chute de l’URSS et me semble destinée à empoisonner durablement les relations de la Russie avec ses voisins.

Ce phénomène est renforcé par la quête obsessionnelle d’une puissance largement illusoire qui néglige des défis domestiques persistants, place ses priorités dans des enjeux symboliques et dans la reconstitution d’un espace, ou du moins, d’une aire d’influence exclusive recouvrant l’espace ex-soviétique, le fameux « étranger proche ».

Moscou devrait accepter de s’inscrire dans des frontières sécurisées et internationalement reconnues, prenant comme base solide celles de la Fédération actuelle.

Les dirigeants russes sont-ils bien conscients que dans leur situation particulière, celle d’un territoire immense au climat souvent hostile, l’espace est un considérable réducteur de puissance ?

Dès lors, je pense qu’il faut arrêter de victimiser systématiquement une Russie qui, pour être l’objet de réelles menées américaines dans sa périphérie, n’en porte pas moins une part de responsabilité dans le maintien de contentieux historiques régulièrement ravivés avec ses voisins, permettant de maintenir un levier commode et rêvé pour la Maison-Blanche.

Je ne suis pas loin de penser qu’un Zbignew Brzezinski à Washington s’accommode fort bien du renforcement des tendances chauvinistes, néo-impériales et néo-soviétiques en Russie, plutôt qu’être confronté à un pays régénéré sur des bases saines et solides, constituant un pôle attractif pour ses voisins (beaucoup de progrès à faire à Moscou dans le domaine du soft power), entretenant des relations normales avec eux et se rebâtissant un projet politique et identitaire connecté aux moments européens de son histoire.

 

ID Mag : Certains rêvent d’une Europe « de Brest à Vladivostok ». Selon vous, peut-on affirmer que la Russie est historiquement, culturellement et ethniquement « européenne » ?

 

 

PL : La Russie se révèle incontestablement européenne dans ses fondements originels.

L’ensemble grand-russien découle d’une ethnogénèse entre adstrats slaves orientaux et tribus finno-ougriennes sur la périphérie coloniale septentrionale d’un vaste empire patrimonial, communément et incorrectement qualifié de « Russie de Kiev » et qu’il vaudrait mieux nommer dans un souci d’objectivité historique, Rou’s (ou Ruthénie) de Kiev (Kyiv en ukrainien), un ensemble relié dynastiquement[7], économiquement et culturellement au reste de l’Europe du Haut Moyen Age.

L’invasion mongole constituera une rupture radicale dont les effets se feront sentir jusqu’à nos jours.

La Moscovie, noyau fondateur du futur empire russe (terme officialisé sous Pierre le Grand) se construira dès lors sur des ressorts politiques et culturels doublement asiatisés et orientalisés car relevant de l’influence tataro-mongole de la Horde d’Or et d’un modèle byzantin tardif, bien éloigné de ses racines helléno-européennes, introduit sous Ivan III[8].

Un modèle monarchique autocratique, patrimonial et prédateur, un fort messianisme politico-religieux (mythe de la « Troisième Rome », Orthodoxie figée) et certaines dispositions mentales en constituent les manifestations les plus patentes.

Ensuite, à partir des réformes de Pierre le Grand, la Russie « retardée » de plusieurs siècles par rapport aux évolutions civilisationnelles du reste de l’Europe, ne va cesser d’osciller dans un récurrent mouvement de balancier entre des relations passionnelles de fascination/répulsion avec l’Europe « romano-germanique », dilemme illustré par les débats entre occidentalistes, slavophiles, panslavistes et (néo)eurasistes.

Ce dernier n’a jamais été tranché jusqu’à aujourd’hui et une analyse rigoureuse du contexte russe le démontre régulièrement.

À mon sens, il serait de la responsabilité des mouvances identitaires de sensibiliser avec tact et franchise les interlocuteurs russes sincères et ouverts à la nécessité d’opérer un retour à l’Europe en activant dans leur héritage politique, culturel, ce qui ressort indiscutablement d’un héritage commun.

Commençant à connaître la mentalité russe, je ne me fais pas forcément beaucoup d’illusions. Aujourd’hui la tendance dominante, au sein des élites comme dans l’opinion, est de considérer la Russie comme une réalité singulière, une civilisation en soi, entre Europe et Asie.

Dans mes moments de doute, j’arriverais presque à me persuader que cette rupture est insurmontable et que la branche grande-russienne s’est radicalement coupée de l’arbre boréen.

Mais sachant qu’il n’y a pas de fatalité en Histoire, je me dis que nous devons œuvrer inlassablement pour favoriser une prise de conscience et un retour à notre Europe de frères prodigues souvent attachants, mais parfois bien distants et irritants…

 

ID Mag : Les « révolutions de couleurs » qui agitent certains pays de l’ex-bloc de l’Est  sont généralement présentées comme de pures manipulations et orchestrations américaines. Ici encore, vous appelez à la mesure et à la nuance. Quelle est, selon vous, la réalité de la situation, notamment dans le cas ukrainien ?

 

 PL : Le traitement de la fameuse question des « révolutions de velours » dans les mouvances (méta)politiques précitées renvoie souvent à un schéma réducteur, ou témoigne parfois d’une imprégnation pure et simple par les théories du complot, déclinées sur le mode du vieux complexe obsidional de la forteresse assiégée, très en vogue ces dernières années à Moscou.

Cette tendance très ancienne en Russie s’explique par une histoire troublée, mais en dernier lieu, cela me semble relever d’une infirmité politique et constituer sur un mode incapacitant une facilité empêchant les autorités russes de se remettre en cause et de se poser parfois les bonnes questions.

Dans le cas ukrainien, le postulat d’un mouvement mécaniquement téléguidé et prémédité de l’étranger ne tient pas et cette « révolution orange » n’aurait jamais eu lieu si de nombreuses conditions n’avaient pas été réunies avec l’espoir d’un profond changement, sans parler du lancinant contentieux historique avec le voisin russe.

Les ONG américaines, maintes fois évoquées, ont bien injecté des dollars et formé les militants de structures activistes comme Pora, mais l’ampleur du phénomène, répétition sur une plus grande échelle d’un mouvement de contestation semblable réprimé au printemps 2001, démontre que d’autres ressorts ont joué.

L’Ukraine, pivot géopolitique selon Zbigniew Brzezinski, a été à cette occasion l’objet d’ingérences répétées de la part des Américains, de l’UE, mais aussi de son « grand voisin du nord ».

Vladimir Poutine a commis là-bas, de l’avis de nombreux observateurs politiques, la première erreur marquante de son « règne ». Il s’est cru chez lui et ses visites répétées en faveur d’une présidence Koutchma corrompue et complètement déconsidérée ont été très mal reçues, y compris dans l’Est et le Sud russophones du pays.

Ces empiètements russes furent principalement motivés par le fait que l’accession au pouvoir d’une présidence « orange » remettait en cause le processus d’intégration programmé de l’Ukraine au sein d’un Espace Economique Commun dominé par Moscou, en plus d’interrompre la mise en place d’un régime autoritaire à la bélarussienne.

Ils ont une fois de plus révélés que l’Ukraine n’avait depuis 1991 qu’une indépendance formelle et que, gouvernée par des oligarchies créoles post-communistes, elle oscillait, notamment sous Koutchma, entre Occident et Russie au gré des intérêts de la nomenklatura en place.

Rappelons aux amateurs de vérités simples que c’est sous le « pro-russe » Viktor Ianoukovytch, alors Premier ministre, que se sont déroulées les premières participations de l’Ukraine au Partenariat pour la Paix, antichambre de l’Otan et que c’est le président « pro-russe » Leonid Koutchma qui a envoyé un contingent ukrainien en Irak.

C’est également ce dernier qui a écrit le livre « L’Ukraine n’est pas la Russie », réalité que les Russes dans leur ensemble, opinion publique et classe politique confondues, des libéraux pro-occidentaux aux nostalgiques de Staline, se refusent toujours à admettre, considérant l’Ukraine comme « le berceau » de la Russie et comme partie intégrante de leur ethnos.

L’élection de Viktor Iouchtchenko a été à ce moment-là perçue par beaucoup d’Ukrainiens comme la promesse d’une véritable indépendance et d’un «retour à l’Europe » si longtemps différé. C’était bien sûr à tort, l’impéritie, les rivalités personnelles et les choix funestes de la présidence « orange » se chargeant de rattraper la bourde initiale de Poutine.

Mais le contentieux historique est plus que jamais vivace et Moscou n’a pas manqué une occasion pour faire jouer tous les leviers en sa possession (Gaz, Crimée, flotte russe de Sébastopol, question linguistique et controverses historiques) afin de faire pression sur un état dont elle n’a jamais admis l’existence[9].

Cette querelle de couple dans laquelle l’épouse ukrainienne a fini par divorcer d’un conjoint moscovite insupportable, n’en finit pas de se prolonger pour le plus grand bonheur du notaire américain : il faudra bien pourtant que monsieur finisse par se rendre à l’évidence.

Ce n’est pas l’élection récente de Viktor Ianoukovytch[10] le 7 février dernier au poste de président qui devrait significativement changer la donne. Celui-ci, pour de multiples et récurrentes raisons, risque de s’en tenir à une politique multivectorielle de non-alignement. Les Russes restés prudents au cours de ce scrutin ne se font d’ailleurs pas beaucoup d’illusions ainsi qu’en témoignent par exemple les écrits de Douguine ou  des journalistes de RIA Novosti à propos de  l’homme de Donetsk[11].

Pour un patriote identitaire européen, s’opposer à l’entrée de l’Ukraine dans l’OTAN est une chose nécessaire et légitime, nier son identité propre et son droit à construire un état souverain en est une autre, à laquelle nous ne pouvons et ne devons nous résoudre.

Je souhaiterais que tous ceux qui, par méconnaissance ou calcul, proclament que « l’Ukraine et la Russie sont consubstantielles » fassent preuve d’un peu plus de rigueur, de discernement et de cohérence intellectuelle ou idéologique. Ils seraient bien avisés de cesser de répéter pieusement la version de l’Histoire made in Moscow, de se contenter d’un strict positionnement géopolitique et de relayer les scénarios russes, peu crédibles d’ailleurs, d’annexion ou d’éclatement du pays.[12]

Des ouvrages relativement objectifs et impartiaux sont aujourd’hui disponibles pour qui veut se donner la peine d’y voir plus clair.

Jean Mabire fut l’une des rares figures de la mouvance identitaire à avoir défendu le droit des Ukrainiens à une existence propre.

Effectivement l’Ukraine a eu, comme la Russie, une histoire tourmentée. À l’inverse de sa puissante voisine, elle a vu sa construction étatique maintes fois contrariée, mais elle est restée arrimée au noyau européen et ses fractures internes actuelles résultent d’une domination plus ou moins longue, selon les régions, du grand voisin du nord.

Elle a mené au cours des siècles une lutte pour sa liberté contre les dominateurs russes et polonais avec une opiniâtreté qui force l’admiration et ne va pas sans évoquer le combat des fils de la verte Erin contre la domination britannique.

L’Ukraine, identité enracinée sur un territoire, appartient de plain-pied à l’ensemble géopolitique et civilisationnel européen. Il est de notre devoir de le faire savoir et de convaincre les Russes que des relations apaisées, étroites et véritablement fraternelles entre peuples apparentés ne peuvent se baser que sur une pleine reconnaissance de l’identité de chacun.

Le pays des cosaques zaporogues a, de plus, toujours contribué à ancrer la Russie en Europe (Pierre le Grand a, par exemple, assis ses réformes à l’aide de cadres politiques et ecclésiastiques ukrainiens), d’où l’idée qu’une Ukraine réintégrée dans son cadre originel pourrait encourager la Russie à se déterminer significativement et à tourner une fois pour toutes son regard dans notre direction, loin de ses tentations eurasistes…

 

ID Mag: On parle de plus en plus d’une vague de « nostalgie », en Russie », pour la période soviétique et même de volonté de réhabilitation de celle-ci. Qu’en est-il exactement ?

 

 

PL : Comme je le signalais plus haut, une certaine nostalgie soviétique, l’idéologie communiste en moins, est à l’ordre du jour et ce processus s’est amplifié depuis le deuxième mandat de Poutine.

Nostalgie chez les petites gens qui, ayant subi les effets désastreux de l’ère Eltsine, ont tendance à idéaliser une période durant laquelle les besoins vitaux de la population, l’ordre public et d’autres choses comme l’accès généralisé à la culture étaient largement assurés.

Dans le domaine sportif, les piètres performances des athlètes russes aux jeux olympiques d’hiver de Vancouver ont ravivé cette sovietalgie.

La mémoire populaire se révèle généralement sélective  et il est de plus propre à l’être humain de refouler les peurs et agressions qu’un système oppressif a générées chez cet homo sovieticus brossé en son temps par un Alexandre Zinoviev et qui est bien loin d’avoir disparu.

Dans la Korpokratoura (Jean-Robert Raviot) actuellement au pouvoir où sphères politiques et économiques sont étroitement imbriquées, outre que cette période, pour la majorité d’entre eux, continue de structurer une bonne partie de leur paysage mental, on retient surtout de l’ère soviétique la grandeur apparente d’une grande puissance redoutée et respectée, qui, sous Staline notamment, avait porté les frontières de l’empire à son zénith.

Mêlée à des éléments de l’ère tsariste (symboles nationaux notamment), cette composante soviétique doit servir à renforcer un patriotisme officiel assis sur l’idée étatique (derjavnost’) et celle d’Unité affirmée sur un mode mobilisateur.

Dans le contexte d’un système de représentations si ambivalent, on referme l’accès aux archives d’Etat et on réécrit l’Histoire en faisant la part belle aux mensonges et fables de l’ère soviétique tout en déniant aux voisins de l’ « étranger proche » le droit de créer (sur un mode, il est vrai, parfois passionnel et polémique) leurs historiographies nationales et d’honorer ceux qu’ils considèrent comme des héros de la lutte anti-communiste (souvent ravalés par Moscou aux rangs de simples collaborateurs des nazis, dans la plus pure langue de bois soviétique).

Encore une fois, on pourrait s’étonner du relatif silence de ceux qui ont en leur temps justement condamné la reductio ad hitlerum dans notre beau pays et évitent de faire de même lorsqu’il s’agit de la Russie. Et qu’on ne vienne pas me dire que c’est de bonne guerre !

Moscou désire assurer une « continuité » dans son histoire récente sans risquer de fragiliser par l’évocation des « heures sombres » une identité problématique, encore convalescente après la chute de l’Union soviétique, « plus grande catastrophe géopolitique du XXème siècle » (Poutine).

Plusieurs déclarations du président Medvedev démontrent que remettre en cause le petit catéchisme officiel concernant la « Grande guerre patriotique » et « l’histoire commune »  aurait pu devenir difficile, voire judiciairement risqué (projet de loi de la Douma daté du 6 mai 2009 réprimant le « révisionnisme historique », finalement rejeté par le gouvernement le 29 juillet de la même année)[13], à l’intérieur comme à l’extérieur des frontières de la fédération.

Le drame pour le peuple russe est que la voie tracée par un Alexandre Soljenitsyne sur un traitement lucide et responsable de la période communiste n’ait pas été suivie et approfondie.

Le Kremlin se fait l’écho aujourd’hui de représentations majoritaires encore agissantes au sein de la population autour d’un passé récent qui continue à être mythifié par la nouvelle histoire officielle.

Poser ainsi les bases du futur me semble fâcheusement lourd d’impasses, d’équivoques et de contradictions qui ne manqueront de s’amplifier et de continuer à compromettre davantage l’image de la Nouvelle Russie.

 

ID Mag: Le redressement de la Russie est spectaculaire, il n’en est pas pour autant sans failles. Quelles sont selon vous les principales faiblesses qui le menacent ? La chasse aux oligarques a-t-elle été menée jusqu’au bout ? Où en sont- la démographie et la maîtrise de l’alcoolisme endémique ?

 

PL : Ce redressement spectaculaire, comme vous dites, a été freiné par les effets de la crise systémique mondiale qui a fini par toucher la Russie de plein fouet : Il semblerait que le pays commence timidement à s’en remettre, bien que des soubresauts sociaux transparaissent ça et là au travers du voile posé par les médias plus ou moins sous contrôle. L’avenir proche nous dira davantage ce qu’il en est dans ce domaine.

La Russie a le plus grand mal à faire le deuil de son empire et à se faire à l’idée que seule, elle est condamnée à rester une puissance régionale ayant hérité d’un arsenal nucléaire vieillissant, dont il est admis en haut lieu qu’il ne pourra être que partiellement modernisé (missiles stratégiques Topol-M et Boulava).

Sans l’Europe et une synergie bien pensée dont les contours ne peuvent encore être définis, elle me semble condamnée à rester une « puissance pauvre ».

Ce redressement pour avéré qu’il soit dans de nombreux domaines reste néanmoins fragile et peut même apparaître comme un phénomène « Potemkine » qui cache un envers du décor beaucoup moins reluisant.

Société civile embryonnaire en proie depuis des siècles aux prédations d’un pouvoir patrimonial, état faible contrairement aux idées reçues, phagocyté par une Korpokratoura, dont le mode d’exercice du pouvoir plébiscitaire et non compétitif préfigure peut-être les formes de régime post-démocratiques en voie de renforcement rapide en Occident.

Économie de rente dont les actifs sont plus ou moins affectés par une certaine baisse des cours du gaz et du pétrole, outil industriel dépassé (y compris la branche militaire, souvent incapable de satisfaire la demande étrangère et qui a perdu une grande partie de ses savoir-faire), infrastructures dignes d’un pays du Tiers-monde (une fois sorti de Moscou, Saint-Pétersbourg et de quelques îlots urbains « développés »).

La liberté d’expression est réelle sur des thématiques fondamentales qui nous sont chères, mais il ne vaut mieux pas s’aventurer à enquêter sur des affaires précises touchant des personnes bien identifiables...

La société est minée par une corruption structurelle qui n’est pas nouvelle (voir Les âmes mortes de Gogol par exemple) et dont on se demande si le pouvoir actuel s’en accommode ou montre son impuissance à la combattre efficacement, tellement le mal est profond, ceci en dépit de  sanctions conjoncturelles et exemplaires, fortement médiatisées.

L’armée doit être rapidement réformée à la lumière des enseignements du conflit géorgien, avec une professionnalisation et un « dégraissage » pour lequel la haute hiérarchie militaire freine des quatre fers. Sans parler du remplacement de matériels largement obsolètes dont le faible rythme de renouvellement pourrait être mis à mal par une baisse annoncée des crédits militaires : beaucoup d’effets d’annonce en général à l’occasion par exemple du vol récent du prototype d’un chasseur de 5ème génération, le Sukhoi PAK-FA T-50 qui est loin d’être entré en service et ne le sera qu’au prix d’une coopération avec l’Inde.

Les négociations au sujet de l’achat de bâtiments de projection et commandement français type Mistral, outre leurs arrière-pensées géopolitiques, démontrent qu’un savoir faire technologique s’est perdu depuis l’éclatement de l’URSS (les chantiers navals de Mykolaiv qui avaient conçu les porte-avions de la classe Kuznetsov sont aujourd’hui situés dans l’Ukraine indépendante).

Concernant les oligarques, on a éliminé ceux qui ont été associés à l’ancien pouvoir eltsinien (Boris Berezovski) ou qui ont eu des velléités de s’opposer au Kremlin en s’associant à des intérêts politiques et économiques étrangers (Mikhail Khodorkovski). Les autres, comme Roman Abramovitch ou Oleg Deripaska sont toujours là, plus discrets, rentrés dans le rang ou étroitement associés au pouvoir. Ils servent parfois de boucs émissaires pour le bon peuple et c’est l’occasion de réprimandes de la part du père fouettard Poutine sous l’œil attentif des caméras.

Selon certaines sources récurrentes, le judoka préféré des Russes ne serait pas dépourvu d’une fortune personnelle conséquente.

La population reste préservée de flux migratoires massifs venus de l’étranger. Elle connaît cependant quelques problèmes de cohabitation avec des ethnies non-slaves. Le pouvoir oscille entre une définition ethnique et étatique de l’appartenance russe (deux termes différents existent dans la langue de Dostoïevski pour désigner l’une ou l’autre) avec une certaine préférence donnée officiellement à cette dernière. I’année dernière, les Nachii, jeunesses poutiniennes « antifascistes » se sont vues confier dans plusieurs villes du pays la tâche de vider la rue de ses groupes nationalistes.

Groupes qui, lorsqu’ils ne sont pas infiltrés, voire purement et simplement générés par le FSB, sont largement instrumentalisés et tolérés au gré des intérêts et de la conjoncture du moment.

Je ne parle même pas de « l’ultranationaliste »  guébiste Vladimir Volfovitch Eidelstein alias Jirinovski qui, à la tête du LDPR  (Parti Libéral-démocrate de Russie) constitue l’exemple même de ces partis «pro régime » qui captent à la fois un certain électorat et constituent une tribune pour des prises de positions provocatrices et extrémistes que le Kremlin ne peut pas toujours assumer au grand jour, lâchées comme ballons d’essai à destination de l’opinion intérieure et internationale .

Le pouvoir joue clairement la carte de la cohésion ethnique et religieuse  de la population.

Cette dernière, qui bénéficie encore d’un haut niveau d’études et de qualification grâce à un système éducatif sélectif (malgré la corruption d’une partie du corps enseignant), connaît un collapsus démographique structurel malgré les mesures natalistes adoptées par le Kremlin et la très légère embellie de la dernière année (solde naturel à peine positif) : elle pourrait s’établir dans le pire des scénarios autour de 80-100 millions de personnes vers 2050 !

Son état sanitaire général reste préoccupant (je ne m’étendrai pas davantage sur les ravages de l’alcoolisme à tous points de vue) et son univers mental reste marqué par l’empreinte communiste dont les effets délétères seront longs à extirper.

Un nihilisme ambiant, empreint de matérialisme, de cynisme et d’une certaine dépolitisation prévaut dans une bonne partie de la jeunesse. Celle-ci subit un processus d’occidentalisation accéléré qui n’est pas efficacement contrebalancé par le « patriotiquement correct » au goût du jour et la mise en place d’organisations comme les Nachii.

Les fervents admirateurs du régime poutinien auront ainsi remarqué qu’il n’entreprend rien de significatif pour enrayer ce phénomène préoccupant et s’accommode fort bien de cette situation où la quête effrénée d’argent, le goût de l’informe, du strass et des paillettes n’a trop souvent rien à envier à  celui de nos sociétés occidentales, décliné de plus au tamis de la démesure russe comme en témoigne par exemple le cinéaste Andreї Mikhalkov-Konchalovsky dans son film Gloss (Glyanets en vo).

La population russe semble trouver un puissant dérivatif à un quotidien souvent gris dans une fierté nationale entretenue par le pouvoir, vis-à-vis duquel elle ne nourrit aucune illusion (« eux » et « nous »). Fierté nationale non condamnable en soi bien entendu, mais déclinée sur un mode excessif avec une paranoïa obsidionale et toujours une phobie atavique de l’ennemi intérieur et extérieur.

Je suis toujours frappé par le fait que le système communiste aux mensonges duquel presque personne ne croyait a réussi à tuer chez beaucoup d’anciens ressortissants soviétiques toute forme d’engagement politique et social au service d’un idéal collectif qui les dépasse : je me suis souvent heurté à des réactions empreintes de scepticisme désabusé.

Je n’ai pas vraiment développé, conformément à votre question les points positifs dans le tableau partiel parfois sombre et pessimiste que j’ai donné de ce peuple jeune (Moeller van den Bruck), mais nous savons que rien n’est jamais joué et que là où il existe une volonté, il y a un chemin.

 

ID Mag : Dans le cadre du monde multipolaire auquel nous aspirons, comment envisagez-vous l’évolution des relations entre la Russie et la puissance chinoise ?

 

PL : La Chine et la Russie ont établi un partenariat stratégique au sein de l’Organisation de coopération de Shanghai pour tenter de faire un tant soit peu contrepoids à la puissance hégémonique américaine.

Cette entente ne repose pas sur des fondements civilisationnels et stratégiques solides et n’est pas, selon moi, destinée à un grand avenir.

Pour l’instant, les deux pays font des manœuvres militaires communes fortement médiatisées. L’armée chinoise modernise son arsenal à grands renforts d’armes russes, bien que Moscou veille à limiter autant que possible les transferts de technologie.

Posture devenue récurrente, le Kremlin penche ostensiblement vers son voisin asiatique dès que des désaccords politiques ou économiques interviennent avec l’Union Européenne.

Cela n’empêche pas que l’avenir des relations sino-russes reste pavé de lourdes incertitudes.

Moscou ne peut que craindre le colossal différentiel démographique avec son voisin qui peut lorgner demain sur les immenses ressources minérales et stratégiques de l’hinterland sibérien.

Une immigration chinoise croissante pourrait poser un problème stratégique majeur dans un avenir très proche.

Bien que les contentieux territoriaux aient été récemment résolus, les Chinois n’ont pas oublié les « traités inégaux » du XIXème siècle et n’ont peut-être pas renoncé à récupérer un jour les territoires de la « Mandchourie du nord » avec Khabarovsk et Vladivostok[14].

Les Russes doivent comprendre qu’ils auront besoin de nous pour mettre en valeur ce « Grand Est » sibérien et que des contingents européens ne seront pas de trop pour assurer une veille vigilante sur le fleuve Amour, nouvelle frontière d’une Grande Europe à bâtir.

 

 

 

ID Mag : Un mot pour conclure et peut-être quelques conseils de lecture sur ce sujet ?

 

PL : Je suggèrerais à ceux qui sont intéressés par la question de faire l’effort de s’imprégner des réalités russes en essayant de franchir la barrière de la langue et en se plongeant dans ce monde passionnant (presse, littérature, cinéma, télévision), ce qui n’empêche pas de voyager et de faire des rencontres...

Je pense qu’un militant identitaire sérieux et sincère doit appréhender ces réalités de manière lucide et détachée en restant fidèle aux valeurs et principes qui sont les siens tout en faisant preuve d’intelligence (méta)politique.

Ce n’est pas en manifestant une adhésion aveugle et inconditionnelle aux évolutions en cours dans la Russie poutino-medvédienne que nous rendrons un grand service à notre cause et aux Russes eux-mêmes.

À nous de faire preuve d’une bienveillance critique qui n’empêche pas la ferme condamnation de phénomènes négatifs et contre-productifs et d’éviter l’écueil d’un pacte russo-européen qui abandonnerait à nouveau plusieurs peuples frères aux séculaires et incorrigibles convoitises de Moscou, car la tentation est réelle chez certains de lui  reconnaître une sphère d’influence exclusive en terre européenne[15].

Une observation attentive de la politique internationale de Moscou montre qu’elle a le plus grand mal à s’accommoder de l’Union Européenne, perçue, malheureusement à juste titre, comme une structure bâtarde, acéphale et vassalisée par Washington.

De ce fait, prenant compte de l’existence d’une nouvelle Europe proaméricaine, elle privilégie les relations bilatérales avec les états du noyau carolingien comme l’Allemagne, la France ou l’Italie, perçus comme des entités solides ayant fait leur preuve sur la scène de l’Histoire, sans perdre de vue le classique adage divide et impera .

Je pense qu’une avant-garde européenne telle que prônée par le Forum Carolus et Alain de Benoist par exemple, vertébrée par le noyau dur carolingien, élargi à l’Autriche et à la Hongrie, ne doit être envisagée que dans la perspective d’une grande Europe-puissance qui n’exclue pas nos frères européens de l’ex Pacte de Varsovie pour l’instant encore sensibles aux sirènes étatsuniennes.

Hypothèse pro-vocante et devant nous pousser à la réflexion : une Russie qui résonne toujours en terme de sphère d’influence exclusive sur son ancien « espace historique » (Narotchnitskaia), englobant des pays incontestablement européens comme le Belarus et l’Ukraine serait-elle prête à admettre l’existence à ses frontières d’une Grande Europe-puissance unifiée, détachée de la vassalité américaine et amicale qui affirmerait ses intérêts légitimes sans complexe ? Serait-elle prête à jouer avec nous la carte d’une fédération impériale paneuropéenne, à terme intégrée, une véritable entité eurosibérienne et non celle d’un empire simplement russe ou eurasiatique ?

Poser la question en embrassant la longue durée historique, c’est déjà commencer à apporter quelques éléments de réponse…

Un tel édifice respectueux de ses entités nationales et ethniques, pensé selon un nouveau jus publicum europaeum et un sain principe de subsidiarité aurait, entre autres choses, l’avantage de réduire à néant la plupart des contentieux territoriaux persistants et pesants.

Quoi qu’il en soit, pour survivre dans un nomos planétaire en pleine recomposition et rester dans l’Histoire, Européens et Russes devront entamer, chacun à partir de prémisses et de situations différentes, un mouvement de régénération convergeant vers un héritage boréen plurimillénaire, base matricielle commune d’un renouveau et d’un destin envisagés ensemble. Favorisons donc l’émergence d’un véritable courant altereuropéen et eurosibérien en Russie.

Sinon, dans le cas où le Kremlin s’obstinerait dans une perspective vétéro-impériale autocentrée et obsidionale, je crains fort que la Troisième voie, position risquée et peu aisée à assumer, ne puisse redevenir tôt ou tard d’actualité.

Quelques conseils de lecture ?

Pour la Russie, Les ouvrages de Gustave Welter (Histoire de Russie), Gonzague de Reynold (Le monde russe) et Andreas Kappeler (La Russie, Empire Multiethnique) peuvent offrir un cadre de réflexion historique solide. On pourra y ajouter les « classiques » de Nicolas Riazanovsky (Histoire de la Russie), Michel Heller (Histoire de la Russie et de son empire) ou Jean-Pierre Arrignon (Culture Guide Russie). Pour mieux saisir les réalités politiques et sociologiques d’un univers à la fois si loin et si proche, on pourra se référer aux ouvrages de Iouri Afanassiev (De la Russie), Jean-Robert Raviot, Marlène Laruelle, Jean-Sylvestre Mongrenier (La Russie menace-t-elle l’Occident ?), Georges Nivat, André Ropert (La misère et la gloire, histoire culturelle du monde russe), Alla Sergueeva (Qui sont les Russes ?), Lorraine Millot (La Russie nouvelle) ou d’Igor Kliamkine et Lev Timofeev (La Russie de l’ombre).

Signalons également un curieux ouvrage anonyme intitulé Projet Russie. Je peux également citer les remarquables biographies d’Henri Troyat sur les tsars et écrivains russes, ainsi que naturellement les grands classiques de la littérature, de Pouchkine à Soljenitsyne.

Mention particulière pour les romans « au marteau » d’un enfant terrible de la nouvelle littérature russe, Vladimir Sorokine  (notamment Journée d’un opritchnik, La glace ou la voie de Bro).

Les amateurs de polar pourront par exemple se plonger dans les œuvres de Thierry Marignac (Fuyards), Alexandra Marinina (Ne gênez pas le bourreau) ou Leif Davidsen (L’épouse inconnue)

Sur l’Ukraine, il serait indispensable de lire attentivement les travaux incontournables de Iaroslav Lebedynsky (Ukraine, une histoire en questions)[16], Mykola Riabtchouk (De la « Petite-Russie » à l’Ukraine) et Andreas Kappeler (Petite histoire de l’Ukraine) sans oublier le mythique Benoist-Méchin (Ukraine, le fantôme de l’Europe). On pourra compléter par Léonid Pliouchtch (Ukraine : à nous l’Europe !), Annie Daubenton (Ukraine : les métamorphoses de l’indépendance), Alain Balalas (De l’Ukraine) ou Arkady Joukovsky (Histoire de l’Ukraine). Les amoureux du mythe cosaque pourront parcourir le maître-livre de Iaroslav Lebedynsky, Les cosaques, une société guerrière entre libertés et pouvoirs, Ukraine 1490-1790.

 

 

Version révisée en mars 2010 d’un entretien recueilli en juillet 2009 par Xavier Eman pour ID magazine n°16 (automne 2009)



[1] Un fossé psychologique s’est considérablement creusé entre nous et nos frères de « l’Est ». Nous avons généralement une extrême difficulté à appréhender ce qu’ils ont vécu durant la période communiste et c’est bien sûr un peu normal. Néanmoins, rien ne nous empêche et c’est même fortement recommandé, de faire un réel effort d’empathie (je n’ai pas dit complaisance) à leur égard, par des rencontres et une connaissance accrue de ces réalités. Un survol de leurs représentations est tout à fait instructif : je signalerai par exemple ces entretiens avec l’Ukrainien Mykola Riabtchouk (http://www.europemaxima.com/?p=665) ou le Lituanien Richard Backis (http://www.diploweb.com/L-heritage-mental-du-sovietisme.html).

[2] Dans l’éditorial de ce numéro, Robert de Herte/Alain de Benoist ne fait pas mystère de son engouement pour la figure et les positions d’Alexandre Douguine, dont l’œuvre, nonobstant de nombreux points dignes d’intérêt, se présente fondamentalement comme les habits neufs d’une récurrente vision impériale russocentrée, sans parler de ses propos à l’emporte pièce dans les médias télévisés russophones où l’éminent penseur disserte sur la partition et l’invasion militaire de l’Ukraine avant de théoriser l’existence dans la partie orientale et méridionale du pays d’un fantasmatique peuple « nouveau-russe » (http://tap-the-talent.blogspot.com/search/label/Dugin).

En 1993, la figure historique de la Nouvelle droite écrivait dans une réponse au publiciste allemand Wolfgang Strauss publiée dans la revue Europa Vorn ( n°57, 15 septembre 1993, p: 3 , citée par Pierre-André Taguieff in Sur la Nouvelle droite, Descartes & Cie, 1994, p:311) : « Je suis en particulier hostile à toute forme de jacobinisme ou d’impérialisme. Je ne confonds pas l’idée traditionnelle d’Empire (…) avec les impérialismes modernes : français, anglais, américain, russe ou allemand. Je soutiens le droit des peuples à disposer d’eux-mêmes, qu’il s’agisse des Ukrainiens, des Géorgiens, des Tchétchènes, des habitants des pays baltes, des Irlandais du Nord, des Corses, des Bretons (…). Je ne crois pas que les Russes résoudront les problèmes auxquels ils sont affrontés en tentant de soumettre à nouveau à leur joug des peuples qui n’ont que trop évidemment manifesté le désir de s’en affranchir. Pour dire les choses autrement, je crois que leur avenir n’est pas dans l’imitation- qu’il s’agisse de l’imitation de l’Occident ou de l’imitation du passé (tsariste ou stalinien). Les Russes ont  certainement, compte tenu de leur histoire, un rôle à jouer en Asie. Je suis en revanche plus que réservé vis-à-vis de toute construction eurasiatique, qui me paraît être essentiellement fantasmagorique ».

Plus récemment, interrogeant longuement Douguine dans un captivant entretien publié dans la revue Krisis (N°32, juin 2009, p :143-146), Alain de Benoist n’a pas manqué cependant de lui poser une question reprenant nos informations sur les activités anti-ukrainiennes du Mouvement de la jeunesse eurasiste, question à laquelle son honorable interlocuteur n’a pas jugé bon de répondre franchement…

[3] « Que reste-t-il de notre victoire ? » Editions des Syrtes, Paris, 2008. Nous renvoyons les lecteurs à notre critique de cet ouvrage consultable sur (http://www.polemia.com/article.php?id=1674).

Madame Narotchnitskaia est par ailleurs à la tête d’une ONG mise en place avec l’aval du Kremlin, sise à Paris et New-York, L’Institut de la Démocratie et de la Coopération (IDC) qu’elle anime avec le journaliste britannique conservateur John Laughland.

[4] Dans un long et pertinent article intitulé « Mémoire russe et mémoire européenne » publié dans le numéro 38 de La Nouvelle Revue d’Histoire, septembre-octobre 2008, pages 32-35

[5] Comme l’affirmait Boris Gryzlov, président en exercice de la Douma russe que je cite de mémoire, la « Grande guerre patriotique » est le seul événement récent de l’histoire nationale susceptible de rassembler un maximum de citoyens autour d’un nouveau consensus identitaire.

Une véritable mythologie impulsée par Vladimir Poutine lors de sa fameuse allocution du 9 mai 2005 qui ne supporte donc aucune forme de critiques ou de remises en cause, aussi ténues soient-elles. Au besoin, intimidations et répression s’abattent sur les « contrevenants » ainsi qu’en témoigne le cas de Mikhaïl Suprun, un historien russe enquêtant sur le sort d’Allemands emprisonnés en Union soviétique durant la Seconde Guerre mondiale, qui a été arrêté en septembre 2009.L’historien a été brièvement détenu par des officiers des services de sécurité russes. Ils ont fouillé son appartement et emporté l’ensemble de ses archives. Accusé d’atteinte à la vie privée ( !), il risque en cas de condamnation une peine maximale de quatre ans de prison. Professeur d’histoire à l’Université Pomorskyi d’Arkhangelsk, ses travaux portaient notamment sur les prisonniers de guerre allemands capturés par l’Armée rouge et sur les minorités russes d’origine germanique, la plupart en provenance de Russie méridionale, déportés par Staline dans les camps d’Arkhangelsk.

 

[6] Cette commission comprenait deux personnalités présentées comme des historiens, l’incontournable Natalia Narotchnitskaia et Alexandre Tchoubarian, auteur d’un livre au titre prometteur, mais au final bien décevant, La Russie et l’idée européenne, (Editions des Syrtes, 2009). Ce dernier, interpellé par nos soins lors d’une présentation parisienne de l’ouvrage en octobre 2009, sur le fait de siéger dans une telle commission pour des historiens de métier, a  « dédramatisé » l’enjeu et magnifiquement botté en touche dans la plus pure tradition de la rhétorique soviétique, version perestroïka.

[7] Citons la princesse Anne, fille de Iaroslav le Sage qui a épousé notre bon roi Henri 1er en 1051, à propos de laquelle, en cette année France-Russie et d’exposition sur « La Sainte Russie » au Louvre, on a pas fini d’entendre parler de princesse « russe »…

[8] L’article d’Aymeric Chauprade, « Byzance écartelée entre deux mondes » publié dans la Nouvelle Revue d’Histoire  (n°15, novembre-décembre, 2004, p : 56-58) est, à cet égard, très éclairant.

[9] La question de la résistance nationaliste ukrainienne durant la seconde guerre mondiale n’en finit pas de susciter des réactions indignées à Moscou, qui pour l’occasion n’hésite pas à se joindre au chœur  planétaire (http://fr.rian.ru/world/20100127/185945143.html). La politique d’affirmation historique et mémorielle menée par la présidence Iouchtchenko était justifiée et légitime sur le fond ; même si sur la forme, elle est critiquable sur de trop nombreux points.

Les décrets faisant de Roman Choukhevytch (commandant suprême de l’Armée Insurrectionnelle Ukrainienne, l’UPA) et de Stepan Bandera (chef de l’aile révolutionnaire de l’Organisation des Nationalistes Ukrainiens OUN-R :  http://fr.novopress.info/35214/anniversaire-de-l%E2%80%99assassinat-de-stepan-bandera-notre-longue-memoire/) des héros de l’Ukraine ont créé des remous y compris à l’intérieur du pays tant les clichés mensongers de l’époque soviétique sont encore prégnants dans une bonne partie de la population. Dans le cas de Bandera, le calendrier choisi (en janvier dernier, entre les deux tours de scrutin présidentiel) révélait des arrière-pensées politiciennes évidentes et maladroites. Il n’empêche que l’accusation infâmante et diabolisante de collaboration avec les nazis ne tient pas stricto sensu et il est regrettable de voir les autorités russes user cyniquement de ces questions hautement sensibles dont elles bien connaissent la charge émotionnelle pour un public occidental.

Que ces hommes aient été tentés de jouer brièvement la carte allemande avant de déchanter (en camp de concentration dès l’été 1941 pour Bandera ou devant un peloton d’exécution pour d’autres) est l’évidence même. Etait-ce collaborer aux plans nazis et leur politique raciale que d’avoir été soutenus par certains secteurs de la Wehrmacht et de l’Abwehr pour former deux bataillons de volontaires en 1940-41 ? Il est bien facile de juger après-coup quand on connaît la fin de l’histoire.

L’amalgame entre la résistance de l’OUN/UPA et la division SS ukrainienne « Galicie » ne résiste pas à un examen historique sérieux, ni les accusations conjointes de la part des nazis puis des soviétiques d’avoir participé à des pogroms antijuifs, notamment à L’viv en 1941.

Par contre, si on veut rester sur le registre de la collaboration avec le régime national-socialiste, que dire du grand Staline qui a livré quantité de communistes allemands, parfois juifs, aux autorités hitlériennes entre septembre 1939 et juin 1941, sans parler des matières premières stratégiques qui ont alimenté la machine de guerre nazie dans sa guerre à l’Ouest ?

Il est confondant de voir des compatriotes issus souvent de milieux traditionnellement anticommunistes embrayer docilement le pas aux vieilles lunes de l’historiographie soviétique joignant leurs voix au concert des derniers dinosaures staliniens de l’université française qui s’évertuent, dans un registre voisin, à nier l’existence du Holodomor, la famine-génocide ukrainienne de 1932-33.

[10] Il est intéressant de noter que le nouveau président ukrainien a recouru, dès 2005, aux services du consultant politique américain Paul Manafort, républicain convaincu qui a notamment travaillé pour John McCain, rival malheureux de Barack Obama en 2008.

[11] Lors d’une conférence de presse commune entre Medvedev et Ianoukovytch, à l’occasion de la visite officielle de ce dernier à Moscou le 5 mars 2010, les deux hommes ont fait de belles déclarations de principe dans une atmosphère cordiale et détendue, mais se sont bien gardé de fixer des échéances précises. Une nouveauté cependant dans la bouche de Medvedev qui a évoqué un possible statut de la langue ukrainienne en Russie avec l’octroi de chaînes de télévision ukrainophones.

[12] À cet égard, l’Ukraine n’est pas comparable aux Balkans. Ce pays a payé le prix du sang au XXème siècle et son peuple a un tempérament généralement plus « doux », moins convulsif que ceux d’autres ethnies slaves. La guerre culturelle a cependant fait rage à Moscou tout au long de l’année 2009, avec toute une littérature clairement ukrainophobe qui allait des techno thrillers de gare, catégorie sous-Tom Clancy (comme Ukraine champ de bataille : le trident brisé de Georgiy Savitsky ) à des écrits assez délirants comme le fameux American salo d’O. Volia (http://www.kyivpost.com/news/nation/detail/38758/)

[13] Voir : http://www.lph-asso.fr/index.php?option=com_content&view=article&id=135%3Aderniere-heure-par-nikolay-koposov&catid=31%3Adossier-russie&Itemid=78&lang=fr

[14] Voir l’intéressant dossier du n° 995 du Courrier international (du 26 novembre au 2 décembre 2009) intitulé « Far East, quand la Sibérie sera chinoise ».

[15] Cela semble être le cas, par exemple, pour le géopoliticien Aymeric Chauprade, qui  avait déjà repris à son compte le théorème « mécaniste » de la révolution orange selon un storytelling simplificateur. Dans un article publié dans La Nouvelle Revue d’Histoire  (N°20, septembre-octobre 2005, p:38, texte repris dans la 3ème édition de Géopolitique, constantes et changements dans l’Histoire, Ellipses, 2007, p:558) et intitulé « les frontières de l’Europe », il exposait l’existence de cinq ensembles géopolitiques européens en affirmant que « même si elle présente d’incontestables traits civilisationnels européens (…), l’Ukraine, immense plaine ouverte sur l’Est, n’a pas vocation à faire partie du bloc européen ». Il écrit ultérieurement, dans un entretien donné à la revue Eléments (N° 131, avril-juin 2009, p : 32) qu’ « avec un peu moins de 50 millions d’habitants, l’Ukraine représente tout de même le tiers du poids démographique de la  Fédération de Russie. Mais c’est surtout le berceau de la Moscovie : historiquement, l’Ukraine et la Russie sont consubstantielles, d’autant que la première offre à la seconde un débouché sur la mer Noire, donc sur la Méditerranée ». De tels propos me paraissent démontrer les limites du pur exercice géopolitique lorsque ses critères d’analyse priment excessivement sur les impératifs civilisationnels et identitaires.

[16] Voir notre recension : http://www.polemia.com/article.php?id=1719

vendredi, 12 mars 2010

Les "dégagements" de Régis Debray

regis_debray_1.jpgLes dégagements de Régis Debray

Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com/

Dégagements est le titre du nouvel essai de Régis Debray qui doit sortir en librairie dans les prochains jours. Il a rassemblé dans ce volume, en particulier, ses carnets publiés dans la revue Médium.

L’essentiel, qui est un certain style, se niche dans les détails. C’est le ton de l’écrivain, celui qui vivifie les mots et stylise la vie.

Régis Debray joue aux quatre coins avec les accidents de la vie. Entre figures tutélaires (Julien Gracq ou Daniel Cordier), et artistes redécouverts (Andy Warhol ou Marcel Proust), entre cinéma et théâtre, expos et concerts, le médiologue se promène en roue libre, sans apprêt ni a priori. Rêveries et aphorismes cruels se mêlent aux exercices d’admiration. Les angles sont vifs, la lumière crue, mais souvent, à la fin, tamisée par l’humour.

Ainsi l’exige la démarche médiologique, tout en zigzags et transgressions, selon la définition un rien farceuse qu’en donne l’auteur : « Un mauvais esprit assez particulier qui consiste, quand un sage montre la lune, à regarder son doigt, tel l’idiot du conte. »

Essayiste, romancier, journaliste et mémorialiste, Régis Debray a notamment publié aux Éditions Gallimard de nombreux essais : Ce que nous voile le voile. La République et le sacré (Hors Série Connaissance, 2004), Le plan vermeil (Hors Série Connaissance, 2004), Supplique aux nouveaux progressistes du XXIe siècle (Hors Série Connaissance, 2006), une pièce de théâtre : Julien le fidèle (collection blanche, 2005), des mémoires : Aveuglantes lumières (collection blanche, 2006). Derniers ouvrages parus : Un candide en Terre Sainte (collection blanche, 2008, Folio n° 4968) et Le moment fraternité (collection blanche, 2009).

 

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Dixit Debray

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Dixit Debray

Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com/

A l'occasion de la sortie de Dégagements, son dernier ouvrage publié aux éditions Gallimard, Régis Debray a donné un entretien au magazine Le Point dont voici quelques extraits.

  « Être, à présent, c'est être vu. C'est la caméra qui donne la visibilité sociale, après quoi on est bon pour l'influence, et même pour un ministère. Le système création-édition-critique-médias est devenu un mécanisme d'autocongratulations qui fonctionne en circuit fermé. Quant à nos acteurs, sportifs, chansonniers, animateurs, ils ont la légitimité. Quand Sarkozy pose à côté de son pote Johnny, le patron, c'est Johnny. Il met négligemment la main sur l'épaule de Nicolas. La politique est devenue une filiale parmi d'autres du show-biz. Comme la philosophie, ou ce qui passe pour tel, et le football. Ils font la paire en public et se mettent en ménage dans le privé. Mauvais temps pour les mots. "Casse-toi, pauvre con !" Ceux qui aiment déguster des mots plutôt que déglutir de l'info vont survivre, loin des best-sellers, hors marché, dans des îlots ou des monastères, peut-être dans quelques grandes écoles si celles-ci ne disparaissent pas entre-temps. Mais les Voltaire et les Victor Hugo, dans l'Occident postindustriel, sont technologiquement condamnés. L'intello classique n'est plus fonctionnel. »

 « Les nouveaux philosophes produisent de l'indignation au rythme de l'actualité en désignant au bon bourgeois le méchant du jour - le totalitaire, le franchouillard, l'islamo-fasciste, etc. »

 « J'estime avoir fait mon travail lorsque j'ai éclairé des zones d'ombre, comme la religion, raccordé des champs, proposé des outils de compréhension, en général pour expliquer pourquoi ça ne marche pas et pourquoi ça ne marchera pas beaucoup mieux demain. Mais je n'appelle personne à la conversion. Entre la tour d'ivoire et la course de vitesse avec l'actu, j'espère trouver une troisième voie, que j'appelle le dégagement ou le regard en biais. Je n'ai plus le virus politique, mais je garde un penchant pour les collectifs : j'aime la bande, la revue, la conspiration, le commando. C'est un trait de gauche. On ne se refait pas. »

 «  Le grand retour indigéniste auquel nous assistons à travers quelqu'un comme Evo Morales est bien une revanche de la mémoire sur les tables rases du futurisme occidental. Toutes les révolutions socialistes sont des nationalismes. Mao commence pour de bon avec l'attaque du Japon. Pourquoi les talibans sont-ils forts ? Parce qu'ils sont chez eux envahis par des étrangers, infidèles de surcroît. On ne gagne pas contre une civilisation. »

 «  Le problème, c'est l'évanouissement de l'Europe comme alternative. Voyez l'obamania de nos provinces. Faire d'un patriote américain juste milieu un bon Européen de gauche relève d'une incroyable perte de sens historique. Et géographique. Nous n'avons même plus la force de produire nos propres champions. On s'enamoure en midinette. On dirait qu'en vieillissant l'Europe n'est plus que fleur bleue. Elle regarde l'Oncle d'Amérique en prince charmant, lequel regarde ailleurs, là où les choses se passent : Asie et Pacifique. »

 « Le clivage [droite-gauche] reste, mais il est sociologique ou folklorique, au bon sens du mot. Quant aux idées et aux valeurs, allez vous y reconnaître. [...] Qui eût dit que le patron du FMI, installé à New York, serait un jour la vedette de la gauche française ? Il y a vingt ans, on pouvait reconnaître un homme de droite à sa cravate, à sa boutonnière et à sa coupe bien nette. Aujourd'hui, le casual wear et la barbe de trois jours font uniforme commun. En face de quoi vous pouvez me définir comme un conservateur de gauche, tiers-mondiste vieux jeu, voire gaulliste d'extrême gauche. Cela m'indiffère. »

 « Le handicap de la gauche, en matière d'art, c'est la morale. Le surmoi est assez peu créatif. La droite doit à un certain cynisme d'avoir les coudées franches. Il m'arrive d'avoir plus de plaisir à lire le Journal de Morand, politiquement immonde, que celui de Leiris, moralement impeccable. »

 « Pour sauvegarder votre capacité à être vous-même, faites de l'histoire, sortez de vos frontières et lisez des livres : plus vous maîtriserez les mots, plus vous jouirez des images. »

mardi, 09 mars 2010

Manifestation de soutien au peuple grec à Dijon

samedi, 06 mars 2010

Gallovacantisme

Gallovacantisme

par Georges FELTIN-TRACOL

france_2040_interrogant.jpgIl est fréquent dans les milieux dits non-conformistes et d’engagement national, droitier ou identitaire, de s’échauffer contre l’actuel Système globalitaire, de vilipender l’oligarchie dominante, de déplorer le tournant pris par les mœurs, de stigmatiser nos contemporains, de dénoncer leurs défauts, leurs travers, leurs lâchetés et leurs bassesses, avant de conclure finalement par un vibrant « Vive la France quand même ! ».

Ce comportement proprement schizophrène n’est pas récent. Qu’on se souvienne des déchirements tragiques du camp patriotique entre 1940 et 1945 ! En remontant le temps, soulevons la faute magistrale de Maurras et de l’Action française qui, par germanophobie viscérale, conclurent un « compromis historique » avec la IIIe République dans le cadre de l’« Union sacrée ». Au même moment et dans le même élan de communion nationale, le prétendant légitimiste aux trônes de France et d’Espagne, le duc d’Anjou et de Madrid, demandait à ses partisans espagnols, les carlistes, d’atténuer leur germanophilie et de prier pour le salut de la France. Mentionnons aussi l’erreur considérable du pape Léon XIII d’appeler les catholiques de France au « Ralliement »… Passons charitablement sur l’énorme bourde des légitimistes de se retirer, par fidélité indéfectible à la dynastie légitime, dans leurs manoirs campagnards après 1830, délaissant ainsi le champ politique. Et que penser des discrètes manœuvres de l’ambassadeur du Piémont-Sardaigne, Joseph de Maistre, à Saint-Pétersbourg afin de freiner l’appétit territorial des Coalisés en 1814 – 1815 ?

À l’énoncé de ces quelques exemples, on a l’impression que les « conservateurs », les « réactionnaires », les « contre-révolutionnaires », se fourvoient avec les meilleurs intentions dans un incroyable jeu de dupe. La préservation des principes spirituels de légitimité et d’aristocratie traditionnelle semble passer après des intérêts politiques plus immédiats.

Il ressort de ces brèves considérations que de nombreux patriotes ne parviennent plus à distinguer la France idéale qui se perpétue en leur for intérieur et un Régime toujours plus détestable. Dans un essai bien senti, malheureusement passé assez inaperçu, Les deux patries (1), l’historien Jean de Viguerie relevait une dichotomie entre une patrie traditionnelle irriguée par des corps intermédiaires florissants et une patrie républicaine, abstraite, régie par des valeurs universalistes et individualistes. Ce distinguo est plus que jamais d’actualité au moment où Fadala Amara rêve publiquement d’une « République métissée » (2). Lentement mais sûrement, l’Hexagone dissout la France aux indéniables racines européennes, notre France historique. Arnaud Guyot-Jeannin remarque fort bien que « les nationalistes aiment la France. Tout le problème vient de ce que la France ne les aime pas. Non pas la France traditionnelle et enracinée, mais la France fraternitaire et cosmopolite Black-Blanc-Beur. L’atomisation du corps social qui en résulte, standardise alors les comportements individuels et collectifs. L’uniformisation qui découle de l’individualisme désagrège tous les modes de vie soudant les communautés naturelles » (3). Ne serait-il pas temps de prendre acte de cette césure fondamentale et d’agir en pleine connaissance de cause ?

Quitte à choquer, la défense acharnée de ce qu’on croît être la France et qui n’est en fait qu’une république francophage, variante spécifique et locale de l’idéologie mondialiste, n’est plus soutenable et se montre même en certaines circonstances contre-productive pour la mouvance rebelle et anticonformiste. Plus abruptement dit, les patriotes authentiques ne devraient plus se ranger de manière systématique et quasi-pavlovienne derrière un « patriotisme » officiel ou une volonté de « défense nationale » en fait délétère pour une conception du monde traditionnelle ou non-moderne. On pense combattre pour la France et on favorise au final l’assassinat systématique des cultures, des peuples et des identités.

La France que nous chérissons meurt étranglée par un mondialisme rapace, des instances eurocratiques pesantes et une République subrepticement totalitaire. Comme le fut jadis l’U.R.S.S. pour la Russie, la République hexagonale représente pour les Français les plus lucides un organisme parasitaire meurtrier de masse : le populicide vendéen, l’ethnocide des langues vernaculaires perpétré par les « hussards noirs », les massacres répétitifs de la paysannerie au cours des guerres de la Révolution, de l’Empire et de 1914 – 1918 en sont des preuves flagrantes et terribles !

Ce processus criminel, cette lente extermination des peuples enracinées de France, se poursuit et s’accélère avec la substitution en cours des populations autochtones par une immigration extra-européenne incontrôlée. La diversité ethnique et confessionnelle grandissante de la société oblige les pouvoirs publics et para-publics à recourir au seul ciment civique à leurs yeux valable, les dénommées « valeurs républicaines ».

Il en découle un martèlement croissant du discours républicain en tout lieu et à tout moment. Cette propagande suscite une phobie anti-discriminatoire qui frôle la pathologie mentale lourde. La quête harassante en faveur d’une diversité de façade imposée – s’il le faut par la contrainte – par la H.A.L.D.E., peint de couleurs exotiques variées une domination sur les esprits centrée sur la marchandisation, l’individualisme et le rejet de toute spiritualité.

L’Hexagone républicain n’est pas la France. Sait-on d’ailleurs que dans les réunions internationales, les documents officiels ne parlent jamais de France et toujours de République française ? Certes, s’il existe une République algérienne démocratique et populaire, il y a surtout une République fédérale d’Allemagne, une République de Pologne, une République populaire et démocratique de Corée, et non une République fédérale allemande, une République polonaise ou une République populaire coréenne… L’Hexagone reprend (fortuitement ?) la titulature du dernier Louis XVI, de Napoléon Ier, de Louis-Philippe et de Napoléon III qui était « roi (ou empereur) des Français ». Les masses se substituent à l’idée sapientielle ! Nullement français, l’Hexagone black-blanc-beur ne peut être une res publica au sens que l’entendaient les Anciens, ni un oïkos post-moderne (ou une République-site).

Les « hexagonophobes » doivent-ils pour autant délaisser la patrie nationale, s’en détourner irrémédiablement ? Nullement ! Ils doivent au contraire accompagner la métamorphose, la mutation en cours, fut-ce au prix d’entériner l’éclipse de la France. Oui, la République jacobine a volontairement occulté la France traditionnelle dont la légitimité a disparu irrémédiablement le 24 août 1883 à Froshdorf. Depuis, et à part l’exception incarnée par Charles de Gaulle entre 1940 et 1969, la légalité sert de pis-aller. En attendant qu’une nouvelle légitimité européenne et impériale surgisse des aléas de l’histoire, la seule posture désormais satisfaisante est le francovacantisme ou le gallovacantisme (4).

Le gallovacantiste ou francovacantiste postule d’abord que les structures républicaines occupent l’espace géographique et mentale de la France, ensuite qu’il est vain de soutenir un Hexagone qui est l’anti-France par excellence. On ne cesse d’invoquer l’« identité républicaine », le « civisme républicain », l’« école républicaine »… Ira-t-on bientôt jusqu’à expulser royalistes, européistes et régionalistes qui n’adhèrent pas au républicanisme laïc, gratuit et obligatoire ?

Bousculons donc les douillettes certitudes des souverainistes et autres nationalistes qui agissent en parfaits valets du Système. Dissocions la France historique de l’Hexagone républicain mondialiste. Repensons globalement le combat essentiel des identités autochtones d’Europe, et abandonnons aux fétichistes de l’État-nation républicain La Marseillaise, Marianne, le coq, sa devise inepte et le drapeau tricolore. Osons nous affirmer anti-républicains, Français d’Europe et localistes enracinés!

Telle est la véritable révolution intellectuelle qui s’ouvre à nous ! C’est au nom des valeurs républicaines prépondérantes qu’on exige l’assimilation, qu’on célèbre l’intégration et qu’on chasse la burqa. Dans le même temps, le Régime délaisse les zones rurales ou péri-urbaines, fait fermer hôpitaux de proximité, agences postales de villages et petites gares ferroviaires et prépare l’imposition des ménages rurbains fuyant l’exécrable multi-ethnicité des centres urbains au moyen de la fameuse  « taxe carbone ».

Les patriotes identitaires se doivent d’exprimer une dissidence radicale à la République. Loin de la préserver, ils doivent préparer son effondrement en se tenant prêts à l’imprévu. Qu’ils s’inspirent pour la circonstance de l’exemple des républicains sous le Second Empire. En effet, le 4 septembre 1870, dès l’annonce de la défaite française de Sedan et de la reddition de l’Empereur aux Prussiens, les républicains parisiens profitèrent du désarroi gouvernemental pour proclamer la République alors que cinq mois plus tôt, un plébiscite confirmait massivement l’assise populaire de l’institution impériale. Certes, les républicains mettront presque dix ans pour s’emparer définitivement de l’ensemble des pouvoirs, mais le mouvement initial, décisif, fondateur, était lancé. Soyons par conséquent aux aguets, aptes à répondre au Kairos. Le gallovacantisme doit nous aider à penser autrement notre vision de la France.

Georges Feltin-Tracol

Notes

1 : Jean de Viguerie, Les deux patries. Essai historique sur l’idée de patrie en France, Dominique Martin-Morin Éditeur, 2004, première édition en 1998.

2 : « Nous sommes en train d’accoucher d’une France diverse, d’une République métissée. Le mouvement n’est pas spectaculaire et ne se voit pas devant des caméras. » Amara Fadala, in Le Monde, 4 et 5 octobre 2009.

3 : Arnaud Guyot-Jeannin, « Une Europe néo-carolingienne est-elle envisageable pour l’avenir ? », in Benjamin Guillemaind (s.d.), La subsidiarité. Un grand dessein pour la France et l’Europe, Éditions de Paris, coll. « Les Cahiers de l’As de Trèfle », 2005, p. 99.

4 : « Gallovacantisme » ou « francovacantisme » sont deux néologismes dont il appartient à l’usage de valider l’un ou l’autre. Ces deux termes se construisent sur le modèle du sédévacantisme. Sans entrer dans les détails, le sédévacantisme considère que, depuis le concile Vatican II, tous les papes qui occupent le siège de Saint-Pierre sont illégitimes et hérétiques. Il en découle une vacance de la papauté. Une frange moins radicale de ce courant, le sédéprivatisme, considère que le siège pontifical est occupé dans les faits par une personne qui n’en est toutefois pas digne si elle entérine les conclusions conciliaires. Sédévacantistes et sédéprivatistes suivent donc des messes non in cum, c’est-à-dire hors de toute communion avec la hiérarchie ecclésiastique et les souverains pontifes.

vendredi, 05 mars 2010

Analyse dissonante des élections en Ukraine

Analyse dissonante des élections en Ukraine

Un peu moins de 900.000 voix voix séparent Viktor Ianoukovitch (48.95% et 12 480 053 voix), et Youlia Timoshenko (45.47% et 11 589 638 voix) mais c'est le premier qui a été élu président, au cours d'une élection, dont la transparence a été soulignée par tous les grands états et les principales instances internationales mais qui a surtout mis un terme au mythe de la « démocratie Orange ». Seule la ravissante Youlia (l'Evita Peron de la mer noire), malheureuse perdante, a quelque peu tardé à reconnaitre le choix de ce peuple qui l'avait pourtant généreusement soutenu en 2004, veillant dans le froid et la nuit sur la place centrale de Kiev.

Orangisme, mauvaise gestion et dérives nationalistes
La gestion économique et politique des Orangistes n'a pas été brillante, aggravée il est vrai par la crise économique qui a très durement frappé le pays, comme le montre le graphique dessous sur l’évolution du PIB sur la période 2006-2009. 





Les brimades linguistiques à l'encontre de la minorité Russophone n'ont certainement pas contribué à favoriser leur implantation électorale à l'est du pays et le président sortant Viktor Iouchenko, héros de la démocratie et chouchou de l’Occident en 2004 (!), a réuni moins de 6% des suffrages et a choisi de décorer (entre les deux tours) la figure historique Ukrainienne de la collaboration nazie, Stepan Bandera, (dont les hommes ont tués plus de 100.000 Polonais pendant la seconde guerre mondiale). Il est d'ailleurs assez surprenant de n'avoir entendu aucun commentaire des démocraties Occidentales a propos de cette "émouvante cérémonie" de l’entre deux tours. Le premier ministre ayant alors affirmé que le président Ukrainien « crachait au visage de ses anciens sponsors». Logiquement, au second tour, les mouvements d'extrême droite Ukrainiens  ont appelé à soutenir le candidat Orange.
Cet échec flagrant des Orangistes est à la fois électoral mais également financier, la crise ayant privé de crédits leurs principaux bailleurs de fonds, les stratèges des diverses ONGs qui pullulent dans les pays frontaliers de la Russie, Ukraine et Géorgie en tête.
La victoire du candidat bleu n'est pas cependant une surprise totale pour tout commentateur initié, elle était même au contraire relativement prévisible. Un sondage de l'institut Ramsukov (pourtant affilié au parti du président défait) montre bien l'évolution forte des mentalités en Ukraine de 2005 (révolution Orange) à 2009 et le basculement "a l'est". En 2009 un sondage durant l'été montrait que le gouvernement Orange d'Ukraine était le gouvernement avec le soutien populaire le plus faible au monde, 85% des Ukrainiens désapprouvant l'action de leur gouvernement.

L'Ukraine plus unie qu'il n'y parait
Les élections de 2004 avaient dévoilées l'existence de deux Ukraines, la bleue (orientale, tournée vers la Russie) et l'orange (tournée vers l'Occident). Cette coupure n'est pas seulement politique et culturelle. Elle est aussi linguistique, les Ukrainiens « bleus » lorsqu'ils ne se considèrent pas comme Russes sont souvent Russophones voir parlent un dialecte local Ukraino-russe. Dans la partie Orange les populations sont Ukraïnophone (ou parlent un dialecte local Ukraino-polonais).

Les élections de 2010 ont quelque peu atténués cette coupure, comme le précise Jean Marie Chauvier, Ianoukovitch et son Parti remportent leurs plus grands succès dans les régions à majorité russophone de l’Est et du Sud : 90% à Donetsk (Donbass), 88% à Lugansk, 71% à Kharkov, 71% à Zaporojie, 73% à Odessa, 79% à Simféropol (Crimée), 84% à Sébastopol. Le leader « régionaliste » avait reçu l’appui du Parti Communiste et d’autres formations de gauche, en très net recul au premier tour.  Mais Ianoukovitch remporte également de substantiels succès dans l’Ouest ukraïnophone : 36% à Jitomir, 24% à Vinnitsa, 18% à Rovno, 41% en Transcarpatie…C’est seulement dans les régions de Galicie (Lvov, Ternopol, Ivano-Frankovsk), traditionnels bastions du nationalisme radical antirusse et antisémite, que ses scores sont les plus faibles : inférieurs à 10%.
Une remarque symétrique s’impose pour les résultats de Ioulia Timochenko. Majoritaire à l’Ouest (de 85 à 88% dans les régions galiciennes, 81% à Lutsk, 76% à Rovno, 71% à Vinnitsa, mais seulement 51% en Transcarpatie), elle remporte également des succès remarquables à l’Est (29% à Dniepropetrovsk, 34% à Kherson, 22% à Kharkov). Les 29% à Dniepropetrovsk ne sont pas le fruit du hasard : Ioulia en est originaire, et le clan industriel de cette région est rival de celui de Donetsk que domine Ianoukovitch. Comme quoi, là non plus, le clivage « est-Ouest » ou « Russophones contre ukraïnophones ne joue pas. La ville de Kiev se partage entre 65% pour Ioulia et 25% pour Viktor Ianoukovitch, alors que cette capitale est très majoritairement russophone. Le leader de l’Est industriel et ouvrier n’y est pas reconnu par une bourgeoisie et une « classe moyenne » pourtant très attachée à la langue et à la culture russes.
Enfin la percée du 3ième homme Sergueï Tiguipko montre bien que la lassitude des électeurs envers cette scission et l’intérêt que porte une grande partie d’entre eux à une éventuelle 3ième voie.


L'Ukraine nouvelle, pont entre l'est et l'ouest
Pourtant contrairement à ce que beaucoup de journalistes ou commentateurs ont affirmé, le résultat des élections en Ukraine ne traduit pourtant pas du tout un retour de l’Ukraine dans le giron Russe ou une quelconque résurgence impériale Russe qui serait un danger pour l’Ouest. Bien au contraire, la victoire bleue affirme la position de l’Ukraine comme nation périphérique de la Russie, sur la « route vers l’Europe » mais également comme « partenaire de nouveau fiable » pour la Russie. La position de Ianoukovitch de tendre la main à l’ouest et à l’est ne fait que confirmer la situation économique réelle du pays (afflux de capitaux Russes) mais également son besoin de capitaux Européens pour moderniser le pays et faire face au problèmes économiques aggravés depuis l’été 2008. A ce titre l’Ukraine de Ianoukovitch pourrait se retrouver dans la position d’un « pont » entre l’Europe et la Russie et non plus d’un fusible dirigé par Washington pour déstabiliser les relations Euro-Russes (guerre du gaz, conflits de pipelines etc.). La volonté du nouveau président de faire ses deux premiers voyages à Bruxelles et Moscou devrait rassurer les chancelleries Européennes mais également le Kremlin quand à la création du cartel énergétique Ukraino-Russe mais également du maintien de la flotte Russe en Crimée ou son opposition à ce que l’Ukraine rejoigne l’OTAN.

Comme l'a précisé le président Ukrainien lors de son investiture : " L'Ukraine poursuivra l'intégration avec l'Europe et les pays de l'ex-URSS en tant qu'Etat européen n'appartenant à aucun bloc ... L'Ukraine sera un pont entre l'Est et l'Ouest, une partie intégrante de l'Europe et de l'ex-URSS en même temps, l'Ukraine se dotera d'une politique extérieure qui nous permettra d'obtenir un résultat maximum du développement des relations paritaires et mutuellement avantageuses avec la Russie, l'UE, les Etats-Unis et autres pays qui influencent le cours des événements dans le monde". (source de l'extrait).

L’élection de Ianoukovitch semble donc ancrer l’Ukraine entre Bruxelles et Moscou, mais l’éloigner de Washington et cette ligne « globale » semble être souhaitée par le peuple Ukrainien, au début de l’année, un sondage du Kiev post montrait que 60% des Ukrainiens souhaitaient l’intégration à l’UE, 57% sont contre l’intégration à l’OTAN et seuls 7% voient la Russie comme un état hostile, 22% souhaiteraient un état unique Russie-Ukraine (Source :
Johnson Russia List 2010 issue 34 number 2).

Ianoukovitch, un « poutine ukrainien » pour la presse Occidentale ?
Il est symptomatique de voir à quel point la presse anglo-saxonne a critiqué les résultats de l’élection, l’égérie Kremlinophobe du Moscow Times, Youlia Latynina allant même jusqu’à expliquer le résultat des élections comme logique, les électeurs pauvres étant tentés par des votes Poujadistes (« letting poor people vote is dangerous »). Pas de chance pour elle, la carte électorale montre bien que c’est la partie la plus riche d’Ukraine, la plus industrielle qui est majoritairement « bleue » et pro Russe. 



Autre critique plutôt surprenante du résultat des élections, l'oligarque en exil Boris Berëzovski qui s'est fendu d'un commentaire des plus insultants (Uk / Ru), après avoir affirmé qu'il avait soutenu et financé la révolution orange.

L’Ukraine au cœur de l’Eurasie.
Le 1er janvier 2012 entrera en vigueur l’Espace économique commun Russie-Biélorussie-Kazakhstan impliquant la liberté de circulation des capitaux et des travailleurs. L’Ukraine est fortement invitée à s’y joindre ou, du moins, à s’en rapprocher. Les Russes insistent sur « l’intérêt pour l’Europe » d’encourager la formation de ce nouveau « marché commun » opérant une sorte de trait d’union entre les parties orientales (principalement la Chine) et occidentale (Union Européenne) de l’Eurasie. 
On peut se poser la question de savoir si le futur du continent ne se dessine pas également via la création de ces deux «zones», celle Occidentale de Bruxelles et celle Eurasiatique de Moscou. Une scission entre ces deux Europes, l’Occidentale, et l’Orientale reprenant la délimitation territoriale telle que le définit le projet de sécurité Européenne proposé par la Russie qui définit dans son point 10 la zone de Vancouver à Vladivostok comme séparée en deux, avec une partie qualifiée d’Euro-Atlantique et l’autre partie qualifiée d’Eurasiatique.

Pour l’heure comme le souligne l’expert Michael Averko, la tentative d’installer le nouveau mur entre les Europes à Kiev a échoué. L’impatience de l’OTAN et son extension à l’est forcenée, ou ses différentes actions militaires anti Serbes ont finalement contribué à involontairement et indirectement améliorer l’image de la Russie.