lundi, 05 avril 2010
Brzezinski sta per finire nella pattumeria della storia?
di Alessandro Lattanzio
Fonte: saigon2k [scheda fonte]
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Il 23 Febbraio 2010, l’intelligence iraniana assestava un duro colpo alla strategia neo-mackinderiana dell’amministrazione Obama, catturando Abdolmalek Rigi, il capo del gruppo terroristico Jundallah, responsabile di stragi, rapina a mano armata, sequestro di persona, atti di sabotaggio, attentati e operazioni terroristiche contro i civili, esponenti del governo e militari dell’Iran, assassinando in 6 anni oltre 150 persone in Iran, per la maggior parte civili.
Nell’ultimo attentato compiuto dal Jundullah, il 18 ottobre 2009, nella regione di Pishin, nel Sistan-Baluchistan (sud-est dell’Iran, al confine col Pakistan), rimasero uccise più di 40 persone, tra cui 15 componenti e alti ufficiali del Corpo dei Guardiani della Rivoluzione Islamica (Pasdaran), e diversi capi tribali dell’area. Rigi era su un aereo di linea, in un volo notturno, proveniente da Dubai e diretto in Kirghizistan, ma l’aereo è stato intercettato dai caccia dell’aeronautica iraniana e costretto ad atterrare nell’aeroporto di Bandar Abbas, in territorio iraniano. Rigi viaggiava con passaporto afgano, e infatti, probabilmente nell’aprile 2008, aveva incontrato proprio in Afghanistan l’allora segretario generale della NATO, dopo esser stato ospitato presso una base statunitense non precisata. Il fratello di Abdolmalek, Abdulhamid Rigi, che era stato arrestato in precedenza, ha affermato che suo fratello aveva stabilito dei contatti con l’amministrazione statunitense, tramite un certo Amanollah-Khan, il cui nome completo è Amanollah-Khan Rigi, sostenitore del regime dello Shah. Dopo la Rivoluzione del ‘79, Rigi lasciò il paese chiedendo asilo politico negli Stati Uniti. Secondo Abdulhamid gli statunitensi avrebbero arruolato Amanollah-Khan per stabilire un collegamento tra gli USA e il gruppo terroristico Jundallah, e nell’ambito di queste operazioni, Abdolhamid Rigi avrebbe incontrato l’ambasciatore statunitense in Pakistan che gli aveva promesso finanziamenti e un sicuro rifugio in Pakistan. E difatti, sempre secondo Abdolhamid, il governo pakistano è perfettamente al corrente di queste manovre e dove operi il gruppo terroristico Jundallah.
Abdolmalek Rigi ha poi completato le dichiarazioni del fratello:
“Dopo che Obama venne eletto, gli americani ci contattarono e mi incontrarono in Pakistan. Lui mi disse che gli americani chiedevano un colloquio. Io all’inizio non accettai ma lui promise a noi grande cooperazione. Disse che ci avrebbe dato armi, mitragliatrici ed equipaggiamenti militari; loro ci promisero pure una base militare in Afghanistan, a ridosso del confine con l’Iran. Il nostro meeting avvenne a Dubai, e anche lì ripeterono che avrebbero dato a noi la base in Afghanistan e che avrebbero garantito la mia sicurezza in tutti i paesi limitrofi dell’Iran, in modo che io possa mettere in atto le mie operazioni”.
Rigi era diretto a Bishkek, in Afghanistan perché:
“Mi dissero che un alto esponente americano mi voleva vedere e che lui mi aspettava nella base militare di Manas, vicino Bishkek, in Kirghizistan. Mi dissero che se questo alto esponente viaggiava negli Emirati, poteva essere riconosciuto e perciò dovevo andare io da lui. Nei nostri meeting gli americani dicevano che l’Iran aveva preso la sua strada e che al momento il loro problema era proprio l’Iran e non al-Qaida e nemmeno i taliban; solo e solamente l’Iran. Dicevano di non avere un piano militare adatto per attaccare l’Iran. Questo, dicevano, è molto difficile per noi. Ma dicevano che la CIA conta su di me, perché crede che la mia organizzazione è in grado di destabilizzare il paese. Un ufficiale della CIA mi disse che era molto difficile per loro attaccare l’Iran e che, perciò, il governo americano aveva deciso di dare supporto a tutti i gruppi anti-iraniani capaci di creare difficoltà al governo islamico. Per questo mi dissero che erano pronti a darci ogni sorta di addestramento, aiuti, soldi quanti ne volevamo e la base per poter mettere in atto le nostre azioni”.
Il personaggio statunitense che Rigi avrebbe dovuto incontrare, nella base aera dell’USAF di Manas, assieme a un alto funzionario dell’intelligence USA, sarebbe stato Richard Holbrooke, inviato speciale statunitense per l’Afghanistan e il Pakistan, che quel giorno si trovava proprio in Kirghizistan. Ma a un certo punto, le cose, per Rigi, si mettono male: i servizi segreti di Afghanistan e Pakistan, dopo averlo sostenuto per anni nella sua attività terroristica, avrebbero deciso di abbandonarlo all’indomani dell’attentato di Pishin. I servizi segreti pakistani gli dissero, rimanendo però inascoltati, di sparire dalla circolazione, di lasciare la città di Quetta e di rifugiarsi nelle zone montuose del Pakistan. Il 18 Marzo, membri di Jundallah, armati e a bordo di jeep, tentavano di oltrepassare il confine tra Pakistan e Iran, ma appena entrati in territorio iraniano, i terroristi sono caduti in una trappola tesa dalle unità d’élite dei Pasdaran, causando l’eliminazione di numerosi terroristi. Così le forze di sicurezza iraniane infliggevano un altro colpo devastante al Jundullah.
In parallelo con lo smantellamento del Jundullah, l’intelligence iraniana metteva a segno un altro colpo: il 14 Marzo 2010 venivano arrestate trenta persone coinvolte in una cyber-guerra contro la sicurezza nazionale iraniana. La rete clandestina avrebbe ricevuto aiuti dagli Stati Uniti e avrebbe cooperato con gruppi controrivoluzionari monarchici e con l’organizzazione terroristica dei Mujaheddin e-Khalq. Tra i compiti della rete ci sarebbe stata la raccolta di informazioni sugli scienziati coinvolti nel programma nucleare iraniano. In effetti, il giornalista del New Yorker Seymour Hersh rivelò che nel 2006 il Congresso statunitense aveva acconsentito alla richiesta dell’ex presidente George W. Bush di finanziare operazioni coperte in Iran. Hersh, citando Robert Baer, un ex agente della CIA in Medio Oriente, affermò che così vennero stanziati 400 milioni di dollari per le operazioni condotte da al-Qaida, Jundallah e Mujaheddin-e Khalq, con lo scopo di creare il caos in Iran e di screditarne il governo. Inoltre, anche la manipolazione dell’informazione rientrava nel piano di Bush, mentre la CIA stanziava oltre 50 milioni di dollari per attivare un comitato anti-iraniano, denominato IBB, presso il Dipartimento di Stato USA.
Il 17 Marzo 2010, a suggellare il mutamento del quadro strategico regionale, segnalato dalla suddetta svolta nella lotta al terrorismo alimentato dagli apparati d’intelligence e militari statunitensi, Iran e Pakistan hanno firmato l’accordo finale della costruzione del gasdotto TAPI, con cui si trasporterà il gas iraniano in Pakistan, Turchia, e forse India o Cina. Si tratta di un progetto, da completare entro il 2014, che consentirà all’Iran di esportare, per 25 anni, 750 milioni di metri cubi di gas al giorno.
Difatti, il percorso di collaborazione e sovranismo economico-strategico, percorso da Turchia, Iran e Pakistan, non fa altro che cementare e rafforzare la stabilità, già sufficientemente precaria, della regione. Un obiettivo perseguito da Washington, non solo contro Tehran e Islamabad, ma anche contro Ankara. E in effetti, il 22 febbraio 2010, il primo ministro turco, Recep Tayyip Erdogan annunciava che la magistratura turca aveva sventato un tentato golpe militare, arrestando in tutto il paese 51 militari (17 tra generali e ufficiali in pensione, quattro ammiragli e almeno altri 28 ufficiali in servizio) accusati di tentato colpo di stato e di associazione per delinquere. Si trattava dell’operazione ‘Bayloz’ (Martello), volta a rovesciare il governo del Partito Giustizia e Sviluppo (AKP) del premier Erdogan. Ai vertici del complotto vi erano Ibrahim Firtina, ex-capo di stato maggiore dell’aeronautica militare turca ed i suoi omologhi Ozden Ornek, della marina e Ergin Saygun, dell’esercito, che nel 2007 accompagnò a Washington il premier Erdogan, nella sua visita al presidente degli USA George W. Bush, l’ex capo delle forze speciali, il generale Engin Alan, e l’ex comandante del primo corpo d’armata, il generale Cetin Dogan. Inoltre almeno altri sette ufficiali in congedo e sette in servizio sono stati fermati. Lo smantellamento dell’organizzazione ‘Bayloz’ è un effetto collaterale dell’inchiesta su un altro golpe, dell’organizzazione clandestina ‘Ergenekon’ che coinvolse più di 300 persone, ora sotto processo e sorvegliate dalle autorità turche, che venne sventata nel 2003 e che prevedeva attentati terroristici contro due moschee di Istanbul, attacchi con ordigni incendiari a dei musei, oltre all’omicidio del premio nobel per la letteratura, Orhan Pamuk, e dello stesso Erdogan. Tutte azioni volte ad alimentare la ‘strategia della tensione’. Infine era previsto anche l’abbattimento di un aereo di linea turco nel Mar Egeo da attribuire a un caccia greco, con ciò richiamandosi espressamente all’operazione di provocazione ‘Northwood’, stilata dagli Stati Maggiori Riuniti degli Stati Uniti, all’epoca della crisi con la Cuba rivoluzionaria. Tutti aspetti che mostrano chiaramente l’origine di queste organizzazioni eversive turche. Infatti ‘Ergenekon’ era un’organizzazione simile a ‘Gladio’, funzionale quindi alla strategia del piano ‘Stay Behind’ della NATO, con una struttura orizzontale che aveva aderenti in tutti i campo: civili, accademici e militari.
Tali eventi avvengono mentre il Pakistan compie la svolta politica decisiva, attuata a seguito della scoperta e denuncia di una rete clandestina, collegata all’intelligence statunitense, che operava nel suo territorio. Si trattava di un’organizzazione costituita da mercenari, terroristi e squadroni della morte che spargevano terrore presso la popolazione ed effettuavano raid contro svariati obiettivi, pretestuosamente indicati come terroristi o fiancheggiatori dei taliban. Non va escluso che tale rete sia coinvolta nell’ondata dei devastanti attentati che ha colpito il Pakistan negli ultimi anni. Infatti un funzionario del dipartimento alla Difesa USA, Michael Furlong, con la copertura di un programma per la raccolta di informazioni, aveva creato degli squadroni della morte utilizzando una rete di contractor di agenzie paramilitari private, segnatamente un reparto d’elite della Xe Service (ex Blackwater), composta soprattutto da ex membri della CIA e delle forze speciali. Come detto, l’obiettivo era scovare e uccidere presunti taliban e militanti di al-Qaida, sia in Afghanistan che in Pakistan. Furlong aveva assunto i mercenari allo scopo, apparente, di effettuare operazioni di intelligence contro i combattenti e i campi di addestramento taliban, con cui sostenere i militari e i servizi segreti nell’effettuare azioni d’attacco in Afghanistan e in Pakistan (in questo caso aggirando il divieto di operare in territorio pakistano, imposto da Islamabad agli USA), rimanendo al di fuori dalla catena di comando della NATO. In realtà la rete era “al centro di un programma segreto in cui si pianificavano assassinii mirati, azioni mordi e fuggi contro obiettivi importanti ed altre azioni segrete all’interno ed all’esterno del Pakistan”. Probabilmente, la rete occulta di Furlong era controllata dalle gerarchie militari e politiche di Washington, e finanziata sia con fondi distolti dal programma per la raccolta di informazioni, sia probabilmente con lo sfruttamento del narco-traffico della regione. In Germania, in effetti, un servizio trasmesso a febbraio dalla Norddeutsche Rundfunk, la TV pubblica tedesca, ha rivelato che la NATO e il ministero della Difesa tedesco starebbero investigando sulle attività della Ecolog, una multinazionale di proprietà della famiglia albano-macedone Destani, di Tetovo, che con un contratto della NATO, dal 2003, opera in Afghanistan fornendo servizi logistici alle basi dell’ISAF e all’aeroporto militare di Kabul. La Ecolog sarebbe coinvolta nel contrabbando internazionale di eroina dall’Afghanistan. “C’è il rischio che sia stata contrabbandata droga, quindi valuteremo se la Ecolog è ancora un partner affidabile per noi“, ha dichiarato alla Tv tedesca il generale Egon Ramms del NATO Joint Force Command di Brussum, in Olanda. “Siamo al corrente della questione e stiamo investigando con le autorità competenti“, ha confermato un portavoce del ministero della difesa tedesco. Nel 2006 e nel 2008 la Ecolog era stata indagata, in Germania, per traffico di eroina dall’Afghanistan e riciclaggio di denaro sporco. Nel 2002, quando la Ecolog operava in Kosovo per conto del contingente tedesco della KFOR, i servizi segreti di Berlino informarono i vertici della Nato che il clan Destani, collegato all’UCK, controllava il traffico di droga, armi e esseri umani al confine macedone-kosovaro. Il 90 per cento dei quattromila dipendenti della Ecolog sono albano-macedoni.
Non è un caso che rotte del narcotraffico e linee di frattura conflittuali si dispieghino, in modo parallelo, dalle propaggini dell’Himalaya all’Europa balcanica. I fatti su riportati, sono collegati alla politica internazionale enunciata da Obama fin da quando si era candidato alla carica presidenziale degli Stati Uniti d’America, e non a caso Obama è un allievo del neomackinderiano polacco-americano Zbignew Brzezinsky. Brzezinsky ha indicato come obiettivo centrale della politica globale statunitense, impedire che si formi un blocco economico-strategico eurasiatico, intervenendo in quello che Brzezinsky ritiene il ventre molle dell’Eurasia, la macro-regione Balcani-Medio Oriente-Pashtunistan.
Memore del suo successo con i ‘Freedom fighters’, ovvero con i mujahidin afgani che armò e finanziò per combattere la presenza sovietica e il Partito Democratico Popolare in Afghanistan, Bzrezinsky, tramite il suo seguace Barack Obama, ha voluto riprendere la sua vecchia strategia, convinto che la debolezza della Russia e le divisioni fra Iran, Pakistan, India e Cina potessero aiutare gli USA ad approfondire e allargare l’arco delle crisi artificiali che si dipana sulla regione balcanico-mediorientale. Ma l’usura subita dalla forza, vera e immaginaria, degli USA, avutasi grazie alle politiche dell’amministrazione di Bush junior, coniugata all’avanzata economica-strategica di New Delhi e Beijing, alla politica di decisa tutela della propria sovranità da parte di Tehran e alla ripresa, da parte di Mosca, di una politica internazionale di ampio respiro, tesa a creare stretti rapporti di collaborazione e buon vicinato con il suo estero vicino e le altre potenze eurasiatiche, stanno mettendo sotto scacco tutte le mosse di Washington, ideate appunto dal gruppo di Brzezinsky, volte a impedire la realizzazione del peggior incubo per un mackinderiano: la formazione di un blocco economico-strategico in Eurasia. Se, in tale quadro, s’inserisce la crisi con Tel Aviv, conseguenza del riorientamento geostrategico e geopoltico brezinskiano, ossessivamente puntato verso l’Heartland, si può prevedere che il programma neomackinderiano di Washington sia entrato in un vicolo cieco che potrebbe procurare una grave crisi all’amministrazione Obama, che magari potrebbe portare all’abbandono di tale strategia quasi fallimentare. E forse, l’ostinata ricerca di un consenso sul piano interno, procacciato con il varo di una riforma (in realtà demolitoria) per l’estensione della sanità a tutta la popolazione statunitense, rientra nella previsione di questa possibile prossima crisi acuta.
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mardi, 16 mars 2010
Il Grande Gioco in Asia Centrale
di Marco Luigi Cimminella
Fonte: eurasia [scheda fonte]
Con la vittoria del filo-russo Janukovič alle elezioni presidenziali ucraine, svoltesi lo scorso mese, Mosca ha ritrovato un probabile alleato nello scontro energetico ingaggiato dalle grandi potenze in Asia centrale e meridionale. Il petrolio vicino-orientale non basta a soddisfare il fabbisogno di idrocarburi di Europa e Stati Uniti, che spinti alla ricerca di nuovi canali di approvvigionamento, hanno finito per posare gli occhi sulle riserve caspiche e caucasiche. L’estrazione e l’esportazione di queste risorse sono da tempo sottoposte al rigido monopolio del colosso russo Gazprom che, con una serie di condutture che attraversano il territorio ucraino, rifornisce i mercati occidentali.
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Nel tentativo di contrastare questo chiaro “leverage” della politica estera russa, Washington, di concerto con alcuni paesi europei, ha approntato alcuni importanti progetti. Pensiamo al gasdotto Nabucco (il tragitto nella foto) o all’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan, che permettono agli idrocarburi asiatici di viaggiare in direzione ovest scavalcando la Russia a sud. Allo stesso modo deve essere analizzato il proposito di costruire delle condutture che, attraversando le acque del Mar Nero e collegando Supsa, in Georgia, con Odessa, in Ucraina, permetta agli idrocarburi azerbaigiani, turkmeni e kazaki di raggiungere l’Europa, senza passare per il territorio di Mosca. Inizialmente il Cremlino aveva potuto ostacolare questo progetto grazie alla collaborazione del governo ucraino, con a capo il filo-russo Kučma. In seguito alla rivoluzione arancione che si era ultimata, nel 2004, con la nomina a presidente del liberale Juščenko, l’Ucraina si era mostrata favorevole ad aderire al disegno occidentale, manifestando chiare intenzioni di entrare a far parte della Nato e attirandosi così le dure critiche della classe dirigente russa. Nel febbraio scorso, Janukovič ha riportato, in seguito ad elezioni contestate dalla rivale Timošenko, un’importante vittoria che potrebbe cambiare gli assetti degli schieramenti impegnati in quella frenetica competizione, tesa all’accaparramento delle risorse energetiche, conosciuta come il Grande Gioco del XXI secolo.
Contesto storico del Grande Gioco
L’Asia centrale e meridionale ha sempre rivestito un’importanza fondamentale nello scacchiere internazionale. Considerandola come il cuore della “World Island”, cioè della massa continentale che comprende Eurasia e Africa, H. Mackinder, padre della geopolitica moderna, aveva scritto: “Who rules East Europe commands the Heartland; who rules the Heartland commands the World-Island; who rules the World-Island controls the world”. In queste tre semplici frasi, il noto studioso raccoglieva il succo della sua teoria dell’Hertland, destinata ad avere grande successo nei secoli successivi e ad essere sottoposta anche a diverse rielaborazioni1. La teoria di Mackinder ha trovato riscontro pratico nel corso dell’Ottocento in relazione al cosiddetto “Grande Gioco”, il lungo ed estenuante conflitto che vide impegnati lo Zar e Sua Maestà nel tentativo continuo di imporre il proprio dominio in Asia centrale e meridionale.
La regione che Mackinder definisce “Terra cuore”, si identificava, nel corso della seconda metà dell’800, con il territorio sottoposto al controllo russo. Inaccessibile dal mare, ricca di petrolio e gas naturale, quest’area faceva dell’impero zarista lo stato perno dello scacchiere internazionale. Con una rottura dell’equilibrio di potenza, originatosi con il congresso di Vienna del 1814 in seguito alle sconfitte napoleoniche, lo Zar avrebbe potuto condurre l’esercito imperiale verso la conquista dei territori periferici dell’Eurasia. Successivamente, sfruttando le ingenti risorse energetiche della regione, San Pietroburgo avrebbe potuto dotarsi di una immensa flotta, capace di concorrere con quella britannica per il dominio dei mari. Proprio lo sbocco al mare ha costituito una delle priorità dell’agenda zarista nel corso dell’Ottocento. Due in particolare erano gli obbiettivi si San Pietroburgo: il Mediterraneo e l’Oceano Indiano. L’interesse per il primo fu parzialmente spento in seguito alla sconfitta nella Guerra di Crimea2 (1853-1856), che comportò un cambiamento di rotta nella politica estera zarista. La Russia puntava ora ad estendere la propria influenza nei khanati in Asia centrale, e da qui, procedendo verso sud, avrebbe potuto garantirsi uno sbocco sull’Oceano Indiano.
Naturalmente, le mire espansionistiche di San Pietroburgo andarono presto incontro alla dura opposizione britannica. Difatti, in Asia meridionale vi era l’India, considerata dalla regina Vittoria la gemma del suo impero coloniale. Il continuo avanzamento delle truppe zariste nei territori centro-asiatici costituiva una grande minaccia che bisognava debellare. In particolare, il Foreign Office aveva individuato nell’Afghanistan un’ottima base strategica che le truppe russe avrebbero potuto utilizzare per infliggere duri attacchi alla prediletta fra le colonie della regina. La necessità di contenere l’espansionismo zarista, facendo dell’Afghanistan uno stato cuscinetto contro le pretese egemoniche di San Pietroburgo, diede inizio ad un esasperante conflitto che si ripercuoterà nel corso dei secoli, giungendo prorompente sullo scenario internazionale attuale.
L’importanza strategica dell’Asia centrale oggi
Questa regione ha assunto un’importanza strategica considerevole nel contesto internazionale odierno. Le motivazioni sono evidenti. In primo luogo, significativa è la questione energetica. Secondo il parere di geologi ed esperti, l’intera area trabocca di idrocarburi. Vero è che tali riserve non sono quantitativamente comparabili a quelle del Golfo Persico. Ciononostante, sono in grado di saziare, almeno per il momento, gli ingordi appetiti energetici delle grandi potenze, comportandosi come un ottimo succedaneo agli idrocarburi vicino-orientali, la cui fruizione è sempre soggetta a continue oscillazioni dovute al fondamentalismo islamico e al terrorismo internazionale. I giacimenti più ricchi li rinveniamo nel bacino caspico, nonché in Azerbaijan, Turkmenistan, Kazakistan, Uzbekistan e Iran. In Azerbaijan, l’estrazione di petrolio è aumentata da 180.000 barili al giorno (barrels per day bbl/d) del 1997 a 875.000 bbl/d nel 2008. Apprezzabili anche le riserve di gas naturale, la cui produzione ha raggiunto, nel 2008 572 btc (billion cubic feet). Un altro importante produttore è il Turkmenistan, che nel 2008 ha raggiunto i 189.400 bbl/d di oro nero e 70.5 miliardi di metri cubi di oro blu. Considerevoli anche le riserve uzbeke, che nel 2008 ammontavano a 67.6 miliardi di metri cubi di gas e 83.820 bbl/d di petrolio. Le coste caspiche kazake garantiscono un ottimo approvvigionamento di petrolio, con una produzione di 1,45 milioni di barili al giorno nel 2007. Infine l’Iran, che solo nel 2008 ha esportato 2,4 milioni di barili al giorno, sia verso l’Asia che verso i paesi europei facenti parte dell’OECD (Organization for Economic Cooperation and Development)3.
In secondo luogo, vi sono anche consistenti motivazioni di carattere commerciale che non bisogna sottovalutare. Fin dai tempi antichi, infatti, questa regione aveva assunto il ruolo di crocevia di itinerari terrestri, marittimi, fluviali che, mettendo in comunicazione la Cina con il Mediterraneo, consentiva alle carovane di mercanti di vendere i pregiati ed esotici prodotti orientali sui mercati occidentali. Questo corridoio commerciale fu chiamato, dal geologo e geografo tedesco Ferdinand von Richthofen “Seidenstrabe” (via della seta). La classe dirigente zarista prima, poi quella sovietica e infine quella russa, ha sempre considerato l’Asia centrale come una regione strategica per Mosca. In particolare, nel corso del secondo conflitto mondiale e poi successivamente durante la guerra fredda, questo territorio fungeva da bacino energetico per la potente macchina bellica comunista. In seguito al collasso dell’Unione Sovietica nel 1991, come scrive Zbigniew Brzezinski, si generò un buco nero, che successivamente finì per ridimensionare la presenza russa nel territorio. L’erosione del controllo moscovita fu accelerata dall’indipendenza politica dell’Ucraina nel 1991, dai continui tentativi della Turchia di accrescere il proprio peso in Georgia e Armenia, dalla rinascita del fervore nazionalista e musulmano nelle ex-repubbliche centro-asiatiche, continuamente impegnate nel porre fine ad una soffocante dipendenza economica, dal sapore marcatamente sovietico, nei confronti di Mosca.
Di conseguenza, fin dai primi anni novanta, l’esigenza di diversificare i propri partner politici ed economici ha assunto una significativa importanza per questi paesi, che, nel conseguimento di quest’obbiettivo, hanno incontrato non poche difficoltà. L’adozione di un approccio liberale classico, esplicatosi in questo caso in una maggiore collaborazione economica fra i paesi centro-asiatici, preludio ad un’integrazione di carattere politico, ha mostrato serie difficoltà nella sua applicazione pratica. In primo luogo, l’implementazione iniziale di politiche liberali da parte delle ex-repubbliche sovietiche ebbe dei seri risvolti negativi. Il Kirghizistan entrò a far parte, nel 1998, del WTO, mentre Uzbekistan, Tagikistan, Kazakistan, Afghanistan, Iran ne divennero osservatori. Ben presto questi paesi si accorsero che le loro deboli economie, scarsamente diversificate, non potevano reggere contro l’inondazione delle esportazioni straniere, in particolare quelle cinesi, più convenienti e vantaggiose. Per salvaguardare l’economia nazionale era quindi necessario adottare, almeno inizialmente, politiche protezioniste, e solo dopo aver sviluppato solide basi, concorrere con le altre potenze su un piano mondiale. In secondo luogo, allo scopo di incentivare una maggiore integrazione economica e finanziaria, i fragili paesi centro-asiatici avevano bisogno degli investimenti stranieri per promuovere la costruzione di infrastrutture funzionali alla realizzazione di profittevoli scambi commerciali in Eurasia. Da qui la frenetica competizione delle grandi potenze, in una lotta diplomatica senza esclusione di colpi, tesa ad una spartizione della torta asiatica che le favorisca.
Come scrive Joseph Nye4 siamo ormai catapultati in una realtà sempre più interdipendente, frutto di una globalizzazione a diversi livelli, economico, politico, socioculturale, religioso. Il ripristino di corridoi multimodali, funzionali al commercio e al trasporto di idrocarburi, si presenta inevitabile, garantendo la possibilità, agli stati della regione, di diversificare i propri partner energetici, finanziari, commerciali, politici, militari. Ed è così che la Cina, gli Stati Uniti, l’Unione Europea prendono parte ad un interessante affare che per più di cinquant’anni è stato dominio esclusivo di Mosca. Un nuovo “Grande Gioco” è scoppiato quindi in Asia centrale e meridionale. Nuovi paesi recitano, sul proscenio internazionale, uno scontro, di kiplingiana memoria, che deciderà i destini dell’equilibrio mondiale. Washington, Pechino, Mosca, Bruxelles, nel perseguire ciascuno i propri obiettivi nella regione, non potranno assolutamente sottovalutare le esigenze delle piccole e medie potenze dell’area che, lungi dall’essere semplici spettatori passivi, rivendicano un ruolo da protagoniste attive nel decidere le sorti del futuro assetto geopolitico internazionale.
* Marco Luigi Cimminella, dottore in Relazioni internazionali e diplomatiche (Università l’Orientale di Napoli), collabora con la redazione di “Eurasia”
Note
1 – Degno di nota fu la rivisitazione della teoria di Mackinder ad opera di Spykman, che attribuì maggiore importanza al concetto di Rimland, intesa come la fascia costiera euroasiatica dove si sarebbe inscenato lo scontro fra le potenze di terra e quelle di mare per il dominio del mondo.
2 – San Pietroburgo poteva infatti garantirsi uno sbocco nel Mediterraneo in due diversi modi. Il primo consisteva nel passare attraverso la regione dei Balcani, sottoposta al controllo turco. La seconda, controllare lo stretto dei Dardanelli e del Bosforo, entrambi sotto la reggenza ottomana. La strategia russa fu quella di attendere che l’esasperazione dei popoli salvi, insofferenti alla dominazione del sultano, prorompesse in una guerra contro la dominazione turca. Le forze militari russe avrebbero allora combattuto a fianco della popolazione locale, di cui lo zar si proclamava protettore, per stroncare le truppe ottomane e imporre il proprio controllo sulla regione. L’ostilità e l’opposizione turca nei confronti delle mire zariste fu rafforzata dall’impegno bellico di Regno Unito, Piemonte e Francia, che segnò, nella guerra di Crimea, la fine militare delle pretese pseudo religiose ed espansionistiche di Nicola I.
3 – Fonte dati: http://www.eia.doe.gov/
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mercredi, 10 mars 2010
Afghanistan-Offensive der NATO: für Frieden - oder für Opium und Uran...
Afghanistan-Offensive der NATO: für Frieden – oder für Opium und Uran …
Bei der »Operation Moshtarak«, einer vorab angekündigten massiven NATO-Offensive in der Stadt Marjah in der afghanischen Provinz Helmand, ging es offensichtlich nicht in erster Linie darum, die »Taliban« »auszulöschen« oder die versprengten Überreste einer angeblichen »Al Qaida« zu zerschlagen – die ohnehin immer mehr das Fantasieprodukt amerikanischer schwarzer Propaganda zu sein scheint. Welches Ziel hatte dann aber die Tötung so vieler unschuldiger afghanischer Zivilisten, darunter auch Frauen und Kinder?
Die Operation Moshtarak begann damit, dass Ort und mehr oder weniger die genaue Zeit des Angriffs in einer bizarr anmutenden Erklärung bereits vorab bekannt gegeben wurden. Bei ernsthaftem militärischem Vorgehen zeugt es nicht gerade von brillanter Taktik, den Gegner zuvor davon in Kenntnis zu setzen. Die Bombenangriffe umfassten den Einsatz ferngesteuerter amerikanischer Drohnen und anderer Flugzeuge, sie waren begleitet von einer Bodenoffensive von etwa 6.000 US-Marines, britischen und anderen NATO-Soldaten sowie Truppen der afghanischen nationalen Streitkräfte, insgesamt waren in der kleinen Stadt Marjah ca. 15.000 Soldaten im Einsatz. Das Weiße Haus spricht von der größten gemeinsamen US-NATO-afghanischen Militäroperation der Geschichte, die erste Großoffensive von Einheiten, die zu der von Barack Obama angeordneten »Aufstockung« um 30.000 Soldaten gehören.
Wie die New York Times berichtete, sind in den ersten Tagen der Offensive, die von der Propaganda des Pentagon als »humanitäre« Militärmission bezeichnet wird, fünf Kinder beim Einschlag einer Rakete in ein Gelände getötet worden, auf dem sich »afghanische Zivilisten aufhielten«. Insgesamt kamen bei dem Angriff bis zu zwölf Zivilisten ums Leben. Die computergesteuerten Raketen wurden von einer mehr als zehn Meilen entfernten Basis abgeschossen.
»Wir versuchen, dem afghanischen Volk zu vermitteln, dass wir die Sicherheit in ihrem Wohnumfeld erhöhen«, erklärte US-General Stanley McChrystal.
»Lächerliche Militärstrategie«
Zunächst einmal wird – wie viele zuverlässige Berichte aus Afghanistan bestätigen – der Begriff »Taliban« von den Militärplanern in Washington als Begründung für jede Form amerikanischer militärischer Besetzung des Landes ins Feld geführt. Viele, die da als Taliban bezeichnet werden, sind in Wirklichkeit lokale Aufständische, die das Land nach über 30-jähriger ausländischer Besetzung endlich von den Besatzern befreien wollen.
Malalai Joya, eine gewählte Abgeordnete des afghanischen Parlaments, hat den jüngsten Militärschlag offen als »lächerliche Militärstrategie« bezeichnet. Im einem Interview mit der Londoner Zeitung Independent erklärte sie: »Einerseits fordern sie Mullah Omar auf, dem Marionettenregime beizutreten. Andererseits führen sie diesen Angriff, dem vor allem schutzlose, arme Menschen zum Opfer fallen. Wie in der Vergangenheit werden sie bei Bombenangriffen der NATO getötet und dienen den Taliban als menschliche Schutzschilde. Die Menschen in Helmand leiden seit Jahren und Tausend von Unschuldigen sind bereits ums Leben gekommen.«
Joya betont, das Ziel der USA und des McCrystal-Plans seien nicht die Taliban. Es gehe vielmehr um die Sicherung der Kontrolle über die wertvollen Rohstoffe in der Provinz Helmand, nämlich um Uran und Opium.
Die Polizeikräfte in Afghanistan bezeichnet Joya als »die korrupteste Institution in Afghanistan. Bestechung ist an der Tagesordnung, wer das Geld hat, um die Polizei von oben bis unten zu bestechen, der kann praktisch tun, was er will. In weiten Teilen Afghanistans hassen die Menschen die Polizei mehr als die Taliban. So haben beispielsweise die Menschen in Helmand Angst vor der Polizei, die gewaltsam gegen sie vorgeht und Unruhe schürt. Die meisten Polizisten in dieser Provinz sind opium- oder cannabisabhängig.« Zu der jüngsten multinationalen Afghanistan-Konferenz in London war Joya nicht eingeladen, sie gilt als »wandelndes Pulverfass«, weil sie zu offen über die Wirklichkeit in Afghanistan spricht. Berichten zufolge hat sie genau deswegen in Afghanistan sehr viele Anhänger.
Nach Angaben im neuesten Afghanistan-Gutachten der UN ist die Provinz Helmand mit 42 Prozent der Weltproduktion die größte Opium produzierende Region der Welt. Hier wird mehr Opium hergestellt als in ganz Burma, dem zweitgrößten Opiumproduzenten nach Afghanistan. Über 90 Prozent des weltweiten Opium-Angebots stammt aus Afghanistan. Wenn Washington nun einerseits behauptet, die Taliban hätten sich die Kontrolle über die Opiumproduktion in Helmand verschafft, um ihren Aufstand zu finanzieren, oder wenn sich andererseits die Opium-Warlords weigern, mit den amerikanischen und anderen NATO-Geheimdiensten zusammenzuarbeiten, die selbst im Verdacht stehen, den weltweiten Opiumhandel zu kontrollieren, um mit den Einnahmen ihre schwarzen Operationen zu finanzieren, dann geht es bei der derzeitigen Militäroffensive eindeutig nicht darum, Afghanistan dem Frieden näher zu bringen oder die ausländische militärische Besetzung zu beenden.
Dienstag, 02.03.2010
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vendredi, 12 février 2010
Afghanistan : Strategie der Vernebelung
Afghanistan: Strategie der Vernebelung
Am Vortag der Londoner Afghanistan-Konferenz verkündete Bundeskanzlerin Angela Merkel eine »neue Afghanistan-Strategie«. Konnte man in den acht Jahren davor überhaupt von einer Strategie sprechen? – Nach dem preußischen Kriegsphilosophen Carl von Clausewitz stellt die Strategie den – sozusagen – wohlüberlegten und kenntnisreichen Weg dar, um ein angestrebtes Ziel zu erreichen. Das erfordert in erster Linie psychologisch subtiles Agieren, welches präzise von Logik und Vernunft gesteuert wird. Dazu ist eine ständige Standortbestimmung unerlässlich. Aber im Falle Afghanistan scheint nicht einmal der Ausgangsstandort bestimmt worden zu sein!
Der Krieg gegen Afghanistan wurde drei Wochen nach den Terroranschlägen von 9/11 begonnen. Hier hätte auch jedem militärischen Laien Zweifel kommen müssen. Denn ein derartiger Krieg mit fragwürdigen Verbündeten kann nicht in drei Wochen geplant und logistisch vorbereitet werden. Hierzu ist mindestens ein Vorlauf von drei Monaten erforderlich!
Das bestätigt George Arney in seinem BBC-Report US »planned attack on Taleban« vom 18. September 2001. (1) Demnach war die Militäraktion gegen Osama Bin Laden und die Taliban schon Mitte Juli geplant und für Mitte Oktober ins Auge gefasst worden. Diese Aussage wird vom ehemaligen pakistanischen Außenminister Niaz Naik bezeugt.
Der Krieg schien notwendig geworden, nachdem die US-Administration unter US-Präsident Bill Clinton zur Überzeugung kam, dass Afghanistan mit den Taliban nicht nach amerikanischen Vorstellungen zu »stabilisieren« sei. Das hätte eine Stagnation des »großen Spieles« zur Folge gehabt. Ein Patt zwischen amerikanisch-pakistanischen Interessen einerseits und russisch-iranisch-indischen andererseits sollte tunlichst vermieden werden. In diesem Zusammenhang ist auch das UN-Verhandlungsforum »sechs plus zwei« (die sechs Nachbarländer Afghanistans sowie die USA und Russland) unter der Führung des UN-Generalsekretärs Kofi Annan zu sehen. Offenbar war diese vergeblich.
Nachdem der Ausgangspunkt vergessen im Nebel liegt, formulierte die Kanzlerin ein noch nebulöseres Ziel: »Die Verteidigung von Menschenrechten und Sicherheit«. Dazu wurde eine Truppenaufstockung um 850 Bundeswehrsoldaten und die annähernde Verdoppelung deutscher Polizeiausbilder abgesegnet. Zudem soll die Entwicklungshilfe von 220 Millionen auf 430 Million Euro steigen. Mit diesem linearen Denkansatz der direkten Proportionalität soll mit mehr Soldaten und mehr Geld mehr Sicherheit erreicht werden. Doch zu häufig hat dieses Denken in die Irre geführt, weil die Akteure ihre Augen vor der indirekten Proportionalität verschließen: je mehr kann auch desto weniger bedeuten! Und im Fall Afghanistan dürfte die Sicherheit weiter abnehmen und die Probleme dürften dafür ansteigen. Unbeachtet bleiben die Warnungen des russischen Journalisten Wladimir Snegirjow (2), der die sowjetische Kampagne und die 1990er-Jahre in Afghanistan beobachtet hat. Seiner Erfahrung nach führt jede Erhöhung der Truppenstärke zu heftigerem Widerstand.
So ist der gesteigerte Einsatz von unbemannten Kampfflugzeugen mit für die Verschärfung der Sicherheitslage in Afghanistan verantwortlich. Diese Predatoren (Raubtiere) schlagen, wie auch von den Namensgebern gewünscht, bei den ohnmächtigen Opfern wie Raubtiere zu. Das schürt die Wut der archaischen Bevölkerung und beschert den Taliban weiteren Zulauf.
Die Zunahme der Flugstunden dieser Predatoren beläuft sich im US-Regionalkommando CENTCOM (3) mit den Kriegsgebieten Irak, Afghanistan und Pakistan für den Zeitraum von 2001 bis 2008 auf 1.431 Prozent!
Vor knapp drei Jahren wurden für mehr Sicherheit in Afghanistan sechs Tornado-Aufklärer in Masar-i-Sharif zeitlich befristet stationiert. »Afghanistan wird sicherer durch diesen Einsatz«, versprach Bundesverteidigungsminister Franz Josef Jung in Berlin nach der Kabinettssitzung am 7. Februar 2007. Das Gegenteil ist eingetreten!
Seit dem Sommer 2008 stellt die Bundeswehr die sogenannten 250 Soldaten starke Quick-Reaction-Force, die bei Bedarf an jedem Ort in Afghanistan offensive Kriegsaktionen durchführt. Seither ist die Lage noch unsicherer geworden und das Ansehen der Deutschen vor Ort dramatisch gesunken.
Nun sollen ausstiegswillige Taliban-Kämpfer mit Wiedereingliederungsmillionen angelockt werden. Hier scheint man aus den Fehlern der ersten Kriegsjahre gelernt zu haben: Ab dem 7. Oktober 2001 fielen nicht nur Bomben und Cruise Missiles auf Afghanistan, sondern auch Abertausende von Flugblättern mit ethisch fragwürdigen Verlockungen. Den perspektivlosen und verzweifelten Menschen wurde etwas angeboten, bei dem selbst viele Menschen der westlichen Welt nicht hätten widerstehen können: lebenslange Finanzsicherheit für die Familie. Dazu brauchte nur ein missliebiger Mitbürger als Taliban denunziert werden. Dann sollte der Slogan »Werden Sie reich und erfüllen Sie sich ihre Träume!« (4) wahr werden.
Wie viele vermeintliche Taliban mögen von dollargierigen Nachbarn verraten worden sein und heute noch in Guantánamo schmachten?
Jetzt will der Westen die Taliban besiegen, indem er gemäßigte Kämpfer von den Extremisten loskauft. Ein ebenso alter wie gescheiterter Versuch: Schon 2005 unternahm der derzeitige und von den USA implantierte Staatschef Hamid Karsai ebenso wie 1986 der damals von der Sowjetunion eingesetzte afghanische Präsident Mohammed Nadschibullah Versöhnungsangebote an die Widerstandkämpfer. Nadschibullah scheiterte, und das Programm von Karsai zur Eingliederung der Taliban verlief bisher im Wüstensand. Nun strich parallel zum Wiedereingliederungsangebot der UN-Sicherheitsrat fünf frühere Taliban-Führer von einer schwarzen Liste und ermöglicht ihnen damit, ins Ausland zu reisen und gesperrte Bankkonten zu nutzen. (5)
Dieses Programm offenbart nur die Hilflosigkeit der Verbündeten. Hatten die Taliban laut dem Londoner Forschungsinstitut ICOS 2007 erst 54 Prozent des Landes kontrolliert, sind es 2009 80 Prozent! Den Sieg der Taliban vor Augen, müsste ein Überläufer mit seinen »Wiedereingliederungsvermögen« sofort in einem Drittland – vorzugsweise in der Bundesrepublik – Asyl suchen. Somit wird sich auch dieses »Modell« als Rohrkrepierer erweisen.
Einen Tag vor der London-Konferenz versprach die deutsche Kanzlerin im Bundestag gegenüber der Öffentlichkeit »ehrliche Rechenschaft« abzulegen: »Ja, es ist wahr: Der Einsatz dauert länger und ist schwieriger, als wir vor acht Jahren erwartet haben.« (6) Um dann trotzig zu betonen, dass die Aufgabe, dem internationalen Terrorismus zu begegnen, 2001 richtig war und es heute noch ist. Hätte sich doch Frau Merkel am vorangegangenen Samstag die Mühe gemacht, in der Süddeutschen Zeitung den epochalen Artikel von Franziska Augstein zu lesen. Wie eine Gerichtsmedizinerin deckt sie akribisch die Entwicklungen und Zusammenhänge auf, um dann skalpell-scharf zu diagnostizieren: »Die verheerende Entwicklung Afghanistans liegt zuallererst an der amerikanischen Außenpolitik, die nur in einer Hinsicht konsistent ist: Die USA unterstützen immer den, der gerade behauptet, Feind ihrer Feinde zu sein. Und als mächtigstes Land der Welt können die USA es sich leisten, kein politisches Gedächtnis zu haben. Für ihre Fehleinschätzungen von gestern müssen die USA vor niemandem gerade stehen. Vor niemandem? Doch, es gibt Ausnahmen: Das sind zuallererst die Angehörigen der getöteten GIs, die bei allem Patriotismus zunehmend daran zweifeln, dass der Tod ihrer Söhne und Brüder einen Sinn gehabt habe.« (7)
Die Kanzlerin hätte Antworten auf die Frage suchen können, warum bisher alle Staaten, die nach Afghanistan einmarschierten, gescheitert sind. Erst die Briten im 19. Jahrhundert, die UdSSR im 20. Jahrhundert, und jetzt – vielleicht – auch Amerikaner und Europäer? Die Antwort könnte in den eigenen Erfahrungen des russische Hindukusch-Beobachters Snegirjow liegen. Er hält nichts davon, den Afghanen Systeme aufzudrängen, die ihnen fremd sind. »Sie wollen keinen Sozialismus, sie wollen keinen Kapitalismus, sie wollen ihr eigenes Leben führen. Hilft man ihnen, das mehr oder weniger zivilisiert zu gestalten, hilft man beispielsweise bei der Ausbildung ihrer Kinder, so wissen sie das sehr zu schätzen.« Für ihn sind die Taliban ein Teil des Volkes und haben nicht nur Anhänger unter den Paschtunen, sondern auch unter den Tadschiken und Usbeken. Mit allen ist der Dialog zu führen. Diese Aussage deckt sich auch mit denen zweier Afghanistan-Experten: dem deutschen Oberstarzt a. D. Dr. Reinhard Erös, Träger des Europäischen Sozialpreises (2004), und dem langjährigen Afghanistan-Korrespondent der ARD, Christoph Hörstel.
Nachdem unter Obama der Krieg gegen die Taliban auch auf Pakistan ausgedehnt worden ist, könnten die Analysen der beiden pakistanischen Generäle und ehemaligen ISI-Geheimdienstchefs helfen, ein aussagekräftiges Lagebild zu zeichnen. General Hamid Gul
zeigt absolutes Verständnis für die Taliban. Seiner Meinung nach verteidigen sie vehement zwei Dinge: ihren Glauben und ihre Freiheit – beides Grundfesten der afghanischen Gesellschaft. Auch hätte sich bisher kein einziger Taliban oder Afghane zu irgendeinen Terroranschlag im Ausland bekannt. »Sie kämpfen nur auf eigenem Boden, wozu sie nach der UN das Recht haben.« (8)
General Asad M. Durrani, von 1994 bis 1997 Botschafter in der Bundesrepublik, geht noch weiter als sein ehemaliger Kollge Gul. Für Durrani üben die Taliban in ihrem Krieg gegen die Besatzung nur Selbstverteidigung und führen seiner Meinung nach »unseren Krieg«. »Wenn sie aber scheitern und wenn Afghanistan unter Fremdherrschaft bleibt, werden wir weiter Probleme haben«, so Durrani im Interview mit dem deutschen Oberstleutnant Jürgen Rose. »Setzt sich die NATO, die stärkste Militärmacht der Welt, wegen ökonomischer und geopolitischer Interessen an der pakistanischen Grenze fest, dann erzeugt das in Pakistan enormes Unbehagen«, so Durrani, um dann auf ein altes Sprichwort zu verweisen: »Sei vorsichtig, wenn Du neben einem Elefanten schläfst, denn er könnte sich umdrehen.« (9)
In London wurde keine neue Strategie beschlossen. Auch alle vorherigen, inflationär viele Strategien sind bei genauer Betrachtung nicht einmal taktische Aushilfen. Die Politik wird in Washington gemacht und Washington kennt das wahre strategische Ziel. Ein Studium der Seidenstraßenstrategie-Gesetze (10) würde hier weiterhelfen.
Die Regierung von Barack Obama und ihre Vorgänger waren immer schon Herren des Verfahrens. Die USA haben 74.000 Soldaten nach Afghanistan entsandt, in diesem Jahr kommen noch 30.000 hinzu. Das von der NATO geführte ISAF-Unternehmen (11) ist längst zu einer amerikanischen Unternehmung geworden, die Verbündeten halten nicht Schritt mit der Dynamik der US-Streitkräfte. Im Einsatzgebiet der Deutschen werden die USA ab April 2010 bis zu 5.000 eigene Soldaten stationieren – annähernd so viele, wie die Bundeswehr dort hat. Eine deutlichere Unmutsbekundung ist kaum denkbar. (12) Der Krieg geht weiter, während sich die Geschichte wiederholt.
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Anmerkungen
(1) Arney, George: »US ›planned attack on Taleban‹«, Dienstag, 18. September 2001, 11:27 Uhr unter http://news.bbc.co.uk/2/hi/south_asia/1550366.stm.
(2) Snegirjow kam als Korrespondent der Komsomol-Zeitung Komsomolskaja Prawda 1981 zum ersten Mal nach Afghanistan. Er blieb ein Jahr und kehrte im Verlaufe der nächsten 20 Jahre immer wieder zurück.
(3) CENTCOM ist das Zentralkommando der sechs US-Regionalkommandozentren und zuständig für den Nahen Osten, Ost-Afrika und Zentral-Asien. Derzeit sind die unterstellten Truppen primär im Irak und Afghanistan eingesetzt. Stützpunkte befinden sich in Kuwait, Bahrain, Katar, den Vereinigten Arabischen Emiraten, Oman, Pakistan, Dschibuti (Camp Le Monier) und mehreren Ländern Zentralasiens.
(4) Gorman, Candace: »Why I am Representing a ›Detainee‹ at Guantanamo« vom 19. September 2006 unter http://www.huffingtonpost.com/h-candace-gorman-/why-i-am-representing-a-_b_29734.html.
(5) Schmidt, Janek: »Wie ködert man Taliban?«, SZ vom 28. Januar 2010, S. 6.
(6) Fried, Nico: »Merkels skeptische Bilanz. Die Kanzlerin hält den Afghanistan-Einsatz für ›schwieriger als erwartet‹ / Opposition fordert Abzug bis 2015«, in: SZ vom 28. Januar 2010, S. 6.
(7) Augstein, Franziska: »Es muss ein Ende sein«, in: SZ vom 23./24. Januar 2010, S. V2/1.
(8) Hamid Gul im Auslandsjournal vom 17. Dezember 2009 unter http://www.zdf.de/ZDFmediathek/beitrag/video/927324/Lagebericht-Afghanistan#/beitrag/video/927324/Lagebericht-Afghanistan.
(9) Durrani, Asad M.: »Nur wenn die Taleban stark genug sind«, erschienen in Ossietzky, 18/2009.
(10) Die alte Seidenstraße, einst die wirtschaftliche Lebensader Zentralasiens und des Südkaukasus, verlief durch einen Großteil des Territoriums der Länder Armenien, Aserbaidschan, Georgien, Kasachstan, Kirgistan, Tadschikistan, Turkmenistan und Usbekistan; Anhörung über US-Interessen in den zentralasiatischen Republiken am 12.Februar 1998, House of Representatives, Subcommittee on Asia and the Pacific; Silk Road Strategy Act of 1999 (H.R. 1152-106th. CONGRESS 1st Session, S. 579) im Mai 2006 modifiziert: Silk Road Strategy Act of 2006 (S. 2749 – 109 th. Congress).
(11) International Security Assistance Force.
(12) Kornelius, Stefan: »Die Londoner Krücke«, in: SZ vom 28. Januar 2010, S. 4.
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Bildquellen
www.longwarjournal.org und www.wirde.com
Archiv Wolfgang Effenberger
Donnerstag, 04.02.2010
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jeudi, 14 janvier 2010
Teheran, epicentro di un terremoto geostrategico
Teheran, epicentro di un terremoto geostrategico
Ahmadinejad e Berdymukhamedov inaugurano un gasdotto in Turkmenistan
Pietro Fiocchi
Dopo aver riscosso un certo successo in Tajikistan, dove il presidente Rakhmon ha garantito sostegno al programma nucleare civile di Teheran, Ahmadinejad era ieri in Turkmenistan. Nella capitale Ashgabat ha incontrato il leader dell’ex repubblica sovietica Gurbanguly Berdymukhamedov, con il quale si è congratulato per la sua politica imparziale, approccio saggio per assicurare pace e stabilità nella regione.
A detta dello stesso Ahmedinejad, tra i governi dei due Paesi centroasiatici ci sarebbe una perfetta sintonia su una serie di questioni di carattere locale e internazionale. Posizioni vicine sulla questione Afghanistan. Il presidente iraniano è tornato a scandire concetti ormai noti: “l’Iran incoraggia soluzioni ai problemi della regione che siano giusti per tutti i Paesi e per tutti i popoli”.
Berdymukhamedov, forse per restare fedele alla sua fama di saggia neutralità, non ha fatto eco al suo ospite. In ogni caso, in precedenza aveva fatto sapere di non essere favorevole a interventi militari sul fronte afghano. Posizioni molto vicine a quelle di Mosca e di tutti gli altri cinque membri dell’Organizzazione di Shangai per la cooperazione, in cui Teheran è osservatore e aspirante membro. Ashgabat con questa organizzazione non ha niente a che fare, ma di recente ha riscoperto con il Cremlino l’antica amicizia e concluso vari accordi nel settore energetico.
Non è verosimile che il Turkmenistan si abbandoni a colpi di testa e si privi della simpatia di due alleati strategici come la Russia e l’Iran, così ben disposti. Quindi l’Eurasia, quella che conta, è compatta nel proporre compromessi che escludano l’uso della forza, tanto per Kabul quanto per l’intera Asia Centrale. Difficile che sia altrimenti: tra vicini di casa sono preferibili le buone maniere.
Discorsi sulla sicurezza a parte, il punto forte dei tre giorni di Ahmadinejad in Turkmenistan è l’inaugurazione, oggi, di un nuovo gasdotto. Lungo 30,5 chilometri, il gasdotto permetterà di aumentare le forniture destinate a Teheran fino 14 miliardi di metri cubi di gas all’anno, per raggiungere in seguito i 20 miliardi. Non sarà un problema: Ashgabat ne produce 80 miliardi l’anno, di cui 30 vanno in Russia e 6 in Cina. A quanto pare in tema di idrocarburi l’Iran per un po’ potrà stare tranquillo. C’è inoltre la banca del Qatar, che finanzierà prossimamente, con la cifra iniziale di 400 milioni di euro, lo sviluppo del giacimento petrolifero di Esfandiar, nel Golfo.
Sempre in tema di affari e prospettive c’è una novità: con l’anno nuovo è in vigore l’Unione doganale di Russia, Bielorussia e Kazakistan. Un gigante economico, una nuova realtà politica, di cui l’alleato Iran saprà amichevolmente approfittare.
06 Gennaio 2010 12:00:00 - http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=261
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dimanche, 25 octobre 2009
Nouvelle alliance entre grandes puissances?
Peter SCHOLL-LATOUR:
Nouvelle alliance entre grandes puissances?
Le Président Barack Obama a renoncé à installer un bouclier anti-missiles en Pologne et une gigantesque station radar en République Tchèque. On a interprété cet abandon un peu trop vite comme un signe de faiblesse. Pourtant le président américain a de bonnes raisons de rechercher de meilleures relations avec la Russie.
Obama se rend compte qu’une confrontation avec la Russie irait à l’encontre des intérêts américains sur le long terme. Surtout en ce qui concerne l’Afghanistan car, là, un changement décisif est survenu. Jusqu’ici les forces armées américaines avaient pu compter sur un approvisionnement logistique efficace et sans heurts à travers le Pakistan: ces voies d’accès au théâtre afghan sont désormais devenues extrêmement difficiles. Dans l’avenir, l’approvisionnement de l’armée américaine devra se faire principalement via les anciennes républiques soviétiques d’Asie centrale mais aussi via le territoire russe lui-même: une disposition qui est depuis longtemps déjà une réalité pour les Allemands. Le contingent allemand de l’ISAF, en effet, se fait depuis des années par la base aérienne de Termes, située sur le frontière méridionale de l’Ouzbékistan.
Compte tenu de cette nouvelle situation, il apparaît de plus en plus clairement que la Russie, elle aussi, serait menacée si des forces radicales islamistes prenaient le pouvoir à Kaboul. Moscou craint surtout une extension rapidement du mouvement des talibans au Tadjikistan, en Ouzbékistan et éventuellement au Kirghizistan, ce qui mettrait un terme au pouvoir des potentats locaux qui proviennent encore de l’ancien régime soviétique.
L’affirmation de l’ancien ministre allemand de la défense, Peter Struck (SPD), qui disait que “l’Allemagne se défendait sur l’Hindou Kouch”, mérite aujourd’hui d’être corrigée. En réalité, c’est la Russie que l’on défend dans l’Hindou Kouch. Car, au-delà des Etats de la CEI, c’est-à-dire dans le territoire de la Fédération de Russie elle-même, vivent 25 millions de musulmans qui pourraient devenir un sérieux foyer de troubles. Washington vient donc de reconnaître qu’il y a une convergence d’intérêts entre Russes et Américains en Asie centrale, alors que le Président George W. Bush l’avait nié, en se cramponnant sur de vieilles certitudes.
La Chine, elle aussi, a intérêt à combattre toute forme de radicalisme islamiste depuis que la minorité turcophone des Ouïghours se dresse contre Pékin au nom de l’islam. Voilà pourquoi le conseil de sécurité des Nations-Unies est inhabituellement unanime pour prolonger le mandat de l’ISAF en Afghanistan.Mais je doute qu’à Berlin on reconnaisse ce changement profond qui anime les politiques des grandes puissances. Les Allemands refusent toujours de reconnaître que leur engagement en Afghanistan constitue un acte de guerre et feignent de croire benoîtement qu’ils doivent aller là-bas pour construire des écoles pour fillettes et mettre tout en oeuvre pour que les femmes ne doivent pas circuler voilées. Ce sont là, à coup sûr, des perspectives intéressantes mais qui ne légitiment pas en suffisance d’y envoyer des soldats allemands, avec le risque éventuel qu’ils s’y fassent tuer.
Peter SCHOLL-LATOUR.
(article paru dans “Junge Freiheit”, Berlin, n°43/2009; trad. franç.: Robert Steuckers).
A PARAITRE:
Début novembre paraîtra en Allemagne le nouvel ouvrage du très prolifique Peter Scholl-Latour: “Die Angst des weissen Mannes – Eine Welt im Umbruch”, Propyläen Verlag, Berlin 2009, 24,90 euro.
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samedi, 24 octobre 2009
Afghanistan: une guerre de mensonges
Afghanistan : une guerre de mensonges
La guerre en Afghanistan semble être un préoccupation beaucoup plus marquée chez les citoyens des pays de la coalition que pour leurs gouvernements, même si certains d’entre eux réduisent pas à pas les effectifs de leurs troupes en opérations.
En France, mis à part les tristes nouvelles annonçant les décès de nos soldats, cette guerre, menée sous le double commandement de l’OTAN et des Améticains, ne fait l’objet que de peu d’analyses et il faut surfer sur les sites étrangers et plus particulièrement anglo-saxons pour en savoir plus.
Polémia présente à ces lecteurs un article d’Eric Margolis, consacré à cette guerre en Afghanistan, levant le voile sur certains aspects qu’on ne soupconne pas.
Certes, les informations données restent de la responsabilité de leur auteur et les opinions exprimées n’engagent que lui et ne reflètent pas nécéssairement celles de Polémia.
Polémia / http://www.polemia.com/
Afghanistan : une guerre de mensonges
Le président Barack Obama et le Congrès se débattent avec l’élargissement de la guerre en Afghanistan. Après huit années d'opérations militaires, qui ont coûté 236 milliards de dollars, le commandant des forces américaines en Afghanistan vient de lancer une mise en garde contre la menace d’un « échec », c’est-à-dire une défaite.
La vérité est la première victime de la guerre
La vérité est la première victime de la guerre. Le plus gros mensonge de cette guerre en Afghanistan est de dire : « Nous devons combattre les terroristes là-bas, pour ne pas avoir à le faire chez nous » Les politiques et les généraux ne cessent de se servir de ce bobard pour justifier une guerre qu'ils ne peuvent ni expliquer ni justifier autrement.
Beaucoup d'Américains du Nord continuent à avaler ce mensonge parce qu'ils croient que les attentats du 11-Septembre ont été lancés directement par Al-Qaida et les Talibans basés en Afghanistan.
Ce n’est pas vrai. Les attentats du 11-Septembre ont été planifiés en Allemagne et en Espagne, et dirigés principalement par des Saoudiens vivant aux Etats-Unis afin de punir l'Amérique du soutien qu’elle apporte à Israël dans sa répression des Palestiniens.
Les Talibans, mouvement militant religieux et anticommuniste, issu de l’ethnie pachtoune, ont été totalement surpris par le 11-Septembre. Osama ben Laden, sur qui on rejette la responsabilité du 11-Septembre, était en Afghanistan en tant qu’invité parce qu'il était considéré comme un héros national qui avait combattu les Soviétiques au cours des années 1980 et qu’ensuite il avait apporté assistance aux Talibans dans leur lutte contre les Afghans communistes de l'Alliance du Nord.
Les Talibans sont-ils vraiment ceux que l’on nous décrit ?
Les Talibans ont bénéficié de l'aide américaine jusqu'en mai 2001. La CIA avait l'intention d'utiliser l’Al-Qaïda d’Osama ben Laden pour monter les Ouïgours musulmans contre l’autorité chinoise, et d'employer des Talibans contre les alliés de la Russie en Asie centrale. La plupart des prétendus « camps d'entraînement terroristes » en Afghanistan étaient entre les mains des services secrets pakistanais et destinés à préparer les combattants moudjahidin au combat dans le Cachemire occupé par les Indiens.
En 2001, Al-Qaïda ne comptait que 300 membres. La plupart ont été tués depuis. Une poignée d’entre eux se sont échappés vers le Pakistan. Seuls quelques-uns demeurent en Afghanistan. Pourtant, le président Obama veut à tout prix que 68.000 soldats américains, ou plus, restent en Afghanistan afin de combattre Al-Qaida et d’empêcher les extrémistes de récupérer les « camps d'entraînement de terroristes ».
Cet argument, comme celui des armes de destruction massive inexistantes de Saddam, est un slogan commode pour vendre la guerre au public. Aujourd'hui, la moitié de l'Afghanistan est sous contrôle Taliban. Les militants anti-américains pourraient plus facilement se servir de la Somalie, de l'Indonésie, du Bangladesh, de l’Afrique du Nord et de l’Ouest, ou du Soudan. Ils n'ont pas besoin d’aller chercher jusqu’en Afghanistan. Les attentats du 11-Septembre ont été conçus en chambre, pas dans des camps.
Aussi arriérés et lourdauds soient-ils, ses Pashtounes n’ont nullement envie ni intérêt à attaquer l’Amérique Les Talibans sont les fils des moudjahidins qu’avaient soutenus les Américains et qui ont vaincu les Soviétiques dans les années 1980. Les Talibans n'ont jamais été les ennemis de l'Amérique. Au lieu d'envahir l'Afghanistan en 2001, les Etats-Unis auraient dû payer les Talibans pour déraciner al-Qaïda – comme je l'ai écrit dans le Los Angeles Times en 2001.
Les Etats-Unis s’enfoncent encore plus profondément dans le bourbier sud-asiatique.
Les tribus pachtounes veulent mettre fin à l'occupation étrangère et chasser les communistes afghans et les barons de la drogue, qui dominent aujourd’hui le régime de Kaboul installé par les Etats-Unis. Mais les Etats-Unis se sont engagés par erreur dans une guerre de grande envergure, non seulement contre les Talibans, mais aussi contre la plupart des féroces tribus pachtounes de l'Afghanistan, qui représentent plus de la moitié de la population.
Ce conflit se propage maintenant dans les régions pachtounes du Pakistan. La semaine dernière, l'ambassadeur américain à Islamabad a effectivement réclamé que les Etats-Unis envoient des avions et des missiles contre la ville pakistanaise de Quetta, où des personnalités Talibans de haut rang sont censées avoir été repérées.
Les Etats-Unis s’enfoncent encore plus profondément dans le bourbier sud-asiatique. Washington tente de forcer la main au Pakistan pour qu’il se montre plus obéissant et étendent la guerre contre ses propres tribus pachtounes à l’esprit indépendant - appelées à tort « Talibans ».
Les tentatives incroyablement maladroites de Washington pour distribuer 7,5 milliards de dollars pour soudoyer le gouvernement et l’armée pakistanais faibles et corrompus, pour maîtriser les promotions militaires et obtenir quelque contrôle sur l'arsenal nucléaire du Pakistan, ont déclenché une colère incendiaire. Les soldats pakistanais sont sur le point de se révolter.
Il en est de même des projets américains de construction d’une ambassade-forteresse pour 1.000 personnes à Islamabad et un consulat à Peshawar qui manifestement servira de base aux services de renseignement, ainsi que du déploiement d'un nombre croissant de mercenaires américains au Pakistan.
Tout cela est bien réglé. Washington affirme qu'il faudra plus de personnel et une plus grande ambassade pour superviser la distribution du supplément d’aide au Pakistan, et davantage de mercenaires (c’est-à-dire de « contractuels ») pour les protéger.
Le président Obama a fait l'objet d'intenses pressions pour étendre la guerre, de la part de républicains cocardiers, d’une bonne partie des médias et les va-t-en guerre responsables de la sûreté de l’Etat. Les partisans d'Israël, y compris de nombreux démocrates du Congrès, veulent voir les Etats-Unis s’emparer des armes nucléaires du Pakistan et étendre la guerre d'Afghanistan à l’Iran. Le ministre israélien des Affaires étrangères, le belliciste Avigdor Lieberman, a récemment désigné l'Afghanistan, le Pakistan et l'Irak comme principales menaces pour Israël.
Talibans ne sont pas et n'ont jamais été une menace pour l'Occident
Le président Obama devrait admettre que les Talibans ne sont pas et n'ont jamais été une menace pour l'Occident ; que Al-Qaïda, dont on a larmement exagéré l’importance, a été en majorité éradiquée ; et que la guerre menée par les Etats-Unis en Afghanistan cause davantage de dommages aux intérêts américains dans le monde musulman – qui représente maintenant 25% de la population mondiale – que Ben Laden et les quelques voyous qu’il a pour alliés. Les attentats à la bombe de Madrid et de Londres et la conspiration de Toronto ont tous été des manifestations particulièrement aberrantes de la part de jeunes musulmans contre la guerre en Afghanistan.
On ne va pas changer la façon dont les Afghans traitent leurs femmes en menant une guerre contre eux ni apporter la démocratie au moyen d’élections truquées. On ne va pas gagner les cœurs et les esprits en imposant à de pieux musulmans un régime dominé par les communistes à Kaboul, en bombardant leurs villages et en envoyant des Marines enfoncer leurs portes à coups de pied et violer leurs foyers.
Le commandant en chef américain en Afghanistan, le général Stanley McChrystal, exige 40.000 à 80.000 soldats supplémentaires. Même avec ce nombre, il ne gagnera pas la guerre dont Washington ne peut même pas déterminer les conditions de la victoire. Le seul moyen de sortir de ce bourbier passe par un règlement négocié incluant les Pachtounes et leurs bras armé, les Talibans, à qui sera donné le droit de vote.
Si jamais la résistance afghane reçoit des missiles antiaériens et antichars modernes, les forces d'occupation occidentales seront isolées et condamnées. Aujourd'hui, elles tiennent à peine le coup contre les Talibans équipés d’armes légères.
Si seulement le président Obama déclarait simplement la victoire en Afghanistan ! S’il en retirait les forces occidentales pour remettre la sécurité entre les mains d’une force multinationale de stabilisation constituée de nations musulmanes ! Les bons présidents, comme les bons généraux, savent quand il faut se retirer.
Eric Margolis
13 octobre 2009
http://buchanan.org/blog/afghanistan-a-war-of-lies-2548
Titre original : Afghanistan: A War of Lies
Traduction pour Polémia : R. S.
Eric Margolis contribue au Toronto Sun, New York Times, The American Conservative et à de nombreux journaux du Golfe. Il se produit régulièrement sur les chaînes de télévision comme CNN, Fox, SRC, British Sky Broadcasting News, NPR, et CTV. Correspondant de guerre de longue date, il est reconnu comme spécialiste des questions relevant de l’Afghanistan et plus généralement de l’Asie.
Correspondance Polémia
18/10/2009
Les intertitres sont de la rédaction.
Image : flag-draped coffins
Eric Margolis
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jeudi, 08 octobre 2009
Le pont ferroviaire eurasiatique, nouvelle route de la soie!
Le pont ferroviaire eurasiatique,
nouvelle route de la soie du XXIe siècle !
par Alexandre LATSA ( http://www.agoravox.fr )
De la conquête de la Sibérie à l’Amérique russe, de Lisbonne à Vancouver, en passant par Pékin, petit résumé du gigantesque pont ferroviaire Transeurasien et Transcontinental en construction...
La conquête de l’Est
Lorsque le tsar Ivan IV conquiert Kazan en 1554, la Russie tarit définitivement, par la force, le flot des invasions nomades, venues de l’Est. Désormais, elle se tourne vers cet immense territoire. En 1567, deux cosaques traversent la Sibérie et reviennent de Pékin en racontant les immenses territoires et les possibilités commerciales avec l’empire du milieu. Le tsar concédera alors à des marchands de fourrure, les Stroganoff des territoires « à l’Est » (en fait en Sibérie occidentale). Ceux-ci feront appel à 800 cosaques, sous commandement de Yermak pour les protéger.
A la toute fin du XVIe siècle, la conquête russe du far-est est lancée, elle mènera les colons russes jusqu’aux portes de San Francisco...
De l’Oural au Pacifique
Les chasseurs de fourrure traversent la Sibérie en moins de cinquante ans, et installent des bases sur la route de l’Est, Iénisséisk en 1619, Iakoutsk en 1632, puis la ville d’Okhotsk. En 1649, à l’extrême est de la Sibérie. Au Sud, les Atamans russes affronteront les Chinois pour la conquête de l’Amour. Yeroïeï Khabarov met en déroute une troupe de plusieurs milliers de Chinois avant de reperdre la région et que la paix de Nertchinsk (1689) ne laisse la zone aux Mandchous. Les chasseurs russes remontent alors vers le Nord, et l’Est. Entre 1697 et 1705, le Kamtchatka est conquis. Un mercenaire danois, Vitus Behring, entreprendra une traversée de la Sibérie puis de la mer d’Okhotsk pour enfin traverser, en 1728, le détroit qui porte son nom.
En 1741, moins de deux cents ans après l’expédition de Yermak, les Russes abordent l’Amérique du Nord.
L’Amérique russe
Cette conquête s’accentuera dans la deuxième partie du XVIIIe siècle, non pour des raisons politiques, le pouvoir russe se désintéressant provisoirement de l’Amérique russe, mais purement commerciales, sous la pression des chasseurs de fourrures, livrés à leur seule ingéniosité et à leur volonté de négoce avec l’Asie. En 1761, ils mettent pied en Alaska. Une « Compagnie américaine » est même créée en 1782 pour « organiser » l’écoulement de fourrure russe en Chine, et contrer les Anglais qui écoulent eux la fourrure du Canada via le cap de Bonne-Espérance. En 1784, Alexandre Baranov, aventurier et trappeur russe fonda un empire commercial de vingt-quatre comptoirs permanents entre le Kamtchatka et la Californie. Le pouvoir russe dès lors prend conscience de l’énorme avantage que lui procure cette situation. Baranov sera nommé gouverneur de la zone, puis anobli, avant de se voir confier de déployer la « Compagnie russo-américaine » (qui gère tout le commerce de fourrure du Pacifique) le plus au Sud possible. En 1812, Fort Ross est créé, au nord de San Francisco. La présence russe est à son apogée en Amérique.
Le déclin de l’Amérique russe
Cette mainmise russe sera pourtant de courte durée. Concurrencé par les Anglais en Extrême-Orient, soumis à des révoltes occasionnelles des indigènes « nord-américains » (Aléoutes, Esquimaux, Indiens), le pouvoir russe se focalisera sur la Sibérie du Sud, jugée plus accessible de la capitale et tout aussi frontalière des pays d’Asie et de leurs débouchés commerciaux. En 1841, Fort Ross est abandonné et, en 1858, la frontière russo-chinoise est quasi stabilisée, l’Amour étant de nouveau rattachée à la Russie. En 1860, la « Compagnie russo-américaine » ne fait plus le poids face à son concurrent anglais (la Compagnie de la baie d’Hudson) et son « bail » n’est pas renouvelé.
En outre, l’effort consenti pour la guerre de Crimée (opposant la Russie avec la Grande-Bretagne, la France, l’Autriche, le Piémont et la Turquie, obligeant la Russie à se défendre de Saint-Pétersbourg à Novo Arkhangelsk, en Amérique du Nord) rendait difficilement tenable le front américain, menacé par les Britanniques. Le coût excessif de cette « colonie » et l’incapacité militaire russe à la défendre face aux Britanniques fit germer l’idée d’une cession à l’Amérique (alliée d’alors contre la Couronne). Le traité de vente de l’Alaska fut signé le 30 mars 1867.
Du Transcanadien au Transsibérien
En 1891 (alors que le projet avait été mis sur table dès 1857 par le comte Mouraviev), Alexandre III décrète la construction d’une immense voie ferrée qui reliera l’Oural à Vladivostock, sur les rives du Pacifique. Ce choix sera déterminé par les débouchés commerciaux envisagés avec l’Asie du Sud-Est, mais aussi la nécessité de renforcer les « villes ports » de l’Extrême-Orient (face à la militarisation de la Chine à sa frontière avec la Russie) et la marine militaire du Pacifique. La voie sera terminée en 1904, passant par la Mandchourie (sur du lac Baikal). La perte de ce territoire en 1907 rendra nécessaire la création d’une ligne de contournement, passant au « nord » du lac, c’est la seconde ligne, dite BAM (Baikal-Amour-Magistral), qui sera terminée elle en 1916.
En outre, les Russes s’inspirent de leurs concurrents anglais qui ont eux lancé dès 1871 une ligne de chemin de fer entre la côte Est et la côte Ouest du Canada, avec un double but : le transport des matières premières et surtout l’unification territoriale du Canada. Le premier Transcanadien joindra le Pacifique en 1886.
Le projet fou : la jonction ferroviaire Eurasie-Amérique
En 1849, un gouverneur du Colorado élabore un projet fou : un tunnel « sous » le détroit pour faciliter la traversée entre la Russie et l’Amérique. A cette époque, l’Alaska est pourtant encore russe. Le projet réapparaîtra au début du XXe siècle, un architecte français, Loic de Lobel, le présentant au tsar Nicolas II, moins de quarante ans après que son grand-père a cédé l’Alaska aux Etats-Unis. Les changements géopolitiques majeurs du demi-siècle qui suivirent ne laissèrent pas beaucoup de place à la coopération russo-américaine. En 1945, la guerre froide fait de ces deux monstres, qui se partagent le monde, des ennemis jurés. Le délabrement post-soviétique ne permet pas de relancer l’idée.
En septembre 2000 pourtant, à Saint-Pétersbourg, a lieu une « Conférence eurasiatique sur les transports », cinq grands couloirs de développement furent définis sur le continent :
le couloir Nord, via le Transsibérien, de l’Europe vers la Chine, la Corée et le Japon ;
le couloir central, de l’Europe méridionale à la Chine, via la Turquie, l’Iran et l’Asie centrale ;
le couloir Sud, de l’Europe méridionale vers l’Iran, puis remontant vers la Chine par le Pakistan et l’Inde ;
le couloir Traceca, d’Europe de l’Est à l’Asie centrale, par les mers Noire et Caspienne ;
un couloir Nord-Sud combinant le rail et le transport maritime (Caspienne), de l’Europe du Nord à l’Inde.
Plus récemment, en mai 2007, une conférence intitulée « Les mégaprojets de l’Est russe » eut lieu à Moscou, ayant pour but de dévoiler les grands projets de l’Etat pour lutter contre le sous-développement et le sous-peuplement des régions de Sibérie et renforcer l’axe Est de la Russie. La conférence était présidée par un ancien gouverneur de l’Alaska, Walter Hickel, également secrétaire à l’Intérieur des Etats-Unis et ardent supporter du « projet fou » depuis les années 1960.
A cette occasion, fut dévoilé le nouveau projet de voie ferrée reliant la Russie à l’Amérique, à l’étude au Conseil d’études des forces productrices russes (CEFP). Son vice-président, Viktor Razbeguine, en a dévoilé les grands traits : la construction d’une immense artère reliant les continents « Eurasie-Amérique », de Iakoutsk en Sibérie orientale jusqu’à Fort Nelson au Canada, le tout via un tunnel sous le détroit de Béring long de 100 à 110 kilomètres ce qui en ferait de loin le plus long de la planète.
La voie ferrée assurerait l’accès aux ressources hydro-énergétiques de l’Extrême-Orient et du Nord-Ouest des Etats-Unis, et permettrait de construire des lignes HT et un passage de câbles par le détroit, en reliant les systèmes énergétiques des deux pays. Cette artère pourrait assurer le transport de 3 % des cargaisons du monde. La durée et la construction de l’ensemble devrait prendre de quinze à vingt ans. Le chiffre d’affaires des échanges commerciaux générés pourrait atteindre 300 à 350 milliards de dollars, toujours selon Viktor Razbeguine et le retour sur investissement attendu sur trente ans, après l’accession du chemin de fer à sa capacité projetée de 70 millions de tonnes de marchandises par an.
Sa construction pourrait en outre créer entre 100 000 et 120 000 emplois et revivifier la région Sibérie orientale, avec pourquoi pas la création de nouvelles villes et d’immenses zones agro-industrielles.
Outre le « link » des systèmes énergétiques de l’Ours et de l’Aigle, le président de l’IBSTRG (Interhemispheric Bering Strait Tunnel and Railroad Group), un « lobby tripartite Russie-Canada-Etats-Unis » qui défend le projet de son côté depuis 1992, affirme : « Le sous-sol de la Sibérie extrême-orientale regorge d’hydrocarbures, mais aussi de métaux rares, pas encore exploités précisément à cause de l’absence de communications ». Ce sont ces trésors enfouis qui devraient selon lui permettre de lever les fonds pour lancer la voie ferrée de Iakoutsk, mais aussi le début des travaux sous le détroit. L’IBSTRG a en outre confirmé lors de la conférence de l’Arctique sur l’énergie (AES) en octobre 2007 que le projet passerait par l’utilisation de mini-réacteurs nucléaires mobiles, transportées par rail, route ou navire, ainsi que par l’énergie hydroélectrique pour l’expansion du réseau ferroviaire.
Les regards sont aujourd’hui tournés vers le gouverneur de l’immense région de Tchoukotka, que devrait traverser l’artère, également homme le plus riche du pays car, comme l’a affirmé le représentant du ministère russe de l’Economie, Maxime Bistrov, le fonds fédéral d’investissement finance des projets uniquement s’ils sont déjà soutenus par des entreprises privées ou avec l’aide de financements régionaux... A bon entendeur.
Quoi qu’il en soit, les différents promoteurs du tunnel fondent l’espoir que les pays du G8 soutiendront le projet. Sinon, des entreprises asiatiques, japonaises en priorité, ont déjà proposé leur aide. Le principal atout de ces liaisons ferroviaires transcontinentales n’est pas uniquement de transporter des marchandises plus rapidement, mais « intégrées à de véritables corridors de développement, elles participeront au désenclavement des pays et des régions dépourvus d’accès maritime » et, plausiblement, introduiront les futures lignes à très haute vitesse (magnétique ?) qui permettront de traverser l’Eurasie encore plus vite.
Le TransEurasien, route de la soie du XXIe siècle
Le 7 mai 1996 à Pékin, Song Jian, président de la Commission d’Etat chinoise pour la science et la technologie présentait le « Pont terrestre eurasiatique comme le tremplin d’une nouvelle ère économique pour une nouvelle civilisation humaine ». Douze ans plus tard, le 9 janvier 2008, s’est élancé le premier train « eurasiatique » de marchandise reliant Pékin à Hambourg. Le train a relié les deux villes après avoir traversé la Chine, la Mongolie, la Russie, la Biélorussie, la Pologne et l’Allemagne (soit plus de 10 000 km) en seulement quinze jours.
Lors du sommet de l’APEC en 2006, le président russe Vladimir Poutine évoquait la perspective d’une nouvelle configuration de l’Eurasie, reposant sur : « des projets conjoints à large échelle dans les transports, l’énergie et les communications ». Au même sommet, l’ancien président sud-coréen Kim Dae-Jung avait lui assuré que : « les chemins de fer Transcoréen, Transsibérien, Tnansmongol, Transmanchourien et Transchinois formeront cette "route ferroviaire de la Soie", reliant l’Asie du Nord-Est à l’Europe en passant par l’Asie centrale... »
La glorieuse route de la soie du passé renaîtra ainsi sous la forme d’une "route ferroviaire de la soie", faisant ainsi entrer l’Eurasie dans une ère de prospérité.
"Je veux récupérer mon empire", aurait lancé Vladimir Poutine lors d’une rencontre internationale à huis clos. A en croire la position qu’est en train de prendre la Russie, aiguillon entre l’Europe, l’Asie et l’Amérique du Nord, sur la plaque eurasiatique, on peut sans doute le croire...
SOURCES :
- Philippe Conrad sur CLIO
Catherine SAUER BAUX sur STRATISC
Wikipédia
Le Figaro magazine
Arctic.net
Ria Novosti
Solidarité et progrès
La Tribune
L’association « Amitié France Corée »
Xinhua.net
La Voix de la Russie
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dimanche, 27 septembre 2009
Aux fils d'Ungern, qui par un bel été rouge à Pékin...
AUX FILS D’UNGERN,
QUI PAR UN BEL ETE ROUGE A PEKIN…
Laurent Schang
La nature est ainsi faite, malgré les deuils de nos proches, la proximité des cimetières – « Ô France, vieux pays de la terre et des morts ! » –, il est des aînés, des figures, au sens latin du mot, qu’on n’imagine pas devoir mourir un jour. Qui aurait l’idée saugrenue de peindre la baie de Saint-Malo sans son phare ? Afin de retarder l’instant fatidique, il plut au poète d’inventer un baume, une formule magique à l’usage des bonnes gens, et l’on ne parle plus de la perte de l’être cher mais de sa disparition, comme si la personne avait tourné le coin de la rue pour ne jamais revenir. Infinie pitié de la langue française… Disons donc, avec Monsieur le curé, que Jean Mabire a disparu le 29 mars dernier dans sa quatre-vingtième année, au terme d’une existence bien remplie, et restons-en là.
Par ma faute, notre relation épistolaire, je n’ose écrire notre amitié, était plutôt mal partie. Dans un article où j’encensais le travail de recherche effectué par un ex officier de l’armée soviétique sur la vraie vie du baron Ungern, Le Khan des steppes,* j’avais commis l’injustice toute journalistique de féliciter l’auteur pour l’abondance de ses sources, comparée à leur absence supposée dans la biographie romancée de Jean Mabire, Ungern le baron fou, parue en 1973. Je dis supposée parce que, sûr de mon fait, je ne m’étais pas donné la peine, élémentaire, de vérifier l’information avant de rédiger mon papier. Deux semaines plus tard, l’article paraissait dans un supplément littéraire à gros tirage. Sans se démonter, Jean Mabire m’écrivit au journal, un carton ferme mais poli accompagné d’une photocopie de sa bibliographie – six pages complètes, impossibles à rater, en fin de livre. Honte à moi ! J’ai oublié depuis le contenu de ma réponse mais j’en devine la nature. L’imprudence est un péché de jeunesse et Mabire, je m’en rendrais compte au fil du temps, n’aimait rien tant qu’aller à la rencontre de ses jeunes lecteurs. J’ai conservé ce carton imprimé, un des rares écrits de sa main, et je le conserve encore dans son enveloppe, comme le plus précieux des autographes. La mansuétude n’était pas la moindre de ses qualités, je ne tarderais pas non plus à m’en apercevoir. En guise d’excuse, me connaissant j’ai dû lui griffonner à peu près ceci : « Cher Jean Mabire, (…) chose exceptionnelle chez moi, (…) pourtant, j’ai lu deux fois votre Ungern, (…) la première dans sa version de poche, la seconde dans sa réédition sous un nouveau titre : Ungern le dieu de la guerre, (…) mon livre de chevet, (…) Les Hors-la-loi, (…) Mourir à Berlin, (…) Les Samouraï, (…) L’Eté rouge de Pékin » Etc., etc. Rien que la vérité en somme.
S’en suivit dès lors une correspondance ininterrompue entre l’élève et son maître, même si au final, à relire ses lettres tapées à la machine, l’impression d’un commerce d’égal à égal domine. Jean Mabire m’y exposait l’avancée de son travail, ses projets de livres, et ils étaient nombreux, se souvenait des amis perdus, Roger Nimier, Dominique de Roux, Philippe Héduy, mais surtout, il m’interrogeait. Car derrière le bourreau d’écriture, le vénérable malouin curieux de tout, se cachait d’abord un éternel jeune homme, toujours inquiet de son époque et des siens. J’en veux pour preuve nos échanges de point de vue sur Israël – sa fascination pour les kibboutzim, leur idéologie de la charrue et de la grenade –, l’avenir de l’Union européenne, la subite redécouverte de Nietzsche, « le moins allemand des philosophes allemands », après les décennies de purgatoire. Vraiment, Christopher Gérard, dont on lira plus loin l’article, a raison de qualifier Jean Mabire d’honnête homme.
J’ai évoqué plus haut sa bonté d’âme, il me faut maintenant raconter l’extraordinaire générosité avec laquelle il me fit si souvent profiter des chefs-d’œuvre de sa collection. Mabire connaissait ma passion pour l’Extrême-Orient des années 30. Du rarissime Shanghai secret, petit bijou de reportage signé Jean Fontenoy aux portraits japonais de Sur le chemin des Dieux, de Maurice Percheron, des cadeaux de Jean Mabire mon préféré, avec son ex-libris frappé sur la page de garde, je ne compte plus le nombre de livres reçus par la poste en cinq ans. Combien en eut-il de ces gestes spontanés envers moi ? « Et va la chaîne de l’amitié… » me disait-il. Plus modestement, je lui envoyais mes nouvelles, des articles découpés dans la presse, sur l’histoire des ducs de Lorraine, la guerre de 1870, et mon livre dédicacé. Ainsi respections-nous l’antique principe du don et du contre don. « Chacun sert où il peut », aimait-il à me répéter en signe d’encouragement, lui qui confessait n’avoir été pleinement heureux qu’une fois dans sa vie en dehors de sa bibliothèque, en Algérie, où il servit de 58 à 59 sous l’uniforme de capitaine d’un commando de chasse.
Je n’insisterai pas sur la carrière du romancier ni sur la prodigalité de l’écrivain militaire, une centaine de livres, sans parler des rééditions. S’agissant du régionaliste normand, du fédéraliste européen, je renvoie le lecteur à l’entretien qui suit. Pour le détail de son œuvre, les intéressés trouveront sur Wikipédia une biobibliographie très correcte et des liens vers d’autres sites.
Jean Mabire n’aura pas vécu assez pour feuilleter la réédition de L’Eté rouge de Pékin, enrichie de sa préface inédite.** Dans son dernier courrier, déjà très affecté par la maladie, il me faisait part de sa tristesse de voir les rangs se dégarnir un peu plus autour de lui chaque année. Il n’en poursuivait pas moins d’arrache-pied la rédaction d’un essai sur la vie et l’œuvre du lieutenant-colonel Driant, de son nom de plume le capitaine Danrit, un soldat à sa mesure, rendu célèbre au début du siècle précédent par ses romans d’anticipation et tué en 1916 à la tête des 56e et 59e chasseurs, au deuxième jour de la bataille de Verdun. Une belle mort, aurait-il dit, la mort rêvée du centurion.
Jean – je peux bien l’appeler Jean à présent – avait choisi la voie martiale de l’écriture pour mieux se faire entendre dans ce pays « devenu silencieux et bruyant ». Il s’est tu avec, je l’espère, le sentiment du devoir accompli.
Jean Mabire, Paris 8 février 1927 – Saint-Malo 29 mars 2006
* Léonid Youzéfovitch, Editions des Syrtes, 2001.
** Editions du Rocher, 2006. Sur la genèse de ce livre, cf. l’entretien avec Eric Lefèvre ci-après.
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lundi, 21 septembre 2009
Les articles de Jean Paul Roux sur clio.fr
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lundi, 14 septembre 2009
La CIA, Al Qaida et la Turquie au Xinjiang et en Asie centrale
La CIA, Al Qaida et la Turquie au Xinjiang et en Asie centrale
Lors d'une interview à l’émission radio Mike Malloy radio show, l’ancienne traductrice pour le FBI, très connue aux Etats-Unis Sibel Edmonds a raconté comment le gouvernement de son pays a entretenu des « relations intimes » avec Ben Laden et les talibans, « tout du long, jusqu’à ce jour du 11 septembre (2001). » Dans « ces relations intimes », Ben Laden était utilisé pour des “opérations” en Asie Centrale, dont le Xinjiang en Chine. Ces “opérations” impliquaient l’utilisation d’al-Qaida et des talibans tout comme « on l’avait fait durant le conflit afghano-soviétique », c’est à dire combattre “les ennemis” par le biais d’intermédiaires.
Comme l’avait précédemment décrit Mme Edmonds, et comme elle l’a confirmé dans cette interview, ce procédé impliquait l’utilisation de la Turquie (avec l’assistance d’acteurs provenant du Pakistan, de l’Afghanistan et de l’Arabie Saoudite) en tant qu’intermédiaire, qui à son tour utilisait Ben Laden et les talibans comme armée terroriste par procuration.
Selon Mme Edmonds : « Ceci a commencé il y a plus de dix ans, dans le cadre d’une longue opération illégale et à couvert, menée en Asie centrale par un petit groupe aux États-Unis. Ce groupe avait l’intention de promouvoir l’industrie pétrolière et le Complexe Militaro-Industriel en utilisant les employés turcs, les partenaires saoudiens et les alliés pakistanais, cet objectif étant poursuivi au nom de l’Islam. »
Le journaliste new-yorkais Eric Margolis, auteur de War at the top of the World, a affirmé que les Ouïghours, dans les camps d’entrainement en Afghanistan depuis 2001, « ont été entrainés par Ben Laden pour aller combattre les communistes chinois au Xinjiang. La CIA en avait non seulement connaissance, mais apportait son soutien, car elle pensait les utiliser si la guerre éclatait avec la Chine. »
L'action des services secrets états-uniens aux côtés des séparatistes ouïghours du Xinjiang n'est pas seulement passée par Al-Qaïda mais aussi par le milliardaire turc domicilié à Philadelphie depuis 1998 Fetullah Gulen qui finance des écoles islamiques (madrassas) en Asie centrale, et par Enver Yusuf Turani, premier ministre autoproclamé du "gouvernement en exil du Turkestan oriental" (qui est censé englober le Xinjiang chinois)... basé à Washington. Ces personnalités sont liées à Morton I. Abramowitz, directeur du National Endowment for Democracy, qui a joué un rôle important dans le soutien aux islamistes afghans sous Reagan et aux milices bosno-musulmanes et kosovares sous Clinton (dans le cadre de l'International Crisis Group). Le vice-président étatsunien Joe Biden qui s'est répandu en propos incendiaires contre la Russie récemment est aussi sur cette ligne.
Cette politique s'inscrit dans le cadre du plan Bernard Lewis à l'origine supervisé par Zbigniew Brzezinski sous l'administration Carter qui visait à maintenir un "arc de crise" dans les pays musulmans d'Eurasie pour faire main basse sur les ressources d'Asie centrale en hydrocarbures.
Certains observateurs soulignent cependant que vu leur dépendance économique à son égard et l'intérêt qu'ils peuvent avoir à jouer la carte de Pékin contre Moscou les Etats-Unis sont voués à garder officiellement une position modérée sur la politique de la Chine au Xinjiang (où de violentes manifestations touchent la province et provoquent la mort d'au moins 140 personnes le 5 juillet dernier) en compensation de la politique agressive de leurs services secrets dans la zone.
Pékin semble toutefois résolu à contrer les manoeuvres sécessionnistes sur son territoire, mais aussi à mener une action plus en profondeur sur le continent eurasiatique. C'est ainsi en tout cas que Nicolas Bardos-Feltoronyi, contributeur de l'atlas alternatif, analyse le prêt d'1 milliard de dollars que Pékin serait prêt à consentir à la Moldavie, pays charnière entre l'Union européenne et la Russie - un prêt sur 15 ans à un taux d’intérêt hautement favorable de 3%. Cette aide qui pourrait dissuader Chisinau de se rapprocher de l'Union européenne s'inscrirait selon l'auteur dans le cadre d'une coordination accrue des politiques étrangères russe et chinoise. C'est aussi l'analyse qu'en fait Jean Vanitier sur son blog.
Autre réplique à l'impérialisme états-unien en Eurasie, après la Libye, l'Algérie et la Syrie, le président vénézuélien Hugo Chavez s'est rendu le 7 septembre au Turkménistan, quatrième pays au monde pour les réserves de gaz après la Russie, l'Iran et le Qatar. Chavez a proposé à son homologue turkmène Gourbangouly Berdymoukhammedov d'adhérer au cartel gazier déjà évoqué sur ce blog. Le Turkménistan, actuellement en froid avec Moscou, est aussi très courtisé par l'Union européenne qui souhaite le voir adhérer à son projet de gazoduc Nabucco, ainsi que par la Chine.
F. Delorca
http://atlasalternatif.over-blog.com/
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vendredi, 11 septembre 2009
Jean-Paul Roux nous a quittés
Jean-Paul Roux nous a quittés Compagnon de route de Clio depuis de nombreuses années, Jean-Paul Roux est décédé le 29 juin dernier, à l'âge de quatre-vingt-quatre ans. Conférencier hors pair, cet historien du monde musulman, plus particulièrement spécialisé dans l'étude du domaine turc, faisait partie de ces rares érudits capables de se métamorphoser en vulgarisateurs de talent et le succès obtenu par ses livres a régulièrement confirmé l'écho rencontré par ses travaux dans le grand public cultivé. Né en 1925, il s'est formé à l'Ecole des Langues orientales et à l'Ecole pratique des Hautes Etudes, avant d'exercer très jeune les fonctions de directeur de recherches au CNRS, qu'il a rejoint en 1952. Le cinquième centenaire de la prise de Constantinople par Mehmed II lui fournit, l'année suivante, l'occasion, à travers la publication d'une Histoire de la Turquie (Payot) de rencontrer des lecteurs qui lui demeureront toujours fidèles. Il mène dès lors de front, pendant plus d'un demi-siècle, travaux d'érudition et rédaction d'ouvrages plus généralistes dont une Histoire des Turcs, une Histoire de l'Iran et des Iraniens et une Histoire de l'Asie centrale (Fayard). Traversant les siècles, il reconstitue ainsi les différentes strates de l'Histoire centre-asiatique et proche-orientale, tout en valorisant – en un temps où ce n'était guère à la mode – le rôle joué par certains personnages d'exception tels que Gengis Khan, Tamerlan, Bâbur ou Shah Abbas. Il a ainsi contribué à populariser en France l'Histoire de pays ou de peuples le plus souvent méconnus, généralement abordés dans une perspective eurocentriste trop réductrice, qui n'était guère propice à une véritable intelligence des forces profondes qui commandent l'évolution des mondes turc ou iranien. Professeur, un quart de siècle durant, à l'Ecole du Louvre où il enseigne les arts de l'Islam, il est l'un des initiateurs de l'établissement du département spécialisé créé au sein du Musée dont les nouveaux espaces seront ouverts au public en 2011. Le Dictionnaire des arts de l'Islam publié en 2007 par les éditions Fayard constitue l'aboutissement de nombreuses années de recherches. Historien des religions du domaine turco-mongol, il a publié deux ans avant sa mort Un choc de religions. La longue guerre de l'Islam et de la Chrétienté, un ouvrage qui fournit une riche matière à réflexion, dans le contexte plus général du débat ouvert par Samuel Huntington à propos du « choc des civilisations ». Très proche de Clio, il a, au fil des années, rédigé pour la bibliothèque en ligne de très nombreux articles auxquels les internautes curieux d'Histoire et de civilisation musulmanes ont un accès immédiat. |
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lundi, 15 juin 2009
Alla conquista del cuore della terra
Archivio - 2003
Piero Pagliani(1) :
ALLA CONQUISTA DEL CUORE DELLA TERRA
Il testo completo su http://www.fedevangelica.it/glam/docglam/42/glam42.exe
Parte I. Potere, egemonia e guerra. La guerra e i cicli sistemici. Tipi di guerra - Violenza, potere politico e potere economico - Le fasi storiche ricorrenti di accumulazione del capitale e le “guerre sistemiche”. I cicli sistemici storici. Il ciclo britannico (Rule Britannia! Britannia rule the waves) - Non “imperialismo” ma “tipi di imperialismo” - L’Impero britannico e l’imperialismo britannico. Il ciclo americano - La crisi del ciclo americano - La fine del ciclo americano (L’Oriente è rosso?). Cala il sipario. La supremazia statunitense come accanimento terapeutico? Dallo scontro tra civiltà allo scontro nelle civiltà: Lo scontro nelle civiltà - La volontà e la rappresentazione - Autori e beneficiari: la pseudo-logica dominante - Perché l’Islam politico - L’impero autoreferenziale statunitense e il cosiddetto “spirito protestante” - I valori occidentali e la loro esportazione. Nota su maggioranza, minoranza e soggetti alternativi. Il sipario strappato: è possibile una resistenza? Appendice A: i primi cicli sistemici. Il ciclo genovese-iberico - Il ciclo olandese - La nascita dello stato-nazione capitalistico inglese.
Parte II. La conquista dell’Eurasia. L’Eurasia. Un posto che ne vale la pena. Le caratteristiche uniche dell’Eurasia - L’Heartland: Asia Centrale e Caucaso. Ovvero, la Torre di Babele. Breve profilo dei contendenti principali. La Russia - La Cina - La Turchia - L’Iran - L’Uzbekistan - La geopolitica degli Stati Uniti: dalla crisi egemonica alla conquista dell’Heartland. Impero o Imperialismo?. Il pendolo delle “opportunità”: i punti salienti della storia recente. Cambiamenti strategici nella storia recente dell’Heartland - L’eredità di Bush Jr. - I nuovi schieramenti - Excursus: perché è stato ucciso il Comandante Massud? - La conquista dell’Heartland e la guerra all’Iraq. L’Heartland e la geopolitica delle risorse energetiche. Premessa - Stime delle riserve energetiche in Asia Centrale - Pensieri geostrategici - Le pipeline: tra geopolitica e keynesismo di guerra - Gli sporchi giochi attorno alla BTC - La BTC: un’opera sovvenzionata dall’apparato militare-industriale? Geopolitica delle risorse naturali: ambiente e acqua. Generalità - Cenni sulla questione dell’acqua in Medio Oriente: l’asse “idro-militare” Turchia-Israele - Cenni sulla questione delle risorse idriche in Asia Centrale - Petrolio e acqua: il caso dello Xinjiang - Petrolio e ambiente: il caso del Bosforo. Epilogo. Excursus: di nuovo sull’autoreferenzialità. Appendice B: Il conflitto del Nagorno-Karabakh - Le contraddizioni degli USA nella politica eurasiatica: Sezione 907 contro Silk Road Strategy Act. Appendice C: L’Olocausto Armeno. Gli Armeni - Il genocidio - “Umanità” è un concetto geopolitico, come le direttrici delle pipeline.
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Come è tristemente noto, le guerre sono sempre rivestite da ideali. E’ un meccanismo che gli antichi Romani avevano codificato nel famoso "si vis pacem, para bellum", se vuoi la pace prepara la guerra. Il meccanismo dell’ossimoro, della contraddizione in termini. "Pace è guerra" come, riecheggiando Orwell, giustamente la scrittrice e militante indiana Arundhati Roy intitolava un suo articolo sull’Afganistan. "Guerra Umanitaria", "Guerra Etica" e via celando la verità, con il corredo di "effetti collaterali", "precisione chirurgica", "prezzi giusti da pagare" (da parte delle vittime, ovviamente), ecc. Nonostante l’assordante clamore di questo sistema di inganni, è ormai evidente a tutti che in ogni angolo del mondo milioni di persone in qualche modo hanno capito che i "conflitti locali" degli ultimi tre lustri, giustificati da questi o quei motivi, inventati o reali che siano, fanno in realtà parte di una produzione in serie progettata e realizzata, con gli inevitabili aggiustamenti in corso d’opera, dall’attuale potenza capitalistica dominante, gli USA, e dal suo entourage che incomincia ad assumere forme instabili e cangianti.
Il petrolio: una spiegazione necessaria ma non sufficiente
Moltissime persone hanno anche incominciato ad intuire che il petrolio deve c’entrare non poco in questi conflitti. La guerra del Golfo era paradigmatica, ma anche ai tempi di quella contro la Serbia qualche osservatore controcorrente e attento si era ricordato di un progetto per fare transitare attraverso il Kossovo in direzione dell’Europa occidentale gli idrocarburi fossili provenienti dai terminali sul Mar Nero(2). Probabilmente era un motivo secondario, però forse non così tanto, vista poi l’ampiezza della base di Camp Bondsteel, costruita in Kossovo vicino a oleodotti e corridoi energetici da una affiliata della compagnia petrolifera "Halliburton Oil" di cui Cheney era Direttore Generale(3). Poteva essere una coincidenza. Ma anche l’Afganistan è da anni considerato un territorio di transito preferenziale (rispetto all’invisa Repubblica Islamica dell’Iran) per gli idrocarburi fossili estratti dalla zona del Mar Caspio che saranno diretti verso l’Oceano Indiano. Infatti, un intervento in Afganistan contro i recalcitranti (e irriconoscenti) Talebani era già nell’agenda di Clinton, senza bisogno del destro poi "offerto" da Osama bin Laden. E, similmente, anche l’intervento nel Kossovo era già stato deciso molto prima del preteso "genocidio"(4). E ora di nuovo l’Iraq. A freddo. Anche qui, per pura coincidenza, troviamo il petrolio, esattamente la più grande riserva mondiale dopo l’Arabia Saudita. Petrolio di ottima qualità, economico da estrarre. E, ancora per puro caso, l’oro nero si trova anche in quasi tutti i Paesi elencati nell’agenda antiterrorismo degli Stati Uniti: Iran, Sudan, Indonesia. Il petrolio è quindi un collante evidente dei conflitti avvenuti e di quelli a venire. Ma esiste un’altra coincidenza ancora più interessante: tutti e tre gli "Stati canaglia" canonici sono in Asia. Inoltre, verosimilmente i prossimi obiettivi saranno decisi insieme ad Israele e quindi, riflettendo la strategia geopolitica di questo Paese, che insiste sul Medio Oriente e sull’Asia Centrale (via Turchia), saranno anch'essi concentrati in quest’area(5). Troppe coincidenze fanno, ovviamente, un piano lucido. Ma quale piano? Questo piano ha a che fare solo con il petrolio? O è un piano più vasto?
Il "cuore della terra" e il controllo delle "nuove vie della seta"
Ci sono molti motivi per ritenere che il controllo delle risorse energetiche costituisca un fattore importante di un calcolo più ampio. Secondo il mio modo di vedere i martoriati Iraq e Afganistan, i tristemente noti Kossovo e Bosnia, così come gli sconosciuti, ma anch'essi infelici, Azerbaijan e Georgia e il furbo Uzbekistan sono tutte tappe di quella che definisco "la conquista del cuore della Terra", cioè l’attuazione riveduta e aggiornata della classica "dottrina Brzezinski" di conquista del centro dell’Eurasia, o meglio ancora, prendendo a prestito il nome di una legge statunitense varata all’uopo nel 1999, il Silk Road Strategy Act, sono tappe verso il controllo delle nuove vie della seta, delle risorse energetiche che vi fanno capo e di quelle del Golfo. Ma per un fine strategico più complesso. Le tappe successive potrebbero essere l’Iran, la Siria o anche un’Arabia Saudita già adesso in pesantissima crisi economica e sociale e ulteriormente destabilizzata dal probabile dopo Saddam(6). Più facilmente, con i soldi e non con le armi, ovverosia alla moda dell’Uzbekistan (già da tempo infeudato a Stati Uniti e Israele), sono ormai a portata di mano il Kirghizistan e il Tagikistan(7). Interessante sarà vedere cosa gli Stati Uniti intenderanno fare con il Kazakistan, il cui petrolio è appetito da tutti e potrebbe essere essenziale per dare un senso economico ad un oggetto su cui vale la pena soffermarsi brevemente: la pipeline Baku-Tbilisi-Ceyhan (BTC) che unirà i pozzi petroliferi di un Azerbaijan ormai praticamente federato alla Turchia, a un grande terminale petrolifero proprio sulla costa mediterranea del (bellissimo) paese fondato da Atatürk, passando attraverso una Georgia che non vede l’ora di sbarazzarsi della presenza militare russa (che comunque tra qualche anno dovrà sgombrare il campo grazie ai Protocolli di Istanbul). Ma per sperare di fornire alla BTC la quota giornaliera di petrolio imposta dai calcoli economici bisognerà vincere le indecisioni del governo di Astana, alternativamente propenso verso la Cina, la Russia, l’Iran e l’Occidente. Per quanto riguarda il Turkmenistan, per ora apparentemente c’è poco da sperare dato che sembra soddisfatto degli accordi che legano i suoi ricchissimi giacimenti di gas naturale alla rete di gasdotti della russa Gazprom. E, come ben sanno gli Stati Uniti, le pipeline non sono solo corridoi energetici, ma anche diplomatici.
Il keynesismo di guerra delle pipelines.
La BTC, fortemente voluta dal dipartimento di Stato statunitense (e non, si noti bene, da quello dell’energia come sarebbe stato naturale) è un’opera quasi sconosciuta – e specialmente ai nostri più gettonati commentatori – ma per ora è il miglior esempio di attuazione nel nuovo impero formale degli USA di quel "keynesismo di guerra" di cui tanto si parla. Infatti benché non abbia attualmente una prospettiva molto profittevole questa pipeline ha, tuttavia, il nobile compito geostrategico di sottrarre il petrolio del Mar Caspio all’influenza russa, cinese e iraniana e di cementare la "nuova via della seta" Turchia-Georgia-Azerbaijan, che in realtà inizia in Israele e termina nel bel mezzo dell’Asia Centrale a ridosso della Cina. Un vero e proprio paradigma della strategia statunitense. Una strategia che ha l’obiettivo conclamato di contrastare, attraverso il controllo dei principali fattori strategici (posizione geografica e risorse energetiche), la possibilità che in Eurasia si formi un’aggregazione di forze che possa mettere in discussione la supremazia statunitense, la quale, per leggere a ritroso una spudorata ammissione del dottor Kissinger, è solo un altro modo per definire la cosiddetta "globalizzazione". Se questa strategia è evidente, se non altro perché dichiarata senza troppe remore dai responsabili statunitensi, ne sono però meno evidenti le motivazioni più profonde. Al di là delle apparenze, della propaganda e delle certezze anche di sinistra, ritengo che sia più che sensato porsi delle domande, se non altro a partire dalla constatazione che è alquanto strano che gli Stati Uniti sentano minacciata la propria supremazia proprio dopo che l’unica altra superpotenza, l’URSS, è collassata.
I diritti umani come transponder per bombardieri
La vulgata propagandistica narra di una lotta titanica contro un terrorismo internazionale senza obiettivi razionali ma motivato da istinti premoderni se non addirittura primordiali. Una lotta che si complementa con una missione storica: la difesa e l’ampliamento dei diritti umani, della sicurezza globale e della democrazia. Queste sono le motivazioni superficiali, ovvero quelle che si vuole far apparire in superficie, come la punta di un iceberg. Ma già un solo metro sotto il livello del mare spariscono, perché lì iniziano quelle più profonde. Come l’Afganistan insegna, diritti umani, sicurezza e democrazia non sono nemmeno "side effects" della guerra, che purtroppo sono di tipo ben differente. Al contrario, l’uso strumentale dei diritti umani equivale esattamente alla loro cerimonia funebre. Infatti il problema che pone questo scenario è che quando i diritti umani sono utilizzati come armi politiche o quando seguono compatibilità strategiche e non sono invece concepiti come diritti individuali e collettivi universali, indivisibili e inalienabili, diventano inservibili perché ogni richiamo ad essi rischia di diventare un transponder per bombardieri. La motivazione più recepita e variamente elaborata dalla sinistra è invece il petrolio. Come abbiamo visto è sicuramente più pertinente; tuttavia è parziale e questa parzialità rischia di metterne in ombra la pregnanza: perché infatti gli Stati Uniti avrebbero la necessità di acquisire militarmente questo controllo dato che, almeno apparentemente, hanno una forza politica ed economica tale da attrarre e condizionare qualsiasi paese produttore, dall’Arabia Saudita alla Russia? L’utile di breve e medio termine che ne ricaverebbero vale gli altissimi rischi economici, politici e militari che queste aggressioni comportano? La risposta non può consistere nel ribaltare gli assiomi statunitensi e vedere negli USA un "Regno del Male" con l’aggravante di essere guidato da un gruppo dirigente particolarmente ignorante, aggressivo e arrogante (cosa sicuramente vera) che ormai non riesce ad inventarsi nient’altro che la conquista imperialistica diretta delle risorse altrui. E’ chiaramente una spiegazione limitata, a volte frutto di legittima esasperazione, ma non accettabile, per il semplice motivo che in linea di principio anche le spiegazioni che prendono in considerazione fattori irrazionali o mitologici devono comunque inserirli in un quadro analitico razionale.
Il dominio statunitense: parabola di un ciclo sistemico di accumulazione del capitale
Un quadro analitico razionale che ritengo possa inquadrare con successo i fenomeni che stiamo osservando, da quelli più materiali a quelli più ideologici, ci è fornito dall’analisi dei cicli sistemici di accumulazione del capitale, così come è elaborata dalla scuola di pensiero detta del "sistema-mondo", raccolta attorno al "Fernand Braudel Center for the study of Economies, Historical Systems, and Civilizations", dell’Università di Binghamton, New York e guidato da Immanuel Wallerstein, Andre Günder Frank e Giovanni Arrighi e, in posizione più eccentrica e spesso critica, Samir Amin. In particolare, secondo Giovanni Arrighi ogni ciclo sistemico di accumulazione è egemonizzato da una singola potenza e presenta una fase iniziale di espansione materiale basata sulla produzione e sul commercio cui segue una fase di crisi e decadenza, caratterizzata da un disimpegno del capitale dalla produzione e dal commercio e da un suo impegno nella speculazione finanziaria internazionale (si veda G. Arrighi, "Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo". Il Saggiatore, 1996). Questa espansione finanziaria è alimentata dalla concorrenza tra gli Stati per succedere alla potenza egemone in crisi, concorrenza che richiama il capitale attraverso un’espansione del debito pubblico e le spese per il riarmo che si ampliano a dismisura durante le fasi di crisi sistemica. Seguendo questa analisi arriviamo allora ad uno scenario sorprendente: gli Stati Uniti fanno quel che fanno non perché sono senza rivali ma perché la loro supremazia è in crisi. O, per essere più precisi, perché sono in crisi – e da tempo – i meccanismi di base di riproduzione di questa supremazia. Infatti, secondo la valutazione di molti studiosi, anche appartenenti a scuole di pensiero differenti, gli Stati Uniti stanno vivendo la fase di declino della loro egemonia nata con la fine della II Guerra Mondiale. In termini più ampi, la Superpotenza sta percorrendo la fase discendente di una parabola iniziata alla fine del XIX secolo e che ha raggiunto il suo apice negli anni tra il 1945 e i primi anni settanta del novecento. Di questa crisi potrebbero approfittare (anche qui, non per intrinseca perfidia o per odio antioccidentale, ma per occidentalissimi meccanismi concorrenziali) alcune potenze di dimensione continentale come gli stessi Stati Uniti: in primo luogo la Cina, poi la Russia e, in prospettiva, anche l’India. Questa partita tutta eurasiatica è però estremamente aperta e lo strapotere bellico statunitense la sta spostando su un piano militare. Cosa che è storicamente avvenuta in tutte le precedenti fasi di crisi sistemica individuate da Giovanni Arrighi.
Decadenza e violenza
La fine di un ciclo egemonico è infatti sempre un periodo di violenza, così come il suo inizio. Per la precisione l’egemonia è l’evoluzione di un dominio ottenuto con la forza e, parimenti, l’esaurirsi di un’egemonia favorisce l’uso della forza per far emergere un nuovo dominio. La violenza è dunque un modo iniziale e finale di esercizio del potere. L’esercizio maturo è ottenuto tramite l’egemonia, ovverosia facendo condividere gli scopi del potere anche a chi è soggetto gerarchicamente al potere stesso. Un’egemonia può basarsi su meccanismi ideologici e/o materiali e, si può dire, è compiuta quando li comprende entrambi. Meccanismi ideologici classici sono la fedeltà ad un gruppo etnico, ad una religione o il riconoscimento di un nemico o di interessi comuni, e quindi essi stabiliscono i modi in cui il potere è legittimato e può essere esercitato, anche in termini coercitivi (termini che sono ereditati dai meccanismi violenti con cui inizia la parabola dominio-egemonia-dominio e, per dirla con Marx, ricompaiono quando le cose non vanno più per il loro "corso ordinario"). Sono dinamiche che tendono a raggruppare, a definire spazialmente l’area di egemonia. In generale diremo che sono dinamiche che tendono a territorializzare. Dinamiche che vengono esaltate da eventi come Pearl Harbour o l’11 settembre, o in periodi come la Guerra Fredda. Meccanismi materiali sono quelli di carattere economico, il riconoscersi in un circuito commerciale o produttivo o anche finanziario, come attori e/o beneficiari. Questi meccanismi non sono necessariamente territorializzanti. Anzi spesso tendono alla deterritorializzazione, a rompere le frontiere spaziali. E ciò accade patologicamente quando una giurisdizione territoriale diventa un limite per l’accumulazione del capitale. A partire dagli albori del capitalismo nelle città-stato dell’Italia settentrionale, i due tipi di meccanismi di potere possono considerarsi – in linea di principio – appannaggio di gruppi separati, risultato di un lungo processo di differenziazione tra centri di potere politico territoriale e centri di potere economico, tra Stati e imprese. E’ a questo punto dell’evoluzione storica che si può parlare di "Capitale" come distinto dal "Potere" (territorialista).
La logica del Capitale e la logica del Potere
La divaricazione dei comportamenti di potere e capitale è innanzitutto spiegata dal fatto che il primo segue una logica di spazi-di-luoghi mentre il secondo segue una logica di spazi-di-flussi. La logica degli spazi-di-luoghi è funzionale alla razionalità del potere che è dettata da fattori come la formazione dello Stato, coi suoi meccanismi di riproduzione del controllo del territorio dove il potere è installato, quelli di espansione in ampiezza e le motivazioni ideologiche e morali che si di solito si intrecciano a questi fattori. La logica degli spazi-di-flussi è invece dettata da criteri come il calcolo del rapporto costi-benefici di ogni intrapresa e il controllo della capacità di acquisto, intesi come strumenti organici all’unico scopo della logica puramente capitalistica: generare denaro tramite denaro. E’ la particolare fusione di queste due logiche che permise l’ascesa delle città-stato italiane, dando l’avvio ai grandi cicli di accumulazione del capitale. Una storia che inizia col tentativo da parte dei mercanti europei di recuperare i mezzi di pagamento che si erano concentrati in Oriente e specialmente in Cina, aree che fino a metà del 1700 forniranno la quasi totalità dei prodotti manifatturieri mondiali. Ma perché il capitale si allea col potere tramite il meccanismo del debito pubblico? In sintesi questo matrimonio d’interessi è dovuto in alcune situazioni alla ricerca di protezione territoriale da parte del capitale apolide e, più in generale, ai calcoli del capitale rispetto le capacità del potere con cui si sta alleando di permettergli una successiva espansione materiale. Infatti ad ogni alleanza del capitale con il potere, stipulata durante la fase di espansione finanziaria, che è caratterizzata dal disimpegno del capitale dalle attività di trasformazione della natura, è seguita una fase di espansione materiale, caratterizzata invece dall’impegno del capitale nella produzione e nel commercio di merci, a scala ben maggiore di quella precedente. A sua volta il potere si allea col capitale per consolidarsi ed espandersi, ovvero per coprire i "costi di formazione dello Stato" e i "costi di protezione". Storicamente questa alleanza fa emergere una e una sola potenza capitalistica mondiale la cui egemonia caratterizza un ciclo sistemico di accumulazione. Questa potenza capitalistica sarà quella capace di accentrare il monopolio dei mezzi di pagamento e di "presentare i propri interessi come interessi generali di tutti gli altri agenti (stati-nazione, cittadini) o di un importante gruppo di essi" (Arrighi, op. cit.). E avendo rilevato il potere a spese della potenza egemone declinante (e degli altri contendenti), questa posizione gli permette, per l’appunto, di avviare la nuova grande espansione materiale di cui ha bisogno il capitale. Quando l’espansione materiale incomincia a diventare un limite alla valorizzazione del capitale allora inizia anche il divorzio tra il capitale e la potenza egemone in carica. Questo momento di passaggio è quindi indotto da una crisi generale di accumulazione "che segna il punto più alto del periodo di espansione materiale (D -->M) e dà inizio al periodo di espansione finanziaria (M -->D’)" (ibidem(8)). Come commenta Arrighi, D è segno di libertà di azione da parte del capitale: varie scelte di valorizzazione sono possibili. D -->M è uno specifico impegno del capitale che però viene sottoposto alle rigidità incorporate da M. Infine M -->D’ è un disimpegno grazie al quale il capitale riacquista una libertà d’azione, D’, allargata. E’ con questa dinamica che il capitale affronta la dialettica limite-condizione delle composizioni di potere territoriali storicamente date e le trasforma. Il disimpegno del capitale dalla produzione e commercio di merci inizia quando l’espansione materiale genera capitali che non possono incrementare "se non a patto di non essere più reinvestiti nelle attività che li hanno generati". La ragione di questo fenomeno risiede nel successo stesso dell’espansione materiale che genera pressioni concorrenziali di vario tipo (pressione verso l’alto dei salari, concorrenza per l’approvvigionamento delle materie prime, concorrenza sugli sbocchi commerciali dei prodotti, eccetera). Queste pressioni abbattono il profitto sotto quelle soglie che gli agenti capitalistici ritengono "tollerabili". Si ha allora una crescente fuoriuscita di capitali dall’investimento nelle attività produttive e commerciali e si genera una massa crescente di denaro in cerca di occasioni di profitto(9). La fase di espansione finanziaria, come si è detto, è resa possibile dalla concorrenza tra gli Stati per il capitale mobile, concorrenza che è indotta a sua volta dalla loro rivalità nella successione alla potenza egemone, ancora in carica ma uscente. Questa successione avviene facendo leva su due punti: a) l’acquisizione diretta o indiretta delle reti commerciali-industriali del soggetto egemone uscente; b) la centralizzazione dei mezzi di pagamento internazionali. L’espansione finanziaria è quindi legata a una fase di caos sistemico che genererà una nuova egemonia al cui interno saranno riorganizzati i processi di accumulazione del capitale su scala mondiale. L’inizio della fase discendente di un ciclo egemonico è segnalato da una crisi detta "crisi spia" (s1, s2, …, nel diagramma successivo) perché in effetti è la "spia" di una più profonda e fondamentale crisi sistemica, che lo spostamento verso l’alta finanza (la finanziarizzazione) dissimula e ritarda fino all’avvento della "crisi terminale" (t1, t2, …, nel diagramma). In realtà, "lo spostamento può fare molto più di questo: esso può trasformare per chi lo promuove e lo organizza, la fine dell’espansione materiale in un "momento meraviglioso" di nuova ricchezza e di nuovo potere, come è avvenuto, in misura diversa e secondo modalità differenti, in tutti e quattro i cicli sistemici di accumulazione. Tuttavia, per quanto meraviglioso possa essere questo momento per coloro che traggono maggiormente vantaggio dalla fine dell’espansione materiale dell’economia-mondo, esso non è mai stato l’espressione di una soluzione durevole della crisi sottostante. l contrario è sempre stato il preludio a un aggravamento della crisi e alla definitiva sostituzione del regime di accumulazione ancora dominante con uno nuovo." (ibidem)
Il "momento meraviglioso" in piena crisi sistemica, di cui parla Arrighi, è stato rappresentato ai giorni nostri dalla nuova belle époque reaganiana-clintoniana che ha raddoppiato la classica belle époque a cavallo tra il XIX e il XX secolo.
L’egemonia USA, ultimo ciclo sistemico storico
Fatte queste premesse, si possono individuare i seguenti cicli sistemici (adattamento da Arrighi, op. cit.):
Ci sono molte interessanti osservazioni sono indotte da questo diagramma. Le condensiamo qui indicando solo la continua accelerazione del ritmo (tempo sempre minore per l’ascesa, lo sviluppo e la sostituzione di un regime sistemico) e l’aumento della complessità organizzativa richiesta ad una potenza per poter emergere come dominante (lo si nota tramite la scala sull’ordinata da me aggiunta allo schema di Arrighi). Queste dinamiche sembrano confermare l’osservazione fatta da Marx nel terzo libro del Capitale, secondo la quale "il vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso", ragion per cui la produzione capitalistica supera questa contraddizione "unicamente con dei mezzi che la pongono di fronte agli stessi limiti su scala nuova e più alta". L’ultimo ciclo di espansione materiale inizia con la vittoria degli Stati Uniti nella Guerra dei Trent’anni per la successione all’egemonia britannica (1914-1945) e con la I Guerra Fredda che permette a Truman di vincere le resistenze di un Congresso isolazionista ed estendere su una zona artificialmente limitata del mondo le idee di New Deal mondiale elaborate da Roosevelt (bisogna infatti notare che nei piani di Roosevelt non era contemplata nessuna suddivisione del mondo e anche l’Unione Sovietica vi rientrava a pieno diritto). Per vincere quelle resistenze l’amministrazione Truman invocava un’emergenza internazionale che il sottosegretario di Stato, Acheson, aveva "previsto" in Corea, in Vietnam o a Taiwan. Chissà come Acheson "indovinò" veramente perché, come ebbe a dire, "la Corea arrivò e ci salvò". Era il 1950. La I Guerra Fredda era ormai ufficialmente dichiarata. Il mondo veniva diviso in due e il New Deal poteva propagarsi su un "mondo" in formato ridotto e quindi gestibile: il "Mondo Libero". Come ci ricorda Gore Vidal, le resistenze e le proteste contro la politica estera di Truman e la complementare politica interna di sicurezza nazionale, da parte degli uomini del defunto Roosevelt (come ad esempio l’ex vicepresidente Henry Wallace) furono emarginate o criminalizzate anche con l’accusa di"comunismo" (sic!) (si veda Gore Vidal, "Le menzogne dell’impero". Fazi Editore, 2002) Fu così che sull’onda del più grande riarmo che il mondo avesse mai visto in tempo di pace si costituì lo strumento per continuare a sostenere gli aiuti all’Europa anche dopo la conclusione del Piano Marshall e impedire che innanzitutto il Vecchio Continente (o almeno la sua parte "libera") e poi il Giappone si isolassero dagli Stati Uniti. Gli organismi sovranazionali di governo del mondo, che nella visione di Roosevelt avrebbero dovuto sancire il carattere politico del governo mondiale, furono tenuti sullo sfondo. Le organizzazioni nate con gli accordi di Bretton Woods – cioè Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale – e l’ONU ebbero solo una funzione ancillare nei confronti del governo statunitense (anche la Corea fu un’operazione di "polizia internazionale") oppure furono ostacolate. L’unico effetto rivoluzionario degli accordi di Bretton Woods fu che la produzione del denaro mondiale passò sotto l’esclusivo controllo di una ristretta rete di autorità governative (in linea con il primato della politica sulla finanza codificato dal New Deal rooseveltiano). Tra il 1950 e il 1968 assistiamo così alla più grande espansione materiale della storia del capitalismo (la cosiddetta "Età dell’Oro del capitalismo"), all’ombra di un dominio formale statunitense, speculare a quello sovietico, ovverosia di una struttura gerarchica di Stati con a capo gli USA, dominio a cui cercarono di sottrarsi la Francia gaullista e Cuba. Ma tra 1968 e il 1973 si consuma la "crisi spia" del ciclo americano. La crescente concorrenza internazionale, con conseguente disimpegno dei mezzi di pagamento dagli investimenti produttivi e il progressivo impegno nella speculazione finanziaria – ad esempio nell’Eurovaluta – e una serie di tracolli politico-militari del campo occidentale (guerra del Vietnam, guerra del Kippur) congiunti all’impossibilità da parte delle autorità statali di tenere sotto controllo i flussi monetari generati dalle multinazionali, che seguendo la logica degli spazi-di-flussi sfuggono costantemente alle singole giurisdizioni pur basandosi su di esse, portarono alla fine del gold-dollar-standard (la base aurea mediata dal dollaro che aveva sostenuto il periodo di sviluppo materiale) e all’inedito fenomeno della stagflazione: la stagnazione accompagnata dall’inflazione. Il ciclo americano era entrato in crisi globale a meno di trent’anni dal suo inizio.
Un accanimento terapeutico: cercar di succedere a se stessi
Dopo tentativi del governo statunitense di ridurre alla ragione l’alta finanza, contrastando le manovre speculative con una continua inflazione e un continuo deprezzamento del dollaro, con Reagan assistiamo ad un processo opposto: la ricerca di nuova alleanza tra potere e capitale suggellata dalla trasformazione degli Stati Uniti nel più grande mercato offshore del mondo (deregulation) e con un riarmo sfrenato che trasformò il debito pubblico statunitense in un immenso aspirapolvere di capitali, così potente da risucchiare tutte le eccedenze dei Paesi industrializzati e uccidere sul nascere le speranze di "recupero" dei Paesi che, all’epoca, si dicevano "in via di sviluppo". La politica di Reagan con la sua II Guerra Fredda rappresentò dunque una duplicazione della I Guerra Fredda di Truman, ma per scopi totalmente opposti: mentre Truman voleva risolvere il problema della ridistribuzione della capacità di acquisto concentrata negli Stati Uniti, Reagan aveva invece il problema di riconcentrarla. Un’altra differenza consisteva nel fatto che con la sconfitta del Vietnam gli Stati Uniti abbandonarono la politica di impero formale per entrare in una fase di impero informale dove l’egemonia era esercitata tramite il mercato, più o meno come era successo nel 1800 con il periodo di libero mercato nel Regno Unito durante il precedente ciclo di accumulazione. Nel caso degli USA erano però il crescente deficit commerciale e l’enorme indebitamento pubblico che, congiunti alla supremazia monetaria, politica e militare fungevano da forza centripeta del mercato mondiale. Questa situazione si è estesa all’era Clinton, grazie all’esasperata finanziarizzazione dell’economia trainata dalla forza del dollaro (crescita della bolla speculativa) e alla massiccia terziarizzazione(10). Ed è così che negli anni novanta del secolo scorso, gli Stati Uniti hanno vissuto il culmine del loro "momento meraviglioso". Ma altri meccanismi erano all’opera. L’egemonia statunitense reaganiana-clintoniana era strutturalmente debole. Al contrario dei precedenti storici, ultimo l'Impero Britannico, gli Stati Uniti non avevano, e non hanno, un surplus strutturale da reinvestire all’estero e favorire la crescita (subordinata) dei Paesi che ricadevano sotto il loro tramontante impero informale o che ricadranno sotto il loro futuro dominio. Ne segue che la crescita degli USA e del sistema capitalistico occidentale (Giappone ed Europa) lascia indifferenti, nei migliori dei casi, le sorti del restante i restanti 4/5 del mondo, dato che questo sistema, sia in termini economici, sia in termini culturali, sia in termini politici "non ha più nulla da proporre all’80% della popolazione del pianeta" mondiale (Amin).(S. Amin, "Oltre il capitalismo senile". Edizioni Punto Rosso). La supremazia, statunitense per utilizzare le categorie offerteci dall’approccio del sistema-mondo, si gioca allora esclusivamente sulle attività di formazione e di protezione dello Stato. E’ una supremazia che comunque permette agli Stati Uniti di convertire in forza gravitazionale che agisce sul mercato i loro disavanzi (quello dei conti con l’estero ha ormai superato il 430 miliardi dollari) e di porsi al primo posto nell’ambito degli armamenti e della ricerca scientifica, attività strettamente legata al riarmo, e che consentono loro di ipotecare almeno quattro dei cinque monopoli individuati da Samir Amin coi quali si esercita la supremazia mondiale: monopolio della tecnologia, controllo dell’accesso delle risorse naturali, monopolio dei mezzi di comunicazione e dei media, monopolio degli armamenti di distruzione di massa (cfr. Samir Amin, “Il capitalismo del nuovo millennio”. Edizioni Punto Rosso, 2001). Il quinto monopolio, il controllo mondiale dei flussi finanziari, è invece più problematico. Negli anni novanta si è assistito infatti ad una impressionante crescita asiatica nell’alta finanza. Fatti 100 i beni delle maggiori 50 banche mondiali, la percentuale giapponese è passata dal 18% del 1970 al 48% del 1990, mentre le riserve in valuta estera sono passate dal 10% del 1980 al 50% del 1994. Questa crescita è stata accompagnata da un’eccezionale espansione industriale. L’Unione delle Banche svizzere ha stabilito in un’analisi comparativa che a partire dal 1870 non c’è mai stata una crescita economica paragonabile a quella recente del Sud-Est e dell’Est asiatico iniziata poco dopo la crisi sistemica del 1968-1973 (+ 8% annuo di media). In più questa crescita è avvenuta in un periodo di stagnazione nel resto del mondo e si è propagata come un’onda dal Giappone alle Tigri asiatiche, Corea del Sud, Taiwan, Singapore e Hong Kong, e da lì alla Malaysia, alla Tailandia e all’Indonesia, fino a coinvolgere anche il Vietnam. E ora la Cina. Come si sa, i carghi provenienti dall’Oriente in Europa sono zeppi di merci, mentre quelli in direzione contraria sono mezzi vuoti, riproducendo singolarmente la situazione che avveniva all’inizio del capitalismo seicento anni fa. Similmente, come nella seconda metà dell’800 la produzione industriale britannica era ormai surclassata da quella statunitense e tedesca, allo stesso modo oggi assistiamo al declino industriale dell’Occidente a favore dei nuovi Paesi emergenti(11). "La contraddizione dell’egemonia mondiale USA ha innanzitutto a che fare con un percorso di sviluppo caratterizzato da alti costi di protezione e riproduzione, ovvero sulla formazione di un apparato militare di ampiezza globale ad alta intensità di capitale e sulla diffusione di uno schema di consumo di massa insostenibile e devastante che hanno finito per destabilizzare la potenza degli USA. Al contrario, l’eredità storica dell’Asia dell’Est di minori costi di riproduzione e di protezione hanno dato alle agenzie governative e d’affari della regione un decisivo vantaggio competitivo nella economia globale fortemente integrata. Se questa eredità verrà preservata, è un fatto ancora non chiaro." (Arrighi, op. cit.) Come risultato evidente di questa contraddizione, la sconfitta del Vietnam forzò gli USA a riammettere la Cina nei normali circuiti commerciali e diplomatici mondiali, ampliando il raggio dell’espansione e dell’integrazione regionale, in cui la Cina stessa, con la sua base demografica, le potenzialità di crescita e la disponibilità di forza-lavoro è diventata un gigante assoluto, attraendo quote crescenti di mezzi di pagamento. La Cina ha ormai superato il Giappone nella fornitura di merci agli USA e le autorità cinesi "hanno in mano il destino dei cambi dell’intero continente asiatico." (M. De Cecco, "La Repubblica, Affari & Finanza", 13-1-03) (12). Non è quindi un caso che gli Stati Uniti abbiano previsto che tra il 2017-2020 la Cina diventerà un avversario strategico. L’arcano profondo dell’attacco a Oriente sta forse proprio qui. Evitare che il capitale si allei con l’emergente stato-nazione-continente cinese. E per raggiungere questo obiettivo deve cercare, finché è ancora in tempo e finché ne è ancora capace, di arginare il più possibile la propria decadenza e di occupare, come sanno i giocatori esperti, il "centro della scacchiera". Ed è possibile, anche se con difficoltà. Le difficoltà nascono dal fatto che, per dirla in termini un po’ naïve, gli Stati Uniti non hanno assolutamente tanti soldi da spendere in guerre. E su questo il Movimento deve far leva e fa leva (giustissima la campagna "Non un uomo, non un soldo per la guerra"). Già quella del Golfo fu pagata per oltre il 70% dagli alleati e in special modo da Arabia Saudita, Emirati e – nota oggi dolente – da Giappone e Germania(13).La possibilità deriva invece dal fatto che in parziale contrasto con le fasi di crisi sistemica precedenti, oggi non si assiste ad una fusione della potenza finanziaria e di quella militare in un ordine più alto, ma si assiste invece ad una loro fissione: la centralizzazione della potenza militare negli USA da una parte e dall’altra la dispersione del potere finanziario in un arcipelago asiatico formato da stati-nazione, città-stato, diaspore, che non hanno né singolarmente né collettivamente nessuna possibilità di eguagliare la potenza militare statunitense né, per adesso, la possibilità di sostituirsi agli USA come centro organizzativo della finanza internazionale (Arrighi, op. cit.). Ma non è detto che questa situazione possa perdurare in eterno. Anzi, storicamente ciò non è mai successo. Non ci vorrà moltissimo tempo per arrivare al punto culminante della concorrenza per lo scambio politico con il potere finanziario. Gli Stati Uniti lo sanno benissimo e le date 2017-2020 previste dai suoi strateghi lo stanno a testimoniare.
I diritti umani e le convenzioni internazionali sono pipelines: seguono linee geostrategiche.
In questa situazione gli Stati Uniti, se vorranno mantenere la posizione di potere, dovranno cercare di scambiare la propria capacità bellica e di formazione dello stato con il potere finanziario dell’Asia orientale, eventualmente "mediante una rinegoziazione dei termini dello scambio politico che ha legato il capitalismo dell’est asiatico al keynesismo militare globale degli Stati Uniti durante tutta l’epoca della guerra fredda." (Arrighi, op. cit.). Contemporaneamente dovrà cercare di bloccare sul nascere ogni ipotesi di aggregazione di nuovi complessi o alleanze territoriali capaci di competere con questo piano. I corollari comportamentali di politica internazionale a nostro avviso sono: 1 non permettere un’autonomia politica europea; cercare di indebolire la Russia e, soprattutto, tenerla il più possibile lontana dall’Unione Europea (e l’ammissione nella UE di alcuni Paesi dell’Est e della Turchia potrebbe favorire entrambe queste manovre); 2 indebolire la Cina e cercare di disgregarla (utilizzando a fondo, tanto per iniziare, la questione tibetana e poi, o contemporaneamente, quella degli Uiguri nello Xinjiang(14)); 3 separare l’India (il terzo gigante territoriale asiatico) dall’Asia orientale, centrale e dalla Cina (a questo fine il conflitto in Kashmir è una benedizione da coltivare, assieme alla politica dell’attuale governo, guidato dal Bharatiya Janata Party, che a dispetto del suo proclamato, e spesso facinoroso, nazionalismo indù sta consegnando l’India alle più aggressive multinazionali occidentali). E’ in questo quadro che inseriamo la lotta per il mantenimento e l’incremento dei cinque monopoli - e quindi anche la lotta per il controllo esclusivo delle risorse energetiche - e possiamo ipotizzare che l’attuale III Guerra Fredda, o III Guerra Mondiale, si svolgerà quindi, o meglio si stia già svolgendo, attorno a questi cinque monopoli e al loro intreccio, con la finalità sistemica di ricentralizzare negli USA l’accumulazione di capitali o, per lo meno, di ricentralizzare il comando sui suoi fattori. Io credo perciò che siamo rientrati in una fase di neo-imperialismo, simile all’imperialismo che caratterizzò l’ultimo atto del ciclo britannico, dove, però nessuna potenza neo-imperialista è ancora pronta a raccogliere le sfide della Superpotenza. Dopo la Prima e la Seconda Guerra Fredda, ne stiamo quindi vedendo una terza replica che però non è più solo fredda anche se, forse, non sarà globalmente catastrofica, almeno per questo giro. Una pseudo guerra mondiale o una pseudo guerra fredda che a quanto si riesce a intravedere approderà, se avrà successo, a un’altra stagione di imperialismo formale statunitense, ovvero a un nuovo ordine gerarchico tra Stati con a capo gli USA. In termini generali, gli Stati Uniti stanno rifluendo dall’egemonia al dominio, chiudendo, ad un più alto livello, il cerchio iniziato nel 1945-1947. Infatti, se con Bush padre e con Clinton c’era stata una fase in cui si era pensato di ristabilire un ordine mondiale di tipo rooseveltiano, rivitalizzando e ridefinendo, ad usum delphini, gli organismi di governo internazionali, ora con Bush figlio sembra invece di essere ritornati ad un ridimensionamento unilateralista alla Truman, con le stesse tinte nazionalistiche e con la stessa tendenza all’impero formale. E come già successe allora con De Gaulle, la Francia cerca anche oggi di sganciarsi, seguita però stavolta.da diversi Paesi, tra cui l’altro pilastro dell’Unione Europea, la Germania, aprendo così un conflitto tra le due sponde dell’Atlantico e all’interno della stessa Unione. Conflitto ampiamente "previsto" con stizza e minacce da Martin Feldstein, ora consigliere di Bush, alla vigilia dell’introduzione dell’Euro (cfr. "Il Sole 24 Ore", novembre 1997). Condoleeza Rice dice quindi molto di più di quanto intenda fare quando paragona questo periodo agli anni 1945-1947. Perché questa, suo malgrado corretta, affermazione ci riporta alla mente l’invocazione dell’amministrazione Truman per una "emergenza internazionale" che infatti, come ricorda il professor Chalmers Johnson, venne riproposta tale e quale da D. Cheney, D. Rumsfeld e dagli altri allegri compari del Project for a New American Century, in un loro rapporto del settembre 2000, dove si dichiararono in attesa di "un evento catastrofico e catalizzante come una nuova Pearl Harbour"(15). Come accadde al sottosegretario di Stato di Truman, anche Cheney e Rumsfeld si rivelarono a loro modo "preveggenti" e con l’11 di settembre 2001 ebbero la loro auspicata nuova Pearl Harbour che legittimò la reazione unilaterale e dilagante degli USA. Tuttavia la nuova situazione, cioè il collasso dell’unico possibile contendente degli Stati Uniti, rischia di trasformare questo unilateralismo in un limite fondamentale all’esercizio del potere. Se infatti la strategia da Truman a Reagan si basava sulla possibilità di ritagliarsi una fetta di mondo su cui poter esercitare prima il proprio dominio e, in seguito, la propria egemonia, ora l’espansione globale di questa fetta rischia di portare a ciò che è stato definito un "sovradimensionamento strategico", ovverosia ad avere "interessi così estesi che sarebbe difficile difenderli tutti nello stesso momento e quasi altrettanto difficile abbandonarne uno qualunque senza correre rischi anche maggiori." (P. Kennedy, "Ascesa e declino delle grandi potenze". Garzanti, 1993)
Il Movimento e la guerra, quintessenza della mercificazione della vita umana
Se si accetta questa interpretazione della realtà, allora il rifiuto etico della guerra è costretto a fare in conti con un obiettivo immane: trasformare radicalmente la logica di sviluppo economico, di formazione dello stato e di esercizio della forza che è stata seguita negli ultimi seicento anni. O almeno contrastarla. Un compito non facile, lungo e complesso. Ma non impossibile, perché l’avversario non è poi così invulnerabile come si vuole presentare. Ma è vulnerabile non perché un’organizzazione di fanatici è capace di bombardarlo con un’azione terroristica, frutto avvelenato proprio della logica da contrastare, o perché un satrapo asiatico, altro frutto di questa logica, può in teoria infliggere sensibili perdite agli eserciti che vogliono aggredirlo. Al contrario, lo è perché esso stesso nel corso del tempo ha prodotto il proprio principale anticorpo: la coscienza dell’indivisibilità e dell’universalità dei diritti umani. Una coscienza che nello stesso campo occidentale è cresciuta in modo esponenziale come reazione all’iperconsumismo, alla dilatatissima alienazione economicistica e all’esasperata polarizzazione delle ricchezze, ovverosia come reazione al radicale attacco a valori di base politici, etici, sociali e religiosi elaborati e conquistati nel corso di secoli. Tutto ciò è testimoniato proprio dal carattere composito del movimento contro la globalizzazione liberista e le sue guerre, la cui varietà non dovrebbe destare meraviglia se si pensa che "il capitalismo innovativo e globale non è affatto soltanto anti-proletario (come continuano ad opinare i veteromarxisti operaisti), ma è anche e soprattutto anti-borghese, perché l’ethos nobiliare-borghese si è sempre ostinato a mantenere sfere vitali non mercificabili, o per lo meno non interamente mercificate." (Costanzo Preve, "Il Bombardamento Etico", Editrice CRT, Pistoia, 2000, pag. 39)(16). E non è difficile allora capire perché un’opinione pubblica trasversale, avvilita dall’arroganza economica e politica del potere, già allarmata per i tentativi di privatizzazione della vita cresciuti sull’onda dei successi della bioingegneria e preoccupata per il cattivo stato di salute del pianeta avvertibile tutti i giorni, consideri istintivamente e implicitamente (e giustamente) lo scambio morti-per-petrolio – il più evidente tra gli scambi proposti dall’amministrazione Bush – come l’inaccettabile quintessenza della mercificazione della vita umana. Ed è infatti mia opinione che la guerra, e specialmente la guerra moderna, sia da rubricarsi proprio sotto questa voce. Allo stesso modo possiamo aggiungere che, con tutte le sue contraddizioni, lo stesso risveglio religioso di questi anni non è altro, e proprio da un punto di vista squisitamente laico, che una manifestazione del fatto che l’essere umano è un animale ideologico, ermeneutico e metafisico, e non lo schiavo di una "mano invisibile" che lo inchioda alla pura materialità. E’ questa "dimensione antropologica transtorica" - per usare un concetto di Samir Amin - a spingere l’uomo a fare la propria storia. Ed è la moderna pratica politica laica il terreno più favorevole per compierla, perché "la democrazia moderna si attribuisce subito il diritto d’invenzione, a fare qualcosa di nuovo. Sta tutto qui il senso del segno di uguaglianza che la Filosofia dei Lumi pone tra Ragione ed Emancipazione." (S. Amin, "Oltre la mondializzazione". Editori Riuniti, 1999). Fare la propria storia vuol dire emanciparsi dall’alienazione mercantilistica e capire che un nuovo ciclo di espansione materiale capitalistico presupporrebbe una fase di conflitti crescenti e senza esclusione di colpi e, inoltre, sia che esso venga incentrato di nuovo sugli Stati Uniti sia, a maggior ragione, che venga incentrato su un nuovo stato-continente come la Cina che deve recuperare velocemente le fasi "pesanti" di sviluppo perdute, equivarrebbe con ogni evidenza ad un collasso ecologico-sociale planetario. L’emancipazione dall’alienazione mercantilistica non può quindi limitarsi all’Occidente, ma deve estendersi in ogni parte del mondo, Asia in primo luogo. E sembra anche evidente che questa emancipazione non è più appannaggio esclusivo di un soggetto sociale specifico, come nella tradizione marxista, ma di una rete di soggetti in larga misura ancora da definire e, addirittura, da identificare e che possono variare da Paese a Paese, eppure già reali e operanti. L’alternativa a questa emancipazione potrebbe non esserci, né singolarmente né come specie: "[…] prima di soffocare (o respirare) nella prigione (o nel paradiso) di un impero mondiale postcapitalistico o di una società mondiale di mercato postcapitalistica, l’umanità potrebbe bruciare negli orrori (o nelle glorie) della crescente violenza che ha accompagnato la liquidazione dell’ordine mondiale della guerra fredda. Anche in questo caso la storia del capitalismo giungerebbe al termine, ma questa volta attraverso un ritorno stabile al caos sistemico dal quale ebbe origine seicento anni fa e che si è riprodotto su scala crescente a ogni transizione. Se questo significherà la conclusione della storia del capitalismo o la fine dell’intera storia umana, non è dato sapere." (G. Arrighi, op. cit.)
NOTE
(1) Consulente di una transnazionale statunitense specializzata in informatica e in servizi nel settore petrolifero-energetico. Collaboratore di istituti di ricerca in Europa e in Asia nel campo dell’algebra della logica, sistemi esperti e analisi logico-algebrica di informazioni incomplete, è autore di memorie scientifiche e ha tenuto seminari e conferenze in Canada, Francia, Germania, Giappone, India, Polonia, Romania e Stati Uniti. Per un incarico di consulenza, ha vissuto in Turchia dall’inverno 2000 all’estate 2001. Durante questo soggiorno ha approfondito la propria documentazione sulla politica interna e internazionale di quel paese e delle repubbliche centroasiatiche e transcaucasiche. E’ membro della Chiesa Evangelica Metodista, al cui interno ha promosso la discussione sulle politiche neo-liberiste. (http://www.surf.it/logic)
(2) E’ il caso di Sergio Cararo (si veda il sito http://digilander.libero.it/acta_imperii/balcani01.html).
(3) I termini più generali della questione iugoslava sono verosimilmente quelli discussi da Alberto Negri in http://www.sottovoce.it/conflitti/corridoi1.htm
(4) Così Gerard Segal, ex direttore dell’Istituto Internazionale di Studi Strategici di Londra, un anno prima dell’intervento contro la Serbia: "Dovremo intervenire unilateralmente in Kossovo? La risposta sarà in larga misura un calcolo politico, ma l’interrogativo solleva questioni fondamentali attinenti alle finalità della potenza militare" (La Repubblica, 10-7-1998).
(5) Con la probabile aggiunta eccezionale e precauzionale, appena il gioco si farà duro, della perenne spina nel fianco: Cuba.
(6) Il reddito medio dell’Arabia Saudita è diminuito di più del 50% dall’inizio della reaganomics ad oggi.
(7) "Non con le armi" non è però in ultima analisi una descrizione esatta. La guerra per sottrarre all’influenza Russa i Paesi centrasiatici e transcaucasici si sta combattendo in Cecenia. La Cecenia, infatti, prima della guerra alla Serbia è stata la riprova che la Russia era così debole da non riuscire a venire a capo di un conflitto locale in casa propria (figuriamoci all’estero); dopo l’11 settembre è stata la merce di scambio per ottenere il lasciapassare per l’Asia centrale ex-sovietica, mentre oggi costituisce la situazione di crisi che continua a mantenere la Russia sotto pressione militare e politica. Il conflitto in Cecenia è uno dei tanti il cui compito è quello di non finire, a totale dispetto e dispregio delle sofferenze che provoca.
(8) Nelle classiche formule di Marx, D sta per capitale (denaro), M sta per "merci" (ma possiamo anche intendere M come mezzi o strumenti dell’espansione materiale) mentre D’ è il capitale accresciuto grazie a quei "mezzi"(D'=D+x).
La formula con cui Marx descrive la logica generale di accumulazione del capitale è quindi D -->M -->D’, mentre quella con cui descrive l’accumulazione finanziaria tramite interessi è D -->D’ (il denaro che "procrea" direttamente denaro). Arrighi, su un diverso piano di astrazione, spezza la formula generale di Marx in due momenti storico-logici separati: l’impegno del capitale nella produzione e nel commercio di merci, D -->M, che dà luogo alla dinamica di accumulazione D -->M -->D’ (espansione materiale), e il disimpegno dalla produzione materiale e progressivo impegno nelle attività finanziarie, M -->D’, che innesca il meccanismo di accumulazione abbreviato D -->D’ (espansione finanziaria).
Marx definisce la finanziarizzazione come "una delle leve più energiche dell’accumulazione originaria", associandola così all’inizio del modo di produzione capitalistico, che in quanto tale è caratterizzato invece dalla formula D -->M -->D’ (cfr. , "Il Capitale", Libro I, Vol 3, Sezione VII, cap. 24). Se quindi si concepisce il capitalismo come un unico ciclo sistemico, una nuova fase di finanziarizzazione sarà vista come un sintomo di putrefazione (Lenin) o di decadenza (Keynes) del sistema. E’ di fatto il grande schema a cui si attiene anche Samir Amin, sebbene in modo altamente creativo e per nulla meccanico (dato che al suo interno contempla possibili ‘sottocicli’). Schumpeter, al contrario considerava la finanziarizzazione sintomo della fine di un ciclo di accumulazione e, nella sua scia, Arrighi la considera caratteristica della fine di un ciclo sistemico di accumulazione e di inizio di un ciclo successivo. Va allora notato che lo stesso Marx non parla di un’unica fase iniziale di accumulazione, ma di diverse fasi di accumulazione originaria che si sono susseguite nella Storia, ognuna basandosi sui frutti di quella precedente (Venezia, Olanda, Inghilterra e, presagiva, Stati Uniti). Tuttavia lo schema dei cicli sistemici di accumulazione non è derivabile direttamente da Marx (e in ciò l’interpretazione di Amin sembra più ortodossa di quella di Arrighi).
(9) I famosi "capitali fluttuanti speculativi" oggetto della Tobin tax, cavallo di battaglia di ATTAC, hanno questa origine.
(10) Attualmente è calcolato che il rapporto tra transazioni commerciali e transazioni finanziarie sia 1:80, cifra che illustra bene cosa si intenda per “disimpegno dalla produzione e dal commercio”.
(11) La partecipazione dell'apparato produttivo di Giappone, Germania e USA all'economia internazionale è passata dal 54% nel 1961 al 40% nel 1996 (IFRI-Ramses).
(12) La diaspora capitalistica cinese nel mondo ha contribuito in modo fondamentale a questo processo, sia finanziando direttamente la crescita cinese, sia fungendo da intermediaria finanziaria e commerciale (modello "One Nation, Two Systems").
(13) Per gli USA e gli UK il presidente Chirac è "un verme" non perché senza la Francia non si possa fare la guerra materialmente, ma perché la Francia trascina le posizioni di molti Paesi, in primo luogo la Germania, senza i quali è difficile farla finanziariamente.
(14) "Una volta che il momento è maturo, non sarà impossibile che i nazionalisti separatisti dello Xinjiang, assistiti da forze ostili interne e internazionali, si mettano a contrastare il governo locale e quello centrale e chiedere supporto alla comunità internazionale, proprio come i separatisti albanesi nel Kossovo, Yugoslavia. In quel momento non possiamo escludere la possibilità che il blocco militare della NATO guidato dagli USA agisca contro la Cina in un modo o nell’altro, anche con mezzi militari, con il pretesto di salvaguardare i diritti umani dei gruppi etnici di minoranza." Al Yu, "Kossovo Crisis and Stability in Cina’s Tibet and Xinjiang", Ta Kung Pao, FBIS.CHI-97-223, August 11, 1997.
(15) Cfr. Chalmers Johnson, "I missili di oggi sull’Iraq sono partiti 50 anni fa". Supplemento al N. 5 di Carta, febbraio 2003.
(16) "A proposito infine della tradizione culturale borghese, l’attuale globalizzazione non ‘occidentalizza’ affatto il pianeta (come sostengono noti confusionari sempre pubblicati, recensiti e pubblicizzati), dal momento che essa globalizza un modello di vita rigorosamente post-occidentale, posteriore al declino comune delle occidentalissime classi borghese e proletaria, e nichilisticamente posteriore a tutte le forme di saggezza e di religione occidentali." (Costanzo Preve, op.cit. pag. 47)
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jeudi, 28 mai 2009
Obama et le guêpier pakistanais
En quelques phrases sèches, Eric Margolis résume la situation, décrit les forces en présence et clarifie les enjeux. Embourbés dans une guerre ingagnable en Afghanistan, les USA qui bombardent déjà régulièrement le Pakistan ont poussé Islamabad à attaquer les pachtounes des zones tribales, au risque de faire voler en éclat la stabilité du pays et d’embraser la région tout entière. « Le véritable danger provient des États-Unis qui agissent comme un mastodonte enragé, foulant aux pieds le Pakistan, et contraignant l’armée d’Islamabad à faire la guerre à son propre peuple, » avertit Margolis qui connaît bien la région et les pachtounes pour les avoir côtoyés de près lors de la guerre contre les soviétiques.
Par Eric Margolis, Winnipeg Sun, 17 mai 2009
Le Pakistan a finalement cédé la semaine dernière aux demandes irritées de Washington, et a envoyé ses troupes contre la rébellion des tribus pachtounes des Provinces de la Frontière du Nord-Ouest - que l’occident dénomme à tort les « talibans ».
L’administration Obama avait menacé de mettre fin aux versements annuels de 2 milliards de dollars que reçoivent les dirigeants politiques et militaires du Pakistan en faillite et de bloquer 6,5 milliards d’aides futures, à moins qu’Islamabad n’envoie ses soldats dans les turbulentes zones tribales du Pakistan qui sont situées le long de la frontière afghane.
Cela s’est conclut par un bain de sang : quelques 1 000 « terroristes » tués (comprendre : la plupart sont des civils) et 1,2 millions de personnes - la plus grande partie de la population de la vallée de Swat - sont devenues des réfugiés.
Les forces armées pakistanaises instrumentalisées par les États-Unis ont remporté une brillante victoire contre leur propre peuple. Cela n’avait malheureusement pas été le cas lors des guerres contre l’Inde. Bombarder des civils est cependant beaucoup moins dangereux et plus rentable.
Washington, profondément déçu d’être incapable de pacifier les tribus pachtounes de l’Afghanistan (alias les talibans), a commencé à s’en prendre au Pakistan, tentant de venir à bout de la résistance pachtoune dans les deux pays. Les drones de la CIA ont déjà tué plus de 700 pachtounes pakistanais. Selon les médias, seuls 6% étaient des militants, et le reste des civils.
Les pachtounes, également improprement appelés pathans, forment la plus nombreuse des populations tribales. Quinze millions d’entre-eux vivent en Afghanistan, constituant la moitié de sa population. Vingt-six millions vivent au delà de la frontière du Pakistan. La Grande-Bretagne impérialiste a divisé les pachtounes par une frontière artificielle, la ligne Durand (qui forme aujourd’hui la frontière entre l’Afghanistan et le Pakistan). Les pachtounes rejettent cette frontière.
De nombreuses tribus pachtounes ont accepté de rejoindre le Pakistan en 1947, à condition que leur patrie soit autonome et libre de troupes gouvernementales. Les pashtounes de la vallée Swat n’ont rejoint le Pakistan qu’en 1969.
Lorsque les pachtounes du Pakistan ont accru leur aide à la résistance des pachtounes d’Afghanistan, les USA ont débuté leurs attaques de drones. Washington a contraint Islamabad à violer sa propre constitution en envoyant des troupes dans les terres pachtounes. Avec pour résultat l’actuelle explosion de colère des pachtounes.
J’ai vu les pachtounes faire la guerre et je peux témoigner de leur légendaire courage, de leur sens aigu de l’honneur et de leur détermination. Ils sont aussi extrêmement querelleurs, batailleurs et irritables.
On apprend vite à ne jamais menacer un Pachtoune ou à lui poser des ultimatums. Ce sont les guerriers montagnards qui ont défié les États-Unis en refusant de livrer Osama bin Laden, car il était un héros de la guerre anti-soviétique et était leur invité. L’ancien code de « Pachtunwali » guide toujours leurs actions : ne pas attaquer les pachtounes, ne pas tricher avec eux, ne pas causer leur déshonneur. Pour les pachtounes, la vengeance est sacrée.
Aujourd’hui, les politiques de Washington et les récentes atrocités de la vallée de Swat menacent de déclencher le pire cauchemar du Pakistan, au second rang après une invasion indienne : que ses 26 millions de Pachtounes fassent sécession et rejoignent les pachtounes d’Afghanistan pour former un état indépendant, le Pachtounistan.
Cela ferait éclater le Pakistan, inciterait probablement les farouches tribus balouches à tenter de faire sécession et pourrait tenter la puissante Inde d’intervenir militairement, au risque d’une guerre nucléaire avec le Pakistan assiégé.
Les pachtounes des zones tribales n’ont ni l’intention ni la capacité de se répandre dans d’autres provinces du Pakistan, le Punjab, le Sindh et le Baluchistan. Ils veulent seulement qu’on les laisse tranquilles. Les craintes d’une prise du pouvoir des talibans au Pakistan ne sont que pure propagande.
Les pakistanais ont rejeté à maintes reprises les partis islamiques militants. Nombreux sont ceux qui ont peu d’amour pour les Pachtounes, qu’ils considèrent comme de rustiques montagnards qu’il vaut mieux éviter.
L’arsenal nucléaire du Pakistan, bien gardé, ne représente pas non plus un danger - du moins pas encore. Les craintes au sujet des armes nucléaires pakistanaises proviennent des mêmes fabricants de preuves - ayant un agenda secret - que ceux qui nous ont sorti les fausses armes de Saddam Hussein.
Le véritable danger provient des États-Unis qui agissent comme un mastodonte enragé, foulant aux pieds le Pakistan, et contraignant l’armée d’Islamabad à faire la guerre à son propre peuple. Le Pakistan pourrait finir comme l’Irak occupé, divisé en trois parties et impuissant.
Si cela continue, les soldats pakistanais patriotes pourraient à un moment se rebeller et abattre les généraux corrompus et les politiciens qui émargent à Washington.
Tout aussi inquiétant, un soulèvement de pauvres se répandant à travers le Pakistan - lui aussi dénommé à tort « taliban » - porte la menace d’une rébellion radicale rappelant celle des rebelles naxalites de l’Inde.
Comme en Irak, ce sont une profonde ignorance et l’arrogance militariste qui conduisent la politique des États-Unis en Afghanistan. Les gens d’Obama ne comprennent pas ce vers quoi ils se dirigent en « Af-Pak ». Je peux le leur dire : un triste désastre que nous regretterons longtemps.
Publication originale Winnipeg Sun, traduction Contre Info
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mardi, 19 mai 2009
Dirigente de Kirguistan denuncia permanencia de base aérea de EE.UU
Dirigente de Kirguistán denuncia permanencia de base aérea de EE.UU
El vicepresidente del Comité de Asuntos Internacionales de la Cámara Legislativa de Kirguistán, Kabai Karabékov, afirmó que todos los acuerdos referentes a la base que Estados Unidos emplazó en ese país asiático han vencido, y la permanencia de sus tropas es injustificada.
Insistió el líder parlamentario en que no existen razones para que efectivos del Pentágono permanezcan en Kirguistán.
El parlamento kirguís rescindió el respectivo acuerdo con Estados Unidos y otras once naciones de la llamada coalición antiterrorista. No se justifica que siga funcionando la base de Manas y permanezcan en ella militares extranjeros, reiteró el diputado.
Reiteró Karabékov que no se justifica que siga funcionando la base de Manas y permanezcan en ella militares extranjeros.
Karabékov fue tajante al advertir que todos los acuerdos sellados anteriormente perdieron ya su vigencia.
Con esas palabras el vicepresidente del comité parlamentario explicó la inutilidad de una propuesta del senado estadounidense de destinar 30 millones de dólares al desarrollo de la aeronavegación de Kirguiztán si este país acepta tropas de Washington en Manas.
Recientemente la secretaria de Estado de la potencia del Norte, Hillary Clinton, dijo a la prensa que se sentía confiada en que sea alcanzado un acuerdo.
En nombre de la lucha global contra el terrorismo, Manas fue inaugurada en 2001 de acuerdo con la ONU para apoyar la invasión de fuerzas de la OTAN encabezadas por Estados Unidos contra Afganistán.
Unos mil 200 efectivos estadounidenses y de otros países permanecen en ese enclave militar.
A tenor de una resolución aprobada por el parlamento kirguiz el 19 de febrero, las tropas foráneas tendrán que marcharse de ese cuartel 180 días después de invalidado el acuerdo, o sea en la primera mitad de agosto.
Extraído de Radio Habana Cuba.
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vendredi, 15 mai 2009
La Russie, l'Angleterre et l'Afghanistan
Histoire : la Russie, l’Angleterre et l’Afghanistan
Ex: Bulletin d'avril 2009 de "La Gazette du centre de langue et de culture russes"
A la suite de la progression de la Russie en Asie Centrale dans les années 1860 à 1870 (1), l’Afghanistan est devenu le théâtre d’affrontements entre la Russie et l’Empire britannique ! La deuxième guerre anglo-afghane a commencé en 1878, lorsque l’émir afghan, Cher-Ali, a reçu l’ambassade russe après avoir refusé d’accueillir l’ambassade britannique. L’armée anglaise, bien supérieure à l’armée afghane, lui a infligé une série de défaites. Mais, après avoir quitté les villes de Kaboul et Kandahar, elle est tombée dans des pièges, dans les défilés des montagnes et a été victime de brusques chutes de pierres. Les Britanniques ont subi de lourdes pertes par suite de maladies, malaria et refroidissements, dues aux brutales chutes de températures dans les montagnes. Quant aux Russes, ils « n’ont pas pu » empêcher, en janvier 1880, la « fuite » de Tachkent de l’émir Abdourakhman qui avait été renversé par les Anglais. Sous son commandement, des détachements afghans ont anéanti, en juillet 1880, une brigade britannique près de Maïvand. « Nous avons été confrontés à quelque chose de bien plus grave qu’une explosion de fureur de tribus sauvages déversant leur haine sur notre envoyé, écrivait le journal « The Times ». Manifestement, nous avons affaire à un peuple qui se révolte, irrité par notre présence et enflammé de haine contre tous les Anglais. La conquête d’un pays désertique et peu peuplé, vaut-elle de si gros sacrifices matériels et humains ? » . A la suite de cela, le gouvernement libéral de Gladstone a renoncé à annexer l’Afghanistan aux Indes et n’a gardé que des passages à travers l’Hindu Kouch, ainsi que le contrôle général de la politique extérieure de l’Afghanistan.
Au début de l’année 1919, le fils d’Abdourakhman, qui avait des liens étroits avec Londres, a été tué à la suite d’un coup d’état, et son fils Amanoullah a proclamé l’indépendance de l’Afghanistan. La Russie soviétique, qui soutenait tout mouvement contre les pays de l’Entente, est devenue son allié naturel. L’armée anglo-indienne, soutenue par l’aviation et les voitures blindées, a envahi le pays par le Sud. Cependant, les innovations techniques se sont montrées impuissantes devant les montagnes afghanes et l’absence de routes. On découvrit que les chars blindés étaient facilement transpercés par les balles de vieux fusils. Quant aux avions, ils tombaient, après avoir heurté un sommet, ou abattus par des tirailleurs qui se trouvaient dans les montagnes à la même altitude qu’eux. L’Angleterre a reconnu l’indépendance de l’Afghanistan.
Mais l’affrontement continuait. En 1929, Amanoullah a été renversé grâce au soutien des services secrets britanniques. Le consul général d’Afghanistan, Goulam-Nabi-Khan, a formé avec l’aide de Moscou, un gouvernement en exil à Tachkent et a commencé à recruter des partisans d’Amanoullah. Le 14 avril 1929, des éclaireurs soviétiques ont pris un poste frontière afghan sur l’Amou-Daria. Le 22 avril, un détachement commandé par Vitali Primakov (pseudonyme de Raguib-Bey) a pris la capitale de l’Afghanistan du Nord, Mazari-Charif. Puis, Primakov a déclaré au Quartier d’Asie Centrale que « dès les premiers jours, il a fallu affronter une population hostile de Turkmènes, Tadjiks et Ouzbeks ». Le 30 mai 1929, tout le détachement est retourné sur le territoire soviétique. En octobre, l’insurrection sous le commandement de Nadir Chah, ancien ministre de la guerre d’Amanoullah, a balayé les partisans d’une union, tant avec l’URSS qu’avec l’Angleterre.
Il n’est pas étonnant que le Quartier Général soviétique et son général en chef Nicolas Ogarkov, connaissant les péripéties des invasions précédentes de l’Afghanistan, aient été catégoriquement opposés à la campagne d’Afghanistan de l’année 1979. Le bureau politique ne les a pas écoutés, et 10 ans plus tard, l’armée soviétique a dû se retirer sans gloire de l’Afghanistan toujours insoumis.
T. Aptekar
« Vremia Novosteï », 09 octobre 2001
(1) La conquête, le plus souvent pacifique, de l’Asie Centrale par les Russes a duré de 1854 jusqu’à la fin des années 1880. en 1895, le traité signé entre l’Angleterre et la Russie a défini la frontière russo-afghane.
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vendredi, 08 mai 2009
Guerre liquide: bienvenue au Pipelineistan
Guerre liquide : Bienvenue au Pipelineistan
C’est sur un ton badin et plaisant que Pepe Escobar présente l’épineuse question du pétrole et du gaz liquide aux confins de l’Eurasie, les enjeux russes et chinois, l’appétit bien connu des Etats-Unis, le jeu des influences, les concurrences politiques locales et les risques à tout moment de nouveaux conflits. Il est conseillé au lecteur d’avoir à portée de vue un atlas géographique pour suivre les itinéraires des pipelines traversant un certain nombre de pays dont on ignore parfois l’existence ou tout au moins leur situation.
Polémia
Ce qui se passe sur l’immense champ de bataille pour le contrôle de l’Eurasie permettra de comprendre l’intrigue qui se déroule dans la ruée tumultueuse vers un nouvel ordre mondial polycentrique, connue également sous le nom de « Nouvelle Partie Formidable » [New Great Game]
« Nouvelle Partie Formidable »
Notre bonne vieille amie, l’absurde « guerre mondiale contre la terreur » que le Pentagone a malicieusement rebaptisée « la Longue Guerre », porte en elle une jumelle beaucoup plus importante, même si cette dernière est à moitié cachée – la guerre mondiale pour l’énergie. J’aime la désigner sous le nom de Guerre Liquide, parce que son circuit sanguin est constitué des pipelines qui s’entrecroisent sur les champs de bataille impériaux potentiels de la planète. Pour le dire autrement, si sa lisière essentielle, assaillie ces temps-ci, est le Bassin de la Caspienne, l’ensemble de l’Eurasie est son échiquier. Au plan géographique, pensez-y comme du Pipelineistan.
Tous les junkies géopolitiques ont besoin de leur dose. Moi, depuis la seconde moitié des années 90, c’est aux pipelines que je suis devenu accro. J’ai traversé la Caspienne dans un bateau-cargo azéri juste pour suivre le pipeline Bakou/Tbilissi/Ceyhan à 4 milliards de dollars, mieux connu dans cette partie d’échec sous son acronyme « BTC », qui traverse le Caucase. (Au fait, soit dit en passant, la carte du Pipelineistan est gribouillée de sigles, alors mieux vaut vous y habituer !)
J’ai également sillonné diverses Routes de la Soie modernes qui se chevauchent – ou, peut-être, des Pipelines de la Soie –, de possibles futurs flux d’énergie depuis Shanghai jusqu’à Istanbul, annotant mes propres itinéraires bricolés pour le GNL (gaz naturel liquéfié). J’avais l’habitude de suivre avec ferveur les aventures de ce Roi-Soleil d’Asie Centrale, ce président à vie sans avenir, le Turkmenbachi aujourd’hui décédé, « le dirigeant des Turkmènes », Saparmourat Niazov, à la tête de la République du Turkménistan, immensément riche en gaz, comme s’il avait été un héros à la Conrad.
A Almaty, l’ancienne capitale du Kazakhstan (avant que celle-ci ne soit déplacée à Astana, au milieu de nulle part), les habitants étaient perplexes lorsque j’exprimais l’envie irrésistible de me rendre en voiture dans cette ville pétrolière en plein essor, Aktau. (« Pourquoi ? Il n’y a rien là-bas ».) Entrer dans la salle de commandement, façon Odyssée de l’Espace, du siège moscovite du géant russe de l’énergie Gazprom – qui détaille par affichage numérique le moindre pipeline d’Eurasie – ou au siège de la Compagnie Nationale du Pétrole Iranien à Téhéran, avec ses rangs bien alignés d’expertes en tchador des pieds à la tête, équivalait pour moi à entrer dans la caverne d’Ali Baba. Et ne jamais lire les mots « Afghanistan » et « pétrole » dans la même phrase est toujours pour moi une source d’amusement.
L’année dernière, le pétrole valait l’équivalent d’une rançon de roi. Cette année, il est relativement bon marché. Mais ne vous méprenez pas ! Le prix n’est pas la question ici. Que vous le vouliez ou non, l’énergie est toujours ce sur quoi tout le monde veut mettre la main. Alors, considérez ce reportage comme étant juste le premier épisode d’une très longue histoire de quelques-uns des coups qui ont été portés – ou seront portés – dans cette « Nouvelle Partie Formidable » d’une complexité exaspérante, qui a cours de façon incessante, peu importe quoi d’autre s’immisce cette semaine dans les gros titres.
Oubliez l’obsession des médias du courant dominant avec al-Qaïda, Oussama ben Laden « mort ou vif », les Taliban – néo, modérés ou classiques – ou cette « guerre contre la terreur », quel que soit le nom qu’on lui donne. Ce sont des diversions comparées aux enjeux élevés de cette partie pure et dure de géopolitique qui se déroule le long des pipelines de la planète.
Qui a dit que le Pipelineistan ne pouvait pas être amusant ?
Dr Zbig entre en scène
Dans son œuvre maîtresse de 1997 The Grand Chessboard [Le Grand Echiquier], Zbigniew Brzezinski – extraordinaire praticien de la real-politique et ancien conseiller à la sécurité nationale de Jimmy Carter, le président qui a lancé les Etats-Unis dans ces guerres modernes pour l’énergie – a exposé avec quelques détails juste la façon de s’accrocher à la « suprématie mondiale » américaine. Plus tard, son plan d’ensemble allait dûment être copié par cette bande redoutable de Docteurs No, rassemblés au Project for a New American Century de Bill Kristoll. (Le PNAC, au cas où vous auriez oublié ce sigle depuis que son site internet a fermé et que ses partisans sont tombés)[1].
Pour Dr Zbig, qui, comme moi, se shoote à l’Eurasie – c’est-à-dire, en pensant grand – tout se réduit à encourager l’émergence du bon groupe de « partenaires stratégiquement compatibles » pour Washington, dans les endroits où les flux énergétiques sont les plus forts. Cela, comme il l’a si délicatement formulé à l’époque, devrait être accompli pour façonner « un système de sécurité trans-eurasien plus coopératif ».
A présent, Dr Zbig – dont parmi les fans se trouve évidemment le Président Barack Obama – a dû remarquer que le train eurasien qui devait livrer les biens énergétiques a légèrement déraillé. La partie asiatique de l’Eurasie semble voir les choses différemment.
Crise financière ou non, le pétrole et le gaz naturel sont les clés à long terme du transfert inexorable du pouvoir économique de l’Ouest vers l’Asie. Ceux qui contrôlent le Pipelineistan – et malgré tous les rêves et les projets qui sont faits là-bas, il est improbable que ce sera Washington – auront le dessus sur tout ce qui arrivera et il n’y a pas un terroriste au monde ou même une « longue guerre » qui puisse changer cela.
L’expert en énergie Michael Klare a contribué à identifier les vecteurs clés de la course sauvage qui se déroule actuellement pour prendre le pouvoir sur le Pipelineistan. Ceux-ci vont de la pénurie croissante des ressources énergétiques primaires (et de la difficulté d’y accéder) aux « développements douloureusement lents d’alternatives énergétiques ». Bien qu’on ne l’ait peut-être pas remarqué, les premières escarmouches dans la Guerre Liquide du Pipelineistan ont déjà commencé et, même dans la pire période économique, le risque monte constamment, étant donné la concurrence acharnée que se livrent l’Ouest et l’Asie, tant au Moyen-Orient que sur le théâtre de la Caspienne ou dans les Etats pétroliers d’Afrique, comme l’Angola, le Nigeria et le Soudan.
Dans ces premières escarmouches du 21ème siècle, la Chine a vraiment réagi très rapidement. Avant même les attaques du 11 septembre 2001, les dirigeants chinois ont élaboré une riposte à ce qu’ils voyaient comme une intrusion reptilienne de l’Occident sur les terres pétrolières et gazières d’Asie Centrale, en particulier dans la région de la Mer Caspienne. Pour être précis, en juin 2001, les Chinois se sont joints aux Russes pour former l’Organisation de la Coopération de Shanghai (2). Son sigle, OCS, doit être mémorisé. On n'a pas fini d'en parler.
A l’époque, fait révélateur, les membres juniors de l’OCS étaient les « Stans », ces anciennes républiques de l’URSS riches en pétrole – le Kirghizstan, l’Ouzbékistan, le Kazakhstan et le Tadjikistan – que l’administration Clinton et, après elle, l’administration de George W. Bush, dirigée par d’anciens barons de l’industrie pétrolière, zyeutaient avec convoitise. L’OCS devait être une association de coopération économique et militaire régionale à plusieurs niveaux, laquelle, ainsi que les Chinois et les Russes la voyait, fonctionnerait comme une sorte de couverture de sécurité autour de la bordure septentrionale de l’Afghanistan.
L’Iran est évidemment un nœud énergétique crucial de l’Asie Occidentale et les dirigeants de ce pays, eux non plus, n’allaient pas rester à la traîne dans cette « Nouvelle Partie Formidable ». L’Iran a besoin d’au moins 200 milliards de dollars d’investissements étrangers pour moderniser véritablement ses fabuleuses réserves pétrolières et gazières – et il vend donc beaucoup plus [de pétrole] à l’Occident que ne le permettent actuellement les sanctions imposées par les Etats-Unis.
Il ne faut pas s’étonner que l’Iran soit rapidement devenu la cible de Washington. Il n’est pas étonnant non plus que tous les likoudniks, de même que l’ancien vice-président Dick Cheney (« le pêcheur ») et ses chambellans et compagnons d’armes néoconservateurs, se masturbent à l’idée d’une attaque aérienne contre ce pays. Comme le voient les élites, de Téhéran à Delhi et de Pékin à Moscou, une telle attaque de la part des Etats-Unis, à présent improbable au moins jusqu’en 2012, serait une guerre non seulement contre la Russie et la Chine, mais contre l’ensemble du projet d’intégration asiatique que l’OCS entend représenter.
Le bric-à-brac mondial
Pendant ce temps, alors que l’administration Obama essaye de réparer sa politique iranienne, afghane et centre-asiatique, Pékin continue de rêver d’une version énergétique sûre et coulant à flot depuis l’ancienne Route de la Soie, qui s’étend du Bassin de la Caspienne (les Stans riches en hydrocarbures, plus l’Iran et la Russie) jusqu’à la province du Xinjiang, à l’extrême ouest de la Chine.
Depuis 2001, l’OCS a élargi ses objectifs et ses compétences. Aujourd’hui, l’Iran, l’Inde et le Pakistan bénéficient du « statut d’observateurs » dans une organisation dont l’objectif consiste de plus en plus à contrôler et à protéger non seulement les approvisionnements énergétiques régionaux, mais le Pipelineistan dans toutes les directions. C’est évidemment le rôle que les élites de Washington aimeraient que l’OTAN joue dans toute l’Eurasie. Etant donné que la Russie et la Chine espèrent de leur côté que l’OCS jouera un rôle similaire à travers l’Asie, diverses sortes de confrontations sont inévitables.
Demandez à n’importe quel expert de l’Académie Chinoise de Sciences Sociales à Pékin en rapport avec le sujet et il vous dira que l’OCS devrait être comprise comme une alliance historiquement unique de cinq civilisations non occidentales – russe, chinoise, musulmane, hindou et bouddhiste – et, à cause de cela, capable d’évoluer en un cadre pour un système collectif de sécurité en Eurasie. Il est certain que cette façon de voir mettra mal à l’aise les stratèges globaux classiques de l’establishment à Washington, comme le Dr Zbig et le conseiller à la sécurité nationale du Président George H W Bush, Brent Scowcroft.
Selon le point de vue de Pékin, l’ordre mondial du 21ème siècle en train de s’installer sera significativement déterminé par un quadrilatère de pays, le BRIC – pour ceux d’entre vous qui collectionnez à présent les sigles de la « Nouvelle Partie Formidable », cela veut dire : Brésil, Russie, Inde et Chine –, plus le futur triangle islamique constitué de l’Iran, de l’Arabie Saoudite et de la Turquie. Ajoutez-y une Amérique du Sud unifiée, qui n’est plus sous l’emprise de Washington, et vous aurez une OCS-plus mondiale. En théorie, du moins, c’est un rêve à indice d’octane élevé.
La clé pour que cela se produise est la poursuite de l’entente cordiale sino-russe.
Déjà en 1999, observant l’OTAN et les Etats-Unis qui s’étendaient agressivement dans les lointains Balkans, Pékin a identifié cette nouvelle partie pour ce qu’elle était : une guerre en développement pour l’énergie. Et, en jeu, étaient les réserves de pétrole et de gaz naturel de ce que les Américains allaient bientôt appeler « l’arc d’instabilité », une vaste bande de terre s’étendant de l’Afrique du Nord jusqu’à la frontière chinoise.
Non moins importants allaient être les itinéraires que les pipelines emprunteraient pour acheminer vers l’Ouest l’énergie enfouie dans ces terres. Là où ces pipelines seraient construits et les pays qu’ils traverseraient détermineraient une grande partie du monde à venir. Et c’est là où les bases militaires de l’empire américain (comme le Camp Bondsteel au Kosovo) (3) rencontraient le Pipelineistan (représenté, loin en arrière, en 1999, par le pipeline AMBO).
AMBO, raccourci pour Albanian Macedonian Bulgarian Oil Corporation, une entité enregistrée aux Etats-Unis, construit un pipeline à 1,1 milliard de dollars, alias « le trans-Balkan », qui pourrait être achevé en 2011. Il fera venir le pétrole de la Caspienne vers l’Ouest, sans le faire passer ni par la Russie ni par l’Iran. En tant que pipeline, AMBO s’insère bien dans une stratégie géopolitique consistant à créer un quadrillage de sécurité énergétique contrôlée par les Etats-Unis. Ce quadrillage a d’abord été développé par le secrétaire à l’énergie de Bill Clinton, Bill Richardson, et plus tard par Dick Cheney.
Derrière l’idée de ce « quadrillage » repose le va-tout de la militarisation d’un couloir énergétique qui s’étirerait de la Mer Caspienne en Asie Centrale jusqu’à la Turquie, en passant par une série d’anciennes républiques soviétiques désormais indépendantes, et, de là, rejoindrait les Balkans (puis l’Europe). Ce quadrillage était destinée à saboter les plans énergétiques plus vastes, à la fois de la Russie et de l’Iran. AMBO lui-même acheminerait le pétrole depuis le bassin de la Caspienne vers un terminal situé dans l’ancienne république soviétique de Géorgie dans le Caucase, le transportant ensuite par bateau citerne à travers la Mer Noire jusqu’au port bulgare de Burgas, où un autre pipeline assurerait la connexion jusqu’en Macédoine et ensuite jusqu’au port albanais de Vlora.
Quant au Camp Bondsteel, c’est la base militaire « durable » que Washington a gagnée des guerres pour les restes de la Yougoslavie. Ce serait la plus grande base à l’étranger que les Etats-Unis auraient construite depuis la guerre du Vietnam. La filiale d’Halliburton Kellogg Brown & Root l’aurait montée avec le Corps des Ingénieurs de l’Armée sur 400 hectares de terres agricoles près de la frontière macédonienne au sud du Kosovo.
Pensez-y comme d’une version conviviale cinq étoiles de Guantanamo avec des avantages pour ceux qui y sont stationnés, incluant massage thaïlandais et des tonnes de nourriture industrielle. Bondsteel est l’équivalent dans les Balkans d’un porte-avions géant immobile, capable d’exercer une surveillance non seulement sur les Balkans, mais également sur la Turquie et la région de la Mer Noire (considérée en langage néocon des années Bush comme « la nouvelle interface entre la « communauté euro-atlantique » et le « grand Moyen-Orient »).
Comment la Russie, la Chine et l’Iran ne pouvaient-ils pas interpréter la guerre au Kosovo, puis l’invasion de l’Afghanistan (où Washington avait auparavant essayé de faire équipe avec les Taliban et encouragé la construction d’un autre de ces pipelines qui évitent l’Iran et la Russie), suivie par l’invasion de l’Irak (ce pays aux vastes réserves pétrolières) et, finalement, le conflit récent en Géorgie (cette jonction cruciale pour le transport de l’énergie) comme des guerres directes pour le Pipelineistan ?
Bien que nos médias du courant dominant l’aient rarement imaginé de cette manière, les dirigeants russes et chinois y ont vu une « continuité » saisissante de la politique de l’impérialisme de Bill Clinton s’étendant à la « guerre mondiale contre la terreur » de Bush. Un retour de bâton, comme a prevenu publiquement le président russe d’alors Vladimir Poutine, était inévitable – mais c’est une autre histoire de tapis volant, une autre caverne dans laquelle nous entrerons une autre fois.
Nuit pluvieuse en Géorgie
Si l’on veut comprendre la version washingtonienne du Pipelineistan, on doit commencer avec la Géorgie, où règne la mafia. Bien que son armée ait été ratatinée dans sa récente guerre avec la Russie, la Géorgie reste cruciale pour la politique énergétique de Washington, dans ce qui est désormais devenu un véritable arc d’instabilité – à cause de l’obsession continuelle [des Américains] de couper l’Iran des flux énergétiques.
C’est autour du pipeline BTC (Bakou-Tbilissi-Ceyhan), ainsi que je le faisais remarquer en 2007 dans mon livre Globalistan, que la politique américaine s’est figée. Zbig Brzezinski en personne s’est envolé pour Bakou en 1995, en tant que « conseiller à l’énergie », moins de quatre ans après l’indépendance de l’Azerbaïdjan, pour vendre cette idée aux élites azéries. Le BTC devait partir du terminal de Dangachal, à une demi-heure de Bakou, et traverser la Géorgie voisine jusqu’au terminal naval situé dans le port turc de Ceyhan, sur la Méditerranée.
A présent opérationnel, ce serpent de métal de 1.767 kilomètres de long et de 44 mètres de large passe à proximité de pas moins de six zones de guerre, en cours ou potentielles : Nagorno-Karabakh (une enclave arménienne en Azerbaïdjan), la Tchétchènie et le Daguestan (deux régions russes assiégées), l’Ossétie du Sud et l’Abkhazie (où s’est déroulée en 2008 la guerre entre la Russie et la Géorgie) et le Kurdistan turc.
D’un point de vue purement économique, le BTC n’avait aucun sens. Un pipeline « BTK », partant de Bakou et passant par Téhéran pour rejoindre l’Ile de Kharg en Iran, aurait pu être construit pour, toutes proportions gardées, presque rien – et il aurait eu l’avantage de contourner à la fois la Géorgie corrompue par la mafia et l’Anatolie orientale instable peuplée de Kurdes. Cela aurait été le moyen réellement bon marché d’acheminer vers l’Europe le pétrole et le gaz de la Caspienne.
Cette « Nouvelle Partie Formidable » a fait en sorte que ce ne soit pas le cas et beaucoup de choses ont fait suite à cette décision. Même si Moscou n’a jamais prévu d’occuper la Géorgie à long terme dans sa guerre de 2008 ou de prendre le contrôle du pipeline BTC qui traverse désormais son territoire, l’analyste pétrolier d’Alfa Bank, Konstantin Batounine, a fait remarquer l’évidence : en coupant brièvement le flux pétrolier du BTC, les soldats russes ont fait comprendre très clairement aux investisseurs mondiaux que la Géorgie n’était pas un pays fiable pour le transit énergétique. Autrement dit, les Russes ont tourné en dérision le monde selon Zbig.
Pour sa part, l’Azerbaïdjan représentait jusqu’à récemment la véritable réussite dans la version étasunienne du Pipelineistan. Conseillé par Zbig, Bill Clinton a littéralement « volé » Bakou du « voisinage proche » de la Russie, en encourageant le BTC et les richesses qui en couleraient. Cependant, à présent, avec le message de la guerre russo-géorgienne qui s’est immiscé, Bakou s’autorise à nouveau à se laisser séduire par la Russie. Pour compléter le tableau, le président de l’Azerbaïdjan, Ilham Aliyev, ne peut pas piffer le président bravache de la Géorgie, Mikhaïl Saakachvili. Ce n’est guère surprenant. Après tout, les manœuvres militaires irréfléchies de Saakachvili ont causé à l’Azerbaïdjan la perte d’au moins 500 millions de dollars lorsque le BTC a été fermé durant la guerre.
Le blitzkrieg de séduction russe pour l’énergie est également concentré comme un laser sur l’Asie Centrale. (Nous en parlerons plus en détail dans le prochain épisode du Pipelineistan.) Cette séduction tourne autour de l’offre d’acheter le gaz kazakh, ouzbek et turkmène aux prix européens, au lieu des prix précédents russes beaucoup plus bas. Les Russes, en fait, ont fait la même proposition aux Azéris : donc, à présent, Bakou négocie un accord impliquant plus de capacité pour le pipeline Bakou-Novorossisk, qui se dirige vers les frontières russes de la Mer Noire, tout en envisageant de pomper moins de pétrole pour le BTC.
Obama a besoin de comprendre les graves implications de tout ceci. Moins de pétrole azéri pour le BTC – sa pleine capacité est d’un million de barils par jour, essentiellement acheminés vers l’Europe – signifie que ce pipeline pourrait faire faillite, ce qui est exactement ce que veut la Russie.
En Asie Centrale, quelques-uns des plus gros enjeux tournent autour du champ pétrolier monstre de Kashagan situé dans le « léopard des neiges » d’Asie Centrale, le Kazakhstan, le joyaux absolu de la couronne de la Caspienne, avec des réserves atteignant 9 milliards de barils. Comme d’habitude au Pipelineistan, tout se résume à savoir quels itinéraires livreront le pétrole de Kashagan au monde après le démarrage de la production en 2013. Cela est bien sûr annonciateur de la Guerre Liquide. Le Président Kazakh Nursultan Nazarbayev, rusé comme un renard, aimerait utiliser le Consortium du Pipeline de la Caspienne (CPC) contrôlé par les Russes pour déverser le brut de Kashagan vers la Mer Noire.
Dans ce cas, les Kazakhs détiendraient tous les atouts. La façon dont le pétrole s’écoulera depuis Kashagan décidera de la vie ou de la mort du BTC – autrefois vanté par Washington comme l’échappatoire occidentale ultime de la dépendance sur le pétrole du Golfe Persique.
Alors, bienvenue au Pipelineistan ! Que nous l’aimions ou pas, en période faste comme en période difficile, nous pouvons raisonnablement parier que nous allons tous devenir des touristes de Pipeline. Donc, suivez le flux ! Apprenez les acronymes cruciaux, gardez un œil sur ce qui va arriver à toutes ces bases étasuniennes dans tous les fiefs pétroliers de la planète, observez là où les pipelines seront construits et faîtes de votre mieux pour garder l’œil sur la prochaine série d’accords énergétiques monstres chinois et des coups fabuleux du Russe Gazprom.
Et, pendant que vous y êtes, considérez ceci comme juste la première carte postale envoyée de notre tournée au Pipelineistan. Nous reviendrons (comme disait Terminator). Pensez à cela comme à une porte s’ouvrant sur un futur dans lequel où et vers qui ce qui s’écoulera pourrait s’avérer être la question la plus importante sur la planète.
Pepe Escobar
Asia Time Online,
1/04/09
article original : "Liquid war: Welcome to Pipelineistan"
Traduction : JFG pour Questions critiques
Pepe Escobar est le correspondant itinerant de l’Asia Times Online et analyste pour Real News. Cet article est tiré de son nouveau livre, Obama does Globalistan. Il est également l’auteur de Globalistan: How the Globalized World is Dissolving into Liquid War [Globalistan : Comment le Monde Globalisé se Dissout dans la Guerre Liquide] (Nimble Books, 2007) et de Red Zone Blues: a snapshot of Baghdad during the surge [Le Blues de la Zone Rouge : un instantané de Bagdad durant le Surge - la montée en puissance de l’armée américaine].
Notes :
[1] Voir "PNAC, le programme pour un nouveau siècle américain"
[2]OCS :
http://www.polemia.com/article.php?id=1722
http://www.polemia.com/article.php?id=1267
http://www.polemia.com/article.php?id=951
[3] camp Bondsteel :
http://www.polemia.com/article.php?id=1634
http://www.polemia.com/article.php?id=1747
Pepe Escobar
00:35 Publié dans Economie | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : eurasie, eurasisme, oléoducs, gazoducs, pétrole, gaz, énergie, asie, affaires asiatiques, asie centrale | | del.icio.us | | Digg | Facebook
mardi, 24 mars 2009
The Kalash: The Lost Tribe of Alexander the Great
The Kalash: The Lost Tribe of Alexander the Great
by Aithon
Ex: http://www.creternity.com/
When the great hero and general, Alexander, who was as great as the god Apollo and Zeus, left his troops here, he asked them to stay here in this land without changing their beliefs and traditions, their laws and culture until he returned from the battles in the East. This is a story that is told not in a village in Greece but on the the mountainsides of the great Hindu Kush. In this remote area of the northwestern region of Pakistan lives a peculiar tribe, the Kalash. The Kalash proclaim with pride that they are the direct descendents of Alexander the Great. There are many similarities between them and the Hellenes of Alexander the Greats time. Similarities such as religion, culture, and language reinforce their claims to Hellenic ancestry.
The Kalash are a polytheistic people, meaning that they believe in many gods. The gods that they believe in are the twelve gods of Ancient Greece which makes them the only people who continue this worship! Gods such as Zeus, the god of gods, Apollo, the god of the sun, and Aphrodite, the goddess of beauty, are such gods that they pay homage to. Shrines which are found in every Kalash village remind us of the religious sanctuaries we would stumble across in Ancient Greece. They serve as houses of worship where prayers and sacrifices are offered. Oracles who played a major role in acting as mediators and spokespeople between the gods and the mortals still hold a position of importance in the social structure of the Kalash. Every question or prayer towards the gods is usually followed by a sacrifice of an animal. It is reminiscent of the sacrifices the Hellenes gave to the gods to assure them a victory over the city of Troy.
Religions always possess certain traditions and rituals which are observed by their followers. The Kalash practice a ritual that is celebrated on August 6th. This feast day is named the Day of the Transfiguration. It is the day where the grapes are brought out to the god Dionysus to be blessed and to guarantee them of a plentiful crop. This ritual can be traced back to Ancient Greece where it was practiced by the cult of Dionysus who paid their respect to the god of fertility and wine. An active member of the cult of Dionysus was Olympia, mother of Alexander the Great, who is said to have recruited many of her sons soldiers and who in return practiced it throughout their expedition (Alexandrou, pg. 184).
The Kalash also live a lifestyle that can be positively compared to that of the Ancient Greeks. Let us start with the observation of their homes. The Kalash are the only people in the East who make and use accessories such as chairs and stools that cannot be found anywhere else in the surrounding regions! Their chairs are decorated with drawings such as the rams horns which symbolize the horns that decorated Alexander the Greats helmet. Battle scenes depicting Greek soldiers are also observed. In the recent archaeological discoveries in Vergina, Greek archaeologists found the exact same replicas as the ones the Kalash use in their homes (National Herald, pg. 7).
As we know, Pakistan is a nation ruled by Islamic law. Under the law of the Koran alcohol consumption is prohibited. When we enter the region of the Kalash we encounter fields that are inhabited by grape vines. The Kalash are the only people who produce and consume wine and indulge themselves in feasts such as for the aforementioned feast of Dionysus. Greeks such as Socrates would participate in wine feasts such as we come across in the Symposium. Their feasts are always followed by songs and dances. The Kalash dance in a cyclical motion and the men usually follow it by loud cries of i-a and i-o which can be traced back to the battle cries let loose by Alexanders soldiers. There is a saying held by the Pakistanis who state that only the Greeks and the Kalash whistle in such a way (Alexandrou, pg 87).
In 1896 a British explorer by the name of George Robertson visited the Kalash and did a study on them. He concluded that fifty percent of the Kalashs language derives from Ancient Greek. Such similarities can be found in their gods names. Zeus is called Zeo, Aphrodite is called Frodait, the name Dionysus has kept the same pronounciation. The Kalash have words such as demos meaning city-state and use the word ela as an imperative command meaning come here. There was recently a tablet found in a village of the Kalash whose message was in the form of hieroglyphics. When the code was deciphered the message read, Alexander the Great lives forever (National Herald, pg.8).
In this article we have observed similarities between people of the past, the ancient Greeks and people of the present, the Kalash. Through these similarities the Kalash have justified their claim as descendants of Alexander the Great. Ancient Greece and the tales of Alexander the Great were once believed to exist only in history books. However as the article insists, these great legacies live on with the Kalash of the mountainous Hindu Kush.
BIBLIOGRAPHY:
Alexandrou Dimitris N., "Kalash, The Greeks of the Himalayans", Thessaloniki, Greece, 1997
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samedi, 14 mars 2009
Kirguistan : epicentro de intereses geopoliticos en Asia central
Kirguistán: epicentro de intereses geopolíticos en Asia central
La decisión de Kirguistán de cerrar la base militar de Manas para Estados Unidos y la OTAN en sus operaciones intervencionistas en Afganistán sitúa hoy a ese país en el centro de la geopolítica en Asia central.
El enclave aéreo que ocupa un aérea de 224 hectáreas en las afueras de Bishkek, dejará de ser en los próximos 180 días un puente para el trasiego de tropas del Pentágono y de la coalición occidental que apoya a Washington hacia suelo afgano, de cumplirse una resolución del gobierno kirguiz, aprobada por el parlamento.
La comunidad parlamentaria, con respaldo mayoritario del gobernante partido Ak Zhol del presidente Kurmanbek Bakíev, dio el visto bueno el 19 de febrero a un proyecto del Ejecutivo para anular el pacto bilateral con el gobierno estadounidense, rubricado en diciembre de 2001.
Con igual apoyo el legislativo adoptó el pasado viernes la propuesta oficial para dejar sin efecto legal los respectivos convenios con 11 países de la OTAN.
Tras firmar un pacto base con Estados Unidos, el gobierno kirguiz extendió por separado las prerrogativas para el emplazamiento de tropas de Australia, Dinamarca, España, Corea del Sur, Holanda, Noruega, Nueva Zelanda, Polonia, Francia y Turquía, cuyos gobiernos se sumaron al Pentágono en la cruzada contra Afganistán.
Para dejar claridad en la posición de Kirguistán, Bakíev declaró recientemente a la corporación británica BBC que la decisión de cerrar la base de Manas era irreversible, aunque dio pie a pensar en posibles negociaciones con Washington.
De hecho, varios funcionarios del gobierno estadounidenses mostraron confianza en que hallarán una solución con Bishkek.
Tanto es así que el vocero del Pentágono Geoff Morrell declaró que aún quedaba mucho tiempo para cerrar Manas o encontrar una base sustituta. Con formulaciones repetidas, Morrell también admitió que la Casa Blanca estudiaba otras variantes de rutas para el traslado de tropas y avituallamiento logístico.
Al parecer la administración norteamericana no quiere admitir públicamente el revés implícito en la pérdida de Manas para los intereses geopolíticos y militares del Pentágono en Asia central. La embajadora de la norteña nación en Tayikistán, Treisi Enn Jackobson, se apresuró a aclarar que no existen planes en la cúpula castrense de abrir otra base militar en la región.
No he oído una sola palabra de quienes trabajan en el Pentágono sobre las intensiones de crear en Asia central otro enclave alternativo, dijo al periódico tayiko Acontecimientos.
Sí se conoce que desde fines del pasado año la diplomacia norteamericana trabaja con intensidad para sellar acuerdos con Rusia, Uzbekistán, Tayikistán y Kazajstán para la transportación de cargamentos civiles hacia Afganistán, según la publicación digital uzbeka Fergana.ru.
El jefe del Estado Mayor ruso, Nikolai Makarov, aseveró en diciembre que el gobierno saliente de George W. Bush se estaba jugando las últimas cartas en Asia central con sus presiones sobre Tashkent y Astaná, para garantizar las rutas de suministro a las fuerzas de ocupación.
Según notificó el cotidiano ruso Kommersant a mediados de diciembre, las pláticas de misioneros estadounidenses en Asia central corroboran que existen tales planes. Dos meses después el parlamento kazajo aprobó un memorando que permite el acceso al aeropuerto de Almaty para el aterrizaje de emergencia de aviones del Pentágono.
El director del centro analítico sobre estudios de procesos en el espacio postsoviético de la Universidad Estatal Lomonosov, de Moscú, Alexei Vlasov, sostuvo durante una mesa redonda que la crisis económica actual ha puesto a los socios de Rusia en esa región al borde de la cesación de pagos (default).
Para Kirguistán, uno de los aliados claves de Moscú en Asia central, la situación es hoy bastante crítica y no se descartan presiones de todo tipo sobre Bishkek, afirma el politólogo ruso, en alusión a decisiones de carácter geopolítico.
Vlasov aludió que no son pocos los analistas que asocian la postura del gobierno kirguiz respecto a la clausura de Manas con el ofrecimiento de un crédito ruso de 300 millones de dólares y posibles inversiones en ese país calculadas en mil 700 millones de dólares.
Unido a ello, el presidente Bakíev firmó en febrero un convenio con Moscú sobre la concesión de 150 millones de dólares en calidad de donativos y un esquema concertado de reestructuración de la deuda con Rusia.
Con todo ello Kirguistán es pieza clave dentro del tablero geopolítico centro- asiático de Estados Unidos, cuya prioridad sigue siendo obtener el control de los recursos naturales, con el ojo en los hidrocarburos en el Mar Caspio, del antiguo camino de la seda.
Odalys Buscarón Ochoa
Extraído de Prensa Latina.
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jeudi, 26 février 2009
Indogermanische Stämme in Afghanistan
Indogermanische Stämme in Afghanistan
Zwischen den beiden indoiranischen Hauptgruppen, den Indern und den Persern, vermitteln nach ihren Siedlungsgebieten heute zwei Völker indogermanischer Sprache, die Belutschen und die Afghanen, die Belutschen unter britisch-indischer Herrschaft, die Afghanen als Herren eines eigenen Staatswesens.
In Belutschistan findet sich kaum noch eine Spur desjenigen nordischen Einschlags, den man bei den Überbringern der Sprache wie bei allen Indogermanen annehmen muß. Diese Sprache, das Belutschi, ist eine westiranische Mundart und soll in manchen Zügen altertümliche Eigenheiten bewahrt haben. Mitten in Belutschistan wird aber auch noch eine Drawidasprache gesprochen, das Brahui, und eben bei dem Brahuistamme ist auch ein deutlicher negrider Einschlag vom Schlage der Indo-Melaniden zu erkennen. Die Belutschen und die Brahui heiraten einander häufig, so daß die Kreuzung dieser beiden Menschenschläge schon weit vorgeschritten ist.
Am meisten verbreitet unter den Belutschen und in den angrenzenden indischen Gebieten ist ein rassegemischter Schlag, den Rapson geschildert hat: über mittelgroß, von verhältnismäßig heller Hautfarbe, breitköpfig, mit einer langen, ausgebogenen und ziemlich schmalen Nase, mit meist dunklen, selten grauen Augen, mit starker Körperbehaarung. Nach Schindler kommt unter den Belutschen auf etwa 200 Menschen ein Blonder. Nach dem Dictionaire des Sciences Anthropologiques, S. 135, finden sich unter den Belutschen vereinzelt Hellhäutige, Hellhaarige, Grauäuggige und Blauäugige.
Somit ist auch bei diesen Indogermanen der nordische Einschlag noch nicht ganz geschwunden, obschon gerade das Klima Belutschistans der Erhaltung nordischer Erbanlagen durchaus ungünstig ist.
Die Afghanen oder Paschtun sprechen eine indoiranische Sprache, die zu den ostiranischen Mundarten gehört. Ihre Sprache Paschtu (englisch Pushtu) genannt, ist nicht vom Altpersischen abzuleiten, stellt vielmehr eine selbständige Fortbildung des Altiranischen dar. Sie ist durch ein eigenes Schrifttum seit dem 16. Jahrhundert bekannt und wird heute von etwa 1,5 Millionen Menschen gesprochen.
Die Afghanen bilden als Ostiraner diejenige iranische Gruppe, die ursprünglich den Indern am nächsten stand. Die frühere Geschichte der Afghanen ist kaum noch erhellt. Unter den Eigennamen früherer Afghanengeschlechter finden sich solche hinduisch-indischer, solche iranischer und parthisch-iranischer Herkunft, so daß man im Afghanentum auch schon einzelne Bestandteile altiranischer und altindischer Herkunft vermutet hat.
Im 11. Jahrhundert scheinen die Afghanen noch im Suleimangebirge westlich vom mittleren Indus gewohnt zu haben, von wo aus sie dann in nördlicher und westlicher Richtung in das heutige Afghanistan einwanderten. Damit ließen sich die Schilderungen vereinen, welche die Ähnlichkeit vieler Afghanen mit Pandschabindern hervorheben.
In dem Dictionaire des Sciences Anthropologiques sind die leiblichen Merkmale der Afghanen (unter “Asie”, S. 135) nach Reane angegeben: der Längen-Breiten-Index des Kopfes beträgt 79, das Gesicht ist durchschnittlich schmal, das Haar und die Augen sind meist dunkel; doch sind helle Haare und Augen unter den Afghanen nicht selten und kommen häufiger besonders unter den Gebirgsstämmen im Suleimangebirge vor. Es wäre also möglich, daß ein heller Einschlag sich in den gebirgigen Ursitzen des Volkes deutlicher erhalten hätte.
Zu den Afghanen gehören die Afridi, die auf britisch-indischem Gebiet zwischen Afghanistan und Nordwestindien wohnen, in den abgelegenen Gebirgstälern westlich und südwestlich von Petschaur (Peshwar) in der Nähe des Khaiberpasses. Bis 1879 haben sie als ein kriegerischer und seinen Nachbarn gefährlicher Stamm den Khaiber- und den Kohatpaß beherrscht. Die Afridi halten sich nicht für Afghanen oder wollen nicht dafür gehalten werden.
Die Afghanenstämme bestehen aus kriegerischen Hirten, geübten Reitern, die als Herrenbevölkerung die übrige Bevölkerung Afghanistans beherrschen. Trotz dem herrschendem Islam ist die Stellung der afghanischen Frau - eine Nachwirkung indogermanischer Sitte - freier als bei den Nachbarvölkern. Unter der afghanischen Herrenschicht, die nur etwa die Hälfte der Bevölkerung ausmacht, sitzen als Ackerbauern, Handwerker, und Kaufleute Tadschiken, die ebenfalls iranische Mundarten sprechen, und deren rassische Eigenart später zu behandeln sein wird. Daneben leben als Wanderhirten in Afghanistan einige türkische Stämme wie die Turkmenen und Kyzylbasch. Ihrem Glauben nach sind die Afghanen Moslem, und zwar sunnitische; zwischen sunnitischen Afghanen und schiitischen Persern besteht ein überlieferter Glaubenshaß.
Die Afghanen werden als ritterlich und gastfrei geschildert, als kühn und tapfer; ihre Neigung zu Mißtrauen, häufig bei Vorschützen einer gewissen Offenherzigkeit, wird betont, ebenso ihre Habsucht.
Elphistone (Englische Gesandtschaft am Hofe von Kabul, 1808) führt als Vorzüge der Afghanen an: Freiheitsliebe, Offenheit, Männlichkeit, Tapferkeit, Mäßigkeit, Fleiß, verständiges Wesen und Güte gegen Untergebene; in ihrem Auftreten seien die Afghanen lange nicht so lebhaft wie die Perser. Als Mängel der Afghanen vermerkt er: Rachsucht, Neid, Geiz, Raubsucht und Hartnäckigkeit. Mit einer Zusammensetzung des Afghanentums aus orientalischer, vorderasiatischer und nordischer Rasse, einer Zusammensetzung, wie sie die verschiedenen rassekundlichen Zeugnisse vermuten lassen, würde sich im ganzen gerade das Bild seelischer Züge vereinen lassen, das sich aus Elphistones Bericht ergibt.
Über leibliche Merkmale vermerkt Elphinstone, daß Kopf- und Barthaare der Afghanen meist schwarz seien, bisweilen braun, selten rot; Hellhäutige von der Helligkeit der Europäer finde man häufiger im Westen, Dunkle von der Dunkelhäutigkeit der Hindus mehr im Osten; und eben im Westen träten die oben geschilderten Vorzüge der Afghanen besonders hervor, diese “Vorzüge”, die sich ja, wenigstens zum Teil, durch Züge der nordischen Rassenseele erklären lassen. “Ich kenne kein Volk in Asien, das weniger Fehler hat” urteilt Lord Elphinstone (nach seinen abendländischen Sittlichkeitsbegriffen) und setzt hinzu, daß dies besonders für die helleren Afghanen im Westen zutreffe.
Prichard, Naturgeschichte des Menschengeschlechtes, Bd. III, 2, 1845, S89/90, führt einen Bericht Frasers an über dessen Forschungsreise in die Gebirgsländer am Mittellauf des Satledsch (englisch Sutlej), der in den Indus mündet. Dabei wurde Fraser von 80 bis 100 Afghanen (Pathans) begleitet, deren Anblick er beschreibt: “Sie sahen sehr kriegerisch aus und achtungsgebietend. Viele von ihnen hatten rotes Haar, blaue Augen und eine rosighelle Hautfarbe.”
Bei den östlichen Afghanen, die am Fuße des Suleimangebirges im Bezirke Bannu, wo der Kurum in den Indus mündet, ansässig sind, d. h. also auf britisch-indischem Gebiete, gelten helle Augen als häßlich. Wer häßlich sein soll, dem gibt Gott grüne Augen”, heißt es dort im Sprichwort. Graugrünliche Augen sollen aber unter diesen Afghanen nicht selten sein. (Gerland, Bannu und die Afghanen, Globus, Bd. 31, 1877 S. 332).
Siedl, Unsere Feinde, 1916, S. 32, schildert Afghanen, die im Weltkriege in deutsche Gefangenschaft geraten waren, also wahrscheinlich ausgelesen kriegerische Vertreter ihres Volkes. Er hebt ihren offenen, treuen Augenausdruck hervor und findet, daß die meisten “ebensogut auf einem Bauernhofe Norddeutschlands geboren sein könnten wie in der Hütten ihrer Hochgebirgsheimat”.
In der norwegischen Zeitung Tidens Tegn vom 9. Mai 1925 hat der norwegische Sprachforscher Morgenstierne seine Eindrücke aus Afghanistan mitgeteilt (Folk og Sprog i Afghanistan): “Oft findet man blonde nordische Gestalten; sie sitzen im Gegensatz zu anderen Morgenländern auf Stühlen.” - Die Sitte des Sitzens an Stelle eines Sichlagerns oder Niederkauerns is ja nach Südeuropa und Vorderasien durch Indogermanen verbreitet worden; das Liegen beim Mahle der Hellenen und Römern ist von diesen erst später als eine Sitte der indogermanisierten Unterschichten und des Morgenlandes übernommen worden; vgl. Malachowski, Über das Sitzen bei den alten Völkern, Zeitschrift für Ethnologie, Bd. 51, 1919, S. 22/23.
Herbordt, Eine Reise nach “Där-i-Nur” im Nordosten Afghanistans, Petermanns Mitteilungen, Bd. 72, 1926, S. 207, beschreibt die Bewohner eines Afghanendorfes Sarrur in Nuristan, Nordwestafghanistan, 2500 m über dem Meere, als meist rotblonde, große Menschen mit weißlicher Haut”.
Dieser “europäische” Einschlag im Afghanentum wird auch von Afghanen selbst empfunden, wenn sie sich mit Europäern zusammen Turkbevölkerungen Innerasiens gegenübersehen. Im Pamir sagte ein Afghane zu dem französischen Forschungsreisenden Capus: “Salam aleikum brader” (brader = Bruder), als sie einander unter Kirgisen begegneten. Capus schildert die Würde und geistige Überlegenheit dieses Afghanen, demgegenüber er gleich empfunden habe: “Das ist der Europäer” (C’est l’Europeen); vgl. Zaborowski, Les Peuples Aryens d’Asie et d’Europe, 1908, S 81).
Die Afghanen haben den indogermanischen Geschlechterstaat, den über Großfamilien, Geschlechtern und Geschlechterverbänden aufgebauten Staat, in wesentlichen Grundzügen bewahrt, den “Staat”, wenn man dies so nennen darf, aus der Zeit der indogermanischen Wanderungen, wie ihn ein frühes Inder- und Persertum, frühes hellenen- und Italikertum, Kelten und Germanentum zeigen, wie ihn Homer oder die “Germania” des Tacitus erkennen lassen. Die Bewahrung der Stämme als Geschlechterverbände indogermanischer Art hat in der Geschichte des Afghanentums viel Blut, und zwar gerade altiranisch-afghanisches Blut gekostet, weil diese Geschlechterverbände untereinander diejenigen Fehden führten, die für die Frühzeiten und Mittelalter aller Völker indogermanischer Sprache kennzeichnend sind. Bis ins 19. Jahrhundert hinein sind diese Fehden der afghanischen Geschlechter sehr blutig verlaufen. Diese Unabhängigkeit der einzelstämme bildete aber - ebenfalls kennzeichnend frühgeschichtlich-indogermanischer Weise - den Stolz des älteren Afghanentums. Elphinstone, der Afghanen über diese Fehden und das Fehlen einer Übergeordneten Königsmacht befrug, erhielt zur Antwort: “Wir sind zufrieden mit Zwietracht, Blut und Unruhe; aber niemals mit einem Oberherren.” So hätten im fränkischen Frankreich des frühen Mittelalters noch die Barone germanischer Herkunft antworten können.
Die Afghanen würden ein Beispiel einer solchen indogermanischen Herrenschicht abgeben, wie man sich zu Jakob Grimms Zeiten und wie einige sich heute wieder die Indogermanen vorstellen möchten: nämlich als Hirtenkrieger, die sich zu Herren von hackbau- oder ackerbautreibenden Bevölkerungen aufwerfen und bei mittelalterlichen Zuständen für das so aus Rassenüberschichtung entstandene Volk einen Schwertadel, ein “Nur-Kriegertum, bilden, jedenfalls aber eine im Boden nicht verwurzelte, freizügige Oberschicht unruhig herrentümlichen Wesens - die Afghanen würden ein solches Beispiel abgeben, wenn ihr Hirten-Kriegertum etwas ursprüngliches wäre. Dieses Hirtenkriegertum - wenn man die Eigenart des afghanischen Herrenstandes überhaupt so richtig bezeichnet - kann aber nicht ursprünglich sein, da gerade auch die iranische Gruppe der Indogermanen in ihren Anfängen die kennzeichnenden Züge indogermanischen Bauernkriegertums zeigt, wie es besonders erhaben sich im persischen Mazdaismus ausgedrückt hat. Die Lockerung des Afghanentums zu einem dem Boden nicht mehr verbundenen Herrenstande muß in besonderen Verhältnissen des afghanischen Wohngebietes und der Geschichte der afghanischen Stämme gesucht werden. Leider hat sich diese Geschichte bisher nicht mehr als nur dürftig erhellen lassen.
Sind die Ursitze der Afghanenstämme wirklich im Suleimangebirge zu suchen, so ließe sich diese Entbäuerlichung der Afghanen wohl erklären: dieses Gebirge besitzt nur in seinen Tälern einige fruchtbare Anbaugebiete.
* * *
[Gereuth, September 1933]
Hans Friedrich Karl Günther
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vendredi, 20 février 2009
Lev Nikolaevic Gumilëv
Martino Conserva / Vadim Levant, Lev Nikolaevic Gumilëv, pp. 83.
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Quarto titolo della collana “Quaderni di Geopolitica”, quest’opera differisce dalle precedenti perché non è la pubblicazione commentata d’un testo inedito, bensì una biografia. Anche la scelta del soggetto, a prima vista, potrebbe apparire insolita per l’argomento della collana; ma ciò, appunto, solo a prima vista, a quanti volessero ridurre la geopolitica ad una pura analisi contingente dei rapporti internazionali. Tale, evidentemente, non è l’opinione degli Autori: Vadim Levant e Martino Conserva. Quest’ultimo è un economista milanese, già specialista d’analisi di rischio paese e dei mercati finanziari internazionali presso una delle maggiori banche italiane, ancora oggi collaboratore di riviste finanziarie, ma appassionato di arte, filosofia e storia. Egli risiede, con la famiglia, a San Pietroburgo, dove, quando ancora si chiamava Leningrado, Vadim Ridovic Levant ha condotto i suoi studi storici. Per una curiosa inversione di tendenze, se l’economista Conserva ha finito con lo scrivere di storia e filosofia, lo storico Levant è oggi dirigente d’una società russo-cinese! Dicevamo, dunque, che i due Autori non hanno questa visione riduttiva della geopolitica, ma la estendono anche all’indagine storica della vicenda umana relazionata all’ambiente. Tale è senz’altro il caso di Lev Nikolaevic Gumilëv, celeberrimo storico, filosofo e geografo russo. Una piccola parte della propria notorietà, egli la dovette all’uomo e alla donna che lo generarono nel 1912, i poeti Nikolaj Stepanovic Gumilëv e Anna Andreevna Achmatova. Purtroppo per lui, in vita questi nobili natali finirono col perseguitarlo: dalla fucilazione del padre nel 1921, il nuovo corso bolscevico fu per il giovane Gumilëv un vero e proprio incubo. Dal 1935 iniziò a fare avanti e indietro dalle carceri ai lavori forzati (in totale, tra prigionia, campi di lavoro e confino, 13 anni di segregazione), sempre per delazioni che il più delle volte la stessa giustizia sovietica avrebbe poi riconosciute come infondate. Ma, riabilitazione o no, resta il fatto che il pur geniale Gumilëv riuscì a laurearsi solo a 36 anni, non ottenne mai la carica di professore universitario e poté tenere i propri corsi di “studio dei popoli” solo in maniera informale, semiclandestina. Fondatore della scuola etnologica russa, elaboratore di teorie originalissime, Lev Nikolaevic rimase sempre un intellettuale isolato perché troppo indipendente, spesso e volentieri attaccato dalla intelligencija ufficiale. Basti per tutti l’aneddoto, nello stesso tempo divertente e tragico, riportato da Levant e Conserva. Nel 1974 Gumilëv, che già s’era imposto all’attenzione per diverse pubblicazioni, decise di conseguire il dottorato in geografia, siccome, essendo nell’organico di quella facoltà ma laureato in storia, rischiava d’esserne espulso col pretesto che non era “specialista”. La sua dissertazione di dottorato, L’etnogenesi e la biosfera della terra (fulcro dell’omonimo capolavoro che avrebbe pubblicato in seguito), fu riconosciuta dagli stessi esaminatori come un’opera d’altissimo profilo, ma, proprio per questo, ritenuta «superiore al livello di una elaborazione di dottorato e, pertanto, non una tesi di dottorato»; come dire: bocciato perché troppo bravo! Eppure lo studioso, che nel frattempo cominciava già a mietere riconoscimenti all’estero, rifiutò sempre di fuggire e di lasciare il paese che, nonostante tutti i torti e i soprusi arbitrariamente inflittigli, amava intensamente. Tanto più dolorosa dovette apparirgli, allora, la campagna denigratoria condotta negli anni ‘80 contro di lui da sedicenti “patrioti”, in realtà vetero-nazionalisti con sfumature xenofobe, che l’accusavano d’essere un nemico della Russia. Nel frattempo, proseguiva contro di lui l’ostracismo degli accademici, e nel 1981 gli fu anzi vietato di pubblicare alcunché. Gumilëv accolse con scetticismo anche la perestrojka, e fu proprio Juri Afanas’ev, uno dei suoi teorici, a condurre l’ultimo grande attacco contro il pensiero dello storico e geografo. Lev Nikolaevic giunse vecchio e malato alla caduta della “cortina di ferro”: innumerevoli inviti gli giungevano dall’estero, ma le sue condizioni di salute, e non più il regime, gl’impedivano ora di muoversi. Per lo meno, dal 1992 la Russia cominciò a tributare a Gumilëv i sacrosanti onori che meritava: successi editoriali per i suoi libri, inviti a dibattiti televisivi e radiofonici, lezioni pubbliche delle sue teorie. Ma l’anziano studioso, amareggiato dal tragico crollo di quella patria che, come Socrate, aveva amata benché gli fosse stata carnefice, riuscì solo ad assaggiare la tanto sospirata popolarità, perché proprio nel 1992 terminò la sua esistenza terrena. I concittadini pietroburghesi parteciparono commossi e in massa ai funerali, accompagnando la bara fino alla tumulazione nel Monastero Aleksandr Nevskij, dove riposa anche il celebre eroe eponimo. In Italia una sola opera di Gumilëv è stata finora pubblicata: Gli Unni, dalla Einaudi nel 1972. L’aspetto del suo pensiero che interessa più gli Autori, e che viene analizzato nella seconda parte dell’opera, è invece la teoria dell’etnogenesi. In estrema sintesi (chi leggerà l’opera potrà avere maggiori e più esatti particolari), Gumilëv vedeva i popoli come organismi collettivi viventi, i quali attraversano diverse fasi di crescita e caduta, regolate dall’elemento della passionarietà (ch’è sentimento sia individuale sia collettivo), ossia «l‘aspirazione ad agire, senza alcuno scopo evidente, o in base a scopi illusori», incontrollabile e inevitabile. Non poteva mancare, inoltre, un capitolo su Gumilëv e la geopolitica. A differenza degli studiosi già presi in esame dai “Quaderni di Geopolitica” (Haushofer e Von Leers), Gumilëv si guardò sempre bene dall’elaborare tesi propriamente geopolitiche (un po’ perché non gli interessava, un po’ perché aveva già problemi a sufficienza con le autorità sovietiche). Tuttavia, i suoi studi sono stati fondamentali per la nascita della contemporanea scuola geopolitica russa. Innanzitutto, Gumilëv con le sue opere ha rivalutato senza mezzi termini i popoli orientali e il loro apporto alla nascita della Russia: non a caso l’Università Nazionale Eurasiatica di Astana (capitale del Kazakistan) è stata intitolata proprio a lui. Ne consegue, inoltre, ch’egli ha svuotato il patriottismo russo delle possibilità d’una deriva xenofoba e piccolo-nazionalistica, riconoscendo il carattere multietnico e le molteplici radici culturali della Russia - o, per altri versi, l’unità indissolubile dell’Eurasia, quell’Eurasia che era già da decenni al centro dell’elaborazione geopolitica anglosassone e che ora, finalmente, veniva riconosciuta nella sua unità d’insieme anche a Mosca. Notano gli Autori come la concezione gumilëviana dell’Eurasia quale unione tra “Foresta” (gli Slavi) e “Steppa” (i nomadi turanici) ricalchi esattamente il tema di Halford Mackinder della Russia quale grande nemica degli Anglosassoni, in quanto riunificatrice delle forze del “Cuore della Terra” (Heartland). Lev Nikolaevic fu anche definito “l’ultimo eurasiatista”, ed egli accettò di buon grado questo titolo. Ci piace allora concludere con una frase dello stesso Gumilëv (non prima di segnalare che l’opera comprende anche un Glossario dei concetti e dei termini e una Bibliografia scientifica, un esplicito invito all‘approfondimento rivolto al lettore): «Tesi eurasiatista: occorre cercare non tanto nemici - ce ne sono tanti! - quanto amici, questo è il supremo valore nella vita». Un insegnamento di Gumilëv che meriterebbe davvero d’essere appreso e fatto proprio da tutti. Daniele Scalea ("Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici", 1/2006) |
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samedi, 14 février 2009
USA-Russie: la guerre des bases
USA-RUSSIE : La guerre des bases…
SOURCE : THEATRUM BELLI
Russes et Américains se livrent en ce moment à un gigantesque Monopoly stratégique en Asie centrale. A la clé, le contrôle de bases militaires.
« En Asie centrale, j’achète Manas… ». L’acheteur est russe, le vendeur kirghize et le perdant américain. « Dans les ex-territoires géorgiens, j’achète Otchamtchira… ». L’acheteur est russe, le vendeur abkhaze et le perdant géorgien.
Une gigantesque partie de Monopoly est en cours en Asie centrale, avec les Russes dans le rôle de l’investisseur acharné et les Américains dans celui du propriétaire qui voit ses biens lui échapper.
Le dernier revers américain a eu lieu en Kirghizstan. Les autorités de Bichkek ont définitivement décidé de fermer la base américaine de Manas après avoir reçu de Moscou un chèque de 450 millions de dollars et une annulation de dette de 180 millions de dollars.
Manas, créée en 2001, sert de plate-forme logistique aux troupes de la coalition internationale déployée en Afghanistan. 1 200 soldats US y sont basés, ainsi que des avions de transport et de ravitaillement en vol. La décision kirghize est jugée « regrettable » à Washington où le Pentagone étudie, de toute urgence, une solution tadjike. Le Tadjikistan serait, en effet, prêt à autoriser le transit vers l’Afghanistan de marchandises destinées à la coalition internationale, à l’exception des fournitures militaires.
La « guerre des bases » affecte aussi les territoires géorgiens. Les Russes vont ouvrir une base navale en Abkhazie, à un jet de grenade de la Géorgie. Ils projettent aussi d’en créer d’autres en Syrie, en Libye ou au Vietnam.
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samedi, 07 février 2009
Sur le "Grand Jeu" - Enjeux géopolitiques de l'Asie centrale
Le Grand Jeu
XIXe siècle, les enjeux géopolitiques
de l'Asie centrale
Ce que l'on appelle le Grand Jeu a opposé, au XIXe siècle, les intérêts géopolitiques russes et anglais, notamment en Asie centrale, et est considéré comme un épisode majeur des relations internationales de cette époque.
Pratiquement inconnu en France, à l'exception de quelques spécialistes, le Grand Jeu s'avère pourtant fondateur et son impact sur les représentations politiques dans les élites russes, britanniques, américaines, mais aussi indiennes et chinoises ne doit pas être sous-estimé. Mais ce que les Anglo-Saxons ont baptisé le "Grand Jeu" et les Russes le "Tournoi des ombres", c'est aussi une incroyable épopée, presque romanesque, qui a fait émerger une galerie de portraits d'aventuriers, d'explorateurs, de militaires et d'espions qui ont inspiré la littérature comme le cinéma.
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mardi, 27 janvier 2009
Les Hunza, peuple montagnard sur la Route de la Soie
Archives de SYNERGIES EUROPÉENNES - ORIENTATIONS (Bruxelles) - Juillet 1988
Les "Hunza", peuple montagnard sur la route de la soie
Recension: Hilde u. Willi SENFT, Hunza. Bergvolk an der Seidenstrasse, Leopold Stocker Verlag, Graz/ Stuttgart, 1986, 236 S., DM 45.
Couple de reporters et d'excellents photographes, Hilde et Willi Senft parcourent la Haute-Asie depuis quelques années et s'intéressent à la vie des peuples du "toit du monde". Les Hunza ont particulièrement attiré leur attention car ils sont installés au point d'intersection de l'Islam et du bouddhisme tibétain et se souviennent de la religion des anciens Perses. Ainsi, le livre des deux explorateurs allemands dévoile pour la première fois en Occident les aspects du chamanisme hunza. Le reportage s'est également déroulé au Baltistan et au Chitral où vit un autre peuple: les Kalash, qui se sont toujours soustraits à l'Islam et que les Musulmans appellent les "Kafirs" (= infidèles). De complexion claire et de souche indo-européenne, les Kalash, affirme-t-on, descendraient des soldats d'Alexandre le Grand en marche vers l'Indus. L'ethnologie retient l'hypothèse et les historiens pensent que les Kalash sont des réfugiés gréco-bactriens ou gréco-indiens qui ont fui dans les hautes montagnes après l'aventure d'Alexandre. Une récit d'exploration passionnant qui en complète d'autres, notamment celle du Français Jean-Michel Guillard (cf. Seul chez les Kalash, Carrefour des Lettres, Paris, 1974).
(Robert STEUCKERS).
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samedi, 10 janvier 2009
La Shanghai Cooperation Organization ed il nuovo "Grande Gioco"
La Shanghai Cooperation Organization ed il nuovo «Grande Gioco» |
http://www.eurasia-rivista.org |
di Andrei Areshev* |
00:45 Publié dans Géopolitique | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : eurasie, eurasisme, géopolitique, stratégie, russie, chine, asie centrale | | del.icio.us | | Digg | Facebook