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lundi, 25 octobre 2010

Swami Vivekananda e il suo tempo, tra modernità e tradizione

Swami Vivekananda e il suo tempo, tra modernità e tradizione

Elena BORGHI

Ex: http://www.eurasia-rivista.org/

Swami Vivekananda e il suo tempo, tra modernità e tradizione

Il quadro storico

Il periodo storico in cui visse ed operò Swami Vivekananda, la seconda metà dell’Ottocento, fu per l’India un momento particolarmente intenso.

Sul piano politico, caratterizzò questi anni il passaggio del governo dell’India dalla Compagnia delle Indie Orientali alla Corona inglese, che assunse il controllo diretto del Paese nel 1858, a seguito del Mutiny. Considerato da alcuni il primo scoppio del fervore nazionalista ed indipendentista, questo evento ebbe come principali conseguenze un’ondata terribile di violenze e la deriva ancor più autoritaria del governo inglese in India. Certamente, la rivolta fu indicativa del carattere predatorio della Compagnia e del livello di esasperazione da essa indotto nella popolazione, che cominciava a mal sopportare il peso del dominio inglese. Se, infatti, il regime coloniale trasformava gradualmente l’India in una nazione moderna – introducendo infrastrutture, reti di comunicazione, organizzazione della burocrazia e della società civile – d’altro canto il Paese pagava un prezzo altissimo in termini economici, sociali e politici.

Sul piano economico, l’India subì in questo periodo la devastazione causata dai legami sproporzionati tra centro e periferia dell’impero, che distrussero la preesistente economia, anche se, per quanto sfrenato, lo sfruttamento economico dell’India garantiva alla Gran Bretagna guadagni complessivamente piuttosto limitati. L’apporto fondamentale della colonia, infatti, rimase sempre la sua funzione di bacino potenzialmente inesauribile di reclutamento di uomini per l’esercito inglese in India, per l’apparato burocratico coloniale e per l’indentured labour, il sistema di “lavoro a contratto” che sostituì gli schiavi africani con migliaia di contadini e braccianti indiani, trasferiti nelle piantagioni e nelle miniere dei luoghi più disparati, legati a contratti che mascheravano uno stato di effettiva schiavitù.

Questi erano tra gli aspetti che, naturalmente, contribuivano a disintegrare il tessuto sociale indiano; vi si aggiungeva il portato del bagaglio ideologico introdotto dal regime coloniale, che cooperò enormemente alla cristallizzazione delle differenze castali e religiose e, dunque, alla frammentazione della società indiana in una miriade di blocchi contrapposti ed ostili, chiusi a livello endogamico, regolati da criteri gerarchici e definiti su basi di purezza razziale e rituale.


I movimenti di riforma

Di pari passo con il potere coloniale, cresceva lo scontento ed il senso di inadeguatezza di alcune categorie, perlopiù intellettuali di classe media ed estrazione urbana, figli di un’educazione di stampo occidentale, dalla cui iniziativa scaturì quel processo di rinnovamento sociale e culturale – nonché di ridefinizione identitaria, presa di coscienza nazionale e critica del regime coloniale – che investì l’India nel periodo in esame.

Si trattò di un periodo di fermento culturale e di tentativi di riforma sociale e religiosa, volti a ripensare le pratiche considerate più aberranti della tradizione hindu (come la sati, l’immolazione delle vedove sulla pira del marito, o il matrimonio infantile), a diffondere un’istruzione di tipo moderno, a ridiscutere la condizione femminile. Motore e scopo ultimo di questi movimenti era l’acquisizione di strumenti atti ad affrontare «l’esibita superiorità dell’Occidente cristiano nei confronti della cultura e delle religioni indiane»1, come dimostrarono, in particolare, le misure a favore dell’istruzione femminile. Auspicate dai riformatori per motivi che poco avevano a che fare con il reale desiderio di apportare miglioramenti alla generale condizione delle donne, queste misure si rivelarono, in realtà, necessarie ad altri scopi: confutare le teorie europee – secondo le quali la discriminazione cui erano sottoposte le donne in India e la loro condizione erano immagine dell’arretratezza del Paese in generale –, dando prova dell’adeguatezza dell’India all’autogoverno; creare “nuove donne indiane” capaci di essere mogli e madri più adatte alle necessità (pratiche, ma anche identitarie e d’immagine) della classe emergente, e di socializzarne i valori e le aspirazioni, pur entro i confini della tradizione patriarcale, che restava per i riformatori un punto fermo e indiscutibile.2

In ambito religioso, la riforma si concretizzò nelle figure di alcuni pensatori e nella fondazione di istituzioni, volte a rivedere le più grandi tradizioni indiane – hindu e musulmana – alla luce di uno spirito più moderno e razionale.

È tra questi riformatori che si colloca Vivekananda, al secolo Narendranath Datta, nato in quella Calcutta all’epoca centro della vita politica e culturale del Paese, e in una famiglia di scienziati e pensatori illustri.

Fin da bambino profondamente interessato ai temi dell’Hinduismo e della meditazione e dotato di un carisma e di una passione per la ricerca della verità inusuali per la sua età, Narendranath ricevette un’istruzione di stampo occidentale, appassionandosi in particolare alla filosofia, e coltivando allo stesso tempo lo studio della poesia sanscrita, dei testi sacri e degli scritti del riformatore suo contemporaneo Rammohan Ray.

Razionale, dedito al ragionamento logico e sprezzante dei dogmi religiosi tradizionali, Narendranath si avvicinò al Brahma Samaj, l’istituzione fondata a Calcutta nel 1828 da Rammohan Ray al fine di operare una trasformazione dello Hinduismo in senso moderno, depurando la religione dalle pratiche più barbare ed introducendo nello studio della stessa il principio di ragione. Narendranath, affascinato dalle arringhe dei riformatori che facevano parte del movimento, sembrava destinato ad una carriera del tutto simile, borghese e socialmente impegnata, fino a quando un incontro introdusse nel suo percorso un cambiamento di rotta.


Da Narendranath a Vivekananda

Era il 1880, quando Narendranath incontrò per la prima volta Ramakrishna, il sacerdote officiante di un tempio situato a Dakshineshwar, un sobborgo di Calcutta, e dedicato ad una forma del dio Shiva, che veniva lì adorato insieme alla dea Kali. Brahmano di estrazione contadina, con un’istruzione limitata cui sopperivano buon senso, mitezza e profonda devozione, costui era un rinunciante di eccezionale spessore, un rappresentante della corrente mistica della bhakti, la “devozione”, e un punto di riferimento per gli intellettuali bengalesi, affascinati dalla schiettezza dei suoi insegnamenti.

Quell’incontro provocò un imponente cambiamento nella vita del giovane Narendranath, che in pochi anni, durante i quali proseguì nel tentativo di conciliare il materialismo delle scienze occidentali e lo spiritualismo in cui lo precipitavano i momenti a Dakshineshwar, divenne il discepolo prediletto di Ramakrishna. Come il suo Maestro, divenne un Advaitavedantin, un sostenitore dell’indirizzo dottrinale del non-dualismo, che predicava l’unità tra Sé individuale e Assoluto. Da questi insegnamenti Narendranath avrebbe in seguito derivato la convinzione della divinità degli esseri umani, dunque la considerazione di tutte le forme dell’esistenza quali manifestazioni dello spirito divino.

Nel 1886 Ramakrishna, dopo aver iniziato i discepoli alla loro nuova condizione di sanyasin3, indicò Narendranath come loro guida. Fu così che egli divenne Vivekananda, “colui che ha la beatitudine della discriminazione spirituale”. Due anni più tardi Vivekananda cominciò la sua vita di parivrajaka, “monaco errante”, partendo per un pellegrinaggio che durò anni, un viaggio solitario compiuto a piedi sulle strade polverose dell’India, dallo Himalaya fino a Kanyakumari. Questa esperienza fornì a Vivekananda una conoscenza profonda del Paese, quale non aveva mai posseduto. Alla fine del viaggio, quando finalmente raggiunse Kanyakumari, Vivekananda rifletté su tutto quello che aveva visto: «Un Paese dove milioni di persone vivono dei fiori della pianta mohua, e un milione o due di sadhu e circa cento milioni di brahmani succhiano il sangue di queste persone, senza fare il minimo sforzo per migliorare la loro condizione, è un Paese o l’inferno? È quella una religione, o la danza del diavolo?»4

Partito con l’obiettivo di portare unità tra le varie sette e confessioni indiane, radunandole sotto l’ombrello del messaggio vedantico, Vivekananda comprese che al suo Paese servivano istruzione e cibo, più che insegnamenti religiosi. Ripensò a quel che aveva sentito dire alcuni mesi prima, circa l’organizzazione a Chicago del World’s Parliament of Religions, un congresso che avrebbe ospitato rappresentanti di ogni religione del mondo; Vivekananda decise che si sarebbe recato negli Stati Uniti, per predicare il messaggio vedantico e chiedere in cambio il sostegno economico necessario a fondare in India istituzioni educative e caritative per le classi più svantaggiate.

Pochi mesi più tardi ebbe inizio la sua missione in Occidente, che lo vide tenere innumerevoli conferenze e radunare intorno a sé molti sostenitori.


Un pensiero moderno e rivoluzionario

Attualizzando gli aspetti religioso-filosofici della dottrina vedantica, all’interno di un pensiero in cui la speculazione teorica e dogmatica veniva costantemente riportata alle necessità pratiche del suo tempo e del suo luogo – percepite come urgenti ed imprescindibili –, Vivekananda divenne l’esempio di una nuova tipologia di riformatore, capace di coniugare gli insegnamenti ancestrali del pensiero vedantico con l’attualità dell’India più comune. Questa narrazione, dunque – a differenza di quelle costruite da altri riformatori, che auspicavano un ripensamento, quando non un distacco, della “tradizione” sociale e religiosa, sentita come ostacolo al “progresso” –, non presupponeva una revisione in chiave filo-occidentale del bagaglio culturale e religioso indiano, bensì glorificava quel passato, proponendolo come la chiave che avrebbe aperto all’India le porte della giustizia sociale, dell’istruzione, dello sviluppo materiale e spirituale.

«La società più grande è quella in cui le verità più alte diventano concrete»5, sosteneva Vivekananda, facendo riferimento alla necessità di costruire una società strutturata in modo da permettere la realizzazione della divinità umana. Da questa convinzione di base, derivata dalla filosofia vedantica, egli ricavò il suo progetto di società utopica, che si sarebbe retta sul pilastro dell’uguaglianza tra gli uomini. Il fatto che egli ritenesse necessarie all’avverarsi di questa idea da un lato la diffusione dell’istruzione – che doveva diventare di massa, affinché gli strati più svantaggiati acquisissero forza e coscienza del proprio valore – e, dall’altro, la soppressione di ogni privilegio – politico, economico o religioso che fosse – dimostra il carattere rivoluzionario del pensiero di Vivekananda. Diversamente da molti suoi contemporanei, egli non era disposto a prevedere risultati parziali; eppure, l’imponenza di questo progetto e il suo carattere utopico non compromettevano in alcun modo la fede di Vivekananda nella sua realizzabilità.

«Pane! Pane! Non credo in un Dio che non riesce a darmi il pane in questo mondo, mentre mi promette la beatitudine eterna nei cieli! Bah! L’India deve essere affrancata, i poveri devono essere nutriti, l’istruzione deve essere diffusa, e la piaga del potere sacerdotale deve essere eliminata».6

Anche nel suo rapporto ideale con l’Occidente Vivekananda differiva dal resto dei riformatori: non prevedendo né una forma di riverente assimilazione ai suoi valori, né il rifiuto astioso di essi, egli auspicava una sorta di collaborazione e di mutuo scambio di eccellenze: «Direi che la combinazione della mente greca, rappresentata dall’energia dell’Europa, e della spiritualità hindu darebbe origine a una società ideale in India. […] L’India deve imparare dall’Europa la conquista del mondo esteriore, e l’Europa deve imparare dall’India la conquista del mondo interiore. Allora non ci saranno hindu ed europei: ci sarà un’umanità ideale, che ha conquistato entrambi i mondi, quello esterno e quello interno. Noi abbiamo sviluppato una parte dell’umanità, e loro un’altra. È l’unione delle due ciò cui dobbiamo aspirare».7

Ancora, la modernità del pensiero di Vivekananda si espresse nella sua considerazione del gesto filantropico che, come in ambito cristiano, fino a quel momento era stato reputato dal sistema hindu tradizionale una questione privata tra donatore e beneficiario. Egli fu il primo a proporre un’etica del seva (il “servizio”) istituzionalizzata – così come è divenuta la filantropia, un po’ ovunque nel mondo, in tempi recenti –, con lo scopo di garantire una ripartizione equa e il più possibile estesa di azioni di solidarietà nei confronti di persone bisognose: “Fare del bene agli altri è l’unica grande religione universale”8, sosteneva Vivekananda, accordando alla pratica del seva un significato che andava ben oltre la semplice azione filantropica. Teorizzò, inoltre, che la figura sociale più autorevole in India – e dunque più adatta a diffondere un pensiero in certo modo rivoluzionario – era quella del sanyasin. Mentre i suoi contemporanei proponevano modelli borghesi, di uomini d’alta casta colti e mondani, o figure eroiche della tradizione storica e religiosa indiana, Vivekananda individuava nel monaco, nell’asceta e nel rinunciante la sede della saggezza e della credibilità presso il popolo; era a queste figure, estranee ai meccanismi del potere, all’avidità e al perseguimento dell’interesse personale, che Vivekananda avrebbe affidato il compito di diffondere il messaggio, dimostrando ancora una volta l’intransigenza che guidava il suo pensiero.

Su questi pilastri poggiava la Ramakrishna Mission, istituita da Vivekananda a fine secolo quale organizzazione impegnata in ambito sociale e strettamente connessa alla vita del monastero dell’Ordine di Ramakrishna, i cui monaci fondevano nella propria esperienza quotidiana lavoro sociale e pratica spirituale – due aspetti che, completandosi a vicenda, fungevano l’uno da motore dell’altro. Intervenendo inizialmente soprattutto in ambito educativo e nella lotta alla povertà, la Ramakrishna Mission cominciò così in quegli anni il suo servizio all’India, che Vivekananda descriveva in termini angosciati:

«Fiumi ampi e profondi, gonfi e impetuosi, affascinanti giardini sulle rive del fiume, da fare invidia al celestiale Nandana-Kanana; tra questi meravigliosi giardini si ergono, svettanti verso il cielo, superbi palazzi di marmo, decorati da preziose finiture; ai lati, davanti e dietro, agglomerati di baracche, con muri di fango sgretolati e tetti sconnessi […]; figure emaciate si aggirano qua e là coperte di stracci, con i volti segnati dai solchi profondi di una disperazione e di una povertà vecchie di secoli […]; questa è l’India dei nostri giorni!

[…] Devastazione causata da peste e colera; malaria che consuma le forze del Paese; morte per fame come condizione naturale; carestie mortali che spesso danzano il loro macabro ballo; un kurukshetra di malattie e miseria, un enorme campo per le cremazioni disseminato dalle ossa della speranza perduta.

[…] Un agglomerato di trecento milioni di anime, solo apparentemente umane, gettate fuori dalla vita dall’oppressione della loro stessa gente e delle nazioni straniere, dall’oppressione di coloro che professano la loro stessa religione e di coloro che predicano altre fedi; pazienti nella fatica e nella sofferenza e privati di ogni iniziativa, come schiavi, senza alcuna speranza, senza passato, senza futuro, desiderosi solo di mantenersi in vita in qualche modo, per quanto precario; di natura malinconica, come si confà agli schiavi, per i quali la prosperità dei loro simili è insopportabile. […] Trecento milioni di anime come queste brulicano sul corpo dell’India come altrettanti vermi su una carcassa marcia e puzzolente. Questo è il quadro che si presenta agli occhi dei funzionari inglesi».9

Costituito inizialmente da appena una dozzina di monaci, nei cento e più anni che ci separano dalla sua fondazione l’Ordine di Ramakrishna è oggi un movimento transnazionale di proporzioni enormi, simbolo di pace ed ecumenismo, fondato sulla pratica del servizio disinteressato come metodo per la realizzazione del divino e caratterizzato da un approccio razionale alla religione – considerata non un apparato ritualistico ma una scienza dell’essere e del divenire –, da una tradizione colta e dall’efficacia dei suoi interventi in campo sociale.

Definiscono Ramakrishna Mission e Ramakrishna Math (rispettivamente la componente pratica del movimento e l’organizzazione monastica) le tre caratteristiche che sono state segni distintivi di Vivekananda e del suo operato e che, risultando a tutt’oggi innovative, dimostrano la statura di un riformatore illuminato, rivoluzionario per il tempo e il luogo in cui visse: la modernità – che si esprime nell’attualizzazione dei principi vedantici, e nel collocare nel presente il pensiero guida dell’operato di queste istituzioni; l’universalità – data dal rivolgersi non ad un unico Paese o ad uno specifico gruppo di persone, ma all’umanità intera; e la concretezza – che risiede nel porre i principi teorici e spirituali a servizio del miglioramento delle quotidiane condizioni di vita delle persone.


* Elena Borghi, dottoressa in Studi linguistici e antropologici sull’Eurasia e il Mediterraneo (Università “Ca’ Foscari” di Venezia), è autrice di Sai Baba di Shirdi. Il santo dei mille miracoli (Red, Milano 2010) e Vivekananda. La verità è il mio unico dio (Red, Milano 2009)


1 Torri, M., Storia dell’India, Editori Laterza, Roma-Bari 2000, p. 453.

2 Jayawardena, K., Feminism and Nationalism in the Third World, Zed Books, Londra 1986.

3 Asceta errabondo, che ha rinunciato ad ogni piacere mondano e ad ogni forma di possesso materiale ed umano, per dedicarsi unicamente al conseguimento della liberazione, il moksha. Il monaco rinunciante trascorre la propria vita in solitario cammino, elemosinando il cibo, coltivando il silenzio e il raccoglimento, inaccessibile ad ogni desiderio e ad ogni umana debolezza. La contemplazione dello Spirito supremo, il distacco, la disciplina e la meditazione profonda sono i suoi compiti, che lo preparano ad abbandonare per sempre la dimora terrena ed il corpo mortale, liberandolo dal ciclo di rinascita e rimorte.

4 The complete Works of Swami Vivekananda, Mayavati Memorial Editing, Advaita Ashrama, Calutta 1992-95, vol. VI, p. 254.

5 Ibid., vol. II, p. 85.

6 Ibid., vol. IV, p. 368.

7 Ibid., vol. V, p. 216.

8 Ibid., vol. IV, p. 403.

9 Ibid., vol. V, p. 441-442.

dimanche, 24 octobre 2010

L'imputato per la strage di Mumbai lavorava per il governo USA

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L’imputato per la strage di Mumbai lavorava per il governo USA

di Kurt Nimmo

Fonte: megachip [scheda fonte] 

La settimana scorsa i funzionari USA dichiaravano che c’era ancora una minaccia proveniente da indimostrati terroristi in Europa, mentre la polizia di New York conduceva un’esercitazione che simulava un attacco “stile Mumbai” contro i civili nel distretto finanziario di Manhattan. Il capo dell’antiterrorismo al Dipartimento di Stato ha esposto ai giornalisti a Londra un allarme per i viaggiatori emanato il 3 ottobre che consigliava a chi viaggiava in Europa che un "assalto in stile Mumbai" su obiettivi civili, poteva essere imminente, o forse no.


Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

abc_floydnews_playSabato scorso, funzionari federali hanno ammesso che l’uomo d'affari statunitense David Coleman Headley, che si presume abbia confessato di essere un reclutatore di terroristi in relazione agli attentati di Mumbai del 2008, lavorava come informatore della DEA, mentre si esercitava con i terroristi in Pakistan.

«I funzionari federali, che parlavano solo in sottofondo per la delicatezza del caso Headley, hanno dichiarato inoltre di sospettare un legame tra Headley e le figure di al-Qa‛ida le cui attività hanno suscitato recenti minacce terroristiche contro l'Europa», riferisce Pro Publica, un’agenzia on line non-profit indipendente che produce giornalismo investigativo.

Venerdì scorso, Pro Publica ha riferito che l'FBI era stata messa in guardia in merito ai legami terroristici di Headley ben tre anni prima che gli attentati di Mumbai avessero luogo.

Headley, tuttavia, non è stato arrestato fino a 11 mesi dopo l'attacco. «Dopo che Headley è stato arrestato nel 2005 per una lite domestica a New York, la moglie ha raccontato agli investigatori federali il suo duraturo coinvolgimento con il gruppo terroristico Lashkar-i-Taiba e i suoi estensivi programmi di formazione nei campi pakistani», scrive Sebastian Rotella. «Ha anche loro riferito che si era vantato di essere un informatore pagato dagli Stati Uniti, mentre era in corso la formazione terroristica».

Lashkar-i-Taiba è stata programmata per operazioni occulte. Si tratta di una creazione dell'Inter-Services Intelligence, o ISI, i servizi pakistani, e «riceve considerevoli risorse finanziarie e materiali nonché altre forme di assistenza da parte del governo del Pakistan, indirizzate in primo luogo attraverso l'ISI. L'ISI è la principale fonte di finanziamento di Lashkar-i-Taiba. E anche l'Arabia Saudita alimenta la provvista dei fondi», secondo il South Asia Terrorism Portal.

Lashkar-e-Taiba ha inoltre avuto un ruolo nella campagna bosniaca organizzata dall’ISI contro i serbi, che era diretta dalla CIA e dai servizi segreti britannici.

Lashkar è l'ala militare del Markaz Dawat wal Irshad, collegato all’Ahl-e Hadith pakistano, un gruppo con stretti legami di affiliazione ai wahabiti sauditi. Markaz è stata fondata nel 1986 da due professori universitari pakistani assistiti da Abdullah Azzam, uno stretto collaboratore di Osama bin Laden. Azzam è stato "arruolato" da parte della CIA per guidare gruppi islamici a Peshawar e poi come intermediario tra i Mujāhidīn afghani.

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La notizia della connessione di Headley all’intelligence non è una novità.

Nel 2009 è stato riferito che egli poteva «essere stato un agente sotto copertura degli Stati Uniti diventato una canaglia», secondo il «Times of India».

Durante le sue operazioni e contatti in India, Headley si è presentato spesso come un agente della CIA.

David Headley è stato menzionato in un rapporto sul terrorismo interno redatto da Tom Kean, Lee Hamilton, e dall’istituto bipartisan con sede a Washington National Security Preparedness Group.

Kean e Hamilton si erano a suo tempo sforzati di concentrare la colpa per gli attentati dell'11 settembre 2001 a carico di musulmani cavernicoli. «La leadership dei gruppi islamici radicali, tra cui al-Qa‛ida, si è americanizzata attraverso figure come il chierico radicale Anwar al-Awlaki, cresciuto in New Mexico, e David Headley da Chicago, che ha contribuito a pianificare gli attacchi terroristici a Mumbai del 2008», ha riferito il «New York Post» in occasione del nono anniversario dell'11 settembre.

In effetti il terrorismo è diventato "americanizzato", perché in realtà gran parte del terrorismo islamico è una creazione dell'intelligence USA, britannica e israeliana, con l'aiuto di partner gregari come la Germania.

Nel 1997, Headley, alias Daood Sayed Gilani, un condannato per traffico di droga, è stato strappato via dalla prigione dalla DEA e spedito in Pakistan per condurre operazioni di sorveglianza sotto copertura per conto della Drug Enforcement Administration. Nel 2002 e tre volte nel 2003, ha frequentato campi di addestramento in Pakistan di Lashkar-e-Taiba, l’organizzazione creata e finanziata dall’ISI e dai sauditi.

L'FBI era ben consapevole di tutto ciò. Secondo il rapporto di Pro Publica, non solo la moglie di Headley ha raccontato all'FBI che suo marito era un militante attivo di Lashkar-e-Taiba, ma anche che si era a lungo esercitato nei suoi campi pakistani e aveva anche fatto acquisti per visori notturni e altri apparecchi.

Ancora una volta ci verrà detto che tutto questo è stato un «fallimento dell'intelligence» e che Headley ha violato i patti per essere stato radicalizzato da parte di terroristi pakistani.

A questo punto, però, non ci viene detto più di nulla. I grandi media, con la notevole eccezione del «New York Times» e dell'Associated Press, non riportano questa storia. È appena un puntino sullo schermo radar dei grandi organi di comunicazione. La minaccia terroristica europea, ovviamente fraudolenta, ha ricevuto molta più copertura, anche se non vi è assolutamente alcuna prova che dei terroristi avessero intenzione di fare alcunché in Europa o altrove, men che meno negli Stati Uniti.

Di quante altre prove abbiamo bisogno? David Headley stava ovviamente lavorando per il governo degli Stati Uniti ed è stato "radicalizzato" e formato da un gruppo che i documenti indicano come CIA-ISI con collegamenti con i sauditi e il wahhabismo.

La CIA non tenta più nemmeno di coprire le proprie tracce, quando manovra il terrorismo "falso" e i gruppi terroristici. Cinque minuti con un motore di ricerca in internet bastano a produrre informazioni sufficienti a dimostrare il fatto che i governi ingegnerizzano il terrorismo e i terroristi.

I governi usano abitualmente il terrore sintetico per mandare avanti i loro programmi in agenda. È tutto alla luce del sole e ci si presenta di fronte. Ma non aspettatevi che il «New York Times» o la CNN colleghino i puntini. Sottolineare l'ovvio, si sa, è un lavoro per teorici della cospirazione…

 

Traduzione a cura di Pino Cabras per Megachip.

Fonte: http://www.infowars.com/mumbai-terror-suspect-worked-for-....

samedi, 23 octobre 2010

EU braucht engere Beziehungen zu asiatischen Mächten

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EU braucht engere Beziehungen zu asiatischen Mächten

 

Ex: http://www.andreas-moelzer.at/

Asien ist Schlüsselregion zur Emanzipation Europas von den USA – Bei EU-Asien-Gipfel darf das Problem asiatischer Billigimporte nicht ausgeklammert werden

Das heute in Brüssel zu Ende gehende EU-Asien-Treffen (ASEM) müsse zur Bildung strategischer Partnerschaften genutzt werden, forderte der freiheitliche Delegationsleiter im Europäischen Parlament, Andreas Mölzer. „Asien, insbesondere China, ist eine Region, die wirtschaftlich auf der Überholspur ist und deren geopolitisches Gewicht stetig zunimmt. Daher sind gute und enge Beziehungen zu Asien unerläßlich, wenn sie die Europäische Union von den USA emanzipieren will“, so Mölzer, der auch Mitglied des außenpolitischen Ausschusses des Europäischen Parlaments ist.

Dabei wies der freiheitliche EU-Mandatar darauf hin, daß die Europäische Union gegenüber ihren asiatischen Partnern auch selbstbewußt auftreten müsse. „Anstatt an schwammigen Absichtserklärungen zu arbeiten, die recht bald in einer Schublade landen, müssen bestehende Probleme angesprochen und einer Lösung zugeführt werden“, erklärte Mölzer.

Insbesondere müsse, so der freiheitliche Europa-Abgeordnete, das Problem der Billigimporte aus Asien gelöst werden. „So erstrebenswert enge Beziehungen zu den asiatischen Mächten auch sind, so wenig darf Brüssel die legitimen Interessen Europas opfern. Und dazu zählt insbesondere der Schutz europäischer Arbeitsplätze vor asiatischen Dumpinlöhnen“, schloß Mölzer.

jeudi, 21 octobre 2010

Ashtons Iran-Initiative darf keine aussenpolitische Eintagsfliege bleiben

Ashtons Iran-Initiative darf keine außenpolitische Eintagsfliege bleiben

 

Ex: http://www.andreas-moelzer.at/

Ziel Brüssels muß ein atomwaffenfreier Naher und Mittlerer Osten sein – Insbesondere die islamische Atommacht Pakistan und Indien müssen abrüsten

CatherineAshton.jpgAls äußerst positiv bezeichnete heute der freiheitliche Delegationsleiter im Europäischen Parlament, Andreas Mölzer, den Vorschlag der EU-Außenbeauftragten Catherine Ashton, Mitte November in Wien mit dem Iran Gespräche über dessen umstrittenes Atomprogramm zu führen. „Ashtons Vorstoß ist ein außenpolitischer Gehversuch der Europäischen Union, die sich offenbar doch etwas aus der erdrückenden Umklammerung der USA lösen will. Es bleibt nur zu hoffen, daß die Einladung an den Iran keine Eintagsfliege bleibt“, so Mölzer, der auch Mitglied des außenpolitischen Ausschusses des Europäischen Parlaments ist.

Zu den beabsichtigten Verhandlungen mit Teheran sagte der freiheitliche EU-Mandatar, daß diese mehr als das iranische Atomprogramm umfassen müssen. „Natürlich wäre es wünschenswert, wenn der Iran Zweifel an der friedlichen Nutzung der Kernenergie ausräumt. Aber das darf nicht darüber hinwegtäuschen, daß es in der Region bereits Atommächte gibt, nämlich Israel, Pakistan und Indien“, betonte Mölzer.

Daher müsse das Ziel der Nahostpolitik Brüssels die Schaffung eines atomwaffenfreien Nahen und Mittleren Ostens sein, forderte der freiheitliche Europaparlamentarier. „Eigentlich sollte statt dem Iran Pakistan im Mittelpunkt des weltweiten Interesses stehen. Denn Pakistan ist nicht nur eine Atomwaffenmacht, sondern auch islamistisch unterwandert und befindet sich darüber hinaus in einem Dauerstreit mit Indien. Hier eine Abrüstungsinitiative zu starten, sollte oberste Priorität haben“, schloß Mölzer.

mardi, 19 octobre 2010

Russie / Inde: projets militaires communs

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Russie / Inde : projets militaires communs

L’Inde est prête à acquérir entre 250 et 300 chasseurs de la cinquième génération et à les coproduire avec la Russie. L’armée indienne achètera également 45 avions de transport russes. Cette décision a été prise suite à la visite en Inde du ministre russe de la défense, Anatoly Serdioukov. Dans les dix prochaines années, la coopération militaire russo-indienne visera la réalisation de ces deux projets : réorganiser et moderniser la chasse de l’aviation militaire indienne et doter celle-ci de bons avions de transport.

Le chasseur de cinquième génération ne sera pas une pure et simple copie du Sukhoi T-50 déjà existant, mais visera la création d’un appareil entièrement nouveau, dont le prix unitaire sera d’environ 100 millions de dollars. La valeur totale du marché est donc d’à peu près 30 milliards de dollars. Moscou et New Delhi programment également la construction de chasseurs monoplaces et biplaces pour 2015-2016, dont le coût de recherche et de réalisation sera partagé à parts égales entre les deux pays.

Le ministre indien A. K. Antony, lors d’une conférence de presse tenue avec son collègue russe, a confirmé le marché et les intentions des deux pays en matière de technologies aéronautiques et militaires. Il a déclaré : « L’Inde recevra entre 250 et 300 FGFA (Fifth Generation Fighter Aircraft). Nous avons donc deux projets en commun pour les dix prochaines années, ce qui démontre que la collaboration entre l’Inde et la Russie est optimale ».

New Delhi cherche aussi à acquérir deux appareils A-50, équipés d’un système Falcon de localisation radar, produit en Israël. De son côté, Moscou espère pouvoir convaincre les Indiens d’acheter russe quand ils rénoveront, comme ils le prévoient, leur arsenal d’hélicoptères (197 unités) et d’autres avions (126 unités). Si les Indiens choisissent les MIG-35 et KA-226 russes, l’affaire rapportera une somme supplémentaire de 10,75 milliards de dollars au complexe militaro-industriel russe.

Source : Andrea PERRONE (a.perrone@rinascita.eu ), in : Rinascita, 8 octobre 2010 ; http://www.rinascita.eu ).   

lundi, 18 octobre 2010

Ayodhya ou l'honneur perdu des historiens...

 

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 Koenraad Elst:

Ayodhya ou l’honneur perdu des historiens

 

Dans la querelle historique entre les prédicateurs islamistes et le reste du monde, il y eut un grave moment de crise, lorsqu’il s’est s’agi, pour les premiers, de contester la légitimité d’un temple hindou ou d’une mosquée musulmane à Ayodhya. Cette querelle a connu son apogée entre 1986 et 1992. L’édifice contesté s’est retrouvé sous les feux des médias quand des militants hindous l’ont rasé le 6 décembre 1992.

Ayodhya est un important centre de pèlerinage hindou. Selon la tradition, c’est le lieu de naissance du héros Rama, incarnation du dieu Vishnou. Un temple y avait été édifié jadis et, plus tard, il fut remplacé par une mosquée, construite à partir de 1528 selon une inscription sur le portail d’entrée. La mosquée se trouvait donc là depuis plus de quatre siècles. Dans l’architecture de cette mosquée, on avait inclus des colonnes provenant de l’ancien temple, afin de bien mettre en exergue la victoire de l’islam sur le paganisme indien. En 1885, les Hindous entamèrent une procédure, afin de récupérer le site mais en 1886, un juge britannique a tranché comme suit : « C’est grave qu’un temple ait été détruit pour édifier cette mosquée, mais vu que cela s’est passé il y a plusieurs siècles, il est trop tard désormais pour y remédier ». En 1934, les autorités britanniques font fermer la mosquée à la suite d’émeutes organisées par les fidèles de la religion hindouiste. En 1949, les Hindous placent un autel avec des effigies de leurs dieux dans l’édifice. En 1950 commence un nouveau procès où les Hindous, puis, plus tard, les Musulmans, vont exiger que le site leur soit octroyé.

A titre temporaire, le tribunal, en charge de juger l’affaire, n’a ordonné que quelques mesures pratiques. Pendant une seule journée par an, un prêtre hindou pouvait avoir accès à l’édifice, y officier et y pratiquer les rituels traditionnels. De ce fait, l’édifice  se trouvait rouvert en tant que temple hindou. Les Hindous, cependant, voulaient, sur le site de la naissance de Rama, un véritable temple de leur religion, construit selon des critères architecturaux propres à la tradition indienne, ce qui impliquait la destruction de la mosquée musulmane. Quand la mosquée s’y trouvait encore, les Hindous ont décidé de placer la première pierre du futur nouveau temple, précisément à la date du 9 novembre 1989, le jour même où tomba le Mur de Berlin.

Négationnisme

Cet acte symbolique a eu lieu avec l’approbation du Parti du Congrès, alors au pouvoir. Celui-ci procéda à un véritable maquignonnage, en prévoyant d’accorder une grande faveur aux Hindous et un éventail de petites faveurs pour les Musulmans (notamment  la réforme de la législation sur le divorce, en l’infléchissant dans un sens carrément musulman). Les intellectuels de gauche, dominants dans les secteurs académiques, ont entamé, à ce moment-là, une campagne pour un « sécularisme dur » ; il faut savoir que la notion de « sécularisme », en Inde, équivaut à la notion de « multiculturalisme » que l’on cherche à imposer en Occident. Le « sécularisme » multiculturel indien a pour corollaire automatique le soutien à l’islam. Dans le cadre de cette campagne séculariste, multiculturaliste et islamophile, l’intelligentsia de gauche a commencé à nier de manière systématique et à grands renforts de discours tonitruants le récit hindou, qui se voulait reflet de la réalité historique, sur la destruction effective du temple. Ce qui avait fait jusqu’alors consensus et qui se basait sur le témoignage unanime de nombreuses sources, a été, du jour au lendemain, considéré comme une aberration et comme le produit d’une « propagande haineuse des fondamentalistes hindous ».  

Les médias indiens et, à leur suite, les médias de la planète entière, ont adopté cette vision négationniste. Les historiens se sont tenus cois ou se sont pliés à la ligne que leur dictait leur parti. Un indianiste néerlandais qui, peu de temps auparavant, avait effectué des recherches à Ayodhya même, et avait confirmé dans l’un de ses ouvrages la thèse de la destruction du temple de Rama, fut accusé de faire le jeu des fondamentalistes hindous et se récusa misérablement. L’Encyclopaedia Britannica, dans son édition de 1989, rappelait encore les faits et expliquait sobrement et sans emphase que le temple avait été détruit, a changé son fusil d’épaule dans ses éditions ultérieures et évoqué les « affirmations des fondamentalistes hindous ».

A la fin de l’année 1990, le gouvernement invite les deux parties à mandater des savants et des érudits pour participer à un débat. Les représentants de la partie musulmane sont arrivés sur le podium de discussion totalement impréparés, tout en étant sûrs et confiants que leurs adversaires n’allaient évoquer que des « mythes ». Malheureusement pour eux, les défenseurs de la partie hindoue sont arrivés munis d’un dossier bien étayé de documents historiques et de rapports d’archéologues, qui confirmaient les anciennes thèses, qui avaient toujours fait consensus. Après le débat, l’alliance musulmane-marxiste des adversaires de la thèse du temple ont encore composé vaille que vaille un opuscule qui devait servir de réponse aux Hindous. Dans ce petit ouvrage, ils n’avancent pas le moindre fait qui soit en mesure de contredire le scénario mis en avant par les Hindous ou qui pourrait constituer l’amorce d’un scénario alternatif. Leur argumentaire se bornait à essayer de minimiser les preuves pourtant patentes avancées contre eux, en n’en sélectionnant que quelques-unes et en ne les présentant que de manière schématique, tandis qu’ils laissaient la grande majorité des arguments de leurs adversaires sans la moindre réponse. Les médias ont passé totalement sous silence cette victoire hindoue dans la querelle où, pourtant, les défenseurs de l’iconoclasme musulman ont été mis échec et mat.

La preuve par l’archéologie

Et pourtant, fin septembre 2010, la vérité a éclaté au grand jour. Le jeudi 30 septembre 2010, le tribunal d’Allahabad a enfin prononcé ses conclusions dans cette affaire qui traîne maintenant depuis plus de soixante ans. L’affaire avait rebondi lorsque le gouvernement du premier ministre Narasimha Rao avait demandé à la Cour Suprême de donner son avis sur le fonds historique de la question. Au contraire du grand public qui ne s’abreuve qu’aux journaux, Rao était parfaitement bien au courant du résultat du débat entre experts et il s’attendait à ce que les juges du plus haut tribunal indien, après étude du dossier, donnassent raison à la thèse des défenseurs du temple, afin que l’on puisse enfin procéder à la reconstruction de celui-ci et que la question en suspens soit réglée. La Cour Suprême a transmis l’affaire au Tribunal d’Allahabad, qui, lui, n’a eu qu’une envie : se débarrasser de ce dossier fort épineux.

Les juges d’Allahabad ont donné pour mission à l’instance principale des archéologues indiens, l’ « Archeological Survey of India » (ASI), de procéder à des fouilles extrêmement précises. En 2003, l’ASI mettait à jour les soubassements d’un vaste édifice ancien qui, vu le nombre d’objets d’art à fonction cultuelle qui y furent exhumés, ne pouvait être rien d’autre qu’un temple. Ces fouilles ont confirmé les résultats de travaux archéologiques antérieurs et corroboré les témoignages offerts par d’innombrables documents : et, bien entendu, sur le site préalablement présumé du temple de Rama, contesté par les Musulmans, il y a bel et bien eu un temple.

Koenraad ELST.

(article paru dans « ‘ t Pallieterke », 6 octobre 2010).

L'Occident américanisé veut-il un "anti-terrorisme politiquement correct"?

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L’Occident américanisé veut-il un « anti-terrorisme politiquement correct » ?

Début octobre 2010, le secrétaire du conseil russe de sécurité, Nicolaï Patrouchev a déclaré, devant les représentants d’un sommet rassemblant 44 pays à Sotchi : « L’objectif principal d’Al Qaeda est la création d’un califat islamique. Le réseau terroriste vise les pays d’Asie centrale, d’Afrique du Nord ainsi que les républiques caucasiennes de la Fédération de Russie. Les peuples musulmans de ces régions sont dès lors invités à renverser leurs gouvernements ». Patrouchev, qui a derrière lui une longue carrière dans les services soviétiques et russes, et officie aujourd’hui au FSB, est convaincu d’un fait : Al Qaeda déploie des activités terroristes dans le monde entier, ce qui indique que cette organisation dispose de structures internationales efficaces, dirigées en ultime instance par un chef ou du moins une direction unique.

Cette déclaration et cette conviction de Patrouchev ne doivent pas nous faire oublier que presque tous les attentats commis dans le monde sont attribués par les médias à Al Qaeda ou à ses filières et avatars. Or les services américains et russes ne jugent pas ces filières et avatars de la même façon. Leurs analyses sont très souvent divergentes. Exemple : le Hizb ut-Tahrir, soit le « Parti de la libération », qui a pour but avoué d’édifier le califat universel, est considéré par les Russes et les dirigeants des pays d’Asie centrale comme une organisation terroriste dangereuse. Pour la Maison Blanche, ce n’est pas le cas. Ce groupe de la mouvance djihadiste a pignon sur rue aux Etats-Unis. Il y est toléré et nullement banni.

L’indulgence américaine pour certains avatars avoués d’Al Qaeda est suspecte. En effet, quand l’exécutif russe use de la manière forte dans les affrontements qui l’opposent aux terroristes islamistes, l’Occident atlantiste s’insurge, avec gros trémolos dans la voix, contre la « barbarie russe ». Récemment encore, en septembre 2010, la Présidente de la sous-commission pour les droits de l’homme du Parlement européen, Heidi Hautala, s’est déclarée fort préoccupée par la situation dans le Caucase septentrional, région qui fait partie de la Fédération de Russie. Madame Hautala se trouvait, il y a quelques semaines, à Beslan, la ville martyre de l’Ossétie du Nord : elle n’a trouvé qu’à se lamenter sur les retards pris par la Russie à appliquer les critères des droits de l’homme dans le Caucase et a fait inscrire ses inquiétudes à l’ordre du jour de consultations bilatérales entre la Russie et l’UE.

 

En clair, ces réticences atlantistes, exprimées par Madame Hautala, ne participent pas d’une compassion anticipée et réelle pour ceux qui seraient éventuellement victimes d’un arbitraire de l’exécutif, comme elle ne relèvent pas davantage d’un sentiment de pitié pour les enfants innocents massacrés par centaines par les terroristes islamo-tchétchènes. Non, ce discours vise à faire pression sur la Russie pour qu’aucune mesure de lutte efficace contre le terrorisme ne soit prise dans la région. Et, par extension, dans toutes les républiques musulmanes d’Asie centrale. Il s’agit dès lors d’une intervention indirecte dans les affaires intérieures de la Fédération de Russie et des républiques d’Asie centrale.

Il est étrange, aussi, que jamais les instances moralisatrices de l’UE ne se soient insurgées contre les entorses apportées à la liberté de circulation et au droit d’association et contre les autres mesures vexatoires (visa, fouilles corporelles, mesures policières agressives dans les aéroports américains à l’encontre de citoyens européens totalement innocents) prises aux Etats-Unis à la suite des attentats de septembre 2001. Sous prétexte qu’Al Qaeda a commis des attentats à New York, des citoyens européens sont malmenés aux Etats-Unis, souvent sous des prétextes futiles ou totalement idiots, sans que l’UE, le Parlement européen ou la sous-commission dans laquelle s’agite Madame Hautala ne croient bon de protester vigoureusement et d’interpeller les autorités américaines. Deux poids, deux mesures.

La Russie et les pays d’Asie centrale sont également des victimes d’Al Qaeda. Les donneurs de leçons atlantistes n’auraient pourtant, en toute logique, rien à récriminer contre les mesures préventives et répressives que ces pays pourraient prendre : les Etats-Unis ont, eux aussi, pris des mesures, parfois draconiennes. Et si les Etats victimes du terrorisme rampant que sont la Fédération de Russie et les pays d’Asie centrale se montraient trop laxistes à l’endroit des terroristes, ils pourraient être accusés par les mêmes atlantistes de porter assistance à Al Qaeda et deviendraient alors, par une simple pirouette dialectique, des « Etats voyous », au même titre que l’Iran ou la Syrie.

Le chef de la diplomatie russe, Sergueï Lavrov, a profité du sommet de l’ASEM (Asia Europe Meeting), pour demander aux Occidentaux de mettre un terme à leur politique hypocrite de deux poids, deux mesures dans quelques questions épineuses, celles du terrorisme, du trafic de drogues et de la criminalité internationale. Le camp atlantiste parle en effet beaucoup de morale mais couvre des pratiques qui ne sont aucunement morales.

Source : Pietro FIOCCHI (p.fiocchi@rinascita.eu ), in : Rinascita, Rome, 6 octobre 2010 ; http://www.rinascita.eu ).        

dimanche, 17 octobre 2010

Confrontation en Mer Jaune

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Albrecht ROTHACHER :

Confrontation en Mer Jaune

 Forte tension entre la Chine et le Japon : l’Empire du Milieu renonce à ses réticences en politique étrangère

 

Spratly_Is_since_NalGeoMaps.pngPendant deux ans, la Chine et le Japon s’étaient efforcés de provoquer un dégel dans leurs relations auparavant fort chargées de contentieux. Cette période connaît désormais sa fin. Il y a à peu près trois semaines, un bateau de pêcheurs chinois en train de prendre du thon a heurté deux patrouilleurs côtiers japonais à proximité des petites îles rocheuses Sentaku (en chinois : Diaoyu), dont les eaux avoisinantes sont revendiquées tant par la Chine que par le Japon. Les Japonais ont rapidement relâché les quatorze marins de l’équipage mais maintenu en détention le capitaine vindicatif, un certain Zhang Qixiong. Début octobre, il se trouvait encore en détention préventive.

 Ce genre d’incident n’est pas rare vu les nombreuses frontières maritimes contestées de la région et la Chine aime les monter en affaires d’Etat. L’ambassadeur du Japon a été convoqué cinq fois. Tous les contacts de haut niveau ont été interrompus. Habituellement calme et pondéré, le premier ministre chinois Wen Jiabao n’a pas « trouvé le temps », lors d’un sommet de l’ONU à New York, de rencontrer son homologue japonais Naoto Kan.

Pourtant, il y a deux ans, à la suite de la visite du Président Hu Jintao à Tokyo, on pouvait imaginer que les deux protagonistes d’aujourd’hui allaient enfin mettre leurs contentieux territoriaux entre parenthèses et concentrer leurs efforts sur l’exploitation des gisements de pétrole et de gaz dans la zone litigieuse. La société chinoise d’exploitation offshore CNOOC avait rapidement commencé à forer et à édifier, dans la foulée, une plateforme pour pomper les hydrocarbures. Le Japon n’a pas obtenu grand chose du gaz extrait du sol marin ni du partage des bénéfices, pourtant dûment promis.

Pour la Chine, ces îles rocheuses, inhabitées et situées entre Okinawa et Taiwan, font partie du socle continental chinois et constituent un fragment du « sol sacré » de l’Empire du Milieu. Pour le Japon, elles font partie depuis 1885 des terres contrôlées par l’Empire du Soleil Levant et donc du territoire souverain nippon. En 1971, les Etats-Unis les avaient rendues au Japon, en même temps qu’Okinawa, l’île dont la conquête avait coûté tant de vie en 1945. Okinawa et les Iles Sentaku avaient, du coup, cessé d’être un protectorat américain. Lors de la visite de Wen Jiabao à Tokyo en mai 2010, les Chinois avaient manifesté de la bonne volonté. Pourquoi ce changement brusque d’attitude ?

Premier facteur à prendre en compte : la lutte pour le pouvoir entre dans une nouvelle phase d’intensité à Pékin actuellement, avec pour objet la succession en 2012 du Président Hu Jintao. Deuxième facteur : les partisans de la ligne dure, dans l’armée et dans la marine, ont aujourd’hui le vent en poupe. Troisième facteur : les réformateurs modérés autour du premier ministre Wen ne veulent pas avoir l’air de « poules mouillées » devant l’ennemi héréditaire japonais. Quoi qu’il en soit, la Chine se montre toujours très agressive quand il s’agit de conflits frontaliers. Ainsi, la Russie du Président Poutine avait rendu en 2004 les îles du fleuve Oussouri, prises par les troupes soviétiques à la suite d’une bataille sanglante en 1969. Ce fut un geste d’apaisement à l’endroit de la Chine, alors très amie de la nouvelle Russie. Le Kirghizistan, lui aussi, avait « volontairement » rendu à la Chine quelques chaines de montagnes qu’elle revendiquait. Face à l’Inde, la Chine revendique l’ensemble de la province frontalière de l’Arunachal Pradesh, peuplée d’un million de Tibétains et de ressortissants de tribus birmanes. Cette province est constituée de montagnes et de forêts vierges. Elle se situe sur le flanc sud de l’Himalaya et les Chinois la nomment « Tibet méridional ». Dans la Mer de Chine Méridionale, la Chine cherche à obtenir une frontière maritime jusqu’à l’Equateur, en englobant les îles indonésiennes de Natuna, ce qui heurte les intérêts de tous les pays riverains de cette mer : le Vietnam, les Philippines, Brunei, l’Indonésie et la Malaisie. La Chine est en train de construire, sur son flanc sud, c’est-à-dire sur l’Ile d’Hainan, une énorme base de sous-marins qui devrait appuyer ses revendications en Mer de Chine Méridionale. Sur le plan militaire, il n’y aura pas que ces sous-marins : la Chine aligne désormais une flotte de haute mer, nouvellement équipée et parfaitement apte à faire face à certaines éventualités. Face à l’Inde, les Chinois construisent une base navale sur le territoire de l’ennemi héréditaire, le Pakistan. De même, en Birmanie (Myanmar). Elle « drague » à fond le Sri Lanka, tombé en disgrâce dans la sphère occidentale à cause des entorses aux droits de l’homme qui s’y pratiquent.

Hillary Clinton, ministre américaine des affaires étrangères, a rassuré Naoto Kan à New York que les Etats-Unis considèreront toute violence contre les îles Sentaku comme un cas pouvant faire jouer le pacte d’assistance, scellant l’alliance nippo-américaine. Aux pays de l’ASEAN, inquiets, Hillary Clinton a proposé les bons offices des Etats-Unis dans toutes les questions relatives aux matières premières abondantes en Mer de Chine Méridionale. Elle a également suggéré une conférence multilatérale pour résoudre les problèmes.  Or c’est bien là la dernière chose que veulent les Chinois, sûrs de leur puissance. Ils préfèrent intimider les petits pays de l’Asie du Sud-Est en les ciblant un à un, lors de pourparlers bilatéraux. Toutes les formes de bons offices proposées par les Etats-Unis sont carrément rejetées et considérées par les Chinois comme partisanes, surtout qu’elles émanent d’une puissance extérieure à l’espace asiatique, qui veut la liberté des mers et des voies maritimes et est bien présente dans le Pacifique avec sa 7ème Flotte. La nouvelle doctrine chinoise part du principe que la Mer de Chine Méridionale fait tout autant partie du noyau territorial chinois que le Tibet ou Taiwan. En clair, cela signifie que les prétentions chinoises sur la Mer de Chine Méridionale ne sont pas négociables. Sur le plan historique pourtant, la Chine ne peut pas vraiment justifier ses revendications, mis à part quelques cartes maritimes imprécises ou quelques tombes de pêcheurs échoués sur des îles inhabitées.

Bientôt, la marine américaine organisera des manœuvres communes avec la Corée du Sud dans une partie de la Mer Jaune, que la Chine considère comme faisant partie de sa propre zone maritime. Cette démonstration de force servira surtout à intimider la satrapie prochinoise qu’est la Corée du Nord qui, au printemps dernier, avait coulé une corvette sud-coréenne. Mais en intimidant la Corée du Nord, on cherche évidemment à intimider la grande puissance protectrice de l’Etat « voyou ». Même la Russie, jusqu’ici l’allié le plus fidèle de la Chine et son principal fournisseur d’armes, se sent menacée par les flots d’immigrants chinois en Sibérie, terre faiblement peuplée. Elle adopte du coup une attitude pro-occidentale et prend ses distances.

Le grand réformateur Deng Xiaoping n’avait eu de cesse d’avertir ses camarades de parti : il fallait attendre l’année 2020, quand la Chine serait suffisamment forte pour résoudre ses problèmes territoriaux, sans craindre une coalition ennemie qui aurait procédé au préalable à son encerclement. L’impatience impériale a été fatale à l’Allemagne en 1914 et au Japon en 1941, car les grandes puissances établies avaient décidé de juguler les velléités expansionnistes des puissances chalengeuses et indésirables. Il semble que les héritiers du Bismarck chinois devront bientôt méditer ses leçons.

Albrecht ROTHACHER.

(article paru dans « zur Zeit », Vienne, n°40/2010 ; http://www.zurzeit.at/ ).

vendredi, 15 octobre 2010

Come l'Occidente ha devastato l'Afghanistan

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Come l'Occidente ha devastato l'Afghanistan

Ex: http://www.massimofini.it/

Testo integrale dell'articolo pubblicato sul Fatto il 12 ottobre 2010 e ridotto per ragioni di spazio:

Ogni volta che muore un soldato italiano in Afghanistan ci chiediamo «Che cosa ci stiamo a fare lì?». Ma c'è un'altra domanda da farsi: cosa abbiamo fatto in Afghanistan e all'Afghanistan?

1) Dismesse le pelose giustificazioni che siamo in Afghanistan per regalare le caramelle ai bambini, per "ricostruire quel disgaziato Paese", per imporre alle donne di liberarsi del burqua, perché, con tutta evidenza, quella in Afghanistan, dopo dieci anni di occupazione violenta, non può essere gabellata per un'operazione di "peace keeping", ma è una guerra agli afgani, l'unica motivazione rimasta agli Stati Uniti e ai loro alleati occidentali, per legittimare il massacro agli occhi delle proprie opinioni pubbliche e anche a quelli dei propri soldati, demotivati perché a loro volta non capiscono «che cosa ci stiamo a fare quì», è che noi in Afghanistan ci battiamo "per la nostra sicurezza" per contrastare il "terrorismo internazionale".

È una menzogna colossale. Gli afgani, e quindi anche i talebani, non sono mai stati terroristi. Non c'era un solo afgano nei commando che abbatterono le Torri gemelle. Non un solo afgano è stato trovato nelle cellule, vere o presunte, di Al Quaeda. Nei dieci, durissimi, anni di conflitto contro gli invasori sovietici non c'è stato un solo atto di terrorismo, tantomeno kamikaze, né dentro né fuori il Paese. E se dal 2006, dopo cinque anni di occupazione si sono decisi ad adottare contro gli invasori anche metodi terroristici (dopo un aspro dibattito al loro interno: il leader, il Mullah Omar, era contrario perché questi atti hanno delle inevitabili ricaute sui civili e nulla può convenire meno ai Talebani che alienarsi la simpatia e la collaborazione della popolaione sul cui appoggio si sostengono) è perché mentre i sovietici avevano almeno la decenza di stare sul campo, gli occidentali combattono quasi esclusivamente con i bombardieri, spesso Dardo e Predator senza equipaggio, ma armati di missili micidiali e comandati da Nells nel Nevada o da un'area "top secret" della Gran Bretagna. Contro un nemico invisibile che cosa resta a una resistenza? Nei rari casi in cui il nemico si fa visibile i Talebani, nonostante l'incomparabile inferiorità negli armamenti, lo affrontano con classiche azioni di guerriglia com'è stata quella che è costata la vita ai quattro soldati italiani. Azione definita "vigliacca" dal ministro La Russa. Chi è vigliacco? Chi ci mette il proprio corpo e il proprio coraggio o chi stando fuori portata schiaccia un bottone e lancia un missile e uccide donne, vecchi, bambini, com'è avvenuto mille volte in questi anni ad opera soprattutto degli americani ma anche, quando è il caso, degli altri contingenti?

Nel 2001 in Afghanistan c'era Bin Laden che, con l'appoggio degli americani, si era introdotto nel Paese anni prima in funzione antisovietica. Ma Bin Laden cotituiva un problema anche per il governo talebano, tanto è vero che quando ne 1990 Bill Clinton propose ai Talebani di farlo fuori, il Mullah Omar, attraverso il suo numero due Waatki inviato appositamente a Washington dove incontrò due volte il presidente americano, si disse d'accordo purchè la responsabilità dell'assassinio del Califfo saudita se la prendessero gli americani perché Osama godeva di una vasta popolarità nel Paese avendo fatto costruire con i suoi soldi, ospedali, strade, ponti, infrastrutture, avendo fatto cioè quello che noi abbiamo detto che volevamo fare e non abbiamo fatto.

Ma Clinton, nonostante fosse stato il promotore dell'iniziativa, all'ultimo momento si tirò indietro. Tutto ciò risulta da un documento del Dipartimento di Stato americano dell'agosto 2005.

Comunque sia oggi Bin Laden non c'è più e in Afghanistan non ci sono più nemmeno i suoi uomini. La Cia, circa un anno fa, ha calcolato che su 50 mila guerriglieri solo 359 sono stranieri. Ma sono ubzechi, ceceni, turchi, cioè non arabi, non waabiti, non appartenenti a quella Jihan internazionale che odia gli americani, gli occidentali, gli "infedeli" e vuole vederli scomparire dalla faccia della terra. Agli afgani, e quindi ai Talebani, interessa solo il loro Paese. Il Mullah Omar, come scrive Jonathan Steel, inviato ed editorialista del Guardian nella sua approfondita inchiesta "La terra dei taliban" più che un leader religioso è un leader politico e militare. A lui (come ai suoi uomini) interessa solo liberare la propria terra dagli occupanti stranieri così come aveva già fatto combattendo, giovanissimo, contro i sovietici, rimediando la perdita di un occhio e quattro gravi ferite. E sarà pur lecito a un popolo o a una parte di esso esercitare il legittimo diritto di resistere ad un'occupazione straniera, comunque motivata. L'Afghanistan, nella sua storia, non ha mai aggredito nessuno (caso mai è stato aggredito: dagli inglesi, dai sovietici e oggi dagli occidentali) e armato rudimentalmente com'è non può costituire un pericolo per nessuno.

2) Per avere un'idea delle devastazioni di cui siamo responsabili in Afghanistan bisogna capire perché i Talebani vi si sono affermati agli inizi degli anni Novanta. Sconfitti i sovietici i leggendari comandanti militari che li avevano combattuti (i "signori della guerra"); gli Ismail Khan, i Pacha Khan, gli Heckmatjar, i Dostum, i Massud, diedero vita a una feroce guerra civile e, per armare le loro milizie, si trasformarono con i loro uomini in bande di taglieggiatori, di borseggiatori, di assassini, di stupratori che agivano nel più pieno arbitrio e vessavano in ogni modo la popolazione (un camionista, per fare un esempio, per attraversare l'Afghanistan doveva subire almeno venti taglieggiamenti). I Talebani furono la reazione a questo stato di cose. Con l'appoggio della popolazione che non ne poteva più, sconfissero i "signori della guerra", li cacciarono dal Paese e riportarono l'ordine e la legge nel Paese. Sia pur un duro ordine e una dura legge, quella coranica, che comunque non è estranea alla cultura e alla tradizione di quella gente come invece lo  per noi. In ogni caso la popolazione afgana dimostrò di preferire quell'ordine e quella legge al disordine e agli arbitri di prima.

a) Nell'Afghanistan talebano c'era sicurezza. Vi si poteva viaggiare tranquillamente anche di notte come mi ha raccontato Gino Strada che vi ha vissuto e vi ha potuto operare con i suoi ospedali anche se doveva continuamente contrattare con la sessuofobia dei dirigenti talebani che pretendevano una rigida separazione dei reparti a volte impossibile (medici e infermieri donne per i reparti femminili). Gli occidentali gli ospedali li chiudono come è avvenuto a Laskar Gah.

b) In quell'Afghanistan non c'era corruzione. per la semplice ragione che la spiccia ma efficace giustizia talebana tagliava le mani ai corrotti e, nei casi più gravi, anche un piede. Per la stessa ragione non c'erano stupratori. La carriera di leader del Mullah Omar comincia proprio da qui. Una banda aveva rapito due ragazze nel suo piccolo villaggio, Zadeh, a una ventina di chilometri da Kandahar, e le aveva portate in un posto sicuro per farne carne di porco. Omar, a capo di altri "enfants de pays", raggiunse il luogo, liberò le ragaze, sconfisse i banditi e ne fece impiccare il boss all'albero della piazza del Paese). Ancora oggi, nella vastissima realtà rurale dell'Afghanistan, la gente, per avere giustizia, preferisce rivolgersi ai Talebani piuttosto che alla corrotta magistratura del Quisling Karzai dove basta pagare per avere una sentenza favorevole.

c) Nel 1998 e nel 1999 il Mullah Omar aveva proposto alle Nazioni Unite il blocco della coltivazione del papavero, da cui si ricava l'oppio, in campio del riconoscimento internazionale del suo governo. Nonostante quella di boicottare la coltivazione del papavero fosse un'annosa richiesta dell'Agenzia contro il narcotraffico dell'Onu la risposta, sotto la pressione degli Stati Uniti, fu negativa. All'inizio del 2001 il Mullah Omar prese autonomamente la decisione di bloccare la coltivazione del papavero. Decisione difficilissima non solo perché su questa coltivazione vivevano moltissimi contadini afgani, a cui andava peraltro un misero 1% del ricavato totale, ma perché il traffico di stupefacenti serviva anche al governo talebano per comprare grano dal Pakistan. Ma per Omar il Corano, che vieta la produzione e il consumo di stupefacenti, era più importante dell'economia. Aveva l'autorità e il prestigio per prendere una decisione del genere. Una decisione così efficace che la produzione dell'oppio crollò quasi a zero (si veda il prospetto del Corriere della Sera 17/6/2006). Insomma il talebanismo era la soluzione che gli afgani avevano trovato per i propri problemi. Se poi, alla lunga, non gli fosse andata più bene vrebber rovesciato il governo del Mullah Omar perchè in Afghanistan non c'è uomo che non posssieda un kalashnikov. Noi abbiamo preteso, con un totalitarismo culturale che fa venire i brividi (per non parlare degli interessi economici) di sostituire a una storia afgana la storia, i costumi, i valori, le istituzioni occidentali. Con i seguenti risultati.

Sono incalcolabili le vittime civili provocate, direttamente o indirettamente dalla presenza delle truppe occidentali. Le stime dell'Onu non sono credibili perchè una recente inchiesta ha rilevato che in almeno 143 casi i comandi alleati hanno nascosto gli "effetti collaterali" provocati dai bombardamenti indiscriminati sui villaggi. Vorrei anche rammentare, in queste ore di pianto per i nostri caduti, che anche gli afgani e persino i guerriglieri talebani hanno madri, padri, mogli e figli che non sono diversi dai nostri. Inoltre in Afghanistan sono tornati a spadroneggiare i "signori della guerra" alcuni dei quali, i peggiori come Dostum, un vero pendaglio da forca, sono nel governo del Quisling Karzai.

La corruzione, nel governo, nell'esercito, nella polizia, nelle autorità amministrative è endemica. Ha detto Ashrae Ghani, un medico, terzo candidato alle elezioni farsa di agosto, il più occidentale di tutti e quindi al di sopra di ongi sospetto: «Nel 2001 eravamo poveri ma avevamo una nostro moralità. Questo profluvio di dollari che si è riversato sull'Afghanistan ha distrutto la nostra integrità e ci ha reso diffidenti gli uni verso gli altri».

Infine oggi l'Afghanistan "liberato" produce il 93% dell'oppio mondiale.

Ma c'è di peggio. Armando e addetrando l'esercito e la polizia del governo fantoccio di Karzai noi abbiamo posto le premesse, quando le truppe occidentali se ne saranno andate, per una nuova guerra civile, per "una afganizzazione del conflitto" come si dice mascherando, con suprema ipocrisia, la realtà dietro le parole. La sola speranza è che il buon senso degli afgani prevalga. Qualche segnale c'è. Ha detto Shukri Barakazai, una parlamentare che si batte per i diritti delle donne afgane: «I talebani sono nostri connazionali. Hanno idee diverse dalle nostre, ma se siamo democratici dobbiamo accettarle». Da un anno, in Arabia Saudita sotto il patrocinio del principe Abdullah, sono in corso colloqui non poi tanto segreti fra emissari del Mullah Omar e del governo Karzai. Ma prima di iniziare una seria trattativa ufficiale Omar, di fatto vincitore sul campo, pretende che tutte le truppe straniere sloggino. Non ha impiegato trenta dei suoi 48 anni di vita a combattere per vedersi imporre una "soluzione americana". E, come ha detto giustamente il comandante delle truppe sovietiche che occuparono l'Afghanistan: «Bisogna lasciare che gli afgani sbaglino da soli». Bisogna cioè rispettare il principio, solennemente sancito a Helsinki nel 1975 e sottoscritto da quasi tutti gli Stati del mondo, dell'autodeterminazione dei popoli.

E allora perché rimaniamo in Afghanistan e anzi il ministro della Difesa Ignazio La Russa, un ripugnante prototipo dell' "armiamoci e partite", vuole dotare i nostri aerei di bombe? Lo ha spiegato, senza vergognarsi, Sergio Romano sul Corriere del 10 ottobre: perché la lealtà all' "amico americano" ci darà un prestigio che potremo sfruttare nei confronti degli altri Paesi occidentali. Gli olandesi e i canadesi se ne sono già andati, stufi di farsi ammazzare e di ammazzare, per questioni di pretigio. Gli spagnoli, che hanno affermato che nulla gli interessa di meno, che portare la democrazia in Afghanistan, se ne andranno fra poco. Rimaniamo noi, sleali, perché fino a poco tempo fa abbiamo pagato i Talebani perché ci lasciassero in pace, ma fedeli come solo i cani lo sono. Gli Stati Uniti spendono 100 miliardi di dollari l'anno per qusta guerra insensata, ingiusta e vigliacchissima (robot contro uomini). L'Italia spende 68 milioni di euro al mese, circa 800 milioni l'anno. Denaro che potrebbe essere utilizzato per risolvere molte situzioni, fra cui quelle di disoccupazione o di sottoccupazione di alcune regioni da cui partono molti dei nostri ragazzi per guadagnare qualche dollaro in più e farsi ammazzare e ammazzare senza sapere nemmeno perché.

Massimo Fini

lundi, 04 octobre 2010

Le gouvernement turc protège les sociétés parallèles turques en Europe

Andreas MÖLZER :

Le gouvernement turc protège les sociétés parallèles turques en Europe

 

Le premier ministre turc Erdogan entendait naguère inoculer à la culture européenne quelques solides germes turcs. Et voilà maintenant que le ministre turc des affaires étrangères Davutoglu veut « multiculturaliser » l’Europe. Déclarations ou intentions qui devraient conduire à une rupture définitive des négociations en vue de l’adhésion turque à l’UE.

 

mafiaturque.jpgL’UE devrait immédiatement rompre les négociations en vue de l’adhésion turque, a exigé le chef de la délégation libérale autrichienne (FPÖ) au Parlement Européen, Andreas Mölzer, vu les déclarations du ministre turc des affaires étrangères Ahmet Davutoglu, lors d’une interview accordée aux quotidiens autrichiens. « Lorsque Davutoglu exige que l’Europe doit devenir multiculturelle et affirme que si les Turcs étaient poussés dans les marges de la société européenne, la mère patrie turque devraient ouvrir la voie aux sociétés parallèles turques », a rappelé Mölzer.

 

De toute évidence, Ankara ne voit aucune nécessité pour les Turcs, vivant en Europe, de s’assimiler ou de s’intégrer, ajoute le mandataire FPÖ du Parlement Européen. « Les déclarations de Davutoglu ne sont rien d’autre qu’un complément aux propos tenus par le premier ministre turc Erdogan, qui, c’est désormais de notoriété publique, avait déclaré, dans son fameux et controversé discours de Cologne en 2008, que toute assimilation d’un Turc dans la société allemande procédait « d’un crime contre l’humanité » et qu’il entendait inoculer des germes turcs dans le corps de la culture européenne. Ce que laissent entendre Erdogan et Davutoglu n’est rien moins qu’une menace : ils laissent prévoir ce qui adviendra à l’Europe si un jour la Turquie devient membre de l‘UE », nous avertit Mölzer.

 

De surcroît, rappelle le mandataire FPÖ, Ankara ne comprend qu’une seule chose quand on évoque le partenariat : faire passer exclusivement les positions turques. « Les Turcs ne connaissent ni compromis ni concessions mais attendent de l’Europe et compromis et concessions. De ce fait, on peut en conclure qu’une adhésion turque à l’UE n’européaniserait pas la Turquie, mais turquiserait l’Europe : voilà pourquoi il faut rompre toutes les négociations visant l’adhésion sans pour autant abandonner les pourparlers pour aboutir à un partenariat privilégié », a conclu Mölzer.

 

(communiqué de presse paru sur http://www.andreas-moelzer.at/ ).   

vendredi, 01 octobre 2010

L'Afghanistan, coeur géopolitique du nouveau grand jeu eurasiatique

L’Afghanistan, cœur géopolitique du nouveau grand jeu eurasiatique

Par Aymeric Chauprade

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

Le nouveau grand jeu en Afghanistan n’est plus bipolaire. Il n’est plus la vieille opposition du XIXe siècle, dont on a tiré la formule de «Grand Jeu », entre l’Angleterre présente aux Indes et la poussée russe vers les mers chaudes ; il n’est pas plus réductible à l’opposition du XXe siècle entre les intérêts américains et russes.

Le nouveau grand jeu en Afghanistan est à l’image de la géopolitique mondiale : il est multipolaire.

Trois grandes puissances mondiales s’entrechoquent en Afghanistan : Etats-Unis, Russie, Chine. Deux puissances régionales s’y livrent ensuite, par délégation, une guerre féroce : Pakistan et Inde. Dans ces rivalités de premier ordre, interfèrent des intérêts de second ordre, mais qui peuvent influer fortement sur le jeu afghan : les intérêts de l’Iran, ainsi que ceux des républiques musulmanes indépendantes, ex-soviétiques (en particulier, pour des raisons à chaque fois spécifiques, l’Ouzbékistan, le Kirghizstan et le Turkménistan).

 

Combiné à ces rivalités géopolitiques classiques de trois ordres (rivalités identitaires, stratégiques, énergétiques), le jeu du fondamentalisme sunnite est également à prendre en compte. L’islamisme est un acteur global, une créature ancienne, mais réveillée et excitée durant les années 1980 et 1990 par les apprentis-sorciers américains et pakistanais de la CIA et de l’ISI (Inter Services Intelligence), au point de finir par échapper à l’autorité de ses maîtres, sans pour autant avoir complètement rompu avec eux.

Pour quelles raisons le grand jeu en Afghanistan est-il triangulaire ?

Tout d’abord, parce que les Etats-Unis veulent refouler d’Asie centrale au moins autant la Chine que la Russie.

Ensuite, parce que la Russie veut non seulement limiter l’influence de Washington dans ses ex-républiques musulmanes soviétiques aujourd’hui indépendantes, mais également empêcher la Chine de combler le vide que les Américains laisseraient s’ils s’avisaient de quitter l’Afghanistan. Car pour la Russie, l’influence de Pékin en Asie centrale, ce n’est pas la parenthèse artificielle d’une Amérique projetée trop loin de sa terre ; c’est la réalité implacable d’une histoire millénaire, celle des routes de la Soie.

Enfin, le grand jeu en Afghanistan est triangulaire, parce que la Chine ne sera la première puissance géopolitique mondiale que lorsqu’elle aura chassé la flotte américaine du Pacifique et que ses trains rapides atteindront les rivages de l’Atlantique, en France, après avoir parcouru des milliers de kilomètres à travers l’Asie centrale et les plaines d’Europe.

Les Etats-Unis tentent aujourd’hui d’éliminer une force, les Talibans, qu’ils ont contribué à amener au pouvoir à Kaboul en 1997, avant de les en déloger en 2001.

Cliquer sur la carte pour l'agrandir

Les Talibans sont l’aboutissement ultime d’une stratégie de radicalisation des mouvements islamistes, entamée à la fin des années 1970 par l’ISI soutenu par la CIA, au profit d’un triple djihad : contre les chiites pakistanais menacés par l’influence de la Révolution islamique iranienne, contre les communistes pro-russes en Afghanistan, contre les Indiens dans le Cachemire.

Après que des seigneurs de la guerre afghans soient devenus, comme résultat de cette stratégie, à la fois des seigneurs du djihad et de la drogue (lire l’encadré [1] pour comprendre l’importance essentielle du « facteur drogue »), et que les Soviétiques aient reflué (1989), les Américains se sont aperçus que leur société pétrolière UNOCAL n’arriverait jamais à tendre un gazoduc, du Turkménistan au Pakistan, à travers un territoire afghan tribalisé, rançonné par des clans en lutte pour le contrôle du pouvoir politique et de l’héroïne.

Leurs amis pakistanais de l’ISI, également agacés de ne pouvoir contrôler des chefs de guerre féodaux turbulents, ont alors suggéré les Talibans comme solution. Des fanatiques absolus, essentiellement issus de l’ethnie majoritaire d’Afghanistan, les Pachtouns (ethnie divisée par la ligne Durand de 1893, qui deviendra la frontière entre Afghanistan et Pakistan), décidés à imposer la chape de plomb d’un « islam pur des origines », au-dessus des clans, et qui présentaient l’avantage, aux yeux du gouvernement démocrate de William Clinton qui les soutint dès 1994, d’être une solution d’ordre et un interlocuteur unique avec lequel négocier le passage des hydrocarbures.

Puis les Américains se sont fâchés avec les Talibans en 1998, un an après leur arrivée, et c’est ainsi que s’est nouée l’alliance entre les Talibans et Oussama Ben Laden, semble-t-il également fâché depuis lors avec la CIA.

En 2001, en se projetant en Afghanistan, et pour cela également en Ouzbékistan et au Kirghizstan, quels avantages géopolitiques Washington pouvait-il attendre ?

A ce moment, le Groupe de Shanghaï, constitué par les Chinois et les Russes, coopérait fortement dans la lutte contre le terrorisme islamiste, mais également dans le domaine énergétique. L’irruption des Etats-Unis brisa cette dynamique eurasiatique et contribua à repousser la Chine pour quelques années.

Aujourd’hui, la Chine est revenue en force. Elle est, depuis 2009, à la fois le premier partenaire commercial de l’Asie centrale ex-soviétique et le premier fournisseur de l’Iran, devant l’Allemagne qui l’avait été ces vingt dernières années. Or, Moscou n’entend pas voir les Américains remplacés par les Chinois.

Quelle est alors la stratégie des Russes ? Laisser les Américains contenir l’islamisme en Afghanistan, mais devenir incontournables pour eux, stratégie identique à celle suivie sur le dossier nucléaire iranien. D’où le soutien officiel de la Russie aux opérations de l’OTAN en Afghanistan ; d’où, également, l’accord russo-américain de transit aérien de juillet 2009, qui, à mi-avril 2010, avait permis d’acheminer 20 000 militaires occidentaux en Afghanistan (en théorie, l’accord autorise une moyenne de 12 vols américains par jour mais, un an après, la moyenne n’est que de 2).

Pour Moscou, obliger les Américains à passer par la Russie, revient à les chasser de sa périphérie musulmane.

Le 7 octobre 2001, les Etats-Unis avaient signé un accord antiterroriste avec Tachkent (l’Ouzbékistan partage une longue frontière avec l’Afghanistan). Les bases aériennes et l’espace aérien du pays le plus peuplé de l’Asie centrale ex-soviétique leur étaient ouverts. Un an plus tard, le 5 décembre 2002, Washington prenait pied également au Kirghizstan grâce à la base de Manas. Mais en 2005, après la répression d’Andijan (une région turbulente à l’est du pays, où les islamistes sont forts), et refusant l’ingérence démocratique américaine, les Ouzbeks décidaient de se tourner de nouveau vers la Russie (et la Chine) et contraignaient l’armée américaine à plier bagages.

Aujourd’hui, la base de Manas au Kirghizstan et son corridor de 1500 km par voie terrestre jusqu’en Afghanistan, constitue la seule base arrière solide pour les Américains. Environ 35 000 soldats transitent entre Manas et l’Afghanistan chaque mois. La base assure aussi le ravitaillement en vol des avions militaires et apporte beaucoup de sang (100 kg en moyenne chaque nuit, par des vols entre Manas et Kandahar).

Mais les Russes admettent difficilement cette implantation. Le 23 octobre 2003, le président Poutine inaugurait une base aérienne russe de soutien à Kant, à quelques kilomètres de la base américaine.

Ces dernières années, les Kirghizes, conscient de l’immense valeur stratégique de cette base pour la réussite des opérations en Afghanistan, ont fait monter les enchères entre Moscou et Washington. En 2009, les Russes qui avaient sans doute reçu des assurances, ont versé 2 milliards de dollars sous forme de prêt sans intérêt au Kirghizstan ; non seulement le président Bakiev n’a pas fermé la base, mais il a accepté la présence américaine pour une année supplémentaire, en échange d’un triplement du loyer. Le Kirghize a payé sa crapulerie par son renversement début avril 2010, sans doute avec l’appui discret des Russes.

Quelques jours plus tard, les Américains étaient autorisés à rester un an de plus à Manas. Désormais, cela dépend davantage de Moscou. C’est une donnée essentielle.

Plus le temps passe, moins l’action américaine en Afghanistan ne peut se faire en contournant les Russes. C’est, pour Moscou, une assurance devant la montée des Chinois en Asie centrale ex-soviétique.

On oublie que la Russie est le premier pays à avoir soutenu Washington, le lendemain du 11 septembre 2001, dans son action globale contre le terrorisme islamiste. Poutine ne cherchait pas seulement, comme on l’a dit, l’assurance de ne plus être gêné par les critiques occidentales sur la Tchétchénie. Il cherchait un partenariat équilibré avec Washington face à la montée de Pékin, [partenariat] qui eût été possible si Washington n’avait pas étendu l’OTAN jusqu’aux portes de la Russie en 2002, installé dans la périphérie de Moscou des gouvernements proaméricains (Révolutions colorées de Géorgie en 2003, d’Ukraine en 2004) et convaincu d’anciens pays soviétisés (République tchèque et Pologne) d’accepter un bouclier anti-missiles sur leur sol.

Aujourd’hui, la donne est redevenue favorable aux Russes : si les Américains ont reculé sur le bouclier antimissile, c’est qu’ils ont besoin des Russes sur l’Afghanistan et l’Iran, et qu’ils ont aussi perdu l’Ukraine.

Ce que craignent Washington comme Moscou en Asie centrale, dans une perspective de plus longue durée, va au-delà du retour d’un islamisme fort : c’est la domination de la Chine. Investissant dans les hydrocarbures et l’uranium du Kazakhstan, dans le gaz du Turkménistan, construisant des routes pour exporter ses productions vers le Tadjikistan et le Kirghizstan, la Chine est devenue le premier partenaire commercial de l’Asie centrale ex-soviétique en 2009.

Washington est au moins autant en Afghanistan dans le cadre de sa vaste stratégie globale de contrôle de la dépendance énergétique chinoise et d’encerclement de l’Empire du Milieu (voir notre article dans le n°2 de la NRH, sept. Oct. 2002 : « Comment l’Amérique veut vaincre la Chine », que les années passées ont confirmé), que dans sa lutte contre un islamisme devenu incontrôlable.

La Chine a son Turkestan, le Xinjiang, avec sa minorité turcophone ouïghour que les Etats-Unis tentent d’agiter. Elle ne peut relier sans risque son Turkestan à l’ex-Turkestan russe, qu’à la condition de jouir d’une influence politique et économique forte dans le second. Ainsi, ni l’Afghanistan, ni l’Asie centrale ex-soviétique ne risqueraient d’être des bases arrière du séparatisme ouïghour. Ainsi, son grand projet de « China’s Pan-Asian railway », ces routes de la Soie du XXIe siècle, qui mettraient Londres à deux jours de train de Pékin deviendrait possible avant 2025 [2].

En 2006, dans un pays sous tutelle américaine, la Chine n’a pas hésité à investir 3 milliards de dollars dans la mine de cuivre d’Aynak, une des plus grandes du monde. En 2010, les présidents chinois Hu Jintao et afghan Hamid Karzaï ont signé d’importants accords économiques et commerciaux et l’Afghan a commencé à menacer les Américains de se tourner vers Pékin, alors que ceux-ci critiquaient la manière dont l’élection présidentielle s’était déroulée.

L’intérêt de la Chine pour l’Afghanistan ne peut qu’aller croissant, depuis qu’Hamid Karzaï a annoncé (le 30 janvier 2010) ce que les Américains savaient depuis longtemps : « les gisements d’hydrocarbures d’Afghanistan valent sans doute plus d’un millier de milliards de dollars », en plus des gisements de cuivre, de fer, d’or, de pierres précieuses, qui restent non exploités. Ainsi, l’Afghanistan n’est plus seulement une route stratégique pour le désenclavement des richesses ; il est aussi un territoire riche en ressources stratégiques.

La Chine n’est pas la seule future superpuissance à regarder vers l’Afghanistan. Depuis la chute des Talibans en 2001, l’Inde a engagé 1,3 milliards de dollars dans la reconstruction de l’Afghanistan, soit dix fois plus que la Chine ; cela fait de New Delhi le premier donateur de la région (signe politique fort : le nouveau Parlement afghan a été financé par l’Inde).

Si les Etats-Unis se retiraient d’Afghanistan, l’Inde pourrait devenir l’allié du régime afghan face aux Talibans. C’est le cauchemar du Pakistan qui, sous pression américaine, doit réduire ses créatures fondamentalistes. L’ISI a façonné des groupes fanatiques pour massacrer l’Indien dans le Cachemire et il est probable que les attentats graves qui ont frappé les intérêts indiens à Kaboul (en 2007 et 2009 contre l’ambassade) soient encouragés par le service pakistanais, lequel s’emploie à pousser l’Inde hors de l’Afghanistan.

Sans l’Afghanistan, le Pakistan a encore moins de profondeur stratégique, ce qui est déjà sa faiblesse face à l’Inde (le déficit en puissance conventionnelle du Pakistan expliquant sa doctrine nucléaire de première attaque). Islamabad a donc comme priorité stratégique absolue d’empêcher la formation d’une alliance stratégique Kaboul-New-Delhi.

L’Inde et le Pakistan, qui se sont fait trois guerres depuis l’indépendance de 1947, mènent une nouvelle guerre par procuration en Afghanistan. La stratégie d’inflammation du rapport entre les deux voisins, menée par les groupes pakistanais les plus radicaux (attentats de Bombay en 2008 et de nombreux autres depuis), a fonctionné.

L’ISI ne peut plus contrôler les monstres qu’il a créés. Et d’ailleurs, comment pourrait-il expliquer à ses monstres de continuer à massacrer les Indiens dans le Cachemire et en Afghanistan, et de se calmer en même temps contre les « mécréants occidentaux» ? Les systèmes politiques reviennent toujours à leurs gènes. Or l’islam radical est au cœur du génome pakistanais.

Cet islam du Pachtounistan (terre des Pachtouns, à cheval sur l’Afghanistan et le Pakistan, notamment les fameuses zones tribales) menace l’équilibre régional et peut-être même au-delà. Il est certain que si les Etats-Unis se désengageaient maintenant, un autre acteur majeur serait contraint de s’engager, dans le but de prévenir le double risque de basculement de l’Afghanistan et du Pakistan (pays doté de l’arme nucléaire) dans les mains d’un régime sunnite fanatique. On voit mal les Russes revenir, ne reste que l’Inde. Mais que ferait alors le Pakistan, si les troupes indiennes débarquaient en force sur le territoire afghan ?

L’Inde a besoin d’une Asie centrale stable, pour satisfaire ses besoins énergétiques. Deux routes d’alimentation essentielles s’offrent à elle : le gazoduc IPI (Iran Pakistan Inde), qui lui amènera du gaz iranien provenant du gisement géant de South Pars dans le Golfe Persique (le Pakistan, après des années d’hésitation a fini par signer en mars 2010 le projet de pipe) ; et le fameux gazoduc TAPI (Turkménistan, Afghanistan, Pakistan, Inde) voulu par UNOCAL, un tuyau lui-même raccordé vers l’Ouest aux autres « routes américaines » (celles qui concurrencent le réseau russe), le corridor transcaspien et le BTC (Bakou Tbilissi Ceyhan).

Les Etats-Unis, qui soutiennent depuis longtemps ce projet de pipe vers l’Inde et l’Asie du Sud-est, depuis le Turkménistan et à travers l’Afghanistan et le Pakistan, veulent absolument doubler l’Iran et empêcher le régime chiite de devenir incontournable pour l’Asie (Chine, Japon, Inde) ; ils n’ont pas pu empêcher le Pakistan de signer l’IPI avec l’Iran, car ils ont besoin de la coopération d’Islamabad dans la lutte contre les Talibans. Ils sont par ailleurs empêchés de réaliser le TAPI, à cause de la situation sécuritaire en Afghanistan.

L’Iran (en plus de la Chine) est bien l’une des cibles que les Américains veulent atteindre depuis l’Afghanistan. Les accusations américaines concernant une hypothétique collaboration entre Téhéran et les Talibans se sont multipliées en 2009 et 2010. Ainsi, l’amiral américain Mullen a parlé (fin mars 2010) de fournitures d’armes et d’entraînement militaire par les Pasdarans. On sait que les Américains remuent aussi le séparatisme baloutche (le peuple baloutche est à cheval sur l’Est de l’Iran, le Sud de l’Afghanistan et l’Ouest du Pakistan) contre Téhéran.

Cliquez sur la carte pour l'agrandir

L’intérêt réel des Iraniens est-il de voir les Talibans triompher en Afghanistan ? Certainement pas. Mieux vaut un Afghanistan infecté, dans lequel les Américains s’engluent sans jamais l’emporter (d’où la possibilité d’éventuels coups de pouce dosés aux Talibans), plutôt que l’installation d’un régime sunnite radical, violemment anti-chiite, à Kaboul. Les intérêts iraniens et pakistanais se rejoignent, d’une certaine manière, dans l’idée suivante : « une bonne dose de Talibans, mais pas trop, de sorte que les Américains restent là où ils sont aujourd’hui ».

Cependant, rien ne prouve que l’Iran aide les Talibans. Pour accuser Téhéran, les Américains s’appuient sur des déclarations de Talibans qui se sont vantés de cette aide. Mais nonobstant même le problème de l’incompatibilité idéologique entre Iraniens et Talibans, on peut imaginer que ces Talibans qui ont intérêt à ce que les Américains ouvrent un second front en Iran, s’amusent à mettre de l’huile sur le feu…

On le voit, nombreuses sont les puissances qui ont intérêt à ce que les Américains restent en Afghanistan sans jamais l’emporter vraiment : Russes, Chinois, Iraniens, Pakistanais, Indiens même. Dans ces conditions, il n’est plus certain que les Américains et les Européens qui les suivent mènent une guerre pour leurs intérêts propres.

En réalité, aucune victoire durable n’est possible en Afghanistan, sans une transformation profonde du Pakistan lui-même. Or, en se démocratisant, le Pakistan a ouvert d’immenses perspectives aux fondamentalistes (contrairement aux régimes anti-islamistes forts d’Asie centrale ex-soviétique). En toute logique, une arme nucléaire qui existe déjà et qui est susceptible de tomber dans les mains de Talibans devrait inquiéter davantage Washington, qu’une arme qui n’existe pas dans les mains d’Iraniens bien plus pragmatiques que les islamistes pachtouns et finalement potentiellement capables d’équilibrer… le danger nucléaire pakistanais.

———————-

Notes :

[1] Cet encadré est manquant dans l’article original, reproduit ici (Note de Fortune).

[2] Ce projet de train à grande vitesse traversant l’Eurasie à travers Asie centrale doit relier 17 pays reliés suivant 3 routes différentes et au total 81 000 km 1/ la route du Sud allant de Kunming sur les contreforts du Tibet en Chine jusqu’à Singapour à travers l’Asie du Sud Est 2/ la route de l’Europe depuis Urumqi (capitale du Xinjiang) jusqu’à l’Allemagne, à travers l’Asie centrale 3/ la route de l’Europe du Sud enfin, depuis Heilongjiang au nord est de la Chine jusqu’à l’Europe du Sud Est à travers la Russie.

Aymeric Chauprade est professeur de géopolitique, directeur de la Revue Française de géopolitique et du site www.realpolitik.tv. Il est l’auteur de l’ouvrage de référence «Géopolitique, constantes et changements dans l’histoire», éd. Ellipses.

Realpolitik.tv

jeudi, 30 septembre 2010

Türkische Regierung ist Schutzherrin türkischer Parallelgesellschaften in Europa

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Türkischer Regierung ist Schutzherrin türkischer Parallelgesellschaften in Europa 

Ex: http://www.andreas.moelzer.at/

Premier Erdogan will europäische Kultur mit türkischer impfen und nun will Außenminister Davutoglu Europa „multikultureller“ machen – Beitrittsverhandlungen sind sofort abzubrechen

Die Europäische Union müsse unverzüglich die Beitrittsverhandlungen mit der Türkei abbrechen, forderte heute der freiheitliche Delegationsleiter im Europäischen Parlament, Andreas Mölzer, angesichts der vom türkischen Außenminister Ahmet Davutoglu am Wochenende in Interviews mit österreichischen Tageszeitungen getätigten Aussagen. „Wenn Davutoglu verlangt, Europa müsse multikultureller werden, und behauptet, Türken würden in Europa an den Rand der Gesellschaft gedrängt werden, dann soll der Ausbreitung türkischer Parallelgesellschaften der Weg bereitet werden“, betonte Mölzer.

Offenbar sähe Ankara, so der freiheitliche EU-Mandatar, keine Notwendigkeit, dass sich in Europa lebende Türken integrierten oder gar assimilierten. „Davutoglus Aussagen sind nichts anderes als eine Fortsetzung der Äußerungen des türkischen Ministerpräsidenten Erdogan, der bekanntlich in seiner berühmt-berüchtigten Kölner Rede Assimilierung als ‚Verbrechen gegen die Menschlichkeit‘ bezeichnet hatte und der die europäische Kultur mit der türkischen ‚impfen‘ will. Was Erdogan und Davutoglu so von sich geben, ist nichts anderes als eine gefährliche Drohung, was auf Europa alles zukommen wird, wenn die Türkei eines Tages EU-Mitglied sein sollte“, warnte Mölzer.

Außerdem wies der freiheitliche Europa-Abgeordnete darauf hin, dass Ankara unter Partnerschaft ausschließlich die Durchsetzung der eigenen Positionen verstehe. „Kompromissbereitschaft und Nachgeben kennen die Türken nicht, erwarten es aber von Europa. Daher würde ein EU-Beitritt nicht die Türkei europäisieren, sondern Europa türkisieren, weshalb die Beitrittsverhandlungen mit Ankara abzubrechen und Gespräche über eine privilegierte Partnerschaft aufzunehmen sind“, schloss Mölzer.

samedi, 25 septembre 2010

Un intellectuel turc casse le morceau

Un intellectuel turc casse le morceau

par Jean-Gilles Malliarakis

Ex: http://www.insolent.fr/

9782917329184-web1.jpgUne réforme constitutionnelle a été adoptée à Ankara par référendum, le 12 septembre. Victoire du gouvernement de l'AKP, approuvée par 59 % du corps électoral, elle relance une illusion.

L'occident pense en effet que la montée du pouvoir civil s'identifie à l'idée que nous nous faisons de la démocratie. Les partisans européens de l'adhésion à l'Union vont relancer ce mythe, en faisant totalement abstraction de l'opinion réelle et des objectifs nationaux des intéressés.

Ne dissimulons à cet égard ni le danger ni même peut-être le but, plus ou moins sournois. Car dans cette négociation factice, toute une campagne d'intoxication entoure cette opération truquée.

Il s'agit bel et bien d'imposer à l'Europe l'évacuation de toute référence identitaire. Par conséquent, on en vient à la priver de tout destin véritable.

Les pères fondateurs du traité de Rome de 1957 pensaient à la reconstruction de ce qui s'appelait autrefois la République chrétienne. D'autre part, leur système était fondé sur le libre-échange ; or, on tend désormais à lui substituer une conception sociale démocrate. C'est ainsi que deviennent objet de référence les pestilentielles formulations de la "charte des droits". Quoique rejetée par l'échec du référendum de 2005, celle-ci a été affirmée comme politique de l'Union par la misérable présidence Chirac en décembre 2000. Et, du fait de cette aberrante proclamation, elle est entrée dans la base doctrinale de la cour de Luxembourg supposée dire le droit communautaire.

Or un petit livre vient de paraître sous le titre "Turquie : le putsch permanent" (1) par Erol Özkoray. Je le trouve remarquable et d'une lecture agréable. Ceci me redonne le moral car, en tant qu'auteur moi-même d'un ouvrage où je cherche à donner quelques clefs sur "La Question turque et l'Europe" je me sens moins seul. (2)

Non que je me considère comme isolé, critiquant la perspective illusoire de l'adhésion d'Ankara : de nombreux Français croient s'opposer à cette candidature. Mais en réalité, ils ne font rien pour l'enrayer.

Le petit livre qui vient de paraître ne rejoint pas non plus ma conclusion. Du point de vue intérieur de son pays, en effet, le mirage de l'Union européenne sert aussi à promouvoir une certaine forme de libéralisation et de démocratisation.

Mais, partant de la réalité turque, l'auteur ne souhaite ni la victoire des forces islamistes, ni de la dictature silencieuse des réseaux kémalistes.

Voila en effet pour la première fois peut-être depuis 1919, du moins en langue française, un auteur issu de la Turquie qui montre clairement, explicitement, politiquement, socialement même, de quel mal il est atteint. Car ce pays souffre, beaucoup plus qu'on ne le croit, pris en étau entre l'héritage traumatisant du kémalisme et la menace de l'islamisme.

Jamais en effet le totalitarisme rampant dans lequel il baigne depuis la victoire de Kemal n'a été vraiment remis en cause. L'instauration artificielle du multipartisme en 1946 a juste permis la réislamisation.

L'auteur souligne la puissance de l'armée, et il semble considérer que les quatre républiques successives n'ont fait que permettre aux militaires de prendre plus de poids dans la société civile et dans l'économie.

Il évoque en exemple le rôle du groupe de presse quasi monopoliste Dogan (3). Celui-ci contrôle 70 % du tirage des grands journaux. Or il répercute systématiquement les mots d'ordre de l'État-major. Il parvient même à les diffuser en occident. Le gouvernement civil islamisant cherche à l'abaisser. Il a pour cela employé le moyen le plus rustique d'une énorme amende fiscale. Mais dans le meilleur des cas il ne fera que laisser la place à un concurrent aussi dangereux, celui des adeptes du mouvement Güllen, agent de la réislamisation du pays, sous les faux-nez de la modernisation.

Notre auteur révèle (page 24) surtout les "lignes rouges de la constitution secrète", soit "l'Acte politique de sécurité nationale", désigné en turc sous le sigle MGSB. Cette ligne se définit en 5 points :

"1° concernant le problème kurde, empêcher la fragmentation du pays ;
2° ne faire aucune concession sur le problème chypriote ;
3° rendre intouchable la laïcité de l'État ;
4° œuvrer contre l'Église orthodoxe dans le pays ;
5° ne jamais accepter le terme de génocide concernant la question arménienne."


Toutes les plus petites tentatives de rogner cette plateforme ont été démenties. Dernière en date : le projet d'une liturgie orthodoxe à Sainte-Sophie qui devait, avec l'accord initial des autorités, se dérouler le 17 septembre en présence de 200 pèlerins, a été annulé, à la dernière minute, comme s'il s'agissait d'une "provocation". En même temps on disserte à Bruxelles sur les libertés religieuses.

Je me séparerais éventuellement de l'auteur sur deux points.

Sa conclusion, très courte, à peine un quart de page, ne laisse pas beaucoup de place à l'espoir.

On se demande si sa conviction ne rejoint pas la prophétie très pessimiste, qu'il évoque, selon laquelle l'Asie mineure pourrait ainsi devenir la Yougoslavie du XXIe siècle. Or, à cette perspective catastrophique, l'armée offre aux puissances étrangères la seule illusion d'un rempart.

De manière ambiguë, d'autre part, les mêmes dernières lignes semblent confier à l'Union européenne le soin de guérir le patient.

Il souligne pourtant que cette nation (4), loin de correspondre à une mythique "race", assemble 36 ethnies et 7 religions. En cela, si deux ou trois groupes, aujourd'hui ultra-minoritaires peuvent s'identifier à la communauté européenne, il n'en va pas de même pour la nationalité supposée "centrale", celle des Turcs musulmans sunnites, ni non plus pour les Kurdes, pour les Alévis, pour les différents caucasiens, Tcherkesses ou Circassiens, pour les "dönmeh", pour les "nastouri", pour les Syriaques, ni enfin pour les descendants de gens ayant quitté notre continent après leur conversion à l'islam, etc. qui n'appartiennent de ce fait ni à l'Europe historique ni à l'Europe géographique.

Pourquoi laisse-t-il le lecteur imaginer dès lors que l'Union européenne pourrait résoudre les problèmes de ce pays ? Assemblage de gens qui en général ne connaissent rien ni au monde balkanique, ni à l'héritage ottoman, ses excellentes intentions tombent à côté. Personne ne lit les rapports de son administration de Bruxelles, pourtant clairs, sur l'impossibilité de l'intégration.

Il me semble revenir donc aux libéraux turcs de réformer leur pays, avec toute notre sympathie, et de tirer parti de la proposition franco-allemande d'un partenariat privilégié avec l'Europe.

On doit sans doute considérer la Turquie comme un pays estimable, riche de promesses, peut-être plein d'avenir, à l'instar de la Chine, de l'Inde, de la Corée ou du Japon. Mais pas plus que l'Empire du Milieu, il ne fait partie de notre famille de peuples.

Ne confondons pas voisin et cousin.
JG Malliarakis

Apostilles
  1. aux Éditions Sigest.
  2. aux Éditions du Trident.
  3. À ce sujet en laissons pas le lecteur dans l'ignorance que l'héritière de ce groupe, Mme Arzuhan Yalcındag préside la Tüsiad, c'est-à-dire le patronat turc. Elle fait évidemment partie du comité exécutif de cet "Institut du Bosphore" qui se présente comme "l'acteur incontournable du rapprochement franco-turc". On y retrouve Alexandre Adler et bien d'autres.
  4. Il donne à ce mot le sens très précis de la fameuse conférence de Renan de 1882.

Vous pouvez entendre l'enregistrement de cette chronique

sur le site de Lumière 101

Le mouvement aryen en Iran

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Le mouvement aryen en Iran

 
ll y a maintenant en Russie beaucoup de publications consacrées à la révolution islamique, quand la monarchie fut renversée et qu’il y eut un Etat des mollahs. Les historiens et les journalistes qui rendent célèbre la révolution islamique passent consciemment sous silence ce que se passa en Iran jusqu’en 1978.

Il est naturel qu’un pays dont le nom vient du mot Aryanam-vaejo, c’est-à-dire le pays des Aryens, n’ait pu rester indifférent aux événements européens. La religion et la tradition islamiques furent imposées au pays d’abord par les conquérants arabes, puis par les fondamentalistes musulmans. Dans le pays de Zoroastre, Kir, Darius, Iskander et Rustem, elles sont étrangères. De plus, les nouveaux venus turco-mongols inondant au XIIIe siècle toute l’Asie supprimèrent toute l’élite persane. Jusqu’au siècle dernier les Turcs occupaient les postes-clés dans l’armée persane et dans le gouvernement, ce qui mena le pays à l’appauvrissement et à la dévastation.

Pour lutter contre la contagion révolutionnaire les Perses à l’exemple des Russes commencèrent à utiliser des cosaques, qui créèrent la brigade persane des cosaques. Le commandant de cette brigade devint bientôt le jeune et talentueux Mohamed Reza, qui était le fils d’un riche paysan persan. Reza détruisit d’abord les révolutionnaires et les séparatistes, puis tourna ses troupes vers Téhéran.

S’étant mis à la tête du gouvernement, il tâcha par tous les moyens de discréditer le shah, qu’il détestait. En 1925, le Premier ministre, profitant de l’absence du shah, l’accusa d’incompétence et le démit. Mohamed Reza décida de fonder une nouvelle dynastie Pahlavi, d’après l’ancien nom des rois parthes. Pendant le couronnement, le shahinshah (l’empereur) frais émoulu, imitant Charlemagne, arracha la couronne des mains du religieux qui devait le couronner. Alors l’un des hommes politiques présents prononça cette phrase historique : « Enfin un homme appartenant à la race aryenne est arrivé à la tête de notre Etat ».

Le nouveau shah proclama la nécessité de l’européisation : le costume européen et le calendrier solaire furent introduits, les noms des villes et des mois du vieil Iran furent rétablis. Les journaux et la radio commencèrent à glorifier la grandeur de l’ancien Iran, prêchant partout le nationalisme persan. En politique étrangère le shah s’orienta vers l’Italie fasciste, à l’exemple de laquelle furent créés de nombreux détachements de jeunesse scouts. Le shah souligna par tous les moyens que son arrivée au pouvoir était une sorte de révolution fasciste.

Mais la jeunesse était encore plus attirée par le mouvement pour la pureté de la race aryenne en Allemagne, que préconisait l’hebdomadaire l’« Iran-e-bastan » (L’Ancien Iran) et le groupe formé autour de lui. La jeunesse organisait des manifestations bruyantes en soutien aux nazis allemands, manifestations qui finissaient le plus souvent par des heurts avec la police, parce que le shah était très réservé concernant le parti d’Hitler. Cependant l’influence du national-socialisme germanique était très grande en Iran : le général Zahedi, le Parti Nationaliste de l’Iran, plusieurs représentants du clergé et des députés du Medjlis (le parlement iranien) sympathisaient avec lui. Même le parti gouvernemental « Iran Novin » (Nouvel Iran), créé en 1929, prit la croix gammée comme emblème.

La propagande du national-socialisme en Iran se renforça après l’arrivée au pouvoir d’Hitler en 1933. Le Troisième Reich commença à aider l’Iran avec des techniciens et des spécialistes. Des étudiants et des officiers iraniens firent leurs études en Allemagne. La propagande hitlérienne radiodiffusait sur la nécessité de l’union entre les « Aryens du Nord » et la « nation de Zoroastre » ; en plus de cela, les Perses étaient considérés comme des Aryens pur sang et par un décret spécial furent exemptés de l’application des lois raciales de Nuremberg. Après cela en Iran vinrent souvent d’Allemagne des conférenciers pour des sujets raciaux, et des peintres allemands, qui organisaient là des expositions de tableaux glorifiant la race aryenne.

Quand, en 1937, l’Iran reçut la visite du leader de la jeunesse allemande Baldur von Schirach, on lui organisa une réception pompeuse, et la jeunesse iranienne défila le bras tendu. Cette activité effraya le shah, qui voyait en cela une menace pour son pouvoir. D’autant plus que la même année on découvrit un complot ayant à sa tête le lieutenant M. Dzhadzhuz, qui voulait renverser le shah et établir une dictature de droite. Après l’exécution des révoltés, le shah interdit le national-socialisme dans le pays et ordonna de fermer l’« Iran-e-bastan ». Le mouvement national-socialiste avec à sa tête le docteur Dzhahansuzi entra dans la clandestinité.

Mais la propagande nazie en Iran se poursuivit quand même. Elle agissait officiellement – par les journaux et les consulats allemands – et illégalement. Une fois une affaire fit scandale : le bulletin officiel iranien publia l’article de A. Rosenberg : « Où la race aryenne s’est le mieux conservée », offensant les sentiments des musulmans. Les Allemands durent annoncer que Hitler avait accepté l’islam pour retrouver la sympathie du petit peuple iranien. Vers 1940 les Allemands devinrent tellement audacieux qu’une « maison Brune » fut ouverte à Téhéran et qu’ils procédèrent à la construction de la « Naz’jabada » (la ville des nazis), à laquelle participèrent les membres de l’organisation « Melli modafe » (la Protection Nationale) de la jeunesse radicale de droite. Les consulats allemands répandaient activement « Mein Kampf » et le bulletin « l’Aryen » en farsi.

Dès 1940 dans le pays apparurent de nouveaux groupements radicaux de droite : « Kabud » (Bleu), « Millet » (Nation), « Mejhanparastan » (les Patriotes), l’« Iran-e-bidar » (l’Iran Réveillé), « Shijahtushan » (les Manœuvres), « Pejkar » (la Lutte), « Mejhan » (la Patrie), « Istikal » (Indépendance), ainsi que l’organisation« Nehzat-e-melli » des officiers nazis (le Mouvement national). Toutes ces organisations s’unirent en 1942 au parti « Mellijun Iran » (les Nationalistes iraniens). Le renforcement de la droite radicale fut notamment la raison de l’occupation de l’Iran par les troupes de la coalition anti-hitlérienne.

Après leur départ en 1949, il y eut un Parti national des ouvriers socialistes. En 1951, les sections d’assaut de cette organisation saccagèrent l’exposition des marchandises soviétiques. Dès 1952, le Parti de la nation iranienne s’orienta contre le capitalisme et l’impérialisme, mais agit aussi contre le communisme pour la protection de la nation et de la monarchie. Le Parti des travailleurs de l’Iran et le groupement « Troisième force » manifestaient avec des slogans analogues.

mercredi, 22 septembre 2010

Oceano Indiano: qui si svolge la grande battaglia per il dominio del mondo

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Oceano Indiano: qui si svolge la grande battaglia per il dominio del mondo

 

di Hassan Mohamed

Fonte: eurasia [scheda fonte]

Il destino del mondo si gioca oggi nell’Oceano Indiano? Dominato dall’arco dell’Islam (che varia dalla Somalia all’Indonesia attraverso il Golfo e l’Asia centrale), la regione è sicuramente diventata il nuovo centro di gravità strategico del pianeta. Questo nuovo capitolo della nostra serie “Comprendere il mondo musulmano“, ci accompagna in una crociera. Mohamed Hassan spiega come lo sviluppo economico della Cina, che sconvolge l’equilibrio delle potenze mondiali e fa uscire il Sud dalla sua dipendenza dell’Occidente. Ci rivela anche le strategie attuate dagli Stati Uniti per cercare di mantenere la leadership. E perché l’impero USA è tuttavia destinato all’estinzione. Infine, ci ha previsto la fine della globalizzazione. Resta la questione se questa rapina globale finisca senza problemi, o se i rapinatori liquidaranno gli ostaggi, in questa avventura.

Serie “capire il mondo musulmano” .

Dal Madagascar alla Thailandia, passando per la Somalia, il Pakistan o la Birmania, il bacino dell’Oceano Indiano è particolarmente agitato! Come spiega queste tensioni?

L’equilibrio del potere nel mondo è in subbuglio. E la regione dell’Oceano Indiano è al centro di questa tempesta geopolitica.

Di quale zona parliamo, esattamente?

Si va dalla costa orientale dell’Africa al sud dell’Asia. Con un lago (il Mar Caspio) e tre fiumi: il mare del Golfo, Mar Rosso e il Mar Mediterraneo.

Perché questa regione è così importante? Primo, perché il 60% della popolazione mondiale è concentrata in Asia ed è collegata all’Oceano Indiano. Da sole, Cina e India assorbono il 40% della popolazione mondiale. Inoltre, l’affermazione economica di queste due potenze, avviene nell’Oceano Indiano, una zona particolarmente strategica. Oggi, il 70% del traffico mondiale di petrolio passa attraverso questo oceano. Tale percentuale dovrebbe aumentare, per le crescenti esigenze di entrambi i paesi. Inoltre, il 90% del commercio mondiale è trasportato da navi portacontainer e l’Oceano Indiano riceve solo la metà di questo traffico.

Come previsto dal giornalista statunitense Robert D. Kaplan, stretto consigliere di Obama e del Pentagono, l’Oceano Indiano diventerà il centro di gravità strategico del mondo del 21° secolo. Non solo questo oceano è un passaggio fondamentale per le risorse energetiche e commerciali tra il Medio Oriente e Asia orientale, ma è anche al centro degli assi di sviluppo economico tra la Cina, da una parte, e Africa e America Latina, dall’altra.

L’ascesa di queste nuove relazioni commerciali significa che il Sud si sta liberando dalla sua dipendenza dall’Occidente?

In effetti, alcune cifre sono impressionanti: il commercio Cina – Africa è aumentato di venti volte dal 1997. Quello con l’America Latina di quattordici in meno di dieci anni! India e Brasile, inoltre, collaborano più strettamente con il continente africano. Sotto la spinta della Cina, gli investimenti Sud-Sud sono aumentati rapidamente. Dopo essere stata depredato e saccheggiato per secoli, il Sud finalmente esce dal suo torpore.

Perché così tanti paesi dell’Africa e dell’America Latina si stanno rivolgendo alla Cina?

Per secoli, l’Occidente s’è impegnato in un vero e proprio saccheggio delle risorse del Sud, ostacolando i paesi in via di sviluppo, soprattutto attraverso un debito odioso. Ma la Cina sta offrendo prezzi migliori per le materie prime, e investe nei paesi in via di sviluppo per sviluppare infrastrutture, programmi sociali o progetti di energia pulita. Ha anche abolito i dazi doganali all’importazione di molti prodotti africani, facilitando notevolmente la produzione e il commercio di questo continente. Infine, ha anche annullato il debito dei paesi più poveri dell’Africa.

Inoltre, a differenza delle potenze occidentali, la Cina non interferisce nella politica interna dei suoi partner economici. In una conferenza ministeriale Cina-Africa, il premier cinese Wen Jiabao ha riassunto la politica del suo paese: “Il nostro commercio e la nostra cooperazione economica sono basate sul reciproco vantaggio. (…) Non abbiamo mai posto condizioni politiche all’Africa e non lo faremo mai neppure in futuro.” Che differenza dalle potenze occidentali che hanno continuamente fatto e disfatto i governi in Africa! Il Sud ha sete d’indipendenza: l’alleanza con la Cina è una reale opportunità per placare quella sete.

Infine, i paesi capitalisti occidentali versano in grave crisi economica, che ha ripercussioni sulla Cina, ma che non gli impedisce di mantenere una forte crescita. In questa situazione, è normale che i paesi africani e latinoamericani si stiano rivolgendo al più forte partner economico. Come indicato sul Financial Times, in precedenza, il Brasile è stato colpito dalla crisi negli Stati Uniti. Ma nel 2009, la sua economia ha continuato a crescere, e non è un caso che la Cina sia diventata il suo principale partner economico.

Questa Sud-Sud sfida l’egemonia occidentale. Gli Stati Uniti e l’Europa lasciano la Cina invadere il loro territorio?

Nel complesso, lo sviluppo di questo asse Sud-Sud presenta due principali minacce per gli interessi delle potenze imperialiste, e in particolare per gli Stati Uniti. In primo luogo, si ritira dalla zona d’influenza dei paesi occidentali ricchi di materie prime. In secondo luogo, permette alla Cina di avere tutte le risorse necessarie per continuare il suo folgorante sviluppo. In piena crescita, Pechino sta raggiungendo la prima potenza economica: gli Stati Uniti. Secondo Albert Keidel, ex economista della Banca Mondiale e membro del Consiglio Atlantico, la Cina potrebbe andare in testa nel 2035.

Oggi, Washington cerca quindi di contenere l’emergere della Cina per mantenere la leadership. E il controllo dell’Oceano Indiano è al centro di questa strategia. La lotta contro la pirateria somala è, in realtà, un pretesto per la posizione delle forze NATO nell’Oceano Indiano, e per mantenere il controllo delle potenze occidentali in questo bacino. Anche il Giappone ha iniziato la costruzione di una base militare a Gibuti, per la lotta contro la pirateria.

Parliamo ora di pirati, o dei terroristi islamici. Minaccia o pretesto?

Non sto dicendo che non vi è alcuna minaccia. Semplicemente, le potenze occidentali li strumentalizzano per i loro interessi strategici nella regione. Come s’è sviluppata la pirateria in Somalia? Da oltre venti anni, non vi è nessun governo in questo paese. Alcune società europee hanno colto l’occasione per venire a saccheggiare il pesce al largo delle coste, e gli altri a scaricare rifiuti tossici. In queste condizioni, i pescatori somali, inabili al lavoro, si sono impegnati nella pirateria per sopravvivere. Naturalmente, il fenomeno ha assunto un’altra dimensione da allora. Ma se si vuole risolvere il problema della pirateria, lo si deve attaccare alla radice e ristabilire un ordine politico legittimo in Somalia. Ordine che gli USA non hanno voluto finora…

Sì, e la loro politica sciocca potrebbe creare problemi ben più gravi. Infatti, dobbiamo sapere che la Somalia è il centro storico dell’Islam in Africa orientale. In precedenza, l’influenza dei capi religiosi somali era molto importante. Avevano portato l’islam sunnita fino in Mozambico. Inoltre, quando gli sciiti dell’Oman estesero la loro influenza in Africa orientale, nel corso del 18° secolo, hanno pesantemente influenzato la cultura della regione, ma non furono in grado di convertire la popolazione allo Sciismo.

Oggi, un movimento islamico potrebbe svilupparsi a causa degli errori commessi dagli Stati Uniti nel Corno d’Africa. E se i leader di questo movimento utilizzeranno questa storia comune per raccogliere membri in tutta l’Africa orientale, e difendere la Somalia come un centro dell’Islam africano, la minaccia diventerà molto grave per gli Stati Uniti!

L’Oceano Indiano è sormontato dalla “arco dell’Islam“, che si estende dall’Africa orientale all’Indonesia, attraverso il Golfo e l’Asia centrale. Come questo oceano, la culla del potere musulmano, è finito sotto il dominio delle potenze occidentali?

Prima dell’apertura del Canale di Suez nel 1869, quattro grandi potenze dominavano la regione: l’impero turco ottomano, i persiani (oggi Iran), quella dei Moghul (l’impero musulmano che fiorì in India) e la Cina. Attraverso l’Oceano Indiano, il commercio aveva messo in contatto i popoli musulmani con altri popoli della regione, e ha contribuito a diffondere l’Islam in Cina e in Africa orientale. Così l’arco di Islam è stato formato e l’Oceano Indiano è stato ampiamente dominato da potenze musulmane.

a un evento importante si è verificato in India, smorzando la dominazione europea sulla regione: la ribellione indiana nel 1857. I sepoy erano soldati indiani al servizio della compagnia delle Indie inglese. Le ingiustizie inflitte dai loro datori di lavoro hanno portato a una ribellione che, molto rapidamente, ha portato a un grande movimento popolare. E’ stata una rivolta molto violenta, i sepoy massacrarono molti inglesi, ma che infine riuscirono a reprimere il movimento. In Gran Bretagna, una campagna propagandistica denunciava la barbarie dei sepoy. Karl Marx analizzò questo evento e ne trasse le conclusioni: “I loro metodi sono barbari, ma dobbiamo chiederci chi li ha portati a mostrare una tale brutalità: i coloni britannici che si stabilirono in India.”

Oggi stiamo vivendo la stessa cosa con gli attentati dell’11 settembre. Tutta l’opinione pubblica occidentale è portata ad indignarsi per i metodi barbari dei terroristi islamici. Ma non si fanno domande soprattutto sui fattori che hanno dato origine a questa forma di terrorismo, che ci rimanda alla politica estera degli Stati Uniti in Medio Oriente, durante gli ultimi cinquant’anni.

Infine, la soppressione della ribellione ha avuto due importanti conseguenze: in primo luogo, la colonia indiana, precedentemente gestita da società private, ufficialmente passò sotto l’amministrazione del governo britannico. Poi, la Gran Bretagna depose l’ultimo leader dei musulmani dell’India, l’imperatore Mogul Muhammad Bahâdur Shâh. Fu esiliato in Birmania, dove finì i suoi giorni.

Undici anni dopo la ribellione indiana, si aprì il canale di Suez, che collega il Mediterraneo e l’Oceano Indiano. Una famosa spintarella per la dominazione europea di questo oceano?

Assolutamente. La colonizzazione europea nel bacino dell’Oceano Indiano si accelerò allora, la Francia e la Gran Bretagna si presero Gibuti, l’Egitto e Bahrein per proteggere India dall’espansione russa.

Poi, dopo molti cambiamenti nell’imperialismo nel 19° secolo (unificazione di Germania e Italia, la spartizione dell’Africa tra le potenze europee), l’impero del sultanato d’Oman fu l’ultima potente forza araba nell’Oceano Indiano. Per rovesciarlo, gli Europei montarono una campagna di propaganda sul fatto che gli omaniti sfruttavano gli africani come schiavi. Con il pretesto della lotta contro la schiavitù, l’Europa ha mobilitato le sue truppe nell’Oceano Indiano e rovesciò il sultanato di Oman. Così, la dominazione occidentale sull’Oceano Indiano divenne totale.

Ma oggi, questa posizione dominante è messa in discussione dalle potenze emergenti dell’Asia e dell’Oceano Indiano, e potrebbe diventare il teatro di una competizione sino-statunitense. Gli Stati Uniti sono in declino e la Cina in spettacolare ascesa, come Washington potrebbe bloccare il suo principale concorrente?

Il Pentagono è ben consolidato nella regione: una enorme base militare a Okinawa (Giappone), accordi con le Filippine, con il pretesto della lotta contro il terrorismo, ottimi rapporti con i militari indonesiani che sono stati addestrati da Washington a uccidere milione di comunisti e a stabilire una dittatura militare negli anni ’60…

Inoltre, gli Stati Uniti possono contare sulla loro base militare di Diego Garcia. L’isola di corallo, situata nel cuore dell’Oceano Indiano, sarebbe più di un posto per vacanze da sogno, con una spiaggia di sabbia bianca e le palme. Tuttavia, la storia di questa isola è molto meno affascinante, nel 1965 Diego Garcia e il resto delle Isole Chagos, furono incluse nel territorio britannico nell’Oceano Indiano, nel 1971, e tutti gli abitanti dell’isola Diego Garcia vennro espulsi dagli Stati Uniti, che costruirono una base militare: è da questa posizione estrategica che Washington ha condotto alcune operazioni nel contesto della guerra fredda, e delle guerre in Iraq e in Afghanistan. Oggi, nonostante i giudici inglesi abbiano dato loro ragione, agli abitanti di Diego Garcia è impedito di ritornare alla loro isola da parte del governo del Regno Unito.

Gli Stati Uniti hanno quindi una forte presenza militare nella regione. Da parte sua, la Cina ha due talloni d’Achille: lo Stretto di Hormuz e quello di Malacca. Il primo (tra Oman e Iran) è l’unico accesso al Golfo Persico ed è largo solo 26 km, nel punto più stretto. Circa il 20% del petrolio importato dalla Cina attraversa questo luogo. L’altro punto debole, lo Stretto di Malacca (tra la Malaysia e l’isola indonesiana di Sumatra), è molto trafficato e pericoloso, ma è il principale punto di passaggio per le merci provenienti dall’Oceano Indiano per la Cina. Circa l’80% delle importazioni di petrolio della Cina passa attraverso lo stretto. Gli Stati Uniti sono ben consolidati in questo settore, potrebbero bloccare lo stretto di Malacca, nel caso un conflitto dovesse esplodere con la Cina. E sarebbe un disastro per Pechino.

Questo spiega perché la Cina cerca di diversificare le proprie fonti di approvvigionamento energetico?

Assolutamente. Di fronte a questo grave problema, la Cina ha sviluppato diverse strategie. Il primo è rifornirsi in Asia centrale. Un gasdotto che collega il Turkmenistan alla provincia cinese del Xinjiang, da oggi al 2015, dovrebbe fornire 40 miliardi di metri cubi all’anno, quasi la metà del consumo attuale della Cina. Un oleodotto collega la Cina anche al Kazakistan, trasportando petrolio dal Mar Caspio.

C’è anche l’Asia meridionale. Pechino ha firmato accordi con il Bangladesh per ottenere gas e petrolio. Ha recentemente annunciato la costruzione di un oleodotto e un gasdotto, che forniranno rispettivamente, dal Myanmar (Birmania), 22 milioni di tonnellate di petrolio e 12 miliardi di metri cubi di gas all’anno.

Infine, la terza strategia cinese, chiamata “filo di perle” è quello di costruire porti in paesi amici, lungo la costa nord dell’Oceano Indiano. Obiettivo: avere un traffico navale autonomo in questa regione autonoma. Di questa strategia fa parte la costruzione del porto oceanico di Gwadar, nel Pakistan. Questo tipo di porto è adatto al traffico delle navi portacontainer, e la Cina dovrebbe costruirne altri, soprattutto in Africa. Si noti che alcune navi portacontainer che trasportano merci verso la Cina dall’America Latina, sono troppo grandi per raggiungere l’Oceano Pacifico attraverso il Canale di Panama. Esse quindi passano attraverso l’Oceano Atlantico e l’Oceano Indiano, prima di raggiungere la Cina. Durante questo viaggio, non dovrebbero necessariamente attraversare l’Europa, come avviene adesso, e passare nell’Oceano Indiano attraverso il Canale di Suez. Come parte dell’asse Sud – Sud, queste navi portacontainer potrebbero, invece, transitare in Africa, collegando l’America Latina e l’Asia.

Ciò avrebbe conseguenze importanti per l’Africa. Paesi come Mozambico, Somalia, Sud Africa e Madagascar potrebbero far parte di questa grande rete dell’Oceano Indiano. Se vogliono sviluppare nuovi porti come Gwadar, sarebbe un enorme boom economico in questa regione dell’Africa. Nel frattempo, l’attività dei principali porti europei come Marsiglia e Anversa declinerà. Collegare l’Africa al mercato asiatico attraverso l’Oceano Indiano, sarebbe un vantaggio per il continente. Nelson Mandela, quando era presidente del Sud Africa, ha desiderato vedere realizzati questo progetto, ma gli Stati Uniti e in Europa si opposero. Oggi, la Cina ha i mezzi per assumere la guida. Creato l’asse Sud-Sud: i paesi del terzo mondo sfuggiranno alle divisioni instauratesi tra loro e collaboreranno sempre di più. Il mondo è in fermento!

Come la Cina è diventata una tale potenza in così poco tempo?

Fino al 19° secolo, la Cina era una grande potenza. Vendeva prodotti di buona qualità e aveva più valuta estera, oro e argento delle potenze europee. Ma il paese non s’è mai aperto al commercio internazionale. C’erano solo pochi insediamenti sulle coste, con disappunto della Gran Bretagna. Quest’ultima, in piena rivoluzione industriale, cercava di vendere una grande quantità dei suoi prodotti in tutta la Cina.

Così, quando il viceré Lin Zexu ordinò la distruzione, nel 1838, di casse di oppio che la Gran Bretagna importava illegalmente in territorio cinese, i britannici trovarono il pretesto per la guerra. Lord Melbourne mandò una spedizione a Canton, fu la prima guerra dell’oppio. Si concluse quattro anni dopo. Sconfitti, i cinesi furono costretti ad aprire ulteriormente il loro paese al commercio internazionale.

Ma le potenze imperialiste voleva penetrare ancor più verso l’interno della Cina, al fine di vendere i loro prodotti. E chiedevano la legalizzazione della vendita dell’oppio, nonostante la devastazione che ha causato nella popolazione. Poiché questo business molto redditizio permetteva loro di essere pagati in lingotti d’argento, ebbero una bilancia commerciale favorevole. Di fronte al rifiuto dell’Impero Cinese, Gran Bretagna e  Francia avviarono la “seconda guerra dell’oppio” (1856-1860). In ginocchio, la Cina è diventata una semi-colonia delle potenze occidentali. Infine, la vendita dell’oppio fu legalizzata e la Gran Bretagna e gli Stati Uniti vi si dedicarono con molto profitto.

Di tutto ciò non si parla in Europa, dove sembra finalmente di conoscere per nulla la storia della Cina …

Anche altrove. E’ importante capire che queste guerre imperialiste e le distruzioni causate dalle potenze coloniali hanno provocato la morte di oltre cento milioni di cinesi. Alcuni furono presi come schiavi nelle miniere del Perù, dove le spaventose condizioni di lavoro causarono numerosi suicidi collettivi. Altri furono usati per costruire le ferrovie negli Stati Uniti. Mentre migliaia di bambini cinesi vennero rapiti per scavare i primi pozzi di petrolio della Shell in Brunei, mentre le tecniche di estrazione meccanizzate non erano ancora pronte. È stato un periodo terribile. Nessun popolo ha sofferto così tanto. Bisognerà attendere il 1949 e la rivoluzione guidata da Mao, per vedere la Cina diventare indipendente e prospero.

Alcuni attribuiscono questa crescita enorme della Cina a Deng Xiaoping: solo le prese di distanze dal maoismo e l’apertura della Cina al capitale straniero avrebbe consentito al paese di svilupparsi…

Si dimentica che la Cina di Mao era già in continuo sviluppo tra il sette e il dieci per cento! Naturalmente, Mao ha fatto degli errori durante la Rivoluzione Culturale. Ma ha anche trovato un paese di un miliardo di persone in estrema povertà. E ha permesso alla Cina di diventare uno stato indipendente dopo un secolo di oppressione. E’ quindi sbagliato attribuire lo sviluppo solo alla politica della porta aperta della Cina di Deng Xiaoping. Partendo dal nulla, questo paese ha continuato a crescere, a partire dalla rivoluzione del 1949. E questo compito non è completato.

Ovviamente, l’apertura al capitalismo attuale solleva numerosi interrogativi sul futuro della Cina. Ci saranno sicuramente contraddizioni tra le diverse forze sociali, con il rafforzamento di una borghesia locale. La Cina potrebbe diventare un pieno paese capitalista, ma non dominato dall’imperialismo. Ma in entrambi i casi, gli Stati Uniti cercheranno di evitare che il paese diventi una grande potenza con i mezzi per resistergli.

Giustamente, alcuni sostengono che la Cina stessa è diventata una potenza imperialista, esportando il suo capitale ai quattro angoli del pianeta e compiendo prospezioni in tutto il Sud per ottenere materie prime?

C’era confusione, anche all’interno della sinistra, sulla definizione di imperialismo fatta da Lenin (che ha probabilmente meglio studiato questo fenomeno). Alcuni non considerano che un singolo componente di tale definizione, l’esportazione di capitali all’estero. Certo, grazie alle esportazioni di capitale, le potenze capitaliste si arricchiscono più velocemente, e finiscono per dominare le economie dei paesi meno sviluppati. Ma nel contesto dell’imperialismo, il predominio economico è inseparabile dalla dominazione politica che trasforma il paese in semi-colonia.

In altre parole, se sei un imperialista, è necessario, nel apese in cui esporti capitali, creare il tuo burattino personale, un governo che serva i tuoi interessi. Potete addestrare anche l’esercito della vostra semi-colonia a organizzare i colpi di stato militari, quando il burattino non obbedisce. Ciò è accaduto di recente in Honduras, dove è stato deposto il presidente Manuel Zelaya da un esercito i cui ufficiali sono stati addestrati nelle accademie militari statunitensi. È anche possibile infiltrarsi del sistema politico con le organizzazioni come la CIA, per creare dei collaborazionisti interni. In breve, l’imperialismo si basa su una doppia posizione dominante: economica e politica. L’una non va senza l’altra.

Questo fa una grande differenza con la Cina. Essa non interferisce negli affari politici dei paesi con i quali commercia. E l’esportazione di capitali non è destinata a dominare e soffocare le economie dei paesi partner. Così, la Cina non solo non è una potenza imperialista, ma consente anche ai paesi che subiscono l’imperialismo di liberarsi sconvolgendo la struttura di potere costituita dall’Occidente.

Gli Stati Uniti possono ancora fermare il loro concorrente cinese? Certo, il Pentagono s’è ben stabilitosi nella regione, ma un confronto militare diretto con la Cina sembra improbabile: Washington è ancora impantanato in Medio Oriente e, secondo molti esperti, non sarebbe in grado di vincere un conflitto diretto con Pechino.

In effetti, bombardare e invadere la Cina non è un’opzione plausibile. Gli Stati Uniti hanno quindi sviluppato strategie alternative. La prima è affidarsi agli stati vassalli in Africa, per controllare il continente ed impedire l’accesso della Cina alle materie prime. Questa strategia non è nuova, era stata sviluppata dopo la seconda guerra mondiale, per contenere lo sviluppo del Giappone.

E quali sono oggi i vassalli degli Stati Uniti?

In Nord Africa, c’è l’Egitto. Per l’Africa orientale c’è l’Etiopia. Per l’Africa Occidentale, la Nigeria. Per il sud e per il centro del continente, Washington contava sul Sud Africa. Ma questa strategia è fallita. Come abbiamo visto, gli Stati Uniti non riescono a impedire ai paesi africani di commerciare con la Cina, e hanno perso una grande influenza sul continente. Testimonianza del colpo subito dal Pentagono, è stato quando esso ha cercato invano un paese che ospitasse il quartier generale del suo comando regionale AFRICOM. Tutti gli Stati continentali si sono rifiutati di ospitare questa base. Il ministro della Difesa sudafricano ha spiegato che il rifiuto è “una decisione collettiva africana” e lo Zambia aveva anche risposto al Segretario di Stato USA: “Vorreste avere un elefante in salotto?” Attualmente, la sede del comando regionale per l’Africa è a Stoccarda …! E’ una vergogna per Washington.

Un’altra strategia degli Stati Uniti per controllare l’Oceano Indiano, sarebbe usare l’India contro la Cina per esacerbare le tensioni tra i due paesi. Questa tecnica era stata usata per l’Iran e l’Iraq, negli anni ’80. Gli USA armarono entrambi le parti contemporaneamente, e Henry Kissinger aveva dichiarato: “Lasciate che si uccidano a vicenda!” L’applicazione di questa teoria all’India e alla Cina, porterebbe a prendere due piccioni con una fava, indebolendo le due maggiori potenze emergenti dell’Asia. Inoltre, negli anni ’60, gli Stati Uniti avevano già usato l’India in un conflitto contro la Cina. Ma l’India fu sconfitta e adesso io non credo che i suoi leader farebbero lo stesso errore di andare in guerra contro il loro vicino, per gli interessi di una potenza straniera. Ci sono molte contraddizioni tra Pechino e New Delhi, ma non sono importanti. Questi due paesi emergenti del Terzo Mondo non devono impegnarsi in questo tipo di conflitto, tipicamente imperialista.

Niente da fare, quindi, per gli Stati Uniti in India o in Africa. Ma in Asia orientale, hanno molti alleati. Possono contare su di essi per contenere la Cina?

Ancora una volta, Washington ha fallito, a causa della sua avidità. L’Asia del Sud-Est ha avuto una terribile crisi economica del 1997, causata da un grande “errore” degli Stati Uniti. Tutto è iniziato con una svalutazione della moneta tailandese, che era stato attaccata da speculatori. Di conseguenza, i mercati azionari furono in preda del panico e molte aziende fallirono. La Thailandia, aveva sperato di ricevere il sostegno degli Stati Uniti, era un suo fedele alleato. Ma la Casa Bianca non si mosse. Respinse anche l’idea di creare un Fondo monetario asiatico per aiutare i paesi più colpiti. In effetti, le multinazionali statunitensi hanno beneficiato della crisi asiatica, per eliminare i concorrenti asiatici la cui ascesa li preoccupava.

Infine, fu la Cina che ha salvato la regione dal disastro, decidendo di non svalutare la propria moneta. Una moneta debole aiuta le esportazioni, e se lo yuan era depresso, l’aumento delle esportazioni cinesi avrebbero completamente finito le economie dei paesi vicini, già in cattive condizioni. Quindi, mantenendo il valore della sua valuta, la Cina ha permesso ai paesi della regione e sviluppare le loro esportazioni e di risollevarsi. Mentre molti governi asiatici mantennero una certa amarezza verso Washington, per il suo ruolo in questa crisi, il primo ministro malese ha dichiarato: “La collaborazione con la Cina e il suo alto senso di responsabilità nella regione, ci hanno preservato da uno scenario ancora più catastrofico”.

Da allora, le relazioni economiche tra la Cina e i suoi vicini hanno continuato a crescere. Nel 2007, Pechino è anche diventato il principale partner commerciale del Giappone, che è tuttavia uno degli alleati più strategici degli Stati Uniti in Asia.

Inoltre, la Cina non ha pretese egemoniche nella regione. Gli Stati Uniti credevano che i paesi dell’Oceano Indiano si sarebbero spaventati dalla potenza cinese, e avrebbero cercato di essere protetti. Ma la Cina ha stabilito relazioni con i paesi vicini sulla base del principio di uguaglianza. Da questo punto di vista, gli Stati Uniti hanno, così, perso anche la battaglia in Asia orientale.

Gli Stati Uniti non hanno modo di impedire che la Cina faccia loro concorrenza?

Pare di no. Per crescere, la Cina ha un bisogno vitale di risorse energetiche. Gli Stati Uniti cercano, quindi, di controllare queste risorse e assicurare che non raggiungano la Cina. C’era un obiettivo chiave nelle guerre in Afghanistan e in Iraq, ma sono diventati un fiasco. Gli Stati Uniti hanno distrutto questi paesi, per mettervi dei governi a loro docili, ma senza successo. Ma ciliegina sulla torta: i nuovi governi di Iraq e Afghanistan commerciano con la Cina! Pechino non ha quindi alcuna necessità di spendere miliardi di dollari in una guerra illegale per mettere le mani sull’oro nero iracheno: le imprese cinesi hanno appena vinto concessioni petrolifere in un’asta molto regolare.

Vedete, la strategia dell’imperialismo degli Stati Uniti è un fallimento su tutta la linea. Resta tuttavia l’opzione degli Stati Uniti: mantenere il caos per impedire che la stabilità strategica di questi paesi non favorisca la Cina. Questo significa continuare la guerra in Iraq e Afghanistan, ed estenderlo ad altri paesi come l’Iran, lo Yemen e la Somalia.

Questo a breve termine potrebbe essere devastante, perché porterebbe i popoli ancora di più sulla linea anti-americana, anti-Nato e anti-occidentale. Coloro che vorrebbero continuare il cammino farebbero meglio a studiare la storia militare degli Stati Uniti degli ultimi sessant’anni: Washington non ha vinto alcuna guerra, se non contro la piccola isola di Grenada (1983).

Come iniziò il declino di “Impero Americano“?

Dopo la seconda guerra mondiale, questo paese aveva fatto jackpot. E’ stato, infatti, si era entrato tardi nel conflitto, dopo aver a lungo sostenuto (in mood molto redditizio) entrambe le parti: gli alleati e il nazismo. Infine, Washington ha deciso di venire in aiuto degli alleati. Alla fine della guerra, la Gran Bretagna era gravata dai debiti, il potere tedesco era stato distrutto e l’Unione Sovietica aveva pagato un prezzo pesante (più di venti milioni di morti) per sconfiggere l’esercito nazista. Per contro, gli Stati Uniti, che non hanno fatto praticamente nessun sacrificio, uscirono grandi vincitori, avevano un vasto territorio, un’industria che operava a tutta velocità, grande capacità del settore agricolo e i loro principali concorrenti erano in ginocchio. Fu così che gli Stati Uniti diventarono una superpotenza mondiale.

Ma poi, hanno speso tutti il jackpot vinto nella seconda guerra mondiale, per combattere il comunismo. L’economia statunitense è stata militarizzata e le guerre si sono svolte una dietro l’altra, dalla Corea al Vietnam, e all’Iraq per citarne alcuni. Oggi, per ogni dollaro messo nel bilancio del governo degli Stati Uniti, vanno settanta centesimi all’esercito. Un disastro! Le altre industrie principali del paese sono state distrutte, le scuole e gli ospedali pubblici sono in pessime condizioni.

Cinque anni dopo l’uragano Katrina, i residenti di New Orleans vivono ancora nei campi. Possiamo paragonare questa situazione a quella del Libano: coloro che avevano perso le loro case a causa dei bombardamenti israeliani del 2006, hanno trovato una casa grazie a Hezbollah. Ciò che ha fatto dire a un mullah che era meglio vivere in Libano che negli Stati Uniti, perché nel paese dei cedri si ha almeno un tetto sopra la testa.

Questo processo di militarizzazione ha gettato gli Stati Uniti nella crisi del debito. Ma oggi, il loro principale creditore non è altri che… la Cina! Curiosamente, il destino di questi due grandi concorrenti sembra intimamente legato.

Sì, l’economia è qualcosa di pazzesco! In effetti, la Cina esporta molti prodotti verso gli Stati Uniti, guadagnandosi molta valuta in dollari. L’accumulo di valuta straniera della Cina, consente di mantenere un tasso di cambio stabile tra lo yuan e il dollaro, cosa che favorisce le esportazioni. Ma l’accumulo di dollaro anche portato Pechino a comprare buoni del Tesoro USA, finanziandone il debito Con il finanziamento del debito degli Stati Uniti, possiamo dire che la Cina sta finanziando la guerra contro il terrorismo! Ma il Pentagono sta conducendo questa guerra per aiutarla a controllare le risorse energetiche del mondo, e cercando di contenere l’emergere della Cina. Vedete, la situazione è paradossale! Ma questa campagna è un fallimento degli Stati Uniti e la loro economia è sull’orlo del fallimento.

Essi hanno solo una opzione: ridurre le spese militari e usare il loro bilancio per rilanciare l’economia. Ma l’imperialismo ha una logica dominata dal profitto immediato e dalla concorrenza sfrenata: perciò, continua a correre fino a che non muore. Lo storico Paul Kennedy ha studiato la storia dei grandi imperi, ogni volta che l’economica di una grande potenza è in declino, ma continua ad aumentare le spese militari, allora questa grande potenza è destinato a scomparire.

Così è la fine dell’”impero americano“?

Chi può dirlo? La storia è fatta di zig-zag e non ho alcuna sfera di cristallo per predire il futuro. Ma tutte le indicazioni dicono che l’egemonia degli Stati Uniti sta arrivando al termine. Non ci sarà più una superpotenza globale e gli Stati Uniti, probabilmente, diventeranno una importante potenza regionale. Saremo presenti all’inevitabile ritorno del protezionismo e, quindi, alla fine della globalizzazione. I blocchi economici regionali emergeranno e tra questi blocchi, l’Asia sarà il più forte. Oggi, ci sono sempre meno milionari nell’occidente bianco. Sono in Asia, dove ci sono la ricchezza e la capacità produttiva.

Che cosa succederà in Europa?

Ha forti legami con gli Stati Uniti. In particolare attraverso la NATO, una invenzione degli Stati Uniti, emersa dopo la seconda guerra mondiale per il controllo del vecchio continente. Tuttavia, penso che ci siano due tipi di leader in Europa: pro-USA e i ceri europei. I primi rimangono con Washington. I secondi sottolineano gli interessi specifici dell’Europa e si legano alla Russia. Con la recessione economica e il declino negli Stati Uniti, l’interesse logico dell’Europa è guardare all’Asia.

Nel suo famoso libro ‘La Grande Scacchiera’, il politologo statunitense Zbigniew Brzezinski aveva paura di vedere una tale alleanza tra Europa e Asia. Ma ha detto che l’Unione probabilmente non avrebbe mai visto la luce del giorno, a causa delle differenze culturali.

Dopo la seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti hanno dominato la scena economica, in particolare in Europa, ed erano in grado di esportare la loro cultura e stile di vita. L’economia genera in effetti dei legami culturali, ma la cultura non crea legami che quando lo stomaco è pieno. Non mangiamo cultura. Inoltre, quando lo stomaco è vuoto, la cultura viene dopo l’economia.

Così oggi, mentre il mondo capitalista è in crisi, l’Europa deve mettere i suoi interessi economici prima del legame culturale che la lega agli Stati Uniti. Sarebbe logico a sua volta, per l’Asia. Tanto più che i legami culturali Europea – Stati Uniti sono stati forgiati a Hollywood. Storicamente, possiamo dire che sono più forti i legami culturali tra, ad esempio, l’Italia e la Libia, o tra la Spagna e il Marocco.

Henry Kissinger, quando non permetteva agli iraniani e iracheni di uccidesi a vicenda, ha detto che l’egemonia degli Stati Uniti era essenziale per mantenere la pace e la democrazia diffusa in tutto il mondo. Molti professionisti come Brzezinski hanno sostenuto la stessa idea. La fine dell’”American Empire”, non potrebbe provocare dei grandi conflitti?

La democrazia di cui stanno parlando è quella dei paesi imperialisti occidentali, che rappresentano il 12% della popolazione mondiale. Inoltre, non possiamo davvero dire che l’egemonia degli Stati Uniti abbia portato pace e stabilità nel mondo. Al contrario! Per rimanere l’unica superpotenza del mondo, hanno fatto affidamento su guerre in continuo e fomentato conflitti in tutto il mondo.

Oggi, molti europei, anche se condannano gli eccessi degli Stati Uniti, non desiderano vedere decadere l’”American Empire“. Per oltre sessant’anni Washington ha dominato militarmente il vecchio continente, dicendo che lo faceva per la sua sicurezza. Molti europei hanno paura di mettere una croce sulla “protezione” e assumersi la propria sicurezza.

Un esercito europeo richiederebbe che una parte importante dell’economia europea sia investita nell’esercito. Ma non è un settore produttivo e un suo rifinanziamento causerebbe una nuova crisi. Inoltre, se si investe nell’esercito, una questione si porrà: chi combatte? In caso di guerra, l’Europa avrebbe seri problemi demografici.

A mio parere, questa situazione spiega la volontà di alcuni leader europei di muoversi verso la Russia. Questa è l’unica alleanza pacifica e prospera possibile per l’Europa. Ma ciò richiede lasciare che la Russia diventi una grande potenza, in cui gli europei possano investire le loro tecnologie. Ma gli Stati Uniti si sono opposti all’integrazione della Russia in Europa. Se dovesse succedere, ci sarà davvero qualcuno di troppo e Washington lascerà il vecchio continente.

Gli otto anni di politica di guerra dell’amministrazione Bush, le spese militari faraoniche e i suoi miserabili fallimenti hanno accelerato il crollo degli Stati Uniti. Pensa che Barack Obama possa cambiare qualcosa?

La sua elezione è storica. Gli afro-americani hanno sofferto tanto in passato. Anche se hanno contribuito enormemente allo sviluppo degli Stati Uniti, i loro diritti politici sono stati traditi. Infatti, durante la guerra civile americana, gli afro-americani sono stati vittime della schiavitù nel Sud. La borghesia del Nord ha promesso loro la libertà, se era disposto a combattere per essa. Gli schiavi accettarono di partecipare al conflitto, cose che ha permesso al Nord di vincere. Tra il 1860 e il 1880, gli Stati Uniti hanno avuto un periodo di prosperità, senza il razzismo, definita una ricostruzione dal famoso leader afro-americano William Edward Burghardt Du Bois. Ma ben presto, l’elite degli Stati Uniti si era allarmata nel vedere persone di colore, lavoratori e semplici cittadini unirsi: le proprietà della minoranza borghese era minacciata dalla solidarietà delle masse. La segregazione fece quindi il suo ritorno. Essa mirava a rompere l’unità delle classi e i cittadini comuni insorgere l’uno contro l’altro, al fine di preservare l’elite da qualsiasi rivolta.

Data la storia degli Stati Uniti, l’avvento di un nero alla Casa Bianca è molto importante. Ma se Barack Obama è un presidente liberale a causa del suo colore, ciò non è sufficiente: la natura reazionaria dell’imperialismo statunitense è riemersa, come si vede sempre di più. Pertanto, non credo che Barack Obama possa cambiare nulla nei mesi e negli anni a venire. L’imperialismo non può essere modificato o adattato. Deve essere rovesciato.

 

E qual è il ruolo del mondo musulmano in questo grande confronto tra gli Stati Uniti e la Cina? Il suo ruolo è veramente importante?

Molto importante. Come ho detto in precedenza in questa intervista, gli USA hanno demonizzato la “minaccia islamica” in una serie di paesi che si affacciano sull’Oceano Indiano: Somalia, Golfo, Asia centrale, Pakistan, Indonesia… L’obiettivo, legato agli interessi delle multinazionali degli Stati Uniti, è il controllo del petrolio e delle risorse energetiche e delle vie di transito strategiche della regione. Ma nel Medio Oriente, e in tutto il mondo musulmano, s’è sviluppata una comune resistenza antimperialista al dominio degli Stati Uniti.

E’ un fattore estremamente positivo. I popoli di tutto il mondo hanno interesse a stabilire relazioni sulla base del principio di uguaglianza e a porre fine, nel modo più rapido, all’egemonia occidentale che ha causato così tante aggressioni e crimini. In passato, tutti i tipi di personalità e movimenti politici hanno cercato di spingere il mondo musulmano tra le braccia degli Stati Uniti e nella loro grande alleanza anti-comunista. Ma in realtà, gli interessi dei popoli dell’”arco dell’Islam”, l’interesse dei musulmani, si trova sul lato opposto. Se tutti comprendono e sostengono il ruolo positivo della Cina nella bilancia del potere mondiale, oggi, sarà possibile una grande alleanza di tutti i paesi che cercano di svilupparsi in modo autonomo, nell’interesse del loro popolo, sfuggendo così al saccheggio e alle interferenze da parte delle potenze imperialiste.

Tutti dovrebbero informarsi e fare prendere consapevolezza di questi importanti e positivi cambiamenti. Por fine all’egemonia delle potenze imperialiste aprirà grandi prospettive per la liberazione dei popoli.

 

Fonte: Investig’Action – http://www.mondialisation.ca/index.php?context=va&aid=21057

Intervista di Lalieu Gregory e Michel Collon a Hassan Mohamed

 

Mohamed Hassan raccomanda le seguenti letture:

Robert D. Kaplan, Center Stage for the Twenty-first Century, in Foreign Affairs, March/April 2009

Robert D. Kaplan, The Geography of Chinese Power, in Foreign Affairs, May/June 2010

Chalmers Johnson, No longer the lone superpower – Coming to terms with China

Cristina Castello, “Diego Garcia”, pire que Guantanamo: L’embryon de la mort

Mike DAVIS, Génocides tropicaux. Catastrophes naturelles et famines coloniales.

Aux origines du sous-développement, Paris, La Découverte, 2003, 479 pages

Peter Franssen, Comment la Chine change le monde

Pepe Escobar, China plays Pipelineistan

Edward A. Alpers, East Africa and the Indian Ocean

Patricia Risso, Merchants And Faith: Muslim Commerce And Culture In The Indian Ocean (New Perspectives on Asian History)

F. William Engdahl, A Century of War, Anglo-American oil politics and the new world order

Michel Collon, Media Lies and the Conquest of Kosovo (NATO’s Prototype for the Next wars of Globalization), traduzione inglese di Monopoly, Investig’Action

Traduzione di Alessandro Lattanzio
Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

mardi, 21 septembre 2010

Yemen: una battaglia decisiva nell'ordine simbolico, contro la monarchia saudita

Yemen: Una battaglia decisiva nell’ordine simbolico, contro la monarchia saudita

di René Naba

Fonte: eurasia [scheda fonte]

yemen.jpgL’attacco fallito a un aereo nigeriano a Detroit (USA), nel dicembre 2009, quattro mesi dopo l’attacco fallito contro un principe saudita, responsabile della lotta contro il terrorismo in Arabia Saudita, il principe Mohammed bin Nayef Ben Abdel Aziz, ha sollevato i timori degli statunitensi e ha fatto rivivere il loro interesse verso lo Yemen, temendo che il paese sia utilizzato come nascondiglio dagli uomini di Al Qaeda nella penisola arabica. L’attacco contro l’Arabia del 27 Agosto 2009, inoltre, è stato rivendicato dal capo regionale di al-Qaida, Al Nasser Whayshi, alias Abu Bassir, come anche l’attacco contro il cacciatorpediniere USS Cole, nel porto di Aden, nel 2000. Designato quale bersaglio prioritario da parte degli statunitensi, Abu Bassir è stato ucciso tre mesi dopo la sua rivendicazione del caso di Detroit. Dal 2009, in meno di un anno, le autorità saudite hanno sventato quattro attentati contro il principe Mohammed, un record mondiale difficilmente eguagliabile.

L’attentato di Detroit è stato utilizzato per attivare l’attuazione della nuova dottrina statunitense della guerra clandestina contro il terrorismo, di cui lo Yemen è il banco di prova. La dottrina Obama sostiene l’uso di piccole unità mobili di commando di parà per le operazioni speciali assegnate al monitoraggio dei leader di al-Qaida in Pakistan al Nord Africa, dall’Uganda al Kenya, via Somalia, e in tutti i paesi del Sahel (Algeria, Mali, Mauritania) e dell’Asia centrale. Meno costoso, in termini di bilancio e di immagini, contando sulla collaborazione di imprese di lavori pubblici operanti nell’area, mira a sostituire la Dottrina Bush. Uno degli errori principali della nuova guerra degli Stati Uniti, passato inosservato al giudizio arabo e della pubblica internazionale, è stata anche la morte del prefetto del distretto di Maareb, il 25 maggio 2010, un incidente dell’intervento illegale USA. L’uomo era in trattative con al-Qaida la liberazione della zona di sua responsabilità. La sua morte ha sollevato un vento di rivolta all’interno della sua tribù, che da allora è stata discretamente compensata dal governo degli Stati Uniti. Fin dall’inizio di questa dottrina Obama, tre leader di al-Qaida sono stati uccisi in Yemen, il leader regionale, Nasser al Whayshi, Nasser al Chihri a Rafda e Jamil al Anbari, il 24 marzo 2010, secondo il quotidiano arabo pubblicato a Londra “Al Quds al Arabi” (16 agosto 2010).

Il sistema statunitense è completato in Africa orientale dalla base aerea di Diego Garcia, nell’Oceano Indiano, e dalla co-locazione della base francese di Gibuti di “Camp Lemonier”. La base di Gibuti permette agli Stati Uniti e alla Francia di dominare l’estremità orientale della vasta striscia petroliera che attraversa l’Africa, oggi considerata vitale per i loro interessi strategici, una striscia che va dall’oleodotto Higleg-Port Sudan (1600 km) nel sud-est, all’oleodotto Ciad-Camerun (1000 km) e al Golfo di Guinea a ovest. Una postazione di osservazione degli Stati Uniti, in Uganda, dà a essi la possibilità di controllare il Sud Sudan, dove si trova la maggior parte delle riserve di greggio sudanesi.

La presenza degli Stati Uniti a Gibuti, ha anche il compito di individuare i gruppi terroristici collegati con quelli del Medio Oriente, e di servire da piattaforma operativa per la guerra clandestina contro al-Qaida in Africa orientale, soprattutto in Somalia, che secondo Washington ospita il comoriano Fazul Abdullah Mohammed e il keniota Saleh Ali Saleh Nabhan, coinvolti negli attacchi contro le ambasciate statunitensi in Kenya e Tanzania nel 1998, dove 224 persone sono state uccise.

Al-Qaida ha realizzato un decentramento del suo movimento, in un approccio simmetrico alla dottrina statunitense della furtività, dando autonomia a ampi comandi regionali, in virtù della nuova strategia della ‘lotta diffusa’, implementata con successo da Hezbollah Libanese contro Israele, nel 2006. Dalla ripresa delle ostilità su vasta scala, nello Yemen, al-Qaida ha reso possibile la riunificazione dei due rami che operano nella zona, in Arabia Saudita e nello Yemen, per avviare nel 2008 “Al-Qaida nella penisola araba“, attaccando obiettivi strategici, come l’ambasciata degli Stati Uniti nel 2008 e un centro di sicurezza di Aden, dove i detenuti erano membri dell’organizzazione, nel giugno 2010, al fine di influenzare il separatismo meridionale yemenita, e contribuire a delegittimare il governo centrale. Gli statunitensi vedono questo ramo come la più efficace esecuzione divisione della società madre.

Al Qaida ha anche una filiale somala, “i famosi Chebab” (i giovani) che tengono testa al governo filo-saudita e filo-occidentale di Mogadiscio, segnalandosi presso l’opinione pubblica internazionale con un raid mortale in Uganda, l’11 luglio 2010, facendo una sessantina di morti; e un ramo del Nord Africa, che attua le operazioni tra il ramo africano e quello arabo: “Al-Qaida nel Maghreb Islamico (AQIM).” Risultante da un processo di fusione, AQIM è il prodotto, nel gennaio 2007, dell’inclusione nella rete di bin Laden del Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento (GSPC) algerino, a sua volta fondato nel 1998 da dissidenti del Gruppo Islamico Armato (GIA).

Operante generalmente nei deserti di Algeria, Mali, Niger e Mauritania, al-Qaida ha approfittato dei confini porosi per espandere la sua area di operazioni nella regione arida del Sahel, puntando ora al Burkina Faso, il cui Presidente Blaise Compraoré, il negoziatore per la liberazione dell’agente francese Peter Calmatte (febbraio 2010), ha appena compiuto un riavvicinamento spettacolare con gli Stati Uniti. L’AQMI ha attuato, il 24 luglio 2010, l’esecuzione dell’ostaggio francese Michel Germaneau, punto che contrassegna la resa dei conti con la Francia, in quello che sembra essere una strategia della tensione volta ad inviare una avvertimento a quello che vede come l’islamofobia del potere francese, tra il clamore dei media in Francia, dedicati alle “caricature del Profeta“, sotto l’egida della coppia giornalistica Daniel Leconte e Philippe Val, e le polemiche sul velo e la catena self service Halal.

Una battaglia decisiva nell’ordine simbolico contro l’Arabia Saudita

Il coinvolgimento di al-Qaida nel conflitto nello Yemen e nel suo ambiente somalo, risuonava come un affronto ai suoi ex compari, l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti, e allo stesso tempo sottolineava l’irriverenza alla strategia statunitense nel suo obiettivo principale, “la guerra globale contro il terrorismo,” la madre di tutte le battaglie.

A capo del paese per 32 anni (1978), il presidente Ali Abdullah Saleh accusa i ribelli di cercare di rovesciare il suo regime per ripristinare l’Imamato zayidita, abolito nel 1962 da Sana’a, e di essere manipolati dall’Iran. Gli houthisti, nel frattempo, si lamentano di essere emarginati dal governo sul piano politico, economico e religioso, e chiedono la restaurazione dell’autonomia di cui godevano prima del 1962. Assicurano di voler difendere l’identità minacciata sia dalla politica del governo centrale, che mantiene la propria regione nel sottosviluppo, e dalla pressione del fondamentalismo sannita, per la quale Sanaa mantiene spesso un’ambiguità.

Provenienti dalla corrente religiosa sciita zayidita, gli houthisti vivono negli altopiani, soprattutto nella provincia yemenita di Saada, e mostrano molte differenze dogmatiche rispetto agli sciiti iraniano duodecimani. Essi rappresentavano, nel 2007, circa il 30% di 22,2 milioni di yemeniti, che sono in prevalenza sunniti. Inoltre, condividono molte interpretazioni religiose con la maggioranza sunnita Shafita. Gli houthisti negano ogni uso della loro causa da parte di una potenza straniera, e insistono, invece, sull’aiuto che il regno saudita avrebbe portato al presidente.

La nuova guerra nello Yemen, ha avuto inizio nel 2004 in seguito alla cattura di importanti leader houthisti e alla morte in combattimento del loro leader, Hussein al Houthi, ucciso nel settembre dello stesso anno da un missile, durante un’operazione clandestina della CIA in ritorsione all’attacco contro il cacciatorpediniere USS Cole. Hussein, leader del movimento, è stato successivamente sostituito da suo fratello Abdul Malik.

Ma al di là del conflitto tribale, gli yemeniti nutrono solidi risentimenti verso l’Arabia Saudita, di cui non tollerano l’annessione di tre verdeggianti province, Asir, Najran e Jizan (2), che criticano, inoltre, di aver mantenuto a lungo l’instabilità nel paese, finanziando direttamente il bilancio della difesa, quindi bypassando il potere statale, in favore alternativo a due confederazioni tribali principali: Beni Hached e Bakil. Lo sceicco Abdullah Hussein Al Ahmar, uomo forte della tribù Hached, leader dell’al-Islah (Riforma) e presidente del Parlamento yemenita, si dice riceva sovvenzioni sauditi, nel nuovo confronto.

Yemen e Iraq, due paesi confinanti con l’Arabia Saudita, costituiscono i due baluardi della difesa strategica del Regno wahabita, il primo a sud, il secondo a nord dell’Arabia Saudita. E’ in questi due paesi che l’Arabia Saudita s’è inserita nella lotta per assicurare la continuità della dinastia wahhabita, per almeno due volte negli ultimi decenni. Lo Yemen è stato utilizzato, in effetti, come campo dello scontro inter-arabo tra repubblicani e monarchici, al tempo della rivalità Faisal-Nasser, negli anni ‘60, e l’Iraq, la scena dello scontro tra sciiti rivoluzionari e sunniti conservatori, al tempo della rivalità Saddam-Khomeini negli anni ‘80.

Al-Qaida nello Yemen è in realtà un ritorno ai fondamenti del conflitto che oppone il movimento alla famiglia al-Saud. Usama Bin Ladin è considerato un legittimo titolare di allori raccolti sui campi di battaglia in Afghanistan, cosa che ha avuto l’effetto di rafforzare la posizione saudita verso i suoi alleati statunitensi, un ruolo che è negato dagli al-Saud.

Pur avendo un certo seguito sia nell’Islam dell’Asia (Afghanistan, Pakistan), che nell’Islam dell’Africa (sub-sahariana del Sahel), Usama bin Ladin soffre di un grave handicap nel nucleo storico dell’Islam del mondo arabo, a causa del suo passato legame con gli statunitensi, durante la guerra anti-sovietica in Afghanistan (1980-1990), deviando quasi cinquantamila combattenti arabi e musulmani dal campo di battaglia principale, la Palestina, mentre Yasser Arafat, il leader dell’OLP, era assediato a Beirut dagli israeliani, con il supporto degli Stati Uniti (giugno 1982). Se si può affermare di aver contribuito a far precipitare il collasso del “regime ateo” dell’Unione Sovietica, i suoi critici lo accusano di aver privato del loro principale sostegno militare, i paesi arabi del ‘campo di battaglia’, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, Egitto, Siria, Iraq, Algeria, Yemen del Sud, Sudan e Libia.

La sua autorità si scontra, quindi, nel mondo arabo, col carisma di leader autentici dimostratosi tali agli occhi di ampie fazioni del mondo musulmano arabo, quali lo sceicco Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah, il movimento sciita libanese, autore di due imprese militari contro Israele (2000, 2006) e Hamas, il movimento sunnita palestinese, il cui incomparabile vantaggio su Usama bin Ladin è il fatto che non hanno mai abbandonato la lotta contro Israele, il nemico principale del mondo arabo.

L’autodafé del Corano, una manna ideologica, una leva per il reclutamento per al-Qaida

La distruzione da parte dei suoi alleati taliban dei Budda di Bamiyan (3), nell’Afghanistan centrale, nel 2001, alienò all’Islam quasi un miliardo di buddisti, aumentando i sospetti contro di lui. Questo atto diventa ancora più importante, a posteriori, quando i musulmani, a loro volta, stigmatizzano il progetto di uno piccolo gruppo di cristiani fondamentalisti della Florida, di voler bruciare 200 copie del Corano, il libro sacro dei musulmani, sabato 11 settembre, nel nono anniversario degli attentati negli Stati Uniti.

Il progetto del pastore Terry Jones del Colomba World Outreach Center, di bruciare il Corano è stato chiamato “gesto distruttore, che minaccia le truppe occidentali in Afghanistan“, dal Presidente Obama. È, in ogni caso, una manna ideologica e potrebbe servire come giustificazione a posteriori per il raid di al-Qaida contro gli USA, sostenendo l’islamofobia nella società occidentale, come leva per il reclutamento nell’organizzazione islamista, nell’intero periodo di commemorazione degli attentati contro gli USA.

Usama Bin Ladin appare, in retrospettiva, come il tacchino della farsa della vicenda afgana, nella sua versione anti-sovietica, dal momento che ha portato a fare crollare un alleato dei paesi arabi del campo di battaglia, l’Unione Sovietica, e rafforzato il partner strategico d’Israele, gli Stati Uniti. Cinquantamila arabi e musulmani si arruolarono sotto la bandiera dell’Islam, sotto la guida di Usama bin Ladin, ufficiale di collegamento dei sauditi e degli statunitensi, per combattere in Afghanistan l’ateismo sovietico, in una guerra finanziata in parte dalle petro-monarchie del Golfo, fino a venti miliardi di dollari, una somma equivalente al bilancio annuale di un quarto dei paesi membri dell’organizzazione pan-araba (4).

In confronto, l’Hezbollah libanese con un numero molto inferiore di combattenti, stimato in duemila combattenti, e con pochi soldi rispetto a quelli impegnati per il finanziamento degli arabi afgani, ha causato lo sconvolgimento psicologico e militare più significativo che la Legione islamica, nell’equilibrio delle potenze regionali.

Il raid dell’11 Settembre 2001 compare, così, a posteriori, come una rappresaglia a questa doppiezza, e allo stesso tempo un tentativo di trascinare gli Stati Uniti, con la risposta che non mancherebbe di suscitare, in una guerra di usura nel pantano afgano. Tale, almeno, è una interpretazione che ha avuto luogo in ambienti politici arabi, sulle motivazioni di Usama Bin Ladin nella scelta dei bersagli degli attentati dell’11 settembre 2001.

La creazione di al-Qaida per la penisola arabica nello Yemen, potrebbe avere un effetto destabilizzante sul regno, che “non sarà immune da un crollo, in caso di caduta dello Yemen”, ha ammonito il 17 luglio 2010, il ministro dell’istruzione superiore yemenita, Saleh Basserrate, deplorando la mancanza di cooperazione saudita nel risolverne le difficoltà economiche (5). L’allarme è stato ritenuto sufficientemente grave da indurre il re Abdullah ad impegnare nella lotta le sue forze nello Yemen, nell’autunno del 2009, accanto alle forze governative, e di superare le sue dispute con la Siria, incitando il suo braccio destro in Libano, il nuovo Primo ministro libanese Saad Hariri, a volgersi verso Damasco.

Quasi un milione di lavoratori yemeniti sono stati espulsi dall’Arabia Saudita nel 1990, per l’allineamento del governo di Sana’a nella disputa territoriale di Saddam Hussein con il Kuwait, spingendo il governo dello Yemen, nella speranza di ottenere dall’Arabia assistenza economica, a disattivare le sue pretese territoriali, col dispiacere di una frazione dell’opinione pubblica yemenita. Il coinvolgimento di un membro del contesto familiare del principe Bandar bin Sultan, figlio del ministro della Difesa e presidente del Consiglio nazionale di sicurezza, la riattivazione dei simpatizzanti di al-Qaida in Siria e il Libano del Nord, nella regione del campo palestinese di Nahr el-Bared, ha dato la misura dell’infiltrazione dell’organizzazione islamista nei circoli dei governanti sauditi, mentre stava minando il regno nei confronti dei suoi interlocutori, sia come che statunitensi.

Sheikh Maher Hammoud, un mufti sunnita della moschea “Al Quds” di Saida (sud del Libano), ha apertamente accusato il principe Bandar dalla TV satellitare Al-Jazeera, sabato 26 giugno 2010, d’aver finanziato i disordini in Libano, in particolare contro le zone cristiane di Beirut, come tattica diversiva, senza che questa affermazione sia smentita, o il dignitario citato in giudizio, portando gli USA a dichiarare “persona non grata” Bandar, l’ex beniamino degli Stati Uniti, il “Grande Gatsby” dell’establishment statunitense.

Significativamente, un responsabile di al-Qaida nella penisola arabica, non è altro che l’imam radicale Anwar al-Aulaqi, un uomo che gli statunitensi identificano come responsabile della strategia di comunicazione di Al Qaida destinata al mondo di lingua inglese, tramite il sito on-line “Inspire“. Yemenita nato negli Stati Uniti, ha rivendicato come suo discepolo il mancato attentatore del volo Amsterdam-Detroit del 25 Dicembre 2009, illustrazione sintomatico della confusione che regna nelle relazioni tra gli Stati Uniti e il mondo musulmano e la strumentalizzazione statunitense dell’Islam nella sua guerra contro l’Unione Sovietica. Ora è una priorità della dottrina Obama.

L’ancoraggio di un organismo a maggioranza sunnita, escrescenza del rigorismo wahhabita, sul lato sud dell’Arabia Saudita, porta il segno di una sfida personale do bin Laden agli antichi padroni, in quanto porta sul posto stesso della loro antica alleanza, lo scontro sulla d legittimità tra la monarchia e il suo ex servitore.

Sullo sfondo dello showdown della controversia Usa-Iran sul nucleare iraniano, Usama bin Ladin, di origine yemenita, decaduto dalla nazionalità saudita, ha scelto di combattere per la terra dei suoi antenati.

Per portare, nell’ordine simbolico, la battaglia decisiva contro la monarchia saudita, che egli considera come una negazione dell’Islam, l’usurpatore saudita di province yemenite, in una battaglia di ritorno, il cui fine ultimo deve essere il ripristino della sua legittimità, almeno della legittimità del marchio della sua organizzazione in rapido declino nel mondo arabo. Con paradossalmente, degli osservatori passivi, ma dai dividendi possibili, l’Iran sciita e, soprattutto, la Russia, estromessa da Socotra, che ha combattuto in Afghanistan per la causa dell’ateismo.
Riferimenti

2- Le tre province yemenite Jizan, Asir e Najran erano state annessa dall’Arabia Saudita nel 1932, l’annessione fu ratificata dall’accordo di Taif del 1934. Lo Yemen si oppose alla proroga di venti anni di questo accordo, scaduto nel 1992.

3 – I Buddha di Bamiyan erano due statue monumentali del Budda in piedi, scavate nel fianco di una rupe situata nella valle di Bamyan nell’Afghanistan centrale, 230 chilometri a nord ovest di Kabul, a un’altitudine di 2500 metri. L’intero sito è patrimonio dell’umanità dall’UNESCO. Il ‘Grande Buddha’ (53 metri) risale al V secolo, il ‘piccolo Buddha’, nella seconda metà del terzo secolo. Le statue sono scomparse dopo essere state distrutte dai taliban nel marzo 2001.

4-Mikael Awad, politilogo egiziano, l’intervento sul network pan-arabo ‘Al Jazeera’, 2 febbraio 2010, trasmissione “al Ittijah al Mouakess“, (Il senso contrario).

5- Cfr. “La chiamata in soccorso dallo Yemen all’Arabia Saudita“, editoriale di Abdel Bari Atwan, direttore del quotidiano panarabo Al Quds Al Arabi, pubblicato a Londra, 17 Luglio 2010
Per ulteriori informazioni:

1 -Cfr. Arabie saoudite: la grande frayeur de la dynastie wahabite

http://www.renenaba.com/?p=701

2 Cfr. Yémen: La lutte pour le pouvoir dans le sud Yémen pro soviétique

http://www.renenaba.com/?p=766

Traduzione di Alessandro Lattanzio

Fonte: Il blog di René Naba (http://www.renenaba.com/)

http://www.mondialisation.ca/PrintArticle.php?articleId=21003

Leggi la prima parte – YEMEN: l’affronto di bin Laden ai suoi ex sponsor

http://www.mondialisation.ca/index.php?context=va&aid...

 


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lundi, 20 septembre 2010

Teheran, Damasco e Caracas: il triangolo strategico

Teheran, Damasco e Caracas: il triangolo strategico

di Pamela Schirru

Fonte: eurasia [scheda fonte]

Teheran, Damasco e Caracas: il triangolo strategico

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Che l’Iran annoveri tra le sue “amicizie di lungo corso” anche il Venezuela non è una novità. Oltre al Brasile e alla Bolivia, nella lista dei partners politici latino-americani un posto di rilievo è occupato proprio dal Venezuela di Hugo Chavez. Un’amicizia lunga all’incirca un decennio quella che lega il leader maximo al presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad, rinnovata da frequenti incontri ufficiali. Nel 2004, in occasione di una visita ufficiale del presidente venezuelano in Iran, l’allora sindaco di Teheran Ahmadinejad (non ancora eletto alla carica presidenziale) rese omaggio al leader con l’inaugurazione di una statua raffigurante l’eroe nazionale Simon Bolivar, all’interno del parco Goft-o-Gou nei pressi della capitale iraniana. Nel 2006, Ahmadinejad e Chavez si rincontrano. Il primo da un anno è il presidente della Repubblica Islamica dell’Iran, il secondo, invece da due anni è di nuovo alla guida della Repubblica Bolivariana del Venezuela. Il luogo dell’incontro stavolta è Caracas. È qui che i due leader rinnovano la loro “amicizia politica ed economica”. Un’alleanza, quest’ultima, incoraggiata nel 2005 proprio dal neo eletto presidente iraniano, deciso ad avviare una stretta collaborazione con i Paesi dell’America Latina. E il governo venezuelano non si è tirato indietro, accettando la sfida lanciata dal presidente iraniano. In cinque anni, le visite ufficiali del presidente venezuelano a Teheran si sono intensificate, segno di una buona intesa tra i due Paesi. In un solo anno (2007), Chavez ha raggiunto il suo omologo iraniano per ben due volte. Al centro dei loro incontri, la tutela dei reciproci vantaggi economici. Non c’è dubbio che Venezuela e Iran sono legati l’una all’altra da un doppio filo. Lo sono dal punto di vista politico, quando Chavez sostiene il diritto dell’Iran a sfruttare il nucleare per scopi essenzialmente civili; lo sono dal punto di vista economico, quando stringono accordi. A tal proposito, è opportuno ricordare il viaggio di Chavez in Iran del 2008. In questo frangente, il leader venezuelano ha avanzato una proposta al presidente iraniano: sostenere alcuni progetti industriali entro i confini nazionali bolivariani, attraverso il coinvolgimento di enti e società private iraniane. Un esempio perfetto di cooperazione “sud-sud”: l’Iran fornirebbe al Venezuela gli strumenti necessari, ovvero servizi tecnici e adeguata manodopera affinché questa concretizzi i numerosi progetti di espansione urbanistica e di sostegno all’edilizia locale. Un sistema di scambi e favori reciproci, quello messo in piedi dal governo di Caracas e favorito da quello iraniano, fondato essenzialmente sul rapporto qualità – prezzo.

L’Iran vede come prioritario – al fine di dare impulso alla sua economia interna – l’esportazione di servizi tecnici verso altri Paesi e in qualsiasi mercato che li richieda. Sull’altro versante, la parte venezuelana necessita di rinverdire il mercato interno attraverso buoni investimenti e mediante progetti frutto di una cooperazione sostenuta da costi ragionevoli e qualità di servizi. E l’Iran sembra volerglieli offrire. Sempre nel 2008, il governo iraniano ha firmato 150 accordi commerciali del valore di 20 miliardi con il Venezuela e si è classificato terzo tra i Paesi investitori. Alla luce di ciò, l’intesa tra i due è andata ben oltre, fino a toccare altri settori dell’economia: dall’elettricità all’ambiente, dall’agricoltura all’industria automobilistica. Compagnie miste venezuelano – iraniane fabbricano mattoni, producono latte e lanciano sul mercato auto e biciclette.

I due Paesi, in quanto membri OPEC, cooperano anche nel settore energetico – petrolifero. Un’intesa, la loro, sancita nel 1960 con la creazione dell’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio alla quale aderirono in origine, oltre all’Iran e al Venezuela, anche Arabia Saudita, Iraq e Kuwait. Attualmente, l’organizzazione si è ampliata fino a contare 11 membri permanenti. Tuttavia, l’idillio tra OPEC e Iran-Venezuela ha iniziato a scricchiolare nel 2008, quando l’asse Teheran/ Caracas ha inferto un duro colpo al cartello che controlla le esportazioni di greggio sul mercato globale. Al centro della disputa la valuta di scambio: meglio il dollaro o l’euro? Una diatriba culminata con una profonda frattura interna: l’Iran ha modificato il suo listino prezzi in euro, nonostante i restanti membri Opec abbiano mantenuto inalterata la valuta di scambio in dollari. Mentre Caracas ha optato per una politica monetaria ad hoc, da applicare al settore import-export. La misura è stata varata dal governo venezuelano ai primi di gennaio 2010 e consiste non tanto in una svalutazione, bensì in un adeguamento del valore della sua moneta, il bolivar in base alle necessità dettate dal mercato. In poche parole, il Venezuela può scegliere su una valuta debole e forte. Che cosa significa questo? Che la moneta nazionale si conforma alle diverse condizioni economiche, soprattutto nel settore delle esportazioni. L’economia bolivariana è strettamente legata alla produzione di materie prime, in particolare al petrolio, di cui possiede la quarta  più grande riserva certificata al mondo, dopo Iraq e Arabia Saudita, dopo le recenti scoperte nei pressi della Faglia di Orinoco: 314 milioni di barili estraibili, un terzo di tutte le riserve petrolifere mondiali. Fino al 2008, le entrate derivanti dal petrolio avevano raggiunto picchi elevatissimi, grazie all’ingente produzione di barili (stimati in oltre 3 milioni di barili al giorno) e al loro costo, altrettanto elevato: ciascun barile di “oro nero” costava intorno ai 100/150 dollari. Ma nell’ultimo trimestre dello stesso anno qualcosa inizia a cambiare, soprattutto a causa della crisi economica globale. Il prezzo del petrolio inizia a calare, fino a raggiungere la soglia dei 30 dollari a barile nel 2009. Per far fronte alla drastica caduta dei prezzi, l’OPEC opera un taglio altrettanto drastico della produzione pari al 25% al fine di ripristinare un certo equilibrio. Come ha reagito il Venezuela? Adeguando il prezzo della sua moneta alle sue individuali necessità. A partire dal 7 gennaio 2010, infatti, il governo di Caracas ha dato avvio al processo di “svalutazione-adeguamento” della moneta nazionale, dapprima per i prodotti di prima necessità per poi estendersi al settore petrolifero.

Una linea retta ideale unisce Teheran a Caracas passando per Damasco. E se i punti di questa linea si unissero, essi formerebbero un triangolo imperfetto. Iran, Siria e Venezuela che cosa hanno in comune queste tre realtà? Ad esempio, una rotta aerea percorsa due volte al mese da un vettore dell’Iran Air, la compagnia aerea iraniana. Per due sabati al mese, un Boieng 747SP decolla dall’aeroporto internazionale di Teheran e opera uno scalo di 90 minuti in terra siriana, prima di ripartire alla volta del Maiquetia International Airport di Caracas. Nata dall’intesa tra la società di trasporti venezuelano Conviasa e la compagnia di bandiera persiana Iran Air e inaugurata il 2 febbraio 2007, la rotta ha fin da subito generato sospetti sul versante occidentale. Dubbi e ipotesi hanno fatto da cornice in questi tre anni al volo 744 dell’Iran Air: che cosa trasporterà? Chi volerà a bordo dei suoi vettori? Domande rimaste senza risposta, se non fosse per alcune indiscrezioni filtrate dalle pagine di un “memorandum” risalente al 2008 e compilato da funzionari dei servizi segreti israeliani. Dietro il volo 744 dell’Iran Air si ritiene ci sia uno scambio di favori militari per via aerea. In poche parole, Chavez consentirebbe al leader iraniano di adoperare liberamente i propri aerei di linea in cambio di aiuti di varia natura: dal trasferimento di materiale scientifico verso i laboratori del Centro di studi e ricerca siriano a Damasco, agli aiuti militari diretti a Caracas. In particolare, si tratterebbe di spedizioni di macchine CNC, computer per il controllo di missili e di materiale per lo sviluppo di vettori. Le spedizioni verso “la zona franca” siriana sarebbero state fatte da una società iraniana – la “Shaid Bakeri” – nonostante i veti internazionali. Infatti, l’azienda è stata inclusa nel dicembre 2006 nella lista degli enti sanzionati dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (ris.1737), in ragione del ruolo svolto dall’Iran nello sviluppo del suo programma missilistico. Sanzioni ratificate lo scorso 18 giugno dall’Unione Europea. Nonostante i divieti imposti dalla comunità internazionale, la Siria avrebbe pertanto ricoperto il ruolo di corridoio di passaggio per gli scambi tra Teheran e Caracas.

Al di là di ipotesi e di supposizioni, le relazioni tra Caracas/Damasco e Iran/Damasco sembrano godere di buona salute. Nel primo caso, Chavez ha promesso al presidente siriano, Bashar al Asad, un supporto economico nella realizzazione di infrastrutture in terra siriana. In particolare, il governo venezuelano investirà nella costruzione di una raffineria che dovrà essere pronta entro il 2013. La struttura avrà la capacità di lavorare 140 mila barili al giorno. Mentre Caracas in veste di promotore finanziario, deterrà almeno il 30% delle azioni: la restante percentuale sarà ripartita tra Siria e Iran. Il progetto verrà portato avanti da un’impresa mista creata nel 2009, di cui fanno parte anche Iran, Malesia, Siria e appunto Venezuela e secondo stime approssimative, costerà circa 4,7 miliardi. Un piano ambizioso, ma nel contempo un segnale positivo nel settore dell’economia nazionale siriana nonché una prova di apertura nei confronti del mercato sud-americano. Le intenzioni di Caracas verso la Siria si sono spinte oltre: il 28 luglio 2010 nel corso della visita di Stato del presidente Asad a Caracas, il leader bolivariano ha esteso l’invito alla Siria a prendere parte all’ALBA, ovvero all’Alleanza Bolivariana per i Popoli di Nuestra America, in veste di osservatore del prossimo vertice del gruppo. L’intesa tra i due presidenti è sfociata poi nella firma di quattro accordi di collaborazione, in materia agricola e scientifica, che riguardano il trasferimento di tecnologie indispensabili per l’installazione di una fabbrica di olio d’oliva in territorio siriano.

Solidissimo il sodalizio tra Iran e Siria. Un’intesa strategica rafforzata nel corso delle due guerre del Golfo e cementata dal comune obiettivo di contrastare l’influsso israeliano nella Regione: dal 1967 la Siria rivendica le Alture del Golan occupate da Israele. Negli ultimi trent’anni, la vicinanza con l’Iran ha inoltre permesso alla Siria di uscire dal suo isolamento internazionale, durato troppo a lungo: dal 1963 al 2000. Cioè dall’ultimo colpo di Stato inferto alla già fragile struttura politica siriana dal partito baath, fino all’ascesa di Bashar al Asad, attuale presidente siriano e principale promotore di una politica distensiva in campo economico, favorevole ad un’apertura del mercato siriano verso l’esterno. Ma non solo. Entrambe sorreggono il movimento sciita libanese Hezbollah e la fazione radicale palestinese, Hamas. Infine, la Siria (come il Venezuela di Chavez) appoggia il diritto dell’Iran a proseguire lungo la strada dell’arricchimento dell’uranio, al fine di completare il suo programma nucleare per scopi essenzialmente civili. Come hanno più volte ribadito i presidenti dell’Asse Sud Americano-Asiatico, non è illegale fornire aiuti all’Iran e alla sua economia,martellata dalle pesanti sanzioni inflitte dalle Nazioni Unite e ratificate puntualmente dall’Unione Europea.

* Pamela Schirru è laureanda in Filosofia Politica (Università di Cagliari)

dimanche, 19 septembre 2010

Augmentation de l'influence iranienne - Entretien avec Shayan R. Arkian

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Augmentation de l’influence iranienne

 Entretien avec Shayan R. Arkian

Propos recueillis par Moritz Schwarz et Jens Boye Volquartz

Shayan R. Arkian, 28 ans, est islamologue et expert ès questions iraniennes. Ce journaliste (cf. www.irananders.de/ ) possède la citoyenneté allemande et vit dans la région de Francfort sur le Main. Il est l’un des auteurs du livre collectif intitulé « Iran. Fakten gegen westliche Propaganda » (= « L’Iran. Les faits contre la propagande occidentale »), Kai Homilius Verlag, Berlin, 2009. L’entretien qu’il a accordé à l’hebdomadaire « Junge Freiheit » vise à nous éclairer sur une question stratégique importante : après le retrait des troupes américaines hors d’Irak, l’Iran deviendra automatiquement la plus grande puissance de la région. Le pays deviendra-t-il alors vraiment dangereux ?

 

Q. : Monsieur Arkian, les Etats-Unis ont déclaré que la guerre en Irak  était terminée et viennent, officiellement, de retirer toutes leurs unités de combat. Bon nombre d’observateurs estiment désormais que l’Iran est le seul vainqueur de cette guerre…

 

ShA : Sans aucun doute, l’influence de l’Iran est devenue plus importante. Non seulement en Irak parce que beaucoup d’opposants irakien du temps de Saddam Hussein s’étaient réfugié en Iran et constituent aujourd’hui une bonne part du gouvernement irakien, mais aussi ailleurs dans la région, notamment en Afghanistan où l’on parle une langue fort apparentée au persan. L’Iran ne se borne pas à jouer la carte du chiisme mais, selon une logique toute pragmatique, se sert de la puissance culturelle que lui procure son héritage national persan.

 

Q. : A la fin du mois d’août, Téhéran a mis en œuvre son premier réacteur atomique à Bushehr et a présenté le premier bombardier-drone à longue distance de fabrication iranienne (photo), engin que le Président Ahmadinedjad a qualifié « d’émissaire de la mort ». Selon toute apparence, l’Iran constitue un danger croissant pour son environnement géopolitique…

 

ShA : Vous devriez citer la phrase d’Ahmadinedjad au complet : avant de dire que le drone est un éventuel « émissaire de la mort », il a dit qu’il apportait d’abord un message de paix, et que le véritable message qu’il entend apporter est celui d’éviter toute confrontation. Le Président a parlé de l’utilisation pacifique du drone car, du point de vue iranien, il faut compenser l’évidente prépondérance militaire américaine. Indépendamment de cela, nous devrions pas, ici en Allemagne et pour notre propre intérêt, considérer seulement l’Iran comme une menace, car, surtout en Afghanistan nous avons des buts communs très similaires.

 

Q. : Empêcher les confrontations ? Alors qu’Ahmadinedjad a clairement menacé Israël…

 

ShA : On nous dit en effet qu’Ahmadinedjad a proféré des menaces et aurait dit qu’Israël devait être rayé de la carte. Ce n’est pas exactement ce qu’il a dit ; il a énoncé une citation qui disait que le régime d’occupation à Jérusalem « devait être ôté des pages des livres d’histoire ». Ensuite, la politique étrangère et la sécurité de l’Iran sont un apanage du chef de l’Etat, l’Ayatollah Khamenei, qui est également le commandant en chef des forces armées.

 

Q. : Vous êtes l’un des co-auteurs du volume « Iran. Fakten gegen westliche Propaganda »…

 

ShA : Ce petit volume a rassemblé une demie douzaine de plumes qui se penchent chaque fois sur un aspect de la présentation que l’on fait de l’Iran en Occident, pour s’efforcer dans la foulée de donner d’autres perspectives sur le débat à propos de l’Iran.

 

Q. : Vous êtes Iranien ; dès lors, ce livre n’est-il pas lui-même de la propagande ?

 

ShA : Lisez ma contribution et, alors, j’espère que vous reconnaîtrez la plausibilité de mes arguments. Ensuite, je dois vous dire que je n’ai jamais voté pour Ahmadinedjad, ni lors des élections de 2009 ni auparavant.

 

Q. : Ce volume ne donne toutefois pas l’impression d’une objectivité totale…

 

ShA : Cette impression, que vous avez, provient sans doute du fait que les dysfonctionnements et les dérapages qui ont lieu en Iran n’y sont pas thématisés. A l’heure actuelle, presqu’aucun média ne donne des informations complètes sur l’Iran, parce que le pays recèle en fait beaucoup trop de contrastes. De ce fait, il me paraît important de consulter des sources et des points de vue différents, pour se donner une image plus objective de l’Iran. Par ailleurs, vu le titre même de l’ouvrage, j’ai dû mettre l’accent sur le fait que, derrière toutes les présentations imprécises de l’Iran dans les médias occidentaux, ne se trouve pas nécessairement des intentions propagandistes : les raisons de l’imprécision sont souvent l’absence de connaissances réelles ou la mécompréhension des ressorts de la société iranienne. Les journalistes occidentaux ne font même pas l’effort de comprendre leurs propres compatriotes chrétiens, qui ont une optique plus traditionnelle de la religion, alors comment pourraient-ils comprendre les ressorts d’un Etat chiite, incarné par des théologiens, comme l’est l’Iran actuel.

 

Q. : Pouvez-vous nous donner des exemples ?

 

ShA : Très souvent, on considère l’Iran comme un Etat agressif. Lors de la première guerre du Golfe, de 1980 à 1988, c’est Saddam Hussein qui, le premier, a utilisé des gaz toxiques. L’Iran, lui, a refusé d’utiliser de telles armes et de pratiquer une politique de la vengeance en frappant l’Irak par des armes similaires. En effet, selon les fatwas des dirigeants religieux iraniens, la mise en œuvre d’armes de destruction massive est interdite par les lois régissant la religion.

 

Q. : Vers la mi-août, les rumeurs concernant une attaque aérienne sont allées bon train. Depuis des années déjà, on spécule à ce sujet… Une intervention américaine est-elle encore réalisable ?

 

ShA : Les attaques par voie aériennes perpétrées par les Etats-Unis au cours de ces dernières décennies se sont effectuées contre des pays fortement endommagés par des guerres, afin de maintenir les pertes américaines le plus bas possible, pour des raisons évidentes de politique intérieure. Une attaque aérienne de même acabit ne pourrait avoir lieu que contre un Iran harassé et affaibli par une guerre. Ensuite, le monde actuel est de plus en plus multipolaire et ne participe plus aussi facilement aux sanctions levées contre l’Iran, par conséquent une attaque ne semble pas imminente dans le contexte actuel. Nous, ici en Occident, serions bien inspirés si nous retournions aux principes de la Realpolitik et si nous nous mettions à traiter avec l’Iran d’homme à homme. Si nous procédions de la sorte, nous gagnerions beaucoup et perdrions peu sinon rien.

 

(entretien paru dans « Junge Freiheit », Berlin, n°36/2010 ; http://www.jungefreiheit.de/ ).

 

 

lundi, 13 septembre 2010

Türkei-referendum: Ankara will Schlüsselrolle auf der Welt spielen

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Türkei-Referendum: Ankara will Schlüsselrolle auf der Welt spielen

Udo Schulze

Ex: http://info.kopp-verlag.de/

 

Mit großer Mehrheit haben sich am Wochenende in einem Verfassungsreferendum die Türken dafür entschieden, dass ihr Land Mitglied der Europäischen Union wird und die dazu nötigen verfassungsrechtlichen Schritte einleitet. Das mag die EU-Befürworter auch in Deutschland in Jubelstürme versetzt haben. Sehen sie darin doch einen Sieg des europäischen Gedankens. Doch welche Rolle soll die Türkei innerhalb der EU eigentlich spielen? Viele Beobachter gehen davon aus, dass es sich um eine rein strategische handelt.

 

 

 

Mit einem Beitritt des in vielen Teilen noch völlig rückständigen Staates zur Union würden die Außengrenzen des künstlichen EU-Gebildes direkt an Iran und Irak stoßen, was eine Anzahl von Problemen mit sich bringen würde. Bei kriegerischen Auseinandersetzungen – hier sei an den sich abzeichnenden Krieg zwischen Israel/USA und dem Iran erinnert – wäre die EU »mittendrin«. Ein Angriff gegen die Türkei, Grenzzwischenfälle oder andere Provokationen wären in diesem Moment auch Angelegenheit der Europäischen Union und damit auch Deutschlands. So könnte einer der kommenden Kriegseinsätze der Bundeswehr in der Türkei stattfinden. Abgesehen von den ökonomischen Problemen, die ein wirtschaftlich schwacher Staat wie die Türkei mit in die EU bringen würde, müsste auch zu denken geben, dass mit dem Beitritt Ankaras der erste muslimische Staat nicht nur alle Pflichten, sondern auch alle Rechte der Mitglieder der Europäischen Union genießen würde. Dazu zählt u. a. auch das Recht jedes EU-Bürgers, Arbeitsplatz und Wohnort innerhalb der Union frei wählen zu können. Aufenthaltsgenehmigungen, Zuwanderungsstopps und andere Maßnahmen hätten damit jegliche Wirkung verloren. Auch in strafrechtlicher Hinsicht.

Inzwischen sieht sich das Land mit der Brücke zwischen Europa und Asien als Weltmacht, so Ministerpräsident Tayyip Erdogan auf einem internationalen Kongress im Frühjahr 2010. Im Brustton der Überzeugung sagte er, die Türkei würde ab jetzt die Tagesordnung der Welt mitbestimmen. Diese besondere Art der Bescheidenheit mag sich darauf gründen, dass die Türkei inzwischen auch von Frankreich und Finnland unverhohlen umworben wird. So wollen sich beide Länder dafür einsetzen, den islamischen Staat sogar ohne Aufnahmeverfahren Mitglied der EU werden zu lassen. Gibt sich das Land nach außen hin weltoffen und modern, sieht es im Innern ganz anders aus. Fast täglich steht die türkische Gesellschaft vor einer Zerreißprobe. Meistens in Fragen von Politik und Religion, die dort nicht voneinander getrennt werden. Weder die Rechte der Frauen noch der Bürger gegenüber dem Staat und seinen Institutionen sind dort in demokratischem Maße verwirklicht. Und die Prediger eines radikalen Islamismus finden in der Türkei noch immer Millionen von Anhängern. Eine der Leitfiguren ist Metin Kaplan, der von 1983 bis 2004 in Deutschland lebte. Erst als Asylbewerber und nach seiner Anerkennung als Verbreiter von Hassparolen, der auch aus der Bundesrepublik ein »Kalifat« machen wollte. Erst als der Mann zum Mord an einem seiner politischen Gegner aufrief (der tatsächlich dann auch erschossen wurde) musste Kaplan Deutschland verlassen. Seitdem sitzt er in türkischer Haft, umjubelt von seinen Anhängern.

Angesichts solcher Verhältnisse kann die Türkei eigentlich erst dann Mitglied der EU werden, wenn die in Mitteleuropa herrschenden Standards in den Bereichen Recht, Religion und Freiheit dort verwirklicht sind. Ansonsten holen sich die Europäer einen im Zweifelsfall äußeren Feind mitten ins warme Nest.

 

Turkse grondwetswijziging maakt weg vrij voor verdere islamisering

Turkse grondwetswijziging maakt weg vrij voor verdere islamisering

 

Ex: http://www.rechtsactueel.eu/
referendum_12_septembre.jpgPraktisch alle Europese lidstaten alsook de Europese Unie zélf reageerden instemmend op de uitslag van het referendum in Turkije afgelopen zondag waarbij een ruime meerderheid van de Turken - zo'n 60 tegen 40 procent - de voorgestelde omvangrijke grondwetswijziging van de islamistische AKP-regering goed keurde.

Alweer typerend voor onze 'kwaliteitspers' is dat nergens wordt ingegaan op de grond van de zaak.  Zo heeft men het in 'De Standaard' over onder andere "nieuwe rechten voor ambtenaren en de bescherming van de gelijke kansen" alsook over 'de herziening van de machtsverhoudingen tussen de politieke en rechterlijke macht.'

Dat laatste is een understatement om u tegen te zeggen. Want de goedgekeurde aanpassingen van de grondwet - zo'n 26 om precies te zijn - zijn niet meer of minder een regelrechte aanslag op het leger en het grondwettelijk hof als laatste bewakers van het (officiële) seculiere karakter van Turkije.  Burgerlijke rechtbanken krijgen de bevoegdheid om militairen te berechten voor misdrijven tegen de staat en het Turkse parlement krijgt een stevige vinger in de pap in de benoeming van de rechters van het grondwettelijk hof.

Dat de politiek voortaan zowel het leger als het grondwettelijk hof stevig in zijn greep heeft, zorgt ervoor dat Erdogan en de zijnen de machtsbalans op een definitieve wijze naar hun kant hebben doen overhellen.  Na de totale islamisering van het straatbeeld en het maatschappelijk leven is de weg nu ook vrij voor een totale islamisering van de Turkse publieke instellingen.

Deze evolutie is ook belangrijk voor Europa. Want Erdogan heeft gezegd dat deze hervormingen 'nodig zijn voor de toetreding tot de EU', en hij zet intussen ook steeds meer druk op de Europese onderhandelaars om toetreding te versnellen.

Maar de vraag is of dit niet als een boemerang zal terugkeren. Is deze totale islamisering niet juist een obstakel voor een toetreding? De islamisering van Turkije zorgt ervoor dat de steun in Turkije zelf voor toetreding al afbrokkelt. En dat de Europese bevolking niet zit te wachten op de toetreding van Turkije als nieuwe islamitische en meteen ook  grootste EU-lidstaat is al langer duidelijk; in tegenstelling tot de wereldvreemde Euro-elite zegt de verstandige Europeaan massaal 'neen'.

Het doet ons denken aan de situatie in Brussel. Een versnelde islamisering en eurocratisering - begeleid met een totale Vlaamse demografische neergang - leidt er ook toe dat Vlaanderen zich steeds meer afkeert van deze stad en nadenkt over andere opties...

mardi, 07 septembre 2010

Panorama du mouvement national japonais

Panorama du mouvement national japonais

Le récent séjour de Jean-Marie Le Pen au Japon, à l’invitation d’un mouvement nationaliste local, a fait découvrir à beaucoup qu’une droite des valeurs existait aussi au pays du soleil levant et qu’elle s’intéressait à ses épigones occidentaux. Pour nous aider à connaître son histoire, ses idées et ses projets, il est inutile de faire appel à l’université française : aucune étude ne lui a jamais été consacrée dans notre langue. Les journalistes de la grande presse n’ont pas fait mieux : il n’existe aucun article de fond sur le sujet et les quelques papiers qui ont fleuri dans les gazettes ces dernières semaines se sont caractérisé par leur indigence conceptuelle et par la faiblesse de leurs sources. Pourtant, il y aurait beaucoup à écrire sur l’uyoku dantai (???? – le mouvement national).

Personne ne sera surpris d’apprendre que, tout comme en Europe, la droite radicale japonaise est divisée en de multiples chapelles que les universitaires nippons regroupent en quatre familles cohérentes : la droite traditionnelle (Dento uyoku), la droite du profit (Riken uyoku), la droite délinquante (Ninkyo uyoku) et la nouvelle droite (Shin uyoku).

La droite traditionnelle, apparue à la fin du XIXème siècle, correspond à la fraction la plus réactionnaire du mouvement national. Elle est divisée en deux tendances : la droite théorique (Riron-ha uyoku) et la droite orientée vers l’action (Kodo uyoku). Si la première est constituée de sociétés savantes, de cercles d’études et de think tank, la seconde est toute entière tournée vers un militantisme de type paramilitaire souvent violent qui transparaît clairement dans le nom des groupes qui la constituent (Corps de protection national, Escouades de défense anti-communiste, etc.)

La droite du profit a été crée au lendemain de la deuxième guerre mondiale et est constituée par ceux qui, au nom de l’anti-communisme et de la défense du monde libre, choisirent volontairement de travailler en liaison avec de le Département d’État américain et la CIA. Sa personnalité emblématique est Yoshio Kodama qui fonda le Conseil des groupes patriotiques japonais en 1960 et dont les troupes n’ont cessées d’être actives, jusqu’à nos jours, pour lutter contre tous les adversaires des États-Unis, défendre le traité de coopération et de sécurité Japon-USA, ainsi que pour dénoncer le péril que font courir à l’archipel la Chine, la Russie et la Corée.

C’est aussi à Yoshio Kodama que l’on doit l’apparition de la droite délinquante ou « droite yakuza ». À la recherche de gros bras pour ses actions les plus musclées, il fit des alliances avec des gangs de malfrats qui, voyant l’intérêt qu’ils pouvaient en retirer, se politisèrent et s’enkystèrent dans la mouvance. Leur existence, toujours d’actualité, pose un problème majeur à l’ensemble du courant national qu’ils compromettent par un certains nombres d’actions délinquantes récurrentes dissimulées sous un masque politique : extorsion de fonds, chantages, etc…

Tous ces groupes partagent une idéologie similaire centrée sur culte de l’Empereur et le patriotisme, mais la guerre froide a fait qu’ils ont modéré ce dernier en acceptant l’hégémonie américaine sur leur pays et les traités inégaux signés entre Tokyo et Washington. De plus, leur anti-communisme les a rendus hostile à toute organisation syndicale et inaptes à toute réflexions géostratégiques. Ce qui fait qu’ils se sont progressivement éloignés des préoccupations réelles de leurs concitoyens et que leur audience politique est nulle, ou presque, comme le montre les résultats de leur front électoral le Ishin seito shimpu (Parti de la restauration du vent nouveau) dont les résultats aux législatives furent de 0.077 % en 2001, de 0.18 % en 2004 et de 0.24 % en 2007

En réaction contre ce que nous venons de décrire, est née la « nouvelle droite ». Son origine remonte aux troubles estudiantins de la fin des années 1950 et des années 1960. Le 19 janvier 1960 fut signé entre les USA et le Japon un traité de coopération mutuelle et de sécurité. Sa négociation et sa signature furent l’objet de très importante manifestations de la jeunesse et des étudiants encadrés par l’extrême gauche. Celle-ci maintint par la suite comme une revendication récurrente l’exigence son abrogation, et lors du mai 68 japonais (qui s’étala dans les faits de janvier 1968 à janvier 1969) la lutte contre le traité était toujours un point important du programme du Zangakuren (l’UNEF nippone). De leur côté, les droites traditionnelles avaient suscitées la Ligue des étudiants japonais (Nichigakudo), une sorte de GUD à la japonaise, qui s’affrontait quasi-militairement aux gauchistes, tandis que le Conseil des groupes patriotiques japonais mobilisait en faveur du traité. Ce positionnement ne satisfaisait pas, loin sans faut, tous les étudiants nationalistes. Certains d’entre eux, regroupés autour du périodique Ronsho entendaient faire entendre la voix des jeunes patriotes qui étaient opposés au traité et à l’impérialisme américain. En 1968, ils reçurent l’appui de l’écrivain Yukio Mishima sous la direction duquel ils formèrent la Tatenokai (Société du bouclier). Ses membres qui n’hésitaient pas à participer aux débats qu’organisaient l’extrême gauche dans les universités furent immédiatement dénoncés par les droites traditionnelles et de profit comme des « traîtres et des vendus au communisme. » Cependant, le groupe prospéra et, le 25 novembre 1970, il tenta d’inciter les élèves officiers de Tokyo à se soulever pour rétablir l’Empereur dans la plénitude de ses droits. Le coup d’État militaire ayant échouée, les deux principaux dirigeant de la Tatenokai se suicidèrent de manière traditionnelle par éventration.

Les partisans de Mishima ne cessèrent pas le combat et, en 1972, ils fondèrent la Société du premier mercredi (Issuikai), doublé, à partir de 1981, par un groupe activiste, le Front uni des volontaires (Toitsu sensen giyugun) qui dans le cadre d’une politique de troisième voie monta de nombreuses action de commando pour s’en prendre à des objectifs soviétiques et étasuniens (ambassades, consulats, siège d’agence de presse, etc.)

Si l’action du Front uni des volontaires a décru avec le temps, celle d’Issuikai n’a jamais cessée et son actuel dirigeant, Kimura Mitsuhiro, qui n’a jamais renoncé à la pratique des débats avec les groupes d’extrême gauche initiée par la Société du bouclier est fréquemment interviewé par tous les grands médias japonais.

Défendant des thèses assez proches de celle des nationalistes-révolutionnaires européens (comme eux, par exemple, il ne cache pas son admiration pour le Baath de Saddam Hussein) Kimura Mitsuhiro n’hésite pas à déclarer : « Nos seuls ennemis sont l’ambition hégémonique américaine et nos politiciens qui soutiennent les Etats-Unis. Les problèmes récurrents que nous avons avec la Chine ou la Corée, sont dus à des manœuvres des USA. Je suis un nationaliste japonais, et de ce fait je me dois de respecter tous les autres nationalistes, y compris les Chinois ou les Coréens. Les Américains nous parlent de démocratie en Asie, mais que font-ils dans le même temps en Irak ou au Kossovo ? »

Cette déclaration très moderne et très politique, ne doit cependant pas faire oublier que, même au d’Issuikai le militantisme est un engagement qui dépasse la politique et qui s’apparente à une voie de réalisation martiale, c’est l’uyoku ronin do (la voie du militant nationaliste) que décrit Ninagawa Masahiro, un militant de cette société : « Notre combat n’est pas réellement idéologique, il est surtout émotion et passion. Un samouraï n’agit pas de manière logique, deux valeurs conditionnent sa vie : être fidèle et se préparer à bien mourir. Le patriotisme est pour nous passion et émotion. C’est pour cela que les militants de gauche ne peuvent pas nous comprendre et nous prennent pour des fous. »

Christian Bouchet [1]

Source : ONG [2]


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[1] Christian Bouchet: http://frontdespatriotes.blogspot.com/2010/08/uyoku-dantai-panorama-du-mouvement.html

[2] ONG: http://ongong.canalblog.com/

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lundi, 06 septembre 2010

Zuma wirbt in China um Aufnahme in die BRIC-Gruppe

Der Nächste bitte: Südafrikas Präsident Jacob Zuma wirbt in China um Aufnahme in die BRIC-Gruppe

Wang Xin Long

Ex: http://info.kopp-verlag.de/

 

Der südafrikanische Präsident, Jacob Zuma, besuchte diese Woche Peking, seine letzte Station auf der Reise zu den BRIC-Staaten Brasilien, Russland, Indien und China. Zuma, der mit einer 300 Personen starken Wirtschaftsdelegation und einer seiner Frauen angereist war, wurde in Peking mit vollen militärischen Ehren begrüßt.

 

 

Zuma besucht China, um die wirtschaftlichen Beziehungen zwischen den beiden Ländern weiter auszubauen und für mehr chinesische Investitionen in Südafrika zu werben. Die Gespräche waren für beide Seiten erfolgreich, und bereits am Dienstag hatte man ein dutzend Kooperationsverträge unterzeichnet. Die angestrebten Kooperationen umfassen den Finanzmarkt, Versicherungen, Infrastrukturprojekte und die Telekommunikation. Außerdem greift die chinesische Entwicklungsbank dem südafrikanischen Mobilfunkdienstleister Cell C mit einem Kredit in Höhe von umgerechnet rund 240 Millionen Euro unter die Arme.

Darüber hinaus hat Jacob Zuma erneut sein Anliegen vorgetragen, Südafrika in der BRIC-Gruppe unterbringen zu wollen. Das Land sei reif für eine Aufnahme, sagte er in mehreren Interviews. Das Anliegen als solches ist zwar verständlich, denn immerhin handelt es sich bei den BRIC-Staaten um die größten volkswirtschaftlichen Potenziale der nächsten zehn bis 15 Jahre. Aber woher Zuma die Idee hat, dass Südafrika in diesen Club der wohlhabenden Nationen hineinpasst, ist manchen Kommentatoren schleierhaft.

In der Tat, Südafrika wirbt nicht erst seit gestern um Aufnahme in die BRIC-Gruppe, und man lässt keine Gelegenheit aus, bei den BRIC-Teilnehmern auf sich aufmerksam zu machen. Zuma bereist die Teilnehmerländer oft, und unterstreicht jedes Mal seine Vision von einer Teilnahme Südafrikas. Auch beim diesjährigen Sankt Petersburger Wirtschaftsforum (SPIEF) war Südafrika durch seinen Botschafter in Russland und den Geschäftsführer der Standard Bank, der größten südafrikanischen Bankengruppe vertreten

Zuma scheint zuversichtlich, dass seine Lobbyarbeit erfolgreich sein wird, und er den angestrebten Sprung in den Kreis der BRIC-Staaten schafft. Ein wenig überrascht ist man über das beharrliche Ansinnen des südafrikanischen Präsidenten an einigen Orten aber schon. Denn letztendlich bedarf es einer Aufnahme unter der BRIC-Doktrin einer gesunden Volkswirtschaft mit beträchtlichem Potenzial in bestimmten auserwählten Wirtschaftssektoren – und diese Potenziale müssen vom Begründer der Doktrin, der Goldman Sachs, auch als solche identifiziert werden können. Jacob Zuma wäre also gut beraten, einmal bei Jim O’Neill, dem Chef der Abteilung Globale Forschung bei Goldman Sachs nachzufragen, wie man denn dort über die Aufnahme Südafrikas denkt.

Ob der erst diese Woche von der chinesischen Entwicklungsbank erteilte Kredit an den angeschlagenen südafrikanischen Mobilfunker Cell C in Höhe von umgerechnet rund 240 Millionen Euro bei Goldman Sachs die nötige Euphorie und ausreichend Vertrauen in die Wirtschaftspotenziale Südafrikas hervorgerufen hat, ist fraglich.

 

Kurosawa, l'ultimo imperatore

Kurosawa, l’ultimo imperatore

di Marco Iacona

 
Fonte: Linea Quotidiano [scheda fonte]

Akira Kurosawa è stato un uomo di cinema molto colto, uno di quelli che si sono ispirati ai geni della letteratura di sempre come William Shakespeare e Fëdor Dostoevskij e che a sua volta ha fornito spunti a non finire a chi è venuto dopo o insieme a lui. Dal Sergio Leone di Per un pugno di dollari al western americano dei Magnifici sette fino al George Lucas della saga di “Guerre stellari”, ed è stato probabilmente – per i temi trattati nei film – una della miglior “cerniere” fra Oriente e Occidente che si ricordino.

È giusto allora parlare di lui perché il cinema internazionale non sarebbe stato quello che è stato senza la sue abilità narrative, colme ora di trasognate apparizioni ora di crudissimo e sanguinario realismo. Ma il regista della Sfida del Samurai – il film al quale si ispirò Leone, con Toshiro Mifune nel ruolo che qualche anno dopo sarà di Clint Eastwood – non ha saputo rinunciare né al racconto “caotico” del mito medioevale – divulgato con un’abilità poco riconosciuta fra le mura di casa – né alle tecniche o alle citazioni di tipo squisitamente teatrale.

Kurosawa è stato anche un maestro dell’epica contemporanea abbinata, col massimo dell’abilità, a un pessimismo senz’alcuna macchia di retorica. Un lavoro del 1985 – uno dei suoi ultimi film – liberamente ispirato a Re Lear di Shakesperare, finisce con parole che sanno di condanna senza appello per il genere umano: in un Giappone infernale nella materia e nella sostanza, non sembra esserci spazio alcuno per uomini e donne di “buona volontà”, bensì per esseri umani stupidi e violenti che vivono o sopravvivono assassinando i loro simili e che credono nella vendetta e nel dolore. I “buoni” e i leali non vengono creduti e l’unica regola che vale è la sottomissione dello sconfitto al più forte e al vincitore. In tutto questo l’onore dei soldati è un limite solo parzialmente valicabile dalla brutalità della guerra e dalla brama di potere. Una vera lezione…

Nato a Tokio, educato rigidamente e sensibilissimo alle arti e alla pittura (per un po’ illustrerà anche romanzi rosa e libri di cucina), Kurosawa si avvicina al cinema grazia al fratello maggiore, Heigo. Debutta come regista nel 1943 con Sugata Sanshiro un’originalissima storia sullo judo, e va avanti quasi con un film l’anno fino alla metà degli anni Sessanta, inizialmente attratto da tematiche sociali poi anche da temi basati sulla “valorizzazione” dell’individuo con tanto di sconfitte, emozioni ed eterne illusioni. Dal ’70 in poi girerà poche altre pellicole, fino al 1993 anno di Madadayo. “Il compleanno”, ultima fatica prima di scomparire quasi novantenne nel 1998. Freddo (forse solo apparentemente) e pignolo fino alla ricerca della perfezione (celebri le sue lunghissime riprese, con un rapporto di dieci metri di pellicola girata per poterne utilizzare e conservare soltanto una), “Tenno” Kurosawa – Kurosawa l’Imperatore, questo il suo soprannome – ha donato agli occidentali alcune perle di una cultura, quella orientale, che col trascorrere degli anni è apparsa sempre meno lontana dal nostro sentire, divenendo così soprattutto da noi, lui nobile discendente di una famiglia di Samurai, un artista “di casa.” Il regista di Tokio è stato infatti definito il «meno giapponese» dei cineasti del Sol levante, anche se pare non abbia mai particolarmente gradito le interpretazioni di “natura occidentale” dei suoi film.

Del 1951 è per esempio uno dei primi capolavori di Kurosawa, uno dei simboli riconosciuti del cinema orientale, Rashomon (col grande Mifune per molti anni quasi un suo alter ego, nel ruolo di un brigante da strada) che vincerà il Leone d’oro a Venezia e poi l’Oscar come miglior film straniero. È la pellicola che rivelerà alla cinematografia internazionale non solo un grande maestro ma anche l’intero cinema giapponese. Un colpo di scena irripetibile. Memorabile il suo “testa a testa” al Festival della Laguna con Un tram che si chiama desiderio di Elia Kazan, forse più amato dagli stessi “addetti ai lavori” a giudicare da queste poche righe apparse sull’Europeo all’indomani della proclamazione dei vincitori, a firma Gian Gaspare Napolitano, membro della giuria: «Rashomon ha questo di buono, che pur trattando un argomento scabroso come il duello mortale in un bosco fra un samurai e un brigante da strada in vista del possesso di una donna, lo stile del racconto è tale che il film si contempla senza inquietudine». Al film di Kazan con Marlon Brando andrà il premio speciale della giuria.

Nel 1954 esce il notissimo e imitatissimo I Sette Samurai (ancora con Mifune), considerato uno degli spaccati più “fedeli” del Giappone del periodo delle guerre civili. Nel ’57 Kurosawa concluderà invece Il trono di sangue che si ispira invece a un Macbeth, ancora di Shakespeare, trasferito però nel ‘500, e nel ’75 Dersu Uzala, il piccolo uomo delle grandi pianure, finanziato dall’Urss, storia di un’amicizia e di un cacciatore solitario – un mongolo della tundra – che non resiste alla cosiddetta civiltà e sceglie di vivere e poi morire nel suo ambiente naturale cioè la taiga siberiana. Il film vinse sia al Festival di Mosca sia, ancora, alla notte degli Oscar hollywoodiani, ed è fondamentale nella biografia del regista nipponico perché segna il ritorno al successo dopo la delusione del film del ’70 (Dodes’ka den), di seguito alla quale – come un vero guerriero che cerca di salvaguardare l’onore perduto – il nostro aveva perfino tentato il suicidio.

Non finisce qui. Anzi. Nell’80 esce Kagemusha, l’ombra del guerriero con cui Kurosawa tornerà a trattare uno degli argomenti prediletti, il Giappone delle tradizioni; e negli anni Novanta infine Sogni (una pellicola formata da episodi diversi, a testimoniare anche la varietà di temi e interessi del tokyoto) e Rapsodia in agosto grazie ai quali si riaccendono i toni antimilitaristi e pacifisti di “Tenno” Kurosawa. Si tratta peraltro dei due film coi quali il pubblico più giovane ricorderà per sempre la grande poesia – e lo sguardo antiprogressista – dell’Imperatore; l’omaggio a Vincent Van Gogh interpretato da Martin Scorsese e il Richard Gere coprotagonista della pellicola dedicata al ricordo della bomba atomica su Nagasaki. Con lucidità, destrezza e fantasia, Kurosawa ha cercato di raccontare la storia dell’orrore della guerra atomica dalla parte degli sconfitti, degli adulti sempre meno numerosi e dei bambini, ai quali è destinata la cura della memoria. Quella memoria che insieme all’“uomo” – in cento luoghi diversi ove positivo e negativo riescono perfino a confondersi – è stata la protagonista della carriera cinematografica di uno degli artisti più imitati della seconda metà del XX secolo.

 

 

 

 


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dimanche, 05 septembre 2010

Strategiegespräche zwischen der EU und China

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Strategiegespräche zwischen der EU und China

Wang Xin Long

Ex: http://info.kopp-verlag.de

 

Es ist den deutschen Systemmedien wieder einmal entgangen, dass es ein wichtiges Treffen zwischen hohen Vertretern der EU und der Volksrepublik China gibt. Derzeit befindet sich die Hohe Vertreterin der EU Außen- und Sicherheitspolitik, Catherine Ashton, in China, um sich dort im Rahmen eines Strategiegespräches mit hohen chinesischen Vertretern zu beraten. Hinter verschlossenen Türen.

 

 

 

Catherine Ashton, die »EU-Außenministerin«, wurde vorgestern in Guiyang, Hauptstadt der südchinesischen Provinz Guizhou, vom dortigen Provinzchef Dai Bingguo empfangen. Die beiden teilten den Vorsitz beim eintägigen Strategiegespräch. Ziel des Treffens waren Diskussionen zu den üblichen Themen: wirtschaftliche und politische Zusammenarbeit zwischen China und der EU, mehr Dialog und wachsendes Verständnis füreinander.

Dai Bingguo hob in einer Rede am Rande der Gespräche hervor, dass sich China seiner Rolle in den Beziehungen mit der EU wohl bewusst sei, und dass die Volksrepublik aktiv an einer friedvollen Koexistenz mit der EU arbeiten werde.

Ashton unterstrich die Wichtigkeit Chinas bei Themen wie dem internationalen Handel und der Investitions- und Arbeitsmarktpolitik. Details über die Diskussionen oder über etwaige geschlossene Vereinbarungen wurden allerdings nicht bekannt gegeben. Es fällt auf, dass Ashton, die ihren Posten dem Vertrag von Lissabon verdankt, ein großes Lieblingsthema der Vergangenheit erst gar nicht mehr anzusprechen gedenkt: die Menschenrechte.

Nun mag der eine oder andere vermuten, dass die sogenannte Wirtschafts- und Finanzkrise den Westen derart mürbe gemacht hat, dass er seine Propaganda gegenüber der Volkrepublik einstellen musste, nachdem er festgestellt hat, dass ein vereintes, starkes China für die westlichen Wirtschaftssektoren opportuner ist als ein gespaltenes und zerrissenes Land. Das mag sein, ist aber nur ein Teil der Wahrheit.

Ein weiterer Teil der Wahrheit ist, dass die EU durch die Ratifizierung des Vertrages von Lissabon recht zügig auf China zugegangen ist. Zum Beispiel was die Menschenrechte angeht, aber auch bei solchen Themen wie Todesstrafe oder demokratische Transparenz. Die EU hat sich durch den Vertrag von Lissabon derart viel Autorität und Handlungsspielraum gegeben, dass es gegenüber anderen autoritären Staaten einiges an politischem Hebel zwangsläufig aufgeben musste – oder wollte. Heute kann man eben nicht mehr ohne Weiteres mit dem Finger auf China zeigen.

Die Regierung der Volksrepublik freut sich natürlich über die neue EU-Politik; schließlich bedeutet diese eine Aufwertung und Anerkennung langjähriger Positionen Pekings. Am heutigen Donnerstag wird Ashton mit Premierminister Wen Jiaobao und Außenminister Yang Jiechi zusammentreffen.

 

jeudi, 02 septembre 2010

Irak: Das Ende vom Anfang

Irak: Das Ende vom Anfang

Wang Xin Long

Ex: http://info.kopp-verlag.de/

 

Die amerikanischen Kampftruppen haben den Irak letzte Woche verlassen. Der militärische Teil der Befreiung des Landes ist also beendet. Der Irak ist jetzt eine Demokratie und wird im internationalen Geschehen eingebettet. Die neuen Regisseure sind wieder einmal die alten Bekannten.

 

 

Der Truppenabzug letzte Woche war das Topthema. Aber von der militärischen Komponente des Irak-Einsatzes einmal abgesehen: Was war denn dort in den letzten Jahren los? Was ist denn mit dem Land, mit seinen Organisationen, der Wirtschaft und der Bevölkerung geschehen?

Antworten auf diese Fragen bietet ein Strategiepapier, das im Auftrag des US-Verteidigungsministeriums erstellt wurde und die Fortschritte in Richtung Demokratie im Irak dokumentiert. Das Thema »Massenvernichtungswaffen« war ja recht schnell vom Tisch, und so konnte man sich ohne großen Zeitverlust auf die Kernfelder des Einsatzes konzentrieren: Schaffung von »Sicherheit und Stabilität« im westlichen Sinne. Das Strategiepapier des Pentagons wirft ein Schlaglicht auf jene Prozesse, die vom Westen im Irak in Gang gesetzt wurden. Schauen wir uns die Geschehnisse anhand von drei Beispielen an: Öl, Wiederaufbau und Finanzsystem.

Es wird sicherlich nicht verwundern, dass ein ganz besonderes Augenmerk auf die Sicherung und Verwaltung der Ölvorkommen gerichtet wurde. Auch wenn die Kampftruppen gehen, eines ihrer Vermächtnisse ist ein riesiger Polizeiapparat, den sie geschaffen und in den Schutz rund um die Ölindustrie gestellt haben: die Ölpolizei (Oil Police) ist verantwortlich für den Schutz der Ölinfrastruktur, einschließlich der Ölfelder, Pipelines, Raffinerien, Transporte und Verkaufsstellen. Insgesamt stehen 47 Bataillone mit rund 30.000 Polizisten bereit, um das irakische Öl zu schützen. Weitere 10.000 Polizisten sollen eingestellt werden, da die Ölproduktion in den nächsten Jahren projektgesteuert stetig ansteigen wird. Die neue demokratische Regierung hat die Verhandlungen mit den internationalen Ölgesellschaften bereits aufgenommen, der Ausverkauf der irakischen Ölvorkommen ist also sichergestellt. Die Ausbeute wird im Pentagon-Bericht ausführlich analysiert und dokumentiert.

Ein weiterer Prozess findet sich in den vielen Reformen, die von den USA initiiert und vorangetrieben werden. Die irakische Regierung als solche ist noch nicht komplett in der politischen Architektur der Amerikaner angekommen und bekommt derzeit den nötigen Feinschliff. Unterstützend ist hier die amerikanische Agentur für internationale Entwicklung USAID (United States Agency for International Development) tätig. Die Behörde koordiniert – gemeinsam mit vielen im Irak befindlichen NGOs – den Reformprozess quer durch alle Regierungsstellen, einschließlich der Ministerien. Die Tätigkeiten von USAID konzentrieren sich auch auf das Vertrags- und Einkaufsmanagement der irakischen Behörden. Für ein im Wiederaufbau befindliches Land ist es eine wichtige Schlüsselfunktion, wenn man über die Vergabe der öffentlichen Ausschreibungen entscheiden kann. Selbstverständlich leistet die US-Behörde auch Unterstützung bei Gesetzesentwürfen, damit der Irak auf außenpolitischer Bühne seiner Rolle gerecht werden kann.

Darüber hinaus spielt auch die irakische Volkswirtschaft eine eigene zentrale Rolle in den amerikanischen Bemühungen. So wurde das gesamte Geld- und Bankenwesen unter die Verwaltung von US-Behörden und der Weltbank gestellt; die beiden größten privaten Banken des Landes werden derzeit von o.g. Institutionen restrukturiert. Bei diesem Prozess spielt der internationale Währungsfond IMF eine wichtige Rolle, der zusammen mit der irakischen Landesbank an der Einbettung des Landes in das internationale Finanzsystem arbeitet.

Insgesamt kann die Koalition der Willigen mit den Ergebnissen im Irak zufrieden sein. Die Ölproduktion läuft nach Plan, die Bauvorhaben spülen üppige Gelder in die Kassen der internationalen Gesellschaften, und der irakische Dinar ist Teil des internationalen Kapital- und Zinssystems geworden, mit Wechselkursbindung an den US-Dollar.

Der Irak ist militärisch, politisch und wirtschaftlich abgewickelt, der Westen kann sich nun der nächsten Herausforderung zuwenden.