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Perché in Giappone il cristianesimo è "straniero"
di Sandro Magister - Kagefumi Ueno
Fonte: L'Espresso [scheda fonte]
Annientamento del "sé", divinizzazione della natura, rifiuto di un Dio personale. I capisaldi della cultura giapponese spiegati dall'ambasciatore del Sol Levante presso la Santa Sede
di Sandro Magister
Già un'altra volta, quest'anno, www.chiesa ha messo in luce l'estrema difficoltà che incontra il cristianesimo a penetrare in Giappone.
È una difficoltà che riguarda anche altre grandi civiltà e religioni asiatiche. Il cardinale Camillo Ruini – quand'era vicario del papa e presidente della conferenza episcopale italiana – indicò più volte la principale ragione di questa impermeabilità nel fatto che in Giappone, in Cina, in India manca la fede in un Dio personale.
È per questo motivo – aggiungeva – che la sfida lanciata ai cristiani dalle civiltà asiatiche è più pericolosa di quella di un'altra religione monoteista come l'islam. Mentre l'islam, infatti, stimola se non altro i cristiani ad approfondire e rinvigorire la propria identità religiosa, le civiltà asiatiche "spingeranno piuttosto nel senso di una ulteriore secolarizzazione, intesa come denominatore comune di una civiltà planetaria".
Per quanto riguarda il Giappone, un'autorevole conferma di questo assunto viene da una conferenza tenuta il 1 luglio scorso al Circolo di Roma dall'ambasciatore giapponese presso la Santa Sede, Kagefumi Ueno.
La conferenza – riprodotta quasi integralmente più sotto per gentile concessione del suo autore – mette in evidenza con rara chiarezza l'abisso che separa la visione cristiana dalla cultura e religiosità del Giappone.
L'ambasciatore Ueno si definisce d'orientamento buddista-scintoista. E nella conferenza parla non da diplomatico ma da "pensatore culturale", come in effetti egli è. Il suo centro d'interesse sono da molti anni le civiltà e le culture. Su questo tema ha scritto numerosi saggi e parlato a vari congressi.
Un suo saggio pubblicato poco prima di arrivare a Roma come ambasciatore, quattro anni fa, ha per titolo: "Contemporary Japanese Civilization: A Story of Encounter Between Japanese 'Kamigani' (Gods) and Western Divinity".
Una sintesi della sua conferenza al Circolo di Roma è uscita su "L'Osservatore Romano" del 14 agosto.
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CULTURA E RELIGIOSITÀ NEL GIAPPONE MODERNO
di Kagefumi Ueno
Credo che vi siano almeno tre elementi che caratterizzano la religiosità giapponese come filosoficamente distinta dal cristianesimo.
Le tre parole chiave sono "sé", "natura" e "assolutizzazione".
In primo luogo, sul concetto di "sé" c'è una nettissima distinzione tra la visione buddista-scintoista e quella monoteista occidentale.
Secondo, nel concepire la natura l'oriente e l'occidente differiscono sostanzialmente. Mentre i giapponesi vedono la natura come divina, i cristiani non condividono la stessa riverenza.
Terzo, quanto ai giudizi di valore, a motivo della loro mentalità religiosa i giapponesi in genere hanno una propensione molto minore degli occidentali ad assolutizzarli.
DISSOLVERE IL "SÉ"
Primo elemento: il "sé". Come differisce il concetto religioso tradizionale giapponese di "sé" dalla visione occidentale? Per dirlo con parole semplici, i buddisti-scintoisti credono che, al fine di raggiungere la vera libertà spirituale, essi devono "cacciar via" ogni "karma" (desiderio), "ego", "interesse", "speranza" e anche "sé". Qui il termine "cacciar via" è sinonimo di abbandonare, rinunciare, dissolvere, svuotare, azzerare, ridurre a niente. In altre parole, lo stato finale della mente, la genuina libertà del pensiero, o la realtà ultima possono essere ottenuti solo dopo aver cacciato via il proprio sé o dissolta la propria identità. Il sé e l'identità devono essere assorbiti nella Madre Natura o universo.
Invece, le religioni monoteiste sembrano essere basate sull'assunto che gli esseri umani sono "miniature" del divino. Gli umani sono definiti per riflettere l'immagine del divino. Essi quindi, per definizione, sono chiamati a essere "divini", o almeno "mini-divini". Per avvicinarsi al divino sono comunque destinati a purificare, consolidare, elevare o portare a perfezione il proprio sé. Mai deve accadere, dunque, che caccino via il loro sé. Il cacciar via il proprio sé è semmai considerato immorale o peccaminoso.
In breve, i monoteisti sono chiamati a massimizzare, a portare a perfezione il proprio sé. Quindi, sono "massimalisti". Con questa idea in mente, non ci vuole una speciale immaginazione per capire che un "sé mini-divino" massimizzato o portato a perfezione è inviolabile o sacro.
All'opposto, i buddisti-scintoisti sono chiamati, al fine di raggiungere la realtà suprema, a minimizzare, cioè a cacciar via il loro sé. Quindi essi sono "minimalisti". Anche la dignità o l'onore di ciascuno è qualcosa a cui non devono legarsi. Mai guardano a se stessi come a delle "mini-divinità". Non accade mai che essi debbano perfezionare se stessi per arrivare più vicini al divino. Un simile desiderio è un tipo di "karma" che essi devono cacciar via.
Insisto, i buddisti-scintoisti credono che da ultimo non ci si deve legare ad alcun desiderio od ossessione, inclusa l'esaltazione di sé. Ognuno dev'essere completamente distaccato dal desiderio di esaltare se stesso.
Fin qui ho fatto una specie di esercizio intellettuale, con l'assunto che le differenti religiosità comportino differenti concetti di "sé". A questo proposito, l'immagine che mi sono fatta è che il "sé" degli occidentali è simile a una grossa, solida, splendente sfera d'oro che deve essere costantemente lucidata, pulita e consolidata, mentre il "sé" dei buddisti è simile ad aria o fluido senza forma, elastico, difficile se non impossibile da lucidare e pulire.
Secondo la religiosità giapponese, ciò a cui si deve rinunciare non è limitato al "karma", ai desideri e al "sé". Bisogna essere distaccati anche da ogni pensare logico. In definitiva, per i giapponesi, la religiosità è un ambito nel quale il "logos" in quanto "ragione", il pensiero logico e l'approccio deduttivo devono anch'essi essere cacciati via.
In particolare, per la tradizione buddista Zen, anche valori opposti come il bene e il male sono qualcosa che va trasceso. Nel senso più profondo della religiosità buddista, nello stadio ultimo dello spirito non vi è nessuna santità, nessuna verità, nessuna giustizia, nessun male, nessuna bellezza. Anche la speranza è qualcosa a cui non ci si deve legare, a cui bisogna rinunciare. La libertà ultima è data dall'assoluta passività.
I giapponesi credono anche che devono essere distaccati dal desiderio di tendere all'eternità. Nell'universo non c'è niente di eterno o di assoluto. Ogni essere resta "effimero", cioè come un niente. Ogni essere rimane "relativo". La realtà ultima è nel "vuoto", nel "nulla", nell'"ambiguo".
Per vedere come la filosofia orientale ci dice che si deve essere distaccati dal "logos", ecco alcune citazioni riprese da buddisti Zen e in particolare da opere di Daisetsu Suzuki:
– "Molti è uno. L'uno è molti".
– "Essere è non essere".
– "L'essere è 'mu', nulla. 'Mu' è l'essere".
– "La realtà è 'mu'. 'Mu' è la realtà".
– "Ogni cosa è nel 'mu', sorge dal 'mu', è assorbita nel 'mu'".
– "Una volta distaccati dalla visione razionale, si trascendono opposti concetti come bene e male".
– "Nel senso più profondo della religiosità buddista, non vi è nessuna santità, nessuna verità, nessuna giustizia, nessun male, nessuna bellezza".
– "La libertà ultima è data dalla passività assoluta".
– "Alla fine, lo spirito sarà come un albero o una pietra".
VENERARE LA MADRE NATURA
Secondo elemento di differenziazione: la natura. Per gli occidentali, la divinità è nel Creatore invece che nella natura, la quale è prodotta da lui. Invece, per i buddisti-scintoisti la divinità è nella stessa natura, dal momento che manca del tutto l'idea di un Creatore che abbia creato l'universo dal nulla. La natura è stata generata da sé stessa, non da una forza extranaturale. Il divino permea la natura. E permea quindi anche gli esseri umani.
La divinità della Madre Natura abbraccia ogni cosa: uomini, alberi, erbe, rocce, sorgenti e così via. Per i buddisti-scintoisti la realtà suprema non esiste al di fuori della natura. In altre parole, la divinità è intrinseca alla natura. [...]
Per i giapponesi, gli uomini e la natura sono una sola realtà inseparabile. Gli esseri umani sono parte della natura. Non c'è alcuna distinzione o barriera concettuale tra le due cose. Una sensazione di distanza tra le due è considerata insignificante o inesistente.
A questo proposito vorrei commentare una formula alla moda, la "simbiosi (o convivenza) con la natura", che è spesso considerata una formula pro-ecologista. A me questo concetto pare invece che includa una sfumatura di arroganza, di "umanocentrismo", poiché conferisce agli uomini una posizione paritaria con la natura. Secondo la religiosità tradizionale giapponese, gli uomini devono essere sudditi della natura. È la natura, non gli uomini, che deve essere protagonista. Gli uomini dovrebbero essere umili giocatori che non possono pretendere una condizione pari a quella della natura. Devono scrupolosamente ascoltare le voci della natura e umilmente accettare ciò che la natura comanda. Ecco perché la formula "convivenza con la natura" suona troppo umanocentrica per il pensiero tradizionale giapponese.
Su questo sfondo, in termini di amore o rispetto per la natura o gli animali, la cultura giapponese è profonda e ricca. Nella sua tradizione così come oggi, i giapponesi trattano la natura o gli animali in una maniera piena di rispetto. Quasi con uno spirito religioso.
Ad esempio, molti dirigenti di polizia in tutto il paese usano officiare una cerimonia per rendere grazie agli spiriti di cani poliziotto deceduti, o per placare le loro anime una o due volte all'anno nei santuari a loro dedicati.
Qualcosa di simile avviene nei tradizionali villaggi dei cacciatori di balene. Essi usavano officiare cerimonie religiose per rendere grazie agli animali o per consolare e placare gli spiriti delle vittime, le balene. Alcuni ancora lo fanno. E facendo così, fanno da bilancia spirituale tra gli uomini e gli animali loro vittime.
Allo stesso modo, in alcuni ospedali vi sono associazioni che celebrano annualmente dei rituali, chiamati "hari-kuyoo", per addolcire gli spiriti degli "aghi", specie quelli delle iniezioni.
Nelle campagne, la gente venera alberi maestosi, grandi rocce, cascate o sorgenti trasformandole in templi scintoisti con dei festoni bianchi detti "shimenawa". Inoltre, molte montagne, a cominciare dal Fuji, e numerosi laghi in Giappone sono ritenuti sacri.
La religiosità o mentalità dei giapponesi ora descritta – che alcuni studiosi chiamano panteista o animista – è chiaramente e vitalmente incorporata in molte opere culturali giapponesi, siano esse di letteratura, di poesia, di pittura, di incisioni o d'altro, indipendentemente dalla terminologia che si può usare.
Ad esempio, Higashiyama Kaii, un grande pittore di paesaggi, disse una volta in un'intervista televisiva che, con l'avanzare della maturità, era divenuto consapevole che la natura talvolta gli parla. Egli percepisce la sua voce e avverte i suoi sentimenti. E quindi, aggiunse, la sua opera di pittore di paesaggi è fatta non da lui, ma dalla natura stessa.
Sinilmente, Munakata Shiko, famoso incisore di legno, disse in tv che, quando la sua anima è in pace, egli compie la sua opera di incisione come ispirata dallo spirito del legno che sta incidendo. Quindi, aggiunse, non è lui ma lo spirito del legno che fa il vero lavoro. [...]
NON ASSOLUTIZZARE I VALORI
Terzo elemento di differenza: l'assolutizzazione dei valori. A motivo della descritta mentalità religiosa buddista-scintoista, i giapponesi non amano legarsi a "valori assolutizzati". Non credono che vi sia una giustizia assoluta o un male assoluto. Dicono piuttosto che ogni essere è, in sostanza, "relativo". Per loro ogni valore, intendo dire ogni valore positivo, è valido fino a quando si scontra con altri valori. Quando lo scontro tra valori avviene, essi credono che nessun valore particolare deve essere assolutizzato a spese di altri. Semplicemente perché, nel senso più profondo della loro filosofia, non c'è niente di assoluto nell'universo. Esiste solo l'effimero, l'impermanente.
Detto altrimenti, nell'applicare i valori, i giapponesi in genere preferiscono avere un approccio "soft". Ad esempio, alcuni anni fa, prima in Danimarca e poi in altri paesi d'Europa, ci fu uno scontro di ideologie [a proposito di vignette su Maometto] tra coloro che tenevano alla libertà di espressione e coloro che difendevano la dignità religiosa. Questa vicenda non ebbe in Giappone una grande risonanza pubblica, ma immagino che la maggioranza dei giapponesi, se informati degli elementi in gioco, avrebbero detto che assolutizzare la fede di una parte (quella favorevole alla libertà di espressione) a spese dei valori degli altri – cioè affrontare la questione in modo rigido invece che "soft" – era immotivato o imprudente. A questo proposito, durante quella vicenda io stesso ebbi la sensazione che la mentalità di alcuni disegnatori ed editori danesi sembrava essere troppo "monoteista", nel senso che assolutizzavano un particolare valore come qualcosa di trascendentale, di sacro e di inviolabile. In quel caso particolare, faccio notare che la Chiesa cattolica preferì un approccio "soft". Simile a quello preferito dai giapponesi.
Come ho detto, i giapponesi trattano la natura o gli animali in un modo pieno di rispetto. Nonostante ciò, la maggioranza dei giapponesi non si spinge fino ad applicare il concetto dei diritti umani agli animali, come fanno alcuni paladini di tali diritti. Di tanto in tanto esce la notizia che alcuni animalisti fondamentalisti hanno assaltato laboratori nei quali alcuni animali sono sacrificati per finalità tipo la ricerca di nuove medicine. Inoltre, si ricorda la notizia di un gruppo ambientalista radicale che assaltò una baleniera giapponese nell'Oceano Antartico. Essi non solo assalirono la nave a più riprese, ma anche lanciarono bottiglie di sostanze chimiche che ferirono alcuni membri dell'equipaggio della nave.
In questi casi, i protagonisti giustificarono la loro violenza o violazione dei valori altrui sostenendo che la loro finalità era sacra e quindi assoluta. Giustificarono i loro atti dicendo che essi dovevano combattere contro un male assoluto. In questo modo "assolutizzarono" la loro fede e fecero blocco con i loro sacri valori, senza pensare di violare i valori di altri. Nel suo messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 1 gennaio 2010, papa Benedetto XVI ha espresso preoccupazione per la visione eccessiva di alcuni ecologisti o animalisti che conferiscono lo stesso livello di dignità agli animali e agli uomini. Questo è un altro esempio di come la Chiesa cattolica pare essere riluttante riguardo a un approccio rigido o a una "assolutizzazione" di un valore particolare. Lo stesso fanno i giapponesi, con la loro tradizionale mentalità religiosa.
UN CRISTIANESIMO "STRANIERO"
A questo punto si può capire perché, a motivo della mentalità religiosa giapponese che si differenzia dal cristianesimo nei sensi sopra detti, anche oggi molti giapponesi trovano il cristianesimo in qualche modo straniero (od occidentale).
E anche si può capire perché la quota dei cristiani in Giappone resta sempre al di sotto dell'1 per cento e quella dei cattolici al di sotto dello 0,5 per cento.
Ciò non significa che i giapponesi rifiutino di accettare il cristianesimo in tutto. Molti di essi provano simpatia per questa fede e i suoi insegnamenti, non però al 100 per cento, ma al 70-80 per cento. Il restante 20-30 per cento è riconducibile alla differenza di fondo, fondamentalmente culturale e filosofica, tra le due realtà.
A motivo di questa differenza, il cristianesimo appare ai giapponesi come "appartenente ad altri", non a loro stessi.
UN IBRIDO TRA MODERNITÀ E TRADIZIONE
Osservo ora la religiosità giapponese attraverso lo spettro della premodernità, della modernità e della postmodernità.
Nel passato, sino alla fine del XIX secolo, si riteneva in ogni angolo del mondo che la modernizzazione delle nazioni potesse essere ottenuta solo in società con religiosità monoteista, in particolare col cristianesimo. Si pensava che la modernizzazione e il monoteismo fossero legati assieme, direttamente o indirettamente. Si era convinti che le società con religiosità politeiste, animiste o panteiste, come il buddismo o lo scintoismo, non fossero modernizzabili, a differenza dei paesi occidentali.
L'impressionante modernizzazione del Giappone ha smentito questa credenza. Oggi molte nazioni non cristiane hanno raggiunto livelli evidenti di modernità, sull'esempio del precedente giapponese. Di conseguenza, il loro progresso ha ulteriormente sciolto il legame concettuale tra modernizzazione e monoteismo. È stato reso chiaro che l'approccio politeista, animista o panteista non rappresenta un regresso, se messo a confronto con l'approccio monoteista.
In Giappone in particolare, la modernità scientifica, tecnologica e razionale non solo coesiste con una mentalità panteista e animista premoderna, ma è rinvigorita e rafforzata da tale mentalità.
Insisto. Molti prodotti giapponesi di alta tecnologia sono pensati, progettati, prodotti e messi sul mercato ad opera di giapponesi che hanno in larga misura la mentalità e la religiosità che ho descritto. Sottolineo che il livello tecnologico o la qualità del prodotto sono migliorati dalla combinazione di due distinte mentalità: la scientifica e l'animista.
Ad esempio, molte società giapponesi spesso invitano preti scintoisti a officiare cerimonie rituali quando installano nuovi macchinari nelle loro fabbriche, per invocare l'efficienza del loro funzionamento. Allo stesso modo, essi officiano anche dei rituali per placare o ringraziare lo spirito dei vecchi macchinari prima di smantellarli. E ancora, i costruttori di case celebrano rituali scintoisti per pregare per la riuscita dei futuri lavori, con una cerimonia sul terreno di costruzione. Quasi tutte queste cerimonie sono celebrate da preti scintoisti, solo raramente da preti buddisti. Perché? Perché la maggior parte dei giapponesi preferiscono che siano dei preti scintoisti a occuparsene, convinti che gli spiriti della casa o del luogo, della terra o degli edifici debbano essere presi in cura dallo scintoismo.
Insomma, nel Giappone di oggi la mentalità panteista e animista premoderna è strettamente legata alla modernità dell'alta tecnologia. E dunque si può dire che la civiltà giapponese contemporanea è un ibrido di premodernità e di modernità. Quindi assolutamente postmoderna!
ECONOMIA BUDDISTA, PER UN TERRENO COMUNE
Ho fin qui messo a fuoco la dimensione filosofica, nella quale la distinzione tra l'oriente e l'occidente è ragguardevole. Io credo, tuttavia, che al livello pratico c'è un terreno comune tra le due parti.
Un'ottantina di anni fa il Mahatma Gandhi, il padre fondatore dell'India moderna, citò il "commercio senza moralità" come uno dei "sette peccati sociali". Gli altri sei peccati che egli elencò erano la "politica senza principi", la "ricchezza senza lavoro", il "divertimento senza coscienza", la "conoscenza senza carattere", la "scienza senza moralità" e il "culto senza sacrificio" (sembra di ascoltare un papa).
Anche il papa e la Santa Sede in numerosi messaggi hanno ripetutamente condannato la mancanza di considerazioni morali da parte di molti leader del mondo degli affari.
In Giappone simili richiami si odono da tempo, in particolare tra economisti di orientamento buddista. In effetti, negli ultimi decenni alcuni economisti hanno cominciato ad amalgamare la filosofia buddista con le analisi economiche, fondando una nuova disciplina chiamata "economia buddista", di cui ora dirò gli elementi di base.
Gli economisti buddisti sono molto critici del neoliberismo che ha dominato le politiche economiche delle maggiori potenze mondiali negli ultimi decenni, portando a un aggravamento delle disparità economiche, a una mancanza di equità, a un predominio assoluto del profitto e a un deterioramento dell'ambiente a livello globale.
Per quanto vi siano delle diverse visioni tra gli economisti buddisti, essi condividono i seguenti otto principi, come loro minimo comune denominatore:
– rispetto della vita;
– non violenza;
– chisoku (la capacità di sapersi accontentare);
– kyousei (la capacità di convivere assieme);
– semplicità, frugalità;
– altruismo;
– sostenibilità;
– rispetto delle diversità.
Ad esempio, Ernest Friedrich Schumacher, un economista tedesco che è tra i fondatori dell'economia buddista, autore del celebre libro "Small Is Beautiful: Economics as if People Mattered", ha particolarmente insistito su "chisoku" e "semplicità".
Allo stesso modo, Wangari Maathai, un'ambientalista kenyana che ha vinto il Nobel per la Pace nel 2004, crede in una filosofia affine all'economia buddista. È famosa come sostenitrice della campagna "mottainai", cioè della campagna internazionale dei tre "ri": riusa, riduci e ricicla. Alcuni anni fa, mentre era in Giappone, si imbatté nella parola giapponese "mottainai" che in sostanza significa "mai gettare le cose minime perché anch'esse hanno un valore intrinseco". Così ebbe l'ispirazione di lanciare la sua campagna, cioè si convinse che lo "Spirito di Mottainai" che anima lo spirito dei tre "ri" doveva essere diffuso globalmente. Ella sostiene che per assicurare la protezione e la conservazione dell'ambiente globale, lo "Spirito di Mottainai" è indispensabile. Questo spirito che ella invoca è in evidente sintonia con i principi base dell'economia buddista.
Gli economisti buddisti reclamano politiche che portino tra l'altro a:
– distacco da un approccio che privilegi solo la crescita;
– distacco da una produzione dipendente dal petrolio;
– instaurazione di un nuovo sistema internazionale che elimini la violenza.
Nell'attuale instabilità e incertezza dell'economia mondiale, che ha rafforzato lo scetticismo nei principi del libero mercato, l'economia buddista guadagna un'attenzione crescente. Sarebbe interessante avviare un dialogo in questo campo tra economisti di orientamento sia buddista sia cattolico.
*
Per concludere con una battuta, consentitemi di chiamare il buddismo-scintoismo "sushi spirituale" e il cristianesimo "spaghetti spirituali". Quello che ho cercato di dire è che il "sushi spirituale" e gli "spaghetti spirituali" hanno sapori diversi. Ma ho anche aggiunto che entrambi sono "squisiti". Sia l'uno che gli altri arricchiscono profondamente le vite degli uomini. Senza uno di essi, le culture umane sarebbero terribilmente noiose e aride.
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Robert STEUCKERS :
Le fondamentalisme islamiste en Afghanistan et au Pakistan
Extrait d’une conférence tenue à Genève au « Cercle Proudhon » en avril 2009 et à la tribune de « Terre & Peuple » (Flandre-Hainaut-Artois)
Quand le pouvoir royal afghan de Zaher Shah a cédé devant les modernisateurs précommunistes puis communistes, qui firent appel à l’intervention civile puis militaire de l’URSS, l’Afghanistan perdait sa neutralité, son statut d’Etat tampon entre la masse territoriale soviétique du temps de la Guerre Froide, héritière volens nolens de la masse territoriale de l’empire tsariste. En perdant cette qualité d’Etat tampon, de zone neutralisée, l’Afghanistan abandonnait le destin que lui avaient imposé les accords de Yalta et les dispositions anglo-russes antérieures de 1842 et de 1907, suite aux guerres anglo-afghanes et aux accords anglo-russes sur le partage en zones d’influence du territoire persan. La Russie, en vertu de ces accords de 1907, ne pouvait pas dépasser la ligne Téhéran-Kaboul. L’URSS, en franchissant cette ligne et en occupant le réseau routier afghan au Sud de Kaboul, enfreignait ces règles et entamait ainsi une guerre larvée contre les Etats-Unis et la Grande-Bretagne, très soucieux de maintenir le statu quo ante.
Pour répondre au défi que représentait l’Armée Rouge au sud de Kaboul, les stratégistes américains et britanniques ont mis en œuvre la tactique de l’ « insurgency », préconisée par Zbigniew Brzezinski, théoricien d’un plan plus vaste : les puissances anglo-saxonnes, et plus particulièrement la thalassocratie américaine, devaient non seulement chasser les Soviétiques d’Afghanistan, les éloigner de l’Océan Indien, mais aussi leur contester la maîtrise de l’Asie centrale, dont le territoire avait servi de tremplin à toutes les tentatives russes d’avancer en direction de l’Inde et de l’Océan Indien. Pour mettre en œuvre l’insurrection afghane destinée à épuiser l’Armée Rouge dans le guêpier que deviendra le massif de l’Hindou Kouch, les services anglo-saxons créeront de toutes pièces le mouvement des « moudjahidines », recrutés dans les tribus afghanes mais aussi dans tous les pays musulmans et dans la diaspora arabe (10.000 volontaires). Ces « moudjahidines » seront formés par le MI6 britannique et commandés par des « Seigneurs de la Guerre », des « Warlords », comme Dostan ou Massoud. Le gros des troupes proviendra de l’ethnie pachtoune, ethnie guerrière de langue indo-européenne. Ces combattants pachtounes et ces « moudjahidines » venus de tous les coins du monde islamique recevront des armes américaines et britanniques modernes, dont des missiles « Blowpipes » et « Stingers » (ces derniers étant à tête chercheuse). Jusqu’en 1992, le « Warlord » Hekmatyar recevra l’appui des Saoudiens et des Américains et ses troupes seront flanquées des pré-talibans, dans les rangs desquels Ben Laden servira d’intermédiaire saoudien. Il est le disciple d’un frère musulman palestinien formé en Egypte et replié sur Peshawar au Pakistan, dans ce que l’on appelle aujourd’hui la zone tribale pachtoune le long de la frontière afghane. Les pré-talibans, les réseaux saoudiens mâtinés de frères musulmans installés à Peshawar obtiennent rapidement le soutien des services secrets pakistanais, le fameux ISI.
Les « moudjahiddines » d’Hekmatyar ont donc précédé sur la scène afghane les talibans de Ben Laden. Celui-ci n’est pas le créateur de cette milice de croyants radicaux : la paternité de ce mouvement militant et armé revient au général pakistanais Naseerullah Babar. Le raisonnement de ce militaire et stratégiste pakistanais était le suivant : le Pakistan procède, dès sa création lors de la partition de l’Inde en 1947, de la tradition islamique radicale dite « déobandiste », issue de musulmans expulsés d’Inde. Le déobandisme n’a jamais cessé, au cours de l’histoire pakistanaise, d’exciter les esprits ; pour le Général Babar, il convient de recycler les têtes brûlées du déobandisme dans la Djihad, tout à la fois en Inde, et plus particulièrement au Cachemire, et en Afghanistan, puisque les Saoudiens et les Américains demandent du personnel pour une insurrection locale contre les Soviétiques ou les pouvoirs prosoviétiques en place après le départ de l’Armée Rouge. Cette disposition va dans le sens des intérêts géopolitiques du Pakistan : en effet, depuis la partition de 1947, Islamabad est préoccupé par l’absence de réelle profondeur stratégique du Pakistan face à son ennemi héréditaire indien. Si le Général Babar, par la stratégie qu’il propose aux Américains, peut ajouter la zone de peuplement pachtoune de l’Afghanistan au territoire pakistanais, il obtient ipso facto cette profondeur stratégique qui manque à son pays. Telles sont les raisons nationales qui ont poussé les services pakistanais à soutenir le projet d’insurgency, voulu par Brzezinski, et à créer une force islamiste, financée par des capitaux saoudiens, sur le territoire pakistanais. L’objectif était certes de diffuser un islam fondamentaliste mais consistait surtout à élargir l’espace stratégique pakistanais à la zone pachtoune de l’Afghanistan.
Dans le cadre de la guerre pour les hydrocarbures et leur acheminement, qui constitue la véritable raison de toutes les conflictualités entre les Balkans et l’Indus, les services du Général Babar et les talibans de Ben Laden sont les alliés des pétroliers américains d’UNOCAL contre leurs concurrents argentins de BRIDAS. Cette alliance durera jusqu’en 1998. A partir de ce moment-là, les talibans cessent brusquement, dans la propagande occidentale, d’être de « courageux combattants de la liberté », des « Freedom Fighters », et deviennent en un tournemain des « obscurantistes ». Des voix interpellent même brutalement l’allié officiel pakistanais : le Pakistan devient le « craddle of terror », le « berceau de la terreur ».
Mais était-ce une nouveauté ? Non. Naseerullah Babar était depuis longtemps déjà un obsédé de l’Afghanistan. Son rêve était de fusionner les deux pays pour avoir une profondeur géographique suffisante pour défier l’Inde. Effectivement, l’histoire nous enseigne que l’Inde est à la merci d’un ennemi extérieur qui tient les territoires du Pakistan et de l’Afghanistan actuels. C’était vrai à la veille des invasions indo-européennes de l’Inde à la protohistoire ; c’était vrai au temps de Mahmoud de Ghazni ; c’était vrai à la veille des invasions mogholes. En 1973, Mohammed Daoud renverse Zaher Shah et instaure un régime moderniste, porté par une gauche anti-islamique et « pan-pachtoune ». Daoud et les siens rêvent d’un grand Pachtounistan, réunissant les zones tribales pachtounes de l’Afghanistan et du Pakistan. L’intégrité territoriale pakistanaise est dès lors en danger et l’idéal d’une plus grande profondeur stratégique, face à l’Inde, battu en brèche. Un certain Rabbani, accompagné de deux étudiants, Hekmatyar et Massoud, se rend au Pakistan et obtient l’accord d’Ali Bhutto pour tenir, contre le nouveau pouvoir progressiste de Daoud, la vallée du Panshir. Cette menace intimide Daoud qui évitera dorénavant d’évoquer trop bruyamment l’idéal d’un grand « Pachtounistan ». C’est alors que Naseerullah Babar présente Hekmatyar et Massoud à l’ambassadeur américain en poste au Pakistan. Nous sommes en 1979 : l’alliance entre les « moudjahiddines » et les services pakistanais et américains vient de naître.
Mais l’idylle est interrompue par les vicissitudes violentes de la vie politique pakistanaise. Le Général Zia ul-Haq prend le pouvoir à Islamabad. Ali Bhutto est condamné à mort et pendu. Naseerullah Babar est jeté en prison. Mais Zia ul-Haq accepte que les Américains protègent et arment le poulain de Babar, Hekmatyar, qui devient le principal représentant des « moudjahiddines ». Cette situation dure jusqu’en 1988. Cette année-là, les troupes soviétiques quittent l’Afghanistan et restituent ipso facto la situation qui existait avant leur entrée dans le pays. L’URSS ne franchit plus la ligne Téhéran-Kaboul. Elle n’est plus en contradiction avec les accords de Yalta et les modi vivendi anglo-russes de 1842 et 1907. Zia ul-Haq est tué, en même temps que l’ambassadeur américain, dans un attentat. Plus de témoins ! Et on met alors en selle la propre fille d’Ali Bhutto, Benazir Bhutto. En coulisses ressuscite le plan pakistanais d’absorber l’Afghanistan, de se doter ainsi d’une profondeur stratégique face à l’Inde et d’avoir un accès plus direct aux richesses d’Asie centrale. Ce plan, issu des cogitations de Babar, prévoit la construction d’un oléoduc d’UNOCAL. Pour le réaliser, il faut une provocation. L’ISI va la créer de toutes pièces. Une colonne de camions se dirige vers les Turkménistan mais une milice la bloque à hauteur de Kandahar. Aussitôt, téléguidés par l’ISI, le mollah Omar et les talibans prennent cette localité clef du territoire afghan. Nous sommes à un moment de l’histoire tragique de l’Afghanistan où convergent les intérêts d’UNOCAL (donc des Etats-Unis), du Pakistan et des talibans. Une fois Kandahar pris, les talibans marchent sur Kaboul, pour éliminer un pouvoir jugé trop « moderniste » et trop favorable à la Russie. Mais, coup de théâtre, Benazir Bhutto parie sur BRIDAS et non plus sur UNOCAL : on ne l’assassine pas, on ne la pend pas à un gibet comme son père mais on la fait tomber pour « corruption », avant de la remettre en selle, pour démontrer qu’il existe une alternance de pouvoir, même au Pakistan, et de la faire assassiner en pleine rue et en pleine campagne électorale. A la suite de l’éviction violente de Benazir Bhutto, Nanaz Sharif prend le pouvoir, renoue avec UNOCAL. Son successeur Musharraf sera sommé d’arrêter tout soutien aux talibans. Depuis ces événements, le Pakistan est une poudrière instable qui fragilise dangereusement les positions des Etats-Unis et de l’OTAN en Afghanistan.
Ces vicissitudes de l’histoire afghane et pakistanaise démontrent que le fondamentalisme islamiste et son expression la plus virulente, les talibans, sont une pure création des services, voire un golem qui leur échappe et prend parfois des formes inattendues, et hostiles aux Etats-Unis, dans les pays musulmans et dans les diasporas musulmanes d’Europe et d’ailleurs.
Robert STEUCKERS.
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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2001
L'idée touranienne dans la stratégie américaine
Le régime turc est autorisé à se maintenir en lisière de l'Europe et dans l'OTAN, malgré ses dimensions "non démocratiques", parce ce pays reçoit en priorité l'appui des Etats-Unis, qui savent que le militarisme turc pourra leur être très utile si le "Grand Jeu" reprend au beau milieu de l'espace eurasiatique. Cette coïncidence d'intérêts entre militaires turcs et stratégie générale des Etats-Unis incite les uns et les autres à redonner vigueur au "panturquisme", qui porte quelques fois un autre nom : celui de "pantouranisme" ou de "touranisme". C'est le rêve et le projet d'un "empire grand-turc", même s'il doit rester informel, qui s'étendrait de l'Adriatique (en Bosnie) à la Chine (en englobant le Xinjian ou "Turkestan oriental" ou "Turkestan chinois") (1). Cet empire grand-turc rêvé prendrait le relais de l'Empire ottoman défunt. Le projet touranien a été formulé jadis par le dernier ministre de la guerre de cet empire ottoman, Enver Pacha, tombé au combat face aux troupes soviétiques en commandant des indépendantistes turcophones d'Asie centrale. La "Touranie" centre asiatique n'a jamais fait partie de l'Empire ottoman, sauf quelques bribes territoriales dans les marches; néanmoins, il y a toujours eu des liens entre les khanats des peuples turcs d'Asie centrale et l'Empire ottoman, qui y recrutait des hommes pour ses armées. Si la lignée d'Osman s'était éteinte, celle des khans de Crimée, de la maison de Giraj, dont l'ancêtre était le Grand Khan des Mongols, Gengis Khan (2), serait alors devenue, comme prévu, la dynastie dirigeante de l'Empire Ottoman (3).
Face au projet touranien, Atatürk adoptait plutôt une position de rejet, mais c'était très vraisemblablement par tactique (4), car il devait justifier sa politique face à l'Occident et condamner, pour cette raison, le génocide perpétré par les gouvernements jeunes-turques contre les Arméniens. Ensuite, dès que le régime soviétique s'est consolidé, il n'aurait pas été réaliste de persister sur des positions pantouraniennes. Pourtant, en 1942, quand les troupes allemandes pénètrent profondément à l'intérieur du territoire soviétique, le panturquisme, longtemps refoulé, revient très vite à la surface. Mais, vu la constellation internationale, le gouvernement turc a dû officiellement juger certains activistes pantouraniens, comme le fameux Alparslan Türkesch, pour "activités racistes"; en effet, les Britanniques (et non pas l'Allemagne nationale-socialiste) avaient, selon leurs bonnes habitudes et sans circonlocutions inutiles, menacé d'occuper la Turquie et Staline, lui, était passé à l'acte en déportant en Sibérie les Tatars de Crimée, alliés potentiels d'une coalition germano-turque.
Perspective touranienne
et "grande turcophonie"
Après l'effondrement de l'URSS, la perspective touranienne (5) est bien trop séduisante pour les Etats-Unis, héritiers du système de domination britannique, pour qu'ils la négligent. Mises à part les républiques caucasiennes, la majorité écrasante de la population des Etats indépendants dans la partie méridionale de l'ex-Union Soviétique sont de souche turque, sauf les Tadjiks qui sont de souche persane. Qui plus est, de nombreux peuples au sein même de la Fédération de Russie appartiennent à cette "grande turcophonie": leur taux de natalité est très élevé, comme par exemple chez les Tatars, qui ont obtenu le statut d'une république quasi indépendante, ou chez les Tchétchènes, qui combattent pour obtenir un statut équivalent. Les "pantouraniens" de Turquie ne sont pas encore très conscients du fait que les Yakoutes de Sibérie nord-orientale, face à l'Etat américain d'Alaska, relèvent, eux aussi, au sens large, de la turcophonie.
Si l'on parvient à unir ces peuples qui, tous ensemble, comptent quelque 120 millions de ressortissants, ou, si on parvient à les orienter vers la Turquie et son puissant allié, les Etats-Unis, à long terme, les dimensions de la Russie pourraient bien redevenir celles, fort réduites, qu'elle avait au temps d'Ivan le Terrible (6). En jouant la carte azérie (l'Azerbaïdjan), ethnie qui fournit la majorité du cadre militaire de l'Iran, on pourrait soit opérer une partition de l'Iran soit imposer à ce pays un régime de type kémaliste, indirectement contrôlé par les Turcs. Certains pantouraniens turcs, à l'imagination débordante, pourraient même rêver d'un nouvel Empire Moghol, entité démantelée en son temps par les Britanniques et qui sanctionnait la domination turque sur l'Inde et dont l'héritier actuel est le Pakistan.
Le "Parti du Mouvement National" (MHP), issu des "Loups Gris" de Türkesch, se réclame très nettement du touranisme; lors des dernières élections pour le parlement turc, ce parti a obtenu 18,1%, sous la houlette de son président, Devlet Bahceli et est devenu ainsi le deuxième parti du pays. Il participe au gouvernement actuel du pays, dans une coalition avec le social-démocrate Ecevit, permettant ainsi à certaines idées panturques ou à des sentiments de même acabit, d'exercer une influence évidente dans la société turque. C'est comme si l'Allemagne était gouvernée par une coalition SPD/NPD, avec Schroeder pour chancelier et Horst Mahler comme vice-chancelier et ministre des affaires extérieures! […].
Une Asie centrale "kémalisée"?
Dans un tel contexte, le kémalisme comme régime a toutes ses chances dans les républiques touraniennes de l'ex-Union Soviétique. Les post-communistes, qui gouvernent ces Etats, gardent leur distance vis-à-vis de l'Islam militant et veulent le tenir en échec sur les plans politique et institutionnel. Mais l'arsenal du pouvoir mis en œuvre là-bas peut rapidement basculer, le cas échéant, dans une démocratie truquée. Jusqu'à présent, ces Etats et leurs régimes se sont orientés sur les concepts du soviétisme libéralisé et, mis à part l'Azerbaïdjan, choisissent encore de s'appuyer plutôt sur la Russie que sur la Turquie (8), malgré l'engagement à grande échelle de Washington et d'Ankara dans les sociétés pétrolières et dans la politique linguistique (introduction d'un alphabet latin modifié (7), adaptation des langues turques au turc de Turquie. Comme l'Occident exige la liberté d'opinion et le pluralisme, ces éléments de "bonne gouvernance" sont introduits graduellement par les gouvernements de ces pays, ce qui constitue une démocratisation sous contrôle des services secrets selon la notion de perestroïka héritée de l'Union Soviétique (9).
Cela revient à construire les "villages à la Potemkine" de la démocratie (10), dont le mode de fonctionnement concret est difficile à comprendre de l'extérieur. Tant que les différents partis et organes de presse demeurent sous le contrôle des services secrets, on n'aura pas besoin d'interdire des formations politiques en Asie centrale (contrairement à ce qui se passe en Allemagne fédérale!). Mieux: on ira jusqu'à soutenir le "pluralisme" par des subsides en provenance des services secrets, car cela facilitera l'exercice du pouvoir par les régimes post-communistes établis, selon le bon vieux principe de "Divide et impera", mais l'Occident aura l'impression que la démocratie est en marche dans la région.
Avec Peter Scholl-Latour, on peut se poser la question: «Pendant combien de temps l'Occident —principalement le Congrès américain et le Conseil de l'Europe— va-t-il cultiver le caprice d'imposer un parlementarisme, qui soit le calque parfait de Westminster, dans cette région perdue du monde, où le despotisme est et reste la règle cardinale de tout pouvoir? ». Ce jeu factice de pseudo-partis et de pseudo-majorités ne peut conduire qu'à discréditer un système, qui ne s'est avéré viable qu'en Occident et qui y est incontournable. Le pluralisme politique et la liberté d'opinion ne sont pas des "valeurs" qui se développeront de manière optimale en Asie centrale. Même le Président Askar Akaïev du Kirghizistan, considéré en Europe comme étant "relativement libéral", a fait prolonger et bétonner arbitrairement son mandat par le biais d'un référendum impératif. Nous avons donc affaire à de purs rituels pro-occidentaux, à un libéralisme d'illusionniste, pure poudre aux yeux, et les missionnaires de cette belle sotériologie éclairée, venus d'Occident, finiront un jour ou l'autre par apparaître pour ce qu'ils sont: des maquignons et des hypocrites (11).
Va-t-on vers une
islamisation de l'extrémisme libéral?
Comme la pseudo-démocratie à vernis occidental court tout droit vers le discrédit et qu'elle correspond aux intérêts américains, tout en ménageant ceux de la Russie (du moins dans l'immédiat…), c'est un tiers qui se renforcera, celui dont on veut couper l'herbe sous les pieds : l'islamisme. Comme le kémalisme connaît aussi l'échec au niveau des partis politiques, parce que la laïcisation forcée qu'il a prônée n'a pas fonctionné, la perspective touranienne conduit ipso facto à réclamer une ré-islamisation de la Turquie, mais une ré-islamisation compatible avec la doctrine kémaliste de l'occidentalisation (12); de cette façon, le kémalisme pourra, à moyen terme, prendre en charge les régimes post-communistes de la "Touranie".
La synthèse turco-islamique ("Türk-islam sentezi") est un nouvel élément doctrinal, sur lequel travaillent depuis longtemps déjà les idéologues du panturquisme (13), avec de bonnes chances de connaître le succès : si l'on comptabilise les voix du DSP et du CHP, on obtient à peu de choses près le nombre des adeptes de l'alévisme; ceux-ci se veulent les représentants d'un Islam turc, posé comme distinct du sunnisme, considéré comme "arabe", et du chiisme, considéré comme "persan" (14). Dans cette constellation politique et religieuse, il faut ajouter aux adeptes de l'alévisme, l'extrême-droite turque et une partie des islamistes (15). Ces deux composantes du paysage politique turc étaient prêtes à adopter une telle synthèse, celle d'un Islam turc, voir à avaliser sans problème une islamisation du kémalisme, qui aurait pu, en cas de démocratisation, conduire à une indigénisation de facto de l'extrémisme libéral.
Universalisme islamique
et Etats nationaux
En s'efforçant de créer une religion turque basée sur la maxime "2500 ans de turcicité, 1000 ans d'islam et (seulement) 150 ans d'occidentalisation", un dilemme se révèle : celui d'une démocratisation dans le cadre d'un islam qui reste en dernière instance théocratique. L'établissement de la démocratie dans tout contexte islamique s'avère fort difficile, parce que la conception islamique de l'Etat implique une négation complète de l'Etat national (16). Or cette instance, qu'on le veuille ou non, a été la grande prémisse et une des conditions premières dans l'éclosion de la démocratie occidentale (en dépit de ce que peuvent penser les idéologues allemands au service de la police politique, qui marinent dans les contradictions de leur esprit para-théocratique, glosant à l'infini sur les "valeurs" de la démocratie occidentale). Dans l'optique de l'islam stricto sensu, en principe, tous les Etats existants en terre d'islam sont illégitimes et peuvent à la rigueur être considérés comme des instances purement provisoires. Ils n'acquièrent légitimité au regard des puristes que s'ils se désignent eux-mêmes comme bases de départ du futur Etat islamique qui, en théorie, ne peut être qu'unique.
Dans le christianisme, le conflit entre la revendication universaliste de la religion et les exigences particularistes de la politique "mondaine" (immanente) se résout par la séparation de l'Eglise et de l'Etat. Dans le christianisme oriental (orthodoxie), la séparation de l'Eglise et de l'Etat n'a pas été poussée aussi loin, ce qui est une caractéristique découlant tout droit de la forme de domination propre au système ottoman, que l'on appelle le "système des millets", où les chefs d'Eglise, notamment le Patriarche de Constantinople, sont considérés comme des "chefs de peuple". De ce fait, le principe de l'"église nationale" constitue la solution dans cette aire byzantine et orthodoxe. Dans l'aire islamique, nous retrouvons cette logique, qui, en Occident, a conduit à la démocratie, telle qu'on la connaît aujourd'hui. Cette démocratie a pu s'organiser dans un espace particulier et circonscrit, via l'instance "Etat national". Donc dans l'aire islamique, réaliser la démocratie passe nécessairement par le postulat de créer une religion nationale. On retrouve une logique similaire dans le judaïsme, lui aussi apparenté à l'Islam, où le sionisme a été le moteur d'une démocratisation nationaliste, qui a finalement conduit à la création de l'Etat d'Israël. Cependant, dans l'aire islamique, une religion nationale de ce type, qui pourrait concerner tous les Etats musulmans, ne pourrait pas se contenter d'être une simple religion civile, comme en Occident et notamment en RFA, où la religion civile repose sur un reniement moralisateur du passé, organisé par l'Etat lui-même; elle devrait avoir tous les éléments d'une véritable religion (17), pouvant se déclarer "islamique", même si d'autres refusent de la considérer comme telle.
L'alévisme turc,
religiosité de type gnostique
Dans les doctrines de l'alévisme turc (18), nous avons affaire à une religion de type gnostique, car son noyau évoque la théorie des émanations, selon laquelle tous les étants sont issus de Dieu, vers lequels ils vont ensuite s'efforcer de retourner. Dieu a créé les hommes comme êtres corporels (physiques) (19), afin de se reconnaître lui-même dans sa création. Après le "retour" dans l'immense cycle ontologique, toutes les formes, produites par l'émanation, retournent à Dieu et se dissolvent en lui (20), ce qui lui permet de gagner en quelque sorte une plus-value d'auto-connaissance. La capacité qu'a l'homme de reconnaître Dieu atteste de la nature divine de l'homme. Par extrapolation, on aboutit quelques fois à une divinisation de l'homme, devenant de la sorte un être parfait (où l'homme devient un dieu sur la Terre), et, dans la logique de l'alévisme turc, le Turc devient ainsi le plus parfait des êtres parfaits. L'homme a parfaitement la liberté d'être athée, car l'athéisme constitue une possibilité de connaître Dieu (21), car la connaissance de Dieu, dans cette optique, équivaut à une connaissance de soi-même.
Par conséquent, les lois islamiques, y compris les règles de la prière, ne sont pas reconnues et, à leur place, on installe les anciennes règles sociales pré-islamiques des peuples turcs, ce qui revient à mettre sur pied une religion ethnique turque, compénétrée d'éléments chamaniques venus d'Asie centrale. Dans une telle optique, Mohammed et Ali, qui, au titre d'émanation est pied sur pied d'égalité avec lui, sont perçus comme des êtres angéliques préexistants, devenus hommes. Le Coran n'a plus qu'une importance de moindre rang, car, disent les gnostiques turcs, par sa chute dans une forme somatique d'existence, le Prophète a subi une perte de savoir, le ramenant au niveau de la simple connaissance humaine. Tous les éléments d'arabité en viennent à être rejetés, pour être remplacés par des éléments turcs.
Ordre des Janissaires, alévisme
et indigénisme turc
Si l'on ôte de l'idéologie d'Atatürk tout le vernis libéral (extrême libéral), on perçoit alors clairement que le fondateur de la Turquie moderne —même s'il n'en était pas entièrement conscient lui-même— était effectivement un Alévite, donc en quelque sorte un indigéniste turc (on le voit dans ses réformes : égalité de l'homme et de la femme, interdiction du voile, autorisation de consommer de l'alcool, suppression de l'alphabet et de la langue arabes, etc.). Ce programme ne peut évidemment pas se transposer sans heurts dans d'autres Etats islamiques. En Turquie, ces réformes ont pu s'appliquer plus aisément dans la majorité sunnite du pays sous le prétexte qu'elles étaient une occidentalisation et non pas une transposition politique des critères propres de l'alévisme. La suppression du califat sunnite par Atatürk en 1924 peut s'interpréter comme une vengeance pour la liquidation de l'ordre des janissaires par l'Etat ottoman en 1826. Les janissaires constituaient la principale troupe d'élite de l'Empire ottoman; sur le plan religieux, elle était inspirée par l'Ordre alévite des Bektachis , lui aussi interdit en 1827 (22). Les intellectuels de l'Armée et les nationalistes d'inspiration alévite reprochent à cette interdiction d'avoir empêché la turquisation des Albanais, très influencés par le bektachisme, à l'ère du réveil des nationalités. Les nationalistes alévites constituent l'épine dorsale du mouvement des Jeunes Turcs qui arrivent au pouvoir en 1908. Ces événements et cette importante cardinale du bektachisme alévite explique pourquoi la Turquie actuelle et les Etats-Unis (23) accordent tant d'importance à l'Albanie dans les Balkans, au point de les soutenir contre les Européens.
L'idéal de "Touran" vise
à poursuivre la marche de l'histoire
La religion quasi étatique dérivée directement des doctrines alévites pourrait sous-tendre un processus de démocratisation dans l'aire culturelle musulmane (24), mais elle ne serait acceptée ni par les Sunnites ni par les Chiites. Ceux-ci n'hésiteraient pas une seconde à déclarer la "guerre sainte" aux Alévites. On peut penser que les prémisses de cet Islam turco-alévite pourrait, par un effet de miroir, se retrouver dans le contexte iranien, où les Perses se réfèreraient à leur culture pré-islamique (ou forgeraient à leur tour un islam qui tiendrait compte de cette culture). Une telle démarche, en Iran, prendrait pour base l'épopée nationale du Shahnameh (le "Livre des Rois"). Aujourd'hui, on observe un certain retour à cette iranisme, par nature non islamique, ce qui s'explique sans doute par une certaine déception face aux résultats de la révolution islamique. Mais le nouvel iranisme diffus d'aujourd'hui se plait à souligner toutes les différences opposant les Perses aux Turcs, alliés des Etats-Unis. Enfin, dans l'iranisme actuel, on perçoit en filigrane une trace du principe fondamental du zoroastrisme, c'est-à-dire la partition du monde en un règne du Bien et un règne du Mal, un règne de la "Lumière" et un règne de l'"Obscurité", compénétrant entièrement l'épopée nationale des Perses. Cela se répercute dans l'opposition qui y est décrite entre l'Empire d'"Iran" et l'Empire du "Touran". « L'Iran étant la patrie hautement civilisée des Aryens, tandis que le Touran obscur est le lieu où se rassemblent tous les peuples barbares de la steppe, venus des profondeurs de l'Asie centrale, pour assiéger la race des seigneurs de souche indo-européenne » (25).
La fin de l'histoire occidentale
Peut importe ce que les faits établiront concrètement dans le futur : dés aujourd'hui, on peut dire que la perspective touranienne permet d'aller dans le sens des intérêts américains au cas où le "Grand Jeu" se réactiverait et aurait à nouveau pour enjeu la domination du continent eurasiatique, prochain "champ de bataille du futur" (26). Parce qu'ils bénéficient du soutien des Etats-Unis, les Etats riverains et touraniens de la Mer Caspienne équipent leurs flottes de guerre pour affirmer leurs droits de souveraineté sur cette mer intérieure face à la Russie et à l'Iran. Le tracé de ces frontières maritimes est important pour déterminer dans l'avenir proche à qui appartiendront les immenses réserves de pétrole et de gaz naturel. Le risque de guerre qui en découle montre l'immoralité de la politique d'occidentalisation, dont parle Huntington (27). Celui-ci nous évoque les moyens qui devront irrémédiablement se mettre en œuvre pour concrétiser une telle politique : ces moyens montrent que la conséquence nécessaire de l'universalisme est l'impérialisme, mais que, dans le contexte actuel qui nous préoccupe, l'Occident n'a plus la volonté nécessaire de l'imposer par lui-même (mis à part le fait que cet impérialisme contredirait les "principes" occidentaux…). L'universalisme occidental, qui cherche à s'imposer par la contrainte, ne peut déboucher que sur le désordre, car les moyens mis en œuvre libèreraient des forces religieuses, philosophiques et démographiques qu'il est incapable de contrôler et de comprendre. Cette libération de forces pourra conduire à tout, sauf à la "fin de l'histoire". Mais cette fin de l'histoire sera effectivement une fin pour la civilisation qui pense que cette fin est déjà arrivée. «Les sociétés qui partent du principe que leur histoire est arrivée à sa fin sont habituellement des sociétés dont l'histoire sera interprétée comme étant déjà sur la voie du déclin » (28).
On peut émettre de sérieux doute quant à la réalisation effective de la "perspective touranienne" ou d'une issue concrète aux conflits qu'elle serait susceptible de déclencher dans l'espace centra-asiatique quadrillé jadis par l'internationalisme stalinien qui a imposé des frontières artificielles, reprises telles quelles par le nouvel ordre libéral, qui ne parle pas d'"internationalisme", comme les Staliniens, mais de "multiculturalisme". Ce multiculturalisme ne veut pas de frontières, alors que ce système de frontières est une nécessité pour arbitrer les conflits potentiels de cette région à hauts risques. Renoncer aux frontières utiles revient à attendre une orgie de sang et d'horreur, qui sera d'autant plus corsée qu'elle aura une dimension métaphysique (29). C'est une sombre perspective pour nous Européens, mais, pour les Turcs, elle implique la survie, quoi qu'il arrive, à l'horizon de la fin de l'histoire, que ce soit en préservant leur alliance privilégiée avec les Etats-Unis ou en entrant en conflit avec eux, remplaçant l'URSS comme détenteurs de la "Terre du Milieu", nécessairement opposés aux maîtres de la Mer.
Josef SCHÜSSLBURNER.
(extrait d'un article paru dans Staatsbriefe, n°9-10/2001).
Notes :
(1) Cf. «Waffen und Fundamentalismus. Die muslimischen Separatisten im Nordwesten Chinas erhalten zulauf», Frankfurter Allgemeine Zeitung, 29.3.1999.
(2) Plus tard, un nombre plus élevé de tribus mongoles se sont progressivement "turquisées"; le terme "Moghol" le rappelle, par exemple, car il signifie "mongol" en persan; c'est un souvenir des origines mongoles des familles dominantes, alors qu'en fin de compte, il s'agit d'une domination turque sur l'Inde.
(3) F. Gabrieli, Mohammed in Europa - 1300 Jahre Geschichte, Kunst, Kultur, 1997, p. 143.
(4) La position d'Atatürk était purement tactique, en effet, si l'on se rappelle que les principaux responsables du génocide sont devenus les meilleurs piliers du régime kémaliste; cf. W. Gust, Der Völkermord an den Armeniern, 1993, pp. 288 et ss.
(5) Cf. «Stetig präsent. Das Engagement der Türkei in einem unsicher werdenden Mittelasien», Frankfurter Allgemeine Zeitung, 4.10.1999.
(6) La Russie reconnaît effectivement cette problématique; cf. «Moskau will eine Allianz gegen Russland nicht hinnehmen. Ankara der Verbreitung pantürkischer Vorstellung bezichtigt - Abschluß des Gipfels (der Staatschefs von Aserbaidschan, Kasachstan, Kyrgystan, Usbekistan und Turkmnistan) in Istanbul» (!), Frankfurter Allgmeine Zeitung, 20.10.1994.
(7) Vu le caractère "irréversible" de la candidature de la Turquie à l'UE, la CDU et le Frankfurter Allgemeine Zeitung espèrent que l'ancien bourgmestre d'Istanbul fondera un parti islamique sur le modèle de la CDU (cf. «Im Zeichen der Glühbirne - Die neugegründete islamische Partei in der Türkei könnte erfolgreich sein - Diesen Erfolg will jedoch das kemalistische Regime nicht zulassen», Frankfurter Allgemeine Zeitung, 16.8.1991, p. 12; cf. également: «Neues Verfahren gegen Erdogan», Frankfurter Allgemeine Zeitung, 22.8.2001, p. 8.
(8) A ce sujet, cf. «Ein U für ein Y. Schriftwechsel in Aserbaidschan von kyrillischen zu lateinischen Buchstaben; "…die durch den Wechsel der Schrift zu erwartende engere Anbindung an die Türkei sei von Vorteil für das Land, weil dadurch auch ein wirtschaftlicher Aufschwung zu erwarten sei», Frankfurter Allgemeine Zeitung, 2.8.2001, p. 10.
(9) Pourtant la distance s'amplifie, cf. «Staatschefs der GUS reden über regionale Sicherheit; "… herrschen indes Zweifel am Sinn und Zweck der GUS, deren Staaten sich in den vergangenen Jahren auseinanderentwickelt haben», Frankfurter Allgemeine Zeitung, 2.8.2001, p. 6.
(10) Malheureusement, il n'existe aucune présentation systématique de ce concept de "pseudo-démocratisation" téléguidée par les services secrets; on trouve cependant quelques allusions chez A. Zinoviev, Katastroïka, L'Age d'Homme, Lausanne. Par ailleurs, des allusions similaires se retrouvent dans A. Golitsyn, New Lies for Old, 1984, livre dont nous recommandons la lecture car l'auteur, sur base de sa bonne connaissance du système soviétique de domination, a parfaitement pu prévoir la montée de la perestroïka.
(11) Voir le titre de chapitre, p. 109, dans le livre de Peter Scholl-Latour, Das Schlachtfeld der Zukunft. Zwischen Kaukasus und Pamir, 1998.
(12) Ibidem, pp. 151 et ss.
(13) Cf. «Türkisierung des Islam? Eine alte Idee wird in Ankara neu aufgelegt», Frankfurter Allgemeine Zeitung, 4.9.1998.
(14) Références dans U. Steinbach, Geschichte der Türken, 2000, p. 111.
(15) Dans ce contexte, il convient de citer le nom du prédicateur itinérant Fethullah Gülen, toutefois soupçonné par les kémalistes, cf. Frankfurter Allgemeine Zeitung, 15.4.1998.
(16) C'est ce que souligne à juste titre Huntington, pp. 281 et suivantes de l'édition de poche allemande de son livre Der Kampf der Kulturen. Die Neugestaltung der Weltpolitik im 21. Jahrhundert, 1996.
(17) Il existe une étape intermédiaire entre une religion civile empreinte de dogmatisme, comme cette "révision moralisante et permanente du passé" qui s'exerce en RFA, et une véritable religion d'Etat: c'est le concept du "panchasilla", qui est à la fois politique et religieux, propre au régime indonésien, qui permet à l'Etat d'énoncer des dogmes religieux, comme celui d'un monothéisme abstrait, ce qui oblige la minorité bouddhiste d'interpréter l'idée de nirvana dans un sens théiste, ce qui prépare en fait son islamisation (voir notre note 20).
(18) On en trouve une bonne présentation chez Anton J. Dierl, Geschichte und Lehre des anatolischen Alevismus-Bektasismus, 1998, voir en particulier pp. 29 et ss.
(19) L'accent mis sur le corps et sur les besoins du corps, y compris l'autorisation de boire de l'alcool, a rendu les Alévites suspects, comme jadis les Pauliciens et les Bogomils, dont la spiritualité est sous-jacente à l'islam européen dans les Balkans. On peut hésiter à qualifier cette religiosité de "gnostique". Toutefois la construction théologique générale possède les caractéristiques du gnosticisme, car son lien avec l'islam apparaît plutôt fortuit (en effet, les doctrines gnostiques peuvent recevoir aisément une formulation chrétienne ou bouddhiste, comme l'atteste le manichéisme).
(20) Cette conception peut provenir du temps où la majeure partie des peuples turcs était encore bouddhiste : à l'évidence, il s'agit ici d'une interprétation théiste du nirvana; on peut supposer qu'elle ait continué à exister au niveau de la mémoire, même après la conversion à l'islam de ces Turcs bouddhistes d'Asie centrale et d'Inde, même si cette théorie n'est pas satisfaisante pour expliquer le principe du karma tout en niant l'existence de l'âme.
(21) On peut y reconnaître des influences venues de l'hindouisme ; la vision de Dieu comme créateur, conservateur et destructeur du monde rappelle la doctrine trifonctionnelle (Trimurti) de l'hindouisme; quant à savoir si les cercles ésotériques de l'alévisme turc croient à la transmigration des âmes —comme les Druses, mais qui se réfèrent à d'autres traditions, on peut simplement le supposer. Les Alaouites de Syrie le pensent, mais les Alévites turcs ne veulent rien avoir à faire avec les Alaouites qui dominent le système politique en Syrie, comme, en fin de compte, aucun Turc s'estimant authentiquement turc ne veut rien avoir à faire avec les Arabes!
(22) L'orthodoxie sunnite n'a pas pu reprendre en charge cette fonction, car elle s'opposait à la conversion forcée des Chrétiens (jusqu'en 1700, les janissaires se recrutaient parmi les garçons chrétiens enlevés à leurs familles); cette orthodoxie ne pouvait accepter qu'un musulman soit l'esclave d'un chrétien (ce que les janissaires étaient formellement en dépit de leur conversion forcée); ce devrait être un avertissement à ceux qui pensent que les Alévites sont des "libéraux" que l'on pourrait soutenir contre l'orthodoxie islamique.
(23) Cf. «Das Doppelspiel der Amerikaner : Unter den Europäern wächst die Irritation über das zwielichtige Agieren Washingtons auf dem Balkan : Als Paten der UÇK sind die USA mitverantwortlich für die Zuspitzung des Konflikts zwischen Albanern und Slawo-Mazedoniern», Der Spiegel, n°31/2001, p. 100.
(24) Il faut tenir compte du fait que l'Islam, actuellement, se trouve à une période de son histoire qui correspond à celle de la Réforme en Europe : à cette époque-là en Europe, la démocratisation ne pouvait se comprendre que comme une théocratisation - l'Iran actuel correspond ainsi au pouvoir instauré par Calvin à Genève (et aux théocraties équivalentes installées en Nouvelle-Angleterre). Il faudrait en outre accorder une plus grande importance à la phénoménologie culturelle que nous a léguée un Oswald Spengler; celui-ci , avec une précision toute allemande, a approfondi la théorie de l'anakyklosis (doctrine des cycles ascendants) de Polybe. Pour les collaborateurs des services de sûreté allemands, Spengler et Polybe seraient automatiquement classés comme des "ennemis de la constitution", car ni l'un ni l'autre n'auraient cru, aujourd'hui, à l'éternité du système de la RFA actuelle, que tous les historiens contemporains sont sommés de ne jamais relativiser!
(25) Cf. le résumé final dans le livre de Peter Scholl-Latour, op. cit., p. 294.
(26) Comme le dit bien le titre du livre de Peter Scholl-Latour, op. cit.
(27) Ibidem, p. 511.
(28) Comme le dit à juste titre Samuel Huntington, op. cit. , p. 495.
(29) Exactement comme le dit le titre de chapitre en page 151 du livre de Peter Scholl-Latour, op. cit.
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Ferdinando CALDA :
Iran : les Etats-Unis préoccupés par les investissements chinois
Les rapports commerciaux sino-iraniens et russo-iraniens risquent d’annuler l’effet des sanctions américaines
Le maillage des sanctions infligées à l’Iran par les Etats-Unis et la « communauté internationale » n’est pas étanche, ce qui fait enrager les bellicistes américains et donne matière à penser aux Israéliens, qui, en attendant, fourbissent leurs armes pour toute intervention militaire éventuelle.
Vendredi 30 juillet 2010, la Chine, à son tour et après la Russie, a critiqué la décision de l’UE d’imposer de nouvelles sanctions unilatérales contre l’Iran, sanctions qui s’ajoutent à celles déjà votées par l’ONU. « La Chine désapprouve les sanctions décidées unilatéralement par l’UE à l’encontre de l’Iran. Nous espérons que les parties intéressées continueront dans l’avenir à opter pour la voie diplomatique afin de chercher à résoudre de manière appropriée les différends, par le biais de discussions et de négociations », a déclaré Jiang Yu, le porte-paroles du ministère chinois des affaires étrangères.
Dans le sillage des décisions prises ces jours-ci par les Etats-Unis, en effet, l’Union Européenne ainsi que le Canada et l’Australie ont adopté une série de sanctions unilatérales sans précédent contre l’Iran, sanctions qui frappent surtout le secteur énergétique du pays. Le ministre iranien des affaires étrangères, Manouchehr Mottaki, a souligné que cette décision, une fois de plus, démontre que « l’Europe est sous l’influence des Etats-Unis dans toutes ses décisions de politiques extérieures ».
Plus grave : ces mesures restrictives prises récemment par l’UE déplaisent fortement à la Russie et à la Chine qui, à la tribune de l’ONU, avaient demandé d’éviter toutes sanctions « paralysantes » contre la République Islamique d’Iran, particulièrement dans le secteur énergétique, lequel constitue le véritable talon d’Achille de Téhéran. Tant Moscou que Beijing entretiennent des rapports commerciaux avec l’Iran et n’ont aucune intention d’y renoncer. La position prise par les Russes et les Chinois préoccupe fortement la Maison Blanche, vu qu’elle ébranle considérablement toutes les tentatives entreprises pour isoler l’Iran.
« Le fait que Beijing fasse des affaires avec Téhéran est pour nous un motif de grande préoccupation », confirme Robert Einhom, conseiller spécial du département d’Etat américain pour la non prolifération et le contrôle des armements.
Ce fonctionnaire américain a par ailleurs annoncé qu’une délégation américaine se rendra en Chine très bientôt, ainsi qu’au Japon (qui, lui aussi, au cours de ces derniers mois, a entamé une collaboration avec l’Iran pour la construction de centrales nucléaires antisismiques). Cette délégation se rendra également en Corée du Sud et dans les Emirats arabes du Golfe car ces Etats exportent énormément vers l’Iran. Le but de la délégation est évidemment de faire accepter par toutes ces puissances les sanctions contre l’Iran décidées par Washingto (ndt : et entérinées benoîtement par ses satellites).
Plus particulièrement, cette délégation aura pour tâche de rappeler à Beijing que les nouvelles sanctions approuvées par les Etats-Unis, l’Union Européenne, le Canada et l’Australie impliquent que toutes les entreprises étrangères qui coopèreront avec le secteur énergétique iranien seront également sanctionnées. Or, actuellement, les entreprises chinoises, auxquelles la délégation américaine fait implicitement référence, sont en train d’investir de « manière agressive » dans ce secteur-là et non dans d’autres.
Du reste, le pétrole et le gaz iraniens —qui pourraient arriver en Chine via le Pakistan, après qu’Islamabad ait noué d’importants accords en ce sens avec Téhéran— représentent un enjeu important pour une Chine en croissance continue, de plus en plus demanderesse en matières énergétiques.
« Les Chinois prétendent avoir des exigences importantes en matière de sécurité », explique Einhom, qui, toutefois, invite Beijing « à revoir ses priorités ».
Entretemps, la République Islamique d’Iran cherche de nouvelles collaborations pour échapper aux sanctions et à l’étranglement voulu par Washington. Ces dernières semaines, le vice-ministre iranien des pétroles, Javad Oji, a eu une longue entrevue avec une délégation irakienne afin de préparer un accord sur l’exportation de gaz iranien vers l’Irak. Les Iraniens espèrent qu’il y aura très bientôt un gazoduc partant d’Iran pour aboutir en Irak qui, ultérieurement, pourra être étendu au territoire syrien et, de là, aboutir à la Méditerranée et servir à l’alimentation énergétique de l’Europe.
Ferdinando CALDA (f.calda@rinascita.eu ).
(article tiré de « Rinascita », Rome, 31 juillet/1 août 2010 ; http://www.rinascita.eu/ ).
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Bernhard TOMASCHITZ :
Les Etats-Unis modifient leur stratégie en Afghanistan
A partir de 2014, le gouvernement afghan devra lui-même assurer la sécurité sur son propre territoire. Cette intention a été confirmée au Président Hamid Karzai fin juillet 2010, lors de la Conférence internationale sur l’Afghanistan, tenue à Kaboul. Dès l’été 2011, les premières troupes américaines quitteront le pays, ce qui, d’après les paroles d’Hillary Clinton, ministre américaine des affaires étrangères, constituera « le commencement d’une phase nouvelle de notre engagement et non sa fin ». En fin de compte, les Etats-Unis entendent participer, après le retrait de leurs troupes, à la formation des forces afghanes de sécurité.
Le Président américain Barack Obama cherche ainsi à se débarrasser du vieux fardeau afghan, hérité de son prédécesseur George W. Bush, juste avant les présidentielles de 2012. Mais derrière les plans de retrait hors d’Afghanistan, que l’on concocte aux Etats-Unis, se profile le constat que la guerre dans ce pays, qui dure maintenant depuis neuf ans, ne pourra pas être gagnée. A cela s’ajoute le coût très élevé de cette guerre, qui se chiffre à quelque 100 milliards de dollars par an. Une telle somme ne peut plus raisonnablement s’inscrire désormais dans le budget américain, solidement ébranlé. Richard N. Haass, Président du très influent « Council of Foreign Relations » (CFR) tire la conclusion : « Nous devons reconnaître que cette guerre a été un choix et non pas une nécessité ». Il y a surtout que le coût militaire de l’entreprise est trop élevé, dans la mesure où elle mobilise des ressources qui, du coup, manquent en d’autres points chauds. Haass cite, dans ce contexte, l’Iran et la Corée du Nord, deux Etats étiquetés « Etats voyous », qui se trouvent depuis longtemps déjà dans le collimateur de Washington.
Si les Etats-Unis se retirent du théâtre opérationnel de l’Hindou Kouch, l’Afghanistan, ébranlé par la guerre, n’évoluera pas pour autant vers des temps moins incertains. Ensuite et surtout, les Etats-Unis ne disposent pas de moyens adéquats pour trancher le nœud gordien afghan, constitué d’un entrelacs très compliqué de combattants talibans, de divisions ethniques et de structures claniques traditionnelles. Il y a ensuite le voisin pakistanais, disposant d’armes nucléaires, qui est tout aussi instable que l’Afghanistan. Rien que ce facteur-là interdit aux Etats-Unis de laisser s’enliser l’Afghanistan dans un chaos total. D’après Haass, « les deux objectifs des Etats-Unis devraient être les suivants : empêcher qu’Al Qaeda ne se redonne un havre sécurisé dans les montagnes afghanes et faire en sorte que l’Afghanistan ne mine pas la sécurité du Pakistan ». C’est pourquoi, malgré le retrait annoncé, on peut être certain que des troupes américaines demeureront en permanence en Afghanistan, fort probablement en vertu d’un accord bilatéral qui sera signé entre Washington et Kaboul. Les Américains, finalement, n’ont que fort peu confiance en les capacités du Président afghan Karzai, homme corrompu, qui, au cours des années qui viennent de s’écouler, n’a pu assurer sa réélection que par une tricherie de grande envergure.
La situation en Afghanistan et aussi en Irak indique aujourd’hui qu’il y a changement de stratégie à Washington, comme l’atteste les nouvelles démarches des affaires étrangères américaines. Hier, nous avions les « guerres préventives » pour généraliser sur la planète entière les principes de la « démocratie libérale » ; les cénacles et les « boîtes à penser » des néo-conservateurs les avaient théorisées. Aujourd’hui, nous assistons à un retour à la Doctrine Nixon. Richard Nixon, Président des Etats-Unis de 1969 à 1974, après le désastre du Vietnam, avait parié, surtout en Asie, sur le renforcement des économies des pays alliés et sur le soutien militaire à leur apporter. Aujourd’hui, le ministre de la défense américain Robert Gates déclare « qu’il est peu vraisemblable que les Etats-Unis répètent bientôt un engagement de l’ampleur de celui d’Afghanistan ou d’Irak, pour provoquer un changement de régime et pour construire un Etat sous la mitraille ». Mais parce que le pays doit faire face à toutes sortes de menaces, en premier lieu celle du terrorisme, l’efficacité et la crédibilité des Etats-Unis doivent demeurées intactes aux yeux du monde. Ces réalités stratégiques exigent, dit Gates, que le gouvernement de Washington améliore ses capacités à consolider les atouts de ses partenaires. Il faudra donc, poursuit-il, « aider d’autres Etats à se défendre eux-mêmes et, si besoin s’en faut, de lutter aux côtés des forces armées américaines, dans la mesure où nous aurons préparé leurs équipements, veillé à leur formation et apporté d’autres formes d’assistance à la sécurité ». Gates justifie aussi le changement de stratégie comme suit : l’histoire récente a montré que les Etats-Unis ne sont pas prêts de manière adéquate à affronter des dangers nouveaux et imprévus émanant surtout d’Etats dits « faillis ».
L’Afghanistan recevra donc une « assistance à la sécurité », mais on peut douter qu’elle enregistrera le succès escompté. Toutefois la nouvelle stratégie américaine nous montre que Washington n’est pas vraiment prêt à renoncer à ses visées hégémoniques. En effet, l’armement d’alliés et de partenaires, en lieu et place de l’envoi de troupes propres, offre un grand avantage : les moyens peuvent être utilisés de manière beaucoup plus diversifiée. En fin de compte, il y a, dispersés sur l’ensemble du globe, bon nombre de pays qui peuvent être mobilisés pour faire valoir les intérêts américains. Exemples : la Colombie, pour tenir en échec le Président vénézuélien Hugo Chavez, ennemi des Etats-Unis ; ou les petits émirats du Golfe Persique pour constituer un avant-poste menaçant face à l’Iran. Comme l’exprime le ministre des affaires étrangères Gates : « Trouver la manière d’améliorer la situation qu’adoptera ensuite le gouvernement américain pour réaliser cette tâche décisive, tel est désormais le but majeur de notre politique nationale ».
Bernhard TOMASCHITZ.
(article paru dans « zur Zeit », Vienne, n°30/2010 ; http://www.zurzeit.de/ ).
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Das amerikanisch-südkoreanische Seemanöver im Ostchinesischen Meer rund um die Koreanische Halbinsel ist letzte Woche zu Ende gegangen. Die Weltgemeinschaft ist also dem Ernstfall gerade noch einmal entkommen. Was sich wie Panikmache liest, ist aber leider bittere Wirklichkeit. Die Nationen der Region haben über die letzten vier Tage und Nächte den Atem angehalten – und das Militär machte Überstunden in Bereitschaft. Die Welt war nur einen Wimpernschlag von einer militärischen, möglicherweise sogar atomaren Auseinandersetzung entfernt.
Unfälle passieren, weil Menschen fehlbar sind, weil sie Fehleinschätzungen machen oder eine Sekunde lang nicht aufpassen. In der letzten Woche befanden sich mehr als 8.000 Soldaten, bewaffnet mit neuester Kriegstechnologie, an der Grenze zu Nordkorea, um dort einen Krieg zu führen – wenn auch nur als Simulation. Es haben also 8.000 Menschen über vier Tage und Nächte hinweg mit dem Finger am Abzug ein »Signal« nach Nordkorea gesendet. Wenn nur einem der 8.000 am Manöver beteiligten Soldaten ein menschliches Versagen (welcher Art auch immer) unterlaufen wäre, hätte sich Nordkorea zu einem Gegenschlag genötigt gesehen – und diesen auch ausgeführt, hierüber darf kein Zweifel bestehen.
Das ganze Szenario erinnert irgendwie an einen Kindergarten, in dem die Bandenchefs »ihr« Territorium verteidigen. Es werden Linien in den Sand gezogen, diese Linien werden irgendwann übertreten, und am Ende gibt es Tränen.
In Bezug auf die aktuelle Situation ist es nun einmal leider so, dass aus einer kleinen fehlgeleiteten Rakete oder der falsch berechneten Position eines Kriegsschiffes sich schnell eine Situation hätte hochschaukeln können, mit allerschlimmsten Folgen für die Menschen weltweit. Die Liste der potenziellen Auslöser kann beliebig weitergeführt werden – und das macht die Gefahr nur noch greifbarer, und den Konflikt wahrscheinlicher. Aber es ist ja nun »zum Glück« nichts passiert. Schade ist nur, dass die Menschheit mittlerweile auf das Glück angewiesen ist, denn die Vernunft scheint sich aus verschiedenen Winkeln der Welt bereits verabschiedet zu haben.
Und Glück wird die Menschheit weiterhin brauchen; eine ganze Menge sogar, denn die USA planen eine Dauerpräsenz in der Region, mit weiteren Manövern und Tausenden von Soldaten. Die Nordkoreaner haben auf diese Ankündigung bereits reagiert und bekannt gegeben, dass man sich vor diesen »Bedrohungen« nicht fürchtet und jederzeit gewillt ist, mit voller Härte zurückzuschlagen. Die USA quittieren solche Ankündigungen mit der Aussage, man sei lediglich an der militärischen Übung interessiert und wolle auf keinen Fall provozieren. Aber wenn dem tatsächlich so ist, warum muss diese Übung dann nur einen Steinwurf von jener Grenze stattfinden, deren Verletzung einen Weltkrieg auslösen könnte? Ist das nicht ein zu hoher Preis für so ein wenig »militärische Übung«?
Es ist in der Tat ein hoher Preis, der gezahlt werden muss. Die Frage ist nur: von wem? Denn bei den asiatischen Nachbarn machen sich die Südkoreaner durch das Spiel mit dem Feuer nicht gerade beliebt. Insbesondere die Volksrepublik China, die ja gleichfalls Adressat der amerikanisch-südkoreanischen »Signale« ist, wird diese Provokation so schnell nicht vergessen.
Denn in Wahrheit geht es den USA nämlich um mehr als nur ein paar militärische Übungen und »Signale«. Es geht – wieder einmal – um die geopolitischen Interessen der Amerikaner. Diese Interessen hat die amerikanische Außenministerin, Hillary Clinton, bei der letzte Woche stattgefundenen ASEAN-Konferenz (Association of Southeast Asian Nations, deutsch: Verbund der Südostasiatischen Nationen) unverblümt zu Protokoll gegeben.
Clinton sprach ganz offen über die »nationalen Interessen« der USA im Südchinesischen Meer (nicht zu verwechseln mit dem Ostchinesischen Meer, in dem die Manöver der letzten Woche stattfanden). Die Außenministerin stellte darüber hinaus fest, dass die dortigen Souveränitäts-verhältnisse nicht geklärt seien. Das ist politischer Sprengstoff, und die Tragweite dieser Aussage darf nicht unterschätzt werden. Denn die »Besitzverhältnisse« im Südchinesischen Meer sind – vorsichtig ausgedrückt – problembehaftet. Dies liegt in der Tatsache begründet, dass die Anrainerstaaten unterschiedliche Ansprüche aus der eigenen geografischen Lage ableiten.
Somit haben die USA, hier in Person ihrer Außenministerin, wieder einmal Öl in ein Feuer gegossen, welches schnell eine ganze Region in Brand stecken könnte. Und warum? Ganz einfach: wegen der »nationalen Interessen« der USA! Denn aus den angeblich ungeklärten Hoheitsverhältnissen leiten die USA das Recht – nein, die Pflicht! – ab, sich in der Region zu engagieren. Als Friedensstifter sozusagen.
Die Worte Clintons zielen darauf ab, einen über viele Jahre hinweg erfolgreich geführten Friedensprozess aufzulösen, um die nötige Volatilität in der Region zu schüren. Denn die Anrainerstaaten des Südchinesischen Meeres haben eine gemeinsame Erklärung unterzeichnet, welche die Hoheitsansprüche und Nutzungsrechte vor Ort regelt, um den Frieden und die Kooperation in der Region zu sichern. Es handelt sich hierbei um die Declaration on the Conduct of Parties in the South China Sea (DOC), die im Rahmen des ASEAN-Forums ausgehandelt wurde und seit 2002 in Kraft ist.
Die Erklärung als solche geht eindeutig auf die Initiative der Volksrepublik China zurück, und die Tatsache, dass alle Anrainerstaaten die Erklärung unterzeichneten, ist ein Verdienst unermüdlicher Diplomatie. Oberstes Ziel war es, der Region die nötige Stabilität zu geben. Dass die angestrebte Stabilität nun gewährleistet ist, ist den Amerikanern zwar bekannt – aber offensichtlich egal. Aus einer stabilen Region ist nun einmal aus Sicht der USA kein geopolitischer oder wirtschaftlicher Nutzen zu ziehen.
Einen ganz besonderen Schliff bekommt die Angelegenheit durch die Aussage Clintons, die Anrainererklärung sei nicht bindend, denn die Regeln des Seerechtsübereinkommens der Vereinten Nationen (United Nations Convention on the Law of the Sea, UNCLOS) seien bei Fragen zu den Hoheitsrechten anzuwenden. Mit anderen Worten: Die USA sprechen den souveränen Anrainerstaaten einer ganzen Region die Fähigkeit ab, eigene nationale Interessen in multilateralen Verträgen zu regeln. Stattdessen verlangen die Amerikaner im Rahmen des internationalen Rechts, die Würfel zu Gunsten der USA neu zu rollen. Hervorzuheben ist, dass die USA dieses Seerechtsübereinkommen selbst nie ratifiziert haben, weil man durch diese Erklärung die eigenen Interessen und Souveränität gefährdet sieht.
Dank der »Friedensinitiative« der USA wird das Südchinesische Meer nun also zum geopolitischen Brennpunkt. Sehen wir also weiter zu, wie unsere Freunde aus »Fernwest« die Welt in Fernost zu befrieden gedenken.
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Andrea PERRONE :
L’Allemagne et la Chine renforcent leur partenariat stratégique
Berlin et Beijing relancent leurs rapports commerciaux, économiques et politiques
Jiabao heureux des nouveaux rapports avec l’UE
La Chancelière allemande Angela Merkel est arrivée à Beijing vers la mi-juillet 2010, après avoir rencontré le Président russe Dmitri Medvedev à Yekaterinenbourg, pour une visite qui pourrait contribuer à la naissance d’un vaste partenariat stratégique entre les deux pays : la Chine, en effet, est le premier partenaire commercial de l’Allemagne en Asie et l’Allemagne est le principal partenaire commercial européen pour la Chine ; le volume des échanges se chiffre à quelque 105,73 milliards de dollars en 2009, pour 2010, le chiffre pourrait être beaucoup plus élevé. L’Allemagne et la Chine vont donc relancer leurs relations bilatérales, qui reposeront sur « de nouvelles bases », comme l’a déclaré Mme Merkel, à la fin des entretiens qu’elle a eus à Beijing avec le premier ministre chinois Wen Jiabao. Pour résumer le parcours entrepris depuis quelque temps par les deux puissances économiques, un communiqué de vingt-huit points a été distribué, illustrant le travail fait en commun dans les secteurs de l’économie, des sciences et de la culture. Nous avons donc affaire à une véritable syntonie et à un grand pas en avant dans les relations germano-chinoises, qui envisagent notamment une coopération élargie dans la lutte contre les changements climatiques. Ce projet a été confirmé par une déclaration de Wen Jiabao qui, en s’adressant à ses interlocuteurs allemands, a rappelé : « Nous sommes embarqués sur le même navire ». Le ministre allemand de l’environnement, Norbert Roettgen, vient de signer un accord pour renforcer le travail commun entrepris par la Chine et l’Allemagne dans les secteurs de la politique énergétique et écologique. Pour l’automne, Allemands et Chinois ont prévu une réunion d’experts des deux pays pour discuter de la lutte contre les effets négatifs du changement climatique.
Les différends qui avaient opposé les deux pays semblent avoir été surmontés: ils étaient survenus en 2007 lorsque la Chancellerie allemande avait reçu le Dalaï Lama, chef spirituel des Tibétains. Le premier ministre Jiabao a tenu à préciser que l’Europe constitue la destination préférée des investissements chinois à l’extérieur. “Il est de bonne notoriété que la Chine possède d’abondantes réserves de devises étrangères”, a poursuivi le premier ministre chinois lors d’une conférence de presse, tenue après les entretiens qu’il avait eus pendant deux heures avec Mme Merkel. “En qualité de responsable et d’investisseur sur le long terme, la Chine adhère au principe de toujours détenir un portefeuille diversifié. Le marché européen est et restera l’un des marchés clefs pour les investissements chinois”, a-t-il ajouté. Le premier ministre chinois a rappelé que la Chine a offert une aide quand certains pays européens ont été frappés par une crise de la dette publique, ce qui a renforcé les relations amicales entre la Chine et l’Europe.
Les accords commerciaux qui ont été conclus entre les deux pays sont très importants. La firme Daimler, géant automobile allemand qui possède la marque Mercedes-Benz, et le producteur de camions chinois Beiqi Foton Motor ont signé un projet commun pour constituer une « joint venture » dans le secteur des poids lourds. La « joint venture » Daimler/Foton, où chacun des signataires détient une quantité égale de parts, produira des autocars et des autobus dont la technologie aura été développée chez Daimler (surtout en ce qui concerne les moteurs Diesel). Les véhicules seront vendus soit en Chine soit à l’étranger, en particulier en Asie. Le groupe allemand n’a pas donné jusqu’ici de détails sur son engagement dans cette initiative mais des sources gouvernementales à Berlin ont révélé que les deux entreprises associées ont consenti un investissement total de 800 millions d’euros.
Toujours au cours de la conférence de presse tenue conjointement avec Mme Merkel, Jiabao a précisé que « la Chine poursuivra sa politique de rapprochement économique et continue à avoir confiance en l’Europe, malgré la crise financière qui l’a frappée » ; il faut souligner que ces paroles du premier ministre chinois constituent « un signal important de confiance en l’euro de la part de la Chine ». Pour ce qui concerne l’économie du géant asiatique, Jiabao a dit bien clairement que le gouvernement chinois « maintiendra une continuité dans sa politique et mettra en acte une politique fiscale active et une politique monétaire permissive à bon escient ». Sur la crise des dettes publiques en Europe, Jiabao semble pourtant trop optimiste, en rappelant que la Chine « a toujours tendu la main » dans les moments difficiles et s’est déclaré « convaincu qu’avec un dur labeur en commun au sein de la communauté internationale, l’Europe surmontera certainement ses difficultés ». Jiabao a ensuite répété sa satisfaction de voir l’Allemagne intercéder pour la Chine au sein de l’UE et reconnaître la valeur de l’économie de marché en Chine, se félicitant, par la même occasion, que l’Allemagne, moteur de l’économie européenne, joue un rôle actif dans le renforcement des relations entre la Chine et l’UE.
Andrea PERRONE ( a.perrone@rinascita.eu ).
(texte paru dans « Rinascita », Rome, 17 juillet 2010 ; http://www.rinascita.eu/ ).
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Bernhard TOMASCHITZ :
Les ennuis d’Erdogan
Le tribunal constitutionnel turc annule les projets de réforme constitutionnelle –
Le conflit avec les Kurdes mobilise les adversaires du Premier ministre turc
Recep Tayyip Erdogan vient d’encaisser une défaite. Le Tribunal constitutionnel turc vient de rejeter le projet du Premier Ministre de renforcer la position de son parti, l’AKP ou « Parti pour la Justice et la Prospérité », par le truchement d’une réforme constitutionnelle. Les juges suprêmes du Tribunal constitutionnel ont surtout estimé non recevables le projet d’instaurer de nouvelles procédures de nomination pour les juges constitutionnels et les plans visant à modifier le statut du « Haut Conseil des Juges et Avocats » (HCJA). A côté de l’armée, le Tribunal constitutionnel est la seule institution encore contrôlée par les kémalistes. C’est pour cette raison que le chef du gouvernement islamiste a cherché à s’assurer une majorité dans le HCJA, qui élit les membres du Conseil constitutionnel. Les limitations apportées aux compétences des tribunaux militaires sont restées telles quelles. Le 12 septembre prochain, un référendum aura lieu qui décidera des vingt modifications de la Constitution qui n’ont pas été acceptées.
Les milieux gouvernementaux n’épargnent pas leurs critiques acerbes à l’encontre des juges constitutionnels, après avoir voulu vendre leurs projets d’accroître le pouvoir des islamistes (aux dépens des laïques et des kémalistes) sous prétexte que les structures militarisées de l’Etat turc devaient être assouplies sinon supprimées pour que la Turquie puisse adhérer à l’UE. Le ministre de la justice Sadullah Ergin a déclaré, pour sa part, que le Tribunal constitutionnel avait outrepassé ses compétences et « commis une erreur ». Cependant l’opposition kémaliste n’est pas davantage satisfaite de la décision prise par les juges constitutionnels. Muharrem Ince, du CHP (Parti Populaire Républicain), qui avait porté plainte auprès du Tribunal suprême d’Ankara contre la réforme proposée par Erdogan, a déclaré, lui aussi, « qu’il n’était personnellement pas satisfait ».
Mais Erdogan ne doit pas lutter que sur un seul front, celui où il s’oppose au Tribunal constitutionnel. Dans les régions kurdes, la situation est de plus en plus instable et agitée ; pratiquement tous les jours des combats éclatent entre des guérilleros du PKK (Parti Ouvrier Kurde) et des unités de l’armée turque ; au cours de ces quatre derniers mois, 130 insurgés kurdes ont été tués. Ensuite, l’armée turque ne cesse d’attaquer par les airs les positions kurdes dans le Nord de l’Irak, que le PKK utilise comme zone de repli. En arguant de la question kurde, les kémalistes cherchent à gagner la sympathie des électeurs et à contraindre le premier ministre à la défensive. Devler Bahceli, président du MHP (Parti du Mouvement National), vient de reprocher au gouvernement d’Erdogan « d’être en grande partie responsable de la montée du terrorisme et du séparatisme ». Propos similaires chez le nouveau chef de file du CHP, Kemal Kilicdaroglu, qui accuse l’AKP « d’avoir une grande part de responsabilité » dans la situation de quasi belligérance qui règne dans les régions kurdes.
Les critiques de la politique du gouvernement de l’AKP partagent l’avis que le procès intenté aux protagonistes du complot Ergenekon, à l’initiative d’Erdogan, a renforcé la rébellion kurde. L’ancien général Edip Baser, toujours influent, pense que les enquêtes judiciaires dans l’affaire Ergenekon, où même le Procureur général de l’Etat a croupi en détention préventive pendant plus de six mois, ont entravé considérablement le bon fonctionnement des services secrets. Il souligne surtout le fait qu’à l’époque où ces enquêtes étaient menées, tous les noms ont été publiés de ceux qui travaillaient dans les services secrets de l’armée, de la gendarmerie ou de la sûreté de l’Etat. Ces révélations ont littéralement décapité ces services et il faudra quelques années pour y remédier. Le premier ministre Erdogan est soupçonné d’avoir voulu éliminer certains de ses ennemis en lançant l’affaire Ergenekon. Lui voit les choses d’un autre œil. Selon Erdogan, la plainte contre les soi-disant comploteurs du réseau Ergenekon permet « de voir très clairement le lien entre les organisations terroristes et les bandes qui se sont incrustées dans le pays ».
Entretemps la question kurde devient de plus en plus pesante dans la région, ce qui inquiète bien entendu les milieux militaires. « L’Irak dispose d’un gouvernement central, qui doit exercer ses responsabilités. Ce gouvernement ne devrait pas donner refuge à des terroristes sur son territoire » a déclaré récemment le chef de l’état-major turc Ilker Basbug lors d’un entretien accordé à la télévision. Erdogan songe aussi à déclencher une attaque générale contre les zones du Nord de l’Irak, en prenant prétexte de la guerre globale contre le terrorisme. Toutefois Erdogan ne veut pas lancer seul cette attaque mais y impliquer ses partenaires de l’OTAN. Puisque l’un des objectifs principaux et déclarés de l’Alliance atlantique est de mener une guerre globale contre le terrorisme et puisque la Turquie mène déjà seule, dans son secteur, cette guerre contre les séparatistes kurdes campés comme « terroristes », « Les pays membres de l’OTAN », dixit Erdogan, «devraient apporter leur soutien dans cette lutte ». Erdogan a formulé cette demande fin juin dans un entretien qu’il a accordé à la chaine américaine PBS. A l’évidence, Erdogan veut obtenir cette participation de l’OTAN à la lutte contre les Kurdes pour, en échange, accroître la participation d’Ankara à la guerre américaine en Afghanistan. « Nous nous précipiterons vers Kaboul, dans la mesure où vous, vous vous précipiterez vers Kandil (une localité dans le Nord de l’Irak) ».
Vu le refroidissement évident des relations entre la Turquie et les Etats-Unis, à cause de la politique proche orientale du gouvernement Erdogan, et vu les difficultés qu’éprouvent les Etats-Unis en Afghanistan, il y a bien peu de chances que Washington réponde au souhait d’Erdogan. La proposition qu’a formulée ce dernier aux Américains a été passée sous silence en Europe et laisse entrevoir ce qui se passerait si la Turquie devenait membre à part entière de l’UE. Rien qu’à cause de l’obligation d’assistance, prévue par le Traité de Lisbonne, et vu la faiblesse politique de l’UE, l’Europe court le risque d’être entrainée dans les conflits du Proche et du Moyen Orient si jamais la Turquie réclamait à nos pays une assistance pareille à celle que vient de formuler Erdogan à l’adresse des Américains.
Bernhard TOMASCHITZ.
(article paru dans « zur Zeit », Vienne, n°28-29/2010 ; http://www.zurzeit.at/ ).
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Les métamorphoses de la Turquie
On a maintes fois plagié la célèbre petite phrase « it’s about the economy, stupid ! » (« Ça tourne autour de l’économie, imbécile ! »), prononcée à tour de bras lors de la campagne électorale de Bill Clinton en 1992. Celui qui l’a forgée, dit-on, fut un certain James Carville, l’un des stratèges qui menaient cette campagne à bien. L’idée était d’insister avant tout sur l’économie qui peinait à reprendre son rythme, seule manière de battre Bush Senior. L’idée, simple, a porté ses fruits : Bush-le-Père a été battu.
« Cette phrase aurait sa place dans la bouche du premier ministre turc Erdogan » remarquait récemment un diplomate. Les nouvelles ambitions internationales de la Turquie sont de plus en plus souvent commentées dans la presse. Mais on parle beaucoup moins de l’impressionnante croissance économique de la Turquie. A tort car c’est elle qui rythme la marche, c’est elle qui permet au pays de se donner le rôle nouveau qu’il s’assigne. Ce qui se passe actuellement en Turquie pourrait avoir à terme des répercussions importantes sur les relations entre la Turquie et l’Union Européenne.
Les relations entre la Turquie et Israël sont au plus bas. On parlait depuis quelque temps déjà de ce recul : l’incident de la flottille en partance vers Gaza a constitué le coup de grâce pour les rapports turco-israéliens, jadis harmonieux. Où ce gel n’est-il qu’une apparence ? Les observateurs les plus avisés constatent qu’il y a un gouffre entre les réactions diplomatiques officielles (abandon de toute coopération militaire, rappels d’ambassadeurs, …) et les réalités économiques. L’espace aérien turc peut certes demeurer fermé à tout exercice militaire pour l’aviation de Tsahal, il n’empêche qu’une commande turque auprès des arsenaux israéliens n’a pas été annulée, jusqu’à nouvel ordre : elle porte sur une somme de 190 millions de dollars et concerne des aéronefs sans pilote (des drones). Dans une large mesure, la Turquie dépend de l’Etat hébreu pour ses commandes militaires. Il n’existe pas de chiffres exacts mais d’après le « Jane’s Defense Weekly », généralement bien informé, l’ampleur du « commerce militaire bilatéral » tournerait autour de 1,8 milliard des dollars. Seuls les Etats-Unis importent davantage de technologies militaires en Turquie. Entre la Turquie et Israël existe un accord de libre-échange, qui n’a nullement été dénoncé en dépit de l’émotion suscitée par l’attaque israélienne contre la flottille à destination de Gaza. Notre diplomate ajoute : « Affirmer que l’attaque contre la flottille n’a eu aucun effet, c’est aller trop loin ». « La confiance réciproque a pris un coup et, côté israélien, il y a désormais un certaine réticence car on craint que le matériel livré aujourd’hui pourrait un jour être utilisé contre Israël ; mais, globalement, ce que l’on constate, c’est que les relations commerciales se poursuivent comme auparavant ».
Impressionnant
Tandis qu’on se contente souvent en Europe d’une croissance de 1%, l’économie turque, elle, a crû de 11,4% pour le premier trimestre de cette année. Seule la Chine fait mieux. Il y a dix ans, le déficit budgétaire turc était encore de 16% du PNB et l’inflation se chiffrait à 72%. Aujourd’hui, ce déficit n’est plus que de 3% et l’inflation de 8%. Trouver des solutions pour résorber cette dernière est l’objectif premier pour les années à venir. La dette publique équivaut à 49% du PNB elle est donc bien moindre que la plupart des dettes publiques des pays de la zone euro, y compris la Belgique. Dans un entretien récemment accordé, Husnu Ozyegin, quasiment l’homme le plus riche de Turquie, rappelle que les paramètres de risque utilisés sur les marchés financiers deviennent toujours plus favorables à son pays. « Nous nous trouvons à peu près au même niveau que l’Italie et nous faisons nettement mieux que la Grèce », constate-t-il. En juin 2010, les exportations turques étaient de 13% plus élevées qu’en juin 2009, surtout grâce aux demandes de pays comme l’Iran, l’Irak ou la Russie. Les lignes aériennes turques (Turkish Airlines) desserviront bientôt plus de villes irakiennes que de villes françaises. Les lignes aériennes, dont la croissance est la plus rapide, conduisent en Libye, en Syrie ou en Russie, soit vers les pays qui sont désormais les principaux partenaires commerciaux de la Turquie. Pour conclure, encore un chiffre : cette année, la Turquie aura exporté davantage vers la Syrie et l’Iran que vers les Etats-Unis. Valeur totale des échanges : 1,6 milliard de dollars, ce qui équivaut à 200 millions de dollars de plus que le total des exportations turques vers les Etats-Unis.
Adhésion à l’UE ?
Ce qui se dessine à l’horizon est clair : la Turquie vit actuellement un « miracle économique », surtout grâce au commerce qu’elle entretient avec certains pays d’Orient et avec la Russie. L’ambition turque de jour un rôle régional plus important se traduit en une nouvelle politique internationale, soutenue justement par ce renforcement tous azimuts de l’économie turque. Dans un tel contexte, où se trouve aujourd’hui l’UE et, —doit-on le demander ?– où en est le projet d’adhésion de la Turquie à cette Union ?
Toutes choses prises en considération, les cartes de la Turquie sont plus mauvaises aujourd’hui pour la perspective d’une adhésion qu’elles ne l’étaient en 2004, lorsque le pays fut accepté comme « candidat officiel ». Se porter candidat implique de satisfaire trente-cinq critères, avec une quantité de normes à respecter. La Turquie n’obtient de bons points dans cette épreuve que pour treize de ces critères. Parmi les 22 autres, auxquels elle ne satisfait pas, il y en a douze où la situation est complètement bloquée. Où ce situe les pierres d’achoppement ? Dans une série de dossiers concrets, tels celui de Chypre par exemple. Par ailleurs, il y a en Europe pas mal de résistance à l’adhésion éventuelle de la Turquie. Le Président français Sarközy a des idées claires sur le sujet. Bon nombre d’autres le suivent tacitement. Dans le contexte actuel, le fait que la Turquie ait refusé de voter des sanctions supplémentaires contre l’Iran, à l’instar des Européens et des Américains, lors de la session ad hoc du Conseil de sécurité de l’ONU, n’a pas arrangé les choses. Pour l’Europe technocratique de Bruxelles, le minimum que l’on attend d’un pays candidat, c’est de s’aligner sur les autres Etats de l’Union dans des dossiers aussi sensibles. Lorsque l’Espagne, au début de cette année 2010, a assuré la présidence de l’Union, elle s’affirmait sûre d’obtenir un accord sur quatre critères. Un seul de ces quatre critères a été satisfait, ce qui, au vu de toutes les circonstances, procède d’un véritable miracle !
La procession d’Echternach (trois pas en avant, deux pas en arrière) est une véritable course folle, si on la compare au cheminement de la Turquie vers l’UE. La question se pose : la Turquie a-t-elle encore envie d’adhérer ? Pour accumuler les avantages économiques, l’adhésion n’est pas nécessaire. Les ambitions turques actuelles se tournent vers d’autres directions. De plus en plus. Cela signifie que la frontière maritime que constitue le Bosphore devient de plus en plus large.
« M. »/ « ‘t Pallieterke ».
(Texte paru dans « ‘t Pallieterke », Anvers, 21 juillet 2010 ; http://www.pallieterke.info/ ).
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Pietro FIOCCHI:
Le nationalisme des “Loups Gris”
Rapport d’un entretien avec Ihsan Barutçu, chef du MHP d’Istanbul
Quand on les voit de près, les “Loups” ne font pas peur. Le MHP (Milliyetçi Hareket Partisi), soit le “Parti du Mouvement National”, lors des législatives de 2007, avait obtenu 14% des voix et 71 sièges au parlement unicaméral turc, qui en compremd un total de 550. Nous avons donc affaire au troisième parti du pays, après l’AKP philo-islamiste, actuellement aux affaires, et le CHP social-démocrate, une organisation politique née plus ou moins en même temps que la république, au début des années 20.
Créé à la fin des années 60 par Alparslan Türkes, le MHP a suscité un intérêt croissant auprès des électeurs turcs depuis ces dernières décennies, à l’exception d’une brève stagnation en 2002. Le sommet fut atteint en 1999 avec son actuel leader Devlet Bahçeli, avec 18% des voix et 129 sièges. Ce parti ne relève donc pas du folklore mais constitue une réalité politique et sociale qui n’a rien de marginal comme on pourrait le croire. Malheureusement, son site officiel (www.mhp.org.tr) ne présente aucun texte en une autre langue que le turc. Ceux qui veulent glaner plus d’information sur ce mouvement doivent se rabattre sur Wikipedia ou sur des blogs qui, généralement, donnent de ce parti une description apocalyptique.
Nous, journalistes italiens du quotidien “Rinascita” (Rome), sommes toujours d’emblée sceptiques face aux étiquettes de tous genres et allergiques aux lieux communs; par conséquent, nous sommes allés trouver les hommes du MHP, qui furent, de leur côté, bien contents de susciter l’intérêt d’une fraction de la presse italienne. Nous avons été reçus avec tous les honneurs au bureau d’Istanbul pour avoir un long entretien avec le leader local, Ihsan Barutçu.
Nous n’avons attendu que quelques minutes dans l’antichambre: laps de temps pendant lequel, un fonctionnaire du parti a tenu à faire une précision. Cet homme était évidemment conscient du manque d’informations dont nous disposions sur son parti: il a tenu dès lors à souligner que les Européens avaient l’habitude de faire l’équation entre le nationalisme et le racisme. Il nous a alors donné deux exemples de leaders, que nous apprécions aussi: Hugo Chavez et Evo Morales, chez qui l’idée nationaliste n’a rien à voir avec le racisme mais s’exprime sous la forme d’un socialisme national qui, ajoutons-nous, a eu des effets bénéfiques sur leurs pays, le Venezuela et la Bolivie. Après cette précision, il nous a assuré que son parti n’avait pas de base ethnique mais était ouvert à tous les citoyens de Turquie, Kurdes compris.
Dès que nous nous sommes trouvés face à face avec Ihsan Barutçu, en présence de ses collaborateurs Aydin Çetiner et Mert Toker, qui jouait le rôle d’interprète, notre première question fut spontanée: “Qu’est-ce que le MHP?”. La réponse fut concise: “Notre parti représente la tradition et l’avenir du pays”.
Justement, à props d’avenir, nous étions forcément intéressés de savoir comment ils voyaient le futur de la Turquie dans la perspective d’une adhésion à l’UE. Les membres du MHP sont convaincus que Bruxelles applique, à l’endroit d’Ankara, une politique de deux poids deux mesures, qui est somme toute une attitude dépourvue de clarté. Quant aux militants du MHP, ils demeurent intéressés à entrer dans l’Europe: l’adhésion est un pas qu’ils sont prêts à franchir mais uniquement s’ils peuvent conserver intactes leurs propres traditions, leur culture, leur unité et leur indépendance... Ce qui signifie, ajoutons-nous, adhérer à l’UE sans que Bruxelles ne leur impose trop de conditions? Exactement, nous répondent-ils. Même si l’adhésion est un objectif convoité par les Turcs, les “Loups gris” admettent qu’ils restent perplexes devant l’UE et émettent des doutes sur le mode d’économie qu’elle pratique: ils nous donnent les exemples emblématiques de la Grèce et du Portugal. L’assemblée européenne a toutes les allures d’un club de nations chrétiennes, alors que les Turcs sont musulmans et tiennent à le souligner, ce qui implique bien entendu qu’ils ont des traditions et des valeurs propres.
Dans ce cas, cherchons-nous à comprendre, pourquoi cette UE apparait-elle si importante aux yeux des Turcs? Ne vaudrait-il pas mieux qu’ils concentrent leurs efforts pour adhérer à une éventuelle union des pays turcophones? De fait, beaucoup, entre l’Anatolie et l’Asie centrale, ont entendu parler de cette hypothèse. La Turquie, nous disent nos interlocuteurs du MHP, est située entre l’Orient et l’Occident: elle doit donc regarder dans les deux directions.
Nous confrontons alors nos interlocuteurs du MHP au parcours d’obstacles qui les sépare du but, à commencer par deux cas difficiles: 1) la reconnaissance de ce que nous appelons en Europe le génocide arménien et 2) la question de Chypre et de la République turque du nord de l’île, que les Européens considèrent comme une zone occupée militairement et non pas comme une entité étatique normale. A la première question, nos interlocuteurs nous répondent comme le font généralement tous les Turcs, sans distinction d’obédience politique: “nous ne sommes pas responsables des événements survenus au cours de la première guerre mondiale et, dans tous les cas de figure, il n’y a pas eu de génocide”.
Que nous proposent-ils dès lors pour nous faire accepter leurs arguments? Ils nous expliquent qu’en Turquie vivent de nombreux Arméniens, dont beaucoup d’étudiants, et certains d’entre eux sont même candidats aux élections sur les listes du MHP. Ces Arméniens-là rejettent la théorie du génocide. Quoi qu’il en soit, il faut, disent-ils, qu’une commission d’historiens fasse les recherches adéquates et trouvent une solution. Ce n’est pas une tâche qui doit être dévolue aux membres du parlement. Pour le MHP, la question arménienne relève de mobiles politiques et ne se base pas sur des faits historiques.
Sur Chypre également, la position du parti est celle que partage en général la plupart des Turcs: dans l’île vivent deux sociétés différentes, l’une est turque et l’autre est grecque; les uns comme les autres ont des droits égaux. L’UE ne peut affirmer que Chypre appartient aux seuls Grecs. Le MHP attend des Européens une politiques plus objective. Ils considèrent que l’intervention militaire turque de 1974 relève d’une mission légitime de pacification.
Et le nucléaire iranien? Qu’en dit le MHP? La réponse est simple: si Téhéran a des visées belliqueuses, le parti s’oppose au nucléaire iranien car il est par définition hostile aux armes atomiques. Il suffit de se rappeler les tragédies d’Hiroshima et de Nagasaki. Si, en revanche, les Iraniens souhaitent utiliser l’atome à des fins civiles, le MHP ne formule aucune critique. Tous les pays ont le droit de développer l’énergie nucléaire comme ils l’entendent.
Pour terminer l’entretien, nous demandons quelques explications sur ce qu’entendent les militants du MHP par “pantouranisme”. Nos interlocuteurs demeurent laconiques. C’est une longue histoire qui a ses origines dans la mythologie antique. Le thème du pantouranisme fera l’objet d’un futur débat à bâtons rompus.
Pietro FIOCCHI.
(article paru dans “Rinascita”, Rome, 15 juin 2010).
(Site de “Rinascita”: http://www.rinascita.eu ).
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Bernhard TOMASCHITZ:
La Turquie tourne le dos à l’Occident
L’amitié étroite entre la Turquie et Israël est un fait politique qui relève désormais du passé. Ankara envisage des sanctions contre l’Etat sioniste à la suite de l’attaque israélienne contre la flotille de la paix qui faisait route vers Gaza. Si Israël refuse de satisfaire à l’exigence turque de mettre en oeuvre une commission d’enquête internationale, le gouvernement turc songe à réduire voire à rompre les relations diplomatiques et les coopérations économiques et militaires. De même, la résistance turque au sein du Conseil de sécurité de l’ONU contre tout raffermissement des sanctions contre l’Iran a conduit à un refroidissement considérable du climat entre Ankara, d’une part, Jérusalem et Washington, d’autre part. Président de la commission de politique étrangère du Parlement turc, Murat Mercan explique ce soutien apporté à Téhéran: “La Turquie a des liens historiques, culturels et religieux d’une grande profondeur temporelle avec l’Iran. En d’autres mots: les Iraniens sont non seulement nos voisins mais aussi nos amis et nos frères”.
A Washington, la nouvelle orientation de la Turquie vers la Syrie et vers l’Iran (deux “Etats voyous selon les Etats-Unis) suscite une vigilance toute particulière. Car, en fin de compte, la Turquie est un allié particulièrement important des Etats-Unis pour assurer la pacification de l’Irak. Parce que le gouvernement turc a décidé de ne pas participer aux sanctions, Robert Gates, le ministre américain des affaires étrangères, s’est déclaré “déçu”. Gates avait toutefois une explication toute faite: c’est l’UE qui est responsable de cet état de choses, vu le gel des négociations entre l’Europe et la Turquie en vue de l’adhésion de ce pays à l’Union. Les Etats-Unis mettent une fois de plus la pression sur l’Union européenne pour qu’elle accepte le plus rapidement possible la Turquie en son sein. Et cette pression ira croissant pour autant qu’Ankara n’exagère pas dans son soutien à Téhéran. Au Congrès américain, nous entendons désormais des voix qui réclament une attitude de plus grande fermeté à l’encontre d’Ankara: “Il y aura un prix à payer si la Turquie maintient son attitude actuelle et se rapproche davantage de l’Iran, tout en se montrant hostile à Israël”, a menacé le Républicain Mike Pence. Quant à la Démocrate Shelley Berkley, elle s’est adressé aux Turcs en ces termes: “Ils ne méritent pas de devenir membres de l’UE, tant qu’ils ne commencent pas à se comporter comme les peuples européens et tant qu’ils ne cessent pas d’imiter l’Iran”.
Désormais, la Turquie tourne donc ses regards vers le Proche Orient. Mais l’adoption de cette politique n’est pas vraiment une surprise. De fait, le premier ministre turc Recep Tayyip Erdogan et son parti gouvernemental, l’AKP de tendance islamiste, se sentent plus proches du monde musulman que des Etats-Unis ou de l’Europe. A ce sentiment d’affinité s’ajoute le concept de “profondeur stratégique”, élaboré dès 2001 par l’actuel ministre turc des affaires étrangères, Ahmed Davutoglu. Selon ce concept, la Turquie doit retrouver sa propre “identité historique et géographique”, démarche où l’Empire ottoman constitue la principale référence. Davutoglu considère son pays, la Turquie, comme un “Etat clef”, situé sur le point de rencontre de l’Europe, de l’Asie et de l’Afrique car, en effet, la Turquie est tout à la fois partie des Balkans, du Caucase, de l’espace pontique (Mer Noire), du Proche Orient et de l’espace maritime du bassin oriental de la Méditerranée, ce qui implique, ipso facto, qu’elle doit s’efforcer d’entretenir un “rapport équilibré avec tous les acteurs globaux et régionaux”.
Cette notion de “rapport équilibré” est très visible dans les relations qu’entretient aujourd’hui la Turquie avec la Syrie. Ces relations se sont remarquablement détendues, depuis que la Turquie essaye de jouer un rôle médiateur dans le conflit israélo-syrien. Avant ce travail de médiation, on évoquait fort souvent une possible “guerre pour l’eau” entre les deux pays redevenus amis, parce que la Turquie contrôlait le cours supérieur de l’Euphrate.
Quant à la “profondeur stratégique”, elle constitue le pendant en politique étrangère de l’islamisation de la Turquie en politique intérieure. La notion de “profondeur stratégique” et l’islamisation constituent deux modes de rupture avec le kémalisme, idéologie déterminante de la Turquie depuis la fondation de la République en 1923. Heinz Kramer, politologue oeuvrant à la “Stiftung Wissenschaft und Politik” de Berlin (“Fondation Science et Politique”), évoque, dans l’une de ses études, la rupture fondamentale que cette idée de “profondeur stratégique” apporte dans la praxis turque en politique étrangère: “La domination mentale exercée jusqu’ici par l’exclusivité de l’orientation pro-occidentale, considérée comme l’un des piliers de l’identité républicaine en gestation, se trouve relativisée. La Turquie, dans cette perspective, ne se perçoit plus comme un Etat en marge du système européen mais comme le centre d’une ‘région spécifique’, pour l’ordre de laquelle Ankara doit assumer une responsabilité ou une co-responsabilité politique”.
Conséquence de cette nouvelle vision en politique étrangère et de cette nouvelle conscience politique: la Turquie essaye de se positionner comme un acteur plus déterminant qu’un simple pays assurant le transport d’énergie. En juillet 2009, la Turquie a signé l’accord sanctionnant la construction du gazoduc Nabucco qui devra acheminer le gaz naturel de la région caspienne ou de l’Iran vers l’Europe centrale: cette signature est un véritable coup de maître politique. Morton Abramowitz et Henri J. Barkey, tous deux actifs pour les “boîtes à penser” américaines, écrivent à ce propos dans la très influente revue “Foreign Affairs”: “Le gazoduc Nabucco sera-t-il un jour construit? On demeure dans l’incertitude. Tant le coût de son installation que la question de savoir s’il y aura suffisamment de gaz naturel à disposition pour le remplir, sont des éléments qui restent à élucider (...). Mais le projet de gazoduc a d’ores et déjà augmenté l’influence de la Turquie aux yeux des pays de l’UE, animés par une perpétuelle fringale d’énergie”. Avec la clef énergétique, la Turquie pourrait bien s’ouvrir la porte de l’UE.
Bernhard TOMASCHITZ.
(article paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°25-26/2010; trad. franç.: Robert Steuckers).
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Une semaine avant le sommet du G20 au Canada, la Banque Centrale Chinoise (BCC) a annoncé qu’elle assouplirait voire relâcherait les liens qui unissent le Renminbi (le Yuan) au dollar américain. La Banque centrale chinoise exclut toutefois une réévalution hâtée ou unique. Le cours des changes serait ainsi “maintenu à un niveau raisonnable et équilibré, ce qui lui apportera une stabilité fondamentale”, a dit le porte-paroles de la BCC. Les fluctuations dans le cours des changes ne pourront s’effectuer que dans un “corridor” de 0,5% par jour. Le 21 juin, le cours du change était de 6,80 renminbi pour 1 dollar américain, ce qui est un record. La semaine précédente, le cours du change était de 6,82 renminbi. Jusqu’en 2005, la Chine avait maintenu le cours de manière constante à 8,28 renminbi pour 1$, en achetant des masses de billets verts. Ensuite, dans les années qui suivirent, la BCC avait autorisé une réévaluation continuelle de la monnaie chinoise. En 2008, elle avait gelé le change à cause de la crise financière mondiale à environ 6,83 renminbi.
(source: “Junge Freiheit”, Berlin, n°26/2010).
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di Daniele Scalea
Fonte: eurasia [scheda fonte]
Quella che segue è la trascrizione dell’intervento di Daniele Scalea, redattore di “Eurasia” e autore de La sfida totale (Fuoco, Roma 2010), al convegno “L’Iran e la stabilità del Medio Oriente”, tenutosi a Trieste giovedì 3 giugno 2010 presso l’Hotel Letterario Victoria e co-organizzato dall’Associazione Culturale “Strade d’Europa” e da “Eurasia – Rivista di studi geopolitici”.
Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it
Le immagini sono le stesse che, proiettate nella sala, hanno accompagnato l’intervento originale.
Quest’intervento è composto da due parti distinte. La prima, e principale, sarà un inquadramento generale dell’Iràn nel contesto geopolitico globale e in particolare eurasiatico. La seconda affronterà invece il problema delle ultime e contestate elezioni presidenziali nella Repubblica Islamica.
Cominciamo dalla prima parte e, dunque, dalla collocazione geopolitica dell’Iràn.
Questa mappa, ripresa da un volume del geografo britannico Halford John Mackinder, mostra come i geopolitici classici, in particolare quelli anglosassoni, vedessero il mondo. La geopolitica classica centra la propria attenzione sul continente eurasiatico: infatti, in Eurasia si trovano la maggior parte delle terre emerse, della popolazione umana, delle risorse; e sempre in Eurasia sono sorte le principali civiltà della storia.
Il mondo è diviso in tre fasce, che dipartono concentriche proprio dal centro dell’Eurasia. Qui si trova la “area perno” (Pivot area) o “terra-cuore” (Heartland), la cui caratteristica è di essere impermeabile alla potenza marittima. Non ha infatti sbocchi sul mare (se si eccettua l’Artico, che non garantisce però collegamenti col resto del mondo), né vi è collegata neppure per via fluviale, in quanto i principali corsi d’acqua della regione sfociano nell’Artico o in mari chiusi. Nella Terra-cuore, pertanto, la potenza continentale non è contrastata da quella marittima.
La Terra-cuore è avviluppata da una seconda fascia, la “mezzaluna interna” (Inner Crescent), che percorre tutto il margine continentale eurasiatico dall’Europa Occidentale alla Cina, passando per Vicino e Medio Oriente e Asia Meridionale: per tale ragione è detta anche “terra-margine” (Rimland). Qui la potenza continentale e quella marittima tendono a controbilanciarsi l’un l’altra.
Infine, al di fuori dell’Eurasia, si staglia la terza ed ultima fascia, la “mezzaluna esterna” (Outer Crescent), che comprende le Americhe, l’Africa, l’Oceania e pure Gran Bretagna e Giappone. Essa è la sede naturale della potenza marittima, dove quella continentale non può minacciarla.
Secondo Mackinder, che scriveva all’inizio del Novecento, l’avvento della ferrovia avrebbe neutralizzato la superiore mobilità del trasporto marittimo, riequilibrando la situazione a favore della potenza tellurica (continentale, terrestre). John Spykman, mezzo secolo più tardi, ridimensionò il peso delle strade ferrate, sostenendo che la potenza talassica (marittima) manteneva il proprio vantaggio: la Terra-cuore è sì imprendibile per la talassocrazia (l’egemone sui mari), ma non può minacciare quest’ultima senza prima occupare la Terra-margine. Compito della talassocrazia – che in quegli anni, proprio come oggi, erano gli USA – è precludere il Rimland alla potenza continentale (allora l’URSS).
La strategia del contenimento, durante la Guerra Fredda, s’accorda con la visione del mondo della geopolitica classica. Contro un avversario che occupava l’Heartland (il riferimento è ovviamente all’URSS), gli USA talassocratici hanno messo in funzione un dispositivo che mantenesse sotto controllo il Rimland, impedendo a Mosca di raggiungere le coste continentali e proiettarsi sui mari. In tale dispositivo rientrano la NATO in Europa Occidentale, la CENTO nel Vicino e Medio Oriente, la SEATO in Asia Sudorientale e l’alleanza con Corea del Sud e Giappone (e in un secondo momento anche con la Cina) in Estremo Oriente.
Della CENTO, o Patto di Baghdad, faceva parte anche l’Iràn, oltre a Turchia, Iràq, Pakistan e Gran Bretagna (in qualità di ex padrone coloniale). Dalla cartina è facile individuare nella CENTO un anello della catena di contenimento che corre lungo tutto il Rimland.
Questa cartina mostra, semplificando un po’ la situazione, quelli che erano gli schieramenti nei primi decenni della contrapposizione bipolare in Vicino Oriente. Se Egitto, Siria e Iràq si erano avvicinati all’URSS, nella regione gli USA poggiavano sulla triade di potenze non arabe: Israele, Turchia e Iràn.
La Rivoluzione Islamica del 1979 pone fine all’alleanza tra Iràn e USA, pur senza portare Tehrān nel campo sovietico. Ciò rafforza il peso dei due perni superstiti, Turchia e Israele, ed anche il maggiore appoggio che Washington garantisce ai due paesi, ed in particolare a Tel Aviv. Dal canto loro tutti i paesi arabi, ad eccezione di Siria, Iràq e Yemen del Sud, seguendo il voltafaccia egiziano prendono più o meno tiepidamente posizione per gli Stati Uniti d’America, disperando della possibilità che l’appoggio sovietico possa apportare loro grossi benefici. Preferiscono puntare sull’avvicinamento a Washington, sperando che ciò possa spezzare la “relazione speciale” tra la Casa Bianca e Tel Aviv, e quindi ricevere una più equa mediazione nei confronti dello Stato ebraico. Speranza che rimarrà delusa.
Quest’immagine, ripresa da The Grand Chessboard di Zbigniew Brzezinski, mostra la visione del continente eurasiatico da parte degli eredi della geopolitica classica nordamericana. La Federazione Russa continua a mantenere una posizione centrale, pur ristretta rispetto all’epoca sovietica, mentre la Terra-margine è divisa in tre settori. Per ognuno di essi Brzezinski suggerisce una politica regionale a Washington.
A Occidente – ossia in Europa – si trova quella che Brzezinski definisce “la testa di ponte democratica”, ossia il pied-à-terre della talassocrazia nordamericana in Eurasia. L’integrazione europea pone una sfida agli USA: se dovesse fallire restituendo un’Europa frammentata e litigiosa, o se al contrario dovesse avere grosso successo creando un’Unione Europea monolitica e strategicamente autonoma, in entrambi i casi la presenza statunitense nella regione sarebbe messa in discussione. La soluzione prospettata da Brzezinski è quella di mettersi a capo dell’integrazione europea e dirigerla in modo che non leda gl’interessi nordamericani: esattamente quanto successo, con l’espansione della NATO a precedere ed indirizzare quella dell’UE, che ha demandato la propria sicurezza e guida strategica al capoalleanza d’oltreoceano.
A Oriente gli USA hanno ulteriori basi avanzate, in Giappone e Corea, che debbono mantenere ad ogni costo. Ma Brzezinski, memore di una delle mosse che ha deciso la Guerra Fredda, consiglia pure di coltivare i rapporti con la Cina, che potrebbe diventare per gli USA una seconda testa di ponte in Eurasia, pendant dell’Europa a oriente.
Infine c’è il Meridione, corrispondente al Vicino e Medio Oriente, dal Mediterraneo all’India.
In quest’area, Brzezinski ritiene che gli alleati naturali, anche se sovente involontari, della geostrategia statunitense siano Turchia e Iràn. Coi loro intenti panturanici la prima e panislamici la seconda, si proiettano nel Caucaso e nell’Asia Centrale controbilanciando l’influenza russa e frustrandone il tentativo di riconquistare quelle regioni alla propria area d’influenza. Questi “interessi competitivi” tra Turchia, Iràn e Russia, individuati da Brzezinski, corrispondono più alla situazione degli anni ’90 che a quella del decennio appena trascorso, in cui i tre paesi hanno privilegiato la soluzione “cooperativa” su quella “competitiva”.
Spostiamoci ora dal quadro propriamente geostrategico a quello energetico. La cartina schematizza la situazione dell’energia in Eurasia, individuando quattro regioni importatrici (Europa, Asia Orientale, Asia Meridionale e Asia Sudorientale) e quattro regioni esportatrici (Russia, Asia Centrale, Iràn, Vicino Oriente). Le quattro regioni produttrici potrebbero sostanzialmente ridursi a due: l’Asia Centrale non ha sbocchi sul mare, dipende dai paesi circostanti per lo smercio delle sue risorse, ed in particolare dalla Federazione Russa in ragione della rete d’oleodotti e gasdotti retaggio d’epoca sovietica; l’Iràn invece esporta molto meno del suo potenziale, come vedremo tra poco. Rimangono dunque la Russia e il Vicino Oriente, ma quest’ultimo è diviso in una pluralità di nazioni, spesso politicamente, economicamente e socialmente fragili. Ecco perché la Russia può essere individuata come la maggiore potenza energetica del continente eurasiatico (e del mondo).
Quest’immagine mostra come la rete delle condotte energetiche esistenti faccia perno sul territorio della Federazione Russa. In particolare, l’Asia Centrale dipende quasi totalmente da Mosca per l’esportazione dei propri idrocarburi verso l’Europa.
Gli USA hanno cercato d’inserirsi nella connessione Asia Centrale-Russia-Europa. Essa, infatti, crea un rapporto di interdipendenza tra i tre soggetti. In particolare, Mosca ne riceve importanti leve strategiche nei confronti dei paesi europei e centroasiatici. Il piano di Washington consiste nel creare nuove rotte energetiche dall’Asia Centrale all’Europa che scavalchino la Russia. Il primo importante progetto in tale direzione è stato l’oleodotto Bakù-Tblisi-Ceyhan. Aperto nel 2006, ha avuto un effetto meno dirompente di quanto s’attendessero gli Statunitensi: esso ha infatti raccolto il petrolio azero, ma solo in maniera marginale quello dei paesi centroasiatici.
Negli ultimi anni il gas naturale ha acquisito un’importanza crescente nel paniere energetico, e per questo i progetti più recenti si sono concentrati proprio sul trasporto del “oro blu”. Gli USA hanno rilanciato con l’ambizioso progetto del Nabucco che, partendo dalla Turchia, dovrebbe giungere fino in Austria, rappresentando un canale alternativo al transito sul territorio russo. Mosca non è però rimasta a guardare: i Russi hanno già avviato la costruzione del Nord Stream e si preparano a lanciare quella del South Stream; i due gasdotti, passando rispettivamente sotto il Baltico e il Mar Nero, scavalcheranno l’Europa Orientale (che ha creato diversi problemi al transito di gas russo) ed accresceranno sensibilmente il volume delle forniture russe all’Europa Occidentale.
Il Nabucco ha un grave punto debole: l’incertezza riguardo i bacini d’approvvigionamento da cui dovrebbe trarre il gas per l’Europa. A parte il gas azero, è probabile che lo riceverà dall’Egitto e dall’Iràq. Tuttavia, ciò potrebbe essere insufficiente rispetto alle ambizioni per cui verrà creato. Inoltre, il suo palese scopo geopolitico è sottrarre gas centroasiatico, ed in particolare turkmeno, al transito per la Russia. Ma il gas turkmeno ha sole due vie per poter arrivare a Erzurum: un ipotetico gasdotto transcaspico (cui s’oppongono due nazioni rivierasche – Russia e Iràn – e sulla cui possibilità di realizzazione tecnica permangono numerosi dubbi), oppure un transito sul territorio iraniano.
Ma il ruolo dell’Iràn rispetto al Nabucco potrebbe non essere soltanto quello d’un semplice canale di transito del gas turkmeno. Il paese persiano è già un grande esportatore di petrolio, ma potenzialità ancora maggiori le mostra rispetto al gas naturale, avendo riserve provate che sono le seconde più vaste al mondo. E sebbene sia il quinto maggiore produttore mondiale di gas, l’Iràn è a malapena il ventinovesimo esportatore. Ciò perché gran parte del gas prodotto viene consumato all’interno. Questa è una delle principali motivazioni del programma nucleare iraniano: soddisfare il fabbisogno energetico interno col nucleare, e liberare ingenti quantità di gas per l’esportazione. Esportazione che potrebbe passare proprio per il Nabucco, se si verificasse una distensione col Patto Atlantico.
Anche per scongiurare quest’eventualità, la Russia si è prodigata a sponsorizzare il progettato gasdotto Iràn-Pakistan-India. Rivolgendo verso oriente il gas iraniano, Mosca s’assicura di rimanere la principale ed imprescindibile fornitrice energetica dell’Europa. Tehrān e Islamabad hanno già avviato la costruzione dei rispettivi tratti, mentre Nuova Dehli, complici anche le pressioni di Washington, è ancora titubante. I Pakistani hanno offerto ai Cinesi di prendere il posto degl’Indiani; per ora Pechino non ha né accettato né rifiutato.
In questa fase il Vicino Oriente sembra stia vivendo una nuova polarizzazione. Rispetto a quella della Guerra Fredda, il ruolo degli attori strategici esterni è inferiore rispetto a quello dei paesi locali, ma non per questo trascurabile. L’ascesa dell’Iràn intimorisce molti paesi arabi, in particolare quelli del Golfo, che assieme a Giordania e Egitto hanno ormai concluso un’alleanza “inconfessata” con Israele, ovviamente benedetta dagli USA. L’Iràn, oltre all’alleato siriano e ad un paio di paesi in bilico (Iràq e Libano) sembra poter contare anche sulla Turchia: un paese che possiede proprie ambizioni di egemonia regionale, ma in questa fase ha scelto la cooperazione con l’Iràn. Questo secondo blocco coltiva buoni rapporti con la Russia e la Cina.
Passiamo quindi alla seconda parte di quest’esposizione, che concerne le elezioni presidenziali iraniane del 2009. In particolare, si cercherà di capire se davvero esse siano state viziate da brogli decisivi, ovvero se la vittoria di Ahmadinejad possa considerarsi sostanzialmente genuina. Ci si appoggerà alle risultanze d’una mia ricerca più particolareggiata, di cui riporterò solo alcuni dati più significativi tralasciando i calcoli intermedi ed altre argomentazioni accessorie – che si potranno comunque leggere consultando la ricerca stessa, che sarà citata in conclusione.
Questi sono i contestati risultati ufficiali delle elezioni. La prima cosa che balza all’occhio sono gli oltre 11 milioni di voti di scarto tra Ahmadinejad ed il secondo classificato, Musavì. In un paese in cui ogni seggio vede presenta osservatori indipendenti e dei vari candidati (compresi quelli sconfitti: in particolare, Musavì aveva più osservatori di Ahmadinejad) appare estremamente improbabile se non impossibile pensare ad una manomissione tanto massiccia delle schede già nei seggi. Non a caso, gli stessi oppositori di Ahmadinejad che hanno denunciato i presunti brogli propendono sempre per la tesi che i risultati siano stati semplicemente riscritti a tavolino dalle autorità. Anche se il riconteggio parziale delle schede in alcune delle circoscrizioni dai risultati più controversi ha confermato le risultanze iniziali, l’ipotesi dei brogli ha mantenuto ampio credito in tutto il mondo.
Eppure i risultati delle elezioni erano in linea con quanto predetto dalla maggior parte degli osservatori e dei sondaggi. Pur non fidandosi dei sondaggi d’opinione iraniani, ce n’è uno, molto significativo, che è stato realizzato con tutti i crismi di scientificità da tre importanti organizzazioni statunitensi: il centro Terror Free Tomorrow (non sospettabile d’essere benevolo verso Ahmadinejad, avendo tra i suoi consiglieri anche il senatore John McCain), il prestigioso istituto New America Foundation e la ditta di ricerche di mercato KA, tra i leaders mondiali del settore. Questo sondaggio, pur registrando un alto numero d’indecisi, mostrava una propensione di voto verso Ahmadinejad relativamente più alta, rispetto aMusavì, di quella effettivamente registratasi alle elezioni.
C’è un altro dato molto significativo. Se si sostituisse Musavì del 2009 col candidato Rafsanjani che nel 2005 sfidò Ahmadinejad al ballottaggio, si scoprirebbe che i risultati delle ultime due elezioni presidenziali in Iràn sono quasi coincidenti. Si tenga presente che nel 2005 in Iràn governava Khatamì, che alle ultime elezioni ha sostenuto Musavì, proprio come Rafsanjani.
Secondo taluni commentatori, una “prova” di brogli sistematici alle elezioni del 2009 sarebbe l’eccessiva uniformità di voto da provincia a provincia. L’evidenza aritmetica, tuttavia, mostra che il voto del 2009 è stato più difforme localmente rispetto a quello del 2005 (che, ricordiamo, si è svolto sotto un governo “riformista”, retto dagli attuali avversari politici di Ahmadinejad).
La difformità locale del voto in Iràn nel 2009 è nettamente superiore a quella registratasi, ad esempio, alle elezioni italiane del 2008 – che però non per questo sono state tacciate d’invalidità.
Alì Ansari, ricercatore della londinese Chatham House, ha individuato 10 province (su un totale di 30) in cui i voti ottenuti da Ahmadinejad sarebbero improbabili rispetto ai risultati del 2005. Ansari, al pari di molti sostenitori della tesi dei brogli, adotta sempre come metro di confronto il primo turno del 2005. Ciò è scorretto, poiché il quadro politico era completamente differente. Innanzitutto, nel 2005 non c’era un presidente uscente candidato – che invece nel 2009 era proprio Ahmadinejad – e perciò la contesa appariva più plurale: nel 2005 ben cinque candidati superarono il 10% dei voti al primo turno. La situazione registratasi nel 2009, con soli 4 candidati e la netta polarizzazione di voti sui due principali, richiama palesemente il secondo turno e non il primo del 2005. Rifacendo i calcoli di Ansari basandosi appunto su un raffronto col ballottaggio del 2005, e riconoscendo a Ahmadinejad il 61,75% dei nuovi votanti (ossia la percentuale che ottenne nel 2005), si nota che in 2 delle 10 province Ahmadinejad è addirittura in calo. In altre 4 ha incrementi percentuali inferiori al 10%; solo in 4 i suoi voti sono aumentati di più del 10%, con un picco in Lorestan del 17,72%. Vanno qui fatte due precisazioni: i voti guadagnati in queste 4 province, anche volendo ammettere che siano tutti fraudolenti, ammontano a poco più di mezzo milione, a fronte d’uno scarto complessivo su Musavì d’oltre 11 milioni di voti. In secondo luogo, non è scontato che incrementi anche così significativi non possano essere genuini. Riprendendo il confronto col caso italiano, si può osservare che – ad esempio – i partiti del Centro-destra (compreso l’UDC, che nel frattempo aveva abbandonato la coalizione) nella circoscrizione “Campania 1” ebbero un incremento percentuale dei consensi pari a quasi il 10% in soli due anni (dal 2006 al 2008). I flussi elettorali esistono, e non sono necessariamente indice di brogli diffusi.
Queste sono le indicazioni per chi volesse approfondire i temi qui trattati, o conoscere le fonti delle affermazioni appena fatte.
Per un quadro generale della politica internazionale odierna e recente, si rimanda al libro, da poco edito per i tipi di Fuoco Edizioni, La sfida totale. Equilibri e strategie nel grande gioco delle potenze mondiali.
* Daniele Scalea, redattore di “Eurasia”, è autore de La sfida totale. Equilibri e strategie nel grande gioco delle potenze mondiali (Fuoco, Roma 2010).
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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1997
La lutte du Japon contre les impérialismes occidentaux
Intervention de Robert Steuckers, 5ième université d'été de la F.A.C.E. et de «Synergies Européennes», Varese, Lombardie, 1 août 1997
Les principales caractéristiques politiques du Japon avant son ouverture forcée en 1853 étaient:
1. Un isolement complet
2. Un gouvernement assuré par le Shôgun, c'est-à-dire un pouvoir militaire.
3. La fonction impériale du Tennô est purement religieuse.
4. La société est divisée en trois castes:
- les Daimyos, seigneurs féodaux.
- les Samouraïs, fonctionnaires et vassaux.
- les Hinin, le peuple.
Sous le Shôgun YOSHIMUNE (1716-1745), le pouvoir impose:
- des taxes sur les biens de luxe afin d'"ascétiser" les daimyos et les samouraïs qui s'amollissaient dans l'hédonisme.
- une élévation des classes populaires.
- la diffusion de livres européens, à partir de 1720 (afin de connaître les techniques des Occidentaux).
Sous le Shôgun IEHARU (1760-1786), le Japon connaît une phase de déclin:
- la misère se généralise, les castes dirigeantes entrent en décadence (les tentatives de Yoshimune ont donc échoué).
- la misère générale entraîne le déclin du Shôgunat.
- on assiste alors à une réaction nationale, portée par le peuple, qui revalorise le shintoïsme et la figure du Tennô au détriment du Shôgun.
Avant l'ouverture, le Japon présente:
1. Une homogénéité territoriale:
- Trois îles + une quatrième en voie de colonisation, soit Kiou-Shou, Shikoku, Honshu + Hokkaïdo).
- Sakhaline et les Kouriles sont simplement perçues comme des atouts stratégiques, mais ne font pas partie du "sol sacré" japonais.
2. Une homogénéité linguistique.
3. Une certaine hétérogénéité religieuse:
- le Shinto est l'élément proprement japonais.
- le bouddhisme d'origine indienne a été ajouté à l'héritage national.
- le confucianisme d'origine chinoise est un corpus plus philosophique que religieux et il a été ajouté au syncrétisme bouddhisme/shintoïsme.
- la pratique du prosélytisme n'existe pas au Japon.
- la vie religieuse est caractérisée par une co-existence et un amalgame des cultes: il n'existe pas au Japon de clivages religieux antagonistes comme en Europe et en Inde.
- aucune religion au Japon n'aligne de zélotes.
4. Une homogénéité ethnique:
(la majeure partie de la population est japonaise, à l'exception des Aïnous minoritaires à Hokkaïdo, des Coréens ostracisés et d'une caste d'intouchables nommé "Eta").
Cette esquisse du Japon d'avant l'ouverture et ces quatre facteurs d'homogénéité ou d'hétérogénéité nous permettent de dégager trois leitmotive essentiels:
1. Contrairement à l'Occident chrétien ou même à l'Islam, le Japonais n'est pas religieux sur le mode de la disjonction (ou bien... ou bien...). Il ne dit pas: “je suis protestant ou catholique et non les deux à la fois”. Il est religieux sur le mode CUMULATIF (et... et...). Il dit: "Je suis ET bouddhiste ET shintoïste ET confucianiste ET parfois chrétien...). Le mode religieux du Japonais est le syncrétisme.
2. Le Japonais ne se perçoit pas comme un individu isolé mais comme une personne en relation avec autrui, avec ses ancêtres décédés et ses descendants à venir.
3. Pour le Japonais, la Nature est toute compénétrée d'esprits, sa conception est animiste à l'extrême, au point que les poissonniers, par exemple, érigent des stèles en l'honneur des poissons dont ils font commerce, afin de tranquiliser leur esprit errant. Les poissonniers japonais viennent régulièrement apporter des offrandes au pied de ces stèles érigées en l'honneur des poissons morts pour la consommation. A l'extrême, on a vu des Japonais ériger des stèles pour les lunettes qu'ils avaient cassées et dont ils avaient eu un bon usage. Ces Japonais apportent des offrandes en souvenir des bons services que leur avaient procurés leurs lunettes.
LE JAPON ET L'EUROPE:
Premiers contacts:
- Avec les Portugais (chargé d'explorer, de coloniser et d'évangéliser toutes les terres situées à l'Est d'un méridien fixé par le Traité de Tordesillas).
- Avec les Portugais s'installent les premières missions chrétiennes, composées de Franciscains, de Dominicains et de Jésuites.
- Le Shôgun IYEYASU est bouddhiste, membre de la secte Jodo, et s'oppose au christianisme parce que cette religion occidentale:
a) exclut les autres cultes et refuse leur juxtaposition pacifique;
b) génère des querelles incompréhensibles entre Franciscains et Dominicains espagnols d'une part et Jésuites portugais d'autre part;
c) parce que les Anglais et les Hollandais, qui harcèlent les deux puissances catholiques ibériques, promettent de ne pas s'ingérer dans les affaires religieuses du Japon, de ne pas installer de missions et donc de ne pas transposer les querelles de l'Occident au Japon.
- Après l'éviction des Portugais et des Espagnols catholiques, l'influence européenne la plus durable sera la hollandaise. Elle s'exercera surtout sur le plan intellectuel et scientifique, notamment en agriculture et en anatomie.
Le JAPON FACE AUX PUISSANCES LIBÉRALES (USA/GRANDE-BRETAGNE):
- Les Japonais se désintéressent des marchandises que leur proposent les Anglais.
- Pour gagner quand même de l'argent, les Anglais vendent de la drogue (opium).
- Ils obligent ensuite les Japonais à accepter des "traités inégaux", équivalent à un régime de "capitulations".
- Ils obligent les Japonais à accepter un statut d'EXTRA-TERRITORIALITÉ pour les résidents étrangers qui sont ainsi soustraits à toute juridiction japonaise (cette mesure a été prise à la suite de la décapitation de plénipotentiaires portugais de Macao, exécutés sans jugement et arbitrairement).
- Ils obligent les Japonais à renoncer à ériger tous droits de douane et à respecter de la façon la plus absolue le principe du "libre marché".
- Sans appareil politico-administratif issu d'un mercantilisme ou d'un protectionnisme bien étayés, les Japonais sont à la merci du capital étranger.
- Face à cette politique anglaise, qui sera appliquée également par les Etats-Unis à partir de 1853, les Japonais comprennent qu'ils doivent à tout prix éviter le sort de l'Inde, de la Chine et de l'Egypte (cette dernière était un Etat solidement établi au début du 19ième siècle, selon les principes de l'"Etat commercial fermé” de Fichte).
- Le Japon se rend compte qu'il doit adopter:
a) la technologie occidentale (armes à feu, artillerie, navires de guerre).
b) les méthodes d'organisation occidentales (il adoptera les méthodes prussiennes).
c) les techniques navales occidentales.
Pour ne pas être démuni face aux puissances européennes et aux Etats-Unis. Cette volonté de s'adapter aux technologies occidentales ouvrira l'Ere Meiji à partir de 1868.
Géopolitiquement, à partir de 1868, le Japon était coincé entre la Russie et les Etats-Unis. La Russie avançait ses pions en Sibérie orientale. Les Etats-Unis transformaient le Pacifique en lac américain.
LE JAPON FACE AUX ÉTATS-UNIS:
- Date clef: 1842. Cette année-là voit la fin de la première guerre de l'opium entre la Grande-Bretagne et la Chine. Londres impose aux Chinois le Traité de Nankin, où le Céleste Empire doit accepter la clause de la nation la plus favorisée à toutes les puissances occidentales. Sur le continent américain, les derniers soldats russes quittent leur colonie de Californie (Fort Ross).
- En 1844 est signé le Traité de Wanghia entre la Chine et les Etats-Unis. Ce Traité amorce la politique commerciale américaine en direction de l'immense marché potentiel qu'est la Chine. Jamais les Américains ne renonceront à conquérir ce marché.
- Dès le Traité de Wanghia, la volonté d'expansion des Etats-Unis dans le Pacifique prend forme.
- En 1845, cette longue marche en direction de l'hypothétique marché chinois commence sur le territoire américain lui-même, par la querelle de l'Oregon. Sur ce territoire sans souveraineté claire (ni britannique ni américaine), les Etats-Unis veulent imposer exclusivement leur souveraineté, car ils considèrent que cette région est un tremplin vers les immensités océaniques du Pacifique.
- Dans la presse de l'époque, les intentions géopolitiques des Etats-Unis s'expriment en toute clarté: «L'Oregon est la clef du Pacifique». Au Congrès, un Sénateur explique sans circonlocutions: «Avec l'Oregon, nous dominerons bientôt tout le commerce avec les îles du Pacifique-Sud et avec l'Asie orientale». Finalement, les Etats-Unis imposent leur volonté aux Britanniques (qui conservent néanmoins Vancouver, surnommé depuis une dizaine d'années, "Han-couver").
- En 1847, les Etats-Unis amorcent les premières négociations avec les Russes en vue d'acheter l'Alaska et les Aléoutiennes; ils envisagent ainsi de projeter leur puissance en direction de la Mer d'Okhotsk et du Japon (en 1867, vingt ans après le début des pourparlers, l'Alaska deviendra effectivement américain).
- En 1848, après une guerre avec le Mexique, les Etats-Unis annexent le Texas, le Nouveau-Mexique et la Californie. Ils possèdent désormais une façade pacifique.
- L'objectif est clairement esquissé: c'est la création d'un "nouvel empire" américain dans le Pacifique.
Le théoricien de cette expansion pacifique est William H. Seward. Ses théories se résument en huit points:
1. Cet empire sera commercial et non militaire.
2. Il devra compenser l'insuffisance du marché intérieur américain.
3. Il devra lancer et consolider l'industrie américaine.
4. Il devra être épaulé par un flotte de guerre importante.
5. Il devra être structuré par une chaîne de comptoirs, de points d'appui et de stations de charbon (pour les navires de commerce et de guerre).
6. Il ne devra pas être colonial au sens romain et européen du terme, mais se contenter d'une collection de “Hong-Kongs” américains.
7. Il devra viser le marché chinois et éviter toute partition de la Chine.
8. Il devra faire sauter les verrous japonais.
En 1853, avec l'expédition des canonnières du Commandant Perry, la marine américaine ouvre de force le Japon au commerce international. A partir de 1853, les Etats-Unis cherchent à contrôler îles et archipels du Pacifique.
Ce seront, tour à tour, Hawaï, Samoa (où ils s'opposeront aux Allemands et perdront la première manche) et les Philippines (qu'ils arracheront à l'Espagne à la suite de la guerre de 1898).
Avec l'acquisition des Philippines, les Etats-Unis entendent s'approprier le marché chinois, en chasser les puissances européennes et le Japon et y imposer à leur profit une économie des "portes ouvertes".
Le JAPON FACE À LA RUSSIE:
- Au 19ième siècle, la Russie s'étend en Eurasie septentrionale et en Asie Centrale. Elle vise à faire du fleuve Amour sa frontière avec la Chine, afin d'avoir pour elle le port de Vladivostok (gelé toutefois pendant quatre mois par an), puis d'étendre son protectorat à la Mandchourie et d'avancer ses pions en direction de la Mer Jaune, mer chaude, et d'utiliser Port Arthur pour avoir sa propre façade pacifique.
- La Russie encercle ainsi la Corée, convoitée par le Japon et coincée entre Vladivostok et Port Arthur.
- La Grande-Bretagne et les Etats-Unis veulent maintenir la Russie le plus loin possible de la Chine et du littoral pacifique.
- Pour contenir la Russie, la Grande-Bretagne conclut une alliance avec le Japon.
- L'appui de la haute finance new-yorkaise permet au Japon de bénéficier de crédits pour mettre sur pied une armée de terre et une marine de guerre.
- Au même moment, s'enclenche dans la presse libérale du monde entier une propagande contre le Tsar, "ennemi de l'humanité". Simultanément, émerge un terrorisme en Russie, qui agit comme cinquième colonne au profit des Britanniques, des financiers américains et des Japonais (qui servent de chair à canon).
- Le Japon frappe les Russes à Port Arthur par surprise, sans déclaration de guerre.
- La Russie doit envoyer sa flotte de la Baltique à la rescousse. Mais les Anglais ferment Suez et refusent de livrer eau potable et charbon aux navires russes.
- La Russie est battue et doit composer.
- Les Etats-Unis, qui avaient cependant soutenu le Japon, font volte-face, craignant la nouvelle puissance nippone en Mandchourie, en Corée et en Chine.
- Sous la pression américaine, les Japonais sont contraints de renoncer à toutes réparations russes, alors qu'ils comptaient sur celles-ci pour rembourser leurs emprunts new-yorkais.
- Les intrigues américaines font du Japon un pays endetté, donc affaibli, et, croit-on, plus malléable.
- Dès 1907, on assiste à un rapprochement entre Russes et Japonais.
- En 1910, les Japonais s'emparent définitivement de la Corée, sans pour autant inquiéter les Russes.
- De 1914 à 1918, les Japonais s'emparent des établissements et colonies du Reich dans le Pacifique et en Chine.
- Les Japonais interviennent dans la guerre civile russe en Sibérie:
a) ils appuient les troupes de l'Amiral Koltchak qui se battent le long du Transsibérien et dans la région du Lac BaÏkal au nord de la Mongolie.
b) ils appuient la cavalerie asiatique du Baron Ungern-Sternberg en Mongolie.
c) ils tentent de pénétrer en Asie centrale, via le Transsibérien, la Mandchourie et la Mongolie.
LE RETOURNEMENT AMERICAIN ET LA « CONFERENCE DE WASHINGTON »
- Les Etats-Unis s'opposent à cette pénétration japonaise et appuient en sous-main les Soviétiques en:
a) décrétant l'embargo sur les exportations de coton vers les Japon;
b) interdisant l'importation de soies japonaises aux Etats-Unis;
c) provoquant ainsi un chomâge de masse au Japon, lequel est dès lors incapable de financer ses projets géopolitiques et géoéconomiques en Asie septentrionale (Mandchourie et Mongolie).
- En 1922, se tient la CONFÉRENCE DE WASHINGTON.
Les Américains y imposent au monde entier leur point de vue:
1. L'Angleterre est priée de retirer définitivement tout appui au Japon.
2. Les Japonais doivent se retirer de Sibérie (et abandonner Koltchak et Ungern-Sternberg).
3. Les Japonais doivent rendre à la Chine le port ex-allemand de Kiao-Tchau.
4. La Chine doit pratiquer une politique des "portes ouvertes" (en théorie, le Japon et les Etats-Unis sont à égalité dans la course).
5. Les Etats-Unis imposent un équilibrage ou une limitation des marines de guerre:
- Les Etats-Unis et la Grande-Bretagne peuvent aligner chacun 525.000 tonnes.
- Le Japon doit se contenter de 315.000 tonnes.
- L'Italie et la France se voient réduites à 175.000 tonnes chacune (Georges Valois, Charles Maurras et l'état-major de la marine française s'en insugeront, ce qui explique la germanophilie des marins français pendant la seconde guerre mondiale, de même que leur européisme actuel).
- La marine allemande est quasiment réduite à néant depuis Versailles et n'entre donc pas en ligne de compte à Washington en 1922.
- Le Japon est dès lors réduit au rôle d'une puissance régionale sans grand avenir et est condamné au "petit cabotage industriel".
- Les militaires japonais s'opposeront à cette politique et, dès 1931, une armée "putschiste", mais non sanctionnée pour avoir perpétré ce putsch, pénètre en Mandchourie, nomme Empereur du "Mandchoukuo, Pu-Yi, dernier héritier de la dynastie mandchoue et pénètre progressivement en Mongolie intérieure, ce qui lui assure un contrôle indirect de la Chine.
- Washington refuse le fait accompli imposé par les militaires japonais. C'est le début de la guerre diplomatique qui se muera en guerre effective dès 1941 (Pearl Harbour).
LE JAPON ET L'ALLEMAGNE:
C'est le facteur russe qui déterminera les rapports nippo-germaniques.
- L'Allemagne s'intéresse au Japon pour:
a) créer un front oriental contre la Russie qui se rapproche de la France.
b) créer une triplice Berlin-Pétersbourg-Tokyo.
- En 1898, au moment de la guerre hispano-américaine, le ministre japonais ITO HIROBUMI suggère une alliance eurasiatique entre l'Allemagne, la Russie et le Japon. C'est au Japon, en lisant les écrits du Prince Ito, que Haushofer a acquis cette idée de "bloc continental" et l'a introduite dans la pensée politique allemande.
- Mais en Allemagne on s'intéresse très peu au Japon et bien davantage à la Chine.
- Guillaume II est hanté par l'idée du "péril jaune" et veut une politique dure en Asie, à l'égard des peuples jaunes. Sa politique est de laisser faire les Russes.
- Par ailleurs, les diplomates allemands craignent que des relations trop étroites avec le Japon ne braquent la Russie et ne la range définitivement dans le camp français.
- L'Allemagne refuse de se joindre au Pacte nippo-britannique de 1902 contre la Russie et braque ainsi l'Angleterre (qui s'alliera avec la France et la Russie contre l'Allemagne en 1904: ce sera l'Entente).
- En 1905, la Russie, après sa défaite, quitte le théâtre extrême-oriental et jette son dévolu en Europe aux côtés de la France.
- L'Allemagne est présente en Micronésie mais sans autre atout: elle en sera chassée après la première guerre mondiale.
Les déboires et les maladresses de l'Allemagne sur le théâtre pacifique lui coûteront cher. Ce sera l'obsession du géopolitologue Haushofer.
Le DISCOURS DE LA POLITIQUE JAPONAISE:
Face à l'Europe et surtout aux Etats-Unis, à partir de la Conférence de Washington de 1922, quel discours alternatif le Japon va-t-il développer?
A. Les idéologies au Japon en général:
Pierre Lavelle, spécialiste français de la pensée japonaise distingue:
1. des formes idéologiques traditionnelles
2. des formes idéologiques néo-traditionnelles
3. des formes idéologiques modernes.
1. Les formes traditionnelles:
- Parmi les formes traditionnelles, le Shinto cherche à s'imposer comme idéologie officielle de la japonitude.
- Mais cette tentative se heurte au scepticisme des dirigeants japonais, car le Shinto éprouve des difficultés à penser le droit et la technique.
- Au cours des premières décennies de l'Ere Meiji, le bouddhisme perd du terrain mais revient ensuite sous des formes innovantes.
- Le confucianisme est revalorisé dans les milieux ultra-nationalistes et dans les milieux patronaux.
2. Les formes néo-traditionnelles:
- Leur objectif:
a) garder une identité nationale
b) cultiver une fierté nationale
c) faire face efficacement au monde extérieur avec les meilleures armes de l'Occident.
3. Les formes modernes:
- C'est d'abord la philosophie utilitariste anglo-saxonne qui s'impose au milieu du XIXième siècle.
- Après 1870, les orientations philosophiques japonaises s'inspirent de modèles allemands (ce qui perdurera).
- Vers 1895 disparaissent les dernières traces du complexe d'infériorité japonais.
- De 1900 à nos jours, la philosophie japonaise aborde les mêmes thématiques qu'en Europe et aux Etats-Unis.
- La dominante allemande est nette jusqu'en 1945.
- De 1955 à 1975 environ, le Japon connaît une période française. Michel Foucault est fort apprécié.
- Aujourd'hui, l'Allemagne reste très présente, ainsi que les philosophes anglo-saxons. Heidegger semble être le penseur le plus apprécié.
B. Le PANASIATISME (1):
L'idéal panasiatique repose sur deux idées maîtresses:
- Le Japon est puissance dominante qui a su rester elle-même et a assimilé les techniques de l'Occident.
- Le Japon est une puissance appelée à organiser l'Asie.
Dans cette optique, deux sociétés patriotiques émergent:
1) La Société du Détroit de Corée (Gen'yôsha).
2) La Société du Fleuve Amour (Kokuryûkai).
C. La “DOCTRINE D'ÉTAT”: POSITIONS ET FIGURES
Positions:
1. Centralité du Tennô/de la Maison Impériale.
2. Le Shintô d'Etat qui laisse la liberté des cultes mais impose un civisme à l'égard de l'Empereur et de la nation japonaise.
3. L'âme des sujets n'est pas distincte de l'Auguste Volonté du Tennô.
4. La vision sociale de Shibuwasa Eiichi (1841-1931):
a) subordonner le profit à la grandeur nationale;
b) subordonner la compétition à l'harmonie;
c) subordonner l'esprit marchand à l'idéalisme du samouraï.
Ce qui implique:
- des rapports non froidement contractuels;
- des relations de type familial dans l'entreprise.
5. L'idéal bismarckien d'un Etat social fort et protectionniste, s'inscrivant dans le sillage de l'école historique allemande.
6. Le développement d'un nationalisme étatique reposant, chez Inoue Testujiro (1856-1944):
a) sur une modernisation du confucianisme;
b) sur le panasiatisme;
c) sur le rejet du christianisme.
Et chez Takayama Chogyu (1871-1902) sur l'idée que le Japon est le champion des "Non-Aryens” dans la grande lutte finale entre les races qui adviendra.
7. Le développement concommittant d'un nationalisme populaire, dont les idées-forces sont:
a) le refus de l'étiquette occidentale dans les rituels d'Etat japonais.
b) la défense de l'essence nationale (kokusui).
c) la remise en cause de l'idée occidentale du progrès unilinéaire.
d) la nation est la médiation incontournable des contributions de l'individu à l'humanité.
Figures:
1. Miyake Setsurei (1868-1945):
- L'objectif du Japon doit être le suivant: il doit faire la synthèse de l'émotion chinoise, de la volonté indienne et de l'intelligence occidentale (la démarche, comme toujours au Japon, est une fois de plus CUMULATIVE).
- Le Japon doit être capable de bien faire la guerre.
- Le Japon doit éviter le piège du bureaucratisme.
- Le Japon doit adopter le suffrage universel, y compris celui des femmes.
2. Shiga Shigetaka (1863-1927):
- L'identité culturelle japonaise passe par une valorisation des paysages nationaux (Shiga Shigetaka est écologiste et géophilosophe avant la lettre).
- L'expansion dans le Pacifique doit se faire par le commerce plutôt que par les armes.
3. Okahura Tenshin (1862-1913)
- Le Japon doit prendre conscience de son asiatisme.
- Il doit opérer un retour aux valeurs asiatiques.
- Il doit s'inspirer de la démarche de l'Indien Rabindranath Tagore (1861-1941), champion de l'émancipation indienne et asiatique.
- Les valeurs asiatiques sont: le monisme, la paix, la maîtrise de soi, l'oubli de soi, une notion de la famille centrée sur la relation entre générations et non sur le couple.
4. Les nationalistes chrétiens:
Attention: les chrétiens japonais sont souvent ultra-nationalistes et anti-américains.
Pour les nationalistes chrétiens, les valeurs communes du christianisme et du Japon sont:
- la fidélité, l'ascèse, le sacrifice de soi, le dévouement au bien public, l'idée d'une origine divine de toute autorité.
Les chrétiens protestants:
a. Ebina Danjô (1856-1937):
- L'Ancien Testament doit être remplacé par la tradition japonaise.
- Le Tennô doit être adjoint à la Sainte-Trinité.
b. Uchimura Kanzô (1861-1930):
- L'Occident n'applique pas les principes chrétiens, c'est au Japon de les appliquer en les japonisant.
c. Les Catholiques:
En 1936, le Vatican s'en tire avec une pirouette: le Shintô n'est pas une religion, donc il est compatible avec le christianisme. Les Catholiques peuvent donc pratiquer les rites shintoïstes.
En conclusion, le christianisme japonais se présente comme un “christianisme de la Voie Impériale”.
Seuls les Quakers et les Témoins de Jéhovah ne s'y rallient pas.
D. L'ULTRA-NATIONALISME à partir des années 20:
Comme l'Alldeutscher Verband allemand ou la Navy League américaine, l'ultra-nationalisme japonais débute par la fondation d'une société: la SOCIÉTÉ DE LA PÉRENNITÉ (Yûzonsha).
Ses fondateurs sont: ÔKAWA SHÛMEI et KITA IKKI (1883-1937).
a. Kita Ikki:
- Kita Ikki plaide pour le socialisme et le culte de l'Etat.
- Il adhère à la "Société du Fleuve Amour".
- Il prône une solidarité avec la Chine, victime de l'Occident, dans une optique panasiatique.
- Il développe une vision "planiste" de la Grande Asie japonocentrée. Par "planisme", j'entends une vision tournée vers l'avenir, non passéiste, où la mission du Japon passe avant le culte du Tennô.
b. Ôkawa Shûmei (1886-1957):
- La pensée d'Ôkawa Shûmei est à dominante confucéenne.
- Il plaide pour une solidarité avec l'Islam.
c. Nakano Seigô (1886-1943):
- Il est le fondateur de la SOCIÉTÉ DE L'ORIENT (la Tôhôkai), qui sera active de 1933 à 1943.
- Il est le seul au Japon à se réclamer ouvertement du fascisme et du national-socialisme.
- Il plaide pour l'avènement d'un "socialisme national anti-bureaucratique".
- Dans sa défense et son illustrations des modèles totalitaires allemand et italien, il est seul car le Japon n'a jamais été, même pendant la guerre, institutionnellement totalitaire.
d. Le Général Araki Sadao (1877-1966):
- Il inscrit l'ultra-nationalisme japonais dans une perspective spirituelle et fonde la FACTION DE LA VOIE IMPÉRIALE (Kôdôha).
L'ultra-nationalisme japonais culminera pendant les années de guerre dans quatre stratégies:
- La valorisation de l'esprit (tiré des mânes des ancêtres et des dieux présents partout dans le monde) contre les machines.
- L'éradication de la culture occidentale moderne en Asie.
- La valorisation de l'"Autre Occident", c'est-à-dire l'Allemagne et l'Italie, où il mettre surtout l'accent sur l'héroïsme (récits militaires de la première guerre mondiale, pour servir d'exemple aux soldats), plutôt que sur le racisme de Mein Kampf, peu élogieux à l'égard des peuples jaunes.
- L'antisémitisme alors que le Japon n'a pas de population juive.
E. GÉOPOLITIQUE ET PANASIATISME (2):
Les sources de la géopolitique japonaise:
Les Japonais, bons observateurs des pratiques des chancelleries européennes et américaines, lisent dans les rapports de l'Américain Brooks Adams des commentaires très négatifs sur la présence allemande dans la forteresse côtière chinoise de Kiau-Tchéou, alors que les Russes se trouvent à Port Arthur.
Brooks Adams exprime sa crainte de voir se développer à grande échelle une politique de chemin de fer transcontinentale portée par les efforts de la Russie, de l'Allemagne et d'une puissance d'Extrême-Orient.
Devant une masse continentale unie par un bon réseau de chemin de fer, la stratégie du blocus, chère aux Britanniques et aux Américains, ne peut plus fonctionner.
Conclusion: Les Japonais ont été les premiers à retenir cette leçon, mais ont voulu prendre la place de la Chine, ne pas laisser à la Chine le bénéfice d'être la puissance extrême-orientale de cette future "troïka" ferroviaire.
D'où: les flottes allemande et japonaise doivent coopérer et encadrer la masse continentale russe et mettre ainsi un terme à la pratique des "traités inégaux" et inaugurer l'ère de la coopération entre partenaires égaux.
Après l'alliance anglaise de 1902 et après la victoire de 1905 sur la Russie, qui ne rapporte pas grand'chose au Japon, le Prince Ito, le Comte Goto et le Premier Ministre Katsura voulaient une alliance germano-russo-japonaise. Mais elle n'intéresse pas l'Allemagne. Peu après, le Prince Ito est assassiné en Corée par un terroriste coréen.
L'IDÉE D'UN "BLOC CONTINENTAL EURASIEN" est donc d'origine japonaise, bien qu'on le retrouve chez l'homme d'Etat russe Sergueï Witte.
F. Le PANASIATISME (3):
Quant au panasiatisme, il provient de trois sources:
1. Une lettre du révolutionnaire chinois Sun-Yat-Sen au ministre japonais Inoukaï: le leader chinois demandait l'alliance de la Chine et du Japon avec la Turquie, l'Autriche-Hongrie et l'Allemagne, pour "libérer l'Asie".
2. L'historien indien Benoy Kumar Sakkar développe l'idée d'une “Jeune Asie” futuriste.
3. Le discours de l'écrivain indien Rabindranath Tagore, exhortant le Japon à ne pas perdre ses racines asiatiques et à coopérer avec tous ceux qui voulaient promouvoir dans le monde l'émergence de blocs continentaux.
APRÈS 1945:
- La souveraineté japonaise est limitée.
- McArthur laisse le Tennô en place.
- Le Japon est autorisé à se renforcer économiquement.
Mais dès les années 80, ce statu quo provoque des réactions. La plus significative est celle de Shintaro Ishihara, avec son livre The Japan That Can Say No (1989 au Japon, avant la guerre du Golfe; 1991 dans sa traduction américaine, après la guerre du Golfe).
Dans cet ouvrage, Shintaro Ishihara:
- réclame un partenariat égal avec les Etats-Unis en Asie et dans le Pacifique.
- souligne les inégalités et les vexations que subit le Japon.
- explique que la politique des "portes ouvertes" ne réglerait nullement le problème de la balance commerciale déficitaire des Etats-Unis vis-à-vis du Japon.
- observe que si les Etats-Unis présentent une balance commerciale déficitaire face au Japon, c'est parce qu'ils n'ont jamais adapté correctement leur politique et leur économie aux circonstances variables dans le monde.
- observe que les pratiques japonaise et américaine du capitalisme sont différentes, doivent le rester et dérivent de matrices culturelles et historiques différentes.
- observe que l'imitation d'un modèle étranger efficace n'est pas un déshonneur. Le Japon a appris de l'Occident. Les Etats-Unis pourraient tout aussi bien apprendre du Japon.
- se réfère à Spengler pour dire:
a) il n'y a pas de "fin de l'histoire".
b) la quête de l'humanité se poursuivra.
c) comme Spengler l'avait prévu, la civilisation de demain ne sera possible que si se juxtaposent des cultures différentes sur la planète.
d) les différences ne conduisent pas à l'incompatibilité et à la confrontation.
- annonce que le Japon investira en Europe, notamment en Hongrie et en Tchéquie.
- suggère aux Américains un vaste programme de redressement, basé sur l'expérience japonaise.
La réponse américaine, rédigée par Meredith et Lebard (cf.) est:
- une réponse agressive;
- une réponse prévoyant une future guerre en Asie, mettant aux prises un Japon regroupant autour de lui une alliance avec l'Indonésie, Singapour, la Papouasie-Nouvelle-Guinée, les Philippines, la Malaisie, la Thaïlande, la Myanmar, l'Inde et la Chine. Cette alliance visera à contrôler à la place des Américains la route du pétrole du Golfe à Singapour et de Singapour au Japon, par un binôme marin Inde/Japon.
- Face à ce bloc est-asiatique et indien, les Etats-Unis doivent, disent Meredith et Lebard, mobiliser un contre-alliance regroupant la Corée, la Chine, Taïwan, l'Indonésie, l'Australie, les Philippines et Singapour.
- L'Indonésie et la Chine constituant les enjeux majeurs de cette confrontation.
Robert STEUCKERS,
Forest-Flotzenberg, juillet 1997.
BIBLIOGRAPHIE
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Le Pentagone a découvert un nouveau « Klondike » en Afghanistan. Près de 1 000 milliards de dollars seraient enfouis dans le sous-sol du pays, ce qui en ferait un géant minier d’une taille comparable à celle de l’Australie.
00:20 Publié dans Actualité | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : afghanistan, us army, etats-unis, moyen orient, asie, affaires asiatiques, minerais, géoéconomie, géopolitique | | del.icio.us | | Digg | Facebook
US Strategy in Eurasia and Drug Production in Afghanistan
Tiberio Graziani
Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici
(Eurasia. Journal of Geopolitical Studies - Italy)
www.eurasia-rivista.org - direzione@eurasia-rivista.org
A geopolitical approach aimed at understanding the relationship between the worldwide US strategy and the presence of North American forces in Afghanistan is given. The US penetration in the Eurasian landmass is stressed particularly with regard to the Central Asian area, considered as the underbelly of Eurasia in the context of the US geopolitics. In order to determine the real players in the Afghan theatre, a critics is moved to some general concepts used in geopolitical and international relations studies. The main characteristics of potential candidates able to overcome the Afghan drug question are discussed. Among these a particular role is due to Iran, Russia ad China. Anyway, due to the interrelations between the US strategy in Eurasia and the stabilization of Afghanistan, this latter can be fully accomplished only in view of the Eurasian integration process.
Key words: Afghanistan, geopolitical, Eurasian, Eurasia, drug
In order to address properly, without any ideological prejudice, but with intellectual honesty, the question about the drug production in Afghanistan and the related international problems, it is necessary and useful to define (even if schematically) the geopolitical framework and to further clarify some concepts, usually assumed as well known and commonly shared.
Considering the main global actors nowadays, namely US, Russia, China and India, their geographic position in the two distinct areas of America and Eurasia, and, above all, their relations in terms of power and world geo-strategy, Afghanistan constitutes, together with Caucasus and the Central Asian Republics, a large area (fig. 1), whose destabilization offers an advantage to US, i.e. to the geopolitical player exterior to the Eurasian context. In particular, the destabilization of this large zone assures the US at least three geopolitical and geo-strategic opportunities: a) its progressive penetration in the Eurasian landmass; b) the containment of Russia; c) the creation of a vulnus in Eurasian landmass.
US penetration in Eurasia – US encirclement of Eurasia
As stated by Henry Kissinger, the bi-oceanic nation of US is an island outside of Eurasian Continent. From the geopolitical point of view, this particular position has determined the main vectors of the expansion of US over the Planet. The first was the control of the entire Western hemisphere (North and South America), the second one has been the race for the hegemony on the Euroafroasian landmass, that is to say the Eastern hemisphere.
Regarding the penetrating process of US in the Eurasian landmass, starting from the European peninsula, it is worthy to remind that it began , in the course of the I WW with the interference of Washington in the internal quarrels among the European Nations and Empires. The penetration continued during the II WW. In April 1945, the supposed “Liberators” occupied the Western side of Europe up to East Berlin. Starting from this date, Washington and the Pentagon have considered Europe, i.e. the Western side of Eurasia, just as a US bridgehead dropped on the Eurasian landmass. US imposed a similar role to the other occupied nation, Japan, representing the Eastern insular arc of Eurasia. From an Eurasian point of view, the north American “pincer” was the true result of the II WW.
With the creation of some particular military “devices” like NATO (North Atlantic Treaty Organization) (1949), the security treaty among Australia, New Zealand, United States (ANZUS, 1951), the Baghdad Pact, that afterwards evolved in CENTO Pact (Central Treaty Organisation, 1959), the Manila Pact – SEATO (South East Asia Treaty Organization, 1954), the military encirclement of the whole Eurasian landmass was accomplished in less than one decade.
The third step of the US long march towards the heart of Eurasia, starting from its Western side, was carried out in 1956, during the Suez crisis, with the progressive removal of France and, under some aspects, also of Great Britain as geopolitical actors in Mediterranean sea. On the basis of the “special relationship” between Tel-Aviv and Washington, US became an important player of the Near Eastern area in a time lapse shorter than 10 years. Following the new role assumed in the Near and Middle East, US was able either to consolidate its hegemonic leadership within the Western system or to consider the Mediterranean sea as the initial portion of the long path that, eventually, could permit to the US troops to reach the Central Asian region. The infiltration of US in the large Eurasian area proceeded also in other geopolitical sectors, particularly in the South-Eastern one (Korea, 1950-1953; Vietnam, 1960-1975).
Coherently with the strategy aimed at dominating the eastern hemisphere, Washington worked also on the diplomatic side, focusing its attention towards Beijing. With the creation of the axis Washington – Beijing, conceived by the tandem Kissinger - Nixon (1971-1972), US contributed to increase the fracture inside the so-called socialist field, constituted by China and URSS and, thus, to block any potential “welding” between the two “lungs” of Eurasia, China and Russia.
During the seventies, two main geopolitical axis faced each other within the Eurasian landmass: the Washington-Islamabad-Beijing axis and the Moscow-New Delhi one.
1979, the destabilization’s year and its legacy in the today’s Afghanistan
Among the many events in international relations occurred in 1979, two are of pivotal importance for their contribution to the upsetting of the geopolitical asset, based at the time on the equilibrium between the United States and the URSS.
We are speaking of the Islamic revolution in Iran and of the Russian military involvement in Afghanistan.
Following the takeover of Iran by the Ayatollah Khomeyni, one of the essential pillars of the western geopolitical architecture, with the US as a leader, was destroyed.
The Pahlavi monarchy could easily be used as a pawn in the fight between the US and the URSS, and when it disappeared both Washington and the Pentagon were forced to conceive a new role for the US in the world politics. A new Iran, now autonomous and out of control, introduced a variation in the regional geopolitical chessboard, possibly able to induce a profound crisis within the “steady” bipolar system. Moreover, the new Iran, established as a regional power against the US and Israel, possessed such characteristics (especially the geographic extent and centrality, and the political-religious homogeneity) as to compete for the hegemony on at least part of the Middle-East, in open contrast to similar interests of Ankara and Tel-Aviv, faithful allies of Washington, Islamabad, Baghdad and Riyadh. For such reasons, the Washington strategists, in agreement with their bicentennial “geopolitics of chaos”, persuaded the Iraq under Saddam Hussein to start a war against Iran. The destabilization of the whole area allowed Washington and the Western Countries enough time to plan a long-lasting strategy and in the meantime to wear down the soviet bear.
In an interview released to the French weekly newspaper Le Nouvel Observateur (January 15-21, 1998, p. 76), Zbigniew Brzezinski, President Jimmy Carter's national security adviser, revealed that CIA secretly operated in Afghanistan to undermine the power of the regime in Kabul since July, 1979, that is to say, five months before the Soviet invasion. Indeed, it was July 3, 1979, that President Carter signed the first directive for secret aid to the opponents of the pro-Soviet regime in Kabul. And that very day the US strategist of Polish origin wrote a note to President Carter in which he explained that this aid was going to induce a Soviet military intervention. And this was precisely what happened on the following December. In the same interview, Brzezinski remembers that, when the Soviets invaded Afghanistan, he wrote another note to President Carter in which he expressed his opinion that at that point the USA had the opportunity of giving to the USSR its Vietnam War.
In Brezinski’s opinion, this intervention was unsustainable for Moscow and in time would have led to the Soviet Empire collapse. In fact, the long war of the Soviets in support of the communist regime in Kabul further contributed to weaken the Soviet Union, already engaged in a severe internal crisis, concerning both political- bureaucratic and socio-economic aspects. As we now well know, the Soviet withdrawal from the afghan theatre left behind an exhausted country, whose politics, economy and geo-strategic asset were extremely weak. As a matter of fact, after less than 10 years from the Teheran revolution, the entire region had been completely destabilized only to the advantage of the western system. The parallel and unrestrained decline of the Soviet Union, accelerated by the afghan adventure, and, afterwards in the nineties, the dismemberment of the Yugoslavian Federation (a sort of buffer state between the western and soviet blocks) changed the balance of power to favour the US expansionism in the Eurasia region.
After the bipolar system, a new geopolitical era began, that of the “unipolar moment”, in which the USA were the “hyperpuissance” (according to the definition of the French minister Hubert Védrin).
However, the new unipolar system was going to have a short life and indeed it ended at the beginning of the XXI century, when Russia re-emerged as a strategic challenger in global affairs and, at the same time, China and India, the two Asian giants, emerged as economic and strategic powers. On the global level, we have to consider also the growing wheight of some countries of Indiolatin America, such as Brazil, Venezuela. The very important relations among these countries with China, Russia and Iran seem to assume a strategic value and prefigure a new multipolar system, whose two main pillars coul be constituted by Eurasia an Indiolatin America.
Afghanistan, due to its geographical characteristics, to its location as respect to the Soviet State (its neighbouring nations Turkmenistan, Uzbekistan and Tajikistan were, at that time, Soviet Republics), and to the wide variety of ethnic groups forming its population, different either in culture or in religion, represented for Washington an important portion of the so-called “arc of crisis”, namely that geographical region linking the southern boundaries of the USSR and the Arabian Sea. The Afghanistan trap for the URSS was therefore chosen for evident geopolitical and geo-strategic reasons.
From the geopolitical point of view, Afghanistan is clearly representative of a crisis zone, being from time immemorial the scene for the conflicts among the Great Powers.
The area is now “ruled” by the governmental entity established by US forces and named Islamic Republic of Afghanistan, but traditionally the Pashtun tribes have dominated over the other ethnic groups (Tajiks, Hazaras, Uzbeks, Turkmens, Balochs). Its history was spent as part of larger events concerning the interaction and the prolonged fighting among the three neighbouring great geopolitical entities: the Moghul Empire, the Uzbek Khanate and the Persian Empire. In the XVIII and XIX centuries, when the Country was under the rule of the Kingdom of Afghanistan, the area became strategic in the rivalry and conflict between the British Empire and the Russian Empire for supremacy in Central Asia, termed "The Great Game". The Russian land empire, in its efforts to secure access to the Indian Ocean, to India and to China, collided with the interests of the British maritime empire, that, for its part, sought to extend in the Eurasian landmass, using India as staging post, towards the East, to Burma, China, Tibet and the basin of the Yangtze river, and towards the West, to the present-day Pakistan, to Afghanistan and Iran, as far as the Caucasus, the Black Sea, to Mesopotamia and the Persian Gulf.
Towards the end of the XX century, in the framework of the bipolar system, Afghanistan became the battlefield where, once again, a maritime Power, the USA, confronted a land Power, the URSS.
The actors that confronted each other in this battlefield were basically: URSS troops, Afghan tribes and the so-called mujahideen, these latter supported by US, Pakistan and Saudi Arabia.
After the leaving of the Soviet troops from the afghan chessboard, the taliban movement assumed a growing important role in the region, on the basis of at least three main factors: a) ambiguous relations with some components of Pakistan secret services; b) ambiguous relations with US (a sort of “legacy” relied on the previous contacts between US and some components of the “mujahideen” movement, occurred during the Soviet - afghan war); c) the wahhabism as an ideological-religious platform directly useful to the interests of Saudi Arabia in its projection towards some zones as Bosnia, the Middle East area and the Caucasus (namely Chechnya and Dagestan).
The three elements mentioned above allowed the taliban movement, for one hand, to insert and root itself in the afghan zone, gaining a growing weight on the military (with the creation and consolidation of the so-called sanctuaries) and economic (namely control of the drug traffic) levels, for other hand, impeded it to become an autonomous organization. Actually, because of the infiltration of US, Pakistan and Saudi Arabia, the taliban movement has to be considered a local organization directed by external players. These kind of considerations allows us to better understand and explain the choice of Obama and Karzai to open a dialogue with the Talibans, even to include some of them in local governments. Moreover, the apparent contradiction of the US (and Karzai) behaviours in Afghanistan, that could be explained according the theory and praxis for which the involvement of the enemy in institutional responsibilities aims to weaken it, follows the classic rule of the US geopolitical praxis, that is to maintain in a state of crisis a region considered strategic.
As we well know now, the drug production in Afghanistan has gone up more or less 40 times since the country’s occupation by NATO.
If we consider the solutions adopted so far by US forces and aimed at containing and overcoming the drug trafficking question in the more general context of the US geopolitical praxis, we can observe that US forces and NATO seem “wasting” their time: drug production and diffusion in the southern part of the country are still going on. As we well know, the large-scale drug production is impossible in this area, because of the non-stop fighting. On the contrary, US and NATO forces focus their strategic interest in the northern side of the country. Here, they have built roads and bridges linking Afghanistan to Tajikistan), the road to Russia via Uzbekistan, Kyrgyzstan and Azerbaijan (see A. Barentsev, Afghan Heroine flow channelled to Russia, FONDSK). This modus operandi reveals openly the real intentions of Pentagon and Washington: opening a road towards Russia, starting from Afghanistan and the Central Asian republics. Actually NATO and other western forces do not conduct an effective fight against drug production and trafficking.
In such context, the supposed US/NATO fight against drug production and trafficking in Afghanistan seem to belong to the field of the western rhetoric more than to be a concrete fact (Fig. 2).
Similarly, the fight against taliban movement seem clearly subordinated to (and thus depending on) the general US strategy in the Eurasian landmass. Nowadays, this strategy consists in the setting up of military garrisons of US and its Western allies in the long strip that, starting from Morocco, crosses the Mediterranean sea and arrives as far as the Central Asian republics. The main aims of this garrisons are: a) the separation of Europe from North Africa; b) the control of north Africa and Near East (particularly the zone constituted by Turkey, Syria and Iran – using the Camp Bondsteel base, located in Kosovo ); b) the containment of Russia, and, under some aspects, of China too; c) an attempt of cutting the Eurasian landmass in two parts; d) the enlargement of the “arc of crisis” in the Central Asian area [Brzezinski defines this area the “Balkans of Eurasia” (the definition of the former advisor of president Carter sounds more as programmatic than as an objective description of the area)].
Creating a geopolitical chasm in Central Asia, i.d. a vulnus in Eurasia landmass, could lead to hostility and enmity among the main players in Asia, Russia, India and China (fig. 3). The only beneficiary of this game would be the US.
Other than the attempt “to knife” Eurasia along the illustrated path (from Mediterranean sea up to the Central Asia), we observe that US disposes (since 2008) of AFRICOM and, of course, of the related cooperative security locations in Africa: a useful “ military “device” which projection is also directed to Middle East and part of Central Asia (fig. 4).
In order to understand the importance of the Central Asian zone for the US strategy aimed at its hegemony on the Eurasian landmass, it is enough to give a glance at the following picture (fig. 5) illustrating the US Commanders’ areas of responsibilities. The picture is representative of what we can name – paraphrasing the expression “the white man’s burden” formulated by the bard of the British imperialism, Rudyard Kipling, 1899 – the US’ burden.
general remarks on “accepted and shared” concepts
With the goal to reach a larger understanding of the complex dynamics acting presently at global level, it is useful criticizing some general concepts we consider accepted and shared. As we know, in the frame of the geopolitical analyses, the correct use of terms and concepts is at least as important as, those ones related to the description of the reality through maps and diagrams. For instance, the so-called “globalization” is only an euphemistic expression for economic expansionism of the US and the its capitalistic western allies (see Jacques Sapir, Le nouveau XXI siécle, Paris, 2008, p. 63-64). Even the rhetoric call to fight for the supposed “human rights”, or similar democratic values, spread by some think thanks, governments or simple civil activists, emphasizes the colonialist aspect of the US on the mass media and culture, without any consideration to other ways of life, like those expressed by no-western civilisations, i.e. more than three quarts of the world population. Among these concepts, we have to consider the most important one from the geopolitical (and international relations) point of view, that is the supposed International Community. The expression “International Community” does not mean anything in geopolitical terms. Actually, the International Community is not a real entity; its related concept sounds, simultaneously, like an aspiration of some utopian activists and a specific falsification of the history.
As in the worldwide real life we know State, Nations, People, International organisations [generally on the basis of (hegemonic) “alliances”] and, of course the relations among these entities, speaking of International Community means to mis-describe the real powers nowadays acting at global and local scales.
Considering now the focus of the present meeting, aimed at finding “shared solutions” for the afghan drug question in the context of the “International Community” (I.C.), honestly we have to underline, as analysts, that instead of I.C. it is more practical speaking of real players involved (and that could be involved) in the Afghan zone.
the real players in the afghan theatre
For analytical reasons is useful to aggregate the players concerning the Afghan theatre in the following three categories: external players; local players; players who potentially could be involved in the afghan context. Afterwards we can easily define some conditions in order to delineate the characters of those partners who could be able to stabilize - effectively - the entire geopolitical area.
External players: US and NATO-ISAF (except Turkey) forces are to be considered external players because of their full strangeness to the specific geopolitical area, even if conceived in a broad sense;
Local players: among the local players we can enumerate the bordering countries (Iran, Turkmenistan, Uzbekistan, Tajikistan, China, Pakistan), the tribes, the insurgent forces, the Talibans and the “governmental” entity led by Karzai.
Regarding the players belonging to the third category as defined above, we can include the Collective Security Treaty Organisation (CSTO), the Shanghai Cooperation Organisation (SCO), i.e. the main Eurasian organisations with a large experience in managing questions related to the border control and drug trafficking of Central Asian area, and the Eurasian Economic Community (EURASEC). Moreover we have to mention also ONU, in particularly the United Nations Office on Drugs and Crime (UNODOC).
The potential partners able to overcome the drug question in Afghanistan have to present at least the following characteristics: a) the knowledge of the local dynamics related to the ethnic, cultural, religious an economic aspects; b) the acknowledgement by the local population as part of the same cultural context (obviously in a large meaning); c) the will to coordinate collectively the actions without any prejudice or mental reserve within a Eurasian program.
The partners presenting the features synthetically described above are those included in the second and third categories. As matter of fact US and NATO – ISAF forces are perceived from the local population as what they really are: occupying forces. Moreover, considering the NATO role as hegemonic alliance led by Washington and acting within the framework of the US global strategy, its presence in Afghanistan should be considered a serious obstacle to the stabilization of the entire area. The Talibans and even the governmental entity, do not appear, due to the ambiguous relations that they seem to have with the occupying US forces, to be candidate partners in a collaborative effort to triumph over the drug question in Afghanistan.
The real players able to stabilize the area are - without any doubt - the Afghanistan bordering countries and the Eurasian organizations. Among the bordering countries, a special role could be carried on by Iran. Teheran is the only country that has demonstrated to assure the security of Afghan-Iranian border, specially for drug trafficking. Also Moscow and Beijing assume an important function in the stabilization of the area and in the fight to drug trafficking, because Russia and China, it is worth to remind it, are the main powers of the Eurasian organizations above mentioned. A strategic axis between the two “lungs” of Eurasia, balanced by the Central Asian republics and India, could constitute the lasting solution for the stabilization of the area and hence the drug question. Only in the frame of a shared Eurasian plan aimed at stabilizing the area – conceived and carried on by Eurasian players –, it is possible to dialogue with local tribes and with those insurgent movements which are clearly not directed by external players.
The stabilization of the afghan area is an essential requirement for any plan aimed to face the drug production and trafficking.
However, because of the pivotal role of Afghanistan in the Middle East and in the Central Asian regions, the strategy to stabilize the area has to be conceived in the context of the integration of the Eurasian landmass. Candidates particularly interested to halt the drug production and traffic are the Afghanistan bordering Countries.
US and NATO forces, because of their clear geopolitical praxis aimed at hegemonizing the Eurasian landmass, are not plausible candidate.
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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1993
Le Japon: le succès d'une «voie prussienne»
par Josef SCHÜSSLBURNER
Né en 1954, Josef Schüßlburner est diplômé en sciences juridiques des universités de Ratisbonne et Kiel. Il a été conseiller scientifique auprès de la chaire de droit des peuples et des Etats de l'Université de Saarbrücken. Depuis 1985, il est fonctionnaire de l'administration de la RFA. De 1987 à 1989, il a travaillé à New York auprès du département juridique de l'ONU à titre d'enseignant pour la codification du droit des gens. Il est un collaborateur assidu de la revue munichoise Criticón, dont ce texte magistral sur les rapports germano-nippons est extrait.
Lorsque nous atteignons un point de vue supérieur, notre regard balaye l'horizon. La fumée monte très haut. Les foyers du peuple montrent et prouvent son bien-être (1).
Nintoku Tenno (IVième/Vième siècles)
Une guerre entre les Etats-Unis et le Japon est-elle imminente? On peut l'admettre surtout si l'on lit l'analyse de Friedman et LeBard (The Coming War with Japan). Cet ouvrage est important car il n'est pas l'une de ces innombrables études qui entendent faire violence au passé japonais. C'est un livre qui cherche à comprendre les motivations de la politique japonaise qui ont conduit, il y a 52 ans, à Pearl Harbour. Le Japon, en déclenchant cette attaque, avait espéré monter la population américaine contre la politique de son Président, qui enfreignait les règles de la neutralité (2). Mais le Japon n'a pas réussi son coup: au contraire, il est tombé dans le piège que lui tendait Roosevelt. Nous, Allemands, ne devrions pas négliger les analyses sérieuses, qui prévoient un conflit entre Américains et Japonais, car les hommes politiques anglo-saxons considèrent les termes «Allemands» et «Japonais» comme interchangeables. J'en veux pour preuve la préface d'Edward Seidensticker au livre de J. Taylor, Shadows of the Rising Sun - A critical View of the «Japanese Miracle». Dans cette préface, on peut lire: «Nos anciens ennemis, les Allemands et les Japonais, semblent être les peuples qui, pour nous, sont les plus difficilement insérables dans un système». Réflexion curieuse, surtout pour ceux qui se sont contentés de lire l'ouvrage de Büscher et Homann, Japan und Deutschland, qui défendait la thèse que les deux pays étaient de bons élèves des Etats-Unis. S'il était exact que le succès économique japonais découlait en droit ligne des quelques années de régime militaire américain, alors les Philippines auraient dû devenir la grande puissance dominante du Pacifique, puisqu'elles ont bénéficié pendant plus d'un demi-siècle d'une administration américaine! Soyons sérieux: ce qui inquiète les hommes politiques américains face aux succès économiques du Japon (et partiellement aussi de l'Allemagne), c'est le fait que ce succès contredit certaines prémisses idéologiques et que, par conséquent, le Japon ne peut entrer dans un système pensé à l'américaine.
L'exemple prussien
Jusqu'à présent, le Japon est le seul pays non-européen qui a réussi à créer une société industrielle et productiviste (progressivement, les anciennes colonies japonaises y arrivent aussi, comme Taïwan et la Corée du Sud, ou son allié de la seconde guerre mondiale, la Thaïlande). C'est dû au modèle que les Japonais ont adopté, en l'occurrence le modèle prussien.
En 1853, les Japonais avaient pris conscience de leur retard militaire et technologique, à l'arrivée des canonnières américaines. Un danger les menaçait, à l'instar de toutes les autres puissances asiatiques: être contraints d'accepter des traités inégaux, qui les auraient conduits à s'endetter vis-à-vis de l'extérieur, à faire gérer leur dette par l'étranger et à admettre que les clauses de ces traités soient réalisées à coups de canon. Il ne leur restait plus qu'une solution: accepter une politique de modernisation à l'européenne afin de renforcer leur propre puissance et avoir ainsi au moins une chance de se développer. Les intellectuels japonais se sont mis à étudier intensément les institutions des pays européens, jugés plus performants. Leur intention première était de les concilier, dans la mesure du possible, avec les traditions japonaises. Pour les institutions de base que sont la constitution et la chose militaire, ils ont étudié la Prusse, dont ils considéraient les institutions comme conciliables. L'œuvre des juristes allemands Hermann Roesler (1834-1894) et Albert Mosse (1848-1925) a été déterminante dans l'élaboration de la Constitution de l'Ere Meiji (3), appliquée à partir de 1889. Sur le plan idéologique, cette constitution reposait sur les conceptions de l'Etat de Rudolf von Gneist et Lorenz von Stein, qui avaient reçu la visite, à Berlin et à Vienne en 1882 et 1883, des deux conseillers de l'Empereur, Hirobumi Ito et Kowaski Inoue, chargés d'élaborer la constitution. Gneist et Stein représentaient les conceptions de l'Etat-Providence du XVIIIième siècle, plus exactement les conceptions de la monarchie sociale, qui visaient à créer les conditions institutionnelles sur base desquelles le libre jeu des forces sociales, voulu par les libéraux, débouchaient ou devait déboucher sur un ordre social juste. Bismarck était un représentant de cette tendance, d'autant plus que Gneist (4) avait été le porte-paroles de l'opposition libérale lors du fameux «conflit du budget», qui avait animé le parlement prussien, et avait ainsi représenté la droite; par la suite, Gneist était devenu l'un des protagonistes les plus décidés de la politique bismarckienne (ce qui n'était nullement contradictoire).
En important la constitution prussienne de 1850 (et non la constitution allemande de 1871, comme on l'affirme quelque fois pour diffamer cette dernière), les constitutionalistes japonais instituaient un Parlement composé de deux chambres, soit une chambre de l'aristocratie (pour laquelle l'ancienne caste dirigeante a été divisée en cinq catégories) et une chambre des représentants, élus selon un mode de suffrage censitaire, déterminé par le paiement d'un certain montant d'impôt (en 1925, les Japonais passent au suffrage universel limité aux hommes). Le pouvoir législatif était concentré dans les mains de l'Empereur, mais celui-ci ne pouvait l'exercer qu'en accord avec le parlement. Ce dernier fixait également le budget de l'Etat. Dans le cas où le budget n'était pas accordé, l'administration avait pour tâche de reconduire le budget de l'année précédente. C'est de cette façon que Roesler a tenté de résoudre au Japon le «conflit du budget», qui avait tant agité la Prusse!
Conformément à la structure présidentielle de la monarchie constitutionnelle, la nomination des ministres n'avait pas besoin de l'accord du Parlement, ce qui n'empêcha pas l'avènement de gouvernement de partis dans les années 20 de notre siècle. Le pouvoir suprême était aux mains de l'Empereur qui ne pouvait l'exercer que dans le cadre de la constitution. Les règles de fonctionnement du Conseil d'Etat, instance secrète, du Cabinet et du Parlement limitaient de façon drastique le pouvoir direct de gouverner dont disposait l'Empereur dans le Japon traditionnel, ce qui constituait —cela va sans dire— une innovation extraordinaire. Ces règlements ont été introduits en même temps qu'un droit prévoyant de gouverner dans une très large mesure par ordonnances et décrets, dépassant nettement, dans ce domaine, le modèle prussien. Ce droit fit du Japon un Etat administratif qui permit, en concordance avec l'éthique politique confucianiste, de construire et d'organiser dans de très brefs délais un Etat moderne. En introduisant le droit constitutionnel prussien, les Japonais adoptaient aussi le droit civil et le droit commercial allemands, auxquels l'Allemagne actuelle doit l'essentiel de sa santé économique.
Le Japon a d'abord tenté d'organiser son armée sur le modèle français, car le mythe napoléonien était toujours vivace. Mais le général prussien Jacob Meckel (5), devenu célèbre par son livre intitulé Elemente der Taktik qui lui avait valu l'estime de Moltke, persuada les Japonais d'abandonner cette option. Sur la recommandation de Moltke, Meckel est devenu leur conseiller et les convainquit de parfaire leur réforme militaire selon le modèle prussien. La victoire militaire allemande en 1870/71 a terni l'image de la France dans le monde et aidé indirectement Meckel dans la réalisation de son projet.
Quelles sont les raisons profondes qui ont motivé cette orientation prussienne? Pour répondre à cette question, nous devons tout d'abord nous rappeler que le Japon a pu adopter avec succès des modèles européens parce que, comme l'étude de son histoire nous le montre, des institutions et des idées y ont émergé, qui correspondaient étonnamment à celles nées en Europe occidentale (6), dans un contexte religieux et spirituel toutefois radicalement différent. Pour citer quelques exemples (7): le moine zen Takuan (1573-1645), une sorte de Calvin japonais, développe une doctrine bouddhiste de la prédestination, associée à une morale pratique des affaires; quant au moine Shosan Suzuki (né en 1579), il fut une sorte d'Adam Smith japonais, qui démontra que la morale pratique des affaires était un principe bouddhique, valorisant du même coup la caste des marchands, dont la fonction principale serait de créer de la liberté en offrant des marchandises.
Les Japonais qui, pendant des siècles ont observé au sein des autres cultures tous les phénomènes qui leur semblaient apparentés à leurs propres institutions pour les mobiliser au profit du Japon, ont été essentiellement motivés, à mes yeux, par le rapport tacite qui existait entre les vertus dites «prussiennes», telles la gestion efficace et non partisane des fonctions étatiques et l'Etat fondé sur un ordre
Le Japon est par ailleurs le seul pays du monde bouddhiste où s'est opérée une transformation des valeurs monachistes en valeurs militaro-bureaucratiques, comme en Prusse, où c'est l'Etat de l'Ordre des Teutoniques qui est devenu l'Etat prussien. Ainsi, au Japon, le bouddhisme, non guerrier, est devenu la religion de la caste des chevaliers, les samouraïs, dont l'existence même présente une analogie frappante avec l'Europe occidentale. Cette transformation a eu lieu à la période Kamakura (1192-1333), soit à une époque où, en Europe, apparaissait la chevalerie croisée. A cette période, au Japon, se renforce la parenté spirituelle entre le chevalier et le moine, deux figures en quête du dépassement de soi, c'est-à-dire deux figures qui tentent de surmonter la peur de la mort, de freiner les tendances humaines, trop humaines, vers la décadence et l'oubli des devoirs.
Quand le Japon commence à se doter d'une industrie, qui, dans un premier temps, est principalement une industrie militaire ou, au moins, une industrie liée au secteur militaire, cette discipline et ces vertus monachiques-guerrières se transforment en culte de la prestation industrielle (8). De cette façon, le Japon a pu se donner les hommes capables de lui construire des navires de guerre et des avions. Le progrès technique qui, de cette façon, prend aussitôt son envol, permet au Japon de refuser les traités inégaux qu'on lui avait imposés, ainsi que la juridiction spéciale des consulats qui impliquait l'extraterritorialité des Européens résidant au Japon et pouvait toujours donner prétexte à des interventions militaires des puissances étrangères, soucieuses de «protéger» leurs ressortissants. Le Japon pouvait dès lors réclamer l'égalité en droit face aux puissances européennes et son droit à disposer d'un empire colonial. Tous les autres Etats non européens, anciennes grandes puissances mondiales, comme la Chine, la Turquie, l'Egypte (9) ou l'Inde (10), qui n'ont pas réussi une réforme de leur armée, prélude à une industrialisation moderne, ont été maintenu dans un stade pré-industriel misérable.
La constitution de MacArthur
Quand l'on garde à l'esprit tous ces préludes historiques, on peut s'imaginer le choc ressenti par les Japonais en 1945 quand débarquent au Japon les soldats de la puissance qui, en 1853 déjà, avait menacé le Japon d'une invasion. Les Japonais avaient mobilisé tous leurs efforts pour échapper au statut colonial (11) et ils risquaient de le subir, après avoir succombé face à la coalition de l'URSS, de l'Empire britannique et des Etats-Unis, qui, un moment agités par un racisme aussi fou que missionnaire, avaient décidé de démocratiser le Japon et de le maintenir au niveau des pays sous-développés d'Asie. Selon toute vraisemblance, les Américains jugeaient que de tels procédés et de tels objectifs étaient acceptables et réalisables, ce qui nous permet de nous demander aujourd'hui comment on a pu les qualifier de «démocratiques».
Heureusement pour le Japon, la guerre froide éclata très vite et l'archipel nippon devait servir au moins de point d'appui industriel. Ensuite, le Japon a eu, en la personne de MacArthur, un administrateur militaire conservateur qui a mis directement un frein aux velléités des «rééducateurs» américains qui cherchaient à expérimenter une «révolution sociale» (12). MacArthur a tout de suite compris qu'une administration militaire correcte, capable d'éviter tout désordre, ne serait possible que si la puissance occupante ne touchait pas à la personne du Tenno et ne mettait pas en pratique les fantaisies exterministes qu'avait véhiculées la propagande de guerre. MacArthur refusa ainsi d'appliquer toutes les mesures que l'Amérique en guerre avait envisagé de prendre contre l'Empereur et se contenta de faire pendre les généraux qui lui avaient infligé des défaites aux Philippines, ainsi que le Premier Ministre, ce qui avait indigné Churchill (13), partant très logiquement du principe que, dans ce cas, on pouvait également lui faire un procès et l'envoyer au gibet.
Conformément aux principes du droit des gens, le gouvernement japonais est demeuré en exercice et la nouvelle constitution japonaise a pu voir le jour en conservant une filiation immédiate avec les principes de la constitution Meiji, si bien que l'on peut dire que la constitution Meiji est encore formellement en vigueur. Les libéraux japonais (14), c'est-à-dire ceux qui sont libéraux au sens américain du terme et se distinguent des libéraux-démocrates nippons, doutent du caractère démocratique de cette constitution. En effet, disent-ils, à cause des conditions imposées par la capitulation, l'acceptation par la chambre des aristocrates (qui se supprima elle-même en acceptant) de la nouvelle constitution et la sanction du Tenno n'ont eu qu'un caractère formel. Cette critique de la gauche libérale conduit à un curieux jugement de valeur, que l'on rencontre aussi en Allemagne, qui veut que les réformes introduites par la caste dirigeante du pays (comme par exemple le droit de vote démocratique pour le Reichstag) sont soupçonnées de fascisme, tandis que les régimes militaires étrangers sont considérés comme des garanties de démocratie!
La constitution de MacArthur, comme l'appellent ses critiques, a été jugée de façons très diverses. D'une part, elle semblait si libérale, qu'on pouvait se dire que même les Américains ne l'auraient pas acceptée (15), ce qui est juste, dans la même mesure où la Grundgesetz ouest-allemande ne pourrait faire consensus aux Etats-Unis (16) pour divers motifs, parfaitement compréhensibles d'un point de vue conservateur. Par ailleurs, cette constitution a été contestée parce qu'elle constituait une nouvelle mouture de la constitution Meiji —et MacArthur l'avait perçue ainsi. Des juristes japonais, qui veulent être lus en Occident, tentent évidemment d'en donner une interprétation «occidentaliste», décrivant toutes les décisions de la majorité parlementaire et des tribunaux japonais comme autant de renforcements du «militarisme» ou du «nationalisme». Cela leur assure un public de lecteurs étrangers (17).
Quoi qu'il en soit, le Japon a réussi à pratiquer sa nouvelle constitution dans le sens de la constitution dont elle est la continuité en termes formels. Preuve que le constitutionalisme peut être un mode de gouvernement efficace, comme l'atteste la façon dont le Japon a réglé le problème de la privatisation des chemins de fer, alors qu'en Allemagne les milliards de dettes s'accumulent. En outre, signalons que la sanction impériale confère aux lois une signification religieuse, dans l'optique de la majorité des citoyens nippons, du moins insconsciemment. Ce qui explique le taux de criminalité extrêmement bas que connaît l'Empire du Soleil Levant.
En dépit des exagérations proférées par ces commentateurs ou idéologues libéraux, il me faut tout de même signaler que la constitution actuelle a tout de même transposé dans les faits certains projets ou idées défendus pendant l'entre-deux-guerres par le plus connu des représentants de la «nouvelle droite» d'alors, Kita Ikki (18), comme la suppression de la caste aristocratique, afin d'éliminer les obstacles existants entre l'Empereur et le peuple, et de la remplacer par une assemblée consultative élue, destinée à orienter les décisions de la chambre des représentants. Les revendications d'Ikki se référaient aux réformes du Régent Shotoku Taishi (574-622) (19), que l'on peut considérer comme le Solon japonais. Dans un recueil de dix-sept articles, ce dernier a forgé la structure de la vieille constitution japonaise, en s'appuyant sur un confucianisme adapté au pays, c'est-à-dire un confucianisme respectant la religion bouddhiste et acceptant le mythe shintoïste de l'Empereur.
Afin de préserver le Japon de tous troubles révolutionnaires, pareils à ceux secouant en permanence la Chine, parce qu'on y avait affirmé que l'Empereur, ou plutôt la dynastie, avait perdu le mandat du Ciel, Taishi octroya au Grand-Roi du Japon (O-kimi) le titre de Tenno, qui, de ce fait, fut décrété «divinité révélée» (arahito gami). Cette doctrine, souvent mésinterprétée, correspond ni plus ni moins à la conception ouest-européenne des deux corps du monarque (20). L'existence du deuxième corps du monarque, invisible et divin, implique la conception de corporéité personnelle et territoriale de l'«Etat» (qui, lui non plus, n'est pas «visible»), et que le monarque symbolise en tant qu'être visible (21). Conséquence de cette doctrine: il était désormais impossible que Dieu et l'Empereur puissent être en contradiction, ce qui, ipso facto, excluait toute révolution à la mode chinoise. La succession du trône était légitimée par filiation directe et droit d'aînesse (ce qui est une autre analogie frappante avec l'Europe occidentale). Devant l'Empereur, qui règne sur tous, tous sont toutefois égaux. Les fonctions ne sont pas héréditaires; les fonctionnaires ne sont recrutés que sur base de leurs compétences. Le peuple doit obéir à l'Empereur, mais celui-ci n'a pas le droit d'exercer une dictature, car il doit tenir compte du principe du consensus (art. 10 et 17) (22).
Autre moyen pour préserver le système du Tenno de tout danger révolutionnaire: l'obligation, pour l'autorité suprême de conserver une stricte neutralité. Grâce à ce principe, le système du Tenno a pu se maintenir en dépit des guerres civiles, du Shogunat et du système féodal, érigé à l'encontre des intentions de Taishi (23). Ce système présente donc une continuité, semblable à celle de la papauté romaine (24). Au vu de cette évolution, on comprend pourquoi le Japon a emprunté la voie de la modernisation en réactivant tout simplement l'exercice direct du pouvoir par l'Empereur, et permet aussi de comprendre pourquoi la revalorisation du rôle du Tenno et la démocratisation, achevée en 1925, ont été concomitantes. Il faut tenir compte de cet arrière-plan historique pour bien saisir la démarche de ceux qui se font les avocats des «obstacles» entre l'Empereur et le peuple nippon, obstacles qui sont notamment le «Shogunat» américain ou les intellectuels de gauche japonais qui réclament l'avénement d'un fondamentalisme libéral par le biais d'un culte pacifiste (25) quasi religieux, appelé à devenir une nouvelle religion d'Etat, ou encore l'opposition de gauche qui, dans un passé récent, s'engouait pour les rituels politiques de l'orwellienne Corée du Nord (26).
La gauche allemande et le Japon
On pourrait penser que le Japon offre beaucoup à la gauche allemande dans sa recherche permanente de patries de remplacement. Car, enfin, l'inlassable quête de la gauche intellectuelle, la recherche fébrile de modèles étrangers, trouverait dans l'Empire du Soleil Levant un pays extra-européen qui a tenu tête aux impérialismes européens, a conservé son identité culturelle dans une très large mesure, tout en demeurant un pays industriel compétitif et offensif; nous dirions même mieux: le Japon est devenu tel précisément parce qu'il a su conserver son identité (27). Mais, pour la gauche allemande, le Japon reflète trop la vieille Prusse pour que son égophobie puisse l'admirer. Un fait est certain: le Japon a réussi à maîtriser la modernité dans un sens positif; il a construit une société industrielle, imperméable à tout mythe révolutionnaire, a souligné l'importance d'une réforme militaire pour le développement de l'industrie (assortie d'une politique systématique et fanatique visant l'interdiction de toute exportation d'armements, pratique considérée comme freinant l'autarcie du développement industriel), a inauguré une voie conservatrice vers le développement qui a démontré son efficacité. Tout cela contrarie l'euphorie de la gauche allemande en faveur des sociétés multiculturelles.
Ensuite, le Japon prouve, par ses succès, que les religions asiatiques, dans le concret, n'offrent pas de la consolation à bon marché, contrairement à ce que croient les adeptes du New Age, mais indiquent plutôt une voie de salut personnel reposant sur l'ascèse et le travail assidu (depuis le XVIième siècle, les moines japonais ne mendient plus mais convertissent la population à un «ascétisme immanentiste», un peu au sens où l'entendait Max Weber). Quand on examine comment a été traitée l'information venue d'Extrême-Orient dans un hebdomadaire comme le Spiegel, on constate que le régime abstrus d'un Mao Tse-Toung (28) y a été mieux traité que la politique japonaise, émanation de procédures démocratiques. Un homme de gauche chinois qui s'embrouille et se trompe, mais prétend travailler pour le salut de l'humanité, sera mieux jugé par nos journalistes qu'un homme de droite japonais qui commet quelques gaffes en finançant sa campagne électorale.
Cette vision des choses est due à la manipulation de l'histoire, que nous avons vécue dans le sillage de la rééducation, optique pour laquelle le Japon est même tenu responsable de l'atomisation de Hiroshima et de Nagasaki (29). Dans ce cadre, la gauche parlait beaucoup de la «responsabilité» du Tenno, récemment décédé (30), ce qui prouve que cette gauche, face au fait Japon, instrumentalise une fois de plus la vision rééduquée de l'histoire à son profit.
Tout cela est d'autant plus absurde que le «militarisme» japonais présentait des aspects qualifiables d'«extrême-gauche». En 1925, au Japon, l'introduction du suffrage universel était lié à un compromis: en même temps que son adoption était promulguée une loi visant à garantir la paix civile, impliquant l'interdiction de toutes les organisations visant à changer la structure de l'Etat et à éliminer la propriété privée. Ce compromis obligea la gauche à s'adapter au «socialisme impérial» (31), surtout au moment de la crise économique, quand l'armée, radicalisée, contraignit les gouvernements bourgeois successifs, notamment pendant la guerre de Mandchourie, à passer à l'action. Dans un mémorandum adressé au Tenno, le futur Premier Ministre Konoé évoque les hommes de la droite musclée et dit d'eux qu'ils ne sont rien d'autre que des communistes masqués, qui ont revêtu les oripeaux de la kokutai (l'idéal de la communauté nationale), tout en planifiant une véritable révolution communiste destinée à préparer le Japon à une guerre de libération panasiatique (32).
Lorsque les députés japonais ont voté la loi de 1938 décrétant la mobilisation générale, le représentant du peuple Nishio Suehiro, du «Parti des masses populaires» (après la guerre, Suehiro fonde le Parti Démocratique Socialiste, dissidence de l'aile syndicaliste traditionnelle des Socialistes, amis de la Corée du Nord), déclare que le Premier Ministre japonais doit être un chef aussi crédible que le sont Mussolini, Hitler et Staline (33). La gauche avait appliqué son schéma de la lutte des classes à la politique internationale et admis que le Japon (tout comme l'Allemagne) était une «nation prolétaire», opposée aux Etats possédants, qui instrumentalisaient une «morale supérieure pacifiste» pour pouvoir défendre leurs possessions coloniales plus aisément (34). Ce constat, posé par une personnalité de gauche comme Suehiro, a été accepté par bon nombre d'hommes de droite, si bien que la guerre, au Japon, a fait l'objet d'un consensus global entre gauche et droite (35).
Or, comme la gauche ne se distingue de la droite que dans la question de la position du Tenno, les protagonistes de la gauche manipulent l'histoire en rendant le système du Tenno responsable de la guerre et tente de faire passer la droite pour un ramassis de canailles. Pourtant, jamais un régime véritablement totalitaire ou national-socialiste n'a accédé au pouvoir au Japon (36), parce qu'avec la monarchie, les élites traditionnelles du pouvoir pouvaient affirmer leurs positions, même si les partis avaient été réunis dans un mouvement, pour des raisons dépendant davantage des circonstances de guerre que d'une idéologie bien profilée. Et si l'on veut absolument affirmer la culpabilité japonaise, il faut rendre le peuple responsable, vu le large consensus qui a règné tout au long de la guerre. Mais une inculpation globale du peuple japonais ne cadre pas avec le dogme démocratique de l'innocence a priori du peuple, surtout si ce sont des Européens qui inculpent, jugeant de la sorte un peuple non-européen auquel on accole une culpabilité collective: c'est à juste titre alors qu'on soupçonnera les «juges» de racisme. De ce fait, manipuler le passé ne peut plus se faire que sur base d'«analyses structurelles post-racistes» à la Habermas, où la canaille est toujours celui qui «représente» le passé.
Mais on s'aperçoit bien vite dans quelle continuité se situent ces analyses: la littérature de la gauche allemande sympathise très souvent avec les projets les plus étonnants des autorités d'occupation américaine au Japon, comme par exemple, l'idée fumeuse de remplacer le Japonais par l'Anglais (37), parce que ç'aurait été, paraît-il, la meilleure façon d'éliminer les «structures linguistiques non démocratiques» (mais, dans les mêmes ouvrages, on accuse les Japonais d'avoir voulu imposer leur langue aux Coréens, ce qui est normal, puisque leur grammaire est «non-démocratique»...). C'est ainsi que l'on s'aperçoit, au fond, que les gauches ne tolèrent aucunement la multiculturalité, car elles s'y attaquent par tous les moyens, précisément là où cette multiculturalité revêt un sens, c'est-à-dire à l'échelon international. La gauche —c'est un fait acquis— croit au «bon sauvage», mythe qui avait déjà conduit les révolutionnaires français à commettre l'irréparable, dans leur propre pays, en Vendée et à Lyon. Et lorsque les ressortissants d'un pays exotique ne se comportent pas, dans leur vie quotidienne ou leur vie politique, comme on a imaginé qu'ils devraient se comporter, et quand ils deviennent des concurrents sérieux, que ce soit sur le plan militaire ou sur le plan économique (38) et confisquent de la sorte à la gauche son beau rôle favori, qui est de materner, d'«aider au développement», alors les masques tombent: les mêmes moralisateurs exigent que la communauté récalcitrante soit mise au pas, au diapason des valeurs qui ont été posées une fois pour toutes comme seules valables, ou exigent pire encore, l'atomisation, les tapis de bombes, l'éradication (39)...
La politique allemande et le Japon
Face à cette volonté des gauches de tout vouloir uniformiser et mettre au pas, nous sommes bien obligés de considérer la voie particulière, suggérée par le Japon, comme un enrichissement de l'horizon des expériences humaines. Et de la défendre comme telle. Si le Japon est en passe de devenir la nation-guide en matière de technologie (40) —après que l'on ait reproché, et pendant longtemps, aux Japonais de n'être que des «imitateurs» plus ou moins talentueux— on a intérêt à s'interroger très sérieusement sur la signification des «voies particulières» pour le développement futur de l'humanité, et donc des potentiels de créativité qu'elles incarnent. Les «voies particulières» ont ceci pour elles qu'elles s'avèrent toujours être les meilleures voies; dans le cas du Japon, son exemple a séduit les autres pays de l'Asie orientale, dans le sens où il constitue une remarquable synthèse, réussie, entre le confucianisme traditionnel et les modèles européens (ajoutons que cette synthèse a pu s'accomplir parce que le modèle prussien a été importé, imité et japonisé). A juste titre, plusieurs voix ont demandé aux Américains de ne pas imiter les Japonais pour tenir bon face à la concurrence extérieure, mais de revenir à leurs propres traditions, notamment celle, puritaine, du travail acharné (41), créateur de richesses, et, partant, signe d'élection divine. Les Allemands feraient d'ailleurs bien d'imiter pour leur propre compte ce conseil donné aux hommes d'affaire américains et, mieux, de le mettre en pratique de façon plus systématique encore: en étudiant l'histoire du Japon, ils verraient que leurs propres traditions politiques germaniques permettent parfaitement à un pays faible de sortir très vite de sa misère pré-industrielle.
Les auteurs allemands qui savent comment s'agencent réellement les choses et, partant, ne partagent pas l'opinion, courante de nos jours, qui veut que le Japon soit l'«élève modèle des Etats-Unis» et, a fortiori, n'ont pas succombé à l'esprit du temps, qui se veut anti-prussien, ne critiquent pas les Japonais d'avoir adopté des modèles prussiens et non pas des modèles britanniques «libéraux et éclairés». Certes, le Japon n'est pas un Etat idéal de facture libérale-démocratique (42), ce qui ne doit pas nous empêcher de constater que les pays non-européens qui, plutôt de mauvais gré que de bon gré, ont adopté le modèle britannique, n'ont jamais pu dépasser le stade de la pauvreté pré-industrielle ou celui de cette pauvreté perpétuée par le socialisme, en dépit des aides au développement. C'est le cas de l'Inde ou des pays des Caraïbes. Ou bien, ils ont basculé dans les dictatures socialistes dites «de développement» (Afrique). Mais lorsque des régions de l'ex-Commonwealth britannique connaissent le succès économique en conservant des institutions de type britannique, comme Singapour ou Hong Kong, elles se placent en dessous du Japon sur le plan de la démocratie pure et théorique. Qui plus est, ces régions doivent leur succès pour l'essentiel à l'afflux de capitaux privés japonais et à l'imitation des modes japonais de gestion d'entreprise.
Dans le passé, les échanges germano-japonais se sont effectués sur une voie à sens unique, raison pour laquelle le monde politique allemand n'a jamais pris correctement connaissance des affaires japonaises. Cela vaut même pour la seconde guerre mondiale, quand pourtant les services secrets britanniques gaspillaient beaucoup d'heures précieuses en tentant de déchiffrer les arcanes d'une stratégie germano-japonaise secrète qui n'existait pas... (43). En dépit des nombreux intérêts communs qui pourraient unir Allemands et Japonais, les hommes politiques allemands font tout pour que cette réelle communauté d'intérêts ne se transforment pas en une politique commune. Quand un chancelier allemand se plaint devant les Américains que l'Allemagne porte le fardeau le plus lourd dans le financement de la perestroïka et que ce chancelier en appelle à d'«autres» pour participer à cette opération hasardeuse, il ne peut que susciter le mépris des Japonais. Car, en fin de compte, ceux-ci ne sont nullement responsables du fait que les Allemands, niais, se montrent incapables de reconnaître leurs propres intérêts. Or comme cette plainte est adressée aux Américains, les Japonais pourraient parfaitement interpréter cette démarche comme une menace, en d'autres termes, comme un appel aux Américains —qui ne veulent pas payer eux-mêmes la perestroïka— à pressurer les Japonais. Ceux-ci perçoivent dans ces exercices de mauvais goût une sorte de pression morale constante, qui les obligerait, en bout de course, à participer à ces exhibitions de culpabilité dont les hommes politiques allemands sont passés maîtres et où ils étalent sans vergogne le mépris qu'ils cultivent à l'égard de leur propre peuple. Les Japonais essuyent de plus en plus souvent des allusions désobligeantes comme celles d'un Helmut Schmidt, qui se venge parce que les Japonais n'avaient pas suivi jadis sa folie des grandeurs, en refusant le rôle de locomotive de l'économie mondiale qu'il suggérait à un tandem germano-nippon. D'où son argument: les Japonais doivent chercher la «réhabilitation» (44).
Cette dénonciation infantile des Japonais n'est d'aucune utilité pour les Allemands. Ceux-ci devraient bien plutôt tirer les leçons qui s'imposent du conflit qui se profile nettement à l'horizon, entre le Japon et les Etats-Unis. Ils apprendraient ainsi qu'il ne suffit pas de connaître le succès économique sur la scène internationale (45). D'autres Etats ont des idées très claires sur la «responsabilité pour le monde» qui découle de la puissance économique.
Sur base de l'équation désormais conventionnelle entre les intérêts de l'Occident anglo-saxon et ceux de la «démocratie» (mais du pouvoir de quel peuple s'agit-il en l'occurrence?), n'est-ce pas une honte que ce ne soit pas le gouvernement légitime du Japon, démocratiquement élu, qui puisse définir cette «responsabilité», mais, à sa place, l'Administration américaine? Le succès économique japonais s'est effectué malgré les quantités réduites de matières premières dont dispose la métropole. Une telle situation est précaire, relève même d'une précarité croissante, car le Japon tombe de plus en plus sous la dépendance de l'étranger, fragilisant du même coup sa position stratégique. Le Japon pourrait de la sorte être contraint de payer comme au lendemain d'une guerre perdue. Le progrès sur les plans économique et technique devient un élément cardinal de la grande politique planétaire, surtout au moment où les Etats-Unis ne peuvent plus faire la guerre sans la technique japonaise et sans l'accord de Tokyo pour financer le déficit de l'Etat américain (n'oublions pas que les contributions japonaises et allemandes ont permis aux Etats-Unis de tirer de substantiels profits financiers de l'opération koweitienne) (46). Dans de telles circonstances, la présence des troupes américaines revêt une finalité économique et technologico-politique (47), si bien que l'on risque l'Europe au profit de l'OTAN. Le public japonais, lui, sent toujours la corde que l'on veut lui passer autour du cou (48). Ainsi, on pousse chaque jour davantage le Japon à risquer une confrontation avec la Chine (49); ensuite, la Corée du Nord donne bonne conscience aux Anglo-Saxons: ils peuvent y trouver un Saddam Hussein qui y règne depuis 40 ans. Quelles conséquences cela pourrait-il avoir (50)? Les avertissements que lancent les militaires ne sauraient être négligés sous prétexte qu'ils sont des exagérations, même si notre époque considère, en théorie, que les guerres ne sont plus «rentables» (c'est également ce que l'on croyait à la veille de la première guerre mondiale). En effet, dès 1925, l'année où le suffrage universel est introduit au Japon (51), un spécialiste britannique de la marine (52) décrit dans un roman le déroulement de la guerre du Pacifique de 1941-45, avec une relative exactitude. Si l'on suit attentivement le fil conducteur, mentionné au début du livre, il apparaît tout de suite clairement qu'une bonne partie du public américain s'imagine parfaitement qu'une guerre contre le Japon est possible, de même d'ailleurs qu'une guerre contre l'Allemagne (53), ce qui ne doit pas nous étonner, vu qu'il y a très souvent équation entre les deux puissances. Celles-ci peuvent éviter la guerre en payant, bien entendu pour soutenir de «nobles causes». Et si ces puissances se rebiffent, elles pourront aisément être manœuvrées et succomber à ces stratégies fatales dont les Américains se sont fait une spécialité, tablant sur la fragilité de leurs adversaires et les forçant, comme l'avouait le ministre de la guerre de Roosevelt juste avant Pearl Harbour, à frapper le premier coup et à passer aux yeux de l'opinion publique internationale comme des «agresseurs» méritant une juste punition. Aujourd'hui, Allemands et Japonais paient tout de suite, volontairement, même sans y être formellement obligés comme dans l'art. 231 du Traité de Versailles ou selon le droit dit à Nuremberg ou à Tokyo. De plus, on a extirpé du mental allemand, mais aussi du mental japonais, l'«esprit prussien» qui s'oppose radicalement au sentiment des Anglo-Saxons d'être un peuple élu. Il y aurait aujourd'hui des Japonais qui souhaiteraient avoir comme nous Allemands un Président, qui déclarerait que le 8 mai est une «journée de libération» (53) (pour le Japon ce serait sans doute le 6 août, jour où Hiroshima fut atomisée, à la suite, c'est bien connu, d'une «provocation» japonaise). En effet, ces deux journées de l'an 1945 ont inauguré l'ère de paix et de liberté que nous avait annoncée et promise Roosevelt.
Josef SCHÜSSLBURNER.
(texte issu de Criticón, März/April 1992; adresse: Knöbelstrasse 36/0, D-8000 München 22; prix de l'abonnement: DM 63,- ou DM 42,- pour les étudiants et les lycéens).
Notes:
(1) S. Shinkokinwakashu-Japanische Gedichte, Reclam, p. 91.
(2) Ce n'est qu'en juillet 1991 que le gouvernement américain a reconnu que les anciens «Flying Tigers», engagés aux côtés des Chinois avant Pearl Harbour, étaient des vétérans comme les autres. Cf. A. Schickel, «Verdeckte Kampfhandlungen durch Fliegende Tiger», in Geschichte, n°6/1991, p. 64. Le fait qu'E. Wickert (dans son article de la Frankfurter Allgemeine Zeitung du 28 nov. 1991), qui s'efforce pourtant de nous présenter les faits de manière équilibrée, ne mentionne pas cet aspect des choses et parle plutôt d'«une attaque en pleine paix», ce qui est vrai mais seulement du point de vue de l'opinion publique américaine et ne correspondait nullement à l'expérience des Japonais. On voit que l'on est toujours loins d'une présentation objective.
(3) Cf. C.H. Ule, «100 Jahre Meiji-Verfassung in Japan», DVBl., 1989, pp. 173 et ss.; les textes de la constitution Meiji et de la constitution de MacArthur figurent en annexe du livre de Miyazawa Toshiyoshi, Verfassungsrecht (Kempo), vol. 21, de la Schriftenreihe Japanisches Recht, 1986.
(4) Cf. Klaus Luig, «Rudolf von Gneist (1816-1895) und die japanische Verfassung von 1889», in Kulturvermittler zwischen Japan und Deutschland, édité par le Japanisches Kulturinstitut de Cologne, 1990, p. 50 et ss.
(5) Cf. Andreas Meckel, «Jacob Meckel (1842-1906), Instrukteur der japanischen Armee - Ein Leben im preußischen Zeitgeist», in [voir note (4)], pp. 78 et ss.
(6) Cf. John Whitney Hall, Das Japanische Kaiserreich, vol. 20 de la Fischer Weltgeschichte, 1968, p. 10.
(7) Cf. Hajime Nakamura, «Der religionsgeschichtliche Hintergrund der Entwicklung Japans in der Neuzeit», in Japan und der Westen, édité par v. Barloewen/Werhahn-Mees, vol. 1, pp. 56 & ss. De même, Shichihei Yamamoto, Ursprünge der japanischen Arbeitsethik, ibid., pp. 95 & ss.
(8) Cf. Michio Morishima, Warum Japan so erfolgreich ist, 1985, surtout pp. 95 & ss.
(9) Voir à ce propos, David B. Ralston, Importing the European Army. The Introduction of European Military Techniques and Institutions into the Extra-European World, 1600-1914, 1990.
(10) Cf. Ingeborg Y. Wendt, Japanische Dynamik und indische Stagnation?, 1978, voir surtout les p. 67 & ss.; quand on songe au fait que le Japon n'a imposé son autonomie douanière qu'en 1911, on comprend que le Japon a longtemps risqué d'être houspillé sur une «voie indienne».
(11) On oublie trop souvent aujourd'hui qu'en 1945 le colonialisme n'était interdit qu'aux Japonais et aux Allemands. Les Hollandais ont aussitôt repris leurs guerres coloniales en Insulinde mais l'occupation japonaise avait déstabilisé et affaibli trop considérablement l'administration néerlandaise, ce que les Hollandais ne pardonneront pas de si tôt aux Japonais (voir note 39).
(12) La grève générale planifiée par les socialistes et les communistes en février 1947 a été interdite à temps par le quartier général allié, inquiet des succès communistes en Chine, voir note 8), p. 171; à cause d'une intrigue machinée par la CIA, le seul cabinet socialiste japonais est tombé en 1948, voir à ce propos Crome, note 30), pp. 246 & ss. De cette façon, les forces de gauche, que le libéralisme américain avait pourtant hissé aux positions dirigeantes, ont été éloignées du pouvoir. L'introduction d'une système électoral qui fait que les campagnes électorales sont chères, a rendu difficiles les victoires de la gauche, surtout qu'il n'existait pas de système de financement des partis et des campagnes électorales. A propos du financement des partis au Japon, cf. Frankfurter Allgemeine Zeitung, 25 nov. 1991 (supplément «économie»).
(13) Cf. Walter Millis (éd.), The Forresal Diaries, 1951, p. 524.
(14) C'est ce que dit Toshiyoshi, voir note 3), pp. 43 & ss.
(15) Voir note 6), p. 347.
(16) voir à ce propos notre article, «Wie soll eine gesamtdeutsche Verfassung aussehen», in Criticón, Nr. 120, pp. 171 & ss.
(17) Ce que l'ont peut observer en lisant le Japan Quarterly, notamment le numéro d'oct.-déc. 1988, pp. 350 & ss., «When Society is Itself the Tyrant», où l'on entend par «tyran» la société japonaise elle-même, qu'il s'agit de «rééduquer» selon les principe du «libéralisme de gauche», idéologie dominante aux Etats-Unis.
(18) En dépit de ses positions socialistes, il n'en était pas moins un monarchiste tiède (cf. son ouvrage de 1906, Die Theorie des Nationalen Gemeinwesens und des wahren Sozialismus); cette orientation est opposée à la droite traditionnelle, dont le «noyau dur» comprend environ 1/5 de la fraction du PLD (Parti Libéral-Démocrate) et dont les intellectuels les plus représentatifs sont les journalistes Hideaki Kase et le compositeurs japonais le plus connu, Toshiro Mayuzumi. En partant du principe que si le Japon n'avait pas été la première victime d'une attaque atomique, il n'y aurait pas eu dans le monde de «zones dénucléarisées», ce groupe se réserve l'option d'un armement atomique pour le Japon.
(19) Voir note 8), pp. 29 & ss. Ces articles sont explicités de façon fort complète par Hermann Bohner et Shotoku Taishi de la Deutsche Gesellschaft für Natur- und Völkerkunde Ostasiens, Tokyo (s.d.).
(20) Ouvrage fondamental à ce sujet: Ernst H. Kantorowicz, Die zwei Körper des Königs, Première édition all.: dtv/Wissenschaft, 1990.
(21) Comme l'art. 1 de la constitution japonaise actuelle ne dit pas autre chose, Hirohito, à juste titre, n'a pas accordé d'importance particulière à son renoncement au statut de «divinité». Lorsque l'on songe qu'une entité aussi décisive que l'«Etat» n'existe qu'en tant que chose pensée (ou crue, c'est-à-dire en un certain sens en tant que mythe), cela devrait en fait réfuter toute forme de matérialisme.
(22) L'art. 17 doit être cité à ce niveau-ci de notre exposé, tant il reflète la sagesse politique asiatique: «Les décisions ne doivent pas être prises par une seule et unique personne... Dans un cas de moindre importance, c'est facile; on ne doit pas être nombreux pour délibérer; seulement dans les cas où il s'agit d'affaires importantes, et où vous vous inquiétez du fait de pouvoir éventuellement vous tromper, alors il faut que vous vous concertiez à plusieurs pour obtenir une vision claire de l'affaire. Alors il en sortira quelque chose de rationnel». La première des cinq promesses inscrites dans le serment de la Restauration Meiji, qui promettait d'instaurer un conseil de type parlementaire aussi large que possible, de façon à ce que les «dix mille affaires de l'Empire» puissent être réglées au départ de discussions publiques, remonte à l'art. 17 du Codex Taishi (voir note 19)).
(23) L'art. 12 ôtait aux administrateurs provinciaux le droit de lever l'impôt de manière autonome, de façon à garantir l'unité de l'appareil administratif de l'Etat.
(24) Comme le Tenno, aux époques les plus grandioses de l'histoire japonaise, voyait ses fonctions réduites à celle de pontife supérieur, l'histoire du Japon présente, quoique dans une forme édulcorée, quelque chose ressemblant à la bipolarité (Empereur/Pape; spirituel/temporel; religieux/scientifique) propre à la voie particulière empruntée par l'Europe occidentale, ce qui explique sans doute les analogies entre le Japon et la portion occidentale de notre continent.
(25) C'est clair dans le texte mentionné en note 17), qui signale qu'à la place de la théocratie d'avant-guerre s'est substituée une «serious soul-searching» (une recherche de l'âme sérieuse), débouchant sur une obligation de pacifisme (v. p. 352), qui s'enlise rapidement dans un dogme postulant que seul l'Etat nippon est en tort quand surviennent des tensions. Dans ce sens, on prétend (p. 351) que le refus japonais du service militaire a fait que les tensions en Asie n'ont pas conduit à l'escalade (mais on ne prévoit rien dans le cas où le Japon serait dans son droit).
(26) Ce n'est que depuis peu de temps que les socialistes japonais, qui se nomment désormais «sociaux-démocrates», s'efforcent d'adopter une attitude plus positive à l'égard de la Corée du Sud. Le fait que l'idéologie pacifiste juge positivement le régime nord-coréen, montre qu'en Asie les ersätze de religion peuvent prendre des formes plus perverses que les mauvais usages de religions traditionnelles originales.
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di Alessandro Cisilin
Fonte: il Fatto Quotidiano
Talebani, movimenti tribali, narcotrafficanti, immigrati caucasici e sauditi affiliati di Al Qa’ida, indipendentisti del Kashmir, fondamentalisti indù, naxaliti, Tigri tamil. La mappa del terrorismo nell’Asia del Sud descrive un’inquietante continuità nell’intero asse tra le colline afgane dello Waziristan fino al Bangladesh, passando per le valli dell’Indo e del Gange a ridosso dell’Himalaia, e poi giù a Sud nelle foreste del Deccan, e ancor più giù col separatismo induista nello Shri Lanka.
Il territorio che è forse la culla più antica della civiltà globale è oggi l’epicentro di movimenti di guerriglia di vario orientamento religioso e politico, non senza significativi legami con attori occidentali. Situazioni apparentemente non paragonabili tra loro se non nell’ampiezza delle fondamenta storiche e delle persone coinvolte. Sono decine di migliaia i militanti in ciascuna delle entità citate, formati in centinaia di centri di addestramento. E, a prescindere dall’ideologia che ne istituisce i diversi collanti, sono quasi sempre mobilitati da obiettivi materiali.
Il nodo irrisolto delle rivendicazioni di frontiera tra India e Pakistan. Il controllo del territorio e dei traffici di droga e armi nelle colline tra Afganistan e Pakistan. Il cosiddetto “corridoio rosso” delle foreste tra il Bengala e il Sudest dell’India, rivendicato dai maoisti alleati dalle tribù locali, contro le mire del governo e delle multinazionali del ferro. Che si tratti di Maometto o Krishna, Shiva o Mao, l’oggetto della ribellione trova sempre riscontro in tensioni politico-territoriali decennali, se non addirittura secolari.
Le responsabuilità del divisivo retaggio coloniale britannico rappresentano un dato scontato presso gli storici.
Meno evidente è il riprodursi di ambigue presenze europee e americane dietro ai sempre più frequenti fatti di sangue, a cominciare dai servizi d’intelligence. L’esempio recente più clamoroso è quello del 49nne David Coleman Headley, statunitense che all’anagrafe di Islamabad risulta Daood Gilani.
Si trova in una prigione degli Stati Uniti con l’accusa di aver architettato l’assalto a Mumbai nel 2008 e l’attentato a Pune tre mesi fa, costati la vita complessivamente a oltre duecento persone, in circostanze a tutt’oggi largamente misteriose, a cominciare dal movente - se non nell’esito di aver rallentato la ripresa del dialogo di pace indo-pakistano.
La matrice degli attacchi era islamica, si è detto e documentato, ma la vittima più illustre è stato il capo dell’antiterrorismo di Delhi Hemant Karkare, che stava indagando sui servizi deviati e il fondamentalismo indù.
E le stranezze continuano con la stessa storia personale di Headley, che non è quella dell’invasato islamico, bensì di un ex collaboratore della Drug Enforcement Agency per l’Asia del Sud, nonché, si sospetta, della Cia. Un doppiogiochista come troppi nell’area, del quale l’India ha chiesto invano l’estradizione. E che non ha potuto finora neppure interrogare.
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Russia and the New World Order - The Geopolitical Project of Pax Eurasiatica Nikolaj von Kreitor (1996) | |
For the period after the end of Second World War, the United States gained increasing prominence as the leading power of imperialist reaction, taking Germany’s place in this respect... And its ruling class managed, particularly during the imperialist era, to have the democratic forms so effectively preserved that by democratically legal means, it achieved a dictatorship of monopoly capitalism at least as firm as that which Hitler set up by tyrannical procedures...And this democracy could, in substance, realize everything sought by Hitler. Gyorgy Lukacs(1) Resoluteness does not first take cognizance of Situation and put that Situation before itself; it has put itself into that Situation already. As resolute, Dasein is already taking action. Martin Heidegger(2) We don’t have enemies in the East. Bismarck The concept of the state presupposes the concept of the political. The specific political distinction to which political actions and motives can be reduced is that between friend and foe, wrote Carl Schmitt.(3) The affirmation of the political is a recognition of the reality of the political and thus a recognition and identification of the foe. Only by affirmation of the political in an act of decision, which by necessity is a meta-existential choice, can a nation as a collective entity assert its own sovereignty and thus political future. In the aftermath of the dissolution of Soviet Union in 1991 which reduced the former Great Power to a state without politics and thus to a landmass in chaos, a sort of a Weimar-republic of the 90-ties, and in the face of the new American expansionism, the ideological discussion and search for viable political orientation within the former Soviet Union has intensified. Professor Nikolaj Zagladin pointed recently that the competition between the Soviet Union and the United States during the period of the Cold War must be characterized as a real war during which actual military power had been used to a very limited extend- mostly in proxy wars. This was so not because of a lack of will but because of the nature of the military technology— the existence of nuclear weapons made the war impossible. The nature of the war between the United States and the Soviet Union, known as the Cold War, was to its essence technology specific. But the Cold War was in fact the Third World War, claims Zagladin.(4) To a similar conclusion comes Zbigniew Brzezinski, the former National Security Advisor to President Carter, and presently one of the major ideologists of the «Expansionists of 1991», who wrote, paraphrasing von Clausewitz, that «the Cold War can be defined as warfare by other (non-lethal) means. Nonetheless, warfare it was. And the stakes were monumental. Geopolitically the struggle, in the first instance, was for control over the Eurasian landmass and, eventually, even for global preponderance».(5) Obviously the Soviet Union gave up much more in the settlement than the United States, agreed to the dissolution of the Warsaw Pact, although the military arm of American domination of Western Europe, NATO, continues to exist and is steadily expanding. Soviet Union unilaterally reduced its engagement in the Third World while the United States escalated her interventionist foreign policies. Soviet Union even supported the war in Iraq, a war that to its essence was a war for the control of the oil in the Persian Gulf and thus a war against the national interest not only the Soviet Union, but also of other European countries; a war that made it less likely that an accommodation between the Soviet Union and Western European countries could be reached. Soviet Union even agreed to withdraw its military forces from Germany while the United States intends to permanent her occupation of Germany, a fact that was clearly stated by President Bush during the November 7-8, 1991 NATO summit meeting in Rome. And that brings us to the post Cold War settlement, its consequences for Russia and for the international order. A critical observer will characterize this settlement as analogous to a Second Treaty of Versailles. Zbigniew Brzezinski point out that as a consequence of the Second Treaty of Versailles, the defeated Russia is passing into American receivership. «This is an outcome historically no less decisive and no less one-sided than the defeat of Napoleonic France in 1815, or of Imperial Germany in 1918. Unlike the Peace of Westphalia, which ended the Thirty Years War in a grand religious compromise, cuius regio, cuius religio , does not apply here. Rather, from a doctrinal point of view, the outcome is more similar to 1815 or 1945; the ideology of the losing side has itself been repudiated. Geopolitically the outcome is also suggestive of 1918, the defeated empire is in a process of dismantlement. As in previous termination of war there was a discernible moment of capitulation, followed by postwar political upheavals in the losing state. That moment came most probably in Paris on November 19, 1990. At a conclave marked by ostentatious displays of amity designed to mask the underlying reality, the erstwhile Soviet leader, Michael Gorbachev, who had led the Soviet Union during the final stages of the Cold War, accepted the conditions of the victors by describing in veiled and elegant language the unification of Germany that had taken place entirely on Western terms as a ‘major event’. This was the functional equivalent of the act of capitulation in the railroad car in Compiegne in 1918 (the capitulation of Germany) or on the U.S.S. Missouri in August 1945 (the capitulation of Japan).»(6) George Kennan remarked that «the collapse of the Soviet system amounted to the unconditional surrender we envisaged-a voluntary one if you will, but surrender nevertheless.»(7) And as a result the United States is attempting to impose on Russia terms of surrender stated in the National Security Council Memorandum 20/1 (NSC 20/1) which already in 1948 defined the American war aims in the Cold War and envisioned a post Cold War settlement tailored after the Brest-Litovsk treaty of 1918(8) , leading to the partition of the Soviet Union, disarmament, destruction of the national economy of Russia and establishment of American protectorate over large parts of the territory of the former Soviet Union: (...)Such terms would have to be harsh ones and distinctly humiliating...They might well be something along the lines of the Brest-Litovsk settlement of 1918...(We) would have to demand: a. Direct military terms (surrender of equipment, evacuation of key areas, etc) designed to assure military helplessness... b. Terms designed to produce a considerable economic dependence on the outside world.(9) NSC 20/1 stated further that the unified geopolitical space of the Soviet Union—the «fortress Heartland»—had to be destroyed by partitioning of the country and inclusion of above all the Baltic States and Ukraine into a Shatterbelt of U.S.A controlled territory. Wolfram Henrieder has pointed out that de Gaulle wanted the German issue solved- the unification of Germany, because it constituted a decisive cause and justification for American continuous military presence in Europe, a cause that would be eliminated with the solution of the German question, leading to the dissolution of the Cold War military alliances and speeding American withdrawal from Europe(10) , creating an emancipated Europe to the Urals. «The creation of unified Europe requires political decision which is tantamount to a will of independence... A united Europe, in this sense, could be build only in opposition to America.»(11) By her dominant position within the alliance America has kept Europe in a straitjacket, has made her fearful of speaking in her own voice. Since Europe has lost its elan and has borrowed an American personality, it must be forced to reassume an identity. As this identity does not exists, it must be created. If Europe can be roused only by instilling an apprehension over American hegemony, then this must be done for the sake of Europe’s survival, claimed de Gaulle for whom a truly emancipated Europe was an America-free Europe. From this perspective Gorbachev’s foreign policy and the geopolitics of implosion of Perestrojka negatively effected the possibilities for emancipation of Europe. In the ongoing political debate in Russia but also in France, it has been asserted that the defeat of the Soviet Union begins to appear as a defeat for Europe as well. Lenin once characterized the original Treaty of Versailles in the following words: “What is the Versailles Treaty? This unheard of, predatory peace, enslaves tens of millions of people, including the most civilized. This is not a treaty but dictates imposed by robbers with a knife in hand on a defenseless Germany. Germany has been deprived from all her colonies by virtue of the Versailles Treaty. Turkey, Persia and China have been enslaved. Seventy percent of the world population live in conditions of enslavement...And that is why this international order, which rests on the Versailles Treaty, rests in reality on a volcano."(12) And while Russia at the moment is in the same predicament as Germany after the W.W.I, the predatory New World Order, proclaimed by President Bush and implemented by the present Clinton administration, also rests on a volcano. The intensifying confrontation of Russia with the dictates of the New World Order has led to intensive ideological debate about the future of Russia. This debate has resulted in a renewed interest for the writings of the prominent German jurist Carl Schmitt whose book, “The Concept of the Political”, has already been translated into Russian and published in the sociological magazine Voprosy Sotsiologij.(13) The known Russian politician and chief editor of the influential magazine Elementy (Elements) Alexander Dugin must be credited with the first comprehensive introduction of the works of Carl Schmitt in the essay “Carl Schmitt- Five Lessons for Russia”, published in the Journal of Russian Writers ‘Nash Sovremennik’ (Our Contemporary)(14) and with the creative applications of his writing to the contemporary political and ideological chaos in Russia. “For Russia the writing of Schmitt are of special interest and significance because of his brilliant analysis of state of emergency and exceptional situations in contemporary political reality and the necessity of a decision to preserve the national existence of people. ..People exists politically only if they constitute an independent political community/entity and only if they as an entity oppose other political entities in order to preserve its understanding of the cultural specificity of its own community...The theory of exceptional circumstances and with it related theme of decision are of paramount importance for us today, because we are now in such historical juncture of the history of Russian people and Russian state in which the state of emergency has become a natural state of our nation, permeating and constituting the Being of our nation...We Russians must discover and understand our national essence and existence because we live in a time of emergency which demands a act of collective existential choice, an act of supreme decision.”(15) Here one can see a Heideggerian motif- the political identifies the essence and existence of community; it is the empirical Russian nation which in a time of national emergency must become fully political in an act of self-choice and decision and thus choose itself and its own historical destiny.(16) The act of self-choice presupposes a nation that has become political because only the political being of Russia gives existential meaning to the friend-enemy antithesis, what does not politically exist cannot consciously decide(17) , political unity is grounded on political existence. Political sovereignty is an existential question because it concerns the resolution of an existential conflict. Not only does every politically-existing people decide on the question of its own political existence and any possible danger to it; it decides also on whether an existential question actually exists- a question which is political by its very nature. Since for politically-existing people there is always the possibilities of an existential conflict, the question of sovereignty, i.e. the ultimate existential decision, always remains open.(18) «Every existing political unity has its value and existential justification not in the rightness or usefulness of norms but in its existence. Juridically considered, what exists as apolitical force has value because it exists. From this stems its ‘right to self-preservation’, the presupposition of all further considerations; it seeks above all to maintain its existence , it protects its existence, its integrity, its security, and its constitution - all existential values»(19) Carl Schmitt points out that «as long people exists in the political sphere, it must itself make use of the distinction between friend and enemy, at the same time reserving it for extreme conjunctures which it itself judges as such. This is where the essence of its political existence lies. From the moment it lacks the capacity or the will to use this distinction, a people ceases to exist politically...If the people should no longer have the strength or the will to continue in the political sphere, this is not the end of politics in the world. It is only the end of weak people...If the state refuses or is unable to make a decision in an exceptional situation, it inevitable runs the risk that other forces will make one in its place and establish their norms.»(20) Building on this theme Alexander Dugin sees the elements of will, decision and time intertwined in the quest for historical existence of Russia: «Decisionism not only amplifies and focuses on the state of emergency and the exceptional circumstances, but it is also a defense reaction against those circumstances: in the moment of historical decision for authentic national future, the people and the nation actualize their past and decide their future in a dramatic mobilization of the present. The present then becomes the focal point and synthesis of three qualitative characteristics of time: its source, i.e. the past when people entered into a historical existence, the will of the people directed toward the future, and the political self-assertion of the historically existing people in an act of decision which at the same time is an act of authenticity, in the present. In the supreme mobilization of the decision the historically existing Russian people reveals, recaptures and mobilizes its timeless historical uniqueness and identity. Therefore the political and historical future of Russian people is build on understanding and affirmation of its historical past... If the Russian people can self-assert themselves and their historical choice in this fateful and dramatic juncture, and if the Russian people are able to reveal and designate friends and enemies, recapturing from the flow of history its political self assertion, then the supreme political decision of the Russian people would be an authentic, historical and existential decision , an affirmation of thousand years of history of Russian people and the Russian state. If on the other hand political decisions will be taken by others, i.e. by the United States in the guise of the insidious ideology of pseudo universalism, which the United States is in the process of establishing as the only legitimate ideology in the New World Order, then our future will be un-Russian, i.e. the future will cease to exist for us. The historical Being of Russian people, Russian state and the Russian nation will became a Being without a future and thus a non-Being. Thus also Russian past will loose its meaning, will dissipate into nothingness: the historical drama of Russian history in the post-Gold War period will became a tragedy of submission under the dictates of the American New World Order, a tragedy of annihilation of Russian future».(21) «Past, present, and future are existential characteristics, and thus render possible fundamental phenomena such as understanding, concern and determination. This opens the way for the demonstration of historicity as a fundamental existential determination.»(22) Alexander Dugin emphasizes that the essence of a nation’s being-in-the world is a hermeneutical process of questioning and problematization of a crisis situation, a state of emergency. The concept of political existence of the Russian nation is actualized in a time of radical disintegration and regression, a time of emergency and outer and inner danger which creates awareness of being situated in a crises which must take on a political form. The understanding of the political roll of Russia in contemporary world after the dissolution of the Soviet Union, is a power to grasp the nation’s possibilities for being, which by necessity not only requires a disclosure of the nation’s concrete potentialities for being, in a sense of preserving itself and maintaining its own authenticity, but also the revealment of the sources for an inauthentic national existence. This revealment presupposes the identification of the foe which in the process of a national self-understanding becomes manifest; the hermeneutical circle thus closes - the reached understanding leads to resoluteness and demands a political decision on the part of the Russian nation;(23) because the potentiality for authentic national Being remains a mere potentiality unless accompanied by political decisionism. It is the decision to choose itself and thereby to oppose the foe and thus become political, which is the supreme political act of the nation. Those are the issues that are entertained in the most recent issues of Elementy (Elements), the ideological organ of the Russian opposition, dedicated to geopolitical discourse and ideological alternatives in the post-Cold War Russia, a period in which in the words of Aaron Friedberg, Professor in political sciences in Princeton, « the United States has emerged as a single, unchallenged ‘Great Satan’, against whom all ideological energies must be mobilized». The magazine is published by the Center for Special Meta-Strategical Studies in Moscow and beside Alexander Dugin, who is the publisher, lists among its co-editors the editor of the most important opposition newspaper Zavtra (formely Den’), Alexander Prochanov, the New European Right’s ideologists Alain de Benoist (editor of the French magazines Neuvelle Ecole, Elements, Krisis), Robert Steuckers (editor of the Belgian magazines Orientations, Synergies Europeennes and Vouloir) the Italian geopolitician Claudio Mutti, the Serbian geopolitician Dragosh Kalajic, as well as the controversial Russian politician and member of the former Parliament, colonel Victor Alsknis.(25) The interesting issues contain a translation of Carl Schmitt’s essay on “Nomos and the principle of Grossraum”, Karl Haushofer’s work on “Continental geopolitical unity” as well as contributions of authors such as Alain de Benoist and the Austrian general Heinrich Jordis von Lochhausen, the foremost theoretician of contemporary geopolitics and advocate of European liberation from American occupation. Alexander Dugin must be credited with both political imagination and ideological creativeness. He introduces a new vocabulary of resistance. In the tradition of a true iconoclast he identifies not only the foe of Russia and, in the future, of Europe— the United States , but also exposes the most pervasive ideological mystification— Der Mythus des 20. Jahrhunderts— namely the Myth of American Democracy and its claim of pseudo-universality. And finally he argues for the establishment of a new Grossraum in Europe, Pax Euroasiatica , opposing Pax Americana, and based on a coalition of Russia with Central European powers such a Germany and France—a new geopolitical continental block. In essence this concept could be described as a Monroe Doctrine for Europe which will exclude every American intervention in European affairs as well as necessitate a dissolution of NATO and withdrawal of all American military forces from European soil. A Monroe Doctrine for Europe is also a radical departure from the established American paradigm of international order- defined by Zbigniew Brzezinski as »American domination of Europe is axiomatic»(26) —,a paradigm that has been transformed into oppressive political theology and exercise of American hegemony. The relevance of Dugin’s writings as well as the magazine Elementy lies in the formulation of the geopolitical doctrine of Eurasian defense against American expansionism. The geopolitical discourse translates itself into a vision of future liberation which, according to Dugin, must become a categorical imperative for Russia’s-being-in the-world. THE PRINCIPLE OF GROSSRAUM The most fundamental principle in geopolitics is the principle of Grossraum formulated by Carl Schmitt in his book “Voelkerrechtliche Grossraumordnung mit Interventionsverbot fuer raumfremde Maechte” and seen by him as a foundation for the science of international law. A Grossraum is «an area dominated by a power representing a distinct political idea. This idea was always formulated with a specific opponent in mind; in essence, distinctions between friend and enemy would be determined by this particular political idea. As an example Schmitt cited the American Monroe Doctrine and its concept of nonintervention by foreign powers in the American Raum»(27) This is the core of the great original Monroe Doctrine, a genuine Grossraum principle, namely the union of a politically-awakened people, a political idea and, on the basis of this idea , a politically-dominant Grossraum excluding foreign intervention.(28) According to the concept of Grossraum the national sovereignty of a country depends not only on its military power, technological development and economic base but also on the size and geographical location of its land. The sovereignty of a country depends on its geopolitical independence and self-sufficiency of the geographical region. Countries that strive to achieve sovereignty must resolve the problem of territorial self-sufficiency. The Grossraum is a geopolitically unified and economically autarchic space— a spatial power. It is a «territory with rounded-out production and consumption which, if necessary, may exist by itself within closed doors.»(29) As such it protects itself from intervention by spatially alien states and from any other potential Grossraum,(30) and above all from American «Open Door» imperialism—defined by Isiah Bowman as American version of Nazi-Germany’s Lebensraum—in its geopolitical, economical or military manifestation. Prior to the dissolution, or as Alexander Dugin claims, subversion of the Soviet Union in 1991(31) , in the bipolar world of two Superpowers , there existed two competing Great Areas (Grossr?ume) or two opposing political blocks, each with its sphere of influence and ideology: the Atlantic Grossraum dominated by the United States and the Eurasian Grossraum dominated by the Soviet Union. The political competition between the two blocks gave a substantial latitude for autonomy and independence for countries included in the sphere of influence of the two blocks. However after 1991 a completely new world system has been created. The bipolar world landscape of two superpowers has been transformed into a mono landscape of one superpower imposing its will on the rest of the world. «The existence of the socialist block and the Warsaw Pact was a decisively positive factor for the prospective European unity, continental integration and future sovereignty of Eurasia. The end of the bipolar world and the emergence of the unipolar New World Order, is a blow on Eurasia, a blow on the continentalism and on the future of all Eurasian countries. If Russia would not immediately start to reconstruct her Greater Area (confirmed by the Helsinki Agreement) ...she would bring to a catastrophe not only herself, but also all people on the World Island...Today Russia, situated in the heart of the Eurasian continent, represents from a geopolitical point of view Europe as a continental block. Therefore the geopolitical interests of Russia and Europe not only confluence but are identical.»(32) In order to understand the historical background of the conflict between the Atlantic Grossraum and the Eurasian Grossraum as well as Dugin's analysis of the American New World Order as a final attempt by the United States for world domination, — a Monroe Doctrine for the whole world as envisioned already by President Wilson at the end of the WWI—, a short account of geopolitical concepts is necessary. It was the British author Halford Mackinder who in 1904 proposed the notion that the continental part of Eurasia, by virtue of its land mass and geo-strategical importance, forms the world Heartland. The power that controls the Heartland threatens the sea powers-once Great Britain, now the United States—that control the World Island— that is our planet. In 1919 he claimed the necessity for control of the Eastern Europe by the sea power. After the Versailles settlement the new Eastern European countries, concieved as exclusive sphere of influence of the sea powers, had to form a cordon sanitaire between Germany and Russia preventing the geopolitical consolidation of Eurasia. «Who rules East Europe commands the Heartland. Who rules the Heartland commands the World Island. Who rules the World Island commands the World,»(33) asserted McKinder. In 1943 MacKinder reformulated his theory— the state that controls the Heartland will dominate the World Island.(34) At the same time McKinder acknowledged that «The Heartland is the greatest natural fortress on earth. For the first time in history it is manned by a garrison sufficient both in number and quality»(35) The American geopolitician Alfred Mahan formulated the idea that world hegemony of sea powers can be maintained by control of series of bases around the Eurasian continent. Sea powers could dominate land powers by enclosing them in. The American geopolitician Nicholas Spykman developed the concepts of MacKinder and Mahan but put the emphasis on the control of Eurasian coastal regions which he called the Rimland or Inner Ring. He maintained that the United States could assert control over the Heartland by controlling the Rimland. The Rimland can be seen as an America controlled buffer zone or a huge Cordon Sanitaire, including the NATO countries, Scandinavia, China, India and Indochina. In spite of prolonged wars—the Korean War, the occupation of Taiwan, the war in Vietnam—, the United States has never been able to fully dominate the countries of the Rimland and thus to globalize her Grossraum. The theory and practice of containment born of the Cold War—United States creating NATO, SEATO (Southeast Asia Treaty Organization) and CENTO (Central Treaty Organization), putting bases surrounding the Soviet Union, maintaining puppet regimes around the world, are derived from MacKinder’s, Mahan's and Spykman’s geopolitical ideas. If Soviet Union was a fortress, «then to deal with a fortress is to surround it and seal it...This is known as containment»(36) Heartland theory stands as the first premise of the United States geopolitical doctrine and military though during the Cold War. American containment policy «represented a validation of MacKinder«(37) and acceptance of the necessity of destruction of the Hartland. NSC-68 was a statement of this primary objective of the American postwar foreign policy: world domination through destruction of the fortress Hartland— the Soviet Union—and imposition of preponderance of American power in Eurasia. Also U.S. primary foreign policy objective in the New World Order —the conquest of Eastern Europe through «inclusion» of the former Warsaw Pact countries in the military instrument of the global Monroe Doctrine— NATO, is derived from both MacKinders ideas and identical objectives in NSC-68. One can see the similarities between MacKinder’s and Frederick Jackson Turner’s geopolitical ideas,(38) between the MacKinder’s assertion that the geopolitical dynamics inevitable will lead to a creation of one World Empire (an Anglo-Saxon) and Turner’s «frontier thesis» , defining the essence of the United States as perpetual expansionism. The merger of the Monroe Doctrine, the «Open Door» imperialism and geopolitics in the frontier-expansionist Weltanschaung which has defined the U.S. foreign policy during this century, led after the end of the W.W.II to the grand design of an American Century and an American World Empire enbracing the globe.(39) NSC 68 was a statement of strategy and tactics to achieve those objectives. However the contraposition between the Atlantic Grossraum and the Eurasian Grossraum does have, according to Dugin, even a wider and more profound context that transcends the geopolitical power competition. In this conjunction one can recall de Gaulle objections in the past to Britain’s entry into the Common Market based on his perception of England as a type of civilization different from that of Europe . The English, as he saw it, were lacking cultural and historical identity with the Continent and were not interested in building a Europe distinct from America. «England is, in effect, insular, maritime, linked through its trade, markets and food supply to very diverse and often very distant countries. Its activities are essentially industrial and commercial, and only slightly agricultural... In short, the nature, structure and economic context of England differ profoundly from those of other States on the Continent.»(40) For Dugin the Atlantic Grossraum and the Atlanticism versus the Eurasian Grossraum and the Eurasianism represent two different paradigms of societal organization that can not be reconciled. Halford Mackinders geopolitical theories as well as Carl Schmitt’s work “Land und Meer” and to a lesser extend Oswald Spengler’s “Prussentum und Socialismus” and Werner Sombart’s “Haendler und Helden”, form here the theoretical framework. Dugin distinguishes two types of civilization: sea-oriented Atlantian and land-oriented Continental or Eurasian and sees the future rapprochement between Russia and Western European countries on the basis of the principle called Continentalism or Eurasianism, which he opposes to English and American Atlanticism. The antagonism between Atlanticism and Continentalism/Eurasianism, between a seagoing civilization and land civilization, goes back to ancient times, constituting the major tension of world history.(41) Atlanticism, exemplified by the legendary Atlantis, by ancient Carthage and by contemporary England and the United States, is characterized by the spirit of trade and profit and it values mercantilism and cosmopolitanism. Continentalism, best represented by legendary Hyperborea, and by historical Roman, German and Russian Empires, emphasizes the organic unity of people in their spiritual bonds with the earth and their fidelity to national tradition. Thus the very form of the landmass supporting a people influence the substance or their culture and national character. «In ancient history a sea power that become a symbol for sea civilization was Phoenicia-Garthage. The land civilization in opposition to Carthage was then the Roman Empire. The Punic wars reflected the irreconcilable differences between the sea-oriented and land-oriented civilizations. In modern history the Queen of Seas - Great Britain - raised as the sea pole of world politics, later to be overtaken by the United States. In the same way as Phoenicia and Carthage in the past , Great Britain used in the first place commerce, trade and colonialism as instrument for her hegemony. The geopolitical paradigm of Anglo Saxon sea orientation created a particular ‘commercial-capitalist-market’ oriented civilization, based primarily on economic and material interests and on the principles of economic liberalism. In spite of historical variation, the most common type of ‘sea civilization’ has always expressed the fundamental idea of the ‘primacy of economics over politics’. Mackinder clearly shows, that during the period of modern history ‘sea orientation’ meant Atlanticism, and today sea powers are United States and England, also the Anglo Saxon countries. In opposition to the Atlanticism stands the Eurasianism, the land based civilization. In modern history the Eurasian orientation is above all characteristic for Germany and Russia. Therefore the historical tradition of those countries has been and would be in opposition to the ideology and the geopolitical interests of the Atlanticist- the United States. Whereas Atlanticism can be equated with capitalist individualism, economic liberalism and commercial notion of imperialism, Eurasianism means communitarianism, social welfare, economic democracy , the precedence of general welfare over self-interest, of the societal ‘whole’ over the parts, and the primacy of politics over economics.»(42) Referring to the fundamental differences between the two paradigms of societal organization, Dugin projects that the world will one day witness a war between Eurasian continentalism, championed by Russia, and the global Atlanticism—the New World Order—, upheld by the United States, or, as Alain de Benoist writes: « Eurasia against America would be the decisive battle of the future. The United States is the enemy of humankind-hostis humani generis-, the Carthage that must be destroyed.»(43) THE NEW WORLD ORDER The essence of the New World Order proclaimed by President Bush , and terminologically and conceptually borrowed from the lexicon of Nazi Germany, as well as Woodrow Wilson’s expansionist ideas of a Monroe Doctrine for the whole world, is a new geopolitical project to transform the world into a single Grossraum- in Carl Scmitt’s thought a new Nomos of the Earth—, dominated, controlled and orchestrated by the United States with the corollary of subversion of international law, the United Nations and the sovereignty of other countries except the United States. United Nations is bound to loose all significance, becoming a disciplined puppet and instrument of American expansionism and assertion of global jurisdiction and system of interventionism, a sort of pseudo legitimizing facade through which U.S. will unilaterally act to further her expansionist interests. What seems to be in the future is a global Latin-Americanization of the world with the United Nations reduced to a sort of OAS (Organization of American States ) , i.e. a well-behaved puppet in American hands. «It is obvious that the American concept of Atlantic Grossraum - the American New World Order - totally excludes any form of real state’s and political sovereignty on part of any other country and people. The preexisting bipolar world prior to 1991 gave incomparably more freedom and sovereignty to countries that were included in the sphere of influence of the then existing Superpowers and competing Grossr?ume. The emerging Atlantic Grossraum of the American architects of the New World Order will lead to disintegration of the very principle of state sovereignty because power suppression - by military and economic means- will become the only instrument of control. The new situation in the world puts other countries, and in particular the countries that previously were members of the geopolitical block opposing the Atlantic Alliance, before the following alternatives: either a forced integration in the U.S. dominated New World Order— the Atlantic Grossraum— with subsequent renunciation of their sovereignty, or a creation of a new Grossraum which will be able to oppose the United States and thus will give them chance to preserve their sovereignty and cultural autonomy».(44) History in general and U.S. behavior in particular show us that predatory countries abhor power vacuum. It is certain, and it is happened, that the United States would hasten to exploit the withdrawal of Soviet Union from the word arena and impose unilateral advantage over other countries until now protected by the balance of power and the U.S. -Soviet competition. In retrospect one may say that the end of the Warsaw Pact and the dissolution of the Soviet Union have gone a long way toward decreasing stability in Europe and elsewhere. A substantial part of Alexander Dugin’s geopolitical analysis is focused on the Pentagon’s Defense Planning Guidance , drafted under supervision of Paul D. Wolfowitz, the Pentagon’s Under Secretary for Policy, and provided to the New York Times in February of 1992,(45) and which in all respects could be called a blueprint for total domination of the world. In the 46-page classified document the Defense Department asserts America’s political and military will be to insure that no rival superpower is allowed to emerge in Western Europe , Asia or the territory of the former Soviet Union. American mission and strategy is summarized in the document as follow: «Our first objective is to prevent the reemergence of a new rival, either on the territory of the former Soviet Union or elsewhere, that poses a threat on the order of that posed formerly by the Soviet Union. This is a dominant consideration underlying the new regional defense strategy and requires that we endeavor to prevent any hostile power from dominating a region whose resources would, under consolidated control , be sufficient to generate global power. These regions include Western Europe , East Asia, the territory of the former Soviet Union, and Southwest Asia. There are three additional aspects to this objective: First , the U.S. must show the leadership necessary to establish and protect a new order that holds the promise of convincing potential competitors that they need not aspire to a greater role or pursue a more aggressive posture to protect their legitimate interests. Second, in the non-defensive areas, we must account sufficiently for the interests of the advanced industrial nations to discourage them from challenging our leadership or seeking to overturn the established political and economic order. Finally we must maintain the mechanisms for deterring potential competitors from even aspiring to a larger regional or global role... ... NATO is the primary instrument of Western defense and security, as well as the channel for U.S. influence and participation in European security affairs. While the United States supports the goal of European integration, we must seek to prevent the emergency of European only security arrangements which will undermine NATO».(46) The document further outlines strategies to subvert the United Nations by substituting it in reality with the United States dominated and controlled NATO and also postulates the right of the U.S. to sidestep United Nations in acting independently and unilaterally.(47) The political development since 1991 can only be described as determined implementation of the American master plan for world domination, outlined in the Pentagon’s Defense Planning Guidance which is a mirror image of identical objectives stated in NSC-68. The document is interesting, as Dugin points out, because it allows for the obvious conclusion that the future enemies of the United States could be her former allies and that the threat that U.S. poses against the Russia now may become a threat against France, Germany and Japan tomorrow. And it is just a matter of time before the antagonism between Western European countries and U.S. will surface and articulate itself as opposition between different national interests. Despite the political transformation in Europe United States has resolved that NATO and the U.S. military presence on the continent should be a permanent geopolitical fixtures. Disbanding of the Warsaw Pact in July 1991 was not followed by the disbanding of NATO . The American alarm concerning the prospect of creation of a Franco-German joint force is understandable since such force will not only inevitably lead to assertion of sovereignty on part of European countries (48) but also to articulation of European identity and collective national interest different from that of the United States. The difference in national interest’s is emphasized by general H.J. von Lochhausen who in his article “The War in Iraq is a War Against Europe” writes: «U.S. has understood that in order to maintain its worldwide domination she must position herself against her enemies of tomorrow i.e. Japan and united Europe. U.S. has chosen to take a firm control of those oil resources on which Japan and Germany will depend in the future ...The war in Iraq was such positioning and it was made possible only because the Soviet Union was eliminated as a player on the world arena and thus also as a deterrent to American aggression. One must remember that the country that controls the oil in the Persian Gulf controls also Western Europe and Japan...And it is deeply disturbing that U.S. forced Germany and Japan to finance the war which ultimately was aimed to their weakening and control in the future».(49) To a similar conclusion comes Samir Amin who points out that »I believe that the decision to go to war in the Gulf was taken deliberately by Washington as a method of preventing the formation of ‘European bloc’ :by weakening Europe (the supply of oil now being unilaterally controlled by the United States; by revealing the essentially fragile political union of Europe...and by neutralizing Moscow».(50) THE NEW WORLD ORDER AND INTERNATIONAL LAW I would like to examine in more detail two issues that are central to Alexander Dugin’s criticism of the New World Order namely the framework of new international law it creates and its consequences for Russia and Europe as exemplified by the war in Yugoslavia. The issue of international law can be seen in the light of Dean Acheson’s statement concerning the American concept of sources of and obligations under international law. »Much of what is called international law is a body of ethical distillation, and one must take care not to confuse this distillation with law...Further, the law trough its long history has been respectful of power, especially that power which is close to the sanctions of law...the law simply does not deal with such questions of ultimate power- power that comes close to the sources of sovereignty»(51) , and the tendency on the part of the U.S. to assert her will as the sole source of international law. In this conjunction it is interesting to recall that already de Gaulle saw at the end of the World War II in President Roosevelt’s grand design for United Nations not only America’s bid for world hegemony through creation of international body subservient to and controlled by the United States but also «a permanent system of intervention that he (Roosevelt) intended to institute by international law»(52) , a design that re-emerged and came to realization in the New Word Order. The war in Yugoslavia on the other hand is of particular importance since it has been perceived in Russia not only as a contemporary analogy to the Spanish Civil War with the U.S. assuming the role of the former fascist powers but also as a general rehearsal to what may happen to Russia in the event U.S. gains a strategic nuclear superiority. And as before during the 30-ties in Spain a number of Russians has volunteered to serve in the Serbian forces.(53) A particular alarm in Russia has caused the so called Presidential Directive 13 which outlines American plans for massive cover operations as well as outright military intervention in Russia under the familiar disguise of so called peace keeping operations in former Soviet republics and formulated with the objective to prevent any recognition of a Russian Monroe Doctrine in the former Soviet Union.(54) A starting point for the analysis of the transformation of the concept of international law must be a discussion on the nature and development of the unilaterally proclaimed Monroe Doctrine which from its very inception has been the ideological basis of American imperialism and assertion of an ever increasing extra-territorial jurisdiction. The Monroe Doctrine designated an area far exceeding the territory of the United States- The Western Hemisphere- as a Grossraum with the U.S. assuming the role of imperial power vested with absolute sovereignty in the region while depriving other countries in the same region of rights to sovereignty and self-determination.(55) U.S. unilaterally reserved for herself the right of intervention in the Western Hemisphere creating a qualitatively new form of colonialism with the right of intervention as a cornerstone for political control and domination. The essence of the Monroe Doctrine and its subsequent codification in the Rio Treaty, is the repudiation of the main principle of the United Nations Charter namely the principle of equality and sovereignty of nations on which the body of international law rests. And already Hegel knew that international law-jus gentium-presupposes and is based on sovereignty of states. In a situation where only one state in the international community is a possessor of absolute sovereignty, the international law as such can not exist- it will be the application of the domestic law of the dominating state disguised into an universal principle.(56) After the conclusion of the W.W.I, at the Paris Peace Conference, which resulted in the signing of the Treaty of Versailles and creation of the League of Nations , president Woodrow Wilson presented his Fourteen Points which proclaimed a new universalism as well as , employing what later will be called a Orwellian New Talk, the right of self-determination as a foundation for the postwar world order. At the same time his Secretary of State, Robert Lansing, wrote a memorandum explaining the meaning of the Monroe Doctrine : «In its advocacy of the Monroe Doctrine the United States considers its own interests. The integrity of other American nations is an incident, not an end. While this may seem based on selfishness alone, the author of the Doctrine had no higher or more generous motive in its declaration.»(57) United States refused to enter the League of Nations unless its "Charter incorporated the Monroe Doctrine - a demand less concerned with the right of self-determination than with American domination in the Western Hemisphere. As it turned out, even though Art. 21 of the Chapter did incorporate the Monroe Doctrine, the U.S. did not join the League. In Schmitt’s view, Art. 21 symbolized the triumph of the Western Hemisphere over Europe.»(58) the grand design of President Wilson was to transform the Treaty of Versailles and its creation, the League of Nations , into a instrument of American imperialism and dominance of Europe.(59) Of particular interest are United States fifteen reservations which did not provide for ratification but, rather, for the nullification of the Treaty. Some of those reservations form a distinct doctrinaire body concerned with the nature of U.S. obligations under international law. 1. The United States so understands and construes article 1 that in case of notice or withdrawal from the League of Nations...the United States shall be the sole judge as to whether all its international obligations and all its obligations under the said covenant have been fulfilled... 4. The United States reserves to itself exclusively the right to decide what questions are within its domestic jurisdiction and declares that all domestic and political questions relating wholly or in part to its internal affairs ...are solely within the jurisdiction of the United States and are not under this treaty to be submitted in any way either to arbitration or to the consideration of the council or of the assembly of the League of Nations, or any agency thereof, or to the decision or recommendation of any other power. 5. The United States will not submit to arbitration or to inquire by the assembly or by the council of the League of Nations, provided for in said treaty of peace, any questions which in the judgment of the United States depend upon or relate to its long-established policy, commonly known as the Monroe Doctrine; said doctrine is to be interpreted by the United States alone and is hereby declared to be wholly outside the jurisdiction of said League of Nations... 14. ..The United States assumes no obligation to be bound by any decision, report, or finding of the council or assembly arising out of any dispute between the United States and any member of the league.(60) Those reservations express the specific American dualistic position in respect to international treaties: treaties are to be used as a vehicle for other countries to assume obligations while the U.S. does not assume any obligations.(61) Treaties were to be so designed solely to promote United States interests by securing action by foreign governments in a way deemed advantageous by the U.S. and not for the U.S. to undertake any international obligations. The purpose of this dualistic doctrine has historically been to solidify and promote American hegemonical claims. Recognizing the true nature of the pseudo-universalism of the international law created after the W.W.I which appeared not to rest on respect for existing sovereignties but was merely a pretext for complete political and economic domination by the United States, Carl Schmitt wrote that «Behind the facade of general norms of international law lies, in reality, the system of Anglo-Saxon world imperialism»(62) After the W.W.II United States needed a further disguise to unilaterally assert U.S. power and to underscore Washington’s hemispheric hegemony. It resulted in a creation and signing of the Interamerican Treaty of Reciprocal Assistance, signed in Rio de Janeiro in September of 1947, and a subsequent pact concluded in Bogota in April of 1948, which established the Charter of the Organization of American States (OAS). The significance of the Rio Treaty goes beyond the formal codification of the Monroe Doctrine. First, in view of the fundamental professed principle of the Charter of the United Nation namely the principle of sovereignty and equality of member states , a regional treaty which in substance repudiates the very principle of sovereignty save for the sole sovereignty of the United States , must be seen as incompatible with the U.N. Charter. Secondly OAS became a prototype of a pseudo-international organization with a pseudo-universal ideological facade, an instrument for American interventionism in the region. And finally it must be seen as a paradigm of American concept of organization of a Grossraum in particular and World Order in general the globalization of which is the very essence of the New World Order. Or as Noam Chomsky points out « For the U.S. , the Cold War has primarily been a history of worldwide subversion, aggression and state-run international terrorism, with examples to numerous to mention. Secondarily , it has served to maintain U.S. influence over the industrial allies, and to suppress independent politics and popular activism.»(63) An additional aspect of the New World Order seems to be the U.S. repudiation of one of the most fundamental rules of international law namely that treaties must be performed in good faith; the rule of “pacta sunt servanda”. The massive cover operations undertaken by the United States in Poland during the 80-ties after President Reagan signed a secret national-security-decision (NSDD 32)(64) that authorized a wide range of subversive measures by the CIA to destabilize the country , were motivated by the U.S. resolve to nullify the Yalta Agreement.(65) The U.S. invasion of Panama in December of 1990 was based on the Washington design to prevent the effect of the treaty that would transfer the control over Panama canal to Panama. I can certainly agree with Noam Chomsky’s conclusion that the Panama war which resulted in more than 20.000 civil casualties «is a historic event in one respect. It is the first U.S. act of international violence in the post-World War II era that was not justified by the pretext of a Soviet threat.»(66) And finally the war in Yugoslavia and the subsequent partition of the country which, historically seen, is almost analogous to Hitler’s partition of the country: a Croatian puppet state has been established by the neo-Ustachi. The general perception in Russia is that the so called Bosnian forces, promoted by the U.S. , are no more than the equivalent of the so called Contras in Nicaragua and the war is the first example of Latin-Americanization of Europe. But the partition of Yugoslavia, which in not so distant past was one of the leaders on the non-aligned countries, is seen as a flagrant violation of the Helsinki Accord of 1975 which essence was inviolability of frontiers and territorial integrities of states as well as guaranties of sovereign equality of nations and respect for the rights inherent in sovereignty(67) and on which all security arraignments in Europe were based. In pertinent part the Helsinki Accord states that: The participating States will respect each other’s sovereign equality and individuality as well as the rights inherent in and encompassed by its sovereignty, including in particular the right of every State to judicial equality, to territorial integrity and to freedom and political independence...The participating States regard as inviolable all one another’s frontiers as well as the frontiers of all States in Europe and therefore they will refrain now and in the future from assaulting these frontiers... The participating States will respect the territorial integrity of each of the participating States. Accordingly, they will refrain from any action inconsistent with the purposes and principles of the Charter of the United Nations against the territorial integrity, political independence or the unity of any participating State, and in particular from any such action constituting a threat or use of force. While the partition of Yugoslavia must be seen as violation of the Helsinki Accord, the issuing war and the U.S. outright military intervention and occupation of part of Yugoslavia—Bosnia—,do have wider implications since those measures involve and articulate the relationship between the U.S. and the United Nations. Summarizing the intentions of Washington William Safire in an article in the New York Times(68) writes concerning the prospective air-strikes against Serbian forces that the Clinton Administration has adopted a new resolute policy vis-?-vis the United Nations- «Don’t ask, tell Policy...Coercive diplomacy would become the order of the day» A State Department spokesman, Michael McCurry, asserted that « The United States would be ready to carry out an air campaign against advancing Serbian forces whether or not it received the approval of European allies at a NATO meeting in Brussels on August 2, 1993.»(69) He further omitted all references to any necessary authorization by the United Nations. Although the Clinton Administration was rebuffed by the U.S. Secretary General who rightfully asserted that the U.S. does not have jurisdiction over U.N. forces and that furthermore, any decision in respect to air-strikes must be sanctioned by the United Nations(70) , United States has persisted in claiming that U.S. alone can decide whether or not to strike. Or as the former State Department official John Bolton correctly pointed out: «We are the central multilateralists. The idea that there is some collective international will out there is just fairly land stuff. The true measure of America’s diplomatic clout will always be the military resources we are willing to commit.»(71) After a meeting in Washington with Alija Izetbegovic, the U.S.’s man in Bosnia, and a former officer of the Waffen SS (72) , President Clinton stated on September 8, 1993, that any military intervention in Yugoslavia must be undertaken «by a peacekeeping force from NATO — not the United Nations but NATO». The French reaction was understandable. Richard Duque, a spokesman for the Foreign Ministry, said France believed that any such operation should be «under the authority of the United Nations».(73) The French reaction must be seen also in light of the Defense Secretary Les Aspin’s assertion that any peacekeeping forces should be under NATO command, that is, under the ultimate direction of the Supreme Allied Commander, a post always held by an American officer. France however does not belong to the NATO’s integrated command and apparently sees the American statements as an attempt to infringe upon her sovereignty. The American objectives in Yugoslavia were fully realized. For all practical purposes NATO tog over all the essential functions of the United Nations, in fact replacing the United Nation. The Daytona «agreement» seen by many as a Second Munich , embodied not only the essence of the diplomacy of ultimatums but also the American attempts to subvert the of international law. In fact the Daytona Agreement is a nullity according the international law(74) . The agreement, modeled after the Platt Amendment in regard to Cuba, created a virtual American protectorate in Bosnia. The French geopolitician General Pierre-Marie Gallois, one of the leaders of the Resistance movement during the WWII, the creator of the military doctrine of France and one of the closest advisers of General de Gaulle sees the war and the partition of Yugoslavia as an integral part of the American design for world domination, embodied in the concept of the New World Order. And thus it serves the geopolitical strategy of the ultimate extension of American Lebensraum—the Monroe Doctrine for the whole world. In his words one can hear the voice of General De Gaulle: «The pursuit of truth and justice made me involved in a resolute struggle against the greatest absurd and evil which flow out of the totalitarian idea of the New World Order. The partition and destruction of Yugoslavia , the aggression against Iraq , the murder of hundred of thousands of innocent civilians in Iraq, all those abominable acts are all but pages of the same scenario: the imposition of the evil will of one over all who are perceived as obstacles for the imposition of American Weltherrschaft over humankind...It is rather obvious that the partition of countries in Europe has not ended yet. Our participation in NATO and the occupation of Yugoslavia is a threat to the independence of France, a betrayal of our national interests. The Balkan crisis is an expedient device to justify the unjustifiable: the expansion of the American military presence in Europe. And at the same time UN, rather than being an institution for promotion of international understanding and peace, has been transformed into an instrument for collective aggression. NATO is not on a peace mission in Yugoslavia. NATO’s forces in Yugoslavia are an act of aggression, an act of outright occupation.»(75) At the same time, points and emphasizes Galouas , the war in Yugoslavia, serves an important geopolitical purpose, designed to imperil the desire for geopolitical independence of Europe: «Germany will grow stronger and soon she would no longer tolerate the presence of American military forces on her soil. Therefore a reserve position for the American NATO forces is necessary, the addition of an ideal geopolitical region for stationing and regrouping of the military instrument of American foreign policy. Albania, Bosnia and Macedonia form that region...The world according to American recipes is an absolute and total negation of the old tradition of respect for rights and freedoms. After the genocidal bombing of civilian Serbian targets and the economic embargo serving the same purpose—weakening of the Serbs—, United States created Bosnia as her protectorate...That is abominable. But those atrocities serve the overriding geopolitical goal of the United States: to remain in Europe at any cost...Dayton Agreement is the latest embodiment of the new American diplomacy, aggressive and uncompromising , confident in its power, the diplomacy that knows and uses only the language of ultimatums... U.S. literally bombed to pieces Iraq, poisoned the nature and the ecological environment , with unparalleled barbarity killed hundreds of thousands of civilians, only in order to control the supply of oil and dictate its price as it pleases Washington...As a result of the embargo against Iraq 570.000 civilians were murdered....And this is a crime against humanity par excellence. And again and again decisions are made in Washington which will result in murder of innocent elderly, sick and poor. And then Washington dears to teach the world morality...Or take the so called War Tribunal in Hague, allegedly set up to represent moral and truth but in reality an instrument of war (war with other judicial means) and continuous aggression against the Serbs.(76) What better evidence of the absurdity of this tribunal than the fact that there were no war crime tribunals for all war crimes and crimes against humanity committed during the bombing of Dresden and Hamburg, the nuclear annihilation of Hiroshima and Nagasaki, for the massive war crimes committed in Vietnam, an for the war crimes committed in Iraq during the operation Desert Storm. It is as if all those massive war crimes did not happen or were insignificant compared to the Serbs resistance against the conquest of their country...I can not accept such perverted American logic, and I am very sorry that my country is forced to participate in those American atrocities.(77) The obvious conclusion is that the partition of Yugoslavia, and the subsequent war, serve several purposes: a. Expansion of the American Grossraum with the establishment of a Bosnian puppet state controlled by the U.S., as well as, in all probability, establishment of U.S. permanent military bases on the Adriatic; b. Prevention of the emergence of any independent European foreign policy initiatives and thereby the emergence of Europe as an unified new Grossraum; c. Consolidation of the control over the Rimland; d. Abrogation, in fact, of the Helsinki Accord; e. Subversion and factual demise of the United Nations as an international body and finally f. A rehearsal for, as it is perceived in Russia, an impending war of aggression against Russia. In any event, it is quite obvious, that substitution of United Nations with NATO will render the veto power of the permanent members of the U.N. Security Council inoperative, which will effect the interests of not only Russia but also France and China. If the incorporation of the Monroe Doctrine in Article 21 of the Chapter of the League of Nations signified the subversion of the universality of international law and Europe’s defeat by the U.S. , the war in Yugoslavia and air-strikes against Serbian forces signifies even more important historical event namely the subversion of the United Nations and its transformation in the future , if U.S. is not resolutely opposed , to a functional equivalent of the OAS i.e. to a pseudo-international body serving as a rubber stamp for American hegemony and wars of aggression disguised as so called peace keeping operations in countries that, prior to the peace keeping initiatives, have already been destabilized by the U.S. covert and overt subversion. The partition of Yugoslavia can very well became a second Munich for Europe. It is obvious that Washington is seeking to impose its absolute authority over the rest of the world. To achieve this aim United States will have to effect the complete subversion and forcible destruction of the machinery of government and structure of society in , above all, former socialist countries and their replacement by an apparatus and structure subservient to and controlled from Washington. Hitler left the League of Nations preparing for aggressive wars; United States strategy on the other hand is much more dangerous - the subversion of the United Nations to further the same end . Recognizing the changing nature of the United Nations in the post 1991 era and the issuing crisis of legitimacy, one of the founders of the National Salvation Front in Russia and the former editor of the Military-Historical Journal general B. Filatov wrote that «When the National Salvation Front comes to power and that will happen very soon, we will leave the United Nations which has become a fascist punitive organization, an instrument of CIA. We will put our rockets on alert. Then we will see who will dare to attack Serbia.»(78) The necessary strategy for Russia and other European countries, Germany and France above all, must be a geopolitical project to create a new Grossraum - Pax Eurasiatica- in opposition to Pax Americana and its corollary , the New World Order, because only in opposition to the United States can Europe begin an independent geopolitical life and reach a genuine emancipation, writes Dugin. The purpose of a new Kulturkampf is to problematize the American hegemony as a threat to Europe as a historical formation in general and to its culture in particular. Finding the authenticity of European destiny and political life implies by necessity a rejection of any false claims of universalism advanced by the U.S., which to its substance is both an ideological facade and concealment of American particular national interests. European revival is conditioned upon the dissolution of NATO which today is solely an instrument of American control over its alleged allies and a pretext to maintain U.S. occupation forces in Europe /for more than one hundred years» as President Bush asserted. The strategical objectives of the U.S. controlled NATO have been defined by Wolfram Hanrieder in his book Germany, America, Europe(79) as a strategy of «double containment»: containment of the Soviet Union in the past on one side and of American allies on the other. «The logic of this strategy was put bluntly by Lord Ismay in his famous dictum about NATO’s purpose in Europe (which could have described the U.S. policies toward the Japanese) ‘Keep the Americans in, the Russians out, and the Germans down.’»(80) Europe as a collective entity must enter the famous hermeneutical circle and walking there must find the truth about its separate and unique collective existence which during the Cold War years has been concealed. As Heidegger has pointed out , the attempt to achieve national authenticity is always expressed in resoluteness and resoluteness is the true substance of Kulturkampf. Dugin proposes the revival of the concept of Mitteleuropa, originally formulated by Friedrich Naumann, as an ideological platform for a new geopolitical orientation opposing Pax Americana and creating a competing Grossraum—Pax Eurasiatica— which will exclude and oppose the United States. Closely associated with the concept of Mitteleuropa is the specific political extrapolation of the Kultur/Zivilization dichotomy as formulated by Thomas Mann in his book “Reflections of a Nonpolitical Man”(81) in which he counterpoises German «culture» against largely Anglo-Saxon «civilization». Dugin elaborates on that dichotomy reaching the conclusion that not only Europe’s national interest differs from that of the United States but that also its cultural tradition is the antithesis of the hollow shell of «civilization» in the U.S. Whereas «culture» in European countries is expression of national identities and of organic historical tradition, the American «civilization» is the bearer of an all-embracing commercialism and consumerism whose penetration dissolves all national identities. A rather paradoxical conclusion emerges from the revival of the concept of Mitteleuropa namely an anti-West oriented Europe. Dugin sees the term West as largely an American ideological construct, an Atlanticist mold thrown over Europe, and regards de Gaulle’s decision in 1966 to withdraw from NATO’s integrated command, which, as de Gaulle emphasized, deprived France of her sovereignty, not only as the first assertion of European identity separate and different from that of the United States, but also as the first anti-West manifestation by an European country in the U.S.’s sphere of influence. De Gaulle emphasized that the American design has always been to transform a cohesive European community into a larger and looser Atlantic community under American control.(82) Recognizing that Atlanticism was virulently aggressive as ever, he was compelled to look for ways of resisting American hegemony in Europe. »There were two options: he could either take unilateral measures to challenge American hegemony or he could seek alternative partners with a common interest in breaking down hegemonic control.»(83) France’s withdrawal from the NATO’s integrated command become de Gaulle’s ultimate gesture of anti-hegemonism. The failure of the Soviet Union, due to defeatist and de facto anti-national foreign policy of the Gorbachev administration, to condition the unification of Germany on her withdrawal from NATO, was a major self-inflicted political defeat affecting not only Russia but also Germany in the future. For Russia it means a weakening of its strategic potential and for Germany a lost chance to gain full sovereignty by not having foreign occupation forces stationed on her territory. And for Europe as a whole it signifies a lost momentum to replace NATO, i.e. American power projection and an instrument of containment against U.S.’s former allies, with a pan-European security system. In this perspective one must se the alternatives for Europe as envisioned by the Maastricht treaty which may lead to gradual unification: either a Federated Europe as a power projecting Grossraum or as an even more divided and weakened Europe under the oppressive and leveling effect of the American pseudo-universalism, which in substance will amount to an Atlanticist police state with the NATO’s strategy of containment directed toward the U.S.’s former allies. In the latter case the Maastrich treaty will lead to deligitimization of national sovereignties and to weakening and dissolution of national identities of member states. Instead of a new European self-identity, the result will be the creation of an amorphous space with obliterated national and cultural identities and functionally integrated into the American Grossraum. Already de Gaulle foresaw that possibility when he stated that if the United States is not opposed «at the end there would appear a colossal Atlantic community under American dependence and leadership which would completely swallow up the European community.»(84) Against the anti-European concept of Atlantic community, devised as an ideological vehicle for subjugation of independent European geopilitical existence, stands the concept of a Monroe doctrine for Europe, claims Alain de Benoist : «What bothers me is that I do not see the Maastricht Treaty leading to an autonomous, politically sovereign Europe determined to acquire the equivalent of what the Monroe doctrine was for the United States, but rather a phantom of Europe, a Europe a unemployment, absent and impotent, a free trade zone governed on the theoretical level by ultra-liberal monetary principles and, on the practical level , by administrators and bankers who neither have a political project nor democratic legitimacy...Nietzsche said: «Europe will create itself on the edge of a tomb». For my part, I believe it will create itself over and against the United States, or it will not create itself.»(85) In historical perspective the Anglophone powers , Great Britain in the past, United States now, have always been an obstacle to consolidation of Europe and thus a true geopolitical adversary. «The urge to evict the Americans, and before us , the British from the Continent has deep roots in reaction to the role of the English-speaking countries in foiling every attempt to unify Europe since the Renaissance. With the exception of the more misguided members of the House of Stuart , every English-speaking head of state from Elizabeth Tudor to Harry Truman opposed the consolidation of the Continent. Elizabeth I fought Spain; from the time of Marlborough to the time of Wellington the English fought France; from Asquith to Churchill and Roosevelt the «Anglo-Saxon» fought Germany. Even when American policy shifted under Truman to support the peaceful integration of Western Europe , it was out of desire to fend off the greater menace of the Soviets...The positive contribution to European civilization of the old «divide and rule» policy cannot, however, disguise its essentially negative goal. The British sought to keep the Continent embroiled in quarrels while they assembled a global empire and grew rich. The United States relied on Britain to maintain a European balance that kept the Europeans from interfering in the New World while we, like our British cousins, traded freely with all quarters of the globe...In the twentieth century the Elizabethan realpolitik of the Anglophone powers acquired a Wilsonian overlay...The Elizabethan and the Wilsonian policies remain at the core of American interests today. As good Elizabethans, we understand that it is not in America’s interests...for European integration to take place under the hegemonic leadership of a single power, whether this power is based in Moscow or Berlin. Nor would it be in America’s interests for European integration to proceed in such a way as to create a single hegemonic power center in Brussels»(86). The grand design of the United States, particularly now, when Washington is aggressively advancing the plans to globalize NATO, and thus its Monroe doctrine, is the Latin-Americanization first of the former socialist countries, including Russia and second, of her former West European allies. And as long as United States is not displaced from her position of hegemony in Europe and ultimately driven out of Eurasia, European countries will never acquire that which is necessary for independent geopolitical existence. A federated Europe with American military forces on its soil is no more than an obedient satellite. During the 60-ties de Gaulle warned against a supranational Europe of the Common market which he then considered a divided Europe under the mentorship and hegemonial design of the United States. Reading Dugin one may paraphrase Bismarck and say that if the power of Russia is ever broken , it will be difficult for the former members of the socialist block to avoid the fate of Poland in the past that is the destiny of divided and contested area to be claimed by the United States as «glacis and perimeter of battle». By the same token a weak Russia may spell weakness also for other European countries. But does it mean that Dugin envisions a sort of a new Rapallo treaty(87) as a political foundation for a new geopolitical orientation? I can agree with Rudolf Barho’s assertion that »A new Rappalo would break Western Europe from North America«.(88) However, a new Rapallo can only be used as a metaphor for diplomatic and political initiatives that may lead to a possible alliance between Germany, France, Russia and China as central powers. A new equivalent of Rapallo treaty is a geopolitical and existential imperative for Europe, a fundament for future continental unity and continental defense against American expansionism, against the pseudo universalism and totalitarian claims of the American Imperium Monde. Dugin’s concept of a new European geopolitical orientation resembles de Gaulle’s visions during the ‘60s. Rejecting American hegemony de Gaulle conjured an alliance, an European coalition, which, without infringing on the sovereignty of the member states would constitute an alternative European Grossraum. He recognized that the ideology of Atlantic unity is in fact the ideology of American domination and counterpoised his concept of European unity which today only can be seen as America free Europe. However de Gaulle recognized that a genuine European alliance could not be created without there being in Europe today a federator with sufficient power, authority and skills.(89) At that time there was no such strong federator. In his memoirs de Gaulle noted that «The American President’s (F.D. Roosevelt) remarks ultimately proved to me that, in foreign affairs, logic and sentiment do not weight heavily in comparison with the realities of power; that what matters is what one takes and what one can hold on to; that to regain her place, France must count only on herself».(90) United States believed that the Frenchmen «in a grip of sort of neurasthenia would gradually relax into the status of an American protectorate...The alternative, as de Gaulle constantly proposed it, was for Frenchmen to continue the arduous struggle for national self renewal until they again became masters of their own fate.»(91) In his advocacy of a new continental geopolitical orientation and in his definition of Pax Eurasiatica, Alexander Dugin criticizes and rejects the old ideology of Panslavism. The difference between the Panslavism and Eurasianism is summarized by him as a difference between two principles — «the principle of blood» and «the principle of soil (realm)». For the Panslavism the emphasis is on the concept of ethnic identity—in other words the primacy of blood over the soil. For the traditional Eurasianism on the other hand, the land takes precedence: as ideology it expresses the primacy of the soil over the blood. «It presupposes the ideological choice of continental, Eurasian values over narrow ethnic or racial values.»(92) A further differentiation of the concept of Eurasianism can be made by distinguishing between two sub directions of the Eurasian ideology. The first one is centered on the notion of a specific Eurasian identity—the concept of polyphonic ethos of Russia—defined in terms of ethos and land.(93) The second one defines Eurasianism in terms of geopolitical realities and necessary geopolitical strategy, also in terms of realm and Grossraum. The emphasis here is on the land power status of Russia as opposed to the atlanticist sea power status of the United States. Alexander Dugin is a proponent of this definition of Eurasianism. From a geopolitical point of view the past observation of Halford MacKinder that the greatest danger to Anglo Saxon hegemony would be a political union and a geopolitical block of Russia and Germany, bears particular relevance. The concept of Eurasian resistance against the dictates of the American New World Order and the global American hegemony articulates the geopolitical and the national meta— existential necessity to create such geopolitical block able to stop the steamroller of the New World Order. An additional aspect of Dugin’s analyses of geopolitical orientations and strategies concerns the future relationship between Russia and Islam. The starting point is Robert Steuckers view that Russia must make a common cause with Iran against American interests.(94) Continental, Islamic — revolutionary Iran is contrasted with the Atlanticist secular Turkey and the Arabic theocratic variant of Islam of Saudi Arabia. Turkey is the primary agent of American influence in the region and a virtual colony of the U.S., an Asian forpost of American geopolitical interests which serves as a cordon sanitaire between the Asian East of Russia and the Arab world. A conflict between Russia and Islam countries is the main purpose of the U.S. foreign policy, a main conduit for which is Turkey. A similar roll serves also Saudia Arabia, a country which in fact must also be seen as an American colony. The interests of Saudy dynasty and of the American Atlanticism coincide, forming a bullwark against creation of an Arabic Great Area. Through the control of Saudi Arabia U.S. controls the supply of oil. And the U.S. controlls the economy of Europe through control of the oil in the Gulf region. Therefore, to counterbalance American hegemony in the region, Russian foreign policy must be oriented toward Iran, asserts Dugin. In today perspective the events of 1991 are of paramount importance because, as Dugin points out, 1991 is the year of destruction of the Eurasian Grossraum, the only one that possessed resources to withstand American expansionism and which consisted of all countries belonging to the socialist block. Central Europe in general and Germany in particular, as geopolitical entity are only a pure potential at present time. Central Europe can constitute itself in the future only in alliance with Russia which occupies a unique position as a centrum of the Eurasian continent, as a Heartland. Russia occupies also a key strategical and geographical position in the world with its huge landmass and human potential. A new geopolitical orientation must take into account the so called Atlantic factor which Dugin in length discusses. The Atlantic factor is the United States strategy to impose her will on former Soviet republic and socialist countries and to transform those into satellite countries in the American orbit, linking them into a Cordon Sanitaire around Russia. Certainly one can already see the shadow of the Atlantic masters over the Baltic republics. As the Russian jurist Vladimir Ovzinski asserts the «CIA already works totally in the open in Lithuania , not only through American Embassy in Vilnius but also through American advisers to the Supreme Council of the Republic. And the situation is similar in both Latvia and Estonia».(95) The Atlantic factor is a geopolitical consequence of what William Appleman Willams has called the American «frontier thesis» —the perpetual expansionism in pursuit of new western frontiers. United States has a perspective for real world hegemony only if no competing Grossraum is allowed to arise. Therefore both NSC-68 after the end of the WWII and its mirror image—the Pentagon Planning Guidance after the «end» of the Cold War, envision control or destruction not only of any competing Grossraum but also any geopolitical area which can consolidate itself in the future into power projecting Grossraum. The conclusion is that the primary objectives of the American geopolitics are to destroy any potential geopolitical alliance as well as to prevent its building. To paraphrase Clemenceau the American politics of peace vis-?-vis Russia are nothing else but continuation of war with other means. The Cold War has been replaced by Military Peace. Therefore creation of Cordon Sanitaire around Russia, which by necessity mandates the conquest of the second Europe—Eastern Europe—under the guise of enlargement of NATO, is the most important objective of the American foreign polic Cordon Sanitaire consists of territory of countries and people situated between two geopolitical blocks. It is created by virtue of hegemonic control or, as in the American creation of a puppet Bosnian state in the failed attempt to create a Georgian state under Schevernadze, and in the war in Chechnya, with outright force and subversion. The countries that potentially will be included in the Cordon Sanitaire are those countries whose unity or membership in a competing Grossraum would constitute a geopolitical disadvantage to the United States. United States is actively pursuing her double-edged foreign policy objective of further expansion of her extra-territorial jurisdiction and transformation of former socialist countries into a Cordon Sanitaire through plans outlined by the Secretary of Defense Les Aspin at the NATO meeting in Travem?nde on October 21, 1993 to expand the North Atlantic Treaty Organization by inclusion of former members of the Warsaw Pact. Cordon Sanitaire in the beginning of this century consisted of countries situated between Russia and Germany and were controlled by England. Those countries, being an agent and tool of the Anglo-Saxon West, were breaking the Grossraum of Mitteleurope and the Grossraum of Russia. In present days the perfidious Albion has been replaced by the perfidious Washington and the American objectives can be summarized as assertion of hegemonic control and transformation of former Soviet republics into virtual American colonies in which, with employment of coercive measures: subversion, terror, aggression, economic warfare, United States will install marionette rulers without any trace of political independence. Or as Noam Chomsky puts it «One consequence of the collapse of the Soviet block is that much of it may undergo a kind of ‘Latin-Americanization’ , reverting to the service role, with the ex-Nomenclatura perhaps taking the role of the Third World elites linked to international business and financial interests»(97) In conjunction with this it is important to bear in mind that American attempts to partition Russia and gain control of her huge natural resources predate the Cold War period and NSC-68. In October of 1918 the American government drafted secret commentaries to President Wilson’s 14 points which outlined U.S. plans to partition Russia into small regions in order for the United States to assert her hegemony and gain control over Russian territories and natural resources in Siberia and Caucasus. On the map prepared by the Department of State titled «Proposed Borders of Russia» and presented by President Wilson at the Paris Peace Conference, all that is left of Russia is her central part , the Mid-Russian Plateau. In an appendix to the map it was stated that «All Russia must be divided into large natural regions, each with its own economy. However none of those regions should be sufficiently independent to build a strong state».(98) Those long-standing American plans make it even more urgent for Russia to make a decisive geopolitical orientation. Of course, if President Yeltsin turns out to be a Russian Quisling,(99) and his September 21,1993 coup with subsequent destruction of the Russian Parliament most certainly suggests this possibility(100) , then the prospects for a new geopolitical orientation will become more difficult to realize. In his 1938 study “Ueber das Verhaeltnis der Begriffe Krieg und Feind”, Carl Schmitt, anticipating the future of the Cold War, described the world as moving toward an ‘intermediary situation between war and peace’, a kind of a bellicose peace which is neither war nor peace, which Carl Schmitt called military peace, i.e. a world condition of global confrontation which tends to take the form of a total war. In “Totaler Feind, Totaler Krieg, Totaler Staat”, published in 1937, Carl Schmitt related the idea of total war to the idea of total State, a war that «will be total for two reasons. First because it would not be localized in the sense that it would enfold in on a battle field, but it would be spread across the entire planet including sidereal space. Next, because it would not only be military, given that all the activities -scientific, technological, economic-and all of the material and ideal aspects of existence will be directly implicated in this gigantic conflict. Protected zones will no longer exist since both the military and the non-military will be engaged in this conflict. Politically speaking, there will no longer be a distinction between those who fight and those who do not».(101) During the Cold War two kind of Grossraum confronted each other- the existential categories of friend and enemy applied also to the concept of Grossraum- and out of that confrontation a world order build on plurality of Grossr?ume was maintained. However the end of the Cold War did not lead to revival of the concept of state sovereignty but to renewed attempt to universalize the ordering principles of the American Grossraum and establishment of a Monroe Doctrine for the whole world- an overriding objective of American foreign policy since the time of President Willson- under the slogan of a New World Order. Alexander Dugin equates the New World Order with American world wide hegemony, which, in order to be established, requires the totalization of the ‘intermediary situation between war and peace’, i.e. a new Cold War with different ideological justification but with the same aim: total American world domination. «The total war, previously localized in the Cold War confrontation between U.S. and the Soviet Union, is the essence of American universalism. Military peace is the present substance of the New World Order with which Russia and other countries are confronted now and the American implementation of this New World Order can only lead to a new total war.»(102) As a paradigmatic figure of Russian resistance to the New World Order, of what he calls the Endkampf, Alexander Dugin takes the symbol of the Russian partisan. The phenomenon of partisan is for Carl Schmitt «a paradigmatic figure for the decomposition of the classical Nomos and for the appearance of bellicose peace. The figure is remarkable because it still has a landlocked reality-described by Schmitt as its ‘telluric character’»(103) The partisan embodies the concept of Resistance, his physical existence is overshadowed by his political existence- Existenze des Wiederstand- and he takes his law from hostility, i.e. from his sense of supreme distinction between friend and enemy. His struggle is against the New World Order, its dictates and its total claim of annihilation of Russian future. For Dugin the American New World Order is a triumph of global totalitarianism. The Partisan is the answer to the illegitimate legality of the New World Order. «In the condition of the state of emergency, in the intensifying atmosphere of ‘military peace’ or ‘peaceful war’, the defense of national soil, history, people and nation are the sources of his legitimacy. He heralds the beginning of a total war with the total enemy...In Russian history his prototype is the partisan during the war against Napoleon, the partisan of the World War II, the resister to the Nazi German New World Order. Now he is the resister of a new New World Order- the American. The partisan is the harbinger of the healing power of national soil and historical national space of the Russian people. In the post-Cold War period of intensifying ‘military peace’ only the Russian partisan can show the way to a Russian historical future». (104) However the only viable alternative to the totalitarian globality of the New World Order is the reconstitution or creation of a new Grossraum opposing American world empire and the emancipation of the principles of international pluralism. The pseudo-legality of the New World Order must be confronted by a new alternative legality. Against the all-embracing American pseudo-universalism must stand the will-formation of national particularism and mobilization of geopolitical resistance. Against the steamroller of the American New World Order and the American invasion in the geopolitical vacuum of Eurasia after the destruction of the Soviet Union a new continental geopolitical unity must be consolidated resulting in proclamation of a Monroe doctrine for Europe. Therefore, referring to the Pentagon’s Defense Planning Guidance, Alexander Dugin writes: «The overriding objective of the United States is to prevent the creation of any real geopolitical alternative. Therefore our main objective must be the creation of any new geopolitical alternative.» This is a good point of departure because it presupposes the concept of the political. And after all, to paraphrase Heidegger, the political is the house of Being. ENDNOTES (1) Gyorgy Lukacs -The Destruction of Reason (Humanities Press, Atlantic Highlands, 1981 at pp.765,770. (2) Martin Heidegger -Being and Time (Harper and Row, New York, 1962) at p. 347. (3) Carl Schmitt - The Concept of the Political (Rutgers University Press, New Brunswick, 1976) at p.p.19, 26. (4) Nikolaj Zagladin -Pochemu zavershilas ‘holodnaja vojna’ - Kentavr, January/February 1992, Moscow, pp. 45-60 (5) Zbignief Brzezinski -The Gold War and Its Aftermath -Foreign Affairs, Fall 1992 (Council on Foreign Relations, New York) - at p. 32 (6) Zbigniew Brzezinski - ibid. at p. 34 (7) George F. Kennan-The Failure in Our Success -New York Times, March 14, 1992, p. A17 (8) The Treaty of Brest-Litovsk , signed March 3, 1918, ended the war between Soviet Russia and Germany. As a result of the treaty Soviet Russia was partitioned and lost 34 percent of the population and 54 percent of the industrial production. According to the terms of the treaty Germany, enlarging her Lebensraum, was to occupy Ukraine , Byelorussia, Caucasus , the Baltic provinces etc. With the defeat of Germany the treaty was repudiated. (9) Thomas H. Etzold and John Lewis Gaddis Containment. Documents on American policy and Stategy, 1945—1950 (Columbia University Press, New York, 1978) p. 196. NSC 20/1 was subsequently incorporated in the infamous NSC 68. On this subject in Russian debate see Nikolaj von Kreitor Geopolitika holodnoj vojny , Juridicheskaja gazeta No. 26, 1996, Moscow. (10) Wolfram Henrieder -Germany, America, Europe (Yale University Press, New Haven, 1989) - at p. 17 (11) Here quoted after Ronald Steel -Pax Americana (The Viking Press, New York, 1967)- at p.p. 79-80. (12) Lenin Collected works, vol. 41, p.p. 353-354 (13) Voprosy sotsiologij , nr 1, 1992 (Moscow ) (14) Alexander Dugin -Carl Schmitt –piat’ urokov Rossii (Nash Sovremmennik, nr. 8.1992, Moskow) (15) Alexander Dugin - ibid , at p.p. 129, 130,135 (16) Agnes Heller has analyzed the problem of a meta-existential choice of a nation in a context of friendfoe dichotomy in the essay The Concept of Political Revisited , published in Political Theory Today , edited by David Held (Stanford University Press, Stanford, 1991). (17) Carl Schmitt -Verfassungslehre (Duncker&Humblot, Berlin 1970) - at p. 50. Schmitt writes further that «because every being is a particularly-constituted being, every concrete political existence has some sort of constitution. But not every politically existing force decides in a conscious act concerning the form of this political existence and succeeds in consciously determining the concrete type of its political existence as did the American states with their Declaration of Independence and the French nation in 1789. ibid. p.23 .See also G.L.Ulman -Anthropological Theology, Theological Anthropology (Telos, Nr.93, Fall 1992, New York) at p. 71. (18) G.L. Ulmen Anthropological Theology...ibid p.71,72; Carl Schmitt Verfassungslehre -ibid.p.372. (19) Carl Schmitt Verfassungslehre ibid. p. 22 (20) Carl Schmitt The Concept of the Political (21) Alexander Dugin- Carl Schmitt, pjat’ urokov Rossii- ibid. p. 131, 132 (22) Herbert Marcuse «Contribution to the Phenomenology of Historical Materialism» (Telos, Number 4, 1969), here quoted from Richard Wolin «Introduction to Marcuse and Heidegger» (New German Critique, Number 53, 1991, New York) p. 23 (23) For a discussion on Heidegger’s concept of hermeneutics in Being and Time se Richard Palmer Hermeneutics ( Northwestern University Press, Evanston, 1969) (24) Aaron L. Friedberg-The Future of American Power (Political Science Quarterly, Vol.109, Spring 1994) at p. 17. (25) Colonel Victor Alsknis’ father general Jacov Alsknis has been a close friend of marshal Mikhail Tukhachevski; in 1937 general Alsknis participated in the military commission investigating the treason charges against Tuchachevski.The transcript of the commission’s proceedings, classified secret, has never been released. First in 1990, after the intervention of the then Chairman of the KGB Krutchkov, colonel Alsknis gained access to the transcripts and after reading them came to the conclusion that during the 30-ties there was a pro-German conspiracy in the Red Army in which marshal Tukhachevski participated. Alexander Dugin claims that marshal Tukhachevski was a member of Nordlich Light- Elementy -at p.p.10,11. (26) Zbigniew Brzezinski A Plan for Europe (Foreign Affairs, January/February 1995) p. 26 (27) Joseph W. Bendersky -Carl Schmitt (Princeton University Press, Princeton, 1983), at p.253. (28) G.L. Ulmen - American Imperialism and International Law: Carl Schmitt on the US in World Affairs- Telos, Nr. 72, Summer 1987; se also Carl Schmitt- Voelkerrechtliche Grossraumordnung, op.cit., p.20. (29) Rudolf Kjellen Der Staat als Lebensform (Berlin, 1924) p. 139. Kjellen writes that the autarchic principle envisions the geopolitical space of the state as «People’s Home». The principle of autarchy «is a reaction against the industrialist type of the nineteenth century. The latter was fundamentally cosmopolitan; in the name of free trade it exposed national households to competition on the world market where the strong always succeeded in swallowing the weak. Its first setback occurred with the adoption of the protectionist system during the second half of the century. Here the state acts in defense of the household (People’s Home). It blocks the road to foreign conquerors by tariff walls behind which national economy can prosper like a true nursery protected from the storm of the sea...The autarchic principle ... replaces «open doors» with «closed spheres of interest» Ibid. p.p. 139, 140. In contemporary perspective the autarchic principle and concept of protected geopolitical space conceived as «People’s Home» is the antagonistic opposite of the American «open door» imperialism. (30) The concept of Grossraum is discussed in Nikolaj von Kreitor Problemy bol’shich prostranstv i buduschee Rossii Nash Sovremennik, No 3 , 1996, Moscow and Nikolaj von Kreitor Stoletie novogo mira. Universalizm protiv pljuralizma, Kentavr, No. 6, 1995, Moscow. (31) The National Security Council Memorandum 68 (NSC-68 ) promulgated in 1950 called for a roll-back strategy aiming to hasten the decay of the Soviet system from within and to foster the seeds of destruction within the Soviet system by a variety of covert and other means that would enable the U.S. to negotiate a settlement with the Soviet Union or a successor state or states. The memorandum further called , adopting the objectives of Hitler, to dismantle the Soviet Union into smaller states-se also Noam Chomsky -On Power and Ideology (South End Press , Boston, 1987) at p. 15. In different articles published during 1991 and 1992 in the Moscow newspaper Denj (DAY) have surfaced assertions that during the years of the so called. Perestrojka United States has invested more than 50 billion dollars for covert subversion in the Soviet Union. (32) Elementy , Number 4, 1993, p. 33 (33) Halford McKinder Democratic Ideals and Reality (W.W. Norton & Company, N.Y. 1962) p. 150 (34) Se Gerald Chaliand, Jean-Pierre Rageau-Strategic Atlas-(Harper Perennial, N.Y. 1992)- at p. 30 (35) Halford MacKinder The Round World and theWinning of the Peace , Foreign Affairs, 21 , New York, 1943. p.p. 595-605. The article is included in the book Democratic Ideals and Reality. See also W.G. Fast How Strong is the Heartland, Foreign Affairs, 29, New York, 1950 p.p. 78-93 and D.J. M. Hooson A New Soviet Heartland , Geographical Journal , 128 (1962) p.p. 19-29. (36) Peter J. Taylor Political Geography (Longman, London, 1985) p. 42 (37) Richard Muir Modern Political Geography (John Wiley & Sons, New York, 1975) p. 195. For geopolitical analysis in Russia see E. A. Pozdnjakov Geopolitika (Progress-Kuljtura, Mpscow, 1995. Nikolaj von Kreitor Ot doktriny Monro do Novogo Mirovogo Porjadka , Molodaja Gvardija No 9, 1995, Moscow and Nikolaj von Kreitor Amerikano-fascistkaja geopolitika na sluzhbe zavoevania mira, Molodaja Gvardija No. 8, 1996, Moscow. (38) See James C. Malin The Turner-MacKinder Space Concept of History in Eassays on Historiography (Lawrence, Kansas, 1946) p.p. 1-45; Per Sveaas Andersen Westward in the Course of Empires. A Study of the Shaping of an American Idea: Frederick Jackson Turner’s Frontier (Oslo University Press, Oslo, 1956). (39) See William Appleman Williams The Contours of American History (W.W. Norton & Company, New York, 1988) p. 17. (40) David P. Calleo Europe’s Future. The Grand Alternatives (W.W. Norton & Co, New York, 1967) p.p. 89,90. (41) Carl Schmitt claimed in his book Land und Meer that world history is the history of perpetual conflict between land powers and sea powers. (42) Alexander Dugin Konspirologia (Arktogej, Moscow, 1993) p.p. 92, 93 (43) Alain de Benoist , Den’ No 1(29) , Moscow, 1992 (44) Elementy nr 3, 1993 - at p. 18 (45) Patrick E. Tyler- U.S. Strategy Plan Calls for Insuring No Rivals Develop - New York Times, March 8, 1992, p. 14 (46) Excerpts from the document published in New York Times , March 8, 1992 (47) Patrick E. Tyler - US Strategy Plan... (48) President Bush stated after the November 7-8, 1991 NATO summit in Europe that security interests of the United States and Europe were indivisible and, therefore , the Atlantic alliance could not be replaced even in the long run and also that the United States presence in Europe would be needed for a century of so. see Ted Carpenter-- In Search for Enemies-(CATO Institute, Washington D.C. 1992, at p.p. 11-12; also White House, Office of Press Secretary, Press Conference by the President, November 8, 1991, transcript, p.1. (49) H. J. von Lochhausen - The War in Iraq - a War Against Europe - Elements p.p. 34,35,36. von Lochhausen asserts also that the war against Iraq, i.e. a war for the control of the oil , was planned a long time in advance and its blueprint was worked out by Henry Kissinger and published in 1975 in the magazine Commentary and later in Harper’s Magazine. von Lochhausen writes points out that studies of American relations with her allies show that U.S. is prone to take advantage against them i.e. using the war as a vehicle to transform her allies into vassals. In both W.W.I and W.W.II the American participation was largely parasitic. While the allies made the decisive efforts the United States reaped the fruits of the victory . See Elementy - ibid p.p. 35, 36. It is interesting to note that both right-wing and left-wing interpretations of the Gulf War coincide in their condemnation of American expansionism. For a left-wing parallel to von Lochhausen see Dario Da Re, Rosanna Munghiello and Dario Padovan Intellettuali, sinistra e conflitto del Golfo: un’interpretazione retrospettiva del dibattito (Altreragioni, No. 2,1993) p.p. 151-174. (50) Samir Amin -U.S. Militarism in the New World Order-Polygraph, 5/1992 (Durham, NC) -at p.23 (51) 1963 Proceedings of the American Society of International Law 13. Discussing further the legal justification of the Cuban quarantine in 1962, Dean Acheson emphasized that « I must conclude that the propriety of the Cuban quarantine is not a legal issue. The power, position and prestige of the United States has been challenged by another state; the law simply does not deal with such questions of ultimate power., se also Noyes Leech, Covey Oliver,Joseph Sweeney-The International Legal System- at p. 105. (52) Charles de Gaulle -Unity, Documents (Simon & Schuster, New York 1960) -at p. 269. Se also David Calleo- Europe’s Future. The Grand Alternatives (W.W. Norton & Company , New York,1967) - at p.112. (53) The memory of the American intervention in Soviet Union in 1918 in Archangelsk and Vladivostok in the Far East prompted by the U.S. interest to gain control of the natural resources of Siberia as well as by senator Lodge plan to divide Soviet Union into smaller states in order for the United States to gain control over Ukraine has resurfaced and the issue have been debated in the mass media. See on this subject A. Nevins-Nenry White: Thirty Years of American Diplomacy, N.Y. 1930, p.354; Ljudmila Gviashvili-Sovietskaja Rossija i Soedinennije Schtaty 1917-1920 -(Foreign Relations Publishing House, Moscow,1970.) In the Russian debate it has been pointed out that the objectives of the U.S. foreign policy will be to achieve strategic superiority in the field of nuclear armaments and through aggressive and adventurous foreign policy initiatives to force Russia to further unilateral disarmament and even to attempt to gain control over the nuclear potential of Russia which is the only deterrent that prevents an outright intervention. (54) U.S. Peacekeeping Policy Debate Angers Russians-N.Y.Times, August 29, 1993. An editorial in Krasnaja Zvezda or Red Star, the magazine of the Russian army called Directive 13 ‘outrageously cynical and a direct and unceremonious interference in the domestic affairs of Russia.’ Although U.S. opposes a Russian Monroe Doctrine it is in a process of unilaterally extend its Monroe Doctrine to include former members of the Warsaw Pact as well as Baltic countries, which in the new American doctrinal thinking are to form a Cordon Sanitaire surrounding Russia- se N.Y. Times, February 17, 1992. (55) What the Monroe Doctrine meant for other Latin American countries was the freedom of U.S. to rob and exploit those countries.- Noam Chomsky - ibid. op. cit. p. 7. (56) Hegel -The Philosophy of Right Oxford University Press, London,1967) p.p. 208-216. (57) Noam Chomsky - ibid. at p. 14 (58) G.L. Ulmen - ibid. at p. 59, 60 (59) Y. Semenov- Fashistkaja geopolitika na sluzhbe amerikanskogo imperializma (Gospolitizdat, Moscow,1952)-at p.32. (60) Ferdinand Czernin -Versailles 1919 (Capricorn Books, N.Y. 1964) at. pp.404-406 (61) «Treaties should be designed to promote United States interests by securing action by foreign governments in the way deemed advantageous to the United States. Treaties are not to be used as a devise for the purpose of effecting internal social changes... in relation to what are essentially matters of domestic concern» and the United States being the sole judge of what constitutes domestic matters - see Department of State Circular No. 175, (December 13, 1955), reprinted in 50 Am. J. Intl. L. 784(1956). (62) Carl Schmitt -V?lkerrechtliche Grossraumordnung... p. 43. (63) Noam Chomsky - Terrorizing the Neighborhood. American Foreign Policy in the Post-Cold War Era (AK Press, Stirling and San Francisco , 1991) - at p. 24. (64) se The Holy Alliance - Time magazine, February 24, 1992- at p.32 (65) Times- ibid. - at p. 29 (66) Noam Chomsky -Terrorizing the Neighborhood - at p. 19. (67) Helsinki Accord, Declaration on Principles Guiding Relations between Participating States. The full text is published in Thomas Buergenthal (ed) -Human Rights, International Law and the Helsinki Accord-(Allanheld, Osmun/Universe Books, New York, 1979) at pp.161-165 (68) William Safire -Bosnia vs. the United Nations - N.Y.Times. , August 9, 1993 (69) N.Y.Times , August 2, 1993 - at p. A3 (70) N.Y.Times. , Aug. 5, 1993 - p.1. (71) Newsweek, August 28, 1993 (72) See Pravda, March 30, 1995 (73) N.Y.Times, September 12, 1993 (74) Article 52 (Coercion of a State by the threat or use of force) of the Vienna Convention of the Law of Treaties of May 22, 1969 states «A treaty is void if its conclusion has been procured by the threat or use of force in violation of the principles of international law embodied in the Charter of the United Nations.» (75) Pravda 5, No. 24, 1996, p. 10-11. Interview of General Galuas by Jole Stanischic. (76) In Russian debate the Haag War tribunal has been described as an instrument of continuous aggression, to paraphrase Clausewitz, as war with other, judicial means, a tribunal set up by the war criminals in Washington to justify the American territorial conquests under the guise of establishment of a New World Order—a Monroe Doctrine for the whole world—, and persecution Serbs— the partisans of the Resistance against dictates of the New World Order. A historical equivalent of Hague Tribunal would have been a tribunal set up by Nazi Germany to persecute the partisans of the Resistance during an earlier version of the New World Order- Hitler’s. General Gallois , one of the organizers of the Resistance movement in France, fully realizes the absurdity of Hague Tribunal. (77) Pravda 5, ibid. (78) See Novoe Russkoe Slovo , March 23, 1993- at p. 9. (79) Wolfram Henrieder -Germany, America, Europe (Yale University Press,New Haven,1989 (80) Hans W. Maull -Germany and Japan: The New Civilian Powers (Foreign Affairs, Wintern 1990/91, Council of Foreign Relations, N.Y. 1991) - at p. 93. (81) Referring to Goethe Thomas Mann defines culture as « intellectualization of the political» and expression of the identity and self-realization of a nation: »The nation is not only a social being; the nation, not the human race as the sum of individuals, is the bearer of the individual, of the human quality; and the value of the intellectual-artistic-religious product that one calls national culture...that develops out of the organic depth of national life-the value, dignity and charm of all national culture therefore definitely lies in what distinguishes it from others, for only this distinctive element is culture, in contrast to what all nations have in common, which is only civilization. Here we have the difference between individual and personality, civilization and culture, social and metaphysical live». Thomas Mann Reflections of a Nonpolitical Man (Frederick Ungar Publishing Co, N.Y. 1983)- at p. 179. (82) Andrew Shennan -De Gaulle (Longman, New York, 1993)- at p. 118. (83) Andrew Shennan - ibid , p.118. (84) David P. Calleo Europe’s future. The Grand Alternatives (W.W. Norton & Company, New York, 1967) p. 90 (85) Interview with Alain de Benoist , Le Monde, 15 Mai, 1992 (Paris) (86) Walter Russel Mead The United States and the New Europe (World Policy Journal, New York), Winter 1989-90 p.p. 53,55,56 (87) The Rapallo Treaty was concluded on April 16, 1922 between Germany and the Soviet Union. It allowed the Soviet Union to break the monolithic capitalist encirclement by the Versailles powers while for Germany it signified the road to revision of what was perceived as the Versailles dictate. Discussing the possible political orientation of Russia in the future , Dugin elaborates on the issues of a Russian-German Sonderweg as a historical background to a common political union. (88) Rudolf Bahro -Rapallo-Why Not- (Telos, No. 51, Spring 1982, N.Y.) - at p. 125.It is interesting to note that the German Foreign Minister Klaus Kinkel stated during his a meeting in Bavaria with his Russian counterpart Andrej Kozyrev that «Creation of a partnership axis Bonn-Moscow is an objective for German foreign policy»—Izvestija, Moscow, August 24, 1993. (89) David Calleo -Europe’s Future -ibid. p.89; se also de Gaulle-Unity- ibid. pp.176-177. (90) Charles de Gaulle Unity ibid. p. 271 (91) David Calleo Europe’s Future ibid. p. 124 (92) Alexander Dugin Konspirologija ibid. 96 . Dugin refers to the works of Konstantin Leontief in which the primacy of the principle of land over the principle of blood was first articulated. (93) In contemporary Russian political discourse the main proponent of this notion has been Lev Gumilev. (94) Robert Steuckers The Asian Challenge, Elementy , nr 3, p. 24 (95) Vladimir Ovzinski -Konterperestrojka -Nash Sovremennik -5-1992, Moscow, at p.128.The author who has made interviews with a large number of former KGB operatives from Lithuania, claims on the basis of those interviews that U.S pursues four different objectives:1.Assertion of American hegemonical interests in Lithuania in opposition to German interests. 2. Subversion of what CIA perceives to be a Communist opposition as well as organizations defending the interests of the Russian minority in the country. 3. Collection of materials concerning former Lithuanian KGB operatives in order to either persecute or recruit them. 4. Sending of recruited agents to other former Soviet republics. (96) See Elaine Sciolino- U.S. to Offer Plan on a Role in NATO for Ex-Soviet Block -N.Y. Times, October 21, 1993; Stephen Kinzer- NATO Favors U.S. Plan for Ties With the East, but Timing is Vague-N.Y.Times, October 22, 1993. President Clinton made a formal proposal for the expansion of NATO at the NATO’s summit meeting in January of 1994. (97) Noam Chomsky -A View from Below in Michael Hogan -The End of the Cold War (Cambridge University Press, New York 1992) at p.142. (98) Y.Semenov -Fascistkaja geopolitika -ibid. p. 29 (99) General Victor Filatov compares Yeltsin with the W.W.II traitor general Vlasov-see Denj, Nr 25, 1993, Moscow, June 27, 1993. Stephen Cohen points out that since 1991 the U.S. policy has been characterized by a steadily escalating interventionism in the Russian domestic matters which has created the impression among patriotic movements that Yeltsin’s government is a U.S. sponsored ‘occupation regime’. United States interventionism resulted in a resolution passed on March 21, 1993 by the Russian Parliament condemning the American interference in the internal affairs of Russia. «The Clinton Administration has steadily escalated this kind of interventionism-by contriving the April Vancouver summit as an attempt to ‘help Yeltsin’ in his ongoing conflict with the Parliament, by supporting the Russian President’s threats to disband the legislature , by endorsing Yeltsin’s effort to seize dictatorial or special powers from virtually all of Russia’s other democratic institutions and even by suggesting that Clinton might go instead to Moscow for a solidarity summit with Yeltsin. The result has been to put U.S. government in very bad institutional company. Opposed to Yeltsin’s power grab was not only Russia’s Parliament but also its Constitutional Court, Attorney General, Justice Minister and Vice President.»- see The Nation, April 12, 1993 , at p.p.477,478. (100) The events surrounding the September 21, 1993 coup allow for the impression that Yeltsin undertook the coup in collusion with the United States and, not unthinkable, on instigation of the United States. (101) Julien Freund-The Central Themes in Carl Schmitt’s Political Thought ,Telos, nr 102, New York 1994, at p. 31 (102) Alexander Dugin- Carl Schmitt. Pjat’ urokov Rossii-ibid. at p. 134 (103) Julien Freund - ibid. p. 31 (104) Alexander Dugin- ibid. p. 134 ~~ New York 1994-96 This article was initially published in abreviated form in the American political journal "Telos" and in different version has been published in other journals. The full version was published in German: "Rusland, Europa und Washingtons Neue Welt-Ordnung. Das geopolitische Project einen Pax eurasiatica" ETAPPE, Heft 12/Juni 1996 |
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di Giovanni Andriolo
Fonte: eurasia [scheda fonte]
Lungo le due sponde del Golfo che alcuni chiamano Arabico altri Persico si fronteggiano due colossi, la cui grandezza si misura non solo con l’estensione territoriale dei due Paesi, ma soprattutto con il peso economico, politico e culturale che entrambi esercitano sulla regione vicino-orientale e, in definitiva, sulla scena mondiale. Si tratta di Arabia Saudita e Iran, due Paesi che, pur presentando vari elementi in comune, sono caratterizzati da una frattura profonda, molto più profonda del Golfo che li separa e la cui ambivalenza nel nome è già di per sé un chiaro segnale della tendenza, da parte di ognuna delle due potenze in questione, di rivendicazione del controllo sull’area a discapito del Paese antagonista.
Analogie e differenze: un punto di partenza
Con la sua estensione di circa 1.700 km² e una popolazione di quasi 70 milioni di abitanti, l’Iran è uno dei Paesi più estesi e popolosi della regione vicino-orientale. L’Arabia Saudita supera l’Iran per estensione, raggiungendo circa i 2.250 km², ma presenta una popolazione inferiore, all’incirca 28 milioni di abitanti. I due Paesi risultano quindi essere tra i maggiori per estensione e, nel caso dell’Iran, popolosità di tutta la regione.
Entrambi i Paesi, poi, occupano un’importantissima area geografica, affiancando entrambi il Golfo Persico/Arabico (a cui, d’ora in poi, ci si riferirà come Golfo), anche se l’Arabia Saudita non si affaccia, come l’Iran, direttamente sull’importantissimo Stretto di Hormuz, passaggio d’ingresso per le navi nel Golfo stesso.
Dal punto di vista economico, i due Paesi basano la loro ricchezza sull’esportazione di materie prime: innanzitutto il petrolio, di cui l’Arabia Saudita detiene le riserve maggiori al mondo, mentre l’Iran si posiziona al terzo posto nella stessa classifica; ma anche gas, acciaio, oro, rame.
Entrambi i Paesi, poi, sono caratterizzati da un sistema politico forte, accentratore, di stampo religioso, che in Arabia Saudita prende le sembianze di un Regno, mentre in Iran si declina in una Repubblica Islamica.
Dal punto di vista culturale, entrambi i Paesi si configurano, per così dire, come Stati-guida della regione, essendo entrambi simbolo di due civiltà e di due culture storicamente importanti e forti.
Proprio su quest’ultimo punto nascono le prime divergenze tra i due Paesi: infatti l’Iran è la culla della civiltà persiana, storicamente affermata e radicata, e per niente disposta a vedersi superata dall’altra grande cultura che caratterizza l’Arabia Saudita, la civiltà araba. A questa prima divergenza culturale si affianca una divergenza religiosa, che vede nell’Iran il Paese-guida della corrente islamica sciita, sia per tradizione storica sia per numero di sciiti presenti nel Paese, mentre dall’altra parte, specularmente, la dinastia dei Saud che regna nell’Arabia Saudita si pone come centro di riferimento della corrente sunnita del mondo islamico.
Infine la posizione internazionale dei due Paesi, che attualmente vede da un lato l’Iran come il nemico più temibile di Israele e Stati Uniti, il primo dei cosiddetti “Stati Canaglia”, il Paese che con il suo piano di sviluppo del nucleare è sospettato di volersi dotare di potenti armi per minacciare la stabilità della regione; mentre dall’altro l’Arabia Saudita è un alleato degli Stati Uniti, un suo fondamentale interlocutore politico e commerciale, una colonna portante del sistema di mantenimento della stabilità nella regione.
Una breve storia dello scontro
La dinastia dei Saud appartiene alla corrente del Wahabismo islamico, una diramazione ultraortodossa del Sunnismo, e fin dalla fondazione del Regno Saudita ha sempre mantenuto un atteggiamento di scetticismo nei confronti dell’Iran sciita e delle sue pretese di espansione militare e controllo della regione. Sia gli Wahabiti sia gli Sciiti continuano da sempre uno scontro ideologico religioso in cui ognuna delle correnti tenta di dimostrare l’infondatezza e l’inconsistenza dell’altra, in entrambi i Paesi. Infatti attualmente in Arabia Saudita circa il 15% della popolazione è di religione musulmana sciita, mentre in Iran circa il 10% della popolazione e sunnita. I rapporti tra i due Paesi si sono tuttavia mantenuti cordiali fino al 1979, anno in cui la Rivoluzione iraniana portò un cambio di regime nel Paese, trasformandolo in una Repubblica Teocratica. Il nuovo leader religioso Ruhollah Khomeini e gli uomini di governo iraniani criticarono aspramente il regime saudita, accusandolo di illegittimità. Dall’altra parte, il nuovo regime rivoluzionario insediatosi in Iran fu visto da parte dell’Arabia Saudita come un ulteriore pericolo per la stabilità della regione e per i propri possedimenti territoriali.
La prime avvisaglie di una guerra fredda tra i due Paesi si ebbero in occasione della Prima guerra del Golfo tra Iran e Iraq, iniziata nel 1980. L’Arabia Saudita, sebbene le sue relazioni con l’Iraq al tempo non fossero particolarmente strette, offrì a Saddam Hussein, sunnita, 25 miliardi di dollari per finanziare la guerra contro l’Iran, e spronò gli altri Stati arabi del Golfo ad aiutare finanziariamente l’Iraq. L’Iran rispose con minacce e con ricognizioni da parte della propria aviazione sul territorio saudita. Malgrado ciò, i due Paesi non interruppero in quel periodo le relazioni diplomatiche.
Prima della fine della guerra, però, accadde un evento che fece deteriorare fortemente le relazioni tra i due Paesi: nel 1987 infatti, durante il tradizionale pellegrinaggio dei fedeli musulmani alla Mecca, in Arabia Saudita, un gruppo di pellegrini sciiti diede vita ad una protesta contro la dinastia saudita, causando una dura reazione da parte delle forze di sicurezza saudite, che uccisero circa 400 dimostranti, di cui più della metà di nazionalità iraniana. Di conseguenza, Khomeini rivolse forti accuse contro l’Arabia Saudita, l’Ambasciata Saudita a Tehran fu attaccata, furono presi in ostaggio alcuni diplomatici sauditi e uno di loro perse la vita. In quell’occasione furono interrotti i rapporti diplomatici tra i due Paesi e l’Arabia Saudita sospese la concessione di visti ai cittadini iraniani, impedendo loro in questo modo di effettuare l’annuale pellegrinaggio alla Mecca.
Dopo la fine della Prima guerra del Golfo, nel 1989, Iran e Arabia Saudita iniziarono lentamente a riavvicinarsi. Un impulso in questo senso fu dato dagli avvenimenti della Seconda guerra del Golfo, iniziata nel 1990, quando Saddam Hussein occupò con il proprio esercito il Kuwait. Iran e Arabia Saudita percepirono l’espansionismo iracheno come un forte pericolo per la propria integrità territoriale e per i propri pozzi petroliferi, per cui criticarono aspramente l’Iraq e in questo si avvicinarono notevolmente, arrivando a ristabilire relazioni diplomatiche nel 1991. In quell’anno le autorità saudite concessero a 115.000 pellegrini iraniani il visto per recarsi in pellegrinaggio alla Mecca.
Negli anni seguenti, i rapporti tra i due Paesi si intensificarono e alla fine degli anni ’90 i capi di stato di entrambi i Paesi scambiarono visite ufficiali nelle rispettive capitali. Iniziò da allora un periodo di cooperazione ufficiale tra i due Paesi con l’intento di diffondere stabilità e sicurezza nella regione.
La situazione attuale
Malgrado il riavvicinamento diplomatico ufficiale tra Iran ed Arabia Saudita negli anni ’90, restano oggi diverse incognite sui rapporti effettivi tra i due Paesi.
Infatti, da un lato l’Arabia Saudita continua a temere un possibile espansionismo iraniano sulla regione del Golfo. In questo senso, alimenta i dubbi sauditi l’atteggiamento del Presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad, anti-statunitense, anti-israeliano, fautore di un controverso programma di sviluppo di energia nucleare, sospettato di voler dotare l’Iran di armi atomiche, critico verso il Regno Saudita e l’alleanza dei Saud con gli Stati Uniti. D’altra parte per l’Iran di Ahmadinejad continua a risultare incoerente l’atteggiamento saudita, che da un lato deplora la presenza israeliana in Palestina, dall’altro si pone come alleato degli Stati Uniti, principali alleati e protettori di Israele, che nella visione del presidente iraniano costituiscono il nemico per eccellenza.
In definitiva, i due Paesi si fanno ugualmente promotori della creazione di ordine e stabilità nella regione vicino-orientale, proponendo tuttavia due diversi schemi: l’Iran infatti predilige un profilo più indipendente e chiaramente ostile alle potenze che, a suo avviso, portano disordine nella regione, gli Stati Uniti e Israele; l’Arabia Saudita, invece, opta per un atteggiamento più riservato nei confronti delle potenze presenti nell’area, attenta soprattutto a perseguire le proprie politiche in accordo con i meccanismi che garantiscono il suo fiorente sviluppo economico. In questo senso, la posizione dell’Arabia Saudita diventa molto difficile, poiché si trova a dovere gestire rapporti amichevoli con attori che tra loro sono in forte conflitto. L’Arabia Saudita infatti si trova al centro di un complicato intreccio di interessi, per cui dipende per la sua sicurezza dagli Stati Uniti, ma allo stesso tempo deve mantenere buoni rapporti di vicinato con l’Iran, pur temendone le velleità aggressive. In contemporanea l’Arabia Saudita si trova a favorire, in quanto campione della civiltà araba e della religione musulmana, la causa palestinese contro la presenza israeliana, ma allo stesso tempo deve continuamente gestire i propri rapporti con gli Stati Uniti, a loro volta principali alleati di Israele.
Da parte sua, l’Iran nutre forti timori per la propria incolumità: infatti la presenza statunitense nella regione, sia come alleato di Israele, sia tramite il dislocamento di forze militari in territorio saudita e nel bacino del Golfo, spinge il governo di Ahmadinejad ad un atteggiamento aggressivo in chiave difensiva e genera ulteriori critiche verso la condotta della dinastia dei Saud.
Questo delicato equilibrio di forze è messo alla prova e minacciato dagli eventi che nell’ultimo decennio hanno sconvolto la regione vicino-orientale.
Da un lato la presenza di Hamas sulla striscia di Gaza e il fermento di Hezbollah in Libano. L’Iran è accusato dagli Stati Uniti di fornire armi e aiuti ad entrambi i movimenti, ad Hamas in chiave strategica anti-israeliana, ad Hezbollah con la stessa funzione e in quando movimento di matrice sciita. D’altra parte il Dipartimento di Stato statunitense identifica tra i finanziatori di Hamas l’Arabia Saudita stessa, fattore questo che complica ulteriormente l’intricata situazione internazionale del Regno dei Saud.
In secondo luogo l’attacco statunitense in Iraq del 2003 e soprattutto gli eventi che a questo sono seguiti: se da un lato, infatti, l’Arabia Saudita non ha mai avuto rapporti particolarmente stretti con Saddam Hussein, dall’altro il declassamento che il sunnismo ha ricevuto nel Paese a vantaggio della popolazione sciita, in seguito al rovesciamento del regime di Saddam, non può che creare disappunto nel Regno dei Saud. In questo senso la politica dell’amministrazione Bush in Iraq non sembra aver considerato attentamente il fattore sciita. Infatti se in Iraq si dovesse rafforzare il governo dello sciita Nouri al-Maliki, si verrebbe a creare nel Vicino Oriente un blocco sciita che, partendo dall’Iran, proseguirebbe lungo l’Iraq, passando per la Siria (sciita solo nella figura della sua dirigenza, ma vicina politicamente all’Iran) e terminando in Libano (dove la presenza sciita è notevole) e a Gaza (dove Hamas gode del supporto iraniano).
Inoltre l’Iran si sta muovendo parallelamente lungo le vie del cosiddetto soft power, intromettendosi nella politica saudita (ma anche nello Yemen, in Bahrein, in Libia, in Algeria) per rafforzare le popolazioni sciite locali. In Arabia Saudita la già scarsa partecipazione politica diventa nulla per la minoranza sciita, che dal punto di vista sociale ed economico risulta fortemente svantaggiata. Le autorità saudite vietano alla comunità sciita di celebrare le proprie festività e di costruire moschee nel Paese, ad eccezione di alcune aree particolari. In questa situazione l’Iran interviene con aiuti e finanziamenti alla popolazione sciita, che a sua volta sembra accogliere con favore questo supporto. D’altra parte, anche l’Arabia Saudita è impegnata nel finanziamento e nella costruzione di scuole Wahabite in altri Paesi, con il compito di diffondere la dottrina della corrente dei Saud. Questo tipo di politica soft non prevede l’uso della forza, ma può dare origine in alcuni casi a scontri veri e propri.
Un esempio di tali dinamiche si può vedere negli avvenimenti della fine del 2009 tra Yemen e Arabia Saudita. Il governo di Sana’a, infatti, ancora negli anni ’90 aveva armato e finanziato l’imam Yahya al-Houthi, di parte sciita, inviandolo nella regione settentrionale di Sa’adah con il compito di contenere e contrastare il proselitismo Wahabita attivo nella regione. Con il tempo, però, al-Houthi si pose alla guida di un movimento di rivendicazione dell’indipendenza di Sa’adah dallo Yemen. Il governo yemenita, allora, dopo aver accusato l’Iran di finanziare il movimento di al-Houthi, chiamò in aiuto l’Arabia Saudita, il cui esercito ha effettuato tra novembre e dicembre del 2009 diverse incursioni nel nord dello Yemen, fino a schiacciare i guerriglieri di al-Houti. Ahmadinejad, da parte sua, non ha tardato a criticare l’intervento saudita nello Yemen, chiedendo provocatoriamente per quale motivo l’Arabia Saudita non si sia dimostrata altrettanto pronta ad intervenire durante i bombardamenti di Gaza da parte dell’esercito israeliano tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009; l’Arabia Saudita ha risposto accusando l’Iran di intromissione negli affari interni yemeniti.
Alcune conclusioni
Alla luce di quanto appena raccontato emerge chiaramente come gli accordi ufficiali tra Iran e Arabia Saudita, volti allo sviluppo di una politica di stabilità e di cooperazione anche economica, celino in realtà una complessa rete di schermaglie, accuse, disaccordi che, nella migliore tradizione della guerra fredda, si ripercuotono su altri attori internazionali senza sfociare, per ora, in uno scontro diretto. Ne sono esempi concreti il caso dello Yemen appena descritto o l’Iraq post-Saddam, con la guerriglia tra la maggioranza sciita e le comunità sunnite, entrambe supportate rispettivamente da Iran e Arabia Saudita. E’ un altro valido esempio la diffusione, ad opera del governo di Riad, di scuole di matrice wahabita in diversi Paesi arabi, così come la propaganda sciita e il supporto da parte iraniana alle comunità sciite in diversi Paesi a maggioranza sunnita, tra cui l’Arabia Saudita.
In ultima analisi tutte queste incomprensioni sembrano nascere, oltre che da volontà di autoaffermazione di tipo culturale e religioso (civiltà araba-civiltà persiana, sunnismo-sciismo), soprattutto da un fattore che domina da decenni lo scenario vicino-orientale: la paura.
Da un lato infatti, l’Arabia Saudita teme la continua espansione dell’influenza iraniana nella regione, mentre dall’altro l’Iran teme l’avvicinamento delle monarchie del Golfo agli Stati Uniti.
Inoltre non va dimenticato che entrambi i regimi attivi nei due Paesi si stanno confrontando con una crescente opposizione interna: da un lato i Saud, le cui politiche di avvicinamento agli Stati Uniti contrariano fortemente parte dell’ortodossia religiosa e il movimento al-Qaida, presente nel Paese malgrado gli sforzi delle forze di sicurezza interne per contrastarlo; dall’altra il governo di Ahmadinejad, criticato sempre più apertamente da ampi strati della società, come dimostra l’ondata di proteste levatasi in occasione delle recenti elezioni iraniane.
La paura di aggressioni dall’esterno unita all’instabilità crescente dei due regimi sembra spingere dunque Iran e Arabia Saudita verso posizioni sempre più aggressive e contrastanti. Così, ad esempio, il programma iraniano di sviluppo in campo nucleare sta causando un’analoga corsa al nucleare da parte dei Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (di cui l’Arabia Saudita è l’elemento più importante), che hanno già chiesto supporto all’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) per lo sviluppo di un reattore nucleare.
L’equilibrio mantenuto nella regione dall’interconnessione di interessi strategici ed economici, che vede l’esuberanza iraniana moderata dall’alleanza tra Arabia Saudita e Stati Uniti, non ha ancora provocato scontri diretti tra i due Paesi. Tuttavia, la costante instabilità dell’intera regione e dei governi delle due potenze vicino-orientali potrebbe portare ad un crescente scontro tra due Paesi dotati di risorse energetiche e di armamenti ingenti e moderni. Finora gli attriti sono sfociati in scontri armati decentrati, coinvolgendo attori diversi, ma non è escluso che una crescente ostilità, alimentata anche dagli avvenimenti bellici che stanno avvenendo in varie zone della regione, possa portare a conseguenze più gravi.
Lo scontro tra Iran ed Arabia Saudita sembra inserirsi, dunque, nel complesso mosaico delle vicende vicino-orientali, interconnettendosi a queste, alimentandole e traendo contemporaneamente da queste alimentazione. Il fatto che due potenze come Iran ed Arabia Saudita si trovino in un tale stato di terrore, dimostra come sia l’autoritarismo interno sia l’aggressività verso l’esterno non sembrino garantire, nel Vicino Oriente, quella stabilità e sicurezza che tutto il mondo auspica, e soprattutto come sia Iran sia Arabia Saudita risultino attualmente inadeguate al ruolo di Paese-guida nella regione del Golfo a cui entrambe ambiscono.
* Giovanni Andriolo è dottore in Relazioni internazionali e tutela dei diritti umani (Università degli studi di Torino)00:20 Publié dans Actualité | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : politique internationale, géopolitique, golfe persique, arabie saoudite, iran, moyen orient, proche orient, asie, problèmes asiatiques, affaires asiatiques, pétrole, hydrocarbures | | del.icio.us | | Digg | Facebook
Pietro FIOCCHI:
Les trois épicentres de la révolution eurasienne
L’ambassadeur russe auprès de l’OTAN, Dmitri Rogozine, possède une sorte de sixième sens pour toutes les questions atlantiques: “Selon moi”, a-t-il dit le 4 mai 2010, “la Géorgie n’a pas encore de réelle prospective en vue pour son adhésion à l’Alliance parce que les problèmes qu’elle affronte en Abkhazie et en Ossétie du Sud demeurent irrésolus” et, par conséquent, “un pays qui n’a pas de frontières définies et est continuellement secoué de guerres civiles ne peut devenir membre de l’OTAN”.
L’ambassadeur fait référence au cas des deux républiques qui, il y a vingt ans, se sont déclarées indépendantes du gouvernement géorgien et qui, depuis 2008 jusque aujourd’hui, ont été reconnues par la Russie, le Nicaragua, le Vénézuela et Nauru. L’Abkhazie et l’Ossétie du Sud sont toutefois considérées comme des “territoires occupés” par les Géorgiens et aussi par l’eurocratie bruxelloise et par Washington qui, en bonne diligence, ont promis à leur allié Saakashvili de l’aider à remettre les “choses en place”. On veut donc que les deux républiques, ou “territoires occupés”, reviennent sous le contrôle de la Géorgie. En pratique, tout pas en cette direction augmente les possibilités d’un affrontement avec la Russie: le Kremlin, en effet, a promis de protéger la souveraineté territoriale des deux républiques caucasiennes, en vertu d’accords conclus et par la présence de bases militaires aujourd’hui en construction.
Si la Géorgie entrait effectivement au sein de l’Alliance atlantique, les tensions augmenteraient et présenteraient un réel danger. Pour éviter la guerre, il faut avoir conscience des positions antagonistes et percevoir qu’elles recèlent de fait le danger de mondialiser le conflit.
Dans cette optique, Rogozine a mis en exergue les dynamiques possibles dans la région: “les Géorgiens seront exploités au maximum afin qu’ils envoient des troupes en Afghanistan; ils seront traités comme des animaux auxquels on fait miroiter une carotte en la balançant sous leur museau. Tbilissi ne peut adhérer à l’OTAN parce que la Géorgie ne peut en devenir membre; l’Alliance atlantique devra ou reconnaître l’indépendance de l’Abkhazie et de l’Ossétie du Sud ou accepter les anciennes frontières de la Géorgie, tracées par Staline. C’est là une éventualité impensable, donc Tbilissi restera partenaire de l’OTAN mais son adhésion ne se fera pas dans un futur proche”.
Passons maintenant du Caucase à l’Asie centrale: nous débouchons dans un espace où la Russie et les intérêts atlantistes s’opposent.
Cas atypique et, depuis le récent coup d’Etat, objet de toutes les attentions: le Kirghizistan. Dans cette ex-république soviétique cohabitent très proches les unes des autres des troupes russes et américaines, respectivement stationnées dans les bases de Kant et de Manas. Nous avons là un paradoxe qui pourrait bien ne plus durer très longtemps. Une fois les élections politiques et présidentielles, prévues pour le prochain automne, Bichkek prendra une décision définitive.
Aujourd’hui déjà, le gouvernement des Etats-Unis doit débloquer 15 millions de dollars qui serviront à payer partiellement le loyer de la base aérienne concédée aux Américains. Pour terminer, Washingbton devra débourser un total de 60 millions de dollars (c’est-à-dire trois fois autant que la somme déboursée jusqu’à l’an passé). Cette somme devra être payée chaque année sinon les locataires seront expulsés. Au Kirghizistan, la situation est donc précaire aussi.
En revanche, la coopération russo-kazakh, elle, semble de bonne augure. Les rapports entre les deux pays se sont consolidés. Moscou et Astana, depuis l’été, ont scellé un nouvel accord sur l’enrichissement de l’uranium à usage civil. C’est une nouveauté: les pays qui voudront développer leur industrie nucléaire pourront accéder aux technologies d’enrichissement disponibles. C’est tout à la fois une invitation à Téhéran et une garantie pour l’Iran à aller de l’avant dans son programme atomique.
Pietro FIOCCHI / p.fiocchi@rinascita.eu .
(article paru dans “Rinascita”, Rome, 5 mai 2010; trad. franç.: Robert Steuckers ; cf.: http://www.rinascita.eu ).
00:15 Publié dans Actualité | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : eurasie, eurasisme, géopolitique, politique internationale, kirghizistan, géorgie, ossétie du sud, abkhazie, caucase, asie, affaires asiatiques, kazakhstan, russie | | del.icio.us | | Digg | Facebook
Bruno WETZEL:
La Chine monte: danger ou opportunité?
La croyance habituelle, qui veut que la structure politique des démocraties occidentales conduise non seulement à une supériorité morale mais aussi à une supériorité économique face au reste du monde, est désormais ébranlée. C’est dû pour l’essentiel au développement phénoménal de l’économie chinoise. Tandis que la “communauté occidentale des valeurs” a été ébranlée jusqu’en ses fondements par la crise financière internationale et menace de sombrer dans le marais de ses endettements, l’Empire du Milieu vient de déposer un bilan de rêve en ce premier trimestre de l’année 2010. En ce bref espace temps, l’économie chinoise a cru plus fortement encore qu’au cours des trois années précédentes: le produit national brut a augmenté de 11,9% par rapport à la même époque l’an passé.
Pour 2010, la Chine peut escompter une croissance de 10%. Si tel est le cas, elle dépassera le Japon et deviendra la deuxième puissance économique du monde derrière les Etats-Unis. La Chine a déjà détrôné l’Allemagne, qui avait été jusqu’alors le pays champion en matière d’exportations. Le miracle économique chinois ne repose plus seulement sur la production de marchandises bon marché ou de jouets en plastique. Cet immense empire est en train de devenir une grande puissance technologique. Il prépare notamment l’envoi dans l’espace d’une station spatiale et l’atterrissage sur la lune d’un module habité. Dans le domaine des énergies renouvelables la Chine a investi l’an passé 35 milliards de dollars: exactement le double des Etats-Unis. Les dépenses militaires américaines sont en revanche sept fois supérieures à celles de la Chine.
A Washington, on devra accepter que la Chine, en tant qu’Etat le plus peuplé du monde (un homme sur cinq est chinois) dont la puissance financière et économique est en croissance rapide, disposera bientôt de la plus grande réserve de devises du monde et réclamera forcément un rôle politique pilote dans le monde. Pékin rappelle inlassablement que la Chine ne représente aucune menace pour qui que ce soit. Et, en effet, la Chine ne stationne aucune troupe sur le territoire d’Etats étrangers, alors que les Etats-Unis en alignent dans près de cent pays! S’il y a plusieurs centres de puissance dans le monde, nous sommes alors dans une situation qui bénéficie à la paix, bien davantage que s’il n’y a en lice qu’une seule grande puissance tentant d’imposer à d’autres pays sa volonté, y compris par des moyens militaires.
D’après une étude américaine, la Chine serait une “grande puissance régionale aux ambitions mondiales”. En effet, outre la Russie, c’est surtout la Chine qui, de plus en plus, contrecarre les plans américains de domination mondiale. Washington perçoit dès lors la Chine à la manière lapidaire de l’ancien Président américain George W. Bush, c’est-à-dire non pas “comme un partenaire stratégique mais comme un rival stratégique”. C’est donc bien au départ de cette définition assez sommaire des relations sino-américaines qu’il faut expliquer les efforts entrepris par les Etats-Unis d’installer partout dans les anciennes républiques soviétiques des régimes alignés sur l’Occident et de les inclure dans l’OTAN. Cette politique conduit à l’évidence à l’encerclement de la Russie et de la Chine.
La Chine pourtant n’est pas prête à se laisser trainer à l’abattoir comme un brave petit mouton. En se dotant d’une capacité de dissuasion crédible, où intervient également la composante nucléaire, Pékin entend faire savoir à tout agresseur potentiel qu’il prend un risque incalculable à s’attaquer à l’Empire du Milieu. Lorsque les Etats-Unis excitent les esprits, via les médias, contre la Chine, sous prétexte qu’elle enfreindrait les droits de l’homme, c’est pure hypocrisie. Washington, qui, jusqu’ici, a toujours privé de tous droits les Amérindiens, propriétaires en droit du territoire américain, et les a parqués dans des réserves, n’a pas le droit de se poser en juge moralisateur face aux comportements d’autrui. Les hommes politiques allemands imitent, de manière simiesque, leurs maîtres américains et reprochent à la Chine de n’accorder à ses citoyens qu’une liberté d’opinion limitée. Et qu’en est-il de la liberté d’opinion en Allemagne? Il vaut mieux se taire!
Le fait est que la Chine ne nous a jamais rien fait subir, ne se mêle pas de nos affaires et ne nous fait pas chanter (le lecteur futé saura bien qui sont nos maîtres-chanteurs). Si l’on compare les neuf mille années d’histoire chinoise sans agressions extérieures aux deux cents années d’histoire américaine, où les agressions contre l’étranger se sont succédé sans répit, on peut aussitôt soulever la question: qui menace vraiment le monde?
Bruno WETZEL,
Article paru dans DNZ, Munich, n°18/2010; trad. franç.: Robert Steuckers).
00:15 Publié dans Actualité | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : politique internationale, chine, extrême orient, asie, affaires asiatiques, géopolitique, économie | | del.icio.us | | Digg | Facebook