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mardi, 24 novembre 2009
Samurai: storia, etica e mito
La società giapponese del XVI secolo aveva una struttura definibile come feudalesimo piramidale.
Al vertice di questa ideale piramide vi erano i signori dell’alta nobiltà, i daimyo, che esercitavano il loro potere tramite legami personali e familiari. Alle dirette dipendenze dei daimyo vi erano i fudai, ovvero quelle famiglie che da generazioni servivano il proprio signore. In questo contesto i samurai rappresentavano una casta familiare al servizio dei daimyo, ne erano un esercito personale.
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In questa organizzazione politica, quella militare dei samurai aveva caratteristiche e funzioni proprie al suo interno. Divisi in 17 categorie, i samurai avevano il compito di rispondere alla chiamata alle armi del daimyo cui facevano riferimento combattendo con armi proprie. Al di sotto dei samurai propriamente detti, ma facenti parte della stessa famiglia, vi erano i sotsu (“truppe di fanteria”) a loro volta divisi in 32 categorie.
Alla base della piramide troviamo gli ashigaru, cioè la maggior parte dei combattenti (soldati semplici diremmo oggi) che erano per lo più arcieri e lancieri o semplici messaggeri. Nei periodi di pace gli ashigaru svolgevano mansioni come braccianti del samurai incaricato al loro mantenimento.
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Alla fine del XII secolo il governo aristocratico di Taira subì una sconfitta nella guerra di Genpei cedendo il potere al clan dei Minamoto. Minamoto Yoritomo, spodestando l’imperatore, assunse di fatto il potere col titolo di shogun (capo militare) e fu lui a stabilire la supremazia della casta dei samurai, che fino a tal periodo svolgeva il ruolo di classe servitrice in armi estromessa da questioni di natura politica. Nei 400 anni a venire la or più accreditata casta guerriera avrebbe svolto un ruolo decisivo nella difesa del Giappone da tentate invasioni esterne, – come quella mongola del XIII secolo –, e nelle faide interne tra i vari feudatari (daimyo), tra le quali vanno ricordate quella del periodo Muromachi (1338-1573) in cui gli shogun Ashikaga affrontarono i daimyo, e quella del periodo Momoyama (1573-1600) in cui i grandi samurai Nobunaga (in foto) prima e il suo successore Hideyoshi dopo si batterono per sottomettere il potere dei daimyo e riunificare il paese.
La politica interna troverà stabilità al termine della battaglia di Sekigahara (1600), nella quale il feudatario Tokugawa Ieyasu, col titolo di shogun, sconfiggendo i clan rivali, assumerà pieni poteri sul paese insediando il suo “regno” nella città di Edo (odierna Tokyo) e inaugurando il periodo che da tale città prese nome (1603-1867), mentre l’imperatore rimaneva di fatto confinato nell’antica capitale Kyoto.
In questo periodo la pace fu garantita dal fatto che i daimyo giurarono fedeltà, di fatto sottomettendovisi, allo shogunato e a loro volta mantennero all’interno dei loro castelli contingenti di soldati e servi. Le conseguenze per la casta dei samurai furono immediate. Divenuta una casta chiusa e non essendoci più motivi di gerre feudali, il suo ruolo guerriero assunse sempre più toni di facciata: i duelli, in un contesto dove regnava la pace tra clan, divennero per lo più di tipo privato. Lo sfoggio di abilità guerriere e l’uso della spada (per il samurai un vero e proprio culto religioso) avveniva, in maniera sempre più frequente, soltanto per scopi cerimoniali; mentre le funzioni a cui venivano sempre più spesso preposti erano di tipo burocratico ed educativo, integrandosi sempre di più nella società civile. Un segnale della trasformazione del ruolo dei samurai è testimoniato dai rapporti che questi intrapresero con il disprezzato ceto chonin (borghesia in ascesa). Tale avvicinamento ha avuto tuttavia una grande importanza per aver “esportato” i valori della “casta del ciliegio” nella società civile fino ad oggi.
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Con la caduta dell’ultimo shogunato, vale a dire quello di Yoshinobu Tokugawa, ebbe inizio l’era Meiji (1868-1912). Fu questo un periodo di radicali riforme, note con il nome di “rinnovamento Meiji”, le quali investirono a pieno anche la struttura sociale del Sol levante: l’imperatore tornava ad essere la massima figura politica a scapito dello shogunato, lo Stato fu trasformato in senso occidentale e i feudi soppressi. La casta samurai abolita in funzione di un esercito nazionale.
L’arte e l’onore. La morte e il ciliegio
La costante ricerca di una condotta di vita onorevole si fondeva, nell’etica della guerra del samurai, con una disciplina ferrea nell’addestramento marziale. Anche durante la pace del lungo periodo Edo, i samurai coltivarono le arti guerriere (bu-jutsu, oggi budo). Le principali discipline praticate e di giorno in giorno perfezionate erano il tiro con l’arco (kyu-jutsu, oggi kyudo), la scherma (ken-jutsu, oggi kendo) e il combattimento corpo a corpo (ju-jutsu, oggi più comunemente conosciuto come ju-jitsu).
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Trattando la figura del samurai non è possibile scindere l’allenamento fisico da quello spirituale, così come non è possibile scindere l’uomo dal soldato; tuttavia, per fini esemplificativi, potremmo dire che se il braccio era rafforzato dalla spada, lo spirito era rafforzato dalla filosofia confuciana. Fin da bambino, il futuro guerriero, veniva educato all’autodisciplina e al senso del dovere. Egli era sempre in debito con l’imperatore, con il signore e con la famiglia e il principio di restituzione di tale debito era un obbligo morale, detto giri, che accompagnava il samurai dalla culla alla tomba.
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Se morte e dolore erano i principali “crimini”, lealtà e adempimento del proprio dovere erano le principali virtù; atti di slealtà e inadempienze erano (auto)puniti con il seppuku (“suicidio rituale”, l’harakiri è molto simile, ma è un’altra cosa...).
Il codice d’onore del samurai è espresso, dal XVII secolo, nel bushido (“via del guerriero”), codice di condotta e stile di vita riassumibile nei sette princìpi seguenti:
- 義, Gi: Onestà e Giustizia
Sii scrupolosamente onesto nei rapporti con gli altri, credi nella giustizia che proviene non dalle altre persone ma da te stesso. Il vero Samurai non ha incertezze sulla questione dell’onestà e della giustizia. Vi è solo ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.
- 勇, Yu: Eroico Coraggio
Elevati al di sopra delle masse che hanno paura di agire, nascondersi come una tartaruga nel guscio non è vivere. Un Samurai deve possedere un eroico coraggio, ciò è assolutamente rischioso e pericoloso, ciò significa vivere in modo completo, pieno, meraviglioso. L’eroico coraggio non è cieco ma intelligente e forte.
- 仁, Jin: Compassione
L’intenso addestramento rende il samurai svelto e forte. È diverso dagli altri, egli acquisisce un potere che deve essere utilizzato per il bene comune. Possiede compassione, coglie ogni opportunità di essere d’aiuto ai propri simili e se l’opportunità non si presenta egli fa di tutto per trovarne una.
- 礼, Rei: Gentile Cortesia
I Samurai non hanno motivi per comportarsi in maniera crudele, non hanno bisogno di mostrare la propria forza. Un Samurai è gentile anche con i nemici. Senza tale dimostrazione di rispetto esteriore un uomo è poco più di un animale. Il Samurai è rispettato non solo per la sua forza in battaglia ma anche per come interagisce con gli altri uomini.
- 誠, Makoto o 信, Shin: Completa Sincerità
Quando un Samurai esprime l’intenzione di compiere un’azione, questa è praticamente già compiuta, nulla gli impedirà di portare a termine l’intenzione espressa. Egli non ha bisogno né di “dare la parola” né di promettere. Parlare e agire sono la medesima cosa.
- 名誉, Meiyo: Onore
Vi è un solo giudice dell’onore del Samurai: lui stesso. Le decisioni che prendi e le azioni che ne conseguono sono un riflesso di ciò che sei in realtà. Non puoi nasconderti da te stesso.
- 忠義, Chugi: Dovere e Lealtà
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Che i Samurai, nei tanti secoli della loro storia, si siano sempre e comunque attenuti a questi princìpi, è un elemento di certo secondario, né tantomeno spetta a noi il compito di ergerci a giudici. Ciò che rimane indelebile e si manifesta in tutta la sua grandezza è invece lo spirito autentico e “romantico” di un’etica guerriera (ma non solo guerriera) fondata sul rispetto, l’onore, la lealtà, la fedeltà, il coraggio e l’abnegazione: valori che furono incarnati da molti samurai i cui nomi sono stati – a buon diritto – consegnati alla storia. E in una società che sembra aver smarrito la bussola, sempre timorosa (finanche di se stessa), l’etica samurai potrebbe rappresentare un ausilio, una salda coordinata per un recupero dell’autocoscienza e della padronanza di sé; sicuramente un ottimo strumento per il rifiuto di un’esistenza meschina ed esclusivamente materiale e per una riscoperta del proprio spirito. Lo stesso spirito che animò i “guerrieri-poeti” i quali, grazie alla lama della loro spada e al tenue turbinare dei fiori di ciliegio, seppero coniugare sapientemente Poesia e Azione.
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dimanche, 22 novembre 2009
Und morgen ganz Eurasien - der Ausbau der US-Brückenköpfe
Und morgen ganz Eurasien – der Ausbau der US-Brückenköpfe
Bereits eine Woche vor dem Besuch von US-Präsident Barack Obama in Japan demonstrierten über 20.000 Japaner in Ginowan gegen den weiteren Ausbau der US-Militärstützpunkte auf der Insel Okinawa und verlangten die Schließung der in der Nähe ihrer Stadt gelegenen amerikanischen Marine-Corps-Futenma-Air-Base. Unter dem Beifall der Demonstranten rief der Bürgermeister von Ginowan, Yoichi Iha, dem japanischen Premierminister Yukio Hatoyama zu, Präsident Obama zu sagen, »dass Okinawa keine US-Basen mehr braucht«. Abschießend forderte der Bürgermeister vom Premier »eine tapfere Entscheidung zu treffen und mit der Last und Qual von Okinawa Schluss zu machen« (1).
Schon früher hatte die Opposition gegen die Anwesenheit einer strategisch bedeutenden US-Militärbasis in Japan Stellung bezogen. Sind doch von diesem »unsinkbaren Flugzeugträger der Vereinigten Staaten« China, Taiwan und Nordkorea leicht zu erreichen. Japan als östliches Einfallstor nach Eurasien.
Eine ähnlich bedeutende Rolle spielt die Bundesrepublik Deutschland im Westen Eurasiens. Obwohl die Bundesrepublik als Brückenkopf der USA deren Operationen in Nahen und Mittleren Osten sowie in Zentralasien erst ermöglicht, sind Vorgänge wie in Japan heute kaum vorstellbar.
Bald 65 Jahre nach dem Zweiten Weltkrieg betteln mit lukrativen Angeboten bundesdeutsche Landes- und Kommunalpolitiker darum, möglichst viele US-Garnisonen in unserem Land zu erhalten. So freut sich Wiesbadens Oberbürgermeister Helmut Müller (CDU) über eine bedeutende Neuansiedlung in der Landeshauptstadt. Völlig unspektakulär war in der US-Armeezeitung Stars & Stripes am 20. Oktober 2009 vom Umzug des Hauptquartiers der US Army/Europa (USAREUR) von Heidelberg nach Wiesbaden zu lesen. (2) Auf dem dortigen US-Airfield Erbenheim soll bis 2013 das neue Europa-Hauptquartier der US Army entstehen. 68 Jahre nach Ende des Zweiten Weltkrieges und nach elf US-Präsidenten seit Harry Truman (1945–1953) sollen in einem amphitheaterähnlichen Einsatz- und Kampfführungszentrum die militärischen Geschicke Europas gesteuert werden. Das 84 Millionen teure dreistöckige Zentrum wird auf ca. 26.500 Quadratmetern mit den neusten Kommunikations- und Planungsgeräten ausgestattet und zur modernsten US-Militäreinrichtung in Europa ausgebaut. Den Grund für den Neubau erläuterte der Operationschef der USAREUR, Brigadegeneral David G. Perkins: »Bisher ist das Hauptquartier der USAREUR weder dazu ausgelegt, noch technisch oder personell so ausgestattet, dass es als Kriegsführungs-Hauptquartier dienen könnte.«
In dieser Transformation sieht Perkins »etwas Bedeutsames, etwas Historisches«. Zur Vorbereitung nahm bereits im Sommer 2008 das USAREUR-Hauptquartier an einer Kommandoübung teil, die unter dem vielsagenden Namen Austere Challenge (Äußerste Herausforderung) lief. Zur Übung gehörte die Errichtung einer vorgeschobenen Kommandozentrale in Grafenwöhr. Das soll den Stäben der USAREUR und des V. US-Corps die Möglichkeit geben, ein simuliertes Kriegsszenario aus der Perspektive eines Hauptquartiers zu erleben. Ebenfalls beteiligte sich das Oberkommando der US-Streitkräfte in Europa – EUCOM in Stuttgart – sowie das Hauptquartier der US-Marine in Europa. Dieses ist identisch ist mit dem der 6. US-Flotte (CNE-C6F in Neapel). Alljährliche Übungen sind geplant.
Neben der Ausbildung zählte Perkins weitere Aufgaben von USAEUR auf: die US Army »schickt Einheiten an die Front, holt sie von dort wieder zurück und sichert die Lebensqualität für die Soldaten und ihre Familien [an ihren europäischen Standorten]« (3). So folgt zwingend der weitere Ausbau der Garnison: eine Army-Unterkunft für 32 Millionen Dollar, ein Unterhaltungszentrum für 8,8 Millionen Dollar und eine Wohnanlage für 133 Millionen Dollar mit bis zu 324 Reihenhäusern, Doppelhäusern und Einfamilienhäusern. Obwohl der Umzug nach Wiesbaden unmittelbar nach Fertigstellung des neuen Kampfführungszentrums vorgesehen ist, hänge nach USAREUR das genaue Umzugsdatum noch von der Zustimmung des Kongresses zu den Baumaßnahmen, von operativen Gegebenheiten sowie von weiteren Bescheiden der Gastgebernation ab. Jedoch haben deutsche Behörden auf den US-Vorgang nur marginalen Einfluss. Das Einsatzzentrum wird innerhalb der US-Liegenschaft in Wiesbaden/Erbenheim gebaut. Die totale Nutzungsüberlassung der deutschen Behörden laut Stationierungsvertrag erlaubt der US- Militärverwaltung freies Spiel der »Notwendigkeiten«. Nach dem Umzug wird die US-Militärgemeinde Wiesbaden um 4.000 Soldaten, Zivilangestellte und Familienmitglieder auf 17.000 Personen anwachsen.
Zugleich sollen die US-Fallschirmjäger der 173rd Airborne Brigade als »Südeuropäische Schnelleingreiftruppe« eine neue Heimat auf dem Flugplatz Dal Molin/Vicenza erhalten. Hier hat das italienische Verteidigungsministerium trotz einiger Widerstände die Baupläne nach einigen Änderungen grundsätzlich gebilligt.
Schon Mitte Dezember 2007 fand in Vicenza eine internationale Kundgebung gegen den geplanten Stützpunkt Dal Molin statt. Neben Aviano – derzeit größte US-Basis Italiens und dem toskanischen Camp Derby – hat die bei Vicenza bereits bestehende US-Großbasis Caserma Ederle eine zentrale Funktion bei den Kriegen gegen Jugoslawien, den Irak und Afghanistan gespielt. Mit der Errichtung des neuen Stützpunktes Dal Molin wird, wie es die Bewegung in Vicenza formuliert, ganz Vicenza zu einer einzigen US-Basis. Dem harten Kern des Widerstandes geht es um mehr als nur um Ederle oder den künftigen Stützpunkt Dal Molin. Sie wollen europaweit US-Basen bekämpfen.
Die Bedeutung des Kosovo für die USA unterstrich US-Vizepräsident Biden bei seinem Besuch am 21. Juni 2009. Obwohl der Internationale Gerichtshof in Den Haag seit dem 17. April 2009 die Rechtmäßigkeit der einseitigen Kosovo-Unabhängigkeit prüft, unterstrich Biden die Unabhängigkeit des Landes als »unumkehrbar«. Ein skandalöses Beispiel für die inzwischen zur Bedeutungslosigkeit degradierten UN. Die USA benötigen ein »unabhängiges« Kosovo, um dort ihren mit viel Geld aufgebauten Stützpunkt Camp Bondsteel langfristig zu nutzen. Nach Rückzug der serbischen Truppen wurde das US-Camp im südlich von Pristina gelegenen Urosevac zum größten Militärstützpunkt seit Vietnam als Außenposten der USA für Operationen im Nahen Osten ausgebaut. Auf dem 3,86 Quadratkilometer großen Stützpunkt können bis zu 7.000 Armeeangehörige aufgenommen werden. (4) Camp Bondsteel soll zum Außenposten der USA für Operationen im Nahen Osten ausgebaut werden und Landebahnen für Kriegsflugzeuge bis hin zu B-52-Bombern erhalten. Ein konkretes Datum für den Abzug der US-Truppen gibt es nicht, vielmehr wird ein Pachtvertrag für 99 Jahre angestrebt. Da ergibt eine endgültige Loslösung von Serbien aus souveränitätsrechtlichen Gründen durchaus einen Sinn. Im Sommer 2001 hob US-Präsident Bush anlässlich eines Besuches im Camp Bondsteel dessen Aufgabe hervor: (5)
»Wir streben eine Welt der Toleranz und der Freiheit an. Von Kosovo nach Kaschmir, vom Mittleren Osten nach Nordirland, ist Freiheit und Toleranz das definierte Ziel für unsere Welt. Und Ihr Dienst setzt hierfür ein Beispiel für die ganze Welt.« (6)
Mit derartig anspruchsvollen ethischen Zielen lassen sich leicht die wirklichen Absichten verdecken. Diese werden parteiübergreifend im elitären Machtzirkel des Council on Foreign Relations (CFR) geschmiedet. Dort finden vor allem Deutungsmuster und Weltbilder regen Zuspruch, die vor über einem Jahrhundert Sir Halford Mackinder, Alfred Thayer Mahan und Nicolas J. Spykman für den angelsächsischen Raum entworfen haben. (7) Rechtzeitig zum US-Präsidentschaftswahlkampf erschien vom vorgestrigen Großmeister der Geostrategie Zbigniew Brzezinski das aus seiner Feder stammende Buch Second Chance (8). Darin unterzieht die graue Eminenz der demokratischen Präsidenten seit Carter und nunmehriger außenpolitischer Berater Barack Obamas die Regierungen Bush I, Clinton und Bush II einer fundamentalen Kritik. Ihnen sei es nach dem Zusammenbruch der Sowjetunion nicht gelungen, ein System dauerhafter amerikanischer Vorherrschaft zu errichten. Nun sei es an der Zeit, verstärkt auf Kooperationen und Absprachen mit Europa und China zu setzen. Dagegen solle Rußland isoliert und möglicherweise auch destabilisiert werden. Das Scheitern der von Brzezinski 1997 formulierten Pläne einer US-Vorherrschaft in Eurasien soll nun durch eine von Europa ausgehende Osterweiterung der NATO kompensiert werden. Die NATO-Mitgliedschaft der Ukraine wird befürwortet und dagegen das russische Bemühen, Einfluss in der Ukraine zu bewahren, als Imperialismus gebrandmarkt. (9)
Die bereits vorhandenen Einrichtungen des US-Militär in den Baltenstaaten sollen durch weitere US-Basen an der Küste des Schwarzen Meeres in Rumänien und Bulgarien ergänzt werden. (10) Auf den beiden Basen sollen über 4.000 US-Soldaten sowie die »Gemeinsame Eingreiftruppe Ost« (Joint Task Force East) stationiert werden. Die Regierungen der beiden Staaten erwarten, dass sich das US-Militär dort für lange Zeit niederlassen wird. (11) Unter anderem dürften diese Basen dazu dienen, um den Transport des Öls und des Gases aus dem Kaspischen Becken zu sichern.
Nicht zu unterschätzen sind auch die politischen Motive, um auch kleinere Truppenkontingente in neuen NATO-Mitgliedsstaaten zu stationieren. Mittels solcher Stationierungsmaßnahmen kann sich Washington eine politisch-wirtschaftliche Einflussmöglichkeit auf die Politik dieser Länder sichern und seine Rüstungsexportinteressen wirksamer wahrnehmen. Dazu braucht man nicht unbedingt Standorte mit guter Infrastruktur und größeren Verbänden, sondern kleinere Standorte, die in Krise und Krieg schnell aufwachsen und zur Unterstützung auch länger anhaltender Kampfhandlungen genutzt werden können. (12)
Trotz des weiteren uneingeschränkten militärischen »Engagements« im Irak, in Afghanistan und nun auch in Pakistan wird das Interesse der bankrotten Vereinigten Staaten deutlich, die eigene militärische Präsenz über Europa hinaus auszudehnen. Schwerpunkte dieses Interesses sind derzeit der Mittlere Osten, der Schwarzmeerraum, der Transkaukasus und Zentralasien sowie Afrika.
Hier sieht der ehemalige US-Botschafter in Nigeria, Princeton Lyman, für Afrika eine neue Bedeutung hinsichtlich »Amerikas relevanten Fragen wie Energie, Terrorismus und Handel« (13). Dieser Erkenntnis wurde 2007 mit der Aufstellung des AFRICA Command (AFRICOM) Rechnung getragen. Dieses Einsatzführungskommando für den afrikanischen Kontinent wurde von EUCOM abgetrennt und ist nun die sechste US-Kommandozentrale für eine bestimmte Region. (14) Zu den Aufgaben dieses Regionalkommandos erklärte US-Präsident George Bush: »Das AFRICA Command wird unsere Bemühungen verstärken, den Menschen in Afrika Frieden und Sicherheit zu bringen und unsere gemeinsamen Ziele von Entwicklung, Gesundheit, Bildung, Demokratie und wirtschaftlichen Fortschritt in Afrika voranzutreiben.« (15)
Mit Blick auf das Terrornetzwerk Al Kaida soll nach US-Verteidigungsminister Robert Gates die neue Befehlsstelle auch zum »Schutz nichtmilitärischer Missionen und, sofern es nötig ist, auch für militärische Operationen zur Verfügung stehen« (16). Diese Operationen werden im Hauptquartier von AFRICOM in Stuttgart-Möhringen geplant, während EUCOM im nachbarlichen Stuttgart-Vaihingen die Strategien vom Baltikum bis zum Schwarzen Meer umsetzt.
Neben den Befehlszentren in Stuttgart und nun auch bald Wiesbaden ist noch das Luftwaffenhauptquartier der US Air Force Europe in Ramstein – dem größten Stützpunkt der US-Luftwaffe außerhalb der USA – von Bedeutung. Hier wurde und wird die Luftversorgung der Soldaten für die Kriege auf dem Balkan und im Mittleren Osten organisiert. Von der US-Airbase Spangdahlem in der Eifel können die gefürchteten Tarnkappenbomber F-117-A starten, während die Rhein-Main-Airbase in Frankfurt neben Ramstein als die zweite große Drehscheibe der US Air Force agiert. Dort können die riesigen amerikanischen Militärtransporter Galaxy und Globemaster einen Zwischenstopp einlegen. Auch sind hier die mächtigen Tankflugzeuge KC-135 Stratotanker stationiert.
3.500 Kilometer von Bagdad und 5.200 Kilometer von Kabul entfernt liegt im pfälzischen Landstuhl das US-Regional Medical Center (LRMC) mit über 2.000 Mitarbeitern. Landstuhl – die gefühlte deutsche Front in diesem Krieg. Nur acht Kilometer entfernt vom größten Krankenhaus der US Army außerhalb der Vereinigten Staaten landen die mattgrauen C-17-Frachtmaschinen mit ihrer traurigen Fracht. Schwerverletzte werden für ihre weitere Verlegung in die Heimat versorgt, während Leichtverletzte für die Rückkehr in den »Krieg gegen den Terrorismus« behandelt werden. Dieser »Krieg gegen den Terrorismus« wurde nach dem 11. September 2001 nicht als Verbrechensbekämpfung definiert, sondern scheint vielmehr dem Ziel der strategischen Vorherrschaft in dem »Korridor entlang der Seidenstraße« (17) zu dienen. Nach Afghanistan und dem Irak ist der Iran in das Visier der Pentagon-Strategen geraten. Ein Blick in die Landkarte mit dem Verantwortungsbereich des Zentralen US-Kommandos (CENTCOM/Area of Responsibility) genügt.
Erst am 9. November 2009 beendeten das U.S. European Command ( EUCOM/ Stuttgart) und die Israel Defense Forces ( IDF) das Luftabwehr-Manöver Juniper-Cobra 2010/JC10. (18) In der zweieinhalbwöchigen Übung wurde in Israel die Einsatzbereitschaft zwischen israelischen und amerikanischen Luftabwehreinheiten trainiert – und abschließend mit scharfen Raketen getestet. Durch seine Teilnahme an diesem Manöver unterstrich US-Admiral Stavridis – in Personalunion Chef aller US-Streitkräfte in Europa und Oberkommandierender sämtlicher NATO-Streitkräfte - die Bedeutung dieses Kriegsspiels. Sollte es vielleicht auch den Iran einschüchtern?
Der Stellenwert der Bundesrepublik Deutschland für die strategischen Absichten der USA lässt sich aus den Angaben in der Base Structure Review 2008 des US-Verteidigungsministeriums ablesen: Von den 761 größeren US-Liegenschaften jenseits der US-Grenzen befinden sich 268 in Deutschland.
Mit weitem Abstand folgen Japan (124) und Südkorea (87). Von den etwa 150.454 dauerhaft in Übersee stationierten US-Soldaten findet sich das größte Kontingent mit 55.147 Soldaten (19) in der Bundesrepublik.
Ohne bereitwillige deutsche Unterstützung der amerikanischen Aktivitäten könnten die USA ihre Kriege im Irak oder in »AF-PAK« nicht führen. In Grafenwöhr werden die US-Truppen für ihren Einsatz im Irak ausgebildet und von hier aus in den Krieg geflogen. Zurück kommen sie häufig nur noch als Fleischklumpen oder dürfen in Deutschland genesen, um dann wieder zurück in den Krieg geschickt zu werden. Vor diesem Hintergrund mutet die in Deutschland an den Tag gelegte Teilnahmslosigkeit schon sehr zynisch.
Auch weitere Kriege in Eurasien werden nur dank deutscher Hilfe möglich sein. Bisher konnte die US-Armee und ihre Dienstleistungsunternehmen zivile deutsche Flughäfen für den Transport in ihre Kriegsgebiete unkontrolliert nutzen. Obwohl die deutsche Bundesregierung frühzeitig Kenntnis von Verschleppungen mutmaßlicher Terroristen und sogenannter »Gefangenen-Flüge« (Rendition-Flights) hatte, wurden derartige Menschentransporte im deutschen Luftraum nicht unterbunden. (20)
Hier steht die Bundesregierung in der Verantwortung.
Werden eines Tages die Bürger der Bundesrepublik für die absehbaren Konsequenzen amerikanischer Machtpolitik gerade stehen müssen?
Zum Auftakt seiner Fernostreise unterstrich Barack Obama in Tokio am 14. November 2009 den Anspruch auf die globale Führungsrolle der USA. In seiner Grundsatzrede kündigte er eine Ausweitung der US-Aktivitäten im asiatischen Raum an – soll hier die unter Clinton geborene »Seidenstraßenstrategie« weiter verfolgt werden? Mit dieser Strategie zielt die US-Politik darauf, ihre Wettbewerber im Ölgeschäft, darunter Russland, den Iran und China, zu schwächen und schließlich zu destabilisieren. Das wird im US-Kongressbericht auch ganz offen zugegeben:
»Zu den erklärten Zielen der US-Politik im Hinblick auf die Energieressourcen in dieser Region gehört es, [...] Russlands Monopol über die Öl- und Gastransportrouten zu brechen (21) [...] den Bau von Ost-West-Pipelines zu ermutigen, die nicht durch den Iran verlaufen, sowie zu verhindern, dass der Iran gefährlichen Einfluss auf die Wirtschaften Zentralasiens gewinnt (22)
Hinzu kommend würde ein Krieg gegen den Iran den USA eine viel solidere Militärbasis im Mittleren Osten als bisher verschaffen und den Einfluss auf Saudi-Arabien und andere Staaten des Mittleren Ostens verstärken. Die USA könnten damit dem gesamten Mittleren Osten ihre Bedingungen aufzwingen. Das werden aber Russland, China und Pakistan sowie auch Indien nicht zulassen.
Als weitere zentrale Themen sprach Obama die US-Stützpunkte in Japan sowie den Kampf gegen den Terrorismus an. Mit seiner Asientour scheint Obama zeigen zu wollen, dass die USA immer noch eine Führungsrolle in der Region innehaben. Angesichts der Finanzkrise, einer maroden Infrastruktur und eines bankrotten Haushaltes scheint das jedoch zunehmend illusorisch sein. Inzwischen sind die Vereinigten Staaten auf dem Finanz und Devisenmarkt von China und Japan abhängig, die gigantische Dollarreserven angehäuft haben. Sollte sich China vom US-Dollar als Leitwährung verabschieden oder gar einen Teil der Dollarreserven verkaufen, so würde das die USA vor große Probleme stellen.
Abkürzungen:
AOR: Area of Responsibility/Verantwortungsbereiche der US-Kommandos
AF-PAK: Afghanistan-Pakistan
AFRICOM: US-Kommandobereich Afrika
CENTCOM: Zentrale US-Kommandobereich
CNE-C6F: Combined Staff of U.S. Naval Forces Europe and Sixth Fleet
EUCOM: US-Kommandobereich Europa
IDF: Israel Defense Forces
NATO: North Atlantic Treaty Organization
USAREUR: US Army/Europa
Quellen:
(1) Zitiert aus »Japanese protest US base before Obama visit« in yahoo news unter: http://news.yahoo.com/s/afp/20091108/wl_asia_afp/japanusdiplomacymilitarydemonstration
(2) Patton, Mark: »Contract awarded for Wiesbaden USAREUR center«, in: Stars and Stripes, European edition, Tuesday, October 20, 2009, aufgerufen unter http://www.stripes.com/article.asp?section=104&article=65500
(3) Dougherty, Kevin: »An der USAREUR-Zukunft wird noch gebaut«, in: Stars and Stripes, 28.02.2008,
http://www.stripes.com/article.asp?section=104&article=60285&archive=true
(4) Camp Bondsteel ist modern ausgestattet und bietet zahlreiche Annehmlichkeiten und Einrichtungen des sozialen Lebens: ein Kino, Fitness-Studios, Sportplätze, zwei Kapellen, Bars, einen Supermarkt, mehrere Fastfood-Restaurants, Computer mit Internetanschluss und Videospiele. Im angeschlossenen Laura-Bush-Bildungszentrum können Kurse der University of Maryland und der University of Chicago belegt werden.
(5) Camp Bondsteel ist für Halliburton eine Goldgrube. Von 1995 bis 2000 zahlte die US-Regierung an Kellogg, Brown & Root 2,2 Milliarden US-Dollar für logistische Unterstützung im Kosovo, was der teuerste Vertrag der US-Geschichte ist. Die Kosten für Kellogg, Brown & Root machen fast ein Sechstel der auf dem Balkan für Operationen ausgegebenen Gesamtkosten aus.
(6) US-Präsident George am 24. Juli 2001 im Camp Bondsteel, unter: http://www.whitehouse.gov/news/releases/2001/07/20010724-1.html vom 23. Juli 2008
(7) Ähnliche Ideen hatten einst Friedrich Ratzel, Karl Haushofer und Carl Schmitt für den kontinentalen Raum entworfen.
(8) Brzezinski, Zbigniew: Second Chance. Three Presidents and the Crisis of American Superpower. New York 2007
(9) Vgl. Brzezinski 2007, S. 189
(10) Schon während des Irak-Krieges nutzten in Bulgarien die US-Streitkräfte einen Flugplatz und den Hafen Burgas, in Rumänien den Flugplatz Michail Kogalniceanu und den Hafen von Konstanza. Von diesem Zeitpunkt an wurde über eine Nutzung von Hafenanlagen bzw. Flugplätzen als Logistikstützpunkte in der Nähe der Schwarzmeerküste weiter diskutiert. Vgl. Ward Sanderson: »Laying the groundwork for new positioning«, European Stars and Stripes, 22.08.2004
(11) Balmasov, Sergey: »USA Prepares to Attack Russia in 3 or 4 Years?«, in: Pravda.Ru vom 23. Oktober 2009, abzurufen unter: http://english.pravda.ru/print/world/europe/110090-usa_russia-0
(12) Künftig untergliedern sich die US-Auslandsbasen in drei Kategorien: a) Main Operating Bases (große, ständig genutzte und mit größeren Einheiten und Verbänden belegte Standorte); b) Foward Operating (ständige Standorte, die in Krise und Krieg schnell aufwachsen können) sowie c) Cooperative Security Locations (auf dem Territorium der Gastgebernationen werden Standorte mit wenig US-Personal für bestimmte Operationen zur Verfügung gestellt). Hier können sich vornedisloziierte Waffen oder logistische Einrichtungen zur Unterstützung von Operationen im Einsatzland befinden. So trainieren britische und US-Truppen beispielsweise gelegentlich auf den polnischen Übungsplätzen Drawsko Pomorskij und Wedrzyn.
(13) »Africa is rising on US foreign policy horizon«, in: Alexander’s Oil and Gas Connections, News & Trends: North America, 23/2003
(14) Neben AFRICOM (der größte Teil Afrikas) bestehen fünf weitere US-Kommandozentralen: NORTHCOM (Nordamerika), SOUTHCOM (Mittel- und Südamerika), EUCOM (Europa, Russland), CENTCOM (Naher und Mittlerer Osten einschließlich Afghanistan und der zentralasiatischen ehemaligen Sowjetrepubliken sowie Nordostafrika) und PACOM (Pazifik, einschließlich China).
(15) Stout, David: »Bush Creates New Military Command in Africa« vom 6. Februar 2007 unter: http://nykrindc.blogspot.com/2007/02/president-bush-announces-creation-of.html (aufgerufen am 14. November 2009)
(16) Zitiert aus Mitsch, Thomas: »AFRICOM: Stuttgart wichtigste US-Basis im Wettlauf um Afrikas Öl«, in: AUSDRUCK – Das IMI-Magazin (April 2007).
(17) Mit dem nur fünf Tage vor dem Jugoslawienkrieg verabschiedeten sogenannten »Seidenstraßen-Strategiegesetz« (»Silk Road Strategy Act«) definierten die USA ihre umfassenden wirtschaftlichen und strategischen Interessen in einem militärisch abgesicherten breiten Korridor, der sich vom Mittelmeer bis nach Zentralasien erstreckt.
(18) »IDF and EUCOM Complete Joint Training Exercise For 20 days the two forces trained their cooperation in various defense exercises throughout Israel«, in: Jewish News Today vom 11. November 2009 unter http://www.jewishnews2day.com/jnt/cont.asp?code=8858&cat=uplinks
(19) Weiter aufgezählt sind 8.920 Zivilisten und 33.468 andere Personen (?)
(20) Schäfer, Paul: »Die US-Streitkräfte in Deutschland«, in Freitag, Nr. 15, vom 11. April 2008
(21) Diesem Denken entspringt der Plan, die Gaspipeline Nabucco südlich an Russland vorbeizuführen.
(22) Seidenstraßen-Strategiegesetz: »Silk Road Strategy Act of 1999« (H.R. 1152 – 106th Congress) Offizieller Titel: »Ta arnend the Foreign Assistance Act of 1961 to target assistance to support the econornic and political independence ofthe countries ofthe South Caucasus and Central Asia«. Im Mai 2006 modifiziert: »Silk Road Strategy Act of 2006 (S. 2749 – 109th Congress)«. Offizieller Titel: »A bill to update the Silk Road Strategy Act of 1999 to modify targeting of assistance in order to support the economic and political independence ofthe countries of Central Asia and the South Caucasus in recognition of political and economic changes in these regions since enactment of the original legislation.«
Mittwoch, 18.11.2009
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Sur le Japon: entretien avec le Prof. G. Fino
Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1998
Sur le Japon
Entretien avec le Prof. Giuseppe Fino
Aujourd’hui, la modernité a certes récupéré le Japon et l’a enveloppé dans sa grisaille, mais de temps en temps, un trait de lumière perce l’obscurité, nous rappelant un passé assez récent qui n’est pas encore complètement oublié. Le Professeur Giuseppe Fino vit au Japon. Il est l’auteur d’une étude sur Yukio Mishima (Mishima et la restauration de la culture intégrale). Nous lui avons posé quelques questions sur les “manifestations lumineuses qui rappellent la chaleur incandescente du Soleil Levant.
Q.: Il y a quelques temps, les journaux télévisés italiens ont évoqué l’épisode de ce soldat japonais qui considérait être encore en guerre, en dépit de la défaite de 1945. Que signifie le comportement de ce soldat pour les Japonais d’aujourd’hui?
R.: Au Japon aussi, les journaux télévisés ont rendu compte de la disparition de Yokoi Shoichi, le soldat japonais qui avait continué à “combattre” dans la jungle de l’Ile de Guam après 1945. Pour les Japonais de “gauche”, nés et élevés dans le climat pacifiste et démocratique de l’après-guerre, le comportement de Yokoi est difficilement compréhensible et acceptable: pour eux, c’est une manifestation du fanatisme qu’il faut taire ou dont il faut avoir honte. Pour les Japonais nés avant la guerre ou pour ceux qui ont encore la fibre patriotique, le comportement de Yokoi est exemplaire et héroïque. Pour les plus jeunes générations, en revanche, le nom de ce soldat ne dit hélas plus rien. Je voudrais ajouter une considération personnelle. Plus que Yokoi Shoichi, qui, en quelque sorte avait fini par s’accomoder au climat de l’après-guerre, je voudrais rendre hommage à l’un de ses camarades, Onada Hiroo, qui avait préféré abandonner le Japon consumériste et américanisé pour aller s’installer en Amérique du Sud et y “élever des veaux et des lapins”.
Q.: Dans le livre Tenchû (= Punition du ciel), paru aux éditions Sannô-kai, on décrit les événements qui ont conduit à la révolte des officiers de 1936. Existe-t-il aujourd’hui au Japon des forces politiques qui se souviennent de ces événements, de ces hommes et des idéaux de cette époque?
R.: Non, il n’y a absolument aucune réminiscence valable. L’insurrection des “Jeunes Officiers” du 26 février 1936 (Ni niroku jiken) n’est plus qu’un sujet de romans, d’essais et de films un peu nostalgiques. Les familles des “révoltés”, qui ont été exécutés, ont constitué des associations pour les réhabiliter mais aucun groupe politique ne se réfère plus à cette expérience, qualifiée de “pure néo-romantisme fasciste”. Enfin la droite japonaise extra-parlementaire considère que cet épisode est déshonorant et “hérétique”, car il n’a pas été approuvé par l’Empereur. Cela en dit long sur le conformisme qui règne au japon. Mishima est le seul à avoir donné en exemple le sacrifice de ces “Jeunes Officiers” et à les avoir réhabilité dans l’après-guerre.
Q.: Mishima est l’auteur japonais le plus traduit en Europe, mais la plus grande partie de ses lecteurs se contente de l’aspect narratif de ses œuvres. Prof. Fino, vous êtes le seul à avoir reconstitué les racines culturelles de l’œuvre de Mishima dans Mishima et la restauration de la culture intégrale; pouvez-vous nous synthétiser les points essentiels de sa vision du monde?
R.: Les racines culturelles de Mishima sont nombreuses et complexes. Dans sa jeunesse, il a fait partie du mouvement néo-romantique de Yasuda Yojuro et du poète Ito Shizuo, mais il a surtout été influencé par Hasuda Zenmei, le théoricien de la “belle mort”. Dans l’après-guerre, après une période de réflexion et d’activité littéraire un peu “intimiste” et “autobiographique”, Mishima s’est mis à redécouvrir et réinterpréter la culture japonaise (Nipponjin-ron; = Débats sur les Japonais). Dans son essai Défense de la culture (1969), Mishima découvre trois caractéristiques de cette culture japonaise, à ses yeux essentielles: la cyclicité, la totalité et la subjectivité. Pour Mishima, l’action, elle aussi, est culture. La forme la plus élevée de la culture est le bunburyodo, l’union de l’art et de l’action. Mishima retrouve aussi, dans la foulée, la philosophie activiste et intuitive du Wang Yang-ming (en japonais: Yomeigaku), le bushido intégral de l’Hagakure (Cf. Il pazzo morire, ed. Sannô-kai), le traditionalisme ou l’anti-modernisme du Shinpuren (La Ligue du Vent Divin) et l’idéalisme impérialiste et romantique des “Jeunes Officiers” du Ni niroku jiken. Au centre de la pensée de Mishima demeure toutefois l’Empereur comme concept culturel suprême, corollaire de son opposition politique contre-révolutionnaire et de son implacable critique de l’intellectualisme pacifiste et démocratique de l’après-guerre.
Q.: En Occident, c’est devenu une habitude de pratiquer des disciplines physiques extrême-orientales, tantôt comme pratiques sportives tantôt comme disciplines martiales. Cependant, je doute qu’il soit resté beaucoup d’éléments originaux dans ces disciplines telles qu’elles sont pratiquées en Occident. Qu’en est-il au Japon?
R.: La situation au Japon n’est guère différente. Surtout pour le judo et le karaté, il devient de plus en plus difficile de trouver des palestres donnant tout son poids à l’aspect “spirituel” de ces disciplines qui ne sont pas seulement sportives et agonales. La situation est légèrement meilleure dans les palestres de kendo et d’aikido. Elle est satisfaisante dans ceux qui s’adonnent au kyudo (tir à l’arc) et au i-ai (discipline de l’épée nue). Telle est du moins mon impression. Je dois vous confesser que je n’ai jamais fréquenté que les salles de judo...
Q.: Est-il possible de recevoir du Japon ultra-technologique d’aujourd’hui des enseignements valables pour l’Homme de la Tradition?
R.: Oui, il existe des possibilités, mais elles sont limitées à quelques monastères Zen et à quelques palestres d’arts martiaux, justement ceux qui sont influencés par la pensée Zen. Il faudrait une bonne dose de patience et de chance avant de trouver le Maître juste et le milieu adapté. Pour ceux qui voudraient éventuellement pratiquer le Zen, je conseille un engagement inconditionnel à long terme, si possible auprès des monastères de l’Ecole ou de l’Ordre Rinzai.
(propos parus dans la revue Margini, n°21/juin 1998; adresse: Margini, Libreria Ar, CP 53, Salerno).
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samedi, 21 novembre 2009
Madiale Märchenstunde - für eine Handvoll Dollar
Mediale Märchenstunde – für eine Handvoll Dollar
Die Vereinigten Staaten haben mehrfach ganz offiziell erklärt, dass sie Propagandaabteilungen unterhalten, die mediale Stimmung für die US-Einsätze im Irak und in Afghanistan machen sollen. Mitunter lügt man bei solchen Propagandageschichten; auch das ist aus der Sicht der Amerikaner legitim. Und immer wieder fallen die großen »Nachrichtenmagazine« auf die US-Propaganda herein und verbreiten sie bereitwillig. Nun gibt es wieder eine solche Geschichte aus der US-Propagandaabteilung. Und die britische Regierung lügt lieber erst gar nicht mehr, sie teilt der Bevölkerung jetzt ganz offen mit, dass man Menschen kauft – mit Bestechungsgeldern …
Zehn Dollar zahlen die Taliban in Afghanistan pro Tag jedem, der auf ihrer Seite kämpft. Es scheint viele zu geben, die das Geld nehmen und für die Taliban kämpfen. Die ausländischen Truppen stehen jedenfalls vielen Taliban-Kämpfern gegenüber. Die Briten haben nun eine offizielle Dienstanweisung für Afghanistan herausgegeben, die einen neuen Weg zeigt, wie man britisches Leben bis zum Rückzug der britischen Armee aus Afghanistan schont: Die Briten sollen in Afghanistan einfach mehr Geld als die Taliban zahlen. Kämpfer abkaufen heißt die neue Devise. Und wenn Dollar nicht weiterhelfen, weil der Dollarkurs ja ständig verfällt, dann sollen die Briten stets einige Goldstücke bei sich haben und die Taliban-Kämpfer mit Gold aufkaufen. Ein Scherz? Nein, keine Satire, sondern die Realitiät. Die Londoner Times berichtete heute unter der Überschrift »Army tells its soldiers to ›bribe‹ the Taleban« darüber. In dem Bericht heißt es: »British forces should buy off potential Taleban recruits with ›bags of gold‹, according to a new army field manual published yesterday.« Das lässt tief blicken. Anstelle von Munitionstransporten nach Afghanistan wird es also jetzt Gold- und Geldtransporte nach Afghanistan geben. Wem will/kann man das in der europäischen Normalbevölkerung noch erklären?
Muss man auch nicht. Die großen Propagandaabteilungen sorgen ja schon dafür, dass die Menschen in westlichen Staaten noch irgendwie an die Notwendigkeit einer Kriegführung in Afghanistan glauben. Vor wenigen Tagen haben die Propagandaabteilungen wieder einmal Meisterliches vollbracht …
Terroranschläge vom 11. September 2001 – »Pass von 9/11-Helfer in Pakistan aufgetaucht« berichtete das ehemalige Nachrichtenmagazin Spiegel unlängst. In dem Artikel heißt es: »Nun ist seit Jahren die erste Spur von Said Bahaji aufgetaucht. Bei einer von der Armee organisierten Fahrt ins Kampfgebiet von Südwaziristan zeigten pakistanische Soldaten kürzlich Journalisten den deutschen Pass von Said Bahaji, den sie laut eigenen Angaben in einem der Häuser von Extremisten gefunden haben.« Auch die New York Times und andere renommierte Zeitungen erklärten ihren Lesern in jenen Tagen eine angebliche direkte Verbindung zwischen dem »Rückzugsgebiet« der Taliban und den Planern der Terroranschläge des 11. September 2001. Googelt man den Bericht der New York Times, dann findet man ihn wortgleich in 5.785 anderen Medien. Beim Lesen solcher Berichte brennt sich dem Durchschnittsleser tief ins Gedächtnis ein: Taliban = Anschläge vom 11. September 2001. Egal wie rückständig die Steinzeitislamisten der Taliban (die man heute mit Geld und Gold aufzukaufen versucht) auch sein mögen, sie haben angeblich irgendwie etwas mit Terrorplanungen zu tun. Die tiefenpsychologische Aussage dahinter lautet für den Leser: Wenn wir die Taliban in ihren »Rückzugsgebieten« jetzt nicht mit aller Macht bekämpfen, dann gibt es neue Terroranschläge in westlichen Staaten. Man suggeriert den Menschen, dass Terroranschläge in Afghanistan geplant werden. Moslem-Terroristen wie Nidal Malik Hasan, der gerade erst in Fort Hood/Texas unter Berufung auf den Islam viele Muslime ermordete, passen da nicht ins Bild. Nicht einer der Terroranschläge der letzten Jahre ist in Afghanistan oder gar von den Taliban geplant worden. Die Planer der Anschläge von Madrid, von London, die vielen aufgedeckten und verhinderten Anschläge in Deutschland – immer waren die Terroristen heimische Moslems. Das aber will man nicht wahrhaben.
Wenn man Bevölkerungen einen Krieg schmackhaft machen will, dann braucht man vielmehr Behauptungen, die irrationale Ängste schüren. Dummerweise wurden aber auch die Terroanschläge des 11. September 2001 nicht in Afghanistan und nicht in einem »Rückzugsgebiet« der Taliban geplant, sondern in Hamburg/Deutschland, in Frankreich, in Sarasota/Florida und in Falls Chruch/Virginia. Und auch das Geld kam nicht aus dem »Rückzugsgebiet« der Taliban, sondern aus Saudi-Arabien. Doch der Krieg wird heute weder gegen Saudi-Arabien, noch gegen Hamburg (Deutschland), Frankreich, Sarasota (Florida) oder Falls Chruch (Virginia) geführt.
Der US-Nachrichtensender CBS berichtet in diesen Tagen (zum Ärger von Präsident Obama), dass die amerikanische Regierung die Zahl der in Afghanistan und im Irak stationierten US-Soldaten auf mehr als 100.000 erhöhen wolle. Je mehr amerikanische und andere westliche Soldaten man in die Region bringt, umso größer wird die Gefahr von Terroranschlägen in westlichen Staaten – das hat gerade erst das Blutbad von Fort Hood/Texas gezeigt, bei dem der muslimische Major Nidal Malik Hasan aus Wut über die geplante Truppenverstärkung seine Kameraden ermordete. Er wurde nicht aus dem »Rückzugsgebiet« der Taliban gesteuert. Man befürchtet in den USA jetzt, dass alle US-Moslems künftig von den Amerikanern nur noch als Terroristen gesehen werden.
Zurück zum Anfang dieser Geschichte. Die vielen Berichte über einen angeblich gefundenen Pass eines Terrorplaners im »Rückzugsgebiet« der Taliban enthalten nicht eine neue Information. Denn die Tatsache, dass Said Bahaji sich dort aufhält, ist (wie auch der Spiegel in dem Bericht »Pass von 9/11-Helfer in Pakistan aufgetaucht« eingesteht) seit Jahren schon bekannt. Die Veröffentlichung ist ein Propagandaerfolg der Amerikaner. Der Widerstand gegen die Ausweitung des Krieges in der Bevölkerung könnte mit solchen Berichten geringer werden. Die US-Propagandaabteilungen und die Berliner Regierung, die beide die Ausweitung des Krieges und die Entsendung weiterer Truppen planen, werden sich über solche Berichterstattung freuen.
Man kennt das ja alles – erinnern Sie sich: Da gab es vor Jahren die gleichen Propaganda-Berichte über Saddam Hussein und den Irak. Von dort aus seien die Terroranschläge des 11. September 2001 angeblich geplant worden. Man verbreitete das allen Ernstes. Und es wurde gedruckt. Heute ist allein die Erinnerung an diesen Blödsinn peinlich. Unterdessen können heute in aller Ruhe Menschen in Dubai, Hamburg oder den USA Terroranschläge planen. Soldaten, die man in das »Rückzugsgebiet« der Taliban entsendet, werden das nicht verhindern können.
Und die Taliban in Afghanistan? Die kauft man jetzt für eine Handvoll Dollar auf. Das ist angeblich moderne Terrorabwehr. Eigentlich könnte man die westlichen Soldaten doch nun komplett aus Afghanistan zurückziehen. Man braucht doch jetzt nur noch einen westlichen Zahlmeister, der Tag für Tag mehr als 10 Dollar an jeden Ex-Taliban-Kämpfer auszahlt …
Dienstag, 17.11.2009
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"Aventure Japon": la "bi-civilisation"
Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1997
«Aventure Japon»: la “bi-civilisation”
Spécialiste du Japon, Robert Guillain publie Aventure Japon, une approche très vivante de cette “bi-civilisation” qu'il évoque ainsi: «La bicivilisation, voilà selon moi l'invention majeure du Japon. Ce monsieur que voici, ce monsieur “derrière sa cravate”, comme j'aime à le décrire, est à première vue devenu le semblable de l'ingénieur, de l'industriel, du professeur français, européen, occidental. Mais qu'on ne s'y trompe pas: il a derrière lui —lui-même n'y pense pas et ne s'en doute même pas— une culture et une civilisation complètement différentes des nôtres. Grattez un peu, et ses racines, son pedigree, si je peux dire, le situent dans un monde qui a peu de traits communs avec le nôtre (...). Le bicivilisé peut dans tous les domaines de la vie quotidienne et de la culture nous présenter des réalisations tout à fait différentes des nôtres, et qui souvent semblent nous dire: il y avait une solution autre que la vôtre, la voici. Elle a plus de mille ans! C'est ainsi qu'au Japon tout est en double, à commencer par la façon de vivre la vie quotidienne, de se loger, de se nourrir, de s'habiller. Deux sortes de repas, menu occidental et menu japonais; deux types de maisons, la maison japonaise avec toutes ses merveilles —comme les armoires dans le mur— et la maison ordinaire, semblable aux nôtres; deux couches où dormir, le lit et le tatami, deux vêtements, le kimono et le complet-veston ou la robe de style “parisien”; deux sortes d'instruments pour écrire, le pinceau et la plume; deux peintures, noir et blanc “à la chinoise” et peinture en couleurs; deux types d'hôtelleries, l'hôtel occidental et l'auberge japonaise avec ses qualités et ses défauts; deux sortes de musique, fondamentalement dissemblables du point de vue de ia composition et de l'exécution, et certaines viennent du fond des âges, et du fond de l'Asie. Voilà le Japonais bicivilisé. Bicivilisé comme d'autres sont bilingues. Est-ce là une façon d'être qui ne durera qu'un temps, déjà impraticable dans un pays moderne, aligné sur le modèle des grandes nations? Je ne le crois pas. Le Japon n'est pas une deuxième Amérique aux yeux bridés, il reste le pays du dédoublement, prodigieusement intéressant par son appartenance durable à la fois à l'Extrême-Occident et à l'Extrême-Orient. Le pays bicivilisé ne s'embarasse pas des contradictions qui en résultent. Il est le pays de la coexistence des contraires. Il est le pays où le contraire aussi est vrai. Si j'affirme que le Japon aime la nature, on m'opposera toutes les atteintes qu'il lui fait subir. Le bicivilisé se soucie peu de logique. Pour lui, une des lois du réel peut se formuler en trois mots: “C'est comme ça”. Et portant, s'il est un moment où le Japon ne demeure pas “comme çà” mais entre sur la voie des changements multiples, profonds, c'est bien le moment présent».
Jean de BUSSAC.
Robert GUILLAIN, Aventure Japon, Editions Arléa, 1997, 436 pages, 165 FF.
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jeudi, 19 novembre 2009
La geopolitica nascosta dietro la guerra bidone degli Stati Uniti in Afghanistan
La geopolitica nascosta dietro la guerra bidone degli Stati Uniti in Afghanistan
di F.William Engdahl
da mondialisation.ca / http://www.italiasociale.org/
Traduzione a cura di Stella Bianchi - italiasociale.org
Uno degli aspetti più rilevanti e diffusi del programma presidenziale di Obama negli Stati Uniti è che poche persone nei media o altrove mettono in discussione la ragione dell’impegno del Pentagono nell’occupazione dell’Afghanistan.
Esistono due ragioni fondamentali e nessuna delle due può essere apertamente svelata al grande pubblico.
Dietro ogni ingannevole dibattito ufficiale sul numero delle truppe necessarie per “vincere” la guerra in Afghanistan, se 30.000 soldati siano più che sufficienti o se ce ne vorrebbero almeno 200.000, viene celato lo scopo reale della presenza militare statunitense nel paese perno dell’Asia centrale
Durante la sua campagna presidenziale del 2008, il candidato Obama ha anche affermato che era l’Afghanistan, e non l’Irak, il luogo in cui gli Stati Uniti dovevano fare la guerra.
Qual’era la ragione?Secondo lui era l’organizzazione Al Qaeda da eliminare ed era quella la vera minaccia per la sicurezza nazionale.Le ragioni del coinvolgimento statunitense in Afghanistan comunque sono completamente differenti.
L’esercito Usa occupa l’Afghanistan per due ragioni: prima di tutto lo fa per ristabilire il controllo della più grande fornitura mondiale di oppio nei mercati internazionali dell’eroina e in secondo luogo lo fa per utilizzare la droga come arma contro i suoi avversari sul piano geopolitico, in particolare contro la Russia.
Il controllo del mercato della droga afghana è fondamentale per la liquidità della mafia finanziaria insolvente e depravata di Wall Street.
La geopolitica dell’oppio afghano.
Secondo un rapporto ufficiale dell’Onu, la produzione dell’oppio afghano è aumentata in maniera spettacolare dalla caduta del regime talebano nel 2001.
I dati dell’Ufficio delle droghe e dei crimini presso le Nazioni Unite dimostrano che c’è stato un aumento di coltivazioni di papavero durante ognuna delle ultime quattro stagioni di crescita(2004-2007) rispetto ad un intero anno passato sotto il regime talebano.
Attualmente molti più terreni sono adibiti alla coltura dell’oppio in Afghanistan rispetto a quelli dedicati alla coltura della coca in America Latina.
Nel 2007 il 93% degli oppiacei del mercato mondiale provenivano dall’Afghanistan.E questo dato non è casuale.
E’ stato dimostrato che Washington ha accuratamente scelto il controverso Hamid Garzai che era un comandante guerriero pashtun della tribù Popalzai il quale è stato per molto tempo al servizio della Cia e che, una volta rientrato dal suo esilio dagli Stati Uniti è stato costruito come una mitologia holliwoodiana, autore della sua”coraggiosa autorità sul suo popolo”.
Secondo fonti afghane,Hamid Garzai è attualmente il “padrino” dell’oppio afghano.
Non è affatto un caso che è stato ed è ancora a tutt’oggi l’uomo preferito da Washington per restare a Kabul.
Tuttavia , anche con l’acquisto massiccio dei voti,la frode e l’intimidazione, i giorni di Garzai come presidente potrebbero finire.
A lungo , dopo che il mondo ha dimenticato chi fosse il misterioso Osama Bin Laden e ciò che Al Quaeda, rappresentasse-ci si chiede ancora se questi esistano veramente- e il secondo motivo dello stanziamento dell’esercito Usa in Afghanistan appare come un pretesto per creare una forza d’urto militare statunitense permanente con una serie di basi aeree fissate in Afghanistan.
L’obiettivo di queste basi non è quello di far sparire le cellule di Al Qaeda che potrebbero esser sopravvissute nelle grotte di Tora Bora o di estirpare un “talebano”mitico, che, secondo relazioni di testimoni oculari è attualmente composto per la maggior parte da normali abitanti afgHani in lotta ancora una volta per liberare le loro terre dagli eserciti occupanti, come hanno già fatto negli anni
80 contro i Sovietici.
Per gli Stati Uniti, il motivo di avere delle basi afghane è quello di tener sotto tiro e di essere capaci di colpire le due nazioni al mondo che messe insieme, costituiscono ancora oggi l’unica minaccia al loro potere supremo internazionale e all’America’s Full Spectrum Dominance (Dominio Usa sotto tutti i punti di vista) così come lo definisce il Pentagono.
La perdita del “Mandato Celeste”.
Il problema per le élites al potere (Élite è un eufemismo sempre più usato per designare individui privi di scupoli pronti a qualsiasi cosa pur di realizzare le proprie ambizioni..quasi un sinonimo di psicopatologia) a Wall Street e a Washington,è il fatto che questi siano sempre più impantanati nella più profonda crisi finanziaria della loro storia.
Questa crisi è fuor di dubbio per tutti e il mondo agisce a favore della propria sopravvivenza.
L’élite statunitense ha perso ciò che nella storia imperiale cinese è conosciuto come Mandato Celeste.
Questo mandato è conferito ad un sovrano o ad una ristretta cerchia regnante a condizione che questa diriga il suo popolo con giustizia ed equità.
Quando però questa cerchia regna esercitando la tirannia e il dispotismo, opprimendo il proprio popolo abusandone,a questo punto essa perde il Mandato Celeste.
Se le potenti élites, ricche del privato che hanno controllato le politiche fondamentali (finanziaria e straniera) almeno per la maggior parte del secolo scorso ,hanno ricevuto il mandato celeste, è evidente che allo stato attuale lo hanno perso.
L’evoluzione interna verso la creazione di uno stato poliziesco ingiusto, con cittadini privati dei loro diritti costituzionali, l’esercizio arbitrario del potere da parte di cittadini non eletti, come il ministro delle Finanze Henry Paulson e attualmente Tim Geithner , che rubano milioni di dollari del contribuente senza il suo consenso per far regredire la bancarotta delle più grandi banche di Wall Street, banche ritenute”troppo grosse per colare a picco” tutto ciò dimostra al mondo che esse hanno perduto il mandato.
In questa situazione, le élite al potere sono sempre più disperate nel mantenere il proprio controllo sotto un impero mondiale parassitario, falsamente denominato”mondializzazione” dalla loro macchina mediatica.
Per mantenere la loro influenza è essenziale che gli Stati Uniti siano capaci di interrompere ogni collaborazione nascente nel settore economico , energetico o militare tra le due grandi potenze dell’Eurasia le quali, teoricamente potrebbero rappresentare una futura minaccia nel controllo dell’unica super potenza :la Cina associata alla Russia.
Ogni potenza eurasiatica completa il quadro dei contributi essenziali.
La Cina è l’economia più solida al mondo, costituita da una immensa manodopera giovane e dinamica e da una classe media ben educata.
La Russia, la cui economia non si è ripresa dalla fine distruttrice dell’era sovietica e dagli ingenti saccheggi avvenuti nell’era di Eltsin, possiede sempre i vantaggi essenziali per l’associazione.
La forza d’urto nucleare della Russia e il suo esercito rappresentano l’unica minaccia nel mondo attuale per il dominio militare degli Stati Uniti anche se sono in gran parte dei residui della Guerra Fredda.Le élite dell’esercito russo non hanno mai rinunciato a questo potenziale.
La Russia possiede anche il più grande tesoro al mondo che è il gas naturale e le sue immense riserve di petrolio di cui la Cina ha imperiosamente bisogno.
Queste due potenze convergono sempre più tramite una nuova organizzazione creata da loro nel 2001, conosciuta sotto il nome di Organizzazione di Cooperazione di Shanghai (Ocs).
Oltre alla Cina e alla Russia ,l’Ocs comprende anche i più grandi paesi dell’Asia Centrale, il Kazakistan, il Kirghizistan,il Tagikistan e l’Uzbekistan.
Il motivo addotto dagli Stati Uniti nella guerra contro i Talebani e allo stesso tempo contro Al Qaeda consiste in realtà nell’insediare la loro forza d’urto militare direttamente nell’Asia Centrale,in mezzo allo spazio geografico della crescente Ocs.
L’Iran rappresenta una diversione,una distrazione.Il bersaglio principale sono la Russia e la Cina.
Ufficialmente Washington afferma con certezza di aver stabilito la sua presenza militare in Afghanistan dal 2002 per proteggere la”fragile”democrazia afghana.
Questo è un bizzarro argomento, quando si và a considerare la sua presenza militare laggiù.
Nel dicembre 2004, durante una visita a Kabul, il ministro della Guerra Donald Rumsfeld ha finalizzato i suoi progetti di costruzione di nove nuove basi in Afghanistan, nelle province di Helmand,Herat,Nimrouz,Balkh,Khost e Paktia.
Le nove si aggiungeranno alle tre principali basi militari già installate in seguito all’occupazione dell’Afghanistan durante l’inverno 2001-2002 pretestualmente per isolare e delimitare la minaccia terroristica di Osama Bin Laden.
Il Pentagono ha costruito le sue tre prime basi su gli aerodromi di Bagram, a nord di Kabul, il suo principale centro logistico militare; a Kandar nel sud dell’Afghanistan; e a Shindand nella provincia occidentale di Herat.
Shindand è la sua più grande base afghana ed è costruita a soli 100 kilometri dalla frontiera iraniana a portata di tiro dalla Russia e dalla Cina.
L’Afghanistan è storicamente in seno al grande gioco anglo-russo, e rappresenta la lotta per il controllo dell’Asia Centrale a cavallo tra il diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo.
A quel tempo la strategia britannica era quella di impedire ad ogni costo alla Russia di controllare l’Afghanistan,perché ciò avrebbe costituito una minaccia per la perla della corona imperiale britannica, l’India.
L’Afghanistan è considerato come altamente strategico dai pianificatori del Pentagono.
Esso costituisce una piattaforma da cui la potenza militare statunitense potrebbe minacciare direttamente la Russia e la Cina così come l’Iran e gli altri ricchi paesi petroliferi del Medio Oriente.
Poche cose sono cambiate sul piano geopolitico in oltre un secolo di guerre.
L’Afghanistan è situato in una posizione estremamente vitale, tra l’Asia del Sud , l’Asia Centrale ed il Medio Oriente.
L’Afghanistan è anche ubicato lungo l’itinerario esaminato per l’oleodotto che và dalle zone petrolifere del mar Caspio fino all’Oceano Indiano luogo in cui la società petrolifera statunitense Unocal,insieme ad Eron e Halliburton de Cheney avevano avuto trattative per i diritti esclusivi del gasdotto che invia gas naturale dal Turkmenistan attraverso l’Afghanistan e il Pakistan, per convogliarlo nell’immensa centrale elettrica( a gas naturale) della Enron a Dabhol, vicino a Mumbai(Bombay).
Prima di diventare il presidente fantoccio mandato degli Stati Uniti,Garzai era stato un lobbista della Unocal.
Al Qaeda esiste solo come minaccia.
La verità attinente tutto questo imbroglio che gira intorno al vero scopo che ha spinto gli Stati Uniti in Afghanistran ,diventa evidente se si esamina da vicino la pretesa minaccia di “Al Qaeda” laggiù.
Secondo l’autore Eric Margolis, prima degli attentati dell’ 11 settembre 2001 i Servizi Segreti statunitensi accordavano assistenza e sostegno sia ai talebani che ad Al Qaeda.
Margolis afferma che la”Cia progettava di utilizzare Al Qaeda di Osama Bib Laden per incitare alla rivolta gli Ouigours mussulmani (popolo turco dell’Asia Centrale ndt) contro la dominazione cinese di Pekino nel luglio scorso e di sollevare i talebani contro gli alleati della Russia in Asia Centrale”.
Gli Stati Uniti hanno manifestamente trovato altri mezzi per sobillare gli Ouigours usando come intermediario il proprio sostegno al Congresso mondiale Ouigour.
Ma la “minaccia” di Al Qaeda rimane il punto chiave di Obama per giustificare l’intensificazione della sua guerra in Afghanistan.
Ma per il momento ,James Jones, consigliere per la sicurezza nazionale del Presidente Obama, ex generale della Marina, ha rilasciato una dichiarazione opportunamente insabbiata dagli amabili media statunitensi , sulla valutazione dell’importanza del pericolo rappresentato attualmente da Al Qaeda in Afghanistan.
Jones ha dichiarato al Congresso che”La presenza di Al Qaeda si è molto ridotta.La valutazione massimale è inferiore a 100 addetti nel paese, nessuna base, nessuna capacità nel lanciare attacchi contro di noi o contro gli alleati”.
Ad ogni buon conto, tutto ciò significa che Al Qaeda non esiste in Afghanistan…accidenti…
Anche nel Pakistan vicino, i resti di Al Qaeda non sono stati quasi più riscontrati.
Il Wall Street Journal segnala :”Cacciati dai droni statunitensi, angosciati da problemi di denaro e in preda a gravi difficoltà nel reclutare giovani arabi tra le cupe montagne del Pakistan,Al Qaeda vede rimpicciolire di molto il suo ruolo laggiù in Afghanistan, “ questo secondo informazioni dei Servizi Segreti e dei responsabili pakistani e statunitensi.
Per i giovani arabi che sono i principali reclutati da Al Qaeda, “ non esiste un’utopica esaltazione nell’ aver freddo e fame e nel nascondersi” –ha dichiarato un alto responsabile statunitense nell’Asia del Sud.”.
Se capiamo le conseguenze logiche di questa dichiarazione, dobbiamo dunque concludere che il fatto per cui giovani soldati tedeschi e altri della Nato muoiono nelle montagne afghane, non ha nulla a che vedere con lo scopo di “vincere una guerra contro il terrorismo”.
Opportunamente, la maggior parte dei media scieglie di dimenticare il fatto che Al Qaeda, nella misura in cui questa organizzazione è esistita, era una creazione della Cia negli anni 80.
Questa reclutava e addestrava alla guerra mussulmani radicali pescati dalla totalità del mondo islamico contro le truppe russe in Afghanistan. nel quadro di una strategia elaborata da Bill Casey, capo della Cia sotto Reagan , per creare un “nuovo Viet-nam” per l’’Unione Sovietica che sarebbe poi sfociato nell’umiliante disfatta dell’Armata Rossa e nel fallimento finale dell’Unione Sovietica.
James Jones, gestore del National Security Council riconosce attualmente che non esiste praticamente più nessun membro di Al Qaeda in Afghanistan.
Forse sarebbe ora e tempo di chiedere una spiegazione più onesta ai nostri dirigenti politici sulla vera ragione dell’invio di altri giovani in Afghanistan,solo per mandarli a morire per proteggere le coltivazioni di oppio.
F.William Endhal è l’autore di diverse opere come:
Ogm:Semi di distruzione:l’arma della fame ; e Petrolio, la guerra di un secolo:l’Ordine mondiale anglo-americano
Per contattare l’autore: www.engdhal.oilgeopolitics.net
07/11/2009
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dimanche, 15 novembre 2009
Why Does The U.S. Have An Empire in Asia?
Why Does The U.S. Have An Empire In Asia?
By Paul Craig Roberts / http://vdare.com/
The US government is now so totally under the thumbs of organized interest groups that "our" government can no longer respond to the concerns of the American people who elect the president and the members of the House and Senate.
Voters will vent their frustrations over their impotence on the president, which implies a future of one-term presidents. Soon our presidents will be as ineffective as Roman emperors in the final days of that empire.
Obama is already set on the course to a one-term presidency. He promised change, but has delivered none. His health care bill is held hostage by the private insurance companies seeking greater profits. The most likely outcome will be cuts in Medicare and Medicaid in order to help fund wars that enrich the military/security complex and the many companies created by privatizing services that the military once provided for itself at far lower costs. It would be interesting to know the percentage of the $700+ billion "defense" spending that goes to private companies. In American "capitalism," an amazing amount of taxpayers’ earnings go to private firms via the government. Yet, Republicans scream about "socializing" health care.
Republicans and Democrats saw opportunities to create new sources of campaign contributions by privatizing as many military functions as possible. There are now a large number of private companies that have never made a dollar in the market, feeding instead at the public trough that drains taxpayers of dollars while loading Americans with debt service obligations.
Obama inherited an excellent opportunity to bring US soldiers home from the Bush regime’s illegal wars of aggression. In its final days, the Bush regime realized that it could "win" in Iraq by putting the Sunni insurgents on the US military payroll. Once Bush had 80,000 insurgents collecting US military pay, violence, although still high, dropped in half. All Obama had to do was to declare victory and bring our boys home, thanking Bush for winning the war. It would have shut up the Republicans.
But this sensible course would have impaired the profits and share prices of those firms that comprise the military/security complex. So instead of doing what Obama said he would do and what the voters elected him to do, Obama restarted the war in Afghanistan and launched a new one in Pakistan. Soon Obama was echoing Bush and Cheney’s threats to attack Iran.
In place of health care for Americans, there will be more profits for private insurance companies.
In place of peace there will be more war.
Voters are already recognizing the writing on the wall and are falling away from Obama and the Democrats. Independents who gave Obama his comfortable victory have now swung against him, recently electing Republican governors in New Jersey and Virginia to succeed Democrats. This is a protest vote, not a confidence vote in Republicans.
Obama’s credibility is shot. And so is Congress’s, assuming it ever had any. The US House of Representatives has just voted to show the entire world that the US House of Representatives is nothing but the servile, venal, puppet of the Israel Lobby. The House of Representatives of the American "superpower" did the bidding of its master, AIPAC, and voted 344 to 36 to condemn the Goldstone Report.
In case you don’t know, the Goldstone Report is the Report of the United Nations Fact Finding Mission on the Gaza Conflict. The "Gaza Conflict" is the Israeli military attack on the Gaza ghetto, where 1.5 million dispossessed Palestinians, whose lands, villages, and homes were stolen by Israel, are housed. The attack was on civilians and civilian infrastructure. It was without any doubt a war crime under the Nuremberg standard that the US established in order to execute Nazis.
Goldstone is not only a very distinguished Jewish jurist who has given his life to bringing people to accountability for their crimes against humanity, but also a Zionist. However, the Israelis have demonized him as a "self-hating Jew" because he wrote the truth instead of Israeli propaganda.
US Representative Dennis Kucinich, who is now without a doubt a marked man on AIPAC’s political extermination list, asked the House if the members had any realization of the shame that the vote condemning Goldstone would bring on the House and the US government. (View here). The entire rest of the world accepts the Goldstone report.
The House answered with its lopsided vote that the rest of the world doesn’t count as it doesn’t give campaign contributions to members of Congress.
This shameful, servile act of "the world’s greatest democracy" occurred the very week that a court in Italy convicted 23 US CIA officers for kidnapping a person in Italy. The CIA agents are now considered "fugitives from justice" in Italy, and indeed they are.
The kidnapped person was renditioned to the American puppet state of Egypt, where the victim was held for years and repeatedly tortured. The case against him was so absurd that even an Egyptian judge order his release.
One of the convicted CIA operatives, Sabrina deSousa, an attractive young woman, says that the US broke the law by kidnapping a person and sending him to another country to be tortured in order to manufacture another "terrorist" in order to keep the terrorist hoax going at home. Without the terrorist hoax, America’s wars for special interest reasons would become transparent even to Fox "News" junkies.
Ms. deSousa says that "everything I did was approved back in Washington," yet the government, which continually berates us to "support the troops," did nothing to protect her when she carried out the Bush regime’s illegal orders.
Clearly, this means that the crime that Bush, Cheney, the Pentagon, and the CIA ordered is too heinous and beyond the pale to be justified, even by memos from the despicable John Yoo and the Republican Federalist Society.
Ms. deSousa is clearly worried about herself. But where is her concern for the innocent person that she sent into an Egyptian hell to be tortured until death or admission of being a terrorist?
The remorse deSousa expresses is only for herself. She did her evil government’s bidding and her evil government that she so faithfully served turned its back on her. She has no remorse for the evil she committed against an innocent person.
Perhaps deSousa and her 22 colleagues grew up on video games. It was great fun to plot to kidnap a real person and fly him on a CIA plane to Egypt. Was it like a fisherman catching a fish or a deer hunter killing a beautiful 8-point buck? Clearly, they got their jollies at the expense of their renditioned victim.
The finding of the Italian court, and keep in mind that Italy is a bought-and-paid-for US puppet state, indicates that even our bought puppets are finding the US too much to stomach.
Moving from the tip of the iceberg down, we have Ambassador Craig Murray, rector of the University of Dundee and until 2004 the UK Ambassador to Uzbekistan, which he describes as a Stalinist totalitarian state courted and supported by the Americans.
As ambassador, Murray saw the MI5 intelligence reports from the CIA that described the most horrible torture procedures. "People were raped with broken bottles, children were tortured in front of their parents until they [the parents] signed a confession, people were boiled alive."
"Intelligence" from these torture sessions was passed on by the CIA to MI5 and to Washington as proof of the vast al Qaeda conspiracy.
Ambassador Murray reports that the people delivered by CIA flights to Uzbekistan’s torture prisons "were told to confess to membership in Al Qaeda. They were told to confess they’d been in training camps in Afghanistan. They were told to confess they had met Osama bin Laden in person. And the CIA intelligence constantly echoed these themes."
"I was absolutely stunned," says the British ambassador, who thought that he served a moral country that, along with its American ally, had moral integrity. The great Anglo-American bastion of democracy and human rights, the homes of the Magna Carta and the Bill of Rights, the great moral democracies that defeated Nazism and stood up to Stalin’s gulags, were prepared to commit any crime in order to maximize profits.
Ambassador Murray learned too much and was fired when he vomited it all up. He saw the documents that proved that the motivation for US and UK military aggression in Afghanistan had to do with the natural gas deposits in Uzbekistan and Turkmenistan. The Americans wanted a pipeline that bypassed Russia and Iran and went through Afghanistan. To insure this, an invasion was necessary. The idiot American public could be told that the invasion was necessary because of 9/11 and to save them from "terrorism," and the utter fools would believe the lie.
"If you look at the deployment of US forces in Afghanistan, as against other NATO country forces in Afghanistan, you’ll see that undoubtedly the US forces are positioned to guard the pipeline route. It’s what it’s about. It’s about money, it’s about energy, it’s not about democracy."
Guess who the consultant was who arranged with then-Texas governor George W. Bush the agreements that would give to Enron the rights to Uzbekistan’s and Turkmenistan’s natural gas deposits and to Unocal to develop the trans-Afghanistan pipeline.
It was Karzai, the US-imposed "president" of Afghanistan, who has no support in the country except for American bayonets.
Ambassador Murray was dismissed from the UK Foreign Service for his revelations. No doubt on orders from Washington to our British puppet.
Paul Craig Roberts [email him] was Assistant Secretary of the Treasury during President Reagan’s first term. He was Associate Editor of the Wall Street Journal. He has held numerous academic appointments, including the William E. Simon Chair, Center for Strategic and International Studies, Georgetown University, and Senior Research Fellow, Hoover Institution, Stanford University. He was awarded the Legion of Honor by French President Francois Mitterrand. He is the author of Supply-Side Revolution : An Insider's Account of Policymaking in Washington; Alienation and the Soviet Economy and Meltdown: Inside the Soviet Economy, and is the co-author with Lawrence M. Stratton of The Tyranny of Good Intentions : How Prosecutors and Bureaucrats Are Trampling the Constitution in the Name of Justice. Click here for Peter Brimelow’s Forbes Magazine interview with Roberts about the recent epidemic of prosecutorial misconduct.
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samedi, 14 novembre 2009
Japon: premier pas vers la libération
Japon : premier pas vers la libération |
« Venu à Tokyo accélérer un accord sur les bases américaines, le secrétaire d’Etat américain Robert Gates a été froidement reçu. “Ah soo desu ka” (“Oh, vraiment”). C’est généralement par cette formule de politesse que les Japonais répondaient depuis des décennies au “we have a deal” (“nous sommes d’accord”) des Américains. D’où le choc éprouvé cette semaine par l’administration Obama quand le ministre des Affaires étrangères Katsuya Okada a déclaré : “Nous n’allons pas accepter ce que les Etats-Unis nous disent juste parce que ce sont les Etats-Unis.” Il répondait aux pressions du secrétaire américain à la Défense Robert Gates, venu à Tokyo pour accélérer la concrétisation d’un accord conclu en 2006, après quinze ans de négociations, sur la réorganisation des bases américaines dans l’Archipel. Celui-ci prévoit le déplacement de la base de Futenma, proche d’une zone urbaine au sud de l’île d’Okinawa et le transfert de 8000 soldats américains d’Okinawa à Guam.
Le gouvernement japonais a pris un départ sur les chapeaux de roue. Il a mis fin au soutien logistique naval, dans l’océan Indien, des troupes américaines engagées en Afghanistan. Il veut réviser le statut privilégié des soldats américains basés au Japon. Il a ouvert une enquête sur les pactes secrets conclus entre Tokyo et Washington pendant la Guerre froide. Il joue avec l’idée d’une Communauté est-asiatique regroupant la Chine, le Japon, les pays de l’ASEAN, peut-être l’Australie – sans dire un mot du rôle qu’y joueraient les Etats-Unis. Il prend aussi tout son temps pour appliquer l’accord militaire signé en 2006 par le précédent gouvernement, tandis que les Américains le pressent de conclure avant la visite de Barack Obama au Japon, le 12 novembre prochain. Robert Gates a modérément apprécié la placidité de ses hôtes, déclinant une invitation à dîner avec des fonctionnaires du Ministère japonais de la défense. Geste éloquent quand on sait l’importance du protocole au pays du Soleil-Levant. Plusieurs fois, des diplomates ou députés japonais ont répondu du tac au tac, voire avec une certaine impertinence à leurs vis-à-vis américains. “En 30 ans, je n’avais jamais vu ça !” dit au Washington Post Kent Calder, directeur du Centre d’études asiatiques à l’Université John Hopkins. »
Le Temps, 26 octobre 2009 |
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J. Evola: La doctrina del despertar
EDICIONES HERACLES ANUNCIA LA REEDICIÓN DE:
JULIUS EVOLA
LA DOCTRINA DEL DESPERTAR
ENSAYO DE ASCESIS BUDDHISTA
Este estudio sobre ascesis buddhista realizado por el eminente estudioso de la Tradición, Julius Evola, representa una originalidad sin igual en un tiempo en el cual también dicha cosmovisión ha sido vulgarizada y deformada aceptándose como dogmas sagrados pertenecientes a la misma las teorías reencarna-cionistas, el humanitarismo, el pacifismo y la democracia espiritual. Aquí nuestro autor, con suma sagacidad, diferencia entre lo que podría ser el simple budismo y el buddhismo, el primero occidentalizado y decadente que representa una verdadera falsificación doctri-naria y el otro el buddhismo pâli originario que significó un intento de retorno a los principios que informaron la espiritualidad viril y aria de los tiempos primordiales de la humanidad, anteriores a la edad de hierro en que nos hallamos, en una revuelta altiva y heroica en contra de la decadencia personificada por el ritualismo brahmánico que regía en ese entonces en la India. Por último, en la medida en que el buddhismo, en su variantes pâli y más tarde Zen, ha enfatizado en la vía de la acción liberadora a través del despertar ascético, representa un camino adecuado para la espiritualidad del hombre occidental caracterizada también por la primacía otorgada a la acción aunque en los tiempos últimos se encuentre degradada hasta los límites más bajos y bestiales del materialismo y del consumismo hoy vigentes.
Índice
Introducción......................................................... 7
El Saber
I. Acerca de las variedades de las “Ascesis”........... 21
II. Arianidad de la doctrina del despertar............. 34
III. Lugar histórico de la doctrina del despertar..... 45
IV. Destrucción del Demon de la dialéctica............ 66
V. La llama y la conciencia samsárica................... 74
VI. La Génesis condicionada................................. 90
VII. Determinación de las vocaciones................. 110
La Acción
I. Las cualidades del combatiente y la “presencia” 137
II. Defensa y consolidación............................... 151
III. Derechura................................................... 165
IV. La presencia sidérea. Las heridas se cierran...... 179
V. Los cuatro Jhâna. Las “Contemplaciones irradiantes” 198
VI. Los estados libres de forma y la extinción........ 221
VII. Discriminación de los “poderes”................... 243
VIII. Fenomenología de la gran liberación........... 253
IX. Trazos de lo sin semejanza............................. 267
X. “El vacío” “si la mente no se quiebra”............. 278
XI. Hasta el Zen................................................. 287
XII. Los Ariya moran aún en el Pico del Cóndor..... 301
Fuentes 309
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jeudi, 05 novembre 2009
Eurasia: Continente autarchico!
Archives - 2004
Eurasia: Continente autarchico!
Che l’Eurasia possa divenire un continente autarchico non è un’utopia, ma lo confermano i freddi dati economici; per scongiurare tale eventualità, che metterebbe la parola fine alla globalizzazione capitalistica, i moloch del libero mercato stanno correndo ai ripari.
Peraltro, l’Eurasia è l’unico blocco potenziale che negli ultimi 25 anni abbia ridotto i consumi di petrolio a vantaggio di altre fonti energetiche, idrogeno, energia solare … e con il protocollo di Kyoto abbia almeno ipotizzato la possibilità di uno sviluppo economico alternativo.
Analizzando le stime accertate per quanto riguarda le riserve di greggio, gas naturale e carbone, possiamo facilmente comprendere gli scopi delle guerre statunitensi contro Afghanistan e Iraq: un disperato tentativo di accaparrarsi immensi giacimenti di materie prime, evitare un declino ormai irreversibile e mantenere uno stile di vita insostenibile (36,1% di emissioni di anidride carbonica nel mondo, a fronte di una popolazione del 4% circa dell’intero pianeta).
Ma lasciamo parlare le cifre. (1)
Il 65,4% delle riserve petrolifere accertate alla fine del 2002 si trovano in Medio Oriente, il 9,4% in Sudamerica e solo il 4,8% in America settentrionale; 8 milioni di barili di greggio vengono estratti ogni giorno in Arabia Saudita, 7,8 in Russia, 5,8 negli USA, 3,5 in Iran, 3,3 in Cina, 3,05 in Messico.
* Riserve di greggio (accertate al 2002 in miliardi di barili):
Asia del Pacifico: 38,7
Nord America: 49,9
Africa: 97,5
Eurasia: 97,5
Sud e Centro America: 98,6
Medio Oriente: 685,6
* Giacimenti di gas naturale (accertati al 2002, in migliaia di miliardi di m3):
Sud e Centro America: 7,08
Nord America: 7,15
Africa: 11,84
Asia del Pacifico: 12,61
Medio Oriente: 56,06
Eurasia: 61,04
* Disponibilità di carbone (accertate al 2002 in miliardi di tonnellate)
Medio Oriente: 1,7
Sud e Centro America: 21,8
Africa: 55,4
Nord America: 257,8
Asia del Pacifico: 292,5
Eurasia: 355,4
Ricapitolando, l’Eurasia possiede il doppio delle riserve di greggio degli Stati Uniti (la cui supremazia è ancora schiacciantemente detenuta dal Medio Oriente), è superiore di nove volte per quanto riguarda i giacimenti di gas naturale rispetto a quelli nordamericani e ha disponibilità di carbone per oltre 1/3 maggiore.
Teniamo inoltre presente che -in base agli scenari individuati dai ricercatori della multinazionale Royal Dutch Shell- si assisterà nei prossimi anni a una vera e propria corsa verso il gas naturale -risorsa della quale la Russia è ricchissima-; entro il 2010, esso sostituirà il carbone (che oggi costituisce il 24% della produzione d’energia primaria nel mondo), entro il 2020 il petrolio (ora al 35%).
Se teniamo presente la disponibilità manifestata da vari paesi arabi di vendere il proprio petrolio in euro (Iraq -poi aggredito- Libia, ma anche paesi dell’OPEC e Russia), riusciamo a immaginare facilmente perché oggi gli Stati Uniti stiano giocando allo «scontro di civiltà» e di quale portata sia il tradimento operato da quelle classi dirigenti europee che insistono a mantenerci legati al carro di Washington.
Una sovranità limitata che la nazione italiana paga in modo particolare; nel maggio 1994 viene completamente liberalizzato il prezzo dei prodotti petroliferi, dopo un lungo periodo nel quale esso veniva stabilito dal governo attraverso il CIP (Comitato interministeriale prezzi).
Premesso che il prezzo del petrolio incide in minima parte sul prezzo finale e che il 68% di quello di un litro di carburante è costituito da gravame fiscale che finisce nelle casse dello Stato, bisogna ricordare che rincari o ribassi del restante 32% segue l’andamento di logiche particolari, spesso legate al rapporto domanda-offerta ma che hanno in linea di massima origine negli Stati Uniti (che dominano il mercato mondiale con i loro 19,8 milioni di barili di greggio consumati ogni giorno).
Come rivela Gabriele Dossena sul “Corriere della Sera” «nella formazione delle quotazioni del greggio al New York merchantile exchange intervengono per esempio fattori come il calo delle scorte americane, oppure cambiamenti climatici locali che possono spingere la domanda oltre le previsioni… Un ruolo determinante lo rivestono pure le raffinerie, gli impianti in grado di trasformare il famoso barile di petrolio in una diversità di prodotti finiti…
Ebbene basta un guasto in una di queste raffinerie, oppure un improvviso spostamento della domanda dalla benzina al gasolio o più semplicemente una parziale inattività per manutenzione dell’impianto, ed ecco che i prezzi del prodotto finale come per incanto si impennano per tutto il resto della popolazione mondiale. C’è infatti un indice, sconosciuto ai non addetti ai lavori, che ogni giorno riporta l’andamento delle quotazioni di carburanti e prodotti finiti: è l’indice Platt’s (Platt’s oilgram price service), di origine americana, una sorta di bussola utilizzata dalle compagnie petrolifere per fissare i prezzi che poi vengono applicati in ogni parte del mondo». (2)
Se qualcuno finge ancora di non capire quanto ci costi la dipendenza dal protettorato a stelle e strisce e la logica del mondialismo usurocratico farebbe bene a svegliarsi: la battaglia finale per la “Terra di Mezzo” (l’Heartland) è da tempo iniziata; la coscienza del destino imperiale dell’Eurasia, blocco continentale autarchico e Tradizionale, dev’essere diffusa, pena l’estinzione nel magma indifferenziato del villaggio globale.
Stefano Vernole
Note:
(1) Tutti i dati riportati sono tratti dal “Corriere della sera - Documenti”, 20 giugno 2003, p. 5
(2) Gabriele Dossena, “C’è un guasto a una raffineria americana? Da noi benzina più cara”, ibidem
Ultimo aggiornamento: domenica 15 febbraio 2004
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vendredi, 30 octobre 2009
Iraq, Afganistan y la doctrina Obama en "el tablero de ajedrez" eurasiatico
Iraq, Afganistán y la doctrina Obama en “el tablero de ajedrez” euroasiático
El teniente coronel Eric Butterbaugh, oficial del Pentágono a cargo de la vocería del Comando Central norteamericano, manifestó que en Iraq, territorio medioriental de 437.072 Km2, permanecen 120 mil soldados estadounidenses, aunque no se enviarán -dijo- los 4 mil previstos que reemplazarían los equivalentes de la Guardia Nacional de EEUU apostados en Bagdad.
Ello significa que en el país medioriental hay, por cada 3,6 kms cuadrados de territorio iraquí, un soldado ocupante de la más agresiva potencia mundial, lo cual es una proporción que pone en duda la legitimidad de cualquier proceso electoral, legislativo o presidencial en un país que aspire a ser reconocido como legal, ocupado por tropas extranjeras.
Sobre esas condiciones muy reales y precisas, el primer ministro iraquí, Nuri al-Maliki se encuentra realizando una visita a Washington para buscar “apoyo político” del gobierno de Barack Obama y así garantizar -ante las diversas fuerzas políticas iraquíes- las mejores condiciones que permitan avalar el reconocimiento legítimo de las próximas elecciones parlamentarias a celebrarse en el 2010, en un país desvastado por la guerra de agresión, desestructurado por los ocupantes norteamericanos y necesitado de apoyo internacional para su reconstrucción.
Se recordará que la tal ‘reconstrucción de Iraq’ nunca pasó de declaraciones altisonantes del dúo Bush-Cheney y que derivó -más que en un hecho positivo para los iraquíes- en el enriquecimiento de empresas privadas del grupo económico estadounidense al cual pertenecen los ex-mandatarios de la Casa Blanca, que se introdujo en Iraq para saquearlo con jugosos contratos firmados “a punta de fusil y de mirillas laser”.
De aquí que ahora el Pentágono haya informado de la cancelación del envío de unos 4 mil soldados estadounidenses y a su vez, haya comunicado que los elementos de su Guardia Nacional estacionados en Bagdad, regresarán a EEUU dentro de cuatro meses, según precisó el alto oficial del Comando Central, en lo que parece ser ‘una lavadita de cara’ de frente a las elecciones parlamentarias iraquíes que proporcionalmente tendrán varios militares norteamericanos por cada urna de votación.
Tales declaraciones, tanto del gobernante iraquí Malikí, como del militar estadounidense Butterbaugh, están inscritas en la actual doctrina estratégica de los EEUU, comenzada a denominarse “Doctrina Obama”, la cual en sus delineamientos iniciales previó “la salida militar” paulatina de Iraq y la ampliación de la ocupación del estratégico territorio de Afganistán con las consiguientes acciones sobre los países fronterizos como Irán, Pakistán, la India, Uzbequistán, Turkmenistán, el occidente de China, Turquía, Armenia y el propio Iraq, y controlar un acceso directo a Rusia a través del Mar Caspio, también fronterizo con Afganistan.
Eric Butterbaugh, al iniciarse la ocupación de Irak, ostentaba el cargo de Mayor de la Fuerza Aérea y Vocero del Comando de Defensa Aeroespacial norteamericano en Colorado Springs. Luego de transcurrir seis años de guerra en Irak donde han muerto más de 4 mil militares estadounidenses, el ahora Teniente Coronel Buterbaugh, como Vocero del Comando Central, parece ser que será quien anuncie otro probable desastre estadounidense, ahora en Afganistán, donde ya la cifra de estadounidenses muertos sobrepasa los 400.
Sin dudas, consolidar esa posición de alta estima geopolítica, por estar en el centro del ”tablero de ajedrez” euroasiático, es lo que parece ser la obsesión de Barack Obama para enfrentar militarmente en un futuro no previsible, a sus más potentes adversarios: China y Rusia.
De manera que Irak, podría a pasar a un segundo plano y entonces pasar al primero, no la guerra en Afganistán, sino el incremento de las contradicciones entre EEUU y todos esos países fronterizos con la nación euroasiática, varios de ellos ya incorporados a la potente Organización de Cooperación de Shanghai OCSh, la cual celebrará en estos días una nueva Cumbre.
Ernesto Wong Maestre
Extraído de ABN.
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Intervista a Vladimir I. Jakunin
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INTERVISTA A VLADIMIR I. JAKUNIN
a cura di Daniele Scalea e Tiberio Graziani -Eurasia / http:://www.italiasociale.org/
All'inizio del XX secolo, Halford Mackinder scrisse nel suo celebre saggio The Geographical Pivot of History dell'importanza geostrategica delle ferrovie: egli pensava che le strade ferrate transcontinentali costruite dai Russi in Eurasia controbilanciassero il potere marittimo dei popoli anglosassoni, inaugurando una nuova era nei rapporti tra mare e terra e tra Europa e Asia. Lei pensa che le ferrovie russe abbiano ancora una così grande importanza geostrategica?
Lo sviluppo delle infrastrutture dei trasporti è sempre stato visto attraverso il prisma del posizionamento strategico del paese. Si valutava il suo significato economico, sociale e militare-difensivo. Nell'epoca della globalizzazione il trasporto ferroviario non ha perso minimamente la propria importanza dal punto di vista dell'economicità, del rispetto dell'ambiente e della rapidità che caratterizzano il trasporto di merci e persone. Inoltre, se è diminuito il suo potenziale ruolo strategico-militare, in virtù della nuova realtà bellica, il suo significato geopolitico, a mio parere, non ha fatto che aumentare. A ciò contribuisce lo sviluppo dei legami politici ed economici tra i paesi, la necessità di rispondere alle esigenze delle economie dei paesi sviluppati nello svolgimento delle operazioni di importazione ed esportazione nell'ambito della cooperazione commerciale estera, la possibilità di garantire l'accesso al mare dei cosiddetti «paesi di mezzo», l'opportunità di sviluppare in senso reciprocamente vantaggioso i corridoi di trasporto internazionali. E anche la possibilità di uno sviluppo non conflittuale delle relazioni economiche e di offrire assistenza alla realizzazione di infrastrutture ferroviarie per lo sviluppo delle economie di altri paesi, conformemente alle aspirazioni geopolitiche di questa o quella nazione. Un brillante esempio del conseguimento non conflittuale di obiettivi geopolitici reciprocamente vantaggiosi può essere fornito dalla cooperazione di molti paesi e compagnie nello sviluppo del corridoio Ovest-Est lungo il percorso della «Transiberiana».
Vi sono progetti di privatizzazione di RZhD (la compagnia ferroviaria russa). Crede possibile che lo Stato russo si privi d'una quota di maggioranza in un simile settore strategico?
L'attuale legislazione russa esclude la privatizzazione delle infrastrutture ferroviarie della Russia. E benché si possa ipotizzare in linea teorica che nel tempo, sussistenti determinate condizioni politiche ed economiche, ciò sia possibile, è altamente probabile che la Russia proseguirà la riforma del trasporto ferroviario assegnando i diversi tipi di attività (per esempio il trasporto merci, il trasporto passeggeri, la costruzione e manutenzione delle infrastrutture, il trasporto di containers, la logistica e via dicendo) a compagnie indipendenti e privatizzando queste compagnie interamente o in parte.
Cos'è cambiato nelle relazioni tra Russia e Unione Europea dopo la guerra russo-georgiana della scorsa estate?
Questo è un tema a sé stante ed esigerebbe un'approfondita analisi a parte. Mi limiterò a osservare che sulla percezione delle cause e degli effetti del conflitto in Ossezia del Sud, nei paesi dell'Unione Europea e negli Stati Uniti, hanno notevolmente influito tutti i vecchi pregiudizi sulla «pericolosità» della Russia per i «piccoli» paesi europei. A questo ha contribuito non poco la macchina informativo-propagandistica dei mezzi di informazione occidentali. Questo atteggiamento è profondamente mutato solo quando vari giornalisti occidentali, mesi dopo la conclusione della fase più «calda» del conflitto georgiano-ossetino nel quale la Russia era stata trascinata, hanno pubblicato notizie reali sulle azioni condotte dalle autorità e dai militari georgiani in Ossezia, notizie che hanno sconvolto l'opinione pubblica occidentale.
Per quanto concerne le relazioni politiche tra la Russia e gli Stati Uniti, il palese coinvolgimento della precedente amministrazione al fianco del regime di Saakasvili non ha fatto che accrescere la sfiducia.
Nell'ultimo decennio l'economia russa ha pienamente recuperato dai diffìcili momenti degli anni '90. Nella seconda parte dell'estate 2008, tuttavia, il prezzo del petrolio è crollato ed i mercati azionar! russi hanno sofferto gravi perdite. Le prospettive di recupero economico della Russia sono ancora buone?
Oggi la crisi finanziaria si è trasformata in una crisi economica globale ed è opportuno interrogarsi sulle sue cause e sulle sue conseguenze. Senza entrare nel dettaglio, è possibile concludere che la sua sistematicità è il risultato della realizzazione acritica e dogmatica dei punti essenziali della teoria economica neo-liberista, cioè quelli riguardanti la completa eliminazione dello Stato dalla sfera della gestione dello sviluppo economico. Le azioni più recenti, condotte praticamente da tutti gli Stati sviluppati del mondo, dimostrano palesemente il fallimento di questa teoria. Per quanto concerne le prospettive economiche della Russia, esse subiscono l'influsso di una serie di fattori negativi e d'altri positivi. Tra i fattori negativi possiamo elencare il noto orientamento all'esportazione dell'economia, l'incompiutezza della riforma istituzionale, l'insufficiente sviluppo del mercato, l'assenza di un ampio strato di piccole e medie imprese, la lacunosità del sistema bancario e l'assenza, per esempio, di leggi che sanciscano l'obbligo della partecipazione di organizzazioni sociali e professionali e della comunità di esperti alla formulazione delle decisioni governative. Tra gli aspetti positivi, che ci permettono di guardare con ottimismo alle prospettive economiche del paese, includiamo naturalmente la riforma istituzionale attualmente in corso, l'unione del mondo degli affari e delle élites politiche attorno alla dirigenza dello Stato, una base di risorse tra le più ricche e richieste del mondo, risorse umane sufficienti e ben formate (non ostante le conseguenze demografiche degli anni Novanta), l'importante integrazione della Russia nel sistema economico e finanziario mondiale e, infine, riserve finanziarie molto sostanziose accumulate negli anni passati. Attualmente molto — se non tutto -dipenderà dall'efficacia e dalla tempestività dei provvedimenti anticrisi del governo e del mondo imprenditoriale della Russia.
Ritiene che l'attuale crisi economica e finanziaria possa contribuire a cambiare la struttura geopolitica e le gerarchie internazionali, in particolare favorendo l'emergere d'un nuovo ordine mondiale multipolare?
In effetti il mondo multipolare è emerso già molto prima della fase «calda» della crisi finanziaria, come è stato riconosciuto da esperti ben noti negli ambienti politici e scientifici come il professor F. Fukuyama, Z. Brzezinski, H. Kissinger, l'accademico E. Primakov; dai capi di Stato europei e sudamericani, dell'India, della Cina, della Russia; da organizzazioni della società civile e non-governative come il Forum Pubblico Mondiale «Dialogo di civiltà», dalle Nazioni Unite, dall'UNESCO e molte altre istituzioni. Mi sembra, in pratica, che si possa parlare di un mondo variegato con elementi di pluralità, come riconosciuto dagli autori citati. Di per sé la crisi molto probabilmente produrrà un inasprimento delle contrapposizioni già esistenti tra i vettori di sviluppo del sistema mondiale: unipolarismo contro multipolarismo. Non sarà facile prevederne l'esito. Tuttavia è molto probabile che il ritorno a un mondo unipolare non sarà meno difficoltoso della costruzione di un mondo più giusto.
È ora più o meno ovvio quanto segue: in primo luogo, l'uscita dalla crisi avverrà in un lasso di tempo piuttosto lungo; in secondo luogo, durante quella fase, segnata dalla necessità di ricorrere a provvedimenti cruciali per uscire dalla crisi, avverrà una ricostruzione dell'ordine mondiale, ormai obsoleto, con una ridistribuzione piuttosto radicale dei beni su scala globale; infine, è ormai generalmente riconosciuto che l'attuale struttura del sistema economico-finanziario abbia esaurito le proprie risorse tecnologiche per ciò che riguarda il rinnovamento e l'evoluzione dell'uomo nella sua attività di valorizzazione e sviluppo del mondo. Ed è proprio adesso che sono necessari radicali cambiamenti sociali e civili a livello globale (anche nell'interesse dei promotori di tali cambiamenti).
In che modo un nuovo sistema multipolare potrebbe contribuire a favorire il dialogo tra le civiltà?
Con lo sviluppo, su basi scientifiche, di un sistema d'opinioni che riconosca come sia il dialogo tra le civiltà, e non lo scontro, lo strumento per prevenire conflitti a livello geopolitico, culturale, religioso o geoeconomico. Col rafforzamento del ruolo svolto dalla società civile dei diversi paesi nella formulazione delle ambizioni strategiche delle élites di governo, e coli'influenza della collettività su queste élites non solo attraverso i modi d'espressione della cosiddetta «volontà popolare» già collaudati e in una certa misura orientati da queste élites, ma anche attraverso i metodi del dialogo diretto tra civiltà condotto dai rappresentanti delle diverse civiltà. Questi rappresentanti non sono le organizzazioni e le autorità internazionali, che non conducono un dialogo bensì negoziati, ma gli individui o le organizzazioni non-governative.
Nell'ambito del Forum Pubblico Mondiale «Dialogo di Civiltà», un lavoro efficace e mirato per controllare la realizzazione dei diversi piani di questa trasformazione può essere organizzato come segue:
1) la creazione da parte di un gruppo di esperti e analisti di un Thesaurus (struttura di subordinazione) dei postulati, delle convinzioni e dei valori politici, etico-morali, economico-sociali e via dicendo, più comunemente impiegati nelle discussioni sulla crisi globale;
2) lo svolgimento di diverse iniziative da parte del Forum Pubblico Mondiale «Dialogo di civiltà» per armonizzare i risultati analitici ottenuti con gli attori influenti e con le parti interessate alla trasformazione;
3) l'organizzazione di una campagna di informazione su vasta scala, impiegando i mezzi di informazione interattivi e altre strutture, per l'efficace e rapida introduzione di rappresentazioni coerenti, componente necessaria nel contesto della comunicazione globale sui temi attuali dell'agenda globale;
4) lo svolgimento di un regolare monitoraggio delle reazioni a tale informazione, al fine di valutare la risposta del pubblico alle proposte formulate;
5) in base ai risultati dell'analisi ed alla sintesi di queste reazioni, la pianificazione e realizzazione di dialoghi regionali, specialistici, di ricerca ecc. (impiegando i metodi già sperimentati dalle iniziative del Forum Pubblico Mondiale) al fine di ratificare le decisioni concordate e selezionate in maniera mirata.
La necessità di tali iniziative nell'ambito del Forum Pubblico Mondiale «Dialogo di civiltà» e di strutture simili è giustificata dal fatto che le attuali ricette scientifiche e politiche per uscire dalla crisi circolano in ristrette comunità altamente specializzate, non hanno alcun fondamento legittimo e si impongono alla più ampia pratica internazionale, come accade per esempio con le idee del neo-liberismo, attraverso metodi, politici e d'altro tipo, di natura coercitiva.
In qualità di presidente e cofondatore del Forum Pubblico Mondiale «Dialogo di Civiltà» potrebbe farci un resoconto delle sue attività a partire dal 2002?
Riteniamo che negli ultimi sei anni i partecipanti al Forum Pubblico Mondiale «Dialogo di civiltà» siano riusciti a creare una piattaforma pubblica, unica nel suo genere, di interazione tra le civiltà per l'analisi e la descrizione dei caratteri fondamentali della nostra epoca, nonché adeguati strumenti di dialogo tra le civiltà nel contesto delle più importanti sfide del nostro tempo: la globalizzazione, il dialogo tra le culture e le religioni, l'influenza delle tendenze economiche mondiali sui rapporti tra le civiltà, l'inammissibilità dell'imposizione forzata dei propri valori a un'altra civiltà, la creazione di un mondo unipolare e molti altri problemi. La «Prima Dichiarazione di Rodi» e le sue conclusioni non solo sono ampiamente note, ma sono anche alla base di una serie di accordi internazionali sulla cooperazione tra Stati. La Conferenza del Forum Pubblico Mondiale «Dialogo di civiltà» si svolge già da sei anni con cadenza annuale nell'isola di Rodi, ed è oggetto di grande attenzione. Nel 2008 vi hanno partecipato circa 500 rappresentanti di più di 64 paesi. Prosegue con successo il programma di sviluppo della comunità in rete di «Dialogo di civiltà», e molto altro. In generale mi sembra che questa attività meriti una valutazione positiva. Ritengo che sia giunto il momento di passare dalla constatazione di un interesse per il dialogo all'esercizio di un'influenza controllata sui processi sociali, impiegando a tal fine tutte le risorse delle organizzazioni non-governative internazionali, degli amici rappresentanti delle comunità di esperti, mezzi di informazione e confessioni religiose. Naturalmente qui dobbiamo impegnarci ulteriormente per strutturare questo interesse con l'obiettivo di trasformarlo in uno strumento di influenza pubblica sullo sviluppo mondiale.
A suo parere quali sono i comuni settori d'interesse che andrebbero rafforzati e sviluppati tra Russia e Unione Europea?
Innanzi tutto, agli interessi strategici della Russia e dell'Unione Europea risponde una tendenza all'approfondimento dell'integrazione nella sfera umanistica e in quella economica, in particolare nel settore del trasporto ferroviario in quanto area di reciproco interesse del tutto priva di conflitti: infatti, una tale cooperazione può avere esito positivo solo se le compagnie dei trasporti condividono gli stessi obiettivi.
Considerando la posizione strategica dell'Italia nel mezzo del Mar Mediterraneo e, soprattutto, la sua «alleanza» asimmetrica con gli USA nel contesto della NATO, crede che Washington permetterà a Roma di sviluppare relazioni politiche e militari con Mosca?
Mi sembra che la domanda sia posta in modo scorretto, laddove si chiede se «Washington possa permettere qualcosa all'Italia». Pur nella chiara alleanza strategica con la NATO e con gli Stati Uniti, nell'emergente condizione di multipolarismo l'Italia è libera di determinare da sola il sistema dei propri interessi geopolitici, e ha ripetutamente dimostrato la propria sostanziale posizione di indipendenza in tutta una serie di eventi controversi verificatisi in tempi recenti. Pertanto ritengo che, finché al mondo esisteranno i confini degli Stati nazionali, continueranno a esistere anche i cosiddetti «interessi nazionali» e le aspirazioni geopolitiche dei governi, e questo influenzerà lo sviluppo di una cooperazione internazionale, e difficilmente esisterà un paese in grado di affermare di essere assolutamente libero da questa influenza.
Roma è la capitale dell'Italia ma anche il centro della Cristianità cattolica. Durante gli ultimi anni, malgrado la promozione d'un dialogo ecumenico ed inter-ecclesiastico con la Cristianità russo-ortodossa, il Vaticano ha esteso le proprie attività in Russia ed in alcuni paesi ex sovietici (ad esempio in Kazakistan). Tra queste attività, possiamo menzionare la creazione di nuove diocesi cattoliche senza neppure interpellare le Chiese ortodosse. Tenendo conto che, nel corso di tali iniziative, il Vaticano ha spesso chiesto a Mosca un maggiore rispetto dei diritti umani-al pari d'alcune ONG o apparati politici occidentali — crede vi siano legami tra le strategie di Washington e quelle del Vaticano?
Ogni chiesa, anche all'interno degli Stati laici, resta parte della società e, quando tocca la sfera della morale e tanto più delle relazioni pubbliche o internazionali, spesso riflette gli atteggiamenti socio-politici dominanti. A mio parere ciò vale effettivamente per alcuni aspetti dell'attività del Vaticano. Dato che il cattolicesimo è ampiamente diffuso nel mondo occidentale, è possibile che nelle sue posizioni sui principali temi risenta dell'influenza ideologica degli Stati Uniti che sono la guida riconosciuta di quel mondo. È possibile che questo sia anche una conseguenza dell'attività economica dello Stato del Vaticano e della sua dipendenza dall'economia statunitense. Il Concilio Vaticano II ha affermato che le altre religioni possono essere condotte attraverso il dialogo sulle posizioni della mentalità europea, in quanto identità più evoluta. Per questo il Concilio ha ampliato la sfera del dialogo, ha riconosciuto la possibilità del dialogo con le altre religioni e le altre civiltà: allo scopo di assimilarle gradualmente. La storia del cattolicesimo dimostra in maniera convincente cosa sia questa linea di dialogo. Le chiese del mondo e le principali confessioni devono, riteniamo, contribuire a instaurare un dialogo efficace tra i popoli. Il problema di un ampio dialogo pubblico è che le principali forze sociali e i partecipanti alla collaborazione internazionale tendono spesso a difendere le proprie posizioni, a persuadere gli altri della loro giustezza, a ricevere conferma delle proprie convinzioni. La religione, al contrario, ha sempre invitato ad affermare il punto di vista della verità universale, ad abbandonare l'insieme delle convinzioni inevitabilmente contingenti e a porsi sul cammino del rinnovamento, del miglioramento di sé. La mentalità individualista agli occhi della coscienza religiosa coincide sempre con il peccato e l'errore. Indubbiamente gli sforzi delle Chiese e delle confessioni permettono di innalzare il livello e la cultura del dialogo tra le organizzazioni pubbliche e le strutture internazionali. È necessario che il dialogo sociale non si concentri solo sui problemi immediati, benché comunque importanti, della politica e della vita sociale. In questo caso il nostro dialogo verrà ripreso e sviluppato, estendendosi a nuovi problemi o aspetti della soluzione di vecchi problemi, cui la coscienza collettiva contemporanea non è in grado di arrivare. Ci sembra che nel miglioramento del dialogo collettivo la Chiesa e le confessioni siano chiamati a fornire una nuova forma di servizio all'uomo e a conseguire una propria sfera pratica di realizzazione della verità e della forza delle proprie rivelazioni. Riteniamo che le profonde tradizioni e potenzialità delle organizzazioni religiose e dei contatti interconfessionali apporteranno un inestimabile contributo al dialogo tra le civiltà. E speriamo che la Chiesa e le confessioni assumano un ruolo attivo nelle nostre iniziative future.
(traduzione dall'originale russo di Manuela Vittorelli)
* Vladimir Ivanovic Jakunin è presidente del Forum Pubblico Mondiale «Dialogo di Civiltà» e della Rossijskie Zheleznye Dorogi, la compagnia ferroviaria dello Stato russo. Tra il 1985 ed il 1991 ha fatto parte della missione diplomatica sovietica presso le Nazioni Unite (gli ultimi tre anni come primo segretario). Dal 2000 al 2003 è stato vice-ministro dei trasporti della Federazione Russa.
18/05/2009
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dimanche, 25 octobre 2009
Nouvelle alliance entre grandes puissances?
Peter SCHOLL-LATOUR:
Nouvelle alliance entre grandes puissances?
Le Président Barack Obama a renoncé à installer un bouclier anti-missiles en Pologne et une gigantesque station radar en République Tchèque. On a interprété cet abandon un peu trop vite comme un signe de faiblesse. Pourtant le président américain a de bonnes raisons de rechercher de meilleures relations avec la Russie.
Obama se rend compte qu’une confrontation avec la Russie irait à l’encontre des intérêts américains sur le long terme. Surtout en ce qui concerne l’Afghanistan car, là, un changement décisif est survenu. Jusqu’ici les forces armées américaines avaient pu compter sur un approvisionnement logistique efficace et sans heurts à travers le Pakistan: ces voies d’accès au théâtre afghan sont désormais devenues extrêmement difficiles. Dans l’avenir, l’approvisionnement de l’armée américaine devra se faire principalement via les anciennes républiques soviétiques d’Asie centrale mais aussi via le territoire russe lui-même: une disposition qui est depuis longtemps déjà une réalité pour les Allemands. Le contingent allemand de l’ISAF, en effet, se fait depuis des années par la base aérienne de Termes, située sur le frontière méridionale de l’Ouzbékistan.
Compte tenu de cette nouvelle situation, il apparaît de plus en plus clairement que la Russie, elle aussi, serait menacée si des forces radicales islamistes prenaient le pouvoir à Kaboul. Moscou craint surtout une extension rapidement du mouvement des talibans au Tadjikistan, en Ouzbékistan et éventuellement au Kirghizistan, ce qui mettrait un terme au pouvoir des potentats locaux qui proviennent encore de l’ancien régime soviétique.
L’affirmation de l’ancien ministre allemand de la défense, Peter Struck (SPD), qui disait que “l’Allemagne se défendait sur l’Hindou Kouch”, mérite aujourd’hui d’être corrigée. En réalité, c’est la Russie que l’on défend dans l’Hindou Kouch. Car, au-delà des Etats de la CEI, c’est-à-dire dans le territoire de la Fédération de Russie elle-même, vivent 25 millions de musulmans qui pourraient devenir un sérieux foyer de troubles. Washington vient donc de reconnaître qu’il y a une convergence d’intérêts entre Russes et Américains en Asie centrale, alors que le Président George W. Bush l’avait nié, en se cramponnant sur de vieilles certitudes.
La Chine, elle aussi, a intérêt à combattre toute forme de radicalisme islamiste depuis que la minorité turcophone des Ouïghours se dresse contre Pékin au nom de l’islam. Voilà pourquoi le conseil de sécurité des Nations-Unies est inhabituellement unanime pour prolonger le mandat de l’ISAF en Afghanistan.Mais je doute qu’à Berlin on reconnaisse ce changement profond qui anime les politiques des grandes puissances. Les Allemands refusent toujours de reconnaître que leur engagement en Afghanistan constitue un acte de guerre et feignent de croire benoîtement qu’ils doivent aller là-bas pour construire des écoles pour fillettes et mettre tout en oeuvre pour que les femmes ne doivent pas circuler voilées. Ce sont là, à coup sûr, des perspectives intéressantes mais qui ne légitiment pas en suffisance d’y envoyer des soldats allemands, avec le risque éventuel qu’ils s’y fassent tuer.
Peter SCHOLL-LATOUR.
(article paru dans “Junge Freiheit”, Berlin, n°43/2009; trad. franç.: Robert Steuckers).
A PARAITRE:
Début novembre paraîtra en Allemagne le nouvel ouvrage du très prolifique Peter Scholl-Latour: “Die Angst des weissen Mannes – Eine Welt im Umbruch”, Propyläen Verlag, Berlin 2009, 24,90 euro.
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samedi, 24 octobre 2009
Afghanistan: une guerre de mensonges
Afghanistan : une guerre de mensonges
La guerre en Afghanistan semble être un préoccupation beaucoup plus marquée chez les citoyens des pays de la coalition que pour leurs gouvernements, même si certains d’entre eux réduisent pas à pas les effectifs de leurs troupes en opérations.
En France, mis à part les tristes nouvelles annonçant les décès de nos soldats, cette guerre, menée sous le double commandement de l’OTAN et des Améticains, ne fait l’objet que de peu d’analyses et il faut surfer sur les sites étrangers et plus particulièrement anglo-saxons pour en savoir plus.
Polémia présente à ces lecteurs un article d’Eric Margolis, consacré à cette guerre en Afghanistan, levant le voile sur certains aspects qu’on ne soupconne pas.
Certes, les informations données restent de la responsabilité de leur auteur et les opinions exprimées n’engagent que lui et ne reflètent pas nécéssairement celles de Polémia.
Polémia / http://www.polemia.com/
Afghanistan : une guerre de mensonges
Le président Barack Obama et le Congrès se débattent avec l’élargissement de la guerre en Afghanistan. Après huit années d'opérations militaires, qui ont coûté 236 milliards de dollars, le commandant des forces américaines en Afghanistan vient de lancer une mise en garde contre la menace d’un « échec », c’est-à-dire une défaite.
La vérité est la première victime de la guerre
La vérité est la première victime de la guerre. Le plus gros mensonge de cette guerre en Afghanistan est de dire : « Nous devons combattre les terroristes là-bas, pour ne pas avoir à le faire chez nous » Les politiques et les généraux ne cessent de se servir de ce bobard pour justifier une guerre qu'ils ne peuvent ni expliquer ni justifier autrement.
Beaucoup d'Américains du Nord continuent à avaler ce mensonge parce qu'ils croient que les attentats du 11-Septembre ont été lancés directement par Al-Qaida et les Talibans basés en Afghanistan.
Ce n’est pas vrai. Les attentats du 11-Septembre ont été planifiés en Allemagne et en Espagne, et dirigés principalement par des Saoudiens vivant aux Etats-Unis afin de punir l'Amérique du soutien qu’elle apporte à Israël dans sa répression des Palestiniens.
Les Talibans, mouvement militant religieux et anticommuniste, issu de l’ethnie pachtoune, ont été totalement surpris par le 11-Septembre. Osama ben Laden, sur qui on rejette la responsabilité du 11-Septembre, était en Afghanistan en tant qu’invité parce qu'il était considéré comme un héros national qui avait combattu les Soviétiques au cours des années 1980 et qu’ensuite il avait apporté assistance aux Talibans dans leur lutte contre les Afghans communistes de l'Alliance du Nord.
Les Talibans sont-ils vraiment ceux que l’on nous décrit ?
Les Talibans ont bénéficié de l'aide américaine jusqu'en mai 2001. La CIA avait l'intention d'utiliser l’Al-Qaïda d’Osama ben Laden pour monter les Ouïgours musulmans contre l’autorité chinoise, et d'employer des Talibans contre les alliés de la Russie en Asie centrale. La plupart des prétendus « camps d'entraînement terroristes » en Afghanistan étaient entre les mains des services secrets pakistanais et destinés à préparer les combattants moudjahidin au combat dans le Cachemire occupé par les Indiens.
En 2001, Al-Qaïda ne comptait que 300 membres. La plupart ont été tués depuis. Une poignée d’entre eux se sont échappés vers le Pakistan. Seuls quelques-uns demeurent en Afghanistan. Pourtant, le président Obama veut à tout prix que 68.000 soldats américains, ou plus, restent en Afghanistan afin de combattre Al-Qaida et d’empêcher les extrémistes de récupérer les « camps d'entraînement de terroristes ».
Cet argument, comme celui des armes de destruction massive inexistantes de Saddam, est un slogan commode pour vendre la guerre au public. Aujourd'hui, la moitié de l'Afghanistan est sous contrôle Taliban. Les militants anti-américains pourraient plus facilement se servir de la Somalie, de l'Indonésie, du Bangladesh, de l’Afrique du Nord et de l’Ouest, ou du Soudan. Ils n'ont pas besoin d’aller chercher jusqu’en Afghanistan. Les attentats du 11-Septembre ont été conçus en chambre, pas dans des camps.
Aussi arriérés et lourdauds soient-ils, ses Pashtounes n’ont nullement envie ni intérêt à attaquer l’Amérique Les Talibans sont les fils des moudjahidins qu’avaient soutenus les Américains et qui ont vaincu les Soviétiques dans les années 1980. Les Talibans n'ont jamais été les ennemis de l'Amérique. Au lieu d'envahir l'Afghanistan en 2001, les Etats-Unis auraient dû payer les Talibans pour déraciner al-Qaïda – comme je l'ai écrit dans le Los Angeles Times en 2001.
Les Etats-Unis s’enfoncent encore plus profondément dans le bourbier sud-asiatique.
Les tribus pachtounes veulent mettre fin à l'occupation étrangère et chasser les communistes afghans et les barons de la drogue, qui dominent aujourd’hui le régime de Kaboul installé par les Etats-Unis. Mais les Etats-Unis se sont engagés par erreur dans une guerre de grande envergure, non seulement contre les Talibans, mais aussi contre la plupart des féroces tribus pachtounes de l'Afghanistan, qui représentent plus de la moitié de la population.
Ce conflit se propage maintenant dans les régions pachtounes du Pakistan. La semaine dernière, l'ambassadeur américain à Islamabad a effectivement réclamé que les Etats-Unis envoient des avions et des missiles contre la ville pakistanaise de Quetta, où des personnalités Talibans de haut rang sont censées avoir été repérées.
Les Etats-Unis s’enfoncent encore plus profondément dans le bourbier sud-asiatique. Washington tente de forcer la main au Pakistan pour qu’il se montre plus obéissant et étendent la guerre contre ses propres tribus pachtounes à l’esprit indépendant - appelées à tort « Talibans ».
Les tentatives incroyablement maladroites de Washington pour distribuer 7,5 milliards de dollars pour soudoyer le gouvernement et l’armée pakistanais faibles et corrompus, pour maîtriser les promotions militaires et obtenir quelque contrôle sur l'arsenal nucléaire du Pakistan, ont déclenché une colère incendiaire. Les soldats pakistanais sont sur le point de se révolter.
Il en est de même des projets américains de construction d’une ambassade-forteresse pour 1.000 personnes à Islamabad et un consulat à Peshawar qui manifestement servira de base aux services de renseignement, ainsi que du déploiement d'un nombre croissant de mercenaires américains au Pakistan.
Tout cela est bien réglé. Washington affirme qu'il faudra plus de personnel et une plus grande ambassade pour superviser la distribution du supplément d’aide au Pakistan, et davantage de mercenaires (c’est-à-dire de « contractuels ») pour les protéger.
Le président Obama a fait l'objet d'intenses pressions pour étendre la guerre, de la part de républicains cocardiers, d’une bonne partie des médias et les va-t-en guerre responsables de la sûreté de l’Etat. Les partisans d'Israël, y compris de nombreux démocrates du Congrès, veulent voir les Etats-Unis s’emparer des armes nucléaires du Pakistan et étendre la guerre d'Afghanistan à l’Iran. Le ministre israélien des Affaires étrangères, le belliciste Avigdor Lieberman, a récemment désigné l'Afghanistan, le Pakistan et l'Irak comme principales menaces pour Israël.
Talibans ne sont pas et n'ont jamais été une menace pour l'Occident
Le président Obama devrait admettre que les Talibans ne sont pas et n'ont jamais été une menace pour l'Occident ; que Al-Qaïda, dont on a larmement exagéré l’importance, a été en majorité éradiquée ; et que la guerre menée par les Etats-Unis en Afghanistan cause davantage de dommages aux intérêts américains dans le monde musulman – qui représente maintenant 25% de la population mondiale – que Ben Laden et les quelques voyous qu’il a pour alliés. Les attentats à la bombe de Madrid et de Londres et la conspiration de Toronto ont tous été des manifestations particulièrement aberrantes de la part de jeunes musulmans contre la guerre en Afghanistan.
On ne va pas changer la façon dont les Afghans traitent leurs femmes en menant une guerre contre eux ni apporter la démocratie au moyen d’élections truquées. On ne va pas gagner les cœurs et les esprits en imposant à de pieux musulmans un régime dominé par les communistes à Kaboul, en bombardant leurs villages et en envoyant des Marines enfoncer leurs portes à coups de pied et violer leurs foyers.
Le commandant en chef américain en Afghanistan, le général Stanley McChrystal, exige 40.000 à 80.000 soldats supplémentaires. Même avec ce nombre, il ne gagnera pas la guerre dont Washington ne peut même pas déterminer les conditions de la victoire. Le seul moyen de sortir de ce bourbier passe par un règlement négocié incluant les Pachtounes et leurs bras armé, les Talibans, à qui sera donné le droit de vote.
Si jamais la résistance afghane reçoit des missiles antiaériens et antichars modernes, les forces d'occupation occidentales seront isolées et condamnées. Aujourd'hui, elles tiennent à peine le coup contre les Talibans équipés d’armes légères.
Si seulement le président Obama déclarait simplement la victoire en Afghanistan ! S’il en retirait les forces occidentales pour remettre la sécurité entre les mains d’une force multinationale de stabilisation constituée de nations musulmanes ! Les bons présidents, comme les bons généraux, savent quand il faut se retirer.
Eric Margolis
13 octobre 2009
http://buchanan.org/blog/afghanistan-a-war-of-lies-2548
Titre original : Afghanistan: A War of Lies
Traduction pour Polémia : R. S.
Eric Margolis contribue au Toronto Sun, New York Times, The American Conservative et à de nombreux journaux du Golfe. Il se produit régulièrement sur les chaînes de télévision comme CNN, Fox, SRC, British Sky Broadcasting News, NPR, et CTV. Correspondant de guerre de longue date, il est reconnu comme spécialiste des questions relevant de l’Afghanistan et plus généralement de l’Asie.
Correspondance Polémia
18/10/2009
Les intertitres sont de la rédaction.
Image : flag-draped coffins
Eric Margolis
00:25 Publié dans Actualité | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : afghanistan, otan, manipulations médiatiques, atlantisme, asie centrale, asie, affaires asiatiques, moyen orient, eurasie | |
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mardi, 20 octobre 2009
Pourparlers militaires sino-australiens
Pourparlers militaires sino-australiens
Les relations sino-australiennes se renforcent considérablement depuis quelques mois, en dépit de l’apprtenance de l’Australie à la sphère culturelle anglo-saxonne, dont elle est le bastion entre Océan Indien et Océan Pacifique. Désormais, c’est sur les plans militaire et stratégique que les deux puissances traitent à Canberra, après avoir régulé leurs relations commerciales. Le général chinois Chen Bingde vient de rencontrer le chef de l’armée de l’air australienne, Angus Houston, et le ministre de la défense, John Faulkner.
L’Australie est-elle progressivement attirée par l’informelle “sphère de co-prospérité est-asiatique”, qui existe de facto en dépit de l’ancienne volonté américaine de l’éliminer pendant la seconde guerre mondiale? Faut-il conclure qu’on ne contrarie pas la géographie et que les faits géographiques sont plus têtus que les discours idéologiques?
Restent quelques questions: la Chine cherche indubitablement une projection vers l’Océan Indien, par le Détroit de Malacca, par l’Isthme de Kra ou par des oléoducs traversant le Myanmar (Birmanie). Elle doit, pour ce faire, avoir les bonnes grâces de l’Australie. Mais l’Indonésie dans ce rapprochement, l’archipel indonésien qui est là, comme un verrou potentiel entre les deux puissances en phase de rapprochement accéléré? Quel rôle est-elle appelé à jouer? Celle d’un ami ou d’un ennemi du nouveau binôme sino-australien? Sa spécificité d’Etat à dominante largement musulmane déplait-elle à la Chine qui se méfie dorénavant de tout islamisme depuis les ennuis que lui procure sa minorité ouïghour dans le Sinkiang? Les implications potentielles du rapprochement sino-australien nous permettent encore de spéculer à l’infini. Un glissement géopolitique intéressant, dans une zone clef de la planète.
(sources: “International Herald Tribune”, Oct. 16, 2009).
00:20 Publié dans Actualité | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : asie, affaires asiatiques, océanie, chine, australie, extreme orient, géopolitique, politique internationale, politique | |
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Comportement social japonais
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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1992
L'anatomie de la dépendance
L'interprétation du comportement social des Japonais par Takeo Doi
par Stefano BONINSEGNI
Edité au Japon en 1971, ce recueil d'articles écrits par un éminent psychiatre japonais se veut avant toute chose une contribution à la théorie psychanalytique, portée par une réflexion nouvelle sur le terme japonais amae —que l'on pourrait traduire, grosso modo, par «pulsion de dépendance». L'amae semble imprégner tous les aspects de la mentalité et de la pensée nipponnes. Le livre de Takeo Doi donne en bout de course une interprétation globale des comportements sociaux du peuple de l'Empire du Soleil Levant, comme le suggère d'ailleurs son sous-titre.
Prémisse de l'auteur: la psychologie spécifique d'un peuple, quel qu'il soit, ne peut s'étudier qu'en se familiarisant avec sa langue, car celle-ci englobe déjà tous les éléments intrinsèques de l'âme d'une nation. A toute langue correspondent des besoins et une vision du monde particulière. La langue japonaise étant radicalement différente des langues occidentales, les différences culturelles entre les mondes occidental et nippon sont très profondes. Par ailleurs, argumente Doi, il faut savoir que des pulsions et des émotions préexistent à l'émergence d'une langue; et le fait que la langue japonaise, à la différence de toutes les autres langues, possède le terme d'amae, lequel se réfère pourtant à une pulsion qui est en soi universelle, constitue un point de départ pour la réflexion, permettant de formuler des hypothèses suggestives, non seulement sur la mentalité japonaise mais aussi sur les différences de fond qui existent entre les cultures d'Occident et d'Orient.
La pulsion de dépendance surgit dès que le bébé perçoit, dans la douleur, la séparation entre son soi et le reste, c'est-à-dire sa mère. L'amae est la tentative de nier cette séparation douloureuse, de la même façon que le bébé, en s'attachant au sein de sa mère, satisfait (momentanément) son désir de subordination. Cette tentative d'échapper à ce détachement par rapport à un «tout originaire» façonne et conditionne la mentalité et la pensée japonaises. Les oppositions typiques qui structurent les langues occidentales —interne/externe, individuel/collectif, privé/public, etc.— sont toutes inadéquates pour cerner cette psychologie «infantile», qui idéalise la capacité de compter sur l'indulgence maximale d'autrui (amaeru), ce qui, en de nombreux cas, peut mal tourner.
Le modèle idéal de rapports, pour un Japonais, est celui qui unit géniteurs (en particulier la mère) et enfants, où la propension à la dépendance s'exprime de manière maximale. A l'opposé, face aux tanin (1), c'est-à-dire aux étrangers, l'amae n'est plus présente. Entre ces deux extrêmes, nous trouvons plusieurs groupes d'appartenance. Outre l'entourage immédiat d'un individu (uchi), les rapports se définissent par le ninjo (l'obligation sociale, le lien social), dans lequel sont présents et l'amae et l'enryo (la réserve, la distance tenue volontairement). Exemples: face à un collègue ou à un supérieur dans l'entreprise (qui est la «communauté» centrale dans la vie japonaise), le Japonais attend une certaine dose d'indulgence et de compréhension; par ailleurs, il se sent contraint de faire usage de sa réserve pour ne pas donner l'impression d'abuser de la condescendance d'autrui, sinon un conflit contraire aux intérêts de l'amae pourrait survenir. Le Japonais veut maintenir l'«harmonie».
L'idéal nippon dans le champ des rapports sociaux est toujours de pouvoir exprimer un maximum d'amaeru; en ce sens, l'enryo est perçu comme une douloureuse nécessité. Dans ce contexte mental et culturel, l'individualité vue comme séparation n'est pas considérée comme une valeur (la langue japonaise a dû introduire des termes spécifiques pour traduire plus ou moins les mots «individu» et «personnalité», vocables qui ne sont apparus qu'à l'ère de la modernisation au siècle passé). Ensuite, le «genre humain universel» n'est pas envisagé: seul le groupe et ses intérêts prévalent. Déjà, le Japon médiéval pouvait être considéré comme un ensemble de grands groupes (de clans) qui formaient un clan plus grand, la tribu Japon, dont l'Empereur est le symbole sacré de l'unité.
Dans la psychologie japonaise, il n'est pas possible d'envisager un conflit intérieur entre l'instance individuelle et le devoir public (chose fréquente, en revanche, dans la mentalité occidentale). Le conflit surgit bien plutôt entre les devoirs de l'individu à l'égard de différents niveaux d'appartenance, par exemple entre son entourage le plus intime et la nation. Selon Takeo Doi, c'est parce que la mentalité définie par l'amae est enracinée dans une histoire japonaise qui n'a jamais connu, même sous forme diffuse, une culture fondée sur les valeurs de l'individu. Tandis qu'en Occident l'individu a pris son envol par le christianisme, en Orient, et en particulier au Japon, s'est affirmée une culture de la communauté, ancrée dans une éthique de la fidélité au groupe, dont l'intérêt est toujours considéré comme supérieur.
Takeo Doi nous confirme en outre, dans les grandes lignes, l'idée qui se répand de plus en plus en Occident, selon laquelle le Japon, après avoir assimilé sans interruption des cultures ou des religions étrangères, aurait maintenu tout de même une identité de fond que la modernisation capitaliste n'a pas réussi à entamer de façon significative. Sur ce plan, justement, l'amae et son impact jouent un rôle fondamental. Le fait que le peuple japonais a été et, surtout, est encore enclin à assimiler des éléments de culture d'origine étrangère est du à cette pulsion de dépendance à l'égard d'autrui, dans la mesure où la fonction d'assimilation en est un mode opératoire caractéristique. Tout ce qui est assimilé est mis au service du groupe d'appartenance et de ses intérêts.
Nakamura Hajime, en prenant l'exemple de la religion, a cherché à expliquer cette attitude dans les termes suivants: «En règle générale, quand ils ont adopté des éléments issus de religions étrangères, les Japonais possédaient déjà un cadre éthique et pratique qu'ils considéraient comme absolu; ils n'ont donc recueilli ces éléments et ne les ont adaptés que dans la mesure où ces nouveautés ne menaçaient pas le cadre existant; au contraire, ils ne les adoptaient que s'ils encourageaient, renforçaient et développaient ce qui existait déjà chez eux [...]. Sans aucun doute, ceux qui embrassaient avec certitude les nouvelles religions le faisaient avec une piété sincère, mais il n'en demeurait pas moins vrai que la société japonaise se bornait en gros à adapter ces éléments pour atteindre plus facilement ces propres objectifs».
Takeo Doi, lui, donne une explication légèrement différente: «Pour m'exprimer en des termes légèrement différents de ceux qu'emploie Nakamura, je pourrais affirmer que, si les Japonais, au premier abord, semblaient accepter sans critique une culture étrangère, en fait, sur un mode tout à fait paradoxal, cette attitude les aidait à préserver la psychologie de l'amae, dans le sens où ce mode d'action, consistant à adopter et à accepter, est, en soi, une conséquence de cette mentalité».
Ensuite, par le fait de l'amae, la société et la mentalité japonaises se montrent extrêmement conservatrices, en dépit des convulsions profondes qui ont bouleversé, au cours de notre après-guerre, les institutions et les valeurs traditionnelles. Malgré ces mutations, il est possible de percevoir à quels moments de son histoire la mentalité japonaise a été entièrement compénétrée de cette pulsion de dépendance. Ainsi, tout fait penser, selon Doi, que même dans l'Empire du Soleil Levant, tôt ou tard, la tradition cèdera le pas à l'individualisme et à ses excès désagrégateurs: c'est une perspective qui rassure ceux qui craignent la résurgence du nationalisme et de l'expansionnisme nippons (aux Etats-Unis, la psychose va croissante!).
Que derrière le développement industriel et financier du Japon puisse se cacher et se réactiver un esprit belliciste et expansionniste indompté est admis partiellement, voire implicitement, par plus d'un observateur du monde nippon. Tant Antonio Marazzi que Guglielmo Zucconi, par exemple, perçoivent dans les attitudes des Japonais d'aujourd'hui, surtout dans leur univers du travail, une transfiguration moderne de l'esprit samouraï (2), qui prouve ainsi sa persistence. Selon cette interprétation, le facteur décisif, dans l'incroyable développement économique du pays, ne doit pas être recherché dans une quelconque qualité spéciale inhérente aux managers japonais ou dans l'utilisation massive et sophistiquée des technologies les plus modernes, mais bien plutôt dans le matériel humain japonais, caractérisé par un sens absolu du devoir du travailleur, vis-à-vis de son activité particulière, de son entreprise et de la «plus grande entreprise Japon».
Tout cela, selon Doi, ne correspond que superficiellement à la vérité; l'assiduité japonaise n'est rien d'autre que le résultat de la ki ga soumanaï, une tendance obsessionnelle qui dérive de la frustration d'amae: «Pour citer un seul exemple, la fameuse assiduité japonaise au travail pourrait très bien être liée à ce trait de caractère de nature obsessionnelle: si paysans, ouvriers et employés se jettent à corps perdu dans le travail, ce n'est pas tant par nécessité économique, mais plutôt parce que s'ils agissaient autrement, ils provoqueraient la ki ga soumanaï. Bien peu de salariés japonais se préoccupent de la signification de leur travail ou du bénéfice que la société, dans son ensemble, eux-mêmes et leur famille pourraient en tirer. Et pourtant, ils n'hésitent pas à se sacrifier. Cette attitude avantage évidemment le travail, même s'il est difficile de bien faire quelque chose sans une certaine dose d'enthousiasme».
Face à des observations de ce genre, on doit au moins remarquer qu'en dépit de ses origines, l'auteur se laisse contaminer par le vice européen, trop européen, de la psychanalyse, vice qui consiste à étendre démesurément les méthodes psychanalytiques, pour expliquer globalement tous les phénomènes d'ordre individuel ou social. Rappelons, au risque d'être répétitifs, que, en matière de conception du travail, la conception japonaise revêt au moins un aspect “sacré” qui transcende en tous points les visions actuelles et conventionnelles de l'Occident. Josei Toda, second président de la Soka Gakkaï (3), en pleine période de reconstruction, après la guerre en 1955, s'est adressé en ces termes à ses disciples: «Dès que l'on a compris le sentiment du Vrai Bouddha, comme est-il possible de négliger son travail? Pensez-y» (4). Il ne s'agit pas d'une apologie camouflée du capitalisme. Toda voulait mettre en exergue cet aspect bouddhique du don de soi absolu, idée qui, dans la mentalité occidentale est associée à la sphère religieuse ou à la rhétorique militaire. Il nous est difficile de croire qu'un tel esprit, qui s'est révélé essentiel pour arracher ce pays asiatique des décombres de la défaite et le projetter vers les sommets des statistiques de la production et du développement, ne hante plus aujourd'hui les coulisses de la «planète Japon», si complexe et si riche en contrastes.
Stefano BONINSEGNI.
Notes:
(1) L'indifférence à l'égard des tanin a des conséquences particulièrement désagréables pour les Coréens installés depuis des générations sur le territoire nippon et pour les eta, c'est-à-dire tous les Japonais qui exercent des professions considérées comme «impures» (bouchers et ouvriers des abattoirs, tanneurs, poissonniers, etc.).
(2) Cfr. Guglielmo ZUCCONI, Il Giappone tra noi, Garzanti, Milano, 1986; Antonio MARAZZI, Mi Rai. Il futuro in Giappone ha un cuore antico, Sansoni, Firenze, 1990.
(3) A la différence de ce que l'on dit et que l'on écrit, la Soka Gakkaï n'est pas, en fait, une nouvelle secte religieuse, mais une grande organisation laïque qui se réfère au clergé séculier bouddhiste de la Nichiren Shoshu. Récemment, ce clergé a destitué la Soka Gakkaï de ses prérogatives, en lui enlevant, entre autres choses, le droit de le représenter officiellement dans les milieux laïques et de diffuser le bouddhisme Nichiren. Au-delà des motivations exclusivement religieuses de cette dissension, il faut mentionner le fait que la Soka Gakkaï, sous la présidence de Daisaku Ikeda, a ajouté à sa mission traditionnelle de diffuser le bouddhisme un militantisme réformiste sur le plan social et des prises de position inspirées par un pacifisme absolu, qui déplaisaient forcément au clergé. Cette situation est révélatrice quant à l'atmosphère qui règne dans le Japon d'aujourd'hui.
(4) Cf. Il Nuovo Rinascimento, août 1991, p. 15.
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lundi, 19 octobre 2009
Pakistan: un fondamentalisme anti-chiite?
Pakistan: un fondamentalisme anti-chiite?
Dans une présentation didactique des principaux groupes fondamentalistes pakistanais actifs aujourd’hui, le quotidien flamand “De Morgen”, dans son édition du 16 octobre 2009, révèle les objectifs de base de quatre formations djihadistes:
- le Lashkar-e-Jhangri (LEJ)
- le Sipah-e-Sahaba Pakistan (SSP)
- le Jaish-e-Mohammed (JEM)
- le lashkar-e-Taiba (LET).
Le LEJ est une organisation sunnite née dans les années 90 et destinée à lutter, dans un premier temps, contre les chiites pakistanais. Ultérieurement le LEJ a opté pour un djihadisme généralisé. On lui attribue deux attentats: celui perpétré contre l’Hôtel Mariott à Islamabad et celui commis contre l’équipe de cricket du Sri-Lanka.
Le SSP (“Armée des Amis du Prophète”) a été fondé en 1985 dans l’intention de lutter contre les Chiites, parce que ceux-ci étaient majoritairement de gros propriétaires terriens dont les intérêts entraient en collision avec les hommes d’affaires et les professions indépendantes d’obédience sunnite. Le SSP est très lié au LEJ. Celui-ci est d’ailleurs issu des groupes les plus radicaux du SSP. Leur objectif est de faire du Pakistan un Etat exclusivement sunnite et de déclarer les chiites non musulmans et, par là même, parias et privés de tous droits de citoyenneté.
Le JEM (“Armée de Mohammed”), que l’on dit lié à Al Qaïda, avait été dissous après un attentat contre le Parlement indien en 2001. Au départ, ce groupe armé avait pour objectif de lutter contre les Indiens au Cachemire; plus tard, il a recentré ses activités dans la “zone tribale”, contigüe et du Penjab et de l’Afghanistan, pays auquel il a étendu ses activités, en liaison avec certains éléments des Talibans.
Le LET (“Armée des Justes”) a été constitué en 1990 pour lutter contre les Indiens au Cachemire avec, au départ, le soutien de l’armée et des services secrets pakistanais. On accuse le LET d’avoir commis l’attentat contre l’hôtel international de Mumbai (Bombay). Les Etats-Unis et l’Inde soupçonnent toujours le Pakistan de soutenir le LET.
(source: Ayfer ERKUL, “Dodelijke terreur in Pakistan”, in “De Morgen”, 16 oct. 2009).
Conclusion:
1) Le djihadisme, avec ses répercusssions “terroristes” avait pour objectif premier de lutter contre l’influence indirecte de l’Iran, qui aurait pu s’exercer via les communautés chiites, et contre l’Inde.
2) Le Pakistan, allié des Etats-Unis, a donc bel et bien servi d’instrument pour lutter contre le chiisme, en tant que prolongement de l’influence culturelle iranienne, et cela, sans doute dès l’époque du Shah. L’élimination de l’Empereur Pahlevi n’a nullement mis un terme aux persécutions anti-chiites, preuve que l’objectif final de Washington et d’Islamabad n’a jamais été d’éliminer un monarque qui aurait enfreint les droits de l’homme, comme on aimait dire du temps de Carter, ni d’éliminer de dangereux extrémistes fondamentalistes iraniens et chiites, mais de bloquer toute influence iranienne en direction de l’Afghanistan, du Pakistan et de l’Inde, selon les principes de “Grande Civilisation” théorisés par le dernier Shah et son entourage. De même, la manipulation de têtes brûlées djihadistes servait à enrayer le politique indienne dans la région (surtout au Cachemire), l’Inde étant soupçonnée de sympathies pour la Russie et de lui donner ainsi, indirectement, accès à l’Océan Indien.
3) L’alliance entre le fondamentalisme sunnite et les Etats-Unis se confirme, lorsqu’on examine les motivations premières des djihadistes pakistanais: leur ennemi, au départ, n’est ni l’Occident ni le communisme mais le chiisme et l’Inde. Les Etats-Unis ne pouvaient accepter ni une politique autonome de l’Iran impérial ni une politique autonome de la République Islamique d’Iran ni un tandem russo-indien dans l’Océan du Milieu.
4) L’option, récurrente dans certains milieux politiques ou métapolitiques non conformistes européens, de considérer que l’Islam est un bloc uni et, partant, une “force anti-impérialiste” dirigée contre les Etats-Unis en particulier et contre l’Occident en général, s’avère dès lors fausse et manichéenne. Le clivage sunnisme/chiisme est très souvent plus fort chez les djihadistes de base que le clivage Islam/Occident.
5) Les Etats-Unis, en appliquant la stratégie Brzezinski d’une alliance entre Mudjahhidins et Américains dès l’entrée des troupes soviétiques en Afghanistan en 1979, ont bel et bien ouvert une boîte de Pandore. Et les déboires que les Américains et leurs alliés doivent encaisser aujourd’hui dans la région sont les déboires de l’arroseur arrosé.
08:22 Publié dans Actualité | Lien permanent | Commentaires (2) | Tags : asie, affaires asiatiques, pakistan, fondamentalisme, extrémisme, islam, islamisme, terrorisme, djihad, djihadisme | |
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The Anglo-US Drive into Eurasia and the Demonization of Russia
![]() Reframing the History of World War II By Mahdi Darius Nazemroaya | |
Global Research, October 2, 2009 | |
As tensions mount between the U.S. and the North Atlantic Treaty Organization (NATO) on one side and Moscow and its allies on another, the history of the Second World War is being re-framed to demonize Russia, the legal successor state and largest former constituent republic (pars pro toto) of the Union of Soviet Socialist Republics (U.S.S.R.). In 2009, the U.S.S.R. and the Nazi government of Germany started being portrayed as the two forces that ignited the Second World War. The German-Soviet Non-Aggression Pact or the Ribeentrop-Molotov Pact caused shock waves in Europe and North America when it was signed. The German and Soviet governments were at odds with one another. This was more than just because of ideology; Germany and the Soviet Union were being played against one another in the events leading up to the Second World War, just as how previously Germany, the Russian Empire, and the Ottoman Empire were played against one another in Eastern Europe [3] British policy and the rationale for the non-aggression pact between the Soviets and Germans is described best by Carroll Quigley. Quigley, a top ranking U.S. professor of history, on the basis of the diplomatic agreements in Europe and insider information as an professor of the elites explains the strategic aims of British policy from 1920 to 1938 as:
It is because of this aim of nurturing Germany into a position of attacking the Soviets that British, Canadian, and American leaders had good rapports (which seem unexplained in standard history textbooks) with Adolph Hitler and the Nazis until the eve of the Second World War. In regards to appeasement under Prime Minister Neville Chamberlain and its beginning under the re-militarization of the industrial lands of the Rhineland, Quigley explains:
In regards to eventually creating a common German-Soviet, the French-led military alliance had to first be neutralized. The Locarno Pacts were fashioned by British foreign policy mandarins to prevent France from being able to militarily support Czechoslovakia and Poland in Eastern Europe and thus to intimidate Germany from halting any attempts at annexing both Eastern European states. Quigley writes:
The Anglo-German Naval Agreement of 1935 was also deliberately signed by Britain to prevent the Soviets from joining the neutralized military alliance between France, Czechoslovakia, and Poland. Quigley writes:
The Hoare-Laval Plan was also used to stir Germany eastward instead of southward towards the Eastern Mediterranean, which the British saw as the critical linchpin holding their empire together and connecting them through the Egyptian Suez Canal to India. Quigley explains:
Both the Soviet Union, under Joseph Stalin, and Germany, under Adolph Hitler, ultimately became aware of the designs for the planning of a German-Soviet war and because of this both Moscow and Berlin signed a non-aggression pact prior to the Second World War. The German-Soviet arrangement was largely a response to the Anglo-American stance. In the end it was because of Soviet and German distrust for one another that the Soviet-German alliance collapsed and the anticipated German-Soviet war came to fruition as the largest and deadliest war theatre in the Second World War, the Eastern Front. The Origins of the Russian Urge to Protect Eurasia | |
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jeudi, 15 octobre 2009
Le faux accord turco-arménien de Zurich ne doit pas nous tromper
Le faux accord turco-arménien de Zurich ne doit pas nous tromper
L'accord diplomatique signé à Zurich le 10 octobre, en présence de Mme Clinton, entre les ministres des Affaires étrangères turc et arménien est présenté au monde comme une avancée historique.
Il ne fait pas novation, pourtant, par rapport à une observation patiente des actes concrets accomplis, année après année, par le gouvernement d'Ankara (1).
Faut-il relever par exemple qu'en 1959, il y a exactement 50 ans par conséquent, et en la même ville de Zurich étaient convenus les accords gréco-turcs supposés régler le problème de Chypre. Celui-ci, cependant, aujourd'hui encore attend son règlement, supposant le simple respect des droits d'un État souverain, reconnu comme tel par les Nations-Unies, membre lui-même de l'Union européenne, à laquelle son envahisseur prétend adhérer.
À l'époque la Grande-Bretagne faisait office de puissance tutélaire.
Le cabinet de Londres songeait, paraît-il, à préserver, – sans aucune considération pour les engagements donnés depuis des décennies, – à ses intérêts stratégiques et pétroliers, tant au proche orient qu'à l'est de Suez.
À peine déplacées dans leur localisation les mêmes préoccupations président aujourd'hui à la présence sur la photo de la très épanouie Mme Clinton, triomphatrice du jour. En accord avec M. Lavrov, son homologue russe, elle pourra croire assuré le transit du pétrole et du gaz d'Asie centrale.
Inutile de souligner que la question symbolique de la reconnaissance du génocide arménien de 1915 n'a toujours pas reçu de réponse positive de la part du grand diplomate Davutoglou. On la renvoie encore une fois à une réunion d'experts, vieille manipulation turque. Le caractère négationniste de cette sempiternelle proposition ne devrait pourtant échapper à personne. Le débat a déjà eu lieu, notamment au parlement européen, qui a reconnu le génocide arménien le 18 juin 1987. La remise en cause de ce vote devrait exclure de toute perspective européenne ceux qui s'y adonnent.
Est-ce à dire, dès lors, que rien ne change sous le soleil d'Anatolie ?
Bien au contraire. Il se passe en effet beaucoup de choses en Turquie, depuis les élections européennes de juin 2009. Et comme d'habitude les médiats hexagonaux, particulièrement lorsqu'ils se font les propagandistes de l'adhésion, n'en parlent que très peu. Ils ne pointent, de loin en loin, que de fugaces et fragiles apparences de rapprochements, espoirs de solutions, promesses de réformes. Ils ne daignent jamais en évaluer, pour éclairer leurs auditeurs et lecteurs, le caractère cosmétique sinon irréaliste.
Tout l'été par exemple une polémique s'est développée, en Turquie même, à propos de l'amplitude des réformes que le gouvernement allait proposer aux Kurdes, tout en écartant les révolutionnaires du PKK. Même les chefs militaires ont dû consentir, à l'inverse des dirigeants du parti kémaliste, la nécessité de certaines évolutions. Cela n'a pas empêché la cour pénale de poursuivre 4 des 20 députés du parti DTP, qualifié de "pro-kurde". On les convoque en décembre devant la 11e Chambre du Tribunal correctionnel d'Ankara pour des propos qu'ils auraient tenus lors de la campagne électorale de 2007 : leurs opinions supposées les fait tomber, en effet, sous le coup de l'article 14 de la constitution.
Ce texte dispose que :
"aucun des droits et libertés fondamentaux inscrits dans la Constitution ne peut être exercé dans le but de porter atteinte à l’intégrité indivisible de l’État du point de vue de son territoire et de sa nation…"
L'intention séparatiste, ou même la simple revendication de l'autonomie culturelle, le fait de parler sa langue maternelle, l'affirmation suspecte de l'identité, étant appréciée par les tribunaux, ce dispositif fait explicitement exception à l'article 83 de la même constitution qui protège, en principe, la liberté d'expression et assure l'immunité des parlementaires.
Le premier ministre Erdogan, dont l'habileté n'est plus à découvrir, est allé jusqu'à protester contre cette démarche de l'autorité judiciaire et à proposer que l'on révise ces articles 14 et 83.
Reconnaissons qu'il serait bien avisé de passer à l'acte et de ne pas se contenter d'effets d'annonce.
La grande affaire consiste en effet à rendre le dossier de candidature présentable, pour le rapport qui sera établi en novembre, en vue de la conclusion en décembre de la présidence suédoise, conjoncture la plus favorable depuis fort longtemps. Rappelons à ce sujet que le rapport annuel sur l'avancée des négociations entre Bruxelles et Ankara avait été particulièrement pessimiste en novembre 2008.
En fait on sait aujourd'hui que la majorité des responsables européens partagent l'hostilité à l’entrée de la Turquie dans l’Union européenne, mais que la plupart d’entre eux n’osaient pas publiquement le faire savoir.
Profitons de la circonstance pour donner des nouvelles des positions les plus récentes prises officiellement par notre sous-ministre Lellouche affecté aux Affaires européennes à propos du sujet qui nous préoccupe et qui nous sépare de cette surprenante personnalité qui n'hésite pas à se dire lui-même "l'ami" du négociateur turc Bagis.
Lors de son passage du 23 septembre 2009 devant la commission des affaires européennes M. Lellouche a sobrement déclaré :
"Quant à notre position sur la Turquie, elle n'a pas varié. Comme l'a précisé le Président de la République, nous voulons une Turquie avec l'Europe mais pas dans l'Europe."
Jolie formule. Bien balancée. Elle dit beaucoup de choses en peu de mot, y compris au sujet de l'alignement de M. Lellouche sur la diplomatie présidentielle.
Du point de vue que je développe dans mon petit bouquin "La Question turque et l'Europe" qui vient de sortir, se pose quand même la question de ce que veut dire "la Turquie avec l'Europe". (2)
Je constate que ce pays qu'on insiste à déclarer "ami" agit actuellement contre l'Europe. Vis-à-vis des 3 pays de l'Union qui lui sont limitrophes, elle développe avec arrogance de véritables tensions frontalières permanentes, des provocations militaires, des revendications territoriales. Vis-à-vis des 24 autres sa position n'en est pas moins conquérante et cynique. etc.
Plus prolixe sur le sujet lors de son audition, le 16 septembre 2009, par la Commission chargée des affaires européennes de l'Assemblée nationale, il avait détaillé cette position française, et la sienne, de la manière suivante :
"Reste le dossier, cher à plusieurs d'entre vous, de la candidature turque. La position française est sans ambiguïté : nous souhaitons ardemment entretenir et enrichir encore une relation bilatérale pluriséculaire avec nos amis turcs - je recevrai d'ailleurs demain soir le ministre d'État turc chargé de la négociation avec l'Union européenne, Egemen Bagis, qui est un ami personnel -, nous sommes favorables au lien le plus fort entre la Turquie et l'Europe, mais nous sommes opposés à l'adhésion de la Turquie à l'Union européenne. Le président Nicolas Sarkozy s'y était engagé avant son élection, et les Français ont approuvé ce choix. 'Nous sommes pour une association aussi étroite que possible avec la Turquie, sans aller jusqu'à l'adhésion' : c'est en ces termes qu'il s'était exprimé devant les ambassadeurs, en août 2007, au lendemain de son élection. Cette position n'a pas varié. Elle est celle du gouvernement, et je m'y tiendrai.
Nous avons accepté de poursuivre les négociations avec la Turquie sur les trente chapitres compatibles avec une issue alternative à l'adhésion ; en revanche, les cinq chapitres qui relèvent directement de la logique d'adhésion sont laissés de côté.
J'ajoute que, depuis ma nomination, j'ai rencontré de nombreux collègues européens ; la plupart m'ont confié qu'ils partageaient la position française, mais qu'ils ne pouvaient le dire publiquement."
Cette dernière confidence de M. Pierre Lellouche me semble décisive.
Pourquoi cette pusillanimité demandera-t-on ?
Individuellement les responsables politiques européens savent ce projet d'élargissement préjudiciable au projet commun, et même fondamentalement contraire aux objectifs que s'est assignés l'Union européenne.
Cet élargissement extravagant, les peuples n'en veulent pas. Le grand espoir turc, du point de vue des partisans de l'adhésion, reposait sur l'hypothèse le 27 septembre d'une victoire aux élections allemandes du parti social démocrate, lequel a recueilli 55 % des voix au sein des 600 000 électeurs d'origine turque, mais 23 % seulement des suffrages de l'ensemble des Allemands.
Le manque de courage, le manque de clarté, le manque de vision de nos dirigeants me semble justifier que l'on oppose à l'Europe des États, qui nous prépare sans le vouloir peut-être, comme inexorablement, l'entrée de l'État turc dans son club, l'Europe des peuples, la vraie.
JG Malliarakis
Apostilles
- Dès le lendemain de l'accord ça recommençait : "Ouverture des frontières entre la Turquie et l’Arménie : Erdogan pose ses conditions" cf. 20 Minutes du 11.10.09 à 15 h 38.
Ce petit livre sur "La Question Turque et l'Europe" est paru ce 2 octobre. Conçu comme un outil argumentaire, contenant une documentation, des informations et des réflexions largement inédites en France, vous pouvez le commander directement au prix franco de port de 20 euros pour un exemplaire, 60 euros pour la diffusion de 5 exemplaires.
- Règlement
- par chèque à l'ordre de "l'Insolent" correspondance : 39 rue du Cherche Midi 75006 Paris.
ou sur le site des Éditions du Trident par débit sécurisé de votre carte bleue
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jeudi, 08 octobre 2009
Le pont ferroviaire eurasiatique, nouvelle route de la soie!
Le pont ferroviaire eurasiatique,
nouvelle route de la soie du XXIe siècle !
par Alexandre LATSA ( http://www.agoravox.fr )
De la conquête de la Sibérie à l’Amérique russe, de Lisbonne à Vancouver, en passant par Pékin, petit résumé du gigantesque pont ferroviaire Transeurasien et Transcontinental en construction...
La conquête de l’Est
Lorsque le tsar Ivan IV conquiert Kazan en 1554, la Russie tarit définitivement, par la force, le flot des invasions nomades, venues de l’Est. Désormais, elle se tourne vers cet immense territoire. En 1567, deux cosaques traversent la Sibérie et reviennent de Pékin en racontant les immenses territoires et les possibilités commerciales avec l’empire du milieu. Le tsar concédera alors à des marchands de fourrure, les Stroganoff des territoires « à l’Est » (en fait en Sibérie occidentale). Ceux-ci feront appel à 800 cosaques, sous commandement de Yermak pour les protéger.
A la toute fin du XVIe siècle, la conquête russe du far-est est lancée, elle mènera les colons russes jusqu’aux portes de San Francisco...
De l’Oural au Pacifique
Les chasseurs de fourrure traversent la Sibérie en moins de cinquante ans, et installent des bases sur la route de l’Est, Iénisséisk en 1619, Iakoutsk en 1632, puis la ville d’Okhotsk. En 1649, à l’extrême est de la Sibérie. Au Sud, les Atamans russes affronteront les Chinois pour la conquête de l’Amour. Yeroïeï Khabarov met en déroute une troupe de plusieurs milliers de Chinois avant de reperdre la région et que la paix de Nertchinsk (1689) ne laisse la zone aux Mandchous. Les chasseurs russes remontent alors vers le Nord, et l’Est. Entre 1697 et 1705, le Kamtchatka est conquis. Un mercenaire danois, Vitus Behring, entreprendra une traversée de la Sibérie puis de la mer d’Okhotsk pour enfin traverser, en 1728, le détroit qui porte son nom.
En 1741, moins de deux cents ans après l’expédition de Yermak, les Russes abordent l’Amérique du Nord.
L’Amérique russe
Cette conquête s’accentuera dans la deuxième partie du XVIIIe siècle, non pour des raisons politiques, le pouvoir russe se désintéressant provisoirement de l’Amérique russe, mais purement commerciales, sous la pression des chasseurs de fourrures, livrés à leur seule ingéniosité et à leur volonté de négoce avec l’Asie. En 1761, ils mettent pied en Alaska. Une « Compagnie américaine » est même créée en 1782 pour « organiser » l’écoulement de fourrure russe en Chine, et contrer les Anglais qui écoulent eux la fourrure du Canada via le cap de Bonne-Espérance. En 1784, Alexandre Baranov, aventurier et trappeur russe fonda un empire commercial de vingt-quatre comptoirs permanents entre le Kamtchatka et la Californie. Le pouvoir russe dès lors prend conscience de l’énorme avantage que lui procure cette situation. Baranov sera nommé gouverneur de la zone, puis anobli, avant de se voir confier de déployer la « Compagnie russo-américaine » (qui gère tout le commerce de fourrure du Pacifique) le plus au Sud possible. En 1812, Fort Ross est créé, au nord de San Francisco. La présence russe est à son apogée en Amérique.
Le déclin de l’Amérique russe
Cette mainmise russe sera pourtant de courte durée. Concurrencé par les Anglais en Extrême-Orient, soumis à des révoltes occasionnelles des indigènes « nord-américains » (Aléoutes, Esquimaux, Indiens), le pouvoir russe se focalisera sur la Sibérie du Sud, jugée plus accessible de la capitale et tout aussi frontalière des pays d’Asie et de leurs débouchés commerciaux. En 1841, Fort Ross est abandonné et, en 1858, la frontière russo-chinoise est quasi stabilisée, l’Amour étant de nouveau rattachée à la Russie. En 1860, la « Compagnie russo-américaine » ne fait plus le poids face à son concurrent anglais (la Compagnie de la baie d’Hudson) et son « bail » n’est pas renouvelé.
En outre, l’effort consenti pour la guerre de Crimée (opposant la Russie avec la Grande-Bretagne, la France, l’Autriche, le Piémont et la Turquie, obligeant la Russie à se défendre de Saint-Pétersbourg à Novo Arkhangelsk, en Amérique du Nord) rendait difficilement tenable le front américain, menacé par les Britanniques. Le coût excessif de cette « colonie » et l’incapacité militaire russe à la défendre face aux Britanniques fit germer l’idée d’une cession à l’Amérique (alliée d’alors contre la Couronne). Le traité de vente de l’Alaska fut signé le 30 mars 1867.
Du Transcanadien au Transsibérien
En 1891 (alors que le projet avait été mis sur table dès 1857 par le comte Mouraviev), Alexandre III décrète la construction d’une immense voie ferrée qui reliera l’Oural à Vladivostock, sur les rives du Pacifique. Ce choix sera déterminé par les débouchés commerciaux envisagés avec l’Asie du Sud-Est, mais aussi la nécessité de renforcer les « villes ports » de l’Extrême-Orient (face à la militarisation de la Chine à sa frontière avec la Russie) et la marine militaire du Pacifique. La voie sera terminée en 1904, passant par la Mandchourie (sur du lac Baikal). La perte de ce territoire en 1907 rendra nécessaire la création d’une ligne de contournement, passant au « nord » du lac, c’est la seconde ligne, dite BAM (Baikal-Amour-Magistral), qui sera terminée elle en 1916.
En outre, les Russes s’inspirent de leurs concurrents anglais qui ont eux lancé dès 1871 une ligne de chemin de fer entre la côte Est et la côte Ouest du Canada, avec un double but : le transport des matières premières et surtout l’unification territoriale du Canada. Le premier Transcanadien joindra le Pacifique en 1886.
Le projet fou : la jonction ferroviaire Eurasie-Amérique
En 1849, un gouverneur du Colorado élabore un projet fou : un tunnel « sous » le détroit pour faciliter la traversée entre la Russie et l’Amérique. A cette époque, l’Alaska est pourtant encore russe. Le projet réapparaîtra au début du XXe siècle, un architecte français, Loic de Lobel, le présentant au tsar Nicolas II, moins de quarante ans après que son grand-père a cédé l’Alaska aux Etats-Unis. Les changements géopolitiques majeurs du demi-siècle qui suivirent ne laissèrent pas beaucoup de place à la coopération russo-américaine. En 1945, la guerre froide fait de ces deux monstres, qui se partagent le monde, des ennemis jurés. Le délabrement post-soviétique ne permet pas de relancer l’idée.
En septembre 2000 pourtant, à Saint-Pétersbourg, a lieu une « Conférence eurasiatique sur les transports », cinq grands couloirs de développement furent définis sur le continent :
le couloir Nord, via le Transsibérien, de l’Europe vers la Chine, la Corée et le Japon ;
le couloir central, de l’Europe méridionale à la Chine, via la Turquie, l’Iran et l’Asie centrale ;
le couloir Sud, de l’Europe méridionale vers l’Iran, puis remontant vers la Chine par le Pakistan et l’Inde ;
le couloir Traceca, d’Europe de l’Est à l’Asie centrale, par les mers Noire et Caspienne ;
un couloir Nord-Sud combinant le rail et le transport maritime (Caspienne), de l’Europe du Nord à l’Inde.
Plus récemment, en mai 2007, une conférence intitulée « Les mégaprojets de l’Est russe » eut lieu à Moscou, ayant pour but de dévoiler les grands projets de l’Etat pour lutter contre le sous-développement et le sous-peuplement des régions de Sibérie et renforcer l’axe Est de la Russie. La conférence était présidée par un ancien gouverneur de l’Alaska, Walter Hickel, également secrétaire à l’Intérieur des Etats-Unis et ardent supporter du « projet fou » depuis les années 1960.
A cette occasion, fut dévoilé le nouveau projet de voie ferrée reliant la Russie à l’Amérique, à l’étude au Conseil d’études des forces productrices russes (CEFP). Son vice-président, Viktor Razbeguine, en a dévoilé les grands traits : la construction d’une immense artère reliant les continents « Eurasie-Amérique », de Iakoutsk en Sibérie orientale jusqu’à Fort Nelson au Canada, le tout via un tunnel sous le détroit de Béring long de 100 à 110 kilomètres ce qui en ferait de loin le plus long de la planète.
La voie ferrée assurerait l’accès aux ressources hydro-énergétiques de l’Extrême-Orient et du Nord-Ouest des Etats-Unis, et permettrait de construire des lignes HT et un passage de câbles par le détroit, en reliant les systèmes énergétiques des deux pays. Cette artère pourrait assurer le transport de 3 % des cargaisons du monde. La durée et la construction de l’ensemble devrait prendre de quinze à vingt ans. Le chiffre d’affaires des échanges commerciaux générés pourrait atteindre 300 à 350 milliards de dollars, toujours selon Viktor Razbeguine et le retour sur investissement attendu sur trente ans, après l’accession du chemin de fer à sa capacité projetée de 70 millions de tonnes de marchandises par an.
Sa construction pourrait en outre créer entre 100 000 et 120 000 emplois et revivifier la région Sibérie orientale, avec pourquoi pas la création de nouvelles villes et d’immenses zones agro-industrielles.
Outre le « link » des systèmes énergétiques de l’Ours et de l’Aigle, le président de l’IBSTRG (Interhemispheric Bering Strait Tunnel and Railroad Group), un « lobby tripartite Russie-Canada-Etats-Unis » qui défend le projet de son côté depuis 1992, affirme : « Le sous-sol de la Sibérie extrême-orientale regorge d’hydrocarbures, mais aussi de métaux rares, pas encore exploités précisément à cause de l’absence de communications ». Ce sont ces trésors enfouis qui devraient selon lui permettre de lever les fonds pour lancer la voie ferrée de Iakoutsk, mais aussi le début des travaux sous le détroit. L’IBSTRG a en outre confirmé lors de la conférence de l’Arctique sur l’énergie (AES) en octobre 2007 que le projet passerait par l’utilisation de mini-réacteurs nucléaires mobiles, transportées par rail, route ou navire, ainsi que par l’énergie hydroélectrique pour l’expansion du réseau ferroviaire.
Les regards sont aujourd’hui tournés vers le gouverneur de l’immense région de Tchoukotka, que devrait traverser l’artère, également homme le plus riche du pays car, comme l’a affirmé le représentant du ministère russe de l’Economie, Maxime Bistrov, le fonds fédéral d’investissement finance des projets uniquement s’ils sont déjà soutenus par des entreprises privées ou avec l’aide de financements régionaux... A bon entendeur.
Quoi qu’il en soit, les différents promoteurs du tunnel fondent l’espoir que les pays du G8 soutiendront le projet. Sinon, des entreprises asiatiques, japonaises en priorité, ont déjà proposé leur aide. Le principal atout de ces liaisons ferroviaires transcontinentales n’est pas uniquement de transporter des marchandises plus rapidement, mais « intégrées à de véritables corridors de développement, elles participeront au désenclavement des pays et des régions dépourvus d’accès maritime » et, plausiblement, introduiront les futures lignes à très haute vitesse (magnétique ?) qui permettront de traverser l’Eurasie encore plus vite.
Le TransEurasien, route de la soie du XXIe siècle
Le 7 mai 1996 à Pékin, Song Jian, président de la Commission d’Etat chinoise pour la science et la technologie présentait le « Pont terrestre eurasiatique comme le tremplin d’une nouvelle ère économique pour une nouvelle civilisation humaine ». Douze ans plus tard, le 9 janvier 2008, s’est élancé le premier train « eurasiatique » de marchandise reliant Pékin à Hambourg. Le train a relié les deux villes après avoir traversé la Chine, la Mongolie, la Russie, la Biélorussie, la Pologne et l’Allemagne (soit plus de 10 000 km) en seulement quinze jours.
Lors du sommet de l’APEC en 2006, le président russe Vladimir Poutine évoquait la perspective d’une nouvelle configuration de l’Eurasie, reposant sur : « des projets conjoints à large échelle dans les transports, l’énergie et les communications ». Au même sommet, l’ancien président sud-coréen Kim Dae-Jung avait lui assuré que : « les chemins de fer Transcoréen, Transsibérien, Tnansmongol, Transmanchourien et Transchinois formeront cette "route ferroviaire de la Soie", reliant l’Asie du Nord-Est à l’Europe en passant par l’Asie centrale... »
La glorieuse route de la soie du passé renaîtra ainsi sous la forme d’une "route ferroviaire de la soie", faisant ainsi entrer l’Eurasie dans une ère de prospérité.
"Je veux récupérer mon empire", aurait lancé Vladimir Poutine lors d’une rencontre internationale à huis clos. A en croire la position qu’est en train de prendre la Russie, aiguillon entre l’Europe, l’Asie et l’Amérique du Nord, sur la plaque eurasiatique, on peut sans doute le croire...
SOURCES :
- Philippe Conrad sur CLIO
Catherine SAUER BAUX sur STRATISC
Wikipédia
Le Figaro magazine
Arctic.net
Ria Novosti
Solidarité et progrès
La Tribune
L’association « Amitié France Corée »
Xinhua.net
La Voix de la Russie
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dimanche, 27 septembre 2009
Aux fils d'Ungern, qui par un bel été rouge à Pékin...
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AUX FILS D’UNGERN,
QUI PAR UN BEL ETE ROUGE A PEKIN…
Laurent Schang
La nature est ainsi faite, malgré les deuils de nos proches, la proximité des cimetières – « Ô France, vieux pays de la terre et des morts ! » –, il est des aînés, des figures, au sens latin du mot, qu’on n’imagine pas devoir mourir un jour. Qui aurait l’idée saugrenue de peindre la baie de Saint-Malo sans son phare ? Afin de retarder l’instant fatidique, il plut au poète d’inventer un baume, une formule magique à l’usage des bonnes gens, et l’on ne parle plus de la perte de l’être cher mais de sa disparition, comme si la personne avait tourné le coin de la rue pour ne jamais revenir. Infinie pitié de la langue française… Disons donc, avec Monsieur le curé, que Jean Mabire a disparu le 29 mars dernier dans sa quatre-vingtième année, au terme d’une existence bien remplie, et restons-en là.
Par ma faute, notre relation épistolaire, je n’ose écrire notre amitié, était plutôt mal partie. Dans un article où j’encensais le travail de recherche effectué par un ex officier de l’armée soviétique sur la vraie vie du baron Ungern, Le Khan des steppes,* j’avais commis l’injustice toute journalistique de féliciter l’auteur pour l’abondance de ses sources, comparée à leur absence supposée dans la biographie romancée de Jean Mabire, Ungern le baron fou, parue en 1973. Je dis supposée parce que, sûr de mon fait, je ne m’étais pas donné la peine, élémentaire, de vérifier l’information avant de rédiger mon papier. Deux semaines plus tard, l’article paraissait dans un supplément littéraire à gros tirage. Sans se démonter, Jean Mabire m’écrivit au journal, un carton ferme mais poli accompagné d’une photocopie de sa bibliographie – six pages complètes, impossibles à rater, en fin de livre. Honte à moi ! J’ai oublié depuis le contenu de ma réponse mais j’en devine la nature. L’imprudence est un péché de jeunesse et Mabire, je m’en rendrais compte au fil du temps, n’aimait rien tant qu’aller à la rencontre de ses jeunes lecteurs. J’ai conservé ce carton imprimé, un des rares écrits de sa main, et je le conserve encore dans son enveloppe, comme le plus précieux des autographes. La mansuétude n’était pas la moindre de ses qualités, je ne tarderais pas non plus à m’en apercevoir. En guise d’excuse, me connaissant j’ai dû lui griffonner à peu près ceci : « Cher Jean Mabire, (…) chose exceptionnelle chez moi, (…) pourtant, j’ai lu deux fois votre Ungern, (…) la première dans sa version de poche, la seconde dans sa réédition sous un nouveau titre : Ungern le dieu de la guerre, (…) mon livre de chevet, (…) Les Hors-la-loi, (…) Mourir à Berlin, (…) Les Samouraï, (…) L’Eté rouge de Pékin » Etc., etc. Rien que la vérité en somme.
S’en suivit dès lors une correspondance ininterrompue entre l’élève et son maître, même si au final, à relire ses lettres tapées à la machine, l’impression d’un commerce d’égal à égal domine. Jean Mabire m’y exposait l’avancée de son travail, ses projets de livres, et ils étaient nombreux, se souvenait des amis perdus, Roger Nimier, Dominique de Roux, Philippe Héduy, mais surtout, il m’interrogeait. Car derrière le bourreau d’écriture, le vénérable malouin curieux de tout, se cachait d’abord un éternel jeune homme, toujours inquiet de son époque et des siens. J’en veux pour preuve nos échanges de point de vue sur Israël – sa fascination pour les kibboutzim, leur idéologie de la charrue et de la grenade –, l’avenir de l’Union européenne, la subite redécouverte de Nietzsche, « le moins allemand des philosophes allemands », après les décennies de purgatoire. Vraiment, Christopher Gérard, dont on lira plus loin l’article, a raison de qualifier Jean Mabire d’honnête homme.
J’ai évoqué plus haut sa bonté d’âme, il me faut maintenant raconter l’extraordinaire générosité avec laquelle il me fit si souvent profiter des chefs-d’œuvre de sa collection. Mabire connaissait ma passion pour l’Extrême-Orient des années 30. Du rarissime Shanghai secret, petit bijou de reportage signé Jean Fontenoy aux portraits japonais de Sur le chemin des Dieux, de Maurice Percheron, des cadeaux de Jean Mabire mon préféré, avec son ex-libris frappé sur la page de garde, je ne compte plus le nombre de livres reçus par la poste en cinq ans. Combien en eut-il de ces gestes spontanés envers moi ? « Et va la chaîne de l’amitié… » me disait-il. Plus modestement, je lui envoyais mes nouvelles, des articles découpés dans la presse, sur l’histoire des ducs de Lorraine, la guerre de 1870, et mon livre dédicacé. Ainsi respections-nous l’antique principe du don et du contre don. « Chacun sert où il peut », aimait-il à me répéter en signe d’encouragement, lui qui confessait n’avoir été pleinement heureux qu’une fois dans sa vie en dehors de sa bibliothèque, en Algérie, où il servit de 58 à 59 sous l’uniforme de capitaine d’un commando de chasse.
Je n’insisterai pas sur la carrière du romancier ni sur la prodigalité de l’écrivain militaire, une centaine de livres, sans parler des rééditions. S’agissant du régionaliste normand, du fédéraliste européen, je renvoie le lecteur à l’entretien qui suit. Pour le détail de son œuvre, les intéressés trouveront sur Wikipédia une biobibliographie très correcte et des liens vers d’autres sites.
Jean Mabire n’aura pas vécu assez pour feuilleter la réédition de L’Eté rouge de Pékin, enrichie de sa préface inédite.** Dans son dernier courrier, déjà très affecté par la maladie, il me faisait part de sa tristesse de voir les rangs se dégarnir un peu plus autour de lui chaque année. Il n’en poursuivait pas moins d’arrache-pied la rédaction d’un essai sur la vie et l’œuvre du lieutenant-colonel Driant, de son nom de plume le capitaine Danrit, un soldat à sa mesure, rendu célèbre au début du siècle précédent par ses romans d’anticipation et tué en 1916 à la tête des 56e et 59e chasseurs, au deuxième jour de la bataille de Verdun. Une belle mort, aurait-il dit, la mort rêvée du centurion.
Jean – je peux bien l’appeler Jean à présent – avait choisi la voie martiale de l’écriture pour mieux se faire entendre dans ce pays « devenu silencieux et bruyant ». Il s’est tu avec, je l’espère, le sentiment du devoir accompli.
Jean Mabire, Paris 8 février 1927 – Saint-Malo 29 mars 2006
* Léonid Youzéfovitch, Editions des Syrtes, 2001.
** Editions du Rocher, 2006. Sur la genèse de ce livre, cf. l’entretien avec Eric Lefèvre ci-après.
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lundi, 21 septembre 2009
Les articles de Jean Paul Roux sur clio.fr
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lundi, 14 septembre 2009
La CIA, Al Qaida et la Turquie au Xinjiang et en Asie centrale
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La CIA, Al Qaida et la Turquie au Xinjiang et en Asie centrale
Lors d'une interview à l’émission radio Mike Malloy radio show, l’ancienne traductrice pour le FBI, très connue aux Etats-Unis Sibel Edmonds a raconté comment le gouvernement de son pays a entretenu des « relations intimes » avec Ben Laden et les talibans, « tout du long, jusqu’à ce jour du 11 septembre (2001). » Dans « ces relations intimes », Ben Laden était utilisé pour des “opérations” en Asie Centrale, dont le Xinjiang en Chine. Ces “opérations” impliquaient l’utilisation d’al-Qaida et des talibans tout comme « on l’avait fait durant le conflit afghano-soviétique », c’est à dire combattre “les ennemis” par le biais d’intermédiaires.
Comme l’avait précédemment décrit Mme Edmonds, et comme elle l’a confirmé dans cette interview, ce procédé impliquait l’utilisation de la Turquie (avec l’assistance d’acteurs provenant du Pakistan, de l’Afghanistan et de l’Arabie Saoudite) en tant qu’intermédiaire, qui à son tour utilisait Ben Laden et les talibans comme armée terroriste par procuration.
Selon Mme Edmonds : « Ceci a commencé il y a plus de dix ans, dans le cadre d’une longue opération illégale et à couvert, menée en Asie centrale par un petit groupe aux États-Unis. Ce groupe avait l’intention de promouvoir l’industrie pétrolière et le Complexe Militaro-Industriel en utilisant les employés turcs, les partenaires saoudiens et les alliés pakistanais, cet objectif étant poursuivi au nom de l’Islam. »
Le journaliste new-yorkais Eric Margolis, auteur de War at the top of the World, a affirmé que les Ouïghours, dans les camps d’entrainement en Afghanistan depuis 2001, « ont été entrainés par Ben Laden pour aller combattre les communistes chinois au Xinjiang. La CIA en avait non seulement connaissance, mais apportait son soutien, car elle pensait les utiliser si la guerre éclatait avec la Chine. »
L'action des services secrets états-uniens aux côtés des séparatistes ouïghours du Xinjiang n'est pas seulement passée par Al-Qaïda mais aussi par le milliardaire turc domicilié à Philadelphie depuis 1998 Fetullah Gulen qui finance des écoles islamiques (madrassas) en Asie centrale, et par Enver Yusuf Turani, premier ministre autoproclamé du "gouvernement en exil du Turkestan oriental" (qui est censé englober le Xinjiang chinois)... basé à Washington. Ces personnalités sont liées à Morton I. Abramowitz, directeur du National Endowment for Democracy, qui a joué un rôle important dans le soutien aux islamistes afghans sous Reagan et aux milices bosno-musulmanes et kosovares sous Clinton (dans le cadre de l'International Crisis Group). Le vice-président étatsunien Joe Biden qui s'est répandu en propos incendiaires contre la Russie récemment est aussi sur cette ligne.
Cette politique s'inscrit dans le cadre du plan Bernard Lewis à l'origine supervisé par Zbigniew Brzezinski sous l'administration Carter qui visait à maintenir un "arc de crise" dans les pays musulmans d'Eurasie pour faire main basse sur les ressources d'Asie centrale en hydrocarbures.
Certains observateurs soulignent cependant que vu leur dépendance économique à son égard et l'intérêt qu'ils peuvent avoir à jouer la carte de Pékin contre Moscou les Etats-Unis sont voués à garder officiellement une position modérée sur la politique de la Chine au Xinjiang (où de violentes manifestations touchent la province et provoquent la mort d'au moins 140 personnes le 5 juillet dernier) en compensation de la politique agressive de leurs services secrets dans la zone.
Pékin semble toutefois résolu à contrer les manoeuvres sécessionnistes sur son territoire, mais aussi à mener une action plus en profondeur sur le continent eurasiatique. C'est ainsi en tout cas que Nicolas Bardos-Feltoronyi, contributeur de l'atlas alternatif, analyse le prêt d'1 milliard de dollars que Pékin serait prêt à consentir à la Moldavie, pays charnière entre l'Union européenne et la Russie - un prêt sur 15 ans à un taux d’intérêt hautement favorable de 3%. Cette aide qui pourrait dissuader Chisinau de se rapprocher de l'Union européenne s'inscrirait selon l'auteur dans le cadre d'une coordination accrue des politiques étrangères russe et chinoise. C'est aussi l'analyse qu'en fait Jean Vanitier sur son blog.
Autre réplique à l'impérialisme états-unien en Eurasie, après la Libye, l'Algérie et la Syrie, le président vénézuélien Hugo Chavez s'est rendu le 7 septembre au Turkménistan, quatrième pays au monde pour les réserves de gaz après la Russie, l'Iran et le Qatar. Chavez a proposé à son homologue turkmène Gourbangouly Berdymoukhammedov d'adhérer au cartel gazier déjà évoqué sur ce blog. Le Turkménistan, actuellement en froid avec Moscou, est aussi très courtisé par l'Union européenne qui souhaite le voir adhérer à son projet de gazoduc Nabucco, ainsi que par la Chine.
F. Delorca
http://atlasalternatif.over-blog.com/
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Le Japon bientôt libéré?
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Le Japon : bientôt libéré ? |
Second article choisi à l’occasion des élections historiques au Japon qui ont vu la semaine passée le pouvoir changer de main :
« Vingt ans après la fin de la guerre froide, la communauté internationale vit de grands changements structurels. Affaiblis par le conflit en Irak et la guerre contre le terrorisme en Afghanistan et responsables de la crise financière et économique, les Etats-Unis ont perdu leur prestige et leur assurance d’antan. L’arrivée au pouvoir de Barack Obama, qui souhaite renforcer la coopération internationale, marque la fin de l’unilatéralisme américain. De leur côté, des pays émergents comme la Chine, l’Inde et le Brésil ont accru leur influence à la faveur de la crise, tandis que des membres du G8 – et notamment le Japon – ont vu la leur décliner.
Face à ces bouleversements, le Japon doit fonder sa diplomatie et sa politique de maintien de la paix sur une nouvelle philosophie, affranchie de la logique de la guerre froide. Les gouvernements libéraux-démocrates qui se sont succédé jusqu’ici ont fait de l’alliance nippo-américaine le principal pilier de leur politique étrangère et sécuritaire. Ils n’ont pas cessé de préconiser son renforcement. […] Cependant, le pouvoir actuel a souvent été critiqué pour sa servilité envers les Etats-Unis. L’ancien Premier ministre Junichiro Koizumi, qui a remporté une majorité écrasante lors des précédentes élections générales en 2005, considérait qu’à l’instar des liens personnels qu’il avait noués avec le président George Bush, “meilleures seraient les relations nippo-américaines, plus le Japon aurait de chances d’en avoir de satisfaisantes avec le reste du monde, à commencer par la Chine, la Corée du Sud et les autres pays d’Asie”. Mais, à force de s’aligner sur la politique des Etats-Unis, il a fini par se couper du reste du monde.
Il est temps que le Japon cesse de se montrer servile vis-à-vis de Washington. Il doit adapter ses rapports avec les Etats-Unis en fonction de l’évolution de la conjoncture mondiale et renforcer ses liens avec la communauté internationale, et en particulier avec les pays asiatiques. […] Dans ses “Mesures pour 2009”, le document qui a servi de base à son programme électoral, le Parti Démocrate Japonais (PDJ) propose, comme base de sa politique étrangère et sécuritaire, de “bâtir une alliance nippo-américaine adaptée à l’ère nouvelle” et d’établir un “partenariat sur un pied d’égalité”. Dans ses “Mesures pour 2008”, le PDJ avait fait des propositions susceptibles d’être mal accueillies par les Etats-Unis. Il préconisait notamment une “révision radicale de l’accord sur le statut des forces américaines au Japon” et une “vérification constante” des dépenses liées au cantonnement de ces soldats sur le territoire national, notamment la prise en charge des frais générés par le redéploiement de l’armée américaine dans la région et des frais généraux des forces américaines stationnées sur l’archipel. »
Mainichi Shimbun (Japon), août 2009
NDLR1 : Ces prévisions ne sont pas sans faire penser à celles exprimées par Aymeric Chauprade dans son livre Chroniques du Choc des Civilisations (Chroniques Dargaud, 2009) lorsqu’il écrit, aux p.198 et 200 : « Ce qui oppose actuellement le Japon et la Chine pourrait bien se transformer en jour en facteur de rapprochement. […] Entre deux humiliations, celle infligée au Japon par la race blanche et celle infligée par des frères confucéens, fussent-ils ennemis séculaires, laquelle pèsera le plus dans vingt ans ? Nous sommes en Asie, une région où les peuples ne sont pas métissés, et où aucune des "maladies" importées de l’Occident (individualisme, hédonisme, vieillissement démographique) n’a altéré la cohésion ethnique des groupes humains. […] Plus les années vont passer, plus la réalité économique du Japon va diverger de celle des Etats-Unis au profit de cette sphère de co-prospérité asiatique. » NDLR2 : Le fait d’avoir choisi pour illustrer cet article une photo du grand écrivain et combattant Yukio Mishima ne sous-entend évidemment pas que nous comparons le Parti Démocrate Japonais à l’auteur de Confession d’un Masque, mais il nous semble que dans l’imaginaire national japonais, Mishima est peut-être le plus à même de symboliser le réveil et l’autonomie du Japon. |
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dimanche, 13 septembre 2009
Le Japon: un pays occupé
![]() Le Japon : un pays occupé
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Premier article choisi à l’occasion des élections historiques au Japon qui ont vu la semaine passée le pouvoir changer de main :
« "Le niveau de frustration des Japonais au sujet des exigences des Etats-Unis est tel que toutes les initiatives politiques de Washington, même celles qui sont dans l’intérêt du pays, rencontreront une résistance. L’Amérique ne le sait sans doute pas, mais elle est en train d’écraser l’identité du peuple japonais et celui-ci, à la longue, ne l’acceptera pas". Assez inhabituel, ce franc-parler de M. Makoto Utsumi, ancien haut fonctionnaire, touche du doigt un des aspects négligés mais centraux de l’interminable crise japonaise : l’emprise américaine sur une société devenue incapable de définir des objectifs nationaux et de se donner un rôle politique à la mesure de son poids économique. La corruption, l’immense gaspillage de ressources dans de grands projets inutiles et l’incompétence affligeante de la caste dirigeante issue du Parti libéral démocrate (PLD) ne sont certes pas directement imputables à cette dépendance externe. Mais les Etats-Unis ont, dans une large mesure, façonné le système en construisant, au lendemain de la seconde guerre mondiale, une relation entièrement destinée à servir leurs intérêts. Sous l’impulsion du secrétaire d’Etat américain John Foster Dulles, cet obsédé de l’anticommunisme, ils ont transformé l’ex-ennemi japonais en allié, en satellite et en agent des Etats-Unis dans la confrontation contre l’Union soviétique et la République populaire de Chine. Au nom de la guerre froide et en réaction à la victoire du Parti communiste chinois en 1949, ils ont abandonné leur projet initial de démocratisation du Japon et stimulé l’émergence d’une caste d’élite qui a monopolisé pendant près de soixante ans le pouvoir, favorisant ainsi la connivence, le clientélisme et la corruption plutôt que l’intérêt général. Ils ont dominé l’économie politique du pays et limité son autonomie. […]
L’incapacité du pays à mener à bien des réformes dans la décennie suivante n’a pas été le résultat d’une trop forte intervention de la bureaucratie dans la gestion économique. Au contraire, elle tient à l’autonomisation des intérêts privés et corrélativement à la faiblesse de l’intervention publique dans la mise en oeuvre de la politique économique du pays. Comme l’a souligné M. Joseph Stiglitz, ancien économiste en chef de la Banque mondiale et Prix Nobel d’économie, "la régulation est devenue le bouc émissaire, alors que le véritable coupable était un manque de contrôle".
Les critiques du modèle nippon cherchent à discréditer toute autre voie que le modèle américain et à créer des fondations idéologiques solides pour la poursuite de l’ordre dominant libéral centré aux Etats-Unis. Ils visent en particulier l’"Etat développeur" capitaliste d’Asie orientale. Les idéologues américains ignorent superbement les fondements culturels du dirigisme économique dans nombre de pays d’Asie orientale : ils orientent l’économie vers le long terme, alors que les finalités du capitalisme actionnarial américain se résument à l’accumulation à court terme. De plus, ces idéologues exagèrent jusqu’à la caricature les bienfaits supposés du système américain.
Comme le souligne l’auteur anglais John Gray, "c’est une caractéristique de la civilisation américaine que de concevoir les Etats-Unis comme un modèle universel, mais cette idée n’est acceptée par aucun autre pays. Aucune culture européenne ou asiatique ne peut tolérer la déchirure sociale – dont les symptômes sont la criminalité, l’incarcération, les conflits raciaux et ethniques, et l’effondrement des structures familiales et communautaires – qui est l’envers du succès économique américain".
Au fond, le problème du Japon ne relève pas de l’économique, mais du politique. Le Parti libéral démocrate (PLD), au pouvoir depuis 1949, est corrompu et incompétent. Son ancien rôle de bastion anticommuniste n’a plus aucune espèce de pertinence. Mais les Américains adorent le PLD, seul parti politique du pays à être suffisamment indifférent à la souffrance et à l’humiliation des habitants d’Okinawa (ou des autres populations vivant à proximité des 91 bases militaires des Etats-Unis) pour servir d’agent de Washington. Au cours des dernières décennies, ils ont déboursé des sommes immenses pour soutenir leurs affidés du PLD et diviser le camp progressiste et socialiste. »
Chalmers Johnson, président du Japan Policy Recherche Institute (JPRI), "Les impasses d’un modèle : cinquante années de subordination", Le Monde Diplomatique, mars 2002 |
00:20 Publié dans Actualité | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : asie, affaires asiatiques, japon, extrême orient, politique internationale, géopolitique, pacifique | |
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