Ok

En poursuivant votre navigation sur ce site, vous acceptez l'utilisation de cookies. Ces derniers assurent le bon fonctionnement de nos services. En savoir plus.

samedi, 21 novembre 2009

"Aventure Japon": la "bi-civilisation"

biciv9782869596177.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1997

«Aventure Japon»: la “bi-civilisation”

Spécialiste du Japon, Robert Guillain publie Aventure Japon, une approche très vivante de cette “bi-civilisation” qu'il évoque ainsi: «La bicivilisation, voilà selon moi l'invention majeure du Japon. Ce monsieur que voici, ce monsieur “derrière sa cravate”, comme j'aime à le décrire, est à première vue devenu le semblable de l'ingénieur, de l'industriel, du professeur français, européen, occidental. Mais qu'on ne s'y trompe pas: il a derrière lui  —lui-même n'y pense pas et ne s'en doute même pas—  une culture et une civilisation complètement différentes des nôtres. Grattez un peu, et ses racines, son pedigree, si je peux dire, le situent dans un monde qui a peu de traits communs avec le nôtre (...). Le bicivilisé peut dans tous les domaines de la vie quotidienne et de la culture nous présenter des réalisations tout à fait différentes des nôtres, et qui souvent semblent nous dire: il y avait une solution autre que la vôtre, la voici. Elle a plus de mille ans! C'est ainsi qu'au Japon tout est en double, à commencer par la façon de vivre la vie quotidienne, de se loger, de se nourrir, de s'habiller. Deux sortes de repas, menu occidental et menu japonais; deux types de maisons, la maison japonaise avec toutes ses merveilles  —comme les armoires dans le mur—  et la maison ordinaire, semblable aux nôtres; deux couches où dormir, le lit et le tatami, deux vêtements, le kimono et le complet-veston ou la robe de style “parisien”; deux sortes d'instruments pour écrire, le pinceau et la plume; deux peintures, noir et blanc “à la chinoise” et peinture en couleurs; deux types d'hôtelleries, l'hôtel occidental et l'auberge japonaise avec ses qualités et ses défauts; deux sortes de musique, fondamentalement dissemblables du point de vue de ia composition et de l'exécution, et certaines viennent du fond des âges, et du fond de l'Asie. Voilà le Japonais bicivilisé. Bicivilisé comme d'autres sont bilingues. Est-ce là une façon d'être qui ne durera qu'un temps, déjà impraticable dans un pays moderne, aligné sur le modèle des grandes nations? Je ne le crois pas. Le Japon n'est pas une deuxième Amérique aux yeux bridés, il reste le pays du dédoublement, prodigieusement intéressant par son appartenance durable à la fois à l'Extrême-Occident et à l'Extrême-Orient. Le pays bicivilisé ne s'embarasse pas des contradictions qui en résultent. Il est le pays de la coexistence des contraires. Il est le pays où le contraire aussi est vrai. Si j'affirme que le Japon aime la nature, on m'opposera toutes les atteintes qu'il lui fait subir. Le bicivilisé se soucie peu de logique. Pour lui, une des lois du réel peut se formuler en trois mots: “C'est comme ça”. Et portant, s'il est un moment où le Japon ne demeure pas “comme çà” mais entre sur la voie des changements multiples, profonds, c'est bien le moment présent».

 

Jean de BUSSAC.

 

Robert GUILLAIN, Aventure Japon, Editions Arléa, 1997, 436 pages, 165 FF.

jeudi, 19 novembre 2009

La geopolitica nascosta dietro la guerra bidone degli Stati Uniti in Afghanistan

US_troops_afghanistan_1009_A_getty_1221022303.jpgLa geopolitica nascosta dietro la guerra bidone degli Stati Uniti in Afghanistan

di F.William Engdahl


da mondialisation.ca / http://www.italiasociale.org/


Traduzione a cura di Stella Bianchi - italiasociale.org

Uno degli aspetti più rilevanti e diffusi del programma presidenziale di Obama negli Stati Uniti è che poche persone nei media o altrove mettono in discussione la ragione dell’impegno del Pentagono nell’occupazione dell’Afghanistan.
Esistono due ragioni fondamentali e nessuna delle due può essere apertamente svelata al grande pubblico.

Dietro ogni ingannevole dibattito ufficiale sul numero delle truppe necessarie per “vincere” la guerra in Afghanistan, se 30.000 soldati siano più che sufficienti o se ce ne vorrebbero almeno 200.000, viene celato lo scopo reale della presenza militare statunitense nel paese perno dell’Asia centrale

Durante la sua campagna presidenziale del 2008, il candidato Obama ha anche affermato che era l’Afghanistan, e non l’Irak, il luogo in cui gli Stati Uniti dovevano fare la guerra.
Qual’era la ragione?Secondo lui era l’organizzazione Al Qaeda da eliminare ed era quella la vera minaccia per la sicurezza nazionale.Le ragioni del coinvolgimento statunitense in Afghanistan comunque sono completamente differenti.

L’esercito Usa occupa l’Afghanistan per due ragioni: prima di tutto lo fa per ristabilire il controllo della più grande fornitura mondiale di oppio nei mercati internazionali dell’eroina e in secondo luogo lo fa per utilizzare la droga come arma contro i suoi avversari sul piano geopolitico, in particolare contro la Russia.
Il controllo del mercato della droga afghana è fondamentale per la liquidità della mafia finanziaria insolvente e depravata di Wall Street.

La geopolitica dell’oppio afghano.

Secondo un rapporto ufficiale dell’Onu, la produzione dell’oppio afghano è aumentata in maniera spettacolare dalla caduta del regime talebano nel 2001.
I dati dell’Ufficio delle droghe e dei crimini presso le Nazioni Unite dimostrano che c’è stato un aumento di coltivazioni di papavero durante ognuna delle ultime quattro stagioni di crescita(2004-2007) rispetto ad un intero anno passato sotto il regime talebano.
Attualmente molti più terreni sono adibiti alla coltura dell’oppio in Afghanistan rispetto a quelli dedicati alla coltura della coca in America Latina.
Nel 2007 il 93% degli oppiacei del mercato mondiale provenivano dall’Afghanistan.E questo dato non è casuale.

E’ stato dimostrato che Washington ha accuratamente scelto il controverso Hamid Garzai che era un comandante guerriero pashtun della tribù Popalzai il quale è stato per molto tempo al servizio della Cia e che, una volta rientrato dal suo esilio dagli Stati Uniti è stato costruito come una mitologia holliwoodiana, autore della sua”coraggiosa autorità sul suo popolo”.
Secondo fonti afghane,Hamid Garzai è attualmente il “padrino” dell’oppio afghano.
Non è affatto un caso che è stato ed è ancora a tutt’oggi l’uomo preferito da Washington per restare a Kabul.
Tuttavia , anche con l’acquisto massiccio dei voti,la frode e l’intimidazione, i giorni di Garzai come presidente potrebbero finire.

A lungo , dopo che il mondo ha dimenticato chi fosse il misterioso Osama Bin Laden e ciò che Al Quaeda, rappresentasse-ci si chiede ancora se questi esistano veramente- e il secondo motivo dello stanziamento dell’esercito Usa in Afghanistan appare come un pretesto per creare una forza d’urto militare statunitense permanente con una serie di basi aeree fissate in Afghanistan.
L’obiettivo di queste basi non è quello di far sparire le cellule di Al Qaeda che potrebbero esser sopravvissute nelle grotte di Tora Bora o di estirpare un “talebano”mitico, che, secondo relazioni di testimoni oculari è attualmente composto per la maggior parte da normali abitanti afgHani in lotta ancora una volta per liberare le loro terre dagli eserciti occupanti, come hanno già fatto negli anni
80 contro i Sovietici.

Per gli Stati Uniti, il motivo di avere delle basi afghane è quello di tener sotto tiro e di essere capaci di colpire le due nazioni al mondo che messe insieme, costituiscono ancora oggi l’unica minaccia al loro potere supremo internazionale e all’America’s Full Spectrum Dominance (Dominio Usa sotto tutti i punti di vista) così come lo definisce il Pentagono.

La perdita del “Mandato Celeste”.

Il problema per le élites al potere (Élite è un eufemismo sempre più usato per designare individui privi di scupoli pronti a qualsiasi cosa pur di realizzare le proprie ambizioni..quasi un sinonimo di psicopatologia) a Wall Street e a Washington,è il fatto che questi siano sempre più impantanati nella più profonda crisi finanziaria della loro storia.
Questa crisi è fuor di dubbio per tutti e il mondo agisce a favore della propria sopravvivenza.
L’élite statunitense ha perso ciò che nella storia imperiale cinese è conosciuto come Mandato Celeste.
Questo mandato è conferito ad un sovrano o ad una ristretta cerchia regnante a condizione che questa diriga il suo popolo con giustizia ed equità.
Quando però questa cerchia regna esercitando la tirannia e il dispotismo, opprimendo il proprio popolo abusandone,a questo punto essa perde il Mandato Celeste.

Se le potenti élites, ricche del privato che hanno controllato le politiche fondamentali (finanziaria e straniera) almeno per la maggior parte del secolo scorso ,hanno ricevuto il mandato celeste, è evidente che allo stato attuale lo hanno perso.
L’evoluzione interna verso la creazione di uno stato poliziesco ingiusto, con cittadini privati dei loro diritti costituzionali, l’esercizio arbitrario del potere da parte di cittadini non eletti, come il ministro delle Finanze Henry Paulson e attualmente Tim Geithner , che rubano milioni di dollari del contribuente senza il suo consenso per far regredire la bancarotta delle più grandi banche di Wall Street, banche ritenute”troppo grosse per colare a picco” tutto ciò dimostra al mondo che esse hanno perduto il mandato.

In questa situazione, le élite al potere sono sempre più disperate nel mantenere il proprio controllo sotto un impero mondiale parassitario, falsamente denominato”mondializzazione” dalla loro macchina mediatica.
Per mantenere la loro influenza è essenziale che gli Stati Uniti siano capaci di interrompere ogni collaborazione nascente nel settore economico , energetico o militare tra le due grandi potenze dell’Eurasia le quali, teoricamente potrebbero rappresentare una futura minaccia nel controllo dell’unica super potenza :la Cina associata alla Russia.

Ogni potenza eurasiatica completa il quadro dei contributi essenziali.
La Cina è l’economia più solida al mondo, costituita da una immensa manodopera giovane e dinamica e da una classe media ben educata.
La Russia, la cui economia non si è ripresa dalla fine distruttrice dell’era sovietica e dagli ingenti saccheggi avvenuti nell’era di Eltsin, possiede sempre i vantaggi essenziali per l’associazione.
La forza d’urto nucleare della Russia e il suo esercito rappresentano l’unica minaccia nel mondo attuale per il dominio militare degli Stati Uniti anche se sono in gran parte dei residui della Guerra Fredda.Le élite dell’esercito russo non hanno mai rinunciato a questo potenziale.

La Russia possiede anche il più grande tesoro al mondo che è il gas naturale e le sue immense riserve di petrolio di cui la Cina ha imperiosamente bisogno.
Queste due potenze convergono sempre più tramite una nuova organizzazione creata da loro nel 2001, conosciuta sotto il nome di Organizzazione di Cooperazione di Shanghai (Ocs).
Oltre alla Cina e alla Russia ,l’Ocs comprende anche i più grandi paesi dell’Asia Centrale, il Kazakistan, il Kirghizistan,il Tagikistan e l’Uzbekistan.

Il motivo addotto dagli Stati Uniti nella guerra contro i Talebani e allo stesso tempo contro Al Qaeda consiste in realtà nell’insediare la loro forza d’urto militare direttamente nell’Asia Centrale,in mezzo allo spazio geografico della crescente Ocs.
L’Iran rappresenta una diversione,una distrazione.Il bersaglio principale sono la Russia e la Cina.

Ufficialmente Washington afferma con certezza di aver stabilito la sua presenza militare in Afghanistan dal 2002 per proteggere la”fragile”democrazia afghana.
Questo è un bizzarro argomento, quando si và a considerare la sua presenza militare laggiù.

Nel dicembre 2004, durante una visita a Kabul, il ministro della Guerra Donald Rumsfeld ha finalizzato i suoi progetti di costruzione di nove nuove basi in Afghanistan, nelle province di Helmand,Herat,Nimrouz,Balkh,Khost e Paktia.
Le nove si aggiungeranno alle tre principali basi militari già installate in seguito all’occupazione dell’Afghanistan durante l’inverno 2001-2002 pretestualmente per isolare e delimitare la minaccia terroristica di Osama Bin Laden.

Il Pentagono ha costruito le sue tre prime basi su gli aerodromi di Bagram, a nord di Kabul, il suo principale centro logistico militare; a Kandar nel sud dell’Afghanistan; e a Shindand nella provincia occidentale di Herat.
Shindand è la sua più grande base afghana ed è costruita a soli 100 kilometri dalla frontiera iraniana a portata di tiro dalla Russia e dalla Cina.

L’Afghanistan è storicamente in seno al grande gioco anglo-russo, e rappresenta la lotta per il controllo dell’Asia Centrale a cavallo tra il diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo.
A quel tempo la strategia britannica era quella di impedire ad ogni costo alla Russia di controllare l’Afghanistan,perché ciò avrebbe costituito una minaccia per la perla della corona imperiale britannica, l’India.

L’Afghanistan è considerato come altamente strategico dai pianificatori del Pentagono.
Esso costituisce una piattaforma da cui la potenza militare statunitense potrebbe minacciare direttamente la Russia e la Cina così come l’Iran e gli altri ricchi paesi petroliferi del Medio Oriente.
Poche cose sono cambiate sul piano geopolitico in oltre un secolo di guerre.

L’Afghanistan è situato in una posizione estremamente vitale, tra l’Asia del Sud , l’Asia Centrale ed il Medio Oriente.
L’Afghanistan è anche ubicato lungo l’itinerario esaminato per l’oleodotto che và dalle zone petrolifere del mar Caspio fino all’Oceano Indiano luogo in cui la società petrolifera statunitense Unocal,insieme ad Eron e Halliburton de Cheney avevano avuto trattative per i diritti esclusivi del gasdotto che invia gas naturale dal Turkmenistan attraverso l’Afghanistan e il Pakistan, per convogliarlo nell’immensa centrale elettrica( a gas naturale) della Enron a Dabhol, vicino a Mumbai(Bombay).
Prima di diventare il presidente fantoccio mandato degli Stati Uniti,Garzai era stato un lobbista della Unocal.

Al Qaeda esiste solo come minaccia.

La verità attinente tutto questo imbroglio che gira intorno al vero scopo che ha spinto gli Stati Uniti in Afghanistran ,diventa evidente se si esamina da vicino la pretesa minaccia di “Al Qaeda” laggiù.
Secondo l’autore Eric Margolis, prima degli attentati dell’ 11 settembre 2001 i Servizi Segreti statunitensi accordavano assistenza e sostegno sia ai talebani che ad Al Qaeda.
Margolis afferma che la”Cia progettava di utilizzare Al Qaeda di Osama Bib Laden per incitare alla rivolta gli Ouigours mussulmani (popolo turco dell’Asia Centrale ndt) contro la dominazione cinese di Pekino nel luglio scorso e di sollevare i talebani contro gli alleati della Russia in Asia Centrale”.

Gli Stati Uniti hanno manifestamente trovato altri mezzi per sobillare gli Ouigours usando come intermediario il proprio sostegno al Congresso mondiale Ouigour.
Ma la “minaccia” di Al Qaeda rimane il punto chiave di Obama per giustificare l’intensificazione della sua guerra in Afghanistan.

Ma per il momento ,James Jones, consigliere per la sicurezza nazionale del Presidente Obama, ex generale della Marina, ha rilasciato una dichiarazione opportunamente insabbiata dagli amabili media statunitensi , sulla valutazione dell’importanza del pericolo rappresentato attualmente da Al Qaeda in Afghanistan.
Jones ha dichiarato al Congresso che”La presenza di Al Qaeda si è molto ridotta.La valutazione massimale è inferiore a 100 addetti nel paese, nessuna base, nessuna capacità nel lanciare attacchi contro di noi o contro gli alleati”.

Ad ogni buon conto, tutto ciò significa che Al Qaeda non esiste in Afghanistan…accidenti…


Anche nel Pakistan vicino, i resti di Al Qaeda non sono stati quasi più riscontrati.
Il Wall Street Journal segnala :”Cacciati dai droni statunitensi, angosciati da problemi di denaro e in preda a gravi difficoltà nel reclutare giovani arabi tra le cupe montagne del Pakistan,Al Qaeda vede rimpicciolire di molto il suo ruolo laggiù in Afghanistan, “ questo secondo informazioni dei Servizi Segreti e dei responsabili pakistani e statunitensi.
Per i giovani arabi che sono i principali reclutati da Al Qaeda, “ non esiste un’utopica esaltazione nell’ aver freddo e fame e nel nascondersi” –ha dichiarato un alto responsabile statunitense nell’Asia del Sud.”.


Se capiamo le conseguenze logiche di questa dichiarazione, dobbiamo dunque concludere che il fatto per cui giovani soldati tedeschi e altri della Nato muoiono nelle montagne afghane, non ha nulla a che vedere con lo scopo di “vincere una guerra contro il terrorismo”.
Opportunamente, la maggior parte dei media scieglie di dimenticare il fatto che Al Qaeda, nella misura in cui questa organizzazione è esistita, era una creazione della Cia negli anni 80.
Questa reclutava e addestrava alla guerra mussulmani radicali pescati dalla totalità del mondo islamico contro le truppe russe in Afghanistan. nel quadro di una strategia elaborata da Bill Casey, capo della Cia sotto Reagan , per creare un “nuovo Viet-nam” per l’’Unione Sovietica che sarebbe poi sfociato nell’umiliante disfatta dell’Armata Rossa e nel fallimento finale dell’Unione Sovietica.

James Jones, gestore del National Security Council riconosce attualmente che non esiste praticamente più nessun membro di Al Qaeda in Afghanistan.
Forse sarebbe ora e tempo di chiedere una spiegazione più onesta ai nostri dirigenti politici sulla vera ragione dell’invio di altri giovani in Afghanistan,solo per mandarli a morire per proteggere le coltivazioni di oppio.


F.William Endhal è l’autore di diverse opere come:

Ogm:Semi di distruzione:l’arma della fame ; e Petrolio, la guerra di un secolo:l’Ordine mondiale anglo-americano

Per contattare l’autore: www.engdhal.oilgeopolitics.net


07/11/2009

dimanche, 15 novembre 2009

Why Does The U.S. Have An Empire in Asia?

apg_troops_070601_ms.jpgWhy Does The U.S. Have An Empire In Asia?

By Paul Craig Roberts / http://vdare.com/

The US government is now so totally under the thumbs of organized interest groups that "our" government can no longer respond to the concerns of the American people who elect the president and the members of the House and Senate.

Voters will vent their frustrations over their impotence on the president, which implies a future of one-term presidents. Soon our presidents will be as ineffective as Roman emperors in the final days of that empire.

Obama is already set on the course to a one-term presidency. He promised change, but has delivered none. His health care bill is held hostage by the private insurance companies seeking greater profits. The most likely outcome will be cuts in Medicare and Medicaid in order to help fund wars that enrich the military/security complex and the many companies created by privatizing services that the military once provided for itself at far lower costs. It would be interesting to know the percentage of the $700+ billion "defense" spending that goes to private companies. In American "capitalism," an amazing amount of taxpayers’ earnings go to private firms via the government. Yet, Republicans scream about "socializing" health care.

Republicans and Democrats saw opportunities to create new sources of campaign contributions by privatizing as many military functions as possible. There are now a large number of private companies that have never made a dollar in the market, feeding instead at the public trough that drains taxpayers of dollars while loading Americans with debt service obligations.

Obama inherited an excellent opportunity to bring US soldiers home from the Bush regime’s illegal wars of aggression. In its final days, the Bush regime realized that it could "win" in Iraq by putting the Sunni insurgents on the US military payroll. Once Bush had 80,000 insurgents collecting US military pay, violence, although still high, dropped in half. All Obama had to do was to declare victory and bring our boys home, thanking Bush for winning the war. It would have shut up the Republicans.

But this sensible course would have impaired the profits and share prices of those firms that comprise the military/security complex. So instead of doing what Obama said he would do and what the voters elected him to do, Obama restarted the war in Afghanistan and launched a new one in Pakistan. Soon Obama was echoing Bush and Cheney’s threats to attack Iran.

In place of health care for Americans, there will be more profits for private insurance companies.

In place of peace there will be more war.

Voters are already recognizing the writing on the wall and are falling away from Obama and the Democrats. Independents who gave Obama his comfortable victory have now swung against him, recently electing Republican governors in New Jersey and Virginia to succeed Democrats. This is a protest vote, not a confidence vote in Republicans.

Obama’s credibility is shot. And so is Congress’s, assuming it ever had any. The US House of Representatives has just voted to show the entire world that the US House of Representatives is nothing but the servile, venal, puppet of the Israel Lobby. The House of Representatives of the American "superpower" did the bidding of its master, AIPAC, and voted 344 to 36 to condemn the Goldstone Report.

In case you don’t know, the Goldstone Report is the Report of the United Nations Fact Finding Mission on the Gaza Conflict. The "Gaza Conflict" is the Israeli military attack on the Gaza ghetto, where 1.5 million dispossessed Palestinians, whose lands, villages, and homes were stolen by Israel, are housed. The attack was on civilians and civilian infrastructure. It was without any doubt a war crime under the Nuremberg standard that the US established in order to execute Nazis.

Goldstone is not only a very distinguished Jewish jurist who has given his life to bringing people to accountability for their crimes against humanity, but also a Zionist. However, the Israelis have demonized him as a "self-hating Jew" because he wrote the truth instead of Israeli propaganda.

US Representative Dennis Kucinich, who is now without a doubt a marked man on AIPAC’s political extermination list, asked the House if the members had any realization of the shame that the vote condemning Goldstone would bring on the House and the US government. (View here). The entire rest of the world accepts the Goldstone report.

The House answered with its lopsided vote that the rest of the world doesn’t count as it doesn’t give campaign contributions to members of Congress.

This shameful, servile act of "the world’s greatest democracy" occurred the very week that a court in Italy convicted 23 US CIA officers for kidnapping a person in Italy. The CIA agents are now considered "fugitives from justice" in Italy, and indeed they are.

The kidnapped person was renditioned to the American puppet state of Egypt, where the victim was held for years and repeatedly tortured. The case against him was so absurd that even an Egyptian judge order his release.

One of the convicted CIA operatives, Sabrina deSousa, an attractive young woman, says that the US broke the law by kidnapping a person and sending him to another country to be tortured in order to manufacture another "terrorist" in order to keep the terrorist hoax going at home. Without the terrorist hoax, America’s wars for special interest reasons would become transparent even to Fox "News" junkies.

Ms. deSousa says that "everything I did was approved back in Washington," yet the government, which continually berates us to "support the troops," did nothing to protect her when she carried out the Bush regime’s illegal orders.

Clearly, this means that the crime that Bush, Cheney, the Pentagon, and the CIA ordered is too heinous and beyond the pale to be justified, even by memos from the despicable John Yoo and the Republican Federalist Society.

Ms. deSousa is clearly worried about herself. But where is her concern for the innocent person that she sent into an Egyptian hell to be tortured until death or admission of being a terrorist?

The remorse deSousa expresses is only for herself. She did her evil government’s bidding and her evil government that she so faithfully served turned its back on her. She has no remorse for the evil she committed against an innocent person.

Perhaps deSousa and her 22 colleagues grew up on video games. It was great fun to plot to kidnap a real person and fly him on a CIA plane to Egypt. Was it like a fisherman catching a fish or a deer hunter killing a beautiful 8-point buck? Clearly, they got their jollies at the expense of their renditioned victim.

The finding of the Italian court, and keep in mind that Italy is a bought-and-paid-for US puppet state, indicates that even our bought puppets are finding the US too much to stomach.

Moving from the tip of the iceberg down, we have Ambassador Craig Murray, rector of the University of Dundee and until 2004 the UK Ambassador to Uzbekistan, which he describes as a Stalinist totalitarian state courted and supported by the Americans.

As ambassador, Murray saw the MI5 intelligence reports from the CIA that described the most horrible torture procedures. "People were raped with broken bottles, children were tortured in front of their parents until they [the parents] signed a confession, people were boiled alive."

"Intelligence" from these torture sessions was passed on by the CIA to MI5 and to Washington as proof of the vast al Qaeda conspiracy.

Ambassador Murray reports that the people delivered by CIA flights to Uzbekistan’s torture prisons "were told to confess to membership in Al Qaeda. They were told to confess they’d been in training camps in Afghanistan. They were told to confess they had met Osama bin Laden in person. And the CIA intelligence constantly echoed these themes."

"I was absolutely stunned," says the British ambassador, who thought that he served a moral country that, along with its American ally, had moral integrity. The great Anglo-American bastion of democracy and human rights, the homes of the Magna Carta and the Bill of Rights, the great moral democracies that defeated Nazism and stood up to Stalin’s gulags, were prepared to commit any crime in order to maximize profits.

Ambassador Murray learned too much and was fired when he vomited it all up. He saw the documents that proved that the motivation for US and UK military aggression in Afghanistan had to do with the natural gas deposits in Uzbekistan and Turkmenistan. The Americans wanted a pipeline that bypassed Russia and Iran and went through Afghanistan. To insure this, an invasion was necessary. The idiot American public could be told that the invasion was necessary because of 9/11 and to save them from "terrorism," and the utter fools would believe the lie.

"If you look at the deployment of US forces in Afghanistan, as against other NATO country forces in Afghanistan, you’ll see that undoubtedly the US forces are positioned to guard the pipeline route. It’s what it’s about. It’s about money, it’s about energy, it’s not about democracy."

Guess who the consultant was who arranged with then-Texas governor George W. Bush the agreements that would give to Enron the rights to Uzbekistan’s and Turkmenistan’s natural gas deposits and to Unocal to develop the trans-Afghanistan pipeline.

It was Karzai, the US-imposed "president" of Afghanistan, who has no support in the country except for American bayonets.

Ambassador Murray was dismissed from the UK Foreign Service for his revelations. No doubt on orders from Washington to our British puppet.

Paul Craig Roberts [email him] was Assistant Secretary of the Treasury during President Reagan’s first term.  He was Associate Editor of the Wall Street Journal.  He has held numerous academic appointments, including the William E. Simon Chair, Center for Strategic and International Studies, Georgetown University, and Senior Research Fellow, Hoover Institution, Stanford University. He was awarded the Legion of Honor by French President Francois Mitterrand. He is the author of Supply-Side Revolution : An Insider's Account of Policymaking in Washington;  Alienation and the Soviet Economy and Meltdown: Inside the Soviet Economy, and is the co-author with Lawrence M. Stratton of The Tyranny of Good Intentions : How Prosecutors and Bureaucrats Are Trampling the Constitution in the Name of Justice. Click here for Peter Brimelow’s Forbes Magazine interview with Roberts about the recent epidemic of prosecutorial misconduct.

samedi, 14 novembre 2009

Japon: premier pas vers la libération

Japon : premier pas vers la libération

Ex: http://unitepopulaire.org/

 

« Venu à Tokyo accélérer un accord sur les bases américaines, le secrétaire d’Etat américain Robert Gates a été froidement reçu. “Ah soo desu ka” (“Oh, vraiment”). C’est généralement par cette formule de politesse que les Japonais répondaient depuis des décennies au “we have a deal” (“nous sommes d’accord”) des Américains. D’où le choc éprouvé cette semaine par l’administration Obama quand le ministre des Affaires étrangères Katsuya Okada a déclaré : Nous n’allons pas accepter ce que les Etats-Unis nous disent juste parce que ce sont les Etats-Unis. Il répondait aux pressions du secrétaire américain à la Défense Robert Gates, venu à Tokyo pour accélérer la concrétisation d’un accord conclu en 2006, après quinze ans de négociations, sur la réorganisation des bases américaines dans l’Archipel. Celui-ci prévoit le déplacement de la base de Futenma, proche d’une zone urbaine au sud de l’île d’Okinawa et le transfert de 8000 soldats américains d’Okinawa à Guam.

Katsuya_Okada_cropped_Katsuya_Okada_and_Hillary_Rodham_Clinton_20090921.jpgCela fait des années que la présence militaire américaine au Japon (47 ’000 hommes actuellement) provoque des tensions avec la population locale à cause d’accidents, de deux affaires de viol médiatisées, et plus généralement de la pollution. A Okinawa, qui accueille trois quarts des bases et la moitié du contingent, c’est d’ailleurs l’opposition de riverains voulant préserver la baie au nord de l’île qui bloque le déplacement de la base de Futenma. Mais l’affaire dépasse l’enjeu écologique depuis la victoire des sociaux-démocrates le 30 août dernier, mettant fin à la très longue domination du Parti libéral démocrate. L’actuel premier ministre Yukio Hatoyama avait promis aux électeurs de traiter d’égal à égal avec les Etats-Unis et de trouver une solution alternative pour la base de Futenma, afin d’alléger le fardeau d’Okinawa. Sa popularité (70% de soutien) dépend en partie de sa fermeté.

Le gouvernement japonais a pris un départ sur les chapeaux de roue. Il a mis fin au soutien logistique naval, dans l’océan Indien, des troupes américaines engagées en Afghanistan. Il veut réviser le statut privilégié des soldats américains basés au Japon. Il a ouvert une enquête sur les pactes secrets conclus entre Tokyo et Washington pendant la Guerre froide. Il joue avec l’idée d’une Communauté est-asiatique regroupant la Chine, le Japon, les pays de l’ASEAN, peut-être l’Australie – sans dire un mot du rôle qu’y joueraient les Etats-Unis.

Il prend aussi tout son temps pour appliquer l’accord militaire signé en 2006 par le précédent gouvernement, tandis que les Américains le pressent de conclure avant la visite de Barack Obama au Japon, le 12 novembre prochain. Robert Gates a modérément apprécié la placidité de ses hôtes, déclinant une invitation à dîner avec des fonctionnaires du Ministère japonais de la défense. Geste éloquent quand on sait l’importance du protocole au pays du Soleil-Levant. Plusieurs fois, des diplomates ou députés japonais ont répondu du tac au tac, voire avec une certaine impertinence à leurs vis-à-vis américains. “En 30 ans, je n’avais jamais vu ça !” dit au Washington Post Kent Calder, directeur du Centre d’études asiatiques à l’Université John Hopkins. »

 

Le Temps, 26 octobre 2009 

J. Evola: La doctrina del despertar

cop_evola-dottrina.jpgEDICIONES HERACLES ANUNCIA LA REEDICIÓN DE:

JULIUS EVOLA

LA DOCTRINA DEL DESPERTAR

ENSAYO DE ASCESIS BUDDHISTA

Este estudio sobre ascesis buddhista realizado por el eminente estudioso de la Tradición, Julius Evola, representa una originalidad sin igual en un tiempo en el cual también dicha cosmovisión ha sido vulgarizada y deformada aceptándose como dogmas sagrados pertenecientes a la misma las teorías reencarna-cionistas, el humanitarismo, el pacifismo y la democracia espiritual. Aquí nuestro autor, con suma sagacidad, diferencia entre lo que podría ser el simple budismo y el buddhismo, el primero occidentalizado y decadente que representa una verdadera falsificación doctri-naria y el otro el buddhismo pâli originario que significó un intento de retorno a los principios que informaron la espiritualidad viril y aria de los tiempos primordiales de la humanidad, anteriores a la edad de hierro en que nos hallamos, en una revuelta altiva y heroica en contra de la decadencia personificada por el ritualismo brahmánico que regía en ese entonces en la India. Por último, en la medida en que el buddhismo, en su variantes pâli y más tarde Zen, ha enfatizado en la vía de la acción liberadora a través del despertar ascético, representa un camino adecuado para la espiritualidad del hombre occidental caracterizada también por la primacía otorgada a la acción aunque en los tiempos últimos se encuentre degradada hasta los límites más bajos y bestiales del materialismo y del consumismo hoy vigentes.

Índice

 

 

Introducción......................................................... 7

 

El Saber

 

I.     Acerca de las variedades de las “Ascesis”........... 21

II.    Arianidad de la doctrina del despertar............. 34

III.   Lugar histórico de la doctrina del despertar..... 45

IV.   Destrucción del Demon de la dialéctica............ 66

V.    La llama y la conciencia samsárica................... 74

VI.   La Génesis condicionada................................. 90

VII.   Determinación de las vocaciones................. 110

 

 

La Acción

 

I.     Las cualidades del combatiente y la “presencia” 137

II.    Defensa y consolidación............................... 151

III.   Derechura................................................... 165

IV.   La presencia sidérea. Las heridas se cierran...... 179

V.    Los cuatro Jhâna. Las “Contemplaciones irradiantes” 198

VI.   Los estados libres de forma y la extinción........ 221

VII.   Discriminación de los “poderes”................... 243

VIII. Fenomenología de la gran liberación........... 253

IX.   Trazos de lo sin semejanza............................. 267

X.    “El vacío” “si la mente no se quiebra”............. 278

XI.   Hasta el Zen................................................. 287

XII. Los Ariya moran aún en el Pico del Cóndor..... 301

 

Fuentes          309

jeudi, 05 novembre 2009

Eurasia: Continente autarchico!

eurasia_1860.jpgArchives - 2004

Eurasia: Continente autarchico!

Che l’Eurasia possa divenire un continente autarchico non è un’utopia, ma lo confermano i freddi dati economici; per scongiurare tale eventualità, che metterebbe la parola fine alla globalizzazione capitalistica, i moloch del libero mercato stanno correndo ai ripari.

Peraltro, l’Eurasia è l’unico blocco potenziale che negli ultimi 25 anni abbia ridotto i consumi di petrolio a vantaggio di altre fonti energetiche, idrogeno, energia solare … e con il protocollo di Kyoto abbia almeno ipotizzato la possibilità di uno sviluppo economico alternativo.

Analizzando le stime accertate per quanto riguarda le riserve di greggio, gas naturale e carbone, possiamo facilmente comprendere gli scopi delle guerre statunitensi contro Afghanistan e Iraq: un disperato tentativo di accaparrarsi immensi giacimenti di materie prime, evitare un declino ormai irreversibile e mantenere uno stile di vita insostenibile (36,1% di emissioni di anidride carbonica nel mondo, a fronte di una popolazione del 4% circa dell’intero pianeta).

 

Ma lasciamo parlare le cifre. (1)

Il 65,4% delle riserve petrolifere accertate alla fine del 2002 si trovano in Medio Oriente, il 9,4% in Sudamerica e solo il 4,8% in America settentrionale; 8 milioni di barili di greggio vengono estratti ogni giorno in Arabia Saudita, 7,8 in Russia, 5,8 negli USA, 3,5 in Iran, 3,3 in Cina, 3,05 in Messico.

 

* Riserve di greggio (accertate al 2002 in miliardi di barili):

Asia del Pacifico: 38,7

Nord America: 49,9

Africa: 97,5

Eurasia: 97,5

Sud e Centro America: 98,6

Medio Oriente: 685,6

 

* Giacimenti di gas naturale (accertati al 2002, in migliaia di miliardi di m3):

Sud e Centro America: 7,08

Nord America: 7,15

Africa: 11,84

Asia del Pacifico: 12,61

Medio Oriente: 56,06

Eurasia: 61,04

 

* Disponibilità di carbone (accertate al 2002 in miliardi di tonnellate)

Medio Oriente: 1,7

Sud e Centro America: 21,8

Africa: 55,4

Nord America: 257,8

Asia del Pacifico: 292,5

Eurasia: 355,4

 

Ricapitolando, l’Eurasia possiede il doppio delle riserve di greggio degli Stati Uniti (la cui supremazia è ancora schiacciantemente detenuta dal Medio Oriente), è superiore di nove volte per quanto riguarda i giacimenti di gas naturale rispetto a quelli nordamericani e ha disponibilità di carbone per oltre 1/3 maggiore.

Teniamo inoltre presente che -in base agli scenari individuati dai ricercatori della multinazionale Royal Dutch Shell- si assisterà nei prossimi anni a una vera e propria corsa verso il gas naturale -risorsa della quale la Russia è ricchissima-; entro il 2010, esso sostituirà il carbone (che oggi costituisce il 24% della produzione d’energia primaria nel mondo), entro il 2020 il petrolio (ora al 35%).

Se teniamo presente la disponibilità manifestata da vari paesi arabi di vendere il proprio petrolio in euro (Iraq -poi aggredito- Libia, ma anche paesi dell’OPEC e Russia), riusciamo a immaginare facilmente perché oggi gli Stati Uniti stiano giocando allo «scontro di civiltà» e di quale portata sia il tradimento operato da quelle classi dirigenti europee che insistono a mantenerci legati al carro di Washington.

Una sovranità limitata che la nazione italiana paga in modo particolare; nel maggio 1994 viene completamente liberalizzato il prezzo dei prodotti petroliferi, dopo un lungo periodo nel quale esso veniva stabilito dal governo attraverso il CIP (Comitato interministeriale prezzi).

Premesso che il prezzo del petrolio incide in minima parte sul prezzo finale e che il 68% di quello di un litro di carburante è costituito da gravame fiscale che finisce nelle casse dello Stato, bisogna ricordare che rincari o ribassi del restante 32% segue l’andamento di logiche particolari, spesso legate al rapporto domanda-offerta ma che hanno in linea di massima origine negli Stati Uniti (che dominano il mercato mondiale con i loro 19,8 milioni di barili di greggio consumati ogni giorno).

Come rivela Gabriele Dossena sul “Corriere della Sera” «nella formazione delle quotazioni del greggio al New York merchantile exchange intervengono per esempio fattori come il calo delle scorte americane, oppure cambiamenti climatici locali che possono spingere la domanda oltre le previsioni… Un ruolo determinante lo rivestono pure le raffinerie, gli impianti in grado di trasformare il famoso barile di petrolio in una diversità di prodotti finiti…

Ebbene basta un guasto in una di queste raffinerie, oppure un improvviso spostamento della domanda dalla benzina al gasolio o più semplicemente una parziale inattività per manutenzione dell’impianto, ed ecco che i prezzi del prodotto finale come per incanto si impennano per tutto il resto della popolazione mondiale. C’è infatti un indice, sconosciuto ai non addetti ai lavori, che ogni giorno riporta l’andamento delle quotazioni di carburanti e prodotti finiti: è l’indice Platt’s (Platt’s oilgram price service), di origine americana, una sorta di bussola utilizzata dalle compagnie petrolifere per fissare i prezzi che poi vengono applicati in ogni parte del mondo». (2)

Se qualcuno finge ancora di non capire quanto ci costi la dipendenza dal protettorato a stelle e strisce e la logica del mondialismo usurocratico farebbe bene a svegliarsi: la battaglia finale per la “Terra di Mezzo” (l’Heartland) è da tempo iniziata; la coscienza del destino imperiale dell’Eurasia, blocco continentale autarchico e Tradizionale, dev’essere diffusa, pena l’estinzione nel magma indifferenziato del villaggio globale.

 

 

 

Stefano Vernole

 

Note:

(1) Tutti i dati riportati sono tratti dal “Corriere della sera - Documenti”, 20 giugno 2003, p. 5

(2) Gabriele Dossena, “C’è un guasto a una raffineria americana? Da noi benzina più cara”, ibidem

 

 

Ultimo aggiornamento: domenica 15 febbraio 2004

 

vendredi, 30 octobre 2009

Iraq, Afganistan y la doctrina Obama en "el tablero de ajedrez" eurasiatico

Iraq, Afganistán y la doctrina Obama en “el tablero de ajedrez” euroasiático

El teniente coronel Eric Butterbaugh, oficial del Pentágono a cargo de la vocería del Comando Central norteamericano, manifestó que en Iraq, territorio medioriental de 437.072 Km2, permanecen 120 mil soldados estadounidenses, aunque no se enviarán -dijo- los 4 mil previstos que reemplazarían los equivalentes de la Guardia Nacional de EEUU apostados en Bagdad.

Ello significa que en el país medioriental hay, por cada 3,6 kms cuadrados de territorio iraquí, un soldado ocupante de la más agresiva potencia mundial, lo cual es una proporción que pone en duda la legitimidad de cualquier proceso electoral, legislativo o presidencial en un país que aspire a ser reconocido como legal, ocupado por tropas extranjeras.

Sobre esas condiciones muy reales y precisas, el primer ministro iraquí, Nuri al-Maliki se encuentra realizando una visita a Washington para buscar “apoyo político” del gobierno de Barack Obama y así garantizar -ante las diversas fuerzas políticas iraquíes- las mejores condiciones que permitan avalar el reconocimiento legítimo de las próximas elecciones parlamentarias a celebrarse en el 2010, en un país desvastado por la guerra de agresión, desestructurado por los ocupantes norteamericanos y necesitado de apoyo internacional para su reconstrucción.


Se recordará que la tal ‘reconstrucción de Iraq’ nunca pasó de declaraciones altisonantes del dúo Bush-Cheney y que derivó -más que en un hecho positivo para los iraquíes- en el enriquecimiento de empresas privadas del grupo económico estadounidense al cual pertenecen los ex-mandatarios de la Casa Blanca, que se introdujo en Iraq para saquearlo con jugosos contratos firmados “a punta de fusil y de mirillas laser”.

De aquí que ahora el Pentágono haya informado de la cancelación del envío de unos 4 mil soldados estadounidenses y a su vez, haya comunicado que los elementos de su Guardia Nacional estacionados en Bagdad, regresarán a EEUU dentro de cuatro meses, según precisó el alto oficial del Comando Central, en lo que parece ser ‘una lavadita de cara’ de frente a las elecciones parlamentarias iraquíes que proporcionalmente tendrán varios militares norteamericanos por cada urna de votación.

Tales declaraciones, tanto del gobernante iraquí Malikí, como del militar estadounidense Butterbaugh, están inscritas en la actual doctrina estratégica de los EEUU, comenzada a denominarse “Doctrina Obama”, la cual en sus delineamientos iniciales previó “la salida militar” paulatina de Iraq y la ampliación de la ocupación del estratégico territorio de Afganistán con las consiguientes acciones sobre los países fronterizos como Irán, Pakistán, la India, Uzbequistán, Turkmenistán, el occidente de China, Turquía, Armenia y el propio Iraq, y controlar un acceso directo a Rusia a través del Mar Caspio, también fronterizo con Afganistan.

Eric Butterbaugh, al iniciarse la ocupación de Irak, ostentaba el cargo de Mayor de la Fuerza Aérea y Vocero del Comando de Defensa Aeroespacial norteamericano en Colorado Springs. Luego de transcurrir seis años de guerra en Irak donde han muerto más de 4 mil militares estadounidenses, el ahora Teniente Coronel Buterbaugh, como Vocero del Comando Central, parece ser que será quien anuncie otro probable desastre estadounidense, ahora en Afganistán, donde ya la cifra de estadounidenses muertos sobrepasa los 400.

Sin dudas, consolidar esa posición de alta estima geopolítica, por estar en el centro del ”tablero de ajedrez” euroasiático, es lo que parece ser la obsesión de Barack Obama para enfrentar militarmente en un futuro no previsible, a sus más potentes adversarios: China y Rusia.

De manera que Irak, podría a pasar a un segundo plano y entonces pasar al primero, no la guerra en Afganistán, sino el incremento de las contradicciones entre EEUU y todos esos países fronterizos con la nación euroasiática, varios de ellos ya incorporados a la potente Organización de Cooperación de Shanghai OCSh, la cual celebrará en estos días una nueva Cumbre.

Ernesto Wong Maestre

Extraído de ABN.

~ por LaBanderaNegra en Octubre 22, 2009.

Intervista a Vladimir I. Jakunin

 

mackinder_max.jpg

INTERVISTA A VLADIMIR I. JAKUNIN

 


a cura di Daniele Scalea e Tiberio Graziani -Eurasia / http:://www.italiasociale.org/

All'inizio del XX secolo, Halford Mackinder scrisse nel suo celebre saggio The Geographical Pivot of History dell'importanza geostrategica delle ferrovie: egli pensava che le strade ferrate transcontinentali costruite dai Russi in Eurasia controbilanciassero il potere marittimo dei popoli anglosassoni, inaugurando una nuova era nei rapporti tra mare e terra e tra Europa e Asia. Lei pensa che le ferrovie russe abbiano ancora una così grande importanza geostrategica?

Lo sviluppo delle infrastrutture dei trasporti è sempre stato visto attraverso il prisma del posizionamento strategico del paese. Si valutava il suo significato economico, sociale e militare-difensivo. Nell'epoca della globalizzazione il trasporto ferroviario non ha perso minimamente la propria importanza dal punto di vista dell'economicità, del rispetto dell'ambiente e della rapidità che caratterizzano il trasporto di merci e persone. Inoltre, se è diminuito il suo potenziale ruolo strategico-militare, in virtù della nuova realtà bellica, il suo significato geopolitico, a mio parere, non ha fatto che aumentare. A ciò contribuisce lo sviluppo dei legami politici ed economici tra i paesi, la necessità di rispondere alle esigenze delle economie dei paesi sviluppati nello svolgimento delle operazioni di importazione ed esportazione nell'ambito della cooperazione commerciale estera, la possibilità di garantire l'accesso al mare dei cosiddetti «paesi di mezzo», l'opportunità di sviluppare in senso reciprocamente vantaggioso i corridoi di trasporto internazionali. E anche la possibilità di uno sviluppo non conflittuale delle relazioni economiche e di offrire assistenza alla realizzazione di infrastrutture ferroviarie per lo sviluppo delle economie di altri paesi, conformemente alle aspirazioni geopolitiche di questa o quella nazione. Un brillante esempio del conseguimento non conflittuale di obiettivi geopolitici reciprocamente vantaggiosi può essere fornito dalla cooperazione di molti paesi e compagnie nello sviluppo del corridoio Ovest-Est lungo il percorso della «Transiberiana».

Vi sono progetti di privatizzazione di RZhD (la compagnia ferroviaria russa). Crede possibile che lo Stato russo si privi d'una quota di maggioranza in un simile settore strategico?

L'attuale legislazione russa esclude la privatizzazione delle infrastrutture ferroviarie della Russia. E benché si possa ipotizzare in linea teorica che nel tempo, sussistenti determinate condizioni politiche ed economiche, ciò sia possibile, è altamente probabile che la Russia proseguirà la riforma del trasporto ferroviario assegnando i diversi tipi di attività (per esempio il trasporto merci, il trasporto passeggeri, la costruzione e manutenzione delle infrastrutture, il trasporto di containers, la logistica e via dicendo) a compagnie indipendenti e privatizzando queste compagnie interamente o in parte.

Cos'è cambiato nelle relazioni tra Russia e Unione Europea dopo la guerra russo-georgiana della scorsa estate?

Questo è un tema a sé stante ed esigerebbe un'approfondita analisi a parte. Mi limiterò a osservare che sulla percezione delle cause e degli effetti del conflitto in Ossezia del Sud, nei paesi dell'Unione Europea e negli Stati Uniti, hanno notevolmente influito tutti i vecchi pregiudizi sulla «pericolosità» della Russia per i «piccoli» paesi europei. A questo ha contribuito non poco la macchina informativo-propagandistica dei mezzi di informazione occidentali. Questo atteggiamento è profondamente mutato solo quando vari giornalisti occidentali, mesi dopo la conclusione della fase più «calda» del conflitto georgiano-ossetino nel quale la Russia era stata trascinata, hanno pubblicato notizie reali sulle azioni condotte dalle autorità e dai militari georgiani in Ossezia, notizie che hanno sconvolto l'opinione pubblica occidentale.
Per quanto concerne le relazioni politiche tra la Russia e gli Stati Uniti, il palese coinvolgimento della precedente amministrazione al fianco del regime di Saakasvili non ha fatto che accrescere la sfiducia.

Nell'ultimo decennio l'economia russa ha pienamente recuperato dai diffìcili momenti degli anni '90. Nella seconda parte dell'estate 2008, tuttavia, il prezzo del petrolio è crollato ed i mercati azionar! russi hanno sofferto gravi perdite. Le prospettive di recupero economico della Russia sono ancora buone?

Oggi la crisi finanziaria si è trasformata in una crisi economica globale ed è opportuno interrogarsi sulle sue cause e sulle sue conseguenze. Senza entrare nel dettaglio, è possibile concludere che la sua sistematicità è il risultato della realizzazione acritica e dogmatica dei punti essenziali della teoria economica neo-liberista, cioè quelli riguardanti la completa eliminazione dello Stato dalla sfera della gestione dello sviluppo economico. Le azioni più recenti, condotte praticamente da tutti gli Stati sviluppati del mondo, dimostrano palesemente il fallimento di questa teoria. Per quanto concerne le prospettive economiche della Russia, esse subiscono l'influsso di una serie di fattori negativi e d'altri positivi. Tra i fattori negativi possiamo elencare il noto orientamento all'esportazione dell'economia, l'incompiutezza della riforma istituzionale, l'insufficiente sviluppo del mercato, l'assenza di un ampio strato di piccole e medie imprese, la lacunosità del sistema bancario e l'assenza, per esempio, di leggi che sanciscano l'obbligo della partecipazione di organizzazioni sociali e professionali e della comunità di esperti alla formulazione delle decisioni governative. Tra gli aspetti positivi, che ci permettono di guardare con ottimismo alle prospettive economiche del paese, includiamo naturalmente la riforma istituzionale attualmente in corso, l'unione del mondo degli affari e delle élites politiche attorno alla dirigenza dello Stato, una base di risorse tra le più ricche e richieste del mondo, risorse umane sufficienti e ben formate (non ostante le conseguenze demografiche degli anni Novanta), l'importante integrazione della Russia nel sistema economico e finanziario mondiale e, infine, riserve finanziarie molto sostanziose accumulate negli anni passati. Attualmente molto — se non tutto -dipenderà dall'efficacia e dalla tempestività dei provvedimenti anticrisi del governo e del mondo imprenditoriale della Russia.

Ritiene che l'attuale crisi economica e finanziaria possa contribuire a cambiare la struttura geopolitica e le gerarchie internazionali, in particolare favorendo l'emergere d'un nuovo ordine mondiale multipolare?

In effetti il mondo multipolare è emerso già molto prima della fase «calda» della crisi finanziaria, come è stato riconosciuto da esperti ben noti negli ambienti politici e scientifici come il professor F. Fukuyama, Z. Brzezinski, H. Kissinger, l'accademico E. Primakov; dai capi di Stato europei e sudamericani, dell'India, della Cina, della Russia; da organizzazioni della società civile e non-governative come il Forum Pubblico Mondiale «Dialogo di civiltà», dalle Nazioni Unite, dall'UNESCO e molte altre istituzioni. Mi sembra, in pratica, che si possa parlare di un mondo variegato con elementi di pluralità, come riconosciuto dagli autori citati. Di per sé la crisi molto probabilmente produrrà un inasprimento delle contrapposizioni già esistenti tra i vettori di sviluppo del sistema mondiale: unipolarismo contro multipolarismo. Non sarà facile prevederne l'esito. Tuttavia è molto probabile che il ritorno a un mondo unipolare non sarà meno difficoltoso della costruzione di un mondo più giusto.
È ora più o meno ovvio quanto segue: in primo luogo, l'uscita dalla crisi avverrà in un lasso di tempo piuttosto lungo; in secondo luogo, durante quella fase, segnata dalla necessità di ricorrere a provvedimenti cruciali per uscire dalla crisi, avverrà una ricostruzione dell'ordine mondiale, ormai obsoleto, con una ridistribuzione piuttosto radicale dei beni su scala globale; infine, è ormai generalmente riconosciuto che l'attuale struttura del sistema economico-finanziario abbia esaurito le proprie risorse tecnologiche per ciò che riguarda il rinnovamento e l'evoluzione dell'uomo nella sua attività di valorizzazione e sviluppo del mondo. Ed è proprio adesso che sono necessari radicali cambiamenti sociali e civili a livello globale (anche nell'interesse dei promotori di tali cambiamenti).

In che modo un nuovo sistema multipolare potrebbe contribuire a favorire il dialogo tra le civiltà?

Con lo sviluppo, su basi scientifiche, di un sistema d'opinioni che riconosca come sia il dialogo tra le civiltà, e non lo scontro, lo strumento per prevenire conflitti a livello geopolitico, culturale, religioso o geoeconomico. Col rafforzamento del ruolo svolto dalla società civile dei diversi paesi nella formulazione delle ambizioni strategiche delle élites di governo, e coli'influenza della collettività su queste élites non solo attraverso i modi d'espressione della cosiddetta «volontà popolare» già collaudati e in una certa misura orientati da queste élites, ma anche attraverso i metodi del dialogo diretto tra civiltà condotto dai rappresentanti delle diverse civiltà. Questi rappresentanti non sono le organizzazioni e le autorità internazionali, che non conducono un dialogo bensì negoziati, ma gli individui o le organizzazioni non-governative.
Nell'ambito del Forum Pubblico Mondiale «Dialogo di Civiltà», un lavoro efficace e mirato per controllare la realizzazione dei diversi piani di questa trasformazione può essere organizzato come segue:
1) la creazione da parte di un gruppo di esperti e analisti di un Thesaurus (struttura di subordinazione) dei postulati, delle convinzioni e dei valori politici, etico-morali, economico-sociali e via dicendo, più comunemente impiegati nelle discussioni sulla crisi globale;
2) lo svolgimento di diverse iniziative da parte del Forum Pubblico Mondiale «Dialogo di civiltà» per armonizzare i risultati analitici ottenuti con gli attori influenti e con le parti interessate alla trasformazione;
3) l'organizzazione di una campagna di informazione su vasta scala, impiegando i mezzi di informazione interattivi e altre strutture, per l'efficace e rapida introduzione di rappresentazioni coerenti, componente necessaria nel contesto della comunicazione globale sui temi attuali dell'agenda globale;
4) lo svolgimento di un regolare monitoraggio delle reazioni a tale informazione, al fine di valutare la risposta del pubblico alle proposte formulate;
5) in base ai risultati dell'analisi ed alla sintesi di queste reazioni, la pianificazione e realizzazione di dialoghi regionali, specialistici, di ricerca ecc. (impiegando i metodi già sperimentati dalle iniziative del Forum Pubblico Mondiale) al fine di ratificare le decisioni concordate e selezionate in maniera mirata.
La necessità di tali iniziative nell'ambito del Forum Pubblico Mondiale «Dialogo di civiltà» e di strutture simili è giustificata dal fatto che le attuali ricette scientifiche e politiche per uscire dalla crisi circolano in ristrette comunità altamente specializzate, non hanno alcun fondamento legittimo e si impongono alla più ampia pratica internazionale, come accade per esempio con le idee del neo-liberismo, attraverso metodi, politici e d'altro tipo, di natura coercitiva.

In qualità di presidente e cofondatore del Forum Pubblico Mondiale «Dialogo di Civiltà» potrebbe farci un resoconto delle sue attività a partire dal 2002?

Riteniamo che negli ultimi sei anni i partecipanti al Forum Pubblico Mondiale «Dialogo di civiltà» siano riusciti a creare una piattaforma pubblica, unica nel suo genere, di interazione tra le civiltà per l'analisi e la descrizione dei caratteri fondamentali della nostra epoca, nonché adeguati strumenti di dialogo tra le civiltà nel contesto delle più importanti sfide del nostro tempo: la globalizzazione, il dialogo tra le culture e le religioni, l'influenza delle tendenze economiche mondiali sui rapporti tra le civiltà, l'inammissibilità dell'imposizione forzata dei propri valori a un'altra civiltà, la creazione di un mondo unipolare e molti altri problemi. La «Prima Dichiarazione di Rodi» e le sue conclusioni non solo sono ampiamente note, ma sono anche alla base di una serie di accordi internazionali sulla cooperazione tra Stati. La Conferenza del Forum Pubblico Mondiale «Dialogo di civiltà» si svolge già da sei anni con cadenza annuale nell'isola di Rodi, ed è oggetto di grande attenzione. Nel 2008 vi hanno partecipato circa 500 rappresentanti di più di 64 paesi. Prosegue con successo il programma di sviluppo della comunità in rete di «Dialogo di civiltà», e molto altro. In generale mi sembra che questa attività meriti una valutazione positiva. Ritengo che sia giunto il momento di passare dalla constatazione di un interesse per il dialogo all'esercizio di un'influenza controllata sui processi sociali, impiegando a tal fine tutte le risorse delle organizzazioni non-governative internazionali, degli amici rappresentanti delle comunità di esperti, mezzi di informazione e confessioni religiose. Naturalmente qui dobbiamo impegnarci ulteriormente per strutturare questo interesse con l'obiettivo di trasformarlo in uno strumento di influenza pubblica sullo sviluppo mondiale.

A suo parere quali sono i comuni settori d'interesse che andrebbero rafforzati e sviluppati tra Russia e Unione Europea?

Innanzi tutto, agli interessi strategici della Russia e dell'Unione Europea risponde una tendenza all'approfondimento dell'integrazione nella sfera umanistica e in quella economica, in particolare nel settore del trasporto ferroviario in quanto area di reciproco interesse del tutto priva di conflitti: infatti, una tale cooperazione può avere esito positivo solo se le compagnie dei trasporti condividono gli stessi obiettivi.

Considerando la posizione strategica dell'Italia nel mezzo del Mar Mediterraneo e, soprattutto, la sua «alleanza» asimmetrica con gli USA nel contesto della NATO, crede che Washington permetterà a Roma di sviluppare relazioni politiche e militari con Mosca?

Mi sembra che la domanda sia posta in modo scorretto, laddove si chiede se «Washington possa permettere qualcosa all'Italia». Pur nella chiara alleanza strategica con la NATO e con gli Stati Uniti, nell'emergente condizione di multipolarismo l'Italia è libera di determinare da sola il sistema dei propri interessi geopolitici, e ha ripetutamente dimostrato la propria sostanziale posizione di indipendenza in tutta una serie di eventi controversi verificatisi in tempi recenti. Pertanto ritengo che, finché al mondo esisteranno i confini degli Stati nazionali, continueranno a esistere anche i cosiddetti «interessi nazionali» e le aspirazioni geopolitiche dei governi, e questo influenzerà lo sviluppo di una cooperazione internazionale, e difficilmente esisterà un paese in grado di affermare di essere assolutamente libero da questa influenza.
Roma è la capitale dell'Italia ma anche il centro della Cristianità cattolica. Durante gli ultimi anni, malgrado la promozione d'un dialogo ecumenico ed inter-ecclesiastico con la Cristianità russo-ortodossa, il Vaticano ha esteso le proprie attività in Russia ed in alcuni paesi ex sovietici (ad esempio in Kazakistan). Tra queste attività, possiamo menzionare la creazione di nuove diocesi cattoliche senza neppure interpellare le Chiese ortodosse. Tenendo conto che, nel corso di tali iniziative, il Vaticano ha spesso chiesto a Mosca un maggiore rispetto dei diritti umani-al pari d'alcune ONG o apparati politici occidentali — crede vi siano legami tra le strategie di Washington e quelle del Vaticano?
Ogni chiesa, anche all'interno degli Stati laici, resta parte della società e, quando tocca la sfera della morale e tanto più delle relazioni pubbliche o internazionali, spesso riflette gli atteggiamenti socio-politici dominanti. A mio parere ciò vale effettivamente per alcuni aspetti dell'attività del Vaticano. Dato che il cattolicesimo è ampiamente diffuso nel mondo occidentale, è possibile che nelle sue posizioni sui principali temi risenta dell'influenza ideologica degli Stati Uniti che sono la guida riconosciuta di quel mondo. È possibile che questo sia anche una conseguenza dell'attività economica dello Stato del Vaticano e della sua dipendenza dall'economia statunitense. Il Concilio Vaticano II ha affermato che le altre religioni possono essere condotte attraverso il dialogo sulle posizioni della mentalità europea, in quanto identità più evoluta. Per questo il Concilio ha ampliato la sfera del dialogo, ha riconosciuto la possibilità del dialogo con le altre religioni e le altre civiltà: allo scopo di assimilarle gradualmente. La storia del cattolicesimo dimostra in maniera convincente cosa sia questa linea di dialogo. Le chiese del mondo e le principali confessioni devono, riteniamo, contribuire a instaurare un dialogo efficace tra i popoli. Il problema di un ampio dialogo pubblico è che le principali forze sociali e i partecipanti alla collaborazione internazionale tendono spesso a difendere le proprie posizioni, a persuadere gli altri della loro giustezza, a ricevere conferma delle proprie convinzioni. La religione, al contrario, ha sempre invitato ad affermare il punto di vista della verità universale, ad abbandonare l'insieme delle convinzioni inevitabilmente contingenti e a porsi sul cammino del rinnovamento, del miglioramento di sé. La mentalità individualista agli occhi della coscienza religiosa coincide sempre con il peccato e l'errore. Indubbiamente gli sforzi delle Chiese e delle confessioni permettono di innalzare il livello e la cultura del dialogo tra le organizzazioni pubbliche e le strutture internazionali. È necessario che il dialogo sociale non si concentri solo sui problemi immediati, benché comunque importanti, della politica e della vita sociale. In questo caso il nostro dialogo verrà ripreso e sviluppato, estendendosi a nuovi problemi o aspetti della soluzione di vecchi problemi, cui la coscienza collettiva contemporanea non è in grado di arrivare. Ci sembra che nel miglioramento del dialogo collettivo la Chiesa e le confessioni siano chiamati a fornire una nuova forma di servizio all'uomo e a conseguire una propria sfera pratica di realizzazione della verità e della forza delle proprie rivelazioni. Riteniamo che le profonde tradizioni e potenzialità delle organizzazioni religiose e dei contatti interconfessionali apporteranno un inestimabile contributo al dialogo tra le civiltà. E speriamo che la Chiesa e le confessioni assumano un ruolo attivo nelle nostre iniziative future.

(traduzione dall'originale russo di Manuela Vittorelli)

* Vladimir Ivanovic Jakunin è presidente del Forum Pubblico Mondiale «Dialogo di Civiltà» e della Rossijskie Zheleznye Dorogi, la compagnia ferroviaria dello Stato russo. Tra il 1985 ed il 1991 ha fatto parte della missione diplomatica sovietica presso le Nazioni Unite (gli ultimi tre anni come primo segretario). Dal 2000 al 2003 è stato vice-ministro dei trasporti della Federazione Russa.


18/05/2009

00:15 Publié dans Géopolitique | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : géopolitique, russie, eurasie, eurasisme, asie, entretiens | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

dimanche, 25 octobre 2009

Nouvelle alliance entre grandes puissances?

358x283.jpgPeter SCHOLL-LATOUR:

Nouvelle alliance entre grandes puissances?

 

Le Président Barack Obama a renoncé à installer un bouclier anti-missiles en Pologne et une gigantesque station radar en République Tchèque. On a interprété cet abandon un peu trop vite comme un signe de faiblesse. Pourtant le président américain a de bonnes raisons de rechercher  de meilleures relations avec la Russie.

 

Obama se rend compte qu’une confrontation avec la Russie irait à l’encontre des intérêts américains sur le long terme. Surtout en ce qui concerne l’Afghanistan car, là, un changement décisif est survenu. Jusqu’ici les forces armées américaines avaient pu compter sur un  approvisionnement logistique efficace et sans heurts à travers le Pakistan: ces voies d’accès au théâtre afghan sont désormais devenues extrêmement difficiles. Dans l’avenir, l’approvisionnement de l’armée américaine devra se faire principalement via les anciennes républiques soviétiques  d’Asie centrale mais aussi via le territoire russe lui-même: une disposition qui est depuis longtemps déjà une réalité pour les Allemands. Le contingent allemand de l’ISAF, en effet, se fait depuis des années par la base aérienne de Termes, située sur le frontière méridionale de l’Ouzbékistan. 

 

Compte tenu de cette nouvelle situation, il apparaît de plus en plus clairement que la Russie, elle aussi, serait menacée si des forces radicales islamistes prenaient le pouvoir à Kaboul. Moscou craint surtout une extension rapidement du mouvement des talibans au Tadjikistan, en Ouzbékistan et éventuellement au Kirghizistan, ce qui mettrait un terme au pouvoir des potentats locaux qui proviennent encore de l’ancien régime soviétique.

 

L’affirmation de l’ancien ministre allemand de la défense, Peter Struck (SPD), qui disait que “l’Allemagne se défendait sur l’Hindou Kouch”, mérite aujourd’hui d’être corrigée. En réalité, c’est la Russie que l’on défend dans l’Hindou Kouch. Car, au-delà des Etats de la CEI, c’est-à-dire dans le territoire de la Fédération de Russie elle-même, vivent 25 millions de musulmans qui pourraient devenir un sérieux foyer de troubles. Washington vient donc de reconnaître qu’il y a une convergence d’intérêts entre Russes et Américains en Asie centrale, alors que le Président George W. Bush l’avait nié, en se cramponnant sur de vieilles certitudes.

 

La Chine, elle aussi, a intérêt à combattre toute forme de radicalisme islamiste depuis que la minorité turcophone des Ouïghours se dresse contre Pékin au nom de l’islam. Voilà pourquoi le conseil de sécurité des Nations-Unies est inhabituellement unanime pour prolonger le mandat de l’ISAF en Afghanistan.Mais je doute qu’à Berlin on reconnaisse ce changement profond qui  anime les politiques des grandes puissances. Les Allemands refusent toujours de reconnaître que leur engagement en Afghanistan constitue un acte de guerre et feignent de croire benoîtement qu’ils doivent aller là-bas pour construire des écoles pour fillettes et mettre tout en oeuvre pour que les femmes ne doivent pas circuler voilées. Ce sont là, à coup sûr, des perspectives intéressantes mais qui ne légitiment pas en suffisance d’y envoyer des soldats  allemands, avec le risque éventuel qu’ils s’y fassent tuer.

 

Peter SCHOLL-LATOUR.

(article paru dans “Junge Freiheit”, Berlin, n°43/2009; trad. franç.: Robert Steuckers).

 

A PARAITRE:

Début novembre  paraîtra en Allemagne le nouvel ouvrage du très prolifique Peter Scholl-Latour: “Die Angst des weissen Mannes – Eine Welt im Umbruch”, Propyläen Verlag, Berlin 2009, 24,90 euro.

 

samedi, 24 octobre 2009

Afghanistan: une guerre de mensonges

nato-troops-in-afghanistan.jpgAfghanistan : une guerre de mensonges

La guerre en Afghanistan semble être un préoccupation beaucoup plus marquée chez les citoyens des pays de la coalition que pour leurs gouvernements, même si certains d’entre eux réduisent pas à pas les effectifs de leurs troupes en opérations.
En France, mis à part les tristes nouvelles annonçant les décès de nos soldats, cette guerre, menée sous le double commandement de l’OTAN et des Améticains, ne fait l’objet que de peu d’analyses et il faut surfer sur les sites étrangers et plus particulièrement anglo-saxons pour en savoir plus.
Polémia présente à ces lecteurs un article d’Eric Margolis, consacré à cette guerre en Afghanistan, levant le voile sur certains aspects qu’on ne soupconne pas.
Certes, les informations données restent de la responsabilité de leur auteur et les opinions exprimées n’engagent que lui et ne reflètent pas nécéssairement celles de Polémia.

Polémia /
http://www.polemia.com/

Afghanistan : une guerre de mensonges



Le président Barack Obama et le Congrès se débattent avec l’élargissement de la guerre en Afghanistan. Après huit années d'opérations militaires, qui ont coûté 236 milliards de dollars, le commandant des forces américaines en Afghanistan vient de lancer une mise en garde contre la menace d’un  « échec », c’est-à-dire une défaite.

La vérité est la première victime de la guerre

La vérité est la première victime de la guerre. Le plus gros mensonge de cette guerre en Afghanistan est de dire : « Nous devons combattre les terroristes là-bas, pour ne pas avoir à le faire chez nous » Les politiques  et les généraux ne cessent de se servir de ce bobard pour justifier une guerre qu'ils ne peuvent ni expliquer ni justifier autrement.

Beaucoup d'Américains du Nord continuent à avaler ce mensonge parce qu'ils croient que les attentats du 11-Septembre ont été lancés directement par Al-Qaida et les Talibans basés en Afghanistan.

Ce n’est pas vrai. Les attentats du 11-Septembre ont été planifiés en Allemagne et en Espagne, et dirigés principalement par des Saoudiens vivant aux Etats-Unis afin de  punir l'Amérique du soutien qu’elle apporte à Israël dans sa répression des Palestiniens.

Les Talibans, mouvement militant religieux et anticommuniste, issu de l’ethnie pachtoune, ont été totalement surpris par le 11-Septembre. Osama ben Laden, sur qui on rejette la responsabilité du 11-Septembre, était en Afghanistan en tant qu’invité parce qu'il était considéré comme un héros national qui avait combattu les Soviétiques au cours des années 1980 et qu’ensuite il avait apporté assistance aux Talibans dans leur lutte contre les Afghans communistes de l'Alliance du Nord.

Les Talibans sont-ils vraiment ceux que l’on nous décrit ?

Les Talibans ont bénéficié de l'aide américaine jusqu'en mai 2001. La CIA avait l'intention d'utiliser l’Al-Qaïda d’Osama ben Laden pour monter les Ouïgours musulmans contre l’autorité chinoise, et d'employer des Talibans contre les alliés de la Russie en Asie centrale. La plupart des prétendus « camps d'entraînement terroristes » en Afghanistan étaient entre les mains des services secrets pakistanais et destinés à préparer les combattants moudjahidin au combat dans le Cachemire occupé par les Indiens.

 En 2001, Al-Qaïda ne comptait que 300 membres. La plupart ont été tués depuis. Une poignée d’entre eux se sont échappés vers le Pakistan. Seuls quelques-uns demeurent en Afghanistan. Pourtant, le président Obama veut à tout prix que 68.000 soldats américains, ou plus, restent en Afghanistan afin de combattre Al-Qaida et d’empêcher les extrémistes de récupérer les « camps d'entraînement de terroristes ».

Cet argument, comme celui des armes de destruction massive inexistantes de Saddam, est un slogan commode pour vendre la guerre au public. Aujourd'hui, la moitié de l'Afghanistan est sous contrôle Taliban. Les militants anti-américains pourraient plus facilement se servir de la Somalie, de l'Indonésie, du Bangladesh, de l’Afrique du Nord et de l’Ouest, ou du Soudan. Ils n'ont pas besoin d’aller chercher jusqu’en Afghanistan. Les attentats du 11-Septembre ont été conçus en chambre, pas dans des camps.

Aussi arriérés et lourdauds soient-ils, ses Pashtounes n’ont nullement envie ni intérêt à attaquer l’Amérique Les Talibans sont les fils des moudjahidins qu’avaient soutenus les Américains et qui ont vaincu les Soviétiques dans les années 1980. Les Talibans n'ont jamais été les ennemis de l'Amérique. Au lieu d'envahir l'Afghanistan en 2001, les Etats-Unis auraient dû payer les Talibans pour déraciner al-Qaïda – comme je l'ai écrit dans le Los Angeles Times en 2001.

Les Etats-Unis s’enfoncent encore plus profondément dans le bourbier sud-asiatique.

Les tribus pachtounes veulent mettre fin à l'occupation étrangère et chasser les communistes afghans et les barons de la drogue, qui dominent aujourd’hui le régime de Kaboul installé par les Etats-Unis. Mais les Etats-Unis se sont engagés par erreur dans une guerre de grande envergure, non seulement contre les Talibans, mais aussi contre la plupart des féroces tribus pachtounes de l'Afghanistan, qui représentent plus de la moitié de la population.

Ce conflit se propage maintenant dans les régions pachtounes du Pakistan. La semaine dernière, l'ambassadeur américain à Islamabad a effectivement réclamé que les Etats-Unis envoient des avions et des missiles contre la ville pakistanaise de Quetta, où des personnalités Talibans de haut rang sont censées avoir été repérées.

Les Etats-Unis s’enfoncent encore plus profondément dans le bourbier sud-asiatique. Washington tente de forcer la main au Pakistan pour qu’il se montre plus obéissant et étendent la guerre contre ses propres  tribus pachtounes à l’esprit indépendant - appelées à tort « Talibans ».

Les tentatives incroyablement maladroites de Washington pour distribuer 7,5 milliards de dollars pour soudoyer le gouvernement et l’armée pakistanais faibles et corrompus, pour maîtriser les promotions militaires et obtenir quelque contrôle sur l'arsenal nucléaire du Pakistan, ont déclenché une colère incendiaire. Les soldats pakistanais sont sur le point de se révolter.

Il en est de même des projets américains de construction d’une ambassade-forteresse pour 1.000 personnes à Islamabad et un consulat à Peshawar qui manifestement servira de base aux services de renseignement, ainsi que du déploiement d'un nombre croissant de mercenaires américains au Pakistan.

Tout cela est bien réglé. Washington affirme qu'il faudra plus de personnel et une plus grande ambassade pour superviser la distribution du supplément d’aide au Pakistan, et davantage de mercenaires (c’est-à-dire de « contractuels ») pour les protéger.

Le président Obama a fait l'objet d'intenses pressions pour étendre la guerre, de la part de républicains cocardiers, d’une bonne partie des médias et les va-t-en guerre responsables de la sûreté de l’Etat. Les partisans d'Israël, y compris de nombreux démocrates du Congrès, veulent voir les Etats-Unis s’emparer des armes nucléaires du Pakistan et étendre la guerre d'Afghanistan à l’Iran. Le ministre israélien des Affaires étrangères, le belliciste Avigdor Lieberman, a récemment désigné l'Afghanistan, le Pakistan et l'Irak comme principales menaces pour Israël.

Talibans ne sont pas et n'ont jamais été une menace pour l'Occident

Le président Obama devrait admettre que les Talibans ne sont pas et n'ont jamais été une menace pour l'Occident ; que Al-Qaïda, dont on a larmement exagéré l’importance, a été en majorité éradiquée ; et que la guerre menée par les Etats-Unis en Afghanistan cause davantage de dommages aux intérêts américains dans le monde musulman – qui représente maintenant 25% de la population mondiale – que Ben Laden et les quelques voyous qu’il a pour alliés. Les attentats à la bombe de Madrid et de Londres et la conspiration de Toronto ont tous été des manifestations particulièrement aberrantes de la part de jeunes musulmans contre la guerre en Afghanistan.

On ne va pas changer la façon dont les Afghans traitent leurs femmes en menant une guerre contre eux ni apporter la démocratie au moyen d’élections truquées. On ne va pas gagner les cœurs et les esprits en imposant à de pieux musulmans un régime dominé par les communistes à Kaboul, en  bombardant leurs villages et en envoyant des Marines enfoncer leurs portes à coups de pied et violer leurs foyers.

Le commandant en chef américain en Afghanistan, le général Stanley McChrystal, exige 40.000 à 80.000 soldats supplémentaires. Même avec ce nombre, il ne gagnera pas la guerre dont Washington ne peut même pas déterminer les conditions de la victoire. Le seul moyen de sortir de ce bourbier passe par un règlement négocié incluant les Pachtounes et leurs bras armé, les Talibans, à qui sera donné le droit de vote.

Si jamais la résistance afghane reçoit des missiles antiaériens et antichars modernes, les forces d'occupation occidentales seront isolées et condamnées. Aujourd'hui, elles tiennent à peine le coup contre les Talibans équipés d’armes légères.

Si seulement le président Obama déclarait simplement la victoire en Afghanistan ! S’il en retirait les forces occidentales pour remettre la sécurité entre les mains d’une force multinationale de stabilisation constituée de nations musulmanes ! Les bons présidents, comme les bons généraux, savent quand il faut se retirer.

Eric Margolis
13 octobre 2009
http://buchanan.org/blog/afghanistan-a-war-of-lies-2548

Titre original : Afghanistan: A War of Lies
Traduction pour Polémia : R. S.


Eric Margolis contribue au Toronto Sun, New York Times, The American Conservative et à de nombreux journaux du Golfe. Il se produit régulièrement sur les chaînes de télévision comme CNN, Fox, SRC, British Sky Broadcasting News, NPR, et CTV. Correspondant de guerre de longue date, il est reconnu comme spécialiste des questions relevant de l’Afghanistan et plus généralement de l’Asie.

Correspondance Polémia
18/10/2009
Les intertitres sont de la rédaction.

Image : flag-draped coffins

 

Eric Margolis

mardi, 20 octobre 2009

Pourparlers militaires sino-australiens

Flag-Pins-China-Australia.jpg Pourparlers militaires sino-australiens

 

Les relations sino-australiennes se renforcent considérablement depuis quelques mois, en dépit de l’apprtenance de l’Australie à la sphère culturelle anglo-saxonne, dont elle est le bastion entre Océan Indien et Océan Pacifique. Désormais, c’est sur les plans militaire et stratégique que les deux puissances traitent à Canberra, après avoir régulé leurs relations commerciales. Le général chinois Chen Bingde vient de rencontrer le chef de l’armée de l’air australienne, Angus Houston, et le ministre de la défense, John Faulkner.

 

L’Australie est-elle progressivement attirée par l’informelle “sphère de co-prospérité est-asiatique”, qui existe de facto en dépit de l’ancienne volonté américaine de l’éliminer pendant la  seconde guerre mondiale? Faut-il conclure qu’on ne contrarie pas la géographie et que les faits géographiques sont plus têtus que les discours idéologiques?

 

Restent quelques questions: la Chine cherche indubitablement une projection vers l’Océan Indien, par le Détroit de Malacca, par l’Isthme de Kra ou par des oléoducs traversant le Myanmar (Birmanie). Elle doit, pour ce faire, avoir les bonnes grâces de l’Australie. Mais l’Indonésie dans ce rapprochement, l’archipel indonésien qui est là, comme un verrou potentiel entre les deux puissances en phase de rapprochement accéléré? Quel rôle est-elle appelé à jouer? Celle d’un ami ou d’un ennemi du nouveau binôme sino-australien? Sa spécificité d’Etat à dominante largement musulmane déplait-elle à la Chine qui se méfie dorénavant de tout islamisme depuis les ennuis que lui procure sa minorité ouïghour dans le Sinkiang? Les implications potentielles du rapprochement sino-australien nous permettent encore de spéculer à l’infini. Un glissement géopolitique intéressant, dans une zone clef de la planète.

 

(sources: “International Herald Tribune”, Oct. 16, 2009).

Comportement social japonais

japonqqqq.jpg

 

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1992

L'anatomie de la dépendance

L'interprétation du comportement social des Japonais par Takeo Doi

 

par Stefano BONINSEGNI

 

Edité au Japon en 1971, ce recueil d'articles écrits par un éminent psychiatre japonais se veut avant toute chose une contribution à la théorie psychanalytique, portée par une réflexion nouvelle sur le terme japonais amae  —que l'on pourrait traduire, grosso modo, par «pulsion de dépendance». L'amae  semble imprégner tous les aspects de la mentalité et de la pensée nipponnes. Le livre de Takeo Doi donne en bout de course une interprétation globale des comportements sociaux du peuple de l'Empire du Soleil Levant, comme le suggère d'ailleurs son sous-titre.

 

Prémisse de l'auteur: la psychologie spécifique d'un peuple, quel qu'il soit, ne peut s'étudier qu'en se familiarisant avec sa langue, car celle-ci englobe déjà tous les éléments intrinsèques de l'âme d'une nation. A toute langue correspondent des besoins et une vision du monde particulière. La langue japonaise étant radicalement différente des langues occidentales, les différences culturelles entre les mondes occidental et nippon sont très profondes. Par ailleurs, argumente Doi, il faut savoir que des pulsions et des émotions préexistent à l'émergence d'une langue; et le fait que la langue japonaise, à la différence de toutes les autres langues, possède le terme d'amae,  lequel se réfère pourtant à une pulsion qui est en soi universelle, constitue un point de départ pour la réflexion, permettant de formuler des hypothèses suggestives, non seulement sur la mentalité japonaise mais aussi sur les différences de fond qui existent entre les cultures d'Occident et d'Orient.

 

La pulsion de dépendance surgit dès que le bébé perçoit, dans la douleur, la séparation entre son soi et le reste, c'est-à-dire sa mère. L'amae  est la tentative de nier cette séparation douloureuse, de la même façon que le bébé, en s'attachant au sein de sa mère, satisfait (momentanément) son désir de subordination. Cette tentative d'échapper à ce détachement par rapport à un «tout originaire» façonne et conditionne la mentalité et la pensée japonaises. Les oppositions typiques qui structurent les langues occidentales  —interne/externe, individuel/collectif, privé/public, etc.—  sont toutes inadéquates pour cerner cette psychologie «infantile», qui idéalise la capacité de compter sur l'indulgence maximale d'autrui (amaeru), ce qui, en de nombreux cas, peut mal tourner.

 

Le modèle idéal de rapports, pour un Japonais, est celui qui unit géniteurs (en particulier la mère) et enfants, où la propension à la dépendance s'exprime de manière maximale. A l'opposé, face aux tanin  (1), c'est-à-dire aux étrangers, l'amae  n'est plus présente. Entre ces deux extrêmes, nous trouvons plusieurs groupes d'appartenance. Outre l'entourage immédiat d'un individu (uchi),  les rapports se définissent par le ninjo  (l'obligation sociale, le lien social), dans lequel sont présents et l'amae  et l'enryo  (la réserve, la distance tenue volontairement). Exemples: face à un collègue ou à un supérieur dans l'entreprise (qui est la «communauté» centrale dans la vie japonaise), le Japonais attend une certaine dose d'indulgence et de compréhension; par ailleurs, il se sent contraint de faire usage de sa réserve pour ne pas donner l'impression d'abuser de la condescendance d'autrui, sinon un conflit contraire aux intérêts de l'amae  pourrait survenir. Le Japonais veut maintenir l'«harmonie».

 

L'idéal nippon dans le champ des rapports sociaux est toujours de pouvoir exprimer un maximum d'amaeru;  en ce sens, l'enryo  est perçu comme une douloureuse nécessité. Dans ce contexte mental et culturel, l'individualité vue comme séparation n'est pas considérée comme une valeur (la langue japonaise a dû introduire des termes spécifiques pour traduire plus ou moins les mots «individu» et «personnalité», vocables qui ne sont apparus qu'à l'ère de la modernisation au siècle passé). Ensuite, le «genre humain universel» n'est pas envisagé: seul le groupe et ses intérêts prévalent. Déjà, le Japon médiéval pouvait être considéré comme un ensemble de grands groupes (de clans) qui formaient un clan plus grand, la tribu Japon, dont l'Empereur est le symbole sacré de l'unité.

 

Dans la psychologie japonaise, il n'est pas possible d'envisager un conflit intérieur entre l'instance individuelle et le devoir public (chose fréquente, en revanche, dans la mentalité occidentale). Le conflit surgit bien plutôt entre les devoirs de l'individu à l'égard de différents niveaux d'appartenance, par exemple entre son entourage le plus intime et la nation. Selon Takeo Doi, c'est parce que la mentalité définie par l'amae  est enracinée dans une histoire japonaise qui n'a jamais connu, même sous forme diffuse, une culture fondée sur les valeurs de l'individu. Tandis qu'en Occident  l'individu a pris son envol par le christianisme, en Orient, et en particulier au Japon, s'est affirmée une culture de la communauté, ancrée dans une éthique de la fidélité au groupe, dont l'intérêt est toujours considéré comme supérieur.

 

Takeo Doi nous confirme en outre, dans les grandes lignes, l'idée qui se répand de plus en plus en Occident, selon laquelle le Japon, après avoir assimilé sans interruption des cultures ou des religions étrangères, aurait maintenu tout de même une identité de fond que la modernisation capitaliste n'a pas réussi à entamer de façon significative. Sur ce plan, justement, l'amae  et son impact jouent un rôle fondamental. Le fait que le peuple japonais a été et, surtout, est encore enclin à assimiler des éléments de culture d'origine étrangère est du à cette pulsion de dépendance à l'égard d'autrui, dans la mesure où la fonction d'assimilation en est un mode opératoire caractéristique. Tout ce qui est assimilé est mis au service du groupe d'appartenance et de ses intérêts.

 

Nakamura Hajime, en prenant l'exemple de la religion, a cherché à expliquer cette attitude dans les termes suivants: «En règle générale, quand ils ont adopté des éléments issus de religions étrangères, les Japonais possédaient déjà un cadre éthique et pratique qu'ils considéraient comme absolu; ils n'ont donc recueilli ces éléments et ne les ont adaptés que dans la mesure où ces nouveautés ne menaçaient pas le cadre existant; au contraire, ils ne les adoptaient que s'ils encourageaient, renforçaient et développaient ce qui existait déjà chez eux [...]. Sans aucun doute, ceux qui embrassaient avec certitude les nouvelles religions le faisaient avec une piété sincère, mais il n'en demeurait pas moins vrai que la société japonaise se bornait en gros à adapter ces éléments pour atteindre plus facilement ces propres objectifs».

 

Takeo Doi, lui, donne une explication légèrement différente: «Pour m'exprimer en des termes légèrement différents de ceux qu'emploie Nakamura, je pourrais affirmer que, si les Japonais, au premier abord, semblaient accepter sans critique une culture étrangère, en fait, sur un mode tout à fait paradoxal, cette attitude les aidait à préserver la psychologie de l'amae,  dans le sens où ce mode d'action, consistant à adopter et à accepter, est, en soi, une conséquence de cette mentalité».

 

Ensuite, par le fait de l'amae,  la société et la mentalité japonaises se montrent extrêmement conservatrices, en dépit des convulsions profondes qui ont bouleversé, au cours de notre après-guerre, les institutions et les valeurs traditionnelles. Malgré ces mutations, il est possible de percevoir à quels moments de son histoire la mentalité japonaise a été entièrement compénétrée de cette pulsion de dépendance. Ainsi, tout fait penser, selon Doi, que même dans l'Empire du Soleil Levant, tôt ou tard, la tradition cèdera le pas à l'individualisme et à ses excès désagrégateurs: c'est une perspective qui rassure ceux qui craignent la résurgence du nationalisme et de l'expansionnisme nippons (aux Etats-Unis, la psychose va croissante!).

 

Que derrière le développement industriel et financier du Japon puisse se cacher et se réactiver un esprit belliciste et expansionniste indompté est admis partiellement, voire implicitement, par plus d'un observateur du monde nippon. Tant Antonio Marazzi que Guglielmo Zucconi, par exemple, perçoivent dans les attitudes des Japonais d'aujourd'hui, surtout dans leur univers du travail, une transfiguration moderne de l'esprit samouraï (2), qui prouve ainsi sa persistence. Selon cette interprétation, le facteur décisif, dans l'incroyable développement économique du pays, ne doit pas être recherché dans une quelconque qualité spéciale inhérente aux managers japonais ou dans l'utilisation massive et sophistiquée des technologies les plus modernes, mais bien plutôt dans le matériel humain japonais, caractérisé par un sens absolu du devoir du travailleur, vis-à-vis de son activité particulière, de son entreprise et de la «plus grande entreprise Japon».

 

Tout cela, selon Doi, ne correspond que superficiellement à la vérité; l'assiduité japonaise n'est rien d'autre que le résultat de la ki ga soumanaï,  une tendance obsessionnelle qui dérive de la frustration d'amae:  «Pour citer un seul exemple, la fameuse assiduité japonaise au travail pourrait très bien être liée à ce trait de caractère de nature obsessionnelle: si paysans, ouvriers et employés se jettent à corps perdu dans le travail, ce n'est pas tant par nécessité économique, mais plutôt parce que s'ils agissaient autrement, ils provoqueraient la ki ga soumanaï. Bien peu de salariés japonais se préoccupent de la signification de leur travail ou du bénéfice que la société, dans son ensemble, eux-mêmes et leur famille pourraient en tirer. Et pourtant, ils n'hésitent pas à se sacrifier. Cette attitude avantage évidemment le travail, même s'il est difficile de bien faire quelque chose sans une certaine dose d'enthousiasme».

 

Face à des observations de ce genre, on doit au moins remarquer qu'en dépit de ses origines, l'auteur se laisse contaminer par le vice européen, trop européen, de la psychanalyse, vice qui consiste à étendre démesurément les méthodes psychanalytiques, pour expliquer globalement tous les phénomènes d'ordre individuel ou social. Rappelons, au risque d'être répétitifs, que, en matière de conception du travail, la conception japonaise revêt au moins un aspect “sacré” qui transcende en tous points les visions actuelles et conventionnelles de l'Occident. Josei Toda, second président de la Soka Gakkaï (3), en pleine période de reconstruction, après la guerre en 1955, s'est adressé en ces termes à ses disciples: «Dès que l'on a compris le sentiment du Vrai Bouddha, comme est-il possible de négliger son travail? Pensez-y» (4). Il ne s'agit pas d'une apologie camouflée du capitalisme. Toda voulait mettre en exergue cet aspect bouddhique du don de soi absolu, idée qui, dans la mentalité occidentale est associée à la sphère religieuse ou à la rhétorique militaire. Il nous est difficile de croire qu'un tel esprit, qui s'est révélé essentiel pour arracher ce pays asiatique des décombres de la défaite et le projetter vers les sommets des statistiques de la production et du développement, ne hante plus aujourd'hui les coulisses de la «planète Japon», si complexe et si riche en contrastes.

 

Stefano BONINSEGNI.

 

Notes:

 

(1) L'indifférence à l'égard des tanin  a des conséquences particulièrement désagréables pour les Coréens installés depuis des générations sur le territoire nippon et pour les eta,  c'est-à-dire tous les Japonais qui exercent des professions considérées comme «impures» (bouchers et ouvriers des abattoirs, tanneurs, poissonniers, etc.).

 

(2) Cfr. Guglielmo ZUCCONI, Il Giappone tra noi,  Garzanti, Milano, 1986; Antonio MARAZZI, Mi Rai. Il futuro in Giappone ha un cuore antico,  Sansoni, Firenze, 1990.

 

(3) A la différence de ce que l'on dit et que l'on écrit, la Soka Gakkaï n'est pas, en fait, une nouvelle secte religieuse, mais une grande organisation laïque qui se réfère au clergé séculier bouddhiste de la Nichiren Shoshu. Récemment, ce clergé a destitué la Soka Gakkaï de ses prérogatives, en lui enlevant, entre autres choses, le droit de le représenter officiellement dans les milieux laïques et de diffuser le bouddhisme Nichiren. Au-delà des motivations exclusivement religieuses de cette dissension, il faut mentionner le fait que la Soka Gakkaï, sous la présidence de Daisaku Ikeda, a ajouté à sa mission traditionnelle de diffuser le bouddhisme un militantisme réformiste sur le plan social et des prises de position inspirées par un pacifisme absolu, qui déplaisaient forcément au clergé. Cette situation est révélatrice quant à l'atmosphère qui règne dans le Japon d'aujourd'hui.

 

(4) Cf. Il Nuovo Rinascimento,  août 1991, p. 15.

lundi, 19 octobre 2009

Pakistan: un fondamentalisme anti-chiite?

untitterrled-vi.jpgPakistan: un fondamentalisme anti-chiite?

 

Dans une présentation didactique des principaux groupes fondamentalistes pakistanais actifs aujourd’hui, le quotidien flamand “De Morgen”, dans son édition du 16 octobre 2009, révèle les objectifs de base de quatre formations djihadistes:

-          le Lashkar-e-Jhangri (LEJ)

-          le Sipah-e-Sahaba Pakistan (SSP)

-          le Jaish-e-Mohammed (JEM)

-          le lashkar-e-Taiba (LET).

 

Le LEJ est une organisation sunnite née dans les années 90 et destinée à lutter, dans un premier temps, contre les chiites pakistanais. Ultérieurement le LEJ a opté pour un djihadisme généralisé. On lui attribue deux attentats: celui perpétré contre l’Hôtel Mariott à Islamabad et celui commis contre l’équipe de cricket du Sri-Lanka.

 

Le SSP (“Armée des Amis du Prophète”) a été fondé en 1985 dans l’intention de lutter contre les Chiites, parce que ceux-ci étaient majoritairement de gros propriétaires terriens dont les intérêts entraient en collision avec les hommes d’affaires et les professions indépendantes d’obédience sunnite. Le SSP est très lié au LEJ. Celui-ci est d’ailleurs issu des groupes les plus radicaux du SSP. Leur objectif est de faire du Pakistan un Etat exclusivement sunnite et de déclarer les chiites non musulmans et, par là même, parias et privés de tous droits de citoyenneté.

 

Le JEM (“Armée de Mohammed”), que l’on dit lié à Al Qaïda, avait été dissous après un attentat contre le Parlement indien en 2001. Au départ, ce groupe armé avait pour objectif de lutter contre les Indiens au Cachemire; plus tard, il a recentré ses activités dans la “zone tribale”, contigüe et du Penjab et de l’Afghanistan, pays auquel il a étendu ses activités, en liaison avec certains éléments des Talibans.

 

Le LET (“Armée des Justes”) a été constitué en 1990 pour lutter contre les Indiens au Cachemire avec, au départ, le soutien de l’armée et des services secrets pakistanais. On accuse le LET d’avoir commis l’attentat contre l’hôtel international de Mumbai (Bombay). Les Etats-Unis et l’Inde soupçonnent toujours le Pakistan de soutenir le LET.

 

(source: Ayfer ERKUL, “Dodelijke terreur in Pakistan”, in “De Morgen”, 16 oct. 2009).

 

Conclusion:

 

1)       Le djihadisme, avec ses répercusssions “terroristes” avait pour objectif premier de lutter contre l’influence indirecte de l’Iran, qui aurait pu s’exercer via les communautés chiites, et contre l’Inde.

 

2)       Le Pakistan, allié des Etats-Unis, a donc bel et bien servi d’instrument pour lutter contre le chiisme, en tant que prolongement de l’influence culturelle iranienne, et cela, sans doute dès l’époque du Shah. L’élimination de l’Empereur Pahlevi n’a nullement mis un terme aux persécutions anti-chiites, preuve que l’objectif final de Washington et d’Islamabad n’a jamais été d’éliminer un monarque qui aurait enfreint les droits de l’homme, comme on aimait dire du temps de Carter, ni d’éliminer de dangereux extrémistes fondamentalistes iraniens et chiites, mais de bloquer toute influence iranienne en direction de l’Afghanistan, du Pakistan et de l’Inde, selon les principes de “Grande Civilisation” théorisés par le dernier Shah et son entourage. De même, la manipulation de têtes brûlées djihadistes servait à enrayer le politique indienne dans la région (surtout au Cachemire), l’Inde étant soupçonnée de sympathies pour la Russie et de lui donner ainsi, indirectement, accès à l’Océan Indien.

 

3)       L’alliance entre le fondamentalisme sunnite et les Etats-Unis se confirme, lorsqu’on examine les motivations premières des djihadistes pakistanais: leur ennemi, au départ, n’est ni l’Occident ni le communisme mais le chiisme et l’Inde. Les Etats-Unis ne pouvaient accepter ni une politique autonome de l’Iran impérial ni une politique autonome de la République Islamique d’Iran ni un tandem russo-indien dans l’Océan du Milieu.

 

4)       L’option, récurrente dans certains milieux politiques ou métapolitiques non conformistes européens, de considérer que l’Islam est un bloc uni et, partant, une “force anti-impérialiste” dirigée contre les Etats-Unis en particulier et contre l’Occident en général, s’avère dès lors fausse et manichéenne. Le clivage sunnisme/chiisme est très souvent plus fort chez les djihadistes de base que le clivage Islam/Occident.

 

5)      Les Etats-Unis, en appliquant la stratégie Brzezinski d’une alliance entre Mudjahhidins et Américains dès l’entrée des troupes soviétiques en Afghanistan en 1979, ont bel et bien ouvert une boîte de Pandore. Et les déboires que les Américains et leurs alliés doivent encaisser aujourd’hui dans la région sont les déboires de l’arroseur arrosé.

The Anglo-US Drive into Eurasia and the Demonization of Russia

264515072_small2.jpgThe Anglo-US Drive into Eurasia and the Demonization of Russia
Reframing the History of World War II


Global Research, October 2, 2009

As tensions mount between the U.S. and the North Atlantic Treaty Organization (NATO) on one side and Moscow and its allies on another, the history of the Second World War is being re-framed to demonize Russia, the legal successor state and largest former constituent republic (pars pro toto) of the Union of Soviet Socialist Republics (U.S.S.R.). In 2009, the U.S.S.R. and the Nazi government of Germany started being portrayed as the two forces that ignited the Second World War.

The historicity behind such a narrative is incorrect and nothing can be further from the truth in regards to Moscow. The security of the European core of the Soviet Union was the main objective of the Kremlin as well as the recovery of lost territory. The Soviet government was also aware of war plans against the Soviet Union. Adolph Hitler thought Britain would join Germany in war against the Soviets, even until the latter part of the Second World War.

This discourse in itself is part of a broader roadmap to control Eurasia through the encirclement of any rival powers, such as Russia and China. To understand the geo-politics and strategic nature of the encirclement of Russia and China by the U.S. and NATO, as well as the Eurasian alliance being formed by Moscow and Beijing as a counter-measure, one must look at the historic Anglo-American drive to cripple and contain any power in Eurasia.

Geography is the basis of the social evolution of traditional power, whether in feudal societies or in industrial societies. For example the property ownership of the landed class, which originally was the nobility, gave rise to the factory system. The rise of financial power is somewhat different, but yet it is also tied to geography.

The United States, India and Brazil are all “natural great powers” — a term coined herein. Natural great powers are states that are bound, with time, to develop or evolve into major hubs of human production because of their geographic configuration or nature’s blessings. In the Eurasian landmass, above all others, there are three states that we can call natural great powers; these states are Russia, China, and India. They have large territories and vast resources and, due to the two former factors, possess great human capacity that can lead to major productivity.

Without human capacity, however, geography and resources are meaningless, and therefore any impairment of population growth or social development through war, civil strife, famine, political instability and/or economic instability can obstruct the emergence of a natural great power. This is exactly what has been happening in the Russian Federation and its earlier predecessors, the U.S.S.R. and the Russian Empire, for the last two hundred years - from the numerous episodes of civil war, the First World War, and the Second World War, to the Yeltsin era and the problems in Caucasia. This is also why the declining population of Russia is a major worry for the Kremlin. If left undisturbed, such nation-states like China and Russia, would dominate the global economy and, by extension, international politics.

This is exactly what Anglo-American foreign policy has been trying to prevent for almost three centuries, first strictly under British clout and then later through combined British and American cooperation. In Europe, the containment policy was first applied to France for centuries and later, after German unification under Prince Otto von Bismarck, to Germany. Later the policy was expanded in scope to all Eurasia (the proper geographic extension of Europe or the “Continent”, as the British called it).

Part of this policy included the prevention of Russian access to the shores of the Mediterranean Sea or the Persian Gulf, which would threaten British trade and eventually maritime supremacy. This is one of the main reasons that the British and French played Czarist Russia and Ottoman Turkey against one another and militarily supported the Ottoman Empire in the Crimean War, when the possibility of Russia, under Catherine II, gaining Ottoman territory on the Mediterranean Sea seemed real.

Why did the Soviets and Chinese Bear the Brunt of the Burden in the Second World War?

The U.S.S.R. and China suffered the greatest material, demographic and overall losses in the Second World War. A quantitative comparative overview and cross-examination of the casualty figures of Britain, the United States, the Soviet Union and China will show the staggering differences between the so-called “Western Allies” and the so-called “Eastern Allies.”

Britain suffered 400,000 casualties and the U.S. suffered just over 260,000 casualties. U.S. civilian casualties were virtually non-existent and no U.S. factories were even touched. On the other hand, the U.S.S.R. had about 10 million military casualties and 12 to 14 million civilian casualties, while China had about 4 to 5 million military casualties and civilian casualties that have been estimated in the range of 8 to 20 million deaths.

Suffering can not be qualified or quantified, but much is overlooked in regards to the Soviet Union and China. Without question the Soviet Union and China lost the greatest ratio of their populations amongst the major Allies. In many cases the casualties of the series of civil wars in the Soviet Union (which saw foreign involvement and even intervention) and the casualties of the Japanese invasion of China (30 million people, starting before 1939) are not counted as Second World War casualties by many historians in Western Europe and the Anglosphere

Most the fighting in the Second World War also took place in the territories of China and Russia. Both Eurasian giants also faced the greatest destruction of infrastructure and material loss, which set their development back by decades. The agricultural and industrial capacity of China alone was cut in half. The Axis, specifically Germany and Japan (two economic rivals of the U.S. and Britain), also were crippled. In contrast, the U.S. was virtually untouched, while Britain as a state was totally depended on U.S. patronage. [1]

U.S. Economic Expansion: Global Wars and the Growth of U.S. Industrial and Economic Might

Both the First World War and the Second World War managed to eliminate any economic rivalry or challenge to U.S. corporations. While Europe and Asia were ravaged by war, the U.S. inversely grew economically. U.S. industrial might grew by leaps and bounds, while the industrial capacities of Europe and Asia were destroyed by both Allied and Axis sides in the Second World War and by the Allies and the Central Powers in the First World War.

By the end of the the Second World War, the U.S. literally owned half the global economy through loans, American foreign investment and war debts. U.S. economic expansion and the American export boom were unprecedented in the scale that took place during the period from 1910-1950, all of which was tied to the Eurasian warscape. Also, it was also only the U.S. that had the economic resources to rebuild the economies and industrial capacities of Europe and Asia, which it did with strings attached. These strings involved favourable treatment of U.S. corporations, preferential trade with the U.S., and the setting up of U.S. branch plants.

1945 was the beginning of Pax Americana. Even much of the foreign aid provided by the U.S. government (with the approval of Congress), to facilitate the reconstruction of European states, flowed back into the private bank accounts of the owners of U.S. corporations, because American firms were awarded many reconstruction-related contracts. War had directly fuelled the industrial might of the United States, while eliminating other rivals such as the Japanese who were a major economic threat to U.S. markets in Asia and the Pacific.

Just to show the extent of the American objectives to handicap their economic rivals one should look at the handling of Japan from 1945 till about October 1, 1949. After the surrender of Tokyo to the U.S. on the U.S.S. Missouri and the start of the American occupation and administration of Japan, the Japanese economy began to rapidly decline because of the calculated neglect of the U.S. through the office of the Supreme Commander of the Allied Powers (SCAP). In economic terms, the Japanese case was initially very similar to that of Anglo-American occupied Iraq.
 
In late-1949 all this began to change. Almost overnight, there was literally a complete change, or a flip-flop, in U.S. policy on Japan. It was only after October 1, 1949 when the People’s Republic of China was declared by Mao Zedong and the Communist Party of China that the U.S. began to allow Japan to recover economically, so as to use it as a counter-weight to China. As a side note, in a case of irony, the quick change in American policy regarding Japan allowed the U.S. to overlook the Japanese policy of not allowing foreign investment, which is one of the reasons for the economic success of Japan and one of the reasons why the financial elites of Japan form part of the trilateral pillar of the global economy along with the elites of the U.S. and Western Europe.

The “Open Doors” Policy of the Anglo-American Establishment

Anglo-American elites also made it clear that they wanted a global policy of “open doors” through the 1941 Atlantic Charter, which was a joint British and American declaration about what post-war international relations would be like. It is very important to note that the Atlantic Charter was made before the U.S. even entered the Second World War. The events and description above was the second clear phase behind the start of modern neo-liberal globalization; the first phase was the start of the First World War. In both wars the financial and corporate elite of the U.S., before the entry of the U.S. as a combatant, had funded both sides through loans and American investment, while they destroyed one another. This included the use of middlemen and companies in other countries, such as Canada.

The creation of the U.S. Federal Reserve in 1913, before the First World War and the U.S. domestic (not foreign, because of the regulations of other states) de-coupling of the gold standard from the U.S. dollar in 1933, before the Second World War, were required beforehand for the U.S. domination of other economies. Both were steps that removed the limits and restrains on the number of U.S. dollars being printed, which allowed the U.S. to invest and loan money to the warring states of Europe and Asia.

Norman Dodd, a former Wall Street banker and investigator for the U.S. Congress, who examined  U.S. tax-exempt foundations, revealed in a 1982 interview that the First World War was anticipated by U.S. elites in order to further manage the global economy. [2] War or any form of large-scale traumatic occurences are the perfect events to use for restructuring societies, all in the name of the war effort and the common good. Civil liberties and labour laws can be suspended, while the press is fully censored and opposition figures arrested or demonized, while corporations and governments merge in close coordination and under the justification of the war effort. This was true of virtually all sides in the First World War and the Second World War, from Canada to Germany under Adolph Hitler.
 
In contrast to the views of its own citizens, the American government was never really neutral during both the First World War and the Second World War. The U.S. was funding and arming the British at the start of the Second World War. Also before the American entry in the Second World War, the U.S., Canada, and Britain started the process of joint war planning and military integration. Before the Japanese attacked Pearl Harbour on December 7, 1941 the U.S. and Canada, which was fighting Germany, on  August 17, 1940 signed the Ogdensburg Agreement, which was an agreement that spelled out joint defence through the Permanent Joint Board of Defence and joint war planning against Germany and the Axis. In 1941, the Hyde Park Agreement formally united the Canadian and American war economies and informally united the U.S., Canadian, and British economies. The U.S. and British military command would also be integrated. In part, the monetary arrangement that was made through these war transactions between the U.S., Canada, and Britain would become the basis for the Bretton Woods formula.
 
Also, the empires of Britain, France, and other Western European states were not dismantled just due to the fact that they were all degraded because of the Second World War, but because of Anglo-American economic interests. The imperialist policies of these European states made it mandatory for their colonies to have preferential trade with them, which went against the “open doors” policy that would allow U.S. corporations to penetrate into other national economies, especially ones that were ravaged by war and thus perfect for U.S. corporate entrance.
 

The Reasons for the German-Soviet Non-Aggression Pact
 
Britain and the U.S. also deliberately delayed their invasion of Western Europe, calculating that it would weaken the Soviets who did most the fighting in Europe’s Eastern Front. This is why the U.S. and Britain originally invaded North Africa instead of Europe. They wanted the Third Reich and the Soviet Union to neutralize one another.

The German-Soviet Non-Aggression Pact or the Ribeentrop-Molotov Pact caused shock waves in Europe and North America when it was signed. The German and Soviet governments were at odds with one another. This was more than just because of ideology; Germany and the Soviet Union were being played against one another in the events leading up to the Second World War, just as how previously Germany, the Russian Empire, and the Ottoman Empire were played against one another in Eastern Europe [3]

This is why Britain and France only declared war on Berlin, in 1939, when both the U.S.S.R. and Germany had invaded Poland. If the intentions were to protect Poland, then why only declare war against Germany when in reality both the Germans and the Soviets had invaded? There is something much deeper to be said about all this.

If Moscow and Berlin had not signed a non-aggression agreement there would have been no declaration of war against Germany. In fact Appeasement was a deliberate policy crafted in the hope of allowing Germany to militarize and then allowing the Nazi government the means, through military might, to create a common German-Soviet border, which would be the prerequisite to an anticipated German-Soviet war that would neutralize the two strongest land powers in Europe and Eurasia. [4]

British policy and the rationale for the non-aggression pact between the Soviets and Germans is described best by Carroll Quigley. Quigley, a top ranking U.S. professor of history, on the basis of the diplomatic agreements in Europe and insider information as an professor of the elites explains the strategic aims of British policy from 1920 to 1938 as:

[T]o maintain the balance of power in Europe by building up Germany against France and [the Soviet Union]; to increase Britain’s weight in that balance by aligning with her the Dominions [e.g., Australia and Canada] and the United States; to refuse any commitments (especially any commitments through the League of Nations, and above all any commitments to aid France) beyond those existing in 1919; to keep British freedom of action; to drive Germany eastward against [the Soviet Union] if either or both of these two powers became a threat to the peace [probably meaning economic strength] of Western Europe [and most probably implying British interests]. [5]

In order to carry out this plan of allowing Germany to drive eastward against [the Soviet Union], it was necessary to do three things: (1) to liquidate all the countries standing between Germany and [the Soviet Union]; (2) to prevent France from [honouring] her alliances with these countries [i.e., Czechoslovakia and Poland]; and (3) to hoodwink the [British] people into accepting this as a necessary, indeed, the only solution to the international problem. The Chamberlain group were so successful in all three of these things that they came within an ace of succeeding, and failed only because of the obstinacy of the Poles, the unseemly haste of Hitler, and the fact that at the eleventh hour the Milner Group realized the [geo-strategic] implications of their policy [which to their fear united the Soviets and Germans] and tried to reverse it. [6]

It is because of this aim of nurturing Germany into a position of attacking the Soviets that British, Canadian, and American leaders had good rapports (which seem unexplained in standard history textbooks) with Adolph Hitler and the Nazis until the eve of the Second World War.

In regards to appeasement under Prime Minister Neville Chamberlain and its beginning under the re-militarization of the industrial lands of the Rhineland, Quigley explains:

This event of March 1936, by which Hitler remilitarized the Rhineland, was the most crucial event in the whole history of appeasement. So long as the territory west of the Rhine and a strip fifty kilometers wide on the east bank of the river were demilitarized, as provided in the Treaty of Versailles and the Locarno Pacts, Hitler would never have dared to move against Austria, Czechoslovakia, and Poland. He would not have dared because, with western Germany unfortified and denuded of German soldiers, France could have easily driven into the Ruhr industrial area and crippled Germany so that it would be impossible to go eastward. And by this date [1936], certain members of the Milner Group and of the British Conservative government had reached the fantastic idea that they could kill two birds with one stone by setting Germany and [the Soviet Union] against one another in Eastern Europe. In this way they felt that two enemies would stalemate one another, or that Germany would become satisfied with the oil of Rumania and the wheat of the Ukraine. It never occurred to anyone in a responsible position that Germany and [the Soviet Union] might make common cause, even temporarily, against the West. Even less did it occur to them that [the Soviet Union] might beat Germany and thus open all Central Europe to Bolshevism. [7]

The liquidation of the countries between Germany and [the Soviet Union] could proceed as soon as the Rhineland was fortified, without fear on Germany’s part that France would be able to attack her in the west while she was occupied in the east. [8]

In regards to eventually creating a common German-Soviet, the French-led military alliance had to first be neutralized. The Locarno Pacts were fashioned by British foreign policy mandarins to prevent France from being able to militarily support Czechoslovakia and Poland in Eastern Europe and thus to intimidate Germany from halting any attempts at annexing both Eastern European states. Quigley writes:

[T]he Locarno agreements guaranteed the frontier of Germany with France and Belgium with the powers of these three states plus Britain and Italy. In reality the agreements gave France nothing, while they gave Britain a veto over French fulfillment of her alliances with Poland and the Little Entente. The French accepted these deceptive documents for reason of internal politics (...) This trap [as Quigley calls the Locarno agreements] consisted of several interlocking factors. In the first place, the agreements did not guarantee the German frontier and the demilitarized condition of the Rhineland against German actions, but against the actions of either Germany or France. This, at one stroke, gave Britain the right to oppose any French action against Germany in support of her allies to the east of Germany. This meant that if Germany moved east against Czechoslovakia, Poland, and eventually [the Soviet Union], and if France attacked Germany’s western frontier in support of Czechoslovakia or Poland, as her alliances bound her to do, Great Britain, Belgium, and Italy might be bound by the Locarno Pacts to come to the aid of Germany. [9]

The Anglo-German Naval Agreement of 1935 was also deliberately signed by Britain to prevent the Soviets from joining the neutralized military alliance between France, Czechoslovakia, and Poland. Quigley writes:

Four days later, Hitler announced Germany’s rearmament, and ten days after that, Britain condoned the act by sending Sir John Simon on a state visit to Berlin. When France tried to counterbalance Germany’s rearmament by bringing the Soviet Union into her eastern alliance system in May 1935, the British counteracted this by making the Anglo-German Naval Agreement of 18 June 1935. This agreement, concluded by Simon, allowed Germany to build up to 35 percent of the size of the British Navy (and up to 100 percent in submarines). This was a deadly stab in the back of France, for it gave Germany a navy considerably larger than the French in the important categories of ships (capital ships and aircraft carriers), because France was bound by treaty to only 33 percent of Britain’s; and France in addition, had a worldwide empire to protect and the unfriendly Italian Navy off her Mediterranean coast. This agreement put the French Atlantic coast so completely at the mercy of the German Navy that France became completely dependent on the British fleet for protection in this area. [10]

The Hoare-Laval Plan was also used to stir Germany eastward instead of southward towards the Eastern Mediterranean, which the British saw as the critical linchpin holding their empire together and connecting them through the Egyptian Suez Canal to India. Quigley explains:

The countries marked for liquidation included Austria, Czechoslovakia, and Poland, but did not include Greece and Turkey, since the [Milner] Group had no intention of allowing Germany to get down onto the Mediterranean ‘lifeline.’ Indeed, the purpose of the Hoare-Laval Plan of 1935, which wrecked the collective-security system by seeking to give most Ethiopia to Italy, was intended to bring an appeased Italy in position alongside [Britain], in order to block any movement of Germany southward rather than eastward [towards the Soviet Union]. [11]

Both the Soviet Union, under Joseph Stalin, and Germany, under Adolph Hitler, ultimately became aware of the designs for the planning of a German-Soviet war and because of this both Moscow and Berlin signed a non-aggression pact prior to the Second World War. The German-Soviet arrangement was largely a response to the Anglo-American stance. In the end it was because of Soviet and German distrust for one another that the Soviet-German alliance collapsed and the anticipated German-Soviet war came to fruition as the largest and deadliest war theatre in the Second World War, the Eastern Front.

The Origins of the Russian Urge to Protect Eurasia

With this understanding of the Anglo-American strategic mentality of weakening Eurasia the ground can be paved for understanding the Russian mentality and mind frame for protecting themselves through protecting their European core and uniting  Eurasia through such organizations as the Warsaw Pact, the Collective Security Treaty Organization (CSTO), and the Shanghai Cooperation Organization (SCO), and such Russian policies as the Primakov Doctrine and allying Moscow with Iran and Syria.

As spheres of influence were carved in Europe, it was understood that Greece would fall into the Anglo-American orbit, while Poland, Bulgaria, Romania, Albania, Yugoslavia, and Czechoslovakia would fall within the Soviet orbit. Due to this understanding the Red Army of the Soviet Union watched as the Greek Communists were butchered and the British militarily intervened in the Greek Civil War. The reason for these agreements involving spheres of influence in Europe was that the Soviets wanted a buffer zone to protect themselves from any further invasions from Western Europe, which had been plaguing the U.S.S.R. and Czarist Russia.

In reality, the Cold War did not start because of Soviet aggression, but because of a long-standing historic impulse by Anglo-American elites to encircle and control Eurasia. The Soviet Union honoured its agreement with Britain and the U.S. not to intervene in Greece, which even came at the expense of Yugoslav-Soviet relations as Marshal Tito broke with Stalin over the issue. This, however, did not stop the U.S. and Britain from falsely accusing the Soviets of supporting the Greek Communists and declaring war on the Soviets through the Truman Doctrine. This move was a part of the Anglo-American  bid to encircle the Soviet Union and to control Eurasia. Today this policy, which existed before the First World War and helped spark the Second World War, has not changed and Anglo-American elites, such as Zbigniew Brzezinski, still talk about partitioning Russia, the successor state of the Soviet Union.

Mahdi Darius Nazemroaya is a Research Associate of the Centre for Research on Globalization (CRG) specializing in geopolitics and strategic issues.

NOTES

[1] British elites, however, had managed to incorporate themselves into the economic livelihood of the U.S., forming an Anglo-American elite and effectively separating themselves from the interests of the majority of British citizens.

[2] Mahdi Darius Nazemroaya, Plans for Redrawing the Middle East: The Project for a “New Middle East”, Centre for Research on Globalization (CRG),
November 18, 2006.

[3] Mahdi Darius Nazemroaya, The “Great Game”: Eurasia and the History of War, Centre for Research on Globalization (CRG),
December 3, 2007.


[4] China at this time was already being limited by Japan and before that by combined Japanese, Russian, and Western European policies. This would leave Germany and the U.S.S.R. as the two main threats to Anglo-American interests.

[5] Carroll Quigley, The Anglo-American Establishment: From Rhodes to Cliveden (San Pedro, California: GSG & Associates Publishers, 1981), p.240.

[6] Ibid., p.266.

[7] Ibid., p.265.

[8] Ibid., p.272.

[9] Ibid., p.264.

[10] Ibid., pp.269-270.

[11] Ibid., p.273.



jeudi, 15 octobre 2009

Le faux accord turco-arménien de Zurich ne doit pas nous tromper

Le faux accord turco-arménien de Zurich ne doit pas nous tromper

Ex: http://www.insolent.fr/

091012L'accord diplomatique signé à Zurich le 10 octobre, en présence de Mme Clinton, entre les ministres des Affaires étrangères turc et arménien est présenté au monde comme une avancée historique.

Il ne fait pas novation, pourtant, par rapport à une observation patiente des actes concrets accomplis, année après année, par le gouvernement d'Ankara (1).

Faut-il relever par exemple qu'en 1959, il y a exactement 50 ans par conséquent, et en la même ville de Zurich étaient convenus les accords gréco-turcs supposés régler le problème de Chypre. Celui-ci, cependant, aujourd'hui encore attend son règlement, supposant le simple respect des droits d'un État souverain, reconnu comme tel par les Nations-Unies, membre lui-même de l'Union européenne, à laquelle son envahisseur prétend adhérer.

À l'époque la Grande-Bretagne faisait office de puissance tutélaire.

Le cabinet de Londres songeait, paraît-il, à préserver, – sans aucune considération pour les engagements donnés depuis des décennies, – à ses intérêts stratégiques et pétroliers, tant au proche orient qu'à l'est de Suez.

À peine déplacées dans leur localisation les mêmes préoccupations président aujourd'hui à la présence sur la photo de la très épanouie Mme Clinton, triomphatrice du jour. En accord avec M. Lavrov, son homologue russe, elle pourra croire assuré le transit du pétrole et du gaz d'Asie centrale.

Inutile de souligner que la question symbolique de la reconnaissance du génocide arménien de 1915 n'a toujours pas reçu de réponse positive de la part du grand diplomate Davutoglou. On la renvoie encore une fois à une réunion d'experts, vieille manipulation turque. Le caractère négationniste de cette sempiternelle proposition ne devrait pourtant échapper à personne. Le débat a déjà eu lieu, notamment au parlement européen, qui a reconnu le génocide arménien le 18 juin 1987. La remise en cause de ce vote devrait exclure de toute perspective européenne ceux qui s'y adonnent.

Est-ce à dire, dès lors, que rien ne change sous le soleil d'Anatolie ?

Bien au contraire. Il se passe en effet beaucoup de choses en Turquie, depuis les élections européennes de juin 2009. Et comme d'habitude les médiats hexagonaux, particulièrement lorsqu'ils se font les propagandistes de l'adhésion, n'en parlent que très peu. Ils ne pointent, de loin en loin, que de fugaces et fragiles apparences de rapprochements, espoirs de solutions, promesses de réformes. Ils ne daignent jamais en évaluer, pour éclairer leurs auditeurs et lecteurs, le caractère cosmétique sinon irréaliste.

Tout l'été par exemple une polémique s'est développée, en Turquie même, à propos de l'amplitude des réformes que le gouvernement allait proposer aux Kurdes, tout en écartant les révolutionnaires du PKK. Même les chefs militaires ont dû consentir, à l'inverse des dirigeants du parti kémaliste, la nécessité de certaines évolutions. Cela n'a pas empêché la cour pénale de poursuivre 4 des 20 députés du parti DTP, qualifié de "pro-kurde". On les convoque en décembre devant la 11e Chambre du Tribunal correctionnel d'Ankara pour des propos qu'ils auraient tenus lors de la campagne électorale de 2007 : leurs opinions supposées les fait tomber, en effet, sous le coup de l'article 14 de la constitution.

Ce texte dispose que :

"aucun des droits et libertés fondamentaux inscrits dans la Constitution ne peut être exercé dans le but de porter atteinte à l’intégrité indivisible de l’État du point de vue de son territoire et de sa nation…"

L'intention séparatiste, ou même la simple revendication de l'autonomie culturelle, le fait de parler sa langue maternelle, l'affirmation suspecte de l'identité, étant appréciée par les tribunaux, ce dispositif fait explicitement exception à l'article 83 de la même constitution qui protège, en principe, la liberté d'expression et assure l'immunité des parlementaires.

Le premier ministre Erdogan, dont l'habileté n'est plus à découvrir, est allé jusqu'à protester contre cette démarche de l'autorité judiciaire et à proposer que l'on révise ces articles 14 et 83.

Reconnaissons qu'il serait bien avisé de passer à l'acte et de ne pas se contenter d'effets d'annonce.

La grande affaire consiste en effet à rendre le dossier de candidature présentable, pour le rapport qui sera établi en novembre, en vue de la conclusion en décembre de la présidence suédoise, conjoncture la plus favorable depuis fort longtemps. Rappelons à ce sujet que le rapport annuel sur l'avancée des négociations entre Bruxelles et Ankara avait été particulièrement pessimiste en novembre 2008.

En fait on sait aujourd'hui que la majorité des responsables européens partagent l'hostilité à l’entrée de la Turquie dans l’Union européenne, mais que la plupart d’entre eux n’osaient pas publiquement le faire savoir.

Profitons de la circonstance pour donner des nouvelles des positions les plus récentes prises officiellement par notre sous-ministre Lellouche affecté aux Affaires européennes à propos du sujet qui nous préoccupe et qui nous sépare de cette surprenante personnalité qui n'hésite pas à se dire lui-même "l'ami" du négociateur turc Bagis.

Lors de son passage du 23 septembre 2009 devant la commission des affaires européennes M. Lellouche a sobrement déclaré :

"Quant à notre position sur la Turquie, elle n'a pas varié. Comme l'a précisé le Président de la République, nous voulons une Turquie avec l'Europe mais pas dans l'Europe."


Jolie formule. Bien balancée. Elle dit beaucoup de choses en peu de mot, y compris au sujet de l'alignement de M. Lellouche sur la diplomatie présidentielle.

Du point de vue que je développe dans mon petit bouquin "La Question turque et l'Europe" qui vient de sortir, se pose quand même la question de ce que veut dire "la Turquie avec l'Europe". (2)

Je constate que ce pays qu'on insiste à déclarer "ami" agit actuellement contre l'Europe. Vis-à-vis des 3 pays de l'Union qui lui sont limitrophes, elle développe avec arrogance de véritables tensions frontalières permanentes, des provocations militaires, des revendications territoriales. Vis-à-vis des 24 autres sa position n'en est pas moins conquérante et cynique. etc.

Plus prolixe sur le sujet lors de son audition, le 16 septembre 2009, par la Commission chargée des affaires européennes de l'Assemblée nationale, il avait détaillé cette position française, et la sienne, de la manière suivante :

"Reste le dossier, cher à plusieurs d'entre vous, de la candidature turque. La position française est sans ambiguïté : nous souhaitons ardemment entretenir et enrichir encore une relation bilatérale pluriséculaire avec nos amis turcs - je recevrai d'ailleurs demain soir le ministre d'État turc chargé de la négociation avec l'Union européenne, Egemen Bagis, qui est un ami personnel -, nous sommes favorables au lien le plus fort entre la Turquie et l'Europe, mais nous sommes opposés à l'adhésion de la Turquie à l'Union européenne. Le président Nicolas Sarkozy s'y était engagé avant son élection, et les Français ont approuvé ce choix. 'Nous sommes pour une association aussi étroite que possible avec la Turquie, sans aller jusqu'à l'adhésion' : c'est en ces termes qu'il s'était exprimé devant les ambassadeurs, en août 2007, au lendemain de son élection. Cette position n'a pas varié. Elle est celle du gouvernement, et je m'y tiendrai.
Nous avons accepté de poursuivre les négociations avec la Turquie sur les trente chapitres compatibles avec une issue alternative à l'adhésion ; en revanche, les cinq chapitres qui relèvent directement de la logique d'adhésion sont laissés de côté.
J'ajoute que, depuis ma nomination, j'ai rencontré de nombreux collègues européens ; la plupart m'ont confié qu'ils partageaient la position française, mais qu'ils ne pouvaient le dire publiquement."


Cette dernière confidence de M. Pierre Lellouche me semble décisive.

Pourquoi cette pusillanimité demandera-t-on ?

Individuellement les responsables politiques européens savent ce projet d'élargissement préjudiciable au projet commun, et même fondamentalement contraire aux objectifs que s'est assignés l'Union européenne.

Cet élargissement extravagant, les peuples n'en veulent pas. Le grand espoir turc, du point de vue des partisans de l'adhésion, reposait sur l'hypothèse le 27 septembre d'une victoire aux élections allemandes du parti social démocrate, lequel a recueilli 55 % des voix au sein des 600 000 électeurs d'origine turque, mais 23 % seulement des suffrages de l'ensemble des Allemands.

Le manque de courage, le manque de clarté, le manque de vision de nos dirigeants me semble justifier que l'on oppose à l'Europe des États, qui nous prépare sans le vouloir peut-être, comme inexorablement, l'entrée de l'État turc dans son club, l'Europe des peuples, la vraie.

JG Malliarakis


Apostilles

  1. Dès le lendemain de l'accord ça recommençait : "Ouverture des frontières entre la Turquie et l’Arménie : Erdogan pose ses conditions" cf. 20 Minutes du 11.10.09 à 15 h 38.
  2. Vign-questionturqueCe petit livre sur "La Question Turque et l'Europe" est paru ce 2 octobre. Conçu comme un outil argumentaire, contenant une documentation, des informations et des réflexions largement inédites en France, vous pouvez le commander directement au prix franco de port de 20 euros pour un exemplaire, 60 euros pour la diffusion de 5 exemplaires.
  3. Règlement
  4. par chèque à l'ordre de "l'Insolent" correspondance : 39 rue du Cherche Midi 75006 Paris.

ou sur le site des Éditions du Trident par débit sécurisé de votre carte bleue

jeudi, 08 octobre 2009

Le pont ferroviaire eurasiatique, nouvelle route de la soie!

file00000049.jpg

Le pont ferroviaire eurasiatique,

nouvelle route de la soie du XXIe siècle !

par Alexandre LATSA ( http://www.agoravox.fr )

De la conquête de la Sibérie à l’Amérique russe, de Lisbonne à Vancouver, en passant par Pékin, petit résumé du gigantesque pont ferroviaire Transeurasien et Transcontinental en construction...

La conquête de l’Est

Lorsque le tsar Ivan IV conquiert Kazan en 1554, la Russie tarit définitivement, par la force, le flot des invasions nomades, venues de l’Est. Désormais, elle se tourne vers cet immense territoire. En 1567, deux cosaques traversent la Sibérie et reviennent de Pékin en racontant les immenses territoires et les possibilités commerciales avec l’empire du milieu. Le tsar concédera alors à des marchands de fourrure, les Stroganoff des territoires « à l’Est » (en fait en Sibérie occidentale). Ceux-ci feront appel à 800 cosaques, sous commandement de Yermak pour les protéger.
A la toute fin du XVIe siècle, la conquête russe du far-est est lancée, elle mènera les colons russes jusqu’aux portes de San Francisco...

De l’Oural au Pacifique

Les chasseurs de fourrure traversent la Sibérie en moins de cinquante ans, et installent des bases sur la route de l’Est, Iénisséisk en 1619, Iakoutsk en 1632, puis la ville d’Okhotsk. En 1649, à l’extrême est de la Sibérie. Au Sud, les Atamans russes affronteront les Chinois pour la conquête de l’Amour. Yeroïeï Khabarov met en déroute une troupe de plusieurs milliers de Chinois avant de reperdre la région et que la paix de Nertchinsk (1689) ne laisse la zone aux Mandchous. Les chasseurs russes remontent alors vers le Nord, et l’Est. Entre 1697 et 1705, le Kamtchatka est conquis. Un mercenaire danois, Vitus Behring, entreprendra une traversée de la Sibérie puis de la mer d’Okhotsk pour enfin traverser, en 1728, le détroit qui porte son nom.
En 1741, moins de deux cents ans après l’expédition de Yermak, les Russes abordent l’Amérique du Nord.

L’Amérique russe

Cette conquête s’accentuera dans la deuxième partie du XVIIIe siècle, non pour des raisons politiques, le pouvoir russe se désintéressant provisoirement de l’Amérique russe, mais purement commerciales, sous la pression des chasseurs de fourrures, livrés à leur seule ingéniosité et à leur volonté de négoce avec l’Asie. En 1761, ils mettent pied en Alaska. Une « Compagnie américaine » est même créée en 1782 pour « organiser » l’écoulement de fourrure russe en Chine, et contrer les Anglais qui écoulent eux la fourrure du Canada via le cap de Bonne-Espérance. En 1784, Alexandre Baranov, aventurier et trappeur russe fonda un empire commercial de vingt-quatre comptoirs permanents entre le Kamtchatka et la Californie. Le pouvoir russe dès lors prend conscience de l’énorme avantage que lui procure cette situation. Baranov sera nommé gouverneur de la zone, puis anobli, avant de se voir confier de déployer la « Compagnie russo-américaine » (qui gère tout le commerce de fourrure du Pacifique) le plus au Sud possible. En 1812, Fort Ross est créé, au nord de San Francisco. La présence russe est à son apogée en Amérique.

Le déclin de l’Amérique russe

Cette mainmise russe sera pourtant de courte durée. Concurrencé par les Anglais en Extrême-Orient, soumis à des révoltes occasionnelles des indigènes « nord-américains » (Aléoutes, Esquimaux, Indiens), le pouvoir russe se focalisera sur la Sibérie du Sud, jugée plus accessible de la capitale et tout aussi frontalière des pays d’Asie et de leurs débouchés commerciaux. En 1841, Fort Ross est abandonné et, en 1858, la frontière russo-chinoise est quasi stabilisée, l’Amour étant de nouveau rattachée à la Russie. En 1860, la « Compagnie russo-américaine » ne fait plus le poids face à son concurrent anglais (la Compagnie de la baie d’Hudson) et son « bail » n’est pas renouvelé.

En outre, l’effort consenti pour la guerre de Crimée (opposant la Russie avec la Grande-Bretagne, la France, l’Autriche, le Piémont et la Turquie, obligeant la Russie à se défendre de Saint-Pétersbourg à Novo Arkhangelsk, en Amérique du Nord) rendait difficilement tenable le front américain, menacé par les Britanniques. Le coût excessif de cette « colonie » et l’incapacité militaire russe à la défendre face aux Britanniques fit germer l’idée d’une cession à l’Amérique (alliée d’alors contre la Couronne). Le traité de vente de l’Alaska fut signé le 30 mars 1867.

Du Transcanadien au Transsibérien

En 1891 (alors que le projet avait été mis sur table dès 1857 par le comte Mouraviev), Alexandre III décrète la construction d’une immense voie ferrée qui reliera l’Oural à Vladivostock, sur les rives du Pacifique. Ce choix sera déterminé par les débouchés commerciaux envisagés avec l’Asie du Sud-Est, mais aussi la nécessité de renforcer les « villes ports » de l’Extrême-Orient (face à la militarisation de la Chine à sa frontière avec la Russie) et la marine militaire du Pacifique. La voie sera terminée en 1904, passant par la Mandchourie (sur du lac Baikal). La perte de ce territoire en 1907 rendra nécessaire la création d’une ligne de contournement, passant au « nord » du lac, c’est la seconde ligne, dite BAM (Baikal-Amour-Magistral), qui sera terminée elle en 1916.

En outre, les Russes s’inspirent de leurs concurrents anglais qui ont eux lancé dès 1871 une ligne de chemin de fer entre la côte Est et la côte Ouest du Canada, avec un double but : le transport des matières premières et surtout l’unification territoriale du Canada. Le premier Transcanadien joindra le Pacifique en 1886.

Le projet fou : la jonction ferroviaire Eurasie-Amérique

En 1849, un gouverneur du Colorado élabore un projet fou : un tunnel « sous » le détroit pour faciliter la traversée entre la Russie et l’Amérique. A cette époque, l’Alaska est pourtant encore russe. Le projet réapparaîtra au début du XXe siècle, un architecte français, Loic de Lobel, le présentant au tsar Nicolas II, moins de quarante ans après que son grand-père a cédé l’Alaska aux Etats-Unis. Les changements géopolitiques majeurs du demi-siècle qui suivirent ne laissèrent pas beaucoup de place à la coopération russo-américaine. En 1945, la guerre froide fait de ces deux monstres, qui se partagent le monde, des ennemis jurés. Le délabrement post-soviétique ne permet pas de relancer l’idée.

En septembre 2000 pourtant, à Saint-Pétersbourg, a lieu une « Conférence eurasiatique sur les transports », cinq grands couloirs de développement furent définis sur le continent :

- le couloir Nord, via le Transsibérien, de l’Europe vers la Chine, la Corée et le Japon ;

- le couloir central, de l’Europe méridionale à la Chine, via la Turquie, l’Iran et l’Asie centrale ;

- le couloir Sud, de l’Europe méridionale vers l’Iran, puis remontant vers la Chine par le Pakistan et l’Inde ;

- le couloir Traceca, d’Europe de l’Est à l’Asie centrale, par les mers Noire et Caspienne ;

- un couloir Nord-Sud combinant le rail et le transport maritime (Caspienne), de l’Europe du Nord à l’Inde.

Plus récemment, en mai 2007, une conférence intitulée « Les mégaprojets de l’Est russe » eut lieu à Moscou, ayant pour but de dévoiler les grands projets de l’Etat pour lutter contre le sous-développement et le sous-peuplement des régions de Sibérie et renforcer l’axe Est de la Russie. La conférence était présidée par un ancien gouverneur de l’Alaska, Walter Hickel, également secrétaire à l’Intérieur des Etats-Unis et ardent supporter du « projet fou » depuis les années 1960.

A cette occasion, fut dévoilé le nouveau projet de voie ferrée reliant la Russie à l’Amérique, à l’étude au Conseil d’études des forces productrices russes (CEFP). Son vice-président, Viktor Razbeguine, en a dévoilé les grands traits : la construction d’une immense artère reliant les continents « Eurasie-Amérique », de Iakoutsk en Sibérie orientale jusqu’à Fort Nelson au Canada, le tout via un tunnel sous le détroit de Béring long de 100 à 110 kilomètres ce qui en ferait de loin le plus long de la planète.

La voie ferrée assurerait l’accès aux ressources hydro-énergétiques de l’Extrême-Orient et du Nord-Ouest des Etats-Unis, et permettrait de construire des lignes HT et un passage de câbles par le détroit, en reliant les systèmes énergétiques des deux pays. Cette artère pourrait assurer le transport de 3 % des cargaisons du monde. La durée et la construction de l’ensemble devrait prendre de quinze à vingt ans. Le chiffre d’affaires des échanges commerciaux générés pourrait atteindre 300 à 350 milliards de dollars, toujours selon Viktor Razbeguine et le retour sur investissement attendu sur trente ans, après l’accession du chemin de fer à sa capacité projetée de 70 millions de tonnes de marchandises par an.

Sa construction pourrait en outre créer entre 100 000 et 120 000 emplois et revivifier la région Sibérie orientale, avec pourquoi pas la création de nouvelles villes et d’immenses zones agro-industrielles.

Outre le « link » des systèmes énergétiques de l’Ours et de l’Aigle, le président de l’IBSTRG (Interhemispheric Bering Strait Tunnel and Railroad Group), un « lobby tripartite Russie-Canada-Etats-Unis  » qui défend le projet de son côté depuis 1992, affirme : «  Le sous-sol de la Sibérie extrême-orientale regorge d’hydrocarbures, mais aussi de métaux rares, pas encore exploités précisément à cause de l’absence de communications  ». Ce sont ces trésors enfouis qui devraient selon lui permettre de lever les fonds pour lancer la voie ferrée de Iakoutsk, mais aussi le début des travaux sous le détroit. L’IBSTRG a en outre confirmé lors de la conférence de l’Arctique sur l’énergie (AES) en octobre 2007 que le projet passerait par l’utilisation de mini-réacteurs nucléaires mobiles, transportées par rail, route ou navire, ainsi que par l’énergie hydroélectrique pour l’expansion du réseau ferroviaire.

Les regards sont aujourd’hui tournés vers le gouverneur de l’immense région de Tchoukotka, que devrait traverser l’artère, également homme le plus riche du pays car, comme l’a affirmé le représentant du ministère russe de l’Economie, Maxime Bistrov, le fonds fédéral d’investissement finance des projets uniquement s’ils sont déjà soutenus par des entreprises privées ou avec l’aide de financements régionaux... A bon entendeur.

Quoi qu’il en soit, les différents promoteurs du tunnel fondent l’espoir que les pays du G8 soutiendront le projet. Sinon, des entreprises asiatiques, japonaises en priorité, ont déjà proposé leur aide. Le principal atout de ces liaisons ferroviaires transcontinentales n’est pas uniquement de transporter des marchandises plus rapidement, mais « intégrées à de véritables corridors de développement, elles participeront au désenclavement des pays et des régions dépourvus d’accès maritime » et, plausiblement, introduiront les futures lignes à très haute vitesse (magnétique ?) qui permettront de traverser l’Eurasie encore plus vite.

Le TransEurasien, route de la soie du XXIe siècle

Le 7 mai 1996 à Pékin, Song Jian, président de la Commission d’Etat chinoise pour la science et la technologie présentait le « Pont terrestre eurasiatique comme le tremplin d’une nouvelle ère économique pour une nouvelle civilisation humaine ». Douze ans plus tard, le 9 janvier 2008, s’est élancé le premier train « eurasiatique » de marchandise reliant Pékin à Hambourg. Le train a relié les deux villes après avoir traversé la Chine, la Mongolie, la Russie, la Biélorussie, la Pologne et l’Allemagne (soit plus de 10 000 km) en seulement quinze jours.

Lors du sommet de l’APEC en 2006, le président russe Vladimir Poutine évoquait la perspective d’une nouvelle configuration de l’Eurasie, reposant sur : « des projets conjoints à large échelle dans les transports, l’énergie et les communications ». Au même sommet, l’ancien président sud-coréen Kim Dae-Jung avait lui assuré que : « les chemins de fer Transcoréen, Transsibérien, Tnansmongol, Transmanchourien et Transchinois formeront cette "route ferroviaire de la Soie", reliant l’Asie du Nord-Est à l’Europe en passant par l’Asie centrale...  »
La glorieuse route de la soie du passé renaîtra ainsi sous la forme d’une "route ferroviaire de la soie", faisant ainsi entrer l’Eurasie dans une ère de prospérité.

"Je veux récupérer mon empire", aurait lancé Vladimir Poutine lors d’une rencontre internationale à huis clos. A en croire la position qu’est en train de prendre la Russie, aiguillon entre l’Europe, l’Asie et l’Amérique du Nord, sur la plaque eurasiatique, on peut sans doute le croire...

SOURCES :

- Philippe Conrad sur CLIO

- Catherine SAUER BAUX sur STRATISC

- Wikipédia

- Le Figaro magazine

- Arctic.net

- Ria Novosti

- Solidarité et progrès

- La Tribune

- L’association « Amitié France Corée »

- Xinhua.net

- La Voix de la Russie

dimanche, 27 septembre 2009

Aux fils d'Ungern, qui par un bel été rouge à Pékin...

ungern.jpg

 

 

AUX FILS D’UNGERN,

QUI PAR UN BEL ETE ROUGE A PEKIN…

 

Laurent Schang

 

La nature est ainsi faite, malgré les deuils de nos proches, la proximité des cimetières « Ô France, vieux pays de la terre et des morts ! » , il est des aînés, des figures, au sens latin du mot, qu’on n’imagine pas devoir mourir un jour. Qui aurait l’idée saugrenue de peindre la baie de Saint-Malo sans son phare ? Afin de retarder l’instant fatidique, il plut au poète d’inventer un baume, une formule magique à l’usage des bonnes gens, et l’on ne parle plus de la perte de l’être cher mais de sa disparition, comme si la personne avait tourné le coin de la rue pour ne jamais revenir. Infinie pitié de la langue française… Disons donc, avec Monsieur le curé, que Jean Mabire a disparu le 29 mars dernier dans sa quatre-vingtième année, au terme d’une existence bien remplie, et restons-en là.

Par ma faute, notre relation épistolaire, je n’ose écrire notre amitié, était plutôt mal partie. Dans un article où j’encensais le travail de recherche effectué par un ex officier de l’armée soviétique sur la vraie vie du baron Ungern, Le Khan des steppes,* j’avais commis l’injustice toute journalistique de féliciter l’auteur pour l’abondance de ses sources, comparée à leur absence supposée dans la biographie romancée de Jean Mabire, Ungern le baron fou, parue en 1973. Je dis supposée parce que, sûr de mon fait, je ne m’étais pas donné la peine, élémentaire, de vérifier l’information avant de rédiger mon papier. Deux semaines plus tard, l’article paraissait dans un supplément littéraire à gros tirage. Sans se démonter, Jean Mabire m’écrivit au journal, un carton ferme mais poli accompagné d’une photocopie de sa bibliographie six pages complètes, impossibles à rater, en fin de livre. Honte à moi ! J’ai oublié depuis le contenu de ma réponse mais j’en devine la nature. L’imprudence est un péché de jeunesse et Mabire, je m’en rendrais compte au fil du temps, n’aimait rien tant qu’aller à la rencontre de ses jeunes lecteurs. J’ai conservé ce carton imprimé, un des rares écrits de sa main, et je le conserve encore dans son enveloppe, comme le plus précieux des autographes. La mansuétude n’était pas la moindre de ses qualités, je ne tarderais pas non plus à m’en apercevoir. En guise d’excuse, me connaissant j’ai dû lui griffonner à peu près ceci : « Cher Jean Mabire, (…) chose exceptionnelle chez moi, (…) pourtant, j’ai lu deux fois votre Ungern, (…) la première dans sa version de poche, la seconde dans sa réédition sous un nouveau titre : Ungern le dieu de la guerre, (…) mon livre de chevet, (…) Les Hors-la-loi, (…) Mourir à Berlin, (…) Les Samouraï, (…) L’Eté rouge de Pékin » Etc., etc. Rien que la vérité en somme.

S’en suivit dès lors une correspondance ininterrompue entre l’élève et son maître, même si au final, à relire ses lettres tapées à la machine, l’impression d’un commerce d’égal à égal domine. Jean Mabire m’y exposait l’avancée de son travail, ses projets de livres, et ils étaient nombreux, se souvenait des amis perdus, Roger Nimier, Dominique de Roux, Philippe Héduy, mais surtout, il m’interrogeait. Car derrière le bourreau d’écriture, le vénérable malouin curieux de tout, se cachait d’abord un éternel jeune homme, toujours inquiet de son époque et des siens. J’en veux pour preuve nos échanges de point de vue sur Israël – sa fascination pour les kibboutzim, leur idéologie de la charrue et de la grenade –, l’avenir de l’Union européenne, la subite redécouverte de Nietzsche, « le moins allemand des philosophes allemands », après les décennies de purgatoire. Vraiment, Christopher Gérard, dont on lira plus loin l’article, a raison de qualifier Jean Mabire d’honnête homme.

J’ai évoqué plus haut sa bonté d’âme, il me faut maintenant raconter l’extraordinaire générosité avec laquelle il me fit si souvent profiter des chefs-d’œuvre de sa collection. Mabire connaissait ma passion pour l’Extrême-Orient des années 30. Du rarissime Shanghai secret, petit bijou de reportage signé Jean Fontenoy aux portraits japonais de Sur le chemin des Dieux, de Maurice Percheron, des cadeaux de Jean Mabire mon préféré, avec son ex-libris frappé sur la page de garde, je ne compte plus le nombre de livres reçus par la poste en cinq ans. Combien en eut-il de ces gestes spontanés envers moi ? « Et va la chaîne de l’amitié… » me disait-il. Plus modestement, je lui envoyais mes nouvelles, des articles découpés dans la presse, sur l’histoire des ducs de Lorraine, la guerre de 1870, et mon livre dédicacé. Ainsi respections-nous l’antique principe du don et du contre don. « Chacun sert où il peut », aimait-il à me répéter en signe d’encouragement, lui qui confessait n’avoir été pleinement heureux qu’une fois dans sa vie en dehors de sa bibliothèque, en Algérie, où il servit de 58 à 59 sous l’uniforme de capitaine d’un commando de chasse.

Je n’insisterai pas sur la carrière du romancier ni sur la prodigalité de l’écrivain militaire, une centaine de livres, sans parler des rééditions. S’agissant du régionaliste normand, du fédéraliste européen, je renvoie le lecteur à l’entretien qui suit. Pour le détail de son œuvre, les intéressés trouveront sur Wikipédia une biobibliographie très correcte et des liens vers d’autres sites.

Jean Mabire n’aura pas vécu assez pour feuilleter la réédition de L’Eté rouge de Pékin, enrichie de sa préface inédite.** Dans son dernier courrier, déjà très affecté par la maladie, il me faisait part de sa tristesse de voir les rangs se dégarnir un peu plus autour de lui chaque année. Il n’en poursuivait pas moins d’arrache-pied la rédaction d’un essai sur la vie et l’œuvre du lieutenant-colonel Driant, de son nom de plume le capitaine Danrit, un soldat à sa mesure, rendu célèbre au début du siècle précédent par ses romans d’anticipation et tué en 1916 à la tête des 56e et 59e chasseurs, au deuxième jour de la bataille de Verdun. Une belle mort, aurait-il dit, la mort rêvée du centurion.

Jean je peux bien l’appeler Jean à présent avait choisi la voie martiale de l’écriture pour mieux se faire entendre dans ce pays « devenu silencieux et bruyant ». Il s’est tu avec, je l’espère, le sentiment du devoir accompli.

 

Jean Mabire, Paris 8 février 1927 – Saint-Malo 29 mars 2006

 

* Léonid Youzéfovitch, Editions des Syrtes, 2001.

** Editions du Rocher, 2006. Sur la genèse de ce livre, cf. l’entretien avec Eric Lefèvre ci-après.

lundi, 21 septembre 2009

Les articles de Jean Paul Roux sur clio.fr

Jean-Paul_ROUX.jpg
Les articles de Jean-Paul Roux sur Clio.fr
Le Khwarezm : de l’antique Chorasmie au khanat de Khiva
Si la vallée de l’Amou Darya, l’Oxus des Anciens, avait été fouillée comme celles de l’Indus, de la Mésopotamie et du Nil, il y a fort à parier qu’elle se serait révélée aussi riche que celles-ci et apparaîtrait comme un des foyers les plus anciens ... Lire l'article
Le premier empire des steppes qui devint musulman : les Karakhanides
Après s’être convertis avec tout leur peuple à l’islam dès 960, les Kara Khans, confédération d’origine turco-mongole, prirent le contrôle de la Sogdiane en 999. Vaincus par les Ghaznévides, ils devinrent les très libres vassaux des Seldjoukides avant ... Lire l'article
L’Iran sous la domination arabe (637-874)
Après une conquête éclair par les Arabes, l’adaptation de la Perse à l’islam se fit rapidement mais l’esprit national persan affirma son individualité en se ralliant à la doctrine dissidente des chiites. Les Abbassides, même s’ils déçurent les Persans, ... Lire l'article
L’Égypte ottomane
On admet en général que la domination ottomane sur l’Égypte fut pour elle une période de profond déclin, que jamais, dans son histoire millénaire, elle ne fut aussi misérable. C’est vrai, et elle ne fournit plus de penseurs, de philosophes, de savants, ... Lire l'article
Babur, conquérant et poète
Il ne faut pas confondre grand homme et homme célèbre. Babur n’est pas célèbre, ce qui nous stupéfie, mais il est grand. Par son œuvre de conquérant : il fonde l’empire des Grands Moghols des Indes (1526-1858) dont la reine Victoria d’Angleterre héritera ... Lire l'article
Les Sogdiens : une chevalerie raffinée au carrefour des cultures
C’est l’archéologie qui a permis au XXe siècle de redécouvrir les Sogdiens, dont le nom est lié à celui de la ville fabuleuse de Samarcande. L’auteur Jean-Paul Roux qui a publié Asie centrale. Histoire et civilisations, (Fayard, 1997), nous ... Lire l'article
Samarcande
Si la gloire de Samarcande était ancienne, puisqu’elle datait des Achéménides et des Grecs, la ville doit tout à Tamerlan, ce Mongol turquisé, qui allait fonder un immense et éphémère empire. Jean-Paul Roux retrace pour nous l’histoire de Samarcande ... Lire l'article
Les Abbassides : les legs culturels d’un empire éphémère
Les califes de Bagdad ! Leur nom fait rêver. Il évoque pour nous Les Mille et une nuits, leur belle conteuse, Schéhérazade, une ville aux coupoles en or, des bateaux qui passent sur le Tigre, des palmiers, ... Lire l'article
La conversion des Mongols au bouddhisme et le Dalaï Lama
Qu’un guerrier veuille se convertir, lui et son peuple, et qu’un moine soit attiré vers le pouvoir, voilà qui peut donner lieu à de très bénéfiques échanges de bons procédés. Au XVIe siècle, des intérêts mutuels bien compris voulurent que ... Lire l'article
Un lac ottoman : la mer Noire
Après 1453, les Ottomans engagent leurs navires en mer Noire et – en une trentaine d’années – prennent le contrôle de toute la région. Jean-Paul Roux évoque pour nous ces trois siècles où la mer Noire devint la « chasse ... Lire l'article
Les Yezidis, « adorateurs du diable »
0n les nomme les « adorateurs du diable ». Peut-on, quand on est sain d’esprit et nullement satanique, adorer l’esprit ou le principe du mal ? Or ils ne sont ni fous ni possédés. Si, dans leur grande majorité, ... Lire l'article
La dynastie mongole de Chine : les Yuan
Chinois et sinologues se sont toujours montrés sévères pour la dynastie des Mongols de Chine, les Yuan, fondée par Khubilaï (1260-1295), le petit-fils de Gengis Khan, bien que celle-ci soit régulièrement inscrite, au même titre que les autres, ... Lire l'article
La première peinture arabe, image des paradis profanes
Sortis de leurs déserts au lendemain de la mort du fondateur de l’islam (632) et rapidement maîtres d’immenses territoires s’étendant de l’Espagne à l’Asie centrale, les Arabes n’avaient pas de grandes traditions artistiques et n’amenaient avec ... Lire l'article
Ispahan et l’art des Séfévides
Le fondateur de la dynastie des Séfévides, Chah Ismaïl (1501-1524), brute sanguinaire, était aussi un homme de culture et de goût. Il aimait les beaux objets, métaux, verres, céramiques, les beaux tissus et s’éprit de peinture. Sous son règne, ... Lire l'article
Le Taj Mahal d’Agra
Qui n’a pas écrit sur le Taj Mahal ? Il faudrait le voir au clair de lune ou aux heures si brèves des embrasements indiens de l’aube et du crépuscule, puis s’en aller, se taire, emporter son image dans son cœur. Cela suffirait. Parler de ... Lire l'article
Les Ottomans en Europe centrale
En ce début du XVe siècle, les Balkans étaient entièrement aux mains des Turcs ottomans. Ceux-ci en avaient même dépassé les limites septentrionales, le Danube et la Save, en vassalisant la Valachie (1395). Ils n’entendaient pas ... Lire l'article
Sinan, un ingénieur-artiste au XVIe siècle
Si la vie de Sinan nous est mal connue, son œuvre magistrale, en revanche, témoigne à sa place. Jean-Paul Roux nous invite à découvrir les nombreuses mosquées que conçut et bâtit cet ingénieur, chrétien d’origine grecque, qui vécut au XVIe ... Lire l'article
Quand les Bulgares ne sont ni slaves ni balkaniques
Les Huns, dont on discute encore l’appartenance ethnique et linguistique, venus de la Haute Asie lointaine, font leur apparition dans la basse Volga, si l’on en croit Ptolémée, au IIe siècle de notre ère, entraînant à leur suite maints peuples ... Lire l'article
L’Afrique du Nord ottomane
L’arrivée en Tunisie d’Aruj Barabaros, pirate grec de mer Ionienne, plus connu sous le nom de Barberousse, marque au début du XVIe siècle l’émergence de la course ottomane. Dès lors, une lutte acharnée oppose les corsaires ... Lire l'article
Les Ottomans en mer Rouge et en Arabie
Malgré leur puissance, peut-être plus apparente que réelle, les Mamelouks, maîtres de l’Égypte et de l’Arabie, n’avaient pu empêcher les Portugais d’assurer leur domination dans l’océan Indien et d’interdire pratiquement l’accès de la mer Rouge ... Lire l'article
Les Omeyyades de Cordoue
Peu de civilisations ont laissé un tel souvenir dans la mémoire des hommes et d’aussi maigres témoins de leur existence, que celle des Omeyyades d’Espagne. Nés à l’issue d’un drame, ils ont régné pendant deux cent soixante-quinze ans, dont cent ... Lire l'article
Quand Chypre était la perle de l’Empire ottoman
La position stratégique de l’île de Chypre en Méditerranée lui a valu de tout temps d’être l’objet des convoitises des puissances du moment. Jean-Paul Roux nous explique le choc ressenti par la chrétienté face à la conquête ottomane de 1571 ... Lire l'article
L’Empire mamelouk d’Égypte
Les mamelouks, esclaves blancs venus des steppes turques, prirent la tête des armées des califes égyptiens avant de devenir, dès le XIIIe siècle, des souverains pour qui le sabre tint lieu de droit. Ils firent du Caire la première cité ... Lire l'article
Les Balkans ottomans
Les Turcs avaient été appelés en Europe par les Byzantins pour qu’ils les aidassent dans leurs conflits internes et contre les Serbes. En 1346, ils y étaient passés une première fois. Ils y étaient revenus en 1354, avaient établi une solide ... Lire l'article
Le Proche-Orient arabe sous domination ottomane
Au début du XVIe siècle, la capitale et le meilleur des terres des Sultans turcs ottomans se trouvent en Europe ; ils font alors davantage figure de princes européens qu’asiatiques. Si leur existence n’était en jeu, ils se passeraient ... Lire l'article
Les Séfévides, fondateurs de l’Iran moderne (1501-1736)
À l’aube du XVIe siècle, Ismaïl, chaïkh de l’ordre mystique des Séfévides se proclame chah avec le soutien des tribus turques. C’est avec une main de fer, des moyens souvent sanguinaires et en s’appuyant le clergé, qu’il réalise l’unité ... Lire l'article
La miniature iranienne, un art figuratif en terre d’islam
Comment et quand est née la miniature iranienne ? Quelle a été son évolution et quel est son devenir ? C’est toute l’histoire de cet art délicat et merveilleux que scrute ici Jean-Paul Roux en analysant les premiers dessins jusqu’au XIVe siècle ... Lire l'article
La miniature moghole, éclectique et raffinée
La peinture moghole, contrairement à la peinture ottomane de manuscrits, connut très tôt une large audience et conquit la faveur des historiens de l’art et du grand public. L’intervention des Portugais aux Indes, puis l’occupation française et ... Lire l'article
La Horde d’or et la Russie
En ce début du XIIIe siècle, rien ni personne ne semblait pouvoir résister à la déferlante des cavaliers mongols et les villes russes tombèrent les unes après les autres. Pendant près de deux cent cinquante ans, la Russie fit le dos rond ... Lire l'article
Les Grands Seldjoukides
Les pères luttent pour la conquête, leurs fils règnent, parfois avec sagesse, leurs petits-fils essaient, sans toujours y parvenir, de défendre des territoires convoités par d’autres conquérants : si toutes les dynasties sont mortelles, ... Lire l'article
Quand l'Afghanistan était l'un des centres du monde
Vers 1950, l’Afghanistan, figé sur ses traditions, sur un islam pur et dur, sur une farouche xénophobie, demeurait, malgré quelques tentatives d’ouverture sur le monde, un des pays les plus inaccessibles et les plus retardataires. Il n’y avait ... Lire l'article
L'épopée du monde turc
La langue turque est connue depuis le VIIIe siècle par des inscriptions écrites en Mongolie septentrionale, mais elle présente déjà, alors, des phénomènes d’usure qui prouvent son antiquité : elle nous a livré son premier mot dans un ... Lire l'article
Secte ou religion : les Druzes du Proche-Orient
De toutes les formations religieuses hétérodoxes qui émaillent le monde de l’islam, l’une des plus célèbres, pour ne pas dire la plus célèbre, est celle des Druzes. Cela provient peut-être de ce qu’elle a des liens anciens avec l’Europe ; ... Lire l'article
L’islam des partisans d’Ali : le chiisme
Une étude du chiisme doit tenir compte de plusieurs faits : il n’est pas spécifiquement iranien ; il a une longue histoire ; loin d’être unifié, il se subdivise en maints rameaux ; tous les mouvements religieux ou toutes les ... Lire l'article
L’Empire mongol, de l’art de la conquête
En 1164 peut-être – les dates ne sont pas sûres – au nord du pays qui deviendra la Mongolie, un homme et un garçon de neuf ans, Temüdjin, séjournent chez un chef de tribu des Qonggirat. Ils sont bien accueillis, et, comme on se plaît, on décide ... Lire l'article
La miniature ottomane
Des trois écoles classiques de la miniature islamique – celles d’Iran, de l’Inde moghole et des Ottomans – la dernière est la moins connue. Cela découle de trois faits : ses œuvres, moins dispersées que les autres, sont mal représentées ... Lire l'article
Les sept villes de Delhi
Ce n’est pas à Delhi que l’on peut voir les plus beaux monuments de l’islam en Inde. Il ne s’y trouve ni le Taj Mahal ni les délicats écrans de marbre ciselé. On peut préférer la Grande Mosquée de Fatehpur Sikri ou d’Agra à celle de la ville ... Lire l'article
L'empire éblouissant des Grands Moghols
Si, officiellement, la dynastie des Moghols régna de 1526 à 1857, seuls six, parmi eux les premiers, furent véritablement « grands » et apportèrent à l’Inde puissance, prospérité et unité, tolérance et raffinement esthétique. ... Lire l'article
Akbar et Fatehpur Sikri
Fatehpur Sikri, où tant d’influences artistiques se font sentir, est l’expression architecturale de l’idéal d’Akbar : la fusion en un ensemble unique, aussi harmonieux que possible, de toutes les tendances religieuses et culturelles de son ... Lire l'article
Le Caire islamique
Qui visite Le Caire islamique ? On ne va pas en Égypte pour l’art de l’islam, mais pour l’Antiquité pharaonique, et c’est dommage. Peu de cités au monde possèdent autant de monuments anciens, aussi beaux, aussi variés, et ... Lire l'article
Le harem de Topkapi : mythe et réalité
Dans l’imaginaire occidental, le harem des sultans a longtemps entretenu la vision d’un Orient de luxe et de volupté. Mais quand et pourquoi fut-il édifié ? Quelle en était l’organisation et comment vivaient, au quotidien, les femmes que ... Lire l'article
Les palais des caravanes : Les caravansérails seldjoukides
Au XIIIe siècle les routes de Cappadoce se jalonnèrent de caravansérails qui accueillaient gratuitement bêtes et gens. On y parlait toutes les langues, on priait, on négociait, on se soignait, et l’on repartait vers la halte suivante. Ils ... Lire l'article
La civilisation omeyyade et les châteaux du désert
Quelques années seulement après l’émergence de l’Empire arabe en 632, les Omeyyades imposèrent leur autorité et, de Syrie où ils s’installèrent, tout en perpétuant les traditions léguées tant par l’Antiquité que le christianisme, ils surent imposer ... Lire l'article
Istanbul, métamorphoses et séduction
D’où vient cette fascination qu’exerce l’antique capitale des basilei byzantins et des padichah ottomans ? Pourquoi, dans son incessante métamorphose, Istanbul nous donne-t-elle ce gage de fidélité ? Telles sont les questions ... Lire l'article
La Grande Mosquée d'Ispahan : Histoire et civilisation de l'Iran islamique
Auteur de nombreux ouvrages, Jean-Paul Roux est spécialiste du monde musulman. Ses études et observations concernant la Grande Mosquée d’Ispahan nous révèlent aujourd’hui à quel point ce monument est le plus important et le plus significatif ... Lire l'article
Le mazdéisme, la religion des mages
Dans l’Iran ancien était vénéré le dieu Ahura Mazda, le Seigneur sage, omniscient ; d’où le nom mazdéisme donné à cette religion traditionnelle, la plus ancienne à s’être pérennisée – parfois sous la dénomination de zoroastrisme, ... Lire l'article
Le christianisme en Asie centrale
L’Asie centrale, de tout temps terre de passage, d’invasion, de rencontre des civilisations venues des quatre points cardinaux, est le lieu de la diversité anthropologique, linguistique et culturelle par excellence. Comment, et sous quelle forme ... Lire l'article

lundi, 14 septembre 2009

La CIA, Al Qaida et la Turquie au Xinjiang et en Asie centrale

urumqi%20ouighour%20police.jpg

 

La CIA, Al Qaida et la Turquie au Xinjiang et en Asie centrale

Lors d'une interview à l’émission radio Mike Malloy radio show, l’ancienne traductrice pour le FBI, très connue aux Etats-Unis Sibel Edmonds a raconté comment le gouvernement de son pays a entretenu des « relations intimes » avec Ben Laden et les talibans, « tout du long, jusqu’à ce jour du 11 septembre (2001). » Dans « ces relations intimes », Ben Laden était utilisé pour des “opérations” en Asie Centrale, dont le Xinjiang en Chine. Ces “opérations” impliquaient l’utilisation d’al-Qaida et des talibans tout comme « on l’avait fait durant le conflit afghano-soviétique », c’est à dire combattre “les ennemis” par le biais d’intermédiaires.

Comme l’avait précédemment décrit Mme Edmonds, et comme elle l’a confirmé dans cette interview, ce procédé impliquait l’utilisation de la Turquie (avec l’assistance d’acteurs provenant du Pakistan, de l’Afghanistan et de l’Arabie Saoudite) en tant qu’intermédiaire, qui à son tour utilisait Ben Laden et les talibans comme armée terroriste par procuration.

Selon
Mme Edmonds : « Ceci a commencé il y a plus de dix ans, dans le cadre d’une longue opération illégale et à couvert, menée en Asie centrale par un petit groupe aux États-Unis. Ce groupe avait l’intention de promouvoir l’industrie pétrolière et le Complexe Militaro-Industriel en utilisant les employés turcs, les partenaires saoudiens et les alliés pakistanais, cet objectif étant poursuivi au nom de l’Islam. »

Le journaliste new-yorkais Eric Margolis, auteur de War at the top of the World, a affirmé que les Ouïghours, dans les camps d’entrainement en Afghanistan depuis 2001, « ont été entrainés par Ben Laden pour aller combattre les communistes chinois au Xinjiang. La CIA en avait non seulement connaissance, mais apportait son soutien, car elle pensait les utiliser si la guerre éclatait avec la Chine. »

L'action des services secrets états-uniens aux côtés des séparatistes ouïghours du Xinjiang n'est pas seulement passée par Al-Qaïda mais aussi par le milliardaire turc  domicilié à Philadelphie depuis 1998
Fetullah Gulen qui finance des écoles islamiques (madrassas) en Asie centrale, et par Enver Yusuf Turani, premier ministre autoproclamé du "gouvernement en exil du Turkestan oriental" (qui est censé englober le Xinjiang chinois)... basé à Washington. Ces personnalités sont liées à Morton I. Abramowitz, directeur du National Endowment for Democracy, qui a joué un rôle important dans le soutien aux islamistes afghans sous Reagan et aux milices bosno-musulmanes et kosovares sous Clinton (dans le cadre de l'International Crisis Group). Le vice-président étatsunien Joe Biden qui s'est répandu en propos incendiaires contre la Russie récemment est aussi sur cette ligne.

Cette politique s'inscrit dans le cadre du plan Bernard Lewis à l'origine supervisé par Zbigniew Brzezinski  sous l'administration Carter qui visait à maintenir un "arc de crise" dans les pays musulmans d'Eurasie pour faire main basse sur les ressources d'Asie centrale en hydrocarbures.

Certains observateurs soulignent cependant que vu leur dépendance économique à son égard et l'intérêt qu'ils peuvent avoir à jouer la carte de Pékin contre Moscou les Etats-Unis sont voués à garder officiellement une position modérée sur la politique de la Chine au Xinjiang (où de violentes manifestations touchent la province et provoquent la mort d'au moins 140 personnes le 5 juillet dernier) en compensation de la politique agressive de leurs services secrets dans la zone.

Pékin semble toutefois résolu à contrer les manoeuvres sécessionnistes sur son territoire, mais aussi à mener une action plus en profondeur sur le continent eurasiatique. C'est ainsi en tout cas que Nicolas Bardos-Feltoronyi, contributeur de l'atlas alternatif, analyse le prêt d'1 milliard de dollars que Pékin serait prêt à consentir à la Moldavie, pays charnière entre l'Union européenne et la Russie - un prêt sur 15 ans à un taux d’intérêt hautement favorable de 3%. Cette aide qui pourrait dissuader Chisinau de se rapprocher de l'Union européenne s'inscrirait selon l'auteur dans le cadre d'une coordination accrue des politiques étrangères russe et chinoise. C'est aussi l'analyse qu'en fait
Jean Vanitier sur son blog.

Autre réplique à l'impérialisme états-unien en Eurasie, après la Libye, l'Algérie et la Syrie, le président vénézuélien Hugo Chavez s'est rendu
le 7 septembre au Turkménistan, quatrième pays au monde pour les réserves de gaz après la Russie, l'Iran et le Qatar. Chavez a proposé à son homologue turkmène Gourbangouly Berdymoukhammedov d'adhérer au cartel gazier déjà évoqué sur ce blog. Le Turkménistan, actuellement en froid avec Moscou, est aussi très courtisé par l'Union européenne qui souhaite le voir adhérer à son projet de gazoduc Nabucco, ainsi que par la Chine.

F. Delorca
http://atlasalternatif.over-blog.com/

Le Japon bientôt libéré?

p4-183-wallpaper-japon.jpg

 

Le Japon : bientôt libéré ?

http://unitepopulaire.org/

Second article choisi à l’occasion des élections historiques au Japon qui ont vu la semaine passée le pouvoir changer de main :

 

 

« Vingt ans après la fin de la guerre froide, la communauté internationale vit de grands changements structurels. Affaiblis par le conflit en Irak et la guerre contre le terrorisme en Afghanistan et responsables de la crise financière et économique, les Etats-Unis ont perdu leur prestige et leur assurance d’antan. L’arrivée au pouvoir de Barack Obama, qui souhaite renforcer la coopération internationale, marque la fin de l’unilatéralisme américain. De leur côté, des pays émergents comme la Chine, l’Inde et le Brésil ont accru leur influence à la faveur de la crise, tandis que des membres du G8 – et notamment le Japon – ont vu la leur décliner.

 

Face à ces bouleversements, le Japon doit fonder sa diplomatie et sa politique de maintien de la paix sur une nouvelle philosophie, affranchie de la logique de la guerre froide. Les gouvernements libéraux-démocrates qui se sont succédé jusqu’ici ont fait de l’alliance nippo-américaine le principal pilier de leur politique étrangère et sécuritaire. Ils n’ont pas cessé de préconiser son renforcement. […] Cependant, le pouvoir actuel a souvent été critiqué pour sa servilité envers les Etats-Unis. L’ancien Premier ministre Junichiro Koizumi, qui a remporté une majorité écrasante lors des précédentes élections générales en 2005, considérait qu’à l’instar des liens personnels qu’il avait noués avec le président George Bush, “meilleures seraient les relations nippo-américaines, plus le Japon aurait de chances d’en avoir de satisfaisantes avec le reste du monde, à commencer par la Chine, la Corée du Sud et les autres pays d’Asie”. Mais, à force de s’aligner sur la politique des Etats-Unis, il a fini par se couper du reste du monde.

 

Il est temps que le Japon cesse de se montrer servile vis-à-vis de Washington. Il doit adapter ses rapports avec les Etats-Unis en fonction de l’évolution de la conjoncture mondiale et renforcer ses liens avec la communauté internationale, et en particulier avec les pays asiatiques. […] Dans ses “Mesures pour 2009”, le document qui a servi de base à son programme électoral, le Parti Démocrate Japonais (PDJ) propose, comme base de sa politique étrangère et sécuritaire, de “bâtir une alliance nippo-américaine adaptée à l’ère nouvelle” et d’établir un “partenariat sur un pied d’égalité”. Dans ses “Mesures pour 2008”, le PDJ avait fait des propositions susceptibles d’être mal accueillies par les Etats-Unis. Il préconisait notamment une “révision radicale de l’accord sur le ­statut des forces américaines au Japon” et une “vérification constante” des dépenses liées au cantonnement de ces soldats sur le territoire national, notamment la prise en charge des frais générés par le redéploiement de l’armée américaine dans la région et des frais généraux des forces américaines stationnées sur l’archipel. »

 

 

Mainichi Shimbun (Japon), août 2009

 

 

NDLR1 : Ces prévisions ne sont pas sans faire penser à celles exprimées par Aymeric Chauprade dans son livre Chroniques du Choc des Civilisations (Chroniques Dargaud, 2009) lorsqu’il écrit, aux p.198 et 200 : « Ce qui oppose actuellement le Japon et la Chine pourrait bien se transformer en jour en facteur de rapprochement. […] Entre deux humiliations, celle infligée au Japon par la race blanche et celle infligée par des frères confucéens, fussent-ils ennemis séculaires, laquelle pèsera le plus dans vingt ans ? Nous sommes en Asie, une région où les peuples ne sont pas métissés, et où aucune des "maladies" importées de l’Occident (individualisme, hédonisme, vieillissement démographique) n’a altéré la cohésion ethnique des groupes humains. […] Plus les années vont passer, plus la réalité économique du Japon va diverger de celle des Etats-Unis au profit de cette sphère de co-prospérité asiatique. »

 

NDLR2 : Le fait d’avoir choisi pour illustrer cet article une photo du grand écrivain et combattant Yukio Mishima ne sous-entend évidemment pas que nous comparons le Parti Démocrate Japonais à l’auteur de Confession d’un Masque, mais il nous semble que dans l’imaginaire national japonais, Mishima est peut-être le plus à même de symboliser le réveil et l’autonomie du Japon.

dimanche, 13 septembre 2009

Le Japon: un pays occupé

japan-okinawa_map.jpg

Le Japon : un pays occupé

 

http://unitepopulaire.org/

Premier article choisi à l’occasion des élections historiques au Japon qui ont vu la semaine passée le pouvoir changer de main :

 

 

 

« "Le niveau de frustration des Japonais au sujet des exigences des Etats-Unis est tel que toutes les initiatives politiques de Washington, même celles qui sont dans l’intérêt du pays, rencontreront une résistance. L’Amérique ne le sait sans doute pas, mais elle est en train d’écraser l’identité du peuple japonais et celui-ci, à la longue, ne l’acceptera pas". Assez inhabituel, ce franc-parler de M. Makoto Utsumi, ancien haut fonctionnaire, touche du doigt un des aspects négligés mais centraux de l’interminable crise japonaise : l’emprise américaine sur une société devenue incapable de définir des objectifs nationaux et de se donner un rôle politique à la mesure de son poids économique. La corruption, l’immense gaspillage de ressources dans de grands projets inutiles et l’incompétence affligeante de la caste dirigeante issue du Parti libéral démocrate (PLD) ne sont certes pas directement imputables à cette dépendance externe. Mais les Etats-Unis ont, dans une large mesure, façonné le système en construisant, au lendemain de la seconde guerre mondiale, une relation entièrement destinée à servir leurs intérêts.

Sous l’impulsion du secrétaire d’Etat américain John Foster Dulles, cet obsédé de l’anticommunisme, ils ont transformé l’ex-ennemi japonais en allié, en satellite et en agent des Etats-Unis dans la confrontation contre l’Union soviétique et la République populaire de Chine. Au nom de la guerre froide et en réaction à la victoire du Parti communiste chinois en 1949, ils ont abandonné leur projet initial de démocratisation du Japon et stimulé l’émergence d’une caste d’élite qui a monopolisé pendant près de soixante ans le pouvoir, favorisant ainsi la connivence, le clientélisme et la corruption plutôt que l’intérêt général. Ils ont dominé l’économie politique du pays et limité son autonomie. […]

 

L’incapacité du pays à mener à bien des réformes dans la décennie suivante n’a pas été le résultat d’une trop forte intervention de la bureaucratie dans la gestion économique. Au contraire, elle tient à l’autonomisation des intérêts privés et corrélativement à la faiblesse de l’intervention publique dans la mise en oeuvre de la politique économique du pays. Comme l’a souligné M. Joseph Stiglitz, ancien économiste en chef de la Banque mondiale et Prix Nobel d’économie, "la régulation est devenue le bouc émissaire, alors que le véritable coupable était un manque de contrôle".

 

Les critiques du modèle nippon cherchent à discréditer toute autre voie que le modèle américain et à créer des fondations idéologiques solides pour la poursuite de l’ordre dominant libéral centré aux Etats-Unis. Ils visent en particulier l’"Etat développeur" capitaliste d’Asie orientale. Les idéologues américains ignorent superbement les fondements culturels du dirigisme économique dans nombre de pays d’Asie orientale : ils orientent l’économie vers le long terme, alors que les finalités du capitalisme actionnarial américain se résument à l’accumulation à court terme. De plus, ces idéologues exagèrent jusqu’à la caricature les bienfaits supposés du système américain.

 

Comme le souligne l’auteur anglais John Gray, "c’est une caractéristique de la civilisation américaine que de concevoir les Etats-Unis comme un modèle universel, mais cette idée n’est acceptée par aucun autre pays. Aucune culture européenne ou asiatique ne peut tolérer la déchirure sociale – dont les symptômes sont la criminalité, l’incarcération, les conflits raciaux et ethniques, et l’effondrement des structures familiales et communautaires – qui est l’envers du succès économique américain".

 

Au fond, le problème du Japon ne relève pas de l’économique, mais du politique. Le Parti libéral démocrate (PLD), au pouvoir depuis 1949, est corrompu et incompétent. Son ancien rôle de bastion anticommuniste n’a plus aucune espèce de pertinence. Mais les Américains adorent le PLD, seul parti politique du pays à être suffisamment indifférent à la souffrance et à l’humiliation des habitants d’Okinawa (ou des autres populations vivant à proximité des 91 bases militaires des Etats-Unis) pour servir d’agent de Washington. Au cours des dernières décennies, ils ont déboursé des sommes immenses pour soutenir leurs affidés du PLD et diviser le camp progressiste et socialiste. »

 

 

Chalmers Johnson, président du Japan Policy Recherche Institute (JPRI), "Les impasses d’un modèle : cinquante années de subordination", Le Monde Diplomatique, mars 2002

vendredi, 11 septembre 2009

Jean-Paul Roux nous a quittés

roux_jp_1_500_.jpg

 

Jean-Paul Roux nous a quittés
Compagnon de route de Clio depuis de nombreuses années, Jean-Paul Roux est décédé le 29 juin dernier, à l'âge de quatre-vingt-quatre ans. Conférencier hors pair, cet historien du monde musulman, plus particulièrement spécialisé dans l'étude du domaine turc, faisait partie de ces rares érudits capables de se métamorphoser en vulgarisateurs de talent et le succès obtenu par ses livres a régulièrement confirmé l'écho rencontré par ses travaux dans le grand public cultivé.
Né en 1925, il s'est formé à l'Ecole des Langues orientales et à l'Ecole pratique des Hautes Etudes, avant d'exercer très jeune les fonctions de directeur de recherches au CNRS, qu'il a rejoint en 1952. Le cinquième centenaire de la prise de Constantinople par Mehmed II lui fournit, l'année suivante, l'occasion, à travers la publication d'une Histoire de la Turquie (Payot) de rencontrer des lecteurs qui lui demeureront toujours fidèles. Il mène dès lors de front, pendant plus d'un demi-siècle, travaux d'érudition et rédaction d'ouvrages plus généralistes dont une Histoire des Turcs, une Histoire de l'Iran et des Iraniens et une Histoire de l'Asie centrale (Fayard).
 
Traversant les siècles, il reconstitue ainsi les différentes strates de l'Histoire centre-asiatique et proche-orientale, tout en valorisant – en un temps où ce n'était guère à la mode – le rôle joué par certains personnages d'exception tels que Gengis Khan, Tamerlan, Bâbur ou Shah Abbas. Il a ainsi contribué à populariser en France l'Histoire de pays ou de peuples le plus souvent méconnus, généralement abordés dans une perspective eurocentriste trop réductrice, qui n'était guère propice à une véritable intelligence des forces profondes qui commandent l'évolution des mondes turc ou iranien. Professeur, un quart de siècle durant, à l'Ecole du Louvre où il enseigne les arts de l'Islam, il est l'un des initiateurs de l'établissement du département spécialisé créé au sein du Musée dont les nouveaux espaces seront ouverts au public en 2011.

Le Dictionnaire des arts de l'Islam publié en 2007 par les éditions Fayard constitue l'aboutissement de nombreuses années de recherches. Historien des religions du domaine turco-mongol, il a publié deux ans avant sa mort Un choc de religions. La longue guerre de l'Islam et de la Chrétienté, un ouvrage qui fournit une riche matière à réflexion, dans le contexte plus général du débat ouvert par Samuel Huntington à propos du « choc des civilisations ».

Très proche de Clio, il a, au fil des années, rédigé pour la bibliothèque en ligne de très nombreux articles auxquels les internautes curieux d'Histoire et de civilisation musulmanes ont un accès immédiat.
 
 

jeudi, 03 septembre 2009

La dénatalité au Japon

La dénatalité au Japon : une sérieuse menace pour la deuxième puissance économique du monde

Japon - Enfant

TOKYO (NOVOpress) - Malgré une légère remontée du taux de fertilité ces dernières années (de 1,26 enfant par femme en 2005 à 1,37 en 2008, alors que 2,1 seraient nécessaires pour le renouvellement des générations), l’archipel nippon devrait perdre 200.000 habitants entre 2008 et 2009, passant de 127,6 à 127,4 millions. Une tendance lourde qui constitue une menace sérieuse pour l’avenir du pays.

Conscient de l’enjeu, le Parti démocrate du Japon a fait de son projet d’allocation mensuelle de 26 000 yens (193 euros) pour chaque enfant, de la naissance à la dernière année collège, une mesure phare de son programme lors des dernières élections législatives. Contrairement aux politiques mises en œuvre en France et dans les pays de l’Union européenne sous la pression de certains lobbies, les pouvoirs publics nippons privilégient ainsi la natalité autochtone sur l’immigration afin de relever le défi de la dénatalité : le Japon ne compte que 2 217 000 étrangers, soit 1,74% de la population totale, essentiellement Chinois, Coréens, Brésiliens, Philippins et Péruviens.

Au Japon, l’importance du critère financier semble décisive pour fonder un foyer : 55 % des femmes célibataires exigent que leur futur mari gagne au moins 8 millions de yens (59 500 euros) par an. Un critère rempli par 15 % des hommes seulement. Conséquence : plus d’un tiers des hommes et femmes entre 30 et 34 ans sont célibataires. En 2008, selon une enquête de la Fondation pour l’avenir des enfants, 56 % des hommes célibataires entre 25 et 34 ans estimaient qu’ils n’étaient « financièrement pas prêts à se marier» . Un ménage japonais dépense entre autre 29,5 millions de yens (219 400 euros) en moyenne pour l’éducation de chacun de ses enfants, de la naissance à la sortie de l’université.

D’autre part, comme dans l’ensemble des pays occidentaux, le fléau de la dévirilisation des jeunes mâles gangrène la société japonaise : nombre de jeunes hommes semblent tomber dans une sorte d’indifférence à l’égard des femmes. L’éditorialiste Maki Fukasawa les a baptisés « herbivores» , en opposition aux « carnivores»  qui croquaient à belles dents la vie et les femmes dans le Japon des années à forte croissance. Pour Mme Fukuzawa, 20 % des hommes entre 20 et 40 ans sont des « herbivores» .

De leur côté, les femmes fuient ces anti-compagnons et se regroupent entre elles : elles travaillent, se distraient et voyagent en cercle fermé d’où les hommes sont exclus. Les hôtels disposent d’étages où ces dames bénéficient d’attentions particulières. Des lieux de divertissement, tels les onsen (» eaux chaudes» ), leur sont réservés.


[cc] Novopress.info, 2009, Dépêches libres de copie et diffusion sous réserve de mention de la source d’origine
[
http://fr.novopress.info]

jeudi, 06 août 2009

Russie/Chine: grandes manoeuvres sur le front oriental

russie-chine-21.jpg

 

 

 

Russie/Chine: grandes manoeuvres sur le front oriental

 

22 juillet 2009: la “Mission de Paix 2009” vient de commencer. Il s’agit de manoeuvres militaires russo-chinoises qui se poursuivront dans les territoires les plus orientaux des deux  pays jusqu’au 26 juillet. Les opérations ont été planifiées pour 1300 militaires russes et autant de Chinois. Cent soixante véhicules blindés, dont des chars d’assaut, des avions et des hélicoptères participeront aux exercices. Ces manoeuvres ont pour but de renforcer la coopération entre les forces armées de Moscou et de Beijing, qui seront peut-être appelées à affronter les menaces du monde contemporain: le terrorisme et l’extrémisme. C’est ce qu’a déclaré le 22 juillet le chef d’état-major russe, le général Nikolaï Makarov. Mais ces manoeuvres n’ont pas été organisées à titre préventif seulement. Les protagonistes veulent faire entendre au monde un message bien précis par la voix du Général Makarov: “Les exercices militaires de ‘Mission de Paix 2009’ doivent démontrer à la communauté internationale que les forces armées de la Russie et de la Chine ont bel et bien la capacité  d’assurer la stabilité et la sécurité dans la région”. En clair: cela signifie que les adversaires du “Groupe de Shanghai” doivent se retirer du Turkestan oriental (Sinkiang), de l’Asie centrale et, aussi, bien sûr, de l’Abkhazie et de l’Ossétie du Sud.

 

(article paru dans “Rinascita”, Rome, 23 juillet 2009, trad. franç.: Robert Steuckers).

lundi, 15 juin 2009

Alla conquista del cuore della terra

central-asia-2_183.jpg

 

 

Archivio - 2003

Piero Pagliani(1) :

ALLA CONQUISTA DEL CUORE DELLA TERRA

  

Il testo completo su http://www.fedevangelica.it/glam/docglam/42/glam42.exe

 

Parte I. Potere, egemonia e guerra. La guerra e i cicli sistemici. Tipi di guerra - Violenza, potere politico e potere economico - Le fasi storiche ricorrenti di accumulazione del capitale e le “guerre sistemiche”. I cicli sistemici storici. Il ciclo britannico (Rule Britannia! Britannia rule the waves) - Non “imperialismo” ma “tipi di imperialismo” - L’Impero britannico e l’imperialismo britannico. Il ciclo americano - La crisi del ciclo americano - La fine del ciclo americano (L’Oriente è rosso?). Cala il sipario. La supremazia statunitense come accanimento terapeutico? Dallo scontro tra civiltà allo scontro nelle civiltà: Lo scontro nelle civiltà - La volontà e la rappresentazione - Autori e beneficiari: la pseudo-logica dominante - Perché l’Islam politico - L’impero autoreferenziale statunitense e il cosiddetto “spirito protestante” - I valori occidentali e la loro esportazione. Nota su maggioranza, minoranza e soggetti alternativi. Il sipario strappato: è possibile una resistenza? Appendice A: i primi cicli sistemici. Il ciclo genovese-iberico - Il ciclo olandese - La nascita dello stato-nazione capitalistico inglese.

 

Parte II. La conquista dell’Eurasia. L’Eurasia. Un posto che ne vale la pena. Le caratteristiche uniche dell’Eurasia - L’Heartland: Asia Centrale e Caucaso. Ovvero, la Torre di Babele. Breve profilo dei contendenti principali. La Russia - La Cina - La Turchia - L’Iran - L’Uzbekistan - La geopolitica degli Stati Uniti: dalla crisi egemonica alla conquista dell’Heartland. Impero o Imperialismo?. Il pendolo delle “opportunità”: i punti salienti della storia recente. Cambiamenti strategici nella storia recente dell’Heartland - L’eredità di Bush Jr. - I nuovi schieramenti - Excursus: perché è stato ucciso il Comandante Massud? - La conquista dell’Heartland e la guerra all’Iraq. L’Heartland e la geopolitica delle risorse energetiche. Premessa - Stime delle riserve energetiche in Asia Centrale - Pensieri geostrategici - Le pipeline: tra geopolitica e keynesismo di guerra - Gli sporchi giochi attorno alla BTC - La BTC: un’opera sovvenzionata dall’apparato militare-industriale? Geopolitica delle risorse naturali: ambiente e acqua. Generalità - Cenni sulla questione dell’acqua in Medio Oriente: l’asse “idro-militare” Turchia-Israele - Cenni sulla questione delle risorse idriche in Asia Centrale - Petrolio e acqua: il caso dello Xinjiang - Petrolio e ambiente: il caso del Bosforo. Epilogo. Excursus: di nuovo sull’autoreferenzialità. Appendice B: Il conflitto del Nagorno-Karabakh - Le contraddizioni degli USA nella politica eurasiatica: Sezione 907 contro Silk Road Strategy Act. Appendice C: L’Olocausto Armeno. Gli Armeni - Il genocidio - “Umanità” è un concetto geopolitico, come le direttrici delle pipeline.

------------------------------------------------------------------------

 

Come è tristemente noto, le guerre sono sempre rivestite da ideali. E’ un meccanismo che gli antichi Romani avevano codificato nel famoso "si vis pacem, para bellum", se vuoi la pace prepara la guerra. Il meccanismo dell’ossimoro, della contraddizione in termini. "Pace è guerra" come, riecheggiando Orwell, giustamente la scrittrice e militante indiana Arundhati Roy intitolava un suo articolo sull’Afganistan. "Guerra Umanitaria", "Guerra Etica" e via celando la verità, con il corredo di "effetti collaterali", "precisione chirurgica", "prezzi giusti da pagare" (da parte delle vittime, ovviamente), ecc. Nonostante l’assordante clamore di questo sistema di inganni, è ormai evidente a tutti che in ogni angolo del mondo milioni di persone in qualche modo hanno capito che i "conflitti locali" degli ultimi tre lustri, giustificati da questi o quei motivi, inventati o reali che siano, fanno in realtà parte di una produzione in serie progettata e realizzata, con gli inevitabili aggiustamenti in corso d’opera, dall’attuale potenza capitalistica dominante, gli USA, e dal suo entourage che incomincia ad assumere forme instabili e cangianti.

 

Il petrolio: una spiegazione necessaria ma non sufficiente

Moltissime persone hanno anche incominciato ad intuire che il petrolio deve c’entrare non poco in questi conflitti. La guerra del Golfo era paradigmatica, ma anche ai tempi di quella contro la Serbia qualche osservatore controcorrente e attento si era ricordato di un progetto per fare transitare attraverso il Kossovo in direzione dell’Europa occidentale gli idrocarburi fossili provenienti dai terminali sul Mar Nero(2). Probabilmente era un motivo secondario, però forse non così tanto, vista poi l’ampiezza della base di Camp Bondsteel, costruita in Kossovo vicino a oleodotti e corridoi energetici da una affiliata della compagnia petrolifera "Halliburton Oil" di cui Cheney era Direttore Generale(3). Poteva essere una coincidenza. Ma anche l’Afganistan è da anni considerato un territorio di transito preferenziale (rispetto all’invisa Repubblica Islamica dell’Iran) per gli idrocarburi fossili estratti dalla zona del Mar Caspio che saranno diretti verso l’Oceano Indiano. Infatti, un intervento in Afganistan contro i recalcitranti (e irriconoscenti) Talebani era già nell’agenda di Clinton, senza bisogno del destro poi "offerto" da Osama bin Laden. E, similmente, anche l’intervento nel Kossovo era già stato deciso molto prima del preteso "genocidio"(4). E ora di nuovo l’Iraq. A freddo. Anche qui, per pura coincidenza, troviamo il petrolio, esattamente la più grande riserva mondiale dopo l’Arabia Saudita. Petrolio di ottima qualità, economico da estrarre. E, ancora per puro caso, l’oro nero si trova anche in quasi tutti i Paesi elencati nell’agenda antiterrorismo degli Stati Uniti: Iran, Sudan, Indonesia. Il petrolio è quindi un collante evidente dei conflitti avvenuti e di quelli a venire. Ma esiste un’altra coincidenza ancora più interessante: tutti e tre gli "Stati canaglia" canonici sono in Asia. Inoltre, verosimilmente i prossimi obiettivi saranno decisi insieme ad Israele e quindi, riflettendo la strategia geopolitica di questo Paese, che insiste sul Medio Oriente e sull’Asia Centrale (via Turchia), saranno anch'essi concentrati in quest’area(5). Troppe coincidenze fanno, ovviamente, un piano lucido. Ma quale piano? Questo piano ha a che fare solo con il petrolio? O è un piano più vasto?

 

Il "cuore della terra" e il controllo delle "nuove vie della seta"

Ci sono molti motivi per ritenere che il controllo delle risorse energetiche costituisca un fattore importante di un calcolo più ampio. Secondo il mio modo di vedere i martoriati Iraq e Afganistan, i tristemente noti Kossovo e Bosnia, così come gli sconosciuti, ma anch'essi infelici, Azerbaijan e Georgia e il furbo Uzbekistan sono tutte tappe di quella che definisco "la conquista del cuore della Terra", cioè l’attuazione riveduta e aggiornata della classica "dottrina Brzezinski" di conquista del centro dell’Eurasia, o meglio ancora, prendendo a prestito il nome di una legge statunitense varata all’uopo nel 1999, il Silk Road Strategy Act, sono tappe verso il controllo delle nuove vie della seta, delle risorse energetiche che vi fanno capo e di quelle del Golfo. Ma per un fine strategico più complesso. Le tappe successive potrebbero essere l’Iran, la Siria o anche un’Arabia Saudita già adesso in pesantissima crisi economica e sociale e ulteriormente destabilizzata dal probabile dopo Saddam(6). Più facilmente, con i soldi e non con le armi, ovverosia alla moda dell’Uzbekistan (già da tempo infeudato a Stati Uniti e Israele), sono ormai a portata di mano il Kirghizistan e il Tagikistan(7). Interessante sarà vedere cosa gli Stati Uniti intenderanno fare con il Kazakistan, il cui petrolio è appetito da tutti e potrebbe essere essenziale per dare un senso economico ad un oggetto su cui vale la pena soffermarsi brevemente: la pipeline Baku-Tbilisi-Ceyhan (BTC) che unirà i pozzi petroliferi di un Azerbaijan ormai praticamente federato alla Turchia, a un grande terminale petrolifero proprio sulla costa mediterranea del (bellissimo) paese fondato da Atatürk, passando attraverso una Georgia che non vede l’ora di sbarazzarsi della presenza militare russa (che comunque tra qualche anno dovrà sgombrare il campo grazie ai Protocolli di Istanbul). Ma per sperare di fornire alla BTC la quota giornaliera di petrolio imposta dai calcoli economici bisognerà vincere le indecisioni del governo di Astana, alternativamente propenso verso la Cina, la Russia, l’Iran e l’Occidente. Per quanto riguarda il Turkmenistan, per ora apparentemente c’è poco da sperare dato che sembra soddisfatto degli accordi che legano i suoi ricchissimi giacimenti di gas naturale alla rete di gasdotti della russa Gazprom. E, come ben sanno gli Stati Uniti, le pipeline non sono solo corridoi energetici, ma anche diplomatici.

 

Il keynesismo di guerra delle pipelines.

La BTC, fortemente voluta dal dipartimento di Stato statunitense (e non, si noti bene, da quello dell’energia come sarebbe stato naturale) è un’opera quasi sconosciuta – e specialmente ai nostri più gettonati commentatori – ma per ora è il miglior esempio di attuazione nel nuovo impero formale degli USA di quel "keynesismo di guerra" di cui tanto si parla. Infatti benché non abbia attualmente una prospettiva molto profittevole questa pipeline ha, tuttavia, il nobile compito geostrategico di sottrarre il petrolio del Mar Caspio all’influenza russa, cinese e iraniana e di cementare la "nuova via della seta" Turchia-Georgia-Azerbaijan, che in realtà inizia in Israele e termina nel bel mezzo dell’Asia Centrale a ridosso della Cina. Un vero e proprio paradigma della strategia statunitense. Una strategia che ha l’obiettivo conclamato di contrastare, attraverso il controllo dei principali fattori strategici (posizione geografica e risorse energetiche), la possibilità che in Eurasia si formi un’aggregazione di forze che possa mettere in discussione la supremazia statunitense, la quale, per leggere a ritroso una spudorata ammissione del dottor Kissinger, è solo un altro modo per definire la cosiddetta "globalizzazione". Se questa strategia è evidente, se non altro perché dichiarata senza troppe remore dai responsabili statunitensi, ne sono però meno evidenti le motivazioni più profonde. Al di là delle apparenze, della propaganda e delle certezze anche di sinistra, ritengo che sia più che sensato porsi delle domande, se non altro a partire dalla constatazione che è alquanto strano che gli Stati Uniti sentano minacciata la propria supremazia proprio dopo che l’unica altra superpotenza, l’URSS, è collassata.

 

I diritti umani come transponder per bombardieri

La vulgata propagandistica narra di una lotta titanica contro un terrorismo internazionale senza obiettivi razionali ma motivato da istinti premoderni se non addirittura primordiali. Una lotta che si complementa con una missione storica: la difesa e l’ampliamento dei diritti umani, della sicurezza globale e della democrazia. Queste sono le motivazioni superficiali, ovvero quelle che si vuole far apparire in superficie, come la punta di un iceberg. Ma già un solo metro sotto il livello del mare spariscono, perché lì iniziano quelle più profonde. Come l’Afganistan insegna, diritti umani, sicurezza e democrazia non sono nemmeno "side effects" della guerra, che purtroppo sono di tipo ben differente. Al contrario, l’uso strumentale dei diritti umani equivale esattamente alla loro cerimonia funebre. Infatti il problema che pone questo scenario è che quando i diritti umani sono utilizzati come armi politiche o quando seguono compatibilità strategiche e non sono invece concepiti come diritti individuali e collettivi universali, indivisibili e inalienabili, diventano inservibili perché ogni richiamo ad essi rischia di diventare un transponder per bombardieri. La motivazione più recepita e variamente elaborata dalla sinistra è invece il petrolio. Come abbiamo visto è sicuramente più pertinente; tuttavia è parziale e questa parzialità rischia di metterne in ombra la pregnanza: perché infatti gli Stati Uniti avrebbero la necessità di acquisire militarmente questo controllo dato che, almeno apparentemente, hanno una forza politica ed economica tale da attrarre e condizionare qualsiasi paese produttore, dall’Arabia Saudita alla Russia? L’utile di breve e medio termine che ne ricaverebbero vale gli altissimi rischi economici, politici e militari che queste aggressioni comportano? La risposta non può consistere nel ribaltare gli assiomi statunitensi e vedere negli USA un "Regno del Male" con l’aggravante di essere guidato da un gruppo dirigente particolarmente ignorante, aggressivo e arrogante (cosa sicuramente vera) che ormai non riesce ad inventarsi nient’altro che la conquista imperialistica diretta delle risorse altrui. E’ chiaramente una spiegazione limitata, a volte frutto di legittima esasperazione, ma non accettabile, per il semplice motivo che in linea di principio anche le spiegazioni che prendono in considerazione fattori irrazionali o mitologici devono comunque inserirli in un quadro analitico razionale.

 

Il dominio statunitense: parabola di un ciclo sistemico di accumulazione del capitale

Un quadro analitico razionale che ritengo possa inquadrare con successo i fenomeni che stiamo osservando, da quelli più materiali a quelli più ideologici, ci è fornito dall’analisi dei cicli sistemici di accumulazione del capitale, così come è elaborata dalla scuola di pensiero detta del "sistema-mondo", raccolta attorno al "Fernand Braudel Center for the study of Economies, Historical Systems, and Civilizations", dell’Università di Binghamton, New York e guidato da Immanuel Wallerstein, Andre Günder Frank e Giovanni Arrighi e, in posizione più eccentrica e spesso critica, Samir Amin. In particolare, secondo Giovanni Arrighi ogni ciclo sistemico di accumulazione è egemonizzato da una singola potenza e presenta una fase iniziale di espansione materiale basata sulla produzione e sul commercio cui segue una fase di crisi e decadenza, caratterizzata da un disimpegno del capitale dalla produzione e dal commercio e da un suo impegno nella speculazione finanziaria internazionale (si veda G. Arrighi, "Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo". Il Saggiatore, 1996). Questa espansione finanziaria è alimentata dalla concorrenza tra gli Stati per succedere alla potenza egemone in crisi, concorrenza che richiama il capitale attraverso un’espansione del debito pubblico e le spese per il riarmo che si ampliano a dismisura durante le fasi di crisi sistemica. Seguendo questa analisi arriviamo allora ad uno scenario sorprendente: gli Stati Uniti fanno quel che fanno non perché sono senza rivali ma perché la loro supremazia è in crisi. O, per essere più precisi, perché sono in crisi – e da tempo – i meccanismi di base di riproduzione di questa supremazia. Infatti, secondo la valutazione di molti studiosi, anche appartenenti a scuole di pensiero differenti, gli Stati Uniti stanno vivendo la fase di declino della loro egemonia nata con la fine della II Guerra Mondiale. In termini più ampi, la Superpotenza sta percorrendo la fase discendente di una parabola iniziata alla fine del XIX secolo e che ha raggiunto il suo apice negli anni tra il 1945 e i primi anni settanta del novecento. Di questa crisi potrebbero approfittare (anche qui, non per intrinseca perfidia o per odio antioccidentale, ma per occidentalissimi meccanismi concorrenziali) alcune potenze di dimensione continentale come gli stessi Stati Uniti: in primo luogo la Cina, poi la Russia e, in prospettiva, anche l’India. Questa partita tutta eurasiatica è però estremamente aperta e lo strapotere bellico statunitense la sta spostando su un piano militare. Cosa che è storicamente avvenuta in tutte le precedenti fasi di crisi sistemica individuate da Giovanni Arrighi.

 

Decadenza e violenza

La fine di un ciclo egemonico è infatti sempre un periodo di violenza, così come il suo inizio. Per la precisione l’egemonia è l’evoluzione di un dominio ottenuto con la forza e, parimenti, l’esaurirsi di un’egemonia favorisce l’uso della forza per far emergere un nuovo dominio. La violenza è dunque un modo iniziale e finale di esercizio del potere. L’esercizio maturo è ottenuto tramite l’egemonia, ovverosia facendo condividere gli scopi del potere anche a chi è soggetto gerarchicamente al potere stesso. Un’egemonia può basarsi su meccanismi ideologici e/o materiali e, si può dire, è compiuta quando li comprende entrambi. Meccanismi ideologici classici sono la fedeltà ad un gruppo etnico, ad una religione o il riconoscimento di un nemico o di interessi comuni, e quindi essi stabiliscono i modi in cui il potere è legittimato e può essere esercitato, anche in termini coercitivi (termini che sono ereditati dai meccanismi violenti con cui inizia la parabola dominio-egemonia-dominio e, per dirla con Marx, ricompaiono quando le cose non vanno più per il loro "corso ordinario"). Sono dinamiche che tendono a raggruppare, a definire spazialmente l’area di egemonia. In generale diremo che sono dinamiche che tendono a territorializzare. Dinamiche che vengono esaltate da eventi come Pearl Harbour o l’11 settembre, o in periodi come la Guerra Fredda. Meccanismi materiali sono quelli di carattere economico, il riconoscersi in un circuito commerciale o produttivo o anche finanziario, come attori e/o beneficiari. Questi meccanismi non sono necessariamente territorializzanti. Anzi spesso tendono alla deterritorializzazione, a rompere le frontiere spaziali. E ciò accade patologicamente quando una giurisdizione territoriale diventa un limite per l’accumulazione del capitale. A partire dagli albori del capitalismo nelle città-stato dell’Italia settentrionale, i due tipi di meccanismi di potere possono considerarsi – in linea di principio – appannaggio di gruppi separati, risultato di un lungo processo di differenziazione tra centri di potere politico territoriale e centri di potere economico, tra Stati e imprese. E’ a questo punto dell’evoluzione storica che si può parlare di "Capitale" come distinto dal "Potere" (territorialista).

 

La logica del Capitale e la logica del Potere

La divaricazione dei comportamenti di potere e capitale è innanzitutto spiegata dal fatto che il primo segue una logica di spazi-di-luoghi mentre il secondo segue una logica di spazi-di-flussi. La logica degli spazi-di-luoghi è funzionale alla razionalità del potere che è dettata da fattori come la formazione dello Stato, coi suoi meccanismi di riproduzione del controllo del territorio dove il potere è installato, quelli di espansione in ampiezza e le motivazioni ideologiche e morali che si di solito si intrecciano a questi fattori. La logica degli spazi-di-flussi è invece dettata da criteri come il calcolo del rapporto costi-benefici di ogni intrapresa e il controllo della capacità di acquisto, intesi come strumenti organici all’unico scopo della logica puramente capitalistica: generare denaro tramite denaro. E’ la particolare fusione di queste due logiche che permise l’ascesa delle città-stato italiane, dando l’avvio ai grandi cicli di accumulazione del capitale. Una storia che inizia col tentativo da parte dei mercanti europei di recuperare i mezzi di pagamento che si erano concentrati in Oriente e specialmente in Cina, aree che fino a metà del 1700 forniranno la quasi totalità dei prodotti manifatturieri mondiali. Ma perché il capitale si allea col potere tramite il meccanismo del debito pubblico? In sintesi questo matrimonio d’interessi è dovuto in alcune situazioni alla ricerca di protezione territoriale da parte del capitale apolide e, più in generale, ai calcoli del capitale rispetto le capacità del potere con cui si sta alleando di permettergli una successiva espansione materiale. Infatti ad ogni alleanza del capitale con il potere, stipulata durante la fase di espansione finanziaria, che è caratterizzata dal disimpegno del capitale dalle attività di trasformazione della natura, è seguita una fase di espansione materiale, caratterizzata invece dall’impegno del capitale nella produzione e nel commercio di merci, a scala ben maggiore di quella precedente. A sua volta il potere si allea col capitale per consolidarsi ed espandersi, ovvero per coprire i "costi di formazione dello Stato" e i "costi di protezione". Storicamente questa alleanza fa emergere una e una sola potenza capitalistica mondiale la cui egemonia caratterizza un ciclo sistemico di accumulazione. Questa potenza capitalistica sarà quella capace di accentrare il monopolio dei mezzi di pagamento e di "presentare i propri interessi come interessi generali di tutti gli altri agenti (stati-nazione, cittadini) o di un importante gruppo di essi" (Arrighi, op. cit.). E avendo rilevato il potere a spese della potenza egemone declinante (e degli altri contendenti), questa posizione gli permette, per l’appunto, di avviare la nuova grande espansione materiale di cui ha bisogno il capitale. Quando l’espansione materiale incomincia a diventare un limite alla valorizzazione del capitale allora inizia anche il divorzio tra il capitale e la potenza egemone in carica. Questo momento di passaggio è quindi indotto da una crisi generale di accumulazione "che segna il punto più alto del periodo di espansione materiale (D -->M) e dà inizio al periodo di espansione finanziaria (M -->D’)" (ibidem(8)). Come commenta Arrighi, D è segno di libertà di azione da parte del capitale: varie scelte di valorizzazione sono possibili. D -->M è uno specifico impegno del capitale che però viene sottoposto alle rigidità incorporate da M. Infine M -->D’ è un disimpegno grazie al quale il capitale riacquista una libertà d’azione, D’, allargata. E’ con questa dinamica che il capitale affronta la dialettica limite-condizione delle composizioni di potere territoriali storicamente date e le trasforma. Il disimpegno del capitale dalla produzione e commercio di merci inizia quando l’espansione materiale genera capitali che non possono incrementare "se non a patto di non essere più reinvestiti nelle attività che li hanno generati". La ragione di questo fenomeno risiede nel successo stesso dell’espansione materiale che genera pressioni concorrenziali di vario tipo (pressione verso l’alto dei salari, concorrenza per l’approvvigionamento delle materie prime, concorrenza sugli sbocchi commerciali dei prodotti, eccetera). Queste pressioni abbattono il profitto sotto quelle soglie che gli agenti capitalistici ritengono "tollerabili". Si ha allora una crescente fuoriuscita di capitali dall’investimento nelle attività produttive e commerciali e si genera una massa crescente di denaro in cerca di occasioni di profitto(9). La fase di espansione finanziaria, come si è detto, è resa possibile dalla concorrenza tra gli Stati per il capitale mobile, concorrenza che è indotta a sua volta dalla loro rivalità nella successione alla potenza egemone, ancora in carica ma uscente. Questa successione avviene facendo leva su due punti: a) l’acquisizione diretta o indiretta delle reti commerciali-industriali del soggetto egemone uscente; b) la centralizzazione dei mezzi di pagamento internazionali. L’espansione finanziaria è quindi legata a una fase di caos sistemico che genererà una nuova egemonia al cui interno saranno riorganizzati i processi di accumulazione del capitale su scala mondiale. L’inizio della fase discendente di un ciclo egemonico è segnalato da una crisi detta "crisi spia" (s1, s2, …, nel diagramma successivo) perché in effetti è la "spia" di una più profonda e fondamentale crisi sistemica, che lo spostamento verso l’alta finanza (la finanziarizzazione) dissimula e ritarda fino all’avvento della "crisi terminale" (t1, t2, …, nel diagramma). In realtà, "lo spostamento può fare molto più di questo: esso può trasformare per chi lo promuove e lo organizza, la fine dell’espansione materiale in un "momento meraviglioso" di nuova ricchezza e di nuovo potere, come è avvenuto, in misura diversa e secondo modalità differenti, in tutti e quattro i cicli sistemici di accumulazione. Tuttavia, per quanto meraviglioso possa essere questo momento per coloro che traggono maggiormente vantaggio dalla fine dell’espansione materiale dell’economia-mondo, esso non è mai stato l’espressione di una soluzione durevole della crisi sottostante. l contrario è sempre stato il preludio a un aggravamento della crisi e alla definitiva sostituzione del regime di accumulazione ancora dominante con uno nuovo." (ibidem)

Il "momento meraviglioso" in piena crisi sistemica, di cui parla Arrighi, è stato rappresentato ai giorni nostri dalla nuova belle époque reaganiana-clintoniana che ha raddoppiato la classica belle époque a cavallo tra il XIX e il XX secolo.

 

L’egemonia USA, ultimo ciclo sistemico storico

Fatte queste premesse, si possono individuare i seguenti cicli sistemici (adattamento da Arrighi, op. cit.):

 

 

 

 

Ci sono molte interessanti osservazioni sono indotte da questo diagramma. Le condensiamo qui indicando solo la continua accelerazione del ritmo (tempo sempre minore per l’ascesa, lo sviluppo e la sostituzione di un regime sistemico) e l’aumento della complessità organizzativa richiesta ad una potenza per poter emergere come dominante (lo si nota tramite la scala sull’ordinata da me aggiunta allo schema di Arrighi). Queste dinamiche sembrano confermare l’osservazione fatta da Marx nel terzo libro del Capitale, secondo la quale "il vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso", ragion per cui la produzione capitalistica supera questa contraddizione "unicamente con dei mezzi che la pongono di fronte agli stessi limiti su scala nuova e più alta". L’ultimo ciclo di espansione materiale inizia con la vittoria degli Stati Uniti nella Guerra dei Trent’anni per la successione all’egemonia britannica (1914-1945) e con la I Guerra Fredda che permette a Truman di vincere le resistenze di un Congresso isolazionista ed estendere su una zona artificialmente limitata del mondo le idee di New Deal mondiale elaborate da Roosevelt (bisogna infatti notare che nei piani di Roosevelt non era contemplata nessuna suddivisione del mondo e anche l’Unione Sovietica vi rientrava a pieno diritto). Per vincere quelle resistenze l’amministrazione Truman invocava un’emergenza internazionale che il sottosegretario di Stato, Acheson, aveva "previsto" in Corea, in Vietnam o a Taiwan. Chissà come Acheson "indovinò" veramente perché, come ebbe a dire, "la Corea arrivò e ci salvò". Era il 1950. La I Guerra Fredda era ormai ufficialmente dichiarata. Il mondo veniva diviso in due e il New Deal poteva propagarsi su un "mondo" in formato ridotto e quindi gestibile: il "Mondo Libero". Come ci ricorda Gore Vidal, le resistenze e le proteste contro la politica estera di Truman e la complementare politica interna di sicurezza nazionale, da parte degli uomini del defunto Roosevelt (come ad esempio l’ex vicepresidente Henry Wallace) furono emarginate o criminalizzate anche con l’accusa di"comunismo" (sic!) (si veda Gore Vidal, "Le menzogne dell’impero". Fazi Editore, 2002) Fu così che sull’onda del più grande riarmo che il mondo avesse mai visto in tempo di pace si costituì lo strumento per continuare a sostenere gli aiuti all’Europa anche dopo la conclusione del Piano Marshall e impedire che innanzitutto il Vecchio Continente (o almeno la sua parte "libera") e poi il Giappone si isolassero dagli Stati Uniti. Gli organismi sovranazionali di governo del mondo, che nella visione di Roosevelt avrebbero dovuto sancire il carattere politico del governo mondiale, furono tenuti sullo sfondo. Le organizzazioni nate con gli accordi di Bretton Woods – cioè Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale – e l’ONU ebbero solo una funzione ancillare nei confronti del governo statunitense (anche la Corea fu un’operazione di "polizia internazionale") oppure furono ostacolate. L’unico effetto rivoluzionario degli accordi di Bretton Woods fu che la produzione del denaro mondiale passò sotto l’esclusivo controllo di una ristretta rete di autorità governative (in linea con il primato della politica sulla finanza codificato dal New Deal rooseveltiano). Tra il 1950 e il 1968 assistiamo così alla più grande espansione materiale della storia del capitalismo (la cosiddetta "Età dell’Oro del capitalismo"), all’ombra di un dominio formale statunitense, speculare a quello sovietico, ovverosia di una struttura gerarchica di Stati con a capo gli USA, dominio a cui cercarono di sottrarsi la Francia gaullista e Cuba. Ma tra 1968 e il 1973 si consuma la "crisi spia" del ciclo americano. La crescente concorrenza internazionale, con conseguente disimpegno dei mezzi di pagamento dagli investimenti produttivi e il progressivo impegno nella speculazione finanziaria – ad esempio nell’Eurovaluta – e una serie di tracolli politico-militari del campo occidentale (guerra del Vietnam, guerra del Kippur) congiunti all’impossibilità da parte delle autorità statali di tenere sotto controllo i flussi monetari generati dalle multinazionali, che seguendo la logica degli spazi-di-flussi sfuggono costantemente alle singole giurisdizioni pur basandosi su di esse, portarono alla fine del gold-dollar-standard (la base aurea mediata dal dollaro che aveva sostenuto il periodo di sviluppo materiale) e all’inedito fenomeno della stagflazione: la stagnazione accompagnata dall’inflazione. Il ciclo americano era entrato in crisi globale a meno di trent’anni dal suo inizio.

 

Un accanimento terapeutico: cercar di succedere a se stessi

Dopo tentativi del governo statunitense di ridurre alla ragione l’alta finanza, contrastando le manovre speculative con una continua inflazione e un continuo deprezzamento del dollaro, con Reagan assistiamo ad un processo opposto: la ricerca di nuova alleanza tra potere e capitale suggellata dalla trasformazione degli Stati Uniti nel più grande mercato offshore del mondo (deregulation) e con un riarmo sfrenato che trasformò il debito pubblico statunitense in un immenso aspirapolvere di capitali, così potente da risucchiare tutte le eccedenze dei Paesi industrializzati e uccidere sul nascere le speranze di "recupero" dei Paesi che, all’epoca, si dicevano "in via di sviluppo". La politica di Reagan con la sua II Guerra Fredda rappresentò dunque una duplicazione della I Guerra Fredda di Truman, ma per scopi totalmente opposti: mentre Truman voleva risolvere il problema della ridistribuzione della capacità di acquisto concentrata negli Stati Uniti, Reagan aveva invece il problema di riconcentrarla. Un’altra differenza consisteva nel fatto che con la sconfitta del Vietnam gli Stati Uniti abbandonarono la politica di impero formale per entrare in una fase di impero informale dove l’egemonia era esercitata tramite il mercato, più o meno come era successo nel 1800 con il periodo di libero mercato nel Regno Unito durante il precedente ciclo di accumulazione. Nel caso degli USA erano però il crescente deficit commerciale e l’enorme indebitamento pubblico che, congiunti alla supremazia monetaria, politica e militare fungevano da forza centripeta del mercato mondiale. Questa situazione si è estesa all’era Clinton, grazie all’esasperata finanziarizzazione dell’economia trainata dalla forza del dollaro (crescita della bolla speculativa) e alla massiccia terziarizzazione(10). Ed è così che negli anni novanta del secolo scorso, gli Stati Uniti hanno vissuto il culmine del loro "momento meraviglioso". Ma altri meccanismi erano all’opera. L’egemonia statunitense reaganiana-clintoniana era strutturalmente debole. Al contrario dei precedenti storici, ultimo l'Impero Britannico, gli Stati Uniti non avevano, e non hanno, un surplus strutturale da reinvestire all’estero e favorire la crescita (subordinata) dei Paesi che ricadevano sotto il loro tramontante impero informale o che ricadranno sotto il loro futuro dominio. Ne segue che la crescita degli USA e del sistema capitalistico occidentale (Giappone ed Europa) lascia indifferenti, nei migliori dei casi, le sorti del restante i restanti 4/5 del mondo, dato che questo sistema, sia in termini economici, sia in termini culturali, sia in termini politici "non ha più nulla da proporre all’80% della popolazione del pianeta" mondiale (Amin).(S. Amin, "Oltre il capitalismo senile". Edizioni Punto Rosso). La supremazia, statunitense per utilizzare le categorie offerteci dall’approccio del sistema-mondo, si gioca allora esclusivamente sulle attività di formazione e di protezione dello Stato. E’ una supremazia che comunque permette agli Stati Uniti di convertire in forza gravitazionale che agisce sul mercato i loro disavanzi (quello dei conti con l’estero ha ormai superato il 430 miliardi dollari) e di porsi al primo posto nell’ambito degli armamenti e della ricerca scientifica, attività strettamente legata al riarmo, e che consentono loro di ipotecare almeno quattro dei cinque monopoli individuati da Samir Amin coi quali si esercita la supremazia mondiale: monopolio della tecnologia, controllo dell’accesso delle risorse naturali, monopolio dei mezzi di comunicazione e dei media, monopolio degli armamenti di distruzione di massa (cfr. Samir Amin, “Il capitalismo del nuovo millennio”. Edizioni Punto Rosso, 2001). Il quinto monopolio, il controllo mondiale dei flussi finanziari, è invece più problematico. Negli anni novanta si è assistito infatti ad una impressionante crescita asiatica nell’alta finanza. Fatti 100 i beni delle maggiori 50 banche mondiali, la percentuale giapponese è passata dal 18% del 1970 al 48% del 1990, mentre le riserve in valuta estera sono passate dal 10% del 1980 al 50% del 1994. Questa crescita è stata accompagnata da un’eccezionale espansione industriale. L’Unione delle Banche svizzere ha stabilito in un’analisi comparativa che a partire dal 1870 non c’è mai stata una crescita economica paragonabile a quella recente del Sud-Est e dell’Est asiatico iniziata poco dopo la crisi sistemica del 1968-1973 (+ 8% annuo di media). In più questa crescita è avvenuta in un periodo di stagnazione nel resto del mondo e si è propagata come un’onda dal Giappone alle Tigri asiatiche, Corea del Sud, Taiwan, Singapore e Hong Kong, e da lì alla Malaysia, alla Tailandia e all’Indonesia, fino a coinvolgere anche il Vietnam. E ora la Cina. Come si sa, i carghi provenienti dall’Oriente in Europa sono zeppi di merci, mentre quelli in direzione contraria sono mezzi vuoti, riproducendo singolarmente la situazione che avveniva all’inizio del capitalismo seicento anni fa. Similmente, come nella seconda metà dell’800 la produzione industriale britannica era ormai surclassata da quella statunitense e tedesca, allo stesso modo oggi assistiamo al declino industriale dell’Occidente a favore dei nuovi Paesi emergenti(11). "La contraddizione dell’egemonia mondiale USA ha innanzitutto a che fare con un percorso di sviluppo caratterizzato da alti costi di protezione e riproduzione, ovvero sulla formazione di un apparato militare di ampiezza globale ad alta intensità di capitale e sulla diffusione di uno schema di consumo di massa insostenibile e devastante che hanno finito per destabilizzare la potenza degli USA. Al contrario, l’eredità storica dell’Asia dell’Est di minori costi di riproduzione e di protezione hanno dato alle agenzie governative e d’affari della regione un decisivo vantaggio competitivo nella economia globale fortemente integrata. Se questa eredità verrà preservata, è un fatto ancora non chiaro." (Arrighi, op. cit.) Come risultato evidente di questa contraddizione, la sconfitta del Vietnam forzò gli USA a riammettere la Cina nei normali circuiti commerciali e diplomatici mondiali, ampliando il raggio dell’espansione e dell’integrazione regionale, in cui la Cina stessa, con la sua base demografica, le potenzialità di crescita e la disponibilità di forza-lavoro è diventata un gigante assoluto, attraendo quote crescenti di mezzi di pagamento. La Cina ha ormai superato il Giappone nella fornitura di merci agli USA e le autorità cinesi "hanno in mano il destino dei cambi dell’intero continente asiatico." (M. De Cecco, "La Repubblica, Affari & Finanza", 13-1-03) (12). Non è quindi un caso che gli Stati Uniti abbiano previsto che tra il 2017-2020 la Cina diventerà un avversario strategico. L’arcano profondo dell’attacco a Oriente sta forse proprio qui. Evitare che il capitale si allei con l’emergente stato-nazione-continente cinese. E per raggiungere questo obiettivo deve cercare, finché è ancora in tempo e finché ne è ancora capace, di arginare il più possibile la propria decadenza e di occupare, come sanno i giocatori esperti, il "centro della scacchiera". Ed è possibile, anche se con difficoltà. Le difficoltà nascono dal fatto che, per dirla in termini un po’ naïve, gli Stati Uniti non hanno assolutamente tanti soldi da spendere in guerre. E su questo il Movimento deve far leva e fa leva (giustissima la campagna "Non un uomo, non un soldo per la guerra"). Già quella del Golfo fu pagata per oltre il 70% dagli alleati e in special modo da Arabia Saudita, Emirati e – nota oggi dolente – da Giappone e Germania(13).La possibilità deriva invece dal fatto che in parziale contrasto con le fasi di crisi sistemica precedenti, oggi non si assiste ad una fusione della potenza finanziaria e di quella militare in un ordine più alto, ma si assiste invece ad una loro fissione: la centralizzazione della potenza militare negli USA da una parte e dall’altra la dispersione del potere finanziario in un arcipelago asiatico formato da stati-nazione, città-stato, diaspore, che non hanno né singolarmente né collettivamente nessuna possibilità di eguagliare la potenza militare statunitense né, per adesso, la possibilità di sostituirsi agli USA come centro organizzativo della finanza internazionale (Arrighi, op. cit.). Ma non è detto che questa situazione possa perdurare in eterno. Anzi, storicamente ciò non è mai successo. Non ci vorrà moltissimo tempo per arrivare al punto culminante della concorrenza per lo scambio politico con il potere finanziario. Gli Stati Uniti lo sanno benissimo e le date 2017-2020 previste dai suoi strateghi lo stanno a testimoniare.

 

I diritti umani e le convenzioni internazionali sono pipelines: seguono linee geostrategiche.

In questa situazione gli Stati Uniti, se vorranno mantenere la posizione di potere, dovranno cercare di scambiare la propria capacità bellica e di formazione dello stato con il potere finanziario dell’Asia orientale, eventualmente "mediante una rinegoziazione dei termini dello scambio politico che ha legato il capitalismo dell’est asiatico al keynesismo militare globale degli Stati Uniti durante tutta l’epoca della guerra fredda." (Arrighi, op. cit.). Contemporaneamente dovrà cercare di bloccare sul nascere ogni ipotesi di aggregazione di nuovi complessi o alleanze territoriali capaci di competere con questo piano. I corollari comportamentali di politica internazionale a nostro avviso sono: 1 non permettere un’autonomia politica europea; cercare di indebolire la Russia e, soprattutto, tenerla il più possibile lontana dall’Unione Europea (e l’ammissione nella UE di alcuni Paesi dell’Est e della Turchia potrebbe favorire entrambe queste manovre); 2 indebolire la Cina e cercare di disgregarla (utilizzando a fondo, tanto per iniziare, la questione tibetana e poi, o contemporaneamente, quella degli Uiguri nello Xinjiang(14)); 3 separare l’India (il terzo gigante territoriale asiatico) dall’Asia orientale, centrale e dalla Cina (a questo fine il conflitto in Kashmir è una benedizione da coltivare, assieme alla politica dell’attuale governo, guidato dal Bharatiya Janata Party, che a dispetto del suo proclamato, e spesso facinoroso, nazionalismo indù sta consegnando l’India alle più aggressive multinazionali occidentali). E’ in questo quadro che inseriamo la lotta per il mantenimento e l’incremento dei cinque monopoli - e quindi anche la lotta per il controllo esclusivo delle risorse energetiche - e possiamo ipotizzare che l’attuale III Guerra Fredda, o III Guerra Mondiale, si svolgerà quindi, o meglio si stia già svolgendo, attorno a questi cinque monopoli e al loro intreccio, con la finalità sistemica di ricentralizzare negli USA l’accumulazione di capitali o, per lo meno, di ricentralizzare il comando sui suoi fattori. Io credo perciò che siamo rientrati in una fase di neo-imperialismo, simile all’imperialismo che caratterizzò l’ultimo atto del ciclo britannico, dove, però nessuna potenza neo-imperialista è ancora pronta a raccogliere le sfide della Superpotenza. Dopo la Prima e la Seconda Guerra Fredda, ne stiamo quindi vedendo una terza replica che però non è più solo fredda anche se, forse, non sarà globalmente catastrofica, almeno per questo giro. Una pseudo guerra mondiale o una pseudo guerra fredda che a quanto si riesce a intravedere approderà, se avrà successo, a un’altra stagione di imperialismo formale statunitense, ovvero a un nuovo ordine gerarchico tra Stati con a capo gli USA. In termini generali, gli Stati Uniti stanno rifluendo dall’egemonia al dominio, chiudendo, ad un più alto livello, il cerchio iniziato nel 1945-1947. Infatti, se con Bush padre e con Clinton c’era stata una fase in cui si era pensato di ristabilire un ordine mondiale di tipo rooseveltiano, rivitalizzando e ridefinendo, ad usum delphini, gli organismi di governo internazionali, ora con Bush figlio sembra invece di essere ritornati ad un ridimensionamento unilateralista alla Truman, con le stesse tinte nazionalistiche e con la stessa tendenza all’impero formale. E come già successe allora con De Gaulle, la Francia cerca anche oggi di sganciarsi, seguita però stavolta.da diversi Paesi, tra cui l’altro pilastro dell’Unione Europea, la Germania, aprendo così un conflitto tra le due sponde dell’Atlantico e all’interno della stessa Unione. Conflitto ampiamente "previsto" con stizza e minacce da Martin Feldstein, ora consigliere di Bush, alla vigilia dell’introduzione dell’Euro (cfr. "Il Sole 24 Ore", novembre 1997). Condoleeza Rice dice quindi molto di più di quanto intenda fare quando paragona questo periodo agli anni 1945-1947. Perché questa, suo malgrado corretta, affermazione ci riporta alla mente l’invocazione dell’amministrazione Truman per una "emergenza internazionale" che infatti, come ricorda il professor Chalmers Johnson, venne riproposta tale e quale da D. Cheney, D. Rumsfeld e dagli altri allegri compari del Project for a New American Century, in un loro rapporto del settembre 2000, dove si dichiararono in attesa di "un evento catastrofico e catalizzante come una nuova Pearl Harbour"(15). Come accadde al sottosegretario di Stato di Truman, anche Cheney e Rumsfeld si rivelarono a loro modo "preveggenti" e con l’11 di settembre 2001 ebbero la loro auspicata nuova Pearl Harbour che legittimò la reazione unilaterale e dilagante degli USA. Tuttavia la nuova situazione, cioè il collasso dell’unico possibile contendente degli Stati Uniti, rischia di trasformare questo unilateralismo in un limite fondamentale all’esercizio del potere. Se infatti la strategia da Truman a Reagan si basava sulla possibilità di ritagliarsi una fetta di mondo su cui poter esercitare prima il proprio dominio e, in seguito, la propria egemonia, ora l’espansione globale di questa fetta rischia di portare a ciò che è stato definito un "sovradimensionamento strategico", ovverosia ad avere "interessi così estesi che sarebbe difficile difenderli tutti nello stesso momento e quasi altrettanto difficile abbandonarne uno qualunque senza correre rischi anche maggiori." (P. Kennedy, "Ascesa e declino delle grandi potenze". Garzanti, 1993)

 

Il Movimento e la guerra, quintessenza della mercificazione della vita umana

Se si accetta questa interpretazione della realtà, allora il rifiuto etico della guerra è costretto a fare in conti con un obiettivo immane: trasformare radicalmente la logica di sviluppo economico, di formazione dello stato e di esercizio della forza che è stata seguita negli ultimi seicento anni. O almeno contrastarla. Un compito non facile, lungo e complesso. Ma non impossibile, perché l’avversario non è poi così invulnerabile come si vuole presentare. Ma è vulnerabile non perché un’organizzazione di fanatici è capace di bombardarlo con un’azione terroristica, frutto avvelenato proprio della logica da contrastare, o perché un satrapo asiatico, altro frutto di questa logica, può in teoria infliggere sensibili perdite agli eserciti che vogliono aggredirlo. Al contrario, lo è perché esso stesso nel corso del tempo ha prodotto il proprio principale anticorpo: la coscienza dell’indivisibilità e dell’universalità dei diritti umani. Una coscienza che nello stesso campo occidentale è cresciuta in modo esponenziale come reazione all’iperconsumismo, alla dilatatissima alienazione economicistica e all’esasperata polarizzazione delle ricchezze, ovverosia come reazione al radicale attacco a valori di base politici, etici, sociali e religiosi elaborati e conquistati nel corso di secoli. Tutto ciò è testimoniato proprio dal carattere composito del movimento contro la globalizzazione liberista e le sue guerre, la cui varietà non dovrebbe destare meraviglia se si pensa che "il capitalismo innovativo e globale non è affatto soltanto anti-proletario (come continuano ad opinare i veteromarxisti operaisti), ma è anche e soprattutto anti-borghese, perché l’ethos nobiliare-borghese si è sempre ostinato a mantenere sfere vitali non mercificabili, o per lo meno non interamente mercificate." (Costanzo Preve, "Il Bombardamento Etico", Editrice CRT, Pistoia, 2000, pag. 39)(16). E non è difficile allora capire perché un’opinione pubblica trasversale, avvilita dall’arroganza economica e politica del potere, già allarmata per i tentativi di privatizzazione della vita cresciuti sull’onda dei successi della bioingegneria e preoccupata per il cattivo stato di salute del pianeta avvertibile tutti i giorni, consideri istintivamente e implicitamente (e giustamente) lo scambio morti-per-petrolio – il più evidente tra gli scambi proposti dall’amministrazione Bush – come l’inaccettabile quintessenza della mercificazione della vita umana. Ed è infatti mia opinione che la guerra, e specialmente la guerra moderna, sia da rubricarsi proprio sotto questa voce. Allo stesso modo possiamo aggiungere che, con tutte le sue contraddizioni, lo stesso risveglio religioso di questi anni non è altro, e proprio da un punto di vista squisitamente laico, che una manifestazione del fatto che l’essere umano è un animale ideologico, ermeneutico e metafisico, e non lo schiavo di una "mano invisibile" che lo inchioda alla pura materialità. E’ questa "dimensione antropologica transtorica" - per usare un concetto di Samir Amin - a spingere l’uomo a fare la propria storia. Ed è la moderna pratica politica laica il terreno più favorevole per compierla, perché "la democrazia moderna si attribuisce subito il diritto d’invenzione, a fare qualcosa di nuovo. Sta tutto qui il senso del segno di uguaglianza che la Filosofia dei Lumi pone tra Ragione ed Emancipazione." (S. Amin, "Oltre la mondializzazione". Editori Riuniti, 1999). Fare la propria storia vuol dire emanciparsi dall’alienazione mercantilistica e capire che un nuovo ciclo di espansione materiale capitalistico presupporrebbe una fase di conflitti crescenti e senza esclusione di colpi e, inoltre, sia che esso venga incentrato di nuovo sugli Stati Uniti sia, a maggior ragione, che venga incentrato su un nuovo stato-continente come la Cina che deve recuperare velocemente le fasi "pesanti" di sviluppo perdute, equivarrebbe con ogni evidenza ad un collasso ecologico-sociale planetario. L’emancipazione dall’alienazione mercantilistica non può quindi limitarsi all’Occidente, ma deve estendersi in ogni parte del mondo, Asia in primo luogo. E sembra anche evidente che questa emancipazione non è più appannaggio esclusivo di un soggetto sociale specifico, come nella tradizione marxista, ma di una rete di soggetti in larga misura ancora da definire e, addirittura, da identificare e che possono variare da Paese a Paese, eppure già reali e operanti. L’alternativa a questa emancipazione potrebbe non esserci, né singolarmente né come specie: "[…] prima di soffocare (o respirare) nella prigione (o nel paradiso) di un impero mondiale postcapitalistico o di una società mondiale di mercato postcapitalistica, l’umanità potrebbe bruciare negli orrori (o nelle glorie) della crescente violenza che ha accompagnato la liquidazione dell’ordine mondiale della guerra fredda. Anche in questo caso la storia del capitalismo giungerebbe al termine, ma questa volta attraverso un ritorno stabile al caos sistemico dal quale ebbe origine seicento anni fa e che si è riprodotto su scala crescente a ogni transizione. Se questo significherà la conclusione della storia del capitalismo o la fine dell’intera storia umana, non è dato sapere." (G. Arrighi, op. cit.)

 

 

 

NOTE

 

 

(1) Consulente di una transnazionale statunitense specializzata in informatica e in servizi nel settore petrolifero-energetico. Collaboratore di istituti di ricerca in Europa e in Asia nel campo dell’algebra della logica, sistemi esperti e analisi logico-algebrica di informazioni incomplete, è autore di memorie scientifiche e ha tenuto seminari e conferenze in Canada, Francia, Germania, Giappone, India, Polonia, Romania e Stati Uniti. Per un incarico di consulenza, ha vissuto in Turchia dall’inverno 2000 all’estate 2001. Durante questo soggiorno ha approfondito la propria documentazione sulla politica interna e internazionale di quel paese e delle repubbliche centroasiatiche e transcaucasiche. E’ membro della Chiesa Evangelica Metodista, al cui interno ha promosso la discussione sulle politiche neo-liberiste. (http://www.surf.it/logic)

 

(2) E’ il caso di Sergio Cararo (si veda il sito http://digilander.libero.it/acta_imperii/balcani01.html).

 

(3) I termini più generali della questione iugoslava sono verosimilmente quelli discussi da Alberto Negri in http://www.sottovoce.it/conflitti/corridoi1.htm

 

(4) Così Gerard Segal, ex direttore dell’Istituto Internazionale di Studi Strategici di Londra, un anno prima dell’intervento contro la Serbia: "Dovremo intervenire unilateralmente in Kossovo? La risposta sarà in larga misura un calcolo politico, ma l’interrogativo solleva questioni fondamentali attinenti alle finalità della potenza militare" (La Repubblica, 10-7-1998).

 

(5) Con la probabile aggiunta eccezionale e precauzionale, appena il gioco si farà duro, della perenne spina nel fianco: Cuba.

 

(6) Il reddito medio dell’Arabia Saudita è diminuito di più del 50% dall’inizio della reaganomics ad oggi.

 

(7) "Non con le armi" non è però in ultima analisi una descrizione esatta. La guerra per sottrarre all’influenza Russa i Paesi centrasiatici e transcaucasici si sta combattendo in Cecenia. La Cecenia, infatti, prima della guerra alla Serbia è stata la riprova che la Russia era così debole da non riuscire a venire a capo di un conflitto locale in casa propria (figuriamoci all’estero); dopo l’11 settembre è stata la merce di scambio per ottenere il lasciapassare per l’Asia centrale ex-sovietica, mentre oggi costituisce la situazione di crisi che continua a mantenere la Russia sotto pressione militare e politica. Il conflitto in Cecenia è uno dei tanti il cui compito è quello di non finire, a totale dispetto e dispregio delle sofferenze che provoca.

 

(8) Nelle classiche formule di Marx, D sta per capitale (denaro), M sta per "merci" (ma possiamo anche intendere M come mezzi o strumenti dell’espansione materiale) mentre D’ è il capitale accresciuto grazie a quei "mezzi"(D'=D+x).

La formula con cui Marx descrive la logica generale di accumulazione del capitale è quindi D -->M -->D’, mentre quella con cui descrive l’accumulazione finanziaria tramite interessi è D -->D’ (il denaro che "procrea" direttamente denaro). Arrighi, su un diverso piano di astrazione, spezza la formula generale di Marx in due momenti storico-logici separati: l’impegno del capitale nella produzione e nel commercio di merci, D -->M, che dà luogo alla dinamica di accumulazione D -->M -->D’ (espansione materiale), e il disimpegno dalla produzione materiale e progressivo impegno nelle attività finanziarie, M -->D’, che innesca il meccanismo di accumulazione abbreviato D -->D’ (espansione finanziaria).

Marx definisce la finanziarizzazione come "una delle leve più energiche dell’accumulazione originaria", associandola così all’inizio del modo di produzione capitalistico, che in quanto tale è caratterizzato invece dalla formula D -->M -->D’ (cfr. , "Il Capitale", Libro I, Vol 3, Sezione VII, cap. 24). Se quindi si concepisce il capitalismo come un unico ciclo sistemico, una nuova fase di finanziarizzazione sarà vista come un sintomo di putrefazione (Lenin) o di decadenza (Keynes) del sistema. E’ di fatto il grande schema a cui si attiene anche Samir Amin, sebbene in modo altamente creativo e per nulla meccanico (dato che al suo interno contempla possibili ‘sottocicli’). Schumpeter, al contrario considerava la finanziarizzazione sintomo della fine di un ciclo di accumulazione e, nella sua scia, Arrighi la considera caratteristica della fine di un ciclo sistemico di accumulazione e di inizio di un ciclo successivo. Va allora notato che lo stesso Marx non parla di un’unica fase iniziale di accumulazione, ma di diverse fasi di accumulazione originaria che si sono susseguite nella Storia, ognuna basandosi sui frutti di quella precedente (Venezia, Olanda, Inghilterra e, presagiva, Stati Uniti). Tuttavia lo schema dei cicli sistemici di accumulazione non è derivabile direttamente da Marx (e in ciò l’interpretazione di Amin sembra più ortodossa di quella di Arrighi).

 

(9) I famosi "capitali fluttuanti speculativi" oggetto della Tobin tax, cavallo di battaglia di ATTAC, hanno questa origine.

 

(10) Attualmente è calcolato che il rapporto tra transazioni commerciali e transazioni finanziarie sia 1:80, cifra che illustra bene cosa si intenda per “disimpegno dalla produzione e dal commercio”.

 

(11) La partecipazione dell'apparato produttivo di Giappone, Germania e USA all'economia internazionale è passata dal 54% nel 1961 al 40% nel 1996 (IFRI-Ramses).

 

(12) La diaspora capitalistica cinese nel mondo ha contribuito in modo fondamentale a questo processo, sia finanziando direttamente la crescita cinese, sia fungendo da intermediaria finanziaria e commerciale (modello "One Nation, Two Systems").

 

(13) Per gli USA e gli UK il presidente Chirac è "un verme" non perché senza la Francia non si possa fare la guerra materialmente, ma perché la Francia trascina le posizioni di molti Paesi, in primo luogo la Germania, senza i quali è difficile farla finanziariamente.

 

(14) "Una volta che il momento è maturo, non sarà impossibile che i nazionalisti separatisti dello Xinjiang, assistiti da forze ostili interne e internazionali, si mettano a contrastare il governo locale e quello centrale e chiedere supporto alla comunità internazionale, proprio come i separatisti albanesi nel Kossovo, Yugoslavia. In quel momento non possiamo escludere la possibilità che il blocco militare della NATO guidato dagli USA agisca contro la Cina in un modo o nell’altro, anche con mezzi militari, con il pretesto di salvaguardare i diritti umani dei gruppi etnici di minoranza." Al Yu, "Kossovo Crisis and Stability in Cina’s Tibet and Xinjiang", Ta Kung Pao, FBIS.CHI-97-223, August 11, 1997.

 

(15) Cfr. Chalmers Johnson, "I missili di oggi sull’Iraq sono partiti 50 anni fa". Supplemento al N. 5 di Carta, febbraio 2003.

 

(16) "A proposito infine della tradizione culturale borghese, l’attuale globalizzazione non ‘occidentalizza’ affatto il pianeta (come sostengono noti confusionari sempre pubblicati, recensiti e pubblicizzati), dal momento che essa globalizza un modello di vita rigorosamente post-occidentale, posteriore al declino comune delle occidentalissime classi borghese e proletaria, e nichilisticamente posteriore a tutte le forme di saggezza e di religione occidentali." (Costanzo Preve, op.cit. pag. 47)