
lundi, 24 septembre 2012
Lisibilité et idéologie, le cas du texte célinien
Ex: http://lepetitcelinien.blogspot.com/

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dimanche, 23 septembre 2012
Vintila Horia, l’esilio e il sogno di una grande patria europea
Vintila Horia, l’esilio e il sogno di una grande patria europea
La scrittore rumeno, autenticamente nazionalista, è tra i dannati della letteratura
Romano Guatta Caldini
Ex: http://rinascita.eu/Sono innumerevoli gli autori relegati nel limbo dell’editoria, un po’ perché le loro tesi sono considerate politicamente scorrette, dalla massa degli utili idioti che popolano il mondo della critica letteraria, un po’ perché questi scrittori vengono sempre etichettati come impresentabili, a causa dei loro percorsi esistenziali che non corrispondono al cliché dell’intellettuale “democratico”. Fra i dannati della letteratura, un posto di primo piano lo occupa sicuramente Vintila Horia, il déraciné per eccellenza.
Il tema dell’esilio – in Horia – è una costante. Lui, scrittore autenticamente di destra, è il simbolo di quella generazione di intellettuali che, dopo il tramonto dei fascismi e l’instaurarsi delle dittature comuniste nell’est Europa, passarono tutta la vita lontani dalla madre patria. Sebbene, durante la giovinezza, Horia non abbia mai contemplato l’ipotesi di tornare in Romania – il Paese d’origine che lo condannò ai lavori forzati con l’accusa di propaganda fascista – il richiamo della “terra dei padri” influì notevolmente sulla sua produzione letteraria. “Incominciò allora - scrive Horia - il mio vero esilio come un processo di anacoretismo, cioè come un processo di separazione da tutto quello che io ero stato”. Fra i suoi scritti ricordiamo: “Dio è nato in esilio”, “Gli impossibili”, “La rivolta degli scrittori sovietici”, “Il cavaliere della rassegnazione”, “La settima lettera” ed “Una donna per l’Apocalisse”.
Per un esiliato la vita è fatta di incessanti peregrinazioni, alla ricerca - forse inconsapevole - di un’Itaca perduta per sempre. Italia, Austria, Francia, Spagna: furono molte le mete toccate da Horia nel suo percorso di viandante, nell’Europa martoriata dal secondo conflitto mondiale prima e dalla guerra fredda poi. E sono proprio le persone incontrate sulla via i personaggi dei suoi romanzi, come Clara, la bella esule polacca co-protagonista – con Horia “Io narrante” - de “Gli impossibili”. Entrambi in fuga dal comunismo e dai fantasmi del passato, Vintila e Clara si incontrano a Losanna, città che ha dato da sempre rifugio ai perseguitati politici. “Due esiliati - scrive il curatore de Gli Impossibili, per le edizioni Il Borghese - due creature strappate dalla violenza della guerra e dalle aberrazioni della politica al loro Paese; ciascuno spera di ritrovare, nell’amore, la patria, cioè, la fine della solitudine”.
Clara entra nella vita di Horia come una cometa, come un bagliore sfuggente che illumina – per un brevissimo lasso di tempo, l’esistenza dello scrittore rumeno. Nella solitudine interiore di lei, Horia trova ristoro, nella sofferenza provocatale da un passato popolato di fantasmi, l’autore trova le proprie radici, un contatto, seppur effimero, con la lontana Romania. Ed è così, attraverso un viaggio a ritroso nel tempo che Horia ripercorre le tappe che lo hanno portato a Losanna. Un percorso angosciante che partendo dalla casa paterna - ormai spazzata via dal regime comunista – arriva fino all’avvenimento che segnò la svolta negli orientamenti politici dell’autore: l’assassinio, in mezzo alla folla, di tre legionari della Guardia di Ferro.
Come per i suoi connazionali, Emil Cioran e Mircea Eliade, anche per Horia il successo arriverà durante il suo soggiorno forzato all’estero. Nel “60, con la pubblicazione del suo capolavoro, “Dio è nato in esilio”, ad Horia venne assegnato il Premio Gouncourt, il più noto riconoscimento letterario di Francia. Eppure, anche questa volta, i fantasmi del passato tornarono a riscuotere il proprio tributo. Dopo la vittoria del Gouncort, Horia venne invitato a farsi fotografare con il funzionario, dell’ambasciata rumena a Parigi, addetto alle relazioni. Un tentativo, da parte del regime comunista, di riavvicinare lo scrittore. Horia, però, rifiutò l’esortazione e, a quel punto, dalle pagine de L’Humanité scattò una campagna stampa tendente a screditarlo. Il quotidiano marxista, imbeccato dall’inteligencja rumena, mise in atto un violento attacco che, ricordando i trascorsi fascisti dello scrittore, ebbe come risultato la restituzione del premio. “Se il libro di Vintila Horia meritava il Premio Goncourt - si legge nel retro di copertina della pubblicazione italiana del libro “Dio è nato in esilio” - perché i giudici, dopo averlo assegnato secondo tutte le regole, non seppero difendere la loro decisione? E se il libro non meritava il premio, perché gli fu assegnato? La Romania comunista ha cercato fino all’ultimo momento di recuperare Vintila Horia, che vive in esilio per non vivere in una Romania comunista. (…) Si ripeté per Vintila Horia la discriminazione già usata coi militari e gli intellettuali tedeschi: quelli che hanno aderito al comunismo sono illibati e stimabili, chi si rifiuta di farlo è reprobo”.
Aspetto poco conosciuto, dell’autore rumeno, è il suo stretto legame con l’Italia. Nel ‘39, infatti, appena ventiquattrenne ed in seguito alla laurea in giurisprudenza conseguita a Bucarest, Horia venne inviato a Roma, in qualità di addetto stampa della Legazione del Regno di Romania a Roma. Qui conoscerà Papini con cui, nel tempo, instaurerà un prolifico rapporto lavorativo, culturale e naturalmente, di amicizia. A Perugia lo scrittore avrà l’occasione di seguire i corsi di Letteratura e filosofia, almeno fino al suo trasferimento all’ambasciata di Vienna. Da qui, dopo la caduta del regime pro-Asse del Maresciallo Ion Antonescu e il conseguente instaurarsi - in Romania - di un governo filo-sovietico, venne rinchiuso in un campo di concentramento, per diplomatici del Terzo Reich, a Maria Pfarr, in Austria.
Liberato dagli inglesi, nel ‘45, Horia tornò in Italia, a Bologna. Ed è nel capoluogo emiliano che lo scrittore prese la decisione emotivamente più devastante della sua vita: non fare mai più ritorno in una Romania trasfigurata dal comunismo. Durante il periodo nel “bel paese”, lo scrittore collaborò a diverse riviste, come “L’Ultima” ed il “Perseo”, e ad alcuni quotidiani, tra cui “il Tempo” e “Roma”. Da menzionare sono i saggi - di Horia - sui pensatori anticonformisti italiani: l’amico Giovani Papini ed il Barone Julius Evola.
Moderno Ulisse, lo scrittore rumeno non smise mai di viaggiare, tenendo conferenze nelle università di Buenos Aires, Madrid, Parigi e Santiago del Chile. Come molti uomini legati ai fasti, dell’epopea rivoluzionaria nazionale dei regimi fascisti europei, anche Horia si trasferì in Argentina, più precisamente a Buenos Aires dove, grazie all’aiuto di Papini, poté trovare un’occupazione presso un’università locale. La morte lo colse in Spagna, dove aveva trovato rifugio, grazie al governo franchista.
Vintila Horia non tornò mai in Romania e, forse, fu proprio per la sua condizione di apolide che nel tempo sviluppò una sorta d’inter-nazionalismo di stampo europeista. Infatti, durante un’intervista rilasciata a Gianfranco De Turris, Horia dichiarò: “Mi considero uno scrittore europeo. Credo che la mia vera patria, e la patria di noi tutti, italiani, romeni, spagnoli o francesi, sia – in fondo – l’Europa”.
12 Settembre 2012 - http://rinascita.eu/index.php?action=news&id=16691
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mercredi, 25 juillet 2012
Paganism & Vitalism in Knut Hamsun & D. H. Lawrence
Paganism & Vitalism in
Knut Hamsun & D. H. Lawrence
By Robert Steuckers
Ex. http://www.counter-currents.com
Part 1 of 2
Translated by Greg Johnson
The Hungarian philologist Akos Doma, educated in Germany and the United States, has published a work of literary interpretation comparing the works of Knut Hamsun and D. H. Lawrence: Die andere Moderne: Knut Hamsun, D. H. Lawrence und die lebensphilosophische Strömung des literarischen Modernismus [The Other Modernity: Knut Hamsun, D. H. Lawrence, and the Life-Philosophical Current of Literary Modernism] (Bonn: Bouvier, 1995). What they share is a “critique of civilization,” a concept that one must put in context.
Civilization is a positive process in the eyes of the “progressivists” who see history as a vector, for the adherents of the philosophy ofAufklärung [Enlightenment], and for the unconditional followers of a certain modernity aiming at simplification, geometrization, and cerebralization.
But civilization appears as a negative process for all those who intend to preserve the incommensurable fruitfulness of cultural matrices, for all those who observe, without being scandalized, that time is “plurimorphic,” i.e., the time of one culture is not that of another (whereas the believers of Aufklärung affirm that one monomorphic time applies to all peoples and cultures of the Earth). Thus to each people its own time. If modernity refuses to see this plurality of forms of time, it is illusion.
To a certain extent, Akos Doma explains, Hamsun and Lawrence were heirs of Jean-Jacques Rousseau. But which Rousseau? The one stigmatized by Maurras, Lasserre, and Muret, or the one who radically criticized the Enlightenment but without also thereby defending the Old Regime? For this Rousseau who was critical of the Aufklärung, this modern ideology is in reality that exact opposite of the ideal slogan that it intends to universalize though political activism: it is inegalitarian and hostile to freedom, even as it proclaims equality and freedom.
For Rousseau and his proto-Romantic followers, before the modernity of the 18th century, there was a “good community,” conviviality reigned among men, people were “good,” because nature was “good.” Later, in the Romantics, who were conservatives on the political plane, this concept of “goodness” was quite prominent, whereas today one attributes it only to activists or revolutionary thinkers. Thus the idea of “goodness” was present on “Right” as well as on “Left” of the political chessboard.
But for the English Romantic poet Wordsworth, nature is “the theater of all real experience” because man is really and immediately confronted by the elements, which implicitly leads us beyond good and evil. Wordsworth is certainly “perfectibilist”: man in his poetic vision reaches for excellence, perfection. But man, contrary to what was thought and imposed by the proponents of the Enlightenment, is not perfected solely by developing the faculties of his intellect. The perfection of man happens mainly through the ordeal of elemental nature.
For Novalis, nature is “the space of mystical experience, which allows us to see beyond contingencies of urban and artificial life.” For Joseph von Eichendorff, nature is freedom, and in this sense it is a transcendence, as it allows us to escape from the narrowness of conventions, of institutions.
With Wordsworth, Novalis, and Eichendorff, the themes of immediacy, of vital experience, the refusal of contingencies arising from the artificial conventions are in place. From Romanticism in Europe, especially in Northern Europe, developed a well thought out hostility to all forms of modern social life and economics. Thomas Carlyle, for example, praised heroism and disdained the “cash flow society.” This is the first critique of the rule of money. John Ruskin, with his plans for a more organic architecture and garden cities, aimed to beautify the cities and to repair the social and urban damage of the rationalism that had unfortunately arisen from Manchesterism. Tolstoy propagated an optimistic naturalism that owed nothing to Dostoevsky, the brilliant analyst and dramatist of the worst blacknesses of the human soul. Gauguin transplanted his ideal of human goodness in the islands of Polynesia, to Tahiti, among flowers and exotic beauties.
Hamsun and Lawrence, unlike Tolstoy or Gauguin, develop a vision of nature without teleology, without a “good end,” without marginal paradisal spaces: they have assimilated the double lesson of pessimism from Dostoevsky and Nietzsche. Nature, for them, is no longer an idyllic excursion, as in the English Lake District poets. It is not necessarily a space of adventure or violence, or posed a priori as such. Nature, for Hamsun and Lawrence, is above all the inwardness of man; it is his inner springs, his dispositions, his mind (brain and guts are inextricably linked together). Therefore, a priori, in Hamsun and Lawrence, the nature of man is neither demonic nor pure intellectuality. It is rather the real, as real as the Earth, as real as Gaia, the real source of life.
Before this source, modern alienation leaves us with two opposing human attitudes: (1) to put down roots, a source of vitality, (2) to fall into alienation, a source of disease and paralysis. It is between the two terms of this polarity that we can fit the two great works of Hamsun and Lawrence: Growth of the Soil for the Norwegian, The Rainbow for the Englishman.
In Hamsun’s Growth of the Soil, nature is the realm of existential work, where Man works in complete independence to feed and perpetuate himself. Nature is not idyllic, as in some pastoralist utopia. Work in not abolished. It is an unavoidable condition, a destiny, an essential element of humanity, whose loss would mean de-humanization. The main hero, the farmer Isak, is ugly in face and body. He is crude, simple, rustic, but unwavering. He is completely human in his finitude but also in his determination.
The natural space, the Wildnis, this space that sooner or later will receive the stamp of man, is not the realm of human time, that of clocks, but of the rhythm of the seasons, of periodic rotations. In that space, in that time, we do not ask questions, we work to survive, to participate in a rhythm that surpasses us. This destiny is hard. Sometimes very hard. But it gives us independence, autonomy; it allows a direct relationship with our work. Hence it gives meaning. So there is meaning. In Lawrence’s The Rainbow, a family lives on the land in complete independence on the fruits of its own crops.
Hamsun and Lawrence, in these two novels, leave us with the vision of a man rooted in a homeland (ein beheimateter Mensch), a man with a limited territorial base. The beheimateter Mensch needs no book learning, needs no preaching from the media; his practical knowledge is sufficient; thanks to it, he gives meaning to his actions, while allowing imagination and feeling. This immediate knowledge gives him unity with other beings participating in life.
In this perspective, alienation, a major theme of the 19th century, takes on another dimension. Generally, the problem of alienation is addressed from three different bodies of doctrine: (1) The Marxists and historicists locate alienation in the social sphere, whereas for Hamsun and Lawrence, it lies in the inner nature of man, regardless of social position or material wealth. (2) Alienation is addressed by theology and anthropology. (3) Alienation is seen as a social anomie.
For Hegel and Marx, the alienation of the people or the masses is a necessary step in the gradual process of narrowing the gap between reality and the absolute. In Hamsun and Lawrence, alienation is more fundamental; its causes are not socio-economic or political; they lie in our distance from the roots of nature (which to that extent is not “good”). One does not overcome alienation by creating a new socioeconomic order.
According to Doma, in Hamsun and Lawrence, the problem of the cut, of the caesura is essential. Social life has become uniform, tends toward uniformity, automation, excessive functionalization, while nature and work in the cycle of life are not uniform and constantly mobilize vital energies. There is immediacy, while everything in urban, industrial, modern life is mediated, filtered. Hamsun and Lawrence rebelled against this filter.
In “nature” the forces of interiority count, particularly for Hamsun, and to a lesser extent for Lawrence. With the advent of modernity, men are determined by factors external to them, such as conventions, political agitation, public opinion that gives them the illusion of freedom while it is in fact the realm of manipulation. In this context, communities are breaking up: each individual is content with his sphere of autonomous activity in competition with others. Then we arrive at anomie, isolation, the hostility of each against all.
The symptoms of this anomie are crazes for superficial things, for sophisticated garb (Hamsun), signs of a detestable fascination for what is external, for a form of dependence, itself a sign of inner emptiness. Man is torn by the effects of external stresses. These are all indications of loss of vitality in alienated man.
In the alienation of urban life, man finds no stability because life in the metropolis resists any form of stability. Such an alienated man cannot return to his community, his family of origin. For Lawrence, whose writing is more facile but more striking: “He was the eternal audience, the chorus, the spectator at the drama; in his own life he would have no drama.” “He scarcely existed except through other people.” “He had come to a stability of nullification.”
In Hamsun and Lawrence, Entwurzelung, Unbehaustheit, rootlessness and homelessness, this way of being without hearth or home, is the great tragedy of humanity in the late 19th and early 20th centuries. To Hamsun, place is vital for humans. Every man should have his place. The location of his existence. One can not be cut off from one’s place without profound mutilation. This mutilation is primarily mental; it is hysteria, neurosis, imbalance. Hamsun is a psychologist. He tells us: self-consciousness from the start is a symptom of alienation.
Already Schiller, in his essay Über naive und sentimentalische Dichtung [On Naïve and Sentimental Poetry], noted that agreement between thought and feeling was tangible, real, interior for natural man, but it is now ideal and exterior in cultivated humans (“the concord between his feelings and his thoughts existed at the origin, but no longer exists except at the level of the ideal. This concord is no longer in man, but hovers somewhere outside of him; it is no more than an idea that has yet to be realized; it is no longer a fact of life”).
Schiller hoped for an Überwindung (overcoming) of this caesura, for a total mobilization of the individual to fill this caesura. Romanticism, for him, aimed at the reconciliation of Being (Sein) and consciousness (Bewußtsein), fighting the reduction of consciousness solely to rational understanding. Romanticism values, and even overvalues what is “other” to reason (das Andere der Vernunft): sensual perception, instinct, intuition, mystical experience, childhood, dreams, pastoral life.
The English Romantic Wordsworth deemed this desire for reconciliation between Being and consciousness “rose,” calling for the emergence of “a heart that watches and receives.” Dostoevsky abandoned this “rose” vision, developing in response a quite “black” vision, in which the intellect is always a source of evil that led the “possessed” to kill or commit suicide. In the same vein, in philosophical terms, G. E. Lessing and Ludwig Klages emulated this “black” vision of the intellect, while considerably refining naturalist Romanticism: to Klages, the mind is the enemy of the soul; to Lessing, the mind is the counterpart of life, born of necessity (“Geist ist das notgeborene Gegenspiel des Lebens”).
Lawrence, in some sense faithful to the English Romantic tradition of Wordsworth, believes in a new adequation of Being and consciousness. Hamsun, more pessimistic, more Dostoyevskian (hence his success in Russia and its impact on such ruralists writers as Belov and Rasputin), persisted in the belief that as soon as there is consciousness there is alienation. Once man begins to reflect on himself, he detaches himself from the natural continuum, in which he should normally be rooted.
In Hamsun’s theoretical writings, there is a reflection on literary modernism. Modern life, influences, processes, refine man to rescue him from his destiny, his destined place, his instincts which lie beyond good and evil. The literary development of the 19th century betrays a feverishness, an imbalance, a nervousness, an extreme complexity of human psychology. “The general (ambient) nervousness has gripped our fundamental being and has rubbed off on our feelings.” Hence the writer now defines himself on the model of Zola, as a “social doctor” who describes social evils to eliminate disease. The writer, the intellectual, and develops a missionary spirit aiming at a “political correctness.”
Against this intellectual vision of the writer, Hamsun replies that it is impossible to objectively define the reality of man, for an “objective man” would be a monstrosity (ein Unding), constructed in a mechanical manner. We cannot reduce man to a catalog of characteristics, for man is changing, ambiguous. Lawrence had the same attitude: “Now I absolutely flatly deny that I am a soul, or a body, or a mind, or an intelligence, or a brain, or a nervous system, or a bunch of glands, or any of the rest of these bits of me. The whole is greater than the part.” Hamsun and Lawrence illustrate in their works that it is impossible to theorize or absolutize a clear and distinct view of man. Thus man is not the vehicle of preconceived ideas.
Hamsun and Lawrence note that progress in self-awareness is not the process of spiritual emancipation, but rather a loss, a draining of vitality, of vital energy. In their novels, it is the characters who are still intact because they are unconscious (that is to say, embedded in their soil or site) who persevere, triumphing over the blows of fate and unfortunate circumstances.
There is no question, we repeat, of pastoralism or idyllism. The characters of Hamsun’s and Lawrence’s novels are traversed or solicited by modernity, hence their irreducible complexity: they may succumb, they suffer, they undergo a process of alienation but can also overcome it. This is where the Hamsun’s irony and Lawrence’s notion of the phoenix come in. Hamsun’s irony ridicules the abstract ideals of modern ideologies. In Lawrence, the recurrent theme of the phoenix indicates a certain degree of hope: there will be resurrection. Like the phoenix rising from the ashes.
Paganism & Vitalism in Knut Hamsun & D. H. Lawrence, Part 2
Translated by Greg Johnson
The Paganism of Hamsun and Lawrence
If Hamsun and Lawrence carry out their desire to return to a natural ontology by rejecting rationalist intellectualism, this also implies an in-depth contestation of the Christian message.
In Hamsun, we find the rejection of his family’s Puritanism (that of his uncle Hans Olsen), the rejection of the Protestant worship of the book and the text, i.e., an explicit rejection of a system of religious thought resting on the primacy of pure scripture against existential experience (in particular that of the autarkical peasant, whose model is that of Odalsbond of the Norwegian countryside).
The anti-Christianity of Hamsun is rather non-Christianity: it does not give rise to religious questioning in the mode of Kierkegaard. For him, the moralism of the Protestantism of the Victorian era (in Scandinavia, they called it the Oscarian era) is quite simply an expression of devitalisation. Hamsun does not recommend any mystical experience.
Above all, Lawrence is concerned with the caesura between man and the cosmic mystery. Christianity reinforces this wound, prevents it from clotting, prevents it from healing. However, European religiosity preserves a residue of this worship of the cosmic mystery: it is the liturgical year, the liturgical cycle (Easter, Pentecost, Midsummer, Halloween, Christmas, Epipany).
But these had been hit hard by the processes of disenchantment and desacralization, starting with the advent of the primitive Christian church, reinforced by Puritanism and Jansensim after the Reformation. The first Christians clearly wanted to tear man away from these cosmic cycles. The medieval church, however, sought adequation between man and cosmos, but the Reformation and Counter-Reformation both clearly expressed a return to the anti-cosmism of primitive Christianity. Lawrence writes:
But now, after almost three thousand years, now that we are almost abstracted entirely from the rhythmic life of the seasons, birth and death and fruition, now we realize that such abstraction is neither bliss nor liberation, but nullity. It brings null inertia.
This caesura is a property of the Christianity of urban civilizations, where there is longer an opening to the cosmos. Thus Christ is no longer a cosmic Christ, but a Christ reduced to the role of a social worker. Mircea Eliade spoke of a “cosmic Man,” open to the vastness of cosmos, the pillar of all the great religions. From Eliade’s perspective, the sacred is reality, power, the source of life and fertility. Eliade: “The desire of the religious man to live a life in the sacred is the desire to live in objective reality.”
The Ideological and Political Lessons of Hamsun and Lawrence
On the ideological and political plane, on the plane of Weltanschauungen, Hamsun and Lawrence had a rather considerable impact. Hamsun was read by everyone, beyond the polarity of Communism/Fascism. Lawrence was labeled “fascistic” on a purely posthumous basis, in particular by Bertrand Russell who spoke about his “madness” (“Lawrence was a suitable exponent of the Nazi cult of insanity”). This phrase is at the very least simple and concise.
According to Akos Doma, the works of Hamsun and Lawrence fall under four categories: the philosophy of life, the avatars of individualism, the vitalistic philosophical tradition, and anti-utopianism and irrationalism.
1. Life-philosophy (Lebensphilosophie) is a polemical term, opposing the “vivacity of real life” to the rigidity of conventions, the artificial games invented by urban civilization to try to give meaning to a totally disenchanted world. Life-philosophy appears under many guises in European thought and takes shape beginning with Nietzsche’s reflections on Leiblichkeit (corporeity).
2. Individualism. Hamsun’s anthropology postulates the absolute unicity of each individual, of each person, but refuses to isolate this individual or this person from any communal context, carnal or familiar: he always places the individual or the person in interaction, in a particular place. The absence of speculative introspection, consciousness, and abstract intellectualism make Hamsun’s individualism unlike the anthropology of the Enlightenment.
But, for Hamsun, one does not fight the individualism of the Enlightenment by preaching an ideologically contrived collectivism. The rebirth of the authentic man happens by a reactivation of the deepest wellsprings of his soul and body. Mechanical regimentation is a calamitous failure. Therefore, the charge of “fascism” does not hold for either Lawrence or Hamsun.
3. Vitalism takes account of all the facts of life and excludes any hierarchisation on the basis race, class, etc. The characteristic oppositions of the vitalist movement are: assertion of life/negation of life; healthy/unhealthy; mechanical/organic. Thus one cannot reduce them to social categories, parties, etc. Life is a fundamentally apolitical category, because it subsumes all men without distinction.
4. For Hamsun and Lawrence, the reproach of “irrationalism,” like their anti-utopianism, comes from their revolt against “feasibility” (Machbarkeit), against the idea of infinite perfectibility (which one finds in an “organic” form in the first generation of English Romantics). The idea of feasibility goes against the biological essence of nature. Thus the idea of feasibility is the essence of nihilism, according to the contemporary Italian philosopher Emanuele Severino.
For Severino, feasibility derives from a will to complete a world posited as being in becoming (but not an uncontrollable organic becoming). Once this process of completion is achieved, becoming inevitably ceases. Overall stability is necessary to the Earth, and this stability is described as a frozen “absolute good.”
In a literary manner, Hamsun and Lawrence have foreshadowed such contemporary philosophers as Emanuele Severino, Robert Spaemann (with his critique of functionalism), Ernst Behler (with his critique of “infinite perfectibility”), and Peter Koslowski. Outside of Germany or Italy, these philosophers are necessarily almost unknown to the public, especially when they criticize thoroughly the foundations of the dominant ideologies, which is rather frowned upon since the deployment of an underhanded inquisition against the politically incorrect. The cells of the “logocentrist conspiracy” are in place at all the publishers in order to reject translations, keep France in a state of philosophical “minority,” and prevent any effective challenge to the ideology of power.
Vitalistic or “anti-feasibilist” philosophers like Nietzsche, Hamsun, and Lawrence, insist on the ontological nature of human biology and are radically opposed to the nihilistic Western idea of the absolute feasibility of everything, which implies the ontological inexistence of all things, of all realities.
Many of them — certainly Hamsun and Lawrence — bring us back to the eternal present of our bodies, our corporeality (Leiblichkeit). But we can not fabricate a body, despite the wishes reflected in some science fiction (and certain projects from the crazy early years of the Soviet system).
Feasibilism is hubris carried to its height. It leads to restlessness, emptiness, silliness, solipsism, and isolation. From Heidegger to Severino, European philosophy has focused on the disaster of the desacralization of Being and the disenchantment of the world. If the deep and mysterious wellsprings of Earth and man are considered imperfections unworthy of the interest of the theologian or philosopher, if all that is thought abstractly or contrived beyond these (ontological) wellsprings is overvalued, then, indeed, the world loses its sacredness, all value.
Hamsun and Lawrence are writers who make us live with more intensity than those sometimes dry philosophers who deplore the wrong route taken centuries ago by Western philosophy. Heidegger and Severino in philosophy, Hamsun and Lawrence in creative writing aim to restore the sacredness of the natural world and to revalorize the forces that lurk inside man: in this sense, they are ecological thinkers in the deeper meaning of the term.
The oikos and he who works the oikos bear within them the sacred, the mysterious and uncontrollable forces, which are accepted as such, without fatalism and false humility. Hamsun and Lawrence have therefore heralded a “geophilosophical” dimension of thought, which has concerned us throughout this summer school. A succinct summary of their works, therefore, has a place in today’s curriculum.
Lecture at the Fourth Summer School of F.A.C.E., Lombardy, in July 1996.
Source: Vouloir, August 1997; online: http://www.centrostudilaruna.it/paganisme-et-philosophie-de-la-vie-chez-knut-hamsun-et-david-herbert-lawrence.html [2]
Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com
URL to article: http://www.counter-currents.com/2012/07/hamsun-and-lawrence-part-2/
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samedi, 07 juillet 2012
Fabrice LUCHINI à propos de Louis-Ferdinand CÉLINE
Fabrice LUCHINI
à propos de Louis-Ferdinand CÉLINE
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jeudi, 05 juillet 2012
Lovecraft und die Inszenierung der großen Niederlage
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Geschrieben von: Dietrich Müller
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Ex: http://www.blauenarzisse.de/
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Was für einen Sinn soll es haben, sich mit diesem Mann zu beschäftigen? Er hat eine reiche Korrespondenz hinterlassen und eine überschaubare Anzahl an Geschichten, die dem Horrorgenre zugerechnet werden – das nicht ganz zu Unrecht einen zweifelhaften Ruf genießt. Selbst für einen so früh verstorbenen Mann ist seine Biographie schrecklich mager, sie bietet kaum Höhepunkte, praktisch nichts Erzählenswertes. Geboren, geschrieben, gestorben. Lovecraft in drei Worten. Was kann die Beschäftigung mit diesem Mann uns schon geben? Ein Portrait dieses Mannes zu verfassen, scheitert am biographischen Zugriff. Es soll uns auch nur am Rande kümmern, wie er gelebt hat. Aber aus seinen Widersprüchen und seinen Fähigkeiten lässt sich ein Destillat erzeugen, aus dem sich einiges ziehen lässt und gerade dem kritischen Geist Nahrung liefert. Mehr als Fragment kann es freilich nicht sein, das hätte ihm wohl auch gefallen. Kapitulation hat durchaus etwas Verführerisches. Hat man erst einmal alle Hoffnung persönlich negiert, kann man sich bequem am Leben vorbeidrücken. Widerstand ist anstrengend, nervenaufreibend. Wo man sich an den Zeiten und den Menschen offensiv abmühen muss, da geht es an die Nerven, an die Substanz und der Ausgang bleibt immer mehr als ungewiss. Dem vollendeten Pessimisten ist der Eskapismus nahe. Beides trifft auf Lovecraft zu. Es ist eine Situation, welche die Kritiker heutiger Zeiten (und gerade die Konservativen und Reaktionäre) mit ihm teilen: Alles wird schlechter, die Entwicklungen werden zur Lawine, wir werden erdrückt. Fast könnte man neidisch werden auf die Kollaborateure und ihr zufriedenes Unzufriedensein zwischen Konsum und banalen Sorgen. Das Verführerische an der Kapitulation Viele kennen die Verführung, sich in die Schreibstube zurückzuziehen und abzuwarten, bis die Zeit einen dahinrafft. Diese leise Stimme, dass man sich umsonst abplackt und welch’ hoffnungsloser Irrsinn im dauernden Widerstand liegt. Lieber sich nicht mehr kümmern, nicht mehr teilnehmen. So sind wir doch Lovecrafts Kinder, wenn wir diese Verführung und diese Stimme kennen. Allein: Das stellt den Zweifel nicht ab. Den Schrecken über soviel Unwissen und Dummheit. Das – durchaus auch wohlige Erschauern – beim Ausblick auf künftige Katastrophen. Man blickt aus dem Fenster und beschaut die lachend-dummen Gesichter und fragt sich, wie sie aussehen werden, wenn das Unheil zu ihnen kommt. Der Gedanke gefällt und beunruhigt uns, er zieht uns magisch an den Schreibtisch, denn ganz können wir es nicht unterlassen, uns doch mitzuteilen – und sei es auch nur dem Papier. Nicht weil wir Erfolg wünschen oder Ruhm, sondern weil wir den Eselgesichtern einen Vorgeschmack geben wollen auf die bitteren Zeiten, welche sich für uns so klar abzeichnen. Man hat sich zwar versteckt, aber man kann den prophetischen Akt nicht unterlassen, auch weil man das falsche Glück durchschaut, welchem die Kleingeister da huldigen. Sind wir neidisch auf die Gedankenlosen? Halt! Moment! Wir wollten doch kapitulieren, uns nicht mehr einmischen! Uns der Passivität hingeben und alles verneinen. Wegducken und in Ruhe vergehen. Der Widerspruch nagt an uns. Sind wir neidisch? Ein unschöner Gedanke. Vielleicht so unschön wie wir und die anderen? Wir leben also weit weg vom prallen Leben. Die Menschen und ihr Alltag widern uns an. Unbegreiflich das dumme Tun und der Lauf der Zeit. Wir künden davon und werden alt. Auch aus der Ferne kann man das Schauen nicht unterlassen, die Gedanken nicht abstellen – die Qual sich zu äußern, die Frage, ob nicht alles anders sein könnte. Schließlich knüppeln wir die Hoffnung in den Texten tot. Oder versuchen es zumindest. Nicht mehr nur wegen der anderen, viel mehr noch wegen uns selbst. Abfinden wollen wir uns mit dem Ekel und nicht aufbegehren. Die Welt ist uns unbegreiflich, aber wir uns auch. Was soll dieser Unsinn? Das Leben ist und bleibt ein Saustall und es widert uns an. Geht mir aus den Augen! Gehe mir selbst aus den Augen! Ich tue mir selbst furchtbares an, aber wir auch den anderen. Missgunst und Empathie lassen keine Ruhe aufkommen. Auch die Heimat wird Gefängnis. Welch Verführung, welch Verschwendung! Also zehren wir uns auf Wir werden alt im Zeitraffer. Und krank. Wir schämen uns einerseits ob des ausgewichenen Lebens und sind doch voller Vorfreude, wenn die Zeit uns endlich dahinrafft. Wir spucken auf das erbärmliche Geschenk dieses unnötigen Lebens. Nur auf die Haltung kommt es noch an, auf die letzten Meter, bevor man endlich diesem Scheißhaufen mit seinen Amöbenexistenzen entfliehen kann. Ob einfach nur ein schwarzer Vorhang fällt oder neue Welten, neue Schrecken sich auftun, ist uns egal. Nur weg! Haben wir doch geahnt (oder nur gemeint?), dass es den ganzen Wahn nicht wert ist. Welche Verführung, welche Verschwendung! Also zehren wir uns auf: Uns rührt nicht die Frau, die wir nicht hatten, das Kind nicht, welches wir nie wollten, die Nachwelt nicht, welche wir ablehnen wie die Gegenwart. Wir haben ein Beispiel gegeben oder auch nicht. Das soll andere kümmern. Als uns das Sterben schließlich zerfrisst, blicken wir uns noch einmal delirisch um. Sicher war es alles nichts wert. Oder hoffen wir es nur? Das ist jene drohende, zwiespältige Botschaft, welche Lovecraft, sein Leben und seine Schriften haben. Wir leben in diesem Widerspruch. Die „Fülle der Zeit“ (Gasset) wie im 19. Jahrhundert kennen wir nicht und sie kommt auch nicht wieder. In jedem Zweifler steckt auch ein Nihilist, die wegwerfende Geste, die durchaus auch großartig wirken kann. Dieser Widerspruch und diese Verführung machen uns zu Lovecrafts Kindern. Freilich: Man sollte nicht seinem Beispiel folgen. Der quälende Blick vor dem Ende muss furchtbar sein und ist eine Mahnung. Auch die Glücklichen vergehen Aber wenn wir schließlich in seine Texte schauen, wenn wir angenehm erschauern beim Blick in den irrsinnigen Abgrund dieser sirenenhaften Unfassbarkeit, dann spüren wir, wie nahe er uns gewesen ist. Der Ekel über den alltäglichen Menschen in seiner viehischen Zufriedenheit wird uns bestätigt und am Ende kommt das Böse zu allen und bleibt stark in seiner Unfassbarkeit. Auch die Glücklichen vergehen und ihr Sturz ist noch viel tiefer. Das hilft über manch düstere Momente hinweg. Gerade diese missgünstige Ader, diese Lust am Unglück der Anderen befriedigt Lovecraft für uns. Deswegen redet man auch nicht gerne von ihm, vor allem in Deutschland. Aber auch in der internationalen Rezeption verschanzt man sich hinter schönen Worten oder böser Kritik. Lovecraft hat der „Leere eine Farbe“ gegeben Man sieht es nicht gerne, wenn der Menschenhasser und Katastrophenwünscher in jedem von uns bedient wird. Das literarische Establishment meidet seine Schriften und Visionen. Nicht alleine wegen der rassistischen Untertöne, sondern wegen der verführenden Wirkung und dieses unangenehmen Gefühls, beim eignen Widerspruch ertappt worden zu sein. Er hat der „Leere eine Farbe“ gegeben (Camus), während er konsequent gegen sich selbst lebte. Er ist Verführung und Vergewaltigung zugleich. Destruktiv und autoaggressiv. Selbstbezogen und doch voller Empathie. Ein totaler Widerspruch. Aus der Zeit. „I am Providence.” Alles hatte er überwunden und negiert. Und doch den Gedanken nicht unterlassen. Daran schließlich zerbrochen. Durch die Zeit hat er über diese und seine bescheidene Herkunft triumphiert, indem er seine Niederlage inszenierte. Und heute vernehmen wir vielleicht ein leises Echo eines boshaften Lachens, das möglicherweise von ihm stammt. Er war mehr als „nur“ Providence. In unseren aktuellen Thesen-durch-Fakten-Anschlägen haben wir uns ebenfalls mit dem Thema Pessimismus auseinandergesetzt und dazu sechs Thesen formuliert: Pessimismus ist Feigheit! |
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mardi, 03 juillet 2012
Roman 20-50, revue d'étude du roman du XXè siècle
Roman 20-50, revue d'étude du roman du XXè siècle
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mardi, 26 juin 2012
Le Bulletin célinien n°342 - juin 2012
Le Bulletin célinien n°342 - juin 2012
Le Bulletin célinien, B. P. 70, Gare centrale, BE 1000 Bruxelles.
Le Bulletin célinien n°342 - Bloc-Notes
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dimanche, 24 juin 2012
Louis-Ferdinand Céline - Knut Hamsun
Louis-Ferdinand Céline - Knut Hamsun
par Marie-Laure Béraud
Ex: http://www.lepetitcelinien.com/
Nous remercions l'auteur d'avoir bien voulu nous faire partager ce texte.
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vendredi, 22 juin 2012
XIXè Colloque international Louis-Ferdinand Céline du 6 au 8 juillet 2012 à Berlin
XIXè Colloque international Louis-Ferdinand Céline du 6 au 8 juillet 2012 à Berlin
Le dix-neuvième Colloque international Louis-Ferdinand Céline, organisé par la Société d'études céliniennes, se déroulera du 6 au 8 juillet 2012 au Frankreich-Zentrum de la Freie Universität de Berlin (Rheinbabenallee 49, Berlin). Voici le programme complet de ces trois journées.
Bianca ROMANIUC-BOULARAND
Figure et espace dans la trilogie allemande et dans Féerie pour une autre fois I
Des collabos aux Balubas : le miroir sonore de l'histoire dans la trilogie allemande
François-Xavier LAVENNE
Orphée en Allemagne : la trilogie, parcours à travers les enfers et quête de l'écriture
12h30 - Assemblée Générale de la Société d'études céliniennes
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jeudi, 21 juin 2012
Jean Prévost, homme libre et rebelle
Jean Prévost, homme libre et rebelle
par Pierre LE VIGAN
Qui connaît encore Jean Prévost ? Assurément plus grand monde. Cet oubli est de prime abord étonnant. Voici un écrivain français, intelligent bien qu’intellectuel, patriote sans être anti-allemand, anti-hitlérien sans être communiste, il fut aussi maquisard et fut tué dans le Vercors durant l’été 44.
La France d’après-guerre a fort peu honoré cet homme, non plus que la France actuelle. L’air du temps est à la contrition mais pas à l’admiration. Jean Prévost a pourtant des choses à nous dire : sur le courage et sur l’intelligence, et sur le premier au service de la seconde comme l’avait rappelé Jérôme Garcin (1).
Dominique Venner écrit de son côté : « Pamphlétaire, critique littéraire et romancier, Jean Prévost venait de la gauche pacifiste et plutôt germanophile. C’est le sort injuste imposé à l’Allemagne par les vainqueurs de 1918 qui avait fait de lui, à dix-huit ans, un révolté. Depuis l’École normale, Prévost était proche de Marcel Déat. Il fréquentait Alfred Fabre-Luce, Jean Luchaire, Ramon Fernandez. À la fin des années Trente, tous subirent plus ou moins l’attrait du fascisme. Tous allaient rêver d’une réconciliation franco-allemande. Tous devaient s’insurger contre la nouvelle guerre européenne que l’on voyait venir à l’horizon de 1938. Lui-même ne fut pas indifférent à cet « air du temps ». En 1933, tout en critiquant le « caractère déplaisant et brutal » du national-socialisme, il le créditait de certaines vertus : « le goût du dévouement, le sens du sacrifice, l’esprit chevaleresque, le sens de l’amitié, l’enthousiasme… (2) ». Une évolution logique pouvait le conduire, après 1940, comme ses amis, à devenir un partisan de l’Europe nouvelle et à tomber dans les illusions de la Collaboration. Mais avec lui, le principe de causalité se trouva infirmé. « Il avait choisi de se battre. Pour la beauté du geste peut-être plus que pour d’autres raisons. Il tomba en soldat, au débouché du Vercors, le 1er août 1944. (3) ».
Jean Prévost est d’abord un inclassable : ni communiste, ni catholique, ni même communiste-catholique comme beaucoup, rationnel sans être rationaliste, progressiste sans être populiste au sens démagogique, patriote sans être nationaliste. Un intellectuel nuancé et, dans le même temps, un homme privé vif, tourmenté, sanguin, passionné, exigeant vis-à-vis de lui-même. Un aristocrate. Stendhal dont Prévost fut un bon spécialiste disait que le « vrai problème moral qui se pose à un homme comblé » est : « que faire pour s’estimer soi-même ? ». Jean Prévost fit sien ce problème. Pour y répondre, il « raturait sa vie plutôt que son œuvre ». Et il se « dispersait » dans une multiplicité de centres d’intérêt : critique littéraire, cosmologie et polémologie, philosophie du droit et architecture… En fait, Jean Prévost foisonnait. Sa pseudo-dispersion était profusion. « Jamais de ma vie je n’ai pu rester un jour sans travailler. »
Éloigné de tout dandysme, Jean Prévost veut savoir pour connaître. Son travail intellectuel est ainsi un « rassemblement » de lui-même, une mise en forme de son être, qui se manifeste par des prises de position rigoureuses et souvent lucides. Grand travailleur tout autant que grand sportif, Jean Prévost attend que le sport lui fournisse « ce bonheur où tendait autrefois l’effort spirituel ». C’est aussi pour lui un antidote à la civilisation moderne. « Les Grecs, écrit-il, s’entraînaient pour s’adapter à leur civilisation. Nous nous entraînons pour résister à la nôtre. »
Malgré la diversité de ses dons, Prévost évoque le mot de Stendhal sur ceux qui « tendent leur filet trop haut ». Il fait partie de ceux qui « pêchent par excès ». Mais c’est un moindre défaut car, comme Roger Vaillant le dit à propos de Saint-Exupéry, « l’action le simplifie ». Et Prévost est un homme d’action. Jean Prévost est aussi aidé par une idée simple et robuste de ses devoirs et de ce qui a du sens dans sa vie : le plaisir, l’amour de ses enfants, les amis, le souci de l’indépendance de son pays.
Trop païen pour ne pas trouver que la plus détestable des vertus – ou le pire des vices – est la « reconnaissance » envers autrui, trop français pour ne pas avoir le sens de l’humour, « décompliqué des nuances », mais plein de finesse et de saillies (en cela nietzschéen). Jean Prévost se caractérise aussi par la temporalité rapide de son écriture qui est celle du journalisme. C’est ce sens du temps présent qui l’amène (tout comme Brasillach, mais selon des modalités fort différentes), à l’engagement radical, c’est-à-dire, dans son cas, à la lutte armée contre les Allemands dans le maquis du Vercors. C’est là que cet homme, multiple, entier, solaire, trouva sa fin. Il avait écrit : « il manque aux dieux-hommes ce qu’il y a peut-être de plus grand dans le monde; et de plus beau dans Homère : d’être tranché dans sa fleur, de périr inachevé; de mourir jeune dans un combat militaire ».
Pierre Le Vigan
Notes
1 : Jérôme Garcin, Pour Jean Prévost, Gallimard, 1994.
2 : Idem.
3 : Dominique Venner, dans La Nouvelle Revue d’Histoire, n° 47, 2010.
• Publié initialement dans Cartouches, n° 8, été 1996, remanié pour Europe Maxima.
Article printed from Europe Maxima: http://www.europemaxima.com
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mercredi, 20 juin 2012
Edgar Allan Poe – Meister der Dunkelheit
Edgar Allan Poe – Meister der Dunkelheit |
Geschrieben von: Christoph George |
Ex: http://www.blauenarzisse.de/ |
Es gibt Literaten, die man aufgrund ihres Stiles noch viele Jahre nach ihrem Ableben hoch schätzt. Der amerikanische Schriftsteller Edgar Allen Poe gehört unzweifelhaft zu eben jenen. Neben romantischen Erzählungen, Detektivgeschichten und anderen literarischen Gattungen prägte er vor allem die Horrorgeschichte wie wenige andere. Bis heute gilt er als kaum übertroffen. Sprach der Rabe: „Nimmermehr.“ – Poe und die Horrorgeschichte Edgar Poe wurde 1809 als Sohn eines Schauspielerehepaares in Boston geboren und schon in frühester Kindheit von schweren Schicksalsschlägen geprägt. Nachdem 1811 die Eltern verstarben, wurde er mit seinen beiden Geschwistern neuen Familien zugewiesen, die sich ihrer annahmen. Der junge Edgar kam zu den Allans, deren Nachnamen er von nun an zusätzlich trug. Sein Bruder William starb im Alter von nur 24 Jahren. Ebenso seine 14 Jahre jüngere Frau Virginia, seine Cousine, die er 1936 geheiratet hatte. Derlei tragische Schicksalsschläge verarbeitete Poe später in jenen Gruselgeschichten, für die er noch heute weltberühmt ist. Der Tod schöner junger Frauen, wie er in Der Untergang des Hauses Usher, Der schwarze Kater, Das ovale Portrait, Morella, oder auch in seinem bekanntesten Gedicht Der Rabe dargestellt wird, blieb nicht zuletzt deswegen ein sich ständig wiederholendes Motiv in Poes Werk. Die innere Hölle Die Beschäftigung mit den Grenzen des für den Menschen ertragbaren, die Konfrontation mit dem teils puren Grauen, ist typisch für diese Art der Literatur und beinhaltet den Kern ihrer Anziehungskraft. Das Beleuchten der dunklen Seite der Seele, nicht als bloßer Kitzel der Unterhaltung gedacht, sondern insbesondere als Vortasten an das heran, was man im 16. Jahrhundert noch die „innere Hölle“ nannte, macht gerade ihr eigentliches Vermögen aus. Poe beherrschte es in Perfektion, den Leser genau dorthin zu führen. Nach seinem frühen Tode schnell vergessen Der Autor selbst erlangte durch Publikationen seiner Arbeiten in mehreren Zeitschriften bereits zu Lebzeiten einige Bekanntschaft, wurde aber nach seinem mysteriösen Tod im Alter von nur 40 Jahren schnell vergessen. Zu dessen postumen Ruhm, welchem wir heute seine allgemeine Popularität verdanken, kam es erst, nachdem er in Europa entdeckt wurde. So erschien eine u.a. von Arthur Moeller van den Bruck herausgegebene ins Deutsche übersetzte 10 bändige Ausgabe seines Werkes am Anfang des 20. Jahrhunderts, welche half, den Schriftsteller einer breiten Öffentlichkeit vorzustellen. Erst später wurde er aufgrund dieser Popularität auch in seiner Heimat Amerika wiederentdeckt. Eine Entdeckung wert Gerechtfertigt ist seine allgemeine Bekanntschaft dabei in der Tat, verweist man auf die Intensität seiner erzählten Bilder. Kurzgeschichten wie Der Fall Valdemar sind es, die den Leser auch noch nach über 150 Jahren zum Erschauern bringen; die zu der Identifikation mit den literarischen Figuren einladen, um dann kurz und grausam ihren ganzen Schrecken zu entfalten. Trotz der die Gemüter vermeintlich abstumpfenden Horrorfilmindustrie, haben Poes Gruselgeschichten nach wie vor nichts an ihrer Faszination eingebüßt, und den Autor so zu einem zeitlosen Literaten gemacht, den es weiterhin zu entdecken lohnt. (Bild: Daguerreotypie von Edgar Allan Poe 1848) |
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mardi, 19 juin 2012
Ray Bradbury. Le mille facce di un genio inafferrabile
Ray Bradbury. Le mille facce di un genio inafferrabile
Parlare di Ray Bradbury significa far correre subito il pensiero ai suoi due capolavori, Cronache marziane (1950) e Fahrenheit 451 (1953), anche se lo scrittore, deceduto ieri a Los Angeles a quasi 92 anni (li avrebbe compiuti il 22 agosto), ha avuto una carriera più che settantennale (avendo esordito a 21 anni nel 1941, su Weird Tales) nel corso della quale ha pubblicato storie di tutti i generi, e non solo quel particolare tipo di fantascienza che a suo tempo si definì «umanistica», comunque tutte caratterizzate dal suo tocco personale, dal suo stile unico, evocativo, dalla singolare aggettivazione che avvolge il lettore senza che se ne accorga.
Con lui scompare uno degli ultimi rappresentanti (è ancora vivo Frederik Pohl, classe 1919) della grande e irripetibile «età d’oro della fantascienza». Pochi lo sapevano, ma negli ultimi anni era bloccato su una sedia a rotelle, però continuava a scrivere con regolarità pur se per interposta persona: ogni mattina per tre ore dettava telefonicamente alla figlia Alexandra, perché non poteva più usare la sua vecchia macchina da scrivere meccanica a causa di un malanno al braccio.
A suo tempo, negli anni Cinquanta-Settanta, ciò che colpì di Bradbury fu la visione malinconica e tragica del destino dell’uomo contemporaneo e futuro preda della massificazione totale, dello sradicamento dell’Io individuale e della sua personalità, succube di una macchinificazione della vita, intendendo con questo non solo i marchingegni meccanici e robotizzati, ma anche la virtualità che in America si stava già imponendo a metà del Novecento, mentre da noi ci si sarebbe accorti di tutto questo soltanto a partire dagli anni Ottanta con il moltiplicarsi dei canali televisivi. Non c’è dunque da meravigliarsi che lo scrittore nei suoi ultimi interventi pubblici se la sia presa con gli aggeggi elettronici che hanno invaso la nostra vita e la condizionano. «Abbiamo troppi telefonini. Troppo internet. Dobbiamo liberarci di quelle macchine», ha detto in un’intervista per il suo novantesimo compleanno al Los Angeles Times. Perché meravigliarsene, come fece a suo tempo qualcuno? È la logica conseguenza delle critiche che alle «macchine», anche se di altro genere, Bradbury ha fatto in tutte le sue opere e specialmente in Fahrenheit 451: anche cellulari, iPad, iPod, lettori elettronici, smartphone lo sono e producono conseguenze. Delle chat e di Facebook ha detto: «Perché tanta fatica per chiacchierare con un cretino col quale non vorremmo avere a che fare se fosse in casa nostra?». La sua crociata contro i deficienti e l’incultura risale ai primordi della sua carriera. Un precursore di certe critiche oggi comuni, insomma.
Tutto sta in quel capolavoro antiutopico che è appunto Fahrenheit 451. Un libro che è l’esaltazione dell’uomo e della cultura vera dell’uomo, quella trasmessa dai libri e non dalle finzioni virtuali della televisione. Già nel ’51-53 Bradbury immaginava schermi grandi come una parete e la vita falsa che trasmettevano tramite quelle che oggi si chiamano sitcom e vanno avanti per decenni quasi fosse una realtà parallela a quella del telespettatore, o reality show dove la gente comune diventa protagonista attiva (tema, questo, di molti suoi tragici racconti come il famoso La settima vittima). È contro la pandemia televisiva che lo scrittore si scaglia in difesa di un altro tipo di cultura che questa cercava di sommergere e annullare, e non aveva affatto di mira il senatore McCarthy o una specifica dittatura parafascista o paranazista, come volevano dare a intendere certi critici «impegnati» qui in Italia. Fu lo stesso scrittore, con grande delusione di certi suoi fans, a confermarlo: nel 2007, sempre in un’intervista al Los Angeles Times, affermò che il suo famoso romanzo non si doveva interpretare come una critica alla censura o specificatamente al senatore McCarthy, perché era piuttosto una critica alla televisione e al tipo di (in)cultura che essa trasmette. Insomma, Bradbury ce l’aveva e ce l’ha avuta sino all’ultimo, contro la pseudo-informazione, la pseudo-vita, gli pseudo-fatti, quelli che Gillo Dorfles ha battezzato «fattoidi», e che sono ormai la «normalità» delle tv di tutto il mondo, specie in Italia.
In un’altra intervista ha detto: «I libri e le biblioteche sono davvero una parte importante della mia vita, perciò l’idea di scrivere Fahrenheit 451 è stata naturale. Io sono una persona nata per vivere nelle biblioteche». Scoramento profondo, quindi, di tutti i suoi lettori e analizzatori progressisti: nessuna motivazione politica e/o ideologica dietro il famoso romanzo strumentalizzato in tal senso per decenni, anche se, leggendo bene quel che Bradbury scriveva, non era affatto impossibile afferrarlo. Tanto è vero che spesso, negli Stati Uniti, Bradbury si è platealmente irritato quando qualcuno gli voleva spiegare quel che aveva scritto, le sue intenzioni. Come si vede, la tanto apprezzata e semplicistica equivalenza fantascienza/progressista e fantastico/reazionario è una solenne sciocchezza, anche se purtroppo ancora qualcuno ci crede, magari forzando le tesi espresse dagli scrittori nelle loro opere. Bradbury è sempre stato sostenitore di una cultura umanistica e ci ha dato una fantascienza di questo genere con veri e propri capolavori: ma non sta scritto da nessuna parte che ciò sia sinonimo di progressismo ideologico e politico.
* * *
Tratto da Il Giornale del 7 giugno 2012.
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Ray Bradbury ist tot – Chiffre 451
Götz Kubitschek:
Ray Bradbury ist tot – Chiffre 451
Ex: http://www.sezession.de/
Wer nach den berühmten Dystopien unserer Zeit gefragt wird, nennt George Orwells 1984, Aldois Huxleys Schöne Neue Welt, vielleicht Ernst Jüngers Gläserne Bienen, ganz sicher Das Heerlager der Heiligen von Jean Raspail (wenn er einer von uns ist!) und vor allem den Roman Fahrenheit 451 von Ray Bradbury. „451″ ist eine meiner Lieblingschiffren, und die Hauptfigur aus Bradburys Roman – der Feuerwehrmann Montag – ist Angehöriger der Division Antaios.
Bradbury – geboren 1920 – ist am 5. Juni verstorben. Fahrenheit 451 ist sein bekanntester Roman. In ihm werden Bücher nicht mehr gelesen, sondern verbrannt, wenn der Staat sie findet: Ihre Lektüre mache unglücklich, lenke vom Hier und Heute ab, bringe die Menschen gegeneinander auf. Vor allem berge jedes Stück Literatur etwas Unberechenbares, Freigegebenes, etwas, das plötzlich und an ganz unerwarteter Stelle zu einer Fanfare werden könne. In den Worten Bradburys: „Ein Buch im Haus nebenan ist wie ein scharfgeladenes Gewehr.“
Montag indes greift heimlich nach dem, was ihm gefährlich werden könnte. Er rettet ein paar Dutzend Bücher vor den Flammen, versteckt sie in seinem Haus und vor seiner an Konsum und Seifenopern verlorengegangenen Frau. Heimlich liest er, zweifelt, befreit sich und wird denunziert (von seiner eigenen, an den Konsum und die Indoktrination verlorengegangenen Frau); er kann fliehen und stößt in einem Waldstück auf ein Refugium der Bildung, auf eine sanfte, innerliche Widerstandsinsel, eine Traditionskompanie, eine Hundertschaft von Waldgängern: Leser wandeln auf und ab und lernen ein Werk auswendig, das ihnen besonders am Herzen liegt, um es ein Leben lang zu bewahren, selbst dann noch, wenn das letzte Exemplar verbrannt wäre.
Ich korrespondiere derzeit mit einem bald Achtzigjährigen, der insgesamt sieben Jahre im Gefängnis verbrachte und in dieser Zeit nichts für seinen Geist vorfand als das, was er darin schon mit sich trug. In Dunkelhaft war er allein mit den memorierten Gedichten, Dramenstücken, Prosafetzen, und er war dankbar für jede Zeile, die er in sich fand. Er kannte Fahrenheit 451 noch nicht und las begierig wie ein Student (wie er mir schrieb). Und er schrieb, daß er in Montags Waldstück keinen Prosatext verkörpern würde, wenn er dort wäre, sondern fünfhundert Gedichte – den Ewige Brunnen sozusagen.
Und Sie?
Ellen Kositza:
Nicht jeder kann Bradbury auswendig können
Ich will direkt an Kubitscheks Bradbury-Text anknüpfen: Sein leicht verbrämter Aufruf, das Memorieren poetischer Texte einzuüben, kommt aus berufenem Munde. Kubitschek kann mehr Gedichte aufzusagen, als ich je gelesen habe, gar auf russisch, ohne daß er die Sprache beherrschte. Ein seltener Fleiß, ich werde mir keine Sorgen machen, wenn er mal ins Gefängnis muß.
In der zeitgenössischen Pädagogik ist vor lauter Selberdenkenmüssen das Auswendiglernen ja stark in den Hintertreffen geraten. Unsere Kinder tun sich nicht besonders schwer damit, es wird ihnen aber kaum – und stets nur minimal – abverlangt. Nun kam es hier im Hause kam öfters vor, daß die müden Kinder inmitten des Abendgebets gähnen mußten; ein bekanntes Phänomen, das dem Nachlassen der Konzentration und weniger mangelnder Frömmigkeit anzulasten ist. Nun lernen wir seit einigen Monaten das Vaterunser in verschiedenen Sprachen, mühsam Zeile für Zeile zwar (so daß für jede Sprache mehrere Wochen benötigt werden), aber die abendliche Leistung zeigt Wirkung; kein Gähnen mehr.
Jetzt gibt es vermehrt Leute, die sich ihre Lieblingszeilen nicht so gut merken können. Es hat nicht jeder den Kopf dafür. Es gilt nicht mehr für gänzlich unzivilisiert, sich ein nettes Lebensmotto mit Farbe unter die Haut ritzen zu lassen. Dann kann man es stets nachlesen oder sich wenigstens vorlesen lassen. Bekanntermaßen hat sich Roman, der deutsche Kandidat des Europäisches Liederwettbewerb, ein gewichtiges Lebensmotto (samt Mikro!) auf die Brust stechen lassen: Never fearful, always hopeful. Eine hübsche, gleichsam allgemeingültige Ermunterung!
Internationale Sangesgrößen haben es ihm vorgemacht. Rihanna trägt die Weisheit never a failure, always a lesson auf der Haut, Katy Perry schürft noch tiefer und ließ sich (Sanskrit!!) Anungaccati Pravaha!, zu deutsch „Go with the flow!“ stechen, und der intellektuell unangefochtene Star des Pophimmels, Lady Gaga, uferte gar aus und verewigte ihren „Lieblingslyriker Rilke“ mit folgen Worten auf einem Körperteil:
“Prüfen Sie, ob er in der tiefsten Stelle Ihres Herzens seine Wurzeln ausstreckt, gestehen Sie sich ein, ob Sie sterben müßten, wenn es Ihnen versagt würde zu schreiben. Dieses vor allem: Fragen Sie sich in der stillsten Stunde Ihrer Nacht: Muss ich schreiben?“
Aber auch (noch) wenig prominente Zeitgenossen mögen es philosophisch-lyrisch. Jessica, Studentin und Trägerin der Playboy-Preises „Cybergirl des Monats“ läßt auf ihrer glatten Haut in wunderschön geschwungener Schrift das Cicero zugewiesene Motto Dum spiro spero blitzen, und jüngst kamen mir hier im wirklich ländlichen Landkreis zwei weitere tätowierte Kalligraphien unter´s Auge: Einmal in fetter Fraktur an strammer Männerwade unterhalb eines kahlrasierten Schädels Carpe Diem, andermal , als Schultertext: Mann muß Chaos in sich tragen, um einen tanzenden Stern zu gebären. Nietzsche hatte , glaub ich, „man“ geschrieben, aber er schrieb wohl mehr so für Männer, und der Spruchträger war tatsächlich männlichen Geschlechts, also hatte ja alles seine Richtigkeit.
Nun mag mancher Tätowierungen an sich für ein Zeichen von Asozialität halten. Wir mögen es mit Güte betrachten: Schlägt sich darin nicht eine Sehnsucht nach Dauer, nach Absolutheit, nach Schwur und Eid nieder? Nicht jeder hat Geld, Zeit, Fähigkeit und Phantasie, ein Haus zu bauen, einen Baum zu pflanzen, ein Kind zu zeugen. Wenn er schon die eigene Haut zu Markte tragen muß, dann wenigstens symbolisch aufgeladen! Nun fragt sich manche/r schlicht: womit bloß? Stellvertretend möchte ich “ Adrijanaa“ zitieren, die auf einem Forum namens gofeminin händeringend fragt:
Hallo zusammen!
Ich liebe Tattoos und möchte endlich selbst eins haben. Habe mich für ein Zitat auf dem Schulterblatt entschieden (so ähnlichw ie bei Megan Fox). Das Problem: Mir föllt keins ein. Es ist schon irgednwie blöd im Internet nach zu fragen, aber ich bin momentan einfach sowas von einfallslos. Ich lege in diesem Fall auch nicht viel Wert darauf, ob jemand diesen Spruch schon auf eienr Körperstelle besitzt oder nicht. Ein englischer Zitat wäre am besten. Es können Weisheiten, Zitate aus Songlyrics oder Filmen sein. Falls ihr ein paar Ideen habt, wäre ich sehr froh darüber, was von euch zu hören!LG, Adi
Die Adi wurde dann von einigen „Mitusern“ nachdrücklich gefragt, ob sie denn nicht selbst auf ein paar fesche Zitate käme, die ihr aus der „Seele“ sprächen. Aber:
Ich überleg ja schon die ganze Zeit. . . Hab einige gute Lieder, die ich ganz gerne mag, aber die Texte sind manchmal zu primitiv für ein Tattoo. . . Es ist nicht so einfach
Dabei ist es eben doch ganz einfach! Es gibt bereits einige Netzseiten mit hübschen Sprüchen, die unter die Haut gehen könnten. In einem entsprechenden Ratgeberforum für tätowierbare Sprüche habe ich den hier gefunden:
Wer singt und lacht, braucht Therapie.
Alfred Adler
Das ist tiefsinnig, und mit etwas Mühe könnte man es sogar auswendig lernen – für den Fall, daß man das Zitat im Nacken oder auf dem Po unterbringen will.
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mardi, 29 mai 2012
La chevauchée littéraire, devenue mythique d’Artus
La chevauchée littéraire, devenue mythique d’Artus
Hervé Glot
Ex: http://metamag.fr/







Pierre Joannon
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vendredi, 25 mai 2012
Simon Leys, l’intempestif
Simon Leys, l’intempestif
Un des rares écrivains vivants que l’on devrait déclarer d’utilité publique
En ce temps-là, tout anticommuniste était un chien. Achat obligé en Chine sous peine de travaux forcés, le Petit Livre Rouge se vendait comme des petits pains à Saint-Germain-des-Prés. Philippe Sollers s’exaltait à traduire les poèmes du Grand Timonier dans Tel Quel. Et parce qu’il avait osé le premier un essai critique sur la Révolution culturelle avec Les Habits neufs du président Mao (1971), la sinologue maoïste Michelle Loi ne trouvait rien de plus honnête que de révéler le véritable patronyme de Simon Leys dès le titre de son libelle contre lui Pour Luxun. Réponse à Pierre Ryckmans (Simon Leys), espérant ainsi que celui-ci devienne persona non grata en Chine. Il est vrai que l’on ne s’en prenait pas comme ça à la « Révo. Cul. » et à ses laudateurs dont Jean-François Revel dirait plus tard que s’ils n’avaient pas de sang sur les mains, ils en avaient sur la plume.
Autant le négationnisme nazi arriva après le nazisme, autant le négationnisme stalinien et maoïste commença tout de suite, et non par le biais de quelques extrémistes délirants et isolés, du reste immédiatement exclus des thébaïdes intellectuelles mais bien par celui de l’ensemble des maîtres-censeurs du Flore et dont certains sont toujours honorés sur les plateaux de télévision, tel l’inoxydable Alain Badiou qui se donne encore le droit, comme le rappelle, mi-consterné mi-amusé, Leys, d’écrire à propos de Lénine, Staline, Mao, Guevara et autres bienfaiteurs du XXème siècle qu’ « il est capital de ne rien céder au contexte de criminalisation et d’anecdotes ébouriffantes dans lesquelles depuis toujours la réaction tente de les enclore et de les annuler. » Rien que pour cette piqûre de rappel, d’autant plus nécessaire que l’amnésie historique, partie intégrante du programme totalitaire, continue, comme l’a bien vu Frédéric Rouvillois, à être la règle auprès d’un grand nombre d’intellectuels, la lecture de ce Studio de l’inutilité devrait être déclarée d’utilité publique. En vérité, ce Belge qui résista aux tanks de l’intelligentsia des années 70 et suivantes, fut notre homme de Tian’anmen à nous.
Pour autant, l’intérêt de ce Studio n’est pas seulement d’ordre purgatif. Intempestif en politique, Simon Leys l’est tout autant en littérature – et c’est là que le plaisir commence. Esprit curieux, érudit toujours plaisant, il n’est jamais là où on l’attend. Peut-être est-ce dû à cette « belgitude » qui, comme chez Henri Michaux sur lequel s’ouvre ce recueil d’essais, est la marque d’une carence originelle, d’une « conscience diffuse d’un manque » que l’auteur de L’ange et le Cachalot va tenter de compenser par la singularité et le paradoxe – l’inadaptation étant toujours la chance de l’esprit libre. Et l’adaptation trop grande provoque la malchance de l’artiste – celle qui finira par toucher Michaux lui-même qui, en voulant, à la fin de sa vie, corriger son œuvre de sa spontanéité originelle, la gâchera en lui donnant un tour bien trop culturel pour être artistique. C’est qu’entre temps, Michaux sera pour sa gloire et son malheur devenu français – c’est-à-dire à l’époque un intellectuel de gauche se rangeant à l’opinion la plus avantageuse et la plus dépravée, au fond la plus utile, celle qui permet, écrit Simon Leys, de « délivrer des brevets de bonne conduite et des médailles récompensant l’effort méritant, qu’il s’agisse de la Chine de Mao ou du Japon d’après guerre » et qu’il se serait sans doute bien gardé de faire s’il était resté belge.
Se garder de tous les clichés de la « francitude », au risque de perdre les pouvoirs qu’elle donne, telle sera la probité de Simon Leys qui, à l’instar de Simone Weil qu’il admire, choisira toujours la justice plutôt que son camp. En plus de rester fidèle à ses goûts, ce qui dans notre pays où tout le monde aime ou déteste la même chose est aussi une preuve d’héroïsme. Ainsi, lorsqu’Antoine Gallimard et Jean Rouaud le contactent pour savoir quel est pour lui « le roman du XX ème siècle », il ne propose pas, comme tout un chacun, l’énième chef-d’œuvre de Céline, Proust ou Kafka, mais remet à l’honneur d’autres titres moins côtés quoique tout aussi importants, tels Le nommé Jeudi de Chesterton et L’agent secret de Conrad, deux romans qui mettent en scène terroristes et contre-terroristes et qui à leur manière parlent de cette possession révolutionnaire qui fut la marque abominable du XX ème siècle et qu’un Dostoïevski avait déjà anticipée dans ses Possédés. Paradoxe personnel de Leys dont on connaît l’amour de la mer mais qui choisit de Conrad, l’un des plus grands écrivains maritimes s’il en est, le roman le plus urbain, le moins épique, et qui en guise d’eau ne parle que de la pluie londonienne. Mais cohérence métaphysique de Leys qui voit dans cet Agent secret la volonté de Conrad, apatride comme lui, de décrire la terrifiante réalité européenne du début du siècle avec ses conspirations prométhéennes, son nihilisme délirant, sa future violence continentale.
A l’instar de René Girard et de Conrad, Leys est un romantique qui connaît mieux que personne les mensonges du romantisme que seul l’art romanesque peut dévoiler. Y compris ceux qui se mêlent justement de mer et de navigation, sa passion-répulsion. Car la mer réelle n’est pas celle qu’ont fantasmée nombre d’auteurs (et parmi les plus grands comme Baudelaire), en faisant une sorte d’évasion du quotidien, d’horizon paradisiaque, d’aventure féérique comme la rêvait le pauvre Marius dans la trilogie de Pagnol. Non, la vérité que seuls les marins savent mais taisent est que « la mer est invivable ». La mer est stupide, plate, monotone, stérile, cruelle. La mer rappelle que la Nature n’est pas cette bonne maman accueillante sur laquelle se sont pâmés Charles Trenet et Renaud mais bien cette marâtre qui traite sans pitié les hommes et les marins de surcroît. Le « rêve nautique » est plein de noyade, de scorbut, de discipline inhumaine – aussi faux et aussi mortifère que le rêve maoïste. Mais l’amnésie poétique a la vie aussi dure que l’amnésie idéologique. Que sait-on exactement de Magellan et de son voyage aussi héroïque qu’infernal (et qu’il ne termina pas, se faisant tuer à mi-route par des indigènes philippins) ? Au-delà de la performance, indiscutable pour l’époque, de ce premier tour du monde et qui allait changer la donne du monde, « ce que l’expédition démontra – faisant de Magellan l’involontaire ancêtre idéologique de la globalisation, c’est la circumnavigabilité du globe : tous les océans communiquent. »
A partir de Magellan, le monde ne sera en effet plus qu’une affaire de communication, commercialisation, médiatisation, aliénation – et mal de mer. Alors, certes, on peut toujours rêver d’une cité parfaite, comme celle qu’organisèrent pour un temps sur leur île les fameux « naufragés des Auckland » en 1865 (et qui inspirera à Jules Verne quelques années plus tard son Ile mystérieuse), on peut toujours rêver, à l’instar de Simon Leys lui-même, d’une université castalienne où professeurs et étudiants se retrouveraient pour la seule quête de la connaissance pure et de la vérité désintéressée (quoique, rajoute malicieusement l’auteur, « les étudiants constituent un élément important, mais pas toujours indispensable » !), l’on peut toujours imaginer une tour d’ivoire aristocratique dans laquelle se protéger du monde, le problème est que, comme le disait Flaubert, l’on ne pourra jamais éviter cette « marée de merde [qui] en bat les murs, à les faire crouler. » La merde de l’utile, évidemment.
Simon Leys, Le Studio de l’inutilité, Flammarion, 2012.
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jeudi, 24 mai 2012
Le Dictionnaire des polémistes
Un nouveau Bouquin de Synthèse nationale :
Le Dictionnaire des polémistes,
d'Antoine de Rivarol à François Brigneau,
Tout au long de l’année 2011, Robert Spieler a proposé aux lecteurs de Rivarol, l’hebdomadaire de l’opposition nationale et européenne, une série d’articles consacrés aux polémistes qui marquèrent l’histoire de la presse depuis la Révolution française, jusqu’au milieu du XXe siècle. Il reprend ainsi le travail effectué par Pierre Dominique dans son ouvrage publié au début des années 60 (et aujourd’hui épuisé) Les Polémistes français depuis 1789.
Ce Dictionnaire des polémistes rassemble tous ces articles. Vous retrouverez ici les grands noms qui, en leur temps, marquèrent les esprits. Ils n’hésitaient pas à dénoncer les puissants du moment. Beaucoup parmi eux payèrent très cher leur engagement. Aujourd’hui, la liberté d’expression se heurte encore aux ukases du politiquement correct et, comme hier, des lois liberticides, beaucoup plus insidieuses sans doute, empêchent les vrais polémistes de s’exprimer…
Robert Spieler, ancien député, fondateur d’Alsace d’abord, Délégué général de la Nouvelle Droite Populaire, est aussi l’un des journalistes de l’hebdomadaire Rivarol. Chaque semaine il décortique avec délectation et cynisme l’actualité dans sa fameuse Chronique de la France asservie et résistante.
■ Commandez le Dictionnaire des Polémistes :
Règlement à la commande par chèque à l’ordre de Synthèse nationale à retourner à :
Synthèse nationale 116, rue de Charenton 75012 Paris
18, 00 € l’exemplaire (+ 3 € de port)
Bulletin de commande : cliquez ici
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mardi, 22 mai 2012
Maurice Bardèche, Européen fidèle
Maurice Bardèche, Européen fidèle
par Georges FELTIN-TRACOL
Après avoir écrit pour la même collection la biographie condensée d’Henri Béraud, de Léon Daudet, de Henry de Monfreid, de Hergé et de Saint-Loup, Francis Bergeron évoque cette fois-ci la vie d’une personne qu’il a bien connue : Maurice Bardèche.
On sait que Bardèche fut l’exemple-type de la méritocratie républicaine hexagonale. Ce natif d’un village du Cher en 1907 montra très tôt de belles dispositions intellectuelles pour l’étude et la littérature. Excellent élève, ce boursier se retrouve à l’École normale supérieure (E.N.S.) où il allait côtoyer une équipe malicieuse constituée de José Lupin, de Jacques Talagrand (le futur Thierry Maulnier) et de Robert Brasillach, l’indéfectible ami. « Brasillach lui fait du thé, lui offre des gâteaux catalans. Mais la culture littéraire de Brasillach date un peu; Bardèche lui fait découvrir à son tour Proust, alors qu’il vient d’obtenir le prix Goncourt, Barrès, dont les funérailles nationales datent tout juste de deux ans, et Claudel, ancien de Louis-le-Grand, dont l’œuvre est déjà reconnue (p. 16). »
À l’E.N.S., Maulnier et Brasillach commencent à publier dans la presse tandis que « Bardèche […] se destine réellement à l’enseignement supérieur, et […] voit son avenir dans l’approfondissement de la connaissance des grands textes et des grands auteurs (p. 20) ». À côté de sa passion littéraire, Maurice Bardèche éprouve de tendres sentiments pour la sœur de son ami Robert, Suzanne Brasillach. Ils se marient en juillet 1934 et partent en voyage de noce pour l’Espagne en compagnie de Robert qui vivra avec eux jusqu’en 1944 ! Francis Bergeron raconte qu’au cours de ce voyage, Maurice Bardèche faillit mourir dans un accident de la route. Bardèche fut trépané et conserva sur le front un « enfoncement dans le crâne (p. 26) ».
On ne va pas paraphraser cet ouvrage sur le talentueux parcours universitaire de Bardèche qui suscita tant d’aigreurs et de jalousie. Sous l’Occupation, si Robert Brasillach travaille à Je suis partout, Bardèche préfère se tenir à l’écart des événements et se dévoue à Stendhal et à Balzac. Or le mois de septembre 1944 marque un tournant majeur dans la destinée du jeune professeur : il est arrêté, puis emprisonné. Il voit ensuite son cher beau-frère jugé, condamné à mort et exécuté le 6 février 1945. Dorénavant, « la vie et, plus encore, peut-être, le martyre et la mort de Robert [vont] occup[er] une place centrale tout au long de l’existence de Maurice (p. 43) ». Guère attiré jusque-là par la politique, Maurice Bardèche s’y investit pleinement et va produire une œuvre remarquable, de La lettre à François Mauriac (1947) à Sparte et les Sudistes (1969). En outre, afin de publier les œuvres complètes de Robert Brasillach, il fonde une maison d’édition courageuse et déjà dissidente, Les Sept Couleurs.
Le respectable spécialiste de littérature du XIXe siècle se mue en fasciste, terme qu’il endosse et qu’il revendique d’ailleurs fièrement dans Qu’est-ce que le fascisme ? (1961). Dès la fin des années 1940, il se met en relation avec d’autres réprouvés européens dont les militants du jeune M.S.I. (Mouvement social italien). En 1952, il participe au célèbre congrès de Malmö qui lance le Mouvement social européen dont le bulletin francophone est Défense de l’Occident (titre ô combien malvenu, car les positions qui y sont défendues ne rappellent pas l’occidentalisme délirant d’Henri Massis – il faut comprendre « Occident » au sens d’« Europe » et de « civilisation albo-européenne pluricontinentale »). Sorti en décembre 1952, ce titre est dirigé par Bardèche. Si le M.S.E. s’étiole rapidement, miné par des divergences internes et des scissions, Défense de l’Occident devient une revue qui accueille aussi bien les nationaux que les nationalistes, les nationalistes-révolutionnaires que les traditionalistes. La revue disparaîtra en novembre 1982. Francis Bergeron n’en cache pas l’ensemble inégal du fait, peut-être, d’une forte hétérogénéité thématique visible à la lecture de ses nombreux collaborateurs.
Par fascisme, Bardèche soutient une troisième voie hostile au capitalisme et au socialisme. Mais son fascisme, anhistorique et éthéré, cadre mal avec les réalités historiques du fascisme. Dès 1963 dans L’Esprit public, Jean Mabire rédigeait un article roboratif intitulé « L’impasse fasciste » repris successivement dans L’écrivain, la politique et l’espérance (1966), puis dans La torche et le glaive (1994). Au-delà des blessures vives de la Seconde Guerre mondiale, « Maît’Jean » esquissait de nouvelles perspectives européennes et authentiquement révolutionnaires.
Déjà marqué par son fascisme assumé, Maurice Bardèche accepte d’être un paria de l’histoire parce qu’il ose un avis révisionniste sur les événements contemporains. « Ses exercices de “ lecture à l’envers de l’histoire ”, comme il les appelle lui-même, font partie des points les plus détonants de son discours. Ils démontrent son courage tranquille, et ne peuvent que susciter l’admiration. Sur le fond, il y aurait certes beaucoup à dire, explique Bergeron. De toute façon, comme l’a rappelé Bardèche lui-même à Apostrophe, on ne peut plus s’exprimer librement sur ces questions (p. 87). » Saluons toutefois sa clairvoyance au sujet de la mise en place d’une justice internationale mondialiste. Déjà prévue dans l’abjecte traité de Versailles de 1919, cette pseudo-justice planétaire se réalise à Nuremberg et à Tokyo avant de réapparaître dans les décennies 1990 et 2000 à La Haye pour l’ex-Yougoslavie, à Arusha pour le Rwanda et avec l’ignominieuse Cour pénale internationale qui veut limiter la souveraineté des États.
Tout en étant fasciste et après avoir prévenu en 1958 le camp national du recours dangereux à De Gaulle, Maurice Bardèche n’hésite pas à vanter le caractère fascisant des régimes de Nasser et de Castro, et à faire preuve dans Défense de l’Occident d’une grande lucidité géopolitique. « Bardèche […] faisait bouger les lignes de la vision géopolitique de son camp (p. 67). » Cet anti-sioniste déterminé encourage le panarabisme et, dès l’automne 1962, appelle les activistes de l’Algérie française à délaisser leur nostalgie et à relever le défi de la nouvelle donne géopolitique. Il est l’un des rares à cette époque à prôner une entente euro-musulmane contre le condominium de Yalta.
C’est sur la question européenne que Maurice Bardèche a conservé toute sa pertinence. Quand on lit L’œuf de Christophe Colomb (1952) ou Sparte et les Sudistes, on se régale de ses fines analyses. Bardèche réfléchissait en nationaliste français et européen. À la fin de l’opuscule, avant l’habituelle étude astrologique de Marin de Charette et après les annexes biographiques, bibliographiques, de commentaires sur Bardèche et de quelques-unes de ses citations les plus marquantes, Francis Bergeron reproduit l’entretien que lui accorda Bardèche dans Rivarol du 5 avril 1979 (avec les parties supprimées ou modifiées par Bardèche lui-même). Cet entretien est lumineux ! « Devons-nous accepter […] de ne pas nous défendre contre la concurrence sauvage, déclare Bardèche, accepter le chômage, le démantèlement d’une partie de notre industrie, la dépendance à laquelle nous risquons d’être contraints ? » On croirait entendre un candidat à l’Élysée de 2012… Le sagace penseur de la rue Rataud estime que « l’Europe qu’on nous prépare ne sera qu’un bastion avancé d’un empire économique occidental dont les États-Unis seront le centre »… Il prévient qu’« il ne faut pas que l’Europe ne soit que le cadre agrandi de notre impuissance et de notre décadence », ce qu’elle est désormais. Il importe néanmoins de ne pas rejeter l’indispensable idée européenne comme le font les souverainistes nationaux. L’Europe demeure plus que jamais notre grande patrie civilisationnelle, identitaire et géopolitique. « L’Europe indépendante constitue un idéal ou plutôt un objectif », juge Bardèche avant d’ajouter, prophétique, que « la crise économique peut nous aider à la faire plus vite qu’on ne le croit ».
Ce nouveau « Qui suis-je ? » est bienvenu pour découvrir aux plus jeunes des nôtres l’immense figure de ce fidèle Européen de France, ce magnifique résistant au politiquement correct !
Georges Feltin-Tracol
• Francis Bergeron, Bardèche, Pardès, coll. « Qui suis-je ? », (44, rue Wilson, 77880 Grez-sur-Loing), 2012, 123 p., 12 €.
Article printed from Europe Maxima: http://www.europemaxima.com
URL to article: http://www.europemaxima.com/?p=2520
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lundi, 21 mai 2012
Le Bulletin célinien n°341 - mai 2012
Le Bulletin célinien n°341 - mai 2012
- Marc Laudelout : Bloc-notes
- *** : Hommages à Claude Duneton
- Benoît Le Roux : Céline vu de Rennes en mars 1939
- Louis La Motte-Meurdel : Bagatelles pendant un massacre ou Céline à Rennes [1939]
- Paul Werrie : Entre Céline et Robert Poulet
- B. C. : Une version célinienne du mythe de Babel (2)
Un numéro de 24 pages, 6 € franco.
Le Bulletin célinien, B. P. 70, Gare centrale, BE 1000 Bruxelles.
Le Bulletin célinien n°341 - Bloc-Notes

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jeudi, 17 mai 2012
Yukio Mishima: Man of Pure Action
Yukio Mishima: Man of Pure Action
In Action, Contemplation, and the Western Tradition, Julius Evola writes that action can take on the qualities of ‘Being’ only if the action is ‘pure.’ According to Evola, the pure act does not aim at “contingent and particular fruits, considering as the same happiness and calamity, good and evil, even victory and defeat, looking neither at the ‘I’ nor at the ‘you’, overcoming love as well as hatred and any other pair of opposites.”
Evola sees a man in the motion of a pure act as becoming truly free. In it, such a man breaks away from the bonds of individualism and everything that grounds him to the material order of things. Here, man can act from “the deep and in a way supra-individual core of being” and with a quality that “never varies, divides, or multiplies: they are a pure expression of the self,” as Evola writes in Ride the Tiger.
Evola explains that pure action is taken regardless of the pleasure or pain implied in one of its acts. This does not mean that pure action is devoid of pleasure, but rather it enjoys only heroic pleasure, or the superior pleasure derived from “decisive action that comes from ‘being’.” Evola considers in the realm of ‘heroic pleasure’ the type of pleasure that is derived from “action in its perfection” or actions that require training to the point of becoming an acquired skill.
A popular literary figure who lived and died embodying these principles is Yukio Mishima. Although in no way associated with the Traditionalist school and more of an intellectual than a strict metaphysician, Mishima sought the revival of the Samurai “Tradition” and attempted to live his life by the code and ethics described in the Hagakure, despite his living in an era far more decadent and removed from Tradition than the one Hagakure’s writer, Yamamoto Tsunetomo, lived in and sought to overcome.
Mishima famously committed suicide in the traditional Seppuku way after taking several capitalist governmental figures hostage. Mishima’s obsession with death and his suicide can be interpreted as conformance with the Hagakure’s dictate that the Samurai “decide to die” and the advice that it should probably be done before old age because by that time one would likely have little reason to continue living. Mishima’s suicide should also be seen as an expression of the pure act though.
Scorning modern man’s and Japan’s loss of tradition and contempt for the body, Mishima died not as a martyr for his cause and much less a savior for his people, but instead, he died in service to the pure idea. Mishima overcame petty individuality and in his act died as a Samurai. Mishima himself wrote that he wished to “achieve pure action that admitted of no imagination, either by the self or by others” in Sun and Steel. Mishima clearly acquired Being in its actual sense while making death his heroic pleasure.
Throughout Mishima’s text, other Traditional attitudes can be observed. Mishima explains that the “glorification of individual style in literature” is “no more than a beautiful ‘perversion of words’.” Here, Guenon’s observation that art is first reduced to Quantity through the introduction of “individuality” is seen.
Mishima also saw a universality in man from what was highest in him as opposed to the lowest. Despising the frailty of his youth, Mishima used body building to strip “my muscles of their unusualness and individuality.” Doing this, he realized “the triumph of knowing that one was the same as others.” Using both words and muscles, Mishima did not deny his individuality or being, but achieved the supra-individuality Evola referred to. He used both to “universalize my own individuality” and created a “general pattern in which individual differences ceased to exist.”
Mishima undoubtedly captures the spirit of the warrior in Sun and Steel, but he also has the powers of the spiritual/intellectual class as well. He would fit the mold of Evola’s conception of the early Brahmin. Mishima himself stated that contemplation to the point of discounting the body leads to a “steadily perverted and altered reality.” Instead, through an asceticism of strength, Mishima claimed to have found “a reality that rejected all attempts to make it abstract… that flatly rejected all expression of phenomena by resort to abstraction.”
Here, the problem of the modern notion of spirituality as abstract, renouncing, and soft is solved. Like Buddha, Mishima combated the infernal becoming of the Kali Yuga by developing a spirituality that sought direct contact with reality, overcoming what he saw as the nihilism of this state by living a philosophy of steel and pure action.
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lundi, 07 mai 2012
Ernst Jünger, 102 years in the heart of Europe (English subtitles)
Ernst Jünger, 102 years in the heart of Europe (Swedish comments - German answers of Jünger - English subtitles)
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dimanche, 06 mai 2012
Du chevalier au cuirassier Destouches : l'art du pamphlet comme un art de la guerre
Du chevalier au cuirassier Destouches : l'art du pamphlet comme un art de la guerre
par J.-Fr. Roseau
Ex: http://www.lepetitcelinien.com/
Étude comparée de la violence polémique et critique chez Jules BARBEY D'AUREVILLY et Louis-Ferdinand CÉLINE
Les prétentions aristocratiques de Céline, léguées par les récits d’un modeste employé d’assurance hanté par le mythe de la déchéance, ne relèvent pas seulement d’une reconstruction délirante ou fantasmatique du passé familial, mais tirent leur légitimité d’une généalogie désormais attestée. Comme le chouan du même nom, chargé d’informer les troupes royalistes émigrées sur les côtes anglaises durant les guerres révolutionnaires, la souche paternelle des Destouches est originaire de la Manche. Issu en ligne directe des seigneurs de Lantillère, comme il se plaît à l’indiquer dans une lettre adressée à une amie d’enfance (1), Louis-Ferdinand Céline descend d’un cousin éloigné au dixième degré de Jacques Des Touches de La Fresnaye, érigé en figure historique par le texte éponyme de Jules Barbey d’Aurevilly (2). La lumière faite sur l’ascendance aristocratique de Céline, le métier des armes devenait un devoir. Pour autant, du Chevalier au cuirassier, fallait-il en conclure une même culture guerrière, exprimée, à plus d’un siècle de distance, dans le maniement conjoint du sabre et de la plume ?
Quant à Barbey, sa posture chevaleresque est un appel du sang (3). Vaguement unis par ces lointaines racines, normandes et nobiliaires, mais plus encore par une verve brillante de polémiste forcené, ces deux atrabilaires ont une vénération commune pour l’art de batailler, et perçoivent l’écriture comme un jet d’amertume et de rage libéré. Si Barbey comme Céline ont excellé dans la carrière des Lettres en ferraillant contre la pensée dominante, c’est avant tout par l’adoption d’une langue radicale et cruelle, portant ouvertement l’empreinte d’une virulence martiale à la fois séduisante, ivre et brutale. On a pu évoquer çà et là les parentés éthiques et idéologiques de ces deux écrivains réduits à l’isolement à force de convictions politiquement anachroniques et moralement douteuses. Pourtant, noyée dans le bruit parasite de leur époque, leur voix hargneuse et provocante n’en a pas moins sonné comme un ultime refus de ce que l’opinion posait comme vérité définitive.
De la critique considérée comme un art militaire
« Je devrais être aujourd’hui […] le maréchal d’Aurevilly », écrit Barbey à la veille de sa mort, lui qui rêvait d’une « existence passionnée, fringante, vibrante, même cahotée, pleine d’un bruit essentiellement militaire, un tumulte de charges endiablées et de sonneries éclatantes, avec le faste attirant d’uniformes empourprés et d’aiguillettes d’or sautillantes dans le galop des purs-sang » (4). Cette phrase, d’ailleurs, n’est pas sans faire penser au rythme haletant des trompettes céliniennes. Il y a chez eux un souffle épique qui tient de l’assaut littéraire. A défaut du bâton de maréchal, il aura obtenu l’honneur non moins glorieux d’être nommé « connétable des Lettres françaises ». Céline, en revanche, gradé maréchal des logis à quelques mois de la déclaration, a vécu le baptême douloureux du feu comme un fait structurant de son évolution morale, littéraire et idéologique (5). Pessimistes, Céline et Barbey d’Aurevilly le sont tous les deux face à l’espérance vaine et fallacieuse d’un progrès de l’humanité. Ils s’escriment l’un et l’autre contre la nonchalance facile des donneurs de leçons collectives qui, sur fond d’humanisme éclairé et de bonté philanthropique, prennent la défense du faible contre la brute intolérante et fanatique.
Du catholique hystérique à l’antisémite enragé
Polémique contre Sartre et Zola : la haine de l’intellectuel
Autre point commun de l’anti-intellectualisme aurevillien et célinien, la négation systématique du talent. Zola, par exemple, n’invente rien. C’est un « singe de Balzac dans la crotte du matérialisme ». Il apparaît ainsi comme une hydre sans unité, dont Barbey refuse tout talent littéraire au-delà du pastiche. Sa chair, dit-il encore, « est faite des chairs mêlées de Victor Hugo, Théophile Gautier et Flaubert ». La méthode satirique de Céline use des mêmes procédés. Le prétendu génie de Sartre ne dépasse pas celui d’un lycéen fort en thème ou d’un plagiaire habile. Sartre, en somme, est un « Lamanièrdeux… » !
Au-delà des analogies littéraires et critiques entre les deux auteurs, il existe également une convergence idéologique marquée par le refus des idéaux démocratiques et progressistes. On a déjà pointé les ressemblances du conservateur royaliste et du patriote pacifiste sous la notion d’ « anarchisme de droite » (15). Mais plus encore que son isolement face aux idées du temps, c’est bien l’art impétueux de ses écrits polémiques, drôles et sinistres à la fois, qui fait du cuirassier Destouches l’héritier littéraire de l’auteur inquiétant du Chevalier Destouches.
2 - Le Chevalier Des Touches paraît pour la première fois en 1864.
5 - Pour H. Godard, l’expérience martiale de Céline « restera la référence absolue » en littérature comme en politique, cf. Céline scandale, Paris, Gallimard, 1998, p. 47.
7 - L.-F.Céline, D’un Château l’autre, Paris, Gallimard, « coll. Folio », 1957, p. 30.
8 - « Le Catholique hystérique », dans E. Zola, Mes Haines, Paris, G. Charpentier, 1879, pp. 41-55.
11 - L.-F. Céline, A l’agité du bocal, Paris, Herne, 1995, 85 pages.
12 - Correspondance générale, t. VI, Paris, Les Belles Lettres, 1986, p. 203.
13 - L.-F. Céline, Entretien avec le professeur Y, dans Romans, IV, Paris, Gallimard, « Bibliothèque de la Pléiade », 1993, p. 497 : « les impuissants regorgent d’idées ».
15 - Céline et Barbey servent d’exemples emblématiques à l’ouvrage de François Richard, cf. « La haine des intellectuels, dans Les Anarchistes de droite, Paris, Presses Universitaires de France, 1997
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lundi, 23 avril 2012
Ce qui doit être dit, par Günter Grass
Ce qui doit être dit, par Günter Grass (Traduction)
Ex: http://antoinechimel.hautetfort.com/
Pourquoi je ne dis pas
pourquoi ai-je tu pendant trop longtemps
ce qui est pourtant évident
et a fait l’objet de tant de simulations
dans lesquelles nous, les survivants,
sommes au mieux des notes de bas de page.
On évoque le droit à une frappe préventive,
l’éradication du peuple iranien soumis,
tenu à une liesse sans joie par un fort en gueule,
sous prétexte que ce potentat construirait une bombe atomique.
Mais alors, pourquoi m’interdis-je
de nommer cet autre pays
qui dispose depuis des années,
certes dans le plus grand secret,
d’un potentiel nucléaire croissant
et échappant à tout contrôle,
puisque aucun contrôle n’est permis ?
Le silence général autour de ce fait établi,
ce silence auquel j’ai moi-même souscrit,
je le ressens comme un mensonge pesant,
une règle que l’on ne peut rompre
qu’au risque d’une peine lourde et infâmante :
le verdict d’antisémitisme est assez courant.
Mais aujourd’hui, alors que mon pays
coupable de crimes sans commune mesure,
pour lesquels il doit rendre des comptes encore et encore,
mon pays donc, dans un geste purement commercial,
certains parlent un peu vite de réparation,
s’en va livrer un nouveau sous-marin à Israël,
un engin dont la spécialité est d’envoyer
des ogives capables de détruire toute vie
là où l’existence de ne serait-ce qu’une seule
bombe nucléaire n’est pas prouvée,
mais où le soupçon tient lieu de preuve,
je dis ce qui doit être dit.
Pourquoi me suis-je tu aussi longtemps ?
Parce que je croyais que mes origines,
entachées par des crimes à jamais impardonnables,
m’interdisaient d’exprimer cette vérité,
d’oser reprocher ce fait à Israël,
un pays dont je suis et veux rester l’ami.
Pourquoi ne dis-je que maintenant,
vieux, dans un ultime soupir de mon stylo,
que la puissance nucléaire d’Israël
menace la paix mondiale déjà fragile ?
Parce qu’il faut dire maintenant
ce qui pourrait être trop tard demain,
et parce que nous, Allemands, avec le poids de notre passé,
pourrions devenir les complices d’une crime,
prévisible et donc impossible
à justifier avec les excuses habituelles.
Pourquoi je ne dis pas
pourquoi ai-je tu pendant trop longtemps
ce qui est pourtant évident
et a fait l’objet de tant de simulations
dans lesquelles nous, les survivants,
sommes au mieux des notes de bas de page.
On évoque le droit à une frappe préventive,
l’éradication du peuple iranien soumis,
tenu à une liesse sans joie par un fort en gueule,
sous prétexte que ce potentat construirait une bombe atomique.
Mais alors, pourquoi m’interdis-je
de nommer cet autre pays
qui dispose depuis des années,
certes dans le plus grand secret,
d’un potentiel nucléaire croissant
et échappant à tout contrôle,
puisque aucun contrôle n’est permis ?
Le silence général autour de ce fait établi,
ce silence auquel j’ai moi-même souscrit,
je le ressens comme un mensonge pesant,
une règle que l’on ne peut rompre
qu’au risque d’une peine lourde et infâmante :
le verdict d’antisémitisme est assez courant.
Mais aujourd’hui, alors que mon pays
coupable de crimes sans commune mesure,
pour lesquels il doit rendre des comptes encore et encore,
mon pays donc, dans un geste purement commercial,
certains parlent un peu vite de réparation,
s’en va livrer un nouveau sous-marin à Israël,
un engin dont la spécialité est d’envoyer
des ogives capables de détruire toute vie
là où l’existence de ne serait-ce qu’une seule
bombe nucléaire n’est pas prouvée,
mais où le soupçon tient lieu de preuve,
je dis ce qui doit être dit.
Pourquoi me suis-je tu aussi longtemps ?
Parce que je croyais que mes origines,
entachées par des crimes à jamais impardonnables,
m’interdisaient d’exprimer cette vérité,
d’oser reprocher ce fait à Israël,
un pays dont je suis et veux rester l’ami.
Pourquoi ne dis-je que maintenant,
vieux, dans un ultime soupir de mon stylo,
que la puissance nucléaire d’Israël
menace la paix mondiale déjà fragile ?
Parce qu’il faut dire maintenant
ce qui pourrait être trop tard demain,
et parce que nous, Allemands, avec le poids de notre passé,
pourrions devenir les complices d’une crime,
prévisible et donc impossible
à justifier avec les excuses habituelles.
Je dois l’admettre aussi, je ne me tairai plus
parce que j’en ai assez de l’hypocrisie de l’Occident
et j’espère que nombreux seront ceux
prêts à se libérer des chaînes du silence,
pour appeler l’auteur d’une menace évidente
à renoncer à la violence tout en exigeant
un contrôle permanent et sans entraves
du potentiel atomique israélien
et des installations nucléaires iraniennes
par une instance internationale
acceptée par les deux gouvernements.
Ce n’est qu’ainsi que pourrons aider
les Israéliens et les Palestiniens,
mieux encore, tous les peuples,
frères ennemis vivant côte à côte
dans cette région guettée par la folie meurtrière,
et en fin de compte nous-mêmes.
Je dois l’admettre aussi, je ne me tairai plus
parce que j’en ai assez de l’hypocrisie de l’Occident
et j’espère que nombreux seront ceux
prêts à se libérer des chaînes du silence,
pour appeler l’auteur d’une menace évidente
à renoncer à la violence tout en exigeant
un contrôle permanent et sans entraves
du potentiel atomique israélien
et des installations nucléaires iraniennes
par une instance internationale
acceptée par les deux gouvernements.
Ce n’est qu’ainsi que pourrons aider
les Israéliens et les Palestiniens,
mieux encore, tous les peuples,
frères ennemis vivant côte à côte
dans cette région guettée par la folie meurtrière,
et en fin de compte nous-mêmes.
Günter Grass - Ce qui doit être dit
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vendredi, 20 avril 2012
Quando Céline era solo un giovane corazziere in armi nella Grande Guerra
di Andrea Lombardi
Fonte: barbadillo
Louis-Ferdinand Destouches (in arte Céline), uno dei massimi romanzieri del ‘900, dopo il successo del suo libro di esordio Viaggio al termine della notte (1932) e di Morte a credito (1936), e le polemiche suscitate da Bagatelle per un massacro (1938), operò con i suoi romanzi una vera rivoluzione dello stile narrativo, culminata nella cosidetta Trilogia del nord (Nord, Rigodon e Da un castello all’altro). Uomo dalle molte vite, soldato nella prima guerra mondiale, direttore di piantagioni, membro di una commissione sanitaria della Società delle Nazioni, medico di periferia, scrittore, bohemienne, e infine Collabo e reprobo, la prima vita di Céline sarà quella di corazziere a cavallo: infatti Louis Destouches, nato il 27 maggio 1894 a Courbevoie (Parigi) si arruolerà il 28 settembre 1912, con ferma triennale, nel 12eme Régiment Cuirassiers (12° Reggimento Corazzieri) di stanza a Rambouillet, nel dipartimento degli Yvelines nella regione dell’Île-de-France. Il 12eme “Cuir” era un’unità scelta, con una lunga tradizione militare risalente al 1668: creato da Luigi XIV per suo figlio quale Régiment “Dauphin-Cavallerie”, fu rinominato 12° Reggimento di Cavalleria nel 1791 dopo la Rivoluzione Francese. Il reparto si distinse in numerose battaglie: dalle Campagne del Re Sole alle Guerre della Rivoluzione, subordinato all’Armata del Reno; da Austerlitz, Jena e Waterloo a Solferino, alla disastrosa guerra franco-prussiana del 1870-1871. I primi tempi di servizio presso il 12° ben difficilmente potevano ricordare al giovane Louis queste antiche glorie, preso come doveva essere, da buona recluta, a spalare letame, strigliare il pelo dei cavalli e centellinare i pochi spiccoli della diaria, vessato dalla disciplina di ferro dei sottuff’ di carriera, come ricordato d’altronde da lui stesso in Casse-Pipe! Dopo un anno da militare di truppa, Louis è promosso Brigadiere il 5 agosto 1913, e quindi Maresciallo d’alloggio il 5 maggio 1914.
Il 31 luglio, a Saint-Germain, il Reggimento è mobilitato e il 2 agosto si assembra nella regione a sud di Commercy. Louis accoglierà la notizia della guerra con lo stesso entusiasmo patriottico di milioni di giovani come lui in tutta Europa, come testimoniato da questa lettera ai genitori scritta poco prima della partenza per il fronte, tanto diversa per stile e spirito dal Viaggio al termine della notte:
“Cari genitori: l’ordine di mobilitazione è arrivato partiamo domani mattina alle 9 h 12 per Étain nelle pianure della Voevre non credo che entreremo in azione prima di qualche giorno […] è una sensazione unica che pochi possono vantarsi di aver provato […] Ognuno è al suo posto sicuro e tranquillo tuttavia l’eccitazione dei primi momenti ha fatto posto a un silenzio di morte che è il segno di una brusca sorpresa. Quanto a me farò il mio dovere sino in fondo e se per fatalità non dovessi tornare… siate sicuri per attenuare la vostra sofferenza che muoio contento, e ringraziandovi dal profondo del cuore. Vostro figlio”.
Il 12°, al comando del Colonnello Blacque-Belair, e facente parte della 7ª Divisione di Cavalleria, condurrà numerose missioni di ricognizione tra la Wöevre, la Mosa e l’Argonne nell’agosto e settembre 1914: il terreno dove opererà, boscoso, con campi cintati da muretti a secco tagliati da fossi e canali, è inadatto all’impiego della cavalleria, men che meno quella pesante. La guerra del ’14 inizia a mostrarsi per quello che è: niente eroiche cariche di cavalieri, ma un cieco tritacarne. Louis scriverà allora a casa lettere di ben altro tono rispetto a quelle precedenti; l’assurdità della guerra inizia a far nascere in lui Céline:
“La lotta s’impegna formidabile, mai ne ho visto e ne vedrò di così tanto orrore, noi camminiamo lungo questo spettacolo quasi incoscienti per l’assuefazione al pericolo e soprattutto per la fatica schiacciante che subiamo da un mese davanti alla coscienza si para una specie di velo dormiamo appena tre ore per notte e marciamo quasi come automi mossi dalla volontà istintiva di vincere o morire Nessuna nuova sul campo di battaglia quasi sulla stessa linea del fuoco da 3 giorni i morti sono rimpiazzati continuamente dai vivi a tal punto che formano dei monticelli che bruciamo e in certi punti si può attraversare la Mosa a piè fermo sui corpi tedeschi di quelli che tentano di passare e che la nostra artiglieria inghiotte senza posa. La battaglia lascia l’impressione di una vasta fornace dove s’inghiottono le forze vive delle due nazioni e dove la più fornita delle due sarà la vincitrice”.
Ad ottobre il Reggimento è inviato nelle Fiandre, partecipando a duri combattimenti assieme ad alcune unità di fanteria nel settore tra Ypres e Poelkapelle; il 27 ottobre, quest’ultima località è battuta incessantemente dal tiro dell’artiglieria e delle mitragliatrici tedesche, tanto che sembra impossibile garantire con staffette le comunicazioni tra il 125° e il 66° Reggimento di fanteria, che stanno cercando di strappare l’abitato di Poelkapelle al nemico. È in questo momento che il Maresciallo d’alloggio Destouches, comandato presso il Comando di Reggimento, si fa avanti, dandosi volontario per questa missione quasi suicida. Louis riuscirà a condurre a termine il pericoloso compito, ma al ritorno, intorno alle ore 18, è ferito gravemente al braccio destro. Dopo essersi ricongiunto alla sua unità, data la mancanza di posti disponibili nelle ambulanze o tende-ospedale a causa del gran numero di feriti e moribondi, dovrà raggiungere a piedi, camminando per sette chilometri, un ospedale da campo presso Ypres. Sarà poi da lì evacuato a Hazebrouck, dove sarà operata la frattura del braccio, e poi ricoverato in degenza all’ospedale militare Val-de-Grâce a Parigi, dove subirà un secondo intervento chirurgico il 19 gennaio 1915. Dichiarato inabile al servizio a causa della sua ferita, viene riformato il 2 settembre 1915: finisce così il servizio attivo di Louis Destouches nell’Armée.
Per l’eroismo dimostrato sul campo sarà citato nell’ordine del giorno del 29 ottobre del Reggimento, insignito della Medaglia Militare il 24 novembre 1914 e della Croce di Guerra con Stella d’Argento.
La rivista L’Illustré National del dicembre 1914 dedicherà al fatto d’arme che lo vide protagonista una tavola a colori a tutta pagina: Louis-Ferdinand Céline la mostrerà sempre con orgoglio a ogni suo visitatore nell’eremo di Meudon, tanti anni e tante vite più tardi.
Bibliografia:
Dauphin-Boudillet, Album Céline
Gibault, Céline
Ruby – de Labeau, Historique du 12eme Régiment Cuirassiers (1668-1942)
Le 12eme Régiment Cuirassiers (1871-1928)
Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it
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jeudi, 12 avril 2012
Grass und seine Kritiker
Grass und seine Kritiker
Ex: http://www.jungefreiheit.de/
Der Schriftsteller sieht sich nach seiner Kritik an Israel mit Antisemitismusvorwürfen konfrontiert
Was sich über Ostern an einem läppischen Gedicht von Günter Grass entzündet hat, verdient die Bezeichnung „Debatte“ nicht. Grass hat eine sehr schlichte politische Stellungnahme verfaßt, sie mit Selbstreflexionen vermengt, in Zeilchen zerhackt und als Gedicht unter die Leute gebracht. Er sieht die Gefahr heraufziehen, daß Israel den Iran mit Atomwaffen angreift, einen Weltkrieg heraufbeschwört, und daß Deutschland, weil es atomar nutzbare U-Boote an Israel liefert, sich mitschuldig macht und in den Konflikt hineingezogen wird.
Nun wird der Iran in der Tat dämonisiert, während Israel in der Atomfrage doppelte Standards zugestanden werden, indes es zum Präventivschlag bläst. Wer mag garantieren, daß sich die Lüge um irakische Chemiewaffen nicht wiederholt? Andererseits wird Grass den Gefahren und Risiken, denen Israel ausgesetzt wird, nichtmal ansatzweise gerecht. Aus seinen Versen spricht auch das bundesrepublikanische Unverständnis über einen Staat, der sich seiner Haut zu erwehren weiß.
Nibelungentreue zu Israel
Kurzum, es handelt sich um eine hochkomplizierte politische, geopolitische, militärische, religiöse, auch demographische Gemengelage, die kein Gedicht der Welt erfassen kann. Allerdings wissen Politik, Wissenschaft und Medien in Deutschland ebenfalls nichts dazu zu sagen. Mit der Aussage, die Sicherheit Israels sei Teil der deutschen Staatsräson, hat Kanzlerin Merkel die Deutschen auf die Nibelungentreue zu Israel festgelegt. Dem verbreiteten Unbehagen daran hat Grass einen verquasten Ausdruck verliehen. Die Tatsache, daß seine Haltung mehrheitsfähig ist, macht wiederum die Politik und Medien nervös und läßt sie hysterisch reagieren.
Weder Grass noch seine Kritiker argumentieren politisch, sondern moralisch. Die Moral und Merkels „Staatsräson“ stützen sich dabei auf eine Metaphysik, die um den Mord an den europäischen Juden herum errichtet worden ist.
Diesen Kern des Problems hat Grass zwar nicht formuliert, aber unbewußt berührt. Es geht gar nicht primär um Israel und den Iran, vielmehr um das kranke Nervenzentrum des eigenen Landes, um den Zwang der „belastenden Lüge“, deren Aufkündigung als Strafe „das Verdikt ‘Antisemitismus’“ nach sich zieht. Nun hat Grass viele Jahre eigenhändig an dem geistigen Gefängnis gebaut, gegen dessen Reglement er nun anrennt, und bleibt dabei weiterhin sein überzeugter Insasse. Das wird klar, wenn er von „meinem Land“ schreibt und seinen „ureignen Verbrechen, / die ohne Vergleich sind“. Er beschwört eine metaphysische Untat und leitet daraus seine anhaltende Treue zu Israel ab.
Teufelskreis
Um innerhalb des Teufelskreises, den er nicht durchbrechen kann, Israel kritisieren zu können, muß er ihm unterstellen, seinerseits ein absolutes Verbrechen zu planen: die Auslöschung des iranischen Volkes. Was, wie der stets besonnene und noble Avi Primor kommentierte, einfach „lächerlich“ ist.
Was können wir aus all dem lernen? Nichts, was wir nicht schon wußten. Substantiell ist die sogenannte Grass-Debatte eine weitere Runde im Totentanz des BRD-Diskurses. Gegen Ende von Goethes „Faust“ zitiert Mephisto die Bewohner der Unterwelt herauf: „Herbei, herbei! Herein, herein! / Ihr schlotternden Lemuren, / Aus Bändern, Sehnen und Gebein / Geflickte Halbnaturen.“ Sie helfen ihm noch beim Täuschen und Tricksen, etwas Vernünftiges bringen sie nicht mehr zustande.
00:10 Publié dans Actualité, Affaires européennes, Littérature | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : günther grass, allemagne, actualité, littérature, lettres, lettres allemandes, littérature allemande | |
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Ernst Jünger, lecteur de Maurice Barrès
Harald HARZHEIM:
Ernst Jünger, lecteur de Maurice Barrès
Nationalisme, culte du moi et extase“Je ne suis pas national, je suis nationaliste”: cette phrase a eu un effet véritablement électrisant sur Ernst Jünger, soldat revenu du front après la fin de la première guerre mondiale qui cherchait une orientation spirituelle. Soixante-dix ans plus tard, Jünger considérait toujours que ce propos avait constitué pour lui l’étincelle initiale pour toutes ses publications ultérieures, du moins celles qui ont été marquées par l’idéologie nationale-révolutionnaire et sont parues sous la République de Weimar.
L’auteur de cette phrase, qui a indiqué au jeune Jünger la voie à suivre, était un écrivain français: Maurice Barrès. Bien des années auparavant, dans sa prime jeunesse, Ernst Jünger avait lu, en traduction allemande, un livre de Barrès: “Du sang, de la volupté et de la mort” (1894). On en retrouve des traces dans toute l’oeuvre littéraire de Jünger.
Maurice Barrès était né en 1862 en Lorraine. Tout en étudiant le droit, il avait commencé sa carrière de publiciste dès l’âge de 19 ans. A Paris, il trouva rapidement des appuis influents, dont Victor Hugo, Anatole France et Hippolyte Taine. Dans ses premiers ouvrages, Barrès critiquait l’intellectualisme et la “psychologie morbide” que recelait la littérature de l’époque. A celle-ci, il opposait Kant, Goethe et Hegel, qui devaient devenir, pour sa génération, des exemples à suivre. Après l’effondrement des certitudes et des idéologies religieuses, le propre “moi” de l’écrivain lui semblait le “dernier bastion de ses certitudes”, un bastion éminemment réel duquel on ne pouvait douter.
Il en résulta le “culte du moi”, comme l’atteste le titre général de sa première trilogie romanesque. Le “culte du moi” ne se borne pas à la seule saisie psychologique de ce “moi” mais cherche, en plus, à dépasser son isolement radical: le moi doit dès lors se sublimer dans la nation qui, au contraire du moi seul, est une permanence dans le flux du devenir et de la finitude.
Le processus de dépassement du “moi” individuel implique un culte du “paysage national”, donc, dans le cas de Barrès, de la Lorraine. Dans les forêts, les vallées et les villages de Lorraine, Barrès percevait un reflet de sa propre âme; il se sentait lié aux aïeux défunts. Le “culte du moi” est associé au “culte de la Terre et des Morts”. Ce culte du sol et des ancêtres, Barrès le considèrera désormais comme élément constitutif de sa “piété”. L’Alsace-Lorraine avait été conquise par les Allemands pendant la guerre de 1870-71. Une partie de la Lorraine avait été annexée au Reich. Barrès devint donc un germanophobe patenté et un revanchard, position qu’il n’adoucira qu’après la première guerre mondiale, après la défaite de l’ennemi. Dans un essai écrit au soir de sa vie, en 1921, et intitulé “Le génie du Rhin”, cette volonté de conciliation transparaît nettement. Ernst Jünger l’a lu dès sa parution.
Barrès posait un diagnostic sur la crise européenne qui n’épargnait pas l’esprit du temps. Il s’adressait surtout à la jeunesse, ce qui lui valu le titre de “Prince de la jeunesse”. Pourtant la radicalisation politique croissante de son “culte du moi”, sublimé en nationalisme intransigeant, effrayait bon nombre de ses adeptes potentiels. Ainsi, Barrès exigeait que le retour des Français sur eux-mêmes devait passer par l’expurgation de toutes influences étrangères. Le “moi”, lié indissolublement à la nation, devait exclure toutes les formes de “non-moi”. Cela signifiait qu’il fallait se débarrasser de tout ce qui n’était pas français et qu’il résumait sous l’étiquette de “barbare”. Il prit dès lors une posture raciste et antisémite. Son nationalisme s’est mué en un chauvisnisme virulent qui se repère surtout dans ses écrits publiés lors de l’affaire Dreyfus. Une haine viscérale s’est alors exprimée dans ses écrits. En 1902, Barrès a rassemblé en un volume (“Scènes et doctrines du nationalisme”) quelques-uns de ces essais corsés.
Barrès n’était pas seulement un homme de plume. Au début des années 80 du 19ème siècle, il avait rejoint le parti revanchiste du Général Boulanger et fut élu à la députation de Nancy.
Après la seconde guerre mondiale, Ernst Jünger comparait le Général Boulanger à Hitler (ce que bien d’autres avaient fait avant lui). Après une conversation avec le fils de Barrès, Philippe, il en arriva à la conclusion que cet engagement en faveur de Boulanger a dû le faire “rougir” (EJ, “Kirchhorster Blätter”, 7 mai 1945).
En 1894, Barrès avait écrit “Du sang, de la volupté et de la mort”, recueil d’esquisses en prose et de récits de voyage en Espagne, en Italie et en Scandinavie, pimentés de réflexions sur la solitude, l’extase, le sexe, l’art et la mort. Le corset spatial étroit du nationalisme de Barrès éclatait en fait dans cette oeuvre car il ne privilégiait plus aucun paysage, n’en érigeait plus un, particulier, pour le hisser au rang d’objet de culte: chacun des paysages décrits symbolisait des passions et des sentiments différents, qu’il fallait chercher à comprendre. En lisant ce recueil, Ernst Jünger a trouvé dans son contenu l’inspiration et le langage qu’il fallait pour décrire les visions atroces des batailles, relatées dans ses souvenirs de guerre. De Barrès, Jünger hérite la notion de “sang”, qui n’est pas interprétée dans un sens biologique, mais est hissée au rang de symbole pour la rage et la passion que peut ressentir un être. Quant aux descriptions très colorées des paysages, que l’on retrouve dans l’oeuvre de Barrès, nous en trouvons un écho, par exemple dans “Aus der goldenen Muschel” (1944) de Jünger.
Maurice Barrès est mort en 1923. Peu d’écrits de lui ont été traduits en allemand. Le dernier à l’avoir été fut son essai “Allerseelen in Lothringen” (“Toussaint en Lorraine”), paru en 1938. Après la deuxième guerre mondiale, aucun écrit de Barrès n’a été réédité, retraduit ou réimprimé. On a finit par le considérer comme l’un des pères intellectuels du fascisme. Barrès a certes été élu à l’Académie Française en 1906 mais sa réhabilitation en tant que romancier est récente, même en France, alors que Louis Aragon l’avait réclamée dès la fin de la seconde guerre mondiale.
Jünger ne s’est pas enthousiasmé longtemps pour ce nationaliste français. Dès la moitié des années 20 du 20ème siècle, il s’oriente vers d’autres intérêts littéraires. Jünger n’évoque Barrès explicitement qu’une seule fois dans ses oeuvres journalistiques et militantes, alors que le Lorrain les avait inspirées. Dans “Vom absolut Kühnen” (1926), Jünger affirme qu’il “préfère la France de Barrès à celle de Barbusse”, parce qu’il entend récuser l’idéologie pacifiste de ce dernier.
Toutes les évocations ultérieures de Barrès relèvent du rétrospectif. Jünger ne puise plus aucune inspiration nouvelle dans les écrits de Barrès. Jünger, âgé, comparait le sentiment qu’il éprouvait face à la défaite allemande de 1918 au désarroi qu’ont dû ressentir les jeunes Français en 1871 (cf. “Siebzig verweht”, IV, 23 octobre 1988). Il répète dans ce même passage que Barrès l’avait fortement influencé dans le travail de façonnage de sa propre personnalité, une imprégnation barrèsienne, dont il s’était distancié assez tôt. En 1945, Jünger notait que “lui-même et les hommes de sa propre génération étaient arrivés trop tard en beaucoup de choses, si bien que la voie, que Barrès avait encore pu emprunter, ne leur était plus accessible”. Dès le début des années 30 du 20ème siècle, Ernst Jünger en était arrivé à considérer le nationalisme barrèsien comme une construction dépassée, née au 19ème siècle et marquée par lui. Cette position l’a empêché de s’engager dans le sillage d’un politicien chauvin comme Boulanger, c’est-à-dire comme Hitler.
Dans la bibliothèque de Jünger à Wilflingen, on trouve deux ouvrages de l’écrivain français: “Amori et Dolori sacrum. La mort de Venise” et les quatorze volumes de “Mes cahiers”. Ces “cahiers”, Jünger les évoque dans une notule envoyée à Alfred Andersch: “Vous me comptez non pas parmi les conservateurs-nationaux mais parmi les nationalistes. Rétrospectivement, je suis d’accord avec vous. J’ose même dire que j’ai inventé le mot; récemment en lisant ses “Cahiers”, je me suis découvert de remarquables parallèles avec Maurice Barrès. Il y dit: ‘...je suis né nationaliste. Je ne sais pas si j’ai eu la bonne fortune d’inventer le mot, peut-être en ai-je donné la première définition’” (cf. “Siebzig verweht”, II, 7 juin 1977).
Ernst Jünger a donc lu les “Cahiers” de Barrès de manière fort occasionnelle car la plupart des quatorze volumes des “Cahiers”, dans la bibliothèque de Wilflingen, n’ont en apparence que rarement été ouverts; certains n’ont même pas été coupés. En 1971, Jünger a dit: “Barrès aussi est désormais derrière moi”. La teneur de cette assertion n’a plus été modifiée jusqu’à la mort de l’écrivain allemand.
Harald HARZHEIM.
(article paru dans “Junge Freiheit”, Berlin, n°23/2005; trad. française: avril 2012).
http://www.jungefreiheit.de/
Harald Harzheim est écrivain, dramaturge et historien du cinéma. Il vit à Berlin. Il travaillait en 2005, au moment où il rédigeait cet article, à un essai sur la “Démonologie du cinéma” d’Ernst Jünger.
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