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vendredi, 14 octobre 2011

Il Dio di Ezra Pound

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Il Dio di Ezra Pound

di Luca Leonello Rimbotti


Fonte: mirorenzaglia [scheda fonte]

 

 

Il contraltare di Evola, dal punto di vista di una lettura “pagana” del Fascismo, fu certamente Ezra Pound. Se il primo del regime mussoliniano intese fare un risultato moderno delle virtù guerriere ario-romane, un’epifania della potenza, il secondo ne scorse i connotati di religione agreste, la cui continuità sarebbe stata garantita – più che non ostacolata – da forme di cristianesimo non dogmatiche, legate alle credenze arcaiche relative alla sacralità della terra. Se Evola vide nel movimento dei fasci una rinascenza del fato di gloria, qualcosa dunque di “uranico”, Pound rimase colpito invece dalla natura tellurica, diremmo quasi Blut-und-Boden, del comunitarismo fascista del suolo e del seme. Il significato è comunque, nei due casi, quello di una continuità ininterrotta, ben rappresentata dal particolare tipo di imperialismo veicolato dal Fascismo, tutto incentrato sull’idea di redenzione del suolo, di lavoro dei campi, di civilizzazione attraverso la coltivazione e la valorizzazione della terra.

Ezra Pound è stato probabilmente il maggiore e più profondo cesellatore del ruralismo fascista, che giudicò elemento direttamente proveniente dagli arcaici riti latini legati alla fertilità e ai cicli di natura. La “battaglia del grano”, l’impresa delle bonifiche, la celebrazione del pane quale simbolo di vita santificato dalla fatica quotidiana, non sarebbero stati, per il poeta americano, che altrettanti momenti in cui gli antichi misteri pagani tornavano a parlare al popolo, e sotto la sollecitazione ideologica di un regime che fu allo stesso tempo quanto mai attento alla modernità. E che registrò il passaggio dell’Italia a nazione più industriale che agricola, con un numero di operai che per la prima volta nel 1937 superò quello dei contadini.

Questo doppio registro, tipico del Fascismo, di portare avanti insieme i due comparti, senza deprimerne uno a vantaggio dell’altro, questa simmetrica capacità di operare lo sviluppo industriale e quello agricolo, iniettando la modernizzazione nelle tecniche di coltura ma rinforzando l’attaccamento atavico al suolo, fu la formula adottata da Mussolini per promuovere il progresso senza intaccare – ma anzi rinsaldandolo – il patrimonio immaginale legato alla terra, e per di più abbinandolo ad un reale incremento della capacità produttiva, affidata alla scelta autarchica. Della terra, con costante perseveranza, si celebrò la sacralità, facendo del suolo patrio, quello da cui il popolo ricava la fonte di vita, una vera e propria religione di massa. Questa religione popolare fascista, riscoperta intatta dall’antichità e dotata di moderne applicazioni anti-utilitariste ed anti-speculative, ebbe in Pound un cantore geniale.

La recente uscita del libro di Andrea Colombo Il Dio di Ezra Pound. Cattolicesimo e religioni del mistero (Edizioni Ares) ce ne fornisce un nuovo attestato. In questo agile ma importante lavoro noi riscopriamo tutta la profondità di una concezione del mondo incentrata su ciò che Pound definitiva “economia sacra”. Come già fatto da Caterina Ricciardi nel 1991, nella sua antologia di scritti giornalistici di Pound, anche Colombo sottolinea questa impostazione del poeta che, forte della sua recisa ostilità al mondo liberista del profitto finanziario e nemico giurato dell’usura, vide nella sana e naturale economia fascista un preciso riverbero di ancestrali tendenze sacrali. In una serie di articoli pubblicati sul settimanale “Il Meridiano di Roma” fra il 1939 e il 1943, Pound andò indagando le origini italiche, perlustrandone la vena religiosa relativa ai misteri e ai riti di fertilità. In tal modo, «Roma è Venere, l’antica dea dell’amore che ritorna a restituire il sogno pagano agli uomini», realizzando il contatto vivente fra l’antichità e il presente moderno: «E Mussolini, il Duce della bonifica e della battaglia del grano, diventa per il poeta il riesumatore dell’antica cultura agraria, la religione fondata sul mistero sacro del grano, mistero di fertilità».

Entro questi grandi spazi ideologici di rinascita moderna delle logiche arcaiche, Pound ingaggiò la sua personale lotta contro quel mondo di speculatori, affaristi privi di scrupoli e autentici criminali da lui individuato nei governanti angloamericani, che in nome dell’usura finanziaria e dell’idolatria dell’oro non avevano esitato a scatenare contro i popoli a economia organica la più distruttiva delle guerre. Proveniente per nascita egli stesso dal pericoloso milieu presbiteriano, come Colombo ricorda, Pound ben presto se ne distaccò, avvicinandosi ad una interpretazione del cristianesimo come continuità pagana sotto specie devozionale ai santi locali, alle varie Madonne, alle processioni popolari d’impronta rurale. Convinto – e a ragione – di una netta presenza neoplatonica nella stessa teologia cattolica, Pound finì col considerare la religione di Cristo come una forma neopagana di accettazione del mistero della vita. Egli contestava alla radice la filiazione del cristianesimo dall’ebraismo, affermando che invece ciò che si doveva stabilirne era la continuità con l’ellenismo e con il politeismo in auge nell’Impero romano, al cui interno il cristianesimo poté inserirsi senza traumi particolari, in virtù della sua sostanza di religione dapprima solare, erede del mitraismo, poi anche tellurica, erede delle venerande liturgie agresti.

Pound conobbe gli scritti di Frazer e di Zielinski, allora famosi, ma noi possiamo aggiungere che questa lettura poundiana, tutt’altro che peregrina, ha trovato conferma in molti studiosi di religione anche molto importanti, da Cumont a Wind, da Seznec fino a Wartburg: il cristianesimo, ed ivi compreso talora anche il papato, veicolavano sostanziose dosi di neoplatonismo pagano. L’interesse di Pound per figure come Gemisto Pletone o Sigismondo Malatesta – esemplari del neopaganesimo rinascimentale – furono il lato filosofico di un mondo ammirato profondamente da Pound, quello dell’etica economica medievale e proto-moderna, coi suoi fustigatori dell’interesse e della speculazione: un San Bernardino, ad esempio, che combatté tutta la vita l’usura, in forme anche violente e non meno anticipatrici di certi argomenti moderni.

Pound nel paganesimo, e di nuovo nel cristianesimo francescano (notoriamente di ispirazione neoplatonica), vide l’antefatto di quella guerra aperta alla schiavitù dell’interesse che solo con il Fascismo, e con la sua ideologia corporativa del “giusto prezzo”, divenne movimento mondiale di lotta al disumano profitto liberista. Il prezzo della merce, quando stabilito dalla mano pubblica, dà garanzie di giustizia, è regolato dal potere politico, ha veste legale, è insomma pretium justum; quando invece è affidato al gioco incontrollato degli interessi privati, come accade nelle economie liberiste, fornisce l’evidenza di una guerra belluina fra speculatori, a tutto danno del popolo e del suo lavoro.

Questi concetti Pound li martellò in scritti e discorsi alla radio italiana durante la guerra, e sono massicciamente presenti anche nei Cantos. E questo gli costò, come noto, l’infamia della gabbia e del manicomio, cui lo destinarono i “democratici” vincitori. Questa di Pound fu una battaglia a difesa del lavoro onesto contro la bolgia degli speculatori. A difesa della sacralità dell’economia – che è lavoro del popolo – e contro quanti al denaro attribuiscono un demoniaco potere assoluto.

Pound era in prima fila, non faceva l’intellettuale ben ripagato e ben protetto, magari pronto a cambiare bandiera al primo vento contrario. Propagandava idee, lanciava fulmini e saette contro l’ingiustizia sociale e la speculazione, come un moderno Bernardino da Feltre ci metteva la faccia del predicatore intransigente e la parola infiammata del profeta che vede prossimo l’abisso. La sua condanna dell’usura e dell’usuraio ebbe aspetti di radicalismo medievale in piena guerra mondiale.

Quest’uomo vero fu pronto a pagare di persona, senza mai rinnegare una sola parola. Si esponeva senza remore. E parlava chiaro e forte. Come ad esempio in quella lettera – riportata da Colombo – indirizzata a don Calcagno (il sacerdote eresiarca fondatore di “Crociata Italica” durante la RSI e vicino a Farinacci) nell’ottobre 1944, in cui si scagliò contro la doppiezza vaticana di Pio XII: «Credete che un figlio d’usuraio, venduto e stipendiato, o indebitato agli ebrei sia la persona più adatta a “portare le anime a Cristo”? La Chiesa una volta condannava l’usura».

Ezra Pound non era un sognatore fuori dal mondo, e nemmeno un visionario ingenuo, come hanno cercato di farlo passare certi suoi non richiesti ammiratori antifascisti. Era un perfetto lettore della realtà e un geniale interprete dell’epoca in cui visse. Ebbe chiarissima davanti a sé l’entità della prova che si stava svolgendo con la Seconda guerra mondiale. Comprese come pochi che quella era la lotta decisiva fra l’usuraio e il contadino, e che difficilmente per il vinto ci sarebbe stata una rivincita. Quando la guerra piegò verso il trionfo degli usurai – allorché, come scrisse, «i fasci del littore sono spezzati» – partecipò fino in fondo all’esperienza tragica della Repubblica Sociale, consapevole di vivere, come dice Colombo, «l’età apocalittica della fine».

L’uomo europeo deve molto a Pound. Gli deve una grande passione ideale e una formidabile attrezzatura ideologica, che è grande poesia e a volte anche grande prosa. Proprio mentre l’usura universale sta facendo a pezzi un popolo dietro l’altro, proprio mentre infuria la volontà di scannare i popoli per arricchire piccole oligarchie di speculatori apolidi, quella di Pound appare come una gigantesca opera di profezia e di riscatto.


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mercredi, 12 octobre 2011

This Difficult Individual Eustace Mullins—& the Remarkable Ezra Pound

This Difficult Individual Eustace Mullins—& the Remarkable Ezra Pound

By Beatrice Mott

Ex: http://www.toqonline.com/

Eustace Mullins

Eustace Mullins

Earlier this year my friend Eustace Mullins passed away. He had been ailing for some time — at least since I first met him in 2006. Hopefully he is in a better place now.

Mr. Mullins made a huge mark on the nationalist community here in the United States, but also has a following in Europe and Japan. For those who have not read his books, Mr. Mullins attempted to expose the criminal syndicates that manipulate governments and the international financial system.

But Mr. Mullins’ most sparkling claim to fame was his partnership with Ezra Pound in order to write Secrets of the Federal Reserve — probably the most well-known exposé of how our government really works.

But nobody’s life is all sunshine and light. While Mr. Mullins’ work is among the most famous in the nationalist community, it is also some of the worst researched. He often fails to reference where he uncovered the material in his books. While Mr. Mullins was very perceptive of historical trends, his insights were sometimes overshadowed by unbalanced statements.

Authors wishing to quote Eustace’s books in their own writing make themselves an easy target for reasonable critics or hate organizations like the ADL. In this way, Mr. Mullins has done more harm to the movement than good.

I learned this the long way. Having read Secrets, I drove down to Staunton, VA in the summer of 2006 and spent an afternoon talking with Mr. Mullins. My goal was to find the origin of several stories and statements which I could not reference from the text. Mr. Mullins was an elderly gentleman and he couldn’t remember where he had found any of the material I was interested in. He simply replied: “It’s all in the Library of Congress. Back then they would let me wander the stacks.”

So I moved to D.C., a few blocks from the library and spent the better part of two years trying to retrace Mr. Mullins’ footsteps. Prior to this I had had several years’ experience as a researcher and was used to trying to find the proverbial “needle in a haystack.” They wouldn’t let me wander around the book storage facility (the stacks), but I scoured the catalog for anything that might contain the source for Mr. Mullins’ statements. I couldn’t verify any of the information in question.

Sadly, I realized that it would never be good practice to quote Mr. Mullins. But I hadn’t wasted the time. I know more about the Federal Reserve now than most people who work there and I learned about the fantastic Mr. Pound.

Ezra Pound is among the most remarkable men of the last 120 years. He made his name as a poet and guided W. B. Yeats, T.S. Elliot and E. Hemingway on their way to the Noble Prize (back when it meant something). He is the most brilliant founder of Modernism — a movement which sought to create art in a more precise and succinct form. Modernism can be seen as a natural reaction to the florid, heavy Victorian sensibility — it is not the meaningless abstractions we are assaulted with today.

Born in Idaho, Pound left the United States for Europe in 1908. In London he found an audience of educated people who appreciated his poetry. He married Dorothy Shakespear, a descendant of the playwright. Pound also befriended some of the most brilliant artists of the time and watched them butchered in the First World War.

Henri Gaudier-Brzeska [1], a sculptor and one of Ezra’s best friends, was one of these sacrifices. The Great War changed Pound’s outlook on life — no longer content with his artistic endeavors alone, he wanted to find out why that war happened.

Ezra_Pound_1945_May_26_mug_shotThe answer he got bought him 12 years as a political prisoner in St. Elizabeth’s Hospital in Anacostia, just across the river from the Capitol in Washington D.C. Pound was never put on trial but was branded a traitor by the post-war American media.

What answer did Pound find? Our wars begin and end at the instigation of the international financial houses. The bankers make money on fighting and rebuilding by controlling credit. They colonize nations and have no loyalty to their host countries’ youth or culture. No sacrifice is too great for their profit.

Much of Pound’s work chronicles the effect of this parasitic financial class on societies: from ancient China to modern-day Europe. Pound was a polyglot and scoured numerous (well-documented) sources for historical background. The education that Mullins’ work promises is delivered by the truckload in Pound’s writing. Pound often lists his sources at the end of his work — and they always check out.

Eustace Mullins got to know Pound during the poet’s time as a political prisoner. He was introduced to Pound by an art professor from Washington’s Institute of Contemporary Arts which, in Mullins’ words, “housed the sad remnants of the ‘avant-garde‘ in America.”

According to Mr. Mullins, Pound took to him and commissioned Eustace to carry on his work investigating the international financial system. Pound gave Eustace an American dollar bill and asked him to find out what “Federal Reserve” printed across its top meant. Secrets, many derivative books, and thousands of conspiracy websites have sprung from that federal reserve note.

And here is where the story goes sour. Pound was a feared political prisoner incarcerated because of what he said in Italy about America’s involvement with the international bankers and warmongering. Pound was watched twenty four hours a day and was under the supervision of Dr. Winfred Overholser, the superintendent of the hospital.

Overholser was employed by the Office of Strategic Services (the CIA’s forerunner) to test drugs for the personality-profiling program, what would be called MK-ULTRA. (See John Marks’ The Search for “the Manchurian Candidate”: The CIA and Mind-Control [2].) Personality profiling was St. Elizabeth’s bread and butter: The asylum was a natural ally to the agency.

Overholser was also a distinguished professor in the Psychiatry and Behavioral Sciences Department of George Washington University. This department provided students as test patients for the Frankfurt Schools’ personality profiling work, which the CIA was very interested in. Prophets of Deceit, first written by Leo Löwenthal [3] and Norbert Guterman in 1948, reads like a clumsy smear against Pound.

It does seem odd that a nationalist student would be allowed to continue the work of the dangerously brilliant Pound right under Winny’s nose. The story gets even stranger, as Mr. Mullins describes his stay in Washington during this time. He was housed at the Library of Congress — apparently he lived in one of the disused rooms in the Jefferson building and became good friends with Elizabeth Bishop [4].

Bishop was the Library of Congress’ “Consultant in Poetry” — quite a plum position. She was also identified by Frances Stonor Saunders as working with Nicolas Nabokov in Rio de Janeiro. Nabokov was paid by the CIA to handle South American-focused anti-Stalinist writers. (See The Cultural Cold War: The CIA and the World of Arts and Letters [5].) If what Saunders says is true, then it puts Eustace in strange company at that time of his life.

According to the CIA’s in-house historians, the Library was also a central focus for intelligence gathering [6] after the war, so it is doubly unlikely that just anybody would be allowed to poke around there after hours.

Whatever the motivation for letting Mullins in to see Pound was, the result has been that confusion, misinformation and unverifiable literature have clouded Pound’s message about the financial industry’s role in war. Fortunately Pound did plenty of his own writing.

According to Eustace, his relations with Pound’s relatives were strained after Pound’s release from prison. Pound moved back to Italy where he died in 1972. He was never the same after his stay with Overholser in St. E’s. The St. Elizabeth’s building is slated to become the new headquarters of the Department for Homeland Security [7].

Eustace went on to write many, many books about the abuses of government, big business and organized religion. They are very entertaining and are often insightful, but are arsenic from a researcher’s point of view. A book that contains interesting information without saying where the information came from is worse than no book at all.

While lackadaisical about references in his own writing, Mr. Mullins could be extremely perceptive and critical of the writing of others. I once told him how much respect I had for George Orwell’s daring to write 1984 — to which he sharply replied: “It’s a great piece of pro-government propaganda — they win in the end.” Mr. Mullins is of course right: Orwell’s Big Brother is always one step ahead, almost omniscient — and therefore invincible.

Eustace Mullins was much more than a writer. He became a political activist and befriended many prominent people in the American nationalist movement. But Mr. Mullins didn’t have much faith in American nationalism: It is a movement, he told me, that the government would never let go anywhere.

The Occidental Observer [8], March 20, 2010

lundi, 10 octobre 2011

Ignatius Royston Dunnachie Campbell: A Commemoration

Ignatius Royston Dunnachie Campbell:

A Commemoration

By Kensall Green

Ex: http://www.counter-currents.com/

So much fine writing already exists here concerning Roy Campbell (October 2, 1901–April 22, 1957) that it would be hardly fair to Counter-Currents’ previous Campbell biographers to repeat—my own rephrasing notwithstanding—this  poet’s life story once again. Let it simply stand that October 2, 2011 is Roy Campbell’s 110th birthday, and we remember him as poet, as a man of action, and as a heroic defender of the faith.

It is a mighty testament to his talent that his work and life are commemorated still, considering how much suppression his poetry — and therefore his very existence as a poet and hero — were subject to by the intellectual cabal of his day, and all the days since. He died, neck broken in an auto accident in Portugal, April 1957.

The following poems of Campbell both appeared in Sir Oswald Mosley’s BUF Quarterly magazine, published sometime between 1936 and 1940.

The Alcazar*

By Roy Campbell

The Rock of Faith, the thunder-blasted—
Eternity will hear it rise
With those who (Hell itself outlasted)
Will lift it with them to the skies!
‘Till whispered through the depths of Hell
The censored Miracle be known,
And flabbergasted fiends re-tell
How fiercer tortures than their own
By living faith were overthrown;
How mortals, thinned to ghastly pallor,
Gangrened and rotting to the bone,
With winged souls of Christian valour
Beyond Olympus or Valhalla
Can heave ten million tons of stone!

*In the summer of 1936, during the early part of the Spanish Civil War [2], Colonel José Moscardó Ituarte [3], and Spanish Nationalist Forces in support of General Franco, held a massive stone fortress, The Alcazar, against overwhelming Spanish Republican [4] forces. Despite being under continual bombardment, day and night, Col Moscardo and the Nationalists (reportedly nearly 1000 people—more than half of which were women) held out for two months.

The Fight

By Roy Campbell

One silver-white and one of scarlet hue,
Storm-hornets humming in the wind of death,
Two aeroplanes were fighting in the blue
Above our town; and if I held my breath,
It was because my youth was in the Red
While in the White an unknown pilot flew—
And that the White had risen overhead.

From time to time the crackle of a gun
Far into flawless ether faintly railed,
And now, mosquito-thin, into the Sun,
And now like mating dragonflies they sailed:
And, when like eagles near the earth they drove,
The Red, still losing what the White had won,
The harder for each lost advantage strove.

So lovely lay the land—the towers and trees
Taking the seaward counsel of the stream:
The city seemed, above the far-off seas,
The crest and turret of a Jacob’s dream,
And those two gun-birds in their frantic spire
At death-grips for its ultimate regime—
Less to be whirled by anger than desire.

‘Till (Glory!) from his chrysalis of steel
The Red flung wide the fatal fans of fire:
I saw the long flames, ribboning, unreel,
And slow bitumen trawling from his pyre,
I knew the ecstasy, the fearful throes,
And the white phoenix from his scarlet sire,
As silver the Solitude he rose.

The towers and trees were lifted hymns of praise,
The city was a prayer, the land a nun:
The noonday azure strumming all his rays
Sang that a famous battle had been won,
As signing his white Cross, the very Sun,
The Solar Christ and captain of my days
Zoomed to the zenith; and his will was done.

Roy Campbell. Poet, hero, comrade. You are commended and celebrated. Your talent shall not fade, nor shall your works grow old, age shall not bury you, nor every future time condemn.[1] Happy birthday.

Note

1. Paraphrase of Laurence Binyon’s “For The Fallen,” as quoted by Paul Fussell, The Great War and Modern Memory (New York: Oxford University Press, 1977), p. 56.

 

 


Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

mercredi, 05 octobre 2011

Emil Cioran - Un siècle d'écrivains (1999)

Emil Cioran - Un siècle d'écrivains (1999)

mardi, 04 octobre 2011

Evgueni Zamiatine

Evgueni Zamiatine

par

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

 

On ne doit pas oublier Zamiatine, si étrange et parfois déplaisant soit le personnage, car il est peu d’écrivains «soviétiques» aussi étonnants, totalement inclassable au temps du tsar, de la révolution et de l’exil, solitaire entre les solitaires.

Evgueni Ivanovitch Zamiatine est né le 20 janvier 1884 à Lebedian, dans la province de Tambov. Son père est un pope de l’Eglise de l’Intercession de la Vierge et sa mère une pianiste, elle-même fille de prêtre. Après ses études au lycée de Voronej, il prépare l’Institut polytechnique de Saint-Petersbourg. Mais ses idées avancées lors de la révolution de 1905 lui valent séjours en prison, assignations à résidence et même deux ans de déportation dans une bourgade du golfe de Finlande.

Malgré tous ces aléas révolutionnaires, il devient, à 24 ans, ingénieur des constructions navales, songe à une carrière littéraire et épouse une étudiante en médecine. Il a déjà écrit une évocation de sa vie carcérale: Seul, ainsi qu’un récit prometteur, Province, d’un ton elliptique très personnel.

Bénéficiant d’une amnistie il regagne Saint-Petersbourg, où il publie dans un journal, en mars 1914, une longue nouvelle, Au diable vauvert, qui vient d’être traduite en français. Le sujet fait scandale tant il dénonce les turpitudes d’une poignée d’officiers russes en garnison dans un poste perdu d’Extrême-Orient, sur les bords de l’océan Pacifique. Jugé antimilitariste et même pornographique, le livre est interdit par la censure et son auteur, âgé maintenant d’une trentaine d’années, est à nouveau déporté, cette fois à Kemi, en Carélie, dans le Grand Nord.

Au diable vauvert. Le titre indique que l’action se déroule loin, très loin, dans quelque garnison perdue. Un jeune officier, Andreï Ivanytch, originaire de Tambov, comme Zamiatine, a l’impression d’arriver au bout du monde. Il fait peu à peu connaissance de ses camarades, après une visite à son général, cuisinier à ses heures. Tous sont d’assez tristes personnages: paillards, ivrognes, tricheurs, brutaux, voleurs même, puisque telle la seule loi de cet univers corrompu, rongé jusqu’à l’os par tous les vices.

La femme du capitaine Netchessa accouche de son neuvième enfant et la grande question qui se pose est de savoir
qui en est le père, puisqu’il s’agit à chaque fois d’un officier différent. Cette interrogation lancinante n’empêchera pas un baptême fort arrosé. Bagarres, duels, suicides semblent les seules distractions de ces soldats perdus, pour qui la visite d’une escadre de marins français deviendra le seul dérivatif: nous sommes à la belle époque de l’alliance franco-russe. Quelques figures de femmes, comme la belle Maroussia, l’épouse de l’ignoble capitaine Schmidt, n’apportent même pas une note de joie dans cet univers désespéré.

On comprend la hargne de la censure tsariste, d’autant que n’importe qui serait désarçonné par le style d’un Zamiatine qui, sous prétexte de réalisme, bouscule allégrement la langue russe et la simple logique. Comme doit l’avouer le traducteur Jean-Baptiste Godon dans sa préface à l’édition française: «On rencontre de nombreux archaïsmes, des régionalismes, des proverbes, des néologismes… et les formules intempestives du langage parlé succèdent aux longues phrases ciselées: l’ordre des mots est bouleversé, les phrases sont tronquées, les pensées et dialogues, inachevés, interrompus par des points de suspension, des tirets. Zamiatine n’écrit pas, il narre…» On plaint le traducteur. Et encore bien davantage le lecteur.

Zamiatine n’est pas seulement un écrivain, c’est un ingénieur qui a beaucoup voyagé, de Constantinople à Salonique et de Beyrouth à Port-Saïd. Pendant la guerre, il sera envoyé en Angleterre pour y construire des navires brise-glaces. Il revient en Russie en 1917, juste pour la Révolution, dont il est un partisan résolu avant d’en être assez vite saturé et déçu.

Il se réfugie dans des récits brefs et des pièces de théâtre comme La Puce, qui sera par la suite interdite. Son roman Nous autres, impubliable en Russie communiste, est publié (sans son autorisation, dira-t-il) en Angleterre et en Allemagne en 1923. Situé dans des siècles futurs, c’est l’histoire d’une «Révolution qui a mal tourné», alors qu’elle devait apporter «le bonheur mathématique et exact, en forçant les gens à être heureux».

Dirigés par un grand Bienfaiteur qui a sur eux droit de vie et de mort et les a définitivement privés de toute inquiétude héritée des religions absurdes d’autrefois, hommes et femmes ne sont plus que des «Numéros», étroitement surveillés par le Bureau des Gardiens. Tout est organisé pour leur bonheur par l’Etat unique, qui a planifié leur travail, leur repos et même leurs amours, grâce à des carnets à souches de couleur rose destinés à organiser leurs «Heures personnelles». Un mur de verre sépare cette cité soit-disant idéale du monde extérieur et il y a bien longtemps qu’a été oublié tout ce qui constituait l’âme des époques d’autrefois, avant la guerre de Deux Cents Ans, entre la ville et la campagne, entre les sédentaires et les nomades où ces derniers furent vaincus.

L’ingénieur D.5O3, dont la confession est écrite à la première personne, est chargé de construire un vaisseau intersidéral qui porte le nom d’Intégral. Il fait la connaissance d’une femme, I.330 qui va le subjuguer en lui faisant entrevoir une autre vérité que celle du monde dans lequel vivent les sujets soumis à la loi des «Tables», ces codes rythmant leur vie: «Tous les matins, avec une exactitude de machines, à la même heure et à la même minute, nous, des millions, nous nous levons comme un seul numéro. Nous commençons notre travail et le finissons avec le même ensemble».

Le seul idéal: «Rien n’arrivera plus». Le seul péché, c’est d’être original, car c’est détruire le fondement de la société nouvelle: l’égalité, condition de l’éternité du néant.

Il arrive un drame: on découvre que D.5O3 est malade: « Ca va mal, lui dit le médecin. Il s’est formé une âme en vous». La conscience personnelle est une maladie et une maladie si grave qu’elle ne peut être éradiquée que par une opération chirurgicale. En attendant cette intervention, l’ingénieur rencontre I.33O à la Maison Antique, sorte de fragment du vieux monde oublié, «le monde déraisonnable et informe des arbres, des oiseaux, des animaux…». Lors de la fête du Jour de l’Unanimité, il n’en courbera pas moins la tête sous le joug du «Numéro des Numéros», ce Bienfaiteur qui lui ordonnera l’opération décisive, celle qui le débarrassera des quelques gouttes de «sang solaire et sylvestre» qui lui venaient des temps anciens. Il va redevenir comme tous les autres.

Une telle contre-utopie ne pouvait qu’attirer la fureur des autorités soviétiques. En 1931, Zamiatine écrit à Staline pour lui demander l’autorisation d’émigrer, sans perdre sa nationalité pour autant. Il part pour Prague puis pour Paris, où il meurt dans la misère et l’oubli le 10 mars 1937, ayant conscience de faire partie de la grande confrérie des hérétiques: «Seuls les hérétiques découvrent des horizons nouveaux dans la science, dans l’art, dans la vie sociale; seuls les hérétiques, rejetant le présent au nom de l’avenir, sont l’éternel ferment de la vie et assurent l’infini mouvement en avant de la vie».

* * *

(National-Hebdo n. 1126 – 16-22 fevrier 2006).

Alexandre Soljénitsyne sur "Apostrophes" - 11 avril 1975

Alexandre Soljénitsyne sur "Apostrophes" - 11 avril 1975

Houellebecq and the narrow, very liberal culture of nationalism in America

Houellebecq and the narrow, very liberal culture of nationalism in America

by Graham Lister

Ex: http://majorityrights.com/

michel-houellebecq.jpgIt is my opinion that Michel Houellebecq should be on the reading list of any committed non-liberal - assuming, of course, this paragon of nationalist virtue is interested in culture. And I think people who are seriously interested in understanding the grotesque spectacle of post-modern, ultra-liberal, hyper-modernity should be so interested. Cultural values are at the core of self-conception and define the contours of the political imagination.

The malaise facing the West goes far deeper than PeeCee and multiculturalism, even if they can be regarded as the most egregious symptoms of our total embrace of liberalism (that is, liberalism as the foundational paradigm for politics, culture, economics et al, rather than a secondary “corrective” ideology which is how classical liberalism arose).

Unfortunately no-one has a positive agenda to rebalance the West upon a sustainable course. There are of course some excellent critiques of the problems but, as yet, no really credible, putative solution has coalesced into a substantive form.

A comments elsewhere on the blog mentioned the spurning of Houellebecq, and I want to return to that. It strikes me that American nationalists in particular have a very narrow range of “cultural resources” that they bring to their politics. This also is true of many ‘nationalists’ across the board. How many times have the virtues of institutional religion (typically in the ‘Jesusland’ style) been offered as the “solution”, or indeed some bizarre “new” version of fascism offered up? Pardon the paradox but both are deeply trivial non-answers (for rather obvious reasons). The exhaustion of the already exiguous political and cultural imagination of nationalists is palpable (neo-Nazi techno anyone??? - Jesus wept). There is, sadly, a lack of genuine radicalism or innovative thought – in the true sense of thinking about these issues both deeply and widely, and in being ruthless in the analysis of old assumptions and outdated or discredited shibboleths.

Returning to Houellebecq, he is deeply anti-American in outlook, and this animosity is not without very good reason. It seems that, in general, Americans - nationalists often included - completely fail to understand that their own nation is the most profoundly liberal nation in history. America was conceived as an inorganic “social experiment” in terms of Enlightenment-derived individual liberty. Individualistic liberalism is the true American ideology/religion. To be sure, it is not the only theme in American life but the others have been peripheral to the cardinal (liberal) impetus animating American culture and society. I have encountered very few American non-liberals (a Hayekian liberal who thinks he is a conservative is still a sub-species of the liberal genus). The axiomatic and defining role of liberal philosophy in American society is something that the overwhelming mass of American people, even self-described conservatives and nationalists, have a very hard time understanding. Collectively, America has drunk from that particular (liberal) well more deeply, and for longer, than any European society.

Of course, all of the West has caught the liberal disease which is deeply corrosive to the collective well-being of ordinary Europeans – truly, we are Voltaire’s bastards. To be sustainable, any society must balance the collective interests - those unifying forces that build cohesion and social capital - and the legitimate individual impulses that invariably tend to differentiation and fragmentation. Equally, a balance must exist between the interests and desires of the present generation and those to whom we will bequeath our collective life and national community. That is why post-liberal politics is actually the “radical centre”. It is a fulcrum conceptualised, for me, in more Aristotelian terms. It is not simply the centre as conceived in the conventional political spectrum, which presently represents only relative variations of liberal political philosophy.

A final thought on American nationalist thinking. I note that the ideal of white Zion has been floated on the blog. Nothing ... nothing illustrates the difference being the inorganic, propositional societies of the New World and the organic ones of “old” Europeans. The idea that whites should move to one place is the ultimate in white-flight fantasies, and is a council of despair. No European patriot could possibly think that abandoning our ancestral homelands represents anything other than the nadir of complete and humiliating defeat. 

Why should the British tribes (the Anglos and the Celts) give up our homelands? When I am in the beautiful Highlands of Scotland I reflect on all those generations that lived in this land before me and bequeathed it to us, and I feel deeply connected to the past. What right do we have to surrender our inheritance? Do we really want to run off like cowards scared into self-destruction when faced by some uppity Africans and Pakistanis? Our American friends must try to solve their own problems in a way they judge is appropriate to their situation. However as a European patriot, I for one, will never surrender – anything else is little short of traitorous.

P.S. So we have Houellebecq as a dissector of liberal cultural values, and I would also suggest Ballard and Coetzee in this regard also. But who else might be on the “contemporary literature” reading list for the by no means narrow-minded non-liberal?

vendredi, 30 septembre 2011

Eustace Mullins e i segreti del poeta

Eustace Mullins e i segreti del poeta

Washington DC – primavera del 1949, St. Elizabeths Hospital in una camera del Mental Health Department un illustre “ospite”: Ezra Pound

di Gian Paolo Pucciarelli

Ex: http://www.rinascita.eu/

Eustace Mullins ha un rispettabile impiego alla Library of Congress, una laurea alla Washington University e un vivo interesse per le avanguardie europee del primo Novecento.
Lo attraggono i dipinti di Picasso e di Kandinski e in genere il Modernismo.
La Biblioteca del Congresso è la più grande del mondo (ventotto milioni di volumi).
Monumentale compendio dell’intero scibile umano e (con qualche disagio) campionario assortito di crisi e fulgori della cultura occidentale. Di quest’ultima un semplice bibliotecario può comprendere ambiguità e contraddizioni, a stento nascoste sotto il peso dell’architettura neoclassica, della tradizione liberale e della memoria di un presidente.
L’imponente Jefferson Building, appunto. E tutto quello che c’è dentro.
Ubicazione: 101 Independence Avenue – Washington – DC, qualche minuto a piedi dalla Casa Bianca, mezz’ora d’autobus e due secoli d’inutile fuga dall’oscurantismo per raggiungere il 1100 dell’Alabama Avenue e il… “Nido del Cuculo”.
La storia dei manicomi, vero o falsa che sia, lascia concrete tracce d’archetipi. Uno di questi si trova su una lieve altura, in direzione sud-est, quasi alla confluenza del Potomac con l’Anacostia.
Il punto in cui sostano gli uccelli migratori in cerca della giusta rotta e sbagliano… nido.
Ottanta piedi d’altezza, linee tardogotiche in segno d’austerità e non trascorsi orrori, sovrapposti ai tanti frantumi del sogno americano, in modo che ne risulti un sinistro edificio. (L’ispirazione è di Milos Foreman che venticinque anni più tardi, tenterà di spiegare le terapie psichiatriche in uso negli States, con buoni appoggi di Upjohns, Roche e le Multinazionali delle benzodiazepine).
Nome ufficiale: St. Elizabeths Hospital.
A causa di ben note imprecisioni nel distinguere la follia individuale da quella collettiva, i cartelli indicatori all’ingresso del nosocomio non recano la scritta “Mental Health”. Anche perché non è bene si sappia che fra gli 8.000 “ospiti” dell’Ospedale sono selezionati i “forensic patients” da sottoporre al test della lobotomia.
I Civils “beneficiano” invece di quotidiane terapie… elettroconvulsive.
Le visite ai ricoverati non sono concesse facilmente. Per via del lezzo di urina secolare misto ai vapori dell’acido ipocloroso, causa di svenimenti e complicazioni polmonari.
Poi perché non sono ancora tanto lontani i tempi in cui Mr. Donovan, già Chief dell’ O.S.S., inaugurò al St. Elizabeth l’uso della scopolamina per farne il siero della verità.
Nel complesso di edifici dell’Alabama Avenue si conservano in formaldeide 1.400 cervelli umani e corre voce che vi sia finito anche quello di Mussolini (ritenuto d’interesse sociale e utile un domani a chi intendesse esaminare le cellule del Capo del Fascismo a scopi didattici, misurando gli effetti dell’irrazionalità delle masse sui lobi cerebrali del Duce).
Eustace Mullins ha appena varcato i cancelli del St. Elizabeth, dopo aver ottenuto il “passi” e non prima di aver svuotato la propria vescica urinaria. Fra tante amenità, recentemente apprese, mentre s’incammina lungo il viale che attraversa un ampio prato fino all’entrata principale, sente l’irrefrenabile impulso di affondare una mano nella tasca dei pantaloni per tastarsi ripetutamente i testicoli. Gesto salvifico, anche se irrispettoso, per la vicinanza di Mrs. Dorothy che, pur mesta e pensosa, con lui procede, affiancandolo.
Poco dopo, preda dell’emozione e degli scongiuri, Mullins si guarda intorno circospetto, avvertendo invisibili presenze di spettri in divisa.
Sono i fantasmi dei 500 Soldati Blu (e Grigi) sepolti nell’area circostante, vittime della guerra civile e dell’oblio. I loro poveri resti giacciono dispersi per sempre nel sottosuolo, mentre ignari tagliaerba, ordinando il prato che li sovrasta senza alcun segno tombale, continuano a cancellarne la memoria. Mullins sembra udire grida di vendetta, soffocate da metri di terra e fastidiosi ronzii di tagliatrici. Ma è solo un’impressione. Non gli resta che accennare un sorriso, sul quale si protende un filo di persistente amarezza.
 
Appare il cartello Mental Health Department. Prima di varcarne l’ingresso, il “visitatore” guarda il lontano e quasi immobile Potomac, da cui sembra levarsi il frastuono delle battaglie combattute novant’anni prima. L’illusione sonora s’interrompe, per via delle voci, quasi irreali, che provengono dall’interno. Mullins, controllando a stento la propria emozione, si affida a Mrs. Dorothy che lo accompagna alla camera di un illustre “ospite” del dipartimento: Ezra Pound.
Fuori, lo struttural-funzionalismo alla Talcott Parsons propone tregua ai conflitti sociali, solidale col noto impostore che raccomanda “Società Aperte” senza far uso di volantini.
Bastano l’abbaglio del benessere e l’abitudine a invisibili moltiplicatori del debito pubblico.
La cella del St. Elizabeth in cui “alloggia” Pound è occupata da un maleodorante giaciglio e un tavolo di metallo, su cui si ammucchiano quaderni di appunti. Lo spazio esiguo della cella consente di ospitarvi il solo recluso, esempio del trattamento riservato alle vittime della moderna inquisizione. Sebbene Mrs. Dorothy cerchi di tranquillizzare Mullins, si fa presto strada in lui la tentazione di concludere la visita con un rapido, liberatorio congedo, ancor prima che si proceda con le presentazioni. L’ambiente è impressionante. Il Poeta del resto, poco incline ai convenevoli, esclusi quelli strettamente di rito, dopo un breve scambio di parole, non sembra propenso al dialogo. Lunghi silenzi, interrotti da brevi domande sullo stato di salute del recluso, restano senza risposta, con evidente imbarazzo di Mullins, che più volte rivolge lo sguardo a Mrs. Dorothy, mentre gli occhi di Pound, seminascosti da cispose sopracciglia, lo fissano con insistenza.
“Lei ha fatto la guerra?” Chiede il Poeta. E la domanda riduce l’impaccio del bibliotecario, ma ne aumenta comunque la sudorazione corporea.
“Sì. Ho prestato servizio nell’US Army, e nel 1945 facevo parte delle Forze di occupazione in Baviera.”
“ Si è mai chiesto perché?”
“Come?”
“Perché?”
“Perché ho servito la mia Patria.”
“No. No. Si è mai chiesto perché è scoppiata la guerra?”
Mullins impallidisce.
“Si è mai chiesto che cosa rappresentano gli enormi e profondi crateri di Hiroshima, scavati e modellati nella calda estate del 1945?”
“Lei sa che cos’è la Federal Reserve Bank?”
“La Banca Centrale degli Stati Uniti.”
“Non esattamente. E’ la responsabile della Prima e della Seconda Guerra Mondiale!”
Mullins ascolta attonito.
Nel linguaggio di Pound ricorre la parola Usura, che vuol dire International Loan System, rete dei prestiti pubblici organizzata dall’Investment Banking, cui spetta il diritto di intermediazione su ogni scambio internazionale. La memoria di un passato non più recente, ma incancellabile, emerge, imperiosa e sgradita, componendo immagini che velocemente si sovrappongono per ricordare ferite inguaribili, inflitte nel profondo dell’animo.
Tempi e luoghi diversi evocano il lungo soggiorno europeo e il passo dell’esule, cadenzato sui ritmi poetici del Cavalcanti e l’Alighieri, per tradurlo nel linguaggio, illuminante e faticoso dei Cantos. Parigi e la Bella Signora Italia, più volte violentata e offesa. Venezia, la Riviera. Il 1945 è anno cruciale. Oltre all’arresto del cittadino americano “traditore” che osò denunciare i responsabili di due guerre mondiali, si segnalava nei pressi del lago di Como, la presenza di un britannico obeso, con l’orecchio all’ascolto di sempre più fievoli eco, disperse nel vuoto, fino alla decisa pressione d’uno scarpone militare straniero; un brindisi di compiacimento per festeggiare la morte di Radio Roma e i trionfi del Dio della Guerra.
Un’analisi retrospettiva è essenziale, dice il Poeta, non certo per convincere chi baratta la libertà con la miopia, ma per… vederci chiaro. La sorpresa non manca, quando Pound afferma che in quella occasione l’agenda di Winston Churchill non valeva meno dei diari di Mussolini e di una cartella marrone, contenente carte compromettenti.
Il premier inglese era solito annotarvi date importanti, usando la matita rossa, come per esempio “Yalta – 4 febbraio 1945”.
Per Dresda preferiva il colore blu, che ricorda le bombe al fosforo, stilando di suo pugno le note su quanto sarebbe avvenuto nella città tedesca undici giorni dopo.
Perché mai la Conferenza economica di Bretton Woods ebbe luogo un mese dopo lo sbarco in Normandia? Una direttiva del “War Production Board”, o un ordine preciso del “Pool” di Banche Internazionali che finanziavano le industrie di armamenti? Chi aveva voluto la guerra, manovrando astutamente “dietro le quinte”? Chi pretendeva il controllo della finanza mondiale?
Mullins è impressionato.
Pound continua…
Provincia di Como, Giulino di Mezzegra e dintorni – 28 aprile 1945
Lo stesso signore sovrappeso, calvo e vestito di scuro, la matita rossa e blu nel taschino, pronta a scrivere luoghi e date, e a tracciare una bella “X” trasversale sopra un nome importante e troppo scomodo. Che cosa fa costui, quando gli Alleati sono alle porte e il Cln combatte la “sua” guerra di ritorsione? Dipinge mediocri acquarelli sulle rive del lago.
Alle creazioni artistiche assistono a breve distanza i suoi attenti custodi, agenti del Secret Operations Executive (SOE).
Fra i cadaveri, che entro poche ore penderanno a testa in giù in Piazzale Loreto, ci sarà anche quello dell’uomo che voleva difendersi e sapeva troppe cose.
Il signore obeso, vestito di scuro, che non conosce le sventure di Mani, l’eretico, né l’orrenda fine di Dioniso, o del Paracleto consolatore, due volte crocifisso, traccia due “X” in rosso su quel nome e riprende a pasticciare acquarelli.
Nelle orecchie risuonano i primi sette versi del Canto Pisano 74, (scritti su carta igienica, all’interno di una gabbia per animali, esposta alle intemperie in aperta campagna).
Lì si apprende che rischia la condanna a morte chiunque raccomandi la “moneta a scadenza” di Silvio Gesell, le teorie monetarie del Maggiore Douglas e osi maledire il “putrido” gold standard e i Banchieri usurai. Ma dal ventoso viale di Washington, dove si aprono i portali della Suprema Corte giunge l’eco della sentenza, nella severa voce di un giudice che si appresta a decretare insanità mentali.
Il “folle” avrebbe fatto anche l’uomo in gabbia per manifestare i tormenti del secolo breve e il grande inganno, di cui il mondo sarebbe stato vittima, senza il bisogno di cercare conferme fra gli appunti di Winston Churchill.
In America intanto i sondaggi già tendono a far crescere l’ottimismo, mentre di fatto la vita continua fra incertezze e paure.
Per altro, nessuno crede più alla casualità di quel che accade in politica. Né alle stime che confermano il prevalere degli “accidentalisti” sui “cospirazionisti”. Ma chi se la sentiva allora di smentire il compianto Presidente, Franklin Delano Roosevelt, autorevole pedina di Wall Street, e quanto egli avrebbe confidato al proprio ambasciatore a Londra, Joseph (Joe) Kennedy: “ In politics nothing happens by chance, if it happens you may bet it was planned that way”?
Nel grande Paese della Libertà si vive intanto l’età dell’ansia, da secoli sofferta e pianificata per i decenni a venire.
“The Age of Anxiety” è, fra l’altro, poema fresco di stampa, che guadagna il Pulitzer, la buona fama di W.H. Auden e crea non pochi equivoci nella società americana del dopoguerra, più incline a ingoiare ansiolitici che a leggere versi (ignorando che le strade della follia spesso non portano al manicomio).
Pound si congeda, pregando Mrs. Dorothy di accompagnare il visitatore all’uscita.
Al commiato, un biglietto di 10 dollari si protende verso Mullins ed è accettato volentieri. Rimborso spese settimanali per svolgere una piccola inchiesta.
Dove? Alla Library of Congress, naturalmente. Lì c’è tutto quello che occorre sapere sul Vreeland-Aldrich Act, e molto altro ancora. Per esempio quanto accadde in una stazione ferroviaria del New Jersey durante una sera d’autunno del 1910.
Il bibliotecario intanto accetta l’incarico che gli costerà, subito dopo, il posto di lavoro.


23 Settembre 2011 12:00:00 - http://rinascita.eu/index.php?action=news&id=10489

jeudi, 29 septembre 2011

Masa y Poder: Ezra Pound pedagogo

Presentación del libro de Ezra Pound; Guía de la Kultura, Capitán Swing, Madrid, 2011

“I was twenty years behind the Times”
(Ezra Pound, ‘Contemporania’, 1913)

Masa y Poder: Ezra Pound pedagogo

Por Nicolás González Varela

http://geviert.wordpress.com

 

“GUÍA DE LA CULTURA. Título ridículo, truco publicitario. ¿Desafío? Guía debería significar ayuda a otra persona a llegar a un sitio. ¿Debemos de despreciarlo? Tiros de prueba.”[1] El único libro del economista-poeta Ezra Loomis Pound que salió en el annus memorabilis de 1938[2] fue una anomalía desde todo punto de vista. Su título: Guide to Kulchur (GK). En sus páginas puede disfrutarse del mejor Pound vanguardista, que como Minerva nace armado con su método ideogramático, un Pound sin temor ni temblor a fundir en una nueva síntesis, en una Summa de su pensamiento, nada menos que a Jefferson, Mussolini, Malatesta, Cavalcanti y Confucio. Pound vive en la Italia fascista desde fines de 1924, ha vivido la consolidación, estabilización y maduración del regimen fascista, desde cuyas fórmulas políticas e instituciones económicas, cree con fervor, puede plantearse una terza via entre el capitalismo liberal en bancarrota y el socialismo burocrático de Stalin. También son los años en que Pound, demostrando su estatura intelectual, pasa de las preocupaciones estéticas a las éticas. El libro tiene su propia historia interna, una poco conocida tortured history: en febrero de 1937 Pound inicia una correspondencia con el playful in-house editor Frank Morley (a quién Pound llamaba cariñosamente por su tamaño Whale, ballena), de la editorial inglesa Faber&Faber. Pound le informa acerca de un nuevo libro revolucionario de prosa. Estaría muy bien, le contestaba Morley, que en lugar de escribir algo similar a su ABC of Reading, de 1934, publicara sus ideas sobre lo que entiende por la Cultura con mayor extensión y profundidad. Inmediatamente Pound le contesta que pensaba en primer lugar en una obra que se llamaría The New Learning (El nuevo Aprendizaje), luego sugirió el nombre de Paideuma, pero desde el principio el editor Morley lo consideraría, más que como un Hauptwerk exhaustivo sobre el tema, como una introducción o guía, por lo que surgió el nombre de Guide to Cultur, que llevaría un subtítulo curioso luego desechado “The Book of Ezro”: “un libro que pueda funcionar como una educación literaria para el aspirante a todas las excavaciones y que desea hacer volar el mundo académico antes que hacer su trabajo.”[3] Morley además le aseguraba que para un popular textbook como del que hablaba, existía un amplio mercado potencial de lectores. En una carta dirigida al editor Pound en febrero de 1937 describía el proyecto como “lo que Ez (Ezra) sabe, todo lo que sabe, por siete y seis peniques” (y en tamaño más portable que el British Museum)[4], y le explicaba que introduciría algunos contrastes entre la decadencia de Occidente y Oriente y que también mencionaría los aspectos “raciales” de la Cultura. Además describía el esqueleto de su futura obra en tres grandes bloques: I) Método (basado en las Analectas de Confucio); II) Filosofía (en tanto una exposición y a la vez crítica de la Historia del Pensamiento) y III) Historia (genealogía de la acción o los puntos cruciales del Clean Cut).[5] Finalmente se firmó el contrato formal entre ambas partes y el libro se denominaba en él como Ez’ Guide to Kulchur.

GK fue publicada entonces por la editorial Faber&Faber[6] en el Reino Unido en julio de 1938 y por la editorial New Directions, pero bajo el título más anodino de Culture, en noviembre de 1938 en la versión para los pacatos Estados Unidos. Pound la escribió de corrido en un mes durante la primavera de 1937 (marzo-abril), bajo un estado anímico al que algunos biógrafos como Tytell denominaron “a sense of harried desperation”.[7] Como saben los que conocen su vida y obra, cada movimiento que propugnaba lo tomaba como un asunto de emergencia extrema y límite. Según el irónico comentario del propio Pound “el contrato de la editorial habla de una guía DE la cultura no A TRAVÉS de la cultura humana. Todo hombre debe conocer sus interioridades o lo interno de ella por sí mismo.” y efectivamente no defraudó a sus editores en absoluto. El libro (si podemos denominarlo así) era un escándalo antes de ver la luz. Aparentemente nadie de la editorial leyó en profundidad el manuscrito en su contenido polémico y cercano al libélo. Ya había ejemplares encuadernados, listos para entregar al distribuidor, cuando la editorial inglesa Faber&Faber decidió que, posiblemente, algunos pasajes eran radicalmente difamatorios. Al menos, según cuentan especialistas y biógrafos confiables, se arrancaron quince páginas ofensivas, se imprimieron de nuevo y se pegaron con prisa; también se imprimieron nuevos cuadernillos de páginas para los ejemplares que no habían sido encuadernados todavía.[8] No nos extraña: sabemos que Pound como crítico “jamás experimentó el temor de sus propias convicciones”, en palabras de Eliot. Quod scripsi scripsi. Lo extraño y maravilloso es que el libro como tal haya sobrevivido a semejante desastre editorial. GK fue finalmente publicado el 21 de julio de 1938, estaba dedicada “A Louis Zukofsky y Basil Bunting luchadores en el desierto”. Zukofsky era un mediocre poeta objetivista neyorquino, autodefinido como communist, al que Pound adoptó como discípulo y seguidor de sus ideas[9]; a su vez Bunting era un poeta británico, conservador e imperialista, que Pound ayudó con sus influencias intelectuales y el mecenazgo práctico.[10] Pound mismo consideraba GK, circa 1940, como la obra en la que había logrado desarrollar su “best prose”[11], además la ubicaba, junto a The Cantos, Personae, Ta Hio, y Make It New, en el canon de sus opera maiorum. También lo consideraba uno de sus libros más “intensamente personales”, una suerte de ultimate do-it-yourself de Ezra Pound. Su amigo, el gran poeta T. S. Eliot afirmó que tanto GK como The Spirit of Romance (1910) debían ser leídos obligatoriamente con detenimiento e íntegramente. Aunque puede considerarse el más importante libro en prosa escrito por Pound a lo largo de su vida[12], sin embargo Guide to… no cuenta con el favoritismo de especialistas y scholars de la academia (a excepción de Bacigalupo, Coyle, Davie, Harmon, Lamberti, Lindberg y Nicholls).[13] El mejor y más perceptivo review sobre el libro lo realizó su viejo amigo el poeta Williams Carlos Williams, en un artículo no exento de críticas por sus elogios desmesurados a Mussolini titulado “Penny Wise, Pound Foolish”. En él, Williams señalaba que a pesar de todas su limitaciones o errores involuntarios, GK debía ser leído por el aporte de Pound en cuanto a revolucionar el estilo, por su modo de entender la nueva educación de las masas y por iluminar de manera quirúrgica muchas de las causas de la enfermedad de nuestro presente.[14] En cambio nosotros no consideraremos a GK ni como un libro menor, ni como un divertido Companion a su obra poética, ni como un torso incompleto, ni siquiera como un proyecto fallido. En realidad GK es una propedeútica al sistema poundiano, su mejor via regia, un acceso privilegiado a lo que podríamos denominar los standard landmarks[15] de su compleja topografía intelectual: la doctrina de Ch’ing Ming, el famoso método ideogramático, su libro de poemas The Cantos entendido como un tale of the tribe, la figura de la rosa in steel dust,[16] la forma combinada de escritura paratáctica[17], el uso anti y contrailustrado de la cita erudita, su deriva hacia el modelo fascista (la economía volicionista y su correspondiente superestructura cultura)[18], la superioridad en el conocimiento auténtico de la Anschauung[19] como ars magna y el concepto-llave de Paideuma. GK puede ser además considerado un extraordinario postscript a su opera maiorum, hablamos de la monumental obra The Cantos, en especial a los poemas que van del XXXI al LI, publicados entre 1934 y 1937. Pound se propone incluso romper con su propia prosa pasada: “Estoy, confío de manera clara, haciendo con este libro algo diferente de lo que intenté en Como leer, o en el ABC de la Lectura. Allí estaba tratando abiertamente de establecer una serie o un conjunto de medidas, normas, voltímetros; aquí me ocupo de un conjunto heteróclito de impresiones, confío que humanas, sin que sean demasiado descaradamente humanas.”[20]

propaganda americana contra la cultura alemana

US propaganda contra la cultura alemana, I Guerra

 

En primer término, y por encima de todo, debemos señalar al lector ingenuo que Ezra Loomis Pound ha sido un pedagogo y un propagandista antes que nada y se propone nada más ni nada menos que GK sea un Novum Organum, al mejor estilo baconiano[21], de la época incierta que se abre ante sus pies. Llamarlo Kulchur tiene su explicación filosófica y política: Pound quería referirse al concepto alemán de Cultura (Kultur) pero para diferenciarlo del tradicional que utiliza la élite (irremediablemente lastrado de connotaciones clasistas, nacionalistas y raciales), lo escribe según la pronunciación; y al mismo tiempo anula la indicación tradicional que tiene el concepto Cultur en inglés. Este sesgo nuevo y revolucionario a lo que entendemos en la Modernidad por Cultura es el primer paso para la tarea de un New Learning de masas y la posibilidad histórica de un nuevo Renacimiento en Europa, ya que “las democracias han fallado lamentablemente durante un siglo en educar a la gente y en hacerle consciente de las necesidades totalmente rudimentarias de la democracia. La primera es la alfabetización monetaria.” Su significado temático revolucionario, intentar comprender de otro modo al Hombre, la Naturaleza y la Historia, debemos señalarlo, excede el mero ejercicio de escribir poesía. Es una vigorosa reacción contra la Aufklärung, que para Pound es una período de lenta decadencia, la verdadera Dark Age de Occidente, signado por la subsunción de toda la Cultura a la usura y el mercantilismo más brutal (institucionalizados en una forma perversa: la banca): “Hemos ganado y perdido cierto terreno desde la época de Rabelais o desde que Montaigne esbozó todo el conocimiento humano.”[22] Como Nietzsche, Pound rescata de las Lumiéres tan solo a Bayle y Voltaire y si Nietzsche intentó este nuevo desaprendizaje-aprendizaje contra la Modernidad desde la forma literario-política del aforismo, Pound lo intentará desde el ideograma y el fragmento citacional, buscando el mismo efecto pedagógico en las masas, en el hombre sin atributos, que había experimentado en persona en la Mostra della Rivoluzione Fascista[23] inaugurada en el Palazzo delle Esposizioni de Roma en 1932.

¿El libro es en realidad un enorme ideograma de acceso a la verdadera Kulchur? Recordemos que para Pound Cultura con mayúsculas es cuando el individuo ha “olvidado” qué es un libro, o también aquellos que queda en el hombre medio cuando ha olvidado todo aquello que le han enseñado.[24] Y que entonces de alguna manera la auténtica Cultura se correlaciona con una forma privilegiado de relación entre el sujeto y el objeto, la Anschauung, opuesta sin posibilidad de cancelación con el Knowledge de la Modernidad, un producto amnésico y totalitario (en sentido gestáltico, no político) prefabricado a través de un enfoque deficiente de el Arte, la Economía, la Historia y la Política. La Anschauung es superior, tanto epistémica como políticamente: “La autoridad en un mundo material o salvaje puede venir de un prestigio acumulado, basado en la intuición. Confiamos en un hombre porque hemos llegado a considerarle (en su totalidad) como hombre sabio y bien equilibrado. Optamos por su presentimiento. Realizamos un acto de fe.”[25] Siempre hay que subrayar que Pound no tiene como propósito exclusivamente el regodeo narcisista de transmitir “descubrimientos”, ni progresar en algún tipo de carrerismo académico, sino que su pathos radical presionaba a que sus tesis deben ser llevadas a la práctica, y por ello él mismo nos muestra el camino y custodia con celo la senda adecuada para tal traducción material: “Y al llegar aquí, debemos hacer una clara diferencia entre dos clases de «ideas». Ideas que existen y/o son discutidas en una especie de vacío, que son como si fueran juguetes del intelecto, e ideas que se intentan poner en «acción» o guiar la acción y que nos sirven como reglas (y/o medidas) de conducta.”[26] La distinción de Pound fijada en el concepto técnico de “Clean Cut” entre ideas in a vacuum y las ideas in action (básicas como reglas de conducta) es crucial en este sentido.[27] Pound decía que al final GK no era más que “su mapa de carreteras, con la idea de ayudar al que venga detrás a alcanzar algunas pocas de las cimas, con menos trabajo que el que uno ha tenido…” Para lograr una educación profunda y postliberal, decía Pound que el alumno debía dominar las siguientes bases mínimas: todo Confucio (en chino directamente o en la versión francesa de M. G. Pauthier), todo Homero (en las traducciones latinas o en la francesa de Hughes Salel), Ovidio, Catulo y Propercio (utilizando como referencia la Metamorfosis de Golding y los Amores de Marlowe), un libro de canciones provenzales (que al menos incluya a los Minnesingers y a Bion), por supuesto Dante (además treinta poemas de sus contemporáneos, en especial de Cavalcanti), “algunos otros temas medievales… y algún esbozo general de la Historia del Pensamiento a través del Renacimiento, Villon, los escritos críticos de Voltaire (incluyendo una pequeña incursión en la prosa contemporánea), Stendhal, Flaubert (y por supuesto los hermanos Goncourt), Gautier, Corbière y Rimbaud.”[28] GK es la Guía Baedeker, que puede superar en un solo mandoble las limitaciones tanto de la Modernidad liberal como el Comunismo de sello staliniano[29], a través de una nueva genealogía basada en lo que denomina the Best Tradition, o en palabras de Pound “En lo esencial, voy a escribir este nuevo Vademécum sin abrir ningún otro volumen, voy a anotar en la medida de lo posible solamente lo que ha resistido a la erosión del tiempo y al olvido. Y en esto hay un poderoso argumento. Cualquier otro camino significaría que me vería obligado a tener que citar un sinnúmero de historias y obras de referencia.”[30]

El primer efecto del método poundiano en el lector ingenuo y tradicional es la desorientación en el maremagnum de las yustaposiciones y la interrupciones en la ilación lógica. Además es evidente que Pound “juega” con el diseño gráfico de la página, trasciende la linearidad del texto, subvierte las normas establecidas de signos y morfología, trascendiendo el contenido a través de imágenes: reproducción de ideogramas, partituras musicales, fragmentos citacionales de temas diversos, citaciones ad verbatim, déjà-vus semánticos, formas coloquiales anónimas et altri. Esto efectos no son meramente buscados en busca de algún efecto visual “vanguardista”, “lúdico” o “creativo”, en absoluto (aunque co-existan en GK como efectos de composición) sino de crear un nuevo soporte, mitad estilo mitad icónico, capaz de vehicular, de soportar como medio comunicativo eficaz, la nueva sensibilidad que reclama Occidente en decadencia: “El lector con prisas puede decir que escribo en clave y que mis afirmaciones se deslizan de un punto a otro sin conexión u orden. La afirmación es, sin embargo, completa. Todos los elementos están ahí, y el más perverso de los aficionados a los crucigramas debería ser capaz de resolverlo o de verlo.”[31] Pound reclama en GK su idea de One-Image Poems, paradigma poético-icónico,  o incluso podemos llamarlo una suerte de “lenguaje mosaico”, que como hemos señalado, se eleva sobre el sólido fundamento de la yuxtaposición paratáctica de texto e imágenes diversas, creando una suerte de espacio acústico.[32] El aspecto formal del método ideogramático es muy importante para Pound, y uno de sus componentes centrales es su propia definición de imagen como una presencia compleja que implica tanto lo intelectual como lo puramente emocional en una simultaneidad: “an Image is that which presents an intellectual and an emotional complex in an instant of time.”[33] Una definición totalmente bergsoniana: la inmediata, la interacción intuitiva inmediata con la imagen, el mismo instante del tiempo en que esta interacción se produce, el espontáneo crecimiento formativo por la presencia del élan vital, el retorno a los horned Gods y la libertad total con respecto de los límites “normales” que determinan el cuadro perceptivo burgués, tienen directa contraparte con el concepto de evolución creadora de la filosofía de Henri Bergson.

GK es concebido por Pound para las grandes masas, el gran público amorfo de la infernal sociedad industrial-mercantilista[34], el despreciado uomo qualunque, al cual el poeta intenta re-educar en un modo revolucionario, polémico y de mortal enfrentamiento con el sistema institucional y académico burgués y para sobrevivir a la sobre información generada por la opinión pública moderna: “Estoy, en el mejor de los casos, tratando de suministrar al lector medio unas pocas herramientas para hacer frente a la heteróclita masa de información no digerida con que se le abruma diaria y mensualmente, y lista a enmarañarle los pies por medio de libros de referencia.”[35] La hipótesis no explícita de Pound es el reconocimiento de la irrupción irreversible en la Historia de una nueva “masa”, heterogénea y segmentada (aunque tanto el tardoliberalismo como el burocratismo soviético intentarán homogeneizarla y uniformarla), que empuja a revisar axiomas y arcani imperii consolidados: estado, economía, política, cultura, organismo social, poder. Es a esta masa, que soporta el efecto reaccionario de los new media, es el objeto privilegiado de intervención al que se dirige GK con la ideología a la que adhiere Pound, tanto en lo personal (las nuevas teorías económicas de Gesell, el confuso antisemitismo)[36] como en lo corporativo (el Stato totale de la Italia fascista como anticipación)[37]. El método ideogramático se coloca así como una refinadísima actividad de agitprop, con la capacidad de retomar fuentes de la tradición culta (consciente y críticamente seleccionadas)[38], elementos literarios como la voz y la autoridad autoral (que le otorga credibilidad e identidad al texto), para refundirlos con los nuevas necesidades de consenso y reproducción que han generado en el sustrato popular los nuevos medios de comunicación (¡de masas!) de la esfera pública burguesa, así como las modalidades de consumo y ocio. Y es por ello la importancia hoy de volver a leer GK como un laboratorio que lleva a sus límites la propia Weltanschauung tardomodernista, en esa experimentación entre desarrollo formal y la voluntad de generar nuevos “efectos” que van más allá de lo meramente poético en el uso de herramientas retóricas.

Pound persigue regenerar un Total Man, pero revulsivo y de signo inverso al de la ideología demo-liberal, que puede realizar una conversión y metamorfosis de tal magnitud que le permita “conversar” con los grandes filósofos y generar buenos líderes. Esta “regeneración”, por supuesto, es incompleta y unilateral si no se logra que los vórtices del Poder y los vórtices de la Cultura coincidan[39], por lo que la efectividad de GK sólo podrá verse reflejada cuando la forma estado en Occidente tienda hacia el Stato totale[40] de la Italia fascista. Y del elemento corporativo deberían aprender con humildad las deficientes y corruptas democracias liberales, en especial Reino Unido y los Estados Unidos de América, ya que “NINGUNA democracia existente puede permitirse el pasar por alto la lección de la práctica corporativa. El ‘economista’ individual que trate de hacerlo, o bien es un tonto o un sinvergüenza o un ignoramus.” En otro polémico libro, Jefferson and/or Mussolini, Pound lo describe de esta manera: “Un buen gobierno es aquel que opera de acuerdo con lo mejor de lo que se conoce y del pensamiento. Y el mejor gobierno es el que traduce el mejor pensamiento más rápidamente en acción.”[41] De igual manera lo expresa mucho más pristínamente en GK: “El mejor gobierno es (¿naturalmente?) el que pone a funcionar lo mejor de la inteligencia de una nación.”[42] Es esa simultaneidad expresada en un Best Government es la que abrirá la puerta en Europa a un nuevo Renacimiento, a una Era of Brillance libre de la Ley del valor capitalista (explotación) y de su efecto más funesto: la usura: “Si el amable lector (o el delegado a una conferencia internacional económica de U.S.A.) no puede distinguir entre su sillón y la orden de un alguacil, que permita a este último secuestrar dicho sillón, entonces la vida le ofrecerá dos alternativas: ser explotado o ser más o menos alcahuete, mimado por los explotadores, hasta que le llegue el turno de ser explotado.”[43] La nueva Kulchur debería ser una arma masiva y práctica contra la explotación, una arma que trasciende tanto la burocrática proletarskaya kultura de la URSS como la falsa meritocracia del sistema demo-liberal anglosajón, cuya alma oculta es el mecanismo de la usura. La usura, un tema omnipresente en la obra de Pound, es definida en su libro The Cantos, en una nota bene al canto XLV como: “Usura: gravamen por el uso del Poder adquisitivo, impuesto sin relación a la producción, a veces sin relación a las posibilidades de la producción (de ahí la quiebra del banco de los Medici)”.[44] Para Pound, como para muchos intelectuales no-conformistas de los 1930’s, el mundo se dividía, no en proletariado y capitalistas, sino en una peculiar lucha de clases entre productores y usurers. La única posibilidad epocal de superación de este estado contra naturam del hombre, dominado por el finance Capitalism, era la coincidencia de la Paideuma con un regimen autoritario-corporativo. Y para ello era necesario un salto en la conciencia de las masas por medio de una acción pedagógica militante. Pound siempre sostuvo un compromiso con los temas educativos y una pasión vocacional por la pedagogía, hasta tal punto de planificar literary kindergartens. Se podría decir que GK es un esfuerzo más en el ideal de una sociedad basada en un nuevo aprendizaje y en medios educativos revolucionarios.

Merece un párrafo su especial relación intelectual ambivalente con Karl Marx, del cual pueden verse rescoldos en GK. La formación económica de Pound se realizó íntegramente a través de de economistas heterodoxos, algunos importantes aún hoy en día, como el economista anarquista Silvio Gesell (discípulo de Proudhon) y otros que han pasado al justo olvido, como C. H. Douglas u Odon. Ya en pleno fascismo italiano Pound dio conferencias sobre economía planificada y la base histórica de la economía en la Universidad de Milán a partir de 1933. Al inicio del ‘900 en sucesivos artículos Pound defiende las reformas socialistas llamadas Social Credit, en clave proudhonnistes y sus economistas de cabecera es siempre Douglas y Gesell, de quienes decía habían lograda acabar con the Marxist era. Como muchos pre fascistas, Pound cree que modificando la esfera de la circulación y la distribución podría nacer una nueva sociedad sin tocar las estructuras sociales y políticas, sin tocar el derecho de propiedad básico. El Fascismo es el único, entre el Comunismo y el detestable capitalismo liberal, de llevar a buen término, la justicia económica. Pound se percibe con muchas afinidades con Marx, valora su figura de social Crusader, alaba la noble indignación tal como surge en la retórica de Das Kapital, sabemos que Pound pudo leerlo en traducción italiana, pero una indignación que sin embargo es como una nube que confunden al lector. Además Marx esta en una siniestra genealogía filonietzscheana que desde la Ilustración radical desemboca en una nueva forma de décadence. Para Pound la verdad de lo que denomina Marxism materialist está en sus resultados prácticos en Lenin y Stalin, en la burocracia soviética y el Gulag: “El fango no justifica la mente. Kant, Hegel, Marx terminan en OGPU. Algo faltaba.”[45] Pound también comparte con Marx que las relaciones económicas materiales son fundamentales para la comprensión exacta de la dinámica social, y adhiere completamente a la crítica de la avaricia y la crueldad del British industrialism. Siguiendo en esto a Gesell, Pound cree que el Marxismo qua ideología fijada en un estado en realidad no significa ningún desafío al capitalismo liberal, al bourgeois demo-liberal: “Los enemigos de la Humanidad son aquellos que fosilizan el pensamiento, esto es lo MATAN, como han tratado de hacerlo los marxistas en nuestra época, lo mismo que un sin número de tontos y de fanáticos han tratado de hacerlo en todos los tiempos, desde la cadencia musulmana, e incluso antes. HACEDLO NUEVO”[46] La doctrina de Marx murió en 1883, el mismo día de su muerte: solo quedan sus acólitos construyendo un nuevo y esclerótico dogma. Del mismo Gesell, Pound tomará acríticamente su endeble crítica a la teoría de la moneda y de la ley del valor marxiana. Por ello Marx jamás podrá dañar definitivamente al Capital: “El error de la izquierda en las tres décadas siguientes fue que querían usar a Marx como el Corán. Supongo que la verdadera apreciación, esto es, el verdadero intento de apreciar el mérito verdadero de Marx empezó con Gesell y con la afirmación de Gesell de que Marx nunca ponía en duda el dinero. Lo aceptó buenamente tal como lo encontró.”[47] Sabemos que sus conocimientos de Marx son pocos y fragmentados, centrados literariamente en el capítulo VIII de Das Kapital, que se ocupa de la lucha por la jornada laboral.[48]

¿Podía calificarse a Pound de nietzscheano? Aunque se discute si existe algún elemento de nietzscheanismo difuso en Pound, es evidente que conceptos-llave de su Weltanschauung, están derivados o de Nietzsche o de seguidores, inclusive el mismo término Paideuma acuñado por Frobenius está inspirado en última instancia de un nietzscheano radical auténtico como Oswald Spengler. Se puede hablar de afinidades electivas y de influencias indirectas del Nietzschéisme en la conformación del paradójico Aristocratism side del individualismo metodológico de Pound sin lugar a dudas.[49] Pound ya utilizaba terminus technicus nietzscheanos, como Over Man (Superhombre) a inicios del ‘900, aunque producto de una lectura fragmentada y a tirones, o como él mismo confesaba en un poema I believe in some parts of Nietzsche/I prefer to read him in sections.[50] Incluso llega a aceptar como válida las consecuencias biológicas de la filosofía de Nietzsche y su oposición intransigente a toda conclusión cooperativa o colectivista: “I, personally, may prefer the theory of the dominant cell, a slightly Nietzschean biology, to any collectivist theories whatsoever.”[51] En un poema-funerario dedicado a su admirado amigo Gaudier-Brzeska titulado “Reflection”, Pound hace otro acto de fe hacia Nietzsche: “I know what Nietzsche said is true…”[52] La afinidad electiva es más que obvia, los une pasión pedagógica y una hybris reactiva: Nietzsche también estuvo obsesionado por la Paideia como base del estado, por la cuestión formativa y las reformas educativas que pudieran detener la decadencia burguesa de Occidente.[53] También como en Nietzsche, como en Mann o como en Heidegger, Pound sostiene la creencia que el stress de los costos extras de la dominación burguesa, que implica la constante revolución de las fuerzas productivas y el avance tecnológico, es insostenible, decadente y alienante. Coexisten en Pound el interés por la alta o nueva tecnología con el pesimismo sobre la interrupción vital de la fluidez de la imaginación, la negra posibilidad de la hegemonía del hombre sin atributos y sus consecuencias en la Cultura. Es la típica ambivalencia ideológica del Modernismo a la que no escapa Pound: mientras la techné es celebrada como una extensión proteica de la voluntad de poder del hombre en la máquina, el efecto total debido a la forma de dominio bourgeois es ácidamente atacada como una totalidad falsa, despersonalizada, inauténtica y vacía. Contra este gigantesco movimiento milenario de decadencia y empobrecimiento es que Pound levanta su New Learning, su revolucionaria Guía a la Cultura, y por ello afirma sin hesitar que sus ojos are geared for the horizon.[54]

La obra de Pound tanto poética como en prosa es difícil o de imposible lectura, decía sabiamente Borges, aunque reconocía la obligatoriedad de su lectura, ya que con él la literatura norteamericana y la ensayística universal había tocado las alturas más temerarias. Invitamos al lector al desafío de sumergirse en uno de las mejores ensayos del siglo XX, ahora disponible en una exquisita edición crítica y completa.

[1]Ezra Pound; Guía de la Kultura, Capitán Swing, Madrid, 2011, p. 195.

[2] En su Guide to… Pound coloca la fecha exacta de su urgente escritura: “16 de marzo anno XV Era Fascista”. Desde 1931 Pound utilizaba el nuevo calendario fascista. Los biógrafos creen que la ansiedad de Pound se debía a las consecuencias inmediatas de la crisis de Münich, el Tratado de Rapallo y la posibilidad de una guerra europea catastrófica. No estaba equivocado en absoluto.

[3] Morley le afirmaba que “seeryus & good sized home university library for the seeryus aspiring & highminded youth… a book that would function as… litry education for the aspirant with all the excavations you wish blowing up what it is the academics do instead of their job.”, en: Pound Papers, February, 1937, Yale Collection of American Literature, Beinecke Rare Book and Manuscript Library, New Haven, Connecticut; parcialmente on-line: http://beinecke.library.yale.edu/digitallibrary/pound.html

[4] Pound decía: “Wot Ez knows, or a substitute (portable) fer the Bruitish museum”, en: ibidem, February, 1937. Lo de “Bruitish” una ironía bien poundiana.

[5] Un esquema básico que mantendrá en GK: “Ningún ser viviente sabe lo suficiente para escribir: Parte I. Método; Parte II. Filosofía, la historia del pensamiento; Parte III. Historia, o sea, la acción; Parte IV. Las Arles y la Civilización.”, en: Ezra Pound; Guía de la Kultura, Capitán Swing, Madrid, 2011, p. 57.

[6] La editorial Faber fue la editorial en inglés más importante en la difusión de la entera obra de Pound, llegando a editar más de veinte títulos entre 1930 y 1960; en ella trabajaba como primary literary editor su amigo, el poeta T. S. Eliot.

[7] Tytell, John; Ezra Pound: The Solitary Volcano,  Anchor P, New York, 1987, p. 247.

[8] Stock, Noel; Ezra Pound; Edicions Alfons El Magnànim, Valencia, 1989, p. 441 y ss. Pound conservó como un tesoro cinco ejemplares de GK no expurgados. Lo señala también Gallup en su definitiva obra bibliográfica: Gallup, Donald; A Bibliography of Ezra Pound. 1963, edición revisada y ampliada: Ezra Pound: A Bibliography, University Press of Virginia, Charlottesville, 1983, quién enumera en detalle las modificaciones finales. Como dato curioso: desapareció de la versión final el nombre del vilipendiado poeta español Salvador de Madariaga.

[9] Véase la voz “Zukofsky, Louis (1904-1978)”, en: Adams, Stephen J./ Tryphonopoulos, Demetres P. (Editors); The Ezra Pound Encyclopedia, Greenwood Press, Westport, 2005, p. 309.

[10] Véase la voz “Bunting, Basil (1900–1985)”, en: ibidem, p. 22.

[11] La carta con la autointerpretación sobre GK en: Norman, Charles; Ezra Pound; Funk &Wagnalls, New York, 1968, p. 375.

[12] Los numerosos libros de prosa de Pound, algunos poco conocidos y agotados, son en orden cronológico: The Spirit of Romance (1910) Gaudier-Brzeska. A Memoir (1916), Pavannes and Divisions (1918), Instigations. . . Together with an Essay on the Chinese Written Character (1920), Antheil and the Treatise on Harmony (1924), How to Read (1931), ABC of Economics (1933), ABC of Reading (1934), Make It New (1934), Jefferson and/or Mussolini (1935), Social Credit: An Impact (1935), Polite Essays (1937), Guide to Kulchur (1938) y Literary Essays (ed. T. S. Eliot, 1954).

[13] Bacigalupo, Massimo. The Formed Trace: The Later Poetry of Ezra Pound, Columbia University Press, New York, 1980; Coyle, Michael; Ezra Pound, Popular Genres, and the Discourse of Culture, University Park: Pennsylvania State UP, 1995; Davie, Donald. Studies in Ezra Pound. Manchester,  Carcanet, 1991;  Lamberti, Elena; “’Guide to Kulchur’: la citazione tra sperimentazione modernista e costruzione del Nuovo Sapere”, en: Leitmotiv, 2, 2002, pp. 165-179; Lindberg, Kathryne V.; Reading Pound Reading: Modernism after Nietzsche, Oxford UP, New York:, 1987; Nicholls, Peter; Ezra Pound: Politics, Economics, and Writing: A Study of The Cantos, Humanities Press, Atlantic Highlands, 1984. El rechazo in toto de la academia sería para Pound justamente un elogio indirecto a su método heterodoxo de aprendizaje y educación radicalmente revolucionario.

[14] Williams, William Carlos; “Penny Wise, Pound Foolish”, en: The New Republic, 49, 28, june, 1939, pp. 229-230. Williams llamaba en la recensión a Pound “a brave Man” por su honestidad intelectual y valentía política. La única crítica de Pound a Mussolini en GK es que en su mente todavía quedan residuos de Aristóteles: “… an Aristotelic residuum…”, e: Ezra Pound; Guía de la Kultura, Capitán Swing, Madrid, 2011, p. 305.

[15] Pound los denomina nuclei, sus núcleos.

[16] Dice bellamente Pound: “La forma, el inmortal concetto, el concepto, la forma dinámica que es como el dibujo de la rosa hundido en las muertas limaduras de hierro por el imán, no por contacto material con el imán mismo, sino separado del imán. Separados por una capa de cristal, el polvo y las limaduras se levantan y se ponen en orden. Así la forma, el concepto resucita de la muerte.”, en: Ezra Pound; Guía de la Kultura, Capitán Swing, Madrid, 2011, p. 166.

[17] Parataxis: se entiende como una construcción de dos oraciones sintácticamente independientes que están en una relación de subordinación implícita en virtud de lo que se conoce como una “curva melódica” común, que hace innecesario el uso de la conjunción, uniéndolas en una relación íntima de dependencia. Véase: Mounin, Georges (Dirigido por); Diccionario de Lingüística, Labor, Barcelona, 1979, p. 139-140. Estilísticamente puede decirse que mientras la hipotaxis (relación explícita mediante un signo funcional) señala un discurso meditado y racional, incluso de cierta “distinción” social en el nivel cultural de quién la emplea, la parataxis, propia de la expresión de emociones, es de un lenguaje más popular y llano. Pound: “The Homeric World, very human”, en: GK, p. 38.

[18] Además en GK se muestra claramente, como en Cantos, el milieu intelectual fascista en el cual se mueve Pound alrededor de los círculos romanos de Edmondo Rossoni, ministro de Agricultura del Duce y editor de la influyente revista cultural La Stirpe: “Eran personalidades serias, como las que Confucio, San Ambrosio o su Excelencia Edmondo Rossoni podrían y desearían reconocer como personalidades serias.”; en esta edición, vide infra, p.  Sobre Pound y el Fascismo italiano, véase: Redman, Tim; Ezra Pound and Italian Fascism, Cambridge University Pres, Cambridge, 1991.

[19] Pound utiliza la palabra alemana Anschauung, un erkenntnistheoretischer Begriff introducido por Kant aunque ya utlizado por místicos como Notker o Meister Eckhart, para referirse a la superioridad epistemológica de la inducción y la intuición: “…la facultad que le permite a uno «ver» que dos líneas rectas no pueden encerrar una superficie, y que el triángulo es el más sencillo de todos los polígonos posibles.” Por ejemplo, el pedagogo iluminista Pestalozzi lo utilizó en un contexto operativo educativo, tal como pretende re-utilizarlo Pound. En esta revalorización de la Anschauung Pound aquí coincide no casualmente no sólo con Nietzsche sino con el neokantismo, Husserl y Heidegger, y en sus comentarios críticos a Aristóteles (Arry), Pound ubica a la intuición por encima de la sophia.

[20] Ezra Pound; Guía de la Kultura, Capitán Swing, Madrid, 2011, p. 217.

[21] Pound dixit: “Bacon. No creo que la coincidencia con mis puntos de vista sea debida a memoria inconsciente, dos hombres en momentos diferentes pueden observar que los caniches tienen el pelo rizado sin necesidad de referirlo o derivarlo de una «autoridad» precedente.”

[22]Ezra Pound; Guía de la Kultura, Capitán Swing, Madrid, 2011, p. 57.

[23] La Mostra… fue realizada con motivo del décimo aniversario de la Toma del Poder por Mussolini, tras la marcha fascista sobre Roma. Fue una idea de Dino Alfieri, futuro ministro de Cultura Popular. Pound visitó la Mostra… en diciembre de 1932, poco después de su inauguración oficial, quedando impresionado como la organización anti-museo Risorgimiento de iconografía, objetos cotidianos (el propio escritorio de Mussolini en el diario Il Popolo d’Italia) y collages de imágenes promovía la incitación del visitante a la acción. Sobre la Mostra… y su formato conservador-revolucionario, véase: Andreotti, Libero; “The Aesthetics of War: The Exhibition of the Fascist Revolution”, en: Journal of Architectural Education, 45.2, 1992, pp. 76-86; finalmente el trabajo de Jeffrey Schnapp: Anno X. La Mostra della Rivoluzione fascista del 1932: genesi-sviluppo-contesto culturale-storico-ricezione. With an afterword by Claudio Fogu, Piste – Piccola biblioteca di storia 4, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Rome-Pisa, 2003 y su artículo: “Fascism’s Museum in Motion”; en: Journal of Architecture Education 45.2, 1992,  pp. 87-97.  Pound elogiará el aspecto radical y pedagógico de la Mostra… en su Cantos, el número XLVI, publicado en 1936. No es de extrañar: arquitectos liberales como Le Corbusier o un nietzscheano de izquierda como Georges Bataille también tuvieron una impresión profunda de la Mostra

[24] Pound dice: “when one HAS ‘forgotten-what-book’ ” (GK 134) y más adelante: “what is left after man has forgotten all he set out to learn” (GK 195); véase: Ezra Pound; Guía de la Kultura, Capitán Swing, Madrid, 2011, p. 151 y 197.

[25] Ezra Pound; Guía de la Kultura, Capitán Swing, Madrid, 2011, p. 178.

[26] Ibidem, , p. 76.

[27] En GK, p. 34. Un ejemplo concreto de esta “limpieza directa” sería la obra de Gaudier-Brzeska.

[28] El famoso “Pound’s Pentagon”, su canon clásico y la superestructura cultural de un estado noble, lo constituye las Odas de Confucio, los Epos de Homero, la Metamorfosis de Ovidio, la Divina Comedia de Dante y las obras teatrales de Shakespeare.

[29] “El Comunismo como rebelión contra los ladrones de cosechas  fue una tendencia admirable.  Como revolucionario, me niego a aceptar una pretendida revolución que intenta inmovilizarse o moverse hacia atrás.”; en: Ezra Pound; Guía de la Kultura, Capitán Swing, Madrid, 2011, p. 202.

[30] Ibidem, p. 65.

[31]Ezra Pound; Guía de la Kultura, Capitán Swing, Madrid, 2011, p. 78. No es casualidad que Pound indique formalmente al lector placentero del diario burgués típico.

[32] Pound había estudiado en detalle el método similar de sobreposición y parataxis que funciona en el Haiku japonés a través de los trabajos de Fenellosa.

[33] Pound, E.; “A Few Don’ts By an Imagiste”; en: Poetry, 1, 1916.

[34] “This book is not written for the over-fed. It is written for men who have not been able to afford a university education or for young men, whether or not threatened with universities, who want to know more at the age of fifty than I know today, and whom I might conceivably aid to that object.”, en: GK, p. 6.; en esta edición, vide infra, p.  Pound consideraba, en una particular estadística personal, que en la sociedad burguesa podía encontrarse un lector reflexivo y serio por cada 900 lectores ingenuos o masificados.

[35] Ezra Pound; Guía de la Kultura, Capitán Swing, Madrid, 2011, p. 57.

[36] Sobre el controversial antisemitismo ad hoc de Pound en GK, véase: Chace, William M.; The Political Identities of Ezra Pound & T. S. Eliot, Stanford University Press, Stanford, 1973, Chapter Five, “A Guide to Culture: Antisemitism”, p. 71 y ss.

[37] “El genio de Mussolini era ver y afirmar repetidamente que había crisis no EN, sino DE sistema. Quiero decir que lo vio claro y temprano. Muchos lo vemos ahora.”

[38] “¿Y qué hay sobre anteriores guías a la Kulchur o Cultura? Considero que Platón y Plutarco podrían servir, que Herodoto sentó un precedente, que Montaigne ciertamente suministró una guía tal en sus ensayos, lo mismo que lo hizo Rabelais y que incluso Brantôme podría tomarse como una guía del gusto.”; en: Ezra Pound; Guía de la Kultura, Capitán Swing, Madrid, 2011, p. 216.

[39] Dice Pound: “When the vortices of power and the vortices of culture coincide, you have an era of brilliance”.

[40] Pound en realidad llama a esta Océana ideal de su filosofía política Regime Corporativo.

[41] Pound, Ezra; Jefferson and/or Mussolini, Stanley Nott, New York, 1935, p. 96: “A good government is one that operates according to the best that is known and thought. And the best government is that which translates the best thought most speedily into action.”

[42] “The best Government is (naturally?) that which draws the best of the Nation’s intelligence into use.”, en: Ezra Pound; Guía de la Kultura, Capitán Swing, Madrid, 2011, p. 266.

[43] Ibidem, p. 247.

[44] Dice Pound: “Usury: A charge for the use of purchasing power, levied without regard to production; often without regard to the possibilities of production.” Es una conclusión extraída de las enseñanzas sobre el Social Credit del economista Douglas.

[45] En: Ezra Pound; Guía de la Kultura, Capitán Swing, Madrid, 2011, p. 183.

[46] Ibidem, p. 278.

[47] Pound nunca llegó a conocer los escritos juveniles de Marx, donde se analiza a fondo el papel del Dinero, por ejemplo.

[48] Amplias citas de Das Kapital en su obra The Cantos, en particular en el canto XXXIII.

[49] Véase el trabajo de Kathryine V. Lindberg: Reading Pound Reading: Modernism After Nietzsche, Oxford University Press, New York & Oxford, 1987. Lindberg analiza la larga influencia del reaccionario pensamiento nietzscheano en la ideología y estética del Modernismo hasta el Postestructuralismo. De Gourmont recibió además Pound el impacto de la ideología derivada de Lamarck

[50] Pound, Ezra; “Redondillas, or Something of That Sort”, en: Ezra Pound: Poems and Translations, ed. by Richard Sieburth, Library of America, New York, 2003, pp. 175–182 (la stanza se encuentra en la p. 181). El poema “Redondillas…” es de mayo de 1911 y en él Pound también reconoce que lee a Nietzsche con la devoción con la que un cristiano se enfrenta a la sagrada Biblia.

[51] Pound, Ezra; “The Approach to Paris, III”, en: New Age, 13, Nº 21, 18 September 1913, pp. 607-609. Ahora en: Ezra Pound’s Poetry and Prose, 11 vols, Garland, London, 1991, I, C-95, pp. 156-159.

[52] Pound, Ezra; “Reflection”, en: Smart Set, 43, Nº 3, july, 1915, p. 395. Ahora en: Ezra Pound: Poems and Translations, ed. by Richard Sieburth, Library of America, New York, 2003, p. 1179.

[53] Sobre Nietzsche como pedagogo y reformador educativo, un aspecto infravalorado por los estudios y hagiografías, nos permitimos remitir al lector a nuestro libro: Nietzsche contra la Democracia, Montesinos, Mataró, 2010, capítulo V, “Pathein Mathein: la educación reaccionaria y ¿racista? del Futuro”, p. 173  y ss.

[54] Ezra Pound; Guía de la Kultura, Capitán Swing, Madrid, 2011, p. 84.

mardi, 20 septembre 2011

Die Schlagkraft des Aussenseiters: Das Werk Friedrich Sieburgs

 

Die Schlagkraft des Aussenseiters: Das Werk Friedrich Sieburgs

Geschrieben von: Daniel Bigalke

Ex: http://www.blauenarzisse.de

   

 

Die Schlagkraft des Außenseiters liegt in seinem Exotismus, der ihn zu einem gefährlichen Wesen macht. Er genehmigt sich den Luxus der Stille oder des Genusses großer geistiger Werke und übt wirksame Kritik – an liberalen Irrwegen oder immanenten Fehlern politischer Progressivität. Es gab nur wenige Intellektuelle der Nachkriegszeit, die als Konservative dieses Außergewöhnliche repräsentierten und trotzdem in ihrem Wirken ernst genommen wurden. Zu ihnen gehört der Schriftsteller, Literaturkritiker und Journalist Friedrich Sieburg (1893-1964).

Die frühe Bundesrepublik galt Sieburg als entwurzelt

Anfangs dem George-Kreis nahe stehend und später einer großen Öffentlichkeit bekannt durch seine Zeitungsartikel und Bücher, wie etwa Gott in Frankreich? von 1929, wurden einige seiner Schriften in der Sowjetischen Besatzungszone auf die Liste der auszusondernden Literatur gesetzt. Dies war auch dem Umstand zu verdanken, dass Sieburg anfänglich die nationalsozialistische Machtergreifung begrüßte und für das „neue Deutschland” warb. Dem westlichen Deutschland blieben seine politischen und philosophischen Urteile nicht verborgen. Denn Sieburg wurde nicht müde, sie plakativ in den Mittelpunkt der Debatte zu rücken. Ihm erschien die Bundesrepublik als entwurzelte Zone, die vom Konformismus ohne eigene geistige Leistungen geprägt sei.

sieburg.jpgSieburg hörte nicht auf, den Mangel an Sittlichkeit und Höflichkeit in der Gesellschaft als Wucherungen anzusehen, zu denen nur westliche Demokratien als Mekka der Vulgarität und der Bequemlichkeit des Einzelnen in der Lage seien. Er beschrieb zudem das Dilemma, ohne Traditionsbewusstsein dem Zeitgeist zu verfallen und so die Vergangenheit nicht verarbeiten zu können, der man sich nach 1945 nur schwerlich stellen konnte. Stattdessen gehe der Mensch in einer anonymen Menge unter, der eine einigende Idee fehle und in der soziale Bindungen kaum noch durch Familie und Fleiß und vielmehr über staatliche Transferleitungen erlogen werden.

Präzise Analyse der deutschen Mentalität

Wo liegen für Sieburg die Ursachen dieser Entwicklung? Als Motor dafür macht er die Traditionslosigkeit der Deutschen aus, die sich nach dem Kriege ohne Vorbehalte der Gegenwart verschrieben, den Verlockungen des Konsums erlagen und sich durch Suche nach Vorteilen in neue Abhängigkeiten begaben. Damit eröffnet sich auch schon sein bedeutsames Schwerpunktthema: Das mangelnde Identitätsbewusstsein der Deutschen, die fehlende „deutsche Ganzheit“ im Vergleich zur englischen oder französischen Situation.

Sieburg knüpft damit an eine Idee an, welche schon der Philosoph Rudolf Eucken (1846-1926) in seiner Schrift Zur Sammlung der Geister (1914) – freilich in einem anderen historischen Zusammenhalt - formulierte. Identität, Sorgfalt, feste Bindungen und inneres Wachstum des Menschen seien in Deutschland zu erstreben anstelle materialistischer Indienstnahme. Zugleich bestehe bei den Deutschen – folgt man nun wieder Sieburg - gerade durch den Anspruch des inneren Wachstums des Menschen eine Position des Schwankens zwischen extremen Zuständen. Größenwahn und Selbsthass, Provinzialismus und Weltbürgertum etwa würden sich von Zeit zu Zeit im politischen Handeln und geistigen Wirken der Deutschen kundtun.

Die Lust am Untergang (Selbstgespräche auf Bundesebene)

In der Tat sind dies etwa für die deutsche Philosophie über Fichte oder Hegel teilweise typische Eigenschaften. Für Sieburg können diese sich sogar im Politischen ebenso wie im Geistigen konkret über großartigen Ideenreichtum aber auch über schreckliche Selbstüberheblichkeit auswirken. Kaum ein anderer deutscher Intellektueller erkannte nach dem Weltkrieg diese geistige Disposition so wie Sieburg. Er brachte das quasi dialektische Problem auf den Punkt indem er meinte, die Deutschen litten am Unvermögen zur pragmatischen Lebensform auf der einen Seite und am (idealistischen) Hang zum Absoluten und zur Freiheit auf der anderen Seite. Besonders scharf formulierte Sieburg dies in seiner Essaysammlung Die Lust am Untergang (Selbstgespräche auf Bundesebene) von 1954.

Hegel würde in seiner Staatsphilosophie hier noch zustimmend meinen, daß gerade der deutsche Drang zur absoluten Freiheit besonders charakteristisch gegenüber anderen europäischen Völkern sei. Demgemäß hätten sich die Deutschen nicht der Herrschaft eines einzigen Staates oder einer einzigen Religion aus Rom unterworfen. Sieburg steht aber mit seiner Erkenntnis des dialektischen Problems der deutschen Mentalität nicht in der Tradition eines deutschen Sonderbewusstseins. Sein nietzscheanisches Pathos der Distanz beschritt erfolgreich den Weg, nationale Identität zu stiften durch die Bewunderung der geistigen Ausstrahlung und der Leistungsfähigkeit, deren das Deutsche zeitweise fähig sei, ohne die dabei ebenso möglichen Risiken und tiefen Abgründe auszublenden.

Das Los des schöpferischen Menschen

Sieburg verkörpert das Los des schöpferischen Menschen. Er litt an seiner Heimat, ohne sie entbehren zu können. Er verachtete ihre Mittelmäßigkeit, nahm diese aber ernst und analysierte sie, um aus der Erkenntnis ihrer Ursachen neue Wege der Identitätsfindung für das Deutschland der Nachkriegszeit abzuleiten. Er liefert damit auch eine pragmatische Definition des Konservativismus, die aus einer freien Haltung heraus resultiert. Konservatismus möchte für Sieburg mehr, als die simplen Denkschablonen der sogenannten „Mitte“ und ihre immer wiederkehrenden Reproduktionen politischer Feindbilder.

Die öden Versprechen von dauerhaftem Wohlstand und Konsumkraft seien nur ein Beispiel des wiederkehrenden deutschen Abgrundes und seiner idealistischen Ziele, denen es an Pragmatismus und Realismus fehle. Sieburgs Überlegungen beeindrucken durch die Schlagkraft des Exoten. Sie vermitteln zwischen deutscher idealistischer Tradition in der Philosophie und der Notwendigkeit des politischen Realismus in der frühen Nachkriegszeit.

Sieburg und Thomas Mann

Dieser Realismus benötige laut ihm keine Heilsversprechen. Zugleich findet man eine überzeugend formulierte mediale Inkompatibilität vor, die mit ihren Reflexionen zu den Folgen einer absoluten Demokratisierung des Menschen und der Gesellschaft oder mit der schlüssigen Analyse der deutschen Mentalität herzhaft erfrischt und an Thomas Manns Betrachtungen eines Unpolitischen (1918) erinnert.

Freilich sind die Schriften Sieburgs wesentlich authentischer, da dieser sich nicht von seinen Analysen distanzierte, wie dies Thomas Mann schon recht früh mit Blick auf seine Betrachtungen von 1918 tat. Zugleich lobte Sieburg Thomas Manns Gesamtwerk überschwänglich. Das spiegeln auch zahlreiche Urteile literarischer Zeitgenossen über Sieburg wider. Damit hat Friedrich Sieburg heute in seiner analytischen Tiefe viel mehr zu bieten als so manche stilisierte Ikone der deutschen Literatur nach 1945.

lundi, 19 septembre 2011

Wolfram von Eschenbach e i Custodi del Graal

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Wolfram von Eschenbach e i Custodi del Graal

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

 

Fra gli autori dei racconti del Graal Wolfram von Eschenbach occupa un posto speciale dovuto non solo al particolare impianto narrativo della sua opera, ma soprattutto ai numerosissimi elementi dottrinali che l’arricchiscono di un simbolismo e di prospettive spirituali persino islamiche non sempre emerse con chiarezza negli altri compositori del ciclo del Graal.

Wolfram intende dare voce ad una speciale tradizione spirituale sulla quale addirittura dichiara di aver costruito il suo Parzival. Questa tradizione è personificata in “Kyot il Provenzale”, un personaggio straordinario al quale difficilmente potrà essere data una fisionomia precisa. Nel Parzival appare poche volte (VIII, 417, 431, IX, 453-454, 455, XVI, 827), tutte tese a dare importanza a questa fonte e a rimarcare la diversità di molti simboli del Parzival rispetto a quelli emersi nel Perceval di Chrétien de Troyes. Ciò che rende particolarmente interessante la funzione di “Kyot il Provenzale”, di questo maestro “cantore”, o forse e più esattamente “incantatore” [= schianture], è il contatto che tramite lui sembra essersi stabilito fra la tradizione cristiana, quella giudaica e l’Islam, con tutto ciò che questi contatti hanno potuto comportare sul piano dottrinale, simbolico e, forse, rituale. I cenni a Toledo, alla Spagna, alla Provenza, a Baghdad, al Baruc, a Feirefiz, così come il legame fra Flegetanis, Kyot e Salomone, sono a questo riguardo molto significativi e richiamano la presenza eccezionale di kabbalisti, sufi e contemplativi cristiani presso le corti musulmane di Spagna e in quelle della Provenza trovadorica.

Senza supporre una fonte islamica diretta resterebbe enigmatica la presenza nel Parzival di termini e di dottrine astrologiche sicuramente arabe. Si potrebbe anche menzionare l’enigmatico riferimento di Wolfram a quel cavaliere musulmano che in un duello con Anfortas, “re e patrono del Graal”, ferisce inguaribilmente il sovrano cristiano con la sua lancia, un cavaliere “nativo di Ethnise [=“la terra originaria”], là dove scorre il Tigri giù dal Paradiso” (IX, 479). Come chiarisce Wolfram subito dopo (IX, 481), questo Tigri è uno dei quattro fiumi del Paradiso terrestre e perciò assume un rilievo simbolico rilevante la correlazione fra Ethnise, il Paradiso e l’Islam che rimanda ai tanti cenni similari contenuti in quasi tutte le composizioni di questa materia. La ferita di Anfortas è provocata da un cavaliere islamico “nativo di Ethnise” e la sua “insufficienza” come re del Graal scaturisce dal “colpo di lancia” di un rappresentante dell’Islam. Con apparente casualità, Wolfram presenta l’Islam come una tradizione radicata nella rivelazione “originaria” (=Ethnise), ma nel contempo evidenzia caratteri “escatologici” che sembrerebbero indicare nell’Islam la tradizione più idonea a combattere contro le perversioni dei tempi ultimi.

Un altro elemento fondamentale che mostra la profondità della presenza islamica in Wolfram è lo strano destino di Feirefiz, “Bianco-Nero”, che accompagnerà il fratello Parzival a Munsalvaetsche e dopo il suo battesimo sposerà la Fanciulla del Graal, Repanse de Schoye, “la Dispensatrice di Gioia”, la personificazione della Sedes Sapientiae. Un terzo dato è la descrizione del palazzo reale che si trova in XIII, 589-590, tanto precisa ed articolata da convincere Hermann Göetz che qui si ha la trasposizione dello schema-base del palazzo dei Califfi di Baghdad e, forse, persino un cenno ad un famoso stûpa del re kushana Kanishka. Da parte sua Lars-Ivar Ringbom ha mostrato che anche la pianta architettonica del Tempio del Graal descritta da Albrecht von Scharfenberg nel suo poema può essere compresa solo comparandola alla struttura del palazzo di Taxt-i Sulayman,“il Trono di Salomone”, l’antico santuario mazdeo del fuoco chiamato Taxt-i Taqdis, ”il Trono degli Archi”, costruito dal re Chosroe II e poi distrutto dall’imperatore bizantino Eraclio nel 629, quando inseguì le truppe sassanidi sconfitte e recuperò la “Vera Croce” razziata precedentemente dai Persiani a Gerusalemme.

L’insieme di questi dati e la loro articolazione attentamente contessuta con l’intreccio cristiano e con il sostrato antico-celtico della saga, mostra molto più di una semplice, vaga “influenza” islamica e ci conduce invece nell’ambito di una realtà teofanica, l’âlam al-mithâl che secondo Henry Corbin sostanziava la futuwwa, la “cavalleria spirituale” iranica.

Per designare il “Paradiso perduto” mèta di ogni cavaliere, Wolfram introduce lo strano termine di Munsalvaetsche, “Monte Selvaggio”, introvabile nella letteratura precedente. Munsalvaetsche si ritrova almeno una trentina di volte nel Parzival e addirittura in V, 251 è associato ad una straordinaria dinastia regale. Esso è poi ripreso senza nessuna variazione nello Jüngerer Titurel del suo continuatore Albrecht von Scharfenberg, fra i compilatori di questi scritti l’unico ad evidenziare con forza elementi dottrinali rapportabili al mondo spirituale iranico e, più in generale, al simbolismo islamico-orientale che sembrerebbe trovarsi sotteso nell’opera di Wolfram. Anche Albrecht pone il Tempio del Graal a Munt Salvaesch, nel cuore di Salvaterre, una regione protetta dall’impenetrabile Foreist Salvaesch. Aggiunge poi che dopo che gli angeli lo hanno trasportato a Munt Salvaesch, Titurel decide di costruirvi un tempio per intronarvi degnamente il Graal.

Il simbolismo della montagna è ben conosciuto. La particolare strutturazione di ogni montagna ne fa per eccellenza un’immagine dell’axis mundi che congiunge la terra e il Cielo, il mondo del divenire e delle apparenze con la realtà dell’essere immutabile e “lucente”. Per questa sua “assialità” la montagna cosmica non può trovarsi che al centro della manifestazione universale, nel punto dal quale si dipartono tutti i raggi che come infiniti lampi di luce si riverberano sui vari piani cosmici. E’ il luogo privilegiato di ogni teofania, là dove il divino si svela e si fa riconoscere dagli uomini.

Nell’Islam la montagna Qâf, considerata inaccessibile agli uomini comuni, è detta la “montagna della saggezza”, un simbolismo che accosta la sapienza divina e la montagna. Nei Vangeli si usa distinguere il monte dove il Cristo si ritira spesso a pregare, dalla pianura in cui si trovano i semplici fedeli. La Trasfigurazione  si compie sul Tabor, un “alto monte” dice Matteo 17, 1. È il luogo in cui il Cristo si mostra “così come Egli è”, nello Splendore divino che da significato alle tradizioni concernenti Mosé e Elia e nel quale si svela la Volontà celeste. Il Sermone delle Beatitudini viene pronunciato su un monte (Matteo 5, 1 sgg.; Luca, 6, 17 sgg.), ed è qui che si ha l’indicazione delle basi spirituali della dottrina cristiana, la rivelazione delle condizioni per accedere alla stessa realtà “immacolata” delle origini. Secondo una tradizione molto diffusa nell’Oriente Ortodosso, anche il Golgota era una montagna posta “al centro del mondo” dove fu sepolta “la testa” del Primo Uomo e nel quale verrà piantata la croce del Cristo: la rivelazione primordiale “ferita” dal peccato di Adamo, viene riscattata dal Cristo “nuovo Adamo”.

Wolfram aggiunge (V, 251) che Munsalvaetsche si trova al centro di un regno posto nella Terra de Salvaetsche, “la Terra Selvaggia”  nella quale “non è stato mai tagliato albero o pietra”, ossia un luogo che gode di una condizione immacolata, la proiezione nel tempo e nello spazio della “gioia” perpetua che regna a Munsalvaetsche, nella perfetta rispondenza fra la condizione spirituale sperimentata dal re Titurel e l’ambiente cosmico nel quale si riversano le “qualità divine”, quelle che dal punto di vista umano vengono colte come semplici virtù. Per la sua particolare ambientazione molto prossima a quella riferita al simbolismo del Paradiso perduto, risulta impossibile che con “selvaggia” si volesse indicare la sede del Graal caratterizzandola come “brutale”, “istintiva”, etc. La stessa sua collocazione in medio mundi, il suo custodire il Graal e le “virtù” che esso veicola ne rende assurda l’ipotesi. In realtà, nelle opere del XII e del XIII secolo, al nascere delle varie letterature cosiddette nazionali, si trovano abbastanza diffusamente espressioni similari che danno un’indicazione preziosa su quello di cui si tratta. L’esempio più conosciuto è senza dubbio il “vulgare illustre” di Dante, un’espressione enigmatica ed in sé persino contraddittoria. Nel suo De vulgari eloquentia Dante precisa che con tale formula intende riferirsi alla lingua naturale, quella parlata allo origini stesse della creazione, alla “forma locutionis creata dallo stesso Dio insieme alla prima anima”, la lingua appresa da Adamo nell’Eden per comunicazione diretta dello stesso Creatore. Una lingua rivelata direttamente da Dio costituisce di per sé una particolare forma di teofania ed un veicolo di salvezza, ed è perciò evidente che l’espressione “vulgare illustre” non può indicare una lingua priva di radicamenti nella dimensione del sacro, parlata dal “volgo”, “popolare”. Al contrario, designa lo stesso “linguaggio primordiale” che nei termini medievali è la tradizione primigenia, la condizione spirituale dell’umanità delle origini, prima che il peccato originale allontanasse gli uomini dall’Eden.

Allo stesso modo, l’accostamento del simbolo della montagna all’aggettivo “selvaggio” in un contesto complessivo nel quale è centrale il Graal e il suo simbolismo, non intende indirizzare verso l’”istintivo” o il “brutale”, ma completa il simbolo della montagna cosmica con l’indicazione di un tipo di spiritualità aurorale. L’aggettivo “selvaggio” si trova usato come l’equivalente di “originario”, “primordiale”, “naturale”, esattamente come il “vulgare” di Dante. La “Montagna Selvaggia” di Wolfram è perciò la “Montagna originaria” nella quale il cavaliere che ha potuto contemplare il Graal si ritrova in condizioni spirituali “naturali”, reintegrato nella stessa “interezza” goduta da Adamo, in un Eden che questi testi indicano non come un giardino, ma come una montagna inaccessibile.

E tuttavia Munsalvaetsche è solo uno dei tanti termini criptici di cui abbonda il testo di Wolfram, termini e nomi costruiti secondo necessità d’ordine simbolico. Si è sostenuto che Herzeloyde, Condwiramurs, Gahmuret, Shoye de la Kurte, Feirefiz, Terdelaschoye, etc., corrispondano ad esempi di virtù cavalleresche, a particolari ideali raccomandati agli ascoltatori dei racconti, a sentimenti capaci di rendere universale il dramma vissuto da questo o quel protagonista. In realtà, il tecnicismo e lo stesso valore ermeneutico con il quale si caratterizzano i tanti nomi dei personaggi, dei luoghi o delle ambientazioni, risponde a necessità di un ordine completamente diverso da quello di un semplice ideale cavalleresco. Nell’intento di Wolfram si tratta di vere e proprie personificazioni di “entità spirituali” tese a determinare comportamenti, “modi di essere” che incidono nelle profondità dell’anima umana, trasformazioni interiori che scaturiscono da una dimensione superiore, precedente a quella del mondo fenomenico, “forme formanti” che rivelano modalità dell’”agire divino” nella storia, “epifanie” che indirizzano verso il significato veritiero dell’essere cosmico ed umano.

Lo stesso ritmo narrativo sembra essere ordinato attorno ad un simbolismo onnipervadente. Si pensi per esempio al significato di Parzival (XVI, 822) inteso a raccontare l’origine della dinastia del “prete Gianni”: “Repanse de Schoye fu lieta del suo viaggio. In India ella diede alla luce un figlio che si chiamò Giovanni. I re di quelle terre da allora presero quel nome”, una frase che potrebbe essere resa così: “La “Dispensatrice di Gioia=Grazie” dà alla luce Giovanni [=”Grazia di Dio”] dal quale si origina una linea di sovrani-sacerdoti che elargiscono “gioia-grazie” sino alla fine dei tempi”. Dalla grazia, attraverso la grazia, grazie infinite. Questo tipo di costruzione ritmica si trova ovunque nel Parzival, tocca i dialoghi, le dispute, la configurazione dell’iter narrativo, l’ambientazione, le spiegazioni dottrinali, il significato attribuito ad un dato personaggio e indica un intero universo simbolico, rimanda ad un ordine di valori originatisi dall’âlam al-mithâl, il mundus imaginalis delle dottrine shiite, il “luogo” delle teofanie e degli archetipi divini dal quale si originano le “forme formanti” che danno consistenza alla manifestazione cosmica.

Un tale simbolismo affiora in modo determinante nei due capitoli iniziali del Parzival, quelli più estranei all’opera di Chrétien e nei quali Wolfram sembra volere precisare il significato del suo racconto distinguendolo completamente da quelli dei narratori precedenti, compresi i quattro autori delle Continuations. Sono le pagine nelle quali appare Gahmuret l’Anschouwe, ”l’Angioino”, assolutamente sconosciuto a Chrétien, ai compositori franco-normanni e al ciclo del Lancelot-Graal. Alla morte del padre Gahmuret va a combattere al servizio del califfo di Baghdad e dopo una serie interminabile di avventure, da un fuggevole amore con la regina musulmana Belakane, “Nera come la notte”, senza neanche sospettarlo ha un figlio di nome Feirefiz, “Bianco-Nero”. Le sue successive avventure lo portano in Spagna dove apprende la morte del fratello, diventa l’erede della propria dinastia, vince un torneo e ottiene in sposa Herzeloyde, “Cuore doloroso”, la regina di Valois “Bianca come la luce del sole”, che 14 giorni dopo la morte di Gahmuret darà alla luce Parzival: “il nome significa trapassare [o “penetrare”] nel mezzo”, dice Wolfram (Parzival, III, 140) con un evidente gioco fonetico costruito sull’antico francese percer, “trapassare”, “penetrare”, fatto perchè Parzival, il re del Graal, diventi il simbolico “Colui che passa per il centro”, l’Asse cosmico.

Gahmuret discende da Mazadan e dalla “fata” Terdelashoye, “la Terra della Gioia”, che nei termini indù corrispondono al “re divino” e alla sua shakti = sposa-potenza. Mazadan è il Primo Uomo, il prototipo dell’umanità che necessariamente deve personificare una forma di perfetta sovranità universale, mentre Terdelaschoye in virtù del suo status di “fata”, di entità del mondo intermedio, incarna la “potenza divina”, la “gioia celeste” divenuta la stessa creazione immacolata di Dio, la manifestazione cosmica nella sua purezza originaria, prima che a causa della ribellione di Lucifero fosse imprigionata nella sfera temporale e transeunte. Questa linea di cavalieri-sovrani si concluderà col “prete Gianni”, colui che più di tutti dovrà perpetuare anche nei tempi ultimi la “pienezza” spirituale attribuita al tempo di Mazadan.

Dall’unione di Mazadan e Terdelaschoye si sviluppa una continuità dinastica che si concluderà con i due figli di Gandin, il cui cadetto sarà Gahmuret restato “cavaliere errante” fino alla morte del fratello. Il passaggio dalla dimensione individuale di Gahmuret alla sua condizione di centralità cosmica tipica di ogni sovrano universale è indicata da Wolfram con un particolare che doveva risultare chiarissimo agli ascoltatori del suo romanzo. Quando ancora era un “cavaliere errante” il blasone raffigurato sulle sue armi e sullo scudo era l’anker (=l’àncora, “che conviene ad un cavaliere errante”, II, 99; forse un simbolo di “radicamento” volutamente opposto allo status di “cavaliere errante” del giovane Gahmuret), ma poi avendo acquisito la dignità di sovrano dopo la morte del fratello, eredita l’insegna araldica della pantera (“Sul suo scudo fu incisa sull’ermellino la pantherther che portava suo padre”, II, 101). Il simbolismo che in questo caso Wolfram inserisce per caratterizzare il passaggio di Gahmuret da “cavaliere errante” a “sovrano” riproduce sotto molti aspetti quello, con caratterizzazioni archetipali, del viaggio spirituale intrapreso da ogni “pellegrino-straniero” che alla fine delle proprie vicissitudini raggiunge una sorta di “terra promessa”. È lo schema di trasformazione interiore che si ritrova in una molteplicità di racconti, tutti mirati all’ottenimento di un nuovo e diverso status spirituale e al raggiungimento di una straordinaria Terra Santa. Il particolare termine usato da Wolfram per indicare il blasone di Gahmuret illumina sul significato della sua “centralità sovrana” e sui motivi della sua adozione di un emblema appartenuto da sempre agli Anschouwe. Secondo gli studiosi di araldica, infatti, pantherther significa “tutto divino”, ”ciò che unisce molteplici forme divine”, mentre la stessa picchettatura del manto dell’animale è stata interpretata come l’immagine del cielo stellato. La pantera del blasone degli Anschouwe che adorna lo scudo di Gahmuret, nipote di Uther Pendragon e lontano prozio del “prete Gianni”, sembrerebbe confermare perciò la condizione di un re con attribuzioni cosmiche, un Sovrano Universale.

Ma perché Wolfram insiste tanto sulle radici angioine della famiglia di Gahmuret ? Persino a proposito di suo figlio Feirefiz, “Bianco-Nero”, si trova una inusuale insistenza su questo casato che non trova alcuna giustificazione in una, d’altronde molto vaga, eventuale sua influenza e forza politica nei territori imperiali nei quali si muoveva Wolfram. L’importanza storica degli Angioini non può essere misconosciuta. La più antica insegna araldica del casato era una pantera. Il nonno di Enrico II, Folco d’Anjou, fu uno dei primi cavalieri templari e amico del fondatore dell’Ordine Ugo de Payns, e addirittura nel 1131 divenne re di Gerusalemme. Il figlio Goffredo sposò Matilde, l’unica erede del re d’Inghilterra, un matrimonio dalle conseguenze fatidiche che dopo una serie interminabile di guerre dinastiche portò al trono il giovane Enrico II. Con una intuizione straordinaria che affondava le proprie ragioni nelle tradizioni più arcaiche del suo regno, Enrico si sposò con la potentissima Eleonora d’Aquitania e favorì una forma di cultura che s’incentrava sulla sintesi del patrimonio spirituale antico-celtico, con quegli aspetti delle dottrine cristiane che affondavano le proprie radici in una esperienza mistico-visionaria, sino a fare emergere tutta una serie di scritti fortemente pervasi di un simbolismo che nell’opera di Chrétien de Troyes trovò il modo più adeguato per esprimersi.

E tuttavia l’insistenza di Wolfram sul ruolo degli Anschouwe può essere spiegata anche senza il ricorso alla storia dello straordinario casato degli Anjou, ma restando all’interno della stessa ambientazione dottrinale del Parzival e al simbolismo che lo permea. In una memoria che ha perduto pochissimo della sua importanza nonostante il tempo trascorso, Bodo Mergell faceva notare che nel Parzival il termine anschouwe, pur essendo con ogni evidenza costruito sul francese Anjou, non indica sempre il casato francese. Seguendo anche in questo caso la particolare tecnica di strutturazione dei fonemi e del simbolismo delle parole a lui così congeniale, anschouwe appare costruito sul termine das schouwen o beschouwen, “visione”, che si riferirebbe non ad un casato, ma più coerentemente con la struttura complessiva del Parzival, alla “visione” del Graal. Lo stesso musulmano Feirefiz, pur fratello di Parzival ed erede come lui di Gahmuret, per non aver ricevuto il battesimo manca della necessaria “grazia” e perciò non può “vedere” il Graal. Giocando sull’ambivalenza simbolica del termine, Gahmuret l’Anschouwe, il capostipite della dinastia che custodirà il Graal, diventa contemporaneamente l’“Angioino” e “Colui che vede il Graal”, “il Contemplativo del Graal”.

Tutto il romanzo è percorso dalla presenza del Graal che giustifica la “cerca” e dà significato all’intera impostazione del racconto. In V, 232 Wolfram descrive il Corteo del Graal sostanzialmente ordinato ancora attorno allo stesso schema del Perceval, ma aggiunge una serie di particolari assenti in Chrétien. Il Graal non è più un piatto, un gradalis, un vaso o una coppa, ma una straordinaria “pietra preziosa” (“di un tipo purissimo” dice Wolfram) che viene chiamata lapsit exillis (Parzival, IX, 469) assimilabile sotto tutti gli aspetti al Cintamani buddhista, “il gioiello perfetto”, “la pietra pura” o “splendente” dalla quale si riverbera la Luce spirituale, l’”Aureola di Gloria” che risplende dalla persona dei Buddha e da quella di ogni Sovrano Universale. Nelle iconografie il Cintamani appare spesso coronato da una triplice fiamma radiante che ha il potere di preservare da tutti i mali e di esaudire ogni desiderio. È lo stesso “Splendore di Luce” emanato dalla “Roccia di smeraldo” (=Sakhra) che nelle dottrine islamiche sfolgora sulla sommità di Qâf, la montagna cosmica identica in tutto a Munsalvaetsche.

Nei settantacinque manoscritti che hanno conservato l’opera di Wolfram a volte si trovano altre formulazioni grafiche, come lapis exilis oppure lapis exilix; nello stesso Jüngerer Titurel di Albrecht von Scharfenberg, che si dispiega sull’idea ispiratrice centrale di Wolfram e ne sviluppa le implicazioni più “orientaleggianti”, si trova jaspis exilis, jaspis und silix, diaspro e silice”. René Nelli privilegiava la dizione lapis exillis dalla quale sarebbe derivato poi lapis e coelis (“pietra caduta dal cielo”), un’espressione comunque facilmente derivabile dalle spiegazioni dottrinali sviluppate da Wolfram nel suo racconto. La tesi di René Nelli ha il pregio di mostrare la sostanziale “macchinosità” dell’ipotesi di un lapsit exillis ottenuto per contrazione fonetica di un lapis lapsus ex coelis cui pensavano gli studiosi francesi d’inizio Novecento, o del più recente e troppo elaborato lapis lapsus in terram ex illis stellis di Bodo Mergell.

Un lapsit exillis, un lapis e coelis, una “pietra caduta dal cielo”, stabilisce un rapporto fra il cielo e la terra, introduce una scintilla di “sacralità celeste” nel mondo, è il veicolo di una rivelazione, una ierofania che trasforma lo stesso luogo in cui cade in uno spazio sacro totalmente differente da ogni altro esistente al mondo, diventa la “sede” di un’attività rituale intesa a “fare parlare” la pietra sacra, ad interrogarla sui misteri del cosmo. D’altronde, cos’altro è l’oracolo se non una modalità per stabilire un rapporto con i ritmi del cosmo, “farlo parlare” e ordinare su quei ritmi ogni pur insignificante aspetto della vita umana? La dimensione oracolare del lapsit exillis è evidente e rimanda ad un mondo arcaico, ai ritmi di un’umanità primordiale. Le scritte che appaiono sulla pietra e spariscono appena comprese ricordano con stupefacente somiglianza i riti oracolari delle tradizioni più antiche dell’umanità, quando il Verbum Dei si riteneva potesse essere compreso nei simboli che coprivano il cosmo e nei segni con i quali si svelava agli uomini. Anche le sue “virtù” mostrano aspetti arcaici. La sua luce folgorante, l’inesauribile capacità di fornire cibo e bevande ai convenuti, il dono di non fare invecchiare “le ossa e la carne”, di restituire la giovinezza, i poteri di guarigione, le connessioni con i ritmi astrologici, la stessa sapienza oracolare, indirizzano verso quella “radice e coronamento di ciò che si anela in Paradiso” che secondo Wolfram contrassegna gli aspetti fondamentali del Graal.

Ogni Venerdì Santo una colomba depone un’Ostia bianca sul Graal e lo rende capace di elargire le sue virtù “eucaristiche”: lo Spirito Celeste dà “ai cavalieri quanto vive di selvaggio, vola, corra o nuoti, sotto il cielo. La virtù del Graal dà vita a tutta la Compagnia dei Cavalieri” (IX, 470). Come si vede, il lapsit exillis non è solamente il sacro Oggetto che in una pura contemplazione stacca l’eletto dal mondo e lo “assorbe” in uno splendore senza fine. Nella prospettiva di Wolfram la dimensione contemplativa e la sua “grazia agente” appaiono in una specie di sintesi principiale, il Graal “ritorna nel mondo”, “ridiscende nel creato”, esercita i suoi poteri, alimenta la vita cosmica con una specie di “azione immobile” all’interno del mistico Castello, a Munsalvaetsche, in medio mundi.

Il Graal è custodito da cavalieri che vengono mantenuti sempre giovani, in pienezza di salute e nutriti solo e soltanto dalla sua luce radiante: “A Munsalvaetsche, presso il Graal, si trova una schiera di cavalieri armati. Questi Templari spesso cavalcano lontano in cerca di avventure. Sia che acquistino gloria o danno, compiono le loro gesta come espiazione dei loro peccati. Questa Compagnia è bene armata. Ma voglio dirvi come si nutrono: vivono di una pietra di tipo purissimo. Se non ne avete mai sentito parlare vi dico il nome: lapsit exillis si chiama. []. La pietra è anche chiamata Graal” (IX, 469). Più avanti (IX, 471), Wolfram aggiunge che questa straordinaria “pietra sempre pura”, questo “gioiello splendente” dopo la caduta degli angeli ribelli è affidata “a coloro che furono destinati da Dio, ai quali mandò un angelo. Ecco cos’è il Graal”.

Cerchiamo di capire i molteplici elementi che emergono da questo conosciutissimo brano:

  1. viene stabilito un rapporto fra il Graal e Munsalvaetsche, la “Montagna originaria” immagine del Paradiso terrestre;
  2. Munsalvaetsche è custodita da una Compagnia di cavalieri;
  3. questi cavalieri vengono chiamati Templaisen,“Templari”; spesso questi cavalieri-templari vanno in cerca di avventure;
  4. la gloria che ne deriva o l’eventuale sconfitta costituisce una forma di “espiazione” di colpe;
  5. i cavalieri sono “bene armati” e contemporaneamente sono “nutriti” dalla luce della “pietra splendente” che essi sono chiamati a custodire e che dà significato alla loro vita;
  6. Dio ha inviato ai cavalieri del Graal un angelo la cui funzione “conoscitiva” e “selettiva” rende intellegibile la loro condizione di “custodi eletti”.

Come si vede, Wolfram stabilisce un legame strettissimo da un lato fra il Graal, il Paradiso perduto, una Compagnia di cavalieri i cui combattimenti vengono presentati come offerte sacrificali, e dall’altro con la duplice dimensione del loro status, l’essere “bene armati” e il vivere “nutriti” perpetuamente dal lapsit exillis, dal Graal. Non solo, ma Wolfram aggiunge che a questa schiera di cavalieri custodi del Graal non si accede per un qualsiasi merito “umano” che, anzi, sembra costituire un limite insuperabile, ma quando “sulla superficie della Pietra appare una scritta che indica il nome e la schiatta di colui che farà il viaggio fortunato, fanciullo o ragazzo; nessuno cancella la scritta perché subito scompare” (IX, 470).  Questa “pietra caduta dal cielo” come i meteoriti dei tempi primordiali è carica di sacralità celeste, perciò è anche una “pietra parlante” capace di indicare il nome degli Eletti, di rivelarne il ruolo nella storia, di nutrirli con la propria luce radiante e di elargire l’Ostia santa portata dalla Colomba. La sua ricchezza simbolica è evidente e sottolinea l’esistenza di una specie di confraternita di Custodi del Graal dagli attributi assolutamente non comparabili con l’etica individualistica dei cavalieri di quel tempo.

Il rapporto stabilito fra i membri di questa straordinaria confraternita nella quale viene assorbita la loro individualità in una sorta di “funzione collettiva”, lo stesso loro status di cavalieri “sempre in guardia”, sono aspetti che riconducono alla corte di re Arthur e ai cavalieri della Tavola Rotonda e ne fanno una specie di suo equivalente simbolico. Anche qui, una esigua consorteria di Eletti va in cerca del Graal, affronta prove estenuanti, riesce finalmente a trovarlo e considera un privilegio la sua custodia. Non tutti i nomi di questi cavalieri sono stati preservati. Oltre Parzival e Galahad, i puri contemplativi del Graal, e ser Lancillotto del Lago, la cui personalità presenta caratteri molto vari con le sue attribuzioni derivate da un complesso mitologico arcaico assai diversificato, troviamo un gruppo di personaggi veramente particolari. Keu, il siniscalco del re, è chiaramente una trasposizione del personaggio di Kai del racconto gallese Kulhwch e Olwen, dove appare con alcuni tipici poteri sciamanici: respira sott’acqua per “nove notti e nove giorni”  e, come una particolare classe di asceti dell’India vedica che grazie alle loro tecniche yoghiche erano in grado di evocare il tapas (=calore interiore; cfr. lat. tepor), il “calore naturale” emanato dal corpo di Keu asciuga l’acqua, riscalda i compagni e può trasformare il proprio corpo sino a farlo crescere indefinitamente. Girflet, corrisponde al gallese Gilvaethwy, il fratello di un mago e figlio di una dèa; la sua figura appartiene ad una dimensione non umana, scaturisce dal mondo intermedio degli incantatori e delle “fate”. La leggenda collega sempre Yder di Northumbria con i cervi e gli orsi; lo stesso famoso Yvain, figlio di Uryen, può contare su uno stormo di corvi [il simbolo della casta guerriera] che corre sempre in suo aiuto. Infine Galvano, riadattazione del Gwalchmai del Kulhwch e Olwen, ha il nome composto su gwen, “bianco” e gwalc’h, “falcone”, perciò si chiama “Falcone bianco”. I poteri attribuiti ad alcuni di questi personaggi sul proprio corpo, sugli elementi, su animali caratteristici come l’orso, il cervo, il corvo, il falcone, dei quali sono patroni o assumono il nome, ci portano nel mondo dei guerrieri antico-celtici, evidenziano simboli correnti nelle confraternite dei guerrieri primordiali prima della conversione della Celtide al Cristianesimo, quei simboli che sembrano indirizzare verso l’armonizzazione di poteri sciamanici, forza guerriera, magia e sacralità.

Il ciclo irlandese della provincia di Leinster che racconta le gesta del re Finn e della consorteria degli arcaici guerrieri Fiana, sembra costituire lo sfondo rituale e la forma mitologica che sostanzia questi aspetti della saga arthuriana. Il vero nome di Finn, re e guida di questa consorteria di guerrieri-predoni, è Demné, “il Daino”, suo figlio Oisin è “il Cerbiatto”, suo nipote Oscar è “il Cervo”, mentre la stessa moglie di Finn, la figlia del fabbro-sciamano Lochan dal quale l’eroe riceve le straordinarie armi che lo rendono invincibile, si dice fosse stata trasformata da un druido in una cerva. I Fiana erano straordinari guerrieri-cervi che cacciavano e vivevano una vita semi-nomade. Avevano il compito di sorvegliare le entrate delle case e dei villaggi ed erano persino incaricati di riscuotere le imposte. In estate si trasformavano in feroci cacciatori-guerrieri e andavano a scovare i malfattori, i briganti, i trasgressori delle leggi che regolavano la vita sociale. Il simbolo del cervo che li caratterizza, la loro azione sociale e il ruolo di custodia li rendono simili a quel tipo di consorteria di guerrieri sacri diffusi in tutta l’enorme area geografica coperta dalle invasioni indoeuropee, ed ha lasciato consistenti tracce archeologiche persino nei territori del Nord Europa, nell’area che ha conservato le vestigia e i simboli della preistorica “civiltà della renna” del periodo magdéleniano. Esattamente come i loro confratelli di altre culture, i membri di questi gruppi erano usi indossare maschere di cervo durante le processioni rituali e coprivano un ruolo, ad un tempo sacro e “sociale”.

La preistoria, i miti irlandesi e la saga graalica sembrano indicarci un unico filo che lega i più antichi guerrieri irlandesi, i cavalieri di Arthur e i Custodi del Graal di Wolfram.

Esattamente dopo la prima metà del suo romanzo, all’inizio della seconda parte, quando Parzival riesce ad accostarsi al saggio eremita Trevrizent, vero e proprio erede degli asceti, dei monaci e degli eremiti dell’Irlanda celtica, e riceve una serie d’insegnamenti che finalmente lo avviano verso la comprensione della “cerca” e del vero significato del Graal, con apparente ovvietà Wolfram dà per ben due volte di seguito ad un cavaliere l’appellativo di Templaise von Munsalvaetsche, “Templare del Monte Selvaggio” (IX, 445). Subito dopo (IX, 446) si accenna ad “una schiera dei cavalieri di Munsalvaetsche” la cui formulazione è congegnata in modo da identificare “naturalmente” questi cavalieri con i Templari dei capoversi appena precedenti. Segue il celebre passo (IX, 469) che parla del Graal e del lapsit exillis. Qui la schiera di cavalieri armati che va in cerca di avventure sono sic et simpliciter i Templari e la formulazione espressiva non ammette dubbi: “die selben Templaise”. Il termine ritorna in XVI, 818. Al momento del battesimo di Feirefiz sul lapsit exillis appare una scritta che identifica ancora i cavalieri del Graal con i Templari: ”Il Templare sul quale si posa la mano di Dio per farlo signore di una gente straniera, non deve permettere domande sul nome o sulla sua schiatta. Deve aiutare quella gente”[…]“I cavalieri del Graal non volevano che si ponessero loro domande”.

La prima notazione da fare è che l’appellativo di “templari” dato ai cavalieri del Graal emerge senza nessuna motivazione narrativa, senza nessun ordinamento preventivo del racconto e senza alcun riferimento precedente ad un eventuale tempio, chiesa o monastero, qui assolutamente inesistenti. La stessa ambientazione complessiva che privilegia la presenza di un eremita, esclude l’eventuale richiamo ad un tempio o ad una comunità di contemplativi e tutto il contesto essenzialmente cavalleresco richiederebbe, piuttosto, la presenza di un castello. Il particolare appellativo, pur usato con molta parsimonia, non è certo secondario e riprende lo strano modo di Wolfram di comporre le parole e di specificare il loro significato simbolico. Il secondo aspetto che emerge con chiarezza è l’accostamento dei Templari assimilati ai Cavalieri del Graal con il Munsalvaetsche. Ne scaturisce la delineazione di una precisa funzione: i Templari sono i custodi del “Monte Selvaggio” e sono “nutriti” dalla luce radiante che si effonde dal lapsit exillis. Il terzo elemento che emerge in questi brevi cenni è l’assimilazione dei “templari” con i Cavalieri del Graal fatta derivare direttamente “dalla mano di Dio”. Quando, infatti, sul Graal appare la solita scritta “oracolare” viene detto che è lo stesso Dio a stabilire la sovranità di un determinato cavaliere templare su una “gente straniera”.

L’assimilazione dei Templari ai Cavalieri del Graal comporta l’assunzione di un preciso compito: con la custodia di Munsalvaetsche, “la Montagna originaria” sulla quale troneggia il Graal, i Templari diventano i custodi del “Centro sacro” che regge il cosmo. E’ qui che il Graal li nutre, li guarisce, garantisce la loro eterna giovinezza e di volta in volta designa qualcuno di loro ad assumere funzioni sovrane quando le circostanze della storia lo richiedono. Per usare il simbolismo di Wolfram, quando occorre i Cavalieri del Graal “escono in cerca di avventure”, ossia intervengono nello svolgimento delle vicende umane e offrono al Sovrano Celeste gli eventuali insuccessi o le vittorie come una specie di “offerta sacrificale” della loro insufficienza nell’adempimento del compito affidato. Si tratta dell’indicazione piuttosto precisa di un particolarissimo “rituale di espiazione” comprensibile pienamente solo nell’ambito di una dottrina assimilabile a quella ecclesiale della “Comunione dei Santi”, che qui sostanzia la strutturazione a Confraternita di questi cavalieri e dà significato anche al chiaro intento di Wolfram di statuire, pel tramite di questi Templari, forme di relazione con le tre tradizioni spirituali (celtica, cristiana e islamica) che hanno trovato una loro espressione simbolica, una specie di “armonia unitaria”, nel suo Parzival.

A causa della ripetuta menzione dei Templari nei suoi scritti, delle modalità con le quali vengono menzionati questi straordinari cavalieri-monaci che hanno percorso i due secoli “centrali” del Medio Evo, del ruolo da essi coperto accanto al Graal, al  Castello del Graal e a Munsalvaetsche, si è pensato che Wolfram fosse un membro dell’Ordine e che nel suo poema si trovino esposte alcune delle dottrine che i Templari consideravano essenziali per spiegare il significato della loro particolare funzione spirituale. Il suo statuto di cavaliere e cantore che vagava di corte in corte non può essere considerato un vero ostacolo alla sua eventuale ammissione a questo misterioso Ordine: anche Folco d’Anjou fu un templare, sposato e poi diventato re. Pur non possedendo attestazioni nette di una simile possibilità, l’uso di una terminologia tecnica non certo usuale negli scrittori del tempo che con precisione delinea la funzione dei Templari, e il costante richiamo ad enigmatici  “maestri” che lo avrebbero ispirato, costringe a dare giusto rilievo alle ripetute attestazioni di Wolfram che il Parzival non è una sua creazione assolutamente personale o originale, tesa ad arricchire il gaudio di questa o quella corte, ma affonda le proprie ragioni in una speciale tradizione che nella saga del Graal ha trovato il veicolo più adatto per svelare una complessa simbologia spirituale.

Sembrerebbe impossibile riuscire a provare con esattezza se i Templaisen di Wolfram siano effettivamente i cavalieri-monaci dell’Ordine del Tempio. Qualcuno ha pensato persino che la loro menzione nel Parzival possa essere la semplice eco di un Ordine che spesso assumeva contorni leggendari; altri, che si sia voluto evidenziare nettamente la natura profonda dei rapporti dell’Ordine del Tempio con il Graal e con il Paradiso perduto, il “Centro del mondo”. È possibile che queste ipotesi siano vicine alla realtà. Il rilievo assunto dall’assimilazione dei Templaisen con i “Cavalieri del Graal” nella seconda parte del romanzo, dopo le indicazioni sul ruolo centrale di Gahmuret e dell’Islam, è troppo circostanziato, attento ai particolari e alle funzioni simboliche perché si possa pensare ad una semplice casualità. Pur in un linguaggio criptico, come se i vari simboli dovessero essere compresi solamente da una esigua èlite, l’assimilazione fatta da Wolfram fra i Cavalieri del Graal e i Templari sembra indicare una direzione precisa, un enigmatico legame fra la realtà storica dei Cavalieri-monaci e il Graal.

Così, attorno allo sfondo dottrinale incentrato nella “cerca” di una misteriosa Pietra sacra “caduta dal cielo”, a poco a poco emerge il simbolo di un “Luogo sacro” dal quale s’irradia la Luce del Graal, un specie di “Tabernacolo radiante” posto in medio mundi e protetto da una speciale Confraternita di Cavalieri. E d’altronde, la stessa espressione Templaisen von Munsalvaetsche non è l’equivalente esatto dell’attribuzione più famosa dei Templari, “Custodi della Terra Santa” ?

* * *

Articolo pubblicato con la cortese concessione della Redazione di “Arthos” e dell’Autore.


Furiose Zeitkritik aus dem Geist des Pessimismus

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Furiose Zeitkritik aus dem Geist des Pessimismus

von Jürgen W. Gansel
 
Ex: http://www.deutsche-stimme.de/

Erinnerungswürdig: Vor 50 Jahren verstarb der französische Dichter und Deutschenfreund Céline

Im Europa der 1930er Jahre, als rechtsautoritäre Bewegungen den überlebten Liberalismus fortspülten und einem neuen Leben den Weg ebneten, wollten auch viele Dichter nicht abseits stehen. In Frankreich war Louis-Ferdinand Céline einer der schroffsten Kritiker der liberalkapitalistischen Gesellschaftsordnung, die er für jüdisch durchsetzt hielt.

1894 wurde Louis-Ferdinand Destouches, der sich später Céline nannte, in kleinbürgerliche Verhältnisse hineingeboren. Achtzehnjährig meldete er sich zu einem Reiterregiment, mit dem er an der Flandernfront den Weltkrieg erlebte. Nach einem Aufenthalt in Kamerun studierte der Kriegsversehrte Medizin, dem sich in Amerika und Europa eine medizinische Gutachtertätigkeit für den Völkerbund anschloß. Ab 1927 arbeitete der Franzose in seiner Heimat als Armenarzt. Neben dem Kriegserlebnis schärfte dies seinen Wirklichkeitsblick und ließ  ihn zu einem anarchischen Melancholiker werden.
Mit seinem Erstling »Reise ans Ende der Nacht« wurde Céline 1932 zu einem der großen Erneuerer der Literatur. Die Anerkennung für sein bahnbrechendes Schaffen können ihm selbst jene nicht verweigern, die Grund haben, ihm politisch ablehnend gegenüberzustehen. So stellte der jüdisch-amerikanische Gegenwartsautor Philip Roth über den Romancier fest: »Er ist wirklich ein sehr großer Schriftsteller. Auch wenn sein Antisemitismus ihn zu einer widerwärtigen, unerträglichen Gestalt macht. Um ihn zu lesen, muß ich mein jüdisches Bewußtsein abschalten, aber das tue ich, denn der Antisemitismus ist nicht der Kern seiner Romane. Céline ist ein großer Befreier.«
Noch 1995 unterstrich Ernst Jünger die nachhaltige Wirkung, die Céline auf ihn hatte. »Sein Roman machte großen Eindruck auf mich«, erklärte der damals Hundertjährige, »sowohl durch die Kraft des Stils als auch durch die nihilistische Atmosphäre, die er hervorrief und die in vollkommener Weise die Situation dieser Jahre widerspiegelte.« Noch viel stärker mußte sich der Jünger der 1920er und 30er Jahre von dem Werk angezogen fühlen, das dem bürgerlichen Zeitalter seine erschütternde Schadensbilanz präsentierte. So positiv Jünger die literarische Leistung und illusionsfreie Lebenssicht des Romanciers bewertete, so negativ fiel die Bewertung der Person und ihres »plakativen Antisemitismus« aus.

Eine neue Ästhetik

Mit Sprache, Form und Inhalt der »Reise ans Ende der Nacht« setzte sein Autor neue Akzente: Umgangs- und Schriftsprache wurden zu einer lebendigen Einheit verschmolzen, und der umstandslose Wechsel von Zeiten und Orten sprengte das konventionelle Erzählschema. Vor allem aber zog der Inhalt in seinen Bann. Mit einer Mischung aus bösartigem Spott, grimmigem Humor und kalter Abgeklärtheit wird eine kapitalistische Welt gezeigt, die es besser gar nicht gäbe. Welt und Mensch erscheinen als abgrundtief schlecht und berechtigen weder zu romantischen Fluchtbewegungen noch zu revolutionären Aufbrüchen.


Célines erzählerische Kraft erhält der Roman durch den autobiographischen Charakter. Die »Reise ans Ende der Nacht« zeichnet den Lebensweg eines jungen Franzosen nach, der durch die Schrecknisse des Ersten Weltkrieges, den Stumpfsinn des Lebens in einem afrikanischen Kolonialstützpunkt, die menschliche Kälte in der kapitalistischen Metropolis New York und das soziale Elend der Pariser Vorstädte um jegliches Weltvertrauen gebracht wird.
Auf den nordfranzösischen Schlachtfeldern durchleidet der Protagonist Ferdinand Bardamus – in seinem erbärmlichen Leben wie das Sturmgepäck eines Soldaten (franz.: barda) hin- und hergeworfen – das »Schlachthaus« und die »Riesenraserei« des Weltkrieges.


In düsteren Worten geißelte Céline die Sinnfreiheit des Krieges einschließlich des Sadismus der Vorgesetzten und des Zynismus der Heimatfront. Diese radikal negative Sicht auf das Kriegsgeschehen übersteigerte er jedoch derart, daß Waffendienst an der Nation, Heldentum und Vaterlandsliebe generell als niederer Wahn erscheinen. Damit fiel Célines grenzenlosem Nihilismus auch alles das zum Opfer, was Millionen seiner Zeitgenossen heilig war. Im Gegensatz zu Ernst Jünger wollte er im Krieg auch keine Gelegenheit zu einem vitalisierenden Stahlbad und zur Steigerung aller Erfahrungsmöglichkeiten sehen. In seinem unnationalen und unheldischen Zug ist der Roman Célines befremdlich.


Viel eher stimmt man der Darstellung des entmenschlichten Lebensalltags im amerikanischen Kapitalismus zu. Erschreckend gegenwärtig mutet es an, wenn der Autor sezierend den modernen Herdenmenschen mustert. »Unheilbare Melancholie« ergreift Ferdinand Bardamus, mehr noch, Lebensekel packt ihn angesichts der »gräßlich feindlichen Welt«, die er in New York vorfindet. Vereinsamung, billige Zerstreuungen, »Zwangsarbeit« in den Tretmühlen der Kapitalbesitzer und Kommerz (»dieses Krebsgeschwür der Welt«) münden in die Essenz der Célineschen Weltauffassung: »Ein Scheißspiel, das Leben.«

Antikommunismus und Antijudaismus

Die »Reise ans Ende der Nacht« wurde sowohl bei radikalen Rechten als auch Linken positiv aufgenommen, weil jede Seite eigene Gesinnungselemente zu entdecken glaubte: Die Linke rühmte Célines Antimilitarismus und Ablehnung des Hurrapatriotismus, die Rechte faszinierte seine Verdammung der bürgerlichen Gesellschaft, sein illusionsloser Blick auf das menschliche Wesen und seine Resistenz gegenüber Utopie- und Fortschrittsglauben.
Das für die politische Biographie entscheidende Damaskuserlebnis war eine Reise in die Sowjetunion, die der Autor 1936 in dem Buch »Mea culpa« verarbeitete. Der Bolschewismus stellte für den Franzosen den totalen Bankrott jeder Ethik dar. In den roten Revolutionären sah er Heuchler, die eine Besserung der Welt versprechen, aber nur Verbrechen begehen. Als Antikommunist und Judengegner war dann Célines Weg in das »faschistische« Lager vorgezeichnet.


Schon 1916 fand sich in Briefen des Autors Judenkritisches, das 1938 in dem Buch »Bagatelles pour un massacre« (in Deutschland unter dem Titel »Die Judenverschwörung in Frankreich« erschienen) radikalisiert wurde. Aufgrund ihrer Überrepräsentanz in den Schaltstellen der Macht seien die Juden für Dekadenz und Elend der westlichen Welt verantwortlich. In dem Buch »L’Ecole des cadavres« (1939) vertrat Céline zudem die Auffassung, daß der Untergang Frankreichs nicht zu beweinen sei, weil sich die Franzosen der jüdischen Macht ergeben und damit alle Chancen zu einer rassischen Auslese vertan hätten. Dem nationalsozialistischen Deutschland bleibe dieses Schicksal hingegen erspart, weil die Deutschen ihr Volkstum pflegten.


Von Adolf Hitler erwartete er auch für die Masse der Franzosen Hilfe, weil der »Führer« gezeigt habe, wie man ein Volk zu Nationalbewußtsein und Selbstachtung führe – ein deutlicher Positionswechsel gegenüber früher, wo er Patriotismus als Herrschaftsmittel zu entlarven suchte.


Die Schrift »Les beaux draps« (1941) ist eine Hymne auf die militärische Niederlage Frankreichs im Juni 1940 und die Möglichkeit eines deutsch-französischen Bündnisses. Die Schuld am Scheitern dieser Perspektive gab er seinen Landsleuten, weil sie nur halbherzig mit den Deutschen zusammengearbeitet hätten. Es kam nicht die ersehnte Einheitspartei – eine »Partei der sozialistischen Arier« und nationalgesinnten (nichtjüdischen) Franzosen –, sondern das verhaßte Parteiensystem blieb auch nach der Niederlage bestehen.


In der Besatzungszeit unterhielt Céline Kontakte zu zahlreichen Persönlichkeiten des öffentlichen Lebens. Damals war der Dichter längst zu einer Figur auf dem politischen Parkett geworden, der an Veranstaltungen für die Kollaboration teilnahm und die »Parti Populaire Français« des Jacques Doriot aufgrund ihres antikommunistischen und antijüdischen Programms unterstützte.


Im Dezember 1941 begegnete Ernst Jünger Céline im Deutschen Institut in Paris und hielt über dessen Forderung an die deutsche Besatzungspolitik fest: »Er sprach sein Befremden, sein Erstaunen darüber aus, daß wir Soldaten die Juden nicht erschießen, aufhängen, ausrotten – sein Erstaunen darüber, daß jemand, dem die Bajonette zur Verfügung stehen, nicht unbeschränkten Gebrauch davon mache.« – Interessante Ansichten eines Franzosen, die zeigen, wie die deutsche Besatzungspolitik in Frankreich entgegen den Behauptungen der Umerziehungshistoriker eben nicht war.


Im Juni 1944 floh Céline mit seiner Frau ins deutsche Sigmaringen, wo sich bereits die Vichy-Regierung befand. Gegen Ende des Krieges setzte er sich nach Dänemark ab, wo er einige Jahre in Gefängnissen und Krankenhäusern zubrachte. In seinem Heimatland wurde Louis-Ferdinand Céline als Landesverräter verurteilt, aber 1950 amnestiert. In der »deutschen Trilogie« verarbeitete er seine Erlebnisse im Zweiten Weltkrieg und »drückte seine subversive Freude am Untergang der westlichen Zivilisation aus« (Franz W. Seidler).

Subversive Untergangsfreude

Was kann einem Céline heute noch sagen? Der Befund einer aus den Fugen geratenen, gänzlich entwerteten Welt ist aktueller denn je. Dabei hat sich der im Juli 1961 – vor ziemlich genau 50 Jahren – Verstorbene wohl nicht vorstellen können, daß seine Zeit verglichen mit dem Hier und Heute noch beinah intakte Bestände des Menschlichen aufwies. Es dürfte für ihn unvorstellbar gewesen sein, daß die »Reise ans Ende der Nacht« erst im 21. Jahrhundert als Höllenfahrt Europas richtig an Fahrt gewinnt.


Der von Céline so erschütternd und gleichzeitig großartig beschriebenen Nacht des Niedergangs muß ein neuer Morgen folgen. Bleibt er aus, gähnt wirklich nur noch das große Nichts und der Tod der europäischen Kulturvölker.

dimanche, 18 septembre 2011

Céline - Hergé, le théorème du perroquet

 Céline - Hergé, le théorème du perroquet

par David ALLIOT (2005)

Ex: http://lepetitcelinien.com/

Dans son dernier ouvrage intitulé Céline, Hergé et l’affaire Haddock ¹, Émile Brami, nous expose sa théorie sur les origines céliniennes des célèbres jurons du non moins célèbre capitaine. Même s’il ne dispose pas de "preuves" en tant que telles, l’on ne peut être que troublé par ces faisceaux qui lorgnent tous dans la même direction. En attendant l’hypothétique découverte d’une lettre entre les deux susnommés ou d’un exemplaire de Bagatelles pour un massacre dans la bibliothèque Hergé, nous en sommes malheureusement réduits aux conjectures. Pendant la rédaction de son livre, j'indiquais à Émile Brami quelques hypothèses susceptibles de conforter sa thèse. Par exemple, est-ce que le professeur Tournesol et Courtial de Pereires partagent le même géniteur ? etc. C'est un heureux hasard qui me fit découvrir un autre point commun entre le dessinateur de Bruxelles et l'ermite de Meudon. Hasard d'autant plus intéressant, qu'à l'instar de Bagatelles pour un massacre, les dates concordent. Si les premières recherches furent encourageantes, l'on en est également réduit aux hypothèses, faute de preuve matérielle.


Grâce aux nombreuses publications dont Hergé est l'objet, l'on en sait beaucoup plus sur la genèse de son œuvre. Grâce aux travaux de Benoît Mouchard ², on connaît maintenant le rôle primordial qu’a joué Jacques Van Melkebeke dans les apports "littéraires" de Tintin. Mais surtout les travaux d'Émile Brami ont permis, pour la première fois, de faire un lien entre les deux, et de replacer la naissance du capitaine Haddock et la publication de Bagatelles pour un massacre dans une perspective chronologique et culturelle cohérente. Néanmoins, il n'est pas impossible que d'autres liens entre Céline et Hergé figurent dans certains albums postérieurs du Crabe aux Pinces d’or.

Le lien le plus "parlant", si l'on ose dire, entre le dessinateur belge et l'imprécateur antisémite est un perroquet, héros bien involontaire des Bijoux de la Castafiore.

Lorsque Hergé entame la rédaction de cet album au début des années 1960, il choisit pour la première (et seule fois) un album intimiste. Coincé entre Tintin au Tibet et Vol 714 pour Sydney, Les Bijoux de la Castafiore a pour cadre exclusif le château de Moulinsart. Tintin, Milou, Tournesol et le capitaine Haddock ne partent pas à l'aventure dans une contrée lointaine, c'est l'aventure qui débarque (en masse) chez eux. Et visiblement, l'arrivée de la Castafiore perturbe le train-train habituel de nos héros. Les Bijoux de la Castafiore offre également l'intérêt d'être un album très "lourd" du point de vue autobiographique, avec des rapports ambigus entre la Castafiore et Haddock (projets de mariage), des dialogues emplis de sous-entendus ("Ciel mes bijoux") et, au final, bien peu de rebondissements et d’action. Néanmoins, au milieu de ce joyeux bazar, émerge un élément comique qui va mener la vie dure au vieux capitaine. C’est Coco le "des îles", qui partage de nombreux points communs avec Toto, le non moins célèbre perroquet de Meudon.

Illustration de David Brami
Tout d'abord, il y a l'amour que Hergé et Céline portent aux animaux. L'œuvre d’Hergé est truffée de références au monde animal ; quant à Céline, il transformera son pavillon de Meudon en quasi arche de Noé… Mais revenons aux deux psittacidés. Dans les deux cas, les perroquets sont offerts par des femmes. Lucette achète le sien sur les quais de la Mégisserie. La Castafiore destine "cette petite chose pour le capitaine Koddack". Dans les deux cas, Céline et Haddock ne sont pas particulièrement ravis de voir arriver l’animal dans leur demeure. Mais au final, ils finissent par s’y faire, voire s’en réjouissent. Céline fait de son perroquet un compagnon d’écriture, le capitaine Haddock s’en sert pour jouer un mauvais tour à la Castafiore. Autre élément commun, les deux perroquets portent presque le même nom; " Toto " pour celui de Céline, et " Coco " (avec un C comme Céline ?) pour celui de Haddock. Certes, ce n’est pas d’une folle originalité, mais bon… Détail intéressant, les deux espèces sont différentes. Lucette rapporte à Meudon un perroquet gris du Gabon (Psittacus erithacus, communément appelé " Jaco " ³). La Castafiore offre un perroquet tropical (Ara ararauna (4)). Autre détail intéressant, dans les deux cas, les perroquets parlent. Céline apprend au sien quelques mots, et même un couplet de chanson. Celui de Haddock se contente de répéter des phrases. Or de ces deux perroquets, le seul qui a la capacité de retenir quelques mots, et de parler, est bel est bien le perroquet gris du Gabon. Le perroquet tropical peut reproduire des sons (téléphone, moteur de voiture, etc.) mais il ne possède pas les capacités vocales que lui prête Hergé. Est-ce une erreur délibérée? Est-ce que la documentation d'Hergé était défaillante? Est-ce dû à l'ajout précipité du perroquet dans Les Bijoux de la Castafiore ? Cette dernière hypothèse a notre préférence.

L'autre élément qui accrédite l'hypothèse du perroquet est chronologique. La conception des Bijoux de la Castafiore et la mort de Céline sont concomitantes. Alors qu'Hergé est en train de construire l'album, Céline décède, en juillet 1961. Si peu de journaux ont fait grand cas de cette nouvelle, Paris-Match évoquera, dans un numéro en juillet et un autre, en septembre 1961, la disparition de Céline (et d’Hemingway, mort le même jour). Largement illustrés de photographies, deux thèmes récurrents se retrouvent d’un numéro l’autre: Céline et son perroquet Toto. Dans son numéro de juin, Paris Match s’extasie devant la table de travail de Céline sur laquelle veille le perroquet, dernier témoin (presque muet) de la rédaction de Rigodon... Dans le numéro de septembre, l'on peut voir la photographie de Céline dans son canapé, avec Toto, ultime compagnon de solitude.

Grâce aux biographes d'Hergé, on sait que ce dernier ne lisait pour ainsi dire jamais de livres. Quand il s'agissait de ses albums, il demandait à ses collaborateurs de préparer une documentation importante afin qu'il n'ait plus qu'à se concentrer sur le scénario et le dessin. Éventuellement, il lui arrivait de rencontrer des personnes idoines qu'il interrogeait sur un sujet qui toucherait de près ou de loin un aspect de ses futurs albums (Bernard Heuvelmans, pour le Yéti, par exemple.). Si Hergé lisait peu de livres, on sait, par contre, qu'il était friand de magazines (5) et qu’il puisait une partie de son inspiration dans l’actualité du moment. La grande question est : a-t-il eu dans les mains les numéros de Paris-Match relatant la mort de Céline ? C’est hautement probable car l’on sait qu’il lisait très régulièrement ce magazine. S’en est-il servi pour Les Bijoux de la Castafiore ? Pour cela, il suffit de comparer la photographie de Céline dans son canapé à Meudon, à celle de Haddock dans son fauteuil, à Moulinsart. La comparaison est probante.

En voyant ainsi Céline et son perroquet dans Paris-Match, Hergé s'est-il souvenu des conversations qu'il avait eu autrefois à ce sujet avec Melkebeke ou Robert Poulet ? A-t-il admiré autrefois Céline, non pas forcément comme écrivain, mais comme "éologue" antisémite ? A-t-il décidé de faire un petit clin d'œil discret au disparu en reprenant son fidèle perroquet ? Malheureusement, il est encore impossible de répondre. Lentement, les éditions Moulinsart ouvrent les "archives Hergé" en publiant chaque année un important volume chronologique sur la genèse des différentes œuvres du dessinateur. À ce jour, ces publications courent jusqu’aux années 1943, et il faudra attendre un petit peu pour en savoir plus sur la genèse des Bijoux de la Castafiore et de son célèbre perroquet.

Reste néanmoins un élément troublant. Dans son livre, Le Monde d’Hergé (6), Benoît Peeters publie la planche qui annonce la publication des Bijoux de la Castafiore dans les prochaines livraisons du Journal de Tintin. Sur cette planche apparaissent tous les protagonistes du futur album, Tintin, Haddock, les Dupond(t)s, Tournesol, Nestor, la Castafiore, Irma, Milou, le chat, l'alouette, les romanichels, etc. Mais point de perroquet, qui pourtant a une place beaucoup plus importante que certains protagonistes précédemment cités. Hergé a-t-il rajouté Coco en catastrophe? Coco était-il prévu dans le scénario d'origine ? Pourquoi Hergé fait-il parler un perroquet qui ne le pouvait pas ? Erreur due à la précipitation ? Ou à une mauvaise documentation ? Est-ce la vision de Céline et de son compagnon à plumes qui ont influencé in extremis cette décision en cours de création ? Détail intéressant, dans ses derniers entretiens avec Benoît Peeters, Hergé avoue qu'il aime se laisser surprendre: " J’ai besoin d’être surpris par mes propres inventions. D’ailleurs, mes histoires se font toujours de cette manière. Je sais toujours d’où je pars, je sais à peu près où je veux arriver, mais le chemin que je vais prendre dépend de ma fantaisie du moment " (7). Coco est-il le fruit de cette "surprise" ? À ce jour, le mystère reste entier, mais peut-être que les publications futures nous éclaireront sur ce point. Il serait temps ! Mille sabords !

David ALLIOT
Article paru dans Le Bulletin célinien n°260 de janvier 2005,
Repris dans Le Petit Célinien n°1 du 20 avril 2009.



Emile Brami, Céline, Hergé et l'affaire Haddock, Ed. Ecriture, 2004.


Notes
1. Éditions Écriture. Les travaux d'Émile Brami sur Hergé et Céline ont été présentés au colloque de la Société d'Études céliniennes de juin 2004 à Budapest, et partiellement publiés par le magazine Lire de septembre 2004.
2. Benoît Mouchart,
À l’ombre de la ligne claire, Jacques Van Melkebeke le clandestin de la B. D., Vertige Graphic, Paris, 2002.
3. Il est amusant de noter que ce perroquet est relativement courant dans les forêts du golfe de Guinée, et que sa répartition s'étend de l'Angola jusqu'à en Sierra Leone. Peut-être que le jeune Louis-Ferdinand Destouches en vit-il quelques-uns lors de son séjour au Cameroun.
4. Originaire d'Amérique du Sud, ce perroquet ne vient nullement "des îles", comme l'indique la Castafiore.
5. Hasard ?
Les Bijoux de la Castafiore évoque justement le poids grandissant des médias dans la société.
6. Benoît Peeters,
Le Monde d’Hergé, Casterman, 1983.
7. In
Le Monde d’Hergé, entretien du 15 décembre 1982. Cité également par Émile Brami, p. 73.

 

 

vendredi, 16 septembre 2011

Un Wisigoth chez les Peaux-Rouges

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Un Wisigoth chez les Peaux-Rouges

par Georges FELTIN-TRACOL

En 1975, deux ans après Le Camp des Saints et un an après La Hache des Steppes, les Éditions Robert Laffont publiaient Journal peau-rouge. Auteur, à l’époque de treize ouvrages, dont plusieurs dédiés à la recherche des « peuples perdus ou oubliés » (les Huns, les Incas…), Jean Raspail, dont les ancêtres étaient wisigoths, décrit sa rencontre avec les Indiens des États-Unis d’Amérique – on ne disait pas encore Amérindiens – en 1974. Depuis longtemps épuisé, Journal peau-rouge est enfin réédité par les bons soins d’une petite maison d’édition d’Eure-et-Loir, Atelier Fol’fer. D’une belle fracture, l’ouvrage présente une magnifique couverture photographique. On ne peut que se féliciter de cette réédition.

Journal peau-rouge est le compte-rendu quasi-quotidien d’un écrivain français désireux de connaître la situation exacte des Indiens aux États-Unis au moment où ce pays traverse une terrible crise existentielle marquée par le Watergate, la défaite au Vietnam, la contestation post-Sixties et le déclin économique. Raspail arrive à New-York le 2 mai 1974 et voyage d’Est en Ouest jusqu’en août. Il visitera une trentaine de tribus. Cette année-là, le mouvement politique indien est en pleine effervescence. Les militants radicaux de l’American Indian Movment (A.I.M.) ont occupé en 1969 l’île – prison désaffectée d’Alcatraz, puis en 1973, ils ont résisté militairement au F.B.I. à Wounded Knee. Dans trois ans, Leonard Peltier, l’une de ses figures majeures, tombera dans un traquenard qui le fera devenir le plus vieux prisonnier politique du monde. Les militants indiens calquent leurs actions sur celles des militants du Black Power des années 1960. Raspail pense que « l’Amérique est malade de ses minorités et nous n’en sommes qu’aux premiers symptômes (p. 129) ».

Néanmoins, quand Jean Raspail rencontre un maigre groupe de l’A.I.M., il a plus l’impression d’être en compagnie de garnements partant à la guerre des boutons que d’un maquis terroriste embryonnaire. N’empêche, il sait qu’ailleurs existent de vrais radicaux qui « sont des Palestiniens en puissance (p. 65) ».

Ses « libres voyages dans les réserves amérindiennes » ne sont pas une partie de plaisir. Très souvent, Raspail est mal reçu et se fait éconduire. Parfois, il est le bienvenu, notamment chez les Navajos et les Crows. Cette différence de traitement, d’une tribu à l’autre, ne doit pas surprendre : la réserve indienne bénéficie d’une autonomie interne relative et dispose de sa propre police tribale, de son propre conseil tribal, de son propre président ou gouverneur élu. Les Indiens  sont en outre citoyens étatsuniens.

hache.jpgMalgré cette large autonomie, les réserves périclitent et s’enfoncent dans un marasme total. L’eau de feu, puis bientôt la drogue, y font des ravages considérables. La description de la réserve de Santa Rosa en Californie, atteinte d’un alcoolisme endémique, est effrayante. En plus des méfaits de l’alcool, l’autre mal qui gangrène les populations amérindiennes est l’assistanat. « Avec le welfare, ils ont cessé de travailler. Ils ont cessé de s’intéresser à eux-mêmes, à leur collectivité. Ils n’ont plus fait que boire. Ils sont devenus méchants, jaloux, hargneux (p. 220). » L’effondrement de Santa Rosa ne s’explique-t-il pas aussi par l’absence d’une véritable unité tribale puisque ce n’est qu’un agrégat de « poussières de tribus (p. 221) » ? Peut-être. Surtout si on compare cette situation désespérante à celle des Crows chez qui règnent « beauté, gaieté, bonheur, franchise, confiance (p. 249) » et chez les Najavos qui l’impressionnent fortement. Plutôt que de végéter dans un éternel présent, triste et crasseux, et las d’attendre des aides fédérales émollientes, les Navajos (et d’autres tribus) ont mis à leur profit la présence de richesses souterraines. En effet, les terrains stériles du XIXe siècle se révèlent riches en gisements de pétrole, d’uranium, de charbon. Leur exploitation transforme les Indiens en nouveaux nababs quand ils le veulent. Ainsi, grâce à la manne pétrolière, les Osages, une tribu franco-indienne, réhabilitent en 1925 l’enseignement de la langue française. L’un d’eux reprochera même à Jean Raspail la vente de la Louisiane par Napoléon aux États-Unis !

Mais ce sont les Navajos qui vont le plus loin au point que l’auteur écrit à leur sujet : « une nation, un territoire, des frontières, un gouvernement, tout cela porte un nom : la patrie. La patrie navajo est une création involontaire des États-unis (p. 201) ». Verra-t-on le Najavoland comme 51e État fédéré des États-Unis ? À l’époque, le responsable de la tribu l’envisageait sérieusement…

Au cours de son périple, Jean Raspail se rend compte que « les Indiens sont assimilés (p. 58) », que leur mode de vie est celui de leurs compatriotes étatsuniens non-indiens. Bien souvent, pour survivre, les tribus parient sur un tourisme folklorique réducteur et marchand. Or certaines tribus, jadis rebelles, accompagnent cette tendance ludique afin de maintenir leur cohésion spirituelle. Cette attitude ne concerne qu’une minorité. Les autres, la majorité, croupissent dans l’alcoolisme. Non sans une certaine malice, l’auteur de Secouons le cocotier remarque que « la mentalité d’assistés des Indiens américains, merveilleux tireurs de sonnettes politiques et de cordons de budget, l’enracinement de ce qui devient chez eux un parasitisme déclaré, l’acquit des droits et le refus des devoirs, leur irréalisme érigé à l’état de système commode qui leur permet de recevoir sans participer, de crier à la mort culturelle tout en courant d’autant plus volontiers à la soupe – on pourrait établir beaucoup de comparaisons entre les Peaux-Rouges et nos jeunes gens (p. 25) ». Cet abrutissement résulte de décennies de relégations et Jean Raspail n’a pas tort de rappeler au lecteur les déportations successives, l’extermination concertée du bison par les Visages Pâles et le génocide perpétré. On l’applaudit même quand il signale « la bêtise crasse et l’impéritie des militaires américains (p. 103) ». Il révèle que le fameux 7e Régiment de cavalerie est « en réalité, un ramassis d’assassins (p. 171) » et dépeint justement cette ganache de Custer « général de cavalerie, traîneur de sabre, culotte de peau, cervelle de cheval, l’officier le plus crassement stupide, le plus bêtement vaniteux, le plus petitement méchant, le plus prétentieusement incapable d’un état-major déjà composé exclusivement d’imbéciles, dans cette armée la plus bête du monde qu’était l’armée des États-Unis d’Amérique pendant la seconde moitié du XIXe siècle, c’est-à-dire, hélas, la période des guerres indiennes (p. 170) ». Jugement brutal, mais correct toujours valable de nos jours. La Guerre de Sécession a montré la grande bêtise des généraux nordistes (rien à voir avec le général sudiste Robert E. Lee). Les plus notoires étaient un alcoolique notoire et buté, partisan de la reddition inconditionnelle du Sud, Ulysses S. Grant, et un adepte de la « Guerre totale », destructeur d’Atlanta, William T. Sherman. Au XXe siècle, les seules brillantes exceptions à cette crétinerie institutionnalisée seront parmi les officiers généraux Douglas MacArthur et George S. Patton…

Avec l’assimilation, les Indiens pâtissent aussi du métissage. « Combien le métissage a tué le Peau-Rouge plus sûrement que les cavaliers du 7e de cavalerie (p. 198). » Jean Raspail observe que maints Indiens ont des ancêtres blancs et/ou noirs. Dans certaines tribus, « il faut les voir, à chaque naissance, guetter le moindre signe d’hérédité indienne chez le nouveau venu dans son berceau. Désespérément, chacun se veut Indien, tout en refusant l’indianité au voisin tout aussi négroïde (p. 41) ». Désireux de préserver leur ethnicité, les Amérindiens appliquent alors une politique du sang : ils ne veulent pas dépasser « un taux de métissage au-delà du seizième de sang indien (p. 111) ». Aux modalités variables suivant les tribus, cette règle est en tout cas impérative si un Indien veut recevoir un jour en héritage une part de la terre qui est propriété collective de la tribu ! « La notion de territoire, insiste Raspail, est primordiale aux yeux de l’Indien. Il sait qu’il ne peut plonger ailleurs ses racines, tout assimilé qu’il soit mais non solidaire du passé occidental (p. 69) ». Attention à ne pas se tromper : les Indiens n’adhèrent pas au Blut und Boden, ni à une quelconque mystique du sang. En témoigne la tribu mystérieuse des Jackson Whites. Pendant la Guerre d’Indépendance américaine, les troupes anglaises bénéficiaient du réconfort de prostituées blanches et noires. Une fois les Anglais vaincus et partis, ces dames se retrouvèrent seules et en proie à l’hostilité violente des nouveaux citoyens américains. Fuyant les maltraitances, les survivantes parvinrent à se réfugier dans les Monts Ramapo du New Jersey. Là survivaient aussi des bandes d’Indiens rebelles. S’établirent ensuite des liens amoureux, fondateur d’une nouvelle tribu qui accueillit ensuite des mercenaires hessois en rupture de ban, des esclaves fugitifs, des brigands blancs. La région est depuis hostile à n’importe quel étranger… L’auteur ignorait qu’en 1980, l’État du New Jersey reconnaîtrait l’indianité de cette tribu d’origine algonquienne de 5 000 personnes environ, qui préfère être appelée Nation Lenape Ramapough. La tribu juge que la naissance des Jackson Whites relève de la légende urbaine péjorative et grotesque. En tout cas, pour Raspail, « la race, c’est un choix. Quand on l’a fait, il anoblit (p. 168) ».

Le refus raisonné du métissage exprime une quête identitaire indéniable. Et pourtant… Jean Raspail « cherche à comprendre ce que c’est, un Indien aux États-Unis en 1974 (p. 23) ». On lui rétorque : « Indien ? Je ne sais pas. Je l’ai toujours été… (p. 23) ». Mieux, « Indien, cela ne signifie rien du tout si le mot n’est pas accolé au nom d’une tribu. Cela n’existe pas, c’est une invention de Colomb. On est Assiniboine, Crow, Hopi, Navajo, Seneca, ça oui. Encore une fois, il n’y a jamais eu de nation indienne. Hors de la tribu, point de salut (p. 70) ». Alors, les militants amérindiens auraient-ils fait fausse route ? « Le combat pour la renaissance de l’identité perdue est tout à fait moderne. Il n’est pas particulier aux Indiens. On le retrouve partout, sursaut de l’individu contre la collectivité qui le banalise et le broie (p. 71). » Le mouvement d’émancipation amérindien contribue au grand phénomène nativiste qui ne cesse depuis de croître. Aujourd’hui, avec l’essor des casinos dans les réserves, de nombreux Étatsuniens se découvrent des ancêtres amérindiens dans l’espoir d’intégrer les tribus les plus prospères et de bénéficier de la manne financière…

Chantre de la Libération indienne et d’un retour aux structures traditionnelles, Vine Deloria a proclamé que « les formes sociales tribales ont, elles, toujours existé mais elles ont été étouffées. En les faisant renaître, les Indiens pourront non seulement redonner une nouvelle vigueur à leurs traditions, mais aussi expérimenter de nouvelles formes de vie sociale dont les Blancs auront à s’inspirer pour aborder le monde futur. Deloria rejoint ainsi toutes les renaissances régionalistes et fractionnistes, ce n’est pas bête. La tribalisation des Blancs, la recherche de l’identité à travers le clan reconstitué et même artificiellement créé, c’est peut-être une des rares échappatoires qui nous restent pour éviter l’écrasement de chacun par la collectivité (p. 42) ». Identités et écologie convergeaient déjà dans le même combat essentiel contre l’uniformité mortifère.

Et si de ce séjour peau-rouge Jean Raspail en avait retiré une leçon, celle de la tribu, de la communauté réduite, dernier carré de la résistance ou de la survie ? Ne peut-on pas voir en filigrane des prolongements de ce périple marquant dans les réflexions, les histoires et les personnages de Jean Raspail perceptibles dans son célèbre article du Figaro du 17 juin 2004, « La patrie trahie par la République », dans Septentrion, Les Hussards, Sept cavaliers…, voire Sire ? Loin d’être un ouvrage en marge, Journal peau-rouge se situe donc au cœur de l’œuvre de Raspail, d’où son importance à être lu ou relu.

Georges Feltin-Tracol

Jean Raspail, Journal peau-rouge. Mes libres voyages dans les réserves indiennes des États-Unis d’Amérique, Atelier Fol’fer, coll. « Go West », 2011, 250 p., préface d’Alain Sanders, 22 € (+ 4 € de port, B.P. 20047, F – 28260 Anet, France).


Article printed from Europe Maxima: http://www.europemaxima.com

jeudi, 15 septembre 2011

Jean Raspail sur "Le Camp des Saints"

Jean Raspail sur "Le Camp des Saints"

 

Jean Raspail chez Taddeï (3 février 2011)

jeudi, 08 septembre 2011

Le Yogi et le commissaire

Ex : http://zentropa.splinder.com/post/25473109/le-yogi-et-le-commissaire

Le yogi et le commissaire

yogi.jpgFutur auteur de Le zéro et l’infini, Arthur Koestler avait joué un rôle important dans la guerre d’Espagne comme agent du Komintern. Par ses écrits, il avait donné le ton d’une propagande antifranquiste qui a perduré. Plus tard, ses déceptions firent de lui un critique acéré du stalinisme. À l’été 1942, il publia un texte qui marquait sa rupture : Le yogi et le commissaire. Deux théories, écrivait-il, prétendent libérer le monde des maux qui l’accablent. La première, celle du commissaire (communiste) prône la transformation par l’extérieur. Elle professe que tous les maux de l’humanité, y compris la constipation, peuvent et doivent être guéris par la révolution, c’est-à-dire par la réorganisation du système de production. À l’opposé, la théorie du yogi pense qu’il n’y a de salut qu’intérieur et que seul l’effort spirituel de l’individu, les yeux sur les étoiles, peut sauver le monde. Mais l’histoire, concluait Koestler, avait consacré la faillite des deux théories. La première avait débouché sur les pires massacres de masse et la seconde conduisait à tout supporter passivement. C’était assez bien vu et totalement désespérant.

C’était bien vu à une réserve près. Pourquoi fallait-il donc « sauver » le monde ? Et le sauver de quoi au juste ? La réponse était dans la vieille idée de la Chute et dans celle, plus récente, du Progrès. L’une et l’autre impliquaient l’idée de salvation. Si les théories opposées du yogi et du commissaire avaient fait tant d’adeptes au XXe siècle en Occident, c’est qu’on avait pris l’habitude depuis longtemps de penser la vie en termes de rédemption ou d’émancipation.

Il n’en avait pas toujours été ainsi. La Grèce antique, par exemple, avait une approche toute différente, assez voisine de celle du Japon traditionnel. Nulle intention de changer le monde, mais la volonté de construire et de conduire sa vie en visant l’excellence. C’était une forme de spiritualité vécue dans l’immanence, mais on ne le savait pas. Elle avait sa source dans l’œuvre d’Homère que Platon appelait « l’éducateur de la Grèce ». Homère avait exprimé un idéal éthique, celui du kalos kagathos, l’homme beau et noble. Idéal aristocratique qui devint celui de tous les Grecs à l’époque classique. Seulement, cet idéal n’a jamais été regardé comme une spiritualité. Au contraire, les philosophes l’ont souvent dénigré en laissant entendre que seules leurs spéculations conduisaient à la sagesse.

En dépit de tout, pourtant, cet idéal n’a pas cessé d’irriguer une part essentielle du comportement européen le plus noble, mais jamais de façon explicite. Lacune due notamment à un parfait contresens sur l’idée de spiritualité.

Il faut comprendre que la spiritualité ne se confond pas avec les mystiques du vide. Elle est indépendante du surnaturel. Elle est ce qui élève au-dessus de la matérialité brute et de l’utilitaire, donnant un sens supérieur à ce qu’elle touche. Les pulsions sexuelles appartiennent à la matérialité, tandis que l’amour est spiritualité. Le travail, au-delà du désir légitime de rémunération, s’il a le gain pour seule finalité, patauge dans le matérialisme, alors que, vécu comme accomplissement, il relève de la spiritualité. Autrement dit, ce qui importe n’est pas ce que l’on fait, mais comment on le fait. Viser l’excellence de façon gratuite, pour la beauté qu’elle apporte et qu’elle fonde, est la forme européenne de la spiritualité, qu’il s’agisse de l’embellissement de la demeure par la maîtresse de maison, de l’abnégation du soldat ou du dressage équestre.

Ces réflexions peuvent sembler futiles face aux grands enjeux historiques de notre temps. En réalité, la spiritualité et son contraire commandent largement ces derniers. À la différence des animaux, les hommes ne sont pas programmés par l’instinct. Leur comportement dépend de leurs représentations morales, religieuses ou idéologiques, donc spirituelles.

Faute d’avoir été formulée, reconnue et revendiquée, l’authentique spiritualité européenne est ignorée. Et plus on avance dans l’ère de la technique triomphante, plus elle est masquée par un matérialisme étouffant. D’où l’attrait illusoire pour les spiritualités orientales, le « yogi » comme disait Koestler. Pour renaître, ce n’est pourtant ni sur les bord du Gange ni au Tibet que les Européens se laveront des souillures de l’époque, mais à leurs propres sources.

► Dominique Venner.

 

jeudi, 01 septembre 2011

Marc Laudelout sur "Méridien Zéro"

Marc Laudelout sur "Méridien Zéro"

Le Bulletin célinien n°333

Le Bulletin célinien n°333 - septembre 2011

Vient de paraître : Le Bulletin célinien n°333.

Au sommaire :

Marc Laudelout : Bloc-notes
François Gibault : Céline n’a pas besoin de célébration nationale
Michel Uyen : Un nouveau livre sur l’exil danois
M. L. : Réception critique du Céline de Henri Godard
Philippe Alméras : Céline à la sauce velours
M. L. : Jérôme Dupuis, Rouletabille du journalisme littéraire
M. L. : Pierre Duverger, photographe de Céline
Pierre de Bonneville : Villon et Céline (2)
M. L. : L’Année Céline 2010

Un numéro de 24 pages, 6 € franco. Le Bulletin célinien, B. P. 70, Gare centrale, BE 1000 Bruxelles.

Le Bulletin célinien n°333 - Bloc-notes

 
En cette époque où dérision et sarcasmes triomphent, j’imagine les commentaires acidulés de certains apprenant que la tombe de Céline fut fleurie le 1er juillet par la Société des Études céliniennes. Que les persifleurs me pardonnent de ne pas faire chorus. J’ai apprécié cette initiative qui s’avère, par les temps qui courent, vraiment anticonformiste. Quelques jours avant la date anniversaire, François Gibault adressa un courrier aux membres parisiens de la SEC pour leur donner rendez-vous au cimetière de Meudon. Le BC décida alors de relayer l’information auprès de ses abonnés disposant d’une adresse électronique.
C’est ainsi qu’une soixantaine de personnes se retrouvèrent autour de la tombe de Céline pour lui rendre l’hommage refusé par la République au début de cette année. L’initiative ne fit-elle pas l’unanimité au sein du bureau de la SEC ? Toujours est-il que celui-ci ne fut représenté que par son président ¹. Sans doute peut-on comprendre l’absence de certains. D’autant qu’être présent à Meudon ce 1er juillet, c’était s’exposer au risque de côtoyer des personnes souhaitant surtout rendre hommage à l’auteur des « pamphlets ». Cela n’a pas manqué. Certains d’entre eux, davantage familiers du Coran que de Céline, font partie de cette cohorte admirative d’un seul pan de son œuvre pour les raisons que l’on devine. Dont un individu qui, sûr de son petit effet, exhibait ostensiblement un exemplaire de Bagatelles pour un massacre. Certes on me dira que cette faune avait une allure tout à fait célinienne tant certains semblaient issus en droite ligne de Guignol’s band. Au moins faut-il reconnaître qu’ils se tinrent cois et ne troublèrent en aucune façon la réunion ².
Bien entendu, il importe de respecter la sensibilité de chacun. Ainsi n’aura-t-on pas été étonné de ne pas rencontrer certains céliniens patentés. On se souvient de l’embarras de l’un d’entre eux, il y a quelques années, lorsqu’à l’issue d’une émission télévisée, Bernard Pivot demanda benoîtement aux invités d’imaginer une question à poser à Céline si, par miracle, il apparaissait devant eux.
Coïncidence : ceux qu’on peut qualifier de « céliniens historiques » – François Gibault, Frédéric Vitoux, Philippe Alméras et Henri Godard – ont cette particularité commune d’avoir écrit une biographie de Céline. La dernière en date étant celle de Henri Godard. Pour ma part, j’ai apprécié la finesse et la densité de ce travail même s’il y a inévitablement des réserves à formuler. Le climat délétère de la IIIe République eût mérité d’être décrit tant il explique aussi l’éclosion des écrits de combat. En revanche, l’auteur montre bien comment Céline est venu à l’écriture, lui qui fut élevé dans un milieu où rien ne le prédisposait à une destinée d’écrivain. Les pages concernant ses années de formation sont éclairantes à cet égard. Dans notre numéro de juin, nous avons publié l’appréciation élogieuse de Frédéric Vitoux. Vous lirez dans ces pages celle, plus critique, de Philippe Alméras, ainsi qu’un panorama de la réception critique du livre. Le BC renoue ainsi avec le débat qu’il a toujours tenté de privilégier — le lecteur demeurant finalement seul juge.

Marc LAUDELOUT


1. Rappelons que les membres du conseil d’administration sont : Isabelle Blondiaux, André Derval, David Fontaine, Henri Godard, Marie Hartmann, Catherine Rouayrenc, Christine Sautermeister, et Alice Stašková. Cela étant, plusieurs céliniens, membres ou non de la SEC, étaient présents : David Alliot, Anne Baudart, Christian Dedet, Michel Déjus, Jérôme Dupuis, Valeria Ferretti, Matthias Gadret, Philippe Ginisty, Frédéric Monnier, etc.
2. Cf. Louis Egoïne de Large, « Chapeau Meudon et Bagatelles », Le Clan des Vénitiens [http://blanrue.blogspot.com], 10 juillet 2011.

mercredi, 17 août 2011

Knut Hamsun

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Knut Hamsun

Kerry Bolton

Ex: http://www.counter-currents.com/

Editor’s Note:

This much-expanded version of a previously-published essay on Knut Hamsun is chapter 6 of Kerry Bolton’s Artists of the Right: Resisting Decadence, forthcoming from Counter-Currents.

Knut Hamsun, 1859–1952, has had a decisive impact on the course of twentieth century literature, both in Europe and America, yet was for decades little discussed let alone honored even in his native Norway.

Ernest Hemingway tried to emulate him as did Henry Miller, who called Hamsun “the Dickens of my generation.” Thomas Mann wrote, “never has the Nobel Prize been awarded to one so worthy of it.” Herman Hesse called Hamsun his favorite author. Admired by H. G. Wells, Kafka, and Brecht,[1] Hamsun always enjoyed a great following not only in Germany but particularly in Russia, where he was lauded especially by Maxim Gorky. Even inside the Communist State Hamsun continued to be published despite his politics, and he remained an influence on such Bolshevik luminaries as Aleksandr Kollontai and Illya Ehrenburg.[2]

Origins

Hamsun was born Knut Pedersen of an impoverished peasant family of seven children on August 4th, 1859. His father was a farmer and a tailor; his mother’s lineage was of Viking nobility. Knut had a hard upbringing on his uncle’s farm where he was sent when he was nine. But his uncle also ran the local library, which gave  him the chance to begin his self-education.[3]

He left his uncle’s farm in 1873, and over the next few years worked at a variety of jobs, laboring, teaching, and clerical, as he widely journeyed about.[4]

America

At 18 he had published his first novel called The Enigmatic One, a love story.[5] He then paid for the publication of another novel Bjorger.[6] But acknowledgment as a writer was a decade away, as there was then little interest in his peasant tales.

In 1882 Knut traveled to the USA, joining the great Norwegian emigration to that country. Between numerous jobs he was able to get some newspaper articles published and began a series of lectures on authors among the Norwegian community.[7] From this early start, Hamsun wrote as an observer of life. He was the first to develop the novel based on the psychology of characters. Hamsun wrote of what he saw and felt particularly identifying with the workers and the tramps. But he was soon disillusioned with America, despite his initial wonder, and he expressed his disgust for American life in articles for Norwegian newspapers[8] upon his return.[9]

In the first sentence of his first article on America[10] Hamsun described the country as “the Millionaires’ Republic,” a reference to the manner by which elections are based on money,[11] and where the “diseased an degenerate human raw material stream every day from all over the world.” Alluding to principles that are today familiarly called “the American Dream,” Hamsun states that the immigrant is soon disappointed when “the principles do not deliver what they promise.”

He was skeptical about the liberty fetish upon which the American ethos is proclaimed, stating that it is in practice not so much a matter of having “liberty” as “taking liberties.”[12] The purpose of being American is to fulfill a “carnivorous, satiating existence, with the ability to afford intense sensual pleasures . . .”[13]

What now seems particularly prescient, Hamsun, in criticizing the “machinelust” of Americans alludes with a mixture of amazement and abhorrence to having eaten even an egg “from a Brooklyn egg factory” (Hamsun’s emphasis),[14] perhaps something that might have seemed pathological for a youthful Scandinavian of country stock.

Hamsun’s next article for Aftenpost centered on New York, and focused on what can be considered the vulgarity of American city-dwellers in comparison to those in Europe; their loudness and their lack of etiquette.[15] “New Yorkers know little about literature or art.”[16] The theater is popular but the “level of dramatic art is so low.”[17]

Hamsun’s first major literary work came in 1888 when he succeeded in getting published a short story in a magazine, which was to form part of his novel, Hunger. The story gained him access to the literary scene in Copenhagen. Hamsun became a celebrity among the young intellectuals. He was invited to lecture before university audiences.[18]

He was commissioned to write a book on America in 1889 setting aside the completion of Hunger. The result was The Cultural Life of Modern America,[19] based on his second trip to the USA in 1886, which had been prompted by his desire to make a literary mark for himself there.[20]

By 1888 he was so repelled by the USA, that he took to wearing a black ribbon in sympathy with four German anarchist immigrants[21] who had been sentenced to death for the Haymarket bombing in Chicago, 1886.

He left a departing message, giving a two-hour lecture on the cultural vacuity of America.[22]

Despite his destitution upon settling in Copenhagen, he wrote to a friend: “How pleased I am with this country. This is Europe, and I am European—thank God!”[23]

It was two lectures on America at the University of Copenhagen that formed the basis of the aforementioned Cultural Life of Modern America. Nelson remarks of Hamsun’s particular disgust, which might to many readers seem completely relevant to the present time: “In particular he was offended by the exaggerated patriotism of Americans, their continual boasting of themslevs as the freest, most advanced, most intelligent people anywhere–boasting from which the foreigner could not escape.”[24]

Hamsun attacked the crass materialism of the  USA. He despised democracy as a form of despotism, abhorring its leveling nature and mob politics. America is a land where the highest morality is money, where the meaning of art is reduced to its cash value. He also expresses his misgivings about the presence of Africans in the USA. The Civil War is described as a war against the aristocracy by northern capitalists. He writes: “Instead of founding an intellectual elite, America has established a mulatto stud farm.”

Literary Eminence

Resuming the writing of Hunger after his musings on America, this appeared in 1890. It has been described as one of the great novels of urban alienation. Like much of his writing it is partly autobiographical. It centers on a young budding writer trying to fend off poverty, wandering the streets in rags, but in some odd way enjoying the experiences despite the hardship. Through an act of will the character maintains his identity.

This was perhaps the first novel to make the workings of the mind the central theme. It was a genre he was to continue experimenting with over the next ten years. Contra orthodox psychological theories, Hamsun held that a diversity of separate personality types within the individual is a desirable state of being. He wrote of this in regard to his aim for literature: “I will therefore have contradictions in the inner man considered as a quite natural phenomenon, and I dream of a literature with characters in which their very lack of consistency is their basic characteristic.”[25]

Hamsun’s next great novel was Mysteries,[26] virtually a self-portrait. One reviewer described Hamsun as expressing “the wildest paradoxes,” a hatred of bourgeois academics and of the masses. The principal character, Nagel, is presented in the form of free flowing thought associations and a stream of consciousness.[27]

Here Hamsun identifies himself as “a radical who belongs to no party, but is an individual in the extreme.”[28] The book caused an uproar among literary circles, but it sold well.

Having outraged the literary establishment, Hamsun next set about critiquing the younger coterie of writers as arrogant and talentless wastrels, whom he represents in Shallow Soil[29] as “a festering sore on the social organism of the Norwegian capital,” in the words of Prof. Wiehr.[30]

Here Hanka Tidemand, a liberated and modern woman of the type detested by Hamsun, finds her true nature back with her hard working husband and children, after an affair with an artist. She realizes her mistaken course, on the verge of divorce, when she sees her children. Here Hamsun sets out his constant theme of rediscovering one’s roots in the simple life, in family and, in children. The well-meaning Mr Tidemand has his wife Hanka leave after she is seduced by one of the bohemian parasites.

[Tideman’s] regard for the individual liberty of his wife amounts really to a fault. He fails to see, however, the grave danger which is threatening Hanka and believes to be promoting her true happiness in according her perfect freedom. His devotion to her never ceases, and when she at last repents, he makes reconciliation easy for her. . . .

Hanka is evidently the product of a misdirected striving for emancipation; she seems to acknowledge no duty except the duty to herself. [31]

The Kareno trilogy of plays (At the Gates of the Kingdom, Evening Glow, and The Game of Life)[32] focuses Hamsun’s growing anti-democratic sentiment in the character of Ivar Kareno, a young philosopher who states:

I believe in the born leader, the natural despot, not the man who is chosen but the man who elects himself to be ruler over the masses. I believe in and hope for one thing, and that is the return of the great terrorist, the living essence of human power, the Caesar.[33]

By now, Hamsun had become a celebrity, cheered in the streets by crowds although he despised the attention, but several decades away from being honored with a Nobel Prize

The Growth of the Soil

The Growth of the Soil is a remarkable book for those who have a yearning for the timeless in a world of the superficial and the transient. Published in 1917, it was the work that was cited when Hamsun was awarded the Nobel Prize for Literature in 1920.

This is the world of a rough, coarsely-featured farmer Isak, and a woman, Inger, who happened to come by from across the valley, stay with him to sire a children and help Isak work the land, raise goats, potatoes, corn, milk the cows and goats, make cheese, and subsist at one with nature.

Isak and Inger are archetypes of the peasant; the antithesis of the New Yorker and the archetypical “American” described in Hamsun’s essays on the USA.

The sense of a day-by-day part of eternity lived by Isak and Inger is captured, juxtaposing their lives with the grain they sow and the earth they till, as part of a single rhythm that has existed for centuries:

For generations back, into forgotten time, his fathers before him had sowed corn, solemnly, on a still, calm evening, bets with a fall of warm and gentle rain, soon after the grey goose flight. . . .

Isak walked bare headed, in Jesus’ name, a sower. Like a tree stump to look at, but in his heart like a child. Every cast was made with care, in a spirit of kindly resignation. Look! The tiny grains that are to take life and to grow, shoot up into ears, and give more corn again; so it is throughout the earth where corn is sown. Palestine, America, the valleys of Norway itself—a great wide world, and here is Isak, a tiny speck in the midst of it all, a sower. Little showers of corn flung out fanwise form his hand; a kindly clouded sky, with a promise of the faintest little misty rain.[34]

The woman as mother is the highest of peasant values, and indeed of the fulfillment of women, in antithesis to the “liberated woman” that was becoming evident in Hamsun’s time as a symptom of a culture’s decay, a type already described by Hamsun in Shallow Soil and elsewhere.

The rearing of children is the purpose of Being of the wife and mother, as much as that might be sneered at now, but as Spengler noted, there is nothing more important than the continuation of a family lineage, generation-after-generation, and one might add—interestingly—the same values hold as true for the aristocrat as for the peasant; there is no more dread than being the last of a family’s line. Hence, we see something of this feeling described by Hamsun:

She was in full flower, and constantly with child. Isak, himself, her lord and master, was earnest and stolid as ever, but he had got on well, and was content. How he had managed to live until Inger came was a mystery . . . now, he had all that a man can think of in his place in the world.[35]

The feeling is described by Oswald Spengler in The Hour of Decision, which captures the same intent that Hamsun was expressing in drama:

A woman of race[36] does not desire to be a “companion” or a “lover,” but a mother; and not the mother of one child, to serve as a toy and a distraction, but of many; the instinct of a strong race speaks in the pride that large families inspire, in the feeling that barrenness is the hardest curse that can befall a woman and through her the race . . .[37]

This is precisely the type of woman that Inger represents: “She was in full flower, and constantly with child . . .”

A man wants stout sons who will perpetuate his name and his deeds beyond his death into the future and enhance them, just as he has done himself through feeling himself heir to the calling and works of his ancestors.[38]

This organic conception of family, an instinct during the “Spring” and “Summer” epochs of a civilization, becomes atrophied during the “Autumn” and “Winter” epochs, as Spengler aptly terms the morphological cycles of a culture; which is of course the situation today, and was becoming apparent during Hamsun’s time. The culture-problem addressed by Hamsun in Shallow Soil, etc., where the “emancipated woman” leaves her family, is described by Spengler:

The meaning of man and wife, the will to perpetuity, is being lost. People live for themselves alone, not for future generations. The nation as society, once the organic web of families, threatens to dissolve, from the city outwards, into a sum of private atoms, of which each is intent on extracting form his own and other lives the maximum of amusement–panem et cicenses. The women’s emancipation of Ibsen’s time wanted, not freedom from the husband, but freedom from the child, from the burden of children, just as men’s emancipation in the same period signified freedom from the duties of family, nation, and State.[39]

Hamsun addressed a matter of land ownership and purchase, as it had been the habit of the tillers to simply stake out a plot of land and work it, without thought as to how and where to purchase it. Amidst the cycles of struggle, drought, crop failures, births of children, and crop recovery, and the contentedness of Isak and Inger and their family amidst it all, an official calls upon them one day to enquire as to why Isak never bought the land.

Buy? What should he buy for? The ground was there, the forest was there; he had cleared and tilled, built up a homestead in the midst of a natural wilderness, winning bread for himself and his, asking nothing of any man, but working, and working alone.[40]

The district sheriff’s officer finally calls by, looking at the vast tracts of tilled land, and asking why Isak had never come to him to purchase it. Soon after a bit of verbal sophistry, Isak begins to see how the official must be correct. Asking about “boundaries,” Isak had only thought in terms of how far he could see and what he could work. But the State required “definite boundaries,” “and the greater the extent, the more you will have to pay.” To all of this, Isak, could only acknowledge with “Ay.”[41]

From there, the simple life of Isak and Inger is confronted with a bureaucratic muddle, with questions on the money-value of the land, its waters, the potential for fishing, and the possibility of ores and metals.

Then civilization reaches Isak and Inger in the form of the telegraph (which becomes a metaphor for “civilization”) which is to go through his land, and for which he would be paid to upkeep the lines. [42] Furthermore, there was a copper mine in the hills that was to be bought from Isak.[43] Despite the money that now comes to Isak, he remains always a peasant, still toiling, knowing that is who he is and not wanting to be anything else:

Isak understood his work, his calling. He was a rich man now, with a big farm, but the heavy cash payments that had come to him by a lucky chance he used but poorly; he put the money aside. The land saved him. If he had lived down in the village, maybe the great world would have affected even him; so much gaiety, so many elegant manners and ways; he would have been buying useless trifles, and wearing a red Sunday shirt on weekdays. Here in the wilds he was sheltered from all immoderation; he lived in clear air, washed himself on Sunday mornings, and took a bath when he went up to the lake. Those thousand Daler—well, ’twas a gift from Heaven, to be kept intact. What else should he do? His ordinary outgoings were more than covered by the produce of his fields and stock.[44]

The copper mining, which went to Swedish ownership, began encroached increasingly, much to the distress of the villagers. Elesuesu, Isak and Inger’s eldest son, having spent much time away had returned ruined by civilization, improvident,

Poor Eleseus, all set on end and frittered away. Better, maybe, if he’d worked on the land all the time, but now he’s a man that has learned to write and use letters; no grip in him, no depth. For all that, no pitch-black devil of a man, not in Jove, not ambitious, hardly nothing at all is Eleseus, not even a bad thing of any great dimensions.

Something unfortunate, ill-fated about this young man, as if something were rotting him from within. . . . the child had lost his roothold, and suffered thereby. All that he turns to now leads back to something wanting in him, something dark against the light.[45]

Eleseus represents that type which becomes predominate in the “Winter” cycle of a civilization, when the City and money form the axis of living; where the peasant and the artisan emigrant from the country to the city and become either part of the rootless, alienated proletarian mass or a part of the equally rootless bourgeois. The same contrast that Hamsun dramatized was examined several years later by Spengler in his seminal study of cultural morphology, The Decline of The West:

Beginning and end, a peasant cottage and a tenement block are related to one another[46] as soul and intellect, as blood and stone . . . now the giant city sucks the country dry, insatiably and incessantly demanding and devouring fresh streams of men, till it dies in the midst in the midst of an almost uninhibited waste of country.[47]

Hamsun concludes with Geissler, the district official who had once come on behalf of the State to measure the worth and boundaries of Isak’s land, and then to buy the copper mine from Isak, regretting the impact the mining had had upon the village, offering this observation to Isak’s younger son Sivert who had stayed with the land, which encapsulates Hamsun’s world-view and moral of the story:

Look at you folk at Sellanraa,[48] now; looking up at blue peaks every day of your lives; no new-fangled inventions about that, but fjeld and rocky peaks, rooted deep in the past—but you’ve them for companionship. There you are, living in touch with heaven and earth, one with them, one with all these wide, deep-rooted things. No need of a sword in your hands, you go through life bareheaded, barehanded, in the midst of a great kindliness. Look, Nature’s there, for you and yours to have and enjoy. Man and Nature don’t bombard each other, but agree; they don’t compete, race one against the other, but go together. There’s you Sellanraa folk, in all this, living there. Fjeld and forest, moors and meadow, and sky and stars—oh, ’tis not poor and sparingly counted out, but without measure. Listen to me, Sivert: you be content! You’ve everything to live on, everything to live for, everything to believe in; being born and bringing forth, you are the needful on earth. ’Tis not all that are so, but you are so; needful on earth. ’Tis you that maintain life. Generation to generation, breeding ever anew; and when you die, the new stock goes on. That’s the meaning of eternal life. What do you get out of it? An existence innocently and properly set towards all. What you get out of it? Nothing can put you under orders and lord it over you Sellanraa folk, you’ve peace and authority and this great kindliness all round. That’s what you get for it. You lie at a mother’s breast and suck, and play with a mother’s warm hand. There’s your father now, he’s one of the two-and-thirty thousand. What’s to be said of many another? I’m something, I’m the fog, as it were, here and there, floating around, sometimes coming like rain on dry ground. But the others? There’s my son, the lightning that’s nothing in itself, a flash of barrenness; he can act. My son, ay, he’s the modern type, a man of our time; he believes honestly enough all the age has taught him, all the Jew and the Yankee have taught him; I shake my head at it all. But there’s nothing mythical about me; ’tis only in the family, so to speak, that I’m like a fog. Sit there shaking my head. Tell the truth–I’ve not the power of doing things and not regretting it. If I had, I could be lightning myself. Now I’m a fog.[49]

Hamsun explicitly identified the peasantry as the well-spring of a healthy culture, the embodiment of those ever-relevant values that contrast the values of decay represented by the city, the bourgeois, proletarianization, urbanization and industrialization:

A tiller of the ground, body and soul; a worker on the land without respite. A ghost risen out of the past to point the future, a man from the earliest days of cultivation, a settler in the wilds, nine hundred years old, and, withal, a man of the day.[50]

In the August Trilogy,[51] as in The Growth of the Soil and elsewhere, Hamsun had taken up the concerns of encroaching mechanization and cosmopolitanism, epitomized by the USA, and instead championed traditional values, such as those of localism and the rural. Nelson remarks that Hamsun was espousing an agrarian, anti-capitalist conservatism that was becoming popular among the literati in both Europe and America.

Quisling and Hitler

With such views forming over the course of decades, and achieving wide acclaim, Hamsun’s support for Quisling and for the German occupation of Norway during World War II, is consistent and principled within his historical and cultural context.

Hamsun disliked the British as much as the “Yankees” and the Bolsheviks. He had been appalled by the British war against the Boers, which he would surely have regarded as a war by a plutocratic power against an entire folk who epitomized a living remnant of the type portrayed by Isak in The Growth of The Soil.[52] He had also alluded to the “Jews”[53] as harbingers of modernism and cosmopolitanism.

In contrast to Britain, the USA and the USSR, National Socialist Germany claimed to champion the peasantry as the eternal well-spring of a healthy culture, very much in keeping with Hamsun’s views in The Growth of The Soil and elsewhere. This is why the National Socialists saw Hamsun as a fellow-traveler.

In 1933 Walther Darré, a widely recognized agricultural expert, had been appointed Reich Minister of Food and Agriculture, and also had the title “National Peasant Leader.” Goslar was named the “National Peasant City,” and pageants were held to honor the peasantry. Practical measures to deal with the crisis on the land were enacted immediately, including the Hereditary Farm Law, which protected the peasantry from foreclosure and ensured the family inheritance. [54]

Alfred Rosenberg, the primary National Socialist philosopher in Germany, had already paid tribute to Hamsun in his seminal Myth of the Twentieth Century (1930), with specific reference to The Growth of the Soil, as expressing the “mystical-natural will” of the peasant better than any other living artist:

No one knows why, with great effort, the farmer Isak cultivates one piece of land after another in god-forsaken regions, or why his wife has joined him and gives birth to his children. But Isak follows an inexplicable law. He carries on a fruitful quest out of a mystical primal will. At the end of his existence he will certainly look back in astonishment at the harvest of his activity. The Growth of the Soil is the great present day epic of the Nordic will in its eternal primordial form. Nordic man can be heroic even behind the wooden plow.[55]

Such was the background when in 1934 Hamsun wrote an article, “Wait and See,” in which he attacked the opponents of National Socialist Germany and asked if a return of Communists, Jews, and Bruning to Germany were preferable. In 1935 he sent a greeting to Der Norden, the organ of the Nordic Society, supporting the return of the League of Nations mandate, Saarland, to Germany, and from the start supported Germany privately and publicly wherever he felt able.[56] Hamsun and his wife Marie remained particularly close to the Nordic Society, which was avid in promoting Hamsun’s works.[57]

In April 1940 the Germans occupied Norway to secure the sea route, after the British had on several occasions breached Norwegian neutrality, included mining of Norway’s territorial waters, about which the Norwegian Government impotently protested. [58]

In 1933, former Defense Minister Vidkun Quisling had established his own party Nasjonal Samling (National Unification). Hamsun had formed a good impression of Quisling since 1932, and wrote in support of Nasjonal Samling’s electoral appeal in 1936 in the party newspaper Fritt Folk. His wife Marie was the local representative of the party.[59]

Ironically, Quisling, his very name becoming synonymous with “traitor,”[60] was the only politician who had campaigned before the war for a strong defense capability, and was particularly pro-British, having been honored by the British Government for looking after British interests in Russia after the Bolshevik Revolution, where he had been the principal aide to the celebrated Dr. Fridtjof Nansen, who was directing the European Famine Relief to Russia in 1921, with Quisling serving as Secretary for the Relief Organization.[61]

Quisling sought an alliance of Nordic nations including Germany and Britain, in what he called a “Northern Coalition,” against Communism.[62]

The only strong resistance against the German invasion came from a garrison commanded by an officer who belonged to Quisling’s party. The King and Government quickly fled, leaving Norway without an administration or any voice to negotiate with the Germans.[63] Quisling, like Petain in France, and many other figures throughout Europe who were to be branded and usually executed as “traitors,” stepped in to fill the void as the only political figure willing to try and look after Norwegian interests under the occupation. He declared himself Minister President, but because he was not a pliant tool he did not enjoy the confidence of the German military authorities. He was soon forced to resign in favor of an administrative council under German control, but eventually regained a measure of authority.[64]

Meanwhile, Hamsun urged Norwegians to rally behind Quisling so that some form of sovereignty could be restored. He described Quisling as “more than a politician, he is a thinker, a constructive spirit.”[65]

Hamsun’s longest wartime article appeared in the German language Berlin-Tokyo-Rome periodical in February 1942, where he  wrote: “Europe does not want either the Jew or their gold, neither the Americans nor their country.”[66]

Despite Hamsun’s pro-German sentiment, he championed the rights of his countrymen, including those who resisted the German occupation. He attempted in intercede for the writer Ronald Fangen, and many others, who had been arrested by the Gestapo.[67]

In 1943 Hamsun and his wife accepted the invitation of Goebbels to visit Germany. Goebbels wrote of Hamsun as being “the embodiment of what an epic writer should be.” Hamsun was equally impressed with the Reich Minister and sent Goebbels the Nobel medal he had been awarded, which Goebbels accepted as Hamsun’s “expression of solidarity with our battle for a new Europe, and a happy society.”[68]

Whilst en route to Norway from Germany, Hamsun met Hitler, a meeting which did not go well, as Hamsun took the opportunity to condemn the military administration of Norway which had rendered Quisling powerless, and they parted in an unfriendly manner[69]

However, Hamsun continued to support Germany, and expressed his pride when a son, Arild,  joined the Norwegian Legion of the Waffen SS.[70]

In 1945  several strokes forced Hamsun to quiet his activities. But with Hitler’s death Hamsun defiantly wrote a tribute for the press:

I am not worthy to speak his name out loud. Nor do his life and his deeds warrant any kind of sentimental discussion. He was a warrior, a warrior of mankind, and a prophet of the gospel of justice for all nations. He was a reforming nature of the highest order, and his fate was to arise in a time of unparalleled barbarism, which finally failed him. Thus might the average western European regard Hitler? We, his closest supporters, now bow our heads at his death.[71]

Post-War Persecution

Membership of Quisling’s party was declared a criminal offense and Hamsun’s sons Tore and Arild[72] were among the first of  50,000 Norwegians to be arrested as “Nazis” (sic) or as “collaborators.”[73] Marie and Knut were arrested a few weeks later. Due to his age, at 86, Hamsun was sent to a hospital rather than to a prison, although the stress and treatment struck considerably at his still quite good health. He was defiant and stated to the authorities that he would have assisted the Germans more if he could.[74]

He was sent to an old folks home where he was a popular guest. However, prosecuting Norway’s leading cultural figure, like America’s dealings with Ezra Pound, was an  awkward matter. Consequently, Hamsun spent 119 days in a psychiatric clinic. The psychiatrists found in him, as in the characters of his novel’s, a complex interplay of traits, but the most prominent of all they described was his “absolute honesty.” The conclusion was that Hamsun was not insane but that he was mentally impaired. Hence, what Ferguson calls “an embarrassing situation,” given that Hamsun was “first and foremost [Norway’s] great writer, their national pride, a loved and admired and never quite respectable ancient child,” was dealt with by concluding that his support for Germany could be put down to “senility.” This was the party-line taken up by the press throughout the world.[75]

Reading  Hamsun’s post-war autobiographical On Overgrown Paths, written amidst the threats of prosecution and the interrogations, shows him to be perfectly lucid. Hamsun, as this last writing shows, although deaf and going blind, retained his mental faculties impressively, along with a certain fatalism and humor.[76]

Although the Attorney General opted not to proceed against Hamsun, the Crown wished to try him as a member of Nasjonal  Samling. To Hamsun the action at least meant that he was being officially acknowledged as of sound mind. He was fined 425,000 kroner.[77]

With ruinous fines hanging over them, the Hamsuns returned to their farm Norholm.[78] On appeal the fine was reduced to 325,000 kroner,[79] his persistence and courage in speaking on behalf of imprisoned Norwegians under the German Occupation being a mitigating factor. Tore was also fined, and his brother Arild was jailed until 1949 for his membership of the Norwegian Legion. Marie Hamsun was released from jail in 1948.[80]

On Overgrown Paths was published in 1949 and became an immediate best seller,[81] although Hamsun ended his days in poverty on his farm. He died in his sleep on February 19, 1952.

When the Robert Ferguson’s biography appeared in 1987, he wrote that while Norway is especially keen to honor its writers, “Hamsun’s life remains largely uncommemorated by officialdom.” [82] However, two decades later, in 2009:

In Norway, the 150th birthday of Knut Hamsun will be celebrated by theatrical exhibitions, productions, and an international conference. One of the main squares of Oslo, located just beside the national Opera, will henceforth bear his name. A monument will finally be erected in his honor. One might say that the Norwegians have just discovered the name of their very famous compatriot. Recently, a large number of towns and villages have named squares and streets for him. At the place where he resided, in Hamaroy, a “Knut Hamsun Center” will officially open on August 4th, the day of his birth. On that day, a special postage stamp will be issued. Yet Knut Hamsun was denounced and vilified for decades by the Norwegian establishment.[83]

Hamsun’s defiant commitment to Quisling and to Germany during the war was a logical conclusion to ideas that had been fermenting and widely read and applauded over a period of half a century. Yet when it came time to act on those ideals, of fighting materialism, plutocracy, and communism, for the restoration of rural and peasant values against the encroaching tide of industrialism and money, Hamsun’s fellow-countryman reacted with outrage. Hamsun, unlike some of the pre-war supporters of National Socialism or Fascism, for better or for worse, never did compromise his values.

Notes

[1] Robert Ferguson, Enigma: The Life of Knut Hamsun (London: Hutchinson, 1987), p. 300.

[2] Ferguson, Enigma, p. 301.

[3] Ferguson, Enigma, p. 13.

[4] Ferguson, Enigma, p. 21.

[5] Hamsun, The Enigmatic One, 1877.

[6] Hamsun, Bjorger, 1878.

[7] Richard C. Nelson, Knut Hamsun Remembers America: Essays and Stories: 1885–1949 (Missouri: University of Missouri Press, 2003), pp. 4–5.

[8] Knut Hamsun, “Letters from America,” Knut Hamsun Remembers America, p. 7.

[9] Ferguson, Enigma, p. 68.

[10] Hamsun, “The American Character,” Aftenposten, Christiania, Norway, January 21, 1885; Knut Hamsun Remembers America, pp. 17–18.

[11] Hamsun, “The American Character,” p. 19.

[12] Hamsun, “The American Character,” p. 14.

[13] Hamusn, “The American Character,” p. 20.

[14] Hamsun, “The American Character,” p. 21.

[15] Hamsun, “New York,” Aftenposten, February 12, 14, 1895; Knut Hamsun Remembers America, pp. 28–29.

[16] Hamsun, “New York,” p. 29.

[17] Hamsun, “New York,” p. 30.

[18] Ferguson, Enigma, p. 101.

[19] Hamsun, The Cultural Life of Modern America, 1889.

[20] Knut Hamsun Remembers America, p. 7.

[21] Knut Hamsun Remembers America, p. 9.

[22] Knut Hamsun Remembers America, p. 9.

[23] Knut Hamsun Remembers America, p. 10.

[24] Knut Hamsun Remembers America, p. 10.

[25] Ferguson, Enigma, p. 124.

[26] Hamsun, Mysteries, 1892.

[27] Ferguson, Enigma, p. 133.

[28] Ferguson, Enigma, p. 138.

[29] Hamsun, Shallow Soil, 1893.

[30] Josef Wiehr, Knut Hamsun: His personality and his outlook upon life (Smith College Studies in Modern Languages, 1922), p. 23.

[31] Wiehr, Knut Hamsun, p. 24.

[32] Hamsun, 1895–1896.

[33] Ferguson, Enigma, p. 164.

[34] Hamsun, The Growth of the Soil (1920), Book I, Chapter 3. http://ebooks.adelaide.edu.au/h/hamsun/knut/h23g/index.html

[35] Hamsun, The Growth of the Soil, Chapter 4.

[36] It needs to be pointed out that by “race” Spengler did not a biological, or “Darwinistic” conception, but an instinct. “Race” means “duration of character,” including “an urge to permanence.” Oswald Spengler, The Hour of Decision, p. 220.

[37] Oswald Spengler, The Hour of Decision, p. 220.

[38] Oswald Spengler, The Hour of Decision, pp. 220–21.

[39]

[40] Hamsun, The Growth of the Soil, Chapter 5.

[41] Hamsun, The Growth of the Soil, Chapter 5.

[42] Hamsun, The Growth of the Soil, Chapter 9.

[43] Hamsun, The Growth of the Soil, Chapter 10.

[44] Hamsun, The Growth of the Soil, Chapter 14.

[45] Hamsun, The Growth of the Soil, Book II, Chapter 11.

[46] “Related to one another” in the sense that they express the analogous features of a culture in its “Spring” High Culture cycle and its “Winter” Late Civilization cycle respectively.

[47] Oswald Spengler, The Decline of The West, 1928 (London: George Allen and Unwin, 1971), Vol. 2, p. 102.

[48] The name of Isak’s farm.

[49] Hamsun, The Growth of the Soil, Book II, Chapter 12.

[50] Hamsun, The Growth of the Soil, Book II, Chapter 12.

[51] Hamsun, August, 1930.

[52] The Boers were–and partly remain–an anomaly in the modern world; the vestige of the bygone era who had to be eliminated as a hindrance to the global economic structure. Hence the recent ideological and economic war against the Afrikaner to destroy his “apartheid” was a continuation of the Boer Wars under other slogans, but with the same aim: to capture the wealth of southern Africa–in the name of “human rights”–for the sake of the same kind of plutocracy which had fought the Afrikaners’ forefathers a century previously.

[53] Hamsun, The Growth of the Soil, Book II, Chapter 12.

[54] Anna Bramwell, Blood and Soil: Walther Darré and Hitler’s Green Party (Buckinghmanshire: The Kensal Press, 1985), p. 91.

[55] Alfred Rosenberg, The Myth of the Twentieth Century, 1930 (Torrance, Cal.: The Noontide Press, 1982), p. 268.

[56] Ferguson, Enigma, p. 326.

[57] Ferguson, Enigma, p. 338.

[58] Ralph Hewins, Quisling: Prophet Without Honour (London: W. H. Allen, 1965), p. 201.

[59] Ferguson, Enigma, p. 333.

[60] Hewins, Quilsing, p. 9. Hewins, a wartime journalist, wrote his biography to amend for the part he had played in portraying Quisling as the epitome of “treason” (p. 11).

[61] Hewins, Quisling, p. 55.

[62] Vidkun Quilsing, Russia and Ourselves (London: Hodden and Stoughton, 1931), p. 275.

[63] Hewins, Quisling, p. 208.

[64] Hewins summarizes the situation when writing: “The whole myth of unprovoked aggression by Germany should be abandoned. It is incredible and does grievous injustice to the ‘quislings’ who are quite wrongly alleged to have engineered the German Occupation. There is no truth in this sinister legend” (Hewins, Quisling, p. 198).

[65] Ferguson, Enigma, p. 357.

[66] Hamsun, “Real Brotherhood,” Berlin-Tokyo-Rome, February 1942; Ferguson, Enigma, p. 351.

[67] Ferguson, Enigma, p. 359.

[68] Ferguson, Enigma, pp. 369–70.

[69] Ferguson, Enigma, pp. 374–75.

[70] Ferguson, Enigma, p. 383.

[71] Hamsun, “Adolf Hitler,” Aftenposten, May 7, 1945, p. 1

[72] Ferguson, Enigma, p. 387.

[73] Hewins, Quisling, pp. 357–58. Hewins notes that these thousands of Norwegians were jailed for years often without charge or trial, interrogated for eight hours a time, subjected to “eeling” (being dragged back and forth across broken stones), and a starvation diet of 800 calories a day. “Many prisoners died of malnutrition or starvation, and limbs swollen from privation were a commonplace. Hundreds, if not thousands, died of dysentery and tuberculosis epidemics. Hundreds more bear the scares of kicking, beating and brutality of their guards” (Hewins, pp. 357–58).

[74] Ferguson, Enigma, pp. 387–88.

[75] Ferguson, Enigma, pp. 389–90.

[76] Hamsun, On Overgrown Paths, 1949 (London: MacGibbon and Kee, 1968).

[77] Ferguson, Enigma, p. 407.

[78] Ferguson, Enigma, p. 408.

[79] Ferguson, Enigma, p. 409.

[80] Ferguson, Enigma, p. 410.

[81] On Overgrown Paths was also published simultaneously in German and Swedish editions. Ferguson, Enigma, p. 416.

[82] Ferguson, Enigma, p. 421.

[83] Robert Steuckers, “Knut Hamsun: Saved by Stalin?,” Counter Currents, http://www.counter-currents.com/2010/07/knut-hamsun-saved-by-stalin/ The title of the Steuckers article refers to Soviet Foreign Affairs Minister Molotov having intervened in 1945 in favor of Hamsun, stating: “it would be regrettable to see Norway condemning this great writer to the gallows.”


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mardi, 16 août 2011

Aeschylus' Agamemnon: The Multiple Uses of Greek Tragedy

Aeschylus’ Agamemnon:
The Multiple Uses of Greek Tragedy

Jonathan BOWDEN

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eschyle.jpgGreek tragedy is all but forgotten in mainstream culture, but there is a very good reason for looking at it again with fresh eyes. The reasons for this are manifold, but they basically have to do with anti-materialism and the culture of compression. To put it bluntly, reading Greek tragedy can give literally anyone a crash course in Western civilization which is short, pithy, and terribly apt.

Let’s take — for purposes of illustration — the first part of the Oresteia by Aeschylus, which concentrates on Agamemnon’s murder by his wife Clytemnestra. This work would take about two hours to read in a verse translation by Lewis Campbell (say). You will learn more about the civilization in those two hours than many a university foundation course, or hour after hour of public television, are capable of giving you.

The real reason for perusing this material, however, is the sense of excitement which it is capable of generating. Agamemnon and his entourage have returned to Argos after the successful sack of Troy and the destruction of Priam’s city.

A series of torches across the Greek peninsula announces the triumph, and the Watchman on the palace roof is the first to bear witness to the signal. The Chorus of Argive Elders soon gathers and is addressed in turn by a herald and then Clytemnestra. She swears undying loyalty to her husband (falsely) and makes way for his triumphant entry, although for those with acute ears there is a sense of foreboding in the imagery and early language of the play.

Agamemnon enters and speaks of his victories, but is ill-disposed to walk on the purple vestments that his wife has had strewn on the ground. He considers them unworthy or liable to damage his standing with the Gods. Clytemnestra seems to want her husband to behave more like an Eastern potentate than a Greek monarch. After much show of reluctance — he accedes to his wife’s wishes, kicks off his sandals and walks on the Imperial purple . . . in a manner that Clytemnestra knows will antagonize the Gods. She wishes this due to the future assassination which she has in view.

The prophetess Cassandra is then introduced from Agamemnon’s car, and she outlines — in ecstatic asides and verbal follies — the likelihood of her paramour’s death at the hands of his wife. She also speculates on the origin of the curse deep in the history of the House of Atreus — when Thyestes’ own children were baked in a pie for the edification of their father in revenge for adultery. This sets in train the codex of revenge and hatred which inundates the House’s walls with blood and gore and sets the ground for new horrors at a later date. Cassandra, surrounded by the near-seeing and purblind chorus, goes into the House where her Fate is sealed.

After a discrete interval, Clytemnestra emerges in one of the most dramatic sequences in all of Western art. She clutches a dagger in one hand and is partly covered in blood; whereas Agamemnon, her previous lord and husband, lies dead inside the folds of a net, with Cassandra raving and raving over him. The prototype for Lady Macbeth and every other three-dimensional female villain, Clytemnestra boasts of her deed and how she executed it — to the shock, horror, and awe of the Argive elders.

The killing is justified — in her eyes at least — by the sacrifice of her daughter, Iphigenia, to make the wind change its direction when the Greek fleet is becalmed at Aulis on the way to Troy. For this willful act of child-murder, Clytemnestra has lain in wait with her lover, Aegisthus, to slay the King of Argos. (Aegisthus is descended from Thyestes and has his own reasons for wishing doom to the House of Atreus.)

This particular play ends with a confrontation between Aegisthus’ soldiers and the elderly members of the Chorus, but Clytemnestra — by now sick of bloodshed and desiring peace — intervenes so as to prevent further conflict. The play concludes with the two tyrants, surrounded by their mercenaries, walking back towards the palace where they will rule over the Argives.

The question is always raised in modernity: Why bother with this material now? The real reason is the abundant ethnic and racial health of ancient Greek culture. Although tragic, blood-thirsty, and mordant in tone, it is abundantly alive at several different levels. It also exists as the prototype for so much Western culture, whether high or low.

As I have already intimated, a two-hour read is broadly equivalent to a short university course in and of itself. Also, the pre-Christian semantics of this material speaks across two and a half thousand years very directly to us today, certainly in the post-Christian context of Western Europe. Another reason for parents reading this material to adolescent children (at the very least) is its pagan immediacy. This is not cultural fare that can be dismissed as lacking pathos, blood-and-guts, or a sense of reality, if not normalcy.

Another reason for refusing to give this work a wide berth has to be the fact that various forces which were out-gunned and defeated in the twentieth century definitely took the Greek side in various cultural debates. This can also be seen in Wyndham Lewis’ Childermass which I reviewed [2] elsewhere on this site, where the chorus of opposition to the Humanist Bailiff (a sort of democratic Punch) has to be the philosopher Hesperides and his band of Greeks.

The culture of the Greeks still has dangers associated with it, hence the re-routing of Classics to a netherworld in the Western academy. Yet the refutation of Bernal’s Black Athena is still everywhere around us; as long as people have the wit to pick up the plays of Aeschylus and read.


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mercredi, 10 août 2011

Jonathan Bowden on Thomas Carlyle

 

Jonathan Bowden on Thomas Carlyle

lundi, 08 août 2011

Jonathan Bowden on H. P. Lovecraft

 

Jonathan Bowden on H. P. Lovecraft

vendredi, 05 août 2011

T. S. Eliot: Ultra-Conservative Dandy

T. S. Eliot:
Ultra-Conservative Dandy

 

 

By Jonathan Bowden

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eliot1.jpgFor a brief period in the late 1990s there was an attempt to demonize T. S. Eliot as an anti-Semite. This opinion was most ably canvassed by Anthony Julius’ T. S. Eliot, Anti-Semitism and Literary Form [2], but the attempt failed, and Eliot’s reputation as a poet now stands even higher than ever.

Thomas Stearns Eliot’s most controversial book was the collection of essays drawn from a series of lectures he gave in 1934 called After Strange Gods: A Primer of Modern Heresy [3]. In this book, Eliot argued for an organic society — primarily from a Christian perspective — and he took a decidedly non-philo-Semitic position, considering that the more organic the society, was the better its prospects.

It seems an utter travesty, at this date, that the most famous English language poet of the twentieth century should be treated in this way.

For the interesting things to say about this fey, classical, and austere man have little to do with this (or his marriage to Vivienne Haigh-Wood in 1915) but, rather, revolve around his contribution to literary criticism. In this regard, his development of the idea of a tradition within a writer’s oeuvre proves crucial — witness his own distancing over time from the thesis of “The Wasteland” and “The Hollow Men” as he turned to Christianity, metaphysically speaking. The idea of not seeing works in isolation but from a whole perspective is very interesting in a deeply conservative way.

This further ramifies with Eliot’s coolness and classicism in the arts — if compared and contrasted to his hostility to the Romantics, particularly a left-wing revolutionary like Shelley. (Eliot would have had no time for the literary prognosis of the Trotskyist Paul Foot in his Red Shelley [4].) Nonetheless, for him, poetry was a codification but never a standardization. It was an escape from emotion through distancing — rather than an achievement of emotional excess through revelation. All of this led to his espousal of the metaphysical poets — Donne, Vaughan, Marvell, and Thomas — as he praised their use of metaphysics in poetry to provide a unified sensibility.

Possibly Eliot’s most famous literary idea was the objective correlative — whereby he sought a general, and culturally relevant, explanation of works which transcended personal responses to them. This involved a semi-objective as well as a subjective reading of the text. A piece attempts to mean what it says, but it also indicates states of mind and experiences which are factual and that can be essayed without being unduly personal about literature.

This hunt for a more general meaning indicates a social vision for art in a man whose own work is very abstruse and ‘difficult’ to understand. This is particularly true of the early poems such as “The Love Song of J. Alfred Prufrock” (1917) and “The Wasteland” (1922), but changes somewhat after “Ash Wednesday” in 1927.

If we might turn to the poetry now: “Prufrock” begins with a stream of consciousness which is typical of early modernism — although much of Eliot’s early poetic vision owes something to his discovery of Arthur Symonds’ The Symbolist Movement in Literature [5] in 1908. Prufrock begins with comparing the evening to an etherized patient upon a table which was considered scandalous at the time when Georgian poetry was all the rage. There is even a hint of the right-wing nihilism of Gottfried Benn in early Eliot. In “Prufrock” he deals with a disappointed life, states of physical and intellectual inertia, and the absence of both carnal love and spiritual progress.

In October 1922 “The Wasteland,” edited extensively by Ezra Pound, made its appearance and extended the analysis, amid many other concerns, to his failing marriage to Vivienne, both of whom were suffering from nervous and mental disorders at the time. The poem definitely chimes with the post-First World War disillusionment of an entire generation.

“The Hollow Men” in 1925 confirms and extends this triad of despair until his conversion to Anglicanism from Unitarianism in 1927. This event was definitely the key metaphysical moment in this very fastidious man’s life. The hunger for meaning and a dormant metaphysical purpose came out. For, in his conversion or re-conversion, Eliot illuminated the idea that life is spiritually barren and meaningless without an over-arching quest, sensibility or teleology.

Certainly once his conversion is definite, the pitch of Eliot’s life and his poetry (above all) takes a decisive turn. “Ash Wednesday,” the “Ariel” poems, and the “Four Quartets” (for which he was awarded the Nobel Prize in 1948) are much more certain in their direction, as well as being more casual, melodic, and contemplative in their creative method. Although secular literati remain discomfited by these poems’ transparent religiosity. This is nowhere more apparent than in the “Four Quartets” which is immersed in Christian thought, traditions, and imagery.

Much of his creative energy after “Ash Wednesday” went into writing plays in an attempt to broaden the poet’s social role — all of these pieces were verse dramas. The whole point of Sweeney Agonistes (1932), The Rock (1934), and Murder in the Cathedral dealing with Thomas a Beckett’s assassination was to bring a larger or wider audience to a conservative purpose for Christian poetry.

For Eliot is that rare thing in twentieth century literary art — an ex-nihilist, someone who reverses the positions of Dostoyevsky’s The Possessed (without the enervation) and wanders back towards C. S. Lewis, Belloc, and Chesterton. I think the key point about these partial dandies and Right-wing conservative intellectuals is their belief in belief. . . . For, without the prospect (even in its absence) of metaphysics, life had no ultimate meaning for them, or for us. Almost everything else about them is incidental to this truth.


 

 

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samedi, 30 juillet 2011

Wyndham Lewis' The Apes of God

Wyndham Lewis’ The Apes of God

by Jonathan Bowden

Ex: http://www.counter-currents.com/

Wyndham Lewis
The Apes of God [2]

apes-of-god.jpgThe Apes of God happens to be one of the most devastating satires to be published in the English language since the days of Dryden and Pope. It appeared in a Private Press edition [3] (prior to general release), and at over 600 pages it was the size of your average London telephone directory.

The Apes deals, in ultra-modernist vein, with a catalog or slide-show of dilettantes from the London of the inter-war period. It is, in reality, a gargantuan satire against the Bloomsbury Group and all of its works. The historical importance of the Bloomsbury Group is that they were the incubator for all the left-liberal ideas which have now hardened to a totalitarian permafrost in Western life. This is the real and crucial point of this gargantuan effort — an otherwise neglected work.

To recapitulate some of the detail: the novel concerns the sentimental education of a young idiot (Dan Boleyn) in the ways of Bloomsbury (apedom). During this prologue he meets a great galaxy of the millionaire bohemia so excoriated by Lewis. The chapters and sub-headings basically deal with his education in ideological matters (not that the simpleton Dan would see it in that way), and he is assisted in his insights by Pierpoint (a Lewis substitute), the Pierpointian ventriloquist and contriver of ‘broadcasts’, Horace Zagreus, as well as Starr-Smith. The latter is Pierpoint’s political secretary, a Welsh firebrand, who dresses as a Blackshirt for Lord Osmund’s fancy-dress or Lenten party which makes up a quarter to a third of the book.

[4]

Wyndam Lewis' portrait of Edith Sitwell

The liberals who are dissected are James Julius Rattner (a Semitic version of James Joyce), Lionel Kien and family, Proustians extraordinaire, various poseurs and Bullish lesbians, as well as the Sitwell family group who are depicted as the Finnian Shaws. The Sitwells are all but forgotten today, but they were highly influential in the world between the Wars — as is witnessed in John Pearson’s masterly biography Facades: Osbert, Edith and Sachaverell Sitwell. It is no accident to say that this satire has kept the Sitwells in contemporary culture, despite the fact that they are the butt of Lewis’ ferocious wit.

Throughout this odyssey through Apedom various themes are disentangled. The first is a penchant for the class war — in a parlor Bolshevik manner — from those who superficially have the most to lose from it. This leads to an active collaboration between masters and servants ahead of time. The next “war” to which these pacifists hook their star is the age-war between the generations which is best illustrated by the Sitwells’ attitude to their aged Patriarch, Cockeye in the novel.

Other cults or pseudo-cults of the lower thirties (i.e., the twenties) were the cult of the child, feminism of various kinds, the glorification of the negro (witness the work of Firbank, for instance), and the ever-present cult of homosexuality. As Horace Zagreus — one of Lewis’ voices in the novel — acidly points out: as far as Bloomsbury was concerned, heterosexuality was the love that dare not speak its name.

All of these putative forms of political correctness were held together by a rising generation whose most ‘advanced’ adherents were determined to let their hair down during the roaring ’20s. Indeed, the cloying, ormolu tainted facade of the super-rich — anatomized in this novel — only came to an end with the Great Crash, which burst at about the time of the novel’s appearance in 1930.

The semantics of the radical bourgeoisie have largely taken over the world — and what was anathema to mass or philistine opinion is now the normal chit-chat of the semi-educated to educated. Revolutionary bohemia — according to Lewis — proceeds in three stages. First you have the aristocratic version of it during the 1890s — the “naughty nineties,” the breaking of Oscar Wilde, etc., only for this stage to be followed by a mass bourgeois version of la Decadence in the 1920s. This makes way for the mass proletarianized version of bohemia which hits the world in the 1960s, after a few beatnik preliminaries the decade before. Lewis never lived to see this period, having died in 1957.

Another very interesting feature about Lewis’ prescience is his understanding of revolutionary ideology and its after-effects. For, as early as The Art of Being Ruled in 1926, Lewis was positing the notion that the emancipation of women to work would kill off the family far more effectively than all the feminist route-marches put together.

One of Lewis’ most extraordinary judgments is that many Marxian values, floating freely and slip-streaming their historical source, could make use of market capitalism to achieve their ends. This was an insight of such penetration and Chestertonian paradox in 1926 that it must have appeared half-insane.

Other ancillary positions which were part of this Super-structuralist ramp (sic) were the cult of the exotic and the Primitive in art, Child art and children’s rights, Psycho-analysis, and hostility to all prior forms.

The revolutionary thinker Bill Hopkins once said to me that one of the reasons for the obsession with primitivism in early modernism was a reaction to Western thought’s compartmentalization in the late nineteenth century. This led to a desire to kick against the pricks and develop contrary strategies of pure energy in the Arts. Whatever the truth about this, a hostility towards the martial past, nationalism, imperialism, race and empire — the entire rejection of Kipling’s Britain — was part-and-parcel of the Bloomsbury sensibility.

Nonetheless, it goes without saying that Lewis, the founder of the Vorticist movement inside modernism, saw modern art as a weapon in his battle against The Apes of God. In this regard Lewis was that very rare animal — a thoroughgoing modernist and a right-wing transvaluator of all values.

Interestingly, the idea of The Apes comes from the dilettantist perquisite of thousands of amateur painters, poets, sculptors, writers and the rest, themselves all part of a monied bohemia, who crowd out the available space for genuine creatives like himself. The cult of the amateur, however, would soon be replaced by the general melange of entertainment and the cultural industry which has probably stymied a great deal of post-war creation that Lewis never lived to see.


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jeudi, 28 juillet 2011

Claves clasicas de la obra de Jorge Luis Borges

borges2.jpg

CLAVES CLASICAS DE LA OBRA DE

JORGE LUIS BORGES

UN INTENTO POR DESENTRAÑAR CIERTAS CLAVES "CLASICAS" EN LA OBRA LITERARIA DEL ESCRITOR ARGENTINO, A PARTIR DE LAS CUALES APROXIMARNOS AL SER DE AMERICA Y DE LOS AMERICANOS.


 
CONSIDERAMOS UNA OPCIÓN VÁLIDA para acercarnos a la esencia de América, internarnos por el sendero de su literatura. En este contexto, dos aproximaciones complementarias se visualizan con perfecta nitidez, y que de manera convencional podemos denominar "urbana" y "telúrica", es decir, la visión de América desde la ciudad y desde su geografía potente. Entre los escritores que podríamos ubicar en la perspectiva "urbana", es decir, que miran América y el Mundo desde la ciudad, nos parecen dos buenos ejemplos Jorge Luis Borges y Manuel Mujica Laínez; a su vez, entre aquellos que prefieren situar si obra en el corazón geográfico de América, en la selva húmeda o en la fría serranía, destacan Gabriel García Márquez y Mario Vargas Llosa. Por cierto, esta dicotomía, como todas, es arbitraria y discutible. No obstante, nos parece sosteniblc, como expresión de aquellas fuerzas o mentalidades que, unas veces en pugna y otras en armonía, han contribuido a modelar la arquitectura de nuestra cultura americana.

En el presente artículo, nos centramos en la obra literaria de Jorge Luis Borges, desarrollando una hipótesis precisa, a saber: que en los escritos del argentino, viven claves del mundo clásico, entendido este como el universo de la cultura Greco-Romana, tributario a su vez del horizonte cultural de los pueblos indoeuropeos, y en consecuencia pre-cristiano y pre-moderno, o en otras palabras, tradicional.

Tales claves se plasmarían en las nociones que Borges tiene del tiempo, de la inmortalidad, del destino y del héroe.

A partir de tales claves, y de acuerdo a nuestra lectura –y no la de Borges necesariamente, quiza sólo un mero vehículo depositario de ideas fundamentales-, América representaría un tercer intento (después del original y del Romano-Germánico) para re-crear, en un medio más salvaje y despiadado que el europeo, un nuevo Mundo "Clásico". Para tal empresa, además, tales hombres. Los americanos vendrían a ser los últimos clásicos, los descendientes postreros de Ulises, los argonautas del más recóndito confín del mundo, arrojados por la marea a las inhóspitas playas americanas. Ellos son los últimos sobrevientos del mundo clásico, y por ende, del mundo tradicional, ajeno por completo a la modernidad. Partimos del supuesto, que la realidad parece confirmar y no desmentir, que en los tiempos que corren, de planetarizacion, nihilismo y desacralización, sólo en América puede fundarse un Nuevo Orden, Clásico y Tradicional, periclitada tal posibilidad en Europa hace media centuria. En otras palabras, el viejo espíritu premoderno (y en cierta medida postmoderno), al cual se unió el catolicismo en su mejor época (la del románico y del gótico, creaciones europeas, ajenas por completo al judaismo y por tanto al cristianismo), perviviría únicamente en nuestras tierras, y sólo en ellas cabría una re-fundación, un restablecimiento de un orden trascendente y una nueva emergencia del homo religiosus, el hombre resacralizado.

La idea que Borges tiene de la Historia y del tiempo constituye un fiel reflejo de la concepción solar del eterno retorno, y escapa por consiguiente de la concepción escatológica y lineal propia del Judaismo y del cristianimo. Especialmente nítido es lo anterior en "El inmortal", primera narración de su volumen titulado El Aleph. En ella, el tema de la vida eterna se presenta más como un infierno que una bienaventuranza: "Ser inmortal es baladí; menos el hombre, todas las criaturas lo son, pues ignoran la muerte; lo divino, lo terrible, lo incomprensible, es saberse inmortal. He notado que, pese a las religiones, esa convicción es rarísima. Israelitas, cristianos y musulmanes profesan la inmortalidad, pero la veneración que tributan al primer siglo prueba que sólo creen en él, ya que destinan todos los demás, en número infinito, a premiarlo o a castigarlo. Más razonable me parece la rueda de ciertas religiones del Indostán; en esa rueda, que no tiene principio ni fin, cada vida es efecto de la anterior y engendra la siguiente, pero ninguna determina el conjunto".


En la Ciudad de los Inmortales (imagen del cielo y del infierno quizá), todos sólo ansian morir. Finalmente, que si "existe un río cuyas aguas dan la inmortalidad, en alguna región habrá otro río cuyas aguas la borren". Pero el deseo de morir también implica el ansia por re-nacer, por recomenzar tras fundirse con el regazo terrenal. Ello es válido tanto en la escala cósmica como en la personal. Estamos aquí en el meollo de la concepción trágica de la vida, inherente al mundo griego y que posteriormente hacen suya Séneca y sus discípulos. En efecto, si la Historia no tien un fin, un sentido, tampoco hay un juicio postrero en el cual responder, ante un juez omnipotente y cuya sentencia es inapelable, por culpas originales. El hombre, en consecuencia, no debe atar a su cuello el pesado yugo del "consuelo metafísico".

La vida es por tanto un laberinto, cuyo centro jamás alcanzaremos ("insoportablemente soñé con un exiguo y nítido laberinto: en el centro había un cántaro; mis manos casi lo tocaban, mis ojos lo veían, pero tan intrincadas y perplejas eran las curvas que yo sabía que iba a morir antes de alcanzarlo"). Nótese que el agua (del río de la inmortalidad o del cántaro), que simboliza al bautismo, o la "salvación", es inalcanzable para Borges, escéptico y trágico.

En el relato al que aludimos, Borges llega a encontrarse (y a identificarse) con otro poeta ciego, nada menos que el propio Homero, uno de los trogloditas que habitan en la Ciudad de Los Inmortales. Ambos son uno solo, de la misma manera como Borges y su universo literario también se funden, al punto que éste resulta efectivamente vivido y es por lo tanto más real que la vida misma, cobra mayor consistencia que los acontecimientos cotidianos, Borges pretende quizá ser una imagen, reflejada en un espejo (otro símbolo al que recurre tan asiduamente como el laberinto), del propio Homero, a modo de un rapsoda contemporáneo que renueva con cierta ironía escéptica y fatalista (trágica en consecuencia) el mundo de los relatos fantásticos y mágicos, heroicos y donde el destino ha de cumplirse irremisi-blemente. Así, más allá de un interés objetivo por aquel mundo, que lo lleva a no ocultar su admiración por H.P. Lovecraft y E.A. Poe, hay en Borges una implicación subjetiva que creemos es producto de su concepción del tiempo y de la Historia. Borges, puesto que vive en tal Mundo, realmente se siente militando en las huestes de un caudillo normando en la batalla del puente de Stamford, en 1066, o como calígrafo en un arrabal de Bulaq, en el séptimo siglo de la Héjira, transcribiendo "con pausa caligrafía, en un idioma que he olvidado, en un alfabeto que ignoro, los siete viajes de Simbad y la historia de la ciudad de Bronce". La historia, entonces, asi como nuestra existencia, no tienen un sentido o una finalidad metafísicos, así como tampoco existe el pasado y el futuro, sino sólo un presente eterno, reflejo de múltiples existencias, que se superponen, superando el tiempo.

Que esta percepción es clásica y ajena al universo cristiano, pareciera tornarse aún más explícita en el símbolo del laberinto, al que ya aludíamos, que veladamente Borges opone al símbolo de la cruz: "Agustín había escrito que Jesús es la vía recta que nos salva del laberinto circular en que andan los impíos", escribe en su relato "Los teólogos"; Borges se sabe "impío", y de ahí que acepte adentrarse en el laberinto, en la Casa del Minotauro, sin esperanzas, pero también, reiteramos, sin remordimientos. Creemos ver aquí una posición familiar a la Escuela Estoica, trasuntándose una sugerente hilación, directa y sin interferencias judeo-cristianas, que se origina en el pretérito mundo Greco-Romano, de ahí hasta Séneca (depositario e interprete ya "intelectualizado" del mundo clásico) y finalmente al mismo Borges, es decir, desde la Roma hispánica hasta la América románica. Así, la rueda solar y la cruz cristiana conforman los polos de un enfrentamiento cósmico que Borges explicita cautelosamente: "Cayó la rueda ante la Cruz", escribe, pero nada en sus palabras nos hace pensar que tal derrota haya sido definitiva. Por lo demás, agrega: "En las cruces rúnicas los dos emblemas enemigos conviven entrelazados". Es decir en la cruz celta el mundo clásico y tradicional, representado por la rueda solar, encierra, como en un círculo mágico diseñado por el mismísimo Merlín, a las líneas perpendiculares de su enemiga mediterránea. No hay por tanto tal derrota, sino un repliegue, una inmersión hacia las capas profundas de nuestro inconsciente individual y colectivo, que cada cierto tiempo se manifiesta históricamente, visiblemente, usando una expresión de C.G. Jung, como explosiones de "Wotanismo".

América se presenta a su vez como un mundo en creación, indómito, cuya naturaleza es a tal punto poderosa que empequeñece al hombre (ver CIUDAD DE LOS CÉSARES N° 13, entrevista a Miguel Serrano). En este medio, los nuevos Argonautas, los últimos descendientes de Ulises, arrojados a las playas de la "Terra Australis Incógnita", combaten con denuedo, intentando forjar un Nuevo Mundo que, si somos fieles a nuestro origen, no debería ser sino una recreación del Mundo más antiguo entre los mundos antiguos. No está demás precisar que tal combate, por el momento, no es sino personal o a lo más grupal, en un esfuerzo por hacer "rectangular" nuestra Alma, como nos pediría Nietzsche, y no una tarea de masas, dada la contingencia epocal que atravesamos.

En este contexto, Borges parece obsesionado con la imagen trágica de los descendientes de nórdicos o europeos septentrionales, que se ven devorados, subsumidos por el mundo indígena y telúrico de América, perdiendo casi por completo todo rasgo de la cultura de sus ancestros, todo gesto civilizado. Tal ocurre con el destino de los hermanos "Nelson", protagonistas del cuento "La intrusa": "En Turdera los llamaban "los Nilsen". El párroco me dijo que su predecesor recordaba, no sin sorpresa, haber visto en la casa de esa gente una gastada Biblia de tapas negras, con caracteres góticos; en las últimas páginas entrevió nombre y fechas manuscritas. Era el único libro que había en la casa. La azarosa crónica de los Nilsen, perdida como todo se perderá". La misma imagen simbólica de la Biblia que trajeron los olvidados antepasados y que nadie entiende, aparece en el magnífico relato "El Evangelio según Marcos", de sobrecogedor final. El relato se sitúa en una estancia hacia 1928. En ella viven los "Cutres" apellido con reminiscencias germánicas. Se trata del capataz y de su familia: "Los Cutres eran tres: el padre, el hijo, que era singularmente tosco, y una muchacha de incierta paternidad. Eran altos, fuertes, huesudos, de pelo que tiraba a rojizo, y de caras aindiadas. Casi no hablaban. La mujer del capataz había muerto hace años". A la estancia, llega en plan de vacaciones un estudiante eterno de medicina, proveniente de Buenos Aires, que "veneraba a Francia pero menospreciaba a los franceses; tenía en poco a los americanos, pero aprobaba el hecho que hubiera rascacielos en Buenos Aires". Los Cutres eran analfabetos, primordiales y sombríos. El huésped, explorando la casa de aquellos, se topa un día con una Biblia en Inglés: "En las páginas finales los Guthrie –tal era su nombre genuino- habían dejada escrita su historia. Eran oriundos de Inverness, habían arribado a este continente sin duda como peones, a principios del siglo diecinueve, y se habían cruzado con indios. La crónica cesaba hacia mil ochocientos setenta y tantos; ya no sabían escribir. Al cabo de unas pocas generaciones habían olvidado el inglés: el castellano (...) les daba trabajo". El visitante hojeó el volumen y se topó con el Evangelio según Marcos, que comienza a leer a los Cutres más por afán literario que proselitista. Trabajosamente, intenta explicarles quién fue Cristo, por qué murió, como murió y qué es el infierno; así transcurren los días. En las últimas líneas del relato, el visitante, aterrorizado y aturdido, alcanza a comprender que para "salvarse", los Cutres han decidido crucificarlo igual que a ese extraño personaje llamado Cristo, mientras los elementos se desatan con la lluvia, la tormenta y el río desbordado.

En América, entonces, los descendientes de los olvidados celtas, remontando la rueda hacia atrás, se han descristianizado, y las viejas e incomprensibles Biblias góticas olvidados en un rincón polvoriento.

En Borges, también está presente la lucha permanente que libran en América el mundo de la ciudad y el mundo de la naturaleza, que alternativamente se entremezclan y se repelen. Presenciamos el entrechocar bullente del universo americano urbano, por lo general pegado al litoral, con su espalda protegida por el Océano, a modo de cordón umbilical que lo une a la "civilización", y el universo americano agreste y feraz, selvático, exuberante e imponente, que termina por infiltrarse en la ciudad o en la parodia o fallida imitación de la ciudad, como en el mundo de García Márquez.

Ambos mundos están presentes en Borges, pero desde la perspectiva del primero, de la ciudad: "Yo creí, durante años, haberme criado en un suburbio de Buenos Aires, un suburbio de calles aventuradas y de ocasos visibles. Lo cierto es que me crié en un jardín, detrás de una verja con lanzas, y en una biblioteca de ilimitados libros ingleses. Palermo del cuchillo y de la guitarra andaba (me aseguran) por las esquinas, pero quienes poblaron mis mañanas y dieron agradable horror a mis noches fueron el bucanero ciego de Stevenson, agonizando bajo las patas de los caballos, y el traidor que abandonó a su amigo en la luna y el viajero del tiempo, que trajo del porvenir una flor marchita, y un genio encarcelado durante siglos en el cántaro salomónico y el profeta velado del Jorasán que detrás de las piedras y de la seda ocultaba la lepra. ¿Qué había, mientras tanto, del otro lado de la verja con lanzas? ¿Qué destinos vernáculos y violentos fueron cumpliéndose a unos pasos de mí en el turbio almacén o en el azaroso baldío?".

América es también un país "nuevo", y por tanto, epopéyico, mitológico, saturado de historia heroica y trágica: "Yo afirmo –sin remilgado temor a un novelero amor de la paradoja- que solamente los países nuevos tienen pasado; es decir, recuerdo autobiográfico de él; es decir, tiene historia viva. Si el tiempo es sucesión, debemos reconocer que donde densidad mayor hay de hechos, más tiempo corre y que el más caudaloso es el de este inconsecuente lado del mundo. La conquista y colonización de estos reinos –cuatro fortines temerosos de barro prendidos en la costa y vigilados por el pendiente horizonte, arco disparador de malones- fueron de tan efímera operación que un abuelo mío, en 1872, pudo comandar la última batalla de importancia contra los indios, realizando, después de la mitad del siglo diecinueve, obra conquistadora del dieciséis".

Finalmente, en la figura del héroe y de su destino fatal, al que es imposible escapar, y donde antes que el libre albedrío pareciera imponerse la impronta de Edipo, percibimos arquetipos tradicionales que en Borges son tema recurrente. En este punto, el escritor argentino piensa y escribe como un discípulo de Sófocles (en palabras de dos autoras chilenas. "El destino, la Moira o Parca, es un poder que ordena lo que tiene que ser y lo que debe ser, es decir también lo justo. Por ello, es también amo de los dioses, quienes no pueden transgredirlo intentando salirse de sus límites". Nota al Canto VI de la Ilíada, Gabriela Andrade y María Luisa Vial).

A cada hombre, entonces, le espera su destino, tejido por las diosas, a veces incluso para toda una estirpe. En el universo literario de Borges, ello tiene validez tanto para el compadrito que cae acuchillado en un sórdido arrabal bonaerense a principio de siglo, como al gaucho que finalmente se encuentra, bajo la luna que ilumina la vastedad de la pampa, con su enemigo de toda la vida, o al caudillo normando que cae atravesado por una lanza en las frías playas de Bretaña. Por lo demás, la misma noción del héroe se entrelaza con la del destino. No debemos olvidar que el héroe es aquel fiel a la palabra empeñada y que en consecuencia enfrenta su destino. En tal perspectiva, entendemos a cabalidad la siguiente frase de Borges: "Cualquier destino, por largo y complicado que sea, consta en realidad de un solo momento: el momento en que el hombre sabe para siempre quien es".


ANDRÓNICO*




*Pseudónimo de Juan Andrés Orrego Acuña. Publicado en CIUDAD DE LOS CÉSARES N° 17, Enero/Febrero de 1991.