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vendredi, 11 octobre 2013

L’ipotesi dell’Unione Transatlantica: breve analisi

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L’ipotesi dell’Unione Transatlantica: breve analisi

Alessandro Di Liberto

Ex: http://www.geopolitica-rivista.org

 

Nel 2007, l’allora presidente degli Stati Uniti George W. Bush, s’incontrò a Washington con la cancelliera Angela Merkel e il presidente della Commissione europea Josè Manuel Barroso. Non fu un caso se l’allora presidente di turno dell’Unione Europea fosse proprio la cancelliera tedesca, motivo dell’incontro fu infatti l’avvio di una trattativa per la creazione di un’area di libero scambio tra Stati Uniti ed Europa. Formalmente l’Unione dovrebbe riguardare l’ambito economico, ma la mole degli attori e degli interessi in gioco, rende dubbia la creazione di un partenariato puramente commerciale, ancor più dinanzi ai mutamenti internazionali che vedono il sorgere di nuovi agglomerati geoeconomici e geopolitici.

L’ascesa dei BRICS sulla scena internazionale, non più solo economica, ma anche politica, porterà insieme al mercato asiatico, baricentro dell’economia globale in questo secolo1, a un cambiamento sostanziale degli equilibri. Questi mutamenti stanno portando alla riforma di diverse organizzazioni internazionali, tendenza questa che s’intensificherà nei prossimi anni. La crisi economica sta promuovendo questa tendenza, i BRICS hanno già esposto il loro progetto di una banca per lo sviluppo, presentata come alternativa alla banca mondiale, bollata come tutelante degli interessi occidentali insieme al Fondo Monetario Internazionale (FMI) che attualmente vive una prima fase di riforme2.

Se il progetto andrà a buon fine, la futura banca, che avrà un capitale iniziale di 100 miliardi di dollari3, sarà la prima vera istituzione dei BRICS. Essa oltre a supportare la futura agenda politico-economica dei paesi di appartenenza, racchiuderà in se il valore simbolico di un futuro multipolare. Ennesimo fattore di coesione è il progetto per la creazione di un nuovo cavo sottomarino per le telecomunicazioni che collegherà direttamente in maniera esclusiva i membri BRICS per diramarsi in Africa e infine negli Stati Uniti4.

Ulteriore forza al cambiamento dell’ordine economico internazionale sta nel fatto che la Cina, secondo importatore di petrolio al mondo dopo gli Stati Uniti e primo consumatore di energia al mondo, ha siglato il più grande accordo petrolifero della storia con la Russia, secondo produttore dopo l’Arabia Saudita. Fatto nuovo e indicativo è l’accordo tra Mosca e Pechino di svolgere le transazioni in valuta cinese e non più in dollari. Al termine dell’ultima riunione dei BRICS a Durban in Sud Africa, è stata annunciata un’altra intesa tra la Cina e il Brasile con la firma di un accordo di currency swap che vincolerà le due parti all’uso delle proprie valute per i futuri scambi commerciali. Si va così a incrementare il flusso delle transazioni fuori dall’area del dollaro, ma si vanno anche “familiarizzando” gli scambi tra i paesi membri che commerciano con le proprie valute; oltre tutto la Cina, proprio nel 2007 ha superato gli USA, diventando il primo paese esportatore al mondo. Da notare che anche l’Iran, vende petrolio in yuan alla Cina a causa dell’embargo statunitense.

Sono dunque le materie prime a stimolare ed essere vettore del cambiamento che potrebbe portare al declassamento del dollaro come moneta di riferimento internazionale. Quasi sicuramente ciò accadrà già nel prossimo decennio, sostituito da una nuova moneta o dallo stesso yuan che si va ormai internazionalizzando5. La Cina nel 2009 ha proposto d’incrementare l’uso dei diritti speciali di prelievo (DSP), la moneta del FMI, con l’obiettivo di decentrare il dollaro dal sistema monetario internazionale cautelandolo dalle turbolenze a esso legate. L’appartenenza all’Eurasia di tre membri BRICS, ma anche di future economie come alcuni dei “prossimi undici”, la rendono inevitabilmente protagonista del cambiamento in atto. Il presidente cinese Xi Jinping, nella sua recente visita ad Astana, ha espresso l’intenzione di realizzare una cintura economica ricalcando l’antica via della seta6, un progetto ambizioso e che difficilmente potrà realizzarsi senza l’aiuto di Mosca. Il messaggio è comunque chiaro, la Cina reputa sempre più importante il consolidamento dell’Asia Centrale, non solo come corridoio energetico.

I mutamenti e le tendenze descritti hanno dato impulso al progetto di Unione Transatlantica con l’esplicito intento di mantenere lo status quo internazionale dell’Occidente che andrebbe altrimenti ridimensionandosi. Dopo il colloquio avvenuto nel 2007, è stato istituito il Transatlantic Economic Council (TEC), organismo bilaterale incaricato di dirigere e supervisionare i lavori preparatori, copresieduto da un funzionario di livello dell’Ufficio esecutivo del presidente degli Stati Uniti e da un membro della Commissione Europea. Primo obiettivo, creare un mercato comune che dia nuovo impulso alle due sponde dell’Atlantico; sembra però che le stime più ottimiste fornite dall’Eurostat, indichino per l’Europa un aumento del PIL solamente dello 0.5% mentre per gli Stati Uniti 0,4%.

Le stime risultano modeste per un progetto così ambizioso e ciò è dovuto al fatto che i rapporti commerciali tra UE e USA sono già in uno stato avanzato. Gli incrementi previsti deriverebbero solamente dalla riduzione o eliminazione dei dazi, cooperazione doganale e creazione di standard comuni attinenti alla conformità di sicurezza, salute e tutela dell’ambiente. Un ulteriore incremento deriverebbe dalla liberalizzazione dei servizi e dall’apertura del mercato americano degli appalti pubblici, attualmente tutelato da leggi protezionistiche. Il Consiglio Transatlantico ha elencato i settori nei quali l’Unione dovrebbe collaborare, realizzando il secondo obiettivo, cioè creare un blocco atlantico che competa a livello globale, avendo dunque finalità di tipo politico.

Gli ambiti nei quali si stringerà la collaborazione saranno:

  1. Cooperazione normativa (Valutazioni d’impatto, consumo)
  2. Diritti di proprietà intellettuale (Copyright Enforcement, brevetti, contraffazione e pirateria)
  3. Sicurezza del commercio (Dogane e sicurezza del commercio, agevolazione degli scambi)
  4. Mercati finanziari (Regolamentazione normativa del mercato dei capitali, dialogo normativo dei mercati finanziari UE-USA, Accounting Standards, Auditing)
  5. Innovazione e Tecnologia (Dialogo sull’innovazione, salute, Radio Frequency Identification “RFID”, ricerca biotecnologia e prodotti biotecnologici)
  6. Investimenti (Libertà di movimento per i capitali).

Nel 2009 il Consiglio ha creato un gruppo di lavoro con l’obiettivo di trovare la formula migliore per dare inizio alla realizzazione concreta dell’Unione. I lavori dell’High Level Working Group on Jobs and Growth (HLWG) si sono focalizzati prettamente sul commercio, l’occupazione e la crescita, incentrando i lavori alla ricerca delle politiche e delle misure adeguate alla creazione di un partenariato vantaggioso per ambo le parti. Il rapporto finale, pubblicato nel febbraio 2013, propone che i negoziati tra i rispettivi parlamenti sì indirizzino nell’immediato futuro sulle seguenti misure e politiche:

  1. Eliminazione o riduzione delle barriere al commercio come i dazi o quote di essi
  2. Migliorare la compatibilità dei regolamenti e delle norme
  3. Eliminazione, riduzione o prevenzione di ostacoli al commercio di merci, servizi e investimenti
  4. Cooperazione rafforzata per lo sviluppo di norme e principi su questioni globali di interesse comune per il raggiungimento di obiettivi economici globali condivisi.

L’Unione Transatlantica ricalca nei modi e nelle forme, quello che fu il progetto fondante la CEE. Il trattato europeo istituiva un mercato comune che si basava su quattro libertà fondamentali: libera circolazione delle persone, dei servizi, delle merci e dei capitali.

Il trattato aboliva poi i dazi doganali e i contingenti nei riguardi delle merci scambiate, si andava così istituendo l’unione doganale, primo passo necessario per avere una base su cui operare una politica commerciale comune. Ciò distingue una semplice area di libero scambio da una vera e propria unione, queste sono le linee guida che pur con alcune iniziali riserve, intende seguire l’Unione Transatlantica.

L’Europa e gli Stati Uniti sono però sostanzialmente differenti. Anche se negli ultimi decenni l’Europa ha passivamente subìto le politiche statunitensi, sussistono interessi e visioni differenti. In ambito economico possiamo trovare un’interessante prospettiva di quali sarebbero le tendenze da seguire, in un rapporto della banca americana J.P. Morgan, espressione di quella finanza deregolamentata che ha generato la crisi7. In esso si evidenzia la necessità di riformare il sistema sociale in alcuni paesi europei, considerato un ostacolo al sistema neoliberista al quale l’Europa non è ancora pienamente allineata; si auspicano riforme costituzionali di stampo liberista, potrebbero quindi arrivare pressioni per la privatizzazione della sanità e della previdenza sociale e per la totale cessione delle partecipazioni statali. In ambito militare, possiamo poi considerare il progetto del caccia F35, come prodromo di un nuovo modello di ulteriori e future cooperazioni per integrare le forze armate? È possibile.

Nei rapporti in ambito decisionale, bisogna poi rilevare un dato di non poco conto, gli USA a differenza dell’Unione Europea, sono uno Stato, di conseguenza agiscono e trattano come tale. Questo fattore potrebbe generare rapporti sbilanciati, di fatto, già accade all’interno della stessa UE tra gli stati membri, difficile che non accada nell’ipotetica Unione. Valutando ulteriormente le possibili evoluzioni, nello specifico, la stipulazione di futuri trattati che andrebbero a intensificare i rapporti in diversi ambiti, l’Europa in nome dei vincoli che ne deriverebbero, potrebbe essere trascinata in politiche a essa sfavorevoli, perdendo vantaggi acquisiti nel corso degli anni o mancando opportunità prossime all’orizzonte.

Dopo mezzo secolo di stallo originato dalla guerra fredda, vi è adesso la concreta opportunità per regionalizzare il commercio con la Russia, paese che oltre al suo mercato in forte espansione, detiene vastissime quantità di molteplici risorse, fattore che la rende fortemente complementare all’Europa bisognosa di esse.

Politiche estere statunitensi, come lo scudo spaziale, incrinerebbero nuovamente i rapporti, minimizzando il potenziale derivante da un fecondo partenariato che sarebbe così ridimensionato, spingendo ulteriormente la Russia a oriente, fattore che rischia seriamente di portare l’Europa a una marginalizzazione che la renderebbe una doppia periferia, l’una atlantica, l’altra eurasiatica. I tempi sembrano invece maturi, il Vecchio Continente vive oggi la concreta possibilità di ridisegnare il suo ruolo in una cornice d’indipendenza che le permetta di uscire dalla crisi arrivata da oltre oceano, svincolandosi da schemi totalmente desueti e alimentati da puro calcolo politico.

L’obiettivo è di rinnovare il blocco atlantico, formatosi da equilibri novecenteschi, con una rinnovata struttura in chiave multipolare, poggiandosi ancora una volta sul cardine europeo. Il pericolo odierno è dettato da una realistica inclusione europea nel grande spazio eurasiatico, ciò sarebbe un precedente storico che, di fatto, farebbe perdere agli Stati Uniti molto più del dominio monetario ed economico, forze centrifughe potrebbero portare alla disgregazione della stessa alleanza atlantica.

L’Unione Transatlantica si muove ulteriormente verso il consolidamento di posizioni acquisite tramite diverse istituzioni internazionali che si tenta di mantenere in vita ridisegnandone gli equilibri interni ed esterni. Vincolare l’Europa è fondamentale a tale scopo. Solo inglobandone nuovamente il mercato e le istituzioni, gli Stati Uniti potranno evitare la perdita definitiva dello status di potenza ottenuto dopo la seconda guerra mondiale. L’Unione concederebbe comunque agli USA un potere decisionale, anche nell’ipotesi che diverse organizzazioni internazionali fossero sostituite da altre più in linea con i tempi, quando la fase multipolare sarà giunta a un livello da poterle mettere seriamente in discussione. Questo ipotetico blocco geoeconomico potrebbe dunque essere uno degli attori internazionali nei prossimi decenni; quelle elencate sono comunque una minima parte delle dinamiche sia interne sia esterne che questo nuovo agglomerato potrebbe generare.

NOTE:
Alessandro Di Liberto è ricercatore associato dell'IsAG

1. L’OCSE prevede che la Cina diventerà la prima economia mondiale sorpassando gli Stati Uniti già nel 2016.
2. L’attuale riforma del FMI non modifica in maniera sostanziale gli equilibri interni: quote e governance dell’FMI – Il G20 ha contribuito in modo decisivo alla riforma delle quote di partecipazione al capitale e dei meccanismi di governo del FMI. In particolare, si è deciso di raddoppiare il capitale complessivo allocandolo in modo tale da accrescere di oltre il 6 per cento il peso relativo dei paesi emergenti più dinamici. Quando il nuovo assetto diverrà operativo, presumibilmente entro il 2013, i primi dieci azionisti del Fondo, che detengono da soli oltre la metà del potere di voto complessivo, saranno: Stati Uniti (16,5 per cento), Giappone (6,1), Cina (6,1), Germania (5,3), Francia (4,0), Regno Unito (4,0), Italia (3,0), India (2,6), Russia (2,6) e Brasile (2,2). Il peso dei principali paesi emergenti è destinato ad aumentare ulteriormente con la prossima revisione delle quote di capitale del FMI, che il G20 ha deciso di anticipare di due anni e concludere entro il gennaio del 2014. Per quanto riguarda la governance del Fondo, è stato deciso di modificare l’assetto del Consiglio di amministrazione, revocando il diritto dei cinque paesi più grandi a nominare direttamente i propri rappresentanti, che in futuro dovranno essere scelti tramite elezione, come già previsto per gli altri. I paesi europei hanno altresì deciso di rinunciare a due seggi, mettendoli a disposizione dei paesi emergenti.
3. BRICS agree to capitalize development bank at $100bn, "Russia Today", September 5, 2013.
4. bricscable.com.
5. Stime europee parlano di un accaparramento del 15% delle obbligazioni di valuta di riserva globale entro il 2020 che determinerebbe una caduta del dollaro dal suo livello attuale del 60% al 50%.
6. Il progetto prevede la realizzazione di un’area di libero scambio, cooperazione in campo commerciale e normativo, rimozione delle barriere che scoraggiano gli investimenti e consolidamento di una via energetica strategica per Pechino.
7. The Euro Area Adjustment: About Halfway There, "J.P. Morgan - Europe Economic Research", May 28, 2013.

samedi, 05 octobre 2013

Grand-messe transatlantique en Lettonie

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NOUS SOMMES TOUS DES OCCIDENTAUX
Grand-messe transatlantique en Lettonie

Hajnalka VINCZE*
Ex: http://metamag.fr
 
Chaque année, la conférence de Riga est l’occasion de réunir la fine fleur de l’élite euro-atlantiste, dans une ambiance décidément pro-américaine et passablement anti-russe, comme il se doit dans un pays de la Baltique. L’intérêt, pour les participants (et autres fidèles), est de pouvoir admirer les multiples déclinaisons virtuoses du même raisonnement, dans la perspective de « créer un environnement favorable au maintien et l’accroissement de la prospérité transatlantique à travers les valeurs que l’on partage », car c’est « la bonne voie vers le renforcement des capacités de défense ». L’intérêt, pour nous, est de prendre le pouls des réflexions semi-officielles, détecter les prochaines priorités OTAN/UE, et répertorier les éléments de langage que l’on ne va pas tarder à retrouver à longueur de discours et de communiqués.

 
L’an dernier, les interventions s’articulaient autour du traumatisme provoqué par l’annonce du « pivot » américain vers l’Asie. Cette année, ministres, experts et compagnie se sont livrés à un véritable panégyrique de l’occidentalisme. Le message est clair : nous sommes d’abord et surtout membres de la famille occidentale, menacés de toutes parts, condamnés au déclin, à moins de rassembler nos forces sous la direction bienveillante de l’Amérique, chef de famille naturel. Nous, les Européens, nous n’avons plus qu’une chose à faire : nous rendre utiles pour elle.

Le ton a été donné par le ministre britannique de la défense qui tenait à préciser, pour ceux qui l’aurait ignoré, qu’aux yeux du Royaume-Uni la sécurité en Europe est l’affaire de l’OTAN, l’UE devrait, quant à elle, s’occuper du seul marché unique. « Que l’UE doublonne, voire affaiblisse le fonctionnement et les structures remarquablement réussis de l’OTAN, cela n’a pas de sens ». Pour ce qui est de cette remarquable réussite, le ministre n’a pas de mots assez élogieux pour énumérer le bilan récent, paraît-il superbe, de l’Alliance. Curieux de constater que la leçon qu’en ont pourtant tirée les stratèges de l’OTAN, notamment à la suite d’Afghanistan, c’est un « plus jamais ça » retentissant.

Peu importe. Pour le ministre Hammond, il faut avant tout une démarcation nette entre ce qui relève de l’UE (civil) et ce qui est le domaine d’excellence de l’OTAN (militaire). Grâce notamment à une interprétation particulière de la très encensée approche globale de l’Union européenne. Celle qui consiste à pousser à une civilianisation de plus en plus ouvertement assumée de la PSDC (politique de sécurité et de défense de l’UE), au risque de la démilitariser. Et ce au profit de l’OTAN, enceinte soi-disant naturelle (et qui redeviendrait ainsi unique) pour s’occuper de la défense sur notre continent.

En effet, les manœuvres diverses pour utiliser l’approche globale en vue d’entériner, dans les faits, une division des tâches, ne sont qu’un élément parmi d’autres dans la réorientation en marche. Conçue à l’origine pour nous libérer du carcan de l’OTAN et établir l’UE comme le nouveau cadre pour nos efforts de défense, la PSDC semble rebrousser chemin ces derniers temps. Qu’il s’agisse du non-usage des outils créés (tel les groupements tactiques) pour les missions au rabais que le consensus entre Etats membres permet d’envisager ; ou des occasions manquées lors des conflits qui paraissaient pourtant taillés sur mesure au vu de l’ambition affichée (comme au Liban, puis en Lybie) ; ou encore des règles de financement qui pénalisent ceux qui seraient prêts à s’y lancer ; ou de la lacune criante d’un centre de planification et de conduite permanent (le fameux Quartier général européen qui se fait attendre depuis bientôt 15 ans) ; ou de la planification des capacités de plus en plus alignée sur la DPQ (Defense Planning Questionnaire) de l’Alliance atlantique, relais fidèle des concepts et des doctrines d’emploi des Etats-Unis ; ou encore de l’effacement progressif des distinctions institutionnelles (même la France a fini par adopter une « double casquette » pour son dorénavant unique représentant aux comités militaires respectifs de l’UE et de l’Alliance, sans parler de la présence devenue rituelle du Secrétaire général de l’OTAN aux réunions des ministres UE de la défense); la tendance est partout la même. Celle de la ré-atlantisation de la défense européenne.

Elle se traduirait, in fine, par la fusion, de plus en plus souvent préconisée, entre la PSDC et l’OTAN (à supposer que l’on puisse parler de fusion entre, d’un côté, les 350 militaires de l’Etat-major de l’UE et, de l’autre, les 21 000 permanents en poste dans les structures intégrées de l’Alliance). Sur le plan théorique, c’est l’occidentalisme qui lui servirait de fondement. Un courant de pensée qui monte en puissance et qui, en banalisant les différences entre l’Europe et l’Amérique, pousse dans le sens de leur rapprochement jusqu’à former un unipôle transatlantique, sous la domination du meneur du jeu, c’est-à-dire les Etats-Unis. Cette vision devient de plus en plus répandue, même parmi ceux qui étaient jadis sceptiques, pour ne pas dire hostiles. Dans un récent entretien, Hubert Védrine qui, dans son rapport de 2007  pour le président Sarkozy, avait mis en garde contre la tentation atlantiste/occidentaliste, parle lui-même de nous les « Occidentaux » à pas moins de six reprises. 

L’Américain Charles Kupchan, qui voyait s’ouvrir en 2006 « une nouvelle ère dans les relations transatlantiques », à partir du constat que « les intérêts américains et européens ont divergé, la coopération institutionnalisée ne peut plus être tenue pour acquise, et l’identité occidentale s’est affaiblie », donne aujourd’hui « L’Occident et la montée du reste » comme titre à son dernier livre.

A Riga, on se réjouit bien sûr de ce changement de perspective, et on ne manque pas d’en tirer les conséquences. Déjà l’an dernier, le ministre letton de la défense voyait dans les relations UE-OTAN un « désagrément », qu’il conviendrait de résoudre par le haut, c’est-à-dire en les fusionnant. Cette année, la séance consacrée aux questions de la sécurité européenne se proposait de répondre à la question de savoir si l’OTAN peut devenir un remède au fractionnement imminent de l’Europe. Et Craig Kennedy, président de German Marshall Fund of the United States, ne s’est pas privé du plaisir de noter, en guise d’introduction, que l’interrogation portait en sens inverse il y a sept ans. Apparemment, l’Europe n’a plus la cote, l’avenir est à l’Alliance.

Outre cette séance plénière consacrée à l’OTAN comme potentiel sauveur de l’Union européenne, quelques conversations « à la pause-café » offrent également de petits bijoux révélateurs de cette même grille d’analyse. Comme celle consacrée au TTIP (accord de libre-échange transatlantique), avec la « senior » représentante commerciale de l’US à Bruxelles comme invitée illustre. Cette dernière pousse un gros soupir d’exaspération face à la question sur la finalité économique et/ou géopolitique des négociations en cours. Toujours est-il qu’après avoir affirmé qu’il s’agit, avant tout autre chose, d’une nouvelle étape dans nos relations économiques, elle admet que « à Bruxelles, beaucoup y voit aussi une réaffirmation, une solidification des relations US-UE », et que son succès enverrait le signal d’un engagement politique supplémentaire.

Surtout, s’agissant d’un accord commercial supposé donner une impulsion nouvelle à la croissance (0.4% au PIB de l’UE dit-on, contre 1% du côté US), l’aveu selon lequel « nous ne nous focalisons pas sur des chiffres concrets » fait étrange effet. Son interlocuteur espagnol est d’ailleurs plus direct, il parle carrément de « réarranger l’Occident pour le 21ème siècle ». En même temps que d’y voir le recours au « fédérateur externe » pour compléter le marché unique (en tant qu’étape intermédiaire vers le marché unique transatlantique). Tout le programme y est.

La séquence portant sur l’avenir de la politique étrangère européenne vaut son pesant d’or rien que pour sa dernière minute. On y parle des relations transatlantiques, et Jan Techau (auteur par ailleurs d’un inoubliable article il y a deux ans, prônant de « laisser tomber la défense européenne » pour la remplacer par l’OTAN) n’y va pas de main morte. Il fait l’éloge des 90% de merveilles transatlantiques qui ne font jamais la une des journaux, dans l’espoir de minimiser ainsi le 10% restant qui sont, on l’aura deviné, « le truc géopolitique ». Dans ce domaine, il place d’emblée l’Europe en position d’infériorité, en posant la question, essentielle d’après lui, de savoir si les Européens seraient capables de grandir suffisamment pour devenir un jour des partenaires des Etats-Unis.

Cerise sur le gâteau, la réponse dépend, selon Techau (et tant d’autres) sur notre capacité à admettre que « les Américains et nous, nous sommes là tous ensemble. Nous devons nous rassembler, parce que nous sommes l’Occident ». Autrement dit, plus les Européens se conçoivent comme incorporés à l’Amérique, plus ils seraient « à la hauteur » comme partenaires de celle-ci.  Plutôt farfelu comme logique. Mais parfaitement en phase avec les pistes de réflexions et d’action visant à l’otanisation de la défense européenne, à la transatlantisation de nos industries, et au biais de plus en plus occidentaliste de notre vision stratégique.

*

analyste en politique de défense et de sécurité, spécialisée dans les affaires européennes et transatlantiques. Animatrice du site hajnalka-vincze.com et du blog  hajnalka-vincze.com
 

vendredi, 05 avril 2013

L’OTAN n’amène que la destruction, la pauvreté, l’insécurité et la misère

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L’OTAN n’amène que la destruction, la pauvreté, l’insécurité et la misère.

Elle doit être abolie!

Apprécié pour la rigueur et la justesse de ses analyses le sociologue canadien Mahdi Darius Nazemroaya (*), 30 ans, s’est imposé comme un des meilleurs connaisseurs de l’OTAN. Ses investigations, traduites en de nombreuses langues, ont acquis une audience internationale et son ouvrage « The globalisation of NATO » [« La mondialisation de l’OTAN »] fait aujourd’hui référence. En 400 pages denses, fascinantes, préoccupantes, il nous fait prendre la mesure de la menace que l’OTAN fait peser sur la paix du monde et l’avenir de nombreux peuples. Il nous fait également prendre conscience de l’urgence qu’il y aurait à obtenir la dissolution de cette dangereuse organisation.

Silvia Cattori : Dans votre remarquable ouvrage vous mettez en lumière les stratégies mises en place par l’OTAN pour étendre son emprise militaire dans le monde. J’aimerais vous demander ce qui vous a motivé à consacrer tant d’énergie à un sujet aussi ardu et exigeant. Comment en êtes-vous venu à considérer que l’analyse du rôle de l’OTAN et des stratégies qu’elle a mises en place était une tâche absolument essentielle ?

Mahdi Darius Nazemroaya : Les graines de ce livre ont été semées en 2007. J’avais alors rédigé un petit manuscrit mettant en relation les guerres en Afghanistan et en Irak (qui avaient fait suite aux tragiques évènements du 11 septembre 2001) avec l’expansion de l’OTAN, le projet de bouclier antimissiles états-unien – que je décrivais comme s’étant finalement couvert du manteau d’un projet de l’OTAN, – et le concept de ce que les néoconservateurs et leurs alliés sionistes appellent « destruction créative » pour redessiner la restructuration des pays du Moyen-Orient, et l’encerclement aussi bien de la Chine que de la Russie.

J’ai toujours considéré que tous les évènements négatifs auxquels le monde est confronté étaient les éléments d’un ensemble ; ou de ce que le savant et révolutionnaire hongrois György Lukács a appelé « totalité fragmentée ». Les guerres en « série », l’accroissement des lois de sécurité, la guerre contre le terrorisme, les réformes économiques néolibérales, les « révolutions colorées » dans l’espace post-soviétique, la diabolisation de différentes sociétés par les médias, l’élargissement de l’OTAN et de l’Union Européenne, et les fausses accusations au sujet d’un programme d’armement nucléaire iranien font partie d’un tout. Un de mes articles publié en 2007 [1], posait également les principales bases de cette feuille de route et reliait tous les éléments de la guerre perpétuelle à laquelle nous assistons.

J’ai écrit ce livre parce que je pensais que c’était un sujet très important. J’ai lu la plupart des textes de l’abondante littérature concernant l’OTAN et aucun n’examine l’OTAN dans la perspective critique où je me place. De même qu’aucun ne relie l’OTAN de manière pertinente à une « vue d’ensemble » des relations internationales. Un chercheur de l’Université Carleton m’a dit que mon livre était comme une Bible des relations internationales et de tous ses sujets importants. Je vois moi aussi mon livre sur l’OTAN de cette manière.

Ma principale motivation pour écrire ce livre était d’amener les lecteurs à prendre conscience de la nature impérialiste des conflits internationaux modernes et de les aider à en voir la « totalité » au lieu de ses éléments « fragmentés ». Quand vous voyez l’ensemble, vous êtes en mesure de prendre de meilleures décisions. Je pense avoir donné de l’OTAN une évaluation correcte. Dans sa bibliothèque à Bruxelles il y a un exemplaire de mon livre. C’est l’OTAN elle-même qui a annoncé son acquisition comme l’une des ressources de sa bibliothèque, en novembre 2012. Ce livre est ma contribution, en tant que chercheur, pour essayer de permettre aux lecteurs de prendre des décisions en connaissance de cause en voyant au-delà des effets de miroirs et des éléments fragmentés du tableau.

Aujourd’hui dans le monde, les gens sont de façon générale plus instruits. Mais malheureusement l’ignorance se répand en ce qui concerne les relations de pouvoir et ce qui se passe dans ce domaine au niveau mondial. Nous entrons dans une ère trompeuse de l’histoire où beaucoup de gens à travers le monde sentent de plus en plus qu’ils ne peuvent rien faire d’autre que d’être des spectateurs impuissants, réduits à n’être que des particules, des rouages, ou des extensions d’une immense machine invisible sur laquelle ils n’ont aucun contrôle.

Les scénarios du livre de George Orwell « 1984 » se sont pour l’essentiel réalisés. Les gens sont devenus étrangers à leur monde et gouvernés de plus en plus par cette machine capitaliste invisible qui travaille à détruire toutes sortes de façon alternatives de vivre ou de penser ; l’ordre qui s’impose aujourd’hui à nous est comme un resserrement de la « cage d’acier » de Max Weber [2] qui réduit de plus en plus notre indépendance et nos mouvements.

La plupart des gens regardent maintenant les nouvelles et la télévision passivement. Ils essaient de se distraire de la réalité ; ils tentent d’engourdir leur conscience et de vivre dans un faux état de bonheur qui leur permet d’ignorer la réalité et les misères du monde. Collectivement, nos esprits ont été colonisés, on leur a fait croire à un faux ordre des choses. L’humanité est en train d’être de plus en plus déshumanisée. Peut-être que j’ai l’air hégélien, mais les gens deviennent étrangers à eux-mêmes. Ils deviennent aussi étrangers aux capacités de leur propre esprit et aux talents dont ils ont été dotés. Mais la vérité est que nous ne sommes pas séparés des évènements et des processus qui façonnent ce monde. Nous ne devrions pas devenir les esclaves des objets ou des structures de notre propre fabrication, que ce soit le capitalisme ou les structures politiques. Nous ne devons pas devenir de simples spectateurs de notre parcours de vie.

L’hégémonie est un processus continu de leadership, de contrôle, et d’influence qui implique à la fois la contrainte et le consentement. Mais son emprise n’est jamais totale et elle peut toujours être combattue. Nous voyons des défis à l’hégémonie dans la construction de blocs historiques qui affrontent les centres de pouvoir impérialistes et capitalistes. Le Mouvement bolivarien d’Hugo Chávez et l’ALBA sont des exemples réussis d’une contestation de l’hégémonie traditionnelle des élites compradores qui gouvernent la région au bénéfice de forces extérieures.

Silvia Cattori : Un grand chapitre passionnant et troublant de votre livre est consacré à l’Afrique. L’entrée en guerre de la France au Mali n’a pas dû être une surprise pour vous. La déstabilisation de ce pays affaibli, engendrée par l’intervention de la France en Libye, n’ouvre-t-elle pas une grave crise dans tous les pays du Sahel, de l’Atlantique à la Mer rouge ?

Mahdi Darius Nazemroaya : Dès le début j’ai soutenu que la division du Soudan, l’intervention française en Côte d’Ivoire soutenue par les États-Unis, et la guerre de l’OTAN en Libye, faisaient partie d’une deuxième « ruée vers l’Afrique ». J’ai expliqué que la guerre en Libye visait à déstabiliser d’autres parties de l’Afrique et aurait un effet d’entraînement sur une large partie de ce continent incluant des pays comme le Niger et le Mali.

Dans mon livre, j’ai examiné le Sahel qui est constitué par les terres intérieures de l’Algérie, du Niger, de la Libye, et du Mali. La guerre de l’OTAN contre la Libye a déclenché une réaction en chaîne, comme une démolition contrôlée, que les États-Unis et leurs alliés utilisent pour contrôler une vaste portion de l’Afrique et de ses ressources. Comme la première « ruée vers l’Afrique » qui a été déclenchée par une crise économique dans les pays industrialisés de l’Europe occidentale, ces évènements concernent en fait le contrôle des ressources. Alors que les États-Unis s’impliquaient davantage en Afrique, son gouvernement et le Pentagone se sont mis à parler de plus en plus de l’expansion des facilités dont disposait Al-Qaïda en Afrique et de la manière dont l’armée américaine et ses alliés devaient combattre cette organisation en augmentant leur présence sur le continent africain. En fait, les États-Unis ont constitué en 2011 un budget pour l’actuelle guerre au Mali sous le couvert de la lutte contre Al-Qaïda en Afrique de l’Ouest. Des intérêts stratégiques comme l’obsession grandissante des États-Unis pour le Golfe de Guinée et l’approvisionnement en pétrole en Afrique de l’Ouest sont occultés dans un récit qui nous parle de la lutte contre les groupes terroristes rangés sous le label d’Al-Qaïda. Nous savons d’expérience que l’Empire américain a en fait travaillé avec ces groupes, aussi bien en Libye qu’en Syrie. Et que l’on cherche à pousser hors d’Afrique la Chine, la Russie, l’Inde, le Brésil, et d’autres rivaux économiques du bloc occidental, mais on n’en parle pratiquement pas. En lieu et place, on déguise les intérêts des États-Unis et des ses alliés de l’OTAN comme la France, en objectifs altruistes visant à aider des États faibles.

Pour en revenir au Mali. Je n’ai pas été surpris quand le Président François Hollande et son gouvernement ont ordonné aux soldats français d’envahir ce pays. Aussi bien la France que les États-Unis sont très au fait des réserves de gaz et de pétrole au Mali, au Niger, et dans l’ensemble du Sahel. Mon livre traite de ces points et de la création par le gouvernement français, en 1945, d’un Bureau de recherches pétrolières dans le but d’extraire le pétrole et le gaz de cette région. Quelques années plus tard, en 1953, Paris a délivré des licences d’exploitation à quatre compagnies françaises en Afrique. En raison de ses craintes, à la fois des empiétements américains et des demandes africaines d’indépendance, Paris a créé l’Organisation Commune des Régions Sahariennes (OCRS) pour maintenir son contrôle sur les parties riches en ressources de ses territoires africains qui possèdent du pétrole, du gaz, et de l’uranium. L’uranium a été important pour garantir l’indépendance de la France vis-à-vis de Washington par la création d’une force de dissuasion nucléaire stratégique, en riposte au monopole anglo-américain.

Ce n’est donc pas un hasard si les zones du Sahel que les États-Unis et ses alliés ont désignées comme faisant partie de la zone où Al-Qaïda et les terroristes sont situés correspondent à peu près aux frontières de l’OCRS, riche en énergie et en uranium. En 2002, le Pentagone a commencé d’importantes opérations visant à contrôler l’Afrique de l’Ouest. Cela a eu lieu sous la forme de l’Initiative Pan-Sahel, qui a été lancée par l’US European Command (EUCOM) et l’US Central Command (CENTCOM). Sous la bannière de ce projet de l’armée américaine, le Pentagone a formé des troupes du Mali, du Tchad, de la Mauritanie, et du Niger. Les plans visant à établir l’Initiative Pan-Sahel remontent toutefois à 2001, lorsque l’Initiative pour l’Afrique a été lancée à la suite des attentats du 11 septembre. Sur la base de l’Initiative Pan-Sahel, la Trans-Saharan Counter-terrorism Initiative (TSCTI) a été lancée en 2005 par le Pentagone sous le commandement du CENTCOM. Le Mali, le Tchad, la Mauritanie, et le Niger ont été rejoints par l’Algérie, le Maroc, le Sénégal, le Nigeria, et la Tunisie. La TSCTI a été transférée en 2008 au commandement de l’AFRICOM récemment activé. Il faut relever que le capitaine Amadou Sanogo, le leader du coup d’État militaire qui a eu lieu au Mali le 21 mars 2012, est l’un des officiers maliens qui ont été formés dans le cadre de ces programmes américains en Afrique de l’Ouest.

L’analyse du coup d’État de 2012 au Mali montre qu’il s’agit d’un acte criminel. Le coup d’État militaire a renversé le Président Amadou Toumani Touré sous prétexte qu’il ne pouvait pas restaurer l’autorité malienne sur le nord du pays. Le Président Amadou était sur le point de quitter son poste et n’avait pas l’intention de rester dans la vie politique, et les élections allaient avoir lieu dans moins de deux mois. Ce coup d’État a essentiellement empêché une élection démocratique d’avoir lieu et l’action du capitaine Sanogo a mis fin au processus démocratique au Mali et a déstabilisé le pays. Sa nouvelle dictature militaire a été reconnue par l’OTAN et par le gouvernement installé en Côte d’Ivoire par les Français. Les États-Unis ont continué à financer le gouvernement militaire du Mali et des délégations militaires et civiles des États-Unis et d’Europe occidentale ont rencontré le régime militaire de Sanogo. Peu après, la France a déclaré qu’elle avait le droit d’intervenir en Afrique partout où ses citoyens et ses intérêts étaient menacés. C’était autant de préliminaires.

Les armes qui sont utilisées au Mali et au Niger aussi bien par les groupes terroristes que par les tribus touaregs sont liées aux actions de l’OTAN en Libye. Plus précisément ces armes viennent des arsenaux libyens pillés, et des armes envoyées en Libye par les Français, les Anglais et les Qataris. L’OTAN a eu un rôle direct dans ce domaine et l’on sait que les Français ont soudoyé les groupes touaregs et ont contribué à les armer et à les financer durant la guerre contre la Libye. Du reste, en Afrique, les Français ont toujours manipulé les Touaregs et les Berbères contre d’autres groupes ethniques à des fins coloniales.

Par ailleurs, les tensions entre le Soudan et le Sud-Soudan sont attisées. La région soudanaise du Darfour et la Somalie sont toujours des points chauds. Tout cela fait partie d’un arc africain de crise qui est utilisé pour restructurer l’Afrique et l’englober dans les frontières du bloc occidental.

Silvia Cattori : Quand sous l’impulsion du président Sarkozy, après 33 ans de retrait, la France est revenue dans le commandement militaire de l’OTAN, il n’y a eu aucune protestation. N’est-ce pas le signe que les citoyens ignorent, que cette organisation menace l’humanité et que l’appartenance de leur pays à l’OTAN implique sa subordination à la politique étrangère belliciste de Washington et la perte de sa souveraineté ?

Mahdi Darius Nazemroaya : Je pense que ce que le Président Sarkozy a fait en réintégrant la France dans le commandement militaire de l’OTAN est largement le reflet d’un consensus au sein de la classe politique française. Je sais qu’à Paris de nombreuses voix politiques l’ont critiqué, mais si au sein de la classe politique française l’opposition avait été intransigeante, elle aurait pu faire beaucoup plus que parler. Aujourd’hui, les membres de l’establishment politique français, aussi bien à « gauche » qu’à « droite », se battent entre eux pour savoir qui va le mieux servir les centres impérialistes et capitalistes à Washington et à New York. L’establishment politique français ne fait pas cela parce qu’il est particulièrement pro-américain, mais parce qu’il est au service du système mondial corrompu qui sert lui-même le capitalisme global dont le centre en voie d’affaiblissement est aux États-Unis. Ainsi, nous avons aussi besoin de réévaluer ce qu’est l’anti-américanisme, ou d’où proviennent et ce que représentent en fait les sentiments anti-américains.

De larges segments de l’élite de l’Europe occidentale sont au service de ce système mondial parce que leurs propres intérêts y sont investis et y sont liés. Comme les États-Unis sont en voie d’affaiblissement et en lutte pour maintenir leur primauté mondiale en tant que centre du capitalisme, de la régulation et de l’accumulation capitaliste, ils vont de plus en plus déléguer leurs missions impériales à des pays comme la France. On verra également davantage de compromis entre les États-Unis et des pays alliés comme la France et l’Allemagne. Il s’agit là d’une décentralisation dialectique du pouvoir des États-Unis visant à renforcer l’hégémonie du système mondial et à maintenir l’Empire américain par délégation. Il faut noter que ce système capitaliste mondial est fragmenté en blocs, raison pour laquelle nous voyons des rivalités entre les États-Unis, la Chine et la Russie.

De façon générale, la majorité des citoyens dans de nombreuses sociétés sont de plus en plus passifs vis-à-vis des décisions de leurs gouvernements et de leurs dirigeants. C’est le reflet d’un sentiment croissant d’aliénation, de détachement et d’impuissance qui a transformé les êtres humains en marchandises et en objets. Cela fait partie du resserrement de la « cage d’acier » dont je parlais plus haut, en termes weberiens.

Silvia Cattori : La France a été au commencement, avec le Qatar, le principal « parrain » de la déstabilisation de la Syrie [3]. La Chine et la Russie ont empêché par leurs vétos l’adoption d’une résolution du Conseil de sécurité qui aurait autorisé une intervention militaire de l’OTAN comme cela a été le cas en Libye. Mais on peut se demander si les pays de l’OTAN et leurs alliés arabes ne sont pas en train de réaliser leur plan de déstabilisation de la Syrie par d’autres voies ? Et pensez-vous que la Chine et la Russie pourront durablement contenir l’OTAN tant que les pays émergents n’auront pas leur mot à dire et les moyens d’imposer un véritable multilatéralisme au Conseil de sécurité ?

Mahdi Darius Nazemroaya : En premier lieu, il faut voir que les évènements en Syrie font partie d’une guerre par procuration menée par les États-Unis, l’OTAN, Israël et les dictatures arabes (comme l’Arabie Saoudite), contre la Chine, la Russie, l’Iran et leurs alliés. Deuxièmement, quand on considère les évènements en Syrie d’un point de vue international, on devrait penser à la Guerre civile espagnole qui a éclaté avant la Deuxième guerre mondiale. De même, on peut considérer les évènements en Libye et en Afrique, et peut-être les invasions antérieures de l’Afghanistan et de l’Irak, en pensant à l’invasion de la Chine par le Japon ou l’invasion de la Tchécoslovaquie par l’Allemagne avant la Deuxième guerre mondiale. Cela ne signifie pas que la Syrie ou ces évènements soient nécessairement le prélude à une Troisième guerre mondiale, mais ils ont le potentiel d’allumer un vaste incendie au niveau mondial — à moins que l’on ne pense que tous ces évènements font déjà partie de la Troisième guerre mondiale.

pagan.jpgLes thèses de Giovanni Arrighi sur les cycles systématiques d’accumulation dans le « système-monde » peuvent nous aider à trouver une base de réflexion. Son travail est important parce que nous pouvons l’utiliser pour lier entre eux, de la Syrie à l’Afrique, les éléments dont nous parlions en termes de « totalité fragmentée » constituant le système mondial. Les cycles d’accumulation étudiés par Arrighi se rapportent à des périodes de temps qui s’étendent sur une centaine d’année ou plus, durant lesquelles le centre du capitalisme dans le système mondial se situe dans un lieu géographique ou un pays donné. Ses thèses sont fortement influencées par les travaux du savant français Fernand Braudel sur l’expansion du capitalisme. Pour Arrighi ces centres d’accumulation ont été les pouvoirs hégémoniques du système mondial en expansion. À la dernière étape de chaque cycle, les capitalistes déplacent leurs capitaux de ces centres dans d’autres endroits et finalement dans le nouveau centre capitaliste qui a émergé. Ainsi, chronologiquement, le pouvoir hégémonique du système mondial a été transféré de la ville-État italienne de Gênes aux Pays-Bas, puis en Grande Bretagne et, finalement, aux États-Unis. Le déplacement géographique du centre du système mondial se produit au cours d’une période de crise, au moins pour les anciens centre capitalistes, et dans un court laps de temps. Nous en arrivons aujourd’hui à la Chine. Ce qui se passe est que le centre du capital est sur le point de sortir des États-Unis. Si l’on suit la tendance soulignée par Arrighi, alors le prochain centre d’accumulation capitaliste du système mondial sera la Chine. Toutefois d’autres scénarios ne sont pas à écarter, comme une direction globale de toutes les principales puissances capitalistes. En me référant aux travaux d’Arighi, je veux dire ici que nous avons affaire à un système capitaliste mondial qui inclut la Chine et la Russie. Ni les États-Unis ni la Chine ni la Russie ne veulent perturber ce système. Ils sont en compétition pour en devenir le centre d’accumulation capitaliste. C’est pourquoi aucune des parties ne veut une guerre directe. C’est pourquoi les Chinois n’ont pas utilisé la dette étrangère américaine pour dévaster l’économie des États-Unis ; la Chine souhaite voir un transfert ordonné du centre d’accumulation depuis les États-Unis.

La Chine et la Russie ne changeront pas leurs politiques et leurs positions sur la Syrie ou l’Iran, mais elles veulent éviter une guerre qui perturbe le système capitaliste mondial. Bien sûr, les États-Unis essaient de maintenir leur position en tant que centre du système mondial, par la force brute, ou en impliquant leurs alliés et vassaux dans leurs opérations impérialistes, comme au Mali et en Libye.

Silvia Cattori : Vous consacrez un long chapitre (p 67 à 113) à l’intervention de l’OTAN en Yougoslavie. Pouvez-vous résumer pour nos lecteurs ce à quoi cette guerre, qui a démembré un pays et généré tant de souffrances, devait aboutir ?

Mahdi Darius Nazemroaya : Le démantèlement de la République fédérative socialiste de Yougoslavie a été une étape importante pour ouvrir les portes d’une expansion vers l’Est de l’OTAN et de l’Union Européenne. Il a ouvert la route pour la marche vers les frontières de la Russie et de l’ex-Union soviétique. L’ex-Yougoslavie était aussi un obstacle majeur vis-à-vis du projet euro-atlantique de l’OTAN et de l’UE en Europe. En outre, la guerre de l’OTAN en Yougoslavie a permis de préparer la logistique des guerres en Afghanistan et en Irak.

Silvia Cattori : Denis J.Halliday [4] écrit dans la préface de votre ouvrage : « L’OTAN n’amène que la destruction, la pauvreté, l’insécurité et la misère. Elle doit être abolie ». Quand on sait qu’il n’y a aucun mouvement qui s’oppose à la guerre, que des ONG comme Amnesty, HRW, MSF, MDM, prennent le parti de l’ingérence militaire des grandes puissances, comme on l’a vu en ex-Yougoslavie, au Soudan, en Libye, en Syrie, que peut-on suggérer à toute une jeunesse en quête de justice et désireuse d’agir pour un monde meilleur ? Que peuvent faire concrètement les peuples européens contre la machine destructrice de l’OTAN ?

Mahdi Darius Nazemroaya : Comme je l’ai dit, nous en sommes arrivés à la situation décrite par George Orwell dans son roman “1984”. Amnesty International, Human Rights Watch, et une grande partie des ONG de l’industrie humanitaire sont des outils de l’impérialisme pratiquant les deux poids deux mesures. Les organisations d’aide étrangère sont profondément politiques et politisées. Cela ne signifie pas que tous leurs employés soient de mauvaises gens qui ne veulent pas aider le monde. Bon nombre de leurs employés et des bénévoles sont des gens estimables ; ils ne comprennent pas tous les faits et ils ont de bonnes intentions. Ces gens ont été trompés ou aveuglés par la pensée de groupe institutionnelle. Leurs esprits devraient être débarrassés de tous les préjugés et de la désinformation dont ils ont été nourris ; une véritable tâche de dévouement.

Les citoyens des pays de l’OTAN doivent travailler à se positionner eux-mêmes pour informer leurs sociétés respectives sur l’OTAN et finalement les influencer pour qu’elles se retirent de cette organisation. Cela peut être fait de diverses manières. Mais cela commence par une compréhension de ce qu’est l’OTAN et une connaissance non censurée de son histoire.

Je ne suis pas une autorité morale ou un stratège. Se maintenir soi-même sur la bonne voie est déjà un défi assez difficile, je pense. Je n’ai aucun droit à pontifier sur la façon dont les gens devraient vivre. Je vais toutefois vous dire ce que je pense personnellement. À mon avis, le plus gros problème pour beaucoup de gens est qu’ils veulent changer le monde à une beaucoup trop grande échelle sans s’attaquer aux problèmes immédiats dans leurs propres vies. Je trouve que la meilleure manière de changer le monde est de commencer par de petits pas dans notre vie de tous les jours. Je parle ici d’ « échelle » et pas de « changement graduel » ou de « rythme ». Faire un monde meilleur commence par votre environnement immédiat. Le changement commence avec vous-même et ceux qui vous entourent, tout comme le devrait la charité. Imaginez si la plupart des gens faisaient cela ; le monde serait changé par petites étapes qui aboutiraient collectivement à un changement monumental. Rien de tout cela ne peut non plus se faire sans patience et détermination, et je souligne encore une fois qu’action et connaissance ne devraient pas être séparées. Je ne sais que dire de plus.

Silvia Cattori : En mettant ensemble les pièces du puzzle vous démontrez magistralement dans votre livre comment ces guerres en série, menées sous des prétextes humanitaires, s’inscrivent dans une stratégie de « destruction créative » conçue par « les néoconservateurs et leurs alliés sionistes », et comment – de la Yougoslavie, à l’Afghanistan, à l’Irak et à la Libye – elles sont toutes liées. Des personnalités de premier plan, comme l’ancien Secrétaire général adjoint de l’ONU Denis J. Halliday qui a préfacé votre ouvrage, vous donnent entièrement raison : l’OTAN est bel et bien le principal danger pour la paix du monde. Mais vous savez qu’en Europe, notamment dans les pays où, comme en France, les organisations juives ont une forte emprise sur les politiques et les médias, dénoncer la stratégie des néoconservateurs et de leur allié Israël [5], ou dénoncer les révolutions colorées suffit à vous faire cataloguer comme « théoricien du complot » et à vous écarter du débat. Que peut-on faire à votre avis pour modifier cette désespérante situation ?

Mahdi Darius Nazemroaya : Mon expérience (au Canada) est différente. On ne m’a jamais qualifié de théoricien du complot. Je pense que la censure des médias et le mépris systématique sont des tactiques clés utilisées contre ceux qui remettent en question le récit dominant ou les opinions énoncées par les forces hégémoniques qui dominent la société. L’objectif visé en diabolisant des personnes ou des groupes sous le qualificatif de « théoriciens du complot » est de les discréditer et de les neutraliser. Cela se produit généralement quand ils ont beaucoup attiré l’attention et quand ils ont aussi quelques idées fausses qui peuvent être ridiculisées et liées à leurs positions. Néanmoins, ceux qui se voient qualifiés de théoriciens du complot ne devraient pas laisser cette accusation les dissuader de maintenir leurs positions et de continuer à s’adresser aux gens. Car la démoralisation fait partie de la tactique utilisée pour réprimer les points de vue et réflexions « dérangeantes ».

Les groupes et les lobbies sionistes ont une présence forte et disproportionnée dans le domaine politique et dans les médias de plusieurs pays, mais il faut reconnaître qu’ils ne sont pas homogènes et qu’ils ne sont pas les seuls facteurs influents ; ils font partie d’un bloc d’intérêts pour qui il est important d’empêcher qu’un discours critique n’ébranle les forces hégémoniques qui dominent aujourd’hui la société. Et les lobbies sionistes ne sont pas tous liés à Israël. Il arrive qu’un groupe sioniste travaille à introduire et à imposer à Israël des projets externes. Les motivations de ces groupes ne sont pas toutes les mêmes, mais elles font partie du programme dominant qui s’est développé en ce que les renommés sociologues Giovanni Arrighi et Immanuel Wallerstein ont appelé « système-monde » [ou « économie-monde »].

À mon humble avis, être entendu est la chose la plus importante. Internet et les réseaux sociaux ont contribué à ce processus. Je pense que, pour être entendu, il est également important de proposer des analyses rigoureuses et bien articulées. C’est une tâche difficile qui doit être accomplie, et qui fait partie d’un processus culturel plus large incluant l’éducation et la rééducation. Modifier les forces hégémoniques dominant la société ne peut se faire qu’en établissant de nouveaux courants de pensée pouvant contester leur hégémonie. La critique ne suffit pas non plus, une alternative et un meilleur programme doit être articulé et proposé. La critique en elle-même est inutile si l’on n’offre pas parallèlement un programme alternatif. Pensée et action doivent également être liées dans un processus pratique.

Silvia Cattori : Votre livre va-t-il être traduit en français ? A-t-il eu la couverture médiatique lui permettant de toucher un large public ?

Mahdi Darius Nazemroaya : Mon livre devait être traduit en français en trois volumes par un éditeur en France, mais malheureusement l’accord a fait long feu. En notre temps où la durée d’attention s’amenuise, peu de gens sont intéressés à lire un livre de plus de 400 pages. Très peu d’attention lui a été accordée de la part des grands médias. Il y a plusieurs mois, Le Monde Diplomatique à Paris a contacté mon éditeur aux États-Unis, ainsi que la maison qui le diffuse en Grande Bretagne, pour leur demander l’envoi d’un exemplaire. Je ne sais pas si Le Monde Diplomatique a réellement l’intention de faire une recension d’un livre aussi critique et, très honnêtement, je ne m’en soucie pas vraiment.

Mon ouvrage a eu de bonnes critiques disant que c’est un livre à lire absolument. Il est diffusé dans les universités et les collèges. On en trouve des exemplaires dans les bibliothèques de diverses institutions comme l’Université de Harvard et l’Université de Chicago. Il est référencé à la Haye et dans la prestigieuse collection de la Bibliothèque du Palais de la Paix aux Pays-Bas qui tient à jour les livres relatifs aux lois internationales. 
Sur Amazon au Royaume Uni, il est classé comme l’un des meilleurs livres sur l’OTAN et je crois qu’il est en train de prendre un bon départ.

Silvia Cattori

 

Mahdi Darius Nazemroaya est un sociologue interdisciplinaire, auteur primé, et analyste politique connu. Il est chercheur au Centre de recherche sur la mondialisation à Montréal, collaborateur expert de la Strategic Culture Foundation à Moscou, et membre du Comité scientifique de la revue de géopolitique Geopolitica, en Italie. 


Sur son ouvrage « The Globalization of NATO »,

voir également (en anglais) : 
 http://www.silviacattori.net/article4005.html 
 http://www.silviacattori.net/article3834.html 
 http://www.silviacattori.net/article3780.html  

Article traduit de l’anglais par JPH



[1] Publié d’abord sous le titre « La mondialisation de l’OTAN » puis sous le titre modifié « La mondialisation de la puissance militaire : l’expansion de l’OTAN » . Cet article a été traduit en de nombreuses langues, y compris en arabe par la chaîne qatari d’information Al-Jazeera.

[2] La « cage d’acier » (ou « cage de fer ») est un concept sociologique introduit par Max Weber qui se réfère à la rationalisation accrue de la vie sociale, en particulier dans les sociétés capitalistes occidentales. Ainsi la « cage d’acier » enferme les individus dans des systèmes fondés uniquement sur l’efficacité, le calcul rationnel et le contrôle.

[3] Voir : 
 « Gérard Chaliand dit quelques vérités sur la Syrie » : 
http://www.silviacattori.net/article3350.html 
 « Syrie : Les victimes de l’opposition armée ignorées » : 
http://www.silviacattori.net/article3416.html

[4] L’Irlandais Denis J. Halliday a passé une bonne partie de sa carrière auprès des Nations Unies, impliqué dans des actions d’aide humanitaire. En 1997, il fut nommé Sécrétaire général adjoint et directeur du programme humanitaire en Irak. Un an plus tard, après 34 ans de service au sein des Nations Unies, Halliday a annoncé sa démission en raison des sanctions économiques imposées à l’Irak, qu`il a qualifiées de « génocide ». En 2003, il a reçu Le Gandhi International Peace Award. Depuis son départ des Nations Unies, Denis Halliday a participé de manière active dans plusieurs actions contre la guerre et les crimes contre l’humanité. Il est présentement membre de l’Initiative de Kuala Lumpur en vue de « criminaliser la guerre ».

[5] Par exemple, l’écrivain israélien Israël Shamir, a été accusé d’antisémitisme par Olivia Zemor, Nicolas Shahshahani et Dominique Vidal pour avoir affirmé en 2003 cette vérité : qu’Israël et le lobby juif avaient joué un rôle prépondérant dans la guerre qui devait démembrer l’Irak un pays qu’Israël voulait mettre à genoux.

mardi, 02 avril 2013

L’OTAN codifie les nouvelles guerres cybernétiques

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Andrea PERRONE:

L’OTAN codifie les nouvelles guerres cybernétiques

 

L’Alliance Atlantique tente d’obtenir de ses partenaires une réglementation commune contre les attaques informatiques; en réalité elle veut recevoir un blanc-seing pour devenir le gendarme mondial

 

Dans un monde de plus en plus “globalisé” où se répètent et se succèdent les attaques informatiques destinés à frapper et à espionner d’autres Etats, l’OTAN a préparé un manuel pour réglementer, à sa façon, les guerres cybernétiques, ce qui s’est fait, bien entendu, pour défendre les intérêts exclusifs de l’“Empire Stars and Stripes”. Le document suggéré par l’OTAN prévoit que, dans le futur, les attaques “online” pourront donner lieu à de véritables conflits militaires. Le quotidien britannique “The Guardian” dénonce les dangers que recèle cette démarche dans un long article où l’auteur rappelle les attaques informatiques lancées il y a quelques années contre les sites nucléaires iraniens par le biais d’un virus d’origine américaine ou israélienne qui a pu mettre hors d’usage les centrifugeuses utilisées pour l’enrichissement de l’uranium. Le virus utilisé s’appelait “Stuxnet” et avait été créé et délibérément diffusé par le gouvernement américain dans le cadre de l’opération “Jeux Olympiques” lancée par le Président américain George W. Bush en 2006. Cette opération consistait en une vague d’attaques digitales contre l’Iran en collaboration avec le gouvernement de Tel Aviv, plus particulièrement contre la centrale nucléaire iranienne de Natanz dans le but de saboter la centrifugeuse de la dite centrale en envoyant des ordres spécifiques au “hardware” contrôlant le dispositif industriel responsable de la vitesse de rotation des turbines. Le but était de les endommager au point qu’elles soient irréparables. Les experts de l’OTAN, qui se sont réunis à Tallinn pour élaborer le nouveau document, sont d’avis que l’attaque contre les centrifugeuses iraniennes est assimilable à un conflit armé.

 

Avec la publication récente de ce document, l’OTAN cherche à montrer à tous qu’elle n’est rien d’autre qu’une organisation de gais lurons altruistes qui a pour objectif d’éviter les attaques cybernétiques visant des objectifs civils comme les hôpitaux, les barrages ou les centrales nucléaires, et non pas de devenir, pour les siècles des siècles, le gendarme du monde au service des intérêts américains, comme on le constate pourtant partout. Selon l’OTAN, l’élaboration de normes constitue le premier pas dans la réglementation générale du “cyberwarfare”. Ces normes, désormais couchées sur le papier, prévoient que les Etats pourront désormais riposter par des forces conventionnelles contre toute attaque informatique menée par un autre pays qui aurait provoqué des morts ou des dommages considérables.

 

Le nouveau manuel de l’OTAN contient 95 normes assez contraignantes, élaborées par vingt experts juristes qui ont planché pendant trois ans en gardant des contacts étroits avec le Comité International de la Croix Rouge et le “Cyber Command” de l’armée américaine. Ces normes prévoient que les “hackers” responsables des attaques, même s’ils sont des civils, pourront être considérés comme des cibles légitimes par les militaires de l’OTAN. Le groupe d’experts a été invité à préparer le manuel, présenté il y a quelques jours à Londres dans le cadre du “think tank” de Chatham House, par le “Co-Operative Cyber Defence Centre of Excellence” (CCDCOE) de l’OTAN, celui qui se trouve justement à Tallinn en Estonie. Ce centre a été mis sur pied à Tallinn en 2008 après une vague d’attaques contre les Pays Baltes, parties de Russie pour frapper les Estoniens qui avaient détruit le symbole de la victoire communiste-moscovite, le monument au soldat russe. Le fait que l’activité de contre-attaque cybernétique soit basée en Estonie révèle que les ennemis de Washington sont géographiquement proches, se trouvent donc à Moscou ou à Beijing, deux pays émergents posés comme ennemis absolus de l’unipolarisme américain, aujourd’hui en déclin.

 

L’OTAN se prépare donc à lancer ses attaques cybernétiques en les camouflant en instruments de défense contre les “Etats-voyous”. L’Alliance Atlantique s’organise simultanément pour réglementer, de manière encore sommaire, le fait nouveau que constituent les attaques informatiques: selon le document de l’OTAN, il faudra, dans ce type de guerre, éviter les objectifs sensibles et civils tels les hôpitaux, les barrages, les digues et les centrales nucléaires. Toutefois, le manuel à consulter en cas de “cyberguerre” stipule bien que toute attaque “online” pourrait entraîner dans l’avenir des conflits militaires réels et complets.

 

Les règles élaborées par cette équipe d’experts payés par l’Alliance Atlantique représentent la toute première tentative de codifier, sur le plan du droit international, les attaques “online”, tout en prévoyant une série de dispositifs utiles aux Etats pour riposter au moyen de forces conventionnelles si l’agression est commise dans l’intention de s’insérer dans les réseaux informatiques d’autres pays et provoquerait des morts ou des dommages considérables aux biens ou aux infrastructures.

 

Ce manuel rédigé par les vingt experts ès-jurisprudence travaillant en collaboration avec le Comité International de la Croix Rouge et l’“US Cyber Command” se compose donc de 95 normes et affirme que des guerres à vaste échelle pourraient être déclenchées si des attaques “online” étaient perpétrées contre des systèmes informatiques. Le document affirme par ailleurs que les “hackers” qui organisent de telles attaques “online” pourraient constituer des objectifs à éliminer en cas de guerre, même s’ils sont des civils. Le groupe d’experts a aussi été invité à rédiger le manuel par le CCDCOE de l’OTAN, basé à Tallinn, capitale de l’Estonie. Il a fallu trois ans pour rédiger ce manuel.

 

Au courant du mois de janvier 2013, le Premier ministre conservateur britannique David Cameron a annoncé que le Royaume-Uni, à son tour, est prêt à faire partie du CCDCOE dès cette année. L’ambassadeur du Royaume-Uni à Tallinn, Chris Holtby, a observé que “le Royaume-Uni enverra un expert pour continuer une coopération à grande échelle avec le centre tel qu’il existe actuellement. Le Royaume-Uni apprécie grandement les travaux du centre et prévoit d’augmenter sa contribution”. Le Colonel Kirby Abbott, conseiller juridique attaché à l’OTAN, a déclaré à l’occasion de la présentation du manuel qu’actuellement “ce manuel est le plus important en matières de lois régissant la cyberguerre”; “il sera fort utile” a-t-il ajouté.

 

La norme 22 du manuel dit, textuellement: “Un conflit armé international existe dès lors qu’il y a hostilités, lesquelles peuvent comprendre des opérations informatiques ou seulement s’y limiter et peuvent s’observer entre deux Etats ou plus”. Le manuel suggère des “contre-mesures” proportionnées contre les attaques online d’un autre Etat, contre-mesures qui, comme elles ont été annoncés et couchées sur le papier, seront ipso facto acceptées par cet Etat agresseur. Elles ne pourront toutefois pas impliquer l’usage de la force, sauf si la cyber-attaque a provoqué des morts ou des dommages graves aux personnes et aux infrastructures. Formuler un cadre pour les contre-mesures, sur lesquelles tous se sont mis d’accord, ne devrait pas abaisser le seuil pour enclencher de nouveaux conflits, a déclaré au “Guardian” le Professeur Michael Schmitt, directeur du projet, qui travaille au service de l’ “US Naval War College”. “On ne peut utiliser la force que quand on atteint le niveau d’un conflit armé. Tous parlent du ‘cyberspace’ comme s’il s’agit du Far West. Nous avons découvert que de nombreuses lois pouvaient s’appliquer au ‘cyberspace’”, a observé ce conseiller de l’OTAN. Dans de nombreux cas, il semble difficile de percevoir les prémisses d’une attaque online. Le mois passé, depuis Shanghai, une attaque serait partie provenant d’une unité de l’armée chinoise, laquelle unité aurait déjà été la source de nombreuses autres attaques informatiques au niveau international, ce qui nous montre clairement qu’il s’avère difficile de reconnaître les responsables d’éventuels dommages aux systèmes informatiques.

 

La norme 7 du document affirme, en revanche, que si une opération de “cyberguerre” provient d’un réseau appartenant à un gouvernement, “ce n’est toutefois pas une preuve suffisante pour attribuer la dite opération au dit Etat, mais indique, plus simplement, que l’Etat en question est lié à l’opération”.

 

Le manuel retient également l’idée que, conformément aux clauses de la Convention de Genève, toute attaque contre des sites-clefs civils doit être absolument considérée comme hors-la-loi. L’article 80 du manuel affirme textuellement “qu’afin d’éviter la propagation de substances dangereuses et les conséquences qu’une telle diffusion pourrait entraîner, notamment de lourdes pertes parmi la population civile, une attention toute particulière doit être portée aux ‘cyber-attaques’ qui, le cas  échéant, seraient perpétrées contre les installations qui, pour fonctionner, utilisent des substances dangereuses ou contre des barrages, des digues, des centrales nucléaires et électriques ainsi que contre d’autres installations situées à proximité de celles-ci”. Les hôpitaux et les unités médicales devront recevoir la protection dont ils bénéficient déjà selon les normes qui régissent la guerre traditionnelle.

 

Le manuel ne doit toutefois pas être vu comme un document officiel de l’OTAN mais comme un simple manuel de consultation. Il a déjà été publié par les presses de l’Université de Cambridge car de nombreux juristes britanniques ont travaillé à la réalisation du projet. Cependant, comme, en bout de course, tout ce qui émane des milieux politico-militaires de l’Alliance Atlantique finit par avoir pertinence, y compris sur le plan juridique, ce manuel pourra servir à anéantir tout adversaire potentiel, si non par les armes du moins par les procès. En 2010, la stratégie de sécurité nationale du Royaume-Uni a défini les “cyber-attaques”, y compris celles qui frappent d’autres Etats, comme une des quatre menaces “de premier plan”, au même titre que le terrorisme, les crises militaires et les litiges entre Etats. Toutefois, on peut craindre que la teneur de ce manuel, qui fera petit à petit loi, portera préjudice à tous, notamment aux Etats émergents, qui auront l’heur de déplaire aux dirigeants de l’Occident euro-atlantiste, travaillés par le désir toujours inassouvi d’exporter leur “modèle” de démocratie, à coup de bombes ou... d’attaques informatiques.

 

Andrea PERRONE.

(article paru le 21 mars 2013 sur http://www.rinascita.eu/ ).

dimanche, 10 février 2013

NATO Charts Out Global Role

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Sahel To Central Asia: NATO Charts Out Global Role

Rasmussen: NATO Must be Ready for Any Future Threat

By Cheryl Pellerin

Ex: http://rickrozoff.wordpress.com/

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“Missile defense is a core element of our collective defense,” [Rasmussen said], “and the deployment of Patriot missiles to Turkey is a real response to a real threat.”

Many European allies contribute to NATO’s missile defense system, but Rasmussen said he can envision European navies upgrading their ships with missile defense radars and interceptors so they can deploy alongside United States vessels.

To make sure that NATO remains the gold standard of Euro-Atlantic security into the 21st century, he said, the alliance must build on its gains from operations like its International Security Assistance Force mission in Afghanistan “rather than cash in what some may perceive as a post-ISAF dividend.”

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MUNICH: On the second day of the Munich Security Conference, NATO Secretary-General Anders Fogh Rasmussen told the international audience here that the end of the war in Afghanistan gives the alliance a chance to plan for the future.

The end in 2014 of NATO’s biggest operation gives NATO a chance to generate key capabilities, engage robustly with new geopolitical realities and rebalance its priorities and commitments, he said.

“In other words, an opportunity to plan for the future,” Rasmussen said, adding that such a plan must determine what NATO will do next, how NATO will do it, and what kind of alliance it will be.

“We will continue to respond to crises whenever and wherever the allies judge their security interests are at stake because this is our core business,” the secretary-general said.

“When I look at our world, I see an arc of crises stretching from the Sahel to Central Asia,” he added, “[but]…this does not mean we will have to intervene everywhere nor that we are set for confrontation. But it does mean we must stand ready to deter and defend against any threat.”

Rasmussen said NATO must keep its operational edge and retain a complete range of capabilities, with increased importance for missile and cyber defense and special operations forces.

“Missile defense is a core element of our collective defense,” he added, “and the deployment of Patriot missiles to Turkey is a real response to a real threat.”

Many European allies contribute to NATO’s missile defense system, but Rasmussen said he can envision European navies upgrading their ships with missile defense radars and interceptors so they can deploy alongside United States vessels.

“We must also improve our cyber resilience,” he said, describing a potentially critical role for NATO in defining a common training approach among allies and in providing expert help to allies who come under cyber attack.

“We will also need forces with the skills and speed to act decisively,” Rasmussen said, envisioning a vital role for NATO’s new Special Operations Forces Headquarters in planning and coordinating missions and improving the ability of allied special operations forces to work together.

To make sure that NATO remains the gold standard of Euro-Atlantic security into the 21st century, he said, the alliance must build on its gains from operations like its International Security Assistance Force mission in Afghanistan “rather than cash in what some may perceive as a post-ISAF dividend.”

A better choice is to reinvest the ISAF dividend in defense for a maximum return, Rasmussen said, including through NATO’s Connected Forces – which seeks to create forces that act and think as one – and its Smart Defense initiatives.

NATO’s multinational response force can deploy quickly when needed, but Rasmussen wants the alliance to revitalize that force, he said, “to keep our ability to train and operate together as allies and with partners, take advantage of the United States’ decision to rotate dedicated units to Europe and conduct more demanding, realistic and frequent exercises.”

The NATO Response Force should become the engine of the alliance’s future readiness, he added, and multinational cooperation is key to keeping costs down and capabilities strong.

Rasmussen sees NATO connecting more closely with the alliance’s most able operational partners, reinforcing its cooperation with the United Nations and the European Union, deepening its strategic relationship with Russia and shifting from operational engagement to operational readiness.

Such readiness and flexibility come at a cost, he added.

“In the decade since 2001, the U.S. share of NATO defense expenditure has increased from 63 percent to 72 percent,” the secretary-general said, and in the last few years all but three European allies have cut their defense budgets.

“I am concerned about this gap in defense spending but I am even more concerned by the gap in some key capabilities,” he added.

To correct this, Rasmussen said, he would like to see the alliance moving toward a day when no single ally provides more than 50 percent of certain critical capabilities.

“This will require European allies to do more,” Rasmussen said, adding that a strong European contribution to NATO’s capabilities will sustain a strong U.S. commitment to NATO.

All allies must also show the political will to support each other, living up to NATO’s role as the political forum for transatlantic consultations on common security concerns, he said, “…because now and after 2014, we can only stay successful together.”

vendredi, 08 février 2013

Das maßlose Imperium im Westen

Das maßlose Imperium im Westen

freri0993.jpgIm September vergangenen Jahres sprach sich der frühere südafrikanische Erzbischof Desmond Tutu dafür aus, George W. Bush und Tony Blair  wegen Kriegsverbrechen vor den Internationalen Strafgerichtshof in Den Haag zu laden. Sie hätten die Voraussetzungen für nicht endenwollende  Gewalt geschaffen und uns alle, so der Friedensnobelpreisträgerr, an den Rand des Abgrunds geführt. Desmond Tutu vergaß dabei aber einen Preisträger-Kollegen zu erwähnen, der diesen Weg fortsetzt, fortsetzen muß: Barack Obama.                                                                                                                                                          Der militärisch-industrielle Komplex, zu dem inzwischen auch der CIA gerechnet wird, läßt einem mit Millionen Dollars in das Amt gewählten Präsidenten kaum eine andere Möglichkeit. Obama ist aber auch jener, der inzwischen persönlich den Drohnen-Einsatz befehligt, dem bereits unzählige unschuldige Zivilisten zum Opfer gefallen sind. Schwerer wiegen vorerst allerdings die vielen von ihm mitzuverantwortenden Opfer des Feldzuges gegen Tripolis, die zwischen 30.000 und 100.000 betragen sollen, und dazu kommen jetzt auch noch Zehntausende in Syrien.

Derzeit planen die US-Militärs die Installation einer Drohnen-Basis in Mali, an der Grenze zum Niger, die eine von vielen geheimen Stützpunkten sein soll, die  in Ostafrika, der arabischen Halbinsel, in Äthiopien, Djibouti und auf den Seychellen bereits in Betrieb oder vorgesehen sind. Derweil Franzosen und bald auch wieder andere europäische NATO-Söldner in Augenhöhe mit den Islamisten die Dreckarbeit am Boden machen dürfen. Menschen- und Völkerrechte werden in solchen Situationen, auch im Mali, generell ignoriert, daher ist selbst Österreich gerne dabei.                                                                                                                                                     Im Namen der Demokratie und des Kampfes gegen den  „Terrorismus“ ignorieren die USA und ihre Verbündeten die Souveränität unabhängiger Staaten. Von Bagdad bis Tunesien wurden zu eigensinnig gewordene  Staatsoberhäupter mit Hilfe von einheimischen wie auch  eingeschleusten Islamisten weggeputscht und hat so den Weg islamistischen Regimen geebnet.                                                                                                                             

Syrien soll als nächstes folgen, Algerien könnte, sofern man Mali als Vorspiel dazu betrachtet, das übernächste Ziel sein, ehe der  Iran an die Reihe kommt. Das bisher von der US-Außenpolitik angerichtete Chaos soll neben der Erreichung eigener ökonomischer und strategischer Ziele vor allem Israel eine längere Atempause verschaffen. Aber zu welchem Preis?

Den vielfachen Begehren und Machtansprüchen des US-Imperiums dient auch weiterhin die NATO, hinter der Washington sein Engagement zur Zeit  – aus politisch-taktischen Gründen – kleiner erscheinen lassen möchte als es tatsächlich ist. Gleichzeitig soll es den Europäern das Gefühl geben, gleichwertige Partner zu sein. Jedes neue NATO-Mitglied ist überdies herzlich willkommen, da dieses Milliarden-Beträge für neues Ausrüstungsmaterial, das natürlich großteils aus den USA kommt, aufbringen muß, um NATO-Standard zu erlangen. Der Druck auf ein solches Land ist daher enorm.

Früher oder später wird daher auch Österreich voll in das den US-Interessen dienende Verteidigungsbündnis integriert sein, sollte sich an der Politik in Österreich nichts Grundlegendes ändern. Sollte hingegen der eine oder andere wichtige EU-Staat nicht mehr wie erwünscht mitmachen wollen, würde man in Europa verstärkte islamistische Terroraktivitäten skrupellos in die Wege leiten, um den Kampf gegen den Terror, und damit auch die Existenzberechtigung der NATO, zu rechtfertigen und ihre Unterstützung für sinnvoll erscheinen lassen.

All das sollte aber nicht überraschen. Die Geschichte der US-Außenpolitik seit 1945 ist eine der vielen Verbrechen und Kriege im Namen von Freiheit und Demokratie. Vom chinesischen Bürgerkrieg bis in die heutige Zeit wird weltweit mehr oder weniger brutal interveniert, werden Regime gestürzt oder installiert und  kleine Länder, wie etwa Grenada 1983, überfallen. Von Vietnam bis in den Irak beging man in direkter Weise Kriegs- ja eigentlich Menschheitsverbrechen, in Libyen und jetzt in Syrien ist man Urheber und indirekter Beteiligter derselben.

Ging es einst vordergründig gegen den Kommunismus, der von den eigenen Geldleuten 1918 in den Sattel gehoben und danach großzügig unterstützt wurde, so geht es jetzt gegen „Terroristen“, die man bei Bedarf, wie in Syrien, durch Verbündete bewaffnen läßt, aber bei anderer Gelegenheit, wie in Mali, bekämpft. Der eine Diktator, Assad, ist im Wege, der andere, Abdullah, wird an die Brust genommen. Und das Regime Netanjahu, das sich einen Dreck um Menschen- und Völkerrechte oder UNO-Beschlüsse schert, ist wie selbstverständlich „die einzige Demokratie im Nahen Osten“.  Realpolitik nennt sich das.

Wer das verstehen will, darf nicht nur die tradierte US-Wildwestmentalität oder den massiven Einfluß der Israel-Lobby beachten, sondern sollte auch in Betracht ziehen, wie alternde Imperien im Laufe der Geschichte immer wieder  ähnlich reagiert haben, anscheinend reagieren mußten. Doch sollte die über andere, meist unterworfene  Nationen herrschende Supermacht schon  wissen, daß ein Imperium, das über seinen naturgegebenen Raum zu weit hinaus geht, früher oder später dafür die Rechnung präsentiert bekommt.                                                                                                                     

Es gibt kein Recht auf dauerhafte Hegemonie, und auch keine Garantie, umso mehr als die Kraft der jetzt führenden USA im Abnehmen begriffen ist. Da nun aber die militärische Präsenz in aller Welt aufrecht erhalten werden soll, bedroht diese den wirtschaftlichen und sozialen Konsens im Lande unmittelbar. Vor allem aber die politischen und ökonomischen Interessen der Wohlhabenden, womit der Zerfall von Innen heraus eine reale Möglichkeit werden könnte. .

Die Rache ist mein, soll der Herr der Juden gesagt haben. Das gilt eben auch im Hinblick auf das Verhalten eines von machthungrigen, bigotten Bankrotteuren geleiteten Imperiums, dessen außenpolitische Doktrin eine einzige Auflehnung gegen die anderswo bestehenden Ordnungen und deren sittliche Fundamente, am Ende aber gegen sich selbst gerichtet ist.

vendredi, 01 février 2013

Plaidoyer pour une Europe puissance

Plaidoyer pour une Europe puissance

Il faut dissoudre l'OTAN


Contre-amiral François Jourdier
Ex: http://metamag.fr/
 
L’Alliance Atlantique et son bras armé l’Organisation du Traité de l’Atlantique Nord, l’Otan, datent de la fin de la deuxième guerre mondiale. Elles avaient été créées pour assurer la sécurité de l’Occident devant la menace que constituait l’Union Soviétique. Depuis l’Union Soviétique a disparu, la Russie ne constitue pas une menace et devrait intégrer à terme l’Europe, même si elle ne fait pas partie de l’Union Européenne et pourtant l’Otan existe toujours.
 
 
L’Europe et la France ont elles intérêt à son maintien ? N’empêche-t-il pas la constitution d’une défense européenne digne de ce nom, et n’entraine-t-il pas l’Europe et la France dans des interventions extérieures où elles n’ont pas d’intérêt ?
 
L’Alliance Atlantique
 
Alliance défensive, l’Alliance Atlantique a été fondée par le traité de l’Atlantique Nord à Washington, le 4 avril 1949. Créée pour développer la capacité de résister à toute attaque armée, elle s’est également fixée une mission complémentaire de prévention et de gestion des crises qui peuvent porter atteinte à la sécurité européenne. Elle a théoriquement pour objectif de sauvegarder la liberté, l’héritage commun et une civilisation qui déclare se fonder sur les principes de la démocratie, de la liberté individuelle et de l’état de droit comme le stipule son préambule repris de la Charte des Nations-unies.
 
 
L’article 5 du traité sur la solidarité entre ses membres en cas d’agression, en est le point primordial. Le traité va finalement être l’élément qui soudera réellement le bloc occidental derrière les États-Unis, installant peu à peu une hégémonie américaine et une vassalisation de l’Europe. L’Alliance Atlantique rassemble vingt-huit nations raccordant l’Europe de l’Ouest à l’Europe de l’Est. Elle dispose d’une organisation militaire intégrée sous commandement américain.
 
 
Le Sommet du Cinquantenaire de l’Organisation qui s’est tenu à Washington du 23 au 25 avril 1999 a débattu, entre autres, de la transformation de l’Otan dans le nouveau contexte géopolitique de l’après-guerre froide, un débat centré en Europe sur la nature des relations entre l’Union et l’Alliance atlantique. La guerre du Kosovo menée alors, au même moment, a symbolisé le triomphe de la conception anglo-américaine : d’alliance défensive, l’Organisation tend à devenir l’instrument d’interventions offensives et l’Union européenne s’est placée sous sa tutelle.
 
L’organisation militaire intégrée.
 
L’alliance ayant pour but de protéger l’Europe d’une attaque du bloc soviétique, les européens furent heureux de bénéficier du parapluie américain. Ils l’ont instamment réclamé à l’origine. L’organisation militaire fut donc dominée par l’Amérique qui en exerça les principaux commandements.
 
Voulant secouer la tutelle américaine et garder l’indépendance de décision, le général de Gaulle décida de constituer une force nucléaire autonome et de quitter le commandement militaire intégré de l’Otan. Le siège de l’Otan quitta Paris pour Bruxelles en 1966 et toutes les infrastructures étrangères quittèrent la France. Celle-ci ne quitta pas pour autant l’Alliance Atlantique et des accords prévoyaient la réintégration des forces armées françaises en cas de conflit ouvert entre les deux blocs. Elle maintint des forces en République fédérale d’Allemagne (RFA). Déjà en 1962, au moment de la crise de Cuba, la France avait montré sa solidarité avec l’Alliance. De fait les forces françaises continuèrent à s’entrainer avec les forces de l’Otan et à s’aligner sur leurs normes, c’est à dire les normes américaines.
 
Après la chute du mur, à quoi sert l'OTAN ?
 
Après la chute du mur et la disparition de la menace soviétique, la France participa pour la première fois à une opération de l’Otan dans les Balkans. C’était le début d’une réorientation de l’Otan qui avait perdu son ennemi naturel. Les attentats du 11 septembre lui ont offert un nouveau rôle, la lutte contre le terrorisme. L’islamisme remplace ainsi le communisme comme principale menace du monde libre. En 2009, la France réintègre l’Otan.
 
L’OTAN ne sert pas les intérêts de la France et de l’Europe.
 
La chute du mur de Berlin le 9 novembre 1989, est la date symbolique de la fin de la guerre froide et marque la victoire sans combat de l’Alliance Atlantique sur l’Union Soviétique. La menace ayant disparu on aurait pu penser que l’Alliance, défensive, ou au moins son organisation militaire, allait disparaître. Il n’en a rien été, l’Europe n’ayant pas voulu ou pas pu constituer une défense crédible préféra rester sous le parapluie américain. Certains pays de l’Europe de l’Est, la Hongrie, la Pologne et la République Tchèque choisirent même de la rejoindre, voulant se protéger d’un éventuel retour de la menace russe.
 
D’une alliance défensive contre un ennemi défini, elle devint une alliance politique dont les objectifs furent peu à peu définis par les Etats-Unis qui assuraient, il est vrai, la plus grande part de la charge. Néanmoins, quand on récapitule les interventions militaires auxquelles l’Otan et ses alliés participèrent on peut se demander si elles servaient vraiment les intérêts de l’Europe et singulièrement de la France.
 
En 1990, si l’intervention était bien cautionnée par l’ONU, ce sont les Etats-Unis qui entrainèrent une coalition de 34 états dans la guerre contre l’Irak de Saddam Hussein pour la défense du Koweit. Le principal mobile de cette guerre était la défense des intérêts pétroliers et économiques des Etats-Unis. En 2003 la France refusera de suivre les Etats-Unis dans la guerre qui éliminera Saddam Hussein. Cette guerre durera jusqu’en décembre 2011 jusqu’au retrait du dernier soldat américain, laissant l’Irak dans le désordre et la violence.
 
Dans les Balkans cela commencera avec l’éclatement de la Yougoslavie. D’abord en Bosnie où en 1995, l’Otan intervient contre les milices Serbes au profit des Bosniaques et des Croates. En 1999, avec l’accord implicite des Nations unies, l’Otan attaque la Serbie pour la contraindre à évacuer la Kosovo où la majorité albanaise est en rébellion, les bombardements durent 70 jours et obligent les forces Serbes à quitter le Kosovo. Le Kosovo est maintenant indépendant, mais la situation n’est toujours pas stabilisée et l’Otan y maintient encore des troupes (KFOR).
 

Colin Powell et les armes de destrctions massives de Sadam Hussein !
 
La guerre d’Afghanistan débute en 2001 à la suite des attentats du 11 septembre, dans le but de capturer Oussama Ben Laden, elle est menée par une coalition réunie par l’Otan et à laquelle le France prend part, sous commandement américain. Peu à peu les buts de la guerre changent : on veut établir un gouvernement démocratique et chasser les taliban. La mort de Ben Laden en mai 2011 n’arrête donc pas les combats. Les Américains transfèrent peu à peu la responsabilité du conflit à l’armée afghane en annonçant leur retrait pour 2014. Il est peu probable que l’Afghanistan y gagne le calme et la démocratie.
 

Irak : les dommages collatéraux
 
L’intervention en Libye en 2011, se fit apparemment à l’initiative de la France et de la Grande Bretagne mais fut en fait une intervention de l’Otan : les Etats-Unis assurèrent le succès de l’opération par des frappes initiales détruisant la défense anti aérienne de la Libye et fournissant un soutien en renseignements, en transports aériens, en ravitaillement en vol. Sans les Etats-Unis, quoiqu’on pense par ailleurs du bien-fondé de cette intervention, elle n’aurait pas abouti dans les mêmes conditions. 
La question que l’on peut d’abord se poser, c’est de savoir si ces interventions voulues par les Américains et motivées par la défense de leurs intérêts surtout en Irak et en Afghanistan, ont été d’un quelconque bénéfice pour la France et même pour l’Europe. Elles ont en général abouti à la déstabilisation des zones de conflit et à la propagation d’un l’Islam radical.
 
 
L’intérêt des Etats-Unis se porte de plus en plus vers l’océan Indien et le Pacifique, faut-il les suivre ? En réalité la défense de l’Europe ne passe pas par-là, nous n’allons pas nous battre pour les Spratleys et les Paracels.
 
Remarquons de plus que là où il s’agit de défendre les intérêts de la France, actuellement au Mali, l’Otan ne nous est d’aucune aide. Dans l’océan Indien pour lutter contre la piraterie, l’Europe s’est organisée et a mis sur pied l’opération Atalante à laquelle participe neuf nations européennes, ce qui prouve que, quand on veut on peut.
 
L’OTAN nous impose les choix d’équipements.
 
L’Otan fonctionne aux normes américaines, ce qui revient à dire qu’elle s’aligne sur les méthodes de combat américaines ce qui est toujours couteux et pas forcément efficace.
 
On est étonné quand on a connu les méthodes de combat du temps de Bigeard de voir crapahuter des hommes chargés de quarante kilos d’équipement, ce qui oblige à les véhiculer sur des itinéraires obligés et accroit leur vulnérabilité. Mais surtout la conception et les performances de nos matériels sont peu ou prou alignées sur les matériels américains.
 

L'armée de l'air espagnole : des avions US
 
Prenons un exemple évident, le Rafale, un avion dit polyvalent supposé bon pour toutes missions. Il s’agit en fait d’un intercepteur bi-sonique adapté à l’assaut et à l’appui au sol. C’est un excellent avion mais fort cher. Pour quelles missions avons-nous besoin d’un intercepteur bi-sonique ? Sommes-nous menacés par des avions de son niveau ? Il ne semble pas et pour faire la police de l’espace aérien français ou même européen, le Mirage 2000 n’était-il pas bien suffisant. D’ailleurs les Suisses sont sur le point de lui préférer le Gripen suédois, mono-réacteur moins performant mais moins cher.
 
Le Rafale est adapté à l’assaut et à l’appui au sol mais pour ces missions, il n’est nul besoin, bien au contraire, d’un avion bi-sonique si cher qu’on n’ose pas le risquer à basse altitude. Il aurait fallu développer un avion rustique, d’une grande autonomie et capable de grande capacité d’emport en armes, en quelque sorte un successeur de l’A-10 Thunderboldt II américain. Le Rafale de Dassault se trouve de plus confronté à l’Eurofighter Typhoon construit par un consortium européen. Les deux avions européens sont en concurrence, à ce jour Dassault n’a vendu aucun appareil hors de France, le Typhoon étant retenu par l’Autriche et l’Arabie Saoudite.
 
On constate de plus que la tendance mondiale, y compris en Europe, est d’acheter, pour des raisons souvent politiques, le matériel américain, en l’occurrence le F-35 encore en développement et dont le prix ne cesse d’augmenter. Parmi les acheteurs du F-35 on trouve même des pays européens développant le Typhoon.
 
Il est donc inutile de vouloir concurrencer un matériel américain fabriqué à des milliers d’exemplaires et qui devient la norme. Mieux vaudrait concevoir à l’échelle de l’Europe des matériels correspondant à nos besoins réels sans chercher à s’aligner sur les Etats Unis. Ajoutons que le Rafale, excellent avion qu’on n’arrive pas à vendre, est une lourde charge dans le budget des armées.

Organiser la défense européenne.
 
Tant qu’il n’y aura pas d’union politique, totale ou partielle, l’organisation d’une défense européenne intégrée n’est pas envisageable. Si l’Otan est dissous il faudra cependant organiser au moindre coût la défense des différentes nations et faire ensemble ce qui peut l’être, en ne comptant plus sur le soutien américain.
 
Chars Leclerc : en vente bientôt sur e-bay ?
 
Certaines tâches communes peuvent être assumées dès maintenant par l ‘ensemble de l’Union si elles ne dépendent pas de choix politiques, pensons en particulier à la police de l’espace aérien européen qui devrait être organisée globalement sans tenir compte des frontières en regroupant les moyens actuellement dispersés. Cette défense serait centralisée aussi bien pour la surveillance et la police du ciel européen que la gestion des moyens qui lui sont affectés, installations de détection, avions. Déjà la police du ciel des Etats Baltes est assurée par les autres pays.
 
Il pourrait en être de même pour la surveillance des frontières maritimes où les marines de l’Union seraient compétentes dans l’ensemble des eaux territoriales. Cela nécessiterait évidemment une unification des procédures et une compatibilité des moyens de détection et de transmissions. L’opération Atalante qui regroupe un certain nombre de bateaux de l’Union pour la lutte contre la piraterie montre que, nécessité faisant loi, les moyens de plusieurs pays européens peuvent être mis en commun efficacement.
 
Airbus A400M
 
L’Europe constitue un marché important pour l’industrie de l’armement. Des exemples comme la concurrence actuelle sur le marché de l’avion multi-rôle qui finalement profite à l’industrie américaine ne devraient pas être. Cela nécessiterait la constitution d’une véritable Agence Européenne de l’Armement capable de définir les spécifications des matériels adaptés aux besoins des armées européennes, de faire des appels d’offre et de passer des marchés. Bien entendu il faudrait qu’elle se dégage de l’influence américaine et choisisse les matériels les mieux adaptés à nos besoins dans une perspective d’efficacité mais aussi d’économie. L’échec de la fusion EADS-BAE, ne va pas dans ce sens.
 
La mise en commun pourrait s’étendre à de nombreux domaines : le transport aérien avec des appareils standardisés, gérés et entretenus en commun même si chacun reste la propriété d’un seul Etat, avec les procédures de location ou de compensations nécessaires, le ravitaillement en vol, les avions de patrouille maritime ou de guet aérien, la guerre des mines.
 
Les satellites de transmission et de surveillance seraient bien entendu mutualisés, chacun ayant accès à leurs moyens selon des procédures à définir. Mais la mise en commun pourrait être étendue à d’autres domaines : achat de munitions et de combustibles et gestion des stocks, formation, entrainement, y compris pour l’utilisation des camps d’entrainement, des simulateurs, des champs de tir et des centres d’essais.
 
Cela nécessiterait bien entendu la mise en place de structures qu’il faudrait définir les plus légères possibles et l’existence d’un état-major opérationnel commun permanent capable de gérer des interventions impliquant plusieurs pays. La dissolution de l’Otan et de ses structures surabondantes permettrait de récupérer, et au-delà, le personnel nécessaire. Ainsi, petit à petit, les militaires des différents pays de l’Union apprendraient à travailler ensemble sans la tutelle américaine.

Les Etats-Unis se désengagent de l’Europe.
 
Comme le dit le général Jean Cot dans le numéro de mai de la RDN "Il est scandaleux que les gouvernements des vingt-sept pays européens et les plus grands dont le nôtre, puissent s’en remettre pour leur défense, au travers de l’Otan, à une puissance extérieure", d’autant que les Etats-Unis sont en train de réorienter leur défense vers l’Asie et le Pacifique, l’Europe n’étant absolument plus prioritaire.
 
L’Otan nous a déjà entrainés dans des interventions où nous n’avions rien à gagner comme la Serbie, l’Irak et encore l’Afghanistan. Quand nous avons jugé bon d’intervenir en Libye nous n’avons pu le faire qu’avec l’aide des Etats Unis. Pour la Syrie même avec l’Otan, nous serions bien incapables d’y agir. Quant au Mali, où nous avons des intérêts à défendre contre la conquête du Nord-Mali par des islamistes radicaux, nous en sommes à rechercher le soutien de pays européens, d’ailleurs pas intéressés, les Américains et l’Otan ne nous suivront pas.
 
Nous avons donc perdu toute indépendance de décision.
 
Pourquoi donc rester dans l’Otan, nous risquons d’être entrainés dans des conflits, où nous et les Européens n’avons rien à gagner notamment en Iran et peut être plus tard en Asie. Irons-nous nous battre pour les archipels de la mer de Chine sous lesquels il y a peut-être du pétrole alors que nous sommes incapables d’assurer la garde de nos Zones économiques exclusives ? Veut-on vraiment financer le bouclier antimissile américain, alors que nous finançons déjà notre dissuasion ?
 

La place de la Russie est maintenant dans le concert européen
 
La dissolution de l’Otan mettrait l’Europe devant ses responsabilités, la nécessité de constituer une défense crédible, avec un niveau plus ou moins grand d’intégration.
 
Il faut commencer par mettre en commun tout ce que l’on peut sans perdre son autonomie de décision puis, peut-être, aller vers des regroupements industriels ou nationaux. Mais tant que l’Otan existera, rien ne se passera et l’Europe restera une vassale des Etats Unis.
 
Dernier argument géopolitique, la Russie considère l’Otan comme une menace, sa dissolution permettrait un rapprochement avec ce pays dont la place est maintenant dans le concert européen tant nous avons d’intérêts, économiques et politiques communs.
 
Article publié dans la Revue Défense nationale, le 2 novembre 2012)

jeudi, 10 janvier 2013

L’Union européenne meurt-elle de sa vassalité avec les Etats-Unis ?

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L’Union européenne meurt-elle de sa vassalité avec les Etats-Unis ?

 
Quelques évidences à rappeler
L'Union européenne s'enferme dans un système de subventions avec des règles de marchés dont les effets sont très violents. Pendant ce temps de très nombreux Etats ont recours à des fonds souverains pour sécuriser leurs entreprises (surtout pour des marchés stratégiques). 
L'Union européenne connait une crise majeure où les populations sont étranglées par l'augmentation croissante des impôts et une récession grandissante. Est-il judicieux, normal, juste que les européens payent pour le développement des entreprises et économies étrangères ? Peut-on encore justifier les attaques (et souvent destructions) dont sont victimes les entreprises européennes, du fait des subventions, par les fonds d'investissements étrangers (souverains ou non) ? L'Europe peut-elle se permettre de fragiliser encore son tissu économique intérieur en étranglant les citoyens et en abandonnant les entreprises?
À l'heure de cette crise sans précédent, on est droit de s'interroger sur les choix économiques de l'Europe. L'industrie est en chute libre, le commerce extérieur des pays européens est plus que défaillant et le marché de l'emploi périclite dangereusement. L'usage de vingt années de marché commun démontre que le système économique (monnaie unique forte, cadre règlementaire européen de la concurrence, aides d'Etats, …) de l'Union avantage clairement le plus fort, ne laissant aux Etats membres restants d'autre choix que de creuser les déficits afin de maximiser le commerce extérieur du plus performant. Le dumping fiscal et social fausse la concurrence et met en péril toute l'économie européenne.

L’autisme entretenu par le discours libéral exporté des Etats-Unis
Face à des enjeux stratégiques de redéfinition de l'économie, le reste du monde s'arme et recourt massivement à un protectionnisme étatique, parfois à peine déguisé. La sécurisation des industries nationales devient une règle, les attaques de concurrents se font de plus en plus agressives et violentes. Pourtant l'Union européenne s'accroche, comme un naufragé à un morceau de plomb, à une politique économique intérieure suicidaire : le libre-échange extrême associé à une concurrence exacerbée et dangereuse pour les entreprises européennes.
En effet l'investissement et l'obtention de subventions sont régis par une logique de solidarité (sans doute justifiée si elle est réfléchie) entre les territoires. Tout cela implique que si les entreprises de l'ouest n'investissent pas dans les régions de l'est, le concurrent (pouvant être étranger à l'Europe!) obtient les subventions européennes s'il investit dans les pays de l'est de l'Europe, pouvant alors bénéficier de dumpings fiscaux et/ou sociaux. L'investisseur étranger bénéficie alors d'un avantage majeur pour attaquer les marchés intérieurs de ses concurrents de l'Europe de l'ouest sans aucune barrière douanière. Sous couvert de solidarité entre Etats membres, les contribuables de l'ouest financent généreusement les subventions et donc les investissements d'entreprises n'ayant aucun lien avec l'Europe. La Chine peut ainsi bénéficier de subventions européennes lorsqu'elle a investi, avec son fond souverain, en Europe de l'est. Il ne faut surtout pas oublier qu'une subvention n'est autre qu'une aide financière en don réel faites à partir des fonds publics, eux-mêmes entretenus par les contribuables européens. Ce système contre-productif est clairement une pure perte financière.
Il serait temps de profiter de cette crise pour faire évoluer les règles des aides d'Etat et autres carcans afin de permettre la construction de véritables politiques industrielles communes. La création d'un fond souverain européen ne peut-elle pas enfin être envisagée comme une solution pertinente et viable ?

samedi, 05 janvier 2013

War of the Worlds

War of the Worlds

 

Jure Vujić's new book War of the Worlds – Euroasianism versus Atlantism ( Zagreb, Croatia )

On Thursday, December 20, 2012, the promotion of Jure Vujić's book War of the Worlds – Euroasianism versus Atlantism (with a foreword by Dr. Robert Steuckers) took place at the Cultural Information Centre in Zagreb. With the author the event was also attended by historian Toni Abramović and H.E. DSc Robert Markaryan, the Ambassador of the Russian Federation. The moderator was Petar Bujas.

To date, Jure Vujić has published the books Fragmenti geopolitičke misli (2004) and Intelektualni terorizam (2007) in Croatian and the book “ LA MODERNITÉ À L'ÉPREUVE DE L'IMAGE L'obsession visuelle de l'occident in French. This is the fourth book of the prominent Croatian political scientist and geopolitical expert.
In 1919, Sir Halford John Mackinder published the book on Democratic Ideals and Reality: A Study in the Politics of Reconstruction presenting the thesis statement about the heartland: the power that managed to control Eastern Europe would also dominate Euroasia, and whoever dominated Euroasia should rule the world.
The book 'War of the Worlds – Euroasianism versus Atlantism' is a true and the first synthesis in the Croatian language that elaborates on the idea of Euroasia or the heartland as the key geostrategic area in which opposed geopolitical and economic interests come to play. The author approached the subject as a topical metapolitical, philosophical and cultural conceptual matrix that represents a real alternative to Atlantism. The rivalry relation between Atlantism and Euroasianism is symbolically represented by the illustration of Behemoth, the mythical monster of the land, and sea monster Leviathan.


The Ambassador of the Russian Federation to the Republic of Croatia, His Excellency Robert Markaryan, conveyed to the audience the thought of Vladimir Putin that 'whoever has no feeling for the disintegration of the Soviet Union has no heart, and whoever believes it will come together again has no brain.' He also mentioned that Vujić's book was pioneer work in this area and a great scientific contribution to the development of Russian-Croatian relations.


Historian Toni Abramović noted that Europe and Russia are parts of one and the same body, the so-called Big Island or Euroasia. Croatia shares more than just its Slavic roots with Russia. Juraj Križanić (17th c.) played an important role in the creation of the  'Memorandum of Peter the Great'. Croatia is geographically and politically situated at the divide between two global interests, and its future should be perceived as identical to the future of Eurasia.

mercredi, 28 novembre 2012

Moskau über Aufstockung von Nato-Militärpotential in Türkei besorgt

Moskau über Aufstockung von Nato-Militärpotential in Türkei besorgt

von Sergei Guneev

Der russische Aussenminister Sergej Lawrow hat in einem Telefongespräch mit Nato-Generalsekretär Anders Fogh Rasmussen die Besorgnis Russlands über die Pläne der Nato zur Aufstockung ihres Militärpotentials in der Türkei bekräftigt. Das geht aus einer Mitteilung des russischen Aussenministeriums hervor.
Das Telefongespräch fand auf Initiative der Nato-Seite statt.
Laut der Mitteilung hat Rasmussen Lawrow über die Situation mit dem an die Nato gestellten Antrag der Türkei informiert, ihr Patriot-Abwehrraketen zur Verfügung zu stellen. 
Der russische Aussenminister äusserte Besorgnis über die geplante Verstärkung des Militärpotentials der Nato in der Region und bekräftigte das Angebot, eine direkte Verbindung zwischen Ankara und Damaskus herzustellen, um unerwünschte Zwischenfälle zu vermeiden.
Die Seiten erörterten auch die Vorbereitung auf die zum 4. Dezember nach Brüssel einberufene Ministersitzung des Russland-Nato-Rates.
Das Nato-Mitglied Türkei hatte die Allianz ersucht, ihr Patriot-Raketenkomplexe für den Schutz der 900 Kilometer langen Grenze zu Syrien zur Verfügung zu stellen. Laut dem Nato-Chef soll der Antrag von Ankara unverzüglich geprüft werden.

© RIA Novosti vom 23.11.2012

vendredi, 23 novembre 2012

Les élites nord-atlantiques jouent leur survie en Syrie

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Richard MELISCH:

Les élites nord-atlantiques jouent leur survie en Syrie

 

Pourquoi la politique extérieure américaine est-elle si agressive: parce que le destin des élites nord-atlantiques se décide au Proche-Orient!

 

Le gouvernement américain et les médias inféodés au système ont falsifié les statistiques du chômage en les évaluant à la baisse, ont minimisé le nombre d’immigrants illégaux et l’ampleur des dettes fédérales américaines; en revanche, ils ont gonflé le chiffre des emplois créés et celui de la production de l’économie américaine. Des manipulations à faire rougir de confusion et de honte toute l’encre noire des imprimeries!

 

Tandis que Paul Craig Roberts, qui fut jadis le porte-paroles du ministre américain des finances, a déploré la chute de l’Amérique dans la pauvreté dans un article paru sur le site “Global Research” et daté du 26 août 2012. Il évoquait les six millions d’Américains obligés de vivre dans les rues ou sous les ponts et de survivre grâce à des bons alimentaires ou des tickets d’essence. Une Amérique où les 40% de pauvres, de gagne-petit, ne possèdent que 0,3% de la richesse nationale, tandis que les gagne-gros, qui sont 20%, en gagnent 84%... L’éditorialiste Pete Papaherakles, pour sa part, rappelle dans “American Free Press” que les géants de Wall Street sont intangibles et qu’ils sont les véritables maîtres de l’Amérique: “Le ministère de la justice a fait savoir, au bout de deux années d’enquête, qu’il ne déposerait pas plainte contre le consortium Goldman Sachs, surnommé le “vampire squid”... Et cela en dépit de l’expertise et des recommandations d’une commission sénatoriale, d’un acte d’accusation de plus de 640 pages et de 56 millions d’autres pages de preuves attestant de l’attitude criminelle de la Banque Goldman Sachs qui a vendu des hypothèques non couvertes pour une valeur totale de 1,3 billions de dollars (soit 1,3 million de millions!!), portant de la sorte préjudice à ses clients. De même, la plainte pour parjure contre le directeur de la Goldman Sachs, Lloyd Blankfein (l’homme qui avait déclaré devant le Sénat qu’il se bornait simplement à parachever l’oeuvre de Dieu...), et contre d’autres responsables de la banque, a été abandonnée... Autre raison expliquant cet “acquittement” avant la lettre: Reid Weingarten, avocat-vedette de la Goldman Sachs, est un ami de longue date de Holden, le ministre de la justice... Quelles conclusions doit-on tirer de tout cela? Que les géants du monde bancaire de la “Federal Reserve”, comme la Goldman Sachs, ne sont pas simplement au-dessus des lois: ils sont la loi!”.

 

La Syrie et l’Iran, dont les forces militaires reposent sur la détention de missiles défensifs russes et sur une armée fidèle au régime en place, se fient à l’alliance russo-chinoise, souvent évoquée. Quand on a demandé à l’historien russe Andreï I. Fourzov, chef du centre de recherches sur la Russie à l’Université de Moscou, ce qu’il pensait de l’hypothèse qui pose comme plausible le déclenchement prochain d’une troisième guerre mondiale, il a répondu, aux questions du site “KP.ru”: “Le régime syrien est de facto le seul régime séculier fort dans tout le monde arabe. Il gène les atlantistes dans leur volonté de créer le “Plus Grand Moyen Orient” (Greater Middle East). Si le régime d’Al-Assad s’effondre, le roquet américain qu’est le Qatar obtiendra un accès aux gisements de gaz qui se trouvent en Syrie et au large des côtes syriennes, ce qui s’avèrera défavorable aux exportations de gaz iranien et affaiblira les Russes de Gazprom... Après la chute de toutes ces pièces de domino qu’ont été la Tunisie, la Libye et l’Egypte, les atlantistes espèrent que viendra très bientôt le tour de la pièce Syrie. C’est justement sur le territoire syrien que se télescopent la “poussée vers l’Est” des atlantistes et la “poussée vers l’ouest” de la Chine, ce qui nous mène à une sorte de croisade pour les matières premières. En Syrie, la Russie entretient une base navale... Malgré l’énorme arsenal matériel et logistique dont dispose la machine de guerre américaine, orchestrée par des constructeurs et des ingénieurs venus de partout et bénéficiant d’une solide expérience, les Américains connaissent aujourd’hui une hypertrophie de leurs forces. Ils ont besoin d’une pause pour reprendre leur souffle. C’est pour cette raison qu’en janvier 2012, le président Obama a annoncé l’avènement d’une nouvelle doctrine militaire: les Etats-Unis ne doivent dorénavant plus s’armer pour mener deux guerres simultanément; s’équiper pour une seule guerre à la fois suffit. Pour s’y préparer, les autorités militaires américaines ont déménagé 60% de leur potentiel militaire dans la zone extrême-orientale du Pacifique, afin de faire éventuellement face à la Chine... Lors du sommet de l’OTAN en mai 2012, les puissances de l’alliance atlantique se sont mises d’accord pour que ni les Etats-Unis ni leurs satellites européens ne se retirent “vraiment” du Proche Orient. Le danger serait trop grand de voir les concurrents chinois et russes s’installer à leur suite en Irak et en Afghanistan...”.

 

Quand on lui demande quels sont ses pronostics, le Prof. Fourzov répond: “Ce qui est en jeu, c’est le sort même des élites nord-atlantistes; il ne s’agit plus pour elles de contrôler le pétrole ou de dominer le Proche Orient, mais, plus simplement, de survivre. Elles n’ont dès lors pas d’autres options que d’aller encore et toujours de l’avant... Après la Syrie et l’Iran, ce sera le tour de la Russie... L’ancien chef du KGB Leonid Jebarchine a très bien su exprimer la situation: ‘L’Occident ne veut qu’une seule chose de la Russie, c’est qu’elle cesse d’exister”. Les préparatifs vont bon train en tous domaines... Nous avons envoyé des unités de notre marine et testé des missiles intercontinentaux. La Russie demeure encore et toujours une puissance atomique et c’est elle, plutôt que la Chine, qui reste l’ennemi principal pour les Américains. Nous vivons pour l’instant une guerre unique qui a commencé par l’attaque de l’OTAN contre la Yougoslavie et, ensuite, cela a été encore l’OTAN qui s’est attaqué récemment à la Syrie. Ensuite, il nous faut forger une alliance politique et militaire capable de dompter l’agresseur et de procurer à la Russie un répit, de façon à ce qu’elle puisse se péparer à la grande guerre du 21ème siècle, au grand hallali que le capitalisme s’apprête à sonner. Vu la mauvaise situation économique dans laquelle se débattent les Etats-Unis, vu l’imminence des élections présidentielles, une attaque de l’OTAN ne pourra avoir lieu qu’entre décembre 2012 et février 2013”.

 

Et, nous, les Européens de l’UE, que pouvons-nous attendre des nabots politiques issus des rangs de nos “élites démocratiques”, qui prêchent ouvertement l’assassinat d’adversaires politiques sur trois continents? Naguère, l’on mettait encore en scène des procès-bidon contre Milosevic ou Saddam Hussein; quant à Kadhafi, quelques années plus tard, il a été purement et simplement occis, avec l’aide de l’OTAN. C’est une preuve irréfutable de bassesse morale et d’hypocrisie incommensurable qu’a donnée la clique dirigeante du “God’s Own Country” quand elle a visionné en “life”, un jour de mai 2012, l’exécution d’un Ben Laden sans défense par un commando spécial américain! Dans quelle bassesse l’Europe eurocratique a-t-elle, elle aussi, chaviré, dès qu’elle a laissé des satrapes la gouverner, des satrapes qui rampent devant la coprocratie américaine...?

 

Richard MELISCH.

(article paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°45/2012; http://www.zurzeit.at/ ).

lundi, 15 octobre 2012

Generalsekretär Rasmussen: Nato bereit zum Schutz der Türkei

Generalsekretär Rasmussen: Nato bereit zum Schutz der Türkei

Mikhail Fomitchew

 
otan-turquie-copie-1.jpgLaut dem Nato-Generalsekretär Anders Fogh Rasmussen ist die Nordatlantikallianz bereit, die Türkei zu schützen, falls dies notwendig sein sollte, und hat eine solche Maßnahme bereits geplant.

„Wir haben die notwendigen Pläne, um die Türkei nötigenfalls zu schützen“, so Rasmussen zu Journalisten vor der Eröffnung eines zweitägigen Treffens der Verteidigungsminister der 28 Nato-Mitgliedsländer.

Der Nato-Rat erörterte bei einem Treffen auf Botschafterebene am 4. Oktober den Beschuss eines Grenzterritoriums der Türkei durch die syrische Armee und verurteilte diesen Zwischenfall entschieden.

Gemäß dem Artikel 4 des Washingtoner Vertrages kann jedes Mitglied der Allianz um Konsultationen bitten, wenn seine territoriale Integrität, politische Unabhängigkeit oder Sicherheit gefährdet werden.

Zuvor hatte ein Gesprächspartner von RIA Novosti im Nato-Hauptquartier versichert, dass die Anwendung des Artikels 5 des Washingtoner Vertrages, der eine Antwort der Nato im Falle einer Aggression gegen eines der Mitgliedsländer dieses militärpolitischen Blocks vorsieht, bei dem Treffen nicht erwähnt worden sei. Der Artikel 5 wurde lediglich einmal - nach den Terroranschlägen auf die USA  am 11. September 2001 - angewendet.

Die Nato und die Uno forderten bei diesem Treffen von Syrien, jegliche Aggressionsakte gegen die Türkei  unverzüglich einzustellen. Die syrischen Behörden drückten ihrerseits den hinterbliebenen Familien der Toten ihr Beileid aus und erklärten, dass sie zu diesem Zwischenfall ermitteln.

Der Konflikt zwischen Syrien und der Türkei spitzte sich zu, nachdem vom syrischen Territorium abgefeuerte Artilleriegeschosse im Distrikt Aksakal im Südosten der Türkei explodiert waren. Im Ergebnis kamen fünf Menschen ums Leben und elf weitere wurden verletzt. Als Antwort auf den Beschuss führte die Türkei Schläge gegen das syrische Gebiet, von wo aus das Feuer geführt wurde.

Nato-Generalsekretär Anders Fogh Rasmussen hatte zuvor mehr als einmal betont, die Allianz habe nicht die Absicht, sich in den syrischen Konflikt einzumischen.
 
 
 
 

L’Atlantisme est un totalitarisme

L’Atlantisme est un totalitarisme

par Guillaume de ROUVILLE

Ex: http://mediabenews.wordpress.com/

L’Atlantisme est l’idéologie dominante des sociétés européennes actuelles, celle qui aura sans doute le plus d’influence sur le devenir de nos destinées communes et pourtant elle est de ces idéologies presque cachées dont on ne parle ouvertement que dans le cercle restreint du monde alternatif. Sont Atlantistes tous les collaborateurs européens de la vision hégémonique des États-Unis et de son idéologie propre qui répond au doux nom d’impérialisme. Autrement dit, l’Atlantisme est l’idéologie des exécutants serviles de l’idéologie impériale américaine ; elle lui est subordonnée et ne tire de sa soumission que les miettes de l’empire tombées à terre après le festin des empereurs.

C’est une idéologie mineure dans l’idéologie majeure. Elle est à la fois  honteuse et conquérante : honteuse parce qu’elle ne joue jamais que les seconds rôles ; conquérante, parce qu’elle emprunte à son maître d’outre-atlantique ses visions hégémoniques délirantes et toutes ses caractéristiques totalitaires. C’est un totalitarisme dans le totalitarisme, une domination de dominés, un impérialisme de serfs et d’esclaves passés maîtres dans l’art de se soumettre. Parler de l’Atlantisme européen c’est parler du projet impérial américain et réciproquement. La seule chose qui les distingue est leur place dans la hiérarchie totalitaire : le premier n’est que l’émanation du second, ne se définit que par lui, se contente de l’imiter et lui obéit en tout ; il n’est, en revanche, son égal en rien.

Chaque continent a ses collaborateurs au service de l’impérialisme américain, chaque zone d’influence de ce dernier a son atlantisme à lui. Nous aurions pu ainsi nous contenter d’évoquer les caractéristiques totalitaires de l’impérialisme américain pour comprendre l’Atlantisme. Mais, la position de subordination que les Européens ont adopté par rapport à leur modèle nord américain est le résultat d’un choix de nos élites auquel nous devons nous confronter directement, plutôt que de rejeter toute forme de responsabilité sur l’oligarchie américaine. Prenons notre part de responsabilité, voyons-nous tels que nous sommes, accomplissons un travail d’introspection nécessaire avant de relever la tête et de retrouver notre dignité. Car, avant de pouvoir se rebeller contre ses maîtres, il faut se percevoir comme esclave et reconnaître la part de consentement et de lâcheté qu’il y a dans cette situation.

D’un totalitarisme l’autre

Les caractéristiques de cette idéologie sont nombreuses et ne revêtent pas toutes la même importance, mais elles dessinent très clairement une idéologie totalitaire ayant ses spécificités propres qui ne se retrouvent pas nécessairement telles quelles dans les totalitarisme érigés en momies d’observation comme le stalinisme ou le nazisme. Il ne nous semble pas utile, en effet, de comparer l’Atlantisme à d’autres totalitarismes passés de mode, car on peut être un totalitarisme à part entière sans partager toutes les caractéristiques de ses modèles les plus achevés, modèles qui appartiennent à une autre époque.

Il y a plusieurs degrés dans le totalitarisme atlantiste ; comme il y a plusieurs manières de le subir. Selon que l’on est un peuple d’Afrique ou du Moyen Orient ou un citoyen allemand ou français appartenant à la classe des favorisés, on ne vit pas de la même manière le totalitarisme atlantiste. S’il est globalement meurtrier, il peut être localement bénéfique pour une minorité. Autrement dit,le totalitarisme atlantiste est à géométrie variable (c’est son caractère ambigu) : tantôt impitoyable et brutal avec les uns, il peut être plus tranquille et pourvoyeur de certains bienfaits pour ceux qui le respectent et courbent l’échine devant sa puissance. Il n’en est pas moins présent partout et ne tolère guère la contestation quand cette dernière revêt un caractère menaçant pour son emprise.

Car, si vous pouvez contester ses caractéristiques mineures et jouir, pour se faire, de la plus totale liberté, vous ne serez pas autorisé à vous attaquer, dans la force des faits[1], à ses fondamentaux : (1) le libéralisme financier et la puissance des banques, (2) la domination du dollar dans les échanges internationaux, (3) les guerres de conquête du complexe militaro-industriel – pour, notamment, l’accaparement des ressources naturelles des pays périphérique à ses valeurs - ; (4) l’hégémonisme total des États-Unis (dans les domaines militaire, économique, culturel) de qui il reçoit ses directives et sa raison d’être ; (5) l’alliance indéfectible avec l’Arabie saoudite (principal État terroriste islamique au monde) ; (6) le soutien sans faille au sionisme.

L’Atlantisme, c’est, en effet, un totalitarisme qui définit une liberté encadrée, bornée aux éléments qui ne la remettent pas en cause ; une liberté sans conséquence ; une liberté sans portée contestataire ; une liberté consumériste et libidinale ; une liberté impuissante. C’est une liberté qui nous adresse ce message : « Esclave, fais ce que tu veux, pour autant que tu me baises les pieds et que tu travailles pour moi ».

Il convient, pour juger du caractère totalitaire ou non de l’Atlantisme, de le prendre en bloc et de voir s’il opprime, s’il tue en masse, à un endroit quelconque de cette planète. Il nous importe peu qu’il puisse être tolérable pour des populations entières (les élites occidentales et leurs protégés), s’il doit se rendre terrible et impitoyable pour le reste de l’humanité, sa mansuétude à l’égard de certains ne le rendant pas meilleur ou moins criminel. Ainsi, son ambiguïté est le résultat de la perception que nous pouvons en avoir lorsque nous nous plaçons dans la peau de l’homme blanc Occidental. Car, si nous essayons un instant de nous mettre à la place des Irakiens, des Libyens, des Syriens (parmi tant d’autres), son essence perd son ambiguïté et se révèle pour ce qu’elle est : une puissance criminelle qui pervertit l’humanité et les valeurs démocratiques.*

Portrait du totalitarisme par lui-même

Voyons, à présent, à grands traits et pour nous donner quelques repères, les principales caractéristiques qui nous permettent de dire que l’Atlantisme est bel et bien un totalitarisme.

1. L’Atlantisme est un impérialisme 

“What should that role be? Benevolent global hegemony. Having defeated the « evil empire, » the United States enjoys strategic and ideological predominance. The first objective of U.S. foreign policy should be to preserve and enhance that predominance by strengthening America’s security, supporting its friends, advancing its interests, and standing up for its principles around the world”. Toward a Neo-Reaganite Foreign Policy, de William Kristol et Robert Kagan, Foreign Affairs, juillet/aout 1996.

C’est une idéologie qui sert un État militarisé (les États-Unis[2]) qui a recours (a) à la terreur - guerres préventives, enlèvement, déportations dans des camps de torture, assassinats extrajudiciaires quotidiens, etc.- (b) à la peur – menace terroriste instrumentalisée auprès de ses populations et (c) aux menaces – de rétorsions économiques contre les États récalcitrants, de guerres tous azimuts, de coups d’États – pour imposer sur la surface du globe sa vision ultra-libérale et pour s’accaparer, par la force létale, les ressources naturelles dont elle pense avoir besoin pour sa domination.

C’est une idéologie au service d’une vision hégémonique de la puissance américaine. Cette dernière revendique son caractère hégémonique : (i) dans le domaine militaire, à travers les think tanks néoconservateurs comme le Project for a New American Century (et sa volonté affichée d’empêcher l’émergence d’une puissance capable de rivaliser avec celle des États-Unis) ou l’American Entreprise Institute et, enfin, à travers sa doctrine militaire officielle intitulée Full Spectrum Dominance ; (ii) dans le domaine économique et financier avec, entre autre, l’imposition du dollar comme monnaie d’échange international ; (iii) dans le domaine culturel, par la mise en place d’un programme de corruption des élites occidentales et internationales à travers, notamment, l’opération Mockingbird[3] dans les années 50 et le National Endowment for Democracy aujourd’hui.

L’Atlantisme, adhère, sans piper mot et comme un bon soldat, à cette projection planétaire d’un ego qui n’est pas le sien. Sans l’Atlantisme la vision hégémonique des États-Unis ne pourrait pas avoir le caractère global qu’elle a aujourd’hui. L’Atlantisme participe pleinement à l’ensemble des crimes commis au nom de cet ego démesuré, soit directement, soit en les justifiant ou en les transfigurant en ‘actions humanitaires’ auprès de ses peuples.

2. L’Atlantisme est un terrorisme 

“À la fin de la guerre froide, une série d’enquêtes judiciaires menées sur de mystérieux actes de terrorisme commis en France contraignit le Premier ministre italien Giulio Andreotti à confirmer l’existence d’une armée secrète en France ainsi que dans d’autres pays d’Europe occidentale membres de l’Organisation du Traité de l’Atlantique Nord (OTAN). Coordonnée par la section des opérations militaires clandestines de l’OTAN, cette armée secrète avait été mise sur pied par l’Agence centrale de renseignement américaine (CIA) et par les services secrets britanniques (MI6 ou SIS) au lendemain de la seconde guerre mondiale afin de lutter contre le communisme en Europe de l’Ouest.[…] Si l’on en croit les sources secondaires aujourd’hui disponibles, les armées secrètes se sont retrouvées impliquées dans toute une série d’actions terroristes et de violations des droits de l’Homme pour lesquelles elles ont accusé les partis de gauche afin de les discréditer aux yeux des électeurs. Ces opérations, qui visaient à répandre un climat de peur parmi les populations, incluaient des attentats à la bombe dans des trains ou sur des marchés (en France), l’usage systématique de la torture sur les opposants au régime (en Turquie), le soutien aux tentatives de coups d’État de l’extrême droite (en Grèce et en Turquie) et le passage à tabac de groupes d’opposants.” Les Armées secrètes de l’OTAN, Daniele Ganser, Éditions Demi- Lune, page 24.

Des attentats des années de plomb en Italie au conflit en Afghanistan, de la guerre du Kosovo à l’agression contre la Libye et de la déstabilisation de la Syrie à la préparation d’une attaque contre l’Iran[4], le terrorisme est l’un des moyens privilégiés par l’Atlantisme pour l’accomplissement de ses objectifs.

Pour s’imposer à l’Europe de l’après-guerre, l’Atlantisme n’a pas hésité à utiliser la méthode terroriste des attentats sous faux drapeaux : en Italie, par exemple, pour décrédibiliser les forces de gauche les Atlantistes ont posé des bombes, dans les années 60 (attentat de la piazza Fontana à Florence), 70 et 80 (attentat de la gare de Bologne) dans des lieux publics avec l’intention de tuer des innocents. Avec ses relais médiatiques adéquats l’Atlantisme a pu faire passer ces meurtres pour l’œuvre de groupuscules d’extrême gauche et justifier, ainsi, la mise à l’écart de la pensée progressive dans ces pays et assurer le triomphe de leur idéologie.

Aujourd’hui, pour déstabiliser les pays qui contestent l’un de ses six piliers, il instrumentalise à grande échelle, sous l’impulsion des États-Unis, le terrorisme islamique (principalement wahhabito-salafiste) avec l’aide de ses alliés que sont l’Arabie saoudite et le Qatar : en l’a vu à l’œuvre, notamment, en Serbie, en Tchétchénie, en Libye et en Syrie. Il utilise le même levier pour créer des poches de terrorisme qui lui permettent (i) de s’enrichir en vendant des armes et des conseils dans le cadre de la guerre contre le terrorisme, (ii) d’étendre le nombre de ses interventions et bases militaires (celles de l’Otan ou seulement des États-Unis, selon les situations) là où il y voit un intérêt géostratégique et (iii) de donner de la substance à la théorie du choc des civilisations, ce qui lui permet d’obtenir de ses populations l’approbation de ses politiques conquérantes.

Le terrorisme est, plus généralement, au cœur de la doctrine et des stratégies militaires des démocraties occidentales et tout particulièrement de celles des États-Unis (Shock and Awe doctrine) qui les mettent en œuvre, notamment, par l’entremise de l’OTAN (pour plus de détails sur ce sujet, nous renvoyons à un article précédent : Dommages Collatéraux : la face cachée d’un terrorisme d’État).

On le voit bien ici, l’Atlantisme n’est jamais que l’exécutant docile, mais consentant, de l’impérialisme américain à qui il emprunte tous les concepts (guerre contre le terrorisme, choc des civilisations) et les stratégies (instrumentalisation du terrorisme islamique). Quand il le faut (pour gérer son opinion publique interne), l’impérialisme américain laisse aux Atlantistes européens jouer les premiers rôle, mais en apparence seulement, comme en Libye où Nicolas Sarkozy et David Cameron ont rivalisé d’initiatives pour se mettre en avant, alors même que toutes les opérations militaires étaient dirigées, en réalité, par l’armée américaine.

3. L’Atlantisme est un racisme 

“Cette logique du ‘Musulman coupable par nature’, parce que Musulman, est à la base de l’institutionnalisation de la torture par les États-Unis qui peuvent ainsi soumettre à des traitements inhumains des milliers de personnes à travers le monde (Guantanamo n’étant que l’un de ces camps de torture dirigés par l’administration américaine) sur la base d’un simple soupçon de ‘terrorisme’, soupçon qui ne fait l’objet d’aucun contrôle judiciaire. La culpabilité d’un Musulman n’a pas besoin d’être prouvée, elle se déduit de son être même. Il s’agit là d’une forme d’essentialisme, qui est lui-même une forme radicale de racisme”. L’esprit du temps ou l’islamophobie radicale.

Pour justifier sa guerre contre le terrorisme et le choc des civilisations l’Atlantisme stigmatise l’Islam et essentialise le Musulman sous des traits peu flatteurs : le Musulman serait par nature un ennemi des Occidentaux, voire du genre humain, des valeurs démocratiques et de la paix. Une fois essentialisé, il est plus facile d’aller le tuer ; les populations occidentales ne voyant dans les souffrances des Musulmans que les justes châtiments dus à des peuples racailles.

L’islamophobie, le nationalisme pro-occidental et le sionisme – qui est une forme de racisme et d’ethnicisme – sont au cœur de la matrice idéologique atlantiste. Le plus étonnant, sans doute, et le plus inquiétant, est que ces éléments là sont partagés par les élites (et pour partie par les peuples occidentaux) par-delà les clivages politiques droite-gauche. On peut venir à l’islamophobie radicale par des voix opposées : le défenseur de la laïcité y viendra au nom de sa haine des religions, le social-démocrate bobo au nom du féminisme ou de la défense de l’homosexualité ; le conservateur au nom de la protection de ses racines menacées ; le sioniste au nom du droit d’un peuple élu à son espace vital, même si cela doit passer par le nettoyage ethnique d’un autre peuple, etc.

4. L’Atlantisme est un anti-humanisme 

“Depuis 2001, l’Europe a failli à défendre les droits de l’homme sur son propre sol, et s’est rendue complice de graves violations du Droit international au nom de la « guerre au terrorisme ». Des citoyens européens ou étrangers ont été enlevés par les services secrets américains sur le sol européen en dehors de toute disposition légale – ce sont les « extraordinary renditions » – et ont été emmenés dans des prisons secrètes de la CIA dont certaines sont situées dans un pays européen”. ReOpen911.info

Il s’appuie sur le dogme de l’infaillibilité démocratique qui veut que les Occidentaux ne puissent mal agir ni commettre de crimes de masse puisqu’ils représenteraient des sociétés démocratiques ouvertes. Ils sont donc libres de bombarder civils et cibles économiques, d’assassiner des citoyens à travers le monde, de déstabiliser des régimes qui ne leur plaisent pas et, en se faisant, ils ne feront jamais qu’exercer leur droit du meilleur, autre appellation, plus aristocratique, du droit du plus fort. L’autre n’est pas le semblable ou le frère humain ; l’autre c’est l’adversaire, l’ennemi, un être non civilisé, à peine un être. On peut allègrement nier son humanité et le traiter comme une variable géopolitique.

Vaincre ne lui suffit pas, il lui faut déshumaniser, torturer, humilier, violer, dégrader, détruire. Les Atlantistes ont collaboré militairement, économiquement, diplomatiquement, médiatiquement à tous les projets inhumains des États-Unis :  pour s’en tenir à des exemples récents, on pourra citer le camp de torture de Guantanamo (devenu depuis camp d’entraînement de djihadistes au service de l’empire), Abu Ghraib en Irak et l’humiliation des prisonniers, la mort filmée de Kadhafi, les exécutions sommaires (par drones notamment), les enlèvements réalisés par la CIA sur le sol européen (extraordinary rendition) et les dommages collatéraux en Afghanistan, etc.

Dans un autre ordre d’idée, on peut également dire que l’Atlantisme est une aliénation consumériste : l’homme n’est pas sacré ; on peut le tuer pour accomplir des objectifs économiques ou géostratégiques. Cette désacralisation de l’homme qui se fait au profit de la marchandise (dont les marques sont, elles, intouchables) est par essence mortifère. Le profit est plus puissant que l’humanité : en ce qui concerne la France, on pourra évoquer les exemples du scandale du sang contaminé et du Mediator du groupe Servier.

 

Hollande et Jules Ferry

Ce n’est pas un hasard si François Hollande a choisi Jules Ferry comme saint-patron laïque de sa présidence normale. Jules Ferry représente exactement l’idéal atlantiste : l’homme qui est capable d’utiliser la démocratie pour servir les banques et le colonialisme tout en donnant le change au peuple avec quelques concessions sociétales de gauche. Il ne portera jamais atteinte aux piliers de la puissance bancaire et aux capitalistes-colons. Il est conquérant pour les puissants, raciste et a une bonne conscience à toute épreuve malgré les crimes de ses amis partis coloniser les rivages lointains.

 

5. L’Atlantisme est un néo-colonialisme

Si le bras armé de l’Atlantisme est l’Otan, son bras économique est constitué du binome FMI-Banque Mondiale. Ces deux institutions (aux mains des États-Unis et des Européens) ont, pour maintenir les pays en voie de développement dans la dépendance des Occidentaux, utilisé les 3 leviers principaux suivants[5] : (i) l’endettement des États et des peuples[6], (ii) la privatisation de leurs économies et des fonctions régaliennes de l’État au profit des grandes entreprises occidentales (les fameux plans d’ajustement structurels) et (iii) l’ouverture forcée de leurs économies au libre échange et à la concurrence mondiale (alors même qu’ils n’y sont pas préparés et se trouvent vis-à-vis des Occidentaux dans une situation certaine de vulnérabilité).

L’Atlantisme commet des crimes économiques de masse en connaissance de cause pour le profit de quelques élus : en se faisant il démontre son allégeance aux principes de l’ultra-libéralisme prôné par la première puissance mondiale qui subordonne les valeurs humaines au fondamentalisme de marché.*

Pour parvenir à s’imposer l’Atlantisme a besoin (i) de subvertir les souverainetés des nations européennes et (ii) de maîtriser les opinions publiques de ces nations. Il lui faut contourner, affaiblir ou pervertir toutes les composantes démocratiques des sociétés de notre continent pour pouvoir triompher des insoumissions, des doutes, des contestations auxquels il pourrait faire face. Autrement dit, l’Atlantisme s’attaque directement et en profondeur aux fondements de la démocratie des peuples d’Europe à qui il est demandé de suivre aveuglément une idéologie cachée (parce qu’elle est honteuse), innommée (parce qu’elle est innommable) et qui les dépouille de leur souveraineté et de leur libre arbitre. 

L’Atlantisme subvertit les souverainetés nationales 

Sans parler du nombre incalculable de gouvernements démocratiquement élus renversés par les États-Unis avec l’aide directe ou l’approbation tacite de leurs alliés Atlantistes depuis 1945 à travers le monde, et pour se limiter à l’Europe, on peut signaler les cas de la Grèce et de la construction européenne.

En Grèce, aux lendemains de la seconde guerre mondiale, les Britanniques et les États-Unis appuient des mouvements d’extrême droite et d’anciens collaborateurs des Nazis afin d’empêcher la prise de pouvoir légale par les mouvements démocratiques progressistes. Les puissances occidentales atlantistes incitent à la guerre civile qui se solde par la victoire de leurs protégés et par près de 200 000 morts.  Après une évolution démocratique vers la fin des années 60, les Américains, avec l’aide des puissances européennes et grâce à leurs réseaux atlantistes, installent au pouvoir, en 1967, une junte militaire qui proclame le règne de l’ordre moral[7] et la fin de l’ouverture démocratique.

La construction européenne menée par Jean Monnet est avant tout un projet atlantiste. Il y avait bien d’autres manières de conduire la réalisation d’une Europe plus unie. L’Atlantisme a fait le choix de l’impuissance européenne pour ne pas contrarier les ambitions hégémoniques des États-Unis. L’Atlantisme a réduit la souveraineté européenne et mis au pas tous les mouvements indépendants, gaullistes, souverainistes, communistes, qu’ils fussent de gauche ou de droite. Il a imposé ses dirigeants à tous les niveaux de la bureaucratie européenne et à la tête des principaux États de l’Europe qui ont imposé des traités inégaux mêmes lorsque ceux-ci ont été rejetés par les peuples (comme en 2005 avec le Traité constitutionnel).

L’Atlantisme européen a réduit à néant, par étapes successives, l’ensemble des axes de souveraineté dont disposaient les États-nations d’Europe (et donc l’espace démocratique des peuples européens).

Il s’est ainsi attaqué à la souveraineté (i) électorale – le principal organe de décisions est non élu : la Commission ; les traités rejetés par les peuples sont néanmoins imposés ; par la mise à l’écart systématique de la démocratie directe au profit de la démocratie représentative – (ii) monétaire – une banque centrale indépendante des peuples ou de leurs élus qui ne prête pas directement aux États membres qui doivent se financer à des taux plus élevés sur les marchés financiers-, (iii) budgétaire – par l’imposition de la règle d’or et le contrôle des budgets nationaux par une commission composée de technocrates non élus – et (iv) militaire – intégration de l’ensemble des pays européens dans l’Otan.

Le dernier axe de souveraineté auquel l’Atlantisme se soit attaqué est celui de la souveraineté militaire française, la France ayant résisté plus longtemps que les autres nations européennes au rouleau compresseur de l’Atlantisme (ce fut la parenthèse gaulliste). Aujourd’hui les Atlantistes proposent la fusion entre le français EADS et l’anglais BAE afin de retirer à la France le contrôle complet de sa chaîne industrielle d’armement. Demain, ils mettront à mal la dissuasion nucléaire française en s’aidant du prétexte écologique anti-nucléaire.

En France, la mise au pas des non-atlantistes s’est achevée sous la présidence Sarkozy. La diplomatie (avec à sa tête Bernard Kouchner), l’armée, les médias (grâce aux efforts de Christine Ockrent) ont été presque entièrement débarrassés de leurs composantes non altantistes. Hollande, en bon chien de garde de l’Atlantisme, parachèvera l’entreprise.

 

La French-American Foundation et les Atlantico-Boys

La French American Foundation est une organisation à but non lucratif qui se consacre depuis 1976 a dénicher en France les hommes et femmes d’influence qui sont susceptibles de porter les couleurs de l’Atlantisme. 

Quelques anciens Young Leaders de la French American Foundation qui nous gouvernent en ce moment : François Hollande (1996), Arnaud Montebourg (2000), Pierre Moscovici (1996). Dans l’opposition, le plus en vue est Jean-Francois Copé.

Une liste non exhaustive des Atlantico-Boys en France (autres que ceux déjà mentionnés) et de leurs relais : Alain Finkielkraut, André Glucksmann, Bernard Kouchner, Bernard-Henri Lévy, Alexandre Adler, Caroline Fourest, Frédéric Encel, Philippe Val, Francois Heisbourg, Mohamed Sifaoui, Jean-Claude Casanova, Pierre Rosanvallon, Alain Minc, Jean Daniel, Pierre-André Taguieff ; la revue Commentaire, la Fondation Saint Simon (dissoute en 1999), le Cercle de l’Oratoire, l’Institut Turgot, l’Atlantis Institute, les revues Le Meilleur des MondesLa Règle du JeuLe Nouvel ObservateurLe MondeLibération, etc.

 

L’Atlantisme est un contrôle et une manipulation des foules

“The conscious and intelligent manipulation of the organized habits and opinions of the masses is an important element in democratic society. Those who manipulate this unseen mechanism of society constitute an invisible government which is the true ruling power of our country”. Propaganda, par Edward Bernays, 1928. 

“L’Atlantisme a pris naissance au départ de la guerre froide. Dans les années 50, un vaste programme nommé Opération Mockingbird, aujourd’hui bien documenté, a été mis en place par la CIA pour infiltrer les médias nationaux et étrangers, et influencer leurs contenus afin que ces derniers se montrent favorables aux intérêts américains. La méthodologie consistait à placer des rapports rédigés à partir de renseignements fournis par la CIA auprès de journalistes conscients ou inconscients de cette manœuvre. Ces informations étaient ensuite relayées par ces journalistes et par les agences de presse.” ; 11-Septembre : de la misère journalistique à la logique de collabos, de Lalo Vespera, ReOpen911.info

Sans la collaboration des médias, il ne serait possible à l’Atlantisme d’imposer ses fondamentaux dans l’esprit de l’opinion publique. Les médias font partie intégrante de la machine de guerre atlantiste. Pour créer le consentement et l’unanimisme dans une société ouverte il convient de maîtriser la production de l’information. Pour cela il est nécessaire de mettre à la tête des principaux médias des serviteurs zélés de l’Atlantisme. En France, dans le secteur privé des médias, seuls quelques grands groupes industriels appartenant à la nébuleuse oligarchique sont aux commandes (des vendeurs d’armes et des industriels qui vivent en partie grâce aux commandes de l’État) : il est naturel chez eux de servir les intérêts du plus fort (la période de la collaboration avec les Nazis est là pour nous le rappeler[8]). Dans le secteur public, le Président de la République ou ses fondés de pouvoirs choisissent leurs courroies de transmission humaines qui insuffleront l’esprit de soumission dans les rouages de la machine à désinformer.

Les pourvoyeurs de l’information commettent des crimes médiatiques lorsqu’ils se font les relais pur et simple de la propagande atlantiste, comme nous l’avons vu lors de la guerre contre la Serbie, de l’invasion de l’Afghanistan et du bombardement de la Libye par l’Otan, de la guerre en Irak, de la déstabilisation de la Syrie (toujours par l’Otan) ou comme nous le constatons à propos du nettoyage ethnique continu dont sont victimes les Palestiniens. Dans chacun de ces cas, les médias cautionnent les explications officielles, leur donnent force et crédibilité, mettent en avant des intentions humanitaires, alors même qu’elles recouvrent des crimes qui devraient soulever notre indignation et aboutir à la mise en cause judiciaire et politique de leurs principaux responsables.

Le tabou créé autour du 11-Septembre est symptomatique de la manière dont s’échafaude l’unanimisme dans une société où la liberté d’expression et la diversité des points de vue sont sensées régner. On démonise les questionneurs, on pourchasse les têtes brûlées, on les rend responsables des pires crimes du siècle dernier, on les ridiculise. On plante dans l’opinion publique des barrières psychologiques infranchissables (à travers, notamment, les accusations d’antisémitisme, de négationnisme et de révisionnisme) pour que la conscience citoyenne n’aille pas voir ce qu’il y a derrière ; on érige des murs dans les esprits pour enfermer leur consentement dans le champ des possibles atlantistes.

Il y a une forme d’intolérance radicale face à la pensée alternative maintenue enfermée dans le Web. Cette intolérance est radicale en ce sens qu’elle stigmatise les déviants et tente d’en faire des parias à mettre au ban de la société et qu’elle parvient à fermer presque totalement l’accès aux grands médias qui comptent à la pensée dissidente lorsqu’il s’agit d’évoquer et de discuter les fondamentaux de l’Atlantisme.

 

La psyché des Européens au service de l’Atlantisme

« Les Européens ne se sont toujours pas libérés psychologiquement de l’état de dépendance dans lequel ils se sont laissé prendre au sortir de la seconde guerre mondiale. Sous le prétexte que les États-Unis sont venus libérer les Européens il y a plus de 60 ans, il faudrait aujourd’hui que ces derniers abandonnent toute volonté d’indépendance, toute aspiration à choisir un modèle de développement alternatif. Il n’y a aucune logique dans une telle attitude. Faudrait-il que les États-Unis soient éternellement soumis à la France au prétexte que c’est grâce aux armes, aux finances et, en définitive, à la flotte de Louis XVI[9] que les Américains ont pu obtenir leur indépendance de l’Angleterre ? Que les Européens soient reconnaissants pour l’implication des États-Unis dans les deux Guerres Mondiales, cela est normal et bienheureux. Comme il est normal, également, que les Américains soient reconnaissant à l’égard de la France pour le soutien que ce pays leur a apporté à un moment décisif de leur histoire[10]. Mais la reconnaissance ne doit pas déboucher sur la dépendance et la vassalité. Est-il sain que les élites européennes se laissent maintenir dans cette dépendance ou ne cherchent tout simplement pas à la contrer ? Le simple respect de soi-même devrait suffire pour que chacun refuse de se considérer comme le sujet d’une autre personne. Accepter de se soumettre est une attitude morale et psychologique pernicieuse et humiliante. Il y a, en effet, une certaine humiliation à se laisser ainsi dicter son mode de vie et à aller chercher en permanence ses références culturelles, politiques, économiques outre-atlantique sans véritablement questionner leurs valeurs et leurs bienfaits. », La Démocratie ambiguë.*

Conclure pour en finir

Il ne s’agit là que d’un florilège de caractéristiques atlantistes fort incomplet, mais dont les principaux traits nous semblent dresser, à eux seuls, le portrait d’un totalitarisme contemporain non moins dangereux et effrayant que ses prédécesseurs. Qu’il s’invente un ennemi réel ou imaginaire, ou un ennemi qui devient réel à force d’être imaginé (et souhaité), on ne peut excuser les crimes de l’Atlantisme sous le prétexte fallacieux que son alter ego dans le mal (l’islamisme radical) en commettrait également ou que son modèle (le totalitarisme impérial de son maître) lui intimerait l’ordre de les perpétrer. L’Atlantisme a besoin du crime de l’autre pour commettre le sien en toute impunité et avec bonne conscience.

Au bout de sa logique, il y a la mort des autres, la guerre généralisée, la misère du plus grand nombre. L’Atlantisme est bel et bien une idéologie génocidaire, au même titre que l’impérialisme américain. Caractérisation exagérée qui décrédibilise celui qui l’utilise diront certains ? Galvaudage d’un crime qu’on ne peut évoquer à la légère diront d’autres ? Posons-nous alors cette simple question :combien de morts et de souffrances à son crédit (comme auteur ou complice) ? La réponse de l’historien est sans détour : des millions de victimes depuis la fin de la seconde guerre mondiale ; des millions depuis la chute du mur de Berlin[11] et un long fleuve d’ombres, de sang et de souffrances qui ne cessent de couler sur tous les continents.

La lutte contre l’Atlantisme est la grande aventure humaine de ce début de siècle pour nous autres Européens. À chacun d’y prendre part selon ses moyens et ses autres croyances. Que l’on croit au ciel ou que l’on n’y croit pas, que l’on soit misérable ou fortuné, d’ici ou d’ailleurs, chacun peut jouer sa partition dans le combat contre la fatalité de l’Atlantisme qui traînera avec elle, si cela est nécessaire à son triomphe, les cadavres de la démocratie et de la paix jusqu’aux charniers du capitalisme. Le combat contre l’Atlantisme est un humanisme.

Guillaume de Rouville


[1] Les paroles des minorités alternatives sont rarement des faits au sens ou ceux-ci pourraient changer le cours des choses.

[2] Les États-Unis ont un budget militaire annuel équivalent à celui des autres pays combinés.

[3] Voir infra.

[4] En septembre 2012, les États-Unis ont retiré de leur liste des entités considérées comme terroristes l’organisation dissidente iranienne Moudjahidin-e Khalk (MEK) qui perpétue régulièrement des attentats sur le sol iranien.

[5] L’Europe tente, notamment, d’imposer cela à travers ces Accords de Partenariat Économique.

[6] Pour les peuples, par le développement incontrôlé de la microfinance.

[7] À ce sujet voir le film de Costa Gavras : Z.

[8]  Voir : “Le Choix de la Défaite”, d’Annie Lacroix-Riz, Éditions Armand Colin, 2010.

[9] C’est grâce à l’appui décisif de la flotte française, dirigée par le Comte de Rochambeau, que les États-Unis remporteront la bataille de Yorktown en 1781, tournant majeur de la Guerre d’Indépendance.

[10] Lors de la Guerre d’Indépendance des États-Unis contre la Grande-Bretagne, entre 1775 et 1783.

[11] À titre d’exemples : le génocide des indigènes au Guatemala après le coup d’État de 1954 ; l’embargo sur l’Irak qui tua des centaines de milliers d’enfants sur une période de 10 ans ; le dépeçage du Congo depuis plus de 15 ans avec l’aide des grands groupes occidentaux qui a, jusqu’à présent, coûté la vie à près de 4 millions de civils).

mercredi, 10 octobre 2012

En Syrie l’OTAN vise le gazoduc

L’art de la guerre : en Syrie l’OTAN vise le gazoduc

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La déclaration de guerre, aujourd’hui, n’est plus d’usage. Pour faire la guerre il faut par contre encore trouver un casus belli. Comme le projectile de mortier qui, parti de Syrie, a fait 5 victimes en Turquie. Ankara a riposté à coups de canons, tandis que le parlement a autorisé le gouvernement Erdogan à effectuer des opérations militaires en Syrie. Un chèque en blanc pour la guerre, que l’Otan est prête à encaisser. Le Conseil atlantique a dénoncé « les actes agressifs du régime syrien à la frontière sud-orientale de l’Otan », prêt à déclencher l’article 5 qui engage à assister avec la force armée le pays membre attaqué. Mais déjà est en acte le « non-article 5 » -introduit pendant la guerre contre la Yougoslavie et appliqué contre l’Afghanistan et la Libye- qui autorise des opérations non prévues par l’article 5, en dehors du territoire de l’Alliance.

Eloquentes sont les images des édifices de Damas et Alep dévastés par de très puissants explosifs : œuvre non pas de simples rebelles, mais de professionnels de la guerre infiltrés. Environ 200 spécialistes des forces d’élite britanniques Sas et Sbs –rapporte le Daily Star-  opèrent depuis des mois en Syrie, avec des unités étasuniennes et françaises. La force de choc est constituée par un ramassis armé de groupes islamistes (jusqu’à hier qualifiés par Washington de terroristes) provenant d’Afghanistan, Bosnie, Tchétchénie, Libye et autres pays. Dans le groupe d’Abou Omar al-Chechen –rapporte l’envoyé du Guardian à Alep- les ordres sont donnés en arabe, mais doivent être traduits en tchétchène, tadjik, turc, en dialecte saoudien, en urdu, français et quelques autres langues. Munis de faux passeports (spécialité de la Cia), les combattants affluent dans les provinces turques d’Adana et du Hatay, frontalières de la Syrie, où la Cia a ouvert des centres de formation militaire. Les armes arrivent surtout par l’Arabie saoudite et le Qatar qui, comme en Libye, fournit aussi des forces spéciales. Le commandement des opérations se trouve à bord de navires Otan dans le port d’Alexandrette. Pendant ce temps,  sur le Mont Cassius, au bord de la Syrie, l’Otan construit une nouvelle base d’espionnage électronique, qui s’ajoute à la base radar de Kisecik et à celle aérienne d’Incirlik. A Istanbul a été ouvert un centre de propagande où des dissidents syriens, formés par le Département d’état Usa, confectionnent les nouvelles et les vidéos qui sont diffusées par des réseaux satellitaires.

La guerre Otan contre la Syrie est donc déjà en acte, avec le motif officiel d’aider le pays à se libérer du régime d’Assad. Comme en Libye, on a fiché un coin dans les fractures internes pour provoquer l’écroulement de l’état, en instrumentalisant la tragédie dans laquelle les populations sont emportées. Le but est le même : Syrie, Iran et Irak ont signé en juillet 2011 un accord pour un gazoduc qui, d’ici 2016, devrait relier le gisement iranien de South Pars, le plus grand du monde, à la Syrie et ainsi à la Méditerranée. La Syrie où a été découvert un autre gros gisement près de Homs, peut devenir un hub de couloirs énergétiques alternatifs à ceux qui traversent la Turquie et à d’autres parcours, contrôlés par les compagnies étasuniennes et européennes. Pour cela on veut la frapper et l’occuper.

C’est clair, en Turquie, pour les 129 députés (un quart) opposés à la guerre et pour les milliers de gens qui ont manifesté avec le slogan « Non à l’intervention impérialiste en Syrie ».

Pour combien  d’Italiens est-ce clair, au parlement et dans le pays ?[1]

 

Edition de mardi 9 octobre 2012 de il manifesto

http://www.ilmanifesto.it/area-abbonati/in-edicola/manip2n1/20121009/manip2pg/14/manip2pz/329867/

Traduit de l’italien par Marie-Ange Patrizio

[1] Même question, évidemment, pour les députés et population français –et britanniques- qui participent par leurs impôts notamment aux opérations clandestines des forces spéciales en Syrie, NdT.

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Historique du grand jeu gazier

Une première lecture de la carte du gaz révèle que celui-ci est localisé dans les régions suivantes, en termes de gisements et d’accès aux zones de consommation :

  1. Russie : Vyborg et Beregvya
  2. Annexé à la Russie : Turkménistan
  3. Environs plus ou moins immédiats de la Russie : Azerbaïdjan et Iran
  4. Pris à la Russie : Géorgie
  5. Méditerranée orientale : Syrie et Liban
  6. Qatar et Égypte.

Carte des gisements de gaz et de pétrole, des infrastructures ainsi que des gazoducs et oléoducs du Moyen-Orient

Moscou s’est hâté de travailler sur deux axes stratégiques : le premier est la mise en place d’un projet sino-russe à long terme s’appuyant sur la croissance économique du Bloc de Shanghai ; le deuxième visant à contrôler les ressources de gaz. C’est ainsi que furent jetées les bases des projets South Stream et Nord Stream, faisant face au projet étasunien Nabucco, soutenu par l’Union européenne, qui visait le gaz de la mer Noire et de l’Azerbaïdjan. S’ensuivit entre ces deux initiatives une course stratégique pour le contrôle de l’Europe et des ressources en gaz.

Pour la Russie :

Le projet Nord Stream relie directement la Russie à l’Allemagne en passant à travers la mer Baltique jusqu’à Weinberg et Sassnitz, sans passer par la Biélorussie.

Le projet South Stream commence en Russie, passe à travers la la mer Noire jusqu’à la Bulgarie et se divise entre la Grèce et le sud de l’Italie d’une part, et la Hongrie et l’Autriche d’autre part.

Pour les États-Unis :

Le projet Nabucco part d’Asie centrale et des environs de la Mer Noire, passe par la Turquie où se situent les infrastructures de stockage, puis parcours la Bulgarie, traverse la Roumanie, la Hongrie, arrive en Autriche et de là se dirige vers la République Tchèque, la Croatie, la Slovénie et l’Italie. Il devait à l’origine passer en Grèce, mais cette idée avait été abandonnée sous la pression turque.

Nabucco était censé concurrencer les projets russes. Initialement prévu pour 2014, il a dû être repoussé à 2017 en raison de difficultés techniques. À partir de là, la bataille du gaz a tourné en faveur du projet russe, mais chacun cherche toujours à étendre son projet à de nouvelles zones.

Cela concerne d’une part le gaz iranien, que les États-Unis voulaient voir venir renforcer le projet Nabucco en rejoignant le point de groupage de Erzurum, en Turquie ; et de l’autre le gaz de la Méditerranée orientale : Syrie, Liban, Israël.

Or en juillet 2011, l’Iran a signé divers accords concernant le transport de son gaz via l’Irak et la Syrie. Par conséquent, c’est désormais la Syrie qui devient le principal centre de stockage et de production, en liaison avec les réserves du Liban. C’est alors un tout nouvel espace géographique, stratégique et énergétique qui s’ouvre, comprenant l’Iran, l’Irak, la Syrie et le Liban. Les entraves que ce projet subit depuis plus d’un an donnent un aperçu du niveau d’intensité de la lutte qui se joue pour le contrôle de la Syrie et du Liban. Elles éclairent du même coup le rôle joué par la France, qui considère la Méditerranée orientale comme sa zone d’influence historique, devant éternellement servir ses intérêts, et où il lui faut rattraper son absence depuis la Seconde Guerre mondiale. En d’autres termes, la France veut jouer un rôle dans le monde du gaz où elle a acquis en quelque sorte une « assurance maladie » en Libye et veut désormais une « assurance-vie » à travers la Syrie et le Liban.

Quant à la Turquie, elle sent qu’elle sera exclue de cette guerre du gaz puisque le projet Nabucco est retardé et qu’elle ne fait partie d’aucun des deux projets South Stream et Nord Stream ; le gaz de la Méditerranée orientale semble lui échapper inexorablement à mesure qu’il s’éloigne de Nabucco.

L’axe Moscou-Berlin

Pour ses deux projets, Moscou a créé la société Gazprom dans les années 1990. L’Allemagne, qui voulait se libérer une fois pour toutes des répercussions de la Seconde Guerre mondiale, se prépara à en être partie prenante ; que ce soit en matière d’installations, de révision du pipeline Nord, ou de lieux de stockage pour la ligne South Stream au sein de sa zone d’influence, particulièrement en Autriche.

La société Gazprom a été fondée avec la collaboration de Hans-Joachim Gornig, un allemand proche de Moscou, ancien vice-président de la compagnie allemande de pétrole et de gaz industriels qui a supervisé la construction du réseau de gazoducs de la RDA. Elle a été dirigée jusqu’en octobre 2011 par Vladimir Kotenev, ancien ambassadeur de Russie en Allemagne.

Gazprom a signé nombre de transactions avec des entreprises allemandes, au premier rang desquelles celles coopérant avec Nord Stream, tels les géants E.ON pour l’énergie et BASF pour les produits chimiques ; avec pour E.ON des clauses garantissant des tarifs préférentiels en cas de hausse des prix, ce qui revient en quelque sorte à une subvention « politique » des entreprises du secteur énergétique allemand par la Russie.

Moscou a profité de la libéralisation des marchés européens du gaz pour les contraindre à déconnecter les réseaux de distribution des installations de production. La page des affrontements entre la Russie et Berlin étant tournée, débuta alors une phase de coopération économique basée sur l’allégement du poids de l’énorme dette pesant sur les épaules de l’Allemagne, celle d’une Europe surendettée par le joug étasunien. Une Allemagne qui considère que l’espace germanique (Allemagne, Autriche, République Tchèque, Suisse) est destiné à devenir le cœur de l’Europe, mais n’a pas à supporter les conséquences du vieillissement de tout un continent, ni celle de la chute d’une autre superpuissance.

Les initiatives allemandes de Gazprom comprennent le joint-venture de Wingas avec Wintershall, une filiale de BASF, qui est le plus grand producteur de pétrole et de gaz d’Allemagne et contrôle 18 % du marché du gaz. Gazprom a donné à ses principaux partenaires allemands des participations inégalées dans ses actifs russes. Ainsi BASF et E.ON contrôlent chacune près d’un quart des champs de gaz Loujno-Rousskoïé qui alimenteront en grande partie Nord Stream ; et ce n’est donc pas une simple coïncidence si l’homologue allemand de Gazprom, appelé « le Gazprom germanique », ira jusqu’à posséder 40 % de la compagnie autrichienne Austrian Centrex Co, spécialisée dans le stockage du gaz et destinée à s’étendre vers Chypre.

Une expansion qui ne plait certainement pas à la Turquie qui a cruellement besoin de sa participation au projet Nabucco. Elle consisterait à stocker, commercialiser, puis transférer 31 puis 40 milliards de m³ de gaz par an ; un projet qui fait qu’Ankara est de plus en plus inféodé aux décisions de Washington et de l’OTAN, d’autant plus que son adhésion à l’Union européenne a été rejetée à plusieurs reprises.

Les liens stratégiques liés au gaz déterminent d’autant plus la politique que Moscou exerce un lobbying sur le Parti social-démocrate allemand en Rhénanie-du-Nord-Westphalie, base industrielle majeure et centre du conglomérat allemand RWE, fournisseur d’électricité et filiale d’E.ON.

Cette influence a été reconnue par Hans-Joseph Fell, responsable des politiques énergétiques chez les Verts. Selon lui quatre sociétés allemandes liées à la Russie jouent un rôle majeur dans la définition de la politique énergétique allemande. Elles s’appuient sur le Comité des relations économiques de l’Europe de l’Est —c’est-à-dire sur des entreprises en contact économique étroit avec la Russie et les pays de l’ex Bloc soviétique—, qui dispose d’un réseau très complexe d’influence sur les ministres et l’opinion publique. Mais en Allemagne, la discrétion reste de mise quant à l’influence grandissante de la Russie, partant du principe qu’il est hautement nécessaire d’améliorer la « sécurité énergétique » de l’Europe.

Il est intéressant de souligner que l’Allemagne considère que la politique de l’Union européenne pour résoudre la crise de l’euro pourrait à terme gêner les investissements germano-russes. Cette raison, parmi d’autres, explique pourquoi elle traine pour sauver l’euro plombé par les dettes européennes, alors même que le bloc germanique pourraient, à lui seul, supporter ces dettes. De plus, à chaque fois que les Européens s’opposent à sa politique vis-à-vis de la Russie, elle affirme que les plans utopiques de l’Europe ne sont pas réalisables et pourraient pousser la Russie à vendre son gaz en Asie, mettant en péril la sécurité énergétique européenne.

Ce mariage des intérêts germano-russes s’est appuyé sur l’héritage de la Guerre froide, qui fait que trois millions de russophones vivent en Allemagne, formant la deuxième plus importante communauté après les Turcs. Poutine était également adepte de l’utilisation du réseau des anciens responsables de la RDA, qui avaient pris soin des intérêts des compagnies russes en Allemagne, sans parler du recrutement d’ex-agents de la Stasi. Par exemple, les directeurs du personnel et des finances de Gazprom Germania, ou encore le directeur des finances du Consortium Nord Stream, Warnig Matthias qui, selon le Wall Street Journal, aurait aidé Poutine à recruter des espions à Dresde lorsqu’il était jeune agent du KGB. Mais il faut le reconnaitre, l’utilisation par la Russie de ses anciennes relations n’a pas été préjudiciable à l’Allemagne, car les intérêts des deux parties ont été servis sans que l’une ne domine l’autre.

Le projet Nord Stream, le lien principal entre la Russie et l’Allemagne, a été inauguré récemment par un pipeline qui a coûté 4,7 milliards d’euros. Bien que ce pipeline relie la Russie et l’Allemagne, la reconnaissance par les Européens qu’un tel projet garantissait leur sécurité énergétique a fait que la France et la Hollande se sont hâtées de déclarer qu’il s’agissait bien là d’un projet « européen ». À cet égard, il est bon de mentionner que M. Lindner, directeur exécutif du Comité allemand pour les relations économiques avec les pays de l’Europe de l’Est a déclaré, sans rire, que c’était bien « un projet européen et non pas allemand, et qu’il n’enfermerait pas l’Allemagne dans une plus grande dépendance vis-à-vis de la Russie ». Une telle déclaration souligne l’inquiétude que suscite l’accroissement de l’influence Russe en l’Allemagne ; il n’en demeure pas moins que le projet Nord Stream est structurellement un plan moscovite et non pas européen.

Les Russes peuvent paralyser la distribution de l’énergie en Pologne dans plusieurs pays comme bon leur semblent, et seront en mesure de vendre le gaz au plus offrant. Toutefois, l’importance de l’Allemagne pour la Russie réside dans le fait qu’elle constitue la plate-forme à partir de laquelle elle va pouvoir développer sa stratégie continentale ; Gazprom Germania détenant des participations dans 25 projets croisés en Grande-Bretagne, Italie, Turquie, Hongrie et d’autres pays. Cela nous amène à dire que Gazprom – après un certain temps – est destinée à devenir l’une des plus importantes entreprises au monde, sinon la plus importante.

Dessiner une nouvelle carte de l’Europe, puis du monde

Les dirigeants de Gazprom ont non seulement développé leur projet, mais ils ont aussi fait en sorte de contrer Nabucco. Ainsi, Gazprom détient 30 % du projet consistant à construire un deuxième pipeline vers l’Europe suivant à peu près le même trajet que Nabucco ce qui est, de l’aveu même de ses partisans, un projet « politique » destiné à montrer sa force en freinant, voire en bloquant le projet Nabucco. D’ailleurs Moscou s’est empressé d’acheter du gaz en Asie centrale et en mer Caspienne dans le but de l’étouffer, et de ridiculiser Washington politiquement, économiquement et stratégiquement par la même occasion.

Gazprom exploite des installations gazières en Autriche, c’est-à-dire dans les environs stratégiques de l’Allemagne, et loue aussi des installations en Grande-Bretagne et en France. Toutefois, ce sont les importantes installations de stockage en Autriche qui serviront à redessiner la carte énergétique de l’Europe, puisqu’elles alimenteront la Slovénie, la Slovaquie, la Croatie, la Hongrie, l’Italie et l’Allemagne. À ces installations, il faut ajouter le centre de stokage de Katrina, que Gazprom construit en coopération avec l’Allemagne, afin de pouvoir exporter le gaz vers les grands centres de consommation de l’Europe de l’ouest.

Gazprom a mis en place une installation commune de stockage avec la Serbie afin de fournir du gaz à la Bosnie-Herzégovine et à la Serbie elle-même. Des études de faisabilité ont été menées sur des modes de stockage similaires en République Tchèque, Roumanie, Belgique, Grande-Bretagne, Slovaquie, Turquie, Grèce et même en France. Gazprom renforce ainsi la position de Moscou, fournisseur de 41 % des approvisionnements gaziers européens. Ceci signifie un changement substantiel dans les relations entre l’Orient et l’Occident à court, moyen et long terme. Cela annonce également un déclin de l’influence états-unienne, par boucliers antimissiles interposés, voyant l’établissement d’une nouvelle organisation internationale, dont le gaz sera le pilier principal. Enfin cela explique l’intensification du combat pour le gaz de la côte Est de la Méditerranée au Proche-Orient.

Nabucco et la Turquie en difficulté

Nabucco devait acheminer du gaz sur 3 900 kilomètres de la Turquie vers l’Autriche et était conçu pour fournir 31 milliards de mètres cubes de gaz naturel par an depuis le Proche-Orient et le bassin caspien vers les marchés européens. L’empressement de la coalition OTAN-États-unis-France à mettre fin aux obstacles qui s’élevaient contre ses intérêts gaziers au Proche-Orient, en particulier en Syrie et au Liban, réside dans le fait qu’il est nécessaire de s’assurer la stabilité et la bienveillance de l’environnement lorsqu’il est question d’infrastructures et d’investissement gaziers. La réponse syrienne fût de signer un contrat pour transférer vers son territoire le gaz iranien en passant par l’Irak. Ainsi, c’est bien sur le gaz syrien et libanais que se focalise la bataille, alimentera t-il Nabucco ou South Stream ?

Le consortium Nabucco est constitué de plusieurs sociétés : allemande (REW), autrichienne (OML), turque (Botas), bulgare (Energy Company Holding), et roumaine (Transgaz). Il y a cinq ans, les coûts initiaux du projet étaient estimées à 11,2 milliards de dollars, mais ils pourraient atteindre 21,4 milliards de dollars d’ici 2017. Ceci soulève de nombreuses questions quant à sa viabilité économique étant donné que Gazprom a pu conclure des contrats avec différentes pays qui devaient alimenter Nabucco, lequel ne pourrait plus compter que sur les excédents du Turkménistan, surtout depuis les tentatives infructueuses de mainmise sur le gaz iranien. C’est l’un des secrets méconnus de la bataille pour l’Iran, qui a franchi la ligne rouge dans son défi aux USA et à l’Europe, en choisissant l’Irak et la Syrie comme trajets de transport d’une partie de son gaz.

Ainsi, le meilleur espoir de Nabucco demeure dans l’approvisionnement en gaz d’Azerbaïdjan et le gisement Shah Deniz, devenu presque la seule source d’approvisionnement d’un projet qui semble avoir échoué avant même d’avoir débuté. C’est ce que révèle l’accélération des signatures de contrats passés par Moscou pour le rachat de sources initialement destinées à Nabucco, d’une part, et les difficultés rencontrées pour imposer des changements géopolitiques en Iran, en Syrie et au Liban d’autre part. Ceci au moment où la Turquie s’empresse de réclamer sa part du projet Nabucco, soit par la signature d’un contrat avec l’Azerbaïdjan pour l’achat de 6 milliards de mètres cubes de gaz en 2017, soit par l’annexion de la Syrie et du Liban avec l’espoir de faire obstacle au transit du pétrole iranien ou de recevoir une part de la richesse gazière libano-syrienne. Apparemment une place dans le nouvel ordre mondial, celui du gaz ou d’autre chose, passe par rendre un certain nombre de service, allant de l’appui militaire jusqu’à l’hébergement du dispositif stratégique de bouclier antimissiles.

Ce qui constitue peut-être la principale menace pour Nabucco, c’est la tentative russe de le faire échouer en négociant des contrats plus avantageux que les siens en faveur de Gazprom pour North Stream et South Stream ; ce qui invaliderait les efforts des États-Unis et de l’Europe, diminuerait leur influence, et bousculerait leur politique énergétique en Iran et/ou en Méditerranée. En outre, Gazprom pourrait devenir l’un des investisseurs ou exploitants majeurs des nouveaux gisements de gaz en Syrie ou au Liban. Ce n’est pas par hasard que le 16 août 2011, le ministère syrien du Pétrole à annoncé la découverte d’un puits de gaz à Qara, près de Homs. Sa capacité de production serait de 400 000 mètres cubes par jour (146 millions de mètres cubes par an), sans même parler du gaz présent dans la Méditerranée.

Les projets Nord Stream et South Stream ont donc réduit l’influence politique étasunienne, qui semble désormais à la traîne. Les signes d’hostilité entre les États d’Europe centrale et la Russie se sont atténués ; mais la Pologne et les États-Unis ne semblent pas disposés à renoncer. En effet, fin octobre 2011, ils ont annoncé le changement de leur politique énergétique suite à la découverte de gisements de charbon européens qui devraient diminuer la dépendance vis-à-vis de la Russie et du Proche-Orient. Cela semble être un objectif ambitieux mais à long terme, en raison des nombreuses procédures nécessaires avant commercialisation ; ce charbon correspondant à des roches sédimentaires trouvées à des milliers de mètres sous terre et nécessitant des techniques de fracturation hydraulique sous haute pression pour libérer le gaz, sans compter les risques environnementaux.

Participation de la Chine

La coopération sino-russe dans le domaine énergétique est le moteur du partenariat stratégique entre les deux géants. Il s’agit, selon les experts, de la « base » de leur double véto réitéré en faveur de la Syrie.

Cette coopération ne concerne pas seulement l’approvisionnement de la Chine à des conditions préférentielles. La Chine est amenée à s’impliquer directement dans la distribution du gaz via l’acquisition d’actifs et d’installations, en plus d’un projet de contrôle conjoint des réseaux de distribution. Parallèlement, Moscou affiche sa souplesse concernant le prix du gaz, sous réserve d’être autorisé à accéder au très profitable marché intérieur chinois. Il a été convenu, par conséquent, que les experts russes et chinois travailleraient ensemble dans les domaines suivants : « La coordination des stratégies énergétiques, la prévision et la prospection, le développement des marchés, l’efficacité énergétique, et les sources d’énergie alternative ».

D’autres intérêts stratégiques communs concernent les risques encourus face au projet du « bouclier antimissiles » US. Non seulement Washington a impliqué le Japon et la Corée du Sud mais, début septembre 2011, l’Inde a aussi été invitée à en devenir partenaire. En conséquence, les préoccupations des deux pays se croisent au moment où Washington relance sa stratégie en Asie centrale, c’est-à-dire, sur la Route de la soie. Cette stratégie est la même que celle lancée par George Bush (projet de Grande Asie centrale) pour y faire reculer l’influence de la Russie et de la Chine en collaboration avec la Turquie, résoudre la situation en Afghanistan d’ici 2014, et imposer la force militaire de l’OTAN dans toute la région. L’Ouzbékistan a déjà laissé entendre qu’il pourrait accueillir l’OTAN, et Vladimir Poutine a estimé que ce qui pourrait déjouer l’intrusion occidentale et empêcher les USA de porter atteinte à la Russie serait l’expansion de l’espace Russie-Kazakhtan-Biélorussie en coopération avec Pékin.

Cet aperçu des mécanismes de la lutte internationale actuelle permet de se faire une idée du processus de formation du nouvel ordre international, fondé sur la lutte pour la suprématie militaire et dont la clé de voute est l’énergie, et en premier lieu le gaz.

Le gaz de la Syrie

Quand Israël a entrepris l’extraction de pétrole et de gaz à partir de 2009, il était clair que le bassin Méditerranéen était entré dans le jeu et que, soit la Syrie serait attaquée, soit toute la région pourrait bénéficier de la paix, puisque le 21ème siècle est supposé être celui de l’énergie propre.

Selon le Washington Institute for Near East Policy (WINEP, le think tank de l’AIPAC), le bassin méditerranéen renferme les plus grandes réserves de gaz et c’est en Syrie qu’il y aurait les plus importantes. Ce même institut a aussi émis l’hypothèse que la bataille entre la Turquie et Chypre allait s’intensifier du fait de l’incapacité Turque à assumer la perte du projet Nabucco (malgré le contrat signé avec Moscou en décembre 2011 pour le transport d’une partie du gaz de South Stream via la Turquie).

La révélation du secret du gaz syrien fait prendre conscience de l’énormité de l’enjeu à son sujet. Qui contrôle la Syrie pourrait contrôler le Proche-Orient. Et à partir de la Syrie, porte de l’Asie, il détiendra « la clé de la Maison Russie », comme l’affirmait la Tsarine Catherine II, ainsi que celle de la Chine, via la Route de la soie. Ainsi, il serait en capacité de dominer le monde, car ce siècle est le Siècle du Gaz.

C’est pour cette raison que les signataires de l’accord de Damas, permettant au gaz iranien de passer à travers l’Irak et d’accéder à la Méditerranée, ouvrant un nouvel espace géopolitique et coupant la ligne de vie de Nabucco, avaient déclaré « La Syrie est la clé de la nouvelle ère ».

Source : Mecanoblog

vendredi, 01 juin 2012

Guerre médiatique de l’OTAN

Guerre médiatique de l’OTAN: le gouvernement syrien blâmé pour des atrocités commises par les escadrons de la mort soutenus par les Etats-Unis

Ex: http://mediabenews.wordpress.com/


SYRIA-POLITICS-UNREST

Alors que les informations fuitent depuis Houla en Syrie, ville voisine de Homs et de la frontière libano-syrienne, il devient de plus en plus clair que le gouvernement syrien n’est pas responsable des tirs d’artillerie ayant tué quelques 32 enfants et leurs parents, comme cela est périodiquement affirmé puis nié par les médias occidentaux et même les Natons-Unies elles-mêmes. Il apparaît que ce massacre serait l’œuvre d’escadrons de la mort ayant agit directement en contact avec les victimes, ces escadrons accusés par les “activistes” anti-gouvernement d’être des “sbires du régime” ou des “milices” et par le gouvernement syrien d’être des terroristes d’Al Qaïda connectés avec l’ingérence étrangère.

Alors que les assassinats se déroulaient, les représentants des Etats-Unis, de la Grande-Bretagne et de la France, se préparaient déjà à accuser, à condamner et à punir le gouverneent syrien, appelant pour une réunion immédiate du conseil de sécurité de l’ONU ainsi que laisser libre-court pour les “Amis de la Syrie” à invoquer l’augmentation des livraisons d’armes et de l’aide aux militants. Ceci représentait une hâte politiquement motivée, une opportunité créée ou pas, pour que l’occident pousse son  agenda de longue date à changer le régime syrien. Pendant la même période, l’OTAN a massacré une famille de 8 personnes en Afghanistan, incluant 6 enfants, donc sûrement si l’humanitaire et la justice étaient vraiment les préoccupations motivant ces intérêts occidentaux, alors le cas de l’Afghanistan aurait tout aussi été mis en question avec celui de Houla. Ce ne fut malheureusement pas le cas.

Ce fut aussi durant cette hâte à mettre les feux de la rampe sur l’évènement et à rendre une effet maximum à cette violence, que la BBC a publié une fausse image de l’endroit, qui en fait était la photo d’un massacre prise en Irak, vieille de plusieurs années, disant que cette “preuve”, comme toutes celles fournies, venait “d’activistes pro-démocratie”, ceci une fois de plus mettant en doute la véracité même des affirmations provenant de ces sources douteuss et constantes depuis plus d’un an.

Il est clair que même après un crime typique qui serait commis dans une nation occidentale, la police ne pourrait pas déduire de la scène du crime des conclusions si rapidement, à moins que la police ne soit biaisée et connaisse déjà tous les détails du crime parce qu’elle aurait été elle-même personnellement impliquée dans celui-ci.

Il est clair que quoi qu’il se soit passé à Houla est utilisé de manière désespérée comme point de levier pour faire avancer la prochaine étape de l’agenda insidieux occidental, décrit avec beaucoup de détails dans l’article de Seymour Hersh du New Yorker en 2007 et intitulé: “La redirection”, où il exposa un complot américano-israélo-saoudien qui consiste à armer des extrémistes sadiques et sectaires et de les lâcher contre la Syrie. En fait, dans l’article de Hersh, il interviewait plusieurs sources qui craignaient que ce type de violence ne soit inéluctable, c’est ce que nous voyons se dérouler à Houla.

Alors que certains trouvent difficile de croire que l’occident pourrait mettre en scène, promouvoir et / ou exploiter ce type de violence telle que celle vue à Houla, nous devons nous demander: “Y a t’il des précédents historiques qui pourraient nous donner une idée ou des points de repère sur les ‘si’ et les ‘pourquoi’ “. En de fait, il y en a.

Nous devons nous rappeler de l’été 1939, lorsque les nazis voulant désespérément se faire passer pour de pauvres victimes et jusitifer des actes d’agression militaire, ont mit en scène un incident frontalier dont l’intention était de faussement impliquer la Pologne voisine. Le résultat fut que des troupes allemandes attaquèrent une station radiophonique allemande, et ceci mena à l’invasion de la Pologne par l’Allemagne nazie. De manière sufisamment ironique, c’est le musée américain de la commémoration de l’holocauste qui nous donne non seulement un compte-rendu de ces évènements, mais aussi une leçon sur “comment tromper le public”:

“Durant toute la seconde guerre mondiale, les propagandistes nazis ont déguisé l’agression militaire destinée à la conquête territoriale en acte d’auto-défense nécessaires et justes. Ils ont toujours dépeint l’Allemagne comme une victime ou victime potentielle d’agresseurs étrangers et étant une nation pacifique, celle-ci a dû prendre les armes pour défendre sa population ou défendre la civilisation européenne contre le communisme. Les buts de guerre professés à chaque étape des hostilités ont presque toujours déguisé les intentions réelles des nazis pour leur expansion territoriale et leur guerre raciste. Ceci fut une propagande de la tromperie, faite pour leurrer ou diriger dans une direction le peuple allemand, les pays occupés par l’Allemagne et les pays neutres.

Durant l’été 1939, alors qu’Hitler et ses aides finalisaient les plans de l’invasion de la Pologne, l’opinion publique allemande était tendue et craintive. Les Allemands étaient encouragés par le gain énorme de territoires et l’extension des frontières de l’Allemagne en Autriche et en Tchécoslovaquie sans avoir eu à tirer un seul coup de feu, mais elle ne participait pas aux manifestations de rues appelant à la guerre, comme la génération de 1914 l’avait fait.

Avant l’attaque de l’Allemagne sur la Pologne le 1er Septembre 1939, le régime nazi lança une campagne médiatique agressive pour construire un soutien populaire pour une guerre que bien peu d’Allemands désiraient. Pour présenter l’invasion comme un acte moralement justifié, une action de self-defense, la presse allemande relaya des informations sur les “atrocités polonaises”, se référant à des accusations réelles ou inventées sur la discrimination et la violence contre la minorité allemande en Pologne. Déplorant l’attitude “belliqueuse” et le “chauvinisme” polonais, la presse attaqua également la Grande-Bretagne qui encourageait à la guerre en promettant de défendre la Pologne en cas d’invasion par l’Allemagne.

Le régime nazi mit même en scène un incident frontalier créé pour faire croire que la Pologne avait de fait déclanché les hostilités. Le 31 Août 1939, des soldats de la SS se déguisèrent en soldats polonais et “attaquèrent” une station radiophonique allemande à Gleiwitz (Gliwice). Le lendemain, Hitler annonçait à la nation allemande et au monde, qu’il avait pris la décision d’envoyer des troupes allemandes en Pologne en réponse à ”l’incursion” polonaise dans le Reich. Le bureau de presse du parti nazi donna pour instruction à la presse allemande de ne pas utiliser le mot “guerre”. Il devait rendre compte simplement du fait que les troupes allemandes avaient repoussé les attaques polonaises, une tactique mise en place pour victimiser l’Allemagne dans le processus. La responsabilité de déclarer la guerre serait laissé aux Britanniques et aux Français.”

Pour l’occident qui avait juré après les pertes catastrophiques de la seconde guerre mondiale que des actes d’agression étrangère à une nation ne serait plus jamais tolérés, nous avons autorisés les pouvoirs de Wall Street et de la City de Londres et ceux dans leur orbite, de continuer leurs conquêtes militaires pas à pas, de l’Afghanistan à l’Irak en passant pas la Libye, la Somalie, le Yémen et maintenant la Syrie. Nous sommes au bord d’une guerre avec l’Iran et tout comme l’Allemagne nazie, ceux qui nous y mènent utilisent une gamme de menaces, de terreur, de promesses et d’excuses intenables pour une fois de plus franchir les frontières d’une autre nation souveraine, de faire la guerre à un peuple et de lui imposer nos systèmes et nos institutions que nous affirmons être “supérieurs”.

Depuis les années 1990, d’après le général américain Wesley Clark, l’occident à rechercher la conquête du Moyen-Orient par l’installation de régimes clients. Depuis 2002, l’occident à chercher à renverser le gouvernement syrien. Clairement, depuis 2007, l’occident conspire contre la Syrie. Des années avant que le terme “printemps arabe” ne fut proféré par les médias occidentaux, la violence qui ravage maintenant la Syrie fut planifiée, avec des militant étant entrainés, financés, armés et mis en place. Le désir de l’occident d’intervenir en Syrie n’est certainement pas pour sauver le peuple syrien de la violence créée par l’occident lui-même, mais d’utiliser cette violence pour s’étendre, tout comme Hitler le fît, par le biais de la conquête militaire.

Si l’ONU permet de manière tragique aux forces du fascisme mondialiste, pauvrement déguisé en “défenseur de la civilisation”, de prévaloir en Syrie, ne vous leurrez pas pour croire, comme le fit le peuple allemand en son temps, qu’il y ait quoi que ce soit de justifiable dans cet état de fait. Houla, tout comme Gleiwitz, est une mauvaise excuse et non pas un impératif moral. L’Allemagne a fini par payer très cher ses transgressions continuelles contre l’humanité, cela a coûté des millions de morts, des décennies d’opportunités perdues, divisés et conquis après avoir été battus et porter la charge d’un lourd passé pour toujours. Quelle récompense osons-nous attendre aujourd’hui de notre ignorance et de notre apathie ?

Tony Cartalucci

Url de l’article:

http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=31081

~ Traduit de l’anglais par Résistance 71 ~

mercredi, 30 mai 2012

Compte-à-rebours vers la guerre : la doctrine Blair contre la doctrine Poutine

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Compte-à-rebours vers la guerre : la doctrine Blair contre la doctrine Poutine

Ex: http://mbm.hautetfort.com/

28 mai 2012 (Nouvelle Solidarité) – Les discussions qui ont suivi les sommets du G-8 et de l’OTAN ont été dominées la semaine dernière par le retour sur le devant de la scène de l’ancien Premier ministre britannique Tony Blair en tant que conseiller pour la réélection de Barack Obama à la Présidence des Etats-Unis.

Ce dévouement de sa part, of course, n’est pas gratuit. Blair et son équipe de spin-doctors, qui avaient été la véritable cheville ouvrière de la guerre en Irak (il avait fourni à Georges W. Bush le fameux mémorandum « prouvant » l’existence sur les armes nucléaires irakiennes, qui se sont révélées par la suite être inexistantes), entendent profiter d’une victoire d’Obama en novembre prochain pour reprendre les rênes du pouvoir en Angleterre.

Comme l’avait rapporté le Guardian de Londres en février 2009, Obama avait présenté Blair comme son « premier ami officiel » lors d’un petit déjeuner de prière à la Maison-Blanche, un mois à peine après son inauguration.

Le nouveau binôme espère diriger le monde (ou ce qui en restera), en s’appuyant sur la doctrine qu’avait annoncée Blair lors d’une conférence à Chicago en 1999 : sous prétexte d’« établir et de répandre des valeurs qui nous sont chères », inaugurer une nouvelle forme de « coopération internationale » en liquidant le Traité de Westphalie de 1648 (et bien sûr en réformant la Charte de l’ONU), c’est-à-dire en sacrifiant l’Etat-nation souverain pour faire place à un nouvel empire.

Comme nous l’avons rapporté sur ce site, avec la création de l’Atrocities Prevention Board (APB — Conseil de prévention des atrocités) Barack Obama a décrété le 23 mars 2012 que les violations des droits de l’homme, où que ce soit dans le monde et tels que son Administration les conçoit, portent directement atteinte… à la sécurité nationale des Etats-Unis !

Un nouvel ajout à la doctrine Blair (la version 2.0) est que l’OTAN doit être capable d’aller en guerre sans consulter les législatures nationales, car il « faudrait trop de temps » pour obtenir leur permission. C’est en effet ce que vient de demander le général Sir David Richards, le chef d’état-major britannique lors d’un discours au Centre pour les études stratégiques et internationales (CSIS) le 23 mai à Washington, une proposition qu’il a qualifiée de défense intelligente.

Ceci correspond également à ce que le secrétaire américain à la Défense Leon Panetta avait déclaré au comité responsable du Sénat plus tôt cette année, au nom de l’administration Obama : pour aller en Libye, nous n’avions besoin que de la permission de l’OTAN. Le respect de la Constitution, qui exige que nous obtenions l’autorisation préalable du Congrès n’est pas très pratique. Nous vous tiendrons informés à notre retour.

Or, comme le résumait l’économiste américain Lyndon LaRouche récemment, la doctrine Blair est l’exacte antithèse de la doctrine défendue par Vladimir Poutine comme base de la politique étrangère russe, qui consiste à défendre le système de droit international hérité du Traité de Westphalie, en réelle coopération avec la Chine, l’Inde, et plus récemment le Pakistan.

Dans son article du 27 février 2012 dans Moskovskiye Novosti, Poutine a réitéré sa position selon laquelle « les principes majeurs nécessaires à toute civilisation incluent la sécurité pour tous les Etats, le rejet de tout usage excessif de la force, et le respect inconditionnel des fondements du droit international. » Il est clair qu’à chaque fois que ces principes ont été négligés, explique-t-il, « les relations internationales ont été déstabilisées ».

Le 17 mai, à la veille du sommet du G-8 et du sommet de l’OTAN à Chicago, le Premier ministre russe Dimitri Medvedev, lors de son discours au 2e Forum juridique international de St.Petersbourg, discours posté par la suite sur le site du gouvernement de la Fédération russe, a lui aussi, tenu à rappeler la doctrine russe :

« Il est souvent dit que le système de droit international est obsolète. Je l’ai moi-même entendu à maintes reprises dans la pratique politique. Ses règles ne permettent pas toujours de lutter efficacement contre de nouvelles menaces. C’est vrai en partie, parce que tout devient obsolète un jour ou l’autre — y compris le droit. Mais le besoin vraiment nécessaire et urgent de moderniser le droit international ne veut pas dire abandonner ses fondements, ce qui me semble absolument évident.

Particulièrement dangereux, à mon avis, sont les actions unilatérales qui vont à l’encontre des principes fondamentaux de la Charte des Nations unies, qui est la principale plate-forme de la communauté internationale pour résoudre ses problèmes. Nous n’avons pas d’autre plate-forme, même si cela déplaît à quelqu’un. Il n’y en a simplement pas d’autre ! Et nous comprenons que la Charte des Nations Unies demande surtout le respect de la prééminence du droit et de la souveraineté des Etats.

Une autre remarque, qui me semble importante au regard de mon expérience et de ma pratique politiques — le principe de la souveraineté de l’Etat. Il ne doit pas être affaibli, même si ce serait commode pour la réalisation de certains objectifs politiques immédiats, y compris le but de gagner une élection. Se donner cela comme objectif revient simplement à mettre l’ordre mondial en danger.

Et les exemples d’attaques sur le principe de la souveraineté ont été nombreux au cours des dernières années. Parmi elles, les opérations militaires contre des gouvernements étrangers contournant le cadre des Nations Unies, les déclarations sur la perte de légitimité de tel ou tel régime politique par des gouvernements étrangers et non pas par le peuple du pays, l’introduction de toutes sortes de sanctions collectives contournant les institutions internationales.

Tout cela n’améliore pas la situation dans le monde ; les opérations militaires précipitées dans d’autres pays finissent généralement par provoquer l’arrivée de radicaux au pouvoir. De telles actions, qui portent atteinte à la souveraineté des États, peuvent entraîner facilement de véritables guerres régionales, et même, sans vouloir faire peur à quiconque, à l’utilisation des armes nucléaires. Chacun devrait garder cela en mémoire, surtout lors de réflexions sur la question de la souveraineté de l’Etat »

Alors que le monde transatlantique vacille au bord d’une désintégration spectaculaire de son système financier, il faut bien rappeler ici que les nuées de l’orage financier portent avec elles le risque immédiat d’une guerre globale.

La tentation permanente des élites géopolitiques (fr)anglo-américaines de renoncer à l’outil de la diplomatie pour solutionner nos problèmes avec l’Iran et la Syrie avec des sanctions, des frappes et des guerres humanitaires, est donc de très mauvaise augure.

NOTA BENE : LA LORGNETTE DE LA 3ème GUERRE MONDIALE.pdf

dimanche, 20 mai 2012

Hollande et l’Otan, la continuité dans le changement

 

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Hollande et l’Otan, la continuité dans le changement

Léon Camus

Ex: http://mbm.hautetfort.com/

Le nouveau président français participera au sommet du G8 à Camp David les 18 et 19 mai puis à celui de l’Otan à Chicago, les 20 et 21. Un programme chargé mais qui devrait confirmer ce que chacun subodore : Hollande incarnera – avec brio on l’espère – « le Changement c’est maintenant », mais dans la continuité. L’annonce claironnée d’un retrait définitif d’Afghanistan devrait être en conséquence l’illustration magistrale de cette maxime… Car, quoiqu’il en dise, M. Hollande ne retirera pas le contingent français d’Afghanistan d’ici la fin de l’année, pour la bonne et simple raison qu’il ne le pourra pas. D’abord parce que cela est matériellement impossible, parce qu’a priori la préparation logistique d’une telle évacuation ne s’improvise pas 1 . Il faut affréter les avions gros porteurs que la France ne possède pas et pour ce faire « budgéter » l’évacuation. Qui plus est les Français ne seront pas autorisés à n’en faire qu’à leur tête : ils ne sont pas seuls, notamment ce ne sont pas eux qui décident en fonction de leurs humeurs ou de leurs caprices… dans le domaine de la guerre la réalité n’est pas escamotable derrière les pétitions de principe idéologiques, celles que l’échec sanctionne à tout coup !

Les forces hexagonales – plus ou moins 3500 hommes – occupent en effet une place déterminée dans un dispositif, lequel serait forcément remis en question dans sa totalité si un élément venait à en être retiré sans une soigneuse et longue planification préalable. De ce seul point de vue la France ne peut pas partir sauf à mettre en difficulté l’ensemble du dispositif de la Force internationale d’assistance et de sécurité - FIAS – conduite par l’Otan, sous commandement américain et sous couvert d’un mandat des Nations Unies. Une question cruciale d’ailleurs se pose, celle du nécessaire transfert des « responsabilités de sécurité » aux Afghans sans laquelle toute cette misérable guerre eut été totalement inutile. Or, dans la région de Surobi, la Kapisa, zone opérationnelle affectée à la France, représente un terrain particulièrement difficile à tenir, en raison notamment de sa grande complexité ethnique et tribale 2. Logiquement, ce transfert aurait dû avoir lieu dès l’été 2011, mais les Américains s’y sont catégoriquement opposés… et sans ménagement. En principe la décision en revient au gouvernement fantoche afghan, mais en principe seulement. Il a suffi que l’armée américaine rajoute une condition sine qua non - la présence d’un axe routier national dans le secteur, ici absent - pour décider que le retrait français n’était ni opportun ni faisable. Rompez !

Un retrait ni stratégiquement opportun ni techniquement faisable

Dans une telle occurrence, la France manquerait doublement à ses engagements et aux devoirs qu’elle s’est à elle-même imposée en tant qu’État membre de l’Organisation des Nations unies, et en tant que signataire du Pacte de l’Alliance Atlantique, traité fondateur de l’Organisation du même nom. Ce faisant Paris sortirait de la légalité et de la Communauté internationale 3. Est-ce seulement envisageable ?

Reste que nos politiques ne sont pas à ça près. Toutes les foucades et les coups de canif dans les traités sont toujours possibles. Au demeurant c’est avec beaucoup d’inconséquence que M. Hollande a pratiqué ici, à l’instar de son prédécesseur, la technique de l’effet d’annonce, se réservant d’éventuellement corriger le tir une fois installé dans les ors de la République. Cela augure pourtant mal de la suite des événements en ce que cela ouvre le bal quinquennal sur une duperie. Doit-on dire aussi que cela n’a pas été lancé en l’air, au cours de la campagne des présidentielles, par simple légèreté ?

M. Hollande est entouré de conseillers qui savent exactement de quoi il retourne. Le contraire n’est d’ailleurs pas imaginable et serait au final particulièrement inquiétant. Il est surprenant d’ailleurs qu’au cours de la campagne le candidat sortant et futur perdant n’ait pas relevé avec toute la vigueur nécessaire l’irréalisme du projet et de l’intention, lui qui en connaissait les ressorts cachés aux yeux de l’opinion ! Il est vrai que les questions extérieures, les crises en cours au Proche-Orient et en Asie centrale, les profondes mutations qui affectent de précaires équilibres internationaux, n’ont guère été évoquées tout au long d’une campagne électorale d’une consternante platitude… à l’image des deux compères qui se sont affrontés sans jamais franchir les limites de la bienséance consensuelle et surtout sans jamais aborder les questions de fond, celles qui engagent l’avenir d’une Nation ! De ce point de vue personne n’a noté le peu de distance séparant l’un de l’autre candidat, complices dans la sauvegarde d’un système fondé sur le mensonge par omission. Le silence n’est-il pas la meilleur façon de masquer les choses qui ne ce cas « n’existent pas » ?

Ni M. Hollande, ni M. Obama ne perdront la face

Inutile de dire que l’élection de M. Hollande a suscité de vives inquiétudes à Bruxelles siège de l’Otan. Vu de loin les socialistes français apparaissent soit comme des sauveurs (pour les Grecs par exemple ce qui est du plus haut comique), soit comme des croquemitaines. Il est vrai que les « riches » taxés à 75% au-delà d’un revenu de 1 million d’€ l’an, revêt une dimension surréaliste aux yeux du premier libéral (progressiste) américain venu pour lequel un imposition à 30% constitue une limite indépassable voire intransgressible.

Le Secrétaire américain adjoint à la Défense, à l’Europe et l’Otan, James Townsend a ainsi déclaré à propos des velléités françaises de départ précipité d’Afghanistan « J’ai parlé avec leur ministre de la défense Le Drian [il s’agit du shadow minister, la personnalité pressentie pour occuper le poste]. Ils se trouvent dans une situation avec laquelle beaucoup d’hommes politiques sont confrontés suite à une élection. Ils vont devoir gouverner. Ils vont se retrouver devant un sommet pour lequel beaucoup de travail a été accompli par les Alliés pour essayer de s’assurer que nous sommes tous unis sur la marche à suivre… Au sommet, nous ferons une déclaration relative à l’Afghanistan… Or le nouveau gouvernement français, au moment où il arrive au pouvoir, va devoir entrer dans un fleuve qui coule déjà… et l’Alliance veut s’assurer qu’une présence sera maintenue en continu après 2014 ». Le programme est clair, le plan est tracé et Hollande n’aura guère le loisir de discuter, il lui faudra, d’une façon ou d’une autre, obtempérer.

Gageons que dans ces conditions M. Hollande saura à Chicago se montrer accommodant et que le calendrier du retrait français sera aménagé de façon à concilier les divers intérêts et impératifs d’ordre stratégique, organisationnel, technique et politique qui entrent en ligne de compte… Dans cette perspective il est à parier qu’une fois de plus le départ des soldats français sera strictement calé sur le départ des GI’s américains dont l’annonce sera un puissant argument de campagne en vue d’une éventuelle réélection de l’actuel titulaire de la Maison-Blanche.

Un argument massue, en premier lieu parce que les dépenses induites par l’occupation de l’Afghanistan deviennent insupportables : en juillet dernier, soit en dix ans, il apparaissait que les États-Unis avaient gaspillé approximativement 320 milliards d’€. Et puis aujourd’hui, il s’agit de clore le plus en douceur possible ce nouveau chapitre désastreux de l’histoire militaire américaine… Au plan militaire disons-nous, parce que les bénéfices géopolitiques éventuels des dévastations afghanes ne se comptabilisent pas sur le court terme ! Finalement, parce qu’il est temps de clore ce théâtre d’opérations afin de pouvoir, le cas échéant, ouvrir d’autres fronts de guerre. L’Iran par exemple contre lequel l’offensive a été reportée d’une année sous la pression des états-majors tant israéliens qu’américains . 4

Quant à la France prise dans l’actuelle tourmente de la dette souveraine, elle se trouve confrontée aux mêmes difficultés financières que les États-Unis… Il y a un an, 27 000 militaires français étaient déployés à l’étranger, or le budget 2011 limitait à 640 millions d’€ les dépenses liées aux opérations extérieures. Budget qui en réalité aura certainement atteint le milliard d’€ en fin d’année. De cela évidemment, les finalistes de la course à la présidence se sont bien gardés de parler. On comprend mieux aussi pourquoi M. Hollande semble pressé de clore le peu reluisant épisode afghan qui aura causé la morts de 82 soldats en pure perte si l’on considère la récente offensive Taleb sur Kaboul… non en raison d’un prurit moral aigu, tout bonnement parce que la France n’en a plus les moyens.

L’agitation tient lieu d’action

Le 12 juillet 2011, emboîtant le pas au président Obama 5, M. Sarkozy annonçait à l’occasion d’une visite surprise à Kaboul le retrait accéléré des 4000 militaires français d’Afghanistan. Un quart devait être rapatriés avant la fin de 2012, le retrait définitif étant prévu en 2014. Presque un an plus tard ce sont toujours quelque 3500 hommes qui sont encore présents sur le sol afghan. M. Hollande fera-t-il mieux ? Rien n’est moins certain ! Au mieux il tiendra l’échéancier de M. Sarkozy – donc rien de nouveau – soit le rapatriement de 1300 hommes d’ici la fin de l’été 2012… Une procédure renouvelée d’alignement sur le désengagement Yankee que les Socialistes auraient eu du mal à désavouer puisque le PS s’était prononcé, en novembre 2010, lui aussi, pour un « retrait coordonné avec le désengagement américain ». Un plan américain d’évacuation (dicté a priori essentiellement par des considérations de fiasco militaire quasi intégral, un coût monstrueusement exorbitant et un refus grandissant de l’opinion publique américaine qui s’est moulé à bon escient sur des considérations de politique intérieure liée à l’élection présidentielle américaine de novembre 2012, tout autant que sur le calendrier politique français, ce qui convenait autant au candidat malheureux Sarkozy qu’au vainqueur Hollande à présent héritier de dispositions dont il n’hésitera pas à se prévaloir, n’en doutons pas.

Quant au retrait américain proprement dit il relève du grand art tout autant que du tour de passe-passe : M. Obama claironnait en juillet 2011 l’annonce du départ d’Afghanistan d’un premier contingent de 5000 GI’s sur cent mille (les derniers ne devant revenir au pays pas avant 2015)… Il fallait cependant voir dans cette amorce spectaculaire de reflux, à la fois un aveu de plate déconfiture et une habile manipulation : si effectivement à l’été 2012, 33 000 personnels sont censées avoir quitté les vallées de l’Hindou Koush, cela n’interviendra qu’après que le même Obama eut augmenté en décembre 2009 les effectifs américains basés en Afghanistan de quelque 30 000 hommes. Retrait claironné et conçu bien évidemment pour son rendement électoral basé sur un principe analogue à celui des soldes : les prix augmentent au préalable afin de rendre plus alléchant le rabais ensuite consenti 6.

Intérêts convergents Obama/Hollande

Ce pourquoi le Sommet de Chicago pourrait voir se préciser un nouveau calendrier de retrait coordonné entre les divers membres de l’Otan empêtrées dans une confrontation aussi asymétrique que sanglante, rebaptisée pour les besoins de la cause « assistance et sécurité » ! Une telle annonce permettrait à n’en pas douter au président Démocrate américain de redorer un blason que l’exécution extra judiciaire d’un pseudo Ben Laden n’est pas parvenue à faire mieux briller. Mais jusqu’où pourra-t-il également aller au-delà de l’effet d’annonce ?

Notons que par une certaine ironie de l’histoire, les prétentions du président français à s’affranchir de toutes règles de bonne conduite internationale (mandat des Nations Unies oblige : lorsque l’on accepte une mission de paix et de stabilisation l’on est présumé aller jusqu’au bout, non ?) et du respect des traités, pourrait servir à M. Obama de prétexte à hâter le mouvement tant le « fardeau de l’homme blanc » 7 se fait désormais politiquement écrasant (« mais qu’allaient-ils faire dans cette galère ? »). Cela avons-nous dit, pour redéployer éventuellement ses troupes sur d’autres fronts présentant un caractère d’urgence accrue : Iran, Syrie… Algérie peut-être si tout y bascule à nouveau comme en 1991 après des élections dont les résultats laissent assez perplexes.

Et puis plus une centaine de milliers de « contractors », personnels de sécurité et mercenaires de tous poils, occupent le terrain pour un certain temps encore. Au moins aussi longtemps que la manne financière issue de l’exportation massive d’héroïne perdurera. Et le flux n’est apparemment pas prêt de se tarir dans un pays devenu le premier État narcotrafiquant de la planète par l’ampleur de production (de 7 à 8000 Tonnes/an… à comparer au 180 T produites la dernière année d’existence – 2001 - de l’Émirat islamique afghan !).

Guerre de l’opium

Grâce à l’action civilisatrice de l’Otan sous la houlette de la démocratie universelle façon Wall Street, l’Afghanistan fournit à présent 90% de la production mondiale de produits opiacés qui, selon la version politiquement correcte, servirait exclusivement à financer la résistance afghane… en réalité et « accessoirement » les chefs de guerre et tribaux liés de l’actuel clan au pouvoir, celui des Karzaï ! Ce pourquoi, le 5 avril 2012, Alexandre Grouchko, vice-ministre russe des Affaires étrangères dénonçait sans ambages le rôle de l’Otan dans le trafic d’héroïne en provenance d’Afghanistan… trafic causant en Russie plus de 30 000 décès l’an, tout en favorisant la pandémie sidaïque et en permettant au crime organisé de prospérer comme jamais.

Ce qu’établit formellement un rapport rendu public le 21oct. 2009, intitulé « Toxicomanie, criminalité et insurrection » de l’Office des Nations Unies contre la drogue et le crime (UNODC)… « L’opium afghan : une menace transnationale…[le rapport] décrit quelles conséquences dévastatrices les 900 tonnes d’opium et 375 tonnes d’héroïne sorties clandestinement d’Afghanistan chaque année ont en termes de santé et de sécurité dans les pays situés le long de la route des Balkans et de la route eurasienne en direction de l’Europe, de la Fédération de Russie, de l’Inde et de la Chine. Il y explique comment la drogue la plus meurtrière au monde a donné naissance à un marché d’une valeur de 65 milliards de dollars où s’approvisionnent 15 millions de toxicomanes, marché qui cause jusqu’à 100 000 décès par an, qui favorise la propagation du VIH à une vitesse encore jamais vue et qui, surtout, finance des groupes criminels, des insurgés et des terroristes. Environ 40 % de l’héroïne afghane (soit 150 tonnes) passe clandestinement au Pakistan, à peu près 30 % (105 tonnes) en République islamique d’Iran et 25 % (100 tonnes) en Asie centrale ».

Au sommet de l’Otan de Bucarest en 2008, le président Medvedev avait offert de remettre à disposition les lignes ferroviaires russes pour assurer le transport depuis ou vers l’Europe du matériel non militaire en provenance ou en direction d’Afghanistan. Le 5 avril 2012, Alexandre Grouchko, lequel devrait devenir dans les prochains jours le représentant permanent de la Russie auprès de l’Otan, déclarait donc dans un entretien à l’Agence de presse Ria Novosti que ce fret sera désormais régi par un nouveau Protocole en vertu duquel les convois de l’Otan pourront faire l’objet de fouilles approfondies par les services de sécurité russes affectés à la lutte contre les narcotrafics. Des dispositions qui ne devraient pas calmer le jeu Est-Ouest à l’heure où les tensions se révèlent particulièrement vives entre Washington et Moscou à propos de l’installation, en Europe orientale et en Mer Baltique, d’un système antimissile prétendument destiné à contrer une attaque balistique iranienne… mais perçu, à juste titre, comme un quasi casus belli, par le président Poutine et ses conseillers militaires.

La Russie a déjà par le passé et à plusieurs reprises dénoncé le rôle de l’Otan, notamment en présentant le dossier au Conseil de Sécurité, dans le trafic d’héroïne, sachant que 193 000 hectares dévolus à la culture du pavot sont situés à 92 % dans les zones contrôlées par les forces du Pacte atlantique ! On comprendra à ce titre que Vladimir Poutine regarde son pays comme cible d’une authentique « agression par l’héroïne », autrement dit une version actualisé des « Guerres de l’opium » que les Britanniques livrèrent à la chine des Qing au milieu du XIXe siècle, et entend agir et réagir en conséquence…

Afghanistan nouveau Vietnam ?

On jugera à l’aune des informations qui viennent d’être données ci-dessus, la déclaration, le 24 janvier, du général allemand Carsten Jocobson, porte-parole de l’Otan pour l’Afghanistan, soulignant le « succès remarquable » obtenu par les troupes d’occupation au cours de l’année 2011.

Pourtant, à titre indicatif, en tant que « marqueur » de ce tonitruant « succès », les chiffres afférents aux décès de soldats (fournis par l’Onu elle-même) font état d’une hausse de 39% des incidents armés en 2011, alors que les insurgés se montrent de plus en plus capables de monter des coups d’éclat, comme l’attaque à Kaboul de l’ambassade américaine. À telle enseigne que l’Otan a semble-t-il retiré ses officiers des ministères afghans. La haine des uniformes étrangers paraît à présent rassembler et unir le peuple afghan. Quant à la nouvelle armée afghane, elle se sent trahie par la précipitation - devenue sensible - à vouloir partir de leurs bons alliés, faisant que les désertions maintenant se multiplient…

Succès si remarquable que l’on se bouscule désormais au portillon pour évacuer un pays intenable où les forces afghanes formées par les occidentaux, retournent de plus en plus fréquemment leurs armes contre leurs supposés sauveurs fourriers de la démocratie et de la libération de la Femme ! Ainsi, depuis le début 2012, 17 soldats de l’Otan ont en effet été exécutés par des policiers ou des soldats afghans 8. Assassinats qui sont devenus une menace aussi importante que les attentats suicides ou les bombes improvisées. En près de trois mois ces actes représentent 20% des pertes. Le 20 janvier dernier ce sont quatre soldats français qui trouvent la mort sous les coups d’un déserteur. Le 26 mars un officier afghan abat deux soldats à l’entrée d’une base. Le 6 mai un soldat de l’Otan était tué par un individu portant l’uniforme afghan, une semaine auparavant, dans la province de Kandahar, un agent des forces spéciales afghanes retournait son arme contre ses alliés, tuant un soldat américain, deux militaires afghans et un interprète… En dépit de ses 130000 soldats, l’Isaf associée aux troupes de l’Opération « Liberté immuable » spécifiquement américaine, rencontre à l’évidence un franc et « remarquable succès »… auquel l’histoire devra associer M. Sarkozy et son « suppléant » M. Hollande, lesquels auront bien mérité de l’internationale des marchands de mort, narcomafias, industries de l’armement, mercenariat en tout genre !

Dans un tel contexte, les Américains pourront-ils tenir encore longtemps sans dévoiler totalement au monde l’ampleur de leur échec ? Auront-ils le loisir d’évacuer leurs troupes en bon ordre. Les morts se multiplient au sein des forces de l’Otan et de leurs supplétifs afghans à telle enseigne que les statistiques sérieuses et exhaustives sont introuvables. Aucune publicité n’est faite relatives aux pertes coalisées et pour cause. Nous sommes loin des décomptes macabres et bidouillés qu’égrènent mécaniquement les communiqués de presse ayant trait à la Syrie : l’on sait apparemment mieux ce qui se passe chez les autres que chez soi !

Notes

(1) Ce sont 1500 conteneurs et 1200 véhicules dont quelque 500 blindés lourds ainsi que 14 hélicoptères qui doivent être rapatriés en France. Les forces françaises doivent en outre compter avec un dispositif logistique engorgé par le retour au pays de 23000 soldats américains d’ici fin septembre.

(2) De ce point un départ français rapide de Kapisa est jugé comme extrêmement problématique et risqué en raison d’un fort aléatoire transfert d’autorité à des forces afghanes éminemment fragiles dans une province caractérisée par son instabilité. En tout état de cause, la mise en œuvre de la « transition » en Kapisa, devrait prendre au minimum 18 mois pendant lesquels la coalition devra épauler les forces afghanes. La Kapisa, à 2 heures de la capitale, constitue « l’axe naturel de contournement de Kaboul sur lequel se rencontre une forte présence de trafiquants et de talibans »… mosaïque ethnique, c’est en vérité « un coupe-gorge… une zone quasi contrôlable ». En avril 2012, le général Emam Nazar, commandant de la 3e brigade de l’Armée afghane, évaluait à 800 le nombre d’insurgés présents en Kapisa, parmi lesquels de nombreux moudjahidin étrangers, « pakistanais et arabes ».

(3) Le Monde 10 mai. Philip Gordon responsable de l’Europe au département d’État est venu recadrer à Paris M. Hollande et son équipe diplomatique, avec pour unique préoccupation l’Afghanistan et le sommet de l’Otan à Chicago, rappelant de manière brutale devant la Commission des affaires étrangères du Sénat, le principe adopté au Sommet de Lisbonne « in together, out together »… une rupture unilatérale avec les engagements de l’Alliance est donc totalement hors de question. « Notre principe de base a été ensemble dedans, ensemble dehors. A Lisbonne, l’Alliance entière et l’ISAF entière ont décidé conjointement que les troupes devraient rester et accomplir leur mission jusqu’à la fin de 2014 ».

(4) Dans les colonnes du quotidien progressiste israélien Haaretz, le 29 avril 2012, l’ancien directeur du Shin Bet, le contre-espionnage hébreu, Yuval Diskin montait au créneau contre le bellicisme affiché du Premier ministre Netanyahu et de son ministre de la Guerre, Ehud Barak, déclarant n’avoir aucune « confiance dans les dirigeants actuels » incapables à ses yeux « de gérer un événement aussi majeur qu’une guerre régionale ou un conflit contre l’Iran…Je ne crois ni au Premier ministre, ni au ministre de la Défense. Je n’ai surtout pas confiance dans une direction politique susceptible de prendre des décisions sur des présupposés messianique ». Propos appuyés par Meir Dagan, également directeur retraité, mais du Mossad, ce dernier faisait également écho au chef d’état-major, Benny Gantz, celui-ci étant allé jusqu’à dire que l’Iran ne cherchait pas à se doter de l’arme atomique [AFP 25 avril 2012]… « Si le guide suprême iranien l’ayatollah Ali Khamenei le veut, son pays ira de l’avant dans l’acquisition de la bombe atomique, mais la décision doit être prise en premier ». Quant au “messianisme “ de certains dirigeants israéliens dénoncé par une hiérarchie militaire (laquelle semble dotée d’un sens des réalité très supérieur à celui des politiques), il a de quoi laisser songeur : le 27 janvier 2010, lors du 65e anniversaire de l’arrivée fortuites des troupes soviétiques au camp d’Auschwitz, M. Netanyahou déclarant accomplie la prophétie contenue au chapitre 37 du livre d’Ézéchiel, laissait entendre que les annonces des chapitres 38 et 39 restaient à accomplir… à savoir l’assomption du Peuple élu à l’issue d’une guerre sans laquelle l’arrivée si attendue du « Messie » ne pourrait intervenir. http://www.mfa.gov.il/MFA/Governmen....

(5) 11 Juin 2011. Deux heures après les déclarations du président Obama sur le retrait des troupes d’Afghanistan, l’Élysée annonçait que le France « engagera un retrait progressif de renforts envoyés en Afghanistan, de manière proportionnelle et dans un calendrier comparable au retrait des renforts américains ». On remarquera que le document accessible sur le site de la présidence française n’est pas datée et reste introuvable dans la nomenclature de communiqués. http://www.elysee.fr/president/les-.... M. Sarkozy ayant quadruplé les effectifs français pour atteindre 4000 hommes, la mort de 4 soldats français le 20 janvier 2012, avait une fois de plus relancé la question d’un retrait anticipé… au mieux fin 2013, au lieu de 2014 comme prévu par l’Otan.

(6) On relira utilement l’article de L. Camus « Afghanistan : la débâcle américaine » publié par Médiapart le 13 juillet 2011 ://blogs.mediapart.fr/blog/kafur-altundag/130711/afghanistan-la-debacle-americaine

(7) Poème de l’écrivain britanno-franc-maçon Rudyard Kipling publié la première fois en février 1899 avec pour sous-titre « Les États-Unis et les îles Philippines ». Une exaltation sans équivoque de l’empire en marche vers la conquête mondiale sous couvert – déjà – de « libération » des peuples.

(8) 22 victimes en 2011. Un rapport officiel du Pentagone (mai 2011 - publié en juin 2011 par le Wall Street Journal), présente ces « incidents » comme des « actes isolés », commis par des taliban infiltrés, des déséquilibrés ou des islamistes radicaux. Entre mai 2007 et mai 2011, sur l’ensemble du territoire afghan, ce sont au moins 58 personnels des armées occidentales qui ont trouvé la mort dans 26 attaques de soldats ou de policiers afghans soit 6 % de la totalité des pertes de coalition pendant cette même période. Le rapport précise cependant que ces attaques sont le symptôme le plus visible d’un mal plus profond lié à la « crise de confiance » et à « l’incompatibilité culturelle » existant entre les forces de sécurité afghanes et leurs homologues américaines.

dimanche, 13 mai 2012

Cauchemardons un peu… Sarko à l’OTAN ?

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Richard Cottrell, spécialiste du réseau Gladio et avec son dernier livre sur le sujet, lance un pavé dans la mare: et si on plaçait Sarkozy au poste de secrétaire général de l'OTAN...? Une française au bras financier et un français au bras armé des USA.

Cauchemardons un peu… Sarko à l’OTAN ?

Ex: http://mbm.hautetfort.com/


Il faut reconnaître à Richard Cottrell une grande imagination, en plus d’une documentation abondante. (Il nous amène des révélations diverses dans son livre, qui vient de paraître ces jours-ci et ne nous est pas encore parvenu : Gladio, NATO’s Dagger at the Heart of Europe: The Pentagon-Nazi-Mafia Terror Axis. Il y parle des réseaux Gladio, question fascinante sans aucun doute, dans le mode de la révélation d’évènements intéressants, comme celui dont il parle dans le texte que nous citons plus bas, sur le rôle du général Lemnitzer par rapport à des tentatives contre la vie du général de Gaulle…)
Cottrell ne suppute pas moins que ceci : pourquoi n’offrirait-on pas à Nicolas Sarkozy, pour employer son énergie extrême et le remercier de ses services rendus, le poste de secrétaire général de l’OTAN, lorsque ce poste se libérera (tout de même, dans un an, à moins que…) ?... Cottrell précise, à propos d’un aspect de son hypothèse, – mais cela pourrait être pris pour l’hypothèse dans son entièreté : «I admit that I am entertaining a good deal of speculation here…»


Par conséquent, nous sommes en pleine supputation. Pour autant, ce n’est pas plus bête que le déferlement, le tsunami de désinformation, de mésinformation, de contre-information, etc., que représente aujourd’hui l’“information officielle”, à être prise pour ce qu’elle est, référence absolue du mensonge non moins absolu que dispense le Système dans sa paradoxale lutte autodestructrice pour sa survie. (Paradoxe, certes…) Par conséquent, nous nous intéressons à l’hypothèse de Cottrell, présentée dans EndtheLie, le 9 mai 2012.


«What next for Nicolas Sarkozy, the man whose political legacy may best be summed up as a stunning collision of pride and prejudice? We hear from his own lips that in the wake of bitter defeat he will now retire from active politics. He is relatively but not magnificently rich, after two costly divorces. Doubtless a board room seat or two will beckon, in order to ‘put something on the table’, as the French like to say.


»Will he elect to simply spend more time with his Italian wife, the ex-model and fragrant song thrush Carla Bruni, write his memoirs or other great volumes of historical importance or will he perhaps retire to some philosophical cloister where he will meditate on the future of everything and especially those of his fellow countrymen whose folly is to keep the brie (the ancient president’s favorite fromage) in the fridge?


»There aren’t many top jobs going begging at the moment. The presidency of the European Council – presently held by the strange wizard-like Belgian Herman von Rompuy – is up for grabs in April next year. But that is really a bureaucratic chore which involves a lot of running around Europe to no evident purpose. Not much job satisfaction there so to speak, still less over-endowed with the limelight that Sarkozy so desperately craves.


»There is however one enticing prospect. NATO’s very own Viking, the Great Dane Anders Fogh Rasmussen, is coming to the end of his term of office as Secretary General of the mighty military juggernaut.


»Now there’s a seat vacant that should appeal to a Frenchman with an unsated determination to leave his mark on world affairs. Nor is it strictly speaking expressly political. It is on the other hand one of the great offices of real power in the western camp. Given NATO’s over-arching ambitions to conquer the planet, surely an out-of-work president with time on his hands would find the prospect of playing with real guns and soldiers an alluring prospect? The tonic certainly acted on Anders Fogh Rasmussen, coming as he does from a small country renowned for its inclination to pacifism, like high octane Viagra.


»NATO smiles upon the diminutive ex-tenant of the Elysee Palace. NATO’s fortunes in France have certainly gone through rocky spells. In the mid 60′s President Charles De Gaulle evicted the alliance from its headquarters near Paris on the grounds that persistent attempts on his life could be traced to US-inspired plotting. (See below my new book featuring the leading role in these affairs of top US brasshat General Lyman Lemnitzer).


»The US, in turn, objected to De Gaulle’s stubborn insistence on an independent French nuclear deterrent, the force de frappe (striking force) composed of medium range missiles intended to deter a Russian attack. He considered America’s obsession with ICBM’s (long range rocketry) not only misplaced but more likely to provoke a nuclear war than prevent it. In my opinion, he was right.
»De Gaulle eventually removed all French military personnel from alliance control. Technically France was still a full member of NATO, but she took no further part in its planning or operations. This stand-off lasted for half a century, until the intensely pro-American Sarkozy became president. In 2009 France resumed full NATO duties and obligations.


»That’s a good tick in Sarkozy’s box…»


Suit une longue digression sur ce qui serait, selon Cottrell qui prend décidément son hypothèse au sérieux, le principal obstacle à la nomination de Sarkozy : une opposition de la Turquie, à cause de l’antagonisme de Sarko à l’égard de l’entrée de la Turquie dans l’UE, à cause de l’affaire de la reconnaissance du génocide arménien par la France, etc. Mais, estime Cottrell, nul doute qu’on trouverait une issue, comme on en trouva une dans le cas du Danois Rasmussen, dont la nomination au poste de secrétaire général s’était également heurtée à l’opposition de la Turquie (rançon d’une épouvantable affaire, qui secoua la civilisation, de publication de caricatures peu amènes pour le Prophète, dans le chef de la presse démocratique danoise)… Ainsi, Cottrell, en bon spécialiste des manigances du type Gladio, estime-t-il l’affaire quasiment faite et termine-t-il par quelques considérations assez peu flatteuses sur Sarko. (Ce en quoi il n’a pas vraiment raison, nous semble-t-il, car Sarko n’est ni une cause, ni un fondement de la catastrophe qui frappe la France. Il en est une illustration d’occasion, un moyen de fortune, une représentation quasiment démocratique. Ce serait lui faire un méchant procès et le juger plus mauvais homme qu’il n’est, plus habile et machiavélique politique, que faire de lui le responsable central du cataclysme. Bref, ce serait, en un sens, lui faire beaucoup d’honneur, alors qu’il n’est que le figurant de circonstance qui s’est chargé d’allumer la mèche de la bombe.)


«The pliant globalist Sarkozy needs to be flattered and soothed after his defeat. A French voice at the summit of NATO councils meets a lot of US interests in Europe, at a time where NATO’s raison d’être is questioned in many quarters. […] France is a pivotal player in NATO which – as we saw in Chicago – is desperately seeking a reason for its continuing existence. Of course that role is ‘world constable’ which is always attractive to former colonial powers like the UK and France.


»When some people have the impudence to describe Nicholas Sarkozy as an egregious, attention-seeking chump with an outsize French fry on his shoulder, I am surprised only at the degree of under-statement. Personally, I am always reminded of Richard Nixon when I look at Sarkozy’s record and personality.


»Nonetheless, NATO’s lordly planetary ambitions suggest that offering the crown to the man who returned France to the sovereignty is returning a priceless favor. Tricky – thinking again of Nixon – but not impossible. It all hangs on the quality of the diplomacy. It always does.»


Finalement, comme on le comprend, peu nous importe ici la validité de l’hypothèse, l’argumentation rationnelle, sinon factuelle, sinon évidente, qu’on pourrait lui opposer. Nous importe essentiellement qu’un commentateur la considère comme plausible et la développe avec sérieux comme une hypothèse acceptable, en donnant comme argument péremptoire qu’après tout l’OTAN doit bien cela à celui qui a ramené la France dans son giron, après le coup du général de Gaulle d’il y a cinquante ans. Peu nous importe également que la thèse de la responsabilité totale de Sarko dans cette évolution vis à vis de l’OTAN ne soit pas très sérieuse, car l’argument est ici symbolique et la responsabilité est symboliquement évidente. Certes, Sarkozy est celui qui, de ce point de vue, a achevé de sacrifier l’indépendance nationale française, au nom d’une non-politique et d’une absence totale d’arguments qui nous indiquent l’infécondité et l’atrophie complète de sa pensée ; mais sa pensée, comme on l’a suggéré plus haut, n’apparaît que comme un miroir de la situation des élites françaises aujourd’hui, pour lesquelles la trahison est un pis-aller, une manière de s’épargner l’effort d’une réflexion indépendante, une vacance du jugement, une atrophie de la psychologie ; pour lesquelles l’indépendance nationale est un concept si vide de sens qu’on comprend finalement pourquoi ils ont sacrifié si aisément ce dont ils ne savent quoi faire, jusqu’à en ignorer le sens, voire l’existence…
In illo tempore, il est arrivé qu’on évoquât la possibilité d’un secrétaire général français à l’OTAN. L’hypothèse rencontrait immédiatement l’opposition US, et pour cause ; cette nomination ne pouvait être conçue que comme une façon de rééquilibrer l’influence US dans l’OTAN, de la contrer, de l’abaisser, de la minoriser, etc., et l’on retrouvait la France dans son rôle traditionnel, c’est-à-dire conforme à la Tradition et au Principe qui la définit. Cette fois, l’hypothèse farfelue et grotesque d’un Sarko avec une casquette de secrétaire-en-chef de l’OTAN vient tout naturellement au terme du jugement, comme une illustration absolument adéquate de l’évolution de la politique française et de ceux qui la conduisent, ou sont conduits par elle ; c’en est à un point où, à la réflexion, séduit qu’on est par sa cohérence dans son temps et dans les mœurs de son temps, on en vient à considérer que l’hypothèse ne serait plus ni farfelue ni grotesque. C’est une bonne mesure du délabrement moral de la pensée politique française, “moral” au sens où l’entendait Renan lorsqu’il écrivait La Réforme intellectuelle et morale de la France, – et d’ailleurs, avec une similitude éclairante, puisque l’état de délabrement de la France aujourd’hui vaut bien celui de 1871, lorsque Renan écrivit son ouvrage. Le problème, pour la France, en 2012, est qu’il n’a pas fallu une guerre pour tomber aussi bas ; l’entraînement de la dynamique d’autodestruction du Système, la fascination pour la Chute, l’attrait de la bassesse, semblent y avoir suffi amplement.


Reste donc à voir la suite, puisque l’on sait que l’un des caractères les plus intrigants de la France est sa capacité de sans cesse aller du plus bas de la chute au plus vigoureux du redressement. Son histoire est pleine de ces montagnes russes, et l’on observera avec intérêt la suite des affaires pour savoir si la recette reste d’application. Ambiance…

samedi, 14 avril 2012

Pour en finir avec la Françamérique

Pour en finir avec la Françamérique, par Jean-Philippe Immarigeon

 

 
Ex: http://www.europesolidaire.eu/

Nous avons plusieurs fois évoqué le rôle de Jean-Philippe Immarigeon dans la déconstruction du mythe américain et la lutte contre la soumission des Européens à l'influence atlantiste. Les précédents ouvrages de l'auteur, référencés ci-dessous, sont tous à lire à cet égard. Ils restent entièrement d'actualité. En quoi le nouvel essai de Jean-Philippe Immarigeon renouvelle-t-il son argumentaire?

C'est parce que l'auteur comprend de moins en moins, malgré les évènements récents ayant marqué l'histoire du monde, la persistance de la dépendance de la France, dans toutes ses composantes, au mythe d'une civilisation commune avec les Etats-Unis, qui nous empêche de nous décider enfin à prendre en mains nous-mêmes notre destin. 

L'auteur, excellent connaisseur des Etats-Unis, où il exerce une partie de son activité professionnelle, ne comprend pas l'aveuglement des Français à vouloir dans tous les domaines s'abriter sous la référence américaine, au lieu de faire appel à leurs propres ressources. Même ceux qui sont obligés par la force des choses de confesser une perte de puissance américaine n'en tirent pas arguments pour enfin rompre le lien affectif qui les unit à une Amérique dont ils se donnent une image largement fantasmée et inexacte. Même ceux qui veulent rompre ce lien n'osent pas le faire pleinement. La peur d'être condamnés comme anti-américaniste sommaires les empêchent de voir et d'évoquer les raisons qui devraient nous obliger à devenir enfin indépendants.

Nous n'allons pas ici reprendre les arguments de l'auteur. Le livre est suffisamment court et vivant pour mériter d'être lu par tous ceux qui ne souhaitent pas s'engager dans des considérations géopolitiques complexes. Bornons-nous à quelques questions.

* L'addiction à l'Amérique se limite-t-elle à la France? Ne faudrait-il pas envisager une « américanomanie européenne » qui paralyserait toute l'Europe? Elle culminerait au niveau des institutions européennes mais aussi dans chacun des gouvernements de l'Union. Elle ne se limiterait pas aux cercles dirigeants mais elle toucherait l'ensemble de la population. Partout, la peur de rompre le cordon qui relie l'Europe à une Amérique présentée comme légitimement en charge des affaires du monde paralyse les velléités de saisir les opportunités qui s'offrent désormais à l'Europe, lui permettant de jouer enfin sa partie dans un monde devenu multipolaire. Les perspectives présentées par Franck Biancheri, directeur du Laboratoire Européen d'Anticipation Politique (LEAP) n'éveillent encore qu'un faible écho. 1) Elles devraient pourtant dynamiser les énergies européennes, puisque celui-ci montre que, entre une Amérique déclinante et une montée en puissance du BRICS, un large créneau d'opportunité s'ouvre à l'Europe (et à l'euro) pour valoriser et développer des ressources qui restent considérables.

* Mais si c'est l'Europe toute entière qui est frappée d'impuissance par son américanomanie, ne faut-il pas s'attacher à mettre en évidence les processus par lesquels depuis la seconde guerre mondiale les Etats-Unis se sont faits, sous les apparences, l'ennemi délibéré de la construction d'une Europe-puissance indépendante d'eux. Il faudrait à cet égard parler d'une véritable entreprise coloniale, par laquelle les nouveaux colons américains se sont attachés à déposséder de leur culture propre les Européens, comme ils l'avaient fait précédemment des Indiens d'Amérique.

Or pourquoi les Européens se sont-ils soumis si facilement à la colonisation militaire, économique et culturelle américaine. La question a été souvent posée. Elle continue à l'être. La réponse la plus évidente paraît tenir au fait que les oligarchies financières, gouvernementales et médiatiques européennes trouvent beaucoup plus facile pour assurer leur pouvoir de se mettre sous la dépendance de leurs homologues américaines depuis longtemps dominantes plutôt que chercher leurs propres voies de développement. La dégradation lente de la puissance américaine n'est pas encore suffisamment affirmée pour qu'elles cherchent ailleurs des alliances de rechange.

* Quand on constate à cette égard la servilité avec laquelle les forces politiques et intellectuelles de nos voisins européens persistent à se rendre vassales d'une Amérique qui compense sa perte de puissance sur le monde en renforçant sa domination sur l'Europe, ne pourrait-on penser que la France, malgré ses abaissements consentis, n'est pas celle à qui il faudrait reprocher le plus grand esprit de capitulation. La défense de la souveraineté française eut d'abord ses grandes heures avec le Gaullisme, grâce auquel nous disposons encore de ressources technologiques que n'ont pas l'Allemagne et les pays européens du Nord pourtant réputés par leur puissance économique. Il n'en demeure malheureusement plus grand chose aujourd'hui du fait des efforts continus de l'actuel président de la République pour démobiliser ce qui restait d'indépendance dans la diplomatie et dans la défense française. Ceci s'est fait directement, notamment par le plein retour de la France dans l'Otan. La tentative se poursuit aussi indirectement, par exemple du fait de la pénétration dans notre potentiel industriel des capitaux du Qatar, eux-mêmes très proches des intérêts américains - ainsi que d'autres tout aussi dangereux. .

Il reste quand même en France quelques ressources qui pourraient, convenablement valorisées par un prochain gouvernement français, servir de base à une résurrection industrielle et diplomatique non seulement française mais européenne. L'exemple en est le Rafale, l'avion de combat français qui se révèle porteur de ce que sans excès d'enthousiasme on pourrait présenter comme une alternative civilisationnelle à celle que les Etats-Unis voulaient imposer à l'ensemble du monde et pour plus d'un demi-siècle en refusant toute alternative autre que l'acquisition obligée de leur Joint Strike Fighter F 35. Nous avons pour ce qui nous concerne suivi de près la montée et la chute d'un appareil qui se révèle aujourd'hui comme un concentré ingérable de technologies, véritable fer-à-repasser volant. Pour s'en convaincre, il fallait suivre la chronique extraordinairement documentée et inspirés qu'en a donnée depuis plus de 10 ans notre ami Philippe Grasset 1). Aujourd'hui cependant, comme le montre Philippe Grasset, le Rafale français, beaucoup plus réaliste au point de vue technique, semble en train de s'imposer, non seulement par ses qualités propres mais parce qu'incarnant une nouvelle forme de souveraineté politique, dont le Gaullisme avait été pour la France l'illustration, et qui est en train de gagner du terrain, sous des formes voisines, dans les Etats décidés à se libérer de l'emprise américaine. 3)

* L'abaissement de la France et avec elle de l'Europe devant l'Amérique, est-il irréversible? L'évolution actuelle des Etats-Unis, en mettant en évidence la fausseté des mythes par lesquels nous acceptions leur domination, suffira-t-elle à nous en prémunir dorénavant. On peut en douter car trop rares sont ceux qui comme Jean-Philippe Immarigeon décrivent l'Amérique comme elle apparaît dorénavant en profondeur: raciste, inégalitaire, obtue intellectuellement, en proie à des religions auxquelles l'islamisme n'a rien à envier en termes d'esprit de conquête et de refus du rationnel scientifique. L'Amérique reste encore très forte du fait de la puissance de son potentiel militaire et de ses capacités en termes de recherche technologique. Mais nous sommes bien placés ici pour montrer que ces potentiels sont désormais au service d'une volonté de contrôle total 4) ne laissant plus guère de place à nos conceptions républicaines et démocratiques.

Or faire ces constatations et recommander que l'Europe se ressaisisse, qu'elle exploite comme le propose Franck Biancheri les atouts potentiels importants dont elle dispose encore, est rejeté par les intérêts européens dominants, dont nous avons souligné une soumission à l'atlantisme qui leur parait la meilleure façon d'assurer le maintien de leurs pouvoirs. D'une façon générale, plus se renforceront les menaces pesant sur le monde, plus les Européens se sentiront paralysées à l'idée de se détacher d'une Amérique où ils continuent à voir un recours, sans se rendre compte que celle-ci, lorsqu'elle aura épuisé les ressources tirées jusqu'ici de ses vassaux européens, les rejettera comme inutiles et dangereux.

*Mais alors quelles voies Jean-Philippe Immarigeon proposerait-il pour permettre aux Français, voire aux Européens, de se déprendre de la Franceamérique? L'exhortation risque de ne pas suffire. A une époque où, de plus en plus, s'imposent des choix géostratégiques décisifs, à une époque où la France elle-même, malgré son refus de voir ces réalités en face, devra bien prendre des décisions lourdes de conséquences, on est un peu déçu de constater que l'auteur, malgré son expérience, ne se prononce pas clairement. Il court le risque de se voir reprocher la répétition de livre en livre du même message, en piétinant sur place faute de laisser entrevoir des solutions. Peut-être veut-il nous laisser devant nos propres responsabilités, une fois le mal dénoncé? Nous aimerions savoir pourtant, naïfs impénitents que nous sommes, pour quel candidat il va voter lors des prochaines élections présidentielles françaises.

Notes

1) Franck Biancheri, Crise mondiale. En route pour le monde d'après. France-Europe Monde dans la décennie 2010-2020. Anticipolis, 2010.
2) Sur son site DeDefensa.org (également pratiqué et apprécié par Jean-Philippe Immarigeon).
3) Jean-Luc Mélanchon, cas exceptionnel parmi les hommes politique français, a bien compris ce rôle emblématique du Rafale. A une journaliste qui lui reprochait récemment, sur le site Médiapart, de s'intéresser à un système d'armes français tel que le Rafale, plutôt qu'à un vague projet humanitaire, il a répondu qu'il ne faisait pas cela pour rendre service à la firme Dassault, mais parce que selon lui les Etats du monde doivent désormais choisir, en matière d'avions de combat, entre 3 ou 4 conceptions du monde, celle encore défendue par une Amérique de plus en plus régressive, la russe, la chinoise et la française. Il est triste de constater que la grande majorité des hommes politiques européens ne l'aient pas encore compris et ne voient aucun inconvénient à ce que l'Europe s'équipe en appareils américains ou se raccrochent à l'Eurofighter qui n'a d'européen que le nom.
4) Alain Cardon " Vers un système de contrôle total "

Ouvrage au format.pdf accessible en téléchargement gratuit
(publié sous Licence Creative Commons)

http://www.admiroutes.asso.fr/larevue/2011/121/controletotal.pdf


Jean Philippe Immarigeon nous écrit:
" Je suis monomaniaque (d'un livre à l'autre) parce qu'il ne sert à rien de penser un après tant qu'on est piègé dans l'hier. Dit plus simplement, j'ai compris en vivant aux Etats-Unis, en bossant avec eux également ensuite et en discutant toutes les semaines avec mon ami Rick (patron de Harper's Magazine) qui ne supporte plus son pays, ce que Tocqueville écrivait de l'étouffement de la pensée que pratique la civilisation américaine. Dit encore autrement, qu'il s'agisse de la réforme de l'OTAN ou du carcan idéologique atlantiste, il est vain et vaniteux de penser faire de l'entrisme et changer les choses de l'intérieur, par subversion. C'est sous-estimer la puissance américaine, les moyens de communication, l'importance des thinks tanks, le nombre incalculable de bureaucrates payés à faire de la propagande depuis 1945. On ne peut lutter à armes égales. Il faut donc d'abord sortir et faire de l'asymétrique, sinon c'est une perte de temps et d'énergie".

Pour en savoir plus
* Jean-Philippe Immarigeon blog http://americanparano.blog.fr/

* Avocat et docteur en droit Jean-Philippe Immarigeon est spécialiste de l'histoire des États-Unis et des questions de stratégie, il intervient depuis 2001 dans la Revue Défense nationale. Il a publié précédemment chez François Bourin Éditeur American parano (élu meilleur essai politique 2006 par le magazine Lire), Sarko l'Américain (2007) et L'Imposture américaine (2009). Voir http://www.bourin-editeur.fr/auteur/jean-philippe-immarigeon.html

Jean Paul Baquiast

mardi, 27 mars 2012

Per non dimenticare il 24 Marzo 1999

Per non dimenticare il 24 Marzo 1999, inizio dei "bombardamenti democratici" sulla Jugoslavia

di Andrea Salomoni

Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]

http://sites.etleboro.com/thumbnails/news/18433_NATO_bombs_hit_downtown_Belgrade_1999.jpg

Il 24 Marzo del 1999, iniziarono i bombardamenti "democratici" sulla Jugoslavia e la criminale aggressione contro il suo popolo; mentre il 10 giugno venivano stipulati gli accordi di pace a Kumanovo, e dopo 13 anni ecco che la verità faticosamente si fa largo anche a livello ufficiale:...Altro che “genocidi e fosse comuni mai trovate”, “diritti umani negati” e “pulizie etniche” mai avvenute, se non dopo l’occupazione della NATO, e compiuta dalle bande criminali dell’UCK nei confronti dei serbi e di tutte le minoranze non albanesi, oltre che contro gli albanesi jugoslavisti. A dodici anni dalla fine dell’aggressione la verità lentamente emerge, altro che “ingerenza umanitaria”, ecco a cosa miravano i criminali bombardamenti “terapeutici” sulla Jugoslavia. Erano semplicemente mire imperialiste, soltanto che ora non lo diciamo più noi "complottisti" come facciamo dal 1999, adesso ci sono le prove e le dimostrazioni. Sotto trovate una cartina della Serbia Montenegro, con indicati gli obiettivi e gli interessi che la NATO ha richiesto al nuovo governo, docile vassallo dell’occidente, come condizione per entrare nella lista d’attesa per la Partnership per l’organizzazione atlantica e per poter aspirare ad entrare un giorno, nell'Europa dei padroni. La cartina vale forse più che tutte le analisi, ipotesi, disquisizioni teoriche fin qui fatte, nella sua fredda sinteticità è come l’esibizione dell’arma del delitto, tutte le menzogne, le falsità, gli alibi degli aggressori, crollano come un castello di carte. La cartina è su ciò che si discusse tra i vertici NATO e il nuovo governo serbo montenegrino; rappresenta gli obiettivi e gli interessi ritenuti “necessari” dall’Alleanza atlantica e dagli USA: porti, aeroporti, caserme, siti logistici per installazioni radar, zone considerate strategiche per basi, ecc. ecc. Nella regione balcanica, ora che sono state portate la libertà e la democrazia…occidentali, ovviamente, la situazione di agibilità e sovranità, per i popoli e stati è sinteticamente questa:

in Ungheria l’ex base sovietica di Tasar è ora la principale base militare americana fino alla Russia; 

in Albania sono state posizionate le basi navali più grandi, oltre all’aeroporto vicino a Tirana;  

in Macedonia sono state occupate dalle truppe Nato le due più grandi caserme del paese a Tetovo e a Kumanovo, oltre all’aeroporto di Petrovac, Skoplije e al poligono militare di Krivolak; 

la Bosnia Erzegovina è stata adibita per l’aviazione: l’aeroporto di Dubrovac, Tuzla è diventato base aerea Nato, così come a Brcko e Bratulac, sono state messe due basi terrestri; 

i maggiori porti della Croazia sono stati adibiti per le unità navali, mentre all’aeroporto vicino Pula c’è ora una base dell’Alleanza oltre al poligono di Slunj vicino Djakova.

 

Dalla Romania è stata presa la base navale di Costanza, l’aeroporto militare vicino a Bucarest, le basi terrestri vicino Timisoara, a Costanza, Kluza e Vlaskoj, ma ne sono richieste altre tre per ultimare il dislocamento delle truppe nella regione. 

 In Bulgaria è stata collocata una base navale a Varna e una terrestre a Sarafovo Infine in Kosovo vi è Camp Bondstel a Urosevac e un'altra base a Gnjlane. Da questo scenario geo-militare dei Balcani una cosa salta immediatamente all’occhio, in quest’elenco manca solamente un paese, che ancora non risulta “occupato” da basi straniere, ed è la Serbia Montenegro, ex Repubblica Federale Jugoslava; ecco svelato l’arcano dei mille contorcimenti mass mediatici, inventati per giustificare l’aggressione e lo smantellamento di quell’ultmo pezzo di Jugoslavia, che aveva una gravissima colpa per questi tempi: quella di pretendere e difendere la propria indipendenza e sovranità e quella di non volere truppe straniere a casa propria. E questo nel ventunesimo secolo è una colpa gravissima, perché si diventa un ostacolo “de facto” ai piano geo-strategici dell’imperialismo americano, e non può essere ammesso. O si accetta o si viene spazzati via, certo le motivazioni pro forma vengono trovate e pianificate attraverso la disinformazione strategica, c’è sempre un buono e sacro motivo democratico per aggredire un popolo o un paese “ non asservibile” con pressioni o dollari.  Qui come in Iraq, come in Palestina, Libia, Libano, Siria, Iran, Cuba, Corea del Nord, Venezuela, Bielorussia ecc. ecc perché la lista è continuamente suscettibile di cambiamenti o aggiornamenti, a seconda degli eventi che accadono. E così si può tranquillamente capire come, nelle trattative tra un nuovo governo serbo montenegrino, creato, sponsorizzato e finanziato per arrivare al potere, scalzando un governo di unità nazionale che impediva questi scenari in terra serba, la discussione è come fosse una riunione amministrativa di riscossione di quanto dovuto. Ai “Quisling” locali il governo amministrativo, alla NATO ed agli USA il potere di decidere e comandare, a casa di altri. Il ministro della difesa, nei colloqui di Londra per poter entrare nella Partnership Nato ha ricevuto le seguenti richieste, ritenute necessarie per “armonizzare” le relazioni tra la nuova Serbia e l’occidente:

la stazione radar di Kopaonik, la più avanzata tecnologicamente dell’esercito serbo ed anche strategica per qualsiasi minima concezione difensiva del paese e quella di Pesterska;

basi aeree a Batajnica vicino Belgrado, Zlatibor, Kraljevo, Nis e Visoravan:basi terrestri a Novi Sad, Pancevo, e Nis;

le basi navali di Herceg Novi e Bar sulla costa montenegrina.

Oltre alla richiesta di una consistente riduzione degli effettivi dell’esercito federale, a cui l’ossequiente nuovo governo “libero” ha risposto con una proposta  di passare da 70.000 militari a circa 35.000. Quindi trasformare quello che era  l’esercito più forte e organizzato di tutti i Balcani, in una poco più di milizia territoriale, debole e quindi sottomessa e ubbidiente. Già, perché una delle clausole presupponeva anche la presenza di “esperti militari” statunitensi nei vertici degli Stati Maggiori serbo montenegrini. 

E qualcuno osa chiamare tutto questo…libertà?

Queste trattative e richieste sono la dimostrazione che le aggressioni ai popoli e paesi “renitenti o resistenti”, non cessano con il rumore dei bombardamenti “intelligenti”, ma proseguono con la distruzione degli stati sociali, delle condizioni di vita dei lavoratori e della popolazione, con le politiche di privatizzazioni e svendite delle ricchezze nazionali, nell’immiserimento che investe la stragrande maggioranza della società, ed infine con l’asservimento militare, ultimo passaggio per annientare completamente qualsiasi inversione di tendenza politica, essendo coscienti che il malessere e il disagio sociali, prima o poi si trasformeranno in lotte e conflittualità. 

Così saranno garanti della pace sociale e degli interessi di coloro, che nel frattempo parallelamente, si sono  formati ed arricchiti : le borghesie “compradore” locali, veri e propri pirati e banditi in doppiopetto, ma legati a doppio filo con gli interessi del capitale straniero; che sono altro da quella borghesia nazionale che perlomeno, aveva trovato un alleanza con le forze patriottiche e popolari, per resistere all’invasione e asservimento economico, politico e sociale del paese, in un ottica di interesse nazionale.

Questi gli obiettivi e le richieste fatte dalla NATO, al governo della Serbia Montenegro, per diventare uno Stato “democratico, libero ed europeo”. 


Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

mardi, 07 février 2012

Nouveaux textes sur http://robertsteuckers.blogspot.com/

Nouveaux textes sur

http://robertsteuckers.blogspot.com/

 

De l'humanisme italien au paganisme germanique: avatars de la critique du christianisme de la Renaissance à l'époque contemporaine:

http://robertsteuckers.blogspot.com/2012/01/de-lhumanisme-italien-au-paganisme.html

Les visions d'Europe à l'époque napoléonienne - Aux sources de l'européisme contemporain!

http://robertsteuckers.blogspot.com/2012/01/les-visions-deurope-lepoque.html

Les concepts de Toynbee

http://robertsteuckers.blogspot.com/2012/01/les-concepts-de-toynbee.html

Sur l'identité européenne

http://robertsteuckers.blogspot.com/2012/01/sur-lidentite-europeenne.html

Pourquoi nous opposons-nous à l'OTAN?

http://robertsteuckers.blogspot.com/2012/01/pourquoi-nous-opposons-nous-lotan.html

lundi, 06 février 2012

Les sinistres implications du nouveau plan de défense d’Obama

Les sinistres implications du nouveau plan de défense d’Obama: dominer n’importe quelle nation, n’importe où, n’importe quand, à n’importe quel degré de force

Ex: http://mediabenews.wordpress.com/

Début janvier, le gouvernement Obama a dévoilé la nouvelle stratégie du Pentagone, « Maintenir le leadership global US : Priorités pour la défense du 21ème siècle ». Plutôt que de couper dans les dépenses de l’appareil militaire US, il s’agit clairement surtout de réorganiser les priorités du Pentagone pour assurer une domination absolue pour les premières décennies du 21ème siècle (dominer n’importe quelle nation, n’importe où, n’importe quand, à n’importe quel degré de force).

 

Le président Obama l’a dit lui-même, après que les dépenses militaires aient pratiquement doublé durant la période Bush, la stratégie va ralentir la croissance des dépenses militaires, « mais… ça va continuer à croître : en fait de 4% dans l’année qui vient. »

La nouvelle doctrine place la Chine et l’Iran au centre des préoccupations sécuritaires des USA. Ainsi, elle met en priorité l’expansion des capacités militaires des Etats-Unis en Asie et dans les océans Pacifique et Indien, en « rééquilibrant vers la région Asie-Pacifique… en s’appuyant davantage sur nos alliances existantes. » Cela comprend le Japon, la Corée du Sud, les Philippines et maintenant l’Australie et l’Inde ainsi que les « pivots » US, de l’Irak à l’Afghanistan jusqu’au cœur de l’économie globale du 21ème siècle, l’Asie et le Pacifique. Les implications pour Okinawa et le Japon devraient être claires : pour s’assurer que le Japon restera son porte-avion insubmersible, Washington va faire tout son possible, notamment faire pression pour construire la nouvelle base aérienne à Henoko.

La Russie « reste importante », mais les priorités tendent à s’assurer que le développement de la Chine se réalise dans les systèmes globaux de l’après-deuxième guerre mondiale dominés par l’Occident et le Japon. La focalisation sur l’Iran vise à s’assurer que les ambitions de Téhéran ne viennent pas compromettre le contrôle néocolonial par les Occidentaux du pétrole essentiel à leurs capacités économiques et militaires.

C’est pourquoi la Chine et l’Iran sont les premières cibles de systèmes d’armement à développer ; d’alliances militaires US étendues, de bases, d’accords d’accès et d’exercices militaires à un rythme accru ; ainsi que de capacités avancées dans le domaine des guerres cybernétique et spatiale.

Par rapport au pétrole du Moyen-Orient, la stratégie insiste explicitement sur les responsabilités extraterritoriales (comprenez le Sud) de l’Otan « en cette période de ressources restreintes ». Ce point doit être renforcé par des opérations de contre-terrorisme à l’échelle mondiale, notamment en mettant davantage l’accent sur les opérations secrètes des Forces Spéciales. Et, parmi les différentes failles de la stratégie, notons l’importance donnée au partage du fardeau financier et militaire par l’Otan et les autres alliés US, un objectif qui ne sera probablement pas atteint alors que l’Europe est plongée dans la tourmente économique.

La stratégie signale que le président du Conseil National de Sécurité révise actuellement la position sur le nucléaire. Il devrait au minimum réduire le rôle des armes nucléaires dans les politiques militaires ainsi que le nombre d’armes dans l’arsenal US en cas de second mandat du gouvernement Obama. Une mesure à mettre en parallèle avec le discours du Président à Prague ainsi que l’extorsion politique qui l’a conduit à adopter l’augmentation de 185 milliards de dollars de dépenses pour de nouvelles armes nucléaires et systèmes de lancement pour la prochaine décennie dans le but de décrocher la ratification du traité New START. (1)

(1) : le New START est un traité sur la réduction d’armes nucléaires conclu entre les Etats-Unis et la Russie signé à Prague le 08 avril 2010. Après avoir perdu les élections de mi-mandat, le président Obama est parvenu à faire passer cette décision décriée par les Républicains en consentant une augmentation du budget alloué au maintien et à la modernisation des arsenaux nucléaires militaires. (ndlr)

Source orignale : Counterpunch

Image : defense.gov

Traduit de l’anglais par Investig’Action

Source : michelcollon.info

samedi, 04 février 2012

L’OTAN et la CIA arment en cachette les rebelles syriens afin d’affaiblir l’Iran

L’OTAN et la CIA arment en cachette les rebelles syriens afin d’affaiblir l’Iran

 
Ouvrir les yeux sur le 11-Septembre, c’est aussi ouvrir les yeux sur les guerres qui s’en sont suivies, et nous avons souvent tenté d’alerter le public français sur les guerres injustes et illégales contre l’Irak et l’Afghanistan, mais jamais encore n’avions-nous traité du cas de la Syrie. L’occasion nous en est donnée par cet article où apparait le nom de l’ex-agent de la CIA Phil Giraldi, qui a co-signé une lettre des Vétérans US du Renseignement récemment adressée au président Obama, le mettant en garde contre un nouveau conflit contre l’Iran qui pourrait dégénérer en 3e guerre mondiale. Phil Giraldi n’est pas un inconnu dans le Mouvement pour la vérité sur le 11/9, il est notamment l’auteur avec la lanceuse d’alerte Sibel Edmonds, de l’un des articles majeurs de ces dernières années sur la corruption au sein des services secrets US

La fourniture d’armements, de renseignements stratégiques, d’instructeurs militaires de la part de l’OTAN et de la CIA aux rebelles syriens s’inscrit évidemment dans un objectif de renversement du régime de Bachar El-Assad, mais surtout dans celui d’un futur conflit avec l’Iran car, comme l’écrit l’auteur de ce papier, “la route de Téhéran passe par Damas“.

Carte de la région


L’OTAN et la CIA arment en cachette les rebelles syriens afin d’affaiblir l’Iran

Par Daan de Wit, DeepJournal,

Traduction GV pour ReOpenNews

L’actuelle couverture médiatique sur l’Iran nous rapporte toute une série d’incidents, mais lorsque l’on regarde cela dans le contexte [plus large] des événements survenus ces dernières années – comme je l’ai fait dans mon livre « The Next War – The attack on Iran – A preview » et aussi dans une série d’articles parus dans le « DeepJournal », il est clair que tous ces éléments s’assemblent en vue d’une guerre contre l’Iran. C’est un projet de longue haleine qui a demandé des années de préparation, et son but ultime se rapproche chaque fois un peu plus. L’un des éléments de cette préparation est la fourniture en secret d’armes aux rebelles syriens.

Affaiblir la Syrie, c’est affaiblir l’Iran. Au lendemain de l’annonce par les États unis de nouvelles mesures contre l’Iran justifiées par son programme nucléaire, le conseiller à la Sécurité nationale de Barack Obama, Tom Donilon, a déclaré que « la fin du régime d’Assad représenterait le plus important revers de l’Iran dans la région – un coup stratégique qui ferait encore plus pencher la balance du pouvoir dans la région contre l’Iran. » Évoquant en novembre dernier la situation instable en Syrie, le secrétaire d’État d’Obama avait dit : « Je pense qu’il pourrait y avoir une guerre civile avec une opposition extrêmement déterminée, bien armée, et bien financée […] chose que nous haïssons, car nous sommes favorables aux protestations pacifiques et à une opposition non violente. » La première partie de la déclaration d’Hillary Clinton ressemblait davantage à l’expression d’un espoir qu’à l’avertissement qu’elle tentait d’envoyer, comme cela fut confirmé par le fait que l’OTAN et les USA sont en train d’alimenter en armes libyennes les rebelles syriens.

L’envoi secret par l’Occident d’armements aux rebelles syriens

Les opposants au régime du président Assad sont armés en secret par l’Occident. Des avions sans marques appartenant à des pays de l’OTAN atterrissent sur les bases militaires de la Turquie près de la frontière syrienne. Ces appareils apportent des armes provenant de l’arsenal de Mouammar Kadhafi. À bord des avions se trouvent également des combattants issus du CNT libyen, « qui ont l’expérience de dresser des volontaires locaux contre des soldats entrainés, une compétence qu’ils ont acquise en affrontant l’armée de Kadhafi. » Mais une étape de plus a été franchie. L’ex-officier de la CIA Phil Giraldi, [souvent] très bien informé explique que « les instructeurs des forces spéciales françaises et britanniques sont sur le terrain, et prêtent main-forte aux rebelles syriens, tandis que la CIA et la Division des Opérations spéciales US fournissent les moyens de communication et de renseignement pour soutenir la cause des rebelles, en permettant aux combattants d’éviter les zones où se concentrent les soldats syriens ».

La route de Téhéran passe par Damas

La stratégie visant à atteindre Téhéran à travers Damas semble avoir également été adoptée par l’Arabie Saoudite : « le Roi sait bien qu’excepté l’effondrement de la République islamique elle-même, rien ne pourrait plus affaiblir l’Iran que la perte de la Syrie, » a expliqué une source saoudienne au magazine Foreign Policy en août dernier. Depuis lors, la situation n’a cessé d’évoluer. La situation syrienne est surveillée de près par les Russes, qui ne la voient pas du même œil « sentimental » que le public occidental : « L’Ouest fait pression sur la Syrie parce que ce pays refuse de mettre fin à son alliance avec l’Iran, et non pour sa répression des opposants, » a indiqué Nikolai Patrushev, qui a travaillé pour le KGB aux côtés du premier ministre Vladimir Poutine pendant l’ère soviétique. Patrushev a poursuivi : « Cette fois, ce n’est pas la France, la Grande-Bretagne ni même l’Italie, qui fourniront la principale force de frappe, mais sans doute le voisin turc, qui [pourtant] était en bons termes avec la Syrie jusque très récemment, mais est un rival de l’Iran extrêmement ambitieux. »

La vacance du pouvoir syrien pourrait profiter aux islamistes

La Russie s’inquiète pour l’avenir : « La Russie, qui possède une base navale en Syrie et vend des armements aux pays du Moyen-Orient, est très inquiète de la possibilité que des islamiques radicaux puissent arriver au pouvoir, » a indiqué Irina Zvyagelskaya, une analyste du Moyen-Orient travaillant pour l’Académie des sciences de Moscou. Mme Zvyagelskaya a expliqué lors d’une interview téléphonique aujourd’hui : « Notre crainte est que la Syrie s’écroule et que des forces dirigées par des extrémistes islamiques s’emparent du pouvoir, ce qui ne plairait à personne. Cela déstabiliserait la région tout entière. »

Phil Giraldi fait la même analyse. Il écrit : « Aux États-Unis, de nombreux sympathisants d’Israël sont pour un changement de régime d’Assad, convaincus qu’une Syrie affaiblie, en proie à la guerre civile, ne présenterait pas de risque pour Tel-Aviv. Mais ils devraient y penser à deux fois, car la situation pourrait bien se retourner contre eux. [En effet] en Syrie, le mouvement politique d’opposition le mieux organisé et disposant des financements les plus importants n’est autre que celui des Frères musulmans. » Hillary Clinton a déclaré : « Ecoutez, Assad va partir ; ce n’est qu’une question de temps. »

Des professionnels du renseignement mettent en garde Obama

Cela fait plusieurs années maintenant que Phil Giraldi met en garde contre une éventuelle guerre contre l’Iran, qui selon lui, pourrait déclencher la 3e guerre mondiale. « En tant que professionnels possédant à nous tous plusieurs centaines d’années d’expérience dans le Renseignement, la politique étrangère, et le contre-terrorisme, nous sommes inquiets de voir les rumeurs basées sur une déformation grossière des faits qui tentent de vous convaincre de déclencher une nouvelle guerre. » Telle est la première phrase d’une lettre envoyée au président américain par les Veteran Intelligence Professionals for Sanity (ex-professionnels du Renseignement), dont Giraldi fait partie des signataires. Ce groupe de spécialistes du renseignement demande [au président] de ne pas lancer une guerre contre l’Iran. « Nous assistons à un remake de la [soi-disant] menace des armes de destruction massive (AMD) irakiennes. » C’est un argument solide, que je développe dans mon livre The Next War. Ce groupe d’experts conclut sa lettre par cette phrase : « Nous nous dirigeons très certainement vers ce que vous appelez une « guerre idiote » (dumb war) ; nous devrions éviter de nous engager dans une nouvelle « guerre idiote » contre un pays presque trois fois plus grand que l’Irak, qui pourrait donner naissance à un conflit régional majeur et créer des générations de djihadistes. Une telle guerre, contrairement à ce que disent certains, ne rendrait pas Israël et les USA plus sûrs. »

Daan de Wit

 

Traduction GV pour ReOpenNews

samedi, 28 janvier 2012

La nouvelle stratégie du Pentagone

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Andrea Perrone:

La nouvelle stratégie du Pentagone

Le secrétaire américain à la Défense, Léon Panetta, retire deux des quatre brigades américaines d’Europe et se prépare à les transférer vers la zone du Pacifique

Le gouvernement d’Obama va retirer deux des quatre brigades de l’armée américaine déployées en Europe. Le but de ce retrait est évident: épargner quelque 487 milliards de dollars sur le budget de la défense au cours des dix prochaines années, en demandant aux Européens de payer la différence, comme dans le cas du bouclier anti-missiles que Washington a imposé au Vieux Continent, tout en déplaçant les troupes américaines vers la région d’Asie-Pacifique.

La nouvelle a été annoncée par le secrétaire à la Défense, Léon Panetta, qui a également fait connaître la décision américaine de retirer environ 7000 militaires sur les 81.000 hommes que comptent les forces d’occupation en Europe, tout cela dans le cadre de la nouvelle stratégie de la défense et dans celui des mesures d’austérité qui frappent aussi le budget du Pentagone.

“Lors des colloques que nous avons eus avec les Européens, nous avons expliqué qu’il s’agira dorénavant d’une présence américaine selon un principe de rotation, par lequel on mènera les futures manoeuvres”, a précisé le chef du Pentagone, qui se faisait interviewer à Fort Bliss au Texas. “En réalité —a-t-il ajouté— nous ne verrons plus beaucoup de soldats américains en Europe, vu les dispositions prises dans le cadre de la nouvelle stratégie, parce que les brigades qui y sont en principe casernées combattent en réalité en Afghanistan et ne sont donc pas présentes. Nous aurons donc deux brigades complètes en Europe, plus une présence plus importante mais selon le principe de la rotation”. D’après ce que nous rapporte le “New York Times”, les Etats-Unis retireront encore une autre brigade d’Allemagne, au fur et à mesure que se concrétisera la nouvelle stratégie et que les opérations se focaliseront sur la zone de l’Asie-Pacifique. Déjà en 2004, le gouvernement de Bush avait demandé à ce que le nombre de brigades de combat en Europe soit réduit à deux mais, l’an dernier, le gouvernement d’Obama avait décidé tout de même d’en maintenir trois.

Obama est donc revenu en quelque sorte sur ses pas et a décidé de ne plus laisser qu’une seule brigade en Allemagne et une autre en Italie, notamment la 173ème Brigade aéroportée, basée à Vicenza.

Le redimensionnement des brigades américaines installées en Europe s’inscrit bel et bien dans le plan du Pentagone de réduire l’armée: des 560.000 militaires qu’elle compte actuellement, elle devra n’en conserver que 490.000, selon les dispositions prises par la nouvelle stratégie de la défense qui requiert des forces plus réduites, plus rapides et plus agiles; en outre, on sait déjà que les forces armées américaines, dans un futur imminent, focaliseront leurs efforts sur les régions asiatiques pour contrebalancer une Chine en croissance rapide et constante, une Chine qui est en train d’investir dans les sous-marins, les avions de chasse et les missiles de précision. Le redimensionnement des deux brigades conduira à une réduction d’environ dix à quinze mille hommes sur les 80.000 présents actuellement, tous services compris, sur le théâtre européen. Le gouvernement d’Obama, souligne le “Washington Post”, a choisi cette option parce qu’elle est susceptible de générer moins de protestations au Congrès que si l’on avait opté pour une réduction des bases militaires aux Etats-Unis mêmes, car cela aurait eu des répercussions sur les économies locales qui se sont développées autour des bases.

Panetta n’a toutefois pas mentionné lesquelles des quatre brigades, actuellement déployées en Europe, le Pentagone allait réellement retirer mais, dans le passé, les autorités militaires américaines avaient élaboré des plans pour que soient retirées les 170ème et 172ème brigades d’infanterie, casernées en Allemagne à Baumholder et Grafenwöhr. Le responsable de la Défense n’a pas davantage parlé du calendrier de ce redéploiement ni expliqué si les unités rappelées d’Europe rentreraient dans les bases américaines ou seraient complètement rendues inactives.

Le Général Mike Hertling, commandant l’armée américaine en Europe, a précisé “qu’il y aura davantage de possibilités pour ces forces de recevoir leur instruction et de participer à des manoeuvres communes avec nos alliés européens”. Le général a ensuite déclaré être “optimiste”, et qu’il croyait que “la nouvelle approche contribuera à renforcer les alliances et les forces”. Mais il n’a pas spécifié quelles unités de l’armée seront impliquées dans le changement.

La nouvelle stratégie de Washington paraît fort semblable à celle décidée en 2001 par le Président républicain de l’époque, George W. Bush, pour pouvoir mener à bien les invasions de l’Afghanistan et de l’Irak. Mais avec une différence: à l’époque, Bush avait augmenté le budget de la Défense tandis qu’Obama a l’intention de le réduire. Toutefois le retrait des troupes américaines annoncé par Obama s’inscrit dans le plan qu’avait exposé Hillary Rodham Clinton au courant du mois d’octobre dernier dans les pages de la revue “Foreign Policy”. Il s’agissait de renforcer le contrôle de la région d’Asie-Pacifique dans le but de faire pièce à la croissance économique et militaire du Dragon chinois. Les présidents américains se succèdent au fil du temps mais les finalités de l’Empire “Stars and Stripes” demeurent invariablement les mêmes.

Andrea PERRONE.

( a.perrone@rinascita.eu )

(article paru dans “Rinascita”, Rome, 14 janvier 2012; http://www.rinascita.eu ).

samedi, 24 décembre 2011

La Turquie, alliée de toujours des Etats-Unis et nouveau challenger

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La Turquie, alliée de toujours des Etats-Unis et nouveau challenger

Par Dorothée SCHMID*, 

 
Ex: http://mbm.hautetfort.com/

* Spécialiste des politiques européennes en Méditerranée et au Moyen-Orient, est actuellement responsable du programme « Turquie contemporaine » à l’Ifri. Ses travaux portent sur les développements de la politique interne en Turquie et sur les nouvelles ambitions diplomatiques turques

Membre de l’OTAN depuis 1952, la Turquie est un allié traditionnel des États-Unis, malgré des désaccords sur des dossiers comme Chypre ou l’Irak. Depuis la fin de la guerre froide, et particulièrement après l’arrivée de l’AKP au pouvoir, les relations entre les deux pays se sont toutefois tendues. Il va désormais falloir trouver un équilibre entre le besoin de reconnaissance d’une Turquie toujours plus ambitieuse à l’échelle régionale et les impératifs de sécurité américains.

Dans le cadre de ses synergies géopolitiques, le Diploweb.com est heureux de vous présenter cet article de Dorothée Schmid publié sous ce même titre dans le n°3:2011 de la revue Politique étrangère (Ifri), pp. 587-599.

L’INTENSE activité de la diplomatie turque, particulièrement au Moyen-Orient, embarrasse depuis quelques années plus d’une puissance établie. Si les Français s’inquiètent de la présence croissante des Turcs sur leurs terrains d’influence arabes, les États-Unis éprouvent quelque difficulté à s’accommoder des ambitions retrouvées d’un allié qui leur fut toujours précieux, mais également de la volatilité nouvelle de ses positions.

Ankara avait en effet habitué Washington à plus de retenue et de régularité. Ayant intégré dès 1952 la communauté disciplinée de l’Organisation du traité de l’Atlantique nord (OTAN) comme puissance régionale d’appui, elle y rendait aux États-Unis des services intermittents mais rarement négociables, en échange d’un rattachement souple à la sphère de protection américaine. Pilier oriental de l’Alliance, la Turquie assurait la surveillance de sa frontière sud-est, Washington ne se permettant que rarement de commenter les accidents politiques intérieurs turcs, entre coups d’État à répétition et répression des minorités.

Ce gentlemen’s agreement stratégique a duré près de 40 ans, malgré quelques désaccords importants sur Chypre ou l’Irak. Mais la fin de la guerre froide et le 11 septembre 2001 ont créé les conditions de l’émancipation de la diplomatie d’Ankara, au moment même où son rôle central se confirmait au Moyen-Orient. Assumant d’une manière différente sa vocation de pays pivot, la Turquie entame alors une reconversion imprévue : longtemps plate-forme avancée de l’Occident au Moyen-Orient, elle se pose depuis quelques années en porte-parole auprès de l’Occident d’un monde arabo-musulman qui n’en finit pas de se décomposer et de se recomposer, et échappe de plus en plus à la maîtrise de Washington. L’équation stratégique américaine doit intégrer cette échappée orientale, avec des incertitudes majeures : il est en effet encore difficile d’évaluer si la Turquie a les moyens de ses ambitions dans la région et jusqu’à quel point ses intérêts y divergent de ceux des États-Unis.

Une Turquie toujours centrale

L’histoire et la géographie ont assigné à la Turquie une fonction centrale dans le système de la guerre froide : république laïque façonnée par Mustafa Kemal Atatürk sur le modèle des États-nations européens, elle est la sentinelle de l’Occident à sa frontière orientale. Cette fonction de rempart reste essentielle dans le calcul stratégique américain, mais évolue et se complexifie avec le temps.

Les fonctions géopolitiques d’un pays pivot

Les fondements du rapport turco-américain sont d’ordre sécuritaire. La situation géographique de la Turquie définit son importance dans la perception stratégique des États-Unis : le pays est au carrefour de deux continents et de plusieurs zones d’influence historique – russe, iranienne, etc. ; le Bosphore et les Dardanelles sont des verrous ; les principales routes énergétiques désenclavant les ressources de la Caspienne et du Moyen-Orient passent par le territoire turc ; et les sources du Tigre et de l’Euphrate se situent également en Turquie, ce qui en fait le château d’eau du Moyen-Orient. Fardeaux ou atouts, ces éléments offrent à la Turquie un choix de positionnement stratégique : elle peut être frontière, ou intermédiaire. Les décideurs américains tentent, depuis la fin du XXe siècle, de jouer sur ces deux vocations, selon leurs propres objectifs dans la région. La Turquie est pour eux un pays pivot, à même d’articuler des ensembles géopolitiques indépendants, mais aussi vulnérable car exposé, dans une région parcourue de tensions [1]. Le contrôle de la charnière turque est essentiel pour maîtriser la problématique moyen-orientale, en bonne harmonie avec l’ensemble européen. Pendant toute la guerre froide, la Turquie a été le poste avancé de surveillance de l’Occident à l’est, face à l’ennemi soviétique ; dans la décennie qui suit la chute du Mur, elle a été pensée comme bouclier contre l’islam radical.

La Turquie n’était donc pas, jusqu’à l’ouverture de l’ère AKP (Adalet ve Kalkinma Partisi, Parti de la justice et du développement, d’origine islamiste, actuellement au pouvoir) en 2002, un enjeu stratégique en elle-même, mais bien un partenaire pour les dossiers géopolitiques régionaux. La relation bilatérale turco-américaine est fondée sur des intérêts stratégiques partagés, le niveau des relations économiques est faible, le dialogue politique existe, mais apparaît, jusqu’à une période récente, dénué de relief et de complicité. Cependant, Washington sait que la fonction d’intermédiaire géopolitique assignée à la Turquie est fragile et craint aujourd’hui plus que jamais que l’allié ne passe dans l’autre camp. Ancrer la Turquie à l’ouest est donc le premier objectif poursuivi par toutes les Administrations américaines depuis les années 1940. Cela passe, dans un premier temps, par le bénéfice du plan Marshall et par l’intégration à l’Organisation de coopération et de développement économiques (OCDE) – alors que la Turquie n’est pas entrée dans la Seconde Guerre mondiale ; par son admission à l’OTAN en 1952, en même temps que la Grèce, pour participer à la guerre de Corée ; puis par le lobbying en faveur du rapprochement de la Turquie avec la Communauté économique européenne (CEE) puis de son adhésion à l’Union européenne (UE). Les États-Unis entérinent ainsi sans état d’âme la double appartenance géographique et identitaire de la Turquie, contrairement à une Europe qui doute encore de ses frontières et dont l’imaginaire collectif reste marqué par des a priori négatifs, héritages des « turqueries » d’un Empire ottoman autrefois menaçant [2].

Un allié traditionnellement remuant

Partenaire stratégique, allié, mais pas forcément ami : c’est ainsi que la Turquie elle-même perçoit les États-Unis, une grande partie de l’opinion turque cultivant un antiaméricanisme de principe qui s’exprime par crises face aux grands événements internationaux. Les sondages d’opinion le démontrent : le sentiment antiaméricain se renforce étonnamment en Turquie au fil des décennies, nourri d’incidents objectifs et de représentations fantasmées, qui heurtent le nationalisme turc [3]. Imprégnées de culture politique européenne, voire française, les élites kémalistes traditionnelles n’ont jamais considéré les États-Unis comme un modèle de société ou d’organisation politique [4]. Ce sentiment antiaméricain est partagé par la gauche turque, sur fond d’anti-impérialisme, et par une bonne partie de l’armée et de la classe politique, qui se sentent négligées par Washington et lui prêtent régulièrement des intentions malveillantes à l’égard de la Turquie ; nombre de théories du complot circulent ainsi, attribuant la paternité des coups d’États militaires successifs à l’intervention occulte des Américains [5].

Seul le président Turgut Özal a fait preuve, dans la classe politique turque, d’une américanophilie réelle, coïncidant dans le temps, heureusement pour Washington, avec la première guerre du Golfe. Cette méfiance traditionnelle vis-à-vis des États-Unis se résorbe cependant en partie depuis l’arrivée de l’AKP aux affaires, ce dernier s’appuyant davantage sur de nouvelles élites anglophones, que leurs origines anatoliennes n’empêchent pas d’être plus en phase avec la mondialisation, et qui prisent surtout le modèle américain de liberté religieuse.

En pratique, la relation stratégique turco-américaine n’a jamais fonctionné de façon impeccable au-delà des années 1950. La Turquie est restée un allié compliqué et les accrocs n’ont pas manqué. La substance de la relation étant d’ordre sécuritaire, l’Administration américaine a longtemps fermé les yeux sur les petits accommodements de la Turquie avec la doxa démocratique occidentale. Les épisodes de confrontation sont en revanche réguliers dans le cadre de l’OTAN. Les Turcs ont ainsi gardé le souvenir très vif de plusieurs désaccords historiques où la puissance américaine a imposé ses vues contre les priorités nationales turques, d’où une amertume persistante. Les États-Unis se sont opposés à la Turquie sur la question chypriote en 1964 et en 1974, décrétant à l’époque un embargo sur les armes à destination de la Turquie ; dans les années 1980, l’aide militaire à la Turquie sera calibrée sur celle accordée à la Grèce, avec un ratio de sept pour dix. Mais les difficultés s’accumulent surtout du côté de l’Irak, où la préférence américaine pour les Kurdes inspire aux Turcs un malaise persistant. Fin 1991, une no-fly zone est établie dans le nord de l’Irak par les États-Unis, la France et le Royaume-Uni pour protéger les insurgés kurdes irakiens de la vengeance programmée de Saddam Hussein. Les Turcs se résolvent à contrecœur aux opérations Provide Comfort et Poised Hammer, mises en œuvre à partir de la base d’Incirlik, construite près d’Adana, au sud de la Turquie, aux premiers temps de la guerre froide. Les Turcs acceptent également les sanctions prévues contre l’Irak, malgré la perte économique manifeste que cela implique pour eux. Ils assistent surtout à partir de ce moment-là avec inquiétude à l’autonomisation progressive du Kurdistan irakien, où la guérilla du Parti des travailleurs du Kurdistan (Partiya Karkerên Kurdistan, PKK), active en Turquie depuis 1984, commence à installer ses bases. L’ensemble de ces concessions marque durablement les esprits, et explique bien des réactions turques pour la suite de l’histoire irakienne.

1991-2001 : la décennie du basculement

La Turquie a pu craindre d’être marginalisée par la fin de la guerre froide ; elle s’est au contraire trouvée libérée d’une partie de ses obligations anciennes, tout en gagnant la possibilité de jouer d’autres rôles. La décennie 1991-2001, qui s’ouvre avec la première guerre du Golfe et s’achève avec le 11 septembre, apparaît ainsi a posteriori comme la décennie du basculement de la relation turco-américaine. Pour des raisons tenant à la fois aux circonstances régionales et à la trajectoire nationale des deux partenaires, l’équilibre des forces, traditionnellement très favorable aux Américains, bascule insensiblement du côté de la Turquie.

Dès les années 1990, l’alliance turco-américaine se consolide en se diversifiant ; la Turquie devient un partenaire multifonctions, pouvant contribuer à la résolution de bon nombre des difficultés diffuses posées par un système international instable. Elle est ainsi pleinement intégrée à l’équation de stabilisation de l’Europe balkanique et participe aux forces de maintien de la paix en Bosnie, au Kosovo, en Macédoine. Mais c’est le 11 septembre 2001 et ses suites qui la poussent au devant de la scène, en faisant un protagoniste essentiel des plans de Washington au Moyen-Orient. Les États-Unis considèrent à l’époque qu’une Turquie laïque, encore largement sous l’emprise des militaires, peut servir de digue contre la vague islamiste. Ce schéma de défense se double après le 11 septembre du fantasme d’une Turquie modèle politique, incarnant la démocratie musulmane avancée que l’Administration américaine rêve de répandre au Moyen-Orient.

L’impact du 11 septembre sur la Turquie est cependant ambigu. Traditionnellement en quête de réassurance identitaire, elle se trouve à l’époque mise en scène comme pays de l’entre-deux par des décideurs occidentaux devenus huntingtoniens, dans un monde découpé en zones antagonistes. Pensée comme « pont » entre les civilisations, ou comme instrument du dialogue avec un monde musulman hostile aux États-Unis, elle prépare dès ce moment sa reconversion et le réveil de sa vocation orientale assoupie.

Le pacte imprécis : la dérive de la relation turco-américaine

La relation turco-américaine traverse manifestement aujourd’hui une phase de réajustement houleux. Depuis le déclenchement de la seconde guerre du Golfe, accidents, désaccords et mésententes s’accumulent entre la première puissance mondiale et l’aspirant challenger qui a fait du Moyen-Orient le laboratoire de son renouveau économique et diplomatique. Cette dérive inquiète Washington, tandis qu’elle semble nourrir une forme d’exaltation à Ankara : la Turquie a cessé d’être un faire-valoir et fait comprendre qu’elle travaille désormais avant tout pour son propre compte.

La crise de 2003, tournant ou révélateur ?

La première crise de confiance significative entre les deux alliés a lieu le 1er mars 2003. Elle prend tout le monde par surprise et laisse le champ libre à des interprétations multiples. Ce jour-là, la Grande Assemblée nationale turque refuse le passage et le stationnement en Turquie de 62 000 militaires américains en route vers l’Irak. Les leaders de l’AKP, qui disposent pourtant d’une solide assise au Parlement, n’ont pas réussi à réunir la majorité absolue des voix ; la discipline de parti n’a vraisemblablement pas été strictement respectée, face à une opinion publique turque massivement opposée à la guerre en Irak. Le lendemain, le chef d’état-major de l’armée turque affirme pourtant qu’il apporte son soutien à l’opération américaine. Le secrétaire d’État américain adjoint à la Défense Paul Wolfowitz qualifie la prise de position turque de « grosse erreur », et les États-Unis agitent des menaces de rétorsion financière [6].

La crise est progressivement surmontée. La Turquie rejoint la coalition du côté des pays fournissant un appui logistique aux opérations, et obtiendra une compensation pour services rendus. Depuis 2003, la moitié des avions cargos militaires à destination de l’Irak sont bien partis de la base d’Incirlik. Mais le vote de 2003, qui a définitivement remis en cause la fiction d’un soutien turc automatique aux décisions de Washington, concentre toute la complexité d’un rapport empoisonné par le ressentiment turc. Pour compenser les brimades subies depuis 1991 sur le dossier kurdistanais, les Turcs ont donné libre cours à leurs divergences internes, et l’anarchie chronique de leur système de décision, que les Américains rebaptisent traditionnellement « instabilité », a accouché d’un blocage. La Turquie a infligé aux États-Unis un traumatisme majeur : elle cesse dès ce moment d’être considérée comme un allié fiable. La relation turco-américaine s’intensifie cependant, car les difficultés bilatérales impliquent de multiplier les consultations, mais tout se joue désormais sur le mode du rapport de forces. Les deux États entrent dans un système de marchandage permanent. La question irakienne devient le baromètre de la relation pendant quelques années de tâtonnements, désaccords et accusations mutuelles de traîtrise – les Turcs accusent les Américains de soutenir le PKK et mènent des opérations au Kurdistan irakien pour y traquer la guérilla, tandis que les Américains soupçonnent les Turcs de faciliter le passage d’Al-Qaida. Tout s’apaise progressivement à partir de 2008 : l’Irak devient le lieu privilégié du redéploiement de la puissance turque, au point qu’elle s’y impose comme relais politique naturel au moment du retrait américain.

Le modèle politique turc, entre « islam modéré » et « islamisme »

Un nouveau paramètre essentiel entre maintenant en jeu pour façonner la perception américaine de la Turquie. Celle-ci est gouvernée depuis 2002 par un parti d’origine islamiste, très préoccupé cependant durant ses premières années tests de démontrer son attachement à la modernité occidentale. L’AKP, que sa sociologie rend plus américanophile que les élites turques classiques, devrait en principe être l’ami de Washington ; il semble a priori être le candidat idéal pour incarner le fantasme américain d’un « islam modéré », ennemi de l’islam radical djihadiste que Washington combat ouvertement depuis le 11 septembre.

La place et l’influence réelle des islamistes dans le système politique turc ont pourtant toujours préoccupé les Américains, et l’État ami musulman a déjà failli basculer du mauvais côté en un moment de l’histoire récente. Parvenu au pouvoir en 1996 grâce à l’une de ces péripéties électorales dont la Turquie est coutumière, Necmettin Erbakan, le leader du Refah Partisi (Parti de la prospérité), parti islamiste ancêtre de l’AKP, s’était rapidement embarqué dans une surenchère islamique en interne comme en politique étrangère. Lorsque l’armée turque le persuada, moins d’un an plus tard, de démissionner, Washington se contenta d’affirmer à la fois son attachement au sécularisme et à la démocratie – deux préférences malaisément démontrables par un coup d’État militaire, fût-il qualifié par les analystes de soft, en comparaison de ceux qui avaient rythmé les décennies précédentes [7].

L’installation de l’AKP aux affaires ouvre une autre période ambiguë. Lorsque ce parti néo-islamiste, qui se décrit volontiers comme « musulman démocrate », à l’instar des démocrates chrétiens européens, gagne largement les élections de 2002 et se retrouve au Parlement en tête-à-tête avec les sécularistes du vieux parti kémaliste, le Parti républicain du peuple (Cumhuriyet Halk Partisi, CHP), beaucoup d’observateurs craignent une islamisation rapide de la Turquie. Quelques années plus tard, et malgré les gages d’ouverture donnés par l’AKP sur certains dossiers intérieurs qui s’avèrent fondamentaux au moins pour faire avancer le processus d’adhésion à l’UE (droits des Kurdes, place de l’armée dans le jeu politique, etc.), le soupçon d’un « agenda caché » islamique demeure [8].

Le contenu des télégrammes diplomatiques américains récemment révélés par WikiLeaks en dit long sur le malaise américain face à l’expérience AKP. On y lit des descriptions peu flatteuses du Premier ministre Recep Tayyip Erdogan, que l’ambassade américaine à Ankara perçoit comme un fondamentaliste islamique peu cultivé et peu ouvert, obsédé par le pouvoir et développant une tendance à l’autocratie, évoluant de surcroît dans un milieu très corrompu. L’appartenance d’une partie de son entourage à une confrérie islamique dérange les diplomates américains, de même que ses largesses envers des banquiers islamistes et son obstination à ne s’informer que par des journaux islamistes. En bref, le biais religieux imprègne les analyses des décideurs américains, également très inquiets de la montée de l’antisémitisme en Turquie [9].

L’échappée orientale de la diplomatie turque

Si l’évolution du paysage politique turc intéresse désormais plus sérieusement l’Amérique, c’est qu’elle a un impact évident sur les choix de politique étrangère du pays. L’activité diplomatique incessante et tous azimuts de la Turquie fascine beaucoup d’observateurs : puissance montante incontestée dans son environnement régional, elle s’impose sur de nombreux dossiers qui intéressent les États-Unis. À leur arrivée aux affaires, les cadres dirigeants de l’AKP n’avaient, à l’exception du président Abdullah Gül, qu’une faible expérience de l’international. Une décennie plus tard, le bilan diplomatique de l’équipe est impressionnant, mais les nouvelles options turques au Moyen-Orient sont une source régulière d’inquiétude pour Washington.

La politique étrangère turque est menée tambour battant depuis presque trois ans par le ministre Ahmet Davutoglu, ancien universitaire ayant développé une vision originale et turco-centrée du système international. Si ses premiers écrits le rattachent clairement à une généalogie islamiste, sa rhétorique actuelle insiste sur la portée du soft power et met en scène la Turquie comme une puissance bienveillante, acteur majeur dans son environnement régional immédiat mais désireuse d’intervenir bien au-delà [10]. Le Moyen-Orient est devenu le laboratoire d’action privilégié de ce ministre atypique, dont les ambitions ont rapidement été décrites aux États-Unis comme « néo-ottomanes », car se déployant dans les anciens espaces d’influence de l’Empire [11].

La présence turque au Moyen-Orient se renforce de plusieurs façons et embarrasse les États-Unis pour diverses raisons. Pour concrétiser son ambition de soft power, Ankara signe des accords de libre-échange et de libre circulation avec plusieurs pays arabes, dont la Libye et la Syrie, et se confirme comme acteur économique de premier plan sur des terrains encore difficilement praticables pour les entreprises occidentales, comme l’Irak. Sa diplomatie de médiation cherche à se rendre indispensable dans toutes les configurations de conflit : elle intervient comme médiateur entre la Syrie et Israël en 2008, s’interpose régulièrement entre les factions palestiniennes rivales du Fatah et du Hamas, ou entre les parties libyennes après mars 2011 ; défendant le principe d’une solution politique sur le dossier du nucléaire iranien, elle tente, en tandem avec le Brésil, de retarder l’adoption de nouvelles sanctions internationales contre Téhéran. Sa capacité à gérer des relations parallèles avec les différents centres de pouvoir en Irak, de Bagdad au gouvernement régional kurdistanais, tout en défendant les intérêts de la minorité turkmène, montre aussi que la Turquie sait organiser son influence dans le jeu politique interne de ses voisins quand ses intérêts vitaux (énergétiques, mais aussi politiques dans le cas des Kurdes) sont en jeu. La brouille est en revanche consommée avec Israël après l’épisode du Mavi Marmara au printemps 2010 ; la mort de neuf militants turcs lors de l’assaut des forces spéciales israéliennes contre le navire qui tente de forcer le blocus de Gaza propulse la Turquie comme héraut de la cause palestinienne.

Toutes ces avancées confortent le désir d’indépendance de la Turquie et lui permettent de marchander sa coopération avec les États-Unis sur des dossiers essentiels. Si elle s’est immédiatement jointe à la coalition en Afghanistan en 2001, elle s’y met en scène comme seul membre musulman de l’Alliance, n’y a pas envoyé de troupes combattantes et refuse d’y renforcer ses effectifs quand les États-Unis le lui demandent. Son positionnement dans l’OTAN apparaît d’ailleurs de plus en plus décalé. Au printemps 2009, la crise de la nomination du secrétaire général – Ankara bloquant dans un premier temps la candidature de Anders Fogh Rasmussen, l’ancien Premier ministre danois ayant soutenu en 2005 le quotidien Jyllands Posten dans l’affaire des caricatures de Mahomet –, a marqué le début d’une série de coups d’éclat destinés à valoriser son statut d’allié à part. Au sommet de Lisbonne de décembre 2010, la Turquie se rallie au projet de bouclier antimissile, mais obtient que l’OTAN ne désigne pas nommément l’Iran comme menace. Lors de la crise libyenne, la Turquie commence par s’opposer à l’intervention alliée, avant de rentrer tardivement dans le rang. Toutes ces manifestations d’autonomie incitent certains à prédire un possible retrait turc de l’OTAN ; par le passé, des analystes américains ont déjà pu suggérer que le pays n’y avait plus sa place [12]. C’est en tout cas dans cette enceinte multilatérale que se cristallisent le plus violemment les désaccords turco-américains, mais c’est aussi là, désormais, que se redéfinit en permanence le sens de la relation.

Le contenu précis des ambitions turques au Moyen-Orient est difficile à mesurer, de même que la capacité du pays à tenir ces ambitions dans un environnement qui se dégrade chaque jour, mais la rhétorique officielle reste impressionnante. Au soir de son nouveau triomphe électoral du 12 juin 2011, le Premier ministre Erdogan a ainsi prononcé à Ankara un « discours du balcon » illustrant la dimension identitaire de sa nouvelle politique étrangère et le désir de leadership des Turcs dans la région [13]. Dans un élan inédit remarqué des observateurs turcs et internationaux, le Premier ministre turc y affirmait que le résultat des élections turques était salué « à Bagdad, à Damas, à Beyrouth, à Amman, au Caire, à Tunis, à Sarajevo, à Skopje, à Bakou, à Nicosie », citant aussi Ramallah, Naplouse, Jénine, Jérusalem et Gaza, avant de parler de « victoire de la démocratie, de la liberté, de la paix, de la justice et de la stabilité ».

Un effacement américain programmé : quelles responsabilités pour la Turquie au Moyen-Orient ?

Cette confiance retrouvée de la Turquie dans son destin oriental ne devrait pas forcément inquiéter une Amérique qui peine de plus en plus à mettre seule de l’ordre dans la région. La Turquie étant maintenant en position de négocier sa contribution, il faut comprendre si elle est prête à jouer le rôle de puissance d’appui pour accompagner le retrait américain du Moyen-Orient, ou si elle souhaite s’imposer comme une puissance alternative, défendant une vision du monde différente.

S’accommoder de la nouvelle Turquie

L’émancipation rapide de l’allié jusqu’ici docile rend évidemment les calculs américains beaucoup plus complexes que par le passé. C’est, au fond, la réussite turque au sens large qui nourrit le dilemme américain. Washington a longtemps considéré que le pays était doté d’un fort potentiel économique et diplomatique, tout en notant que ses difficultés intérieures l’empêchaient de valoriser ce potentiel. Morton Abramowitz, ancien ambassadeur américain en Turquie sous l’ère Özal et conseiller de Bill Clinton, reprenait en 2000 l’éternelle interrogation américaine – quand ce pays tellement doté allait-il enfin décoller ? –, soulignant que la Turquie était encore plombée par sa dette extérieure, son instabilité politique et ses blocages identitaires, otage d’une classe politique corrompue et enfoncée dans le sous-développement [14]. Dix ans plus tard, l’étoile montante turque, libérée de bien des contraintes et de la plupart de ses tabous, affiche une baraka exceptionnelle et pose finalement bien plus de problèmes à l’ami américain.

Le diagnostic qui s’impose, au vu des accrocs de plus en plus fréquents entre les deux partenaires, est que les États-Unis et la Turquie sont entrés dans une zone de négociation continue afin de trouver un nouvel équilibre qui satisfasse à la fois le besoin de reconnaissance turc et les impératifs de sécurité américains. En dépit de son caractère moins stable, la relation turco-américaine n’a rien perdu de sa qualité stratégique ni de sa portée globale, même si elle se recompose autour de chaque dossier commun. La Turquie ne peut en effet être tenue à l’écart d’aucun des dossiers essentiels sur lesquels les États-Unis sont impliqués au Moyen-Orient. Depuis 30 ans, de l’Irak à l’Afghanistan, elle a aussi démontré qu’elle est un partenaire indispensable pour faire face aux crises imprévues [15]. Lorsque les objectifs concordent, elle demeure un auxiliaire ponctuel indispensable aux États-Unis. De son côté, Ankara ne peut évidemment pas davantage tourner le dos aux États-Unis, car elle ne peut assumer seule des fardeaux stratégiques multiples et dépend beaucoup de l’industrie américaine en matière d’armement [16]. Plus qu’en challenger, elle souhaite s’imposer comme partenaire à égalité.

La relation n’a donc rien perdu de son importance, mais elle a perdu ses automatismes. Rien ne coïncide plus de façon spontanée, en termes de besoins, d’intérêts et de priorités : la fin de l’alignement est/ouest et la diversification du portefeuille diplomatique turc ont introduit de nombreux décalages, que les deux partenaires doivent apprendre à gérer aussi bien que leurs convergences. La conduite de la relation requiert donc désormais une ingénierie humaine et technique exigeante. L’Administration américaine a pris acte de la volatilité nouvelle des Turcs et de leur désir d’être réévalués comme alliés, et se montre prête à mobiliser des compétences et du temps. Les canaux de communication entre les deux pays sont aujourd’hui très nombreux et actifs. Washington a beaucoup élargi son spectre d’interlocuteurs au-delà de l’armée et a appris à prendre au sérieux la classe politique et certains piliers de la société civile turque, comme les multiples think tanks nés ces dernières années. Les visites d’officiels américains se succèdent en Turquie, du président Obama à Hillary Clinton, en passant par le directeur de la Central Intelligence Agency (CIA), Leon Panetta, ou les délégations de parlementaires américains – qui doivent gérer, à leur niveau, un autre point de désaccord potentiel, autour de la question de la reconnaissance du génocide arménien.

Des dilemmes aux responsabilités partagées : une Turquie relais ?

La principale inquiétude concerne finalement les velléités des Turcs de promouvoir un nouvel ordre international allant à l’encontre des intérêts et des valeurs américains. De ce point de vue, la prétention des Turcs à s’ériger en porte-parole du monde musulman, ou à défendre la place des pays émergents dans le système de gouvernance mondial (notamment via le G20), ébranle régulièrement le cadre de discussion bilatéral. Son crédit étant notoirement affaibli au Moyen-Orient dans ce qui est aujourd’hui le périmètre d’influence des Turcs, Washington est évidemment contraint de prendre en compte les messages que la Turquie y diffuse. Le rôle majeur de la Turquie face à l’Iran dans le contexte irakien et sa capacité de médiation en Afghanistan sont des éléments essentiels dans l’équation de stabilisation régionale. S’il ne leur est pas toujours possible de travailler ensemble, la base d’une bonne entente doit en tout cas être maintenue, car la Turquie pourrait servir de relais modérateur sur tous ces terrains [17].

La diplomatie turque semble elle-même au bord d’un syndrome d’overstretch à l’américaine. Présente et active sur tous les terrains à sa portée, du Caucase aux Balkans, elle peine à maintenir sa cohérence et ne déploie pas une vision politique claire. À ce titre, la crise du printemps arabe constitue un test à grande échelle de la capacité des Turcs à assumer leurs responsabilités nouvelles de puissance. La Turquie est apparue absente face aux événements tunisiens, assez distante face à la révolution égyptienne, exagérément hésitante sur les dossiers libyen et syrien. Il est donc trop tôt pour dire si les essais diplomatiques en cours ouvrent des perspectives nouvelles au service d’une stabilité régionale mise à mal par l’expérience néoconservatrice. Les avancées turques au Moyen-Orient semblent encore souvent dictées par un désir de revanche sur l’histoire : reste à définir un projet viable pour l’avenir.

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[1] Cette notion de géopolitique classique est régulièrement appliquée à la Turquie par les stratèges américains ; voir l’analyse de P. Marchesin, « Géopolitique de la Turquie à partir du Grand échiquier de Zbignew Brzezinski », Études internationales, vol. 33, n° 1, 2002, p. 137-157. Le concept d’une Turquie pivot est régulièrement développé dans des ouvrages publiés aux États-Unis après le 11 septembre 2001 ; cf. S. Larrabee et I. O. Lesser, Turkish Foreign Policy in an Age of Uncertainty, Santa Monica, CA, Rand, 2003.

[2] Z. Önis et S. Yilmaz, « The Turkey-EU-US Triangle in Perspective : Transformation or Continuity ? », The Middle East Journal, vol. 59, n° 2, 2005.

[3] Pour une analyse sur plusieurs années des données du Pew Research, voir S. Cagaptay, « Persistent Anti-Americanism in Turkey », Soner’s Desk, 10 janvier 2010, disponible à l’adresse suivante :. On y suit l’impressionnante plongée américaine post-11 septembre, jusqu’à 14 % seulement d’opinions favorables après l’élection de Barack Obama.

[4] « La République : visions franco-turques », interview réalisée par Dorothée Schmid avec Baskin Oran, Paris, Ifri, « Note franco-turque », n° 6, mai 2011.

[5] Ce contexte psychologique très tendu est finement analysé sur plusieurs décennies par C. Candar, « Some Turkish Perspectives on the United States and American Policy Toward Turkey », in M. Abramowitz, Turkey’s Transformation and American Policy, New York, Century Foundation Press, 2000, p. 128. Pour une actualisation du malaise turc après la crise de 2003, voir H. Bozarslan, « L’anti-américanisme en Turquie », Le Banquet, vol. 2, n° 21, 2004, p. 61-72.

[6] « Wolfowitz Says Turkey Made “Big, Big Mistake” In Denying Use of Land », The Turkish Times, avril 2003, n° 317.

[7] S. Arsever, « L’adieu turc à l’ami des Frères musulmans », Letemps.ch, 1er mars 2011.

[8] Mentionnant expressément ce danger, un éditorial récent de la presse anglo-saxonne a fait couler beaucoup d’encre en Turquie avant les dernières élections législatives : « One for the opposition », The Economist, 2 juin 2011.

[9] N. Bourcier, « WikiLeaks : Erdogan jugé autoritaire et sans vision », Lemonde.fr, 30 novembre 2010.

[10] Dans sa thèse de doctorat, le ministre A. Davutoglu proposait une lecture islamisante du système international qui suscita tardivement des commentaires inquiets outre-Atlantique : Alternative Paradigms : The Influence of Islamic and Western Weltanschauung on Political Theory, Lanham, University Press of America, 1994 ; voir M. Koplow, « Hiding in Plain Sight », Foreign Policy, 2 décembre 2010. L’ouvrage majeur d’A. Davutoglu, Stratejik derinlik : Türkiye’nin uluslararasi konumu [Profondeur stratégique : la position internationale de la Turquie], Istanbul, Küre Yayinlari, 2001, dans lequel il expose sa vision du monde à 360 degrés à partir du territoire turc, n’a pas été traduit en anglais.

[11] O. Taspinar, « Turkey’s Middle East Policies : Between Neo-Ottomanism and Kemalism », Washington, DC, Carnegie Endowment for International Peace, Middle East Center, septembre 2008, « Carnegie Paper », n° 10.

[12] B. Badie, « L’appartenance de la Turquie à l’OTAN est devenue plus coûteuse qu’utile », Lemonde.fr, 15 juin 2011 ; D. Pipes, « Does Turkey Still Belong in NATO ? », Philadelphia Bulletin, 6 avril 2009.

[13] J.-P. Burdy, « Retour sur le “discours du balcon” et sur la victoire d’un nouveau leader régional », Observatoire de la vie politique turque (OVIPOT), 26 juin 2011, disponible à l’adresse suivante : < ovipot.hypotheses.org/5873>.

[14] M. Abramowitz, op. cit., introduction.

[15] Entretien avec Kadri Gürsel, éditorialiste au quotidien Milliyet, juillet 2011.

[16] R. Weitz, « Whither Turkey-US Arms Sales ? », Turkey Analyst, vol. 4, n° 11, 2011.

[17] E. Alessandri, « Turkey and the West Address the Arab Spring », The German Marshall Fund of the United States (GMF), « Analysis », 8 juin 2011.