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mardi, 08 juin 2010

La persistenza di Yukio Mishima

La persistenza di Yukio Mishima

di Valerio Zecchini

Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]

http://danliterature.files.wordpress.com/2009/02/yukio-mishima.jpg

A quasi quarant'anni dalla morte, la persistenza della fortuna di Yukio Mishima non dà segni di cedimento, nemmeno in Italia: Madame De Sade (1965), uno dei drammi con cui riportò a nuova vita la tecnica tradizionale del teatro No, in questa stagione è stato rappresentato al teatro Dehon di Bologna con grande successo per due settimane; il brillante adattamento di Piero Ferrarini ne aggiorna l’ambientazione dalla rivoluzione francese al Maggio ’68. Intanto, la pubblicazione di testi ancora inediti nel nostro paese (che sembrano non finire mai), e la ristampa di libri ormai classici prosegue incessante. Mentre Mondatori ha fatto uscire il prezioso inedito “Abito da sera”,  la casa editrice SE ha di recente pubblicato, oltre al carteggio durato decenni col premio Nobel Yasunari Kawabata (“Kawabata – Mishima: Lettere), la novella La spada del 1963, della quale l'anno successivo uscì una versione cinematografica. In questo lungo racconto ambientato nel contesto di quella che è forse la più Giapponese delle arti marziali, il kendò, l'adesione ai valori tradizionali di lealtà, rigore morale, dedizione alla causa prende corpo con un'assolutezza che esclude ogni umano compromesso, fino all'inevitabile immolazione finale.

 Così come la novella Patriottismo del 1961 (dallo stesso Mishima trasformata in film quattro anni dopo), La spada ha tutte le caratteristiche del testamento spirituale in forma narrativa. E' per questo che il volume include anche il testamento spirituale “ufficiale” (il Proclama, manifesto che lo scrittore volle lasciare a giustificazione del suo gesto e che lesse a squarciagola alle truppe della caserma dove si suicidò), e una serie di testi sul martirio volontario di Mishima: “Riflessioni sulla morte di Mishima” di Henry Miller (1972), “L'ideologia della morte folle” (Hashikawa Bunzò, 1970), “Dietro tanta vivacità un senso di vuoto” (Donald Keene, 1970), e un estratto del magistrale saggio di Marguerite Yourcenar  “Mishima” del 1982. il libro si chiude con una sequenza di bellissime foto in bianco e nero che immortalano l'artista nel suo sublime narcisismo. In questi quarant'anni, scrivere sul suicidio valoriale e simbolico di Mishima sembra essere diventato un genere letterario a sé stante: oltre ai succitati autori e ai vari biografi, lo fece il maestro e sodale Yasunari Kawabata, il grande regista Paul Schrader nel 1984 ne fece un film memorabile, in Italia intervennero Alberto Moravia (ma lui non poteva capirci granchè) e Piero Buscaroli, che ne colse solo il movente politico.

Ma perchè il seppuku di Mishima, in cui un'etica eroica da antico samurai convive singolarmente con un estetismo pienamente dandy, continua ad affascinarci tanto? Probabilmente perchè più si esaspera il processo di modernizzazione e di decadenza (sia in Giappone, sia in Europa), più ci sentiamo attratti da quel mondo antico permeato di bellezza, onore, eroismo che lo scrittore giapponese ha costantemente evocato con le sue opere, la sua vita e soprattutto la sua morte. Una morte sconvolgente, ossessivamente annunciata, preparata con implacabile meticolosità e infine celebrata dinanzi al mondo come un rituale spettacolare e tragico. La sua uscita di scena ha rappresentato al tempo stesso l'apoteosi del personaggio, condannato da un demone inquieto a una vita perennemente sopra le righe, e la parola conclusiva dello scrittore, la sigla di un'opera totale in cui culto della gioventù, amore per la bellezza e morte eroica appaiono intrecciate in un destino ineluttabile. Il vero tradizionalista è un ribelle e un iconoclasta, come ben puntualizza Henry Miller nel suo scritto: “I veri pionieri nono iconoclasti; sono loro che salvaguardano la tradizione, non quelli che lottano per conservarla e così facendo ci soffocano. La tradizione può realmente esprimersi solo attraverso lo spirito dell'ardimento e della sfida, non con conformismi esteriori e col  mantenimento di usanze. Credo che fosse in questo senso che Mishima intendeva far rivivere i costumi dei suoi avi. Egli voleva ristabilire la dignità, il rispetto e la fiducia in se stessi. L'autentico cameratismo, l'amore per la natura e non l'efficienza, l'amore di patria e non lo sciovinismo, l'imperatore quale simbolo di capacità di comando in opposizione a un gregge senza volto e senza anima obbediente a ideologie mutevoli, i cui valori sono stabiliti dai teorici della politica.”

Il saggio di Marguerite Yourcenar rimane comunque a mio avviso il migliore sull'argomento Morte di Mishima: il più acuto e penetrante, l'unico che consideri l'importanza anzi la centralità dell'”omosessualità guerriera” in questa vicenda; vi si potrebbe addirittura individuare il disvelamento di quella “funzione sacra dell'omosessualità” di cui parlava Pasolini negli ultimi anni della sua vita. Dice la Yourcenar: “Circa due anni prima della fine, si produce per Mishima uno di quegli eventi insperati che sembrano manifestarsi puntualmente non appena la vita acquista una certa precipitazione e un certo ritmo. Un personaggio nuovo fa il suo ingresso, Morita, ventun anni, provinciale educato in un collegio cattolico, bello, un po' tarchiato, infiammato della stessa passione lealista che arde in colui che egli bel presto chiamerà maestro (Sensei), termine onorifico dato dagli studenti ai loro istruttori. Si è detto che, in Mishima, l'inclinazione verso l'avventura politica è cresciuta in proporzione alla foga del giovane”.

Morita fu l'ultimo a iscriversi all'Associazione degli Scudi (l'associazione paramilitare messa in piedi da Mishima) e in lui forse trovò il compagno e forse il fanatico che aveva sempre cercato, o almeno il risoluto spartano col quale condividere lo splendore della melanconia. Infatti, dopo che lo scrittore si fosse squarciato il ventre, avrebbe dovuto essere Morita a tagliargli la testa – ma non andò così, ci fu un terzo che dovette finirli entrambi. In Colori proibiti (1951) e successivamente nel racconto Onnagata Mishima aveva preso in esame il mondo dell'omosessualità moderna, mettendone in evidenza l'inconsistente vacuità, il frivolo estetismo. Nel suo rapporto con Morita sembrano invece rivivere le storie d'amore tra samurai descritte nel XVII secolo dal grande monaco/scrittore Ihara Saikaku, o l'amore folle dell'imperatore Adriano per il suo amante narrato dalla stessa Yourcenar nelle “Memorie di Adriano”, o ancora Alessandro Magno col fedele Efistione come ce lo ha fatto vedere qualche anno fa Oliver Stone in “Alexander” – o, per spingersi ancor più in là nella mitologia antica, il legame eroico tra Achille e Patroclo?

Come è reso evidente in vari scritti teorici, secondo Mishima il vincolo cameratistico dev'essere alla base anche del rapporto con la donna, essere quindi il fondamento del matrimonio. Ma, come aveva affermato nel corso del dibattito all'università con gli studenti comunisti (1968), era arrivato a pensare che l'amore stesso fosse diventato impossibile in un mondo privo di fede. Egli paragonava gli amanti ai due angoli di base di un triangolo, e l'imperatore, che essi venerano, al vertice: è la concezione di un sostrato di trascendenza necessario all'amore. Col suo lealismo incondizionato, Morita rispondeva a quell'esigenza.

Einaudi ha da poco ripubblicato “Una virtù vacillante”, romanzo uscito a puntate nel 1957, il quale ebbe un tale successo che nello stesso anno se ne realizzò un adattamento cinematografico. Qui Mishima, dal suo punto di vista privilegiato di bisessuale, analizza l'animo femminile con la precisione di un entomologo. Protagonista del romanzo è la sensuale Setsuko, una giovane signora dell'alta borghesia di Tokyo la quale, intrappolata in un matrimonio di convenienza, si ribella a ogni forma di moralità e si abbandona tra le braccia di un affascinante conoscente. L'autore descrive con maestria il conflitto che tormenta la giovane e bella Setsuko tra istinto ed etica, tra sentimento e razionalità, il misterioso e indomabile anelito a un amore travolgente, totale, eterno fino alla scoperta dell'ineluttabile verità: l'amante è  simile al marito e alla gran parte degli uomini, strutturalmente incapaci di corrispondere all'assolutezza dell'amore femminile. Questa consapevolezza la porterà alla catarsi finale della rinuncia ascetica. Setsuko a un certo punto spiega anche perchè non può esistere un dandy o un esteta donna: “Com'è profonda, a volte, la solitudine maschile! Quella femminile è diversa. Persino la solitudine di una vecchia è più carnale e avida. Per quanto sia sola, una donna non può vivere in un mondo ideale, perchè le è impossibile rinunciare alla propria femminilità. Se invece un uomo assurge all'alto dominio dello spirito, smette di esser una creatura terrestre”.

Questa avvincente storia d'amore è comunque pervasa da un'atmosfera di fatua decadenza, gli eleganti personaggi sono sempre mossi da biechi e meschini calcoli e spiegano benissimo cosa intendesse Mishima quando parlava dell'amore diventato impossibile in un mondo privo di fede.

Agli amori borghesi di “una virtù vacillante” si contrappone il profondo amore tra marito e moglie narrato nel racconto “Patriottismo”, offerto al pubblico come esemplare da Mishima: profondo perchè radicato nel sacrificio comune e nel cameratismo, sulla superiore devozione verso l'imperatore, nel sacro ruolo della donna come custode della tradizione. Tutto ciò che non poteva più esistere, se non come sopravvivenza, nel Giappone del 1970, e tanto meno nel Giappone di oggi.

 

Yukio Mishima

UNA VIRTU' VACILLANTE
Einaudi

Euro 10,00

 

Yukio Mishima
LA SPADA

SE

Euro 19,00

 

 


Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it


dimanche, 06 juin 2010

Rebelle

Rebelle


« Deux qualités sont indispensables au Rebelle.
Il refuse de se laisser prescrire sa loi par les pouvoirs, qu'ils usent de la propagande ou de la violence.
Et il est décidé à se défendre. »
 
Traité du Rebelle, Ernst Jünger

dimanche, 23 mai 2010

Marc Augier, dit Saint-Loup

Marc Augier, dit Saint-Loup

Ecrivain maudit, passé au travers du mur de flamme de l'engagement politique, Marc Augier, dit Saint-Loup, a déjà fait l'objet de plusieurs études biographiques. On citera celle de Jérôme Moreau, Sous le signe de la roue solaire (L'AEncre, 2002) ou celle du sud-africain Myron Kok, Tels que Dieu nous a voulu (L'Homme Libre, 2004), qui centrent toutes les deux leur propos sur les idées et le parcours politique de l'écrivain. Mais l'auteur d'un grand roman comme La peau de l'aurochs, ne peut pas être tout entier réduit à l'engagement qui a été le sien au cours des années 40. La biographie de Saint-Loup, publiée aux éditions Pardès, dans l'excellente collection Qui suis-je ?, signée par Francis Bergeron, déjà auteur d'études sur Béraud, Daudet ou Monfreid, devrait permettre d'apporter un nouvel éclairage sur l'homme et son oeuvre.

Saint-Loup.jpg
" Marc Augier, alias Saint-Loup, fut emporté par le vent de l’Histoire, à toute vitesse, mais sans jamais tomber. Il en a tiré une oeuvre forte et virile, parcourue par un souffle épique. Une oeuvre peinte à fresques, où des individus et des groupes d’individus doivent affronter les bombardements, le rouleau compresseur des chars soviétiques, l’épuration, les foules ivres de violence, mais aussi la montagne, la neige, le froid polaire, les avalanches, les tempêtes, les poux, l’hiver russe, une panne de moteur en altitude ou, simplement, la fatigue au guidon d’une moto lancée sur les routes d’Europe. Ce qui fascine, chez Saint-Loup, ce sont des valeurs universelles, qui n’appartiennent à aucun camp: c’est cette vie de sportif, d’aventurier, de guerrier. Saint-Loup est le contraire d’un idéologue. C’est un militant, mais ce n’est pas un homme du combat des idées. C’est un homme d’action, ayant mis ce goût de l’action et du risque calculé au service de causes politiques et parfois militaires. Soixante-cinq ans après la fin de la guerre et plus de vingt ans après la chute du mur de Berlin, il est temps de relire son oeuvre, de la dégager de sa seule dimension hérétique, conséquence de ses quatre années à la LVF et à la Waffen SS. Oui, grâce à ce «Qui suis-je?» Saint-Loup, il faut revisiter ce grand créateur de mythes, et personnage mythique lui-même."

jeudi, 20 mai 2010

Björnstjerne Björnson, le poète de la liberté norvégienne

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Helge MORGENGRAUEN:

 

Björnstjerne Björnson, le poète de la liberté norvégienne

 

C’est le 8 décembre 1832 que nait à Kvikne dans le Hedmark norvégien et dans la grande ferme de Björgan, le futur poète national norvégien Björnstjerne Björnson, fils d’un pasteur de campagne.

 

Après des études secondaires dans un gymnasium d’Oslo, Björnson entre à l’Université où il ne reste que brièvement, sans obtenir de diplôme. C’était peu de temps avant de faire la connaissance d’Henrik Ibsen. De 1857 à 1859, il dirige le théâtre de Bergen puis entame une carrière de journaliste.

 

Comme ses idées étaient jugées encore trop “modernes” pour l’époque, il quitte l’Aftenbladet (= “La feuille du Soir”) et commence une longue série de voyages à l’étranger, d’abord en Italie et en Allemagne. En 1874, Björnson acquiert la ferme d’Aulestad dans la vallée de Gulbrand, lieu qui deviendra bien vite l’un des centres intellectuels les plus dynamiques de Norvège. Après quelques voyages aux Etats-Unis et un long séjour à Paris, il devient, revenu au pays, l’un des principaux poètes et écrivains de sa patrie.

 

En 1903, il est le premier Norvégien à obtenir le Prix Nobel de littérature. Björnson s’engage pour la création d’une république norvégienne, pour le suffrage universel, pour l’égalité des femmes et pour l’indépendance de la Norvège. Le 26 avril 1910, Björnstjerne Björnson meurt à Paris, quelques années après l’indépendance de son pays.

 

* * *

 

L’hymne national norvégien a été composé par Björnstjerne Björnson et commence par les mots: “Ja, vi elsker dette landet” (= “Oui, nous aimons ce pays”). Cet hymne a été chanté pour la première fois le 17 mai 1864. Cinquante ans auparavant, jour pour jour, la Norvège s’était donnée une constitution à Eidsvoll près d’Oslo; la véritable indépendance, toutefois, ne pouvait pas encore advenir sur l’échiquier international. La Norvège était inclue dans une Union avec la Suède, une Union qui durera jusqu’en 1905. Le 13 août de cette année, en effet, 99,5% des Norvégiens se prononceront pour la dissolution de cette Union avec la Suède. C’est depuis ce moment-là que l’ancien pays des Vikings est redevenu, pour la première fois depuis le moyen-âge, libre et indépendant. Cette volonté de liberté et d’indépendance nous explique encore et toujours pourquoi le peuple norvégien a voté deux fois, en 1972 et en 1994, contre toute intégration du pays dans une Europe élargie.

 

La Constitution, que la Norvège s’est donnée en 1814, est toujours valide aujourd’hui, à quelques rares et légères modifications près. La date du 17 mai, date à laquelle l’assemblée constitutionnelle s’est donnée une loi fondamentale en 1814, est devenue le jour de la fête nationale norvégienne. Voilà pourquoi, cinquante ans après le vote en faveur de cette loi fondamentale, le chant “Ja, vi elsker dette landet” a été entonné pour la toute première fois et reste, aujourd’hui encore, l’hymne national de la Norvège. Le patriotisme norvégien demeure une réalité forte: aucun Norvégien digne de ce nom ne se permettrait d’omettre une seule ligne de cet hymne qui compte huit strophes.

 

L’esprit vieux germanique de liberté, qui hisse l’indépendance au-dessus de tout et refuse catégoriquement de tomber dans la dépendance ou la servitude, reste très vivace en Norvège. Sous le Troisième Reich, les Allemands ont tenté de courtiser le “peuple frère germanique” du Nord de l’Europe mais sans le succès escompté: les Norvégiens ne voulaient rien avoir à faire avec l’hitlérisme. Aujourd’hui encore, les citoyens allemands ne peuvent pas acheter de terrains en Norvège.

 

Björnstjerne Björnson, fils de pasteur de la région centrale de la Norvège, lui, n’avait aucune réticence à frayer avec les autres peuples frères de l’aire germanique. Bien au contraire, il défendait, avec beaucoup d’autres, des idées révolutionnaires qui pouvaient parfaitement s’inscrire dans le corpus idéologique du pangermanisme (1).

 

Notre écrivain, qui avait dû renoncer, après trois ans à peine, à ses fonctions de journaliste au sein de la rédaction de l’Aftenbladet de Bergen parce qu’il y défendait des idées jugées à l’époque trop “progressistes”, publia en 1857 son premier récit, Synnöve Solbakken. Il y décrit de manière pénétrante la nature contradictoire du paysan norvégien, qu’il connaissait bien, de par ses propres expériences existentielles. Il mit ainsi en exergue la césure qui existait dans l’âme paysanne norvégienne entre une nature première d’essence païenne et des apports chrétiens ultérieurs. Les récits de Björnson sur la vie rurale norvégienne ont inauguré un véritable tournant dans l’histoire de la littérature de ce pays, un tournant vers le présent. Björnson donna ainsi l’impulsion décisive qui obligea les hommes et les femmes de lettres de Norvège à se tourner vers les thématiques sociales et politiques, après une parenthèse romantique, où l’on avait fait revivre les sagas et où l’esprit romantique avait tenté de redécouvrir les mythes du folklore norvégien, avec ses trolls et ses filles de la forêt. Cette impulsion, Björnson la doit au critique littéraire danois Georg Brandes qui appelait “à présenter enfin en littérature les problèmes et les thématiques qui résultent des nécessités sociales”. Henrik Ibsen, lui aussi, le grand contemporain et ami de Björnson, subira l’influence de Brandes. Tandis que ses pièces de théâtre fustigeaient les contradictions et l’hypocrisie morale de la société bourgeoise sur le déclin, Björnson, optimiste, croyait toujours au triomphe final du progrès social (2).

 

En ce sens, il s’est engagé à revendiquer le suffrage universel et l’égalité hommes/femmes. Il critiquait l’exploitation des ouvriers et réclamait une réforme fondamentale du système scolaire. Mais son thème favori, le plus important à ses yeux, était celui de l’indépendance norvégienne. Car, pour lui, la liberté de l’individu et la souveraineté du pays étaient indissociables, indissolublement liées l’une à l’autre.

 

“Le sentiment d’indépendance est indubitablement la force la plus puissante au monde; le sentiment d’honneur en est l’amorce. La pulsion vers l’autonomie est l’énergie qui régit le monde; c’est la vertu la plus haute que notre culture a produite, avec les grandes gestes du peuple, avec les tendres sentiments de la morale et toutes les forces libératrices jaillies des Lumières” (3).

 

En 1903, Björnson est le premier Norvégien, et même le premier Scandinave, à recevoir le Prix Nobel de littérature. Deux ans plus tard, il voit son pays accéder à cette indépendance, à laquelle il avait tant aspiré. Le 26 avril 1910, Björnstjerne Björnson meurt à Paris.

 

Helge MORGENGRAUEN.

(article paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°18/2010; trad. franç.: Robert Steuckers).

 

Notes du traducteur:

 

(1)     Le pangermanisme, jugé “nationaliste” dans la plupart des ouvrages contemporains d’historiographie, est classé arbitrairement “à droite” de l’échiquier politique par les terribles simplificateurs qui hantent nos établissements d’enseignement actuels ou régissent le monde des médias; au 19ème siècle, le pangermanisme véhicule des idéologèmes libertaires, populistes et anti-absolutistes, perçus par les contemporains comme “révolutionnaires” ou, du moins, “progressistes” et non pas comme “cléricaux” ou “réactionnaires”. C’est notamment le cas en Autriche et en Bavière, chez ceux qui admirent le “Kulturkampf” bismarckien. Les linéaments de pangermanisme que l’on retrouve en Belgique (y compris chez certains francophones), où a paru d’ailleurs la seule revue trilingue portant le titre de Der Pangermane, puisent généralement dans le corpus des libéraux de gauche à velléités orangistes.

 

(2)     La notion de progrès social en Scandinavie (et en d’autres terres germaniques) au 19ème siècle recouvre une idée d’accession à la citoyenneté pleine et entière de tous les éléments du peuple, de façon à faire chorus sur la scène internationale: un peuple fort est un peuple qui intègre tous ses citoyens, les mobilise à l’unisson et tire le meilleur de chaque individualité. La régression ou la stagnation sociale sont perçues comme des attitudes visant à empêcher des éléments sains et vigoureux d’oeuvrer au salut général de la nation.

 

(3)     Quand un Scandinave du 19ème siècle évoque de la sorte les Lumières, il ne se référe évidemment pas à un corpus de brics et de brocs, comme celui que nous ont fabriqué, des années 70 du 20ème siècle à nos jours, les Habermas et le filon de la “nouvelle philosophie” en France, mais surtout aux “Lumières” de Herder, chantre des matrices culturelles comme véritable sources de l’identité des peuples, qui ont alors pour tâche de les raviver continuellement. Pour un Björnson, les “Lumières” sont essentiellement la revendication de cette liberté individuelle et nationale qui fonde la souveraineté d’un peuple sain et fort. L’itinéraire de Björnson l’atteste: il  amorce sa carrière d’écrivain par une sorte de nationalisme romantique puis passe à la description et à la dénonciation des maux sociaux qui empêchent justement la masse des Norvégiens moins nantis de jouir d’une liberté personnelle, de façonner leur destin et de participer à la  construction de la  nation.

mardi, 11 mai 2010

Léon Daudet ou "le libre réactionnaire"

Leon-Daudet.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1988

 

Un livre d'Eric Vatré: Léon Daudet ou  "le libre réactionnaire"

 

par Jacques d'ARRIBEHAUDE

 

Eric Vatré est en train de se faire une spécialité dans la biographie, art difficile et ingrat où les Français pa-raissent souvent légers devant les gigantesques tra-vaux d'érudition des chercheurs anglo-saxons. La personnalité de Léon Daudet est ici bien évoquée. Une des plumes les plus alertes, les plus vives, les plus cinglantes de la critique littéraire de ce premier demi-siècle. Un grand et passionné remueur d'idées et d'opinions, d'une liberté de ton absolue au service d'une pensée résolument hostile à ce qu'on a appelé depuis "l'idéologie dominante".

 

D'où le titre choisi par Vatré, à mon avis un pléonasme, car on imagine mal un réactionnaire qui ne choisirait pas librement d'être à contre-courant de ce qu'il aurait tout avantage à courtiser à longueur de colonnes, à l'exemple de l'ordinaire racaille journalistique contemporaine.

 

Vatré constate, sans vraiment l'expliquer, l'énigme d'une "Action Française" où cohabitent Maurras, apôtre farouche et sourd de la France seule et de sa prétendue supériorité intellectuelle, et Daudet, autre-ment ouvert, féru de Shakespeare, enthousiaste de Proust et de Céline, sensible à la peinture, à la musique, aux souffles poétiques venus d'ailleurs, là où Maurras, fossilisé dans ses plâtres académiques, sonne éperdument le clairon des grandeurs mortes dans le saint pré-carré du monarque introuvable.

 

Au total, Daudet, l'un des hommes au monde les moins doués pour l'action, et, en ce sens, une belle figure de cette IIIème République qu'il haïssait, et dont les ténors parlementaires ventripotents, crasseux et barbichus, si ridicules qu'ils fussent, sem-blent des aigles prodigieux comparés à nos politiciens actuels.

 

A lire et à relire avec le plus grand profit, pour plus de renseignements sur cette époque sans pareille, Les Décombres  de Lucien Rebatet.

 

Jacques d'ARRIBEHAUDE.

 

Eric VATRE, Léon Daudet ou le "libre réaction-nai-re",  Editions France-Empire, 1987, 350 pages, 110 FF.

 

 

vendredi, 07 mai 2010

Céline, le invettive di un dannato sul viale del tramonto

Céline, le invettive di un dannato sul viale del tramonto

Celinemmmmlllll.jpgEcco il Mostro. Sporco, indecente, nel pensare, nello scrivere e nel vivere. La lurida grandezza di Céline in tutto il suo splendore che poi coincide con la pienezza del suo squallore, ritratta in sette pose. Sette interviste nell’arco di un quindicennio sul viale del tramonto, dal dopoguerra alla sua morte, tornano in libreria sotto il titolo di Polemiche (Guanda, pagg. 120, euro 12,50).
Si avvicina il mezzo secolo della sua morte, ma non si allontanano le maledizioni sull’opera di Louis-Ferdinand Destouches, medico che diventò in arte Céline. Maledetto per il suo maledettismo, imperdonabile per le sue filippiche contro gli ebrei, i borghesi, i capitalisti. Non amo Céline, non sono un suo cultore, i suoi pamphlet irriverenti mi irritano, a cominciare da Bagattelle per un massacro e così la sua prosa intermittente e merdace, con tutti quei punti sospensivi; non ho mai scritto nulla su di lui e sulle sue opere. E ancor meno amo i celiniani, anzi detesto i manieristi del turpiloquio che traggono nobiltà e ispirazione da lui; non sopporto il rococò del triviale degli ultimi suoi emuli. Però, c’è della grandezza autentica nella sua scrittura, nel personaggio, nella sua vita. C’è della purezza nella sua impurità, e del genio nel suo delirio. Céline ha penetrato come pochi negli abissi della condizione umana, perduta a Dio e alla dignità, abbandonata nelle fogne oscure della vita. Uno dei rari scrittori che ha passione di verità e genuino desiderio di far combaciare la parola alla vita e alla verità più nuda e cruda. Così il suo stile riflette la sua passione di verità, tragica e brutale.
Quel vivere ai confini della morte, alla ricerca di emozioni estreme e grottesche, quello scrivere sulla soglia dell’invettiva, tra la parola e il vomito. Fu un medico valoroso, Céline, e un soldato valoroso, prima d’essere quel grande scrittore che fu. E pagò con quattordici mesi di duro carcere le sue parole di fuoco sugli ebrei e sul mondo; fu accusato di essere collaborazionista ma non aveva mai collaborato con nessuno, non aveva scritto per le riviste filo-naziste, era stato messo al bando nella Germania nazista, come arte degenerata, mentre dicevano che piacesse a Stalin. Viveva da barbone, in Danimarca e poi in Francia, in guerra contro il mondo. A condannarlo furono anche intellettuali che magari avevano trescato col nazismo. Come Sartre, che prima di collaborare con il comunismo e chiudere un occhio sui suoi orrori, aveva scritto anche per riviste collaborazioniste; ma alla fine il dannato fu lui, Céline. Io non vorrei dire, ma gli unici intellettuali che hanno pagato di persona le loro idee o anche i loro deliri, sono stati i Céline, i Pound, i Brasillach, i Gentile, i Pericle Ducati, i Borsani, i Carl Schmitt, gli Hamsun e si potrebbe ancora continuare. Epurati, a volte condannati a morte, o segregati in carcere, umiliati in gabbie, considerati peggio che bestie. Ed erano fior di scrittori, a volte anche generosi e grandi nella loro umanità, oltre che nei loro errori. La stessa cosa non avvenne invece per gli intellettuali che sostennero il comunismo, Stalin e Mao, Ho Chi Minh e Castro. Alcune idee si pagano, altre sono gratuite, se non addirittura ben pagate. Si vede che sono idee più grandi, più esigenti, diranno a propria consolazione i maledetti...
Céline fa parte di quell’universo di intellettuali dannati per uso di parola; ma lui restò un caso a sé, anarchico, disperatamente solo, non inscrivibile in nessun partito e in nessuna ideologia. Detestando i capitalisti e amando i poveri, Céline a volte dà l’impressione di essere un comunistoide, come lui stesso dice. Nella sua bella introduzione, Ernesto Ferrero ricorda che Céline fu difeso dal movimento nazionale ebreo, fu detestato dai nazisti che proibirono i suoi libri, ed egli stesso scrisse invettive contro Petain e contro Hitler paragonandolo a un clown pervaso di «satanismo wagneriano», fu il meno tedescofilo degli scrittori francesi e si tenne sempre in disparte. Una volta disse che gli ebrei sono i padri della nostra civiltà, e «si maledice sempre il proprio padre».

Queste interviste offrono lo spettacolo della solitudine creativa di Céline, la follia e la lucidità che si accavallano, insieme con la grazia e la ferocia. La tenerezza inerme si affaccia a volte nel suo aspro inveire: quando a esempio parla di sua madre e del suo nome d’arte tratto da lei per difendere la sua professione di medico; o quando parla della sua solitudine, della povertà, del suo gatto, della sua ritrosia a farsi fotografare («una foto è una pietra tombale») e del suo scrivere per campare... Ma poi riprende la vis polemica e il turpiloquio quando inveisce contro le cricche del potere, contro chi commercia e specula sulle idee e sulla pelle di altri, contro i riveriti padroni della letteratura, contro la Chiesa «grande ibridatrice e ruffiana». «Le civiltà finiscono con le donne, le frasi e i profumi»; «Parigi è il buco di culo del mondo. I francesi hanno coltivato la gioia di vivere». «La mia colpa? Aver detto sempre la mia verità, senza barare». La mia verità, dice Céline, non la verità, ha questa disarmante franchezza, questa libertaria modestia, estranea agli intolleranti. Queste interviste descrivono anche il disfacimento del suo corpo, il suo declino, le sue spalle che si curvano e sprofondano la sua testa tra i lunghi capelli e il collo torto. Resta una fronte spaziosa e uno sguardo ingenuo e profetico che invoca attenzione e sprigiona magìa. Un volto che racconta le ferite della sua genialità nella disfatta di una vita al termine della notte. Céline, il rigurgito della verità.

jeudi, 06 mai 2010

Mark Twain, critique de l'impérialisme américain

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Anton SCHMITT:

Mark Twain, critique de l’impérialisme américain

 

Beaucoup d’écrivains ont écrit plusieurs livres mais ne sont véritablement devenus célèbres que grâce à un seul de leurs ouvrages. Mark Twain est né sous le nom de Samuel Langhorne Clemens le 30 novembre 1835 dans le Missouri et est mort, il y a tout juste cent ans, le 21 avril 1910 dans le Connecticut. Il a acquis la célébrité sous son pseudonyme de Mark Twain. Il avait quatre ans lorsque sa famille emménagea dans la petite ville d’Hannibal sur les rives du Mississippi, lieu qui devint plus tard le théâtre des aventures de Huckleberry Finn. En 1847, le père de Mark Twain meurt; celui-ci commence alors à apprendre le métier de typographe. Son frère achète ensuite la feuille locale et c’est dans ce support-là que notre auteur écrira ses premiers et brefs articles. Après avoir atteint l’âge de dix-huit ans, il quitte Hannibal et devient timonier sur l’un de ces grands bateaux fluviaux qui assurent la navigation sur le Mississippi et sur le Missouri. Quand éclate la guerre civile américaine, cette navigation est interrompue sur les deux grands fleuves. Mark Twain devient soldat dans les armées confédérées mais abandonne son service dans la cavalerie au bout de deux semaines et décide de partir vers l’Ouest. Après un examen de conscience, il finit par adhérer intellectuellement au camp “yankee”. En 1862, il se trouve à Virginia City dans le Nevada où il exerce le métier de journaliste. En 1863, il se manifeste pour la première fois sous le pseudonyme de Mark Twain. Son itinéraire le mène toujours plus à l’Ouest, toujours plus loin de la guerre. En 1864, il s’intalle à San Francisco. Dans les années 70 du 19ème siècle, il se rend pour la première fois en Europe et au Proche Orient et séjourne longtemps en Allemagne, pays qu’il adorait. En 1891, lors de sa seconde tournée en Europe, le dernier empereur d’Allemagne, Guillaume II, l’invite à déjeuner avec lui. En 1870, il avait épousé Olivia Langdon et s’était installé, dans le Nord, dans le Connecticut. Sa voisine était Harriet Beecher-Stowe qui le conforta dans son attitude hostile à l’esclavage. 

 

Une étude comparative de ces deux auteurs et de leurs principaux ouvrages mérite d’être faite. En 1876, Mark Twain écrit Tom Sawyer et en 1883, Les aventures de Huckleberry Finn. Ces deux ouvrages sont devenus des classiques de la littérature pour la jeunesse, tout en contestant, à l’époque, la teneur de la littérature conventionnelle pour les jeunes qui ne présentait que des gamins modèles ou des petites filles sages. A l’époque, Twain avait fait scandale en campant un héros, Tom Sawyer, qui fait l’école buissonnière et qui, au lieu de mobiliser ses efforts pour atteindre l’idéal du bien-être matériel, s’acoquine avec un paria de village sans le sou, qu’il admire de surcroît, mais finit quand même par devenir riche.

 

Les bonnes consciences politiquement correctes estiment aujourd’hui que Les aventures de Huckleberry Finn méritent de sévères critiques car l’esclave de la Veuve Douglas, est appelé “Nigger Jim” dans le livre. Le terme “nègre”, au départ utilisé sans le moindre jugement de valeur, et a fortiori sans intention insultante, pour désigner les personnes de race à pigmentation foncée, est aujourd’hui considéré comme un vocable à connotation “raciste”, alors que le terme “nigger”, devenu, lui, une injure classique dans le vocabulaire dénigrant du racisme, demeure assez peu connu comme tel chez les non anglophones. Les bonnes consciences s’en offusquent, incapables qu’elles sont de resituer correctement une oeuvre littéraire dans le contexte de son époque. Les deux romans destinés à la jeunesse sont effectivement le reflet de la société américaine à l’époque de Mark Twain qui ne s’empêchait nullement d’en faire la critique. L’hypocrisie religieuse, le monde des pauvres, des strates sociales déshéritées, le désir pathologique d’atteindre la puissance pour la  puissance et l’âpreté au lucre  —la maladie  emblématique de l’Amérique pour Twain—  et l’esclavage dans les Etats du Sud ont tous fait l’objet de critiques sévères dans l’oeuvre de notre auteur. Ses flèches les plus acérées, il tentait toujours de les décocher en s’aidant de l’humour et de la satire. Le temps qu’il avait passé sur les rives du Mississippi et ses expériences personnelles, qu’il a manifestement travaillées pour en faire la matière première de son oeuvre littéraire, ont fait de lui un chroniqueur crédible. Le destin de “Nigger Jim”, pour pitoyable qu’il ait été, est décrit tout en laissant transparaître malgré tout une certaine joie de vivre.

 

L’ouvrage principal de sa voisine Harriet Beecher-Stowe est tout différent. Elle a tenté, avec succès, dans La case de l’Oncle Tom, d’inciter les masses de l’Union à haïr les Confédérés et à les pousser à la guerre alors qu’elle ne s’était jamais rendue dans le Sud, comme on s’en est aperçu ultérieurement. La description du planteur avare, esclavagiste, vicieux et maniant le fouet, une caricature de la réalité, avait pour but de dépeindre une figure inhumaine qui méritait bien d’être exterminée. Des jeunes gens, après avoir lu ce livre, se sont joyeusement engagés dans les troupes nordistes pour partir dans une guerre atroce et aller mourir dans les espaces en friche de la Virginie ou à Cold Harbour, tout en croyant combattre pour une cause juste et bonne. Contrairement au scénario mis en place par Harriet Beecher-Stowe, qui justifie à l’avance le meurtre et le lynchage, et même la guerre, comme seuls moyens de prêcher la libération, Mark Twain, lui, met en scène la libération de son “Nigger Jim” de manière pacifique. La propagande de guerre, toute ruisselante de haine, n’était nullement la tasse de thé de Mark Twain.

 

Dans les années 90 du 19ème siècle, il fut l’une des figures du mouvement anti-impérialiste aux Etats-Unis et fustigea à coups de commentaires caustiques les guerres que menait son pays contre l’Espagne, les Philippines, contre l’annexion de Puerto Rico et des Iles Mariannes. En 1891, comme nous venons de le dire, il entama sa seconde tournée en Europe et se choisit Berlin comme ville de résidence. C’est à partir de la capitale du nouveau Reich bismarckien qu’il  commençait ses tournées de conférences, afin de payer ses dettes. Il resta neuf ans dans le “Vieux Monde”. La langue allemande, qui, comme à bien d’autres, lui paraissait compliquée, fut souvent la cible de son humour et donna lieu à beaucoup de jeu de mots (comme la confusion entre: “Festgäste” – Commensaux- et “fresst feste” – “bouffez fêtes”).

 

Plus tard, il envoya ses filles étudier en Allemagne. Twain rédigea enfin un biographie du Général le plus célèbre de l’armée “yankee”, plus tard élu Président des Etats-Unis, Ulysses S. Grant. Il appartenait à une loge maçonnique. En 1901, l’Université de Yale lui octroya un diplôme de docteur honoris causa.

 

Anton SCHMITT.

(Article paru dans “zur Zeit”, Vienne; n°16/2010; trad. franç.: Robert Steuckers). 

mercredi, 05 mai 2010

Mark Twain: ironia e libertà

Mark Twain: ironia e libertà

di Marco Iacona

Fonte: secolo d'italia

http://easyquestion.net/thinkagain/wp-content/uploads/2010/03/mark-twain.jpg

Della compagnia del grande scrittore Mark Twain, morto cento anni fa (il 21 aprile del 1910) a Redding nel Connecticut, avremmo bisogno tutt’oggi. Ed è per questo che ne parliamo ancora. Del suo senso dell’humor in primo luogo, della sua critica al conformismo, delle prese in giro, delle denunzie dei falsi miti e di tutte le glorie (che così ovviamente non furono), dei più classici “tempi che furono”. La sua vita fu insieme uno sberleffo e una ribellione contro quel qualcosa di difficilmente classificabile, a metà fra storia e sentimento, che non faceva parte dello spirito americano o meglio del suo di spirito, fatto di avventura e di semplice ricerca della verità. Twain fu scrittore anche molto scomodo, così in anticipo sui tempi da essere volontariamente ignorato per quello che scriveva (soprattutto nel campo del giornalismo); i parenti furono costretti a bruciare molti dei suoi manoscritti perché pericolosi per le comunità dei religiosi. Twain rispose alla “censura” in modo bonario, con uno dei tanti aforismi per i quali sarà universalmente noto: «solo ai morti è permesso di dire la verità». Oltretutto aveva con la professione di giornalista uno strano rapporto di amore (senz’altro) e di generosa avversione grazie a una filosofia del buon gusto e del saper vivere insieme: «Per prima cosa dovete avere ben chiari i fatti; così potete distorcerli come vi pare», diceva.  
Per questo strano feeling con la “verità” (perfino nelle comuni espressioni) e per essersi trovato ben più in là da certo anonimo quotidiano, Mark Twain venne classificato come il più americano fra gli scrittori d’America e per questo qualcuno affermò anche che «tutta la letteratura moderna statunitense viene da un libro di Mark Twain Huckleberry Finn. Tutti gli scritti americani derivano da quello. Non c’era niente prima. Non c’era stato niente di così buono in precedenza». A pensarla così nientemeno che Ernest Hemingway in compagnia di William Faulkner.
Si potrebbe cominciare dal suo nome allora che non era come forse alcuni sapranno Mark Twain, ma Samuel Langhorne Clemens; lo pseudonimo che lo ha reso famoso in tutto il mondo ha origini marinare come ricordano gli esperti di narrativa fantastica Gianni Pilo e Sebastiano Fusco: «“Mark Twain! Segna due braccia!”, gridavano, nel dialetto del Sud, gli scandagliatori sui battelli che percorrevano il Mississippi, segnalando al timoniere la profondità del fondale, ad evitare il rischio di incagliarsi sulle secche. Il giovane Samuel Longhorne Clemens, che su quei battelli aveva trascorso infanzia e giovinezza, quando cominciò a scrivere e pubblicare, volle scegliersi proprio quel grido come pseudonimo». Si potrebbe cominciare così, per comprendere la sua personalità di uomo libero, concreto quanto basta, innamorato delle scienze fisiche, libertario per sé e soprattutto per gli altri (fece parte della “American anti imperialism league”, lega  contraria all’annessione delle filippine da parte statunitense). Twain era aperto al mondo come ci si sarebbe atteso solo da un grande americano della sua generazione (era nato nel 1835), abbandonò presto gli studi a causa della morte del padre e fece mille mestieri, fu tipografo (apprendista), mercante, scrittore umorista, marinaio sui battelli, soldato nella Guerra Civile dalla parte dei Confederati, poi cercatore d’oro, reporter, viaggiatore instancabile e conferenziere nelle università. Conobbe e visitò non solo l’America ma il mondo intero in lungo e in largo e si fece conoscere a trent’anni grazie al racconto “ Il Ranocchio saltatore”; aveva “solo” quarant’anni invece quando divenne uno degli uomini più famosi d’America. Per comprendere la sua modernità – che avrebbe riversato negli scritti – si deve pensare a Mark Twain come un uomo che sarebbe arrivato primo degli altri in tanti piccoli-grandi gesti del quotidiano e della vita professionale. Lasciamo la parola a Pilo e Fusco allora: «Diceva di essere legato allo spirito paesano del “Profondo Sud”, ma in realtà era il più moderno degli scrittori. Fu il primo ad usare la macchina da scrivere e la stilografica, e a dettare un libro al grammofono. Scrisse i testi di alcune canzonette che divennero enormemente popolari. Fece dell’editoria un’industria da grandi cifre: rimase celebre l’anticipo di duecentomila dollari (di allora) da lui pagato per assicurarsi in esclusiva le memorie del generale Grant». Fu dunque un uomo molto ricco e famoso ma non sempre fortunato negli affari e nel privato. Passò la vecchiaia fra crisi e lutti familiari.
Gli studiosi raccontano quanto la vita di Mark Twain sia stata complicata (quasi fossero esistite più persone in una), sfaccettata, colma di lezioni e di contraddizioni riversate anch’esse nelle opere. E naturalmente hanno ragione. Due in particolare le più note e lette da generazioni di giovani (anche se, soprattutto la seconda delle due è tutt’altro che un libro per ragazzi perché venne perfino radiato dalle biblioteche): Le avventure di Tom Sawyer (1876) e Le avventure di Huckleberry Finn (1884). Detti libri altro non sarebbero (nell’immaginazione dei teorici) se non le diverse parti – almeno tre – della stessa vita dello scrittore. «Se alla fine di quella che abbiamo definito la prima fase della sua vita Clemens assomiglia in un certo senso a Tom Sawyer», scrive Guido Carboni autore per Mursia di un invito “alla lettura” dello scrittore americano, «è cioè una sorta di adolescente in fondo romantico e soprattutto desideroso di attrarre l’attenzione del mondo raccontando storie, più o meno abbellite nel ricordo e nella elaborazione narrativa delle proprie avventure, alla fine della seconda fase potremmo dire che assomiglia di più ad Huck, nonostante i suoi 50 anni. Come Huck ha accumulato molta esperienza della vita e degli uomini, anche se sembra molto meno disposto di Huck a perdonare i loro difetti, e una discreta ricchezza. Come Huck continua a dire di volersi distaccare al mondo di cui è entrato a far parte, di voler “scappare di casa” verso più liberi territori, ma resta a casa cercando un equilibrio nella doppia identità di rispettabile cittadino convinto del proprio ruolo di Pierino ribelle, fustigatore della stupidità del mondo che lo circonda. Solo che in Clemens queste tensioni non sembrano veramente trovare un accettabile equilibrio».
The Adventures of Huckleberry Finn è probabilmente il capolavoro di Twain ed è il seguito di “Tom Sawyer” (dove il personaggio di Huck che vive in un barile era già apparso). È il romanzo di un giovane figlio di un ubriacone «senza casa, senza famiglia, senza educazione, ozioso, sfrenato, malvagio». Malgrado tutto - o forse proprio per la sua personalità ribelle – divenuto «beniamino» dei giovanissimi del villaggio. La storia è quella di un ragazzo che non vuol cedere alla mancanza di libertà; la fama del romanzo è dovuta in primo luogo allo “scontro interno” fra civiltà e natura selvaggia; corruttrice la prima roussoianamente buona la seconda. Il punto di vista dal quale Twain racconta la storia (come per esempio il successivo nostro “Giornalino di Gian Burrasca” di Vamba o “Il Barone rampante” di Italo Calvino), è però quello del protagonista ribelle, nel libro manca infatti una morale perbenista - e vittoriana - in grado di far pendere la storia dal lato della cosiddetta civiltà e della ragione degli educatori.
Nel libro è assente la «”correzione” di una morale finale che dimostri come la disobbedienza, i “vizi”, la mancanza di decoro siano negativi e portino chi li pratica ad una brutta fine», probabilmente perché Twain da grande narratore autobiografico aveva presente la differenza fra un’esistenza vissuta nel rischio e il suo esatto contrario. Non sempre poi, per lui, quel mondo reale messo su nel tempo, mattone su mattone, rispondeva a un armonico disegno di libertà e verità. Per questo, per l’autore dell’ironico Un americano alla corte di re Artù occorreva una gran dose d’avventura per battere i “tiranni” del tempo, e con essa naturalmente alcuni preziosissimi aforismi: «Non abbandonare le tue illusioni. Se le lascerai, continuerai ad esistere, ma cesserai di vivere». Ecco: tanto basta per ricordarci di lui.                        
          


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jeudi, 29 avril 2010

Das Geheimnis von Sonne und Stahl: Yukio Mishimas Sun and Steel (1972)

Das Geheimnis von Sonne und Stahl: Yukio Mishimas Sun and Steel (1972)

Matthias Schneider  

Ex: http://www.blauenarzisse.de/ 

sunsteel.jpgYukio Mishima war sicherlich eine der schillerndsten, exzentrischsten und interessantesten Figuren, die je das Licht der literarischen Welt erblickten. Hierzulande erfreuen sich seine Werke wie Geständnis einer Maske, Patriotismus, Schnee im Frühling oder Liebesdurst großer Beliebtheit – dies jedoch zumeist innerhalb eines eher kleinen Zirkels. Man könnte also von einem „Geheimtip“ sprechen. Dabei dürfte dieser Mann bei weitem kein Unbekannter sein. International berühmt und sogar zwischenzeitlich im Gespräch für den Literaturnobelpreis gilt Mishima als einer der Exportschlager aus dem Land der aufgehenden Sonne.

Tod durch traditionelles Selbstmordritual

Abgesehen von seinen sprachlichen Fähigkeiten, welche sich durch einen ausgeprägten Wortschatz und einen unverhohlenen Ästhetizismus auszeichnen, sind besonders die tragischen wie extremen Umstände seines Ablebens vielen in Erinnerung geblieben. Der Mann, der am 25. November 1970 nach einem gescheiterten Restaurationsversuch und eigenem Treuebekenntnis zum japanischen Kaiser Seppuku Selbstmord beging, schockte damit sicherlich nicht nur seine Bewunderer und Leser. Auch die Medien zeigten großes Interesse an den Umständen und Hintergründen dieser spektakulär inszenierten Selbstentleibung.

Zwischen Körperkunst und schöngeistiger Kunst

Mishima wählte diese Methode des Freitods nicht zuletzt, weil er sich den Samurai verbunden fühlte. Sein jahrelanger Kraftsport und die mit militärischer Strenge ausgeübten Kampfkünste geben ein Zeugnis hiervon. Überhaupt gehörte das Formen des eigenen Körpers zu Mishimas Hauptbetätigungsfeldern. Welcher Art sein Selbstverständnis in Bezug auf seine sportlichen Aktivitäten war, erläutert Mishimas autobiographischer Essay Sun and Steel. Leider wurde dieser bis jetzt nicht ins Deutsche übertragen.

Die Symbole Sonne und Stahl

Die Sonne war für Mishima aufgrund seiner Erfahrungen im Krieg lange negativ besetzt. Sie spiegelte sich im Blut der gefallenen Soldaten und beschien die leblosen Körper. Mishima schätzte den Schatten, arbeitete fast ausschließlich zur nächtlichen Stunde. Doch diese Wahrnehmung verändert sich im Verlauf von Sun and Steel. Hier wird sie mitunter zum Lebens- aber auch zum Todessymbol, jedoch durchweg positiv konnotiert. Der Stahl wiederum steht als Synonym für die Gewichte, welche Mishima zehn Jahre zu einem fast religiös anmutenden Bestandteil seines Lebens werden ließ. Sie stellen als Abbild der Welt einen Kontrast zu seinen Muskeln dar, welche für ihn selbst stehen und durch den Stahl geformt werden. Zu deuten ist dies als Ausdruck der Überschneidungen zwischen dem „Selbst“ und der „Umwelt“.

Von Ameisen und Bäumen – Die zwei Pole der Wahrnehmung

Mishima unterschied zwei grundlegende Pole seiner Wahrnehmung: Zum einen die Worte, welche natürlich unmittelbar mit seiner Arbeit als Schriftsteller verbunden waren. Zum anderen identifizierte er das, was er als eigentliche Realität bezeichnete und auch das Bewusstsein des eigenen Körpers beinhalte. In seiner Welt markierten diese beiden Pole einen Zwiespalt. Im Gegensatz zu anderen Menschen, bei denen ein Körperbewusstsein bereits vor dem Umgang mit Wörtern auszumachen ist, attestierte sich Mishima in Hinblick auf seine eigene Person einen Vorrang der Worte. Dieser Vorrang würde sich über seine gesamte Kindheit und Jugend erstreckt haben. In Sun and Steel benutzt Mishima hierfür das Bild eines Baumes (Körper/Realität) mit weißen Ameisen (Worte). In seinem Fall prognostiziert er den Zerfall des Baumes durch das Einwirken der Ameisen, welcher schon einsetzte, bevor dieser wirklich wachsen konnte. Schlussendlich hätten die Ameisen (Worte) damit nicht nur den Baum zerstört oder unterdrückt, sondern auch sich selbst aufgehoben.

Künstlerisches Schaffen als „Verklärung von Wirklichkeit“

Mishima sah den Umgang mit der Sprache innerhalb seines eigenen literarischen Wirkens als eine auf Individualität beruhende Art der Verklärung von Wirklichkeit. So schildert er in diesem Essay ein Erweckungserlebnis bei einer religiösen Zeremonie. Bei dieser tragen junge Männer, allerdings von anderer Statur als er, einen Schrein und blicken dabei scheinbar von Lust erfüllt oder vom Schmerz gequält zum Himmel. Er beteiligt sich hieran und wird durch den eigenen Blick zum Himmel, welcher zugleich durch sein eigenes Aufgehen in der religiös-ekstatischen Masse markiert wird, mit einer anderen Bewusstseinsebene konfrontiert.

Es bemächtigte sich seiner ein Gefühl von Transzendenz. Im Stählen des eigenen Körpers sieht der Erweckte von nun an einen Weg, diesen Zustand dauerhaft herbeizuführen. Es geht ihm darum, ein Gleichgewicht zwischen Intellektualität und maskuliner Körperkraft zu schaffen. Die Worte entsprachen bisher nur dem Sehen im Sinne eines Selbstbewusstseins. Nun solle sich ein Gefühl der wahren Existenz verwirklichen, welches Mishima als eine Harmonie von innerem Bewusstsein und dem Ruf einer äußeren Stimme zu erkennen glaubt.

Körperkultur als Schlüssel für das Erreichen von Transzendenz

Die Einheit von innerem Streben und alltäglicher Pflicht stellte für Mishima ein höchstes Ideal dar, was somit auch einen möglichen Endpunkt des Lebens markierte. Auf diesen bereitet sich der wahre Krieger durch seine körperliche Arbeit vor. Mishima weist explizit darauf hin, dass ein tragischer und heroischer Tod, welcher für ihn das Ideal darstellte, nicht durch Muskelschwäche und Schlaffheit des Körpers zu verwirklichen ist.

Auf diese Weise gewährt seine Schrift einige recht persönliche Einblicke, die seine körperlichen Aktivitäten als Weg zur Transzendenz und so auch zum eigenen Tod verständlich machen. Besonders deutlich wird dies, wenn Mishima die Wirkung eines kalten Windhauchs auf seiner vom harten Training schweißglänzenden Haut beschreibt: eine Art betäubendes Gefühl entfaltet sich, so als spüre der Kämpfer seine Muskeln, seinen Körper nicht mehr. Jeder, der seinen Körper ähnlich in Schuss hält, wird dieses Gefühl sicher schon einmal am eigenen Leib erfahren haben.

Sun and Steel als Zugang zu Mishimas Selbstverständnis

Besonders interessant an Mishimas Schrift ist die unbestreitbare Tiefgründigkeit seiner Reflexionen über die Rolle des eigenen Körpers und seiner Wahrnehmung in einem scheinbar beständig fortwährenden Kampf. Speziell jene, welche schon ein wenig mit seiner Biographie vertraut sind, werden in diesem posthum veröffentlichten Werk ein wertvolles Utensil zum besseren Verständnis von Mishimas Selbstbild erkennen. Aber auch für diejenigen, denen der japanische Dichter noch unbekannt ist, lohnt sich die Lektüre.

Yukio Mishima: Sun and Steel. Kodansha America 1994. 107 Seiten. Englisch

lundi, 26 avril 2010

Louis-Ferdinand Céline: criminel ou humaniste?

Louis-Ferdinand Céline : Criminel ou Humaniste?

Ex: http://lepetitcelinien.blogspot.com/

Article d'Alessandro Gnocchi, paru dans Il Giornale, 28/10/2009.
Traduction: Stefano Fiorucci et Jeannine Renaux.

Criminel ou Humaniste? La France se dispute au sujet de Céline

Céline et l'Antisémitisme : le traditionnel champ de mines, où cycliquement quelqu'un s'aventure suscitant des réactions fermes. L'essayiste et éditeur français Karl Orend (le directeur de Alyscamps Press), dans un article publié cet été sur Times Literary Supplement, s'est lancé dans un défense passionnée de Céline, allant jusqu'à la réévaluation de ses pamphlets antisémites. Maintenant, après une lettre critique publiée par le journal britannique, les premières répliques arrivent. La site littéraire de l'édition internet de l'hebdomadaire français Le Nouvel Observateur prévoit un article du magasine mensuel Books, qui sortira demain et qui mettre Orend en morceaux.

D'après ce dernier, Bagatelles pour un massacre (1937), L'école des cadavres (1938) et Les Beaux Draps (1941) ont été écrits « en guise d'avertissement, d'appel à éviter de nouveaux massacres ». Orend, comme on dit, représente les positions de l'auteur de Voyage au bout de la nuit : la paranoïa d'un possible « complot juif » destiné à enfoncer l'Europe dans une nouvelle guerre, était en définitive, partagé par « des millions de personnes »; et la société française était imprégnée d'antisémitisme. En outre, selon Orend, il faudrait étudier le style de Céline: violent, sarcastique et halluciné. Un caractère tellement fort dans les oeuvres « politiques » qu'il serait à considérer comme « un excercice ». La thèse n'est pas nouvelle. En effet, l'opinion d'André Gide sur Bagatelles pour un massacre, confiée à un article de la « Nouvelle Revue Française» est célèbre : «C'est un jeu littéraire». Orend poursuit : la fuite de Céline à travers l'Allemagne et le Danemark, en 1945, suite aux accusations de collaborationisme avec les nazis qui occupaient la France, a été causé par le « lynchage médiatique » de l'écrivain; « lynchage médiatique » à l'origine de l'assassinat de son éditeur, Robert Denoël, en Décembre de la même année. Orend invite alors à considérer « le côté humain de Céline » trop longtemps « ignoré ». L'écrivain, « humaniste incompris », « s'occupait des pauvres et des malades et se consacrait à ceux qui avaient été loyaux envers lui. La musique et la danse étaient ses passions ».

Enfin, après avoir rappelé que sa mère était une Juive polonaise, Orend conclut: « La raison pour laquelle Céline est détesté est simple. Il nous rappelle les mensonges que les personnes ont écrit pour dissimuler leur honte d'avoir laissé courir l'Holocauste se poursuivre, en particulier la honte des Français, coupables de collusion. » En autres termes : Céline a été le bouc émissaire idéal pour une société complaisante et incapable d'admettre ses propres compromis avec le nazisme. C'est plus ou moins ce qu'a déclaré Céline même, par exemple dans les violentes invectives contre Sartre, qui l'avait accusé d'être embauché par les Allemands. Céline, dans A l'agité du bocal (édition italienne: Tarte, L'obliquo, 2005) répondra en reprochant au philosophe d'avoir accepté de mettre en scène ses oeuvres théâtrales pour les officiers de la Wehrmacht, et d'avoir toujours pris des positions ambiguës.

Oliver Postel-Vinay, sur Books, reproche à Orend de ne pas s'être contenté de chanter les louanges de l'écrivain, mais d'avoir voulu le réhabiliter « du point de vue moral ». Opération téméraire, aussi parce qu'il ne prend pas en compte un volume discret de matière, Postel-Vinay cite en particulier les articles publiés par Céline sur des journaux au moment de l'occupation nazie. (Auxquels on peut ajouter des documents sortis des recherches d'archives, dont rend partiellement compte la biographie de Céline écrite par Philippe Alméras, publié en Italie par Corbaccio). Il y a des attaques personnelles (le poète Juif Robert Desnos, morte par la suite dans un camp de concentration), des invitations à adopter une attitude dure sur les questions raciales, et l'espoir d'une division entre le Nord de la France, pur, et le Sud, métissé.

Antisémites, anti-communiste, anti-bourgeois, anti-libéral, anti-démocratique : il est évident que Céline divise. Il fut un grand écrivain. C'est pour cette raison, que pour certains, il semble intolérable que ses idées politiques soient indéfendables : et voici les Orend occupés à « le réhabiliter » et à en faire presque un petit saint. C'est pour la même raison, que pour certains il semble intolérable d'admettre la grandeur de son œuvre. Peut-on séparer l'écrivain de l'homme? Peut-être pas. Mais il est faux de juger la valeur d'un écrivain sur celle de l'homme, parce que nous devrions peut-être arracher trop de pages aux anthologies.

Alessandro Gnocchi,
Il Giornale, 28/10/2009

Traduzione dall'italiano:

Stefano Fiorucci e Jeannine Renaux

NOTE ALLA TRADUZIONE
La traduzione del testo è stata revisionata e raffinata da Jeannine Renaux. Fondamentale il suo apporto in particolare nella scelta dei verbi più appropriati al contesto della frase da tradurre. Laddove l'autore ha inserito nomi di case editrici, di riviste e titoli di opere si è deciso di utilizzare il corsivo per metterli in risalto. Qualora decidiate di lasciare invece il testo originale, togliete pure il corsivo senza bisogno di avvisare o chiedere il consenso. [...]
Stefano Fiorucci
21 marzo 2010

 

dimanche, 25 avril 2010

Les idées politiques de Céline

Vient de paraître :

Les idées politiques de Louis-Ferdinand Céline

Les éditions Ecriture publie dans la collection "Céline & Cie" Les idées politiques de Louis-Ferdinand Céline de Jacqueline Morand initialement paru en 1972. Une bonne analyse du contexte politique de la parution des pamphlets et des pamphlets eux-mêmes.

Présentation de l'éditeur

Céline s'est toujours défendu de s'être engagé politiquement, rappelant qu'il n'adhéra jamais à aucun parti, se flattant d'être un « homme de style » dépourvu de « message ». Ses écrits l'ont pourtant associé aux controverses politiques de son époque.
« Trois thèmes principaux se détachent. Le pacifisme semble l'avoir emporté par la vigueur du sentiment. L'antisémitisme a chargé l'écrivain du fardeau d'un péché capital. Le socialisme, entendu au sens large, l'a entraîné dans la voie d'un « communisme Labiche » et dans des projets largement utopiques d'organisation sociale. L'anarchisme et le fascisme, attitudes politiques souvent attribuées à l'écrivain, méritent discussion », explique l'auteur.
Une autre approche de la pensée célinienne fait de l'écrivain un précurseur à la fois de la démarche existentialiste et des philosophies de l'utopie. Si l'acceptation tragique et absurde de l'existence, le sens du nihilisme se retrouvent dans la pensée sartrienne, Céline se réfugia plutôt dans l'« utopie concrète », selon le mot d'Ernst Bloch, la plupart de ses propositions s'inspirant de cet « idéalisme pessimiste » cher à Marcuse.
Enfin, les pamphlets, motifs de sa condamnation définitive. S'ils ne semblent pas avoir influencé profondément l'immédiat avant-guerre, leur outrance même desservant leur cause, la critique des maux de son époque demeure comme un témoignage de la crise des esprits, caractéristique des années 1930. Ici, « dogmatisme brutal, provocation, lyrisme, recherche de l'effet aux dépens de la rigueur sont autant d'artifices et d'obstacles à franchir pour dégager l'idée elle-même ».

Jacqueline Morand,
Les idées politiques de Louis-Ferdinand Céline, Ed. Ecriture, 2010.

 

Michail Bulgakow: Hundeherz

heartdog.jpgMichail Bulgakow: Hundeherz

Claus M. WOLFSCHLAG

Ex: http://www.sezession.de/

Letztes Jahr weilte ich im Frühherbst in Lettland. Nachdem ich in einem Club in Riga ein Konzert der rührigen lettischen Reggae-Formation „Hospitalu iela“ erleben durfte, unterhielt ich mich backstage mit einem Bandmitglied, woraus sich in den Folgemonaten ein kleiner Schriftverkehr entwickelte. Der Musiker machte mich auf ein Werk des russischen Schriftstellers Michail Bulgakow aufmerksam: Hundeherz.

Das Werk ist eine frühzeitige, schonungslose Kritik am Sowjetkommunismus, in eine phantastische Groteske gekleidet. Die Geschichte spielt in Moskau im Winter 1924/25, also kurz nach Lenins Tod. Der erfolgreiche Schönheitschirurg Filipp Filippovich Preobrazhensky hat sich auch nach der Oktoberrevolution einen bürgerlichen Lebensstil bewahrt. Er wohnt weiterhin in einem einst eleganten Apartment-Haus mit Portier in einer edel eingerichteten 7-Zimmer-Wohnung mit angeschlossener Praxis, Köchin und Hausmädchen. Dem Druck des proletarischen Hauskomitees, die Wohnung zu verkleinern und Räumlichkeiten an zugeteilte Proletarier abzutreten, kann er sich durch seine guten Beziehungen zu Oberen der Parteihierarchie, die zu seinen Patienten gehören, entziehen.

Für seine Experimente gabelt er eines Tages einen halbverhungerten Straßenhund auf, den er mit seinem Assistenten wieder aufpeppelt. Dem Hund verpflanzt er schließlich operativ die Hypophyse und Hoden eines kürzlich verstorbenen Menschen, eines – wie sich herausstellt – einstigen Kriminellen und Alkoholikers. Dieses Experiment führt zu einem völlig unerwarteten Ergebnis. Der Hund verliert in den Folgetagen sein Fell, beginnt auf den Hinterbeinen zu gehen, bekommt zunehmend menschliche Züge und fängt schließlich zu sprechen an.

Nach einiger Weile hat Professor Preobrazhensky einen ausgewachsenen Menschen in seiner Wohnung, allerdings einen der unangenehmen Sorte. Nicht nur daß er keinerlei Tischmanieren hat, daß er sich ständig betrinkt, unflätig flucht und randaliert, er wächst auch zunehmend in das Gesellschaftssystem hinein. Das proletarische Hauskomitee sieht in dem Homunculus einen brauchbaren Genossen und beginnt mit der politischen Indoktrination. Bald singt Poligraf Poligrafovich Sharikov, wie sich der Hund alsbald nennt, Lieder gegen die Bourgeoisie, kritisiert die bürgerliche Lebensweise des Professors, fordert gleiche Rechte.

Poligraf Poligrafovich Sharikov macht dann gar noch Karriere im bürokratischen Apparat, wird Leiter einer Abteilung gegen streunende Tiere, hält Reden auf Parteiversammlungen, zu denen begeistert geklatscht wird, läßt seine Macht spielen, lügt und intrigiert. Als er schlußendlich Professor Preobrazhensky der konterrevolutionären Umtriebe denunziert, eskaliert die Lage.

Auch wenn Professor Preobrazhensky eine Rolle als „mad scientist“ zugewiesen wird, kann er teils als Verkörperung des Autors bewertet werden. Michail Bulgakow (1891-1940) war diplomierter Arzt und gilt als großer Satiriker der russischen Literatur. In den Wirren der russischen Bürgerkriegszeit nach dem Ersten Weltkrieg geriet er zwischen die Fronten, war erst medizinisch bei der Ukrainischen Republikanischen Armee tätig, desertierte dann und arbeitete in gleicher Funktion in der Roten Armee. Dann landete er bei den südrussischen Weißen Garden und bei tschetschenischen Kosaken. 1921 zog er nach Moskau, publizierte dort für Zeitschriften, veröffentlichte Prosastücke für eine in Berlin erscheinende Exilantenzeitung und schrieb Theaterstücke. Tiere dienten ihm als Figuren dazu, verschlüsselt Gesellschaftskritik zu üben.

bulg1926.gifBulgakow, mit einer Aristokratentochter verheiratet, lebte inmitten des Sowjetsystems auf einer der dort vorhandenen bürgerlichen Inseln, da das System weiterhin auf Vertreter der alten Intelligenz, auf Ärzte, Kulturschaffende, Wissenschaftler angewiesen war. Ab 1930 wurden die Werke Bulgakows nicht mehr veröffentlicht und keine Theaterstücke mehr aufgeführt. In mißlicher materieller Lage wandte er sich an die politische Führung, ihm entweder die Emigration oder eine Arbeit als Regie-Assistent zu verschaffen. Stalin persönlich rief Bulgakow, dessen Werke er offenbar mit Amusement selber gelesen hatte, an und versprach Hilfe. So arbeitete Bulgakow bis zu seinem Tod 1940 als Regie-Assistent und Übersetzer, unter anderem im Bolschoi-Theater.

Hundeherz war ebenso wie ein darauf basierendes Theaterstück 1926 verboten worden. Die Geschichte konnte deshalb erstmals 1968 in einer russischen Exilzeitung publiziert werden. Erst durch Glasnost und Perestroika unter Michael Gorbatschow war es möglich, das Buch 1987 auch in der Sowjetunion bekannt zu machen. 1988 konnte Vladimir Bortko den Stoff für das russische Fernsehen verfilmen, in einem seltsam antiquiert wirkenden Sepia-Stil.

Hundeherz ist eine Satire auf die utopischen Versuche, die menschliche Natur hin zu einem „Neuen Menschen“ zu verändern. Ein selbstherrlicher Wissenschaftler, der tiefgehend in die Natur eingreift, schafft unfreiwillig das neue Geschöpf. So wie Preobrazhensky für eine kauzig-versnobbte Bourgeoisie steht, so verkörpert der Homunculus Sharikov alle negativen Elemente des Proletariats. Vor allem die herrlichen Tischreden des Professors laden dazu ein, Bortkos Film anzusehen. Preobrazhensky beschwert sich erfrischend offen darüber, daß die ungehobelten Proletarier seine Perserteppiche verschmutzen, macht sich über eine Frau des Hauskomitees lustig, die sich wie ein Mann kleidet. Er verlautbart, daß er das mittlerweile tonangebende Proletariat nicht leiden könne, daß er es für den Verfall der guten Sitten und zunehmende Diebstähle verantwortlich macht. Er fragt rhetorisch, ob Karl Marx geschrieben hätte, daß man die Haupteingangstür seines Hauses zu schließen habe, um statt dessen nur noch den Hintereingang benutzen zu dürfen. Beim Essen erklärt er, daß man vor dem Diner keine bolschewistische Zeitung lesen solle, da dies auf den Magen schlage. Als sein Assistent ihn erinnert, daß es nur noch bolschewistische Zeitungen gäbe, antwortet er, daß man deshalb überhaupt keine Zeitung mehr lesen solle. In einem Experiment hätte er zudem nachweisen können, daß Leser der KP-Parteizeitung Pravda unter schwindenden Kniereflexen, Depressionen und Gewichtsverlust gelitten hätten.

Unfreiwillig wird Preobrazhensky aber dennoch zum Vollstrecker der kommunistischen Ideologie. Er schafft den „Neuen Mensch“ aus einem Hund. Warum solle man einen Menschen erschaffen wollen, wenn dies doch jede Frau auf natürliche Weise könne, fragt sich der Professor im Laufe der Handlung schließlich selbstkritisch. Der Homunculus nutzt die sozialen Verhältnisse hingegen rücksichtslos für seine Interessen und eine letztlich parasitäre Existenz. Appellen des autoritär auftretenden Professors, sich zu einem Kulturwesen zu verfeinern, entzieht er sich, um sich zum egoistischen Machtmenschen zu entwickeln. Er findet sich ein in ein Regime, in dem ein Hund reibungslos Karriere machen kann. Preobrazhensky und sein Assistent ahnen, welches menschenfeindliche Potential in diesem Geschöpf lauert und beschließen, rechtzeitig die Reißleine zu ziehen.

Manche Bilder des Films symbolisieren den beginnenden Verfall des kommunistischen Systems: bröckelnde Fassaden, löchrige Straßen, die Stromausfälle, die es, nach Aussage des Professors, zu zaristischer Zeit nicht gegeben hätte. Hinzu kommt die beginnende Ahnung des noch folgenden Terrors: Das aggressive Hauskomitee, das sozialen Druck gegen Besitzende im Privatbereich aufzubauen versucht, der Kult um die allumfassende Regelung durch die Bürokratie, die Kolonnen der Roten Armee, die Kampflieder singend durch die Straßen marschieren.

Ein außergewöhnliches Filmwerk der späten Sowjetunion, von ernstem Hintergrund und doch zugleich sehr heiter. Bei youtube ist es in mit englischen Untertiteln in 14 Teilen zu sehen.

samedi, 17 avril 2010

Il caso Némirovsky: vita, morte et paradossi di un'ebvrea antisemita

Il caso Némirovsky:
vita, morte e paradossi di un’ebrea antisemita

di Stenio Solinas

Fonte: il giornale [scheda fonte]

 Cinque anni fa la Francia riscoprì all’improvviso una scrittrice che aveva dimenticato. Si chiamava Irène Némirovsky, era una russa di origine ebraica, era morta in un campo di concentramento nell’estate del 1942. Per un caso straordinario, le figlie avevano custodito fino a quel 2004 una valigia che conteneva la produzione letteraria materna, dattiloscritti, diari, appunti, e fra essi c’era il manoscritto del romanzo a cui Irène aveva lavorato dal giorno della disfatta bellica della Francia, giugno-luglio 1940, fino in pratica al momento in cui i gendarmi francesi si erano recati nella sua casa di campagna e l’avevano portata via. Suite française era il titolo scelto e per quanto nei piani della sua autrice esso prevedesse ancora un volume, relativo a come quel conflitto sarebbe finito, era omogeneo e a sé stante nelle due parti che lo componevano. Pubblicato a mezzo secolo di distanza, il romanzo ebbe un successo clamoroso, vinse dei premi, riportò alla ribalta il nome Némirovsky.

Anche in Italia il suo è stato un caso letterario. È Adelphi, infatti, l’editore che ne ha comprato i diritti e da Il ballo a David Golder, da Jézabel a Come mosche d'autunno a, appunto, Suite francese, ogni titolo si è rivelato un successo e ha contribuito a fare del suo autore uno dei più venduti e dei più citati. Poiché nel corso della sua vita Irène scrisse una decina di romanzi e una quarantina di racconti, il fenomeno è destinato a continuare nel tempo.

Adesso ancora Adelphi manda in libreria La Vita di Irène Némirovsky di Olivier Philipponnat e Patrick Lienhardt (traduzione di Graziella Cillario, pagg, 516, euro 23), uscita due anni fa in Francia da Grasset, una biografia molto ben documentata grazie alla quale del personaggio sappiamo praticamente tutto, compreso il forte tasso autobiografico della sua produzione, in pratica una sorta di reinvenzione artistica della sua famiglia, degli ambienti in cui visse, dei suoi gusti, delle sue passioni e dei suoi odii. E tuttavia, in questo saggio, così come nel successo che ha arriso a quanto finora è stato via via pubblicato, resta un elemento di ambiguità che nessuno si decide veramente a sciogliere e sul quale vale la pena di riflettere. Lo facciamo con tutta la delicatezza del caso, ma crediamo ne valga la pena.

Il fatto che la Némirovsky, intellettuale ebrea di origine, per quanto convertita al cattolicesimo, sia stata una vittima della «soluzione finale» hitleriana, potrebbe spiegare di primo acchito il perché di tanto interesse di pubblico e di critica: una sorta di risarcimento postumo per un nome che pure, negli anni Trenta, aveva goduto di risonanza, una sorta di mea culpa nei confronti di chi si era identificata con la Francia, la sua lingua, la sua storia, la sua cultura, e dalla Francia in fondo era stata abbandonata e poi tradita... Nel 1929 David Golder, il suo romanzo d’esordio per Grasset, vendette 60mila copie, ebbe una riduzione teatrale e una cinematografica, quest’ultima per la regia di Julien Duvivier, che andò persino alla Mostra del Cinema di Venezia del 1932...

E però, se si va più a fondo, un po’ tutta la narrativa della Némirovsky è un susseguirsi di ritratti e di ambienti in cui la «razza ebraica», come si sarebbe detto un tempo, non appare nella sua luce migliore, ma è spesso e volentieri un concentrato di avarizia e di cupidigia, di odio e di crudeltà, di disordine sociale e morale, di incapacità e/o non volontà di assimilazione, di vera e propria «razza a parte» insomma, nemica a tutti e in fondo nemica anche a se stessa...

C’è di più: russa di nascita (Kiev, 1901), la Némirovsky fugge dal suo Paese nel momento in cui i bolscevichi prendono il potere: la sua famiglia appartiene alla buona borghesia degli affari, lei ha l’educazione classica di chi fra istitutrici e lezioni private non si mischia al contatto promiscuo delle scuole pubbliche, passa le vacanze sulla Costa Azzurra, soggiorna ogni anno a Parigi... È una «russa bianca», insomma, con un padre banchiere e finanziere, una madre che pensa soltanto alle toilettes e agli amanti, un treno di vita che l’esilio, prima in Finlandia, poi in Svezia, infine in Francia, non muta più di tanto: appartamento sulla Rive droite, in pratica affacciato sugli Champs Elisées, studi alla Sorbona, estati a Biarritz o a Dauville... L’anticomunismo, insomma, è un dato acquisito, qualcosa che Irène respira fin da ragazza: ha fatto in tempo a vedere lo scoppiare della rivoluzione, i processi sommari, i saccheggi e i massacri. Non lo dimenticherà mai.

Infine, c’è un altro elemento da aggiungere al puzzle finora composto e alla ambiguità che lo circonda. Nel suo decennio letterario la Némirovsky scrive in linea di massima per testate che appartengono al largo spettro della destra francese, ha Robert Brasillach fra i suoi critici più entusiasti, ma anche più avvertiti quanto alla sua arte, ai suoi pregi e ai suoi difetti, frequenta Paul e Hélene Morand... Non è una scrittrice di politica, certo, non si interessa più di tanto alle ideologie, certo, ma è naturaliter di quel mondo borghese, antiparlamentare, antidemocratico, anticomunista, con qualche simpatia per il fascismo, con molte perplessità sul nazionalsocialismo, nazionalista e quindi attento al suolo, al sangue, alla radici, che è il mondo della destra francese della prima metà degli anni Trenta.

La Némirovsky, insomma, faceva parte di quel milieu di ebrei antisemiti di cui oggi non si riesce quasi più ad avere un’idea, ma che fra le due guerre mondiali esistette e spesso fu intellettualmente maggioritario: un atteggiamento etico ed estetico, il disprezzo per l’oro e per l’usura, per chi era considerato un senza patria, per chi rimaneva chiuso nel suo piccolo mondo di tradizioni e di riti.

Siamo di fronte, dunque, a un destino particolarmente tragico perché la Némirovsky è, come dire, vittima dei suoi «amici», non dei suoi nemici. Nelle lettere che Michel Epstein, il marito, scriverà a Otto Abetz, il potente capo della cultura tedesca in terra di Francia, si sottolinea in fondo proprio questo: l’essere anticomunista, il non avere tenerezza per gli ebrei, il fatto che i suoi libri continuino a essere pubblicati, che insomma non sia nella lista nera degli scrittori da dimenticare... Non è nazista Irène, certo che no, e non può sapere quale tragedia politica e morale sarà il nazismo, e il suo iniziale credere in Pétain non vuol dire augurarsi sterminio da un lato, sudditanza dall’altro. Abituati a ragionare con la testa del presente sulla realtà del passato, si fa fatica a capire le scelte di campo, le motivazioni, le speranze e le illusioni. Irène non penserà mai di mettersi in salvo perché crede di essere già in salvo: fa parte dell’intellighentia, di una nazione che ama e difende i suoi scrittori, è legata da sentimenti di amicizia con intellettuali e politici che ora godono di un peso maggiore rispetto agli anni di pace, è, insomma, nella stessa barca dei «vincitori».
Perché dovrebbero buttarla a mare, perché le dovrebbero fare del male? È per questa ambiguità che non si salvò. È questa ambiguità che ancora oggi fa velo a cosa veramente fu la Francia (e non solo la Francia) di ieri.


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jeudi, 15 avril 2010

"Proust è un bavoso". Viaggio nella biografia di un genio fulminato

«Proust è un bavoso»
Viaggio nella biografia di un genio fulminato

di Stenio Solinas

Fonte: il giornale [scheda fonte]

 «Gli editori sono tutti carogne». «Non aggiungete una sillaba al testo senza preavvisarmi! Fottereste il ritmo come niente - solo io posso ritrovarlo là dov’è. Ho l’aria bavosa, ma so a meraviglia ciò che voglio. Non una sillaba. Fate anche attenzione alla copertina. Niente music Hallismo. Niente sentimentalismo tipografico. Del classico». «I critici dicono sempre fesserie. Giornalisti innanzitutto, lavorano di chiacchiere, piccoli ricatti... Ci vorrebbe qualcuno che si decidesse a coprirmi di sputi!... La gente è sadica, vigliacca, invidiosa, distruttrice. Ha bisogno di sentire il saccheggio, lo spappolamento, altrimenti non ci sta...». «Bisogna vedere gli uomini come cani. Ciò che fanno, abbaiano, ringhiano, spiritualmente non significa niente, meno che zero... Purtroppo ci toccano le conseguenze materiali, ma moralmente... Cani, nient’altro che cani. Tutto è permesso, insomma, per evitare i loro morsi e ingannarli e aizzarli in modo che si sbranino fra loro. Meglio dimenticare tutto, mascherare in musica l’orrore del vivere».

Ma sì, è Céline che batte alla porta, strepita, irride, minaccia e s’incazza... Ben tornato Ferdinand sull’onda delle oltre 2mila pagine del volume che raccoglie una antologia monstre (più di 1500 lettere) della sua corrispondenza, dalla giovinezza alla morte (Lettres, Gallimard, collezione Bibliothèque de la Pléiade, pagg. 2080, euro 66,5; a cura di Henri Godard e Jean-Paul Louis). Per la prima volta, insieme con molti inediti, l’epistolario celiniano fino a oggi sparso e spesso disperso in innumerevoli rivi editoriali (le lettere dall’Africa, le lettere alle amiche, quelle agli editori e agli avvocati, le lettere dall’esilio) viene selezionato e cronologicamente ordinato. Il risultato è imponente.

Il carteggio è una miniera di informazioni sul Céline scrittore, sui suoi procedimenti, sulle sue idiosincrasie, ma ne scandaglia anche il privato: la passione per la bellezza («Sono pagano per la mia assoluta adorazione della bellezza fisica, della salute. Odio la malattia, la penitenza, il morboso(...) Perciò ho amato tanto l’America. La felinità delle sue donne!(...). Tranquillo stallone, guardone, palparle è un incanto senza pari, mi inebria, mi ispira - Darei tutto Baudelaire per una nuotatrice olimpionica»); il rifiuto della vita reale, obiettiva, il peso degli anni e dei guasti fisici.

Dietro il cliché del «medico dei poveri» la corrispondenza fa rigalleggiare il bell’uomo alto più di un metro e ottanta, che indossa abiti di buon taglio e stoffa inglese, biondo e con gli occhi azzurri, che conosce il mondo e il bel mondo, uno che a Ginevra come a Vienna, a New York come a Londra, sa dove andare, come muoversi, cosa vedere, a proprio agio con pianiste come Lucienne Delforge, con scultrici come Louise Nevelson, con figlie della buona borghesia di provincia come Edith Follet, la sua prima moglie. Vive in un appartamento moderno, con qualche souvenir coloniale, in rue Lepic: è cortese, ma riservato.
Ciò che nelle lettere d’anteguerra è accennato, sparso e variegato, in quelle post-belliche tende a raccogliersi su un triplice binario. Sul primo corre il métro emotif, il treno dello stile. «Tutto il mio lavoro è consistito nel cercare di rendere la prosa francese più sensibile e tesa, precisa, sferzante e cattiva iniettandole un linguaggio parlato, il suo ritmo, il suo tipo di poesia e di tenerezza malgrado tutto, di resa emotiva». «Io seguo con le parole l’emozione, non le lascio il tempo di rivestirsi in frase... l’afferro nuda e cruda, o meglio, nella sua poeticità. Perché il fondo dell’uomo malgrado tutto è poesia - il ragionamento si apprende, così come si impara a parlare - il bebè canta - il cavallo galoppa - il trotto è di scuola». «Non creo nulla, in verità - è come se ripulissi (...) una statua seppellita nell’argilla -

Esiste già tutto (...) Occorre soltanto spazzare (...) portare alla luce del giorno - AVERE LA FORZA - è una questione di forza - forzare il sogno nella realtà - una questione di pulizia (...) È un lavoro da operaio - operaio nelle onde».

Sul secondo corre il vagone della negazione e/o riduzione di ciò di cui è incolpato, della «congiura» ai suoi danni. «Sono un patriota sfrenato in un Paese di degenerati, lacchè e bastardi. Si tratta di ben altra cosa che tradimento, è precisamente il contrario. Sono gli altri, tutti gli altri che galoppano urlando dietro la bandiera, gareggiando per farsi inculare dal migliore offerente». «Ci si accanisce a volermi considerare un massacratore di ebrei. Io sono un preservatore accanito di francesi e di ariani - e contemporaneamente, del resto, di ebrei! Non ho voluto Auschwitz, Buchenwald. Cazzo! Basta! (...) Ho peccato credendo al pacifismo degli hitleriani, ma lì finisce il mio crimine». «La Germania mi fa naturalmente orrore. La trovo provinciale, pesante, grossolana (...) Per me è quella del ’14, la gare de l’Est, la linea dei Vosgi, la morte, la salsiccia, l’elmetto a punta».

Sul terzo, infine, fila il direttissimo delle recriminazioni, delle ingiurie, degli editori traditori, dei soldi che non arrivano, della pubblicità che manca, del boicottaggio. Sotto un torrente di minacce e prese per il culo, gli interlocutori passano la mano. Jean Paulhan, il «cervello» della casa editrice Gallimard lascia nel 1955, stanco e disgustato. «Di che si lagna quel vecchio bavoso - sarà il commento - Trova che la sposa è troppo bella, ha troppo temperamento?».

E l’antisemitismo? Céline lo trasforma in pacifismo, lo scolora, più che negarlo lo orienta in maniera diversa, fino a trasformare sé stesso nell’unico vero ebreo errante: esiliato, offeso, perseguitato... Ma dietro al razzismo c’è anche una questione di stile, come una lettera del 1943, che ha per tema Proust, mette bene in evidenza. «Lo stile di Proust? È semplicissimo. Talmudico. Il Talmud è imbastito come i suoi romanzi, tortuoso, ad arabeschi, mosaico disordinato. Il genere senza capo né coda. Per quale verso prenderlo? Ma al fondo infinitamente tendenzioso, appassionatamente, ostinatamente. Un lavoro da bruco. Passa, viene, torna, riparte, non dimentica nulla, in apparenza incoerente, per noi che non siamo ebrei, ma riconoscibile per gli iniziati. Il bruco si lascia dietro, come Proust, una specie di tulle, di vernice, che prende, soffoca riduce e sbava tutto ciò che tocca - rosa o merda. Poesia proustiana. Quanto alla base dell’opera: conforme allo stile, alle origini, al semitismo: individuazione delle élites imputridite, nobiliari, mondane, invertiti etc. in vista del loro massacro. Epurazioni. Il bruco vi passa sopra, sbava, le fa lucenti. I carri armati e le mitragliatrici fanno il resto. Proust ha assolto il suo compito». Conclusione: nel 1943 l’autore della Recherche avrebbe applaudito la sconfitta tedesca a Stalingrado...

Scrittore antimaterialista, Céline cercò di combattere il materialismo usando uno strumento, la razza, altrettanto materiale e, come tale, incapace di cogliere differenze di valori e di sensibilità. L’ideale ariano si trasformerà in beffa allorché, dopo essere stato imprigionato in Danimarca, si troverà a scrivere: «Merda agli ariani. Durante i 17 mesi di cella non un solo fottuto dei 500 milioni di ariani d’Europa ha emesso un gridolino in mia difesa. Tutti i miei guardiani erano ariani». Quando si predica la purezza c’è sempre qualcuno che si crede più puro di te. Un genio fulminato.


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mardi, 13 avril 2010

Dossier Dantec (2004)

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2004

DOSSIER “DANTEC”  :

 

Dantec devant les cochons

Source : http://ca.altermedia.info

 

MD-B.gifComme Présent l’avait prévu dès l’automne (1), le grand romancier et essayiste Maurice G. Dantec est soumis depuis quelques jours à une attaque en règle des «.Maîtres Censeurs » (2), de ces petits marquis islamo-gauchistes qui, depuis leurs quartiers chics et tranquilles de Saint-Germain veulent régenter les lettres et la pensée française.

 

Tout a commencé par une curieuse offensive à l’évidence préméditée, et collective, sur le forum du journal gratuit canadien Voir (3) qui s’est soudainement mis à vomir des messages d’insultes contre l’auteur de Babylon Babies (4) coupable, en vrac, d’être un « nazi américano-sioniste » (?), un islamophobe, un facho, et autres noms d’oiseaux.

 

Entre-temps, Dantec qui, du fait d’un quasi ostracisme dans les médias français, a pris l’habitude de lire, écrire et débattre sur le Web, lequel reste – pour le moment – un espace de liberté, commit l’irréparable péché de s’inscrire à la newsletter du Bloc Identitaire (5). Pire encore, l’écrivain poussa le vice jusqu’à accompagner cette démarche d’une lettre à Fabrice Robert, dirigeant du Bloc, pour lui préciser que, bien qu’en désaccord fondamental sur les positions de cette formation en ce qui concerne les Etats-Unis et Israël, il appréciait leur bel activisme contre le groupe de rap anti-français Sniper, pour leur défense de l’abbé Sulmont, et, plus généralement, leur lutte contre l’islamisation de la France. Last but not least, en homme courtois (quel ringard !), il leur souhaitait à la fin de cette missive, dont il autorisait la publication, tous ses vœux pour 2004… C’en était trop !

 

Ou plutôt, bien sûr, c’était enfin le « faux pas », qu’attendait le troupeau gras des cochons de la médiaklatura pour couiner en chœur leurs délations, leurs malédictions et leurs excommunications contre l’intellectuel qui avait osé, entamer un débat avec les intouchables, les lépreux de la droite identitaire !

 

Des « cochons » oui, comme disait Léon Bloy (1) qui fut aussi, en son temps, la cible d’une vindicte généralisée de la presse parce qu’il avait eu le malheur de défendre Tailhade ; et qui leur répondit en rédigeant Léon Bloy devant les cochons (6), que nous nous sommes permis de paraphraser dans notre intitulé. Des cochons comme ceux qui, dans l’excellente fable de George Orwell, prennent le pouvoir de La ferme des animaux en y installant leur totalitarisme absurde pour mieux se goinfrer au nom de la liberté.

 

Des cochons donc, vautrés dans leurs turpitudes, qui trouvent charmant d’aller biser les terroristes du Chiapas, de fêter le livre (!) chez Fidel Castro, de voter pour Arlette Laguiller, et, donc, le projet d’une bonne révolution sanglante, ou encore, et la liste serait longue, répandent leur vulgate d’anciens communistes, complices de régimes génocidaires, dans toutes les feuilles et sur tous les écrans.

 

C’est Libé, bien sûr, qui a sonné l’hallali, jeudi, en un article où l’amalgame simpliste n’avait d’égal que le verbe venimeux. Le Monde récidivait dans la foulée – « Dantec s’affiche avec l’extrême droite » - dans l’inénarrable style bolcho-jésuitique qui est le sien. Et c’est d’ailleurs dans ses colonnes que l’on pouvait lire avec stupeur la « réaction » de Patrick Raynal, directeur de collection du pestiféré Dantec, qui enfonçait ainsi l’un de ses poulains en s’estimant « catastrophé, étant contre toutes les opinions » de Maurice G. Dantec. Consternant.

 

Et l’ « affaire Dantec » d’enfler maintenant jusqu’au Canada, où le quotidien La Presse a cru bon d’apporter ses rondins au bûcher. Sans parler d’internet qui voit les sites gaucho-bobos se remplir d’indignation vengeresse. Mais nous concluions lors de notre précédent article que l’écrivain catholique n’était pas du genre à se laisser faire sans combattre. Lui qui pense la littérature comme un combat pour la Civilisation Occidentale chrétienne et se veut un « guerrier du Verbe », ne manque pas de rage et de souffle.

 

Déjà, ses réponses fusent depuis Montréal comme autant de missiles intercontinentaux ! Il y dénonce avec véhémence ces « journalistes » sans déontologie ni métier, leurs « mensonges » « qui prouvent [qu’ils sont] très proches des officines de désinformation gouvernementales ». Il assume ses écrits, avec une belle témérité qui devrait faire honte à tous les lâches du système, chiens couchés, silencieux, aux pieds des inquisiteurs de la grosse presse anarcho-trotstko-bancaire.

 

Mais nous disions aussi, « qui sait s’il ne se trouvera pas de nombreux et inattendus soutiens qui rallieront le labarum archéo-futuriste de ce Constantin de la littérature française ». Et c’est ce qui semble arriver. Déjà, nous savons que de nombreux mails et courriers de fans, issus de tous les milieux et de tous bords, partent en direction de la prestigieuse maison Gallimard (7) afin qu’elle mobilise pour soutenir son auteur. La revue culturelle Cancer ! n’est pas en reste, qui a ouvert une page spéciale sur internet (8) et dont les rédacteurs se solidarisent avec maudit ; le site subversiv.com aussi, qui publie une interview choc de Dantec et bien d’autres encore, dont, évidemment, les militants du Bloc identitaire.

 

On peut aussi imaginer, et nous l’espérons, que ses amis intellectuels et écrivains dits « nouveaux réactionnaires » qui avaient fait naguère crânement face à l’attaque du commissaire politique Lindenbergh, sauront faire preuve de solidarité avec lui. Et puis, la meilleure solution est encore d’aller acheter massivement les œuvres de Dantec, en vente dans toutes les librairies, car dans ce monde hélas dominé par le fric, c’est par le porte-monnaie qu’il faut convaincre le landerneau des lettres que ce genre de lynchage ne nous impressionne plus.

 

Olivier GERMAIN.

 

1. Faut-il brûler Maurice G. Dantec, Présent du 3 octobre 2003

2. Elizabeth Lévy, Lattès, 2002

3. www.voir.ca

4. Gallimard, La Noire, 1999

5. Bloc Identitaire – BP 13 – 06301 cedex 04 et www.les-identitaires.com

6. Mercure de France, 1895

7. Éditions Gallimard – 5, rue Sébastien-Bottin – 75328 Paris cedex 07. presse-serie-noire@gallimard.fr - Tél. : 01.49.54.42.00 Fax : 01.45.44.94.03

8. http://frkc.free.fr/revuec/dantec_nettoyage.htm sur revuecancer.com

 

“Dantec, un catholique futuriste”

 

MD grandjunction.jpgQue cette affaire Dantec est significative ! Que la France et le Québec représentent à la perfection le pire Occident ! Chez nous, une lâcheté endémique, apprise d’abord à la garderie, puis à l’école primaire, où l’on enseigne aux garçons à ne pas être des garçons, où ils sont castrés, n’ont pas le droit de se chamailler, sont traités comme de futurs hommes roses (ou gris), et ainsi de suite jusqu’à l’université. Le système d’éducation du Québec est une vaste entreprise de féminisation du mâle. On extirpe des coeurs toute violence et toute agressivité au lieu de discipliner et d’ennoblir ces instincts à l’origine des vieilles vertus militaires et chevaleresques garantes de la véritable paix et de la sécurité des plus faibles. On construit de cette façon un petit être inoffensif, fatigué, dépressif, aux instincts appauvris, sans résistance, et qui subit toujours. De là, le pacifisme des jeunes. Y a-t-il pire maladie morale ?

 

FAITES LE MORT, PAS LA GUERRE ! Ce défaitisme ignoble nous a été inculqué sur les genoux de nos professeurs. Nos politiciens sont des produits de cette éducation : des chiffes molles sans dignité. Cela c’est nous ! Le Québécois ressemble au dernier homme que redoutait Nietzsche. C’est en ce sens que le Québec est le théâtre des opérations. Le nouvel Adam, le produit glorieux (et ultime) de l’histoire universelle, c’est bien l’homo quebecensis, un homosexuel athée et pacifiste de gauche dont la bouille à la Michel Tremblay attend de se retrouver sur tous les timbres postes de l’Anation québécoise et qui tend les bras à Kofi Annan, pour que soit fondée sur le sinistre modèle québécois l’Anation mondiale ! Le Québec n’est tout entier qu’une maladie. Il est aussi, à sa manière, une prophétie. Pourquoi en sommes-nous arrivés là ? N’est-ce pas parce que nous avons imité la France ? Le totalitarisme cool à la québécoise, la décomposition arrogante, le pourrissement béat de toute une société (et non seulement d’une classe), nous viennent en droite ligne (par la gauche) de nos cousins français. La France et le Québec sont des dissociétés qui se confortent dans l’auto-adulation ("société distincte” ou “spécificité française"), l’antiaméricanisme, l’intolérance branchée, le conformisme culturel, le relativisme moral, le libéralisme extrême, une dépendance psychopathologique aux programmes sociaux, psycho-sociaux, méta-sociaux. La France et le Québec modernes, c’est l’Occident ” délivré ” du christianisme. Une proie facile !

 

Le Québec singe une France en train de crever et j’ose affirmer qu’il a dépassé son modèle. Il est vrai que la crevaison finale, lorsqu’il existe un désir sincère de ne pas être, un goût délicat d’extinction et de mensonge, une identité de plus en plus incertaine, n’est pas une tâche surhumaine. Loin de là ! L’islam dans un contexte pareil est simplement en train de terminer le travail…

 

Plusieurs ont consenti à ce qui apparaît comme une fatalité. Pas Dantec. Il a compris que l’Occident, ses libertés, sa pensée, son art, n’ont nul autre appui que le Dieu chrétien et juif, Créateur et Rédempteur. Il a donc entrepris de mettre fin à la grande crise nihiliste avant que celle-ci ne détruise l’Occident. De quoi l’accuse-t-on au bout du compte ? D’avoir greffé à des propos essentiellement raisonnables un peu de véhémence ? Eh quoi ! Il en faut lorsqu’on essaie de réveiller les morts, c’est-à-dire une gôche qui a tout bradé, l’honneur inclus, ainsi qu’une vieille droite nostalgique, neurasthénique, hystérique et paraplégique, complice de la décadence, à laquelle elle se complaît en un voyeurisme stérile et ambigu !

 

Dantec est un catholique futuriste (je mentionne que l’un des grands convertis du XXe siècle, Giovanni Papini, est issu du futurisme). Appelons catholiques futuristes ceux qui ont réussi la traversée du désert nihiliste pour enfin retrouver la Terre promise, plus splendide qu’aux premiers jours du monde. Et le voilà dans la bataille ! Qu’il est beau, qu’il est émouvant le courage du lion face aux hyènes… On le compare à Louis-Ferdinand Céline. Moi je discerne les ombres de Tertullien et de Léon Bloy, deux théophores, hagiophores, christophores et naophores (j’emploie ici le vocabulaire fastueux de saint Ignace d’Antioche), capables eux aussi d’une salutaire férocité. N’oublions jamais que nous devons affronter une énergie effrénée et vicieuse avec une vigueur virile et rationnelle (” We must meet a vicious and distempered energy with a manly and rational vigour ”, Edmund Burke).

 

Dantec nous réapprend une vertu trop dédaignée, la vertu de force. Il est bon qu’il soit parti de Nietzsche (et mieux encore qu’il ne s’y soit pas arrêté), car la vertu de force est inconsciemment (et quelquefois consciemment) méprisée par plusieurs chrétiens. Ne savent-ils plus que sans elle il n’existe ni véritable paix ni vraie justice ? La mentalité pacifiste et gauchisante est en définitive l’outil idéal pour l’islamisme et ses sbires. La lutte contre l’Islam jihadiste contribuera-t-elle à une renaissance de la France, à l’image de l’Amérique qui, elle, réussira (peut-être) sa Contre-révolution à cause de l’odieuse agression d’Al Qaeda ? L’Amérique croyait à tort avoir apprivoisé l’esprit révolutionnaire avec le libéralisme lockien et jeffersonnien. Elle ignorait que, insatiable, le principe révolutionnaire ne se contente ni de l’individualisme, ni même du collectivisme : on ne satisfait jamais un monstre dont la nature est de toujours répondre oui au mal. Pour lui, the Hell is the limit. Les meilleurs parmi les conservateurs américains ont alors compris que, s’ils ne réagissaient pas, surgirait le règne des égorgeurs, ceux-ci invités, cajolés, soutenus, par l’anomie libérale et qu’il fallait d’urgence que l’Amérique s’enracine à nouveau dans le christianisme natal qui l’a fondée. Quel spectacle et quel combat chez nos voisins du sud ! Le Joseph de Maistre américain, Orestes Brownson, enseignait déjà, en plein XIXe siècle, que le destin de l’Amérique et celui de l’Occident étaient suspendus au mouvement civilisateur universel : l’Église catholique romaine.

 

Aujourd’hui, plusieurs intellectuels américains ont recueilli la leçon du maître. Pendant ce temps, dans la Francité islamophile, le cercle des saddamistes dépités, (l’expression appartient à l’excellent Guy Millière) s’acharne contre le héros qui refuse la fin de la France, malgré la France elle-même. Osons, à la façon de Montalembert, une prédiction : le fils des croisés ne sera pas vaincu par les fils de Voltaire et par ceux de Mahomet. En tout cas, ce n’est pas la lecture, sur le site de Cancer!, des réactions d’Albert Sebag (Le Point) et de Pierre Marcelle (Libération) qui abattront un Dantec. Quel tartuffe que le premier et quel animal venimeux que le second ! Je ne me permettrai qu’une seule remarque à ces adeptes de la non-résistance à l’islam.

 

L’islamophobie, comme ils disent, est un signe de santé. Un chrétien islamophile se dénomme dhimmi (un dhimmi en devenir, comme les Français actuels, ou en fonction, comme les chrétiens du Proche Orient) ! La crainte de l’Islam est traditionnelle en Occident. Elle est en outre parfaitement justifiée par l’histoire et par la théologie. Ce n’est pas Dantec qui fait de Mahomet une des trois grandes figures de l’Antéchrist, c’est le Cardinal John Henry Newman, un exemple suprême d’urbanité (dixit l’incroyant Matthew Arnold) dans la littérature anglaise et l’un des plus grands théologiens depuis saint Thomas. Selon Newman (dans ses sermons sur l’Antéchrist), les trois grandes figures annonciatrices de l’Antéchrist sont Antiochus Épiphane, Julien l’Apostat et Mahomet. Le premier s’attaque spécifiquement à la religion (juive, évidemment). Le second est devenu empereur, quelques années après l’apparition d’une des plus terribles hérésies chrétiennes : l’arianisme. Il a d’ailleurs été éduqué par des Ariens (qui niaient la consubstantialité du Fils avec le Père et donc la divinité du Christ). L’arianisme fut pendant un certain temps quasi tout-puissant dans la chrétienté. On peut soutenir qu’il annonce l’islam et que celui-ci est bien, dans l’esprit de Newman (comme dans celui de Dantec) la grande division (plus importante que la Réforme). En ce sens, il faudrait parler de l’islam comme d’une première modernité (qui se joint en notre temps à la modernité occidentale proprement dite). L’avancée actuelle de l’islam en Europe n’est-elle pas annonciatrice de l’assaut ultime du nihilisme ? Dantec le croit : il a senti l’odeur de la bête.

 

Marcelle met sur le même plan l’antisémitisme et l’islamophobie. L’erreur est manifeste quoique nullement désintéressée ! L’antisémitisme est une abominable hérésie pour un chrétien ou un fils de chrétien, une espèce de marcionisme inconscient, un rejet de l’Ancien Testament, un crime contre la première Personne de la Sainte Trinité. Mais l’islam est l’hérésie par excellence : négation de la divinité du Christ et mépris de l’ordre naturel, une hérésie qui entraîne “la dégradation de la femme, l’esclavage de l’homme et la stérilité de la terre” (Donoso Cortès). Heureusement, il y a quelqu’un quelque part qui veille et qui résiste.

 

Jean RENAUD,

30 janvier 2004

 

Jean Renaud est le Directeur de la rédaction d’Egards, revue de résistance conservatrice - http://www.egards.qc.ca

 

Le droit de réponse de Maurice G. Dantec, REFUSÉ par Libération

 

MD-LRDM-B.gifIl existe un Paradis pour les journalistes. Comme il existe un enfer pour les écrivains.

 

Le paradis des journalistes s’appelle : LA PEUR. Et il conduit très directement à l’enfer des écrivains.

 

La Peur est le véritable maître de l’Homme de presse, c’est par elle qu’il règne, depuis bientôt 200 ans, sur la libre pensée, qu’il écrase de ses bottes à chaque occasion qui se présente. Celle-ci devient de plus en plus en rare. LA PEUR ! Son régime de domination si particulier s’est en effet instauré dans tous les esprits. Tout le monde est le flic de chacun, et de tous, et à commencer par soi-même.

 

Ernest Hello avait su, il y a plus d’un siècle, en quelques lignes fulgurantes, délimiter fermement la ligne de partage entre la peur et la crainte. La crainte c’est ce qui vous force à vous agenouiller devant la plus haute des souverainetés, et en fait elle conduit à la JOIE. La peur, créature du Diable, ne forme au final que des valets, dont l’angoisse est proportionnelle à l’ennui. Aussi, dès que par l’effet d’une sorte de hasard parfaitement impromptu, une voix ressurgit du silence, c’est-à-dire du bavardage continu qu’ils avaient cru une fois pour toute installé sous leur arbitrage, alors leur sang de navet ne fait qu’un demi-tour et leur bouche écume la rage tout juste bouillonnante des petits frustrés.

 

Pierre Marcelle est le chef de ces Archanges dont les merdicules d’encre et de papier mâché auréolent la présence plus sûrement encore que le halo des saints. Il est le Grand Vigile. Le Grand Collaborateur. Il est celui qui veut que les paroles qui sont des actes (je paraphrase à nouveau le grand Hello) cessent, immédiatement, car pour lui, la parole, il suffit de lire sa consternante prose dont on ne voudrait pas comme serpillière à urinoirs pour s’en apercevoir, la parole, pour Marcelle, c’est ce qui se répète, jusqu’à la nausée, dans les colonnes de son torchon.

 

La Peur a un seul ami. Son nom est Mensonge. Par exemple, lorsque ce triste Jdanov du Ve arrondissement se permet de dire que je me suis lié politiquement à un groupe néo-nazi, l’enflure Marcelle ne peut invoquer l’erreur : il commet sciemment un double-mensonge, comme d’autres pratiquent le double fist-fucking. Marcelle avait envoyé quelques sbires faire le sale boulot à sa place il y a une quinzaine de jours. Après tout, pourquoi paye-t-on au lance-pierre, avec des salaires de peóns brésiliens, les pigistes de Libé ?

 

Mais sa petite conjuration n’a trouvé qu’assez peu d’imbéciles pour lui emboîter le pas, mis à part ce qui fut un jour “Le Monde”. Aussi, enragé d’être forcé de constater que toute la France médiatico-culturelle ne le suivait pas comme un seul homme, prêt à brandir la tête de l’infâme au bout de sa pique, Marcelle, son courage ne parvenant pas tout à fait à se liquéfier sous lui, l’a pris à deux mains et l’a répandu dans un article dont la confection et le message rappellent fâcheusement, même certains de ses “amis” s’en sont rendus compte, les méthodes du Die Stürmer ou de la Pravda de la grande époque. Rien, absolument rien ne peut arrêter un Pierre Marcelle. Rien ne peut arrêter le nihilisme de ces petits-bourgeois de gauche, rien ne l’arrêtera, sinon sa propre agonie, qui est d’ailleurs si proche que c’est à se demander si tous ces piaillements ne signifient pas en fait que son heure, enfin, a sonné.

 

Ce qui, bien sûr, augmente d’autant la détresse du Marcelle. Le Marcelle vit dans un Monde qui doit absolument se perpétuer, c’est à dire sous la forme désormais indépassable de la contestation-marchandise.

 

Dans le Monde des Marcelle vous avez le droit d’être tout :

Vous avez le droit d’être homosexuel.

Vous avez le droit d’être athée.

Vous avez le droit d’être communiste.

Vous avez le droit d’être socialiste.

Vous avez le droit d’être écologiste.

Vous avez le droit d’être anarchiste.

Vous avez le droit d’être pro-islamiste.

Vous avez le droit d’être anti-sioniste.

Vous avez le droit d’être libéral.

Vous avez le droit d’être anti-libéral.

Vous avez le droit - et même le devoir - d’être anti-impérialiste.

Vous avez le droit (comprenons-le en fait sous le sens de “devoir") d’être anti-occidental.

vous avez le droit (devoir) d’être anti-capitaliste.

Vous avez le droit-devoir d’être contre toute “survivance de l’ordre ancien” honni.

 

Mais vous n’avez pas, bien sûr, le droit d’être “nazi”, car ce mot-valise fort pratique permet désormais d’enfermer à double tour toute pensée critique dans les oubliettes du déshonneur, mais surtout :

Vous n’avez pas le droit d’être Chrétien, et encore moins Catholique.

Vous n’avez pas le droit d’être Sioniste.

Vous n’avez pas le droit d’être opposé - théologiquement et politiquement, ce qui ne fait qu’un dans cette religion - à l’Islam (sous peine d’être taxé d’islamophobie, cette maladie mentale qui fait, comme en son temps l’anticommunisme, des dégâts sans cesse croissants dans la conscience des européens).

Vous n’avez pas le droit d’engager un dialogue poli, quoique très critique, avec des gens qui ont été enfermés dans le mot-valise des Marcelle.

Enfin, vous n’avez pas le droit de vous émouvoir, avec quelque indignation, de l’existence de centres de viol répandus par centaines dans les “cités” de notre bienheureuse “République”.

 

Les Marcelle ne veulent pas que cela s’ébruite. Car leur Paradis pourrait alors s’écrouler.

 

C’est alors que leur seule amie, la PEUR, entre en jeu. Leur Monde ne pourrait tenir sans elle, car elle est ce qui, pour le moment encore, interdit aux bouches de s’ouvrir. Mais la peur est une physique instable, elle est une créature du diable, les Marcelle s’en croient les commanditaires, ils n’en sont que les manœuvres. Et c’est pour cela que la PEUR, maintenant, leur revient à la face. Quelque chose s’est produit. Quelque chose a désorbité la peur de sa propre balistique quotidienne. Quelque chose a retourné la PEUR contre elle même. Et cette chose, ô Miracle, c’est LA PEUR ELLE-MÊME.

 

Le paradis des Marcelle n’est qu’un simulacre, un PROGRAMME. Il est à peu près aussi réel que la dernière version de SuperMario. Le Monde réel, lui, vit sous sa domination car il croit que c’est ce simulacre, le réel, et lui-même, ne lui a t-on pas assez rabâché, qui est un pur phantasme. Par exemple le type qui se fait cramer trois fois sa bagnole dans l’année vit un PHANTASME. Comme les adolescentes violées en tournantes. Comme les gens qu’on fracasse à coups de pierres parce qu’il n’auront pas donné une cigarette, comme les filles qu’on incendie avant de les jeter dans une benne à ordure.

 

Le Paradis des Marcelle n’est valable que pour les Marcelle, et leurs sous-fifres. Il n’est donc réel que pour eux. Les autres, ces pauvres phantasmes dont l’idiotie est sans cesse moquée et dénoncée par les Maîtres du Simulacron, n’ont souvent - pour survivre dans le grand camp de concentration franco-mondial - comme nourriture de subsistance que des livres. C’est pour cela que l’œil du Grand Vigile est constamment braqué sur ceux qui parviennent encore à en écrire. Car nous parlons de livres, bien sûr, pas de ces objets de consommation jetables, comme les tampons hygiéniques, que précisément la Peur a domestiqué, et propose sans cesse aux citoyens de la “République”.

 

Dans son appendicule où chaque ligne exsude de haine et d’ignorance crasse, le Roi des Marcelle ne me promet rien moins que l’Enfer! Il se fait en cela, benoîtement, l’écho des quelques rumeurs qui ont couru sur internet au sujet de ma possible ”éviction” de chez Gallimard, et qui ont, de fait, créé l’effet papillon que personne n’attendait ! Pauvre Marcelle ! Incapable d’écrire dans une langue française un tant soit peu correcte, il croit pouvoir jouer les florentins de la rue Sébastien-Bottin ! Pauvre Marcelle qui n’a pas compris que LA PEUR que lui et tous ses sbires sans cesse distillent, a mobilisé, par milliers, à ce que je sais, des lecteurs de “Dantec-le-catho-facho” qui ont CRU, en effet - et n’avaient-ils pas toutes les raisons de le faire ? - que LA PEUR, encore une fois, aurait le dessus. Car cette PEUR, c’est celle dont Pierre Marcelle fait entendre régulièrement les jappement lugubres.

 

Ils ont en effet PEUR de toute la clique qui est aux commandes de la culture, tels des Duvalier du carré germanopratin. Ils connaissent son pouvoir de nuisance. Ils vivent eux-mêmes dans la PEUR. Cette PEUR, par je ne sais quelle divine intorsion des éléments, les a alors délivrés d’elle-même. Ils ont dit : NON. Ils ont dit NON, monsieur Marcelle, nous ne voulons pas que “Dantec” rejoigne “l’enfer” dans lequel vous avez jeté déjà tant d’autres écrivains, qui ne pensent pas comme vous.

 

Ils ont dit NON à votre Paradis monsieur Marcelle : vous êtes en effet très puissant. Vous être le valet de la Peur. Regardez maintenant son Maître droit dans les yeux.

 

MgDANTEC,

 

NE PAS SUBIR

Général de Lattre

 

Pour en savoir plus: http://www.egards.qc.ca

vendredi, 09 avril 2010

Avant-Garde Fascism

Avant-Garde Fascism

antliffAvant-Garde Fascism: The Mobilization of Myth, Art, and Culture in France, 1909–1939
Mark Antliff
Durham and London: Duke University Press,  2007

Mark Antliff, a professor of Art, Art History, and Visual Studies at Duke University, has put together a useful analysis of the cultural-aesthetic memes utilized by French fascists of 1909-1939 to promote their visions of national renewal. Antliff’s analysis focuses on the connection between fascist ideologies and the European avant-garde, which most people would more likely associate with the anti-national left. Antliff is fairly even handed in the book, with the occasional use of scare quotes to express his skepticism/disdain for certain “fascist ideas.”

In contrast, I believe his use of the term “democracy” should always have scare quotes, as “democratic” systems deceive the populace into believing that someone other than self-interested elites are running the show; however, apparently, Antliff and I disagree on our political preferences. Antliff also concludes the book with a line about how the ideas of the French fascists were not able to stem the tide of the “bloodshed” caused by the military aggressions of Hitler and Mussolini (including the invasion of France). Very well. One hopes an academic will write about the real blood that has been shed imposing “equality” on “the people” – either that of the mass-murdering Marxists or the genocidal globalist multiculturalists and their plans for a multiracial West. So much for my complaints about the book. What about fascism and avant-garde aesthetics?

Roger Griffin, in his Fascism (Oxford: Oxford University Press, 1995), famously described fascism as “palingenetic populist ultra-nationalism” – making the elements of renewal, rebirth, and regeneration central to all permutations of this ideology. It is also important to differentiate between real fascism and “para-fascist” ersatz fascism. Para-fascism is often confused with real fascism in the public mind, which gives the false impression that fascism is ossified reactionary conservatism, rather than a revolutionary movement interested in avant-garde themes and ideas.

The differences between real revolutionary fascism and para-fascism are easily summarized: Para-fascist regimes are authoritarian, traditionalist, reactionary regimes, often military dictatorships, that fossilize a status quo favoring traditional elites of business, nobility, religion, and the military. Such regimes want nothing to do with the revolutionary and palingenetic aspects of true fascism; the idea that the secular religious, Futuristic, and avant-garde characteristics of, say, (early) Italian Fascism has anything to do with Franco’s Spain or Pinochet’s Chile is absurd.

fortunato_depero_1945Indeed, as Griffin makes clear, fascists and para-fascists are usually, by their very nature, bitter enemies. While para-fascists may co-opt some superficial characteristics of their fascist opponents, in power they tend to ruthlessly suppress the expression of revolutionary fascism. When para-fascism attempts to co-opt fascism by sharing power – as Antonescu attempted in Romania with the Legionaries — conflict is inevitable, since the objectives of the two parties are completely different: para-fascist ossification vs. fascist palingenetic regeneration. Thus, in Romania, civil war between para-fascists and fascists led to the victory of the para-fascists, and the exile of the fascist forces. The idea that Antonescu was “fascist” is a byproduct of either ideological ignorance or ideological mendacity, a Marxist desire to strip their fascist competitors of revolutionary dynamism and reduce them to mere “bourgeois hooligans.”

Not all fascisms were equally “fascist” and revolutionary, and even individual fascist movements have oscillated between revolutionary ideals and borderline reactionary para-fascism.

For example, Italian fascism went through three distinct phases. In the years before the seizure of power and in the first half-dozen years of Mussolini’s regime, Italian fascism was in its “purest” form – revolutionary and palingenetic – emphasizing the regeneration of the Italian people and the Italian nation-state. Avant-garde themes and theorists, particularly Futurism, were important in this period, and individuals such as Marinetti were influential in early day Italian fascism.

However, the forces of reaction and of compromise with the establishment were always present; the presence of the King and the Vatican were two impediments to the process of “fascistization” that Mussolini could not, or would not, deal with. In the end, the Concordat was a turning point and the regime’s second phase veered to the “right” in the 1930s, becoming more conservative and reactionary, replacing internal regeneration with external imperialism. Without WW II, chances were good that Italian fascism would have degenerated into a stagnant para-fascist regime similar to that of Franco’s Spain.

Military defeat and the overthrow of Il Duce stopped that process; in the last and third phase of Italian fascism, the “Salo Republic,” the ideology shifted to the left, embracing a militant socialism, and becoming overtly pan-European in scope.

What about the Hitler and the Nazis? There has been some debate as to whether German National Socialism was a form of fascism. It seems to me obvious that it was; that differences existed between the Italian and German forms of fascism is not an argument against that conclusion. All genuine fascisms displayed important differences, yet still contained within themselves the core components of Griffin’s “palingenetic populist ultra-nationalism.”

In the case of National Socialism, the palingenesis was biological; Nazism was a heavily racialized and materialist form of fascism. The German National Socialists were tribalistic in worldview rather than Futurist, and, internal debates aside; Hitler himself was very hostile to the European avant-garde.

Thus, key differences between fascist forms are observed. The German brand had the biopolitical advantage of recognizing the importance of race. On the other hand, the Italian brand had the sociopolitical advantage of a more optimistic Futurist orientation, and was more open-minded with respect to tapping into the cultural energies created by the avant-garde artistic and sociopolitical movements extant in the first decades of the twentieth century.

eur-sq-colosseoIn some sense, perhaps the “purest” brand of fascism was that of Codreanu and his “Legion of the Archangel Michael,” also known as the Iron Guard. This intensely palingenetic movement emphasized spiritual and moral regeneration to create a Romanian “New Man” to lead the nation to a higher level and fulfill the destiny of the Romanian people. This highly “virulent” form of “palingenetic populist ultra-nationalism” proved itself unable to co-exist with Antonescu’s conservative authoritarian para-fascism; the Legionary movement’s attempt to seize full power for itself (rather than share it with para-fascists; this sharing was correctly seen by the Legionaries as being an emasculating compromise of their ideology) was crushed by the para-fascist military apparatus.

Three fascisms, three different movements. But the revolutionary energies unleashed by these ideologies stand in sharp contrast to the moribund and ossified conservatism of the para-fascists. The political/cultural avant-garde (Italian), the biological-racialist (German), and the spiritual/moral (Romanian) components of these fascisms are important to us today.

And it is probably wrong to separate out the avant-garde mindset as being only applicable to the political/cultural sphere. After all, we really do need new, cutting-edge memes with respect to both materialist race and non-materialist morality. To quote a certain pro-fascist poet: “Make it new!”

Mostra 1933With respect to Antliff’s book itself, chapter topics include Sorelian myth and anti-Semitism, and the fascistic politics of Valois, Lamour, and Maulnier. The importance of Sorelian myth was underscored by a recent Michael O’Meara piece that appeared on TOQ Online. Antliff stresses that culture and aesthetics were extremely important to Sorel in his quest to formulate a doctrine of instrumentally utilizing myth to overturn the hated rationalist-capitalist-democratic system. Art is part of this aesthetic emphasis and, truth be told, Sorel focused on culture over politics; indeed, he was scornful of the power of the myth being used and squandered for low-level political aims.

Further, Sorel went through a distinctly “anti-Semitic” phase, in which Jews were considered the exemplars of ultra-rationalist anti-creators, whose worldview set them in opposition to native peoples and native cultural expressions and aesthetics. Opposing the pro-Dreyfus “French” journal La revue blanche, Sorel sarcastically referred to the journal’s Jewish founders as “two Jews come from Poland in order to regenerate our poor country, so unhappily still contaminated by the Christian civilization of the seventeenth century.” Sorel accused Jewish intellectuals of wanting to promote an abstract (i.e., non-ethnic, non-national, non-cultural) concept of (French) citizenship and to also promote “cosmopolitan anarchy.”

Related to this “anti-Semitism,” Sorel admired and promoted the Classical World; the values of classical heroes, such as the Greeks at Thermopylae, were something counterpoised against the Jewish ethic and the degeneration of parliamentary democracy.

Sorel considered art as related to the creativity of work, a creativity that he wished to inculcate into the “productive workers” in place of assembly line mass capitalism and rationalized “one man-one vote” democracy. He also considered an enlightened “proletariat” as being able to reinvigorate a stagnant bourgeoisie through class conflict.

Georges Valois, 1878–1945

Georges Valois, 1878–1945

Georges Valois (born Alfred-Georges Gressent) went through a wide variety of ideological contortions in his lifetime, from fascism to “libertarian communism,” ending up dying in a Nazi concentration camp after being captured as a member of the “French Resistance.” While such an unbalanced individual represents much of what is wrong with the “movement” (changing your mind is one thing – completely switching your worldview from one moment to the next is another), some of his activities during his “fascist stage” are of interest.

Particularly enlightening is the focus on the urbanism of Le Corbusier, which stands in contrast to much of the American “movement” and its anti-urbanist emphasis on militant ruralism. No doubt, in the West today, the city is an anti-white, anti-Western disaster, full of racial enemies. No doubt as well that throughout much of human history, the city was an unhealthy and sterilizing place, inimical to racial survival and racial progress.

However, in our modern technological age, if we can solve our racial problems, the city itself does not necessarily have to be a racial evil. As part of a natural continuum of human ecologies – isolated rural, rural, suburban/town, small city, larger cities, etc. – the city may play an important role in the Futurist racial ethnostate of tomorrow, a place of technological advancement, racially healthy avant-garde memes, and sociopolitical dynamism. Racial nationalism can and should be reconciled to a certain degree of urbanism – not the urbanism of degeneration, but that of regeneration.

This of course underlies a schism within activism that often goes unnoticed – between modernist, technological tribalist-racialist Futurism and a ruralist anti-technological ecotribalism. It is clear that the French fascists described by Antliff for the most part fall into the first group. Thus, a major divide exists between the Futurist-Modernist fascists (think Marinetti in Italy) and the ruralist soil-oriented romantic past-oriented fascists (think Darre in Germany, or the agrarian-nostalgic Vichy regime in France).

Of course, a healthy society needs both worldviews, and in practical terms a balance is required. For example, Valois incorporated a “love for the native soil” along with his Futurist mindset. Indeed, Valois contrasted “Asiatic nomadness” associated with communism with the “Latin sedentary” style — derived from “cultured Roman legions” — of the French, tied to the native soil and inclined to fascism. He also associated the hated nomadic lifestyle with capitalism, since hyper-rational capitalism uprooted the workers from grounding in an organic society and turned them into atomized, rootless “nomads.”

A related issue is the relationship between Futurism and the veneration of the past. Antliff makes clear that the emphasis on the past in fascism (e.g., the Greco-Roman classical world) was not meant to mean turning back the clock and shunning progress. Instead, this look to the past was, paradoxically, futurist, in that the fascists wanted to take from the past certain noble values and behaviors and use these to help build the modern, technological world of tomorrow. Therefore, one need not discard the past to build a new future, but judiciously use elements of the past as necessary building blocks for the projected futurist edifice. Different strands of fascist thought need not be incompatible, just as common ground must be found between the tribalist futurist and tribalist ruralist strands of modern racial nationalist thought.

Another French fascist, Philippe Lamour, also went through many ideological “twists and turns,” ultimately rejecting fascism in favor of anti-fascism and syndicalism. Lamour originally represented the fascist variant of “machine primitivism” – that is, an anti-rationalist “new consciousness attuned to the dynamism of technology.” Thus, urban industrialism, technology, productivity, and futurist modernism need not be associated with “rational” egalitarianism but with tribalistic fascism. Lamour wished to create a “community of producers” integrating the different classes of French society to overturn liberal democracy in favor of a modernist technologically dynamic fascist state.

Early French fascists such as Lamour also promoted the idea of a European federation, and attempted to make common cause with more pan-European and “leftist” German National Socialists, such as the Strasserian “Black Front,” who favored European cooperation as opposed to Hitler’s hegemony through military conquest. Not coincidentally, before he fell into Hitler’s orbit, Mussolini also favored an alliance of European (fascist) states, promoted through the doctrine of “Roman Universality,” with practical expression through events such as the pan-fascist Montreux conference.

Lamour’s greatest contribution to French fascism was the promotion of the “conflict of generations,” pitting the younger fascistic generation of WW I against the older generation of parliamentary democrats. This latter group was seen as being out of touch with the new age of national regeneration, avant-garde culture and politics, Sorelian myth, as well as technological productivity. Lamour and his “war generation” were at the forefront of the battle of youth vs. the image of fossilized reactionary status quo politicians.

Aesthetically, the work of German artist Germaine Krull and even Soviet filmmaker Sergei Eisenstein influenced the avant-garde sensibilities of “machine primitive” young French fascists such as Lamour. Antliff summarizes Lamour’s unique contribution to the ideology of interwar French fascism as the melding of “machine aesthetics” to the concept of generational warfare. Thus, to Lamour, technological dynamism and the replacement of the ossified previous generation with fresh youth were the Sorelian myths required to spark an era of national renewal.

Thierry Maulnier, 1908–1988

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Thierry Maulnier (born Jacques Talagrand), author of “Crisis Is in Man,” had as his concept of Sorelian myth “classical violence.” Within the journal Combat, Maulnier and colleagues opposed the leftist French Popular Front’s Marxist-themed “culture” with their own view of aesthetics in architecture and sculpture. Antliff describes Combat’s as focusing on “three interrelated spheres: political institutions, human spirituality, and aesthetics.” The classicism of the Maulnier school promoted the idea of a “synthesis of Dionysian energy and Apollonian restraint.”

Politically, Maulnier wished for a form of French fascism that rejected parliamentary democracy but which still supported the rights and aspirations of the individual, as opposed to what was perceived as the more authoritarian and collectivist societies of Fascist Italy and National Socialist Germany. These distinctions between French and other fascisms became more salient after Mussolini fell into Hitler’s orbit and became hostile to French national interests. Indeed, before the start of WW II, Maulnier advocated a “minimal fascist program” for France that would be both a short-term “fix” to bolster the French military for confrontation with the Axis, as well as preparation for the long-term and permanent fascistic remodeling of society after the Axis threat had dissipated.

It must be noted that the Valois, Lamour, and Maulnier fascist ideologies, while linked together by a palingenetic call for national renewal and a rejection of parliamentary democracy, did differ in important ways. In particular, the classicism of Maulnier can be contrasted with the militant futurism and “machine primitivism” of Lamour. Although Antliff stresses that the French fascist focus on the classical world does not necessarily imply a rejection of modernism per se, the specific differences between Maulnier and Lamour were the greatest of any of the individuals profiled by Antliff. Valois and Lamour both embraced the image of “industrial production” as a central motif of their ideology; however, while Lamour spun together a myth of generational conflict, Valois instead emphasized a “spirit of victory” in which the heroism of WW I will now be turned to a battle of the entire nation to create an organized fascist-industrial society. Of these three men, it was Lamour who was the most steadfastly “avant-garde” in cultural-aesthetic orientation, Maulnier the least.

Crude ethnic stereotyping may lead one to conclude that an emphasis on art, culture, and aesthetics in the creation of fascist ideology was (and is) a particularly “French” phenomenon. Of course, other fascist movements were concerned with these issues, sometimes to a significant extent, but none of them incorporated such memes into the core of the political thinking as did French fascist thinkers. Indeed, the cultural-aesthetic emphasis of the French strain of fascism is a breath of fresh air after immersion in the more focused political thought of the Italian Fascists and the racialist ideals of the German National Socialists.

In fact, all three areas of focus – cultural-aesthetic, political, and racialist – are required for a complete memetic complex to promote fascistic ideals. As a biological reductionist, I would emphasize the racialist first of all, but doing so with respect to modern genetic science rather than the sort of quackery that passed as “racial science” under the Nazis. However, biological racialism by itself is not enough. Without an edifice of political and cultural-aesthetic memes, the foundation of ultimate interests will go nowhere.

Related to this issue of political aesthetics, I was impressed by Alex Kurtagic’s analysis of “semiotic systems” and the importance of style in shaping perceptions of status within nationalist memes. This is important. Of course, the enemy will, as a matter of course, attempt to oppose this approach through co-option and/or mockery.

Co-option is a problem for any memetic threat to establishment power; for example, the GOP has effectively co-opted “rightist, racist” concerns through the exploitation of “implicit whiteness.” This strategy has enabled the Republicans to retain white support while at the same time moving continuously leftward in the direction of overtly anti-white policies.

Thus, while aesthetics and style are important, they always must be innately linked to content to prevent the establishment from utilizing the same semiotic systems to promote the exact opposite of our objectives. Dealing with co-option will be difficult, and it is crucially important that the problem be analyzed from the beginning in a proactive fashion.

In other words, right from the start, the construction of unique avant-garde racial-nationalist semiotic systems must incorporate strategies for preventing co-option and dealing with co-option if these preventive measures fail. Therefore, we must identify, in advance, as many problems with each approach as possible, and develop multiple contingency plans for dealing with each emergent counter-move of the establishment.

Mockery is also a problem; the establishment, utilizing its control of the mass media and its stable of celebrity puppets, can subject any racial-nationalist semiotic system to a barrage of withering ridicule. It is important that the elitist and superior nature of the system be of sufficient strength that adherents can turn around such ridicule and assert it as a matter of pride and not shame. In other words, the establishment ridicule itself must be mocked as the pathetic attempts of a dying and out-of-touch system to delegitimize a novel movement of which they are afraid.

Again, careful planning is required to plan against the establishment’s ridicule strategy, but if both co-option and mockery can be successfully dealt with, the semiotic-aesthetic strategy has a chance to achieve its objectives. And those objectives are, in essence, to defuse the “social pricing” attacks of the establishment against racial-nationalist activists and adherents, by providing an alternative value system opposed to, and independent of, establishment standards and acceptance.

In summary, Antliff has dissected a particularly interesting and heretofore unexplored strain of French fascism characterized by an embrace of avant-garde cultural concepts, modernism, Futurism, productivity and the planned society, urbanism and industrial technology, exemplified by so-called “machine primitivism.”

With today’s worries of “peak oil,” and concerns that the multiracial West will collapse, visions of decentralized ruralistic tribalism have again become prominent in nationalist thought. However, the white man is endlessly inventive, and free of the shackles of genocidal globalist multiculturalism, the technological genius of whites, so unleashed, may provide the foundation for a Futurist, technologically advanced and tribalist society. Such a society would have options for both the urbanist technological and ruralist agrarian lifestyles for those whose preferences are for one or the other.

Although I am sure he is an “anti-fascist,” Antliff’s work helps us to consider one technological Futurist option. The major conclusion from both Antliff’s and Kurtagic’s analyses is that staid and conformist methods for sociopolitical activism may be best replaced, at least in part, by avant-garde memes that let some “fresh air” into stale “movement” environs.

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mercredi, 31 mars 2010

The Golden Gardens of the Sun

 

The Golden Gardens of the Sun

The fire that connects to the mystery of living,

The gliding softness of the spring rain

That thaws the sparkling frostiness of winter’s veins,

The birds’ vibrating song,

Resounding through the new buds of trees,

And fleeting transparency of lacy air.

The wild primroses opiated in the vernal orgy,

By the silver rain drops

That slither into their flower cups,

To inspirit starry streamflow–

In the golden gardens of the sun.

By Xenia Sunic

To honour the return of the spring.

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lundi, 29 mars 2010

Louis Ferdinand Céline - An Anarcho-Nationalist

Louis Ferdinand Céline — An Anarcho-Nationalist 

Tom Sunic 

March 24, 2010 

In his imaginary self-portrayal, the French novelist Louis-Ferdinand Céline (1894–1961) would be the first one to reject the assigned label of anarcho-nationalism. For that matter he would reject any outsider’s label whatsoever regarding his prose and his personality. He was an anticommunist, but also an anti-liberal. He was an anti-Semite but also an anti-Christian. He despised the Left and the Right. He rejected all dogmas and all beliefs, and worse, he submitted all academic standards and value systems to brutal derision.

Briefly, Céline defies any scholarly or civic categorization. As a classy trademark of the French literary life, he is still considered the finest French author of modernity — despite the fact that his literary opus rejects any academic classification. Even though his novels are part and parcel of the obligatory literature in the French high school syllabus and even though he has been the subject of dozens of doctoral dissertations, let alone thousands of polemics denouncing him as the most virulent Jew-baiting pamphleteer of the 20th century, he continues to be an oddity eluding any analysis, yet commanding respect across the political and academic spectrum. 

Can one offer a suggestion that those who will best grasp L.F. Céline must also be his lookalikes — the replicas of his nihilist character, his Gallic temperament and his unsurpassable command of the language?   

Cadaverous Schools for Communist and Liberal Massacres     

The trouble with L.F. Céline is that although he is widely acclaimed by literary critics as the most unique French author of the 20th century and despite the fact that a good dozen of his novels are readily available in any book store in France, his two anti-Semitic pamphlets are officially off limits there.  

Firstly, the word pamphlet is false. His two books, Bagatelles pour un massacre (1937) and Ecole des cadavres (1938), although legally and academically rebuked as “fascist anti-Semitic pamphlets,” are more in line with the social satire of the 15th century French Rabelaisian tradition, full of fun and love making than modern political polemics about the Jewry. After so many years of hibernation, the satire Bagatelles finally appeared in an anonymous American translation under the title of Trifles for a massacre, and can be accessed online 

 Louis-Ferdinand Céline

The anonymous translator must be commended for his awesome knowledge of French linguistic nuances and his skill in transposing French argot into American slang. Unlike the German or the English language, the French language is a highly contextual idiom, forbidding any compound nouns or neologisms. Only Céline had a license to craft new words in French. French is a language of high precision, but also of great ambiguities. Moreover, any rendering of the difficult Céline’s slangish satire into English requires from a translator not just the perfect knowledge of French, but also the perfect knowledge of Céline’s world.  

Certainly, H.L. Mencken’s  temperament and his sentence structure sometimes carry a whiff of Céline. Ezra Pound’s toying with English words in his radio broadcasts in fascist Italy also remind  a bit of Céline’s style. The rhythm ofHarold Covington’s narrative and the violence of his epithets may remind one a wee of Celine’s prose too.  

But in no way can one draw a parallel between Céline and other authors — be it in style or in substance. Céline is both politically and artistically unique. His language and his meta-langue are unparalleled in modern literature.

To be sure Céline is very bad news for Puritan ears or for a do-good conservative who will be instantly repelled by Céline’s vocabulary teeming as it does with the overkill of metaphorical “Jewish dicks and pricks.”        

Trifles is not just a satire. It is the most important social treatise for the understanding of the prewar Europe and the coming endtimes of postmodernity. It is not just a passion play of a man who gives free reign to his emotional outbursts against the myths of his time, but also a visionary premonition of coming social and cultural upheavals in the unfolding 21st century. It is an unavoidable literature for any White in search of his heritage.     

These weren’t Hymie jewelers, these were vicious lowlifes, they ate rats together… They were as flat as flounders. They had just left their ghettos, from the depths of Estonia, Croatia, Wallachia, Rumelia, and the sties of Bessarabia… The Jews, they now frequent the guardhouse, they are no longer outside… When it comes to crookedness, it is they who take first place… All of this takes place under the hydrant! with hoses as thick as dicks! beside the yellow waters of the docks… enough to sink all the ships in the world…in a décor fit for phantoms…with a kiss that’ll cut your ass clean open…that’ll turn you inside out. 

The satire opens up with imaginary dialogue with the fictional Jew Gutman regarding the role of artistry by the Jews in the French Third Republic, followed by brief chapters describing Céline’s voyage to the Soviet Union.  

Between noon and midnight, I was accompanied everywhere by an interpreter (connected with the police). I paid for the whole deal… Her name was Natalie, and she was by the way very well mannered, and by my faith a very pretty blonde, a completely vibrant devotee of Communism, proselytizing you to death, should that be necessary… Completely serious moreover…try not to think of things! …and of being spied upon! nom de Dieu!…

…The misery that I saw in Russia is scarcely to be imagined, Asiatic, Dostoevskiian, a Gehenna of mildew, pickled herring, cucumbers, and informants… The Judaized Russian is a natural-born jailer, a Chinaman who has missed his calling, a torturer, the perfect master of lackeys. The rejects of Asia, the rejects of Africa… They were just made to marry one another… It’s the most excellent coupling to be sent out to us from the Hells. 

When the satire was first published in 1937, rare were European intellectuals who had not already fallen under the spell of communist lullabies. Céline, as an endless heretic and a good observer refused to be taken for a ride by communist commissars. He is a master of discourse in depicting communist phenotypes, and in his capacity of a medical doctor he delves constantly into Jewish self-perception of their physique... and their genitalia. 

The peculiar feature of Céline narrative is the flood of slang expressions and his extraordinary gift for cracking jokes full of obscene humors, which suddenly veer off in academic passages full of empirical data on Jews, liberals, communists, nationalists, Hitlerites and the whole panoply of famed European characters. 

But here we accept this, the boogie-woogie of the doctors, of the worst hallucinogenic negrito Jews, as being worth good money!… Incredible! The very least diploma, the very least new magic charm, makes the negroid delirious, and makes all of the negroid Jews flush with pride! This is something that everybody knows… It has been the same way with our own Kikes ever since their Buddha Freud delivered unto them the keys to the soul!  

Mortal Voyage to Endtimes  

In the modern academic establishment Céline is still widely discussed and his first novels Journey to the End of the Night and Death on the Installment Plan are still used as Bildungsroman for the modern culture of youth rebellion. When these two novels were first published in the early 30’s of the twentieth century, the European leftist cultural establishment made a quick move to recuperate Céline as of one of its own. Céline balked. More than any other author his abhorrence of the European high bourgeoisie could not eclipse his profound hatred of leftist mimicry.  

Neither does he spare leftists scribes, nor does he show mercy for the spirit of “Parisianism.” Unsurpassable in style and graphics are Céline’s savaging caricatures of aged Parisian bourgeois bimbos posturing with false teeth and fake tits in quest of a rich man’s ride. Had Céline pandered to the leftists, he would have become very rich; he would have been awarded a Nobel Prize long ago.  

In the late 50’s the bourgeoning hippie movement on the American West Coast also tried to lump him together with its godfather Jack Kerouac, who was himself enthralled with Céline’s work. However, any modest reference to hisBagatelles or Ecole des Cadavres has always carefully been skipped over or never mentioned. Equally hushed up is Céline’s last year of WWII when, unlike hundreds of European nationalist scholars, artists and novelists, he miraculously escaped French communist firing squads or the Allied gallows.    

His endless journey to the end of the night envisioned no beams of sunshine on the European horizon. In fact, his endless trip took a nasty turn in the late 1944 and early 1945, when Céline, along with thousands of European nationalist intellectuals, including the remnants of the French pro-German collaborationist government fled to southern Germany, a country still holding firm in face of the oncoming disaster. The whole of Europe had been already set ablaze by death-spitting American B17’s from above and raping Soviet soldiers emerging in the East. These judgment day scenes are depicted in his postwar novels D’un château l’autre (Castle to Castle)  and Rigodoon.   

Céline’s sentences are now more elliptic and the action in his novels becomes more dynamic and more revealing of the unfolding European drama. His novels offer us a surreal gallery of characters running and hiding in the ruins of Germany. One encounters former French high politicians and countless artists facing death — people who, just a year ago, dreamt that they would last forever. No single piece of European literature is as vivid in the portrayal of human fickleness on the edge of life and death as are these last of Céline’s novels.  

But Céline’s inveterate pessimism is always couched in self-derision and always stung with black humor. Even when sentenced in absentia during his exile inDenmark, he never lapses into self pity or cheap sentimentalism. His code of honor and his political views have not changed a bit from his first novel.  

Upon his return to France in 1951, the remaining years of Céline’s life were marred by legal harassment, literary ostracism, and poverty. Along with hundreds of thousands Frenchmen he was subjected to public rebuke that still continues to shape the intellectual scene in France. Today, however, this literary ostracism against free spirits is wrapped up in stringent “anti-hate” laws enforced by the thought police —  70 years after WWII! Stripped of all his belongings, Céline, until his death, continued to use his training as a physician to provide medical help to his equally disfranchised suburban countrymen.  Always free of charge and always remaining a frugal and modest man.

Tom Sunic (http://www.tomsunic.info; http://doctorsunic.netfirms.com) is author, translator, former US professor in political science and a former diplomat. His new book, Postmortem Report: Cultural Examinations from Postmodernity, prefaced by Kevin MacDonald, has just been released.Email him.

 

Permanent link: http://www.theoccidentalobserver.net/authors/Sunic-Celine...

mardi, 23 mars 2010

Citation d'Ernst von Salomon

sal.jpgCitation d'Ernst von Salomon

"Il y a une tyrannie à laquelle nous ne pourrons jamais nous soumettre, c'est celle des lois économiques.  Car, étant donné qu'elle est complètement étrangère à notre nature, il nous est impossible de progresser sous elle.  Elle devient insupportable parce qu'elle est d'un rang trop inférieur.  C'est là que se trouve le critère ; c'est là qu'il faut choisir même sans demander de preuves. On a ou non le sens de la hiérarchie des valeurs, et toute discussion est impossible avec ceux qui nient cette hiérarchie."

Ernst Von Salomon, Les Réprouvés, Paris, 1931.

lundi, 22 mars 2010

Del rapporto tra volo e scrittura in Saint-Exupéry

saintEX.jpgDel rapporto tra volo e scrittura in Saint-Exupéry

Autore: Fiorenza Licitra /

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

Robert Brasillach, scrittore e critico cinematografico del secolo scorso, rimproverò Saint-Exupéry di aver scritto della sua esperienza d’aviatore, asserendo che solo chi non ha esperito un mestiere e la sua arte sia in grado di parlarne con semplicità e stupore, al contrario di chi, conoscendoli bene, tende più a infiorare il racconto di sfarzi.

Come a dire che la caccia al leone può raccontarla meglio un animalista che un Hemingway.

L’autore del Volo di notte non ha bisogno di apologie, ha già fatto da sé spiegando all’ingenuità di Brasillach che un mestiere non è il risultato di una serie di regole contenuta in un manuale tecnico e non è neanche un’esperienza esteriore che vive di resoconti teorici, ma è  più la storia intima di un’azione fisica e sensuale.

Quello su cui a tal proposito vale la pena riflettere è la stretta connessione che c’è tra il volo e la scrittura, che non sono mondi dispari ed estranei, ma talmente affini da essere metafora l’uno dell’altra.

E’ grazie alle pagine di Saint-Exupéry che, se non si apprende la tecnica del volo, se ne vive tuttavia l’intima riflessione, la sospensione dal tempo e il legame con lo spazio.

Dalle sue rotte sospese l’aviatore-scrittore crea «una topografia celeste, più importante di quella terrestre, d’ordine quasi occulto, poiché si esprime solo attraverso i segni»: interpreta così le curve delle dune, decifra il colore della sabbia – scuro o tenero per un atterraggio di fortuna -, scopre che di notte la nebbia è una forma di luce e che le bianche pieghe del mare insegnano l’avversità del vento.

Accostandosi al misterioso linguaggio della natura, il cui alfabeto muto è denso di significati e di rimandi, stringe un tessuto di relazioni con il mondo grazie al quale «una pianura si fa più verde e diventa più pianura, un villaggio più villaggio».

Saint-Exupéry sa che apprendere un nuovo linguaggio, sottostando a quelle che sono le regole del gioco – tradotte a volte anche nei colpi di fucile dei Mauri – sia la vera meta del viaggiatore, a differenza del semplice turista che, ancorato alle sue convenzioni, dei luoghi coglie solo l’esotico e il pittoresco, gli aspetti più insignificanti del viaggio.

E’ nella scrittura che il pilota francese trasferisce la dialettica appresa in cielo: nei suoi racconti come nei suoi romanzi si trova la visione perspicua del mondo, la relazione con la notte e i suoi abissi, o quella con il deserto del Sahara, che delinea l’infinita ricerca del senso attraverso la simbologia del viaggio e il viaggio nella simbologia.

La letteratura non è forse questo? Non è la dimensione in cui l’uomo manifesta, mediante la parola scritta, la sua imperscrutabile relazione simbolica con il mondo? In Saint-Exupéry lo è senz’altro.

L’autore, senza utilizzare gerghi tecnici, traccia nero su bianco la rotta di stelle percorsa durante le traversate, affidando alle pagine il proprio sentimento di tenerezza per la sera che scende sulla città, che lo schianta molto più di quanto oserebbe la paura di un pericolo imminente, quella del vuoto e della morte.

A sostenere il suo lungo volo così come i suoi versi – è molto probabile che sia un poeta – è la necessità interiore, la cui voce si sente appena nel frastuono delle distrazioni e nelle abitudini indotte, ma che diviene forte e chiara quando un uomo è solo.

Ecco un altro aspetto sostanziale che accomuna il pilota allo scrittore: la solitudine di chi passeggia tra gli astri, in cerca di “un’unica stella su cui abitare”, è della stessa pasta di quella di chi prova a disegnare sulla mappa di un foglio bianco un fiume capace di toccare ogni regione del suo pensiero e ogni paese in cui dimora un sentimento. E’ una solitudine fatta d’inquietudine, di strade ignote e volti lontani, ma anche di fitte relazioni con il circostante al quale ci si accosta più facilmente quando lo si pensa, lo si immagina, lo si sente interiormente.

Infine quello che lega indissolubilmente i due mestieri, o meglio le due arti, dell’uomo Saint-Exupéry è il sogno: il pilota, che dal cielo immagina una donna in particolare o le schiene doppie dei cammelli, sogna allo stesso modo dello scrittore che, impugnando una penna, segue una visione più forte del vero.

Saint-Exupéry troverà la morte nel Luglio del 1944, mentre sorvola l’Île de Riou, a sud di Marsiglia. Nonostante le lunghe ricerche, durate anni, il suo corpo non è mai stato ritrovato, ma è normale che sia così: non lo troverete in fondo al mare, ma sul pianeta del Piccolo Principe a guardare – quando la malinconia lo coglierà forte – quarantatré tramonti in compagnia di una rosa.

Per il resto del tempo sarà più facile scorgerlo mentre «si esercita agli attrezzi tra le stelle», come quell’equilibrista del volo e della scrittura che fu.

Non bisogna cercarlo in fondo al mare, non è laggiù; più facile, invece, sarà trovarlo mentre si esercita agli attrezzi tra le stelle, come quell’equilibrista del simbolo che è.

dimanche, 14 mars 2010

La correspondance de Céline en Pléiade

La correspondance de Céline en Pléiade

Nonfiction.fr, 25/01/2009 : “Être de la Pléiade” est une des grandes obsessions littéraires des dernières années de Céline, “fameuse idée” qui lui vient dès 1956, et dont il sera question dans une bonne partie de ses lettres à Gaston Gallimard : “Les vieillards, vous le savez, ont leurs manies. Les miennes sont d’être publié dans La Pléiade.” C’est chose faite un an après sa mort, et parachevée par la parution de cette anthologie, qui rassemble 50 ans de correspondances, dont une partie inédite. Avec ce volume, la maison Gallimard met la dernière pierre à son entreprise de réédition des correspondances céliniennes . Céline aura pourtant donné du fil à retordre à ses fondateurs. S’il rend hommage à la NRF de l’avoir généreusement accueilli, c’est pour préciser entre parenthèses “avec 20 ans de retard”. La veille de sa mort, cet enragé menace Gallimard, s’il n’augmente pas les termes de son contrat, de louer un tracteur et de “défoncer la NRF”. Constamment persuadé d’être floué, il reproche à Gallimard de ne pas faire assez de publicité pour ses livres, de ne pas le remercier pour sa dédicace dans Féerie pour une autre fois, de ne pas répondre assez vite à ses lettres, mais trouve en celui-ci un interlocuteur à sa mesure, qui ne se laisse nullement démonter par ses lettres les plus déchaînées : “Vraiment Céline, vous m’étonnez, en vous lisant j’ai cru lire du Jarry.”

Il faut dire que le monde littéraire n’a jamais eu les faveurs de Céline. Au fil de ses lettres, il balance, à droite à gauche, ces “petites vacheries acidulées” dont il a le secret. La littérature est “cette grande partouze des vanités” dans laquelle les éditeurs, “parasites goulus”, les prix littéraires, “crise de grande canaillerie”, les “confrères”, vaniteux et jaloux, “Si tu veux voir les pires abrutis d’un pays, demande à voir les écrivains” écrit-il à Milton Hindus, sont l’objet d’une détestation particulière. Céline, “la première vache du pré Denoël”, “le cheval courageux qui a tiré toute sa cargaison de navets”, serait la proie de toutes les jalousies depuis la sortie du Voyage : son entrée trop éclatante en littérature fait de lui “la bête à abattre”.

Ça commençait plutôt bien, pourtant : aux antipodes du héros de Mort à Crédit, ses lettres d’enfance envoyées à ses parents lors de ses séjours linguistiques en Angleterre et en Allemagne, dressent le portrait d’un fils aimant et attentionné, qui apprend le piano et le violon “avec ardeur”, remercie ses parents pour les sacrifices qu’ils font pour lui, et compte les jours qui le séparent de leurs retrouvailles. On est étonné par l’autorité qui se dégage de ces lettres, où Destouches multiplie descriptions caustiques et adresses sentencieuses. À 15 ans, alors que sa tante Joséphine est sur le point de mourir, il recommande à sa mère de soutenir son oncle “En un mot, puisque tout espoir est perdu, cherche à lui préparer une autre vie plutôt que de le consoler de la présente.” L’appareil critique est attentif à repérer les motifs qui nourriront la future œuvre célinienne, y compris les plus prosaïques : les pardessus, les cols de chemise, l’abcès de la mère, le cresson, et surtout la traversée de la Manche, ancêtre de l’épique traversée en mer de Mort à Crédit. Second temps, le front, “spectacle d’horreurs”, “odyssée lamentable”, qui met en scène Céline en soldat courageux et patriote, récompensé de la médaille militaire, bien différent du Bardamu du Voyage. Le souvenir de la guerre apparaît dans la correspondance avec Joseph Garcin, autre ancien combattant de 14, comme le déclencheur de l’écriture, rempart à l’oubli, résistance à la dislocation des choses : “Vous le savez mon vieux, sur la Meuse et dans le Nord et au Cameroun j’ai bien vu cet effilochage atroce, gens et bêtes et loi et principes, tout au limon, un énorme enlisement – je n’oublie pas. Mon délire part de là.”

Les lettres des années 1930, et la diversité des interlocuteurs avec lesquelles elles sont échangées, constituent autant d’éclairages sur l’itinéraire intellectuel de Céline. Hantise de la décadence, ultrapessimisme mais aussi anti-intellectualisme de plus en plus forcené, antisémitisme larvé jusqu’en 1935, obsessionnel et proliférant dans toutes les correspondances à partir de 1936, en sont les traits les plus saillants. “Je suis ici l’ennemi numéro un des Juifs” se félicite Céline après la parution de Bagatelles pour un massacre, ce qui rend ses tentatives de justification d’après guerre assez dérisoires. Ces années sont également celles de la mise en place d’une figure d’ouvrier des lettres, Céline s’appliquant, comme il le fera toute sa vie, à désamorcer tous les clichés romantiques de la création littéraire : “Cette sorte d’état second, joie créatrice soi-disant ! Quelle merde !” Écrire, c’est avant tout “gagner du pèze”, pour “se tirer d’embarras matériels”. Les termes d’œuvre, et même de manuscrit sont écartés, au profit d’un vocable plus prosaïque : “blot”, “ours”, “machin”, “monstre”. Céline, qui signait ses lettres d’Afrique “des Touches”, se réclame à présent du peuple. Intéressante à ce titre la comparaison entre les lettres à Joseph Garcin, aventurier un peu voyou, proxénète à ses heures uni à Céline par les souvenirs de 14 et une “camaraderie de bordel” et à Élie Faure, jusqu’à leur rupture en 1935. “Vous êtes au nerf – vous accrochez la vie, comme moi vous êtes curieux, vous savez le prix des choses, vous n’êtes pas allé au lycée commun.” écrit-il au premier en 1933, et dans une de ses dernières lettres à Faure : “Vous ne savez pas ce que je sais. Vous avez été au lycée.” Ce rejet du lycée, de la culture scolaire, est lié à une conception de l’écriture du côté du nerf, de la viande, de la fibre, qui, débarrassée des médiations savantes, puise dans l’émotion directe, poétique à laquelle se greffe la problématique antisémite : pour Céline, Proust écrit “tarabiscoté” parce qu’il est juif, et encombré d’un trop-plein de médiations culturelles .

Autre période où l’épistolier se montre particulièrement prolifique : les années d’exil au Danemark. La plainte, et son revers, l’agression, forment la véritable toile de fond de la correspondance. En 1945, il commente ainsi son sort, alors que Le Monde a publié dès avril 1945 les premiers témoignages des rescapés des camps nazis : “Je crois que rien d’aussi monstrueux aucun fanatisme aussi enragé ne se soit jamais abattu sur une sorte d’hommes, ni juifs, ni chrétiens, ni communards n’ont connu une unanimité d’Hallali aussi impeccable.” Le ton est donné : l’Histoire est passée au filtre des récits délirants, des haines obsessionnelles qui font de Céline une victime sacrificielle, aux prises avec une “ménagerie de monstres” déchaînés. Son séjour au Danemark est transfiguré en un tableau qui tient à la fois de Shakespeare, de Breughel, et d’Ensor : La Baltique : “La Baltique est pas regardable. La Sépulcrale je l’appelle et les bateaux rares, des cercueils, les voiles : des crêpes.” Staegersallee, où il a logé : “C’est le nid, le repaire, la taverne des sorcières maléficieuses” ; Karen Jensen, qui l’a hébergé : “une sorcière de Macbeth, en plus pillarde, canaille”. Korsor, où il habite trois ans, “une sévérité de mœurs et de paroles et d’allure à faire crever 36 Calvins”.

Les correspondances sont également l’espace où s’élabore bien avant les Entretiens avec le professeur Y, un art poétique “égrené en images” . Images connues du “métro émotif” ou du “bâton tordu”, mais aussi images de l’écriture en “forêt tropicale”, pleine de lianes à abattre, en château à extirper d’une “sorte de gangue de brume et de fatras”, en “statue enfouie dans la glaise” à nettoyer, déblayer. À certains privilégiés, Céline expose les éléments maîtres de sa poétique : le rendu émotif, “Je sais bien l’émotion avec les mots, je ne lui laisse pas le temps de s’habiller en phrase”, la musique, la danse, demandant à son traducteur de respecter “le rythme dansant du texte”, “toujours au bord de la mort, ne pas tomber dedans”. On retrouve dans ces lettres tout ce qui fait le génie du style célinien, dans une version brute, impulsive, surexcitée – on sait que Céline, s’il était conscient de la valeur de sa correspondance, ne retravaillait pratiquement pas ses lettres. C’est encore lui qui parle le mieux du célèbre style Céline. Dans une lettre à la NRF de 1949, il expose ainsi ses ambitions littéraires : “rendre la prose française plus sensible, raidie, voltairisée, pétante, cravacheuse et méchante”, “style surtendu”, composé de “menues surprises”, d’infimes torsions de la langue, et d’une superposition aussi savante qu’instinctive des registres les plus divers.

Car Céline sait faire toutes les voix, et c’est pourquoi malgré la monotonie de ses plaintes et de ses colères, il lasse rarement son lecteur : il parle tantôt comme un moraliste du XVIIe siècle, égrenant sentences pascaliennes et aphorismes de son cru, tantôt comme un maquereau. Sur l’amour, par exemple, ce “bouquin que nous achetons tous à un moment de notre vie”. Non que ce soit un sujet sur lequel il convient de discourir : “Le sexe dure trois secondes. On en écrit pendant trois siècles – Quelle histoire !” Mais quand Marie Canavaggia, sa secrétaire et l’une de ses principales correspondantes, commet le tort de s’aventurer sur un terrain sentimental, Céline s’il se prétend retiré des affaires, tient à rappeler une fois pour toutes qu’il est de l’“école Cascade”, et oppose aux sentiments “accessoires et froufrouteurs” de Marie son propre idéal de santé et sa vigueur de ton. “La vie est trop courte pour se torturer d’abstinences idiotes et les hommes organisent les privations et les tortures avec trop de zèle pour que j’y ajoute des rosaires ! et des rosières ! Foutre Dieu non ! Seulement la force manque ! Les femmes ont des réserves sensuelles ‘tropicales’ ne l’oubliez pas, les plus prudes, les plus réservées et les plus piaffants lovelaces ne sont à leurs côtés jamais que de miteux velléitaires.” On est quasiment dans du Laclos quand elle lui demande de lui retourner ses lettres et qu’il s’exécute, maussade. “Ramassez toute cette brocaille !” intime-t-il à la malheureuse.

La variété des registres produit des effets comiques, parfois involontaires. Le 7 février 1935, Céline envoie deux lettres, la première, assez élégiaque, à Karen Jensen, une amie danoise : “Poésie d’abord Karen, et poésie c’est continuité d’une histoire qui va si possible de l’enfance à la mort”. L’autre à son traducteur, John Marks, en prévision d’un voyage à Londres : “Préparez-moi, mon vieux, un cul bien anglais pour ce séjour.” À travers ces lettres, c’est un vaste spectacle à plusieurs voix qui est mis en scène, où le tragique côtoie bien souvent le grotesque. La guerre est une “ignoble tragédie”, son procès une comédie où son avocat se prend pour une actrice, et Céline lui-même tantôt clown, tantôt “vieil acrobate vieillard qui remonte au trapèze”, quand au Danemark, il se remet à écrire, tantôt moraliste observateur de ce spectacle des vanités.

Ces correspondances constituent à la fois un observatoire de choix sur le parcours de Céline et la genèse des romans, et par la virtuosité du style, une pièce même de l’œuvre célinienne. L’appareil critique est particulièrement riche et éclairant, même si une notice présentant les principales figures de cette galerie de correspondants aurait pu apporter plus de commodité à une lecture souvent complexe. “Serrer au plus près l’énigme Céline”, comme le propose Henri Godard dans sa préface, n’est pas pour autant l’élucider. 1936 constitue le seuil à partir duquel un noyau obscur, harangues antisémites et paranoïa galopante, résiste à toute logique. Il y a l’amertume du Goncourt raté et de la mauvaise réception de Mort à Crédit. Il y a aussi que la pulsion, la violence forment le carburant de l’écriture romanesque, et pas seulement des pamphlets. Autoproclamé écrivain de la haine, Céline s’est cependant toujours refusé à reconnaître ce à quoi l’expression des siennes l’a amené à participer

Camille KOSKAS

Louis-Ferdinand Céline, Lettres, Gallimard Pléiade, 2009.
Merci à Pierre L.

mercredi, 10 mars 2010

Il superomismo sociale di D'Annunzio

Il superomismo sociale di D’Annunzio

Autore: Luca Leonello Rimbotti - http://www.centrostudilaruna.it/

GabrieleD.jpgChe le rivoluzioni nazionali europee del XX secolo abbiano regolarmente avuto alle loro spalle il meglio dell’intellettualità dei rispettivi Paesi, e che tale prestigioso palladio non abbia l’eguale in altri contesti ideologici, costituisce una delle maggiori frustrazioni per l’intellighentzia liberalgiacobina. Nel caso del Fascismo italiano, la galleria dei padri nobili più lontani, come quella degli immediati profeti e antesignani, è sterminata. Di qui, l’ingrato lavoro cui si sottopongono da decenni i poligrafi antifascisti: nascondere se possibile, altrimenti mettere in sordina e depistare, al fine di limitare il danno che reca alla credibilità democratica il fatto che il Fascismo possa impunemente godere del prestigio postumo di tanti geni nazionali che lo precorsero. Senza andare più indietro, i casi di un Carducci, di un Oriani, di un Pascoli, di un Pirandello, di un Pareto, di un Marinetti sono conosciuti: qui si concentra sovente lo sforzo dei nuovi “negazionisti”: le assonanze, le precise rispondenze, le plateali coincidenze tra il loro pensiero ideale, sociale e politico e l’ideologia fascista vengono appunto negate o minimizzate, contestando l’incontestabile attraverso la pratica abituale del cavillo cabalistico oppure della semplice deformazione.

D’Annunzio è un caso a sé. Il grande poeta è stato a lungo ridicolizzato dai progressisti come esteta da burla, in virtù del suo “decadentismo borghese”. E a lungo è stato giudicato come nulla più che una manifestazione retorica di interessi di classe. Molti ricorderanno i frasari paramarxisti che per lunghe stagioni relegarono D’Annunzio tra i servi del capitalismo. Un solo esempio a caso: quel libro einaudiano con cui Angelo Jacomuzzi nel 1974 definiva il pensiero del Vate «funzionale all’affermazione dell’ideologia del capitalismo avanzato». Oggi, che il febbrone marxistico è degenerato in pandemìa liberista, sciocchezze del genere non sono più somministrabili. Oggi questo particolare tipo di “negazionismo” viaggia su binari meno rozzi, più sfumati. Eppure, qua e là, vediamo ancora riaffiorare con altri argomenti l’antica tendenza alla mistificazione.

Stavolta, infatti, non si vuole enfatizzare il D’Annunzio reazionario, ma piuttosto fabbricarne addirittura uno antifascista. Si passa, insomma, da una forzatura a un’invenzione di sana pianta. È il caso, ad esempio, di un breve scritto di Vito Salierno, intitolato non a caso Gabriele d’Annunzio: il disprezzo per i fascisti e il rapporto con Mussolini, che compare nel libro a più mani L’Italia e la “grande vigilia”. nella politica italiana prima del fascismo, a cura di Romain H. Rainero e Stefano B. Galli (Franco Angeli editore). Il saggetto in parola, sin da titolo, si picca di voler dimostrare che D’Annunzio e i fascisti non avevano nulla a che spartire. Due mondi diversi. A riprova, si cita la famosa lettera che il Comandante inviò a Mussolini il 16 settembre 1919, rimproverandolo di non aver mobilitato i Fasci a sostegno dell’impresa fiumana. E si cita anche l’ordine dato ai legionari, a Marcia su Roma appena terminata, di «mantenersi assolutamente estranei all’attuale situazione politica». Il fatto che D’Annunzio e Mussolini avessero la medesima ideologia non conta. Contano le occasionali divergenze sulla tattica politica. Poco importa, ad esempio, che D’Annunzio si fosse affacciato al balcone di Palazzo Marino a Milano il 3 agosto 1922 – in piena fase insurrezionale fascista – per arringare una folla nazionalista e avendo a fianco fior di squadristi e neri gagliardetti… e poco importa che in occasione della Marcia, D’Annunzio, se non si sperticò in elogi, neppure si pronunciò contro: si sa infatti che il Vate, quell’ingresso a Roma, avrebbe voluto farlo lui, mancandogli tuttavia i talenti politici per scegliere il come e il quando. Suscettibile com’era, ci rimase male quando la “rivoluzione nazionale” fu portata a compimento da altri, relegandolo ai margini della scena.

E si sa anche che certe sue rampogne a Mussolini erano figlie più di un antagonismo tra caratteri forti che non tra divergenti vedute di fondo. Mussolini aveva la capacità politica che sfuggiva completamente al Comandante, tutto avvolto nelle sue potenti evocazioni simboliche. D’Annunzio, da parte sua, ebbe il talento estetico necessario per fondare la liturgia celebrativa e la mistica comunitaria, poi ereditate dal Fascismo e socializzate su scala nazionale.

Non potendo contestare in toto la coincidenza ideologica tra Mussolini e D’Annunzio, oggi, per confutare il primo e salvare il secondo da una fratellanza ideologica che disturba, si preferisce pestare sul pedale delle marginali divergenze: ad esempio, quelle immaginate tra il corporativismo fascista e il corporativismo della Carta del Carnaro. Che effettivamente, se guardata col microscopio, rigirata in controluce, ai raggi X, proprio volendo, in alcune sfumature è un po’ diversa, che so, dalla Carta del Lavoro… Oppure, come ha fatto Ferdinando Cordova – in un suo vecchio libro recentemente ristampato –, si preferisce cavillare su certe differenze di scelta politica tra alcuni arditi e legionari dannunziani e gli arditi e gli squadristi fascisti… Insomma, una letteratura bizantina che gode ancora buona salute. Gli storici più equilibrati e meno corrivi hanno da tempo liquidato questi tentativi di imbrogliare le carte.

Il pensiero politico dannunziano, presente non solo negli scritti e discorsi politici, ma nella sua intera produzione letteraria, poetica e giornalistica, era quanto mai chiaro. L’Immaginifico possedeva il dono divino, assente nei tardi glossatori democratici, della brutale schiettezza. La sua ideologia? Ce l’ha riassunta anni fa un insospettabile come Paolo Alatri: «il principio della completa libertà d’azione dell’uomo superiore… la polemica antidemocratica e antiparlamentare, la celebrazione delle virtù della razza, l’esaltazione della guerra, l’esaltazione della romanità e la celebrazione del Risorgimento… un socialismo di superuomini…». Cos’altro aggiungere? Questa ideologia dannunziana proprio non fa venire in mente nessuna assonanza, a quanti accarezzano un improbabile D’Annunzio anti-fascista o a-fascista?

I vecchi storici marxisti erano in fondo più onesti degli attuali “revisionisti” democratici. Lo stesso Alatri – ma come lui anche i vari Ernesto Ragionieri o Gabriele De Rosa – rimarcavano per l’appunto che D’Annunzio «preparò il terreno al fascismo», proprio perché, se non fascista (un carattere come quello era maldisposto per natura a inquadrarsi in un partito comandato da un altro…), fu quanto meno protofascista. E, inoltre, proprio quegli storici ricordavano il debito che l’ideologia nazionalpopolare di D’Annunzio aveva col socialismo nazionale di Corradini, col suo imperialismo sociale e con il sindacalismo rivoluzionario: tutti elementi che furono alla base dell’ideologia fascista. Dice: ma nella Carta del Carnaro si parla di libertà, si afferma che tutti i cittadini sono uguali… e poi a capo della Reggenza il Vate mise De Ambris, un libertario antifascista. Sì, ma che dire del fatto che alla prima occasione D’Annunzio se ne sbarazzò a favore di Giuriati, che era fascista e che diventò un gerarca? Ma poi, non si parla nella Dottrina del Fascismo proprio dello “Stato etico” come manifestazione della vera libertà e dell’eguale dignità di tutti gli Italiani? E che dire poi della stragrande maggioranza dei legionari fiumani, che dal 1921 confluirono in blocco nel PNF? Senza contare che, se ci fu, come ci fu, una forte vena “di sinistra” nella Carta del Carnaro, essa fu preceduta e di molto dal programma sansepolcrista dei Fasci di Combattimento.

Per la verità, la leggenda di un D’Annunzio “di sinistra” (ma di una sinistra estrema, non tanto nazionale, quanto addirittura internazionalista e para-comunista) venne malauguratamente diffusa da De Felice e poi rinforzata da qualche suo allievo. In un famoso convegno di storici tenutosi a Pescara nel 1987, De Felice pensò bene di provare questo fantasioso schieramento del poeta, ricordando che D’Annunzio invitò a Fiume sia Gramsci che il commissario sovietico agli esteri Cicerin. Questa presa di posizione di De Felice è alla base dei tentativi della storiografia contemporanea di rinverdire la mitologia di un D’Annunzio estraneo alla politica e ai valori del Fascismo e con l’unico occhio rimastogli volto alla sinistra estrema. Ma, anche qui, si tratta di argomenti facilmente smontabili. Un conto sono le tattiche o gli atti politici contingenti, un altro conto è l’ideologia politica di fondo che sostiene un’azione. Basterà ricordare, per chiarire la faccenda, che, ad esempio, il primo Stato occidentale che riconobbe diplomaticamente l’URSS fu l’Italia, ma nel 1923 e per iniziativa di Mussolini, e senza che per questo diventasse comunista…

Fatto sta che è su mitologie di tale inconsistenza che ancora oggi si lavora. Una volta conosciuta l’opera dannunziana, una volta letta la sua straripante prosa estremistica, se ne riconoscono le tracce che anticiparono il Fascismo fin dai primi scritti giovanili negli anni Ottanta dell’Ottocento. Se il punto di partenza dell’ideologia di D’Annunzio fu il superomismo nietzscheano, a questo il poeta aggiunse col tempo quella sensibilità sociale che già era da un pezzo nell’aria sia nel nazionalismo corradiniano, sia nelle scelte dei sindacalisti rivoluzionari in favore dell’interventismo: confluiti poi l’uno e gli altri nel Fascismo. Il Vate si esprimeva a favore della energia dominatrice che agisce tanto nell’arte quanto nell’arte politica di un capo carismatico; esaltava le glorie italiane e affidava alla nazione una missione da realizzarsi attraverso i trionfi guerrieri; celebrava il destino della stirpe formulando una delle rivendicazioni imperialistiche più radicali del Novecento: a questo aggiunse l’idea di una nobiltà del popolo presente anche nell’umile lavoro quotidiano. Da Giovanni Rizzo, il prefetto che il Duce inviò al Vittoriale per sorvegliare non tanto D’Annunzio quanto la fauna di parassiti che lo circondava, sappiamo che Gardone pullulava di faccendieri e mestatori: «avversari di varia tinta, partigiani, zelatori e gelosi si davan da fare per attizzare il fuoco della discordia». Ma invano: D’Annunzio confermò fino alla fine l’identità di ideali col Fascismo. Dev’essere stata una ben strana inimicizia, quella tra i due, se ad esempio nel 1936 D’Annunzio poté inviare a Mussolini – che chiamava spesso il grande Capo – parole che non lasciano scampo: «Tutta la mia arte migliore si tendeva dal mio profondo nell’ansia di scolpire la tua figura grande, mentre tu solo contro gli intrighi de’ vecchi, contro la falsità degli ipocriti… difendevi la tua patria, la mia patria, l’Italia, l’Italia, l’Italia, tu solo, a viso aperto!…».

* * *

Tratto da Linea del 27 giugno 2008.

dimanche, 07 mars 2010

De visita en la casa de Ernst Jünger


El Aura se impregna especialmente en las sustancias orgánicas:
madera, cuero, pergamino, cera, lana, lino.
Todas ellas preparan el justo ánimo
donde la piedra y el metal ponen únicamente el acento.

Ernst Jünger


De visita en la casa de Ernst Jünger

Giovanni B. Krähe - Ex: http://geviert.wordpress.com/

No hace mucho el periódico alemán FAZ publicó un artículo sobre los necesarios trabajos de restauración en la casa del escritor alemán Ernst Jünger. Las imágenes que reproducimos en este post (© FAZ, Jünger-Haus) pertenecen a la casa de Wilflingen, localidad donde se encuentra la Jünger-Haus, construcción de época barroca (1728) perteneciente entonces al barón Franz Schenk von Stauffenberg (pariente de Klaus, el del atentado contra Hitler). Jünger vivió en esta casa desde los años cincuenta hasta su fallecimiento en 1998. En 1950 el barón Franz le ofreció al escritor una habitación en el castillo, oferta que Jünger declinó por la habitación de enfrente, una construcción del siglo XVIII con once cuartos y un jardín, destinada a la familia del Oberförsterei (inspector del bosque, ver última imagen). Un año después de la gentil oferta, Jünger se mudaría definitivamente. Personalidades como el presidente Theodor Heuss, François Mitterrand, el canciller Helmut Kohl o el escritor Jorge Luis Borges entre otros, “peregrinaron” en su momento hasta la casa del escritor de in Stahlgewittern. En las imágenes se pueden apreciar algunos de los objetos entre más de setenta mil catalogados por los técnicos y germanistas del archivo Marbach durante el trabajo de mudanza provisoria. Más de 450 fotografías de inventario y dos meses de trabajo de catalogación minuciosa, han sido necesarios para poder restituir después las cosas a su lugar exacto, luego de los trabajos de restauración. Entre las fotos podemos observar el Stahlhelm (casco de acero) de la Primera y Segunda Guerra Mundial (arriba de derecha a izquierda), la colección de fósiles marinos y la nota colección jüngeriana de Käfer, escarabajos, reflejo de su pasión por la entomología (Jünger estudió zoología en Leipzig).

Algunas cosas se quedarán en la casa: la colección de escarabajos se quedará para evitar que pueda dañarse, dada la fragilidad, al igual que la tortuga de Jünger de nombre Hebe. Jünger comenta en 1990 sobre Hebe: Ob wohl schon jemand bemerkt hat, dass die Schildkröten, änhlich wie die Katzen, gern am Bäckchen gestreichelt werden? (¿habrá notado alguien que las tortugas también gustan de ser acariciadas en su caparazón como los gatos?). Un transporte especial ha sido preparado para la biblioteca personal del autor: los libros serán transportados al archivo subterráneo de Marbach exactamente como han sido encontrados en la posición original. Cabe destacar la colección de relojes de arena (ver detalle más abajo). A continuación algunas fotos:

Más fotos:

Links:

Editorial Klett-Cotta, las obras completas

Jünger en España (El Mundo, 1995)

Textos de y sobre Ernst Jünger:

en Dialnet: link para descargas

en Figator: link

en Pdf Search:Link

Otros links relacionados im Geviert:

Friedrich Georg Jünger: Die Perfektion der Technik

Ernst Jünger: congreso internacional de la Jünger Gesellschaft en Breslau, Polonia

jeudi, 04 mars 2010

Les plus atroces injustices...

Les plus atroces injustices...

Ex: http://zentropa.splinder.com/

"Aucun adulte ne peut lire Dickens sans percevoir ses limites, mais elles ne remettent pas en cause cette générosité d'esprit innée qui joue en quelque sorte le rôle d'une ancre et empêche presque toujours Dickens de partir à la dérive. C'est probablement là le secret de sa popularité. Cette espèce d'heureux antinomianisme que l'on trouve chez Dickens est l'un des traits caractéristiques de la culture populaire occidentale. Il est présent dans les contes et chansons humoristiques, dans les figures mythiques comme Mickey Mouse ou Popeye, dans l'histoire du socialisme ouvrier, dans les protestations populaires contre l'impérialisme, dans l'élan qui pousse un jury à accorder des indemnités exorbitantes quand la voiture d'un riche écrase un pauvre. C'est le sentiment qu'il faut toujours être du côté de l'opprimé, prendre le parti du faible contre le fort. En un sens, c'est un sentiment qui est passé de mode depuis une cinquantaine d'années.
L'homme de la rue vit toujours dans l'univers psychologique de Dickens, mais la plupart des intellectuels, pour ne pas dire tous, se sont ralliés à une forme de totalitarisme ou à une autre. D'une point de vue marxiste ou fasciste, la quasi-totalité des valeurs défendues par Dickens peuvent être assimilées à la "morale bourgeoise" et honnies à ce titre. Mais pour ce qui est des conceptions morales, il n'y a rien de plus "bourgeois" que la classe ouvrière anglaise.

dickensmisère.jpgLes gens ordinaires, dans les pays occidentaux, n'ont pas encore accepté l'univers mental du "réalisme" et de la politique de la Force. Il se peut que cela se produise un jour ou l'autre, auquel cas Dickens sera aussi désuet que le cheval de fiacre. Mais s'il a été populaire en son temps, et s'il l'est encore, c'est principalement parce qu'il a su exprimer sous une forme comique, schématique et par là même mémorable, l'honnêteté innée de l'homme ordinaire. Et il est important que sous ce rapport des gens de toutes sortes puissent être considérés comme "ordinaires". Dans un pays tel que l'Angleterre, il existe, par delà la division des classes, une certaine unité de culture. Tout au long de l'ère chrétienne, et plus nettement encore après la Révolution française, le monde occidental a été hanté par les idées de liberté et d'égalité. Ce ne sont que des idées, mais elles ont pénétré toutes les couches de la société. On voit partout subsister les plus atroces injustices, cruautés, mensonges, snobismes, mais il est peu de gens qui puissent contempler tout cela aussi froidement qu'un propriétaire d'esclaves romain, par exemple. Le millionnaire lui-même éprouve un vague sentiment de culpabilité, comme un chien dévorant le gigot qu'il a dérobé. La quasi-totalité des gens, quelle que soit leur conduite réelle, réagit passionnellement à l'idée de la fraternité humaine. Dickens a énoncé un code auquel on accordait et on continue à accorder foi, même si on le transgresse. S'il en était autrement, on comprendrait mal comment il a pu à la fois être lu par des ouvriers (chose qui n'est arrivée à aucun autre romancier de son envergure), et être enterré à Westminster Abbey."

George Orwell, Charles Dickens (1939) in Dans le ventre de la baleine et autres essais, Editions Ivrea/Encyclopédie des Nuisances, Paris, 2005, pp. 124-125.

dimanche, 28 février 2010

Ezra Pound: The Liberty of Subsidy

Copie_de_Ezra_Pound_1971.jpgThe liberty of subsidy

Ex: http://rezistant.blogspot.com/
Liberty is defined in the declaration of the Droits de l’homme, as they are proclaimed on the Aurillac monument, as the right to do anything that ne nuit pas aux autres. That does not harm others. This is the concept of liberty that started the enthusiasms in 1776 and in 1790. I see a member of the Seldes family giving half an underdone damn whether their yawps do harm or have any other effect save that of getting themselves advertised. If you were talking about the liberty of a responsible Press that is a different kettle of onions, and is something very near to the state of the Press in Italy at the moment. The irresponsible may be in a certain sense "free" though not always free of the consequences of their own irresponsibility, whatever the theoretical government, or even if there be no government whatsoever, but their freedom is NOT the ideal liberty of eighteenth-century preachers. A defect, among others, of puritanism, or of protestantism or of Calvin the damned, and Luther and all the rest of these blighters whom we Americans have, whether we like it or not, on our shoulders, is that it and they set up rigid prohibitions which take no count whatsoever of motive. Thou shalt not this and that and the other. This is a shallowness, it is the thought of inexperienced men, it is thought in two dimensions only.

What you want to know about the actions of a friend or mistress is WHY did he or she do it? If the act was done for affection you forgive it. It is only when the doer is indifferent to us that we care most for the effect. Doc Shelling used to say that the working man (American or other) wanted his rights and all of everybody else’s.“ The party ” in Russia has simplified things too far, perhaps ? too far ?We have in our time suffered a great clamour from those who ask to be “governed,” by which they mean mostly that they want to run yammering to their papa, the state, for jam, biscuits, and persistent help in every small trouble. What do they care about rights? What is liberty, if you can have subsidy?

Ezra Pound, Jefferson and/or Mussolini. L´idea statale. Fascism as I have seen it.. Stanley Nott, London 1936.