dimanche, 06 octobre 2013
Archetipi della Russia nella lettura di Elémire Zolla
Archetipi della Russia nella lettura di Elémire Zolla
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Nel suo libro Archetipi (Marsilio, Venezia, 2002), Elémire Zolla descrive i modelli mitici con un linguaggio allusivo, quasi esso stesso simbolico, che lascia spazio all’intuito del lettore e ne sollecita il risveglio.
Il superamento del dualismo io/mondo, il senso dell’Uno-Tutto, i significati archetipici dei numeri, il continuo richiamo alla loro valenza simbolica, la loro percezione emotiva e non freddamente intellettuale, la esplicazione della loro funzione: lo studioso introduce in un mondo antico, a volte addirittura primordiale, eppure straordinariamente presente nel nostro tempo.
“Un archetipo – egli scrive – è ciò che aduna in un insieme una pluralità di oggetti, coordinandoli a certi sentimenti e pensieri. Il contatto con un archetipo non si può esprimere nel linguaggio ordinario, esige esclamativi e idiotismi, comporta una certa eccitazione. Quando una mente feriale sfiori un archetipo, smarrisce il suo instabile equilibrio e cade nella disperazione. Può capitare all’improvviso: scatta l’amore durante una recita galante, scoppia la furia nell’occasione più futile, cala la disperazione quando l’ambizione è soddisfatta, il dovere compiuto, l’affetto di tutti assicurato … Una vita del tutto sensata e disciplinata è un’utopia: crede di poter ignorare gli archetipi. L’uomo ha bisogno di assiomi per la mente e di estasi per la psiche come ha bisogno di cibo per il corpo: estasi e assiomi possono provenire solo dal mondo degli archetipi. Né bastano estasi lievi, brividi modesti: la psiche cerca la pienezza del panico. L’uomo vuole periodicamente smarrirsi nella foresta degli archetipi. Lo fa quando sogna, ma i sogni non bastano. Deve sparire da sveglio, rapìto da un archetipo in pieno giorno” (p.76).
Eppure, è difficile dare una definizione precisa ed esauriente degli archetipi. Essi sono, per Zolla, “energie formanti”, ma li potremmo anche chiamare “miti mobilitanti” che parlano alla psiche dell’uomo, “idee-forza” primordiali che si rivolgono al cuore, alle emozioni, alla sensibilità e che quindi rifuggono da un inquadramento rigido nel pensiero dialettico.
Nel quadro di un intero capitolo dedicato alla “politica archetipale”, ossia alle risonanze degli archetipi nel dominio politico, Zolla illumina anche gli archetipi che si sono manifestati nella storia russa.
“Bisanzio instillò il suo ultimo mito nella Roma teocratica, ma in Russia risorse. Certi circoli ecclesiastici vi coniarono il mito di Mosca come terza e ultima Roma. Ivan III sposò nel 1472 la nipote di Costantino Paleologo. Era come se il destino russo fosse stato suggellato quando, secondo la vecchia cronaca, gli inviati di Vladimir ispezionarono per lui l’Islam, l’Occidente e Bisanzio. Nell’Islam li colpì uno scomposto fervore, nell’Occidente non ravvisarono traccia di gloria, ma la bellezza dei riti bizantini non riuscirono a scordarla.
Ivan IV il terribile assunse il titolo di zar, parola slavonica assonante con Caesar. Nel secolo XVI fu lanciata la leggenda di Augusto che aveva assegnato la Russia a Prus, avo di Rjurik, fondatore della prima dinastia” (p.104).
Vladimir, il duca di Mosca nel X secolo: tanto è antica la vocazione bizantina della Russia. La descrizione di Zolla coincide con quella di Arnold Toynbee, ma aggiunge questa importante leggenda di Augusto che esprime un richiamo ideale diretto alle origini dell’Impero Romano d’Occidente e non solo a Bisanzio; il mito si fa storia e la storia diviene incarnazione di un mito. In questa dimensione mitica possiamo cogliere l’anima russa molto più di quanto non ci dicano le cronache, le successioni dinastiche, gli intrighi diplomatici.
L’analisi di Zolla si differenzia da quella di Toynbee quando evidenzia che il mito incrollabile degli Zar fu la liberazione dell’ortodossia prigioniera dei Turchi, la conquista di Costantinopoli chiave dell’impero ecumenico.
Nella storia e nella cultura russa, Zolla coglie due miti: quello “costantinianeo”- ossia il mito dell’Imperatore romano-orientale – e quello dell’imperatore-filosofo, di ascendenza ellenica e platonica che ha la sua riemersione nel pensiero, negli scritti e nell’opera di Giorgio Gemisto Pletone, che nel XV secolo pone il seme fecondo della fioritura del neoplatonismo “pagano” prima in Grecia, a Mistrà, poi in Italia, in occasione del suo viaggio nel 1439. Quando Bisanzio cadde, nel 1453, per mano dei Turchi, avvenne una divaricazione dei due miti: i neoplatonici greci si trasferirono in Italia, mentre il mito dell’imperatore “costantinianeo” rifiorì in Russia. Eppure, anche il mito dell’imperatore-filosofo trova una sua espressione nella storia russa: Pietro il Grande, nel 1721, abolì il patriarcato ortodosso di Mosca, proclamò la tolleranza religiosa e assunse il titolo latino di Imperator; il mito imperiale-filosofico eclissò, in quel momento, il mito dell’imperatore costantinianeo.
Caterina II, amica dei philosophes e imperatrice-filosofa, si presenta come Minerva o Astrea rediviva e riporta in terra il regno di Saturno come Augusto. Ella educa, però, il nipote da principe bizantino e per porlo sul trono si allea con Giuseppe II, l’imperatore-filosofo dell’Occidente.
“I due miti, il costantiniano e il filosofico – scrive Zolla – sedurranno alternativamente gli Zar che si troveranno sempre tutti impediti all’ultimo di raggiungere il Bosforo: Nicola I, Alessandro II, Nicola II” (p.105.)
La soggezione all’archetipo parve interrotta con la rivoluzione bolscevica del 1917 in cui Zolla coglie la manifestazione, su un piano materialistico, dell’archetipo romùleo, ossia l’irruzione di un modello di violenza e di forza distruttrice e creatrice, come Romolo si era affermato fondatore di Roma uccidendo Remo. In realtà, l’interruzione dell’archetipo fu solo una maya, come direbbero gli Indiani.
“Lo stemma bolscevico ripropone gli dèi delle rifondazioni, l’astro rosso di Marte, il martello di Vulcano, la falce di Saturno coi mannelli del suo regno restaurato. Il cranio sfondato di Trotzky conferì allo Stato proletario la compattezza che a Roma era venuta dal cadavere di Remo. Si compirono molte mosse simboliche oscure: la capitale riportata alla terza Roma, la Chiesa ortodossa ricostituita in patriarcato, il Fondatore mummificato come un faraone” (p. 105).
E ancora Zolla ricorda come l’ossessione del Bosforo rimase intatta nei colloqui fra Ribbentropp e Molotov.
Riguardo ai simboli arcaici presenti nel bolscevismo, Evola e Guénon avrebbero sicuramente parlato – come del resto fecero – di segni di una contraffazione contro-iniziatica. Gli archetipi di Marte, Vulcano e Saturno agirono nelle forme di una religione rovesciata, il “credo” dell’ateismo.
Il filo rosso della storia russa è, dunque, il costante richiamo al modello della romanità nella duplice e oscillante versione dell’imperatore costantinianeo e dell’imperatore-filosofo, fra Bisanzio e la Grecia classica, fra l’impero assolutistico di stampo più orientale e il modello romano-occidentale più tollerante e pluralista.
Comunque, pur in questa oscillazione, la Russia scelse consapevolmente di connettersi all’Impero Romano d’Oriente e di raccoglierne l’eredità, pur avendo la possibilità storica di accogliere altri modelli, come quello religioso giudaico scelto dai Kazari nel IX secolo d.C., o quello turco-islamico.
E tale costante è fondamentale per inquadrare la vocazione storica della Russia e la sua anima, nonché le basi della sua comunanza culturale con l’Europa.
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samedi, 05 octobre 2013
Obama, Kerry, Al Qaeda, and Al Shabaab: One big happy family
Obama, Kerry, Al Qaeda, and Al Shabaab: One big happy familyEx: http://www.strategic-culture.org |
by Wayne Madsen The attack by a cadre of Islamist Al Shabaab gunmen on the Israeli-owned Westgate shopping mall in Nairobi has focused attention, once again, on American and British links to Muslim terrorist groups, from Al Nusra Front and Islamic State of Iraq and the Levant terrorists fighting the Bashar al Assad government in Syria to the Somali government of Hussein Sheik Mohamed, a Muslim Brotherhood sympathizer in a country where Al Shabaab has its political and religious roots… President Obama and his «Responsibility to Protect» policy crew of UN ambassador Samantha Power, National Security Adviser Susan Rice, and deputy National Security Adviser Ben Rhodes have not only made common cause with the Al Qaeda-affiliated Jabhat al Nusra and Islamic State of Iraq and the Levant terrorists in Syria but by pressuring Kenya's government internationally have weakened Kenyan President Uhuru Kenyatta and Vice President William Ruto to battle Al Shabaab terrorists who have infiltrated Kenya from neighboring Somalia. As with the shady connections of Tamerlan and Dzkokhar Tsarnaev, the accused Boston Marathon bombers, to the CIA through their uncle Ruslan Tsarni (Tsarnaev), the former son-in-law and current business partner of longtime CIA Muslim nation provocateur Graham Fuller, there are also connections between the Al Shabaab mall shooters in Western intelligence. The Al Shabaab mall attackers in Nairobi were reportedly led on the scene by Samantha Lewthwaite, a 29-year old British white woman and daughter of a British military serviceman. Lewthwaite’s attackers reportedly included three Americans and nationals of Finland, Kenya, Britain, and Canada. Lewthwaite was married to Jamaica-born Germaine Lindsay, one of the London Underground and bus bombers killed in the July 7, 2005 terrorist attack in London. Lewthwaite met Lindsay at London’s School of Oriental and African Studies, an institution that has graduated more than a fair share of British MI-6 agents. Lewthwaite is now known as the «White Widow» and a deadly leader of the Al Shabaab cell that carried out the attack on the Nairobi mall. According to Twitter messages, allegedly sent by Lewthwaite, she claimed credit for the recent killing in Somalia of rival Jihadists led by her second husband, Osama al-Britani, a British national also known as Habib Ghani, and an American named Omar al-Hammani, also known as the «rapping Jihadist», an Alabama native also called «al Amriki», the American. The White Widow’s attack on the Rapping Jihadist’s group resembles the type of gang warfare rampant in some American cities. The attack by Al Shabaab on the Westgate mall follows a costly arson fire that devastated the international terminal at Jomo Kenyatta International Airport. Many Kenyans believe that the arson attack was the work of Al Shabaab and a psychological attack on the International Criminal Court (ICC)-indicted Uhuru Kenyatta, the son of Kenya’s founder for whom the airport is named. The elder Kenyatta was despised by Barack Obama, Sr. for not appointing him Finance Minister because of what the elder Obama charged was discrimination by Kenyatta of members of the Luo tribe. Obama could have given Kenya's government a boost by visiting the nation of his alleged father's birth during his recent trip to Africa. However, Obama has supported the ICC genocide proceedings against Kenyatta and Ruto over allegations that they were behind violence against supporters of Obama's distant cousin, Raila Odinga, during 2007 and 2008 election violence that pitted members of Ruto's Kalenjin tribe against Odinga's Luo tribe. The Kalenjins, whose loyalty had fluctuated between Odinga and Kenyatta, soon allied with Kenyatta's Kikuyu tribe against Odinga and the Luos. Obama is half Luo. Odinga lost the 2007 presidential election to incumbent president Mwai Kibaki, who was supported by Ruto and Kenyatta. Odinga, who was educated in the German Democratic Republic, became Prime Minister in a power-sharing agreement with Kibaki in 2008. Odinga and his «Orange» revolution, inspired by George Soros's «themed» revolutions elsewhere, including Ukraine, Georgia, and Kyrgyzstan, lost to Kenyatta in the 2013 election. Odinga, in a fit of pique, boycotted Kenyatta's inauguration. Odinga has the support of not only cousin Obama but also of Israeli Prime Minister Binyamin Netanyahu and President Shimon Peres. About ten Israelis were said to have been trapped inside the Westgate Mall, but all escaped early on in the siege by Al Shabaab with one having only a minor injury. Israeli Special Forces were soon on the scene and were said to be assisting Kenyan troops in battling the Al Shabaab guerrillas. Some Kenyans, inside and outside the government, said Israeli security was permitted to run the operation against Al Shabaab terrorists at the mall. Israel maintains a heavy military, financial, and intelligence presence in Kenya. The nephew of Uhuru Kenyatta, along with his fiancée, were killed in the attack, along with French, British, Canadian, Peruvian, Dutch nationals, as well as a Ghanaian diplomat were killed in the attack. Ruto successfully sought and received an adjournment of the ICC trial so that he could return to Kenya from The Hague to handle the Westgate terrorist attack. Many African leaders, including Yoweri Museveni, the President of Uganda; Attorney General of Tanzania Frederick Mwita; Prime Minister Hailemariam Desalegn of Ethiopia; and the foreign ministers of Rwanda, Burundi, and Eritrea have complained that the ICC trials of Ruto and the planned trial of Kenyatta in November are harming Kenya. Adding insult to injury, Obama bypassed Kenya on his recent trip to Africa, choosing to stop in Tanzania instead of the nation of his father’s birth, a clear vote of no confidence in Kenya and a signal to Al Shabaab in neighboring Somalia that Kenya does not have the support of the United States. The ICC proceedings against Kenyan officials are considered a joke in Kenya and elsewhere in Africa. There have been charges by African leaders that the ICC is «hunting» African leaders. Ruto and former radio journalist Joshua arap Sang have asked the ICC to transfer jurisdiction for the trial to Kenya but the Soros R2P gang has adamantly refused, even rejecting a request by the African Union to transfer the proceedings to either Kenya or Tanzania. Some prosecution witnesses have been found to be frauds. Former ICC prosecutor Luis Moreno Ocampo, who originally brought the genocide charges against Kenyatta, Ruto, and four others, himself stands accused of rape in South Africa and protecting pedophiles in Argentina. Ocampo pursued Kenyan leaders with a peculiar zeal and the support of Obama and his R2P aficionados. But, so far, the ICC has failed to get a single conviction. In addition, Ocampo's Wikipedia entry has been purged of any negative information from his past in Argentina and his sexual indiscretions in South Africa. Kenyan Industrializtion Minister Henry Kogsei, Cabinet Secretary Francis Mauthara, and Police Commissioner Mohammed Hussein Ali, three of the Ocampo’s indicted Kenyans, who all became known as the «Ocampo Six», were acquitted. The pending cases against Ruto, Kenyatta, and Sang are as weak as those brought against those acquitted. Ocampo's deputy prosecutor, Fatou Bensouda of Gambia, succeeded Ocampo as chief prosecutor in 2012. Bensouda been an apologist for her nation's dictatorial president Yahya Jammeh. Because of Bensouda’s own zeal in prosecuting Ruto, Kenyatta, and Sang, they are now called the «Bensouda Three». Secretary of State John Kerry recently hosted Somalia’s self-declared president Hussein Sheik Mohamed in Washington. Mohamed is linked to the Muslim Brotherhood in Somalia, which, in turn, has connections to Al Shabaab. Kerry elicited strong support from Mohamed for the Obama administration's support for Syrian rebels, including Al Qaeda linked rebels known to be allied with Al Shabab. Mohamed seeks to expand Islamist influence in Somalia to the more secular autonomist region of Puntland and the independent Republic of Somaliland, which has been separated from Somalia since 1991, in a «federal framework». There is no indication anywhere in the world that any radical Islamists favor federalism in any form but, instead, total submission to a radical Islamist «ummah» or nation operating under the most radical interpretations of sharia law. Al Shabaab’s peculiar brand of Islam was on display in the Westgate Mall when they asked shoppers to name the Prophet Mohammed’s mother or recite a well-known Muslim prayer in Arabic. If the shopper was unable to answer the questions posed, he or she was shot to death instantly. |
Republishing is welcomed with reference to Strategic Culture Foundation on-line journal www.strategic-culture.org. |
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Grand-messe transatlantique en Lettonie
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G. A. Zjuganov: “Il nostro Paese non può esistere senza un’idea nazionale”
G. A. Zjuganov: “Il nostro Paese non può esistere senza un’idea nazionale”
Traduzione di Luca Baldelli
Ex: http://www.statopotenza.eu
Il giorno 20 settembre, anticipando la prossima sessione plenaria della Duma di Stato, G A Zjuganov, Presidente del Comitato centrale del Partito comunista della Federazione russa, nonché capogruppo comunista presso la Duma, ha commentato il discorso tenuto il 19 settembre dal Presidente della Federazione Russa, V. V. Putin, al 10° incontro del Forum Internazionale di dibattito “Valdaj” .
Gennadij Andreevich Zjuganov
Presidente del Comitato centrale del Partito comunista, capogruppo del Partito comunista nella Duma di Stato della RF.
“Le dichiarazioni che Putin ha reso ieri al Forum “Valdaj”, le ho personalmente attese per 20 anni – ha affermato, condividendole, Gennadij Zjuganov. – Ciò dal momento che, a partire da Gorbaciov, i leaders che si sono avvicendati alla guida del nostro Paese non hanno detto nulla di tutto questo. A mio parere, questo discorso si sarebbe dovuto tenere prima davanti all’Assemblea federale e alla Nazione tutta, non solo davanti al ristretto pubblico dei rappresentanti stranieri. Credo che esso meriti particolare attenzione nel contesto della discussione che si terrà alla Duma” .
“Putin ha dichiarato, per la prima volta, che il nostro Paese non può esistere senza una idea nazionale – ha sottolineato il capo dei comunisti russi. – La Russia non può esistere senza proseguire nel solco delle sue migliori tradizioni, senza un serio dialogo tra le varie forze politiche per la costruzione di programmi e proposte articolati nell’interesse di tutti i cittadini, non solo di singoli gruppi sociali, per non parlare dell’oligarchia”.
G. A. Zjuganov ha inoltre ricordato che ricorre in questi giorni il 20° anniversario dei fatti che coinvolsero il Soviet Supremo della RSFSR (il colpo di mano di Eltsin, ndr), con tanto di attacco militare alla sede istituzionale. “Poche persone per 50 giorni resistettero alla costruzione dell’autocrazia presidenziale. Si è ripetuto e si continua ad affermare da più parti che lo Stato non dovrebbe avere la loro ideologia, la loro cultura, la loro visione dei fatti. Uno Stato senza forma né anima, uno Stato – mostro, ecco quello che da più parti si vuole; uno Stato che ha dato origine alla corruzione selvaggia e al terribile degrado della società che è sotto gli occhi di chiunque voglia vedere” – ha incalzato, con toni indignati, il leader del Partito comunista.
“Oggi si pretende di porre davanti alla storia il compito di inventare un’idea nazionale. A tal proposito, vorrei ricordare a Putin che l’idea nazionale non è né può essere il parto della testa di qualcuno. Eltsin incaricò Burbulis, Shakhraj e altri come loro di plasmare quest’ idea. Le grandi idee, però, quelle in cui le persone credono, sono sempre nate dalle lotte, dal lavoro, dal dolore, dalle vittorie, dalle sconfitte, dalle scoperte geniali” - ha rimarcato G. A. Zjuganov.
“Abbiamo creato un’idea nazionale in mille anni di storia. L’essenza di quest’idea è rappresentata da uno Stato forte, ad alto contenuto spirituale, dal senso della comunità, della giustizia naturale. Noi – il popolo della Vittoria – siamo stati in grado di sopravvivere, nella nostra storia, grazie ad una serie di trionfi che ci hanno garantito la libertà, il diritto alla terra, la tutela delle nostre credenze e convinzioni” – ha ricordato il capo comunista russo.
“Abbiamo iniziato con la grande vittoria sul lago Peipus, presso il quale sono stati sconfitti gli stessi Crociati che, in precedenza, avevano saccheggiato Costantinopoli e la Palestina. Abbiamo quindi affermato il diritto di professare la nostra fede e di sviluppare la nostra cultura. Dalla Battaglia di Kulikovo è sorto lo Stato russo; da Poltava è fiorito l’Impero russo. Abbiamo dimostrato di essere in grado di sviluppare i nostri spazi aperti, basandoci sulle nostre proprie forze” – ha continuato Gennadij Zjuganov.
“Sul campo di Borodino, poi, abbiamo dimostrato di poter battere un avversario forte che aveva raccolto sotto le sue insegne “crociati” di tutta Europa. Le tre grandi battaglie della Grande Guerra Patriottica – Mosca, Stalingrado e Orel/Kursk - hanno deciso l’esito della lotta contro le forze oscure del fascismo. In quella guerra uscirono vittoriosi l’Armata Rossa e gli ideali della Rivoluzione d’Ottobre. Voglio suggerire a Putin che è bene lavorare tutti insieme, non dimenticare una qualsiasi di queste pagine di storia. Questa è storia vera, altro che i cascami e la poltiglia del liberalismo che, imperanti per anni, hanno imposto al fondo di tutto la russofobia, l’odio verso tutto ciò che era sovietico, nazionale e genuinamente democratico”, – ha detto il leader del Partito comunista.
“Oggi, la politica interna del governo Medvedev non ha nulla a che fare con l’idea dello Stato-Nazione, con gli ideali che ci hanno assicurato la vittoria e il successo. Non ci può essere uno Stato forte quando l’ultimo immobile viene venduto, quando il 90 per cento delle grandi proprietà sono sotto il controllo degli stranieri. Lo Stato dovrebbe dare l’esempio a tutta la società nel far rispettare la legge, in primo luogo ai membri del Governo”- ha detto Gennadij Zjuganov.
“Non possono esistere uno Stato collettivista e un popolo che lo supporta e lo anima, se si dà la stura ad ogni forma di individualismo. Se tutto è predisposto e studiato per non far lavorare le persone, per deprimere le energie vive della società, se si punta tutto sulle lotterie, sui bagordi, sul gioco d’azzardo, sulle carte, come ci si può meravigliare di ciò che accade? – ha affermato G. A. Zjuganov – Inventano un programma su uno dei più importanti canali televisivi, ed ecco quel che avviene: quasi tutti si siedono in poltrona e giocano del denaro. Un Paese in cui si rincorrono ricchezze virtuali è destinato alla sconfitta. Un Paese può conoscere il successo a una sola condizione: la sua gente deve essere in grado di imparare ed inventare, affermando la propria dignità e dormendo così sonni tranquilli. Tutto questo non è contemplato nelle linee guida della nostra politica interna. Nessun Paese può sperare in qualsivoglia successo se la giustizia sociale viene calpestata. Da noi, il 10% più ricco dispone di un reddito 40-50 volte superiore a quello del 10% più povero. Un divario simile non si riscontra nemmeno nei Paesi dell’Africa. In questo senso siamo diventati lo Stato più ingiusto che esiste” – ha detto Gennadij Andreevich.
“Il nostro Paese non può essere certo prospero e solido, dal momento che il Governo di Medvedev è composto da persone che non se ne intendono di industria. Essi distruggono un settore dopo l’altro. Hanno distrutto il settore dei macchinari, quello dell’elettronica, quello della fabbricazione di strumenti di precisione. Hanno condotto alla prostrazione l’agricoltura, con il risultato di 41 milioni di ettari di terra arabile ricoperta da erbacce. Il sistema dell’istruzione, della formazione, dei tirocini è corrotto a livello di ogni scuola e tutte le famiglie ne sono coinvolte. Si è fatto di tutto per provocare l’indebolimento e la distruzione dell’Accademia delle Scienze, senza ascoltare gli scienziati e l’opposizione politica” – ha sottolineato il leader comunista.
“Purtroppo, dobbiamo registrare un divario enorme tra le parole e le azioni dei capi della Nazione. Per l’affermazione di un’idea nazionale proclamata con lo scudo e la bandiera della Federazione russa, si impone la necessità di una politica saggia ed equilibrata. Servono un nuovo corso e una nuova compagine di governo. Valuto pertanto il discorso di Putin come la giustificazione politica e ideologica di un cambiamento tanto necessario che dovrà essere portato avanti nel corso dell’anno, con le dimissioni dell’attuale Governo. Vediamo cosa accadrà . E’ importante che le idee espresse ieri da Putin siano concretamente realizzate nella vita pratica di tutti i giorni. Se così sarà, siamo pronti fin da adesso a fare la nostra parte, appoggiando il nuovo corso” – ha dichiarato, concludendo, G. A. Zjuganov.
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La presse-Système à la lumière du cas iranien
La presse-Système à la lumière du cas iranien
Ex: http://www.dedefensa.org
L’enthousiasme diplomatique fut palpable, presque visuel, autour de cet nouvel Iran-là, celui de Rouhani. Il faut reconnaître au nouveau président iranien qu’il sait y faire, et jouer par instinct de cette civilisation de l’image, de l’instant, du body language et autres fariboles qui déterminent ce que certains s’acharnent à nommer encore une “politique”. Le ministre des affaires étrangères iranien sait également y faire puisque, comme nous l’avons déjà noté (voir le 28 septembre 2013), il a réussi à faire rire aux éclats lady Ashton, digne et austère très-Haute Représentante de l’UE, lors d’une réunion à trois (Zarif-Kerry-Ashton), dans les couloirs de l’ONU, également la semaine dernière. Il est également remarquable, mais dans un registre plus sérieux et plus significatif, que ce soit les Américains qui coururent derrière Rouhani pour une poignée de main avec Obama dans les mêmes couloirs de l’ONU, que Rouhani fit savoir que le temps n’était pas encore venu, que BHO insista tant qu’il finit par agripper son interlocuteur, cette fois au téléphone, pour un entretien d’un quart d’heure largement promu par l’armée de communication de la Maison-Blanche.
Insistons sur cet aspect de la communication-récréation, qui semble avoir la faveur de l’administration Obama ... Comme nous l’observions dans le texte référencé ci-dessus, voici donc le morceau de choix de cet entretien (de Al Monitor, dans sa rubrique Back Channel, le 27 septembre 2013) : «Obama signed off on the call with a Persian goodbye, after Rouhani wished him farewell in English, the White House said. Rouhani’s Twitter account, in a tweet that was later deleted, said Rouhani told Obama in English, ‘Have a Nice Day!’ and Obama responded with, ‘Thank you. Khodahafez.’»
L’autre texte référencé de Al Monitor, du 27 septembre 2013, sur l’“offensive de charme”, mentionne diverses interventions engageantes et chaleureuses de Rohani désignées comme autant de “platitudes”, montrant manifestement une certaine insatisfaction du côté du bloc BAO. (L’auteur(e) de l’article, Barbara Slavin, est de The Atlantic Council, ce qui nous garantit de toutes les déviations.) On a même été insatisfait ce qui semble avoir été l’un des thèmes majeurs des diverses rencontres de Rouhani à New York, – savoir, Rouhani croit-il ou non à l’Holocauste ? (Nous nous permettons de souligner en gras, pour bien nous faire comprendre à tous que l’idée du “thème majeur” n’est pas un sarcasme bien mal venu de la part de l’auteur de cet article ; et l’on passera sur l’affirmation répétée pour la nième fois de faire de Ahmadinejad un “négationniste”, ce qui est une narrative et une complète inexactitude, – mais simplement par ignorance et paresse de conformisme enchaînant sur la propagande vulgaire, – par rapport aux traductions sérieuses du discours-sacrilège, incriminé, de l’ancien président.)
«On the Holocaust — an issue that came up in almost every meeting with Americans Rouhani held this week — he said that Iran condemned “the crimes by the Nazis in World War II.” He added, “Many people were killed including a group of Jewish people.” One might argue that 6 million people are hardly just a “group,” but Rouhani had already gone about as far as he apparently felt he could in trying to overcome memories of Ahmadinejad’s chronic Holocaust denial without upsetting his right flank at home.»
Cette remarque sur la position de Rouhani sur l’Holocauste éclaire deux points fondamentaux qui persistent dans la position des USA vis-à-vis de l’Iran, qui ne sont d’ailleurs pas spécifiques à l’Iran mais d’une façon générale spécifique à la position générale des USA dans le système de la communication. Ces deux points opérationnalisent l’emprisonnement plus fort que jamais des élites d’influence et de communication à la fois du conformisme de jugement aligné d’une façon quasiment obscène sur le pouvoir d’influence du Système plus encore que des directions politiques, à la fois de la croyance à des narrative qui semblent complètement imperméables à toute incursion de l’extérieur, de la simple réalité et de la vérité des situations. Les deux points cités sont, d’une part, des positions médiatiques et d’influence fondées sur des cas très souvent symboliques, et nécessairement d’un symbolisme faussaire, ce qui rend le jugement général à la fois dérisoire et trompeur ; d’autre part, une opinion générale basée sur des informations complètement déformées et extrêmement vieillies. Il s’agit d’une attitude de type pavlovienne sur le fond, la seule préoccupation des “auteurs” concernant la forme de la présentation ; leur réforme, pour ne pas parler de leur suppression, semble totalement hors de portée de l’humaine nature dans l’état où cette nature se trouve, actuellement d’une extrême pauvreté. Pour le cas de l’Iran, le premier point est mis en évidence par cette question de l’Holocauste, qui reste réellement, d’un point de vue qu’on jugera extraordinaire et surréaliste à la fois, essentiel dans l’opinion des élites d’influence sur l’Iran et par conséquent dans l’opinion qu’on est en train de se forger sur Rouhani.
Le second cas est remarquablement mis en évidence par Glenn Greenwald, qui vient de publier une de ses chroniques critiques, le 28 septembre 2013 dans le Guardian. Il s’agit de l’affirmation de Rouhani selon laquelle l’Iran ne veut pas produire d’armes nucléaires. Greenwald met en évidence une réaction caractéristique, d’un de ces journalistes “vedettes”, c’est-à-dire de la catégorie des présentateurs des grands journaux télévisés, en l’occurrence Brian Williams de NBC. Greenwald met en regard sa déclaration tonitruante (le souligné en gras est de Greenwald) et une interview d’Ahmadinejad datant du 13 août 2011 sur Russia Today. L’interview d’Ahmadinejad est l’une parmi des dizaines de déclarations des plus hauts dirigeants iraniens, y compris l’Ayatollah Khamenei par un décret religieux datant de 2005 rejetant catégoriquement la production d’armes nucléaires.
«There is ample reason for skepticism that anything substantial will change in Iran-US relations, beginning with the fact that numerous US political and media figures are vested in the narrative that Iran is an evil threat whose desire for a peaceful resolution must not be trusted ... [...] Here is what NBC News anchor Brian Williams told his viewers about this event when leading off his broadcast last night, with a particularly mocking and cynical tone used for the bolded words:
»“This is all part of a new leadership effort by Iran – suddenly claiming they don't want nuclear weapons! ; what they want is talks and transparency and good will. And while that would be enough to define a whole new era, skepticism is high and there's a good reason for it.”
»Yes, Iran's claim that they don't want nuclear weapons sure is “sudden” – if you pretend that virtually everything that they've said on that question for the past ten years does not exist.) Here, for instance, is previous Iranian president Mahmoud Ahmadinejad in an August 13, 2011, interview:
»“Q: ‘Are you saying that at some point in the future you may want to acquire a nuclear deterrent, a nuclear weapon?’
»“Ahmadinejad: ‘Never, never. We do not want nuclear weapons. We do not seek nuclear weapons. This is an inhumane weapon. Because of our beliefs we are against that.
»“Firstly, our religion says it is prohibited. We are a religious people. Secondly, nuclear weapons have no capability today. If any country tries to build a nuclear bomb, they in fact waste their money and resources and they create great danger for themselves”... “Nuclear weapons are the weapons of the previous century. This century is the century of knowledge and thinking, the century of human beings, the century of culture and logic”... “ Our goal in the country and the goal of our people is peace for all. Nuclear energy for all, and nuclear weapons for none. This is our goal.
»“All nuclear activities in Iran are monitored by the IAEA. There have been no documents against Iran from the agency. It's just a claim by the US that we are after nuclear weapons. But they have no evidence that Iran is diverting resources to that purpose.”»
Cette sorte de “journalisme” qu’illustre Brian Williams est exactement celle que dénonce Seymour Hersh, dans une interview au Guardian, le 27 septembre 2013. Hersh est l’un des meilleurs journalistes d’investigation et de révélations politiques aux USA depuis l’affaire de My Lai en 1969, – c’est-à-dire, l’un des seuls grands journalistes d’investigation politique aux USA ; et sa fureur pour l’ensemble de la “profession” éclate littéralement dans ses propos rapportés par le Guardian...
«It doesn't take much to fire up Hersh, the investigative journalist who has been the nemesis of US presidents since the 1960s and who was once described by the Republican party as “the closest thing American journalism has to a terrorist”. He is angry about the timidity of journalists in America, their failure to challenge the White House and be an unpopular messenger of truth. Don't even get him started on the New York Times which, he says, spends “so much more time carrying water for Obama than I ever thought they would” – or the death of Osama bin Laden. “Nothing's been done about that story, it's one big lie, not one word of it is true,” he says of the dramatic US Navy Seals raid in 2011...»
On a donc vu que nous entamions cette réflexion sur le cas iranien, qui est pressant et brûlant. Les enjeux politiques sont considérables et l’on devrait poursuivre dans ce sens d’explorer la possibilité qu’ils soient relevés. D’une façon différente, on voit que nous le poursuivons en passant à la question plus générale de la communication, avec l’attitude de la presse-Système (aux USA, mais le bloc BAO suit, comme d’habitude) telle qu’elle est dénoncée avec véhémence par celui qui est le plus qualifié pour juger, Seymour Hersh. En apparence, nous nous éloignons du sujet initial, en vérité nous ne le quittons pas mais veillons à le mettre dans le contexte qui, selon nous, importe le plus, qui est le contexte du système de la communication. La question iranienne est et sera traitée dans le cadre du système de la communication dans sa division presse-Système/narrative, et c’est effectivement le cadre qui importe. On verra que cela complique singulièrement le problème, au point qu’il est inutile de décrire la place qu’on doit accorder au scepticisme, qui est considérable (Greenwald : «There is ample reason for skepticism that anything substantial will change in Iran-US relations...»).
Désordre, désordre, désordre
Hersh est particulièrement vindicatif à l’encontre d’Obama et de son administration, qu’il juge sans la moindre hésitation comme la pire de toutes les administrations pour ce qui est du maniement du mensonge sous la forme de narrative pleines d’attrait pour le conformisme régnant. Cette situation se comprend d’un point de vue qu’on dirait “technique”, par le fait que la presse-Système, face à Obama et à ses “mignons”, ne cherche même plus à débusquer ce qu’il peut y avoir de faussaire dans l’information-narrative qui leur est présentée, mais au contraire y collabore activement.
«The Obama administration lies systematically, he claims, yet none of the leviathans of American media, the TV networks or big print titles, challenge him. “It's pathetic, they are more than obsequious, they are afraid to pick on this guy [Obama],” he declares in an interview with the Guardian. “It used to be when you were in a situation when something very dramatic happened, the president and the minions around the president had control of the narrative, you would pretty much know they would do the best they could to tell the story straight. Now that doesn't happen any more. Now they take advantage of something like that and they work out how to re-elect the president...”
Nous comprenons parfaitement la fureur et la rage vindicative de Hersh, travaillant depuis plus de quarante ans à débusquer diverses vérités de situations systématiquement noyées sous les narrative développées par les services adéquats. Pour autant, il n’est pas assuré que la servilité du caractère soit la cause centrale du phénomène. Elle joue sans aucun doute un rôle important, de même qu’elle joua pendant une période transitoire le rôle essentiel. Mais notre appréciation est que cette servilité a peu à peu perdu son caractère exclusif et même son caractère essentiel dans le comportement de ces créatures, qu’elle a été remplacée dans l’explication de leur comportement par une attitude plus active, plus spécifique, – une attitude qu’on pourrait qualifier, dans une expression absolument paradoxale par l’inversion du sens qu’elle implique, de plus indépendante (du pouvoir).
On comprendra ce que nous voulons dire au travers de certaines expressions employées par Hersh, sans nécessairement en suivre le sens jusqu’au bout («The New York Times [...] spends “so much more time carrying water for Obama than I ever thought they would”», «Now they take advantage of something like that and they work out how to re-elect the president...»). Hersh signifie par là que les pions de la presse-Système vont au-devant des narrative qui leur sont servies et collaborent activement à leur développement. Ils en sont même à agir dans ce sens, – justement, on retrouve l’expression paradoxale mentionnée plus haut, – presque indépendamment de l’action des services de communication du pouvoir, voire sans nécessité de consultation, ou d’impulsion de ces services. C’est un peu comme si ces pions disposaient d’un thème, – la narrative à laquelle tout le monde souscrit, – et qu’ils l’exploitaient de leur côté, d’une façon indépendante, peut-être jusqu’au point où ils créent leur propre variation sur ce thème, peut-être jusqu’au point où le pouvoir et ses services de la communication n’en demandaient pas tant ... C’est ce dernier point qui est intéressant.
Revenons à Greenwald et à la performance de Williams. Acceptons l’hypothèse très plausible qu’Obama cherche effectivement un arrangement avec l’Iran. (Très plausible, à cause de la faiblesse d’Obama, de ses crises intérieures qui l’accablent, des déconvenues qu’il rencontre dans ses aventures extérieures qui déplaisent de plus en plus au public US, donc de l’intérêt qu’il finit par admettre pour lui-même qu’il a à tenter de résoudre pacifiquement certaines de ces crises extérieures, – exercice difficile pour lui, mais quoi, – avec l’éventuel regain de popularité qui va avec.) Dans le cas de cette hypothèse, on comprend que “la performance de Williams”, avec les comportements de cette sorte qui sont légion au sein de la presse-Système, n’est pas d’une très grande aide pour Obama ... Si cette sorte de comportement se poursuit, – et qui peut faire croire qu’il en serait autrement en raison de l’attraction manichéenne de la narrative, – il va devenir un vrai handicap pour BHO ...
L’hypothèse ainsi envisagée est que la presse-Système n’est plus enchaînée à une servilité qui l’irrite de plus en plus devant l’erratisme et le chaos des politiques conduites par les directions de même qualificatif, notamment celle des USA. La presse-Système aime nombre des narrative qui lui sont offertes, qu’elle a suivies d’abord par servilité bien entendu, mais qu’elle continue à suivre par facilité, paresse et goût de la simplicité autant que de manichéisme sensationnaliste et nécessairement extrémiste. De ce point de vue, l’administration GW Bush avait une bien plus grande faveur de la presse-Système, à cause du simplisme extrémiste de son président, que celle d’Obama dont l’extrémisme, – pire à bien des égards que celui de Bush, – s’accompagne d’un intellectualisme arrogant et se marque de nombreuses circonvolutions en même temps qu’elle subit l’affaiblissement catastrophique des USA marqué par l’impuissance de l’action. Ainsi la presse-Système défend-elles “ses ” narrative même si certaines d’entre elles commencent à s’avérer contre-productives pour le pouvoir, – comme pourrait l’être celle qui concerne l’Iran, qu’on a appréciée ci-dessus. Ainsi la presse-Système (re)devient-elle “indépendante”, bien entendu sans le moindre intérêt pour la vérité de la situation, et pour le moindre travail sérieux de journaliste. A cet égard, la presse-Système n’a rien à voir avec l’information, et tout avec le spectacle, la promotion, la mise en scène publicitaire, etc.
Un exemple a contrario et extrême, où la presse-Système rencontre par hasard la vérité de la situation, et une posture antiSystème, est celui de la crise Snowden/NSA. Dans ce cas, la presse-Système a suivi après un temps d’invectives anti-Snowden conforme à ses mœurs, le cours antiSystème dans le chef de l’attaque contre la NSA. Hersh-le-furieux le reconnaît d’ailleurs implicitement : «Snowden changed the debate on surveillance. [Hersh] is certain that NSA whistleblower Edward Snowden “changed the whole nature of the debate” about surveillance. Hersh says he and other journalists had written about surveillance...» ; mais il ajoute aussitôt une réserve de taille sur le fait que cette affaire ne change rien à la nature de la presse-Système («He isn't even sure if the recent revelations about the depth and breadth of surveillance by the National Security Agency will have a lasting effect»)... Hersh n’a pas tort sur l’ensemble de la thèse, mais tout montre néanmoins que sur cette narrative Snowden/NSA, dans ce cas antiSystème, la presse-Système poursuivra dans le sens actuel, – simplement parce que la narrative “marche”, qu’elle est une bonne “marchandise”, bonne pour “le spectacle, la promotion, la mise en scène publicitaire, etc.”. La poursuite de cette voie, on le comprend, n’est pas favorable au pouvoir ni au Système en général, et la servilité n’est plus une explication satisfaisante.
Ainsi, ce qu’on nomme la presse-Système suivrait-elle une mue complète qui ne fait pas d’elle seulement un instrument du pouvoir politique et du Système que ce pouvoir sert, même si en nombre d’occasions elle remplit effectivement cette fonction. D’un certain point de vue, la servilité complète où la presse-Système s’est abîmée après le 11 septembre 2001, – d’ailleurs fort bien préparée à cela, – ne serait qu’une étape dont elle a évidemment conservé beaucoup, l’aboutissement étant finalement de devenir une créature complète du système de communication avec les aléas qui caractérise ce système (dont les aspects antiSystème qu’on lui connaît lorsqu’il est en mode-Janus). L’aboutissement final de la presse-Système est cette “indépendance” à la fois caricaturale et paradoxale, où elle réclame d’abord l’exploitation spectaculaire et publicitaire des narrative qui lui tiennent lieu d’objet professionnel, certaines de ces narrative (Snowden/NSA) pouvant être antiSystème.
Face à cette situation qu’il ne réalise pas d’une façon consciente bien entendu, aussi nettement qu’elle est exposée, le pouvoir politique est de plus en plus embarrassé et pas loin d’être impuissant. C’est un lieu commun de constater le déclin accéléré de la puissance US, et c’est le pouvoir politique (l’exécutif) qui est touché le premier, qui est affaibli, qui a moins de capacités d’influence, notamment sur la presse-Système ; d’autre part, cette situation interdit de plus en plus la sorte de narrative simpliste et manichéenne, de type publicitaire, dont la presse-Système fait son miel, d’où cette certaine distance établi entre l’un (le pouvoir exécutif) et l’autre (la presse-Système) malgré la servilité avérée de la seconde. La presse-Système représente désormais un outil d’un système de la communication dont les narrative peuvent aussi bien se placer en position antagoniste de l’action d’un pouvoir qui n’a plus “les moyens de suivre”. On a pu voir, lors de la phase paroxystique récente de la crise syrienne (21 août-10 septembre), combien la presse-Système pouvait se montrer critique, voire méprisante, pour un président qui zigzague, qui n’ose pas attaquer, qui se défausse sur le Congrès, qui se précipite sur l’initiative Poutine pour s’y abriter, etc.
.. Or, ce même pouvoir, devant lequel se couche en principe la presse-Système et qui, pourtant, paraît déconnecté d’elle en des occurrences de plus en plus avérées, est aussi paralysé devant elle, – comme il l’est devant le Congrès, devant l’opinion publique, devant Poutine, etc., comme l’est en général l’infiniment tortueux Barack Obama. D’où, pour en revenir au cas débattu en tête de cette analyse, notre scepticisme pour le cas iranien, d’autant que l’arrangement avec l’Iran, sous la pression de la narrative courante, devrait être fait à l’avantage complet du bloc BAO, en exigeant des concessions iraniennes qui ne se feront pas, donc en repoussant Rouhani de sa position de compromis vers une position beaucoup plus dure ... La presse-Système soutiendra le principe du rapprochement avec l’Iran pour sacrifier à l’image de modéré de Rouhani tout en accablant l’Iran de tous les maux et en exigeant l’impossible sous la forme de concessions sans nombre.
Pour compléter ce dossier iranien et argumenter que les circonstances autour de l’arrivée de Rouhani ont néanmoins modifié certains aspects fondamentaux de la crise, on avancera également l’hypothèse que les blocages subsistant pour un règlement de cette crise ne profiteront pas pour autant à Israël, dont la recherche d’une possibilité d’attaque de l’Iran en a été jusqu’ici le principal enjeu. Il semble bien que le seul résultat effectif du contact rétabli avec l’Iran de Rouhani est bien celui d’avoir dédramatisé en bonne part cette crise, d’avoir dé-“diabolisé” l’Iran en la personne de son président (voir 30 septembre 2013) et, par conséquent, d’avoir rendu notablement hors de propos la perspective d’une attaque. C’est précisément ce que déplore DEBKAFiles, le 27 septembre 2013, en des termes rooseveltien (le «Thursday, Sept.26, will go down in Israel’s history as the day it lost its freedom to use force...» ci-dessous pourrait équivaloir à une sorte de «December 7, 1941 will live in history as a day of infamy...») :
«Thursday, Sept.26, will go down in Israel’s history as the day it lost its freedom to use force either against the Iranian nuclear threat hanging over its head or Syria’s chemical capacity – at least, so long as Barack Obama is president of the United States. During that time, the Iranian-Syrian-Hizballah axis, backed by active weapons of mass destruction, is safe to grow and do its worst. Ovations for the disarming strains of Iran’s President Hassan Rouhani’s serenade to the West and plaudits for the pragmatism of its Foreign Minister Mohammed Zarif flowed out of every window of UN Center in New York this week....»
Les “journalistes” de la presse-Système se sont transformés en créatures publicitaires, animateurs de talk shows, créatures d’images et créateurs d’images virtuelles, dépendantes bien entendu du corporate power qui attendent d’eux qu’ils se comportent en GO (Gentils Organisateurs) des festivités du Système, y compris les “nouvelles du monde“ présentées sous une forme attrayante en allant à l’essentiel (Pussy Riot, mariage gay, etc.) ; créatures de l’instant, animées par la logique de la publicité, faisant une de leur plus grande gloire d’une complète ignorance des références politiques et historiques puisque, selon le mot fameux d’un officiel de l’administration GW Bush de 2002 rapporté par Ron Suskind (voir le 23 octobre 2004), – «We're an empire now, and when we act, we create our own reality» (alors, pourquoi s’épuiser à étudier la “vraie réalité”, la vérité du monde ?).
Alors, ces créatures publicitaires tiennent terriblement à leur narrative et elles n’apprécieraient guère un président qui leur dirait «... And when we act, we don’t create our own reality», – ce qui est de plus en plus cas de l’administration BHO. Par conséquent, ces serviteurs serviles du Système, donc du pouvoir représentant le Système, essentiellement en 1999-2001 jusqu’à 2008 et après, suivent de moins en moins les consignes ou narrative du pouvoir, préférant les leurs propres. Littéralement, la presse-Système n’a plus vraiment d’orientation. Si l’on en revient à l’épisode syrien, où elle s’est plutôt opposée à Obama dans l’entreprise de bloquer l’attaque contre la Syrie, on peut conclure des diverses observations de la situation (voir le 25 septembre 2013) qu’elle n’a fait que se ranger dans le sens du “bruits de communication”, qui fut généré finalement par la conjonction de la presse antiSystème, par le public, par un nombre croissant de parlementaires songeant à leur réélection et fatigués des expéditions lointaines. Elle a dédaigné la narrative de l'équipe BHO, remarquable par sa confusion.
Les rares exceptions échappant à cette dérive de la presse-Système vers le néant publicitaire sont le plus souvent le résultat d’une sorte d’investissement par des éléments de la presse antiSystème. C’est le cas flagrant du Guardian, qui tient le rôle moteur qu’on sait dans la crise Snowden/NSA, à cause d’un seul homme ; Glenn Greenwald, venu de la presse antiSystème et y ayant gardé un pied, a forcé le quotidien britannique à tenir un rôle éminent et éminemment politique contre le Système (cela, en mettant à part le reste de son activité éditoriale, qui tente désespérément de balancer cette terrible dérive antiSystème qui l’emporte irrésistiblement, d’ailleurs avec l’aide des agents de renseignement type Dupont-Dupond à chaussures cloutées qui le harcèlent grossièrement et renforcent la cause de Greenwald).
La presse-Système, minée par son absolue servilité et finalement retranché dans la bulle de narrative que lui suggèrent de suivre son orientation d’objet publicitaire et de relations publiques, est entrée dans une époque où elle n’est plus un facteur politique décisif, où elle est devenue un facteur de désordre de plus en orientant son action vers la seule réaction à des stimuli d’ordre effectivement publicitaire et de relations publiques, sans plus aucune cohérence idéologique, fût-ce de l’idéologie la plus extrémiste et la plus pro-Système possible. Elle est désormais inscrite dans le grand courant de l’irresponsabilité sans directivité définie qui caractérise nombre de centres de pouvoir et de producteurs de puissance du bloc BAO et du Système en général. Elle est partie prenante du grand désordre général ; bref, elle sert finalement à quelque chose ...
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Qual è il vero significato delle «Favola delle api» di Bernard Mandeville?
di Francesco Lamendola
Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]
Il successo, la ricchezza, la potenza degli individui e delle nazioni, si possono ottenere con la pratica intransigente della virtù; oppure l’egoismo, l’inganno e la violenza sono gli ingredienti necessari per raggiungerle e conservarle?
Bella domanda; domanda impertinente. E impertinente, infatti - anzi, sommamente impertinente, per non dire irritante - è «La favola delle api» di Bernard Mandeville (1670-1733), un medico di origine olandese trasferitosi in Inghilterra, che trasse la sua opera filosofica più famosa da quella che era, in origine, una poesia: «The Grumbling Hive: or, Knaves Turn’d Honest», che, dopo un processo di gestazione e rielaborazione durato quasi cinque lustri, vide infine la luce a Londra, nel 1729, con il titolo definitivo di «The Fable of the Bees: or, Private Vices, Public Benefits».
Per farsi un’idea della spregiudicatezza del tono adottato dall’Autore, basterà riportare qui la conclusione (da: B. Mandeville, «La favola delle api», traduzione dall’inglese di Maria Goretti, Firenze, Casa Editrice Felice Le Monnier, 1969, XXXI, vv. 409-433, pp. 54-55):
«Lasciate, quindi, le lamentele! Soltanto gli sciocchi si sforzano di fare del grande alveare del mondo un alveare onesto. Godere delle gioie della terra, essere rinomati nella guerra, e ancora vivere in pace, sena grandi vizi è soltanto utopia vana, esistente solo nell’immaginazione. È necessario che la frode, il lusso e la vanità sussistano, se noi vogliamo averne in benefici: allo stesso modo la fame è certo un terribile tormento, ma come digerire e prosperare senza di essa? Non dobbiamo il vino alla vigna, magra, brutta, contorta? La stessa, se i polloni sono lasciati stare, soffoca altre piante e diviene solo legna da bruciare; ma se i rami sono pareggiati e tagliati, subito diviene fecondo e ci dà la benedizione del suo nobile frutto: allo stesso modo il vizio risulta beneficio, purché sia rattenuto e nettato del superfluo dalla Giustizia; anzi, qualora un popolo voglia essere grande, il vizio è necessario in uno Stato come la fame è necessaria per obbligarci a mangiare. La sua pura virtù non può rendere mai una nazione celebre e gloriosa; coloro che vorrebbero far rivivere l’età dell’oro debbono accettare con la virtù il cibo dei porci.»
Ce n’è abbastanza per mettere tremendamente a disagio il lettore, tanto più se questi appartiene alla specie degli ipocriti, abituati a predicare bene e razzolare male, ma niente affatto disposti a vedersi smascherati così brutalmente dal primo venuto; e Dio sa se, nella Londra e nell’Inghilterra dei primi decenni del Settecento, in piena espansione commerciale e finanziaria, e già in procinto di varare, con mezzo secolo di anticipo sul resto del continente, la propria rivoluzione industriale, una tale specie umana non era ampiamente diffusa e generosamente rappresentata sia nella società civile, che nelle istituzioni e nel Parlamento.
Mai come in questo caso, infatti, per comprendere il senso di uno scritto filosofico – che pure ci sottopone una questione di portata universale – è necessario contestualizzarlo: perché si rischierebbe di non comprendere i veri termini della questione, o, peggio, di fraintenderli completamente, se non si tenesse presente a quale genere di pubblico aveva l’ardire di rivolgersi il suo autore; vale a dire, quale razza di farisei ipocriti aveva deciso di prendere di mira e di sferzare senza troppi complimenti.
Un Paese in piena espansione, dunque; un Paese che si stava giocando, e che stava vincendo, niente meno che la grande partita per il controllo dei traffici internazionali, forte della marina più agguerrita e numerosa del mondo; un Paese governato con un singolare miscuglio d’intraprendenza, audacia, fortuna e assoluta mancanza di scrupoli, unite a una buona dose d’improntitudine; le cui banche stavano allungando i loro tentacoli sul mondo, le cui navi stavano saccheggiando le materie prime dei cinque continenti, le cui merci ad alto costo stavano invadendo i mercati del globo terracqueo, e le cui dottrine politiche liberali e costituzionali si stavano diffondendo con pari successo, magari al rombo dei cannoni, e preparavano il terreno per potersi poi imporre, con la calma, ma con piglio sicuro, uno dopo l’altro in tutti i Paesi del mondo, presentando sé stesso come modello inarrivabile di benessere, di progresso, di civiltà.
Ma ci piace dare la parola al filosofo Emanuele Riverso, abbastanza recentemente scomparso, per la chiarezza e la lucidità del quadro che sa tratteggiare sia della società inglese, sia del modo in cui fu accolto il capolavoro di Mandeville (da: E. Riverso, «Forme culturali e paradigmi umani. Le tappe del pensiero filosofico e pedagogico nella cultura occidentale», Roma, Edizioni Borla, 1988, vol. 2, pp. 304-305):
«L’opera suscitò un putiferio, perché fu accusata di essere una esaltazione o descrizione cinica del vizio. In realtà essa lacerava quel velo di autocompiacimento»e di auto-approvazione morale che gli scrittori dotti, i pubblicisti politici e gli autori di orientamento religioso distendevano sulla società del tempo, creando la buona coscienza in quanti spregiudicatamente si dedicavano alle speculazioni ed agli affari, sconvolgendo le antiche strutture rurali, urbane, produttive, commerciali e morali e creando masse di diseredati, di frustrati, di angosciati, che si addensavano intorno ai centri urbani e presso i nuovi centri minerari e industriali.
Mandeville volle soltanto spiegare che l’enorme prosperità globale dell’Inghilterra del tempo non poteva essere considerata come un premio o la conseguenza di una benedizione divina (secondo la tesi puritana e calvinista in genere che faceva della prosperità materiale un segno di benedizione e di predestinazione), ma nasceva dal cumulo e dall’interazione di attività e intenzioni individuali che, singolarmente prese, e dal punto di vista cristiano,non potevano essere considerate altro che vizi: i vizi privati (avidità, egoismo, spregiudicatezza, avarizia, lussuria) nel contesto libertario dell’Inghilterra dell’epoca, davano luogo a un dinamismo globale, che nel suo insieme produceva ricchezza e prosperità. Era una tesi realistica, l’esame realistico di una società che, al di sotto delle dichiarazioni ufficiali conformi ai valori cristiani, si andava adattando a valori nuovi di profitto, di ricchezza, di dominio e di prestigio economico. Non era meglio esaminare il fatto sociale per quello che realmente era anziché utilizzare finzioni ed ipotesi normative? Non era meglio tener conto delle reali intenzioni delle persone, quando si doveva procedere a iniziative pubbliche, e mettere da parte le ipocrisie, per ordinare in modo più efficace le azioni di governo?
Scrittori, ecclesiastici, moralisti e letterati reagirono violentemente allo scritto di Mandeville, accusandolo di essere un difensore del vizio. Uno di loro, John Dennis, disse di lui che “il vizio e la lussuria hanno trovato un campione e difensore che mai prima avevano trovato; un altro, William Law, disse che l’intento di Mandeville era quello di “liberare l’uomo dalla SAGACIA dei moralisti dal dominio della virtù e ricollocarlo nei diritti e privilegi della brutalità; di richiamarlo dalle vertiginose altezze della dignità razionale e della rassomiglianza con gli Angeli, per farlo andare nell’erba o a rotolarsi nel fango” (in “Remarks upon a Late Book, entituled, The Fable of the Bees, London 1726, p. 6).
Come si presenta oggi, l’opera di Mandeville, che è una delle più significative della storia del pensiero del settecento, comprende una prefazione, una composizione poetica in trenta strofe intitolata “L’alveare brontolone” o “Gli schiavi divenuti onesti”, in cui descrive la vita inglese del settecento con le assurdità, le angosce, gli sconvolgimenti, gli egoismi, la spietatezza tipici del tempo in cui andavano maturando le condizioni per la prima rivoluzione industriale. Segue una breve Introduzione ed una “Ricerca sulla natura della società”. La sua conclusione era che “né le qualità amichevoli e gli affetti gentili che sono naturali agli uomini, né le virtù reali che egli è capace di acquisire mediante la ragione e l’abnegazione, sono il fondamento della società; ma ciò che chiamiamo Male in questo mondo, tanto morale che naturale, è il grande principio che ci rende creature sociali, la solida base, la vita ed il sostegno di tutti i commerci e le attività senza eccezione: è lì che dobbiamo cercar la vera origine di tutte le arti e le scienze e nel momento in ci il Male cessa, la società so deve impoverite, se non dissolversi” (Mandeville, “The Fable of the Bees”, Pelican 1970, p. 370).»
Ammirevole franchezza, dunque; alla quale non ci sentiamo di aggiungere se non che il trionfo del male nelle attività economiche non è una condizione fatale e necessaria, ma il risultato di un certo modello di economia (e di politica): perché una cosa è, ad esempio, una organizzazione economica, giuridica e sociale che, come quella medievale e pre-moderna, proibisce o scoraggia l’usura e che fonda, con il Banco dei Paschi di Siena, la prima banca non speculativa del mondo; e un’altra cosa, e ben diversa, è una organizzazione economica, giuridica e sociale, come quella del nascente capitalismo inglese, che innalza la più spietata concorrenza al rango di legge ineluttabile e universale, che indica il profitto quale unico criterio di misura della bontà di una determinata iniziativa, che fonda la prima grande banca speculativa del mondo.
Insomma: non è un fatto di natura che lo sviluppo dell’economia si fondi sull’egoismo, sulla brutalità, sul cinismo: non qualunque tipo di economia porta a tali esiti, o non nella stessa misura; si tratta, invece, di una caratteristica specifica di un determinati modello di economia, quello basato sullo strapotere finanziario, sulla massimizzazione dei profitti ad ogni costo, sulla riduzione e la degradazione dell’uomo e del lavoro in una merce come qualunque altra. E non è certo un caso se, mezzo secolo dopo che era apparso lo “scandaloso” apologo di Mandeville, l’economista Adam Smith avrebbe teorizzato che dalla somma degli egoismi individuali discende, misteriosamente, anche la prosperità collettiva; e avrebbe tirato in ballo, con pochissimo rigore logico, una non meglio specificata “mano invisibile” per illustrare tale concetto. Perché nella cultura inglese, e specialmente in quella di matrice calvinista, è sempre stata vivissimo il bisogno di drappeggiare il nudo e crudo perseguimento dell’interesse individuale, squisitamente egoistico, di belle formule miranti a dimostrare che non c’è alcuna contraddizione con l’esigenza del bene comune. Non aveva John Locke posto la proprietà privata fra i diritti NATURALI dell’uomo? Ogni azione egoistica dell’individuo, purché questi sia formalmente timorato di Dio (il Dio dei puritani), trova sempre la sua giustificazione e perfino la sua glorificazione, in nome del progresso e del benessere collettivi. Così, ad esempio, gli “Highlanders” scozzesi, e con loro gli ultimi giacobiti, venivano massacrati fino all’ultimo sangue, perché anche le aree più “arretrate” delle Isole Britanniche si aprissero agli incomparabili vantaggi della modernità, del commercio e dell’industria; così i Pellerossa del Nord America venivano irretiti in trattati menzogneri, ingannati e, infine, braccati come bestie feroci, a maggior gloria dei Padri pellegrini e del manifesto destino civilizzatore dei coloni britannici.
La cultura nordamericana ha ereditato in pieno questa tendenza all’autocompiacimento ipocrita e non ha saputo nemmeno sbarazzarsi dell’ormai logoro paravento religioso: basta ascoltare il discorso di insediamento di un qualsiasi presidente degli Stati Uniti; basta udire le invocazioni a Dio affinché benedica l’America, nel momento in cui essa si appresta a perpetrare delle ingiustificabili guerre di aggressione, con la scusa di voler diffondere la democrazia e la libertà di commercio (cioè la libertà d’imporre un commercio ineguale, a tutto svantaggio degli altri), per udire la stesa nota falsa e stridente, per avvertire immediatamente la stessa sfacciata ipocrisia che si nascondeva dietro i bei discorsi di un William Pitt il Vecchio durante la guerra dei Sette Anni.
Non la sfrontatezza di Mandeville nel celebrare il vizio, dunque, ma la sua aspra sincerità nel mostrare «di lacrime grondi e di che sangue» la formula del successo economico e politico, è la cifra giusta per comprendere la «Favola delle api»; anche se permane – perché negarlo? – una vaga sensazione di ambiguità circa le sue reali intenzioni. Così come ci si è chiesti, infatti, sino a che punto George Berkeley aborrisca da quel libero pensiero che aggredisce con argomenti così pericolosamente simili a quelli dei suoi avversari, ci si può chiedere - e la domanda non è indiscreta - fino a che punto Mandeville abbia voluto davvero indossare i panni severi del moralista. Tuttavia, perché fare il processo alle intenzioni? È più importante che almeno una voce, nell’Inghilterra del XVIII secolo, abbia avuto la franchezza di scoprire gli altarini d’una classe dirigente cinica e falsa...
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L’Europe de l’Ouest aux mains de Poutine
L’Europe de l’Ouest aux mains de Poutine
par Valentin Vasilescu
Ex: http://www.avicennesy.wordpress.com
L’Europe occidentale a immédiatement à faire un choix crucial. Soit attaquer la Russie pour saisir et exploiter les ressources d’hydrocarbures dans l’Arctique, soit accepter la dépendance totale vis à vis du gaz russe, selon le modèle allemand.
Sur une carte des réserves pétrolières et gazières mondiales connues en 2000, nous voyons que l’économie de l’Europe occidentale (dans une moindre mesure la France, le Portugal, l’Espagne et l’Italie) tourne avec les hydrocarbures de la mer du Nord.
Sur une carte avec la délimitation des zones économiques exclusives, on observe que le pétrole et le gaz en mer du Nord appartiennent, en priorité, au Royaume-Uni et à la Norvège, en petite partie au Danemark et aux Pays-Bas et très peu à l’Allemagne. BP détient le monopole de l’exploitation en association avec les américains Amoco et Apache et avec la société d’état norvégienne Statoil.
Il est intéressant de noter que de 2007 à 2012, l’extraction de pétrole et de gaz aux Pays-Bas était 2,5 fois plus faible. Ce qui démontre que, après 50 ans d’exploitation sauvage du gisement les réserves pétrolières de la Mer du Nord seront complètement épuisées dans les deux prochaines années. Ceci va générer une crise énergétique qui entrainera l’effondrement de l’économie de l’UE. L’Allemagne a été la première à tenter de résoudre ce problème à l’avance en collaborant avec la Russie à la construction du gazoduc NorthStream.
La presse internationale a demandé au président russe Vladimir Poutine s’il avait des plans à long terme. Il a déclaré que pour lui la Russie n’est pas un projet, la Russie est un destin. Avec la découverte de l’énorme gisement russe de Yuzhno- Karski , situé au nord de la mer de Barents, accumulant 75% des réserves de pétrole et de gaz de l’Arctique, les États membres de l’OTAN de cette zone de Europe pourraient avoir la tentation de vouloir l’exploiter par la force , en violant le droit de propriété souveraine de la Russie, pensant que les Etats-Unis leur viendront en aide. Mais l’article 5 du Traité de l’Atlantique Nord, signé à Washington le 4 Avril 1949 se lit comme suit : " Les parties conviennent qu’en cas d’attaque armée contre l’un d’entre eux, chacun d’entre eux soutiendra la partie attaquée en décidant individuellement et /ou conjointement avec les autres parties, toute action qu’elle jugera nécessaire, y compris l’utilisation de la force armée ".
Donc en cas d’agression contre la zone arctique de la Russie, d’un pays de l’OTAN, les Etats-Unis n’interviendraient pas forcément, et s’ils le faisaient, ils subiraient la défaite la plus cuisante de leur histoire. Parce que les forces armées américaines reposent sur sa flotte capable de projeter la force militaire au plus près de l’adversaire. Or la zone arctique russe n’est pas la Yougoslavie, l’Irak, la Libye ou la Syrie et les porte-avions, les navires amphibies de débarquement du corps des Marines (porte-hélicoptères), les destroyers et les navires d’approvisionnement ne peuvent pas opérer dans l’océan gelé de la banquise. Et le rayon d’action de l’aviation embarquée sur les porte-avions déployés dans des bases de l’OTAN en Europe du Nord est insuffisant pour frapper la moindre cible dans l’Arctique russe. Malgré tout, la Russie est préparée à toute éventualité, avec dans la zone, un dispositif militaire terrestre, naval et aérien impressionnant.
http://romanian.ruvr.ru/2013_09_27/Planul-SUA-pentru-controlul-asupra-nordului-Europei-2308/
Traduction Avic
Par Valentin Vasilescu, pilote d’aviation, ancien commandant adjoint des forces militaires à l’Aéroport Otopeni, diplômé en sciences militaires à l’Académie des études militaires à Bucarest 1992.
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vendredi, 04 octobre 2013
Putin saluta il tradizionalismo, nucleo dell’identità nazionale della Russia
Putin saluta il tradizionalismo, nucleo dell’identità nazionale della Russia
RIA Novosti & http://www.statopotenza.eu
Il presidente russo Vladimir Putin propaganda il tradizionalismo come cuore dell’identità nazionale della Russia, lamentando minacce come la globalizzazione e il multiculturalismo, l’unità per un “mondo unipolare” e l’erosione dei valori cristiani, tra cui un esagerato concentrarsi sui diritti delle minoranze sessuali.
“Senza i valori al centro del cristianesimo e delle altre religioni del mondo, senza norme morali plasmate nel corso dei millenni, i popoli perderanno inevitabilmente la loro dignità umana“, ha detto Putin, rivolgendosi a diverse centinaia di funzionari russi e stranieri, studiosi e altre figure pubbliche in una conferenza promossa dal Cremlino nella Russia nordoccidentale. In un discorso e una sessione aperta della durata di oltre tre ore, Putin ha criticato aspramente “i Paesi euro-atlantici“, dove “ogni identità tradizionale,… tra cui l’identità sessuale, viene rifiutata.” “C’è una politica che equipara le famiglie con molti bambini a famiglie dello stesso sesso, la fede in Dio alla fede in Satana“, ha detto durante la 10.ma riunione annuale del cosiddetto Valdai Club, trasmessa in diretta dalla televisione russa e dai siti di informazione. “Il diritto di ogni minoranza alla diversità deve essere rispettata, ma il diritto della maggioranza non deve essere messa in discussione“, ha detto Putin.
Putin si orienta verso una retorica conservatrice da quando è tornato al Cremlino per la terza volta, nel 2012, dopo un periodo di quattro anni come Primo ministro. Ha promosso regolarmente i valori tradizionali nei discorsi pubblici, una mossa che gli analisti politici vedono come tentativo di mobilitare la base elettorale conservatrice di fronte al crescente malcontento pubblico e al rallentamento dell’economia. Molti valori liberali criticati nel suo discorso sono stati associati alla classe media urbana, forza trainante delle grandi proteste anti-Cremlino a Mosca, dopo le controverse elezioni parlamentari alla fine del 2011.
Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Zwitserse leger oefent op uiteenvallen Frankrijk door financiële crisis
Zwitserland houdt serieus rekening met instorten eurozone en vluchtelingenstroom
Zwitserland wil maar liefst 100.000 militairen kunnen inzetten om het land te beschermen tegen de eventuele instorting van de eurozone.
Burgers in de Europese Unie worden nog altijd zoveel mogelijk in het ongewisse gelaten over de ware aard van de crisis, maar in de buurlanden ziet men heel goed waar de huidige ontwikkelingen toe kunnen leiden. Het Zwitserse leger oefende in de zomer met een scenario waarin Frankrijk als gevolg van de crisis uiteenvalt, en paramilitairen uit het afgesplitste 'Saônia' dreigen met een invasie van Zwitserland.
'Oorlog tussen Frankrijk en Zwitserland'
De Zwitserse oefening had de eigenaardige naam 'Duplex Barbara' gekregen. De plot: door de crisis valt Frankrijk in de nabije toekomst in meerdere delen uit elkaar. De regio 'Saônia', in de Franse Jura en Bourgondië, geeft Zwitserland de schuld van alle ellende, en dreigt met een invasie als de Zwitsers weigeren het 'gestolen geld' terug te geven. De paramilitaire 'Brigade van Dijon' trekt richting de grens op, en de media berichten wereldwijd over 'Oorlog tussen Frankrijk en Zwitserland'.
De oefening vond niet geheel toevallig plaats in een periode dat de regering in Parijs vanwege een belastingruzie de druk op de Zwitserse banken opvoerde. Brigadier Daniel Berger ontkende echter dat de oefening iets met Frankrijk te maken had. 'De oefening werd al voorbereid toen de betrekkingen met Frankrijk minder gespannen waren. De Franse steden worden enkel gebruikt om de soldaten een zo echt mogelijk beeld te geven.'
Antoine Vielliard, departementsraadslid in de Franse Haute Savoie, gaf als reactie dat het 'voor de geloofwaardigheid van het Zwitserse leger beter zou zijn, als men zich met de bedreigingen van de 21e eeuw zou bezighouden.' (1) Niettemin is er de afgelopen jaren in de regio Rhône-Alpes wel degelijk een afscheidingsbeweging op gang gekomen.
Regering Bern vreest vluchtelingenstroom en versterkt Defensie
Zwitserland houdt al langere tijd serieus rekening met het uiteenvallen van de EU als de crisis niet onder controle kan worden gehouden. In oktober 2012 verklaarde de Zwitserse minister van Defensie Ueli Maurer dat hij niet uitsloot dat in de toekomst het Zwitserse leger moet worden ingezet om de grenzen te beveiligen en de te verwachten vluchtelingenstroom uit de EU tegen te houden. (Zie link onder)
De Zwitserse regering maakt zich tevens zorgen over de voortdurende bezuinigingen op Defensie in de EU, waardoor we ons niet afdoende meer kunnen verdedigen. Dat maakt ons continent kwetsbaar voor buitenlandse druk en chantage.
Om hierop voorbereid te zijn willen de Zwitsers zo'n 100.000 soldaten -ook voor internationale begrippen een zeer groot aantal- kunnen inzetten om het land te beschermen. Tevens werd de begroting van Defensie verhoogd naar € 5 miljard en werden nieuwe Zweedse Saab Gripen gevechtsvliegtuigen gekocht.
Een klein jaar geleden oefenden de 2000 hoogste Zwitserse officieren met een scenario ('Stabilo Due') waarin de Europese buurlanden na de instorting van de euro ten prooi vallen aan geweld, en er een enorme vluchtelingenstroom op gang komt. (2)
'Frankrijk totaal failliet'
Dat het veel slechter gaat met Frankrijk dan we in de media te horen krijgen, bleek bijvoorbeeld begin dit jaar, toen de Franse minister van Werkgelegenheid Michel Sapin zich in een radio-interview liet ontvallen dat Frankrijk 'een totaal failliete staat' is. Na zware kritiek zei hij later dat hij 'een grapje' had gemaakt, maar ook oud-eurocommissaris Frits Bolkestein heeft letterlijk gezegd dat Frankrijk feitelijk bankroet is.
Xander
(1) 20Min.ch
(2) Deutsche Wirtschafts Nachrichten
Zie ook o.a.:
14-04: Ex topambtenaar EU waarschuwt voor burgeroorlog in Europa
10-04: 'Frankrijk in economische depressie; Italië krijgt revolutie als in Egypte'
29-01: Franse minister van Arbeid: 'Frankrijk is totaal failliet'
2012:
08-10: Leger Zwitserland bereidt zich voor op instorting EU en vluchtelingenstroom
07-10: Schotland, Catalonië, Vlaanderen, Rhône-Alpen, Venetië: Valt de EU uit elkaar?
30-09: Niet-eurolanden Zwitserland en Zweden presteren veel beter dan de EU (/ Succes van beide landen te danken aan beleid dat volkomen tegengesteld is aan dat van Brussel)
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Kenya : futur point d’entrée de la Chine en Afrique pour supplanter le dollar ?
Kenya : futur point d’entrée de la Chine en Afrique pour supplanter le dollar ?
Simple coïncidence ? Alors que le Kenya vient d’être le théâtre d’une attaque terroriste particulièrement meurtrière et que les dessous de l’affaire pourraient réserver quelques surprises, précisons que Nairobi est en train de remettre en cause la suprématie du dollar, en se tournant tout particulièrement vers le yuan chinois.
Le Kenya souhaiterait en effet prochainement héberger une chambre de compensation pour la devise de l’Empire du Milieu au sein de sa Banque centrale; ce qui, le cas échéant – serait une première sur le continent africain. Même si Pékin envahit pas à pas l’Afrique du Nord au sud.
Certes, un tel rapprochement ne devrait pas éclipser totalement la monnaie américaine, mais n’est pas vu d’un très bon oeil du côté de Washington, alors que même le gouvernement doit faire face une nouvelle fois à un mur budgétaire.
A l’heure actuelle, les opérations en monnaie chinoise sont peu répandues parmi les gestionnaires africains, les traders étant attachés dans tous les sens du terme à la flexibilité du billet vert.
Si les Africains peuvent d’ores et déjà obtenir des cotations de leurs devises par rapport au yuan, une chambre de compensation permettrait de mettre fin à l’obligation de règlements en dollars, réduisant parallèlement les coûts et accélérant les transactions.
Via une telle opération, le Kenya deviendrait symboliquement la passerelle entre le monde des affaires du continent africain avec la Chine, l’empereur économique de l’Asie, même si lés débuts demeurent modestes.
De tels types d’échanges seraient également les premiers réalisés en dehors du continent asiatique.
Mais la concurrence pourrait d’ores et déjà faire rage sur le continent africain, alors notamment que le Nigéria détient des réserves en yuan.
L’Afrique du Sud a par ailleurs été évoquée comme un hôte potentiel de la chambre de compensation, des officiels ayant toutefois affirmé qu’un tel plan n’était pas envisagé.
En août dernier, le ministre kenyan des Finances Henry Rotich laissait ainsi entendre que la proposition du gouvernement kenyan consistait avant tout de démontrer l’ampleur du marché financier du Kenya …. et de rendre le projet attractif … tout en favorisant la confiance des marchés et investisseurs.
Une situation désormais grandement remise en cause par l’attaque terroriste survenue il y a quelques jours à Westgate.
« Nous considérons comme très positif ce projet de chambre de compensation, et je pense qu’il est très important pour le Kenya de mettre en place un centre financier sur son territoire en vue de traiter la monnaie chinoise », indiquait quant à lui l’ambassadeur de Chine au Kenya, Liu Guangyuan, le mercredi 18 septembre à Nairobi, soit quelques heures avant l’assaut meurtrier du centre commercial.
C’est en août dernier, que la volonté de Nairobi avait été affichée au grand jour, le Président kenyan Uhuru Kenyatta ayant fait son offre au cours d’une visite à Pékin cet été.
Rappelons que la Chine s’est d’ores et déjà accordé avec le Japon en vue d’établir une convertibilité directe yen-yuan en transaction bilatérale.
Des études sont menées parallèlement au sein du groupe des BRICS en vue de revoir la suprématie du dollar et de l’euro sur le marché international.
Le Kenya pourrait devenir une des premières régions du monde à l’expérimenter. De quoi fâcher certains ….
Sources : Reuters, legriot.info
Elisabeth Studer – 28 septembre 2013 – www.leblogfinance.com
A lire également :
. Kenya : quand la découverte de pétrole provoquait espoir et inquiétude
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Arabie Saoudite : Le silence blanc et un cocktail de wahhabisme et de pétrole
Arabie Saoudite : Le silence blanc et un cocktail de wahhabisme et de pétrole
Jack London disait : « Alors que le silence de l’obscurité est protecteur, le silence blanc - à la lumière du jour -, est terrifiant ». Ainsi se meuvent les cheiks d’Arabie Saoudite de par le monde, furtivement. Couverts par la complicité de la presse « démocratique » de l’Occident qui, se gardant bien de porter préjudice à l’image de ce régime de terreur comparé auquel les autres dictatures de la région ressemblent à de pures démocraties, occulte tout simplement ce qu’il s’y passe. Par exemple : en mai dernier, cinq Yéménites accusés de « sodomie » ont été décapités et crucifiés par le gouvernement. Les attaques perpétrées par plusieurs individus contre des homosexuels en Russie avaient pourtant fait la Une pendant des jours.
Contrats de ventes d’armes et odeur du pétrole à bas prix, entre autres, contribuent à désactiver la « moralité » des défenseurs des Droits de l’Homme. Forçant le président des USA, Barak Obama lui-même, à une révérence, presque un agenouillement face au monarque saoudien.
L’Arabie Saoudite élargit son pouvoir et sa zone d’influence. En plus d’utiliser l’argument du pétrole, elle exporte à grande échelle le wahhabisme, de surcroît takfiri : non seulement il considère comme des ennemis de l’Islam tous les non-musulmans - même les pratiquants des autres religions du Livre - mais il considère comme « infidèles » les autres musulmans et appelle au Jihad, dans son sens guerrier, afin de les guider vers le bon chemin. En utilisant les attraits du fameux « gagner le butin dans ce monde et le Ciel dans l’autre » utilisé par les premiers conquérants arabes, les wahhabites takfiris ignorent l’avertissement du Coran (14 :4) qui affirme : « Et Nous n'avons envoyé de Messager qu'avec la langue de son peuple, afin de les éclairer. » Ainsi Il « envoya » Moïse pour les juifs, Zarathushtra pour les perses et Mahomet pour les arabes. Alors pourquoi Riad envoie-t-il en Afghanistan, en Tchétchénie ou en Europe des wahhabites arabes propager des ordonnances élaborées par et pour des sociétés tribales de la péninsule arabique il y a quatorze siècles ?
Protégés par les pétrodollars et la force militaire des Etats-Unis, les leaders saoudiens, non seulement affirment être les représentants d’Allah sur Terre, mais de surcroît transfèrent leur agenda politique au monde entier, provoquant tensions et chaos en terres lointaines, renversant des gouvernements non-alignés et réprimant des soulèvements populaires : Afghanistan, Tchétchénie, Bahreïn, Irak, Lybie, Egypte et à présent, Syrie.
Ce pays, qui porte le nom de la famille qui le gouverne comme s’il s’agissait de son fief privé, exhibe sur son drapeau l’image d’une arme, une épée. Toute une déclaration d’intentions basée sur certains principes au nom desquels on tranche les têtes des dissidents politiques, assassins, sorciers et autres jeteurs de sorts.
La théocratie octogénaire saoudienne a une vision du monde profondément irrationnelle, un regard moyenâgeux très particulier sur le concept d’Etat, le pouvoir et la sécurité nationale. Elle abuse de l’emploi de la force et de l’arbitraire pour imposer sa volonté. Elle ignore le rôle de la société civile en politique, et elle est incapable d’élaborer un projet régional viable et en accord avec les droits humains.
Obsédés par l’Iran
Ryad considère l’Iran comme son principal ennemi. Son intervention en Syrie est motivée par la volonté de « rompre le croissant chiite ». Il serait erroné d’exprimer cette poussée de conflits en terme d’arabo-perse ou sunnite-chiite. Les dirigeants religieux iraniens ne sont pas nationalistes mais plutôt « Pan-islamistes » et étendent leur zone d’influence dans le but d’acquérir une sécurité stratégique.
Le scénario actuellement en cours au Proche-Orient infirme totalement la pseudo-théorie du « choc des civilisations » de Samuel Huntington : elle ne saurait expliquer comment une Arabie Saoudite musulmane s’allie à un Israël juif et à des Etats-Unis chrétiens pour détruire les musulmans syriens. Ni comment elle a participé à la destruction de l’Irak, de la Lybie et de la Syrie, trois Etats arabes.
L’Arabie Saoudite et Israël n’ont pas pardonné aux Etats-Unis d’avoir cédé le pouvoir aux chiites pro-iraniens en Irak. Les attentats qui ôtent quotidiennement la vie à une centaine d’Irakiens sont le reflet de la bataille menée par ces trois pays pour s’approprier les ressources de l’Irak.
Ryad est déjà parvenu il y a longtemps à ce que les médias éliminent le terme « persique » du golfe qui porte ce nom depuis 2.500 ans - le substituant par « (guerre du) Golfe » ou encore « golfe arabique » (si le Pakistan était un état riche, il aurait donné son nom à l’Océan indien !). A présent, le gouvernement saoudien tente de réduire le pouvoir de l’Iran en envoyant une partie de son pétrole par la Mer rouge, évitant ainsi le détroit d’Ormuz. Il ne lésine pas non plus sur les efforts pour se rapprocher de la minorité arabe iranienne - discriminée par Téhéran- qui peuple la pétrolifère province du Zhousistan, dans le golfe persique.
L’Arabie Saoudite, qui est en train de perdre en Syrie, bien qu’elle ait gagné au Yémen, en Lybie et en Egypte pourrait avoir à essuyer un coup dur : que la République Islamique parvienne à un accord avec les Etats-Unis : mettre fin à son programme nucléaire et ôter son soutien à Bashar al Assad en échange de garanties de ne pas être attaquée par Israël.
Les angoisses des Etats-Unis
En plus des trois piliers de l’influence saoudienne aux Etats-Unis : le secteur financier, le pétrole et l’industrie militaire, il faut compter des organisations comme la Ligue Musulmane Mondiale, le Conseil des relations Americano-Islamiques, la Société Islamique d’Amérique de Nord, l’Association des Etudiants Musulmans (notamment), qui convergent autour de l’objectif d’affaiblir l’Islam modéré. Mais la Maison Blanche n’en a que faire. Les investissements saoudiens atteignent les six milliards de dollars, sans compter le retour de l’argent de la vente du pétrole aux entreprises d’armement étasuniennes.
L’OTAN a invité l’Arabie Saoudite à intégrer sa structure. Dans le même temps, Obama a signé avec Al Saud une vente d’arme d’une valeur de 67 milliards de dollars, le plus important accord de vente d’arme entre deux états de l’histoire.
Bien que le vieux pacte « pétrole à bas prix contre protection militaire » soit toujours en vigueur entre les deux parties, il se pourrait que la convergence d’intérêts touche à sa fin. La Maison Blanche est inquiète de la situation interne de son seul allié stable dans la région pour plusieurs raisons :
1. Le poids croissant de la faction pan-arabiste au sein de la maison Saoud, une fraction qui considère les Etats-Unis, Israël et l’Iran comme ses principaux ennemis. Cette faction était déjà parvenue à faire expulser les troupes nord-américaines de la terre de Mahomet. De même, la révélation de l’existence d’une base secrète de drones dans ce pays, filtrée par la presse US, bien qu’ayant pour but d’intimider l’Iran, a mis Ryad dans une situation délicate.
2. L’appui d’un certain secteur de la maison Saud au terrorisme anti-USA.
3. Le fait que le régime ait refusé de dissocier l’Etat et la famille royale et de prendre ses distances avec le wahhabisme.
4. Que le régime ignore l’urgence de mettre en place des réformes politiques, comme d’introduire le suffrage universel, créer des partis politiques tout en restant une dictature. La pauvreté touche des millions de personnes, obtenir un crédit immobilier implique des années sur une liste d’attente et l’atmosphère de terreur asphyxie toute tentative de progrès.
5. L’incertitude du résultat de la lutte pour la succession du roi Abdallah de 89 ans, malade, dont l’héritier, le prince Salman, de 78, souffre également d’ennuis de santé propres à son âge. Les quarante fils mâles du monarque sont à l’affût.
6. Une opposition faible et fragmentée qui complique la situation, ainsi que le manque d’expérience du peuple pour se mobiliser. Les dix fondateurs du parti politique islamiste Umma, qui en ont réclamé la légalisation ont été arrêtés : ils exigeaient la fin de la monarchie absolue. Il en fût de même, il y a quelques années, pour les dirigeants du parti communiste.
La mort de la poule aux œufs d’or ?
Au ralentissement de la croissance économique de 5,1% généré par les prix élevés de l’or noir en 2012, il faut ajouter la diminution de la capacité du pays en production de pétrole brut. De plus, la population est passée de 6 millions de personnes en 1970 à 29 millions actuellement, augmentant donc considérablement la demande en énergie. Il est à craindre qu’à partir de 2028, l’Arabie Saoudite soit contrainte d’importer du pétrole. Ryad a maintenu jusqu’à présent des prix bas dans le but d’empêcher les investissements publics en énergies alternatives dans les pays consommateurs. Mais à présent elle n’a plus d’autre choix que de les augmenter.
Il s’agit d’une économie fragile, mono-productrice et d’un pays soumis à la corruption où l’on manque d’eau potable et d’électricité même dans la capitale. Un pays qui, malgré les gains pétroliers - quelques 300 milliards de dollars en 2011, sans compter les bénéfices du « tourisme religieux » de millions de musulmans à La Mecque -, doit faire soigner son propre chef d’Etat dans un hôpital du Maroc. Pendant qu’on planifie la construction d’une station de métro aux murs d’or et d’argent...
Il faut aussi relever qu’alors que Kadhafi convertissait le désert libyen en verger en construisant un fleuve artificiel de 4.000 kilomètres de long, le régime saoudien spoliait les terres fertiles et les eaux africaines : Egypte, Sénégal et delta du Mali, afin de s’approvisionner en aliments.
Les cheiks ont à présent affaire à une société jeune, qui commence à être contestataire, qui souhaite en finir avec les vêtements « blanc et noir ». Les femmes surtout veulent se libérer du vêtement de deuil obligatoire et cesser d’être considérées comme des mineures toute leur vie, constamment dépendantes d’un tuteur mâle.
Les Saoudiens, malgré le fait de financer le « dialogue des civilisations » : réunion de leaders religieux pour consolider leurs alliances dans le but de faire obstacle à la laïcisation et au progrès dans leurs sociétés, malgré le fait d’interdire sur leur territoire toute activité religieuse non wahhabite, ont obtenu du gouvernement espagnol l’ouverture d’une succursale du Centre Roi Abdallah Ban Abdulaziz pour le Dialogue Interreligieux et interculturel.
« Cela n’a rien de personnel, c’est du business » dirait le Parrain.
Diplômée en sciences politiques, Nazanin Armanian est écrivaine iranienne et traductrice assermentée (Persan / Espagnol).
Elle habite en Espagne où elle enseigne à l'Université de Barcelone depuis 2008. Elle écrit régulièrement des articles sur le Moyen-Orient pour les journaux espagnols. Elle publie une colonne tous les dimanches sur son blog, hébérgé sur le site du journal Publico.es N. Armanian a publié une quinzaine d'ouvrages en espagnol, dont « Iran : la revolucion constante » (2012), « El Islam sin velo » (2010) et « Al gusto persa : tradiciones y ritos iranies » (2007).
Source : Nazanin Armanian
Traduction : Collectif Investig'Action
Références :
- - Bloomberg : Saudi Arabia May Become Oil Importer by 2030, Citigroup Says.
- - Forbes : Saudi Arabia To Become An Oil Importer ? Here's How They Can Avoid It
- - Telegraph : "Saudis 'may run out of oil to export by 2030’
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LES ARMES CHIMIQUES EN SYRIE ET AILLEURS
Chems Eddine Chitour*
Ex: http://metamag.fr
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Presseschau - Oktober 2013
http://www.derwesten.de/panorama/transsexueller-mann-brachte-in-berlin-baby-zur-welt-id8423580.html
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jeudi, 03 octobre 2013
UN REGARD SUR LES TRENTE GLORIEUSES
Pierre LE VIGAN
Ex: http://metamag.fr
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Vlaamse pater in Syrië: wapenindustrie achter oorlog
Ex: http://www.rkk.nl/actualiteit/2013/detail_objectID762697_FJaar2013.html
Vlaamse pater in Syrië: wapenindustrie achter oorlog
Hilversum (van onze redactie) 14 september 2013 – De Vlaamse norbertijn Daniel Maes is “boos en geschokt” door “de onwetendheid, de leugens en de manipulaties van de media in het Westen” met betrekking tot de verwikkelingen in Syrië. “Het moet hier een goudmijn voor de wapenindustrie worden”, zegt de in Syrië woonachtige pater Maes in een vanmiddag uitgezonden telefonisch interview met Kruispunt Radio.
Beluister een deel van het gesprek: http://www.rkk.nl/actualiteit/2013/detail_objectID762697_FJaar2013.html
Wapenhandel
“Voor de oorlog was Syrië de meest harmonische samenleving van het Midden-Oosten. Dat komt omdat het een lekenstaat is, waar mannen en vrouwen gelijk zijn, waar de godsdiensten gelijk zijn en waar de meerderheid de minderheid niet onderdrukt.” Volgens de Vlaamse norbertijn is de aanval op deze samenleving door buitenlandse krachten veroorzaakt, zowel door terroristische organisaties als door politieke en economische mogendheden. De fundamentalisten willen een theocratie stichten en de mogendheden willen dat er voortdurend gestreden wordt, zodat de wapenhandel ervan kan profiteren, aldus pater Maes. Hij vindt het dan ook geweldig dat paus Franciscus onlangs de wapenhandel als de ware vijand van de vrede aanwees.
Energiebronnen uitbuiten
Er is ook nog een andere reden waarom dat het Westen zou willen dat Syrië ontwricht raakt. “Wanneer Amerika hier zijn belangen kan vestigen, dan heeft het over alle energiebronnen hier vrije toegang en kan het de massa energie die hier gevonden is – toevallig ook in ons eigen dorpke hier - vrij uitbuiten voor zichzelf.”
Chemische wapens
Pater Maes gelooft er niets van dat Assad chemische wapens heeft gebruikt. Hij wijst op de sterke aanwijzingen die Carla del Ponte had dat opstandelingen gifgas zou hebben ingezet. Del Ponte is commissaris van de VN-onderzoekscommissie in Syrië.
Gevaar voor ontvoering
Pater Maes woont in het Sint-Jacobusklooster in het Syrische dorpje Qâra. De norbertijn komt het klooster niet meer uit. Terug naar België gaan, is onmogelijk. “Dat is te gevaarlijk. Als ik me buiten het klooster begeef, is het risico groot dat ik word gekidnapt of dat ze mij in een plastic zak in stukjes terugbrengen met een foto erbij.”
Al-Nusra
“De meest fanatieke strijders hebben schuilplaatsen in de nabijheid van ons klooster gevonden, maar de regeringstroepen zijn de haarden van deze terroristen aan het opruimen”, zegt hij. “Het aantal bewoners van ons dorpje is sinds het begin van de oorlog verviervoudigd. De rebellen, zoals die van al-Nusra, die totaal onberekenbaar zijn, schuilen hier omdat het van oudsher een bekend smokkeldorpje is.”
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Michel Collon à "Algerie patriotique"
Ex: http://www.michelcollon.info
Algeriepatriotique : Comment évaluez-vous le développement de la situation en Syrie en ce moment ?
Michel Collon : Je crois que l’on assiste à un tournant historique. On voit que les Etats-Unis, qui ont été, jusqu’à présent, très arrogants et se permettaient de déclencher des guerres assez facilement, sont maintenant face à une résistance très forte en Syrie, face aussi à un refus de la Russie et face à la résistance croissante des pays du Sud. Le sentiment qui se développe en Amérique latine, en Afrique, dans le monde arabe aussi et en Asie bien entendu, est que les Etats-Unis sont une puissance déclinante, qu’ils mènent une politique égoïste visant seulement à voler les richesses pendant que les peuples restent dans la pauvreté, et qu’il est donc temps de résister à ces guerres qui sont purement économiques, des guerres du fric, et qu’il faut construire un front par rapport aux Etats-Unis et à leurs alliés européens, puisque l’Europe suit les Etats-Unis de manière très docile et hypocrite et est impliquée dans ce système.
Nous avons réalisé une série d’entretiens avec des personnalités aussi divergentes les unes que les autres, notamment Paul Craig Roberts qui fut conseiller de Reagan. Un point revient souvent : dans le monde occidental, aujourd’hui, les anti-guerre par rapport à ceux qui dénonçaient la guerre du Vietnam, par exemple, sont à droite. Pourriez-vous nous faire un commentaire à ce sujet ?
Nous avions, en Europe, un mouvement anti-guerre extrêmement puissant qui s’était développé justement pendant la guerre du Vietnam. Ce mouvement a été très affaibli. On en a vu encore une pointe en 2003 au moment où Bush a attaqué l’Irak et où nous étions des millions dans la rue, mais il faut bien constater que quand les Etats-Unis ont attaqué la Libye, quand ils sont intervenus en Yougoslavie et en Afghanistan, il n’y a pas eu de forte résistance. Je pense qu’il faut analyser le problème en se demandant comment la Gauche européenne qui avait toujours été en principe anti-guerre, anti-coloniale, anti-injustices sociales, se retrouve maintenant, à de très rares exceptions, aux côtés des Etats-Unis et de l’Otan, dans une grande alliance qui englobe Israël, l’Arabie Saoudite, le Qatar et toutes ces dictatures épouvantables qui prétendent qu’elles vont apporter la démocratie en Syrie. Et la gauche européenne marche avec ça ? C’est une comédie et il est très important d’expliquer d’où cela provient. Je pense qu’on a perdu le réflexe de se méfier du colonialisme, de refuser la guerre et de rechercher des solutions politiques aux problèmes. On a perdu cette idée que les nations ont le droit de décider de leur système social, de leur avenir, de leurs dirigeants et que ce n’est pas à l’Occident colonial de dire qui doit diriger tel ou tel pays. Nous avons un grand examen de conscience et une analyse à faire : comment se fait-il que ceux qui devraient être à gauche se retrouvent avec ceux que je considère, moi, comme l’extrême droite, à savoir Israël, l’Arabie Saoudite et le Qatar ?
D’après les informations que nous avons récoltées à travers nos entretiens et qui se confirment, Barack Obama serait otage du lobby israélien, notamment via l’Aipac et ses partisans, comme Susan Rice, Lindsay Graham, etc., et les néo-conservateurs pro-israéliens. Qu’en pensez-vous ?
C’est une thèse très répandue que les Etats-Unis sont dirigés par Israël et je ne suis pas d’accord avec cette position. Je pense, en fait, que c’est le contraire. Ce n’est pas le chien qui commande à son maître, c’est le maître. Quand vous regardez l’économie israélienne et son budget, vous voyez bien que la force est aux Etats-Unis et qu’Israël est ce que j’appelle le « porte-avions » des Etats-Unis au Moyen-Orient. Bien sûr, le lobby est un phénomène qui joue, mais le jour où l’élite des Etats-Unis décidera qu’Israël ne nous est plus utile ou qu’il nous fait du tort parce que tout le monde arabe est en train de résister et nous allons perdre notre crédit et notre marge de manœuvre au Moyen-Orient, ce jour-là, les Etats-Unis lâcheront Israël. Il y a des fantasmes sur le lobby juif qui dirigerait le monde, mais je ne crois pas à cette théorie.
L’Aipac n’est pas une vue de l’esprit…
Nous sommes dans un monde dirigé par les multinationales. Quand vous voyez qui a le pouvoir de contrôler les richesses, de décider l’économie, de contrôler Wall Street, la City, Frankfurt, etc., ce sont des multinationales. Et le fait qu’il y ait quelques patrons juifs n’est pas le problème. Je pense vraiment que l’on doit s’en prendre au système des multinationales et ne pas prendre la conséquence pour la cause.
Vous avez dit dans l’émission de Taddéï : « Vous m’inviterez un jour car ce sera au tour de l’Algérie d’être ciblée par une frappe ou une guerre. » Le pensez-vous toujours ?
Oui, je pense que ce qu’il se passe en Tunisie et au Mali et l’attaque contre la Syrie annoncent qu’effectivement les Etats-Unis sont en train d’exécuter un plan de recolonisation de l’ensemble du monde arabe et des pays musulmans – puisqu’il y a l’Iran aussi – qui ont échappé au colonialisme classique. Clairement, l’Algérie fait partie des cibles, comme l’Iran, et donc il est très important de voir qu’en défendant l’autodétermination du peuple syrien, on empêche les Etats-Unis d’attaquer les cibles suivantes. Ce que je dis dans ce cas, c’est que, en fait, il s’agit toujours de la même guerre. Nous sommes dans les différents chapitres d’une même guerre de recolonisation.
Entretien réalisé par Mohsen Abdelmoumen
Source : Michel Collon pour Algérie Patriotique
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Alle Differenzen müssen durch friedliche Mittel gelöst werden
«Alle Differenzen müssen durch friedliche Mittel gelöst werden»
Vorschlag eines Uno-Sonderberichterstatters zur Verhütung der Kriegshetze
Ex: http://www.zeit-fragen.ch
Interview mit Professor Alfred de Zayas, unabhängiger Experte der Uno für die Förderung einer demokratischen und gerechten internationalen Ordnung
thk. Am letzten Montag traf sich der Menschenrechtsrat in Genf, um dem Bericht, der «Independent International Commission of Inquiry on the Syrian Arab Republic (COI)» (unabhängige internationale Untersuchungskommission für die Syrische Arabische Republik), vorgetragen vom Leiter dieser Kommission, Sergio Pinheiro, zu folgen. Die Kommission untersuchte verschiedene Massaker in Syrien. Den aktuellen Bericht stützt die Kommission auf 258 Befragungen verschiedener Personen ab, wobei die Zahl der Befragten nicht erwähnt wurde. Auch war die Kommission selbst nicht vor Ort, um sich direkt ein Bild machen zu können, sondern ihre «Informationen» haben sie, wie sie selbst sagten, vornehmlich aus Telefonbefragungen von Menschen ausserhalb des Landes gewonnen.
Die dem Bericht folgende Diskussion spiegelte die Interessenlage besonders der westlichen Länder in diesem Konflikt wider. Grob zusammengefasst kann man sagen, Nato- und EU-Staaten zusammen mit der Türkei, Saudi-Arabien, Katar und einige weitere westlich orientierte arabische Staaten verurteilten die Regierung Assad und benutzten die Gelegenheit, ihr den bis heute ungeklärten Giftgaseinsatz im Vorort von Damaskus Ghouta anzuhängen, was jedoch nicht Gegenstand der Untersuchung der COI war. Dieses Kriegsverbrechen, was es zweifellos ist, müsse Konsequenzen haben, so der Tenor dieser «westgeführten» Staaten. Frühere Giftgaseinsätze, die auf die sogenannten Rebellen zurückgeführt werden, fanden keine Erwähnung. Länder wie die lateinamerikanischen Alba-Staaten, Russland oder China, aber auch einzelne asiatische und afrikanische Staaten riefen zur Mässigung auf und betonten das Verbot der Einmischung in die inneren Angelegenheiten eines souveränen Staates. Sie forderten weiterhin zum Dialog auf, um zu einer konstruktiven Lösung in diesem Konflikt zu kommen – die, wenn sie denn auch von den Verhandlungspartnern gewünscht, zu erreichen wäre, was die Verhandlungen zwischen Russland und der USA bewiesen haben, – und riefen zu einem Ende des Blutvergiessens auf. Verurteilt haben den Einsatz von Giftgas alle Staaten, darin ist sich die internationale Gemeinschaft einig.
Am Rande dieser Sitzung des Menschenrechtsrates traf «Zeit-Fragen» den US-amerikanischen Völkerrechtler und Historiker Professor Alfred de Zayas, der zurzeit an der Uno das Amt des unabhängigen Experten für die Förderung einer demokratischen und gerechten internationalen Ordnung innehat. Wie er seine Aufgabe in dieser von Machtkämpfen dominierten Welt sieht und wie er den Konflikt in Syrien aktuell beurteilt, können Sie im nachfolgenden Interview lesen.
Zeit-Fragen: Am 10. September haben Sie Ihren Bericht über die «Förderung einer demokratischen und gerechten Weltordnung» dem Menschenrechtsrat in Genf präsentiert. Wie waren die Reaktionen darauf?
Professor Alfred de Zayas: Nachdem ich meinen Text im Rat vorgelesen hatte, meldeten sich etwa 30 Staaten und 12 NGOs zu Wort. Ich war sehr zufrieden, weil die Kommentare der Staaten entweder positiv waren und sich meinen Vorschlägen anschlossen oder sonst konstruktive Kritik übten. Weder die EU noch Grossbritannien brachten zum Ausdruck, dass ihnen dieses oder jenes nicht gefalle, die USA enthielten sich der Stimme.
Was waren Kritikpunkte?
Zum Beispiel, dass ich den Aspekt der Selbstbestimmung zu ausführlich behandelt hätte. Ich hätte diesem Thema zu viel Platz gewidmet. Ein Kritikpunkt ist auch die «Breite» des Mandats bzw. der Resolution 18/6 selbst.
Was haben Sie für Empfehlungen gegeben?
Zum Beispiel den Vorschlag, eine «Weltvolksvertretung» zu gründen. Eine parlamentarische Versammlung, in der alle Staaten mit Vertretern repräsentiert sind, die vom Volk gewählt wurden, ein echtes Parlament für die Welt. Da würden nicht die Botschafter der einzelnen Staaten sitzen, sondern Bürger aus den einzelnen Ländern, ich denke da an Ärzte, Handwerker, Juristen, Lehrer usw.
Wie wurde dieser Vorschlag aufgenommen?
Einige Staaten, zum Beispiel Ägypten, unterstützten das. Bei den NGOs hatten diese Vorschläge 100%ige Zustimmung. Nach ihren Stellungnahmen hatte ich nochmals die Gelegenheit, mich zu äussern, und habe dann das allgemeine Länderexamen des Menschenrechtsrats (Universal Periodical Review UPR) in den Mittelpunkt gestellt. Darin werden alle Länder auf ihre Menschenrechtslage untersucht. Bisher haben sich alle Staaten daran beteiligt. Seit neuestem verweigert sich ein Land. Das ist sehr bedauerlich.
Was geht dadurch verloren?
Gerade diese periodischen Untersuchungen bieten immer die Möglichkeit des Dialogs und unterstreichen die Universalität der Menschenrechte – das ist ganz zentral. Um etwas im Positiven zu verändern, ist der Dialog unter den Ländern etwas ganz Entscheidendes. Alle Staaten sind hier gefordert, denn es gibt keinen Staat, der tadellos ist.
Was haben Sie auf die Breite des Mandats und die möglichem Überschneidungen mit anderen Mandaten geantwortet?
Ich sehe darin kein so grosses Problem. Es gibt niemals zwei Rapporteure, die gleich denken. Auch wenn gewisse Themen mehrmals vorkommen, man lernt durchs Wiederholen. Und ein wichtiger Aspekt dabei ist noch die Unabhängigkeit des Rapporteurs. Der Experte muss ausserhalb des Systems, der Vorurteile, des Zeitgeistes, der politischen Korrektheit denken können. Nur so kann man als unabhängiger Experte arbeiten.
Was für Themen kamen noch zur Sprache?
Wir sprachen auch über die grosse Bedrohung des Friedens. Letzte Woche waren wir alle in grosser Sorge darüber, dass wir in Syrien mit einer gross angelegten Intervention rechnen müssten. Ich bin der Auffassung, dass in einer demokratischen und gerechten Weltordnung, wenn man alle Mittel des Dialogs einsetzt, um den Frieden zu bewahren, Kriege nicht mehr möglich sind. Dies setzt voraus, dass alle Parteien bereit sind, miteinander zu reden und Kompromisse zu schliessen. Wenn wir es geschafft haben, dass die Menschen miteinander reden, dann können wir uns überlegen, wie wir Reformen umsetzen können, um für die tatsächlichen Probleme, die vorhanden sind, Lösungen zu finden. Aber eines ist klar, mit Waffen wird man keine Lösung finden, sonst setzen wir den Circulus vitiosus fort und Hass wird auf Hass treffen. Ein häufiges Problem liegt darin, dass manche Staaten Geopolitik spielen, eine Seite mit Waffen und Geld unterstützen und dann sogar diese Seite zu Intransigenz anstacheln, so dass sie der Auffassung ist, dass sie stur bleiben kann.
Sie haben den Dialog als Instrument der Friedenssicherung erwähnt …
… Dialog bedeutet, dass ich den anderen als gleichwertigen Gesprächspartner wahrnehme. Man ist damit einverstanden, dass wir uns nicht mit Waffengewalt gegenübertreten, sondern mit Argumenten. Das ist die Kernidee der Vereinten Nationen. Bereits in der Präambel und in dem ersten und zweiten Artikel der Uno-Charta steht es deutlich. Alle Differenzen müssen durch friedliche Mittel gelöst werden. Das ist eine klare Verpflichtung zur Verhandlung. Staaten dürfen sich nicht stur ausserhalb der Verhandlungen bewegen und sagen, ich rede nicht. Man darf keine Bedingungen stellen, bevor man mit dem anderen in Dialog treten möchte. Das ist gegen den Geist und Buchstaben des Artikels 2 Abs. 3 der Uno-Charta.
Wenn die Menschen, egal auf welcher politischen Ebene, mehr miteinander sprechen würden, den ehrlichen Austausch pflegten, hätte man viele Kriege und unsägliches Leid verhindern können. Diesen Ansatz muss man weiterverfolgen.
Wir haben letzte Woche Kriegswillen gesehen, das haben wir auch im Jahre 1999 gesehen, als die Nato Jugoslawien nach den Verhandlungen von Rambouillet angegriffen hat, und 2003, als die Hetze gegen den Irak lief. Hier wurde nicht aufrichtig auf Verhandlungen gesetzt, sondern auf Gewalt, und das ausserhalb der Vereinten Nationen. Hätte es damals Verhandlungen im Sicherheitsrat gegeben, dann wäre sicher keine Resolution angenommen worden, die die Intervention der Nato in Jugoslawien oder im Irak erlaubt hätte. Ein Krieg wäre so nicht möglich gewesen. In Syrien konnte man das bis jetzt verhindern.
War hier nicht letztlich der Dialog der entscheidende Faktor?
Das ist er immer. In Syrien haben wir erreicht, dass durch den Dialog von zwei Grossmächten eine militärische Intervention vorerst abgewendet wurde. Aber der Dialog darf nicht nur zwischen den Grossmächten stattfinden. Ich hätte gerne auch gehört und publik gemacht, was die 193 Staaten der Uno zu der Frage, ob sich ein Staat unilateral in die Angelegenheiten eines anderen einmischen darf, finden. Darüber hätte ich sehr gerne eine Abstimmung in der Generalversammlung gesehen. Ich kann mir vorstellen, dass sich die überwiegende Mehrheit dagegen geäussert hätte, ein kleiner Teil hätte sich höchstwahrscheinlich der Stimme enthalten und drei hätten wohl dagegen gestimmt. Es ist notwendig vor den Augen der Welt zu zeigen, dass die internationale Gemeinschaft gegen eine Intervention ist. Ich fand in den Medien immer wieder den Versuch zu lügen, um den Eindruck zu erwecken, die internationale Gesellschaft billige den Angriff auf Syrien, was, wie die Umfragen zeigen, sicher nicht der Fall war. Wichtig ist, dass die internationale Gemeinschaft in dieser Situation mit allen Mitteln «Nein» schreit. Und damit sie die entsprechende Unterstützung von der Uno hat, braucht es dringend einen Sonderberater gegen Kriegshetze, so dass eine Art Frühwarnsystem entsteht, damit sich diese Dynamik erst gar nicht entwickelt bzw. durch die Autorität der Generalversammlung, durch eine Abstimmung, gestoppt werden kann. Wenn wir nach der Abstimmung sähen, 160 Stimmen in der GV waren gegen eine Intervention, dann wird es sehr viel schwieriger für den Staat, der sich das anmasst, das ohne den Sicherheitsrat zu tun.
Sie haben die Medien und die Idee eines Sonderberichterstatters gegen Kriegshetze erwähnt. Wie stellen Sie sich das konkret vor?
In solch einer Kriegsstimmung entwickelt sich sowohl bei den Politikern als auch bei den Medien eine Dynamik, die wir als Hype bezeichnen. Das ist eine Hetze, in der sich Politiker oder die Medien gegenseitig übertreffen, wie Pferde, die durchgehen. Das ist eine der grössten Gefahren. Um dieses unkontrollierte Ausbrechen zu verhindern oder zu stoppen, braucht man Autorität. Die einzige Autorität, die wir heute dafür haben, ist die Generalversammlung oder unter Umständen auch der Generalsekretär der Vereinten Nationen. Deshalb habe ich vorgeschlagen, dass der Generalsekretär in dieser Situation Alarm schlagen muss, wenn er merkt, dass diese Dynamik entsteht. Es gibt bereits einen Sonderberater für die Verhinderung von Genozid. Man könnte genauso einen Sonderberichterstatter zur Verhütung der Kriegshetze einsetzen.
Gibt es nicht Gesetze, die Kriegshetze verbieten?
Ja, auf dem Papier ist das in Artikel 20 des Paktes über bürgerliche und politische Rechte verboten. Aber wer kennt das? Die meisten Politiker haben keine Ahnung davon, geschweige denn, kennen sie einzelne Paragraphen. Darum muss der Generalsekretär so scharfsinnig sein, dass er eine Sondersitzung der Generalversammlung einberuft, wenn er merkt, hier ist eine Gefahr, dass die Politiker davongaloppieren. Diese Dynamik muss gestoppt werden, ehe es zu weit geht. Wir haben das eigentlich in allen Kriegen gesehen. Nachdem Politiker sich mit einem gewissen «Bravado» [Grossspurigkeit, Anm. d. Red.] präsentiert haben, wollen sie nicht ganz klein werden bzw. den Ton mässigen und sich für das Gespräch bereit erklären. Man muss es für die Politiker leichter gestalten. Nachdem sie so viel Lärm gemacht haben, müssen sie sich allmählich zurückziehen können, ohne das Gesicht zu verlieren. Man müsste in der Generalversammlung immer eine Möglichkeit bieten, dass sich die Staaten ohne Ehrverlust zurückziehen können.
Eine andere Idee ist, die Frage der Kriegshetze an den Internationalen Gerichtshof in Den Haag für eine konsultative Meinung weiterzuleiten, damit wir vom IGH eine Stellungnahme hätten, dass dieses Verhalten der Politiker illegal ist und strafrechtliche Konsequenzen haben muss. Der Norm nach ist das Androhen von Gewalt verboten; auch die Uno-Charta verbietet das. Man muss die Autorität des internationalen Gerichtshofes in Anspruch nehmen, damit klar ist, dass diese Politiker, die das betreiben, ausserhalb des Rechts stehen. Das gibt wiederum den NGOs die Möglichkeit, auf der Grundlage der Stellungnahme des IGH Druck auszuüben und zum Dialog zu verpflichten.
Gehören solche Vorschläge zu Ihrem Mandat?
Ja, mein Mandat ist von allen Mandaten, die vom Menschenrechtsrat etabliert worden sind, das Mandat, das die Versöhnung der Völker, der Menschen, der Politiker, der Staaten ermöglicht. Das nehme ich sehr ernst bei meinen Vorschlägen an die Staaten. Ich habe in meinem Bericht 35 Vorschläge formuliert, Vorschläge an die Staaten, an den Menschenrechtsrat und an die Zivilgesellschaft. Es sind pragmatische, durchführbare Vorschläge. Das ist das Neue an meinem Mandat. Ich will zum Beispiel, dass der Rat mehr Aufmerksamkeit auf das Prinzip der Selbstbestimmung legt. In der Menschenrechtskommission war das immer ein extra Traktandum, leider gibt es das heute nicht mehr. Und das ist ein Grund für Kriege. Es stellt ein ständiges Problem dar und sollte auch ständig vor dem Menschenrechtsrat diskutiert werden.
Wie könnte man den Dialog in der Frage von Krieg und Frieden weiter fördern, damit Kriege wirklich der Vergangenheit angehören, als eine Periode menschlicher Unfähigkeit?
Dazu gehört sicher auch die Reform des Sicherheitsrates. Er ist nicht repräsentativ, denn darin sind nur 15 Staaten vertreten. Fünf davon sind noch Veto-Staaten, die alles blockieren können. Das muss allmählich geändert werden. Natürlich werden die fünf Privilegierten ihre Privilegien nicht gerne aufgeben. Meine Idee ist, dass man das über eine Periode von 5 bis 10 Jahren verändert. Man könnte das Veto nur noch für klar definierte Geschäfte zulassen. Warum sollte es nur eine Stimme sein, die alles blockiert? Man könnte bestimmen, wenn man eine Entscheidung zu Fall bringen will, bräuchte man zwei, später drei Veto-Stimmen usw. So könnte man das sukzessive verändern. Es ist besser, die Privilegien abzuschaffen, als andere Staaten, wie Indien, Pakistan oder Brasilien und Deutschland zu ständigen Mitgliedern des Sicherheitsrates zu machen. Das wäre an sich undemokratisch. Man müsste die Generalversammlung mit mehr Macht ausstatten, die GV müsste mehr Einfluss bekommen auf allen Gebieten, aber besonders in der Frage von Krieg und Frieden. Das darf nicht allein beim Sicherheitsrat bleiben. Es darf keinen Krieg geben, den die Völker nicht wollen. 80 Prozent der US-Amerikaner waren gegen eine militärische Intervention in Syrien, ähnlich in Deutschland, Frankreich, England, Italien. Die Bürger waren gegen eine Intervention ihres Staates. Wenn die jeweiligen Regierungen sich schon demokratisch nennen, dann müssen sie auf das Volk hören. Es darf nicht sein, dass eine demokratisch gewählte Regierung etwas gegen den geäusserten Willen des Volkes unternimmt. In solchen Situationen könnte die Generalversammlung eine weltweite Volksbefragung durchführen, um herauszufinden, was die Bürger wollen. Hätte man ein «Weltbürgerparlament», dann könnte man die Macht der Oligarchien endlich brechen.
Bräuchten wir nicht zuerst in den einzelnen Staaten echte Demokratie?
Ja natürlich, ich bin für direkte Demokratie. So viel direkte Demokratie wie nur möglich. Natürlich finden Machtmenschen die sogenannte repräsentative Demokratie die besser zu manipulierende Regierungsform. Ich kann mich dieser Auffassung nicht anschliessen. Man darf natürlich nicht über jede Kleinigkeit ein Referendum abhalten, aber sicher, wenn es um wichtige Dinge wie Umwelt, die Finanzen und ähnliches geht, vor allem aber über Krieg und Frieden. Wer wird in einem Krieg sterben? Die Zivilbevölkerung, wir, die Bürger. Über 90 Prozent der Opfer in den modernen Kriegen sind Zivilisten. Sie wollen keinen Krieg. Wer sie dazu bringt, sind die verantwortlichen Politiker. Deshalb müssen wir die Bürger sagen lassen, was sie wollen und was sie nicht wollen. Politiker, die gegen den Willen des Volkes agieren, müssen in die Wüste gejagt werden. Dies sollten wir in jedem Staat erreichen können. Und dann müssen wir auf internationaler Ebene die Generalversammlung stärken, als das Repräsentativste, was wir heute haben. Dazu müsste man über ein «Weltbürgerparlament» nachdenken, das sich direkt am Willen der Völker orientiert und in den einzelnen Staaten die demokratische Entwicklung unterstützen, und zwar immer im Dialog, etwas anders gibt es nicht. •
Interview: Thomas Kaiser
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mercredi, 02 octobre 2013
Brigades internationales de Franco
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Du nouveau au Moyen-Orient
Du nouveau au Moyen-Orient
Jean Paul Baquiast
Ex: http://www.europesolidaire.eu
Non seulement elle remet au premier plan le rôle incontestablement stabilisateur de la Russie, mais elle représente une “re-légitimation” de Bachar Al Assad, puisque celui-ci est nécessairement impliqué comme président de la Syrie dans une résolution portant sur l'armement chimique qu'il contrôle. Son existence légitime est actée pour toutes les opérations concernant cet armement chimique, y compris la présence de ses représentants à Genève-II qui devrait suivre. Pour les pays qui, il y a quelques temps encore, ne pouvaient concevoir une démarche officielle sur la Syrie qu'après la liquidation d'Assad, il s'agit d'une véritable gifle. Elle marque heureusement un retour à la raison, y compris au sein de ces pays. Même si Assad n'a rien d'un « dictateur doux », lui et les intérêts tribaux qu'il représente (y compris ceux des chrétiens d'Orient) sont autrement préférables à ce qui menace encore la Syrie, c'est-à-dire l'établissement d'un califat islamique à Damas, voire au Liban et à Amman.
L'espèce de déroute diplomatique occidentale se trouve renforcée par le début de rapprochement entre l'Iran et les Etats-Unis. Là encore ce rapprochement, s'il se concrétisait, serait au bénéfice des nécessaires relations avec un axe chiite représenté en ce moment par Téhéran, avec lequel l'Occident ne saurait sans risques accepter d'être en état de guerre larvée. Les grands alliés sunnites « officiels » des Etats-Unis et de l'Europe s'en indigneront: Arabie Saoudite, Qatar. Ils y verront à juste titre une perte d'influence sur les politiques « occidentales ». Mais qui en Europe ne s'en réjouirait, à part ceux qui seraient prêts à se vendre au diable pour récupérer des participations financières à leurs opérations suspectes. Le rôle de ces deux pays dans le soutien au djihad tant en Europe qu'au Moyen-Orient devrait être une raison suffisante pour cesser de s'inféoder à eux.
Le résultat le plus évident de ces virages diplomatique est l'isolement d'Israël, ou plus exactement de Benjamin Netanyahou, qui s'était imprudemment impliqué contre Assad et contre l'Iran depuis plusieurs mois. Sa position diplomatique et politique devient très précaire. On peut se demander, connaissant la prudence proverbiale des organes de sécurité nationale israéliens, pourquoi Israël s'était engagé officiellement dans ce maximalisme interventionniste. Ceux pour qui la présence d'Israël au Moyen-Orient reste une condition indispensable à l'équilibre du monde peuvent espérer que l'Etat juif est en train de reconsidérer sa position afin de s'adapter à un environnement changé. La connaissance de cette évolution discrète pourrait peut être expliquer la soudaine mansuétude manifestée par le chef de la diplomatie française à l'égard d'un accord possible entre Washington, Damas et...Téhéran.
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Théoriser un monde multipolaire
Théoriser un monde multipolaire
par Georges FELTIN-TRACOL
Le penseur néo-eurasiste russe Alexandre Douguine est maintenant bien connu des milieux français de la dissidence. À côté des travaux universitaires qui le prennent en étude, plusieurs de ses ouvrages ont été traduits. Il en reste cependant beaucoup d’autres, car c’est un auteur prolifique aux centres d’intérêt variés. Après avoir publié La quatrième théorie politique, une magistrale synthèse – dépassement des doctrines politiques de l’ère moderne, la maison d’édition nantaise Ars Magna sort Pour une théorie du monde multipolaire. Il est cohérent que le réactivateur de la voie eurasiste expose sa conception des relations internationales dans un essai à l’approche universitaire, le côté rébarbatif en moins.
Si « de plus en plus de travaux relatifs aux affaires étrangères, à la politique mondiale, à la géopolitique et aux relations internationales sont dédiés au thème de la multipolarité (p. 3) », Alexandre Douguine observe qu’« il n’existe toujours pas de théorie complète définissant le concept de monde multipolaire d’une point de vue purement scientifique (p. 3) ». Il s’attache dans ce nouvel ouvrage à combler cette lacune. Pour cela, il n’hésite pas à décrire d’une manière épistémologique les principaux courants théoriques contemporains des relations internationales (au sens très large). Relevons au passage que ce champ disciplinaire est quasiment en jachère en France. Hormis Raymond Aron, Dario Batistella et l’historien « grammairien des civilisations » Fernand Braudel, la bibliographie proposée par Alexandre Douguine ne mentionne presque aucun auteur français ! C’est une nette indication de l’état comateux dépassé d’une université hexagonale disqualifiée, déconsidérée et reléguée aux marges du savoir véritable.
Les courants théoriques des relations internationales
Alexandre Douguine examine donc avec soin les diverses « écoles » qui structurent cette discipline. Les premières sont les réalistes divisés en « classiques », « modernes » et « néo-réalistes ». Ils s’appuient sur l’État-nation et un ordre du monde de type westphalien en souvenir des traités européens qui arrêtèrent en 1648 la Guerre de Trente ans. Leurs principaux adversaires théoriques sont les libéraux avec des variantes selon les personnalités, l’époque et le lieu. Pour eux, l’État-nation est un cadre dépassé. Pis, « les néo-libéraux soulignent que dans le monde moderne, aux côtés des États, commencent également à avoir une grande importance, les O.N.G., les réseaux et les structures sociales (par exemple, le mouvement des droits civiques, Médecins sans frontières, les observateurs internationaux aux élections, Greenpeace, etc.) qui ont une influence croissante sur les processus de la politique étrangère des États (p. 35) ». Entre les libéraux et les écoles réalistes se trouve une école « intermédiaire » qui emprunte aux premiers et aux seconds : l’école anglaise des relations internationales.
Si les libéraux sont présents dans cette matière, il n’est pas étonnant d’y retrouver aussi des interprétations marxistes ou néo-marxistes qui font grand cas de la notion de « système-monde ». D’après elles, « la révolution prolétarienne mondiale est possible seulement après la victoire de la mondialisation, mais en aucun cas avant, c’est ce que croient les néo-marxistes modernes. Et pour insister sur ce point, ils préfèrent se faire appeler “ altermondialistes ”, c’est-à-dire “ mondialistes alternatifs ”. Ils agissent non pas tant contre la mondialisation, que contre l’élite bourgeoise du monde, et en revanche, l’internationalisation – mondialisation en tant que telle, et son corollaire inévitable, l’apparition d’un prolétariat mondial, est considéré par eux comme un processus positif (p. 44) ». Ajoutons qu’il exista dans les années 1970 en géographie hexagonale un courant marxiste ou « géographique radical » dont l’une des figures de proue n’était autre que le géopoliticien et fondateur de la revue Hérodote, Yves Lacoste.
Sont venues se joindre à ces quatre « chapelles » des tendances nouvelles appelées post-positivistes elles-mêmes fragmentées en diverses coteries antagonistes : l’école de la « théorie critique » dans les relations internationales, le post-modernisme, le constructivisme et le féminisme en constituent le versant radical tandis que son versant non radical se forme de la « sociologie historique » et du normativisme dans les relations internationales.
Une telle effervescence ne peut que favoriser d’intenses débats, mais Alexandre Douguine constate qu’aucune de ces « écoles » ne théorise vraiment la multipolarité, d’où son apport original. Soulignant la réflexion considérable du « réaliste institutionnaliste » Carl Schmitt dans ce domaine méconnu, il prélève dans chacune des tendances une ou plusieurs notions afin de concevoir une théorie scientifique du monde multipolaire qui se réfère aussi à la haute pensée de René Guénon. Cet essai met en pratique les principes exposés dans La quatrième théorie politique.
Les structurations variées du monde
Mais qu’est-ce que la multipolarité dans les relations internationales ? Avant de répondre à ce point fondamental, Alexandre Douguine évoque longuement les autres formes de polarité dans l’histoire du monde. Il y eut le système westphalien, le monde bipolaire du condominium étatsunio-soviétique entre 1945 et 1991, le monde unipolaire et le monde a-polaire. Toutes s’opposent au monde multipolaire.
« La multipolarité ne coïncide pas avec le modèle national d’organisation tel qu’il découle du système westphalien. […] Celui-ci reconnaît la souveraineté absolue de l’État-nation, sur lequel a été construit l’ensemble de la légalité juridique internationale (p. 6). » Alexandre Douguine précise même que « le monde multipolaire diffère du système westphalien classique par le fait qu’il ne reconnaît pas aux États-nations distincts, légalement et officiellement souverains, le statut de pôles à part entière. Dans un système multipolaire, le nombre de pôles constitués devrait être nettement inférieur à celui des États-nations actuellement reconnus (et a fortiori, si l’on retient dans la liste les entités étatiques non reconnues sur la scène internationale) (p. huit) ». Le monde unipolaire est « dirigé par les États-Unis et basé sur l’idéologie libérale, démocratique et capitaliste. [… Il répand dans le monde] son système socio-politique basé sur la démocratie, le marché et l’idéologie des droits de l’homme (p. 9) ». Or « en pratique, l’unipolarité doit composer avec le système westphalien, qui perdure symboliquement, ainsi qu’avec les vestiges du monde bipolaire, que la force de l’inertie perpétue. De jure, la souveraineté de tous les États-nations est encore reconnue, et le Conseil de sécurité des Nations unies reflète encore partiellement l’équilibre des pouvoirs correspondant aux réalités de la “ guerre froide ”. Ainsi, l’hégémonie états-unienne unipolaire existe de facto, alors que dans le même temps, un certain nombre d’institutions internationales expriment l’équilibre datant d’autres époques et cycles de l’histoire des relations internationales (pp. 12 – 13) ». L’affaiblissement international des États-Unis semble permettre l’émergence d’un monde a-polaire ou « non-polaire […] basé sur la coopération des pays démocratiques. Mais peu à peu le processus de formation devrait également inclure les acteurs non étatiques – O.N.G., mouvements sociaux, groupes de citoyens, communautés en réseau, etc. En pratique, la construction du monde non-polaire aurait pour principale conséquence la dispersion de la prise de décision d’une instance (aujourd’hui Washington) vers de nombreuses instances de niveau inférieur, jusque, à la limite basse, la tenue de référendums planétaires en ligne, sur les principaux événements et actions concernant toute l’humanité. L’économie remplacerait la politique et la libre concurrence sur le marché mondial balaierait toutes les barrières douanières nationales. La sécurité ne sera plus la préoccupation de l’État mais serait laissée aux soins des citoyens. Ce serait l’ère de la démocratie mondiale (p. 15) ». Il signale l’existence d’une variante particulièrement soutenue par les milieux démocrates outre-Atlantique, le multilatéralisme qui exclut volontiers les acteurs non-étatiques comme les mouvements sociaux, les réseaux ou les O.N.G. En fait, « le monde multipolaire ne s’accorde pas avec l’ordre mondial multilatéral, car il s’oppose à l’idée de l’universalisme des valeurs occidentales et ne reconnaît pas la légitimité du “ Nord riche ” à agir au nom de toute l’humanité, que ce soit individuellement ou collectivement. Il ne reconnaît pas non plus sa prétention à intervenir comme seul centre de prise de décision sur les questions les plus importantes de politique mondiale (p. 19) ».
L’a-polarité peut séduire des dirigeants occidentaux décérébrés, car « le monde non-polaire suggère que le modèle de melting pot états-unien devrait être étendu à l’ensemble du monde. Cela aurait pour conséquence d’effacer toutes les différences entre les peuples et les cultures. L’humanité atomisée et individualisée serait transformée en une “ société civile ” cosmopolite et sans frontières (p. 17) ». En outre, et c’est un élément déterminant, « le projet de monde non-polaire est soutenu par nombre de très puissants groupes politiques et financiers comme Rothschild, George Soros et leurs fondations (p. 16) ». Le monde multipolaire va résolument à l’encontre de ce mondialisme occidental et de tous les autres mondialismes possibles et imaginables.
L’alternative multipolaire
Favorable à des aires continentales autarciques (et décroissantes ?), Alexandre Douguine estime que « l’anticapitalisme et surtout l’anti-libéralisme doivent devenir les axes directeurs de développement de la théorie du monde multipolaire (p. 190) ». Il faut au préalable préparer les peuples à cette rupture radicale – tuer l’individu moderne en eux. Par ailleurs, « pour le développement du monde multipolaire, il est nécessaire d’initier une guerre frontale contre les médias mondialistes (p. 192) ». La description qu’il fait de l’emprise médiatique occidentale est d’une rare pertinence. Il importe qu’« en sortant de l’espace du capitalisme mondial libéral et après organisé les “ grands espaces ” en fonction des caractéristiques civilisationnelles (mais aussi sur des marchés intérieurs efficients), les civilisations futures seront en mesure de construire un modèle économique en conformité avec la culture et les traditions historiques (p. 191) ».
Qu’entend finalement Alexandre Douguine par « multipolarité » ? Primo, la multipolarité « procède d’un constat : l’inégalité fondamentale entre les États-nations dans le monde moderne, que chacun peut observer empiriquement. En outre, structurellement, cette inégalité est telle que les puissances de deuxième ou de troisième rang ne sont pas en mesure de défendre leur souveraineté face à un défi de la puissance hégémonique, quelle que soit l’alliance de circonstance que l’on envisage. Ce qui signifie que cette souveraineté est aujourd’hui une fiction juridique (pp. 8 – 9) ». Secundo, « l’approche la plus commune de la multipolarité sous-tend seulement l’affirmation que, dans le processus actuel de mondialisation, le centre incontesté, le noyau du monde moderne (les États-Unis, l’Europe et plus largement le monde occidental) est confronté à de nouveaux concurrents, certains pouvant être prospères voire émerger comme puissances régionales et blocs de pouvoir. On pourrait définir ces derniers comme des “ puissances de second rang ”. En comparant les potentiels respectifs des États-Unis et de l’Europe, d’une part, et ceux des nouvelles puissances montantes (la Chine, l’Inde, la Russie, l’Amérique latine, etc.), d’autre part, de plus en plus nombreux sont ceux qui sont convaincus que la supériorité traditionnelle de l’Occident est toute relative, et qu’il y a lieu de s’interroger sur la logique des processus qui déterminent l’architecture globale des forces à l’échelle planétaire – politique, économie, énergie, démographie, culture, etc. (p. 5) ». Tertio, « la multipolarité […] implique l’existence de centres de prise de décision à un niveau relativement élevé (sans toutefois en arriver au cas extrême d’un centre unique, comme c’est aujourd’hui le cas dans les conditions du monde unipolaire). Le système multipolaire postule également la préservation et le renforcement des particularités culturelles de chaque civilisation, ces dernières ne devant pas se dissoudre dans une multiplicité cosmopolite unique (p. 17) ». On peut dès lors se demander si Alexandre Douguine puise chez Samuel Huntington et ses espaces de civilisation conflictuels. S’il critique la démarche de ce réaliste, chantre de la primauté occidentale et atlantiste, il salue en revanche l’« intuition de Huntington qui, en passant des États-nations aux civilisations, induit un changement qualitatif dans la définition de l’identité des acteurs du nouvel ordre mondial (p. 96) ».
Tout en soutenant dans une veine schmittienne « la pluralité du Prince (p. 168) », Alexandre Douguine affirme que « du point de vue de la théorie du monde multipolaire, il n’est pas très important de savoir si les civilisations comme acteurs et pôles du monde multipolaires, peuvent jouer un rôle de contrepoids ou non sur la voie de la mondialisation opérée sous l’égide de l’Occident. Les civilisations comme acteurs des relations internationales ne sauraient conduire à un retour à la pré-modernité, où figuraient les États traditionnels et des empires. Les civilisations en tant qu’acteurs des relations internationales sont un concept complètement nouveau, en quelque sorte une réalité postmoderne, destinée à remplacer l’ordre du monde fondé sur le système westphalien, dont le potentiel est épuisé. Ce modèle contribue à proposer une alternative postmoderne tant à l’empire unipolaire états-unien, qu’à la mondialisation non-polaire (p. 113) ». Il découle que « ni le pouvoir, ni l’économie, ni les ressources matérielles, ni la concurrence, ni la sécurité, ni les intérêts, ni le confort, ni la survie, ni l’orgueil, ni l’agression, ne peuvent constituer la motivation fondamentale de l’existence historique d’une civilisation dans un monde multipolaire, mais le dialogue spirituel, qui, partout et toujours, peut revêtir, selon les circonstances, un caractère positif et pacifique, ou bien agressif belliqueux (pp. 179 – 180) ». Ne décèle-t-on pas dans cette réflexion l’influence traditionaliste de René Guénon et de Frithjof Schuon ?
Surgit alors la lancinante problématique des frontières. Alexandre Douguine ne l’évacue pas de sa démonstration. Bien au contraire, il en profite pour développer un point de vue singulier : « Les frontières entre les civilisations devraient avoir un statut qualitativement différent que celles entre les États-nations. Aux frontières entre les civilisations, il peut exister des régions entières autonomes, uniques et distinctes, qui abritent des structures sociales et des ensembles culturels très spécifiques. Pour ces zones, il paraît nécessaire de développer des modèles juridiques particuliers qui prennent en compte les spécificités de ces civilisations, leurs chevauchements, leurs proportions relatives, ainsi que leur contenu qualitatif et le degré d’intensité de conscience de leur propre identité (p. 116) ». A-t-il pris connaissance des travaux théoriques de l’« austro-marxisme » sur les autonomies personnelle et communautaire au début du XXe siècle en Autriche-Hongrie ? La conception fermée, exclusive et étatique de la frontière est remplacée à cette échelle par une perception à la fois organique et antique, celle du Limes. On peut supposer dans ce cadre l’existence de territoires-gigognes ou d’une co-territorialité, voire à une symphonie des territoires.
Pour une théorie du monde multipolaire est un essai stimulant et érudit d’accès très facile qui invite à réfléchir autrement les relations internationales, hors du prisme déformant et simplificateur d’un Occident obèse et décati. Une belle alternative continentale à saluer !
Georges Feltin-Tracol
• Alexandre Douguine, Pour une théorie du monde multipolaire, Ars Magna, 2013, 196 p., 20 € (Ars Magna Éditions, B.P. 60 426, 44004 Nantes C.E.D.E.X. 1).
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Myth, Utopia, & Pluriversal Realism
Myth, Utopia, & Pluriversal Realism
By Leonid Savin
Ex: http://www.counter-currents.com
Georges Sorel divided social and political formations into two types: (1) those which had a myth as the basis for their ideology, and (2) those which appealed to utopian ideas. The first category he attributed to revolutionary socialism, where the true revolutionary myths are not descriptions of phenomena, but the expression of human will. The second category is utopian projects, which he attributed to bourgeois society and capitalism.
In contrast to myth, with its irrational attitudes, utopia is a product of mental labor. According to Sorel, it is the work of theorists who are trying to create a model with which to critique existing society and to measure the good and evil within it. Utopia is a set of imaginary institutions, but also offers plenty of clear analogies to real institutions.
Myths urge us to fight, whereas utopia aims at reform. It is no accident that some utopians after gaining political experience often become adroit statesmen.
Myth cannot be refuted, since it is held in concert as a belief of the community and is thus irreducible. Utopias, however, can be considered and rejected.
As we know, the various forms of socialism, both on the left and right of the political spectrum were actually built on myths, as readily evidenced in their advocate’s works. It is sufficient to recall the Myth of the 20th Century by Alfred Rosenberg, who became an apologist for German National Socialism.
At the opposite end of socialism we also see a mythological basis, although it is analyzed post-facto. Even while Marx said that the proletariat does not need myths that are destroyed by capitalism, Igor Shafarevich conclusively demonstrated the link of the eschatological expectations of early Christianity and socialism. Liberation Theology in Latin America also confirms the strong presence of myth at work within left socialism of the 21st century.
If we talk in terms of the second and third political theories that have struggled with liberalism, it is pertinent to recall the remark of Friedrich von Hayek, who in his work The Road to Serfdom notes that, “in February 1941, Hitler felt it appropriate to say in a public speech that National Socialism and Marxism are basically the same thing.”
Of course, this does not diminish the importance of modern political myth, and also explains the hatred of it exhibited by the representatives of modern liberalism. Thus, political alternatives—whether the New Right, Indigenism, or Eurasianism—present a new totalitarian threat for neoliberals. Liberals, both classic and neo-, deny us our ideals, because they think they are largely mythological in character and thus cannot be translated into reality.
Now back to utopia. Liberal political economy, as rightly noted by Sorel, is, itself, one of the best examples of utopian thought. All human relationships are reduced to the form of free market exchange. This economic reductionism is presented by liberal utopians as a panacea for conflicts, misunderstandings, and all sorts of distortions that arise in societies.
The doctrine of utopianism emerged from the works of Tommaso Campanella, Francis Bacon, Thomas More, and Jonathan Swift, as well as philosophers-liberals such as the leader of the British radicals Jeremy Bentham. The embodiment of utopia was erected at first on a rigid regulatory policy, which, at the same time included violence as a form of coercion on its citizens. It then switched to colonial expansion, which allowed for the accumulation of capital and the establishment of a single so-called “civilized standard” for other countries. Then liberal utopianism went even farther, becoming, in the words of Bertram Gross, “friendly fascism,” in that it started to institutionalize dominance and hegemony through a regime of international law and regulations. By this time, liberal utopia has itself become a modern myth: technocentric, rational, and totalitarian—emasculating the first utopian idea of a just society and replacing it with materialism and utilitarian law, becoming, in effect, a dystopia.
In the case of both myth-centric societies, and utopias, consistently implemented through experiments with law, economics, philosophy, and politics, there was a major mistake in trying to extend the model globally. Fascism and Marxism fell first historically. However, liberalism has also now been called into question, as presciently noted about 20 years ago by John Lukacs in his work The End of the 20th Century and the End of the Modern Era.
Myth and utopia both drew their strength from the pluriversal world, homogenizing it and destroying its wealth of cultures and worldviews. The pluriversum was the basis on which the superstructure of Utopia was formed. It also where certain modern forces that aimed at implementing violent historical projects drew upon mythological deep mythological layers.
Within pluriversal reality there is space both for myth and utopia, if they are limited to a certain spaces with unique civilizational characteristics and separated from each other by geographical boundaries. Myth can be realized in the form of a theocracy or a futurological empire. Utopia could at the same time strive towards a biopolitical technopolis or a melting pot of the nations, but of course separately from myth-centric orders.
Carl Schmitt suggested the construction and recognition of such self-contained “Big Political Spaces” or Grossraume. The formation of these spaces would require a global program of pluriversalism, appealing to the distinctive myths and cultural foundations of different peoples. But all parties to a pluriversal order must have one thing in common as a prerequisite: the deconstruction of the superstructure of the nascent neoliberal utopia.
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Quand les émergents disent non aux "guerres du Bien"...
Quand les émergents disent non aux "guerres du Bien"...
Nous reproduisons ci-dessous un point de vue de Jean-Yves Ollivier, cueilli sur Atlantico et consacré à l'échec occidental dans l'affaire syrienne, qui est le signe d'un basculement géopolitique majeur...
Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com
L'Occident mis en échec : quand les émergents disent non aux "guerres du Bien"
Les relations internationales se limitent-elles au combat manichéen entre le Bien et le Mal que les dirigeants occidentaux, sous la férule des Etats-Unis, vendent à l’opinion publique depuis la première guerre du Golfe ? A cette dynamique binaire, les puissances émergentes opposent systématiquement une vision géopolitique plus traditionnelle (et plus cohérente) axée autour de leurs intérêts stratégiques et de notions-clés telles que alliés/ennemis, grands équilibres, menaces,…
Mais, des interventions en Irak ou en Lybie, en passant par l’Afghanistan ou le Mali, les protestations des émergents étaient jusque-là restées bien vaines face aux visées bellicistes de l’Occident. Les menaces de veto régulièrement brandies (et parfois exercées) par la Chine ou la Russie au Conseil de sécurité de l’ONU ne faisaient que retarder les projets des guerres civilisatrices de l’axe américano-européen.
Comment comprendre dès lors l’impressionnant recul américain (et français) sur la question syrienne ? La défiance des opinions publiques nationales des deux pays est certes un élément de réponse, mais la fermeté de la diplomatie russe, associée au front commun anti-guerre des principales puissances émergentes (du Brésil à l’Inde en passant par la quasi-totalité du continent africain) est sans nul doute l’élément décisif qui a fait reculer Barack Obama.
Pourquoi les Etats-Unis ont-il pour la première fois plié sous la pression des émergents ? L’administration américaine est consciente que le monde a profondément changé et que l’ère de la super-puissance hégémonique US est terminée. Dans un monde multipolaire et globalisé, les Etats-Unis doivent composer avec des partenaires qui ne sont pas toujours des alliés… et accepter d’avaler quelques couleuvres.
L’Amérique omnipotente des Trente Glorieuses (tout comme l’Europe au demeurant) n’est plus qu’une vieille illusion. Avec un quart de sa dette souveraine détenue par la Chine et la grande majorité de ses outils de production délocalisés dans les pays émergents, les Etats-Unis ne disposent plus de beaucoup de leviers pour faire pression sur des pays avec lesquels ils sont intrinsèquement interdépendants.
Et encore, à la différence de l’Europe (même si la France et la Grande-Bretagne font encore illusion), l’Amérique peut se prévaloir de sa puissance militaire. Indispensable mais insuffisant quand on prétend incarner l’ordre moral au niveau planétaire.
La reculade du président Obama sur le dossier syrien démontre d’ailleurs que la suprématie militaire n’est plus suffisante face à des émergents qui prennent progressivement conscience de leur puissance. Et à regarder les courbes respectives de croissance en Occident et dans ces régions, il y a fort à parier que cette tendance ne fasse que s’accroître dans les années à venir.
Le déclin des uns (Etats-Unis et Europe) et la montée en puissance d’autres puissances (Chine, Russie,…) perçues comme non interventionnistes, servent en réalité les intérêts des dirigeants attaqués qui sortent renforcés de leurs bras de fer avec l’Occident. Avant l’exemple syrien, Américains et Européens avaient déjà fait de Mugabe, Chavez ou Ahmadinejad des héros de l’anti-impérialisme.
Mais pire encore, lorsque l’axe occidental intervient militairement… puis se retire aussitôt face à une opposition publique allergique à la guerre, ils abandonnent des pouvoirs fragiles qu’ils ont eux-mêmes "mis en place" ; réduisant à zéro leur légitimité et ouvrant la porte à des guerres civiles sans fin (Irak, Afghanistan, Lybie,…).
Jean-Yves Ollivier (Atlantico, 25 septembre 2013)
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mardi, 01 octobre 2013
Adriano Romualdi e gli anni della contestazione
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Patria o Muerte
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L’âme d’une nation coule dans nos veines
L’âme d’une nation coule dans nos veines
Ex: http://zentropaville.tumblr.com
L’idée de nation suscite encore aujourd’hui chez certains des réactions, des passions parfois vives, voire violentes. Les uns voient en elle renaître le culte de la race, du sang. Les autres, le simple et seul principe d’une nouvelle loyauté politique. Il n’est pas dans mon intention de disserter une fois de plus sur la définition de la nation, ni de reposer la traditionnelle question « Qu’est-ce qu’une nation ? ».
La Bretagne, vieille nation européenne, a répondu depuis bien longtemps à cette question. L’âme de la nation bretonne, c’est d’abord son passé. Il n’est pas vrai que les peuples heureux n’ont pas d’histoire, parce que s’ils n’en avaient pas, ils ne seraient pas des peuples. Après 10 siècles de souveraineté nationale, la Bretagne est à ce jour sous occupation étrangère. Région bâtarde, simple province française… mais toujours nation, nation sans Etat certes, mais nation déterminée à recouvrer son indépendance. Le peuple breton a-t-il conservé une conscience nationale à l’instar de son frère écossais ? Sans aucun doute. Les Bretons ont-ils, aujourd’hui, un sentiment national ? Oui et de récents sondages le démontrent. Si la politique d’assimilation de la France a, certes, fait d’énormes dégâts, elle a échoué malgré sa politique génocidaire et ethnocidaire. Les Bretons sont fiers de leur identité spécifique et le revendiquent de plus en plus. Parmi les facteurs les plus déterminants dans l’esprit national, il y a le souvenir des choses faites en commun, le souvenir des épreuves traversées qui cimentent. Une nation comme la Bretagne commence à exister lorsque que naît une fierté, un orgueil national. Elle n’existe en fait que s’il y a des femmes et des hommes qui se réclament d’elle et qui entendent se définir comme Bretons. Aujourd’hui, on honore des Bretons morts pour la patrie. Ce que l’on honore en eux c’est qu’ils aient prouvé que quelque chose valait plus qu’eux et que leur vie, à savoir la patrie. Suprême sacrifice. Valeur suprême de ce à quoi on se sacrifie.
La nation bretonne est plus que le produit d’un contrat. Elle n’existe que par la foi qu’on lui voue. Elle n’est pas non plus une unité fermée, mais ouverte. Mais sous condition de pouvoir assimiler ceux à qui elle ouvre les bras. Aujourd’hui les nations modernes réunissent tous les vices. Elles s’ouvrent à n’importe qui et n’importe comment au mépris même de leurs âmes, de leurs identités. Une nation est un organisme vivant mais elle peut mourir. Mourir de mort physique mais également de mort spirituelle. Une nation qui perd son âme, à qui l’on vole son âme ou qui se laisse arracher son âme, cette nation est une nation condamnée. Les sociétés actuelles en Europe sont toutes orientées de manière prédominante vers le confort matériel. Leur hédonisme congénital est le plus sûr poison de l’idée nationale. Il nous faut également combattre les idéologies du déracinement qui visent les attaches territoriales d’un peuple, mais aussi ses attaches culturelles et spirituelles. Il est révélateur que tout système totalitaire ou colonial, cherche à détruire l’identité d’un peuple en s’attaquant en priorité à sa culture. C’est en niant la spécificité d’un peuple que cherche à s’imposer toute pensée homogénéisante. La culture est la carte d’identité d’un peuple. C’est son passeport et contrairement aux pleurnicheries et autres niaiseries régionalistes, nous ne dissocions pas le combat culturel du combat politique. La Bretagne est un être intrinsèquement politique et culturel. Le politique renvoie au culturel et le culturel renvoie au politique. Privé de dimension politique, le culturel devient folklore.
Notre combat pour la liberté du peuple breton et l’indépendance de la Bretagne, doit s’inscrire dans le cadre de l’Europe des peuples et prendre en compte que l’Europe actuelle est aspirée dans l’idéologie du bonheur individuel et la religion des droits de l’homme qui tend à s’octroyer tout l’espace du champ moral et préparer les esprits à l’uniformité. Vaste programme nihiliste, philosophie du bonheur massifié que nous entendons combattre.
Pour conclure je vous livre cette citation de Louis Pauwels : « L’idée que le monde doit être vécu au pluriel, c’est l’idée importante de cette fin de siècle. Le vrai racisme, le racisme fondamental, c’est de vouloir broyer tous les peuples, toutes les ethnies, toutes les cultures pour obtenir un modèle unique… ».
Meriadeg de Keranflec’h.
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