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mardi, 28 décembre 2010

Peter Scholl-Latour : Krieg ohne Ende

 

Peter Scholl-Latour: Krieg ohne Ende

Una nuova geopolitica indiana?

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Una nuova geopolitica indiana?

Daniele GRASSI

Ex: http://www.eurasia-rivista.org/

Una delle maggiori novità sullo scenario geopolitico degli ultimi due decenni è certamente rappresentata dall’India.

Sebbene l’ascesa della Cina abbia come effetto quello di mettere in secondo piano ogni altra realtà, non si può affatto trascurare il percorso che ha portato New Delhi a proporsi come una delle maggiori economie globali in termini assoluti.

Certo, i numeri aiutano e non poco. L’India infatti, con i suoi 1.2 miliardi di abitanti costituisce il paese più popoloso al mondo e ciò fa sì che ogni suo passo getti una lunga ombra su gran parte del globo. Non bisogna dimenticare infatti, che il suo tasso di crescita economica annua, dal 1997 ad oggi, è di circa il 7% ed è secondo solo a quello cinese.

Tuttavia, l’India resta il paese col maggior numero di gente che vive sotto la soglia di povertà, vale a dire, circa il 25% della sua popolazione.

Ci vorranno dunque, tassi di crescita molto elevati per almeno altri due decenni perché la condizione della popolazione più disagiata subisca dei miglioramenti veri e propri.

 

 

 

La politica estera indiana dopo l’indipendenza

 

Il percorso di crescita indiano è cominciato ad inizio anni Novanta, quando si è proceduto alla liberalizzazione di molti settori economici ed il Paese si è aperto all’economia di mercato.

La trasformazione economica ha proceduto di pari passo con un radicale cambiamento riguardante la politica estera.

 

L’idea di Nehru era quella di dare vita ad un grande paese che perseguisse una politica di pacifica coesistenza con gli altri attori regionali e globali.

Il suo profondo idealismo si scontrò ben presto con una realtà che non lasciava spazio a velleità neutralistiche e richiedeva prese di posizione nette.

Le tensioni col Pakistan circa il controllo del territorio del principato kashmiro sfociarono in diversi conflitti armati, il primo dei quali nel primo anno dell’indipendenza dei due Paesi, il 1947.

Ciò però non distolse Nehru dal suo intento di percorrere una strada di non allineamento e di guidare gli altri Paesi che volessero intraprendere il medesimo percorso.

Nei primi anni della sua esistenza, New Delhi tentò di sganciarsi dal confronto bipolare alleandosi con Pechino, ma questo tentativo sfociò in una delle maggiori umiliazioni della storia indiana: la sonora sconfitta subita proprio da parte della Cina nel 1962.

 

Il risultato fu un sostanziale isolamento a cui l’India tentò di porre rimedio avvicinandosi progressivamente alle posizioni del blocco sovietico.

Questa politica la danneggiò tanto in termini economici, quanto a livello geopolitico. Il Pakistan infatti, approfittò di questa situazione per proporsi come maggiore alleato degli Stati Uniti nella regione sud-asiatica, ricevendo enormi benefici in termini di aiuti finanziari e soprattutto militari.

Islamabad si fece anche mediatore tra Washington e Pechino e fu l’artefice dell’incontro avvenuto nel 1972 tra Nixon e Mao Zedong, il quale pose fine alla politica americana delle “due Cine”.

Il tutto si tradusse in un isolamento ancora più accentuato dell’India, che sarebbe terminato solo nei primi anni Novanta.

 

 

L’asse Washington-New Dehli-Tel Aviv

Il crollo dell’Unione Sovietica ed una profonda crisi economica spinsero infatti New Delhi a rivolgersi al Fondo Monetario Internazionale per ottenere un prestito che l’aiutasse a superare il momento difficile che stava attraversando. In cambio, all’India fu chiesto di liberalizzare la propria economia e di aprirsi ai mercati internazionali.

Non è una caso che fu proprio in quegli anni che il Pressler Amendment pose fine agli aiuti economici che Washington si era impegnata a fornire al Pakistan, interrompendo una collaborazione che si era intensificata durante l’invasione sovietica dell’Afghanistan.

Gli Stati Uniti decisero di fare dell’India il loro maggiore alleato nell’Asia meridionale e ciò ebbe inevitabilmente ripercussioni negative sul rapporto con Islamabad, storica rivale di New Delhi.

 

La politica estera indiana è stata da allora contraddistinta dallo stretto legame con Washington, il quale ne ha fortemente condizionato l’andamento e continua tuttora a farlo.

L’India rappresenta, col Giappone ed altri Stati della regione asiatica, una delle armi usate dagli Stati Uniti per contenere l’ascesa della Cina. L’obiettivo americano è infatti quello di impedire che Pechino assurga al ruolo di leader incontrastato dell’area e New Delhi costituisce un alleato fondamentale per la buona riuscita di questa strategia.

La crescente collaborazione tra l’India ed Israele rientra proprio in questo progetto di contenimento della Cina e si è tradotto, specie negli ultimi anni, in un legame molto stretto soprattutto dal punto di vista militare.

New Delhi e Tel Aviv sono infatti impegnate in attività congiunte di lotta al terrorismo e l’India rappresenta ormai il più importante mercato di sbocco per gli armamenti prodotti in Israele.

Tutto ciò ha delle importanti ricadute a livello geopolitico e l’asse Washington – New Delhi – Tel Aviv costituisce ormai una realtà capace di influenzare le dinamiche interne all’Asia e al Medio-Oriente, producendo inevitabili ricadute sulla politica globale.

 

 

 

Riposizionamento strategico?

 

Tuttavia, la posizione indiana si sta facendo sempre più complicata e richiede un’analisi piuttosto complessa.

Le vicende afghane degli ultimi 3 decenni hanno avuto ripercussioni importanti sulla politica estera indiana e continuano a produrre effetti di non poco conto.

L’ascesa dei talebani a metà anni ’90 ebbe come risultato quello di avvicinare New Delhi a Teheran e Mosca, paesi molto attivi nel sostegno alla cosiddetta Alleanza del Nord, fazione non-pashtun che si opponeva al dominio talebano.

In seguito all’occupazione afghana da parte degli USA e dei suoi alleati nell’ottobre del 2001, l’India è stata uno dei paesi più attivi nella ricostruzione dell’Afghanistan e figura attualmente tra i maggiori donatori del governo di Kabul.

I buoni rapporti col governo guidato da Karzai, il quale ha effettuato i suoi studi proprio in India e conserva legami personali con questo Paese, e l’implementazione di numerosi progetti infrastrutturali hanno fondamentalmente come obiettivo, quello di dar vita ad un’alleanza in grado di contenere l’influenza esercitata dal Pakistan su Kabul.

La presenza indiana in Afghanistan rappresenta dunque una delle maggiori preoccupazioni per Islamabad e ha avuto un peso molto importante nel delineare la politica adottata dal Pakistan nel Paese confinante. Il timore di un governo filo-indiano insediato a Kabul dopo il ritiro delle truppe straniere, ha infatti spinto Islamabad a supportare con decisione gruppi di militanti che hanno proprio nella regione occidentale del Pakistan, le loro basi operative.

Lo scopo è quello di utilizzare questi gruppi come assets strategici, una sorta di asso nella manica da tirar fuori al momento opportuno.

Quel momento sembra oggi essere giunto e il tentativo del governo Karzai di negoziare coi talebani sta dando ragione alla strategia pakistana.

L’ammissione dell’amministrazione Obama di non poter fare a meno del supporto di Islamabad per porre fine al conflitto che da anni sta dilaniando l’Afghanistan, suona infatti come una sorta di resa e apre importanti spazi per la politica estera pakistana.

L’avvicinamento degli ultimi mesi tra Zardari e Karzai costituirebbe un’ulteriore prova di quel che sta accadendo oggi a Kabul.

Gli Stati Uniti hanno ormai compreso di non poter conseguire una vittoria effettiva sui talebani e hanno così deciso di intraprendere la strada dei negoziati e non possono dunque fare a meno del sostegno delle forze armate e di intelligence pakistane.

La promessa fatta da Obama al governo indiano di impegnarsi affinché New Delhi consegua un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, suona un po’ come un contentino, peraltro difficilmente realizzabile, per mettere a freno le crescenti ansie indiane.

 

Le vicende afghane stanno facendo emergere una verità con cui gli Stati Uniti dovranno fare i conti nei prossimi anni: l’estrema difficoltà di intrattenere rapporti di cooperazione sia con l’India che col Pakistan.

L’incapacità di risolvere la questione kashmira richiede, da parte di Washington, un continuo barcamenarsi tra le richieste indiane e quelle pakistane, spesso inconciliabili tra di loro.

Col tempo diventerà sempre più difficile mantenersi in equilibrio tra Islamabad e New Delhi e, a meno di un improbabile avvicinamento tra i due Paesi, gli Stati Uniti potrebbero essere chiamati a compiere una scelta di campo definitiva.

Il Pakistan e l’India sono consapevoli di ciò e stanno entrambi tentando di acquisire un maggiore potere negoziale nei confronti di Washington.

 

 

 

L’India strizza l’occhio all’Iran

 

Mentre Islamabad è impegnata ad approfondire i suoi legami storici con Pechino, specie dal punto di vista militare, l’India sta cercando di trovare una posizione di maggiore indipendenza per quel che concerne la sua politica estera.

Sebbene sia ben lungi dal trovarla, alcuni segnali di ciò sono già ravvisabili nei suoi rapporti con l’Iran.

Risalgono, ad esempio, allo scorso 28 ottobre le dichiarazioni del governo indiano circa una presunta volontà di volere riprendere il dialogo con Teheran per la realizzazione di un gasdotto che dovrebbe collegare Iran, Pakistan ed India.

La strenua opposizione di Washington nei confronti di questo progetto, ed i problemi che caratterizzano la regione pakistana del Baluchistan, hanno finora frenato la sua realizzazione.

Tuttavia, i crescenti bisogni energetici dell’India potrebbero spingerla ad esplorare strade affatto gradite all’amministrazione americana.

 

La recentissima notizia dell’accordo raggiunto dai governi turkmeno, afghano, pakistano e indiano per la realizzazione del gasdotto TAPI, sembrerebbe andare in direzione contraria rispetto a quanto detto, ma i dubbi circa l’effettiva capacità del Turkmenistan di pompare gas a sufficienza, oltre ai problemi di sicurezza che attanagliano il territorio afghano, potrebbero comportare notevoli ritardi di realizzazione, costringendo i paesi dell’Asia meridionale a cercare percorsi alternativi.

 

La collaborazione tra New Delhi e Teheran riguarda diversi altri progetti e non si ferma dunque all’IPI.

Il porto iraniano di Chabahar risulta centrale nell’ottica di tale cooperazione. Progettato e finanziato proprio dall’India, questo porto detiene un valore strategico molto importante.

L’importanza di Chabahar è legata, ad esempio, alla sua capacità di fare da sbocco per le risorse energetiche della regione centro-asiatica, permettendo all’India di rafforzare le sue relazioni commerciali con questi paesi ritenuti di fondamentale importanza ai fini dello sviluppo economico.

Inoltre, tramite Chabahar, l’India è in grado di aggirare il Pakistan ed esportare le proprie merci in Afghanistan e negli altri Paesi dell’area. Il nuovo accordo di transito siglato da Afghanistan e Pakistan infatti, non permette a New Delhi di utilizzare il territorio pakistano per il trasporto dei beni da esportazione e Chabahar rappresenta la migliore alternativa possibile.

L’Iran soddisfa circa il 15% del fabbisogno energetico indiano, una percentuale piuttosto bassa se si considerano le enormi potenzialità del patrimonio gassifero iraniano.

Tuttavia, è ancora presto perché l’India adotti posizioni non gradite a Washington e per il momento, New Delhi è impegnata in un’azione di mediazione tra l’Iran e gli Stati Uniti.

Nonostante l’opposizione indiana all’acquisizione del nucleare da parte di Teheran, il Paese sud-asiatico si sta impegnando affinché non vengano adottate nuove sanzioni nei confronti dell’Iran.

Complici gli importanti interessi economici nutriti da molte compagnie indiane, New Delhi sta cercando di ammorbidire la posizione americana sull’argomento ed ha come obiettivo ultimo, quello di sottrarre l’Iran all’isolamento in cui si trova attualmente, in modo da poter sviluppare ulteriormente le enormi potenzialità di un’eventuale cooperazione economica e politica.

Gli interessi che legano i due Paesi sono infatti numerosi e vanno dall’energia all’Afghanistan, senza dimenticare che l’India ospita la più numerosa comunità sciita al mondo dopo l’Iran.

Sono troppe le variabili in gioco per poter azzardare, al momento, previsioni circa le dinamiche geopolitiche che caratterizzeranno il futuro prossimo.

I segnali che ci giungono oggi sono talvolta contrastanti e ancora troppo soggetti alla volatilità del presente e dunque suscettibili di smentite ed inversioni di rotta.

Quel che però è certo è che in Asia si sta assistendo ad una netta ridefinizione degli equilibri di forza e nessuno degli attori coinvolti lascerà nulla di intentato per spuntarla sugli altri.

* Daniele Grassi è dottore in Scienze Politiche e specializzando in “Relazioni Internazionali” presso la LUISS Guido Carli. Attualmente è impegnato in uno stage di ricerca presso lo “Strategic Studies Institute” di Islamabad.

China und Russland schaffen den Dollar ab

China und Russland schaffen den Dollar ab

Michael Grandt

Ex: http://info.kopp-verlag.de/

 

China und Russland haben beschlossen, den US-Dollar als Sicherheit für den bilateralen Handel aufzugeben und auf ihre eigenen Währungen zurückzugreifen. Zudem will Peking Russland helfen, sich wieder als Großmacht zu etablieren.

Chinesische Experten sagten aus, dass die engeren Beziehungen zwischen Peking und Moskau nicht gegen den Dollar gerichtet seien, sondern die eigenen Volkswirtschaften schützen soll.

Im Zuge von Handelsvereinbarungen hatten die beiden Staaten unlängst beschlossen, auf ihre eigenen Währungen zurückzugreifen. Im chinesischen Interbankenmarkt wurde bereits damit begonnen, den Yuan gegen den russischen Rubel zu handeln; umgekehrt soll dies mit der chinesischen Währung auch bald in Russland möglich sein.

Beide Länder hatten ihren bilateralen Handel bisher hauptsächlich mit dem Dollar getrieben. Doch im Zuge der Finanzkrise begannen hochrangige Beamte beider Länder, andere Möglichkeiten zu eruieren.

Sun Zhuangzhi, leitender Forscher an der chinesischen Akademie der Sozialwissenschaften, stellte fest, der neue Modus der Geschäftsabwicklung zwischen China und Russland folge einem globalen Trend, nachdem die Finanzkrise die Fehler eines vom Dollar dominierten Weltfinanzsystems aufgezeigt habe. Pang Zhongying, die in der Renmin University of China auf internationale Politik spezialisiert ist, sagte, der Vorschlag fordere den Dollar nicht heraus, sondern richte sich auf die Vermeidung der Risiken, die der Dollar darstelle.

Die neue Zusammenarbeit zwischen China und Russland soll vor allem in den Bereichen Luftverkehr, Eisenbahnbau, Zoll, Schutz des geistigen Eigentums und der Kultur stattfinden. Inoffiziellen Verlautbarungen nach will Peking zudem zwei Atomreaktoren aus Russland kaufen.

Der chinesische Ministerpräsident Jiabao Wen sagte, die Partnerschaft zwischen Peking und Moskau habe »ein beispielloses Niveau« erreicht und versprach, die beiden Länder »werden sich nie mehr verfeinden. China wird dem Weg der friedlichen Entwicklung folgen und die Renaissance Russlands als Großmacht unterstützen«.

Peking ist außerdem bereit, mit Moskau in Zentralasien und der asiatisch-pazifischen Region zusammenzuarbeiten. Ebenso soll in den wichtigen internationalen Organisationen und Mechanismen eine »faire und vernünftige, neue Ordnung« in der internationalen Politik und Wirtschaft angestrebt werden.

 

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Quelle:

http://www.chinadaily.com.cn/china/2010-11/24/content_115...

lundi, 27 décembre 2010

L'incubo geopolitico di Washington: Russia e Cina piu vicine

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L’incubo geopolitico di Washington: Russia e Cina più vicine

Fonte: “

Reseau Voltaire [1]

Qualsiasi siano i conflitti in corso all’interno delle mura del Cremlino fra Medvedev e Putin, ci sono ultimamente chiari segnali che sia Pechino sia Mosca si stiano muovendo con decisione, dopo un lungo periodo di esitazione, al fine di rafforzare la cooperazione strategica economica a fronte del palese sgretolarsi del ruolo d’unica superpotenza degli USA. Se questa tendenza si rafforzasse, si verificherebbe il peggiore incubo geopolitico di Washington: una massa continentale eurasiatica riunita, in grado di sfidare l’egemonia economica globale dell’America.


Parafrasando il proverbio cinese, potremmo affermare di vivere senza dubbio in «tempi interessanti». Non appena sembrava che Mosca si stesse avvicinando a Washington nel corso della Presidenza di Medvedev, accettando di cancellare la vendita all’Iran di un controverso sistema di difesa missilistica S-300 e iniziando a cooperare con Washington sui progetti della NATO, incluso forse lo scudo antimissile, Mosca e Pechino si sono accordati su una serie di misure che possono avere grosse implicazioni geopolitiche, non ultime per il futuro della Germania e quello dell’Unione Europea.

Nel corso d’incontri di vertice tenutisi a San Pietroburgo, il primo ministro cinese Wen Jiabao e la sua controparte russa, Vladimir Putin, hanno fatto una serie d’annunci passati relativamente inosservati nei principali mezzi di comunicazione occidentali, temporaneamente ossessionati dai dubbi scandali legati a “Wikileaks”. È già la settima volta che i dirigenti dei due paesi si incontrano quest’anno, e certamente questo significa qualcosa.

Ad oggi non ci sono stati molti investimenti cinesi nel mercato russo e quelli che si sono verificati, avevano forma prevalente di prestiti. Il valore degli investimenti diretti e di portafoglio in progetti concreti rimangono insignificanti, così come il livello di investimento della Russia in Cina: la situazione è destinata però a cambiare. Alcune società russe sono già quotate alla Borsa di Hong Kong ed esiste un numero di progetti di investimento russo-cinesi per la creazione di tecnoparchi sia in Russia sia in Cina.

Lasciando cadere il dollaro

I due Primi Ministri hanno annunciato, fra l’altro, di aver raggiunto un accordo per rinunciare al dollaro nel loro commercio bilaterale utilizzando al suo posto le proprie valute. Inoltre hanno raggiunto accordi potenzialmente di vasta portata su energia, commercio e modernizzazione economica delle remote regioni del vasto spazio euroasiatico dell’Estremo Oriente russo.

Fonti cinesi hanno rivelato alla stampa russa che questa mossa rifletterebbe relazioni più strette fra Pechino e Mosca e lo scopo non sarebbe quello di sfidare il dollaro. Putin ha allegramente annunciato: «Per quanto riguarda la compensazione commerciale, abbiamo deciso di usare le nostre valute». Egli ha aggiunto che la moneta cinese yuan ha cominciato ad essere scambiata col rublo russo nel mercato interbancario cinese, mentre il renminbi, fino ad ora solo moneta domestica e non convertibile, avrà presto una parità col rublo in Russia.

Ad oggi il commercio fra i due paesi avveniva in dollari. In seguito allo scoppio della crisi finanziaria nel 2007 e l’estrema volatilità del dollaro e dell’euro, entrambe le nazioni hanno cercato nuovi modi di evitare l’uso della valuta statunitense nel commercio, tentativo potenzialmente importante per il futuro della stessa. Al fine di ottimizzare lo sviluppo e la struttura del commercio, i due governi hanno creato la Camera di Commercio russo-cinese per i macchinari e prodotti tecnologici. Il Greenwood World Trade Center a Mosca, attualmente in costruzione da una società cinese, sarà nel 2011 un centro espositivo e commerciale di prodotti cinesi in Russia e servirà da piattaforma per incrementare gli scambi non governativi tra i due paesi.

Allo stato attuale il commercio fra Russia e Cina è in rapida crescita. Nei primi 10 mesi di quest’anno, il volume del commercio bilaterale ha raggiunto circa 35 miliardi di euro, un incremento su base annua del 45%. Quest’anno si prevede che gli scambi totali supereranno i 45 miliardi, portandosi così vicini al livello precedente alla crisi finanziaria. Entrambe le parti hanno intenzione di aumentare il volume degli scambi in maniera significativa nei prossimi anni e alcuni analisti russi credono che potrebbe anche raddoppiare nel giro d’un triennio. L’esclusione del dollaro non è cosa da poco e, se seguita da altri Stati dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (il gruppo di sei paesi eurasiatici instaurato da Cina e Russia nel 2001) potrebbe indebolirne il ruolo di valuta di riserva mondiale.

Dal Trattato di Bretton Woods nel 1944 il dollaro è stato posto al centro del sistema di commercio globale e l’egemonia statunitense si è basata su due pilastri indispensabili: il dominio degli Stati Uniti come potenza militare insieme al ruolo esclusivo del dollaro come valuta di riserva mondiale. La combinazione di potenza militare e ruolo di riserva della propria valuta per tutto il commercio di petrolio, altre materie prime essenziali e prodotti finanziari, ha permesso a Washington di finanziarsi concretamente le sue guerre per il dominio globale col “denaro degli altri”.

Cooperazione energetica

Accordi interessanti sono stati siglati anche nell’ambito della cooperazione energetica bilaterale. È chiaro che i due colossi euroasiatici hanno in programma di espandere il commercio bilaterale al di fuori del dollaro in modi interessanti, includendo in maniera significativa l’energia, dove la Cina ha enormi deficit e la Russia enormi sovrappiù e non solo nel petrolio e nel gas.

Le due parti espanderanno la cooperazione nell’energia nucleare a partire dall’aiuto offerto dalla Russia alla Cina per la costruzione di centrali nucleari e di progetti congiunti russo-cinesi al fine di arricchire l’uranio in linea con le normative AIEA e produrlo in paesi terzi ed inoltre per costruire e sviluppare una rete di raffinerie petrolifere in Cina. È già in essere il primo progetto, Tianjin. Un accordo prevede l’acquisto di due reattori nucleari russi da parte della centrale nucleare cinese di Tianwan, il complesso più avanzato di energia nucleare in Cina. Così pure l’esportazione del carbone dalla Russia alla Cina dovrebbe superare i 12 milioni di tonnellate nel 2010, ed è destinata ad aumentare.

Le compagnie petrolifere cinesi forniranno anche gli investimenti necessari per aggiornare i progetti per l’esplorazione e lo sviluppo dei giacimenti d’idrocarburi e la raffinazione del petrolio, in joint venture con società statali e private russe. In aggiunta, un gasdotto russo-cinese diventerà operativo a fine anno. Un punto importante ancora da sistemare è l’ammontare del prezzo del gas russo alla Cina: l’accordo è previsto nei prossimi mesi. La Russia chiede un prezzo per la fornitura di gas Gazprom che sia uguale a quello per i clienti europei, mentre Pechino richiede uno sconto.

I maggiori progetti di sviluppo industriale

Ci saranno intensi e reciproci investimenti industriali nelle remote regioni lungo i 4200 km di frontiera in comune, in particolare fra la Siberia e l’Estremo Oriente russi ed il Dungbei cinese, dove negli anni ’50 e ’60, prima dell’incrinarsi delle relazioni fra Unione Sovietica e Cina, l’URSS aveva costruito centinaia di impianti industriali leggeri e pesanti. Quest’ultimi sono stati modernizzati e rimpiti di nuove tecnologie cinesi o d’importazione, ma le solida fondamenta industriali d’epoca sovietica sono ancora là.

Questo – sostengono alcuni analisti russi – conferirà alla cooperazione regionale un livello tecnologico più elevato, soprattutto fra i territori di Chabarovsk e Primor’e, le regioni di Čita e Irkutsk, la Transbaikalia, tutta la Siberia, l’Heilongjiang ed altre province cinesi.

Nel 2009 Cina e Russia firmavano un programma con scadenza 2018 per lo sviluppo congiunto di Siberia, Estremo Oriente russo, e province nord orientali della Cina, attraverso un chiaro piano d’azione che comprendeva dozzine di progetti di cooperazione tra le specifiche regioni per sviluppare 158 strutture nelle aree di confine, nel settore del legno, chimica, infrastrutture stradali e sociali, agricoltura e diversi progetti di esportazione di energia.

Il viaggio di Wen segue la visita di tre giorni del Presidente Medvedev in Cina a settembre, durante la quale assieme al presidente Hu Jintao ha lanciato il da tempo discusso gasdotto trans-frontaliero da Skovorodino, nella parte orientale della Siberia, a Daqing, nel nord est della Cina. Entro la fine del 2010 il petrolio russo inizierà a fluire verso la Cina al ritmo di 300.000 barili al giorno per i prossimi vent’anni, grazie ad un accordo di tipo “credito in cambio di petrolio” da 20 miliardi di euro, stipulato lo scorso anno.

La Russia sta cercando di espandersi all’interno del crescente mercato energetico asiatico e in particolar modo in quello cinese, e Pechino vuole migliorare il suo approvvigionamento energetico diversificando rotte e fonti. Il gasdotto raddoppierà l’esportazione di petrolio russo in Cina, oggi trasportato principalmente tramite una lenta e costosa rotta ferroviaria, e farà della Russia uno dei suoi primi tre fornitori di greggio alla Cina, assieme a Arabia Saudita e Angola; un importante realizzo geopolitico per entrambi.

Il premier cinese Wen durante una conferenza stampa a San Pietroburgo ha affermato che la partnership fra Pechino e Mosca ha raggiunto «livelli di cooperazione senza precedenti» e ha promesso che i paesi «non diventeranno mai nemici». È dalla rottura sino-sovietica durante la Guerra Fredda che la geopolitica di Washington cerca di creare una profonda spaccatura tra i due paesi per rafforzare la sua influenza sul vasto dominio eurasiatico.

Come ho affermato in precedenza, l’unica potenza del pianeta che in teoria potrebbe ancora offrire un deterrente nucleare credibile a Washington è la Russia, per quanti problemi economici possa avere. La capacità militare cinese è ancora distante anni da quella russa, ed è principalmente difensiva. Sembra essere la Cina l’unica potenza economica in grado di rappresentare una sfida per il declinante gigante statunitense. La complementarità fra i due sembra essere stata pienamente compresa. Forse le prossime rivelazioni di Wikileaks “scopriranno” dettagli imbarazzanti su questa cooperazione; dettagli convienti per l’agenda geopolitica di Washington. Per il momento, però, la crescente cooperazione economica sino-russa rappresenta il peggior incubo geopolitico di Washington in un momento in cui la sua influenza globale è chiaramente in declino.

(Traduzione di Eleonora Ambrosi)


* F. William Engdahl, economista e co-direttore di “Global Research”, fa parte del Comitato Scientifico di “Eurasia”.

Article printed from eurasia-rivista.org: http://www.eurasia-rivista.org

URL to article: http://www.eurasia-rivista.org/7499/lincubo-geopolitico-di-washington-russia-e-cina-piu-vicine

vendredi, 24 décembre 2010

Anche Mishima a volte ritorna nel futuro...

Anche Mishima a volte ritorna nel futuro...

di Errico Passaro

Fonte: secolo d'italia


mishimawwwwww.jpgYukio Mishima è un intramontabile della cultura mondiale, oggetto di ripubblicazioni a getto continuo, convegni di studio, rappresentazioni teatrali e altre forme di tributo. Un omaggio inconsueto ed inaspettato alla figura dello scrittore giapponese viene dal romanzo vincitore dell'ultimo Premio Urania, Lazarus di Alberto Cola (Mondadori, pp. 317, € 4,20).  
 

 

Cola ci porta in una Tokyo futuristica, dove gli scienziati del progetto Lazarus hanno "resuscitato" Mishima per farlo diventare vessillo di una parte politica, quella dei "nostalgici", nelle elezioni politiche alle porte; il simulacro dello scrittore, dotato del suo stesso corpo e dei suoi stessi ricordi, ma destinato ad una vita effimera come i replicanti di Blade Runner, si ritrova comparsa di una sofisticata messinscena, che arriva alla ricostruzione fedele del quartiere dove aveva vissuto la sua prima vita.

 

Mishima, tuttavia, sfugge al suo destino con l'aiuto della setta segreta dei Mistici, in un viaggio verso la "bella morte" intriso di atmosfere crepuscolari, fino ad un epilogo carico di una sovrumana serenità. Uno dei punti di forza del romanzo è la verosimiglianza dei personaggi. Su tutti svetta Gabriel, il Virgilio di Mishima nella sua nuova vita, dominato dal potere della Pulsazione, che gli consente di agire sulla mente degli altri, ma che lo lascia alla merce del Mostro dentro di lui, governabile solo a forza di dosi di droga: lo seguiamo per flashback nella sua formazione marziale e nella sua iniziazione al potere parapsicologico, fino alla sua trasformazione in «un ronin moderno, un samurai senza padrone… un uomo sull'onda… uno strumento senza fine». Intorno a Gabriel, ruotano antagonisti e comprimari: dalla parte dei "cattivi", Hitasura, padrone dello "zaibatzu" che gestisce il progetto Lazarus e che ingaggia Gabriel per recuperare il Mishima in fuga, e Yasuwara, il corrotto capitano della Polizia del Pensiero in combutta con Hitasura; dalla parte dei "buoni", solo per citare i principali, la tenutaria Madame Ho, l'allibratore Kano, Mama-San e Tori, le mentori di Gabriel nella Setta dei Mistici e, soprattutto, Miko, la compagna di casa non vedente di Gabriel, apparentemente indifesa, ma in realtà detentrice di un segreto che emergerà solo nel finale del romanzo. A parte, il "rigenerato" Mishima, «figlio dell'unione illecita tra illusione e tecnologia», spaesato, malinconico, esangue, diverso da quello spudorato e tonitruante consegnato alle cronache letterarie e politiche della storia reale, più vicino all'intimismo delle Confessioni di una maschera che alla belluinità di altre sue opere, un soggetto «attirato dal lato estetico di una sensibilità superiore», «perfetta fusione fra lotta e sacrificio, impeto e amore».

 

Una virtù del romanzo è, poi, la sua qualità stilistica. In Cola colpisce, soprattutto, il tratto preciso nella descrizione dei gesti, inusuale nella letteratura di genere; i suoi toni smussati; la tendenza all'introspezione, allo scavo psicologico, alla costruzione di una biografia credibile dei suoi attori. Un ulteriore pregio della narrazione di Cola è la ricostruzione del contesto futuro. La prima parte si svolge nella metropoli nipponica, sottoposta al controllo asfissiante dei rilevatori di onde cerebrali: davanti allo sguardo del lettore, si accavallano immagini di «una città sempre più puttana in cui è difficile conservare la memoria», fitta di grattacieli occupati abusivamente, bordelli, case di gioco, ring di sumo clandestini e tutta una serie di luoghi seminterrati, ambigui, formicolanti di un'umanità disumana, dove perfino gli alberi sono geneticamente modificati. La seconda parte del romanzo, invece, è ambientata fra campagna e mare, in un luogo che sembra anche un tempo diverso, aria pulita e lanterne invece che smog e neon. Il romanzo si segnala, ancora, per la sua attenzione al fattore sociale, di cui si fa portavoce Mishima stesso: «Vivevo in un Paese che era pieno di contraddizioni» dice «ed ero una delle sue espressioni».

Lo scrittore è costretto a vivere per una seconda volta ciò che, nella sua incarnazione naturale, aveva combattuto, prima, e rifiutato, poi, con l'estremo gesto del suicidio rituale: lo svilimento dei valori, il carrierismo sociale, l'arroganza della burocrazia, l'aggressività della speculazione economica, la corruzione della politica, che rendevano la sua amata-odiata Patria un mondo di relazioni inautentiche. Ma quello che è il vero tratto distintivo di Lazarus rispetto a tanti romanzi consimili e coetanei, anche non di filone, è la predominanza della riflessione filosofica, non di rado affidata a citazioni tratte dall'opera di Mishima. Tutta la vicenda umana dei protagonisti è impregnata di misticismo orientale e si svolge in uno stato di mezzo fra vita e morte, sogno e realtà, passato e presente; ma l'esperienza spirituale non rimane circoscritta alla prossimità con la dimensione sovrannaturale, ma si sostanzia in una serie di valori-guida cardinali: la "bellezza" e la "morte", come nell'etica e nell'estetica decadente; il dovere morale del giri («È la traccia che ci rende unici, che ci rende uomini…ciò che il giri richiede è lo spirito di un guerriero, cioè qualcosa di fiero e puro»); il koha («…la smania di affrontare prove spirituali di virilità») e il ninkyo («il codice d'onore personale»); la tensione al futuro («Quale futuro può attenderci se si vive nella continua nostalgia del passato?»), il potere dell'esempio («Ai miei tempi lottavo con la forza delle idee, e con l'azione dettata dall'esempio»), la forza dell'arte («La realtà trova sempre il modo di bloccare i tentativi dell'uomo di trasformare la vita in un attimo di poesia»), la critica al culto della memoria («La memoria è uno specchio capriccioso, perché le immagini riflesse ci illudono. È lo specchio degli inganni») e della vittoria («La sconfitta non è tale se è volta ad un ideale, e la si può tramutare in un seme di gloria futura»). Dopo tanti meritati complimenti, una sommessa critica: siamo sicuri che "rigenerare" un'icona non valga a distruggerla? Un mito, antico o moderno che sia, non vive forse della sua irraggiungibilità? Creare doppioni di personaggi archetipici non è come mettere in circolazione caricature dell'originale, parodie lontane anni-luce dal potere di attrazione e suggestione della matrice? Il romanzo sembra, invece, alludere ad un potere fascinatorio che, nel processo di duplicazione, non si perderebbe e continuerebbe a magnetizzare le masse. E di questo noi, nel nostro piccolo, ci permettiamo di dubitare.

 

 

 

 

 

 

 

 


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jeudi, 23 décembre 2010

Peter Scholl-Latour: La Turquie, grande puissance régionale

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La Turquie en marche pour devenir une grande puissance régionale face à une Europe affaiblie !

 

 

Entretien avec Peter SCHOLL-LATOUR

 

Propos recueillis par Bernhard TOMASCHITZ

 

Q. : Dr. Scholl-Latour, la Turquie s’affiche de plus en plus comme une puissance indépendante, consciente d’elle-même, de sa destinée et de son histoire ; elle s’affirme ainsi sur la scène internationale. A-t-elle les potentialités nécessaires pour devenir une grande puissance régionale au Proche-Orient ?

 

PSL : La Turquie possède indubitablement de telles potentialités : elle dispose d’une armée conventionnelle qui est probablement plus forte que la plupart des armées européennes ; qui plus est, une nouvelle islamisation s’est emparée de la Turquie, ce qui confère à l’Etat de nouvelles orientations géopolitiques. Il est possible que les Turcs et Erdogan n’aient pas encore reconnu les chances réelles dont ils disposent, des chances qui ne pourront être saisies si la Turquie s’associe trop étroitement à l’Europe. Lorsque, dans des conversations avec des Turcs, on mentionne le fait qu’ils sont les héritiers d’un grand empire et non pas l’appendice d’une Union Européenne qui marine dans le vague, on rencontre tout de suite leur approbation. Et, de fait, ce serait bien le rôle de la Turquie, et non pas d’une autre puissance, de créer un minimum d’ordre dans l’espace moyen-oriental qui menace actuellement de sombrer dans le chaos.

 

Q. : Quel est le rapport qu’entretient la Turquie avec ses voisins ?

 

PSL : Les Turcs ont bien sûr un rapport tendu avec l’Irak parce que dans le Nord de l’Irak, les Kurdes, qui y forment la population majoritaire de souche, sont devenus quasiment indépendants du gouvernement de Bagdad et que cette quasi indépendance pourrait constituer un précédent pour les Kurdes de Turquie. Mais jusqu’à présent les Kurdes d’Irak, et surtout leur leader Barzani, se sont comportés de manière très adéquate et très subtile. Par ailleurs, la Turquie a accompli un grand pas en avant en direction de la Syrie, avec laquelle elle cultivait une longue inimitié : aujourd’hui les rapports ente la Syrie et la Turquie sont bons. En revanche, les rapports avec Israël, qui, auparavant, étaient excellents sur les plans de la coopération militaire et technologique, se sont considérablement détériorés. Ce fut sans doute la grande erreur des Israéliens qui n’ont rien fait pour contrer cette évolution ; on constate dès lors qu’en Turquie, hommes politiques et hommes de la rue convergent dans des attitudes nettement anti-israéliennes.

 

Ensuite, et c’est l’essentiel pour la Turquie, il y a le Caucase et l’Asie centrale. Dans le Caucase, les Azéris, habitants de l’Azerbaïdjan, sont chiites alors que les Turcs sont sunnites. Mais les deux peuples sont purement turcs de souche et parlent des langues très similaires. La zone occupés par des peuples turcs (turcophones) comprend le Turkménistan, le Kazakhstan et s’étend à tout le territoire centre-asiatique jusqu’à la province occidentale de la Chine, peuplée d’Ouïghours, également locuteurs d’une langue turque. Ce sont tous ces facteurs-là qui font que la Turquie, sur le plan culturel comme sur le plan religieux, dispose d’un potentiel très important.

 

Q. : Vous venez de nous parler des Etats turcophones d’Asie centrale : dans quelle mesure les intérêts économiques jouent-ils un rôle dans l’accroissement possible de la puissance turque ?

 

PSL : Ce sont les Américains, les Russes, les Chinois et les Européens qui convoitent les richesses de ces régions. L’Asie centrale possède de riches gisements de pétrole et de gaz naturel et les dirigeants des Etats turcophones sont passés maîtres dans l’art stratégique. Le Kazakhstan a certes proposé la construction d’un système d’oléoducs et de gazoducs qui passerait par les pays du Caucase du Sud pour aboutir en Turquie et déboucher en Méditerranée, tout en contournant et la Russie et l’Iran mais, par ailleurs, les Kazakhs ont été suffisamment futés pour conclure des accords similaires avec les Russes.

 

Q. : Et quel rôle jouent les Turcs dans les Balkans ?

 

PSL : Dans les Balkans, nous n’avons pas très bien perçu le jeu des Turcs jusqu’ici. Ce jeu se joue bien entendu, avant tout, dans les Etats qui possèdent des populations musulmanes autochtones, notamment les Albanais, représentés également au Kosovo et en Macédoine où un tiers de la population est d’ethnie albanaise. La Macédoine, dans un tel contexte, connaît déjà des tensions entre les Slaves chrétiens orthodoxes et les Albanais musulmans et deviendra sans doute une poudrière dans l’avenir. La Turquie y avancent ses pions avec grande prudence, en se posant comme l’Etat protecteur et a contribué à une ré-islamisation de la Bosnie, alors que cette région de l’ex-Yougoslavie avait été, sous Tito, complètement détachée de l’orbe musulmane.

 

Conséquence : dans tout règlement interne des Balkans, nous devons désormais prendre la Turquie en considération et tenir compte de son point de vue.

 

Q. : Quels obstacles pourraient survenir qui freineraient la montée en puissance de la Turquie ?

 

PSL : Jusqu’ici le premier ministre turc Erdogan a déployé sa stratégie de manière très raffinée et a forgé des liens étroits entre son pays et l’Iran. Cette stratégie a ceci de remarquable que la Turquie est un pays essentiellement sunnite tandis que l’Iran est majoritairement chiite, ce qui avait conduit dans le passé à une longue inimitié. Aujourd’hui un rapprochement est en train de se produire et, chose curieuse, la Turquie et l’Iran ont, de concert avec le Brésil, cherché à aplanir le conflit qui oppose l’Occident à l’Iran au sujet de son projet atomique. Ni les Américains ni les Européens n’ont réagi !

 

Q. : La Turquie, membre de l’OTAN, se rapproche de l’Iran ; cela pourra-t-il conduire à une rupture avec les Etats-Unis et avec l’Occident en général ?

 

PSL : Il n’y a que deux Etats stables dans la région : la Turquie et l’Iran. Face à ces deux pôles de stabilité, le Pakistan est au bord du chaos et est fortement sollicité par la guerre en Afghanistan. Il est aussi intéressant de constater qu’à Kaboul, où je me suis encore rendu récemment, on discute du retrait des troupes de l’OTAN et des Américains. Le retrait des Américains devrait se passer dans un contexte digne, sans que la grande puissance d’Outre Atlantique ne perde la face comme ce fut le cas au Vietnam : or la seule puissance capable de gérer ce retrait de manière pacifique et honorable, c’est la Turquie, parce qu’elle est membre de l’OTAN tout en étant un pays musulman. Les soldats turcs stationnés en Afghanistan y jouissent d’une sympathie relative.

 

Q. : La Turquie veut devenir une plaque tournante dans la distribution d’énergie. Comment jugez-vous cette volonté ?

 

PSL : Je n’aime pas beaucoup cette théorie de la « plaque tournante ». L’Europe, qui en parle continuellement, veut constituer avec la Turquie une union économique et politique étroite, alors qu’il y aura bientôt cent millions de Turcs ! Que restera-t-il alors de l’Europe, avec sa population en plein déclin démographique ? Ensuite je crois que les Turcs se sont aperçu qu’une adhésion à l’UE ne va pas vraiment dans le sens de leurs intérêts.

 

Ensuite viennent les exigences européennes en matière de respect des droits de l’homme, tel que le prévoit la Charte européenne. Si elle respecte la teneur de cette Charte, la Turquie devra accorder aux quinze millions de Kurdes, qui vivent dans le pays, une autonomie culturelle et politique. Cela conduira à de formidables tensions, voire à une guerre civile sur le territoire turc. En conséquence, les Turcs se diront qu’il est plus raisonnable de ne pas adhérer pleinement à cette Union Européenne, qui exige d’eux tant de devoirs. Mis à part cela, la Turquie, si on la compare à d’autres Etats européens, est une grande puissance.

 

Q. : Comment perçoit-on la montée en puissance de la Turquie dans les Etats qui firent jadis partie de l’Empire ottoman ?

 

PSL : De manière très différente selon les Etats. En Irak, la question kurde handicape considérablement les rapport turco-irakiens, mais il faut prendre en considération que les Chiites forment désormais la majorité au sein de l’Etat irakien et que les Chiites d’Iran s’entendent bien, aujourd’hui, avec les Turcs. J’avais rappelé tout à l’heure l’ancienne inimitié qui opposait la Syrie à la Turquie parce que les Turcs avaient annexé en 1939 la région d’Iskenderum, dont la population était majoritairement arabe. La Syrie a oublié aujourd’hui cette querelle ancienne et cherche, auprès de la Turquie, une certaine protection face à Israël. Les relations avec l’Iran se sont considérablement améliorées et Ankara cherche maintenant à étendre la Ligue islamique au Pakistan. Mais c’est là un très vaste projet et on ne pourra vraiment le prendre en considération que si les problèmes de l’Afghanistan sont résolus.

 

(entretien paru dans « zur Zeit », Vienne, n°49/2010, http://www.zurzeit.at/ ).  

dimanche, 19 décembre 2010

Wetterleuchten in Asien - steigt die Kriegsgefahr?

Wetterleuchten in Asien – steigt die Kriegsgefahr?

Wolfgang Effenberger

Ex: http://info.kopp-verlag.de/

 

Genau vor 60 Jahren tobte vom 26. November bis 13. Dezember 1950 die Schlacht um den nordkoreanischen Changjin-Stausee. Chinesische Truppen waren überraschend über den Yalu-Fluss, den Grenzfluss zur Mandschurei, vorgedrungen und zwangen die US-Verbände zum hastigen Rückzug aus den nur Wochen zuvor gewonnenen Stellungen in Nordkorea. Der Angriff der etwa 300.000 Mann starken chinesischen »Freiwilligenarmee« endete mit einer der spektakulärsten Niederlagen des US-Militärs in seiner gesamten Geschichte. Um ein unter US-amerikanischem Einfluss vereinigtes Korea zu vermeiden, hatte China mit einer zunächst 300.000 Soldaten umfassenden »Freiwilligenarmee« Nordkorea zu unterstützen begonnen.

 

 

Es folgte ein sich lange hinziehendes Patt, das erst mit dem im Juli 1953 erklärten Waffenstillstand endete. Der Krieg hatte annähernd vier Millionen Menschen das Leben gekostet; die meisten davon waren koreanische Zivilisten. (1) Sechs Jahrzehnte nach den erbitterten Kämpfen amerikanischer und chinesischer Truppen streben die Spannungen auf der koreanischen Halbinsel offenbar wieder auf einen neuen Höhepunkt zu. Angeheizt durch einen sich zuspitzenden Großmachtkonflikt zwischen Washington und Beijing?

Die Ankunft einer US-Kriegsflotte im Gelben Meer unter Führung des atomgetriebenen Flugzeugträgers USS George Washington scheint eine weitere Eskalation der augenblicklichen Krise zu bestätigen. Den Marschbefehl erhielt die Flotte angeblich unmittelbar nach dem Beschuss der Insel Yeonpyeong durch Nordkorea am 23. November 2010. Für die meisten der westlichen Medien stand zweifelsfrei der Schuldige fest: Die unprovozierten Nordkoreaner hatten erneut den Waffenstillstand gebrochen und einen Bündnispartner der USA angegriffen. Pflichtgemäß berichtete ABC News von Präsident Obamas »Empörung« über die Provokation und dessen Willen, mit Südkorea »Schulter an Schulter zu stehen«. (2)

In der folgenden Flut von Artikeln und Medienberichten meldete sich auch Zbigniew Brzezinski zu Wort. Der alte Geostratege hatte als Jimmy Carters Sicherheitsberater die Mudschahedin bewaffnet, um die Sowjetunion in das afghanische Abenteuer zu locken. Nun sah er in dem Beschuss ein Zeichen dafür, »dass das nordkoreanische Regime einen Punkt des Wahnsinns erreicht hat«. Die rational kaum zu ergründenden Handlungen zeigen Brzezinski, »dass das Regime außer Kontrolle ist.« (3) So einfach scheint es aber nicht zu sein. Nur einen Tag vor der nordkoreanischen Provokation hatte Südkorea unter dem Codenamen »Hoguk« rund 70.000 Soldaten für ein Manöver mit »scharfem Schuss« in diesem umstrittenen Grenzgebiet zusammengezogen. An dieser jährlichen Militärübung nahmen Dutzende von südkoreanischen und US-Kriegsschiffen und rund 500 Flugzeuge teil. (4) Ursprünglich war auch die Teilnahme von US-Truppen geplant, die aber offenbar im letzten Augenblick absagten. (5) Anstatt unreflektiert auf Nordkorea zu verweisen, hätte eine verantwortliche Berichterstattung die Hintergründe aufhellen beziehungsweise eine neutrale Untersuchung for-dern müssen. Muss nicht auch das südkoreanische Manöver »Hoguk« in einem umstrittenen Grenzgebiet als Provokation angesehen werden? Die Insel Yeonpyeong liegt in unmittelbarer Nähe des nordkoreanischen Festlandes. Einseitig hatte Ende des Koreakrieges im Jahr 1953 US-General Mark Clark die umstrittene Grenzziehung zu Nordkoreas Nachteil festgelegt. Nordkorea hat diese Seegrenze nie anerkannt.

Nun scheint die Krise mit der überraschenden Dienstreise des Stabschefs der US-Armee, Admiral Mike Mullen, zu einem Besuch nach Seoul weitere Kreise zu ziehen.

Die Spannungen zwischen Nord- und Südkorea oszillieren im Weltmachtpoker. Bereits einige Tage vor Obamas Besuch in Japan demonstrierten Anfang November 2009 über 20.000 Japaner in Ginowan gegen den weiteren Ausbau der US-Militärstützpunkte und den Neubau eines der modernsten Einsatz- und Kampfführungszentren auf der Insel Okinawa – Fertigstellung bis 2013. Weiter verlangten sie die Schließung der in der Nähe ihrer Stadt gelegenen amerikanischen Marine-Corps-Futenma-Air-Base. Unter dem Beifall der Demonstranten rief der Bürgermeister von Ginowan, Yoichi Iha, dem japanischen Premierminister Yukio Hatoyama zu, Präsident Obama zu sagen, »dass Okinawa keine US-Basen mehr braucht.« Abschießend forderte der Bürgermeister vom Premier »eine tapfere Entscheidung zu treffen und mit der Last und Qual von Okinawa Schluss zu machen.« (6) Schon früher hatte die Opposition gegen die Anwesenheit einer strategisch bedeutenden US-Militärbasis in Japan Stellung bezogen. Sind doch von diesem »unsinkbaren Flugzeugträger der Vereinigten Staaten« China, Taiwan und Nordkorea leicht zu erreichen. Japan als östliches Einfallstor nach Eurasien.

Am Mittwoch hatte Clinton zusammen mit US-Verteidigungsminister Robert Gates bei einem ungewöhnlichen Besuch des innerkoreanischen Grenzorts Panmunjom schärfere Strafen gegen Pjöngjang verkündet, um dessen »nuklearen Bestrebungen Einhalt zu gebieten«.

Am 21. Juli besuchte US-Außenministerin Hillary Clinton zusammen mit US-Verteidigungsminister Robert Gates die entmilitarisierte Zone des innerkoreanischen Grenzorts Panmunjom. Dort verkündete sie schärfere Strafen gegen Pjöngjang, um dessen »nuklearen« Bestrebungen Einhalt zu gebieten. Der demonstrative Charakter dieses »Besuches« offenbarte auch das weitere Gepäck der US-Außenministerin: neue Wirtschaftsembargos gegen Nordkorea und die Ankündigung von der Zunahme der gemeinsamen Militärmanöver mit Südkorea in den kommenden Monaten. Das hatte der Pressesekretär des Pentagons, Jeff Morrell, bereits auf der Pressekonferenz am 14. Juli ausgeführt: »Auch werden gemeinsame Militärmanöver bei den Verhandlungen 2+2 [zwischen Nord- und Südkorea sowie China und den USA] zur Sprache gebracht. Zu denen gehören neue See- und Luftmanöver im japanischen Meer und Gelben Meer.« Weiter führte Morell aus: »All diese Manöver sind defensiver Natur, aber sie geben Nordkorea eine klare abschreckende Botschaft und demonstrieren unsere unerschütterliche Verpflichtung zur Verteidigung Südkoreas.« (7)

Von Seoul flog die US-Außenministerin nach Hanoi zur asiatischen Sicherheitskonferenz. Dort warf Hillary Clinton der Regierung in Pjöngjang ein »provokatives, gefährliches Verhalten« vor. Daraufhin kündigte ein Sprecher der nordkoreanischen Delegation eine »physische Antwort« an und sprach von »Kanonenbootdiplomatie« und einer Bedrohung der nationalen Souveränität. (8)

Nur drei Tage später kreuzten 20 Marineschiffe und 200 Kriegsflugzeuge aus Südkorea und den USA, darunter der eigens nach Korea geschickte Flugzeugträger »George Washington« vier Tage lang zwischen Südkorea und Japan. Weitere Militärübungen wurden für August geplant.

Mit der Verschärfung ihres Kurses reagieren die USA auf die schwache Resolution des Weltsicherheitsrats. Der hatte den Untergang der südkoreanischen Korvette »Cheonan« im März verurteilt, ohne den angeblichen Angreifer Nordkorea zu erwähnen.(9)

Peking hatte eine schärfere UN-Resolution verhindert und sich »tief besorgt« über die südkoreanisch-amerikanischen Manöver geäußert. Sie würden die Spannungen in der Region weiter anheizen.

Laut südkoreanischen Presseberichten haben die USA bereits seit Juni bei rund zehn Banken in Südostasien, Südeuropa und dem Nahen Osten heimlich etwa 100 Konten einfrieren lassen, über die Nordkorea angeblich illegale Geschäfte abwickeln soll. (10)

Warum heizt die US-Administration gerade jetzt das Koreaproblem an? Sollen hier die Chinesen gebunden werden, um mehr Handlungsfreiheit gegen den Iran zu bekommen?

Trotz – oder aufgrund? – aller wirtschaftlichen, politischen und militärischen Schwierigkeiten scheinen die USA an ihren globalen Plänen und der per Gesetz verankerten Seidenstraßenstrategie (11) festzuhalten. Die Stützpunkte im zentralen US-Militärkommando CENTCOM – vom kaspischen Raum bis zum Horn von Afrika – werden weiter ausgebaut. Ebenso wie im Osten Eurasien wird im Westen und zwar in Wiesbaden das Pendant zu Ginowan auf der Insel Okinawa gebaut.

Völlig unspektakulär war in der US-Armeezeitung Stars & Stripes am 20. Oktober 2009 vom Umzug des Hauptquartiers der US Army/Europe (USAREUR) von Heidelberg nach Wiesbaden zu lesen. (12) Auf dem dortigen US-Airfield Erbenheim soll bis 2013 das neue Europa-Hauptquartier der US Army entstehen. 68 Jahre nach dem Ende des Zweiten Weltkrieges und nach elf US-Präsidenten seit Harry Truman (1945–1953) sollen von einem amphitheaterähnlichen Einsatz- und Kampfführungszentrum aus die militärischen Geschicke Europas gesteuert werden. Das 84 Millionen Dollar teure dreistöckige Zentrum wird auf ca. 26.500 Quadratmetern mit den neuesten Kommunikations- und Planungsgeräten ausgestattet und zur modernsten US-Militäreinrichtung in Europa ausgebaut. Den Grund für den Neubau erläuterte der Operationschef der USAREUR, Brigadegeneral David G. Perkins: »Bisher ist das Hauptquartier der USAREUR weder dazu ausgelegt, noch technisch oder personell so ausgestattet, dass es als Kriegsführungshauptquartier dienen könnte.« Welche neuen Kriege sollen von hier aus ab 2013 geführt werden?

 

Anmerkungen:

 

(1) R. J. Rummel: »Statistics of North Korean Democide Estimates, Calculations and Sources«, STATISTICS OF DEMOCIDE, Chapter 10, unter http://www.mega.nu/ampp/rummel/sod.chap10.htm [09.12.10]

(2) White House: »President Obama ›Outraged‹ by North Koreas Attack«, November 23, 2010, 12:32 PM, unter http://blogs.abcnews.com/politicalpunch/2010/11/white-hou...

(3) Zbigniew Brzezinski, »America and China’s first big test«, Financial Times, 23. November 2010.

(4) Gregory Elich: »Spiralling out of Control: The Risk of a New Korean War«, in Global Research vom 4. Dezember 2010

(5) Justin Raimondo: »Latest incident a provocation – but by whom?«, vom 24. November 2010, http://original.antiwar.com/justin/2010/11/23/korean-conu...

(6) Zitiert aus »Japanese protest US base before Obama visit« in yahoo news, http://news.yahoo.com/s/afp/20091108/wl_asia_afp/japanusd...

(7) http://german.irib.ir/analysen/kommentare/item/113405-hil...

(8) Martin Fritz: »US-Sanktionen gegen Nordkorea. Kalter Krieg wird heißer«, taz vom 23. Juli 2010, http://www.taz.de/1/politik/asien/artikel/1/kalter-krieg-... [09.12.10]

(9) Eine südkoreanische Untersuchung hatte ein Torpedo des Nordens als Ursache für den Tod von 46 Seeleuten identifiziert. Nordkorea bestreitet dies jedoch.

(10) Martin Fritz: »US-Sanktionen gegen Nordkorea. Kalter Krieg wird heißer«, taz vom 23. Juli 2010, http://www.taz.de/1/politik/asien/artikel/1/kalter-krieg-... [09.12.10]

(11) Seidenstraßen-Strategie-Gesetz

Silk Road Strategy Act of 1999 (H.R. 1152-106th Congress)

Offizieller Titel: To amend the Foreign Assistance Act of 1961 to target assistance to support the economic and political independence of the countries of the South Caucasus and Central Asia.

Im Mai 2006 modifiziert:

Silk Road Strategy Act of 2006 (S. 2749-109th Congress)

Offizieller Titel: A bill to update the Silk Road Strategy Act of 1999 to modify targeting of assistance in order to support the economic and political independence of the countries of Central Asia and the South Caucasus in recognition of political and economic changes in these regions since enactment of the original legislation.

(12) Mark Patton: »Contract awarded for Wiesbaden USAREUR center«, in: Stars and Stripes, European edition, 20. Oktober 2009, http://www.stripes.com/article.asp?section=104&articl...

 

mercredi, 08 décembre 2010

Cina e Russia, addio al dollaro tra politica ed economia

Cina e Russia, addio al dollaro tra politica ed economia

Yuan e rubli negli scambi bilaterali. Paolo Manasse: "Ricerca di stabilità e di autonomia da Washington. Ma non è guerra delle valute"

Cina e Russia hanno deciso di effettuare le transazioni commerciali bilaterali nelle proprie valute (yuan-renminbi e rublo), rinunciando al dollaro come moneta universale di scambio.
L'anno scorso, il commercio tra i due Paesi è stato stimato attorno ai quaranta miliardi di dollari. Si pensa che a fine 2010 ammonterà a sessanta miliardi.
Nell'accordo siglato da Vladimir Putin e Wen Jiabao a San Pietroburgo il 24 novembre, molti hanno visto un capitolo di quella "guerra delle valute" che agita sia i mercati finanziari sia la geopolitica mondiale, con il rinnovato interesse dell'amministrazione Obama per l'Estremo Oriente e la crescita record della Cina, nuova superpotenza.
PeaceReporter ha chiesto un parere a Paolo Manasse, professore di Macroeconomia e di Politica Economica Internazionale all'Università di Bologna, docente di Macroeconomia all'Università Bocconi di Milano.

Come si spiega la decisione di Russia e Cina?

C'è un motivo economico e ce ne è uno politico.
Dal punto di vista economico, siamo in un periodo di volatilità dei cambi legato alla crisi. Quando si parla di volatilità, ci si riferisce soprattutto al rapporto tra euro e dollaro. La Russia ha un grande volume di scambi con l'Europa, idem la Cina che ce l'ha anche con gli Usa, quindi sono esposte ai rischi di questa volatilità. E' probabile che almeno nello scambio bilaterale vogliano tutelarsi dai rischi di cambio delle valute, utilizzando le proprie.
L'aspetto politico sta nel fatto che soprattutto la Cina, così facendo, afferma la propria sovranità anche valutaria, mostrando di poter fare a meno del dollaro, cioè contrastando il privilegio tutto statunitense di battere moneta. Può essere letto in chiave di sfida.

C'entra con la cosiddetta "guerra delle valute"?

La guerra delle valute dura da anni. Muove dall'accusa Usa secondo cui la Cina terrebbe la propria moneta artificialmente bassa per guadagnare competitività. Nei meccanismi di mercato, alla domanda molto alta di merci cinesi dovrebbe corrispondere anche una domanda molto alta di yuan per pagarle. La conseguenza naturale dovrebbe essere la crescita di valore della moneta cinese e il deprezzamento del dollaro. Qui invece interviene la banca centrale cinese comprando dollari e vendono yuan per calmierarne il prezzo. Le conseguenze sono il valore basso dello yuan e un accumulo di dollari nelle riserve cinesi.
E' comunque una faccenda che riguarda soprattutto gli Usa, perché sono loro ad avere un enorme deficit commerciale con la Cina. L'Europa molto meno.
Tecnicamente, la scelta di Russia e Cina non c'entra molto con la guerra delle valute.
Anzi, potrebbe avere come effetto la riduzione della domanda di dollari e quindi l'indebolimento della valuta Usa. Chiaramente, non è scontato che ci sia un simile effetto, dipende da quali saranno i volumi degli scambi tra Cina e Russia. Ma comunque l'accordo non può essere visto come un tassello della guerra delle valute.

C'è anche il tentativo di diversificare le proprie riserve valutarie, riducendo la parte in dollari?

Il monopolio del dollaro come moneta di riserva [cioè la valuta con cui le banche centrali dei diversi Paesi accumulano le proprie riserve, date generalmente dal surplus commerciale, ndr] è già finito con l'avvento dell'euro. In genere le banche centrali tengono un portafoglio abbastanza bilanciato, diversificato, per evitare che fluttuazioni nel mercato dei cambi provochino problemi. Non si punta mai al cento per cento su una sola valuta.
In questo caso, mi sembra che si punti più a evitare l'impatto delle fluttuazioni sulle transazioni, sul commercio. A parte la valutazione politica, certo, cioè l'affermazione di indipendenza da parte della Cina.
Se un cinese esporta merci facendosi pagare in dollari o euro, e una delle due monete crolla, ci perde un sacco di soldi. Dal momento in cui si fanno le transazioni al momento in cui vengono liquidate, si rischia. Di solito ci si assicura con il mercato a termine: uno vende i dollari di domani a un prezzo che conosce oggi. Ma se fa gli scambi con la moneta nazionale, ha risolto il problema alla radice.

Gabriele Battaglia

lundi, 06 décembre 2010

The Hermit Kingdom

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The Hermit Kingdom

Matt PARROTT

Ex: http://www.counter-currents.com/

North Korea is perhaps more than any other nation on Earth, completely out of step with our global cosmopolitan overlords. On some level, the fascination in racialist circles is understandable, as the regime is defiantly rejecting foreign influence, celebrating their shared identity, and (most importantly for us) embracing their racial heritage. It’s certainly presented in a distorted light by our government and media.

But North Korea really sucks. Kim Jong-il is hardly a fascist ruler in the Western tradition, with habits and hobbies more reminiscent of Mugabe than Mussolini. He’s a terrible steward of his people, indulging in the sort of material excess that Puff Daddy’s entourage would find embarrassing. For instance, when traveling through Russia on his own private train, he takes breaks for airlifted lobster dinners.

For all the talk of rejecting modernity, he’s a basketball fanboy who delighted in receiving a basketball signed by Michael Jordan on a state visit from Madeleine Albright. He’s seen more mainstream American movies than any of us have. His family’s attempt to replace his country’s traditional beliefs with a bizarre “cult of personality” is about as far from any Tradition as one can get.

However, as awful as North Korea is, and it’s about as awful as it gets, it has managed to retain its ethnic identity intact. It’s hard to say how much of this is actually due to ideology (his cultural tastes leave me skeptical). I suspect it’s for the same reason that my hometown has remained ethnically homogeneous: poverty.

Just as God strikes his favored females with ugliness to protect their virginity, he strikes his favored communities with poverty to protect their racial purity. Had the good people of Michigan chased Henry Ford out of the state with pitchforks and burned their factories to the ground, the state would still be a safe and solvent replica of its original settlers’ Nordic homeland.

South Korea, Japan, Taiwan, and China are increasingly under pressure to solve their “demographic problem” of growing old by swallowing the spider of third world immigration. North Korea has been under no such pressure. Even African war refugees would rather starve in a tent city in a tropical climate among their own than starve in North Korea.

As awful as North Korea is, the rising tide of color will part like the Red Sea around it. As awful as North Korea is and as maniacal as Kim Jong-il is, a nation that doesn’t do away with itself can redeem itself later. It can have a future. Fortunately, there’s no dichotomy here. We can borrow the one thing that North Korea’s doing right, then abandon our colonial holdings in Japan, South Korea, and Taiwan so the Chinese won’t feel the need to prop up this madman and his buffer state.

samedi, 04 décembre 2010

Mishima, l'eterna giovinezza di un samurai

Mishima, l'eterna giovinezza di un samurai

Quarant’anni fa moriva lo scrittore giapponese

Lo ricorda un ex ragazzo che crebbe nel suo mito

Strumenti utili
mishimacccvvvv.jpgLe parole non bastano. Così parlò Yukio Mishima, e il 25 novembre del 1970 si uccise davanti alle telecamere col rito tradizionale del seppuku. Alle parole seguì il gesto e la scrittura debordò nella vita per compiersi nella morte. Il suicidio eroico di Mishima scosse la mia generazione, versante destro. Era il nostro Che Guevara, e sposava in capitulo mortis la letteratura e l’assoluto, l’esteta e l’eroe, il Superuomo e la Tradizione. Lasciò un brivido sui miei quindici anni. Poi diventò un mito a diciassette, quando uscì in Italia Sole e acciaio, il suo testamento spirituale. È uno di quei libri che trasforma chi lo legge; gustato riga per riga, non solo letto ma vissuto, come un libro d’istruzioni per montare la vita, pezzo per pezzo. Altro che Ikea, il pensare si riversava nell’agire. Le parole non bastano.

Andammo in palestra, dopo quel libro, tra i manubri e i pesi, sulla scia di Mishima e del suo acciaio per scolpire il corpo all’altezza dei pensieri e per dare una vita ardita a un’indole intellettuale. Correvamo a torso nudo d’inverno con alcuni pazzi amici per andare incontro al sole. Dopo una corsa di dieci chilometri c’era un ponte che era la nostra meta finale perché sembrava che corressimo verso il cielo. Arrivavamo sfiniti ma a testa alta, con uno scatto finale, e una benda rossa sulla fronte. Pazzi che eravamo, illusi di gloria. Ridicoli. Vedevamo il sole come obbiettivo, non guardavamo sotto, all’autostrada, che banalmente scorreva sotto il ponte. Eravamo nella via del Samurai, mica sull’asfalto. Inseguivamo il mito. Un mito impolitico, che ci portava lontano dall’impegno militante e ci avvicinava a quella comunità eroica che Mishima aveva fondato due anni prima di darsi la morte. Mishima diventò col tempo il nostro Pasolini, disperato cantore di un mondo antico contro il mondo moderno e le sue macerie spirituali, l’americanizzazione e i consumi. Oggi di Mishima non è più proibito parlare, tutte le sue trasgressioni restano vietate, eccetto una che però basta a glorificarlo agli occhi del nostro tempo: Mishima era omosessuale. Sposato, ma omosessuale. E così viene oggi celebrato dai media e riabilitato.

Su Radio3 è andato in onda qualche giorno fa un bel programma a lui dedicato di Antonella Ferrera. Ho scritto più volte di lui, accostandolo al Che, d’Annunzio e Pasolini. Fu grande gioia ripubblicare, con un mio saggio introduttivo, Sole e acciaio, dieci anni dopo la sua prima lettura. Avevo ventisette anni ma avevo un conto in sospeso con la mia giovinezza, e fui felice di onorarlo. Il peggior complimento che ricevetti fu da un professore che allora mi disse: è più bella la tua introduzione del testo. Mi piace ricevere elogi, non nego la vanità. Ma quell’elogio fu peggio di un insulto, disprezzava il breviario della nostra gioventù. Come poteva paragonare un saggetto giovanile e letterario a un testamento spirituale così denso e forte? L’ho riletto dopo svariati anni, quel piccolo libro; non era un libro sacro, d’accordo, ma lo trovai ancora bello e teso, spirituale e marziale.

Poi c’era Mishima romanziere, gran letterato, ma poco rispetto al testimone dell’Assoluto. Certo, Mishima soffriva di narcisismo eroico, c’era in lui una componente sadomaso e molto di quel che lui attribuiva allo spirito dell’antico Giappone imperiale proveniva in realtà dalla letteratura romantica d’occidente e dalle sue letture. Mishima era stato lo scrittore più occidentale del Giappone, era di casa in America, veniva in Italia, amava Baudelaire e d’Annunzio, Keats e Byron, perfino Oscar Wilde. Faceva il cinema, scriveva per il cinema e per il teatro moderno, amava i film di gangster, era amico di Moravia. E c’era in lui quell’intreccio di vitalismo e decadentismo comune agli esteti nostrani. La stessa voluttà del morire di d’Annunzio, lo stesso culto della bella morte degli arditi e poi di alcuni fascisti di Salò...

Ma il miracolo di Mishima fu proprio quello: ritrovare nella modernità occidentale il cuore antico del suo Giappone, il culto dell’imperatore, la via del samurai, il pazzo morire; il nostro pensiero e azione che diventano in Giappone il crisantemo e la spada. Ribelle per amor di Tradizione. Certo, dietro il suicidio non c’è solo il grido disperato e irriso verso lo spirito che muore; c’è anche il gusto del beau geste clamoroso e c’è soprattutto l’orrore della vecchiaia, del lento e indecoroso morire nei giorni, negli anni. Dietro il samurai c’era Dorian Gray. Ma colpisce la sua cerimonia d’addio, vestito di bianco come si addice al lutto in Giappone, e prima il suo congedo in scrittura. Saluto gli oggetti che vedo per l’ultima volta... Mi siedo a scrivere e so che è l’ultima volta... Poi il pranzo dai genitori alla vigilia, la ripetizione fedele delle abitudini, come se nulla dovesse accadere. E il giorno dopo conficcarsi una lama nel ventre e farsi decapitare, dopo aver gridato tra le risa dei soldati, l’occhio delle telecamere e il ronzio degli elicotteri, il suo discorso eroico caduto nel vuoto.

Quell’immagine ti resta conficcata dentro, come una spada, capisci che l’unica morale eroica è quella dell’insuccesso, pensi che il successo arrivi quando il talento di uno si mette al servizio della stupidità di molti; diffidi delle vittorie e accarezzi la nobiltà delle sconfitte. E leggi Morris e la Yourcenar che a Mishima dedicò uno splendido testo, per accompagnare con giuste letture il suo canto del cigno. Su quegli errori si fondò la vita di alcuni militanti dell’assoluto, alla ricerca di una gloria sovrumana che coincideva con la morte trionfale, la perdita di sé nel nome di una perfetta eternità... Perciò torno oggi in pellegrinaggio da Mishima e porto un fiore di loto ai suoi 45 anni spezzati, e ai nostri quindici anni spariti con lui.

vendredi, 03 décembre 2010

Un coup d'Etat civil pro islamique à Ankara...

Un coup d'État civil pro islamique à Ankara...

Par Jean-Gilles Malliarakis

Ex: L'Insolent

  

Les conséquences de la réunion de l'Otan à Lisbonne directes et indirectes, ne manquent pas de se faire sentir. Et cela commence par l'un des principaux alliés, la Turquie. Les années 1946-1950 avaient vu la mise en place, dans ce pays, de gouvernements démocratiques formellement civils. Plusieurs coups d'État les ont renversés successivement. Or pour la première fois depuis 60 ans, deux ministres (1) ont pris la décision d'y mettre à pied trois généraux. (2) Ceux-ci se trouvent impliqués dans le cadre du complot Bayloz remontant à 2003. Le chef du parti laïc de gauche CHP soutient de façon significative les trois putschistes, qui font appel aux tribunaux spéciaux. Cela s'est produit la semaine écoulée, qui suivait immédiatement la rencontre de l'alliance occidentale.

S'agissant de tout autre pays, on trouverait cette situation critique du point de vue journalistique et conjoncturel. L'événement serait couvert de façon dramatique par les gros moyens d'information. Et on jugerait aussi cette normalisation, sur le fond, parfaitement conforme aux principes de la gouvernance mondiale.

Il n'en va pas de même dans une société où l'élément militaire joue, ou plutôt jouait jusqu'à une date très récente, un rôle central dans tous les réseaux de pouvoir. Rappelons ainsi que le poids économique de la couche dirigeante de l'armée issue du kémalisme, en fait le principal partenaire apprécié en France par les milieux se disant de gauche et non moins laïcistes.

Les dirigeants civils, eux-mêmes disciples de l'islam moderniste (3), ont obtenu à Lisbonne de la part des Américains et des autres alliés une concession qu'ils jugent essentielle. On leur a accordé que l'Iran ne soit pas explicitement mentionné comme adversaire dans le cadre de la mise en place du bouclier anti-missiles de l'Alliance atlantique. Dans ce contexte, ils se sentent en mesure de rogner un peu plus les prérogatives des militaires laïcs.

On pourrait donc aboutir au renversement complet du rapport de forces établi par les jeunes-turcs en 1909, puis par le kémalisme en 1923, un concept paradoxal : un "coup d'État" civil.

En apparence, formellement, si cette évolution aboutit, elle ne rencontrera que des approbations, au moins dans un premier temps, sur la scène internationale.

Pour le moment d'ailleurs un seul pays, pratiquement, semble s'y opposer, émettre des réserves, agiter et alerter plus ou moins discrètement ses propres éléments d'influence. Il s'agit de l'État qui avait tissé depuis le début des années 1950 des liens très solides de coopération avec l'armée d'Ankara. Pour le moment, en effet, le gouvernement israélien actuel redoute à plus ou moins juste titre une coalition régionale des pays musulmans. Ceci ne s'était jamais produit depuis la fondation d'Israël. L'État hébreu, de guerre en guerre, et pendant ces périodes intercalaires que l'on appelle, un peu imprudemment peut-être, "la paix" avait toujours su séparer les deux puissances musulmanes régionales non arabes, l'Iran comme la Turquie, et s'employer efficacement à diviser les Arabes entre eux. Sur ce dernier terrain il n'a pas rencontré trop de difficultés.

Dans sa chronique de Zaman Today du 27 novembre M. Ergun Babahan prend à cet égard à partie l'ancien ambassadeur américain en Turquie M. Eric Edelman. Il en fait à la fois le porte-parole à Washington d'une certaine coulisse et il l'accuse de "vivre dans un monde virtuel", de se montrer "coupé du réel". Le vrai reproche porte sur l'évaluation de la durée, que ses partisans jugent illimitée, du gouvernement turc actuel.

De ce dernier point de vue nous ne disposons à vrai dire d'aucune boule de cristal. Nous les laissons au Quai d'Orsay. Contentons-nous des faits.

Lors de la sortie très spectaculaire de Erdogan à Davos en janvier 2009, puis encore lors des incidents de la flottille Mavi Marmara en mai 2010, on a pu remarquer que le gouvernement d'Ankara ne craignait pas désormais de s'aliéner les réseaux pro-israéliens du monde entier. Aux Etats-Unis, où il réside, remarquons d'ailleurs que Fethullah Gülen tient des propos apaisants. Certains observateurs mal informés ou naïfs, comme M. Gurfinkel dans Valeurs actuelles, les prennent ou tentent de les faire prendre à leurs lecteurs pour argent comptant.

Or, désormais, le quotidien officieux Zaman est monté d'un cran dans la séparation : on y met en accusation l'influence sioniste en Amérique du nord. Personne ne peut croire inconscients de la gradation, les professionnels de la communication qui fabriquent ce journal, très proche du pouvoir et techniquement très bien fait. Y compris dans l'usage des mots, il ne nomme plus d'ailleurs désormais ses adversaires pour "sionistes", il revient à un registre sémantique qui servait beaucoup à la charnière des XIXe et XXe siècles.

Or, parallèlement, les dirigeants d'Ankara haussent également le ton dans leurs négociations avec l'Europe. Ils jugent en effet que la défense du continent a été confirmée ces dernières semaines comme dépendant intégralement du bon vouloir de Washington. Plusieurs longues analyses officieuses confirment ce fait, pour tout observateur lucide, malheureusement évident. (4) Il semble pour nous humiliant, mais pour les Turcs réconfortant, que l'Union "européenne", les guillemets me paraissent désormais s'imposer, persiste à ne penser son destin qu'en tant que grosse patate consommatique.

Représentée au plan international par les glorieux Barroso, Van Rompuy et Lady Ashton l'organisation bruxelloise des 27 petits cochons roses se préoccupe plus de sauver ses banquiers que de défendre ses ressortissants.

Le projet "Eurabia" a été décrit (5) comme préparant pour les prochaines décennies, au nord de la Méditerranée la situation de dhimmitude que subissent depuis des siècles les chrétiens d'orient. Ce processus de domestication des peuples par la trahison de leurs élites économiques semble donc en bonne voie.

Les ennemis de la liberté si actifs contre notre continent s'y emploient dans les coulisses de Bruxelles.

En professionnels de la conversion par conquête, je ne doute pas que les islamistes turcs observent leurs proies, qu'ils l'hypnotisent par leurs mots d'ordre et qu'ils se régalent de leurs faiblesses. On peut cependant encore s'y opposer. (6)

 

Notes

 

1.                   Il s'agit des ministres de l'intérieur Bechir Atalay et du ministre de la Défense Vecdi Gönül

2.                   Les militaires limogés sont un général de gendarmerie, du général Abdullah Gavremoglou et du major Gürbüz Kaya.

3.                   Nous donnons à ce sujet quelques précisions dans L'Insolent du 23 novembre "Les dirigeants turcs vrais islamistes et faux bisounours".

4.                   cf. les analyses publiées dans Zaman les 24 et 27 novembre

5.                   cf. le livre de Bat Ye'or "Eurabia, the Euro-Arab Axis" 2005 ed. Farleigh Dickinson University Press, version française "Eurabia, l’axe euro-arabe" 304 pages 2006 éd. Jean-Cyrille Godefroy.

6.                   J'aurais le plaisir de signer mon livre "La question turque et l'Europe" au prochain salon du livre d'Histoire le dimanche 5 décembre. Mais vous pouvez aussi dès maintenant l'acquérir directement sur le site des Éditions du Trident. Rappel : il est plus courtois vis à vis des organisateurs, pour les personnes qui se rendraient à ce salon d'acquérir les ouvrages sur place.

Il cuore di Mishima

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Il cuore di Mishima

di Marco Iacona

Ex: http://www.scandalizzareeundiritto.blogspot.com/ 

Yukio Mishima (ma è più corretto scrivere Mishima Yukio), è stato un personaggio – non solo persona, appunto, ma personaggio – capace di esprimere la grandezza e la pienezza del vivere in ogni gesto o frase e per tutti i momenti che hanno composto i quarantacinque anni della sua breve vita (l’ultima sua frase prima del suicidio: «la vita umana è breve, ma io vorrei vivere per sempre.»). A quarant’anni esatti dalla morte (25 novembre 1970), lo ricordiamo come uno degli intellettuali, scrittori e uomini d’azione (personaggio, dunque, assolutamente novecentesco), capaci di dare un senso ben preciso al cosiddetto “secolo breve”.
 
 In Mishima c’è un pezzo – anche piccolo – di ogni personalità che ha arricchito gli anni del nostro passato. Lui è innanzitutto il D’Annunzio d’oriente (poeta, prosatore, acceso patriota, esteta, uomo dalla forte personalità che “confonde” vita ed epica), ma è anche un uomo pronto al sacrificio per il rispetto dei principi e politicamente non-etichettabile come Che Guevara; Mishima è un uomo destinato a suscitate scandalo ed essere, contemporaneamente, venerato dai propri sostenitori come Lawrence d’Arabia l’avventuriero, ma anche profondamente influenzato da una cultura che non è quella del proprio paese (il Giappone) come il grande Akira Kurosawa (e come lui non amatissimo in patria); infine un uomo segnato da un destino tragico e contraddistinto da un’esistenza inquieta come Drieu La Rochelle e Camus: un uomo nato e poi vissuto con un deficit di libertà (all’interno del Giappone crebbe peraltro con un’educazione molto rigida), ma che questa stessa ricercò dappertutto, nelle lettere, nei costumi e nell’amore per una patria sottoposta a rigide imposizioni di politica internazionale.
 
 Come tutti i (veri) grandi intellettuali del Novecento – viene in mente anche il nostro Pasolini – Mishima subisce l’influenza di “correnti” di pensiero opposte le une alle altre, c’è tanta modernità – nella forma di una “antichità riadattata” – ma tanta tradizione nelle sue prose che risulta davvero difficile produrre le giuste coordinate per un “pensiero” eternamente sfuggente. Conservatore anzi tradizionalista? Senz’altro, data la venerazione per il Giappone imperiale. Decadente? Anche, come decadenti furono gli scrittori che esibirono “moralità” proprie e chiusero un’epoca fra estetiche nietzscheane e pulsioni romantiche. Mishima è autore d’inarrivabile profondità e narratore schietto, senza censure “ideologiche” ai limiti della sfacciataggine, un Rimbaud dei nostri tempi.
 
Al momento del suicidio – con la cerimonia del seppuku – davanti alle televisioni, con migliaia di curiosi e in straordinario “fortuito” anticipo sulla scoperta del potere “condizionante” dei media, lui che parla con poetica delicatezza di omosessualità e frigidità citando Freud e Fromm, in Italia si litiga - molto più “banalmente” - sulla legge sul divorzio e si dibatte sui progetti per la costruzione del ponte sullo stretto di Messina (!); lui bisessuale dichiarato anticipa gli “outing” di artisti e intellettuali del terzo Millennio, anticipa le preoccupazioni che un gesto compiuto davanti a milioni di spettatori possa influire sul comportamento di altrettanti concittadini e sulle elite del proprio paese, e anticipa il “gusto” per i riflettori accesi sulla cultura giapponese. La “morte in diretta” in Italia sarebbe arrivata “soltanto” undici anni dopo nel 1981 con le sofferenze di Alfredino Rampi all’interno di un pozzo poco lontano da Roma, la “mania” per il Giappone – un certo tipo di Giappone spesso però caricaturale – sarebbe arrivata grazie alla cultura di Manga e Anime dal 1978 in poi. Il cinema Giapponese invece era già noto in Italia dai primi anni Cinquanta, ma ben poca cosa forse.
 
In un’Italia bacchettona sfiorata appena dalle novità del Sessantotto (il Sessantotto che è anche quello del suicidio di Jan Palach però), un paese nel quale in pochi vanno oltre un americanismo da “buon padre di famiglia”, Mishima è un autore che dà fastidio. Nonostante le candidature al premio Nobel, alcuni quotidiani italiani non ne citano il nome quando danno la notizia del gesto estremo (nel titolo si parla solo di un celebre scrittore; la “Stampa” titola: “Uno scrittore di Tokio”…); a far notizia è il “fanatismo” dei protagonisti nonché la stranezza degli accadimenti. Punto. Molti cadono vittima della “cattiva” fama di Mishima compresa quella del “militarista”: lo scrittore ha fondato due anni prima un corpo paramilitare privato l’“associazione degli scudi” del quale è naturalmente il comandante, e peraltro ha deciso di morire con un gesto da “onesto” avanguardista, dando prova che il protestare contro la rinuncia del Giappone alle proprie tradizioni non è mera chiacchiera giornalistica (si ripassi il suo “Sole e acciaio” per capire meglio).
È il rigore mishimiano a dar fastidio ancora oggi a chi ritiene che il “disprezzo per la morte” degli uomini del Sol-levante sia solo il cattivo ricordo degli anni della seconda guerra mondiale. Ed è l’idea che la guerra, dopo venticinque anni (e con la capitolazione definitiva del Giappone), non sia definitivamente finita a “terrorizzare” gli osservatori, e con essa il doppio pensiero che l’«assoluta inefficienza delle forza armate giapponesi ad assicurare la difesa del paese» e «la vigente Costituzione imposta al Giappone dagli accordi di Yalta e Potsdam», sia un’intollerabile ferita per un paese dalle eccellenti tradizioni militari. Una “maledizione” che Mishima si porta addosso da decenni. La maledizione del “fascista”, militarista e ultranazionalista, la maledizione che colpisce chi decide di non rassegnarsi ai verdetti della seconda guerra mondiale: quanti nomi si potrebbero fare in proposito… Quella “malattia della politica” che Mishima ha cercato di scansare per decenni (si definiva un antipolitico), torna dunque nella vita dello scrittore sotto la forma di una condanna senza appello anche nel post-mortem. Lui si batte per il ritorno del Giappone allo “spirito tradizionale” - quello che fu dei samurai - e per il ripristino delle condizioni di difesa dell’Imperatore che incarna lo spirito della nazione (prima di morire Mishima urla: «Tenno Heika Bazan!» - Viva l’Imperatore!), ma per gli “osservatori” invece è solo un tipo “fascista”, un nazionalista come “tanti” negli anni caldi del ritorno alle contrapposizioni ideologiche. Se a ciò aggiungiamo l’amore mishimiano per la Grecia classica e il teatro tradizionale giapponese (passioni indigeste per chi è accecato dal sol dell’avvenire), la cura maniacale del corpo (dagli anni Cinquanta Mishima si dedica al culturismo e al Kendò e la sua immagine diventa icona della bellezza fisica maschile), e l’importanza data ai valori dello stile, del gusto e dell’azione non è arduo pensare che il destino dell’autore di “Neve di primavera” fosse rigidamente scritto fin dai primi anni.
 
Come Céline, come Pound come altri (compreso il nostro D’Annunzio), l’approccio a Mishima è ancora oggi schizofrenico... Fascista illeggibile per qualche “anima bella”, ma in realtà scrittore amatissimo dalle donne e dagli uomini in egual misura (e ciò lo rende ancora una volta unico), e dalle capacità narrative paragonabili a quelle di un Dostoevskij (edito peraltro in Italia anche da Feltrinelli). Il rapporto – letterario – fra Mishima  e le donne è un capitolo a se stante della biografia dello scrittore tokyoto; anche nei suoi lavori meno recenti o più commerciali come “Musica” o la “Leonessa” la donna assume un ruolo da protagonista sconosciuto a gran parte della letteratura moderna. Donna non come “parte” di un universo maschile ma come protagonista “alla pari” soprattutto nei rapporti d’amore. Eccola la “cifra mishimiana”: l’andare oltre lo schema occidentale – capitalistico-borghese – che tipicizza il rapporto maschio/femmina per aprire nuovi capitoli attraverso l’analisi delle proprie tradizioni, attraverso la fitta indagine psicologica. Dopotutto, anche questo è l’autore che seppe riversare in autentici capolavori - e quasi da subito - come “Confessioni di una maschera” il proprio disagio esistenziale per la cosiddetta normalità; si trovasse al di “dentro”, nel suo animo, o al di “fuori” dell’essere umano, cioè nella società.
 
È quasi scontato in cauda ricordare che fra i suoi ammiratori ci fosse Marguerite Yourcenar capace di percepirne, così come fece per Julius Evola, una cifra “trascendente”, un quid  di eccezionalità. Ancora oggi però c’è l'intellettuale sconosciuto a chi ha gli occhi bendati dal pregiudizio... Caduti i muri, i veti e le censure, siamo sicuri cadrà anche la barriera che impedisce di entrare nell’universo di Yukio Mishima, nell’universo delle "confessioni" di chi strappò al secondo Novecento la grigia maschera del conformismo.
Maia

mardi, 30 novembre 2010

La Chine et la Russie abandonnent le dollar comme devise de leurs échanges commerciaux

La Chine et la Russie abandonnent le dollar comme devise de leurs échanges commerciaux

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

La Chine et la Russie ont convenu de ne plus utiliser le dollar dans leurs échanges commerciaux mais leur propre devise, ont annoncé mardi le Premier ministre chinois, Wen Jiabao et son homologue russe, Vladimir Poutine, à l’issue de la quinzième rencontre de haut-niveau entre les deux nations.

Les deux dirigeants ont déclaré que cette décision reflétait un renforcement des liens entre Pékin et Moscou et n’était pas destinée à remettre en cause la devise américaine mais à protéger leurs économies respectives.

Par le passé, la Chine et la Russie utilisaient dans leur commerce bilatéral d’autres devises, dont le dollar, mais la crise financière internationale et la baisse du billet vert ont conduit les deux parties à considérer une autre alternative.

 

La rouble est actuellement la sixième devise étrangère, après le dollar, l’euro, la livre Sterling, le dollar de Hong Kong et le ringgit malais à être autorisée par la Chine dans ses échanges commerciaux, annonce le Moscow Times.

Le China Foreign Exchange Trade System, le régulateur chinois d’échanges commerciaux avec l’étranger, a indiqué dans un communiqué que cette décision permettra de réduire les risques et de faciliter le commerce bilatéral entre la Chine et la Russie.

La première transaction commerciale de cette nouvelle donne a eu lieu lundi et concerne l’Industrial & Commercial Bank of China Ltd. et la Bank of China Ltd., pour un montant d’un million de yuans (151.000 dollars), selon Bloomberg.

La National Bank of China évalue un yuan à 4,6 roubles pour le départ de ces nouvelles régulations, annonce RT.

Cette annonce conjointe est perçue comme le résultat d’une augmentation des échanges commerciaux entre les deux pays. Durant les dix premiers mois de l’année 2010, le volume global des échanges a atteint 45,1 milliards de dollars, soit une hausse de 43,4% par rapport à la même période, l’année passée.

Les discussions entres les deux pays devraient maintenant porter sur les prix du gaz naturel importé par Pékin et que les Chinois espèrent réviser à la baisse…

Tout sur la Chine

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Article lié :

La Chine et la Russie éjectent le dollar

Le Premier ministre chinois Wen Jiabao et son homologue Vladimir Poutine ont annoncé, à l’issue de leur rencontre du 23 septembre à Saint-Pétersbourg, que le dollar n’est désormais plus la monnaie utilisée pour leurs échanges commerciaux bilatéraux.

C’est la première fois que le dollar est ainsi déréférencé par deux puissances économiques majeures. La première fois, mais peut-être pas la dernière… Alors que les Etats-Unis, noyés dans les déficits, tentent de relancer leur économie et que la Fed révise à la baisse ses prévisions de croissance.

Le rouble et le yuan servent maintenant à régler les échanges commerciaux bilatéraux, se substituant au dollar, utilisé par la Russie et la Chine à ce jour. Le Premier ministre russe le confirme : « Le rouble et le yuan ont déjà commencé à se négocier sur les marchés interbancaires des deux pays. Dans une étape ultérieure, le renminbi sera lui aussi utilisé ». Et le ministre russe des Finances Alexeï Koudrine, d’enfoncer le clou : « Le yuan pourrait devenir une monnaie de réserve au cours des dix prochaines années ».

Les deux pays ont également signé un accord pour renforcer leur coopération dans les secteurs de l’aviation, de la construction ferroviaire, de l’énergie y compris le nucléaire. Le document couvre également les questions douanières et de propriété intellectuelle. Wen Jiabao a salué cet accord, déclarant que « le partenariat stratégique entre les deux nations avait atteint un niveau sans précédent ».

Le moniteur du commerce international

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Autre article lié :

Poutine appelle à contrer le « monopole excessif » du dollar

Le premier ministre russe Vladimir Poutine, en visite à Berlin, a qualifié l’euro de monnaie stable et appelé à renoncer au monopole excessif du dollar en tant que devise de réserve, rapporte vendredi le correspondant de RIA Novosti.

« On observe actuellement des problèmes au Portugal, en Grèce et en Irlande, l’euro chancelle quelque peu, mais, somme toute, c’est une bonne devise mondiale, une monnaie stable », a indiqué le chef du gouvernement russe lors d’un forum économique réunissant les dirigeants des plus grandes entreprises allemandes.

« Le monopole excessif exercé ces derniers temps par le dollar en tant qu’unique monnaie mondiale de réserve était à mon sens mauvais, et nous devons y renoncer. C’est mauvais pour l’économie mondiale. Cela l’a déséquilibrée », a estimé M.Poutine.

Le forum économique berlinois a été organisé par le journal allemand Süddeutsche Zeitung.

Ria Novosti

dimanche, 28 novembre 2010

Les dirigeants turcs: vrais islamistes et faux bisounours

Les dirigeants turcs: vrais islamistes et faux bisounours

Jean-Gilles MALLIARAKIS

Ex: http://www.insolent.fr/

erdogan-davutoglu-hasa-hz_-peygamber-mi-1011101200_l.jpgOn peut reprocher, certes, beaucoup de choses aux dirigeants turcs mais on doit leur reconnaître une qualité. Ils se préoccupent avant tout, pour ne pas dire exclusivement, de l'idée qu'ils se font du destin de leur pays.

On l'a vu encore à la faveur des réunions de Lisbonne du 20 novembre. Beaucoup d'observateurs croient découvrir une dérive les éloignant quelque peu de la vieille alliance atlantique. Mais en fait plus on analyse leur action et plus on finit par en considérer le sérieux.

I. Quelques mots d'abord sur le pouvoir civil en Turquie

Il existe bien évidemment, des nuances, des débats et même des contradictions parmi les dirigeants politiques d'Ankara et au sein des élites d'Istanbul.

Les détenteurs du pouvoir politique civil actuel se situent dans la mouvance d'un courant islamique précis. Ne les confondons ni avec les terroristes qui ont ouvertement déclaré la guerre au monde occidental, ni même avec les rétrogrades "salafistes" rêvant de revenir au monde de ceux qu'ils appellent leurs pieux ancêtres. Ce courant d'idées a toujours voulu rénover, moderniser un pays, et ceci dès la fin de l'Empire ottoman. La doctrine remonte Saïd Nursi et aux "nourdjous" (1). Son réformisme s'oppose à celui des jeunes-turcs et à leurs continuateurs actuels qui brandissent le drapeau du kémalisme et de sa laïcité. Essentiellement croyant, il entend refaire de sa patrie une grande puissance en s'appuyant sur l'islam et en sortant celui-ci de son archaïsme. Il tentera de convaincre, l'un après l'autre, les maîtres du pouvoir, à commencer par le sultan. Il s'adresse à une nation fondamentalement différente des peuples du Proche-Orient, soumis aux sultans-califes de Constantinople à partir du XIVe siècle. Son espace de rêve va "de l'Adriatique [et c'est en cela qu'il met l'Europe en danger] à la Muraille de Chine". Il se reflète donc aujourd'hui dans le parti "AK" qui tient le gouvernement [Ergogan] et la présidence de la république [Abdullah Gül]. Son journal "Zaman" constitue la meilleure source de données sur le pays. est inspiré depuis des années par Fethullah Gülen. Plusieurs fois arrêté dans son pays natal pour ses activités anti-laïques, celui-ci est depuis 1999 installé aux États-Unis. Certes ce chef de file se prononce, par exemple, pour le dialogue interreligieux et contre le terrorisme.

Mais il faut la naïveté, et l'ignorance sans faille des responsables occidentaux, pour le définir comme "modéré". D'ailleurs, on se souviendra que naguère cette étiquette passe-partout servait déjà à désigner les Saoudiens, mesurés certes, mais seulement dans leur modération. Pour l'avenir comprenons avant tout que ce pouvoir agit et agira en toute circonstance pour réislamiser le pays à long terme, notamment par le biais de l'éducation.

II. Les Turcs participaient donc, comme tous les autres pays membres du pacte, à la réunion de l'Otan qui s'est tenu à Lisbonne le 20 novembre.

Le traité fondateur a été signé en 1949. Il tendait alors à répondre au "coup de Prague" opéré par les Soviétiques l'année précédente. Contemporain de l'écriture par Jules Monnerot de sa "Sociologie du communisme" (2), il souffre, – par rapport à cette analyse puissante, qui vaut aujourd'hui encore pour comprendre l'entreprise islamiste, – d'une bien plus forte obsolescence.

En particulier, on se réunissait entre alliés de l'OTAN, puis on rencontrait les dirigeants russes pour adopter le "nouveau concept stratégique" impulsé par la diplomatie des États-Unis.

Celle-ci s'accroche évidemment encore, sous l'impulsion de Hillary Clinton, à l'idée d'une "alliance avec les musulmans modérés". Soulignons à cet égard que cette doctrine a notamment permis le développement, avec le soutien américain, de l'Organisation de la conférence islamique, qui réclame depuis 1970 "la libération de Jérusalem" en vue de laquelle elle a été constituée. Ceci tend sans doute à une convergence politico-financière avec les émirs du pétrole. En revanche il ne semble pas besoin de poser au spécialiste de la politologie new-yorkaise pour saisir les forces qui s'y opposent. Elles exercent une influence plus notoire encore chez les élus du parti démocrate qu'au sein des républicains.

De nombreuses et grandes questions préoccupaient les intervenants.

Selon les pays, et selon les opinions, les médias ont pu mettre ainsi l'accent sur l'évolution du conflit en Afghanistan, sur le désir d'en sortir, sur l'intervention d'unités blindées sur le terrain de ce conflit, sur la lutte anti-terroriste en général, ou sur la mise en place d'un bouclier anti-missiles destiné à lutter contre le danger nucléaire des États-voyous, désignant la Corée du nord et l'Iran.

Dans ce contexte, comment ne pas comprendre le désir des principaux participants d'associer la Russie aux efforts de l'alliance occidentale. Malgré les difficultés des dernières années, certains voudraient tenir pour un simple contretemps l'intervention dommageable contre la Géorgie et les pressions de Moscou sur ce qu'on y appelle "l'étranger proche". Ce rapprochement fait partie des évolutions incontournables à [plus ou moins long] terme.

III. Les réserves turques

On ne trouve cependant jamais de si bonne ambiance qu'on ne puisse gâcher. Cette roborative constatation du regretté Witold Gombrowicz répond à l'affirmation un peu utopique chère au ministre turc Ahmet Davutoglou, qu'on ne peut énoncer autrement qu'en basic english "no problem with out neighbours".

Avant, pendant et après la réunion de Lisbonne, Abdullah Gül, accompagné de son épouse voilée, faisait part (3) des réserves que son pays pose à l'évolution "globale" de l'alliance. À son retour il déclarait avoir "sauvé" les principes fondateurs défensifs de l'organisation. Ce disant, du reste, il ne semble pas avoir pris connaissance du traité d'origine qui, certes, prévoit une intervention en cas d'attaque contre un quelconque des alliés, ses navires ou ses aéronefs, mais fait également référence à la démocratie. L'Espagne franquiste en était tenue à l'écart. L'évolution actuelle de l'Alliance correspond à une nécessité. Il se révélera de plus en plus difficile à Ankara de vouloir ménager ses relations avec divers pays islamistes, et notamment avec l'Iran

À Lisbonne le fossé apparu depuis 2003 avec l'arrivée au pouvoir de l'équipe Erdogan-Gül, a continué de se creuser avec l'occident.

M. Gül a particulièrement voulu marquer ses distances avec l'Europe. Son ondoyante diplomatie continue à marteler son contentieux avec un membre de l'Union européenne, la république de Chypre. Il la rend toujours responsable majeur des nombreux blocages et déboires de la candidature, à laquelle on fait pourtant mine d'accorder de moins en moins d'importance.

Du point de vue européen on doit donc mesurer les dangers.

Rappelons les.

Le plus ancien péril, d'ordre territorial, porte traditionnellement sur les confins balkaniques de notre continent.

Aujourd'hui cela pèse sur l'archipel grec de la mer Égée, sur la Thrace occidentale ou sur une partie de la Bulgarie, où la Turquie revendique son droit de protéger les "pomaks". Ne doutons pas non plus que les orthodoxes des Balkans ne doivent se faire aucune illusion quant au soutien à attendre des occidentaux. Qu'il s'agisse des Américains, des Européens, des Britanniques ou même des Russes, personne ne lèvera le petit doigt pour les défendre en dépit de toutes les assurances théoriques du droit international.

Or le fait même que le Dr Ekmeleddin Ihsanoglu, secrétaire général turc de l'Organisation de la conférence islamique depuis 2004, ait fait inscrire (4) le "soutien aux musulmans" des Balkans comme objectif mondial des 56 pays membres souligne la réalité des menaces qui pèsent à terme sur les deux États européens limitrophes de la Turquie et sur la région.

Pendant de nombreuses années Bülent Ecevit était ainsi apparu comme le principal porte-parole de la gauche républicaine turque. En 1974, à la tête d'un gouvernement auquel s'associa le vieux chef islamiste Necmettin Erbakan, il commence par supprimer l'interdiction de la culture du pavot en Anatolie. Puis il envahit Chypre en invoquant son droit d'y protéger la minorité turque. Ceci en fait pendant quelque temps une sorte de héros national.

Or, c'est seulement en septembre 2002, sur la chaîne turque TRT que Bülent Ecevit le reconnut lui-même, pour la première fois depuis plus d'un quart de siècle. Cette occupation par l'armée d'Ankara en 1974 du nord de la république de Chypre, et qui dure encore, correspondait exclusivement à des motifs stratégiques. Autrement dit tous les arguments en faveur des Chypriotes musulmans servaient de simples prétextes. Cette minorité représentait 18 % de la population de l'île, colonie de la Couronne britannique. Les Anglais avaient cru bon de l'organiser et de l'instrumentaliser pour contrecarrer, après la seconde guerre mondiale, la revendication des Grecs. (5)

Mais les périls se concentrent de plus en plus sur d'autres dossiers et notamment sur l'influence que la Turquie exerce et exercera sur les communautés immigrées, revendiquant l'ensemble des gens supposés "d'origine musulmane", dans la vie politique de plusieurs pays en manipulant le poids électoral et le chantage du communautarisme.

On ne peut donc pas évaluer jusqu'où ira sa dérive hors de l'Otan.

On doit mettre dès aujourd'hui un terme à cette incongruité de la candidature à l'Union européenne. (6)
JG Malliarakis

2petitlogo

mardi, 23 novembre 2010

Aspetti religiosi e storici del Tibet

Aspetti religiosi e storici del Tibet

La storia documentata di questo popolo risale a circa 2300 anni fa, al tempo dell’Impero Macedone in Occidente

Gianluca Padovan

Ex: http://www.rinascita.eu/ 

Tibet.jpgIn questi ultimi decenni vari personaggi hanno visto il Tibet come uno degli ultimi territori del Pianeta dove si siano conservate le antiche tradizioni dei cosiddetti “indoeuropei”.


Difatti non si esclude l’ipotesi che le ondate migratorie dall’Europa, avvenute tra il terzo e il primo millennio prima dell’anno zero, abbiano interessato anche questi altopiani, portandovi genti e tradizioni europee. Fino a ieri potevamo osservare che a una quota media di 4000 metri si è sviluppata una cultura che si è mantenuta sostanzialmente indipendente nel corso dei secoli: essa avrebbe avuto tanto da insegnare (o da ricordare) a noi europei rimasti si nelle nostre terre, ma in gran parte privati del nostro retroterra culturale. Gli studi sulla preistoria tibetana sono quasi totalmente mancanti, seppure siano stai riconosciuti siti inquadrabili al paleolitico superiore e al neolitico.


La cultura megalitica è diffusa, con menhir isolati e allineamenti; ad esempio: “a Do-ring, esistono 18 file di monoliti”.1 La lingua tibetana presenta numerosi dialetti ed è compresa, secondo alcuni, nella famiglia sino-tibetana. Ma meriterebbe maggiore attenzione e uno studio comparato più approfondito soprattutto dei così detti dialetti.


Riguardo le loro origini i tibetani ricordano vari miti e uno dei più antichi parla dell’esistenza di un uovo, matrice d’ogni creazione: “Quest’uovo primordiale concentrava in sé tutti gli elementi -aria, terra, fuoco, acqua e spazio- e fece nascere altre diciotto uova: da una di queste scaturì un essere informe, ma capace di pensare, che provò il bisogno di vedere, toccare, ascoltare, sentire, gustare e spostarsi e allora creò a sua volta il corpo umano”.2


L’ordine costituito viene da Nyatri Tsen-po, un re guerriero del cielo che indossa un elmo metallico, i cui simboli del potere sono l’armatura che s’infila da sola e gli oggetti magici che agiscono da soli: la lancia, la spada e lo scudo. Questa sorta di semidio è comunque mortale: “Al momento della morte terrena il suo corpo si trasformò in un arcobaleno e gli permise di risalire nella sua prima patria: lo spazio infinito dove giace in una tomba eterea”.3


Parlando del profilo storico del Tibet, Padma Sambhava traccia un interessante disegno: “I tibetani hanno sempre chiamato il proprio paese Bö, in qualche occasione aggiungendo Khawajen, Terra delle Nevi. La storia documentata risale a circa 2300 anni fa, al tempo dell’Impero Macedone in Occidente, dell’Impero Maurya in India, e del tardo Impero Chou in Cina. Nei suoi primi otto secoli, il Tibet fu governato da una dinastia militare. Aveva un sistema religioso animista, retto da un clero di sciamani esperti nella divinazione, nelle arti magiche e nei sacrifici, mentre il suo sistema di governo s’incentrava su una famiglia reale ritenuta di discendenza divina. I primi sette re discesero sulla terra a governare da una scala di corda sospesa nel cielo, sulla quale sarebbero poi risaliti non appena fosse giunta la loro ora. L’ottavo re, in seguito ad un conflitto di corte, recise la corda che lo legava al cielo e, da allora in poi, i sovrani come i faraoni egiziani, furono sepolti in ampi tumuli funerari insieme ai loro beni e al loro seguito».4


Ricordando il proselitismo dei missionari cattolici, i quali dalle terre dell’India si spingono in Tibet, Giuseppe Tucci riporta un loro raffronto tra mussulmani, induisti e lamaisti, che così si delinea nella considerazione di questi ultimi: “La severa organizzazione dei monasteri, l’abilità dialettica dei maestri, le sottigliezze teologali discusse con arguto vigore di logica nelle radunanze di monaci e l’austerità di molti riti ben disposero la loro anima al Buddismo Tibetano”.5

 
Parlando del buddhismo non si può dimenticare che il quattordicesimo Dalai Lama Tenzin Gyatso, guida spirituale e politica del Tibet, nonché Nobel per la Pace nel 1989, vive esule in India dal 1959. Dalai Lama è il titolo dato al capo della religione buddista-lamaista residente a Lhasa (Tibet) nel Palazzo del Potala. Nel 1950 le truppe cinesi del governo comunista maoista attaccano il Tibet e con il trattato del 23 maggio 1951 lo stato è integrato nella Repubblica Popolare Cinese. Sono lunghe e complesse le vicende politiche, religiose e militari che vedono coinvolto il territorio tibetano da circa duemila anni; basterà qui ricordare che nel 1720 la Cina interviene militarmente imponendo due propri commissari accanto al Dalai-Lama dell’epoca. Così racconta Thubten Dschigme Norbu, fratello maggiore del Dalai Lama, nonché abate del monastero buddista di Kumbum situato nei pressi di Sining in Cina: “Ancora una volta dovetti recarmi a Sining dalla commissione per il Tibet. Mi dichiararono che dovevo condurre con loro due coniugi e un radiotelegrafista cinesi; quest’ultimo doveva restare sempre in comunicazione con Sining, per informarli costantemente di quanto accadeva alla nostra carovana. Acconsentii a malincuore. Nel loro discorso i comunisti deposero completamente la maschera. Senza preamboli mi sottoposero delle proposte che mi atterrirono e mi irritarono. Quel che dovetti udire era talmente mostruoso, che solo a fatica potevo dominarmi. Se fossi riuscito a convincere il governo di Lhasa ad accogliere le truppe della Repubblica Popolare Cinese come esercito di liberazione e a riconoscere la Cina comunista, sarei stato nominato governatore generale del Tibet. Come tale avrei guidato e sostenuto la grande opera di ricostruzione, in cui la nostra religione sarebbe stata sostituita dall’ideologia comunista. Se il Dalai Lama si fosse opposto, avrei trovato modi e mezzi per levarlo di mezzo. Mi fecero intendere che anche il fratricidio è giustificato, quando si tratta di realizzare le idee comuniste. Portarono esempi, che dimostravano come simili fatti fossero stati premiati con le più alte cariche”.6

 
Dal 1950 ad oggi più di un milione di tibetani sono morti a causa dell’occupazione cinese, circa seimila monasteri sono stati distrutti e decine di migliaia di persone deportate, tra cui molti monaci. Il territorio è oggetto di un ben preciso programma di deculturazione ed è indiscriminatamente usato per lo stoccaggio di rifiuti nocivi, tossici e radioattivi. Sostanzialmente è diventato la “pattumiera della Cina”.
Gli stati europei stanno a guardare, abbagliati dal mito cinese che irradia la luce del facile guadagno, con l’avvallo di industriali e imprenditori europei nella non considerazione degli operai-schiavi cinesi, decisamente meno impegnativi degli odierni operai-disoccupati europei, nuovi poveri mondiali.
Nonostante questo Dalai Lama non abbia mai proferito una parola contro l’aggressione cinese. In un suo recente libro, L’arte di essere pazienti, riporta le parole di Acharya Shantideva, illuminato buddista dell’VIII sec.: (64) “Anche se altri diffamassero o persino distruggessero immagini sacre, reliquiari e il sacro dharma, è erroneo che io mi arrabbi perché i Buddha non potranno mai essere oltraggiati”.7
Commenta poi così lo scritto: “Si potrebbe cercare di giustificare lo sviluppo dell’odio nei confronti di chi oltraggia tali oggetti con l’amore per il dharma. Shantideva però afferma che non è questa la risposta giusta, giacché in realtà si reagisce in quanto si è incapaci di sopportare il gesto. Ma gli oggetti sacri non possono essere danneggiati”.8


Parlando recentemente con “vecchi” comunisti italiani sono rimasto lievemente perplesso nell’udire che il Dalai Lama è da questi considerato un oppressore del suo popolo, perché ha cercato di mantenere in pieno XX secolo i tibetani in uno stato medievale. Mi ha sconcertato l’acriticità e la scorrettezza delle loro argomentazioni e laconicamente potrei commentare che l’indottrinamento di stampo comunista in Cina permane e i vecchi comunisti italiani guardano a tutto ciò con occhi sognanti. Ad ogni buon conto se delle radici europee c’erano, adesso, anche grazie ai “nuovi europei”, possiamo stare quasi certi che siano scomparse. Ma la speranza, come recita un saggio nostrano, è l’ultima a morire e personalmente credo che qualcuno in Europa rimarrà desto a studiare, a capire e a tramandare.


18 Novembre 2010 12:00:00 - http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=4991

jeudi, 18 novembre 2010

Türkei: Oberster Religionswächter muss abtreten

Oberster Religionswächter muß abtreten

 Ex: http://www.jungefreiheit.de/

Diyanet-Chef Ali Bardakoglu: Wegen zu liberaler Ansichten zum Rückzug gezwungen Foto: Wikipedia/Elke Wetzig

ANKARA. Der Chef der türkischen Religionsbehörde (Diyanet), Ali Bardakoglu, muß nach einem Streit mit der Regierung sein Amt aufgeben. Grund sei dessen liberale Auslegung des Islams, berichtet die Welt unter Berufung auf die türkische Tageszeitung Milliyet.

Der oberste Relgionswächter hatte der türkischen Führung eine klare Stellungnahme zum Streit um das islamische Kopftuch verweigert. Die radikalislamische Regierungspartei AKP will das in der laizistischen Türkei herrschende Kopftuchverbot auflockern, was Kritiker als weiteren Schritt zu einer Islamisierung der türkischen Gesellschaft sehen.

Kopftuch für Frauen keine islamische Pflicht

Bardakoglu hatte das Tragen des Kopftuchs lediglich als die persönliche Entscheidung der Frau und nicht als islamische Pflicht bezeichnet. Auch der Genuß von Alkohol sei zwar im religiösen Sinne eine Sünde „egal ob am Steuer eines Autos oder in den Bergen“, jedoch sei es eine politische Frage, wann er eine Straftat darstelle.

Erst vor kurzem sorgte Bardakoglu auch außerhalb der Türkei für Aufsehen, als er überraschend ankündigte, christliche Gottesdienste in der St.-Pauls-Kirche in Tarsus zuzulassen. Gleichzeitig bekannte sich der Diyanet-Chef zur Sicherung der Religionsfreiheit als Aufgabe seiner Behörde.

„Radikale Veränderungen“ angekündigt

Womöglich könnte sich dies rasch ändern. Der türkische Staatsminister Faruk Celik kündigte bereits „radikale Veränderungen“ in der Religionsbehörde nach dem Abtritt Bardakoglus an. Nachfolger wird sein bisheriger Stellvertreter Mehmet Görmez. (FA)

mardi, 16 novembre 2010

Washington treibt Pakistan in Allianz mit China

Washington treibt Pakistan in Allianz mit China

F. William Engdahl / http://info.kopp-verlag.de/

 

Sollte es das Ziel von Hillary Clintons State Department sein, die Bildung einer wachsenden Allianz von Staaten zu forcieren, die die US-Außenpolitik ablehnen, dann ist diesem Bemühen glänzender Erfolg beschieden. Das jüngste Beispiel ist Pakistan: Die USA machen Druck, weil Pakistan angeblich zu »sanft« mit den Taliban und al Qaida (oder was die USA so bezeichnen) umgeht. Der Effekt ist, dass Pakistan in eine engere Allianz mit China, dem einstigen Partner in der Zeit des Kalten Krieges, gedrängt wird, und zu den USA auf Abstand geht.

 

 

Im Im vergangenen Monat hat Obamas Präsidialamt dem US-Kongress einen Bericht übermittelt, in dem der pakistanischen Armee vorgeworfen wurde, sie vermeide »militärische Einsätze, die sie in direkten Konflikt mit den afghanischen Taliban oder mit al-Qaida-Kämpfern bringen würden«, dies sei eine »politische Entscheidung«. Der Druck, den die USA in den vergangenen Monaten erzeugt haben, um den Krieg in Afghanistan auf das benachbarte Kirgisistan und jetzt auch Pakistan auszuweiten, birgt die Gefahr, dass in der gesamten Region, die ohnehin zu den instabilsten und chaotischsten der ganzen Welt zählt, ein Krieg ausgelöst wird, bei dem zwei Atommächte, nämlich Indien und Pakistan, in eine direkte Konfrontation geraten könnten. Die Politiker in Washington scheinen nicht den geringsten Schimmer von der komplizierten, historisch gewachsenen Kluft zwischen den Stämmen und Ethnien in der Region zu haben. Anscheinend glauben sie, mit Bomben ließe sich alles lösen.

Wenn die Regierung in Pakistan nun verstärkt unter Druck gesetzt wird, so werden dadurch allem Anschein nach die militärischen und politischen Bindungen an Washington nicht etwa gefestigt, wie es noch unter dem Ex-Präsidenten, dem »Starken Mann« Musharraf in gewisser Weise der Fall gewesen war. Vielmehr wird Pakistans jetziger Präsident Asif Zardari China, dem geopolitischen Verbündeten aus der Zeit des Kalten Krieges, in die Arme getrieben.

Laut einem Bericht in Asian News International hat Zardari in Washington bei einem Treffen mit Zalmay Khalilzad, dem ehemaligen US-Botschafter in Pakistan und neokonservativen Kriegsfalken, die US-Regierung beschuldigt, sie »arrangiere« die Angriffe, die den Taliban in Pakistan angelastet werden, um einen Vorwand zu schaffen, unbemannte Drohnen auf pakistanisches Gebiet abzufeuern.* Angeblich habe Zardari gesagt, die CIA habe Verbindungen zu den pakistanischen Taliban, die als Tehrik-e-Taliban-e-Pakistan oder TTP bekannt sind.

Obwohl das Militär in Pakistan von der Unterstützung der USA abhängig ist, herrscht Berichten zufolge im Land eine stark anti-amerikanische Stimmung, die weiter angeheizt wird, wenn Zivilisten bei amerikanischen Drohnenangriffen verletzt oder getötet werden. Auch über die wachsenden militärischen Kontakte Washingtons zu Pakistans Rivalen Indien herrscht große Empörung.
Angesichts der stärkeren Hinwendung Washingtons zu Indien setzt die pakistanische Elite im einflussreichen Sicherheits-Establishment verstärkt auf die Beziehungen zwischen Islamabad und Peking. Pakistan und China verbindet eine, wie oft gesagt wird, »wetterfeste« Freundschaft: eine Allianz aus der Zeit des Kalten Krieges, die aus der geografischen Lage und der beiderseitigen Antipathie gegen Indien erwachsen ist.

Anfang dieses Jahres hat China angekündigt, in Pakistan zwei Atomkraftwerke bauen zu wollen, eine strategische Antwort auf das Nuklearabkommen zwischen Indien und den USA. Dem Vernehmen nach verhandelt der staatliche chinesische Atomkonzern China National Nuclear Corporation zurzeit mit den pakistanischen Behörden über den Bau eines Atomkraftwerks mit einer Leistung von einem Gigawatt.

China hat Pakistan für die Zusammenarbeit bei der Bekämpfung potenzieller muslimischer Aufstände in der Unruheprovinz Xinjiang an der Grenze zu Pakistan und Afghanistan gewonnen. Außerdem baut China Dämme und Anlagen zur Erkundung von Edelmetallen. Von größter strategischer Bedeutung ist der von China betriebene Bau eines Tiefseehafens in Gwadar am Arabischen Meer in der pakistanischen Provinz Belutschistan, von dem aus Öl aus dem Nahen Osten über eine neue Pipeline in die chinesische Provinz Xinjiang transportiert werden soll. Washington betrachtet dies beinahe als kriegerische Handlung gegen die US-Kontrolle über den strategisch lebenswichtigen Ölfluss aus dem Nahen Osten nach China. Die Unruhen ethnischer Uiguren in Xinjiang im Juli 2009 trugen eindeutig die Handschrift amerikanischer NGOs und Washingtoner Geheimdienste, anscheinend sollte damit die wirtschaftliche Tragfähigkeit der Pipeline untergraben werden.

China dringt auch in Süd- und Zentralasien weiter vor, verlegt Pipelines über das Gebiet ehemaliger Sowjetrepubliken und erschließt die Kupferfelder in Afghanistan.
Nach Aussage des pensionierten indischen Diplomaten Gajendra Singh »zeigt Hintergrundmaterial in britischen Archiven, dass London sich ein schwaches Pakistan als Verbündeten im Süden Sowjetrusslands geschaffen hat, um die westlichen Ölfelder im Nahen Osten zu schützen, denn die sind noch immer der Preis, um den der Westen im Irak, im Iran, in Saudi-Arabien und anderen Gebieten am Golf, am Kaspischen Becken und in Zentralasien kämpft«.

jeudi, 11 novembre 2010

La nouvelle révolution turque

La nouvelle révolution turque

par Georges FELTIN-TRACOL

Ex: http://www.europemaxima.com/

turkish-army.jpgEn moins de cent ans, la Turquie aura connu deux grandes révolutions, politiques et culturelles, la seconde cherchant à annuler les effets de la première. Telle est la thèse de Tancrède Josserand dans La nouvelle puissance turque, une brillante étude à la croisée de l’histoire des idées politiques, de la sociologie religieuse et de la géopolitique.

Turcophone avisé et jeune directeur de l’« Observatoire du monde turc et des relations euro-turques » de la Lettre Sentinel Analyses et Solutions, Tancrède Josserand apporte au lecteur francophone une vue nouvelle – et novatrice – sur l’évolution passionnante de la Turquie. Sorti fin août, l’ouvrage résonne néanmoins de l’actualité puisque, le 12 septembre 2010, les électeurs turcs ont entériné par plus de 58 % de oui pour une participation de 79 % le référendum révisant la Constitution de 1982. Ils ont ainsi décerné un large quitus au Premier ministre, Recep Tayip Erdogan, et à son parti, l’A.K.P. (Parti de la justice et du développement). Or cet indéniable succès électoral n’est pas le fruit du hasard, mais plutôt le résultat d’un long travail militant, culturel et métapolitique.

Hormis quelques banalités touristiques comme le détroit du Bosphore, la mosquée – cathédrale Sainte-Sophie ou le bazar d’Istanbul, on ne connaît guère la Turquie. Située en Asie Mineure, carrefour naturel de l’Europe, de l’Asie occidentale, du Proche-Orient et du Caucase, peu éloignée des gisements d’hydrocarbures, la Turquie n’est pas aussi homogène qu’elle souhaiterait l’être. Les ethnologues ont recensé quarante-sept minorités ethniques, religieuses et linguistiques parmi lesquelles les Lazes, les Tcherkesses, les Abkhazes, les Albanais, les Arabes, les Assyro-Chaldéens, vingt millions de Kurdes, douze à vingt millions d’Alévis, chiites dissidents qui « ne construisent pas de mosquée, ne font pas de prosélytisme et sont libres de consommer de l’alcool (p. 7) », soit « 32 à 45 millions d’individus sur les 74 millions d’habitants du pays (pp. 173 – 174) ». À l’exception des Grecs, des Arméniens et des Juifs dont l’existence est théoriquement reconnue par le traité de Lausanne de 1923, l’État turc ignore délibérément cette bigarrure humaine qui lui rappelle trop l’héritage ottoman.

De l’Empire ottoman à l’État national-républicain

Puissance se réclamant en partie de l’héritage de Byzance et, par ce truchement, de la Première Rome, l’Empire ottoman fut une théocratie multiculturaliste avant l’heure qui reposait sur l’institution du millet. « Les peuples soumis conservent leurs croyances, leurs institutions juridiques et sociales propres, en échange de l’allégeance au Sultan. Chaque religion forme un millet organisé comme une communauté légale sous la direction des porteurs du sacerdoce. Ce système ne permet pas seulement à l’État de contrôler les communautés à travers leurs institutions religieuses mais également au clergé des différents millet de s’appuyer sur le bras séculier pour réprimer les hérésies. Le système des millet permet à chacune des communautés de vivre ensemble tout en vivant à part (pp. 6 – 7). »

Ce « communautarisme institutionnel » n’est possible que du fait de l’originalité de l’islam turc. Principalement sunnite, il se divise en confréries hanafites ou soufies mystiques qui s’impliquent fortement dans la société et constituent un contre-pouvoir à l’omnipotence despotique du Sultan – Calife – Commandeur des croyants. La prégnance des confréries dans la société actuelle est largement examinée par Tancrède Josserand.

Longtemps gage d’une efficience politique, cette diversité organisée se transforme en faiblesse rédhibitoire au siècle des nationalités qui plonge l’Empire ottoman dans un déclin que ne parvient pas à freiner le mouvement jeune-turc. L’entrée en guerre d’Istanbul aux côtés des Empires centraux en 1914 marque son arrêt de mort. En 1920, par le traité de Sèvres, les Alliés et leurs affidés dépècent l’Empire. Le littoral anatolien est partagé entre les Grecs et les Italiens tandis qu’apparaissent les proto-États kurde et arménien.

Toutefois, la défaite ottomane attise le réveil national turc qui se cristallise autour d’un général aux yeux clairs et aux traits européens, né à Salonique, Mustapha Kemal. Celui-ci entreprend une véritable guerre de libération nationale. Sa victoire remet en cause l’architecture des traités de paix de la Grande Guerre, car elle contraint les Alliés à signer le traité de Lausanne de 1923 qui révise les clauses de Sèvres.

Conscient de la nécessité d’établir une identité turque qui se détourne du passé impérial ottoman, Kemal soutient une vision ethnique et linguistique de la turcité. Il déplace la capitale d’Istanbul au cœur du plateau anatolien à Ankara (Angora), encourage les recherches sur les civilisations hittite et sumérienne, ouvre une chaire universitaire indo-européenne dont le titulaire est le jeune Georges Dumézil et entreprend une vaste réforme civilisationnelle. Pour autant, « l’occidentalisation n’est pas conçue comme un processus d’acculturation visant à faire de la Turquie un pays européen. Au contraire, il s’agit pour Kemal de s’approprier la technique occidentale afin de pouvoir faire revivre l’âme turque d’avant l’islam (p. 11) ». Kemal invite historiens, géographes et ethnologues à déterminer correctement le foyer initial du peuple turc. « Au sud de la forêt sibérienne, les monts désolés de l’Altaï abritent le berceau originel des premiers Turcs. Ces espaces désertiques occupent une place à part dans l’imaginaire national. Ils sont indissociables de la légende de l’Ergenekon. Une louve au pelage gris-bleu aurait recueilli et nourri deux enfants, les derniers survivants d’une tribu turque disparue. Le symbole a été par la suite repris par la droite radicale et l’État turc lui-même. Il figure sur les armes de la “ République turque de Chypre ”  (p. 208). » Cet intérêt pour les mythes fondateurs sert l’unité des Turcs qui expulsent Grecs d’Ionie et d’autres populations allogènes.

Très vite, Ankara s’inspire des expériences communiste soviétique et fasciste italienne. « D’évidentes analogies existent entre les deux États où la nation est définie comme un tout organique, dirigé par un chef et un parti unique, expression de la volonté nationale (p. 14). » Mieux, « en 1937, les six principes ou six flèches du kémalisme (Alti Ock) (nationalisme, populisme, laïcité, étatisme, république, révolution) sont inscrits dans la Constitution (p. 14) ». Par ailleurs, l’impératif  politogénésiaque turc fait que « Kemal va user de barrières douanières prohibitives pour créer une bourgeoisie nationale (p. 12) ».

Mustapha Kemal prône l’émergence d’un homme nouveau turc « viril, vertueux, héroïque (p. 15) », d’où la nécessité de bouleverser en profondeur la société traditionnelle musulmane par une révolution quasi-permanente qui, au jour le jour, « entretient une tension permanente qui doit permettre l’application rapide des décisions arrêtées et la perpétuation des principes édictées (p. 15) ».

L’ambition laïque

Les mesures édictées par Kemal suscitent de violentes protestations qui dégénèrent, ici ou là, en révoltes ouvertes au nom de la défense de l’islam et avec l’implication étroite des confréries. La réponse étatique en est une répression implacable.

Les résistances musulmanes augmentent la méfiance de Kemal envers l’islam. Il veut la restreindre à la seule vie privée, voire à l’intimité du pratiquant. « L’islam, selon Kemal, est une parenthèse débilitante de l’histoire turque, la revanche des Arabes sur leur conquérant. Son message universaliste a dissous l’âme turque dans un magma informe. Preuve de cette volonté de ré-enracinement dans la plus longue mémoire, l’utilisation au début de la République du loup d’Asie centrale comme symbole officiel sur le timbre, les billets de banque (p. 12). »

Tancrède Josserand en vient à évoquer la laïcité turque qui ne correspond pas à la laïcité française. « L’État est laïc au sens où il n’est pas dominé par la religion. La religion est placée sous son contrôle. L’État organise, réglemente la pratique religieuse en restreignant au maximum sa visibilité dans la sphère publique (p. 139). » « La séparation entre l’État et la mosquée, poursuit l’auteur, est purement formelle puisque la vie religieuse s’organise au sein du ministère des Cultes (Dinayet). Outre le traitement des desservants, l’État kémaliste impose à l’islam ses propres orientations nationales (p. 18). » Ainsi, du temps d’Atatürk, l’appel à la prière du haut du minaret se fait en turc et non en arabe ! Le régime reprend la vieille tradition orientale « césaropapiste », chère aux empereurs byzantins… Il conçoit en outre la laïcité comme une religion civique et nationale fondée sur une base ethno-culturelle turque. Ce projet s’apparente-t-il à une religiosité pré-totalitaire ? Il y a pourtant un paradoxe : « l’islam est le creuset identitaire du nouvel État (p. 19) ».

Par conséquent, bien que pourchassées et interdites, les confréries survivent et attendent patiemment l’affaiblissement de l’État républicain. Cet affaiblissement tant survient après la Seconde Guerre mondiale quand les Alliés forcent la Turquie, restée neutre pendant le conflit, à renoncer à son monopartisme pré-totalitaire. Des bourgeois républicains créent le Parti démocrate et accèdent au pouvoir à la fin des années 1940. La réislamisation de la société est relancée de facto ! Dans le même temps, en raison de la Guerre froide et du voisinage soviétique, Ankara se place clairement dans le camp occidental, adhère à l’Alliance Atlantique et pose sa candidature à la C.E.E.

L’établissement d’une démocratie parlementaire avive les tensions politiques et sociales dans les décennies 1960 et 1970. Les campus deviennent le champ de bataille entre étudiants gauchistes, nationalistes et islamistes. Comme en Italie, la Turquie connaît des « années de plomb » et une « stratégie de la tension ». L’instabilité politique entraîne l’intervention de l’armée turque en 1960, en 1971 et en 1980 au nom des intérêts supérieurs de la nation qu’elle défend tout particulièrement.

L’armée, sentinelle de la nation

« La République turque, écrit Tancrède Josserand, est indissociablement liée à l’institution militaire (p. 195). » En effet, « les militaires en Turquie sont les gardiens de l’État et de sa continuité à travers les âges. Corps mystique et éclairé de la nation, l’armée se sent dépositaire d’une légitimité propre qui la place au-dessus des contingences des gouvernements élus. La référence au kémalisme est tout autant si ce n’est plus l’expression d’un lien de solidarité et d’intérêts de pouvoir d’une caste que celui de l’adhésion à un corpus idéologique intangible (p. 24) ». Cette prédominance provient paradoxalement de l’ère ottomane quand « la carrière militaire est une profession prestigieuse qui place le soldat au-dessus du reste de la société (p. 6) ».

Elle se renforce lors de la guerre de libération nationale de 1919 – 1923 et se concrétise avec le rôle quasi-démiurgique du général Kemal sur l’État dont la vocation est d’obtenir une nation turque. Or, afin de mener à bien cet objectif titanesque, le jeune État turc s’ouvre aux officiers si bien que l’armée est à l’origine de l’État lui-même maître-d’œuvre de la nation. De ce fait, « l’armée s’est construit une légitimité au dessus des partis en se statufiant gardienne de l’État (p. 201) ». Cette fonction lui permet par conséquent de mener une série de coups d’État jusqu’en 1997 sans pour autant s’occuper du quotidien. Les différents gouvernements turcs doivent appliquer les recommandations impératives du Conseil de sécurité nationale, l’émanation constitutionnelle de l’armée.

L’armée contrôle aussi de larges pans de l’économie grâce à l’O.Y.A.K. (Fonds de solidarité et d’aides mutuelles des forces armées). Bref, elle fait figure de sentinelle attentives et sourcilleuse de la vie politique turque en prenant après 1945 la posture du commandeur. En 1950, la victoire électorale du Parti démocrate montre l’ascension sociale de couches nouvelles issues de l’islam rural et provincial. Apparaît alors en réaction le Derin Devlet (l’État profond) qui « renvoie à l’existence d’une élite formée de hauts fonctionnaires, militaires, magistrats, membres des différents services de sécurité, et même universitaires pouvant agir à côté du gouvernement pour œuvrer à la conservation de la nation, de l’héritage kémaliste et d’intérêts de pouvoir bien compris… (p. 22) ». Il importe cependant de ne pas assimiler cet État profond aux armées secrètes de l’O.T.A.N. destinée à la lutte anti-communiste en dépit d’évidentes connexions (1).

Longtemps hégémonique, la place de l’armée s’amoindrit depuis une décennie sous les coups de butoir des islamistes et de la Commission européenne de Bruxelles. Elle a perdu de sa superbe; le Conseil de sécurité nationale n’a plus qu’un rôle consultatif. Dépit et résignation parcourent l’encadrement militaire. En 2002, l’armée autorisa le lancement du processus d’adhésion à l’U.E. avec le secret espoir de briser l’emprise de l’A.K.P. sur la population. À tort ! Désormais, « les cercles militaro-laïques opèrent un lien direct entre l’Union européenne, le projet d’islam modéré anglo-saxon et la globalisation (p. 205) », voyant l’instrumentalisation par les islamistes du choix européen.

Sur la défensive depuis la découverte et le démantèlement de divers complots dont ceux du réseau Ergenekon (2), l’armée semble hors-jeu et n’entend plus régir la politique turque. Cependant, certains de ses milieux continuent à résister à la « vague verte », malgré une infiltration islamiste indéniable. Les cénacles anti-musulmans de l’armée réfléchissent à une alternative géopolitique qui délaisserait l’orientation néo-ottomane et l’intégration européenne et pencheraient vers l’eurasisme qu’Alexandre Kadirbayev envisagerait comme « l’union de la steppe et de la forêt, des Turcs et des Slaves (p. 206) ». Il est étonnant que Tancrède Josserand n’évoque pas les thèses pantouraniennes naguère défendues par les Loups gris et le M.H.P. (Parti de l’action nationale). La vision d’un ensemble turcophone coordonné de la mer Adriatique à la Muraille de Chine serait-elle définitivement révolue ?

Il est en tout cas évident que l’armée perd ses repères habituels. « À partir des années 1980, la mondialisation associée à la libéralisation de l’économie, l’adhésion à l’Union européenne, ouvrent la Turquie. Les échelles se sont progressivement brouillées. Le cadre national se retrouve compressé entre le local et le global. À la différence de l’élite laïque aux rigides conceptions jacobines, les élites islamistes se sont coulées dans la nouvelle donne (p. 212). »

Islam radical et postmodernité

« L’A.K.P., explique Tancrède Josserand, c’est l’islam politique à l’heure de la postmodernité. Dans le discours postmoderne, aucune idéologie n’est plus légitime qu’une autre. Conséquence directe de la postmodernité, l’État se voit dépouillé de son droit à désigner une finalité universelle, c’est-à-dire à fixer un discours global et admis par tous. Dans le cas turc, cette remise en cause de l’idéologie d’État aboutit logiquement à la remise en cause de sa religion civique : la laïcité (p. 3). » Les dirigeants de l’A.K.P. ont pris conscience du phénomène et l’ont même accepté. Considérant que « la mondialisation excite l’expression d’identités culturelles sans bases politiques. En même temps, la perte de repères inhérente à la standardisation des modes de vie invite l’individu déraciné à s’accrocher à l’appartenance la plus proche. C’est le réflexe communautaire (pp. 174 – 175) », les islamistes utilisent la vogue du multiculturalisme dans la perspective d’assurer une hégémonie d’abord culturelle, puis politique. Puisque « la remise en cause des prérogatives régaliennes dans le cadre de l’intégration européenne favorise le retour à des conceptions régionalistes (p. 179) », les islamistes n’hésitent pas à favoriser le régionalisme. Or le problème porte sur l’acception du « régionalisme » qui présente un caractère artificiel et administratif plus que charnel, identitaire et enraciné. Sauf quelques exceptions notables, les mouvements régionalistes se revendiquent progressistes, altermondialistes et modernes.

Or, « chez les islamistes turcs la question du fédéralisme n’a jamais été taboue (p. 185) ». Tancrède Josserand cite un idéologue de l’A.K.P., Cemalettin Kaplan, qui déclare que « la laïcité d’Atatürk exclut naturellement les régions; nous sommes contre un État unitaire. Nous fonderons un État anatolien fédéral islamique (p. 185) ». Alors que « dans la droite ligne des principes hérités de la Révolution française, le kémalisme ne reconnaît que la nation et l’individu (p. 180) », les islamistes parient sur la résurgence des identités populaires et sur la réaffirmation de l’Oumma. « Hostile au nationalisme, considéré comme un produit d’exportation occidentale portant en germe les principes de la sécularisation, l’islam politique pose en premier lieu le lien religieux (p. 183). » Ainsi, « en favorisant le retour aux communautés, l’A.K.P. crée les conditions d’une société féodale sans arbitre et sans ordre politique, où les groupes divers imposent leurs codes et leur droit dans un tourbillon sans fin (p. 213) ». L’A.K.P. suivrait-il les travaux novateurs de Michel Maffesoli ? En Turquie, Dionysos s’est fait pour la circonstance mahométan !

Les néo-islamistes ont pris acte de la liquidification du monde ultra-moderne. Ils comprennent qu’« avec la mondialisation, les sociétés s’émancipent des États : les frontières administratives demeurent mais sont effacées ou ignorées. Émerge “ une volatilité identitaire ”. En fonction des enjeux, l’individu modifie à sa guise la hiérarchie de ses appartenances. Les attributs régaliens de l’État sont intégrés dans des structures transnationales, alors qu’à la base, ils sont éclatés en de multiples corps locaux ou intermédiaires (p. 172) ». Dorénavant, « le point de divergence majeur entre l’A.K.P. et l’islam politique classique repose sur la renonciation par les néo-islamistes à la religion d’État (p. 139) ». Les néo-islamistes rêvent de laïcité anglo-saxonne, étatsunienne en particulier, avec une ambiance saturée d’islam. « Très tôt, les néo-islamistes ont compris qu’il était impossible d’ignorer les effets de la mondialisation libérale. Bien au contraire, celle-ci couplée au processus d’adhésion à l’Union européenne est une arme redoutable contre le vieil État-nation kémaliste (p. 54). » Les néo-islamistes ont effectué leur mue culturelle et réussi leur métamorphose intellectuelle.

Une révolution conservatrice ou néo-libérale ?

Cette évolution résulte d’un long processus idéologique souvent parsemé d’échecs formateurs. L’auteur rappelle justement que « les membres fondateurs de l’A.K.P. se sont connus au milieu des années 1970 au sein de l’Union national des étudiants turcs (Milli Türk Talebe Birligi – M.T.T.B.), école des cadres de la droite radicale turque (p. 75) ». Ils affrontent en compagnie des étudiants nationalistes « idéalistes » les gauchistes. Leur activisme les fait remarquer par une véritable centrale de formation islamiste – le Milli Görus (Voie nationale) – qui est une école des cadres et un laboratoire d’idées de plusieurs générations militantes. Comme pour les nationalistes hindous en Inde qui bénéficient des entreprises intellectuelles du V.H.P. (Visva Hindu ParishadConseil mondial hindou) et du R.S.S. (Rashtriya Swayam Sevak SanghAssociation pour la défense des valeurs nationales), les néo-islamistes turcs disposent d’un solide appareil théorique qui permet l’articulation réfléchie du militantisme et de la métapolitique.

La gestation du néo-islamisme de l’A.K.P. fut longue et difficile. Elle date de l’échec gouvernemental du Refah Partisi (Parti de la prospérité) de Necmettin Erbakan. Le Refah se posait en alternative radicale et totale au kémalisme et s’inscrivait dans une veine protestataire qui, dans les décennies 1970 – 1980, se définissait comme tiers-mondiste, anti-impérialiste et identitaire. « Avec la charte dite de “ l’Ordre juste ” (Adil Düzen), le parti islamiste prône une troisième voie économique et sociale (p. 52) » et propose un développement autocentré ! Contre la menace d’extrême gauche, des convergences apparaissent entre islamistes et nationalistes d’où, à la suite du coup d’État de 1980, le désir des militaires d’opérer une synthèse islamo-nationaliste : « kémalisme et islam sont compatibles, la laïcité est nécessaire au développement d’un islam moderne et ami de la science (p. 26) ». Paraît à ce moment un « Rapport sur la culture nationale ». « Préparé sous les auspices d’intellectuels liés à la droite radicale, le document décline les trois piliers de la synthèse islamo-nationaliste : la famille, la mosquée, l’armée. […] Cette synthèse, opérée en rupture avec une partie des principes adoptés à partir de 1923, démontre que le kémalisme si cher à l’armée relève plus d’une logique de défense de l’idée d’État, que d’un corpus idéologique inamovible (pp. 26 – 27). »

En 1997, l’incapacité à gouverner d’Erbakan provoque une rupture entre l’aile traditionaliste qui va constituer le Saadet Partisi (Parti de la félicité) et l’aile modernisatrice, démocrate, libérale et pro-européenne, le futur A.K.P. Depuis, « à la différence des partis islamistes traditionnels, l’A.K.P. ne cherche pas à supprimer la laïcité pour instaurer la charia. Au contraire, les néo-islamistes turcs exigent une vraie laïcité et la fin de l’ingérence de l’État dans la sphère du privé (p. 69) ». Il ressort que « le conservatisme des néo-islamistes turcs n’est pas la réaction. On ne peut renouveler les formes révolues de gouvernement et effacer les grandes ruptures de l’Histoire comme si elles n’avaient jamais eu lieu. Ce conservatisme veut se rattacher au passé mais sans le restaurer. Le principe de conservation n’est pas synonyme d’inertie mais d’évolution de la continuité (p. 64) (3) ». Cette démarche ne se rapproche-t-elle pas des conceptions de la Révolution conservatrice allemande et européenne ?

Proche d’Erdogan et idéologue principal de l’A.K.P., Yulçin Akdogan, a inventé l’expression de « démocrate conservateur » et défend la vision d’« une démocratie organique se propageant de place en place dans l’ensemble du corps politique et social (p. 67) ». Cherchant à combler le fossé entre le peuple et les « élites », il estime – tel Arthur Mœller van den Bruck – que « ce qui fait la démocratie, ce n’est pas la forme de l’État mais la participation du peuple à l’État (p. 67). » Tancrède Josserand ajoute que « très habilement, les néo-islamistes ont compris que l’adéquation entre islam et démocratie prenait en défaut l’ensemble de l’édifice républicain (p. 61) ».

L’A.K.P. se considère comme une véritable force néo-conservatrice. Prenant en compte les données surgies de la mondialisation, il promeut le système capitaliste-libéral et des valeurs morales hostiles au matérialisme. « Dans la lignée d’Hayek et de Burke, l’A.K.P. conçoit les libertés traditionnelles comme partie inhérente de l’ordre social. L’État est là pour restaurer l’autorité et la vie sociale, non pour la liquider. La société est un parapluie sous lequel on peut s’abriter librement, à l’opposé de l’État moderne où l’homme en échange de cette protection fait le sacrifice de sa liberté (p. 71). » Militant en faveur de l’économie de marché, la liberté de conscience et la diversité des appartenances, l’A.K.P. cherche à « dégraisser l’État-Moloch en reconstruisant les mécanismes traditionnels d’entraide et de protection de la société musulmane (p. 72) ». Bref, il souhaite passer de l’État social à l’État de charité et soutient un État minimal. Leur vision correspond au conservatisme compassionnel de Bush fils et à la Big Society du Premier ministre tory David Cameron.

Un autre idéologue néo-islamiste, Mustafa Akyol, n’hésite pas à citer Joseph de Maistre. Ce « disciple de Leo Strauss critique le culte de la raison propre aux Lumières françaises. […] Akyol s’inscrit dans l’école du libéralisme conservateur, un libéralisme critique qui rejette la confusion entre liberté et révolution […]. Akyol n’est donc pas réactionnaire pour cette raison qu’il ignore pas ni ne rejette la donne du monde actuel. Le processus de modernisation auquel il adhère est un processus de modernisation conservatrice (p. 60) ». Verrait-on une modernisation musulmane réussie grâce à ces lecteurs singuliers d’Edmund Burke ? Cet intérêt des néo-islamistes pour Burke, l’un des principaux penseurs de la Contre-Révolution, est logique puisque l’ennemi kémaliste s’inspire, lui, du projet éclairé découlant des idées de 1789.

Il apparaît clairement une très nette convergence entre le néo-islamisme turc et la pensée libérale d’origine anglo-saxonne. Soulignant les nombreux liens noués entre l’A.K.P. et les cénacles néo-conservateurs étatsuniennes, Tancrède Josserand parle d’une « alliance des dévots » entre néo-islamistes et puritains d’outre-Atlantique. On retrouve sur les bords du Bosphore de vieilles recettes pratiquées par Margaret Thatcher et Ronald Reagan dans les années 1980. Il est par conséquent indéniable qu’il existe une « éthique islamique du capitalisme (p. 124) ». Les spécialistes vont même jusqu’à parler de « calvinistes musulmans » quand bien même les intellectuels islamistes dénoncent la Réforme protestante comme un facteur déterminant de sécularisation du monde.

L’A.K.P. n’est pas le F.I.S. (Front islamique du salut) algérien, les wahhabites saoudiens, voire les révolutionnaires néo-traditionalistes iraniens. L’auteur insiste sur le fait que « l’A.K.P. ne correspond pas aux canons habituels de l’islam politique. L’islam est compris comme un corpus moral de valeurs partagées régulateur de l’ordre social, non comme la raison d’être de l’État (p. 3) ». Son besoin vital de vaincre l’idéologie kémaliste persuada le parti néo-islamiste à accepter le processus d’intégration européenne et à se rapprocher du patronat. Le tournant libéral-conservateur des islamistes bouleversa le spectre politique turc : les néo-islamistes adoptent un centrisme ou un centre-droit alors qu’« en Turquie, le terme de centre renvoie à une idéologie officielle : le kémalisme. Cette vision du monde est gravée dans le mot d’ordre : État-nation, État laïc, État unitaire. Traditionnellement, les partis du centre-gauche est dans une moindre mesure de centre-droit alliés à l’appareil bureautico-militaire, en sont les légataires. À l’inverse, la périphérie désigne les secteurs de la population brimés par le système (Kurdes, islamistes, Alévis). Cette périphérie recouvre les différents mouvements islamistes issus du Milli Görus et en dernier ressort l’A.K.P. (pp. 35 – 36) ». Les succès de l’A.K.P. favoriseront-ils l’islamisation de la Modernité ou bien la mise en place d’une contre-modernité ? À moins que le monde ultra-moderne, fluide et liquide, domestique l’islamisme politique… « Loin de constituer un contre-feu au modernisme, estime Tancrède Josserand, l’élaboration d’une doctrine islamique du capitalisme ne fait qu’accélérer l’assimilation de l’islam dans un monde sécularisé, où il se réduit au final à un simple segment du marché (p. 133). »

En abordant la question kurde, Tancrède Josserand apporte des éléments inattendus et intéressants, bien loin des stéréotypes idiots des médias hexagonaux. « Les islamistes voient dans la question kurde un avatar du régime républicain que seule la restauration d’un lien spirituel fort est susceptible de résoudre (p. 173). » On y apprend l’existence du Hizbullah kurde qui lutte contre la guérilla du P.K.K. (Parti des travailleurs du Kurdistan) maoïste. Inspiré par le précédent de la révolution iranienne de 1979, son fondateur, Hüseyin Velioglu, « est à l’origine un transfuge de la droite radicale (p. 186) ». Ce parti de Dieu kurde, plus radical que l’A.K.P., envisage « l’alliance entre les étudiants, les paysans et les déshérités (p. 186) » et « rejette l’animalité végétative du monde moderne (p. 186) ». Sa structure de base, la mesjids (petite mosquée), ressemble aux nids de la Garde de Fer roumaine… Il n’empêche que le Kurdistan continue à poser un grave problème à la géopolitique turque.

Le jeu géopolitique

« La Turquie appartient hiérarchiquement à trois ensembles distincts :

— Le monde musulman au Sud.

— L’Eurasie à l’Est.

— L’Occident à l’Ouest (pp. 41 – 42). »

Notons que les visées panturquistes ou le songe pantouranien semblent totalement évacués des enjeux contemporains pour s’ancrer dans les chimères nostalgiques d’Enver Pacha.

Tout en misant sur l’U.E., les néo-islamistes démocrates-conservateurs réactivent la vieille influence ottomane dans le monde musulman à travers l’Organisation de la Conférence islamique (O.C.I.). Les étroits liens entre Ankara et Israël se distendent depuis qu’Erdogan aspire à devenir le porte-parole de la cause palestinienne auprès de la « Communauté internationale ». L’assaut israélien contre la flotille d’aide à Gaza a provoqué une grave crise diplomatique. Or rien ne dit que, dans les coulisses, Israéliens et islamistes turcs agissent de concert afin de rendre la figure d’Erdogan populaire auprès des masses arabes et de concurrencer celle d’Ahmadinejad.

On définit ce regain turc pour le monde arabe par le concept de « néo-ottomanisme » quand bien même la mémoire arabe garde les séquelles de la longue tutelle de la Sublime Porte. La politique étrangère – multidimensionnelle – de la Turquie est mise en pratique par l’ancien conseiller diplomatique d’Erdogan et actuel ministre des Affaires étrangères, Ahmet Davutuglu, qui pense au rang de son pays dans le monde. Estimant que « de Sarajevo à Bagdad en passant par Istanbul et Grozny, une même communion d’âme existe : l’islam et le souvenir de l’Empire ottoman (pp. 42) », Davutuglu façonne une sorte de diplomatie gaullienne : on conteste l’hégémonie des États-Unis tout en restant leur allié loyal. « Le fait que la Turquie puisse s’affranchir ponctuellement de la tutelle américaine n’est pas forcément nuisible. La Turquie est ainsi plus écoutée; elle devient à la fois une porte ouverte sur l’Ouest et un exemple à suivre (p. 43). »

Tancrède Josserand insiste sur « la convergence d’intérêts existant entre la mouvance islamiste turque et les États-Unis. L’A.K.P. demeure la formation la plus modérée à l’égard de Washington au sein de l’arc politique turc (p. 56) ». En visite aux États-Unis et soucieux d’apparaître en musulman responsable et atlantiste, Erdogan a discouru devant la Fondation Lehman Brothers, l’American Entreprise Institut, la Rand Corporation, l’Anti-Difamation League et l’American Jewish Congress. Une véritable alliance objective s’est réalisée puisque, « palliant l’absence d’un réel lobby turc, les groupes de pression pro-israéliens remplissent au Congrès ce rôle, surtout lorsqu’il s’agit de faire obstacle aux menées des instances communautaires arméniennes en vue de faire reconnaître le génocide de 1915. Cette appellation est réfutée tout par les Turcs que par les Juifs au nom du caractère unique de la Shoah (pp. 57 – 58) ».

Si la politique extérieure turque écarte le pantouranisme, elle n’hésite pas, en revanche, parallèlement à son atlantisme, à regarder aussi vers l’Est. « En Asie centrale, Davutoglu rappelle le rôle fondamental des populations turques. L’empire des steppes, la Horde d’Or, de la mer d’Aral à l’Anatolie est un point fixe de sa pensée. La Turquie a tout intérêt à revivifier cette vocation continentale et à se rapprocher du groupe de Shanghaï sous la baguette de la Chine et de la Russie (pp. 42 – 43). » La Turquie n’a pas encore dit son dernier mot (géo)politique…

La nouvelle puissance turque. L’adieu à Mustapha Kemal de Tancrède Josserand secoue les lieux communs les plus éculés et montre d’une lumière nouvelle les facettes de ce voisin de l’Europe. Regrettons cependant qu’il n’a pas été apporté à cet essai toute la rigueur scientifique attendue : nombreuses coquilles, absence de cartes, d’index et de bibliographie appropriés. Espérons donc qu’une prochaine édition rectifiera ces manques pour que ce livre de référence atteigne l’excellence.

Georges Feltin-Tracol

Notes

1 : cf. Daniele Ganser, Les Armées secrètes de l’O.T.A.N. Réseaux Stay Behind, Gladio et terrorisme en Europe de l’Ouest, Éditions Demi-Lune, coll. « Résistances », 2007, 416 p.

2 : Berceau mythique des Turcs, Ergenekon désigne aussi une vaste conspiration anti-islamiste, anti-atlantiste et anti-européenne nouée entre des cadres de l’armée, de l’intelligentsia et de la pègre mise en lumière par la police et les journalistes.

3 : Souligné par nous.

• Tancrède Josserand, La nouvelle puissance turque. L’adieu à Mustapha Kemal, Éditions Ellipses, 2010, 219 p., 20 €.


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mercredi, 10 novembre 2010

Chinas geheimer Angriff auf Europa

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Chinas geheimer Angriff auf Europa

Michael Grandt

Ex: http://info.kopp-verlag.de/

 

Peking nimmt unaufhaltsam Einfluss auf die finanziell schwächsten europäischen Länder und sitzt somit bei jedem EU-Treffen quasi »unsichtbar« mit am Tisch.

 

»Die Chinesen sind in ihrem Handeln dem Westen zehn Jahre voraus«, so oder so ähnlich lauten zwischenzeitlich die Meinungen vieler Asienkenner. Diese Einschätzung ist nicht unbegründet, nehmen wir nur zwei von vielen Beispielen: In der Rohstoffsicherung sind die Chinesen Weltspitze und auch im Aufkauf von Farm- und Ackerland rund um den Globus bauen sie ihren Vorsprung uneinholbar aus. Kein Wunder also, dass auch der europäische Kontinent immer größere Begehrlichkeiten weckt. Wie aber soll man in diesen abgeschotteten europäischen »Block« eindringen, ohne großes Aufsehen zu erregen?

Auch hier haben sich die chinesischen Strategen einen mehr als genialen Plan ausgedacht: Man beginnt die schwächsten Glieder der EU-Kette zu demontieren und zwar so, dass dieser »Angriff« sogar noch freudig begrüßt wird.

Die Rede ist von den finanziell maroden südeuropäischen Staaten, die sich auch und trotz EU-Hilfen nur noch schwer über Wasser halten können: Griechenland, Spanien und Portugal.

Die chinesische Regierung steckt viel Geld in die Anleihen europäischer Krisenstaaten, die trotz großzügiger Finanzpakete nicht in Tritt kommen: Spanische Papiere wurden bereits von Peking aufgekauft und den Griechen hatte man vorsorglich versprochen, auch ihre Anleihen abzunehmen, wenn sie wieder auf dem freien Markt erhältlich sein sollten. Jetzt gibt es Gerüchte, dass das Reich der Mitte auch bei portugiesischen Bonds zuschlagen will.

Im Gegensatz zu den europäischen Staaten braucht sich China wegen seiner eigenen Liquidität keine Sorgen zu machen, denn es verfügt über Fremdwährungsvorräte von derzeit rund zwei Billionen Euro. Damit lässt sich einiges bewerkstelligen.

Die Asiaten waren überraschend ehrlich und kündigten ihren »Angriff« bereits im Sommer an. Der chinesische Premier Wen Jiabao sagte zu Kanzlerin Merkel: »Der europäische Markt wird auch weiterhin ein Schlüsselmarkt für chinesische Investments sein.« Was damit wirklich gemeint war, hat wohl keiner der deutschen Gesprächspartner verstanden. Man lächelte freundlich und bedankte sich.

Doch Chinas warmer Geldsegen ist kaltherzig und vor allem außenpolitisch motiviert: Mit der großzügigen Hilfe lässt sich bei den fast bankrotten europäischen Nehmerländern Stimmung in der EU für die eigenen Wünsche machen: Sei es für die Zuerkennung als Marktwirtschaft, für die Aufhebung des Waffenembargos, für das Stillschweigen in der Streitfrage des Yuan-Wechselkurses und in Fragen der Tolerierung der Menschenrechtsverletzungen. Durch die südeuropäischen »trojanischen Pferde« sitzt Peking nun bei jedem EU-Treffen quasi unsichtbar am Tisch. So kann man einen Keil in den EU-Block treiben und dessen größte Schwäche für eigene Zwecke nutzen: die mangelhafte Geschlossenheit.

Aber noch ein anderer Punkt darf nicht vergessen werden und ist weltpolitisch von höchster Brisanz: Das Ganze geht auf Kosten der Vereinigten Staaten, denn China schichtet immer mehr US-Anleihen in Südeuropa-Anleihen um. Zwar ist dies eine Diversifikation von einer unsicheren Anlageklasse in eine noch unsicherere, aber Peking scheint diesen Preis bezahlen zu wollen. Die USA werden immer uninteressanter, was uns eigentlich wachsam werden lassen müsste.

Doch Chinas durchdachte und hoch entwickelte Einflusspolitik scheinen europäische und deutsche Spitzenpolitiker bis zum heutigen Tage nicht zu durchschauen – wieder einmal.

 

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Quelle:

Handelsblatt vom 03.11.2010

lundi, 01 novembre 2010

De ironie van de geschiedenis: Rusland "terug" naar Afghanistan

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De ironie van de geschiedenis: Rusland “terug” naar Afghanistan

Ex: http://yvespernet.wordpress.com

De geschiedenis heeft zo haar ironische verrassingen. Toen socialistisch Rusland, toen nog de Sovjetunie, Afghanistan binnenviel om daar het socialistische regime te ondersteunen, steunde de VSA de moedjahedien die de Russen bevochten. De CIA leverde wapens (de beruchte Stinger-raketten die Russische helikopters konden neerschieten), geld en training aan deze Afghaanse strijders en legde zo, nogmaals ironisch genoeg, de basis voor de Taliban en Al-Qaida vandaag de dag. Dit was de zogenaamde Operatie Cyclone. Deze oorlog zou uiteindelijk ook een grote rol spelen in het instorten van de Sovjetunie wegens de grote verliezen en de onuitzichtbare situatie. In Afghanistan wordt de terugtocht van de Sovjetunie uit hun land ook nog steeds jaarlijks gevierd. Nu dat de NAVO-aanvoerroutes steeds meer blootgesteld worden aan steeds effectievere aanvallen en de Pakistanen de belangrijke Khyber-pas sinds eind september hebben gesloten, zoeken de Amerikanen naar mogelijkheden om dit te compenseren.

De ironie van dit alles? De VSA gaan deze hulp zoeken bij de Russen. Rusland verkoopt militair materiaal aan de NAVO-leden in Afghanistan en aan het Afghaanse leger zelf. Tevens zouden zij piloten opleiden en het Russische grondgebied en luchtruim openzetten voor de bevoorrading van NAVO-troepen. Momenteel zou Rusland al vijf Mi-17 helikopters aan Polen verkocht hebben. Russisch onderminister van Buitenlandse Zaken, Aleksander Grushko, deelde ook al mee dat Afghaanse officieren momenteel in Rusland opgeleid worden. Anatoly Serdyukov, de Russische Minister van Defensie, melde ook dat de NAVO meerdere dozijnen Mi-17′s zou kopen of huren van Rusland. Zelf zouden er geen Russische troepen Afghanistan binnentrekken.

In ruil bouwt de VSA hun “anti-rakettenschild” (ARK), in de praktijk een radar-”afluister”systeem om Rusland te bespioneren, steeds verder af. Zo is dit ARK reeds geschrapt in Polen en Tsjechië. Ook zal Rusland geconsulteerd worden bij de opbouw van een eventueel alternatief voor dit ARK. Verder zou Rusland eisen van de NAVO dat zij de situatie in Georgië, waar o.a. Zuid-Ossetië nog steeds de facto onafhankelijk is onder Russische voogdij, officieel erkennen.

Ook is deze geopolitieke keuze van Rusland geen verrassing. Tegenover islamistisch fundamentalisme voert Rusland een containment-politiek, waar de VSA eerder een roll-back-politiek wensen te volgen. Voor Rusland is het het belangrijkste om het islamitisch fundamentalisme in Afghanistan en Pakistan te houden en ervoor te zorgen dat het zich niet meer naar het noorden, naar de onderbuik van Rusland, verplaatst. Dat daarbij de NAVO zich druk bezig houdt en grote materiële inspanningen moet leveren in Afghanistan, ten koste van hun aandacht naar Rusland toe, is nog eens goed meegenomen. Rusland heeft er dan ook alle belang bij om zowel de islamistische fundamentalisten als de NAVO-troepen met elkaar bezig te laten zijn in Afghanistan.

Volgende maand is er een NAVO-top in Lissabon waar deze gesprekken en besluiten officieel zouden meegedeeld worden. De Russische president, Dmitry Medvedev zou hier ook bij aanwezig zijn.

dimanche, 31 octobre 2010

L'UE doit raffermir ses relations avec les pays d'Asie

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L’UE doit raffermir ses relations avec les pays d’Asie

L’Asie est une région clef dans le monde qui peut permettre l’émancipation européenne !

Lors du sommet UE/Asie, il n’aurait pas fallu faire silence sur le problème des importations à bon marché en provenance d’Asie !

La rencontre entre pays asiatiques et pays de l’UE (ASEM), qui s’est terminée le 5 octobre à Bruxelles, aurait dû être mise à profit pour constituer des partenariats stratégiques, a affirmé le député européen de la FPÖ autrichienne, Andreas Mölzer. « L’Asie, et surtout la Chine, est une région du monde qui connaît une ascension économique remarquable et dont le poids géopolitique ne cesse de croître. Pour cette raison, il est indispensable d’avoir de bonnes relations, les plus étroites possibles, avec cette Asie en marche, surtout si l’UE cherche à s’émanciper de la tutelle américaine ». , explique Mölzer, membre de la Commission « affaires étrangères » du Parlement Européen.

Mölzer a également souligné que l’UE devait se présenter à ses éventuels partenaires asiatiques en étant pleinement consciente d’elle-même : « Au lieu de bidouiller des déclarations d’intention fumeuses, qui finiront inévitablement au tiroir des dossiers oubliés, il faut aborder les problèmes réels et y apporter des solutions ».

Pour Mölzer, il faut surtout résoudre le problème des importations à bon marché en provenance des pays asiatiques. « Si les relations étroites que nous envisageons avec les pays asiatiques valent la peine que l’on se mobilise pour elles, Bruxelles ne peut pas oublier les intérêts légitimes de l’Europe. Et parmi ces intérêts à ne pas escamoter, il y a la protection des emplois européens face aux salaires extrêmement bas pratiqués en Asie et qui équivalent à du dumping », a conclu Mölzer dans sa déclaration.

 

(source : http://www.andreas-mölzer.at/ ).

 

Neo-Ottoman Turkey: A Hostile Islamic Power

Neo-Ottoman Turkey: A Hostile Islamic Power

By Srdja Trifkovic

Ex: http://www.hellenesonline.com/

Map: Turkish sphere of influence 2050?

Turkey-2050.jpgThe fact that Turkey is no longer a U.S. “ally” is still strenuously denied in Washington; but we were reminded of the true score on March 9, when Saudi King Abdullah presented Turkish Prime Minister Recep Tayyip Erdogan (shown above with wife and friends) with the Wahhabist kingdom’s most prestigious prize for his “services to Islam” (from AltRight). Erdogan earned the King Faisal Prize for having “rendered outstanding service to Islam by defending the causes of the Islamic nation.”

Services to the Ummah – Turkey under Erdogan’s neo-Islamist AKP has rendered a host of other services to “the Islamic nation.” In August 2008 Ankara welcomed Mahmoud Ahmadinejad for a formal state visit, and last year it announced that it would not join any sanctions aimed at preventing Iran from acquiring nuclear weapons. In the same spirit the AKP government repeatedly played host to Sudan’s President Omer Hassan al-Bashir — a nasty piece of jihadist work if there ever was one — who stands accused of genocide against non-Muslims. Erdogan has barred Israel from annual military exercises on Turkey’s soil, but his government signed a military pact with Syria last October and has been conducting joint military exercises with the regime of Bashir al-Assad. Turkey’s strident apologia of Hamas is more vehement than anything coming out of Cairo or Amman. (Talking of terrorists, Erdogan has stated, repeatedly, “I do not want to see the word ‘Islam’ or ‘Islamist’ in connection with the word ‘terrorism’!”) simultaneous pressure to conform to Islam at home has gathered pace over the past seven years, and is now relentless. Turkish businessmen will tell you privately that sipping a glass of raki in public may hurt their chances of landing government contracts; but it helps if their wives and daughters wear the hijab.

Ankara’s continuing bid to join the European Union is running parallel with its openly neo-Ottoman policy of re-establishing an autonomous sphere of influence in the Balkans and in the former Soviet Central Asian republics. Turkey’s EU candidacy is still on the agenda, but the character of the issue has evolved since Erdogan’s AKP came to power in 2002.

When the government in Ankara started the process by signing an Association agreement with the EEC (as it was then) in 1963, its goal was to make Turkey more “European.” This had been the objective of subsequent attempts at Euro-integration by other neo-Kemalist governments prior to Erdogan’s election victory eight years ago, notably those of Turgut Ozal and Tansu Ciller in the 1990s. The secularists hoped to present Turkey’s “European vocation” as an attractive domestic alternative to the growing influence of political Islam, and at the same time to use the threat of Islamism as a means of obtaining political and economic concessions and specific timetables from Brussels. Erdogan and his personal friend and political ally Abdullah Gul, Turkey’s president, still want the membership, but their motives are vastly different. Far from seeking to make Turkey more European, they want to make Europe more Turkish — many German cities are well on the way — and more Islamic, thus reversing the setback of 1683 without firing a shot.

The neo-Ottoman strategy was clearly indicated by the appointment of Ahmet Davutoglu as foreign minister almost a year ago. As Erdogan’s long-term foreign policy advisor, he advocated diversifying Turkey’s geopolitical options by creating exclusively Turkish zones of influence in the Balkans, the Caucasus, Central Asia, and the Middle East… including links with Khaled al-Mashal of Hamas. On the day of his appointment in May Davutoglu asserted that Turkey’s influence in “its region” will continue to grow: Turkey had an “order-instituting role” in the Middle East, the Balkans and the Caucasus, he declared, quite apart from its links with the West. In his words, Turkish foreign policy has evolved from being “crisis-oriented” to being based on “vision”: “Turkey is no longer a country which only reacts to crises, but notices the crises before their emergence and intervenes in the crises effectively, and gives shape to the order of its surrounding region.” He openly asserted that Turkey had a “responsibility to help stability towards the countries and peoples of the regions which once had links with Turkey” — thus explicitly referring to the Ottoman era, in a manner unimaginable only a decade ago: “Beyond representing the 70 million people of Turkey, we have a historic debt to those lands where there are Turks or which was related to our land in the past. We have to repay this debt in the best way.”
This strategy is based on the assumption that growing Turkish clout in the old Ottoman lands — a region in which the EU has vital energy and political interests — may prompt President Sarkozy and Chancellor Merkel to drop their objections to Turkey’s EU membership. If on the other hand the EU insists on Turkey’s fulfillment of all 35 chapters of the acquis communautaire — which Turkey cannot and does not want to complete — then its huge autonomous sphere of influence in the old Ottoman domain can be developed into a major and potentially hostile counter-bloc to Brussels. Obama approved this strategy when he visited Ankara in April of last year, shortly after that notorious address to the Muslim world in Cairo.
Erdogan is no longer eager to minimize or deny his Islamic roots, but his old assurances to the contrary — long belied by his actions — are still being recycled in Washington, and treated as reality. This reflects the propensity of this ddministration, just like its predecessors, to cherish illusions about the nature and ambitions of our regional “allies,” such as Saudi Arabia and Pakistan.
The implicit assumption in Washington — that Turkey would remain “secular” and “pro-Western,” come what may — should have been reassessed already after the Army intervened to remove the previous pro-Islamic government in 1997. Since then the Army has been neutered, confirming the top brass old warning that “democratization” would mean Islamization. Dozens of generals and other senior ranks — traditionally the guardians of Ataturk’s legacy — are being called one by one for questioning in a government-instigated political trial. To the dismay of its small Westernized secular elite, Turkey has reasserted its Asian and Muslim character with a vengeance.
Neo-Ottomanism – Washington’s stubborn denial of Turkey’s political, cultural and social reality goes hand in hand with an ongoing Western attempt to rehabilitate the Ottoman Empire, and to present it as almost a precursor of Europe’s contemporary multiethnic, multicultural tolerance, diversity, etc, etc.
In reality, four salient features of the Ottoman state were institutionalized discrimination against non-Muslims, total personal insecurity of all its subjects, an unfriendly coexistence of its many races and creeds, and the absence of unifying state ideology. It was a sordid Hobbesian borderland with mosques.
An “Ottoman culture,” defined by Constantinople and largely limited to its walls, did eventually emerge through the reluctant mixing of Turkish, Greek, Slavic, Jewish and other Levantine lifestyles and practices, each at its worst. The mix was impermanent, unattractive, and unable to forge identities or to command loyalties.
The Roman Empire could survive a string of cruel, inept or insane emperors because its bureaucratic and military machines were well developed and capable of functioning even when there was confusion at the core. The Ottoman state lacked such mechanisms. Devoid of administrative flair, the Turks used the services of educated Greeks and Jews and awarded them certain privileges. Their safety and long-term status were nevertheless not guaranteed, as witnessed by the hanging of the Greek Orthodox Patriarch on Easter Day 1822.
The Ottoman Empire gave up the ghost right after World War I, but long before that it had little interesting to say, or do, at least measured against the enormous cultural melting pot it had inherited and the splendid opportunities of sitting between the East and West. Not even a prime location at the crossroads of the world could prompt creativity. The degeneracy of the ruling class, blended with Islam’s inherent tendency to the closing of the mind, proved insurmountable.
A century later the Turkish Republic is a populous, self-assertive nation-state of over 70 million. Ataturk hoped to impose a strictly secular concept of nationhood, but political Islam has reasserted itself. In any event the Kemalist dream of secularism had never penetrated beyond the military and a narrow stratum of the urban elite.
The near-impossible task facing Turkey’s Westernized intelligentsia before Erdogan had been to break away from the lure of irredentism abroad, and at home to reform Islam into a matter of personal choice separated from the State and distinct from the society. Now we know that it could not be done. The Kemalist edifice, uneasily perched atop the simmering Islamic volcano, is by now an empty shell.
A new “Turkish” policy is long overdue in Washington. Turkey is not an “indispensable ally,” as Paul Wolfowitz called her shortly before the war in Iraq, and as Obama repeated last April. It is no longer an ally at all. It may have been an ally in the darkest Cold War days, when it accommodated U.S. missiles aimed at Russia’s heartland. Today it is just another Islamic country, a regional power of considerable importance to be sure, with interests and aspirations that no longer coincide with those of the United States.
Both Turkey and the rest of the Middle East matter far less to American interests than we are led to believe, and it is high time to demythologize America’s special relationships throughout the region. Accepting that Mustafa Kemal’s legacy is undone is the long-overdue first step.

By Srdja Trifkovic
Saturday, 13 Mar 2010

 

lundi, 25 octobre 2010

Swami Vivekananda e il suo tempo, tra modernità e tradizione

Swami Vivekananda e il suo tempo, tra modernità e tradizione

Elena BORGHI

Ex: http://www.eurasia-rivista.org/

Swami Vivekananda e il suo tempo, tra modernità e tradizione

Il quadro storico

Il periodo storico in cui visse ed operò Swami Vivekananda, la seconda metà dell’Ottocento, fu per l’India un momento particolarmente intenso.

Sul piano politico, caratterizzò questi anni il passaggio del governo dell’India dalla Compagnia delle Indie Orientali alla Corona inglese, che assunse il controllo diretto del Paese nel 1858, a seguito del Mutiny. Considerato da alcuni il primo scoppio del fervore nazionalista ed indipendentista, questo evento ebbe come principali conseguenze un’ondata terribile di violenze e la deriva ancor più autoritaria del governo inglese in India. Certamente, la rivolta fu indicativa del carattere predatorio della Compagnia e del livello di esasperazione da essa indotto nella popolazione, che cominciava a mal sopportare il peso del dominio inglese. Se, infatti, il regime coloniale trasformava gradualmente l’India in una nazione moderna – introducendo infrastrutture, reti di comunicazione, organizzazione della burocrazia e della società civile – d’altro canto il Paese pagava un prezzo altissimo in termini economici, sociali e politici.

Sul piano economico, l’India subì in questo periodo la devastazione causata dai legami sproporzionati tra centro e periferia dell’impero, che distrussero la preesistente economia, anche se, per quanto sfrenato, lo sfruttamento economico dell’India garantiva alla Gran Bretagna guadagni complessivamente piuttosto limitati. L’apporto fondamentale della colonia, infatti, rimase sempre la sua funzione di bacino potenzialmente inesauribile di reclutamento di uomini per l’esercito inglese in India, per l’apparato burocratico coloniale e per l’indentured labour, il sistema di “lavoro a contratto” che sostituì gli schiavi africani con migliaia di contadini e braccianti indiani, trasferiti nelle piantagioni e nelle miniere dei luoghi più disparati, legati a contratti che mascheravano uno stato di effettiva schiavitù.

Questi erano tra gli aspetti che, naturalmente, contribuivano a disintegrare il tessuto sociale indiano; vi si aggiungeva il portato del bagaglio ideologico introdotto dal regime coloniale, che cooperò enormemente alla cristallizzazione delle differenze castali e religiose e, dunque, alla frammentazione della società indiana in una miriade di blocchi contrapposti ed ostili, chiusi a livello endogamico, regolati da criteri gerarchici e definiti su basi di purezza razziale e rituale.


I movimenti di riforma

Di pari passo con il potere coloniale, cresceva lo scontento ed il senso di inadeguatezza di alcune categorie, perlopiù intellettuali di classe media ed estrazione urbana, figli di un’educazione di stampo occidentale, dalla cui iniziativa scaturì quel processo di rinnovamento sociale e culturale – nonché di ridefinizione identitaria, presa di coscienza nazionale e critica del regime coloniale – che investì l’India nel periodo in esame.

Si trattò di un periodo di fermento culturale e di tentativi di riforma sociale e religiosa, volti a ripensare le pratiche considerate più aberranti della tradizione hindu (come la sati, l’immolazione delle vedove sulla pira del marito, o il matrimonio infantile), a diffondere un’istruzione di tipo moderno, a ridiscutere la condizione femminile. Motore e scopo ultimo di questi movimenti era l’acquisizione di strumenti atti ad affrontare «l’esibita superiorità dell’Occidente cristiano nei confronti della cultura e delle religioni indiane»1, come dimostrarono, in particolare, le misure a favore dell’istruzione femminile. Auspicate dai riformatori per motivi che poco avevano a che fare con il reale desiderio di apportare miglioramenti alla generale condizione delle donne, queste misure si rivelarono, in realtà, necessarie ad altri scopi: confutare le teorie europee – secondo le quali la discriminazione cui erano sottoposte le donne in India e la loro condizione erano immagine dell’arretratezza del Paese in generale –, dando prova dell’adeguatezza dell’India all’autogoverno; creare “nuove donne indiane” capaci di essere mogli e madri più adatte alle necessità (pratiche, ma anche identitarie e d’immagine) della classe emergente, e di socializzarne i valori e le aspirazioni, pur entro i confini della tradizione patriarcale, che restava per i riformatori un punto fermo e indiscutibile.2

In ambito religioso, la riforma si concretizzò nelle figure di alcuni pensatori e nella fondazione di istituzioni, volte a rivedere le più grandi tradizioni indiane – hindu e musulmana – alla luce di uno spirito più moderno e razionale.

È tra questi riformatori che si colloca Vivekananda, al secolo Narendranath Datta, nato in quella Calcutta all’epoca centro della vita politica e culturale del Paese, e in una famiglia di scienziati e pensatori illustri.

Fin da bambino profondamente interessato ai temi dell’Hinduismo e della meditazione e dotato di un carisma e di una passione per la ricerca della verità inusuali per la sua età, Narendranath ricevette un’istruzione di stampo occidentale, appassionandosi in particolare alla filosofia, e coltivando allo stesso tempo lo studio della poesia sanscrita, dei testi sacri e degli scritti del riformatore suo contemporaneo Rammohan Ray.

Razionale, dedito al ragionamento logico e sprezzante dei dogmi religiosi tradizionali, Narendranath si avvicinò al Brahma Samaj, l’istituzione fondata a Calcutta nel 1828 da Rammohan Ray al fine di operare una trasformazione dello Hinduismo in senso moderno, depurando la religione dalle pratiche più barbare ed introducendo nello studio della stessa il principio di ragione. Narendranath, affascinato dalle arringhe dei riformatori che facevano parte del movimento, sembrava destinato ad una carriera del tutto simile, borghese e socialmente impegnata, fino a quando un incontro introdusse nel suo percorso un cambiamento di rotta.


Da Narendranath a Vivekananda

Era il 1880, quando Narendranath incontrò per la prima volta Ramakrishna, il sacerdote officiante di un tempio situato a Dakshineshwar, un sobborgo di Calcutta, e dedicato ad una forma del dio Shiva, che veniva lì adorato insieme alla dea Kali. Brahmano di estrazione contadina, con un’istruzione limitata cui sopperivano buon senso, mitezza e profonda devozione, costui era un rinunciante di eccezionale spessore, un rappresentante della corrente mistica della bhakti, la “devozione”, e un punto di riferimento per gli intellettuali bengalesi, affascinati dalla schiettezza dei suoi insegnamenti.

Quell’incontro provocò un imponente cambiamento nella vita del giovane Narendranath, che in pochi anni, durante i quali proseguì nel tentativo di conciliare il materialismo delle scienze occidentali e lo spiritualismo in cui lo precipitavano i momenti a Dakshineshwar, divenne il discepolo prediletto di Ramakrishna. Come il suo Maestro, divenne un Advaitavedantin, un sostenitore dell’indirizzo dottrinale del non-dualismo, che predicava l’unità tra Sé individuale e Assoluto. Da questi insegnamenti Narendranath avrebbe in seguito derivato la convinzione della divinità degli esseri umani, dunque la considerazione di tutte le forme dell’esistenza quali manifestazioni dello spirito divino.

Nel 1886 Ramakrishna, dopo aver iniziato i discepoli alla loro nuova condizione di sanyasin3, indicò Narendranath come loro guida. Fu così che egli divenne Vivekananda, “colui che ha la beatitudine della discriminazione spirituale”. Due anni più tardi Vivekananda cominciò la sua vita di parivrajaka, “monaco errante”, partendo per un pellegrinaggio che durò anni, un viaggio solitario compiuto a piedi sulle strade polverose dell’India, dallo Himalaya fino a Kanyakumari. Questa esperienza fornì a Vivekananda una conoscenza profonda del Paese, quale non aveva mai posseduto. Alla fine del viaggio, quando finalmente raggiunse Kanyakumari, Vivekananda rifletté su tutto quello che aveva visto: «Un Paese dove milioni di persone vivono dei fiori della pianta mohua, e un milione o due di sadhu e circa cento milioni di brahmani succhiano il sangue di queste persone, senza fare il minimo sforzo per migliorare la loro condizione, è un Paese o l’inferno? È quella una religione, o la danza del diavolo?»4

Partito con l’obiettivo di portare unità tra le varie sette e confessioni indiane, radunandole sotto l’ombrello del messaggio vedantico, Vivekananda comprese che al suo Paese servivano istruzione e cibo, più che insegnamenti religiosi. Ripensò a quel che aveva sentito dire alcuni mesi prima, circa l’organizzazione a Chicago del World’s Parliament of Religions, un congresso che avrebbe ospitato rappresentanti di ogni religione del mondo; Vivekananda decise che si sarebbe recato negli Stati Uniti, per predicare il messaggio vedantico e chiedere in cambio il sostegno economico necessario a fondare in India istituzioni educative e caritative per le classi più svantaggiate.

Pochi mesi più tardi ebbe inizio la sua missione in Occidente, che lo vide tenere innumerevoli conferenze e radunare intorno a sé molti sostenitori.


Un pensiero moderno e rivoluzionario

Attualizzando gli aspetti religioso-filosofici della dottrina vedantica, all’interno di un pensiero in cui la speculazione teorica e dogmatica veniva costantemente riportata alle necessità pratiche del suo tempo e del suo luogo – percepite come urgenti ed imprescindibili –, Vivekananda divenne l’esempio di una nuova tipologia di riformatore, capace di coniugare gli insegnamenti ancestrali del pensiero vedantico con l’attualità dell’India più comune. Questa narrazione, dunque – a differenza di quelle costruite da altri riformatori, che auspicavano un ripensamento, quando non un distacco, della “tradizione” sociale e religiosa, sentita come ostacolo al “progresso” –, non presupponeva una revisione in chiave filo-occidentale del bagaglio culturale e religioso indiano, bensì glorificava quel passato, proponendolo come la chiave che avrebbe aperto all’India le porte della giustizia sociale, dell’istruzione, dello sviluppo materiale e spirituale.

«La società più grande è quella in cui le verità più alte diventano concrete»5, sosteneva Vivekananda, facendo riferimento alla necessità di costruire una società strutturata in modo da permettere la realizzazione della divinità umana. Da questa convinzione di base, derivata dalla filosofia vedantica, egli ricavò il suo progetto di società utopica, che si sarebbe retta sul pilastro dell’uguaglianza tra gli uomini. Il fatto che egli ritenesse necessarie all’avverarsi di questa idea da un lato la diffusione dell’istruzione – che doveva diventare di massa, affinché gli strati più svantaggiati acquisissero forza e coscienza del proprio valore – e, dall’altro, la soppressione di ogni privilegio – politico, economico o religioso che fosse – dimostra il carattere rivoluzionario del pensiero di Vivekananda. Diversamente da molti suoi contemporanei, egli non era disposto a prevedere risultati parziali; eppure, l’imponenza di questo progetto e il suo carattere utopico non compromettevano in alcun modo la fede di Vivekananda nella sua realizzabilità.

«Pane! Pane! Non credo in un Dio che non riesce a darmi il pane in questo mondo, mentre mi promette la beatitudine eterna nei cieli! Bah! L’India deve essere affrancata, i poveri devono essere nutriti, l’istruzione deve essere diffusa, e la piaga del potere sacerdotale deve essere eliminata».6

Anche nel suo rapporto ideale con l’Occidente Vivekananda differiva dal resto dei riformatori: non prevedendo né una forma di riverente assimilazione ai suoi valori, né il rifiuto astioso di essi, egli auspicava una sorta di collaborazione e di mutuo scambio di eccellenze: «Direi che la combinazione della mente greca, rappresentata dall’energia dell’Europa, e della spiritualità hindu darebbe origine a una società ideale in India. […] L’India deve imparare dall’Europa la conquista del mondo esteriore, e l’Europa deve imparare dall’India la conquista del mondo interiore. Allora non ci saranno hindu ed europei: ci sarà un’umanità ideale, che ha conquistato entrambi i mondi, quello esterno e quello interno. Noi abbiamo sviluppato una parte dell’umanità, e loro un’altra. È l’unione delle due ciò cui dobbiamo aspirare».7

Ancora, la modernità del pensiero di Vivekananda si espresse nella sua considerazione del gesto filantropico che, come in ambito cristiano, fino a quel momento era stato reputato dal sistema hindu tradizionale una questione privata tra donatore e beneficiario. Egli fu il primo a proporre un’etica del seva (il “servizio”) istituzionalizzata – così come è divenuta la filantropia, un po’ ovunque nel mondo, in tempi recenti –, con lo scopo di garantire una ripartizione equa e il più possibile estesa di azioni di solidarietà nei confronti di persone bisognose: “Fare del bene agli altri è l’unica grande religione universale”8, sosteneva Vivekananda, accordando alla pratica del seva un significato che andava ben oltre la semplice azione filantropica. Teorizzò, inoltre, che la figura sociale più autorevole in India – e dunque più adatta a diffondere un pensiero in certo modo rivoluzionario – era quella del sanyasin. Mentre i suoi contemporanei proponevano modelli borghesi, di uomini d’alta casta colti e mondani, o figure eroiche della tradizione storica e religiosa indiana, Vivekananda individuava nel monaco, nell’asceta e nel rinunciante la sede della saggezza e della credibilità presso il popolo; era a queste figure, estranee ai meccanismi del potere, all’avidità e al perseguimento dell’interesse personale, che Vivekananda avrebbe affidato il compito di diffondere il messaggio, dimostrando ancora una volta l’intransigenza che guidava il suo pensiero.

Su questi pilastri poggiava la Ramakrishna Mission, istituita da Vivekananda a fine secolo quale organizzazione impegnata in ambito sociale e strettamente connessa alla vita del monastero dell’Ordine di Ramakrishna, i cui monaci fondevano nella propria esperienza quotidiana lavoro sociale e pratica spirituale – due aspetti che, completandosi a vicenda, fungevano l’uno da motore dell’altro. Intervenendo inizialmente soprattutto in ambito educativo e nella lotta alla povertà, la Ramakrishna Mission cominciò così in quegli anni il suo servizio all’India, che Vivekananda descriveva in termini angosciati:

«Fiumi ampi e profondi, gonfi e impetuosi, affascinanti giardini sulle rive del fiume, da fare invidia al celestiale Nandana-Kanana; tra questi meravigliosi giardini si ergono, svettanti verso il cielo, superbi palazzi di marmo, decorati da preziose finiture; ai lati, davanti e dietro, agglomerati di baracche, con muri di fango sgretolati e tetti sconnessi […]; figure emaciate si aggirano qua e là coperte di stracci, con i volti segnati dai solchi profondi di una disperazione e di una povertà vecchie di secoli […]; questa è l’India dei nostri giorni!

[…] Devastazione causata da peste e colera; malaria che consuma le forze del Paese; morte per fame come condizione naturale; carestie mortali che spesso danzano il loro macabro ballo; un kurukshetra di malattie e miseria, un enorme campo per le cremazioni disseminato dalle ossa della speranza perduta.

[…] Un agglomerato di trecento milioni di anime, solo apparentemente umane, gettate fuori dalla vita dall’oppressione della loro stessa gente e delle nazioni straniere, dall’oppressione di coloro che professano la loro stessa religione e di coloro che predicano altre fedi; pazienti nella fatica e nella sofferenza e privati di ogni iniziativa, come schiavi, senza alcuna speranza, senza passato, senza futuro, desiderosi solo di mantenersi in vita in qualche modo, per quanto precario; di natura malinconica, come si confà agli schiavi, per i quali la prosperità dei loro simili è insopportabile. […] Trecento milioni di anime come queste brulicano sul corpo dell’India come altrettanti vermi su una carcassa marcia e puzzolente. Questo è il quadro che si presenta agli occhi dei funzionari inglesi».9

Costituito inizialmente da appena una dozzina di monaci, nei cento e più anni che ci separano dalla sua fondazione l’Ordine di Ramakrishna è oggi un movimento transnazionale di proporzioni enormi, simbolo di pace ed ecumenismo, fondato sulla pratica del servizio disinteressato come metodo per la realizzazione del divino e caratterizzato da un approccio razionale alla religione – considerata non un apparato ritualistico ma una scienza dell’essere e del divenire –, da una tradizione colta e dall’efficacia dei suoi interventi in campo sociale.

Definiscono Ramakrishna Mission e Ramakrishna Math (rispettivamente la componente pratica del movimento e l’organizzazione monastica) le tre caratteristiche che sono state segni distintivi di Vivekananda e del suo operato e che, risultando a tutt’oggi innovative, dimostrano la statura di un riformatore illuminato, rivoluzionario per il tempo e il luogo in cui visse: la modernità – che si esprime nell’attualizzazione dei principi vedantici, e nel collocare nel presente il pensiero guida dell’operato di queste istituzioni; l’universalità – data dal rivolgersi non ad un unico Paese o ad uno specifico gruppo di persone, ma all’umanità intera; e la concretezza – che risiede nel porre i principi teorici e spirituali a servizio del miglioramento delle quotidiane condizioni di vita delle persone.


* Elena Borghi, dottoressa in Studi linguistici e antropologici sull’Eurasia e il Mediterraneo (Università “Ca’ Foscari” di Venezia), è autrice di Sai Baba di Shirdi. Il santo dei mille miracoli (Red, Milano 2010) e Vivekananda. La verità è il mio unico dio (Red, Milano 2009)


1 Torri, M., Storia dell’India, Editori Laterza, Roma-Bari 2000, p. 453.

2 Jayawardena, K., Feminism and Nationalism in the Third World, Zed Books, Londra 1986.

3 Asceta errabondo, che ha rinunciato ad ogni piacere mondano e ad ogni forma di possesso materiale ed umano, per dedicarsi unicamente al conseguimento della liberazione, il moksha. Il monaco rinunciante trascorre la propria vita in solitario cammino, elemosinando il cibo, coltivando il silenzio e il raccoglimento, inaccessibile ad ogni desiderio e ad ogni umana debolezza. La contemplazione dello Spirito supremo, il distacco, la disciplina e la meditazione profonda sono i suoi compiti, che lo preparano ad abbandonare per sempre la dimora terrena ed il corpo mortale, liberandolo dal ciclo di rinascita e rimorte.

4 The complete Works of Swami Vivekananda, Mayavati Memorial Editing, Advaita Ashrama, Calutta 1992-95, vol. VI, p. 254.

5 Ibid., vol. II, p. 85.

6 Ibid., vol. IV, p. 368.

7 Ibid., vol. V, p. 216.

8 Ibid., vol. IV, p. 403.

9 Ibid., vol. V, p. 441-442.

dimanche, 24 octobre 2010

L'imputato per la strage di Mumbai lavorava per il governo USA

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L’imputato per la strage di Mumbai lavorava per il governo USA

di Kurt Nimmo

Fonte: megachip [scheda fonte] 

La settimana scorsa i funzionari USA dichiaravano che c’era ancora una minaccia proveniente da indimostrati terroristi in Europa, mentre la polizia di New York conduceva un’esercitazione che simulava un attacco “stile Mumbai” contro i civili nel distretto finanziario di Manhattan. Il capo dell’antiterrorismo al Dipartimento di Stato ha esposto ai giornalisti a Londra un allarme per i viaggiatori emanato il 3 ottobre che consigliava a chi viaggiava in Europa che un "assalto in stile Mumbai" su obiettivi civili, poteva essere imminente, o forse no.


Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

abc_floydnews_playSabato scorso, funzionari federali hanno ammesso che l’uomo d'affari statunitense David Coleman Headley, che si presume abbia confessato di essere un reclutatore di terroristi in relazione agli attentati di Mumbai del 2008, lavorava come informatore della DEA, mentre si esercitava con i terroristi in Pakistan.

«I funzionari federali, che parlavano solo in sottofondo per la delicatezza del caso Headley, hanno dichiarato inoltre di sospettare un legame tra Headley e le figure di al-Qa‛ida le cui attività hanno suscitato recenti minacce terroristiche contro l'Europa», riferisce Pro Publica, un’agenzia on line non-profit indipendente che produce giornalismo investigativo.

Venerdì scorso, Pro Publica ha riferito che l'FBI era stata messa in guardia in merito ai legami terroristici di Headley ben tre anni prima che gli attentati di Mumbai avessero luogo.

Headley, tuttavia, non è stato arrestato fino a 11 mesi dopo l'attacco. «Dopo che Headley è stato arrestato nel 2005 per una lite domestica a New York, la moglie ha raccontato agli investigatori federali il suo duraturo coinvolgimento con il gruppo terroristico Lashkar-i-Taiba e i suoi estensivi programmi di formazione nei campi pakistani», scrive Sebastian Rotella. «Ha anche loro riferito che si era vantato di essere un informatore pagato dagli Stati Uniti, mentre era in corso la formazione terroristica».

Lashkar-i-Taiba è stata programmata per operazioni occulte. Si tratta di una creazione dell'Inter-Services Intelligence, o ISI, i servizi pakistani, e «riceve considerevoli risorse finanziarie e materiali nonché altre forme di assistenza da parte del governo del Pakistan, indirizzate in primo luogo attraverso l'ISI. L'ISI è la principale fonte di finanziamento di Lashkar-i-Taiba. E anche l'Arabia Saudita alimenta la provvista dei fondi», secondo il South Asia Terrorism Portal.

Lashkar-e-Taiba ha inoltre avuto un ruolo nella campagna bosniaca organizzata dall’ISI contro i serbi, che era diretta dalla CIA e dai servizi segreti britannici.

Lashkar è l'ala militare del Markaz Dawat wal Irshad, collegato all’Ahl-e Hadith pakistano, un gruppo con stretti legami di affiliazione ai wahabiti sauditi. Markaz è stata fondata nel 1986 da due professori universitari pakistani assistiti da Abdullah Azzam, uno stretto collaboratore di Osama bin Laden. Azzam è stato "arruolato" da parte della CIA per guidare gruppi islamici a Peshawar e poi come intermediario tra i Mujāhidīn afghani.

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La notizia della connessione di Headley all’intelligence non è una novità.

Nel 2009 è stato riferito che egli poteva «essere stato un agente sotto copertura degli Stati Uniti diventato una canaglia», secondo il «Times of India».

Durante le sue operazioni e contatti in India, Headley si è presentato spesso come un agente della CIA.

David Headley è stato menzionato in un rapporto sul terrorismo interno redatto da Tom Kean, Lee Hamilton, e dall’istituto bipartisan con sede a Washington National Security Preparedness Group.

Kean e Hamilton si erano a suo tempo sforzati di concentrare la colpa per gli attentati dell'11 settembre 2001 a carico di musulmani cavernicoli. «La leadership dei gruppi islamici radicali, tra cui al-Qa‛ida, si è americanizzata attraverso figure come il chierico radicale Anwar al-Awlaki, cresciuto in New Mexico, e David Headley da Chicago, che ha contribuito a pianificare gli attacchi terroristici a Mumbai del 2008», ha riferito il «New York Post» in occasione del nono anniversario dell'11 settembre.

In effetti il terrorismo è diventato "americanizzato", perché in realtà gran parte del terrorismo islamico è una creazione dell'intelligence USA, britannica e israeliana, con l'aiuto di partner gregari come la Germania.

Nel 1997, Headley, alias Daood Sayed Gilani, un condannato per traffico di droga, è stato strappato via dalla prigione dalla DEA e spedito in Pakistan per condurre operazioni di sorveglianza sotto copertura per conto della Drug Enforcement Administration. Nel 2002 e tre volte nel 2003, ha frequentato campi di addestramento in Pakistan di Lashkar-e-Taiba, l’organizzazione creata e finanziata dall’ISI e dai sauditi.

L'FBI era ben consapevole di tutto ciò. Secondo il rapporto di Pro Publica, non solo la moglie di Headley ha raccontato all'FBI che suo marito era un militante attivo di Lashkar-e-Taiba, ma anche che si era a lungo esercitato nei suoi campi pakistani e aveva anche fatto acquisti per visori notturni e altri apparecchi.

Ancora una volta ci verrà detto che tutto questo è stato un «fallimento dell'intelligence» e che Headley ha violato i patti per essere stato radicalizzato da parte di terroristi pakistani.

A questo punto, però, non ci viene detto più di nulla. I grandi media, con la notevole eccezione del «New York Times» e dell'Associated Press, non riportano questa storia. È appena un puntino sullo schermo radar dei grandi organi di comunicazione. La minaccia terroristica europea, ovviamente fraudolenta, ha ricevuto molta più copertura, anche se non vi è assolutamente alcuna prova che dei terroristi avessero intenzione di fare alcunché in Europa o altrove, men che meno negli Stati Uniti.

Di quante altre prove abbiamo bisogno? David Headley stava ovviamente lavorando per il governo degli Stati Uniti ed è stato "radicalizzato" e formato da un gruppo che i documenti indicano come CIA-ISI con collegamenti con i sauditi e il wahhabismo.

La CIA non tenta più nemmeno di coprire le proprie tracce, quando manovra il terrorismo "falso" e i gruppi terroristici. Cinque minuti con un motore di ricerca in internet bastano a produrre informazioni sufficienti a dimostrare il fatto che i governi ingegnerizzano il terrorismo e i terroristi.

I governi usano abitualmente il terrore sintetico per mandare avanti i loro programmi in agenda. È tutto alla luce del sole e ci si presenta di fronte. Ma non aspettatevi che il «New York Times» o la CNN colleghino i puntini. Sottolineare l'ovvio, si sa, è un lavoro per teorici della cospirazione…

 

Traduzione a cura di Pino Cabras per Megachip.

Fonte: http://www.infowars.com/mumbai-terror-suspect-worked-for-....

samedi, 23 octobre 2010

EU braucht engere Beziehungen zu asiatischen Mächten

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EU braucht engere Beziehungen zu asiatischen Mächten

 

Ex: http://www.andreas-moelzer.at/

Asien ist Schlüsselregion zur Emanzipation Europas von den USA – Bei EU-Asien-Gipfel darf das Problem asiatischer Billigimporte nicht ausgeklammert werden

Das heute in Brüssel zu Ende gehende EU-Asien-Treffen (ASEM) müsse zur Bildung strategischer Partnerschaften genutzt werden, forderte der freiheitliche Delegationsleiter im Europäischen Parlament, Andreas Mölzer. „Asien, insbesondere China, ist eine Region, die wirtschaftlich auf der Überholspur ist und deren geopolitisches Gewicht stetig zunimmt. Daher sind gute und enge Beziehungen zu Asien unerläßlich, wenn sie die Europäische Union von den USA emanzipieren will“, so Mölzer, der auch Mitglied des außenpolitischen Ausschusses des Europäischen Parlaments ist.

Dabei wies der freiheitliche EU-Mandatar darauf hin, daß die Europäische Union gegenüber ihren asiatischen Partnern auch selbstbewußt auftreten müsse. „Anstatt an schwammigen Absichtserklärungen zu arbeiten, die recht bald in einer Schublade landen, müssen bestehende Probleme angesprochen und einer Lösung zugeführt werden“, erklärte Mölzer.

Insbesondere müsse, so der freiheitliche Europa-Abgeordnete, das Problem der Billigimporte aus Asien gelöst werden. „So erstrebenswert enge Beziehungen zu den asiatischen Mächten auch sind, so wenig darf Brüssel die legitimen Interessen Europas opfern. Und dazu zählt insbesondere der Schutz europäischer Arbeitsplätze vor asiatischen Dumpinlöhnen“, schloß Mölzer.