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dimanche, 09 février 2020

Carl Schmitt spiegato ai giovani

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Carl Schmitt spiegato ai giovani

Intervista con Niccolò Rapetti

Ex: https://ragionipolitiche.wordpress.com

La complessità e la irriducibilità a formule del pensiero politico di Carl Schmitt sono immediatamente evidenti guardando alla sua travagliata fortuna scientifica. Si tratta innanzitutto di un reazionario cattolico, un conservatore compromesso nel regime hitleriano; negli anni però la sua critica anti-imperialista e anti-liberale ha iniziato a piacere molto anche alla sinistra e pur nel suo evidente anti-americanismo il suo libro Il nomos della Terra è oggi lettura obbligata per gli ufficiali di marina americana. Professor Carlo Galli, mi viene spontanea una domanda: di chi è Carl Schmitt?

51nlk4lnd+L._SX326_BO1,204,203,200_.jpgÈ un grande giurista del diritto pubblico e del diritto internazionale, che ha avuto il dono di un pensiero veramente radicale, e la sorte di vivere in un secolo di drammatici sconvolgimenti intellettuali, istituzionali e sociali. Ciò ne ha fatto anche un grande filosofo e un grande scienziato della politica; e lo ha esposto a grandi sfide e a grandi errori.

È innanzitutto necessario chiarire la posizione di Schmitt nella storia delle idee e del diritto: Carl Schmitt è «l’ultimo consapevole rappresentante dello jus publicum europaeum, l’ultimo capitano di una nave ormai usurpata». Che cos’è lo jus publicum europaeum? Come e quando inizia il suo declino, che Schmitt attraversò «come Benito Cereno visse il viaggio della nave pirata»?

Lo jpe è l’ordine del mondo eurocentrico della piena modernità; un ordine che è anche Stato-centrico, al quale Schmitt sa di appartenere anche se è ormai in rovina. Un ordine, per di più, che egli stesso decostruisce, mostrando che si fondava sul disordine, cioè non solo sull’equilibrio fra terra e mare ma anche sulla differenza di status fra terra europea e terre extra-europee colonizzate. Il declino di quell’ordine nasce quando si perde la consapevolezza della sua origine di crisi: quando l’uguaglianza formale fra Europa e non-Europa viene affermata nelle teorie (gli universalismi dell’economia, del diritto, delle teorie politiche democratiche e della morale) e nella pratica (l’imperialismo delle potenze anglosassoni, la loro – interessata – esportazione del capitalismo e della democrazia). Cioè per Schmitt dai primi anni del XX secolo.

Come si coniugano gli elementi «febbrilmente apocalittici» (teologia) e quelli «causticamente razionali» (diritto) nel pensiero politico di Carl Schmitt? In che posizione si trova il giurista Schmitt nei confronti di tecnica e teologia, diritto positivo e katechon?

Schmitt non è un apocalittico in senso proprio, nonostante sia così interpretato da Taubes. La teologia è, nel suo pensiero, un punto di vista, sottratto all’immanenza moderna, a partire dal quale comprendere diritto e politica, e le loro dinamiche. La teologia non ha la pretesa di essere una sostanza fondativa (Schmitt non è un fondamentalista) ma è anzi la consapevolezza dell’assenza di sostanza (di Dio), nell’età moderna. Questa assenza, che Schmitt reputa irrimediabile, è la spiegazione del fatto che la modernità è instabile, e che il suo modo d’essere è l’eccezione: questa richiede la decisione perché si possano formare ordini, e continua a vivere dentro gli ordini e le forme, che quindi non possono mai essere chiusi, razionali, neutralizzati. Da ciò deriva anche l’importanza del potere costituente, ovvero dell’atto sovrano che fonda un ordine a partire da una decisione reale sull’amico e sul nemico. E da ciò anche la tarda insistenza sulla terra (sulla concretezza spaziale) come possibile fondamento stabile degli ordini.

Considerando la distinzione politica fondamentale Freund-Feind, che opinione può avere Schmitt di tendenze fondamentali del suo e del nostro tempo, universalismo e pacifismo, che escludono per definizione l’idea di nemico?

418dj-pLosL._SX322_BO1,204,203,200_.jpgSchmitt pensa – e lo spiega in tutta la sua produzione internazionalistica, dal 1926 al 1978 – che ogni universalismo e ogni negazione della originarietà del nemico siano un modo indiretto per far passare una inimicizia potentissima moralisticamente travestita, per generare guerre discriminatorie. Per ogni universalismo chi vi si oppone è un nemico non concreto e reale ma dell’umanità: un mostro da eliminare. Perché ci sia pace ci deve essere la possibilità concreta del nemico, non la sua criminalizzazione, secondo Schmitt.

Dopo aver annunciato la morte dello Stato nel saggio Il Leviatano di Hobbes, Schmitt teorizzò un’alternativa al potere statale, adeguata alla nuova concezione globale del pianeta che conservando la natura plurale del politico, potesse compiere la grande impresa «degna di un Ercole moderno»: domare la tecnica scatenata. Stiamo parlando dei Grandi Spazi, la cui formulazione è contenuta nella conferenza L’ordinamento dei grandi spazi nel diritto internazionale scritto nel 1939. Ce ne può parlare?

Il Grande Spazio, o Impero, è la risposta di Schmitt al Lebensraum nazista. Non ha caratteristiche biologiche, ma è in pratica la proposta di egemonia di una forma politica all’interno di uno spazio geografico-politico in cui continuano a esistere altre forme politiche non pienamente sovrane. Il GS è più che una sfera d’influenza, perché è gerarchicamente organizzato al proprio interno e perché è chiuso a influenze esterne; ed è diverso dallo Stato perché non è del tutto omogeneo giuridicamente: perché non è un «cristallo». I GS sono i soggetti di una concezione plurale delle relazioni internazionali; le due superpotenze del secondo dopoguerra, invece, per Schmitt erano due universalismi (capitalismo e comunismo) in lotta fra di loro e in instabile equilibrio.

Negli interrogatori dell’immediato dopoguerra Schmitt difese strenuamente la propria concezione del nuovo ordinamento spaziale chiarendone la differenza rispetto alla vera dottrina politica del Terzo Reich cioè lo spazio vitale razziale-biologico. È però indubbio che nel grande spazio come pensato da Schmitt si annidi un antisemitismo coerente con ciò che è condizione sine qua non della teoria: un rapporto forte e concreto tra etnia-popolo e terra civilizzata. Il nemico quindi, per Schmitt, non è l’ebreo in quanto Un-mensch (sotto-uomo, razza inferiore), ma l’«ebreo assimilato» che si pone come elemento sradicante della territorialità e della concretezza di una cultura. Dove sta allora la verità, che cosa direbbe sull’imputato e sull’imputazione: ideologia o scienza?

In Schmitt ideologia e scienza non sono distinguibili: ogni scienza è orientata,  storica; è affermazione di un ordine concreto, oltre che ricostruzione genealogica degli ordini. L’antisemitismo, poi, è presente in tracce più o meno evidenti in buona parte della filosofia tedesca – da Hegel a Schopenhauer, da Marx a Heidegger –, in forme diverse e con significati diversi; nei grandi filosofi non è mai determinante – ovvero, non è il motivo che dà origine al filosofare –: l’ebreo è utilizzato come un esempio di non-appartenenza, di individualistico sradicamento, di coscienza infelice e al contempo aggressiva. Il capitalismo, il socialismo e  la tecnologia sono spiegati anche (certo, non soltanto – soprattutto nel caso di Marx –) attraverso l’ebraismo, insomma. Questo atteggiamento – che è presente con forse maggiore virulenza anche nella destra francese – è ai nostri occhi gretto, insensato, pericolosissimo e tendenzialmente criminale. Schmitt, come persona, è stato antisemita in seguito al suo cattolicesimo (una delle fonti dell’antisemitismo in Europa; ma anche Lutero era violentemente antisemita), senza però che l’antisemitismo fosse particolarmente rilevante o importante nel suo pensiero; la sua adesione al nazismo, che a suo tempo ha sorpreso tutti,  non è dovuta all’antisemitismo ma a un misto di disperazione (per la caduta di Weimar, che aveva cercato vanamente di salvare), di orgoglio (la pretesa di poter guidare il nazismo verso un pensiero «civilizzato» e verso la soluzione della crisi dello Stato) e di ambizione (la chiamata in cattedra a Berlino, la vicepresidenza della associazione dei giuristi tedeschi, il ruolo tecnico rilevantissimo nella stesura di alcune leggi costituzionali come quella dei «luogotenenti del Reich» – 1933 –, la nomina a consigliere di Stato prussiano). Data la struttura radicale del suo pensiero, cioè dato il nichilismo che dopo tutto vi alberga e che gli impedisce ogni valutazione di carattere morale, e dato anche il suo precedente larvato antisemitismo, Schmitt non ha avuto remore nell’adeguarsi all’antisemitismo nazista – ben diverso da ogni altro – che pure non gli apparteneva, e che ha prodotto effetti terribili e grotteschi nei testi da lui scritti dal 1933 al 1936 (anno della crisi del suo rapporto con il regime), con alcuni strascichi nel libro hobbesiano del 1938 e nei testi «segreti» del primo dopoguerra (in realtà scritti per essere pubblicati postumi). In generale, per lui l’ebraismo è un altro nome del liberalismo (il problema è che nella fase nazista è trattato come la causa del liberalismo). La responsabilità politica, morale e storica è tutta sua; gli studiosi devono sapere che la forza del suo pensiero sta altrove, e al tempo stesso devono sapere che quel pensiero è indifeso davanti a questo tipo di aberrazioni (ma anche ad altre analoghe, di altro segno).

1200px-Grabstein_Carl_Schmitts.jpegCarl Schmitt si è spento nel 1985 a Plettenberg in Westfalia alla veneranda età di 97 anni. Ciò significa che il suo sguardo non supera la «cortina di ferro» e si estende solo alla realtà della guerra fredda. Anche durante questo delicato periodo Schmitt ha continuato la sua attività di studioso e attento indagatore delle questioni di diritto internazionale dei suoi anni. Si espresse quindi sul dualismo USA-URSS, vedendo in esso una tensione verso l’unità del mondo nel segno della tecnica che avrebbe sancito l’egemonia universale di un «Unico padrone del mondo». Superando il 1989, e guardando al presente, possiamo dire che gli Stati Uniti dopo il ’91 hanno definitivamente preso scettro e globo in mano? L’American way of life è il futuro o il passato? Già Alexandre Kojève, per esempio, parlava di un nuovo attore politico e culturale e di una possibile «giapponizzazione dell’occidente».

Lascerei da parte Kojève, a suo tempo affascinato da Schmitt ma studioso di tutt’altra provenienza e di altre ambizioni. Quanto al resto, non è vero che gli Usa siano stati i padroni solitari del mondo, se non forse negli anni Novanta quando hanno affermato che il cuore del nomos della Terra è il benessere del cittadino americano. Hanno esportato la democrazia, e in realtà il loro capitalismo, ovunque e con ogni mezzo, praticando guerre presentate come azioni di polizia internazionale, con o senza la copertura dell’Onu. Ma hanno anche trovato resistenze ovunque: i terrorismi che spesso hanno armato, e  che si sono rivoltati contro di loro; ma anche soggetti geo-politici e geo-economici abbastanza forti da essere in grado di  affermare le proprie pretese – Cina, Russia, Iran, la stessa Germania con la sua forza economica di esportazione, solo per fare qualche esempio –. In ogni caso, gli Usa hanno dovuto assumere, dopo la crisi del 2008, una postura difensiva: protezionismo, per difendersi da economie più dinamiche della loro; ritiro militare da aree un tempo strategiche, come parte del Medio Oriente; scarsa propensione a interventi massicci in aree di crisi (che è la vera differenza fra l’amministrazione Trump e quelle democratiche che lo hanno preceduto); severa compressione della omogenea diffusione del benessere nella loro società. Resta invariato il diritto che gli Usa rivendicano ed esercitano di intervenire ovunque nel mondo con azioni mirate contro i loro nemici, che ora come sempre essi criminalizzano. Ma oggi non sono i padroni del mondo: l’Eurasia (Cina e Russia) ha un peso pari a quello dell’Euro-America (a parte il fatto, importantissimo, che entrambe queste macro-realtà sono divise al loro interno).

Al conflitto parziale e regolato tipico dello jus publicum europaeum (1648-1914) Schmitt contrapponeva la moderna guerra discriminatoria condotta per justa causa dove il nemico è concepito come criminale sul piano legale e inferiore moralmente. Le parti in conflitto non si pensano più come justi hostes, nemici reali che si riconoscono reciprocamente come sovrani sui propri confini, ma esprimono una guerra giusta che legittima l’impiego dei moderni mezzi di annientamento. La guerra regolare e circoscritta diventa allora con i due conflitti mondiali, totale e discriminatoria alla stregua di una guerra civile su scala mondiale; una guerra non tra regolari eserciti ma in cui anche i civili e la proprietà privata diventano oggetto di annientamento attraverso i bombardamenti aerei. Eppure in questa lucida e terribile diagnosi Schmitt aveva ancora la forza della speranza e concludendo il Dialogo sul nuovo spazio scrive: «sono convinto che dopo una difficile notte di minacce provenienti da bombe atomiche e simili terrori, l’uomo un mattino si sveglierà e sarà ben felice di riconoscersi figlio di una terra saldamente fondata». La questione, invece, oggi non solo è irrisolta ma si è radicalizzata lasciandoci uno Schmitt spaesato. Come si configura una guerra in un mondo globalizzato dove «le uniche linee generate dall’economia che siano geograficamente leggibili sono quelle degli oleodotti» e la religione torna ad essere politica e fortemente identitaria?

Oggi la guerra non ha più, prevalentemente, le forme della guerra totale che ha assunto nella Seconda guerra mondiale. Ma resta una guerra discriminatoria, come fu quella: democrazia contro terrorismo, Bene contro Male (concetto reversibile, com’è evidente). Nell’età globale, poi, in un mondo reso indistinto dall’omogeneità spaziale richiesta dal capitalismo, con l’ausilio dell’elettronica, si è rafforzata la tendenza verso la guerra discriminatoria, poliziesca, asimmetrica (Stati – e i loro contractors– contro bande armate, in mezzo a popolazioni civili): una guerra globale che scavalca i confini e che piomba dall’alto ovunque siano lesi gli interessi di alcune grandi potenze. Una guerra, certo, che – da entrambi i lati – non rispetta i vecchi parametri: distinzione fra interno ed esterno, fra civile e militare, fra nemico e criminale, fra pubblico e privato, fra religione e politica. Una guerra tanto lontana dai modelli tradizionali che un generale inglese ha potuto scrivere, citando John Lennon, «war is over».

Che cosa rimane dello studio di Schmitt sulla figura del combattente partigiano nell’epoca del terrorismo islamico e delle «crociate» americane per la democrazia e la libertà? Oggi il partigiano è ancora «l’ultima sentinella della terra»?

La figura del partigiano, elaborata da Schmitt nei primissimi anni Sessanta del XX secolo, è uno dei tentativi di pensare il ‘politico’ – in sé destabilizzante – in modo concreto e relativamente stabile: il che è possibile perché il partigiano è tellurico, perché difende un territorio. Il partigiano è portatore di inimicizia reale, non assoluta: combatte per uno scopo, non per mera volontà di distruggere. Non è un terrorista, un figlio dell’universalismo, della tecnica, di una volontà di dominio  globale. Se al tempo di Schmitt il partigiano poteva essere il vietcong (il che provocò a Schmitt qualche precoce simpatia a sinistra), oggi non è chiaro dove e con chi possa essere identificato.

9780199916931.jpgLa grande questione dello Schmitt del secondo dopoguerra, concentrato su questioni di diritto internazionale, è l’urgenza di un «nuovo nomos della terra» che supplisca ai terribili sviluppi della dissoluzione dello jus publicum europaeum. Porsi il problema di un nuovo nomos significa considerare la terra come un tutto, un globo, e cercarne la suddivisione e l’ordinamento globali. Ciò sarebbe possibile solo trovando nuovi elementi di equilibrio tra le grandi potenze e superando le criminalizzazioni che hanno contraddistinto i conflitti bellici nel ’900. A scompaginare il vecchio bilanciamento tra terra e mare, di cui l’Inghilterra, potenza oceanica, si fece garante nel periodo dello jus publicum europaeum, si aggiunge, però, una nuova dimensione spaziale: l’aria. L’aria non è solo l’aereo, che sovverte le distinzioni «classiche» di «guerre en forme» terrestre e guerra di preda marittima, ma è anche lo spazio «fluido-gassoso» della Rete. Grazie ai nuovi sviluppi della politica nel mondo si rende sempre più evidente come l’era del digitale non apra solamente nuove possibilità (e nuovi problemi) per l’informazione e la comunicazione, ma si configuri, nella grande epopea degli uomini e della Terra, come l’ultima, grande, rivoluzione spaziale-globale. Come possono rispondere le categorie del nomos di Carl Schmitt al nuevo mundo del digitale?

Se Schmitt non è solo il pensatore del conflitto indiscriminato, ma di un conflitto che è destinato a produrre un ordine, sia pure transitorio e mai neutrale, è chiaro che allora non convive bene né col capitalismo mondializzato, né con la tecnica globalizzata, né con la dimensione fluida e virtuale della Rete. In realtà, un significato contemporaneo di Schmitt sta in varie altre circostanze: inizia un’età post-globale, e per molti versi post-liberaldemocratica (ma non necessariamente post-statuale), contrassegnata da un nuovo pluralismo politico fra Grandi Spazi (non chiusi economicamente, però: questo è il problema) e quindi da un nuovo rilievo delle logiche geopolitiche e geostrategiche (di cui Schmitt è stato interprete originale e non pedissequo); nascono nuove richieste di sovranità anche in Occidente, dove prima regnava l’ideologia del mercato; la gestione della politica è sempre più spesso affidata a esecutivi forti, che agiscono attraverso «stati d’eccezione» più o meno espliciti; le dinamiche dell’esclusione interna verso i «diversi» si fanno più esplicite e il conflitto si fa più aspro (anche su questioni simboliche di fondo). Ma più ancora che di una importanza di Schmitt per decifrare il presente, è da sottolineare il suo grandissimo rilievo per decifrare la modernità e la sua crisi; per ri-codificare e ri-trascrivere la storia intellettuale, istituzionale e politica degli ultimi tre secoli (si pensi solo ai suoi libri sul parlamentarismo, sulla dittatura, sulla costituzione); per criticare genealogicamente e per decostruire il razionalismo e il pensiero dialettico. È questo rilievo critico – da assumere in modo non a-critico – a spiegare l’immensa  fortuna attuale di Schmitt nella letteratura scientifica, filosofico-politica, a livello davvero mondiale, tanto a  destra quanto a  sinistra, tanto in Europa quanto nelle Americhe e in Asia: attraverso Schmitt si ri-pensa il rapporto fra ragione e politica, fra opacità e  trasparenza, fra conflitto e ordine.

samedi, 08 février 2020

Décadence, effondrement, apocalypse

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Décadence, effondrement, apocalypse

par Antonin Campana

Ex: http://www.autochtonisme.com

L’idée de « décadence nationale » hante le XIXe siècle. Taine souligne la médiocrité de la vie intellectuelle et la futilité des nouvelles générations. Ernest Renan, espère une réforme intellectuelle et morale qui désintoxique le pays des idéaux qui compromettent « l’état moral de la France » (1874). Plus concret, l’écrivain légitimiste Claude-Marie Raudot s’alarme, chiffres à l’appui, de la diminution du nombre des naissances, du déclin de la moralité, des « dépenses énormes » et de la « déperdition de forces » causées par la colonisation de l’Algérie. Il accuse la fièvre du changement : « La France est continuellement en révolution, écrit-il, comme un malade qui s’agite, croit trouver dans le changement un soulagement à ses maux et ne fait que les aggraver, la France est en décadence, donc elle s’appuie sur des institutions funestes et des principes faux  » (De la décadence de la France, 1850). Avec une clairvoyance extraordinaire, il répond d’avance à ceux qui voudraient endiguer le reflux démographique par la fabrication de nouveaux Français : « N’est-ce pas un rêve, écrit-il en 1862, de croire qu’on fera des Français avec les Arabes et les Kabyles ? Nous aurons en eux des sujets obéissants, tant que nous serons les plus forts, des concitoyens jamais » (Mes Oisivetés ).

51EFH-5sunL._SX327_BO1204203200_.jpgTout ce qui a été craint par les esprits les plus affûtés du XIXe siècle est arrivé à la France, mais amplifié au centuple ! Ils se plaignaient du fléchissement intellectuel de leur siècle ? Mais celui-ci avait encore ses Lamartine, ses Auguste Comte, ses Proudhon, ses Verlaine et ses Stendhal !  Aujourd’hui, nous n’avons plus que des Badinter, des Attali, des Luc Ferry ou des BHL ! Ils se plaignaient de la diminution du nombre de naissances en France ? Mais aujourd’hui, les naissances françaises sont directement remplacées par des naissances étrangères ! Ils se plaignaient de l’état moral de la France ? Mais aujourd’hui le sens moral se vautre dans le transsexualisme, l’idéologie LGBTQ, le féminisme, l’idéologie du genre, l’idéologie « no-child » et la stigmatisation de « l’homme blanc hétérosexuel de plus de 50 ans » ! Ils craignaient que l’on fabrique un jour des Français de papier ? Mais aujourd’hui ces Français de papier se comptent par millions et font la loi ! 

Les intellectuels réalistes du XIXe siècle ne se trompaient pas : la décadence avait bien commencé. Mais la décadence qui est alors dénoncée nous paraît insignifiante au regard de l’effondrement multiforme et gigantesque que nous connaissons aujourd’hui. C’est que le  pourrissement commençait à peine. Seul un nez exercé en percevait les premiers effluves. De nos jours, les odeurs sont insupportables et le cadavre est à un stade de pourrissement avancé. Peut-on encore parler de « décadence nationale » quand la nation est déjà morte ?

Pourquoi la décadence ?

Les auteurs dont nous parlons sont unanimes à dénoncer les dérives du sens moral. Pour Renan, l’affaiblissement moral de la France explique largement la défaite. L’idée que la défaite de 1870 procède de causes spirituelles plutôt que politiques ou militaires est d’ailleurs largement partagée à cette époque. On se souvient ainsi que la basilique du Sacré-Cœur de Paris fut construite en réparation des fautes morales commises par le pays. Or, l’idée d’une décadence qui serait le résultat d’un affaissement moral et spirituel n’est pas aussi absurde qu’il peut paraître.

On le sait, la société européenne traditionnelle a toujours été le produit d’un équilibre subtil entre le spirituel et le temporel, entre ce qui appartient à Dieu et ce qui appartient à César. La société française traditionnelle n’échappe pas, jusqu’à la révolution « française » tout au moins, à cette loi d’équilibre. Par son action, la République atteint l’Eglise, c’est-à-dire un pilier essentiel de l’ordre moral et de l’ordre social. Comment s’étonner alors du déclin progressif de la moralité et de la société ? Le refoulement du spirituel, qui irrigue l’ordre moral et l’ordre social traditionnel, ne pouvait que provoquer une rupture des équilibres antérieurs.

Or, une société ne peut rester en déséquilibre très longtemps. En effet, un déséquilibre se traduit toujours par une souffrance, un manque, une tension qui préfigurent la rupture et une nouvelle recomposition. Le déséquilibre « précipite ». Mécaniquement, l’organisation sociale va donc agir sur elle-même pour trouver un nouvel équilibre. Mais cet équilibre sera impossible à atteindre puisqu’une de ses conditions anthropologiques fondamentales, la spiritualité, aura été écartée. La société va donc se lancer dans une quête perpétuelle de remise en question et de changements sans fin. Comme une personne sur le point de tomber enchaîne des pas de plus en plus rapides pour tenter de se rattraper, la société en déséquilibre va enchaîner des transformations de plus en plus rapides… qui vont accentuer son déséquilibre et précipiter sa chute ! On l’a vu, Claude-Marie Raudot exprime parfaitement ce processus lorsqu’il écrit que la France est « continuellement en révolution », qu’elle est « comme un malade qui s’agite » et que le « changement » grâce auquel le pays espère se rétablir ne fait au contraire qu’aggraver ses problèmes.

Prenons l’exemple de la dénatalité, puisqu’il est pointé par Raudot :

Au déséquilibre démographique, le régime répond ainsi par un « changement » : l’ouverture des frontières, l’organisation d’une immigration de masse et des naturalisations intensives (celles, précisément, que semblait redouter Raudot). Mais cette immigration crée à son tour des déséquilibres encore plus importants : des zones de non-droit apparaissent, la France connaît une guerre civile de basse intensité. Le régime cherche alors à résoudre ce nouveau déséquilibre par un nouveau « changement » : il discrimine économiquement la France périphérique, avantage les banlieues et tient un discours qui stigmatise les Français de souche. Mais ce changement engendre un autre déséquilibre : la France périphérique se révolte (Gilets jaunes) sans que pour autant les allochtones se tiennent tranquilles (Bataclan). Le régime répond à cette agitation par un nouveau changement : il accentue les violences policières et se dote de lois qui l’autorisent à placer la population sous surveillance. Mais ce changement exacerbe les tensions et rapproche le pays d’une guerre civile de forte intensité. Le régime y répondra sans doute par une violence encore plus dure, avant de disparaître définitivement sous le poids des changements qu’il a provoqués.  

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Nous pourrions prendre d’autres exemples comme le mariage, la famille ou la langue. Comment est-on passé du mariage comme sacrement devant Dieu au « mariage pour tous » ? Comment est-on passé de la famille patriarcale à la famille homoparentale non genrée ? Comment est-on passé des sermons de Bossuet à l’écriture inclusive ? Ce sont bien des principes absurdes, avec la complicité d’institutions dévoyées, qui par étapes successives ont entraîné la décadence de tous les aspects de la France !

En fait, quand le spirituel « laisse les clés » au temporel, alors l’effondrement est inévitable. Pour Durkheim, la religion fait l’unité du groupe. Cela signifie que s’il n’y a plus de religion, alors il y a fractionnement. Et s’il y a fractionnement, il y a lutte d’intérêts entre les parties. Autrement dit, le déséquilibre de la société, implique une lutte de plus en plus âpre entre des parties qui auront tendance à se scinder en sous-parties, elles-mêmes en lutte les unes contre les autres et elles-mêmes se scindant à leur tour. Le déséquilibre engendre un déséquilibre de plus en plus grand, de plus en plus rapide, de plus en plus diversifié et de plus en plus diversifiant jusqu’à l’effondrement final. La société se cannibalise : les allochtones contre les Autochtones, les femmes contre les hommes, les homosexuels contre les hétérosexuels, les jeunes contre les vieux, le privé contre le public, les lesbiennes contre les gays, les végans contre  les végétariens, les végétariens contre les flexitariens…

Confirmant Durkheim, l’historien David Engels, explique que l’athéisme est l’un des marqueurs de la décadence de la République romaine (voyez ici).

L’Ancien Testament expose quant à lui que l’oubli des commandements de Dieu empêchera les champs de produire, transformera les villes en désert, dispersera le peuple parmi les nations. En d’autres termes, transparaît l’idée que l’athéisme est cause d’effondrement.

 A l’autre bout du monde, les études de Claude Lévi-Strauss montrent qu’il y a un rapport entre la destruction, par les missionnaires salésiens, des structures cérémonielles des indiens Bororos du Brésil (par le démantèlement de l’organisation géométrique de leur habitat) et l’effondrement ultérieur de leur société.

Chez nous, en France, le processus d’effondrement (économique, démographique, culturel, moral…) commence véritablement à partir de la Révolution. Or la Révolution installe, avec une violence inouïe, un régime qui systématise le rejet de la religion traditionnelle…

Il se pourrait que l’effondrement des sociétés humaines commence lorsque le spirituel n’est plus opérationnel dans le social, lorsqu’il n’irrigue plus le tissu social, lorsqu’il n’a plus son mot à dire dans la structuration sociale et la bonne marche de la société. Religion, religare, relier : quand le spirituel ne relie plus, alors la société se désagrège et disparaît.

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Que rajouter de plus de notre point de vue autochtoniste, étant posé que cette société en putréfaction nous est désormais totalement étrangère ? Tout d’abord, que l’enchainement de plus en plus rapide des déséquilibres rend inutile de s’impliquer en faveur de l’une ou de l’autre des « parties » actuellement en lutte, sauf si des nécessités stratégiques ou tactiques l’exigent. Ensuite que le processus de désintégration du corps politique est maintenant irréversible : il ira jusqu’au bout, c’est-à-dire jusqu’à cet effondrement apocalyptique de la société que nous commençons à voir. Enfin, sans doute, qu’il est nécessaire que l’effondrement atteigne son terme. Il semble maintenant que notre peuple ne renaîtra pas avant que son « reste pur » ne puisse dire, tel Jésus sur sa croix :

« Tout est achevé ! ».

Antonin Campana

vendredi, 07 février 2020

Gisela Horst Panajotis KondylisLeben und Werk – eine Übersicht

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Gisela Horst

Panajotis KondylisLeben und Werk – eine Übersicht

564 Seiten | Broschur | Format 15,5 × 23,5 cm

Epistemata Philosophie, Bd. 605

58,00 | ISBN 978-3-8260-6817-1 

Kondy13k.jpgDieses Buch enthält erstmals umfangreiche biografische Daten des Philoso-phen und Ideengeschichtlers Panajotis Kondylis (1943–1998) und einen in-haltlichen Überblick über sein umfangreiches Werk. – Kondylis promovierte in Heidelberg und verfasste bedeutende geistesgeschichtliche Standardwerke zum Konservativismus, zur europäischen Aufklärung, zur Dialektik, zur Mas-sendemokratie und zur Metaphysikkritik, und er bezog als Autor Stellung zum politisch-sozialen Zeitgeschehen. Sein Beitrag zur Philosophie besteht in anthropologischen Grundeinsichten, die in Macht und Entscheidung und Sozialontologie entwickelt werden. Er lieferte zwei Beiträge zum histori-schen Lexikon Geschichtliche Grundbegriffe und war Träger von Ehrungen und Preisen, u.a. erhielt er den Wissenschaftspreis der Humboldtstiftung, war Fellow des Berliner Wissenschaftskollegs und Träger der Goethemedaille.Die AutorinGisela Horst (geb. 1946) kennt Kondylis aus persönlichen Gesprächen; nach Ende ihrer beruflichen Tätigkeit als Naturwissenschaftlerin studierte sie Lite-ratur- und Geschichtswissenschaft an der Fernuniversität in Hagen und ver-fasste dort eine Dissertation zu Leben und Werk von P. Kondylis bei Prof. Dr; Peter Brandt

jeudi, 06 février 2020

Julien Freund : La fin des conflits ?

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Julien Freund : La fin des conflits ?

par Chantal Delsol

Ex: https://www.chantaldelsol.fr

Communication prononcée au colloque Julien Freund, Strasbourg, 2010

On sait que Julien Freund ne croit pas à la fin possible des conflits dans le monde humain. C’est bien d’ailleurs ce postulat, fondamental dans sa philosophie, qui l’avait opposé à son premier directeur de thèse, Jean Hyppolite, l’avait conduit à chercher un autre directeur de thèse qu’il avait trouvé en la personne de Raymond Aron, et avait occasionné un débat pathétique et drolatique avec Hyppolite lors de la soutenance de thèse.

L’accusation d’utopisme porté par Freund aux pacifistes ne l’englue pas dans un empirisme cynique, mais laisse la porte ouverte à une espérance qui est d’une autre sorte. Je voudrais montrer que cet idéal, outre qu’il marque l’empreinte religieuse dans l’esprit de notre auteur, signe la marque de son temps : il n’a pas pu voir quel genre de « fin des conflits » est attendue aujourd’hui, tout autre que celle des utopies présentes à son époque. Ce qui montre l’inscription de sa pensée dans une époque, en même temps que sa pérennité.

Appartenant à cette minuscule espèce des intellectuels non-marxisants de son temps, Freund use une bonne partie de son énergie à argumenter contre les utopies de la paix universelle. Il aime partir de l’argument kantien : si les rois européens ont réussi à éteindre les conflits privés sur leurs terres afin de constituer des Etats souverains nantis du monopole de la violence légitime, pourquoi un Etat universel ne pourrait-il un jour éradiquer les conflits inter-étatiques ? L’idée est belle, elle appelle l’instauration du souverain bien, si l’on veut apercevoir que le bien, inverse du diabolos, est lien, sumbolos – donc paix et fraternité. Mais l’instauration du souverain bien, déclinée comme un programme politique international, est simplement « l’un des rêves du socialisme ». La paix sous cet aspect universel et abstrait est une valeur non médiatisée, donc impraticable, car dès qu’il faudra en donner la définition, les conflits se développeront à ce sujet (« rien n’est plus ‘polémogène’ que les idées divergentes sur la perfection », Politique et Impolitique, Sirey, 1987, p.207). Pour Freund, les conflits existent simplement parce que les hommes nourrissent des croyances et des attachements, au nom desquels ils se querellent, et vouloir annihiler les conflits serait vouloir priver les hommes de pensée. Si l’on reprend un slogan actuel qui marque la misanthropie de notre contemporain : « les animaux, eux, au moins, ne se battent que pour manger », on pourrait dire que pour anéantir les conflits humains il faudrait tous nous décerveler, nous ramener à l’état animal… Cela signifie que l’Etat mondial ne sera pas soustrait, parce qu’unique, aux querelles et combats internes, d’autant qu’il pourra aisément, parce qu’unique, se retourner contre ses peuples (qui jugera le juge ultime ?). Freund se saisit lui aussi de la conclusion du dernier Kant : un Etat mondial serait despotique.

Il reste que la notion de « nature humaine », expression que Freund utilise souvent -je préfèrerais « condition humaine », qui est moins statique et moins fondée dans une dogmatique-, est plurivoque.

La « nature humaine » sous entend des caractères humains immuables et enracinés dans des spécificités : essentiellement, ici, quand il s’agit de la pérennité des conflits, la liberté humaine devant l’impossibilité d’atteindre la Vérité, et donc le débat infini entre les croyances ; et en même temps, l’enracinement de l’homme dans une culture particulière qu’il ne pourra que défendre face aux autres et contre les autres.

Mais aussi, la « nature humaine » comprise dans la dimension de l’espérance, sous entend que l’homme partout et toujours vise le bien parfait, entendu universellement comme un lien.

jfdec.jpgAinsi, la paix est un idéal, et en tant que telle, comme l’espérance d’Epiméthée, elle mérite nos efforts plus que nos ricanements. Il est juste que nous fassions tout pour faire advenir une paix lucide, sachant bien qu’elle ne parviendra jamais à réalisation. En ce sens, l’aspiration à la société cosmopolite est une aspiration morale naturelle à l’humanité, et vouloir récuser cette aspiration au nom de la permanence des conflits serait vouloir retirer à l’homme la moitié de sa condition. En revanche, prétendre atteindre la société cosmopolite comme un programme, à travers la politique, serait susciter un mélange préjudiciable de la morale et de la politique. Parce que nous sommes des créatures politiques, nous devons savoir que la paix universelle n’est qu’un idéal et non une possibilité de réalisation. Parce que nous sommes des créatures morales, nous ne pouvons nous contenter benoîtement des conflits sans espérer jamais les réduire au maximum. Le « règne des fins » ne doit pas aller jusqu’à constituer une eschatologie politique (qui existe aussi bien dans le libéralisme que dans le marxisme, et que l’on trouve au XIX° siècle jusque chez Proudhon), parce qu’alors il suscite une sorte de crase dommageable et irréaliste entre la politique et la morale. Mais l’espérance du bien ne constitue pas seulement une sorte d’exutoire pour un homme malheureux parce qu’englué dans les exigences triviales d’un monde conflictuel : elle engage l’humanité à avancer sans cesse vers son idéal, et par là à améliorer son monde dans le sens qui lui paraît le meilleur, même si elle ne parvient jamais à réalisation complète.

Or sur quoi repose cette notion d’idéal, et l’espérance qui la fonde ? Sur une vision du temps fléché, vision apparue avec les judéo-chrétiens et poursuivie à partir de la saison des Lumières grâce à la croyance au Progrès. Julien Freund se situe dans le temps fléché.

Dans la conclusion de Politique et Impolitique, Freund évoque la désaffection du politique, désaffection en plein développement. Il la lie au désir de destruction qui caractérise les courants extrêmes de son époque, et il évoque la complexité croissante des problèmes et l’identification de la politique et de la technique. Mais Freund n’a pas connu le développement tout récent d’un âge vraiment technocratique, notamment à partir du « gouvernement » européen depuis le début des années 90. Il s’agit là d’une gestion plutôt que d’un gouvernement, d’une administration au sens où Platon prétendait qu’ « il n’y a pas de différence de nature entre une grande oikos et une petite polis » (aussitôt critiqué à ce sujet par Aristote dans La Politique). Freund n’a pas connu le déploiement récent de l’idée de « gouvernance », et la fascination qu’exerce sur nous l’idée de consensus.

Le consensus, « mot-hourrah », représente une aspiration permanente depuis la fin du XX° siècle, et traduit la méfiance vis à vis du vote majoritaire en vigueur en Europe depuis le XIII° siècle (et même depuis le VII° siècle dans les monastères). Le consensus était le système de décision qui prévalait dans toutes les assemblées populaires anciennes, depuis le purhum mésopotamien jusqu’au fokonolona merina malgache, en passant par les diverses assemblées populaires de la plupart des peuples avant l’apparition des régimes autocratiques. Le regain du consensus se développe d’abord aujourd’hui dans les sociétés scandinaves, mais il se déploie dans les organisations internationales (ce qui est logique, puisque chaque pays y représente une souveraineté : il faut s’y soumettre dans la plupart des cas à une sorte de liberum veto). Le consensus est à la mode dans les instances dites de gouvernance, assemblées horizontales censées se substituer à la souveraineté et à la contrainte gouvernementale, ou au moins s’y surajouter. La gouvernance, type de gouvernement sans gouvernement, voudrait remplacer le débat entre les visions du monde par la négociation des intérêts. Dans un monde dénué désormais de croyances et d’idéologies communes, et marqué par le matérialisme, la querelle entre les finalités (ou guerre des dieux) est censée être remplacée par un compromis entre les intérêts matériels (on peut négocier les intérêts, mais on ne peut négocier les croyances).

L’appel au consensus s’accompagne de la récusation de la démocratie, récusation présente depuis peu d’années (alors que la démocratie se trouvait encore en pleine gloire après la chute du Mur). Les perversions démocratiques (corruptions des gouvernants), la lassitude des citoyens marginalisés (absentéisme électoral massif), l’accusation d’incompétence des citoyens devant des décisions de plus en plus complexes, et en outre, le soupçon devant un peuple conservateur voire sauvage (vote sur les minarets en Suisse), apportent de l’eau au moulin des antidémocrates et suscite l’avènement d’une ère technocratique, du gouvernement des experts – dans son Livre Blanc de la Gouvernance, la Commission européenne parle d’expertise et non de gouvernement. C’est, en termes grecs, le remplacement de la polis par l’oikos.

Ces évolutions extrêmement rapides traduisent une nouvelle manière de voir la société, en terme de fin attendue des conflits. Elles sous entendent :

– la recherche de la paix comme unique horizon : répondant à la fatigue du fanatisme partout présent au XX° siècle, fanatisme suscité par la multiplicité des croyances. On pouvait dire : fiat justitia pereat mundus, on pouvait dire : que le monde périsse, pourvu qu’il nous reste la classe pure ou la race pure, au moins on ne peut plus dire : que le monde périsse, pourvu qu’il nous reste la paix, ce serait contradictoire dans les termes.

– des sociétés marquées par le soin exclusif de la vie quotidienne, qui se négocie toujours, et probablement la gouvernance indique-t-elle des sociétés corporatistes ou « organiques », communautaires selon les adeptes de la philosophie pragmatiste qui se trouve à la pointe de ces changements de mentalité.

– la fin des idéologies, certes, mais plus encore : la fin des visions du monde pluralistes au sens de la fin des croyances en des « vérités » plurielles.

Le consensus, qui remplace l’attente d’un monde meilleur par la recherche permanente de la paix, enferme le monde social en lui-même et par là nous sort de la flèche du temps. La vie morale sans recherche de vérité nous replace dans le monde de la sagesse qui avait cours avant les monothéismes et qui a cours dans toutes les civilisations hors la nôtre. C’est là un changement de monde tel que Freund n’a pu le prévoir. Cela ne remet pas en cause sa pensée, selon laquelle le monde politique s’enracine dans le conflit, et selon laquelle le conflit demeure essentiel à l’humain, parce que les tragiques questions humaines sont médiatisées par de multiples cultures. Car même dans les sociétés structurées par des sagesses, les conflits surviennent pour des raisons de territoires ou de puissance, hors les conflits religieux ou idéologiques inexistants. C’est dire que dans l’avenir, les combats idéologiques ont toute chance d’être remplacés, non par la paix consensuelle qui est encore une utopie, mais par des conflits d’identités : la fin des « vérités » de représentation (liberté, justice, droits de l’homme), engendrera le retour des « vérités » d’être (patries, tribus).

Il n’en reste pas moins que cette tentative nouvelle pour biffer les conflits était difficile à prévoir dans la seconde moitié du XX° siècle, même si les appels étaient fréquents dès après-guerre à la féminisation du monde (Giono, Camus, Gary) qui en est un signe avant-coureur. Freund se situe dans un monde dominé par les idéologies, qu’il récuse, et dans la vision du temps fléché, qui lui inspire l’idéal d’une paix toute kantienne (s’agissant du dernier Kant). La rupture dans laquelle nous sommes se produit juste après lui. Nous aimerions qu’il soit encore là pour analyser cet aspect du post-moderne qu’il n’a pas pu voir.

lundi, 03 février 2020

Pour lire et relire Julien Freund

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Pour lire et relire Julien Freund

par Georges FELTIN-TRACOL

Ex: http://www.europemaxima.com

Né le 9 janvier 1921 dans une famille nombreuse d’origine ouvrière et paysanne présente dans la commune lorraine de Henridorff en Moselle et décédé le 10 septembre 1993 à Colmar, Julien Freund appartient aux grands penseurs du politique, ce politique qu’il étudia dans une thèse dirigée par Raymond Aron, soutenue en 1965 et parue sous le titre de L’Essence du politique.

freund-politique.jpgD’abord instituteur pour pallier la disparition brutale de son père, le germanophone Julien Freund se retrouve otage des Allemands en juillet 1940 avant de poursuivre ses études à l’Université de Strasbourg repliée à Clermond-Ferrand. Il entre dès janvier 1941 en résistance dans le réseau Libération, puis dans les Groupes francs de combat de Jacques Renouvin. Arrêté en juin 1942, il est détenu dans la forteresse de Sisteron d’où il s’évade deux ans plus tard. Il rejoint alors un maquis FTP (Francs-tireurs et partisans) de la Drôme. Il y découvre l’endoctrinement communiste et la bassesse humaine.

Après-guerre, il milite un temps à l’UDSR (Union démocratique et socialiste de la Résistance), une petite formation charnière de centre-gauche de la IVe République, et au SNES (Syndicat national de l’enseignement secondaire). Il s’intéresse à la philosophie et en particulier à Aristote. C’est au début des années 1950 qu’il découvre le décisionnisme de Carl Schmitt. Las de l’instabilité gouvernementale, il se félicite du retour au pouvoir du Général De Gaulle en 1958 et approuve la Ve République dont il estime les institutions adaptées au caractère polémologique du politique français.

Philosophe, Julien Freund est aussi sociologue, politologue et, avec Gaston Bouthoul, polémologue, c’est-à-dire analyste du conflit. Dans La Décadence. Histoire sociologique et philosophique d’une catégorie de l’expérience humaine (Sirey, 1984), il considère en effet qu’il faut « savoir envisager le pire pour empêcher que celui-ci ne se produise (p. 386) ». Son tempérament bien trempé, son goût pour la provocation et son refus de déménager à Paris sans oublier une vive hostilité au gauchisme culturel le marginalisent au sein de l’univers feutré et guindé de l’enseignement supérieur. Il prend d’ailleurs sa retraite anticipée dès 1979 à l’âge de 58 ans. Il profite du village alsacien de Villé.

Il collabore à Éléments et à Nouvelle École, et participe à plusieurs colloques du GRECE et du Club de l’Horloge dont il est l’un des douze maîtres à penser. En préface de L’impératif du renouveau. Les enjeux de demain (Albatros, 1983) de Bruno Mégret et des Comités d’Action républicaine, il avoue que « par profession et par goût je suis amoureux des idées, mais je déteste les flatteries de l’intellectualisme, égaré dans les abstractions et les fictions superficielles (p. 7) ». Cette attitude le distingue de ses mornes collègues. Il écrit avec une ironie certaine en préface de son essai de 1970, Le Nouvel Âge. Éléments pour une théorie de la démocratie et de la paix (Marcel Rivière et Cie, coll. « Études sur le devenir social ») : « Je suis un réactionnaire de gauche (p. 9). » Il ajoute plus loin qu’« en réalité, les notions de droite et de gauche me sont devenues indifférentes; ce sont des catégories dans lesquelles je ne pense pas politiquement (idem) ».

Dans L’Aventure du politique. Entretiens avec Charles Blanchet (Critérion, 1991), ce catholique au chef toujours couvert d’un béret, se proclame « Français, gaulliste, européen et régionaliste ». Favorable à la réconciliation franco-allemande, il s’oppose néanmoins à la CED entre 1952 et 1954 avant de le regretter bien plus tard parce que, sans communauté militaire européenne effective, le projet continental perd toute consistance réelle. D’ailleurs, s’interroge-t-il dans La fin de la Renaissance (PUF, coll. « La politique éclatée », 1980), « les Européens seraient-ils même encore capables de mener une guerre ? (p. 7) » Il ne le pense pas, car « nous ne sommes pas simplement plongés dans une crise prolongée, prévient-il encore dans ce même ouvrage, mais en présence d’un terme, du dénouement d’un règne qui s’achève; un âge historique, celui de la Renaissance, est en train de se désagréger. L’Europe est désormais impuissante à assumer le destin qui fut le sien durant des siècles. Nous assistons à la fin de la première civilisation de caractère universel que le monde ait connue (p. 8) ». Un an auparavant, sa préface de L’impératif du renouveau exprimait son inquiétude lucide : « L’Europe est recroquevillée sur ses frontières géographiques, n’ayant guère plus d’autre puissance que sur elle-même, encore qu’il subsiste des vestiges de son ancienne grandeur. Elle a juste eu le temps de mettre en route la technologie moderne, mais l’exploitation lui échappe. Par rapport à ce qu’elle fut il y a à peine une cinquantaine d’années, elle est en déclin. Elle n’échappe pas aux vicissitudes historiques qui ont frappé toutes les civilisations, en dépit des progrès accomplis par chacune. C’est dans ce contexte de décadence que la France et l’Europe sont appelées à opérer leur renouveau. Elles ne pourront conjurer cette menace et réaliser leur redressement qu’à la condition d’assumer pleinement la situation actuelle, sans se perdre dans les rêveries prophétiques, utopiques ou nostalgiques.

1533951443_9782130377764_v100.jpgLa politique se fait sur le terrain, et non dans les divagations spéculatives (p. 13). » Il relève dans son étude remarquable sur la notion de décadence que « si les civilisations ne se valent pas, c’est que chacune repose sur une hiérarchie des valeurs qui lui est propre et qui est la résultante d’options plus ou moins conscientes concernant les investissements capables de stimuler leur énergie. Cette hiérarchie conditionne donc l’originalité de chaque civilisation. Reniant leur passé, les Européens se sont laissés imposer, par leurs intellectuels, l’idée que leur civilisation n’était sous aucun rapport supérieure aux autres et même qu’ils devraient battre leur coulpe pour avoir inventé le capitalisme, l’impérialisme, la bombe thermonucléaire, etc. Une fausse interprétation de la notion de tolérance a largement contribué à cette culpabilisation. En effet, ni les idées, ni les valeurs ne sont tolérantes. Refusant de reconnaître leur originalité, les Européens n’adhèrent plus aux valeurs dont ils sont porteurs, de sorte qu’ils sont en train de perdre l’esprit de leur culture et le dynamisme qui en découle. Si encore ils ne faisaient que récuser leurs philosophies du passé, mais ils sont en train d’étouffer le sens de la philosophie qu’ils ont développée durant des siècles. La confusion des valeurs et la crise spirituelle qui en est la conséquence en sont le pitoyable témoignage. L’égalitarisme ambiant les conduit jusqu’à oublier que la hiérarchie est consubstantielle à l’idée même de valeur (p. 364) ».

Ce conservateur libéral mécontent attaché au primat du régalien avance encore dans La fin de la Renaissance qu’« une civilisation décadente n’a plus d’autre projet que celui de se conserver (p. 22) ». Cette sentence réaliste explique le relatif effacement de son œuvre. Non réédités, ses ouvrages sont maintenant très difficiles à trouver chez les bouquinistes tandis que plusieurs manuscrits inédits attendent toujours quelques hardis éditeurs. Cette éclipse éditoriale contraste avec l’audience croissante de ses textes dans le monde hispanophone, dans le domaine germanophone, en Russie et chez les Anglo-Saxons. La découverte de Julien Freund à l’étranger coïncide avec la traduction soutenue des écrits de Carl Schmitt, y compris en Chine, en Corée et au Japon !

Par une franche liberté de ton, Julien Freund demeure un homme non seulement « mal-pensant », mais surtout intempestif, car « la vie est fondamentalement différenciation concrète et non universalisation abstraite (préface à L’impératif du renouveau, p. 7). Il avait deviné que le « festivisme » dépeint par Philippe Muray aboutirait à une nouvelle tyrannie postmoderniste. « Quand la transgression n’est plus occasionnelle mais devient un usage courant, ce qui s’accompagne en général d’une augmentation constante des effectifs de la police, on risque de péricliter insensiblement dans un État policier (La Décadence, p. 4). » Lire Julien Freund, c’est pouvoir aiguiser son intellect afin de mieux lutter contre le conformisme ambiant.

Georges Feltin-Tracol

• Chronique n° 32, « Les grandes figures identitaires européennes », lue le 28 janvier 2020 à Radio-Courtoisie au « Libre-Journal des Européens » de Thomas Ferrier.

dimanche, 26 janvier 2020

Anton Mirko Koktanek: Oswald Spengler. Leben und Werk

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Anton Mirko Koktanek: Oswald Spengler. Leben und Werk

Sehr geehrte Damen und Herren,

nach umfangreichen Vorarbeiten können wir nun endlich die schon lange geplante Neuauflage der großen Spengler-Biographie von Koktanek für den 17. Februar 2020 ankündigen.

Bitte nehmen Sie diese herausragende Biographie des bedeutenden Philosophen in Ihren Vertrieb auf.

Im Anhang finden Sie das Inhaltsverzeichnis sowie eine Titelabbildung.


Anton Mirko Koktanek

Oswald Spengler. Leben und Werk
Eine Biographie
ISBN 978-3-938176-15-3
560 Seiten + 16 Bilderseiten, Paperback, Preis: 34,00 Euro
Erscheinungstermin: 17. Februar 2020

Oswald Spengler (geb. 29.5.1880, gest. 8.5.1936) war einer der wirkungsvollsten und zugleich umstrittensten Denker des 20. Jahrhunderts. Mit seinem Hauptwerk „Der Untergang des Abendlandes“, dessen erster Band im Frühjahr 1918 erschien, beanspruchte Spengler, eine kopernikanische Wende in der Geschichtsphilosophie einzuleiten. Seine Kernthese lautete, daß die Weltgeschichte die Abfolge von verschiedenen Kulturen darstelle, die von Gesetzmäßigkeiten determiniert sei: „Jede Kultur durchläuft die Altersstufen des einzelnen Menschen. Jede hat ihre Kindheit, ihre Jugend, ihre Männlichkeit und ihr Greisentum.“ In „Zivilisationen“ sah Spengler die Spätzeiten der einzelnen Kulturen, deren Erlöschen und Untergang wie bei alternden Organismen bevorstehe. Dem gegen Ende des Ersten Weltkrieges ins Zerfallsstadium eintretenden Abendland prophezeite er ein bevorstehendes Zeitalter der Diktaturen und des Imperialismus.

Anton Mirko Koktanek, Philosoph und Nachlaßverwalter Oswald Spenglers, konnte für seine große Spengler-Biographie zahlreiche unveröffentlichte Zeugnisse verwenden, darunter auch dichterische Entwürfe Spenglers, Tagebuchnotizen seiner Schwester und nicht zuletzt seine Selbstbetrachtungen, die er als Gedächtnisstützen für die von ihm geplante, jedoch nicht geschriebene Autobiographie verfaßte. So entstand eine außerordentlich kenntnisreiche Lebens- und Werkbeschreibung des Geschichtsphilosophen Spengler, die zugleich einen Schlüssel zum Verständnis der Krisen, Kriege und Revolutionen und der Tragödie der deutschen Geschichte im 20. Jahrhundert bietet.

Mit freundlichen Grüßen

Heiderose Weigel
Lindenbaum Verlag GmbH
Bergstr. 11, 56290 Beltheim-Schnellbach

Tel. 06746 / 730047
E-Brief: lindenbaum-verlag@web.de
Internetseite: www.lindenbaum-verlag.de

vendredi, 24 janvier 2020

Le premier Carl Schmitt

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Le premier Carl Schmitt

En cette rentrée où nous n’avons pas beaucoup de traductions de grands textes de sciences sociales à nous mettre sous la dent, on peut se réjouir que les Éditions de l’EHESS nous offrent l’accès à un texte clé d’un auteur dont le soupçon qui l’entoure, à juste titre au vu de son engagement nazi, nous fait trop oublier qu’il a été un très grand juriste : Carl Schmitt, qui publia Loi et jugement en 1912.


Carl Schmitt, Loi et jugement. Une enquête sur le problème de la pratique du droit. Trad. de l’allemand et présenté par Rainer Maria Kiesow. EHESS, 167 p., 22 €


Loi-et-jugement.jpgDe l’œuvre proprement juridique du jeune Carl Schmitt, disons de celle d’avant 1933, nous possédons en français Théorie de la constitution (1928, PUF 1993), La valeur de l’État et la signification de l’individu (1914, Droz 2003), mais il nous manquait jusqu’aujourd’hui un petit ouvrage de 1912 intitulé Loi et jugement, qu’Olivier Beaud, dans sa préface à l’édition française de Théorie de la constitution, qualifie de « véritable recherche de théorie du droit abordant les questions les plus fondamentales ».

Carl Schmitt a vingt-trois ans en 1912 et ce qui fascine dans ce texte, de jeunesse mais déjà très maîtrisé, c’est, avec la rigueur du questionnement, le souci constant d’éviter l’amalgame, la confusion et le malentendu ; l’éclairage qu’il jette sur la notion de décision telle que l’entendra l’auteur de la Théologie politique tout au long de sa vie. Rééditant Gesetz und Urteil en 1969, Carl Schmitt met lui-même en perspective son travail, en souligne les enjeux pour la pratique du droit d’abord, et laisse entendre toutes les conséquences que « l’autonomie de la décision », qu’il cherche à dégager, peut avoir sur la doctrine de l’État et de la souveraineté. Et il prévient qu’une « polémique farouche » a voulu travestir sa conception de la décision en « un acte fantastique de l’arbitraire ». Nous voilà avertis : si nous voulons évaluer l’œuvre de Schmitt, nous ne pouvons pas nous priver de lire Loi et jugement, car s’y trouve le « sens originel » dans sa « simplicité » de ce que signifie décider.

Alors que fleurissent les doctrines du droit dans le monde germanique de l’époque, mais aussi dans l’ensemble de l’Europe, Schmitt s’intéresse à la pratique. Mais il ne va pas le faire en sociologue, sa confrontation avec Marx et Weber n’a pas encore eu lieu, encore moins en psychologue – sans cesse dans l’ouvrage, Schmitt cherche à se démarquer de la psychologie et en particulier de celle du juge –, mais en restant à l’intérieur du droit, cherchant à élaborer une sorte de théorie de la pratique du droit possédant – l’auteur tient à éviter le terme d’autonomie – un « critère autochtone » par rapport au théorique. Hans Kelsen, le père de la Théorie pure du droit, n’a encore publié en 1912 que ses Problèmes fondamentaux de la doctrine du droit constitutionnel, mais il représente déjà le positivisme normatif que Schmitt s’emploie à disqualifier.

Le point de départ est une question (bien entendu elle-même « décisive », puisqu’elle décide déjà de ce qu’est l’ordre juridique ; en même temps, comme le dit Schmitt dans son avant-propos, elle « est décidée » par la pratique) : « quand une décision judiciaire est-elle correcte ? ». Commence alors un extraordinaire cernement de la question qui rappelle la méthode débouchant sur la définition du critère, et donc de l’essence, pour Schmitt, du politique. Ce n’est ni le comment on décide, ni les statistiques de décisions correctes, ni les diverses opinions sur leur correction ; la question n’interroge pas non plus l’histoire de la pratique, ni l’évolution historique des idéaux, mais « le critère de rectitude qui est spécifique à la pratique du droit ».

Une fois ce que l’on recherche déterminé, Schmitt se livre à la réfutation de différentes thèses : celle de la rectitude d’une décision par sa « conformité à la loi » ou à la « volonté du législateur » qui au mieux transforme le jugement en opération logique (« logicisme de la justice ») de subsomption du cas particulier sous la norme générale, au pire réduit le juge à un « automate ». De ce point de vue, Schmitt se démarque aussi bien de l’herméneutique jurisprudentielle, identifiant interprétation correcte et décision correcte, que du mouvement connu sous le nom d’« école libre du droit » (Freirechtsschule) qui cherchait à élargir de manière extra-juridique (jugements moraux, culture) le concept de loi et de norme et auquel Schmitt reproche d’être incapable à la fin de dégager un critère de rectitude autre que celui du normativisme juridique (la conformité à la loi).

Pour découvrir ce critère de rectitude spécifique, il faut d’abord bien distinguer la doctrine du droit et la pratique du droit, ce que Schmitt appelle sa « détermination » (Rechtsbestimmtheit ; à ce point central du texte, le traducteur fait opportunément remarquer que le terme de Besttimmtheit vient de la logique de Hegel, mais il ne va pas malheureusement plus loin dans son commentaire), autrement dit le moment où le juge statue sur un cas, dit le droit (iurisdictio ou iurisfactio), énonce, en le créant ainsi dans sa détermination hic et nunc, le to dikaion (le juste). Le résultat de cette opération ne peut être déduit, son caractère aléatoire et risqué ne peut être effacé. La motivation du jugement ne peut se superposer parfaitement à la décision. La pratique découvre là son autonomie, le droit statué n’existe pas avant le jugement, comme une pure et simple application. Il est produit. Ce qui ne fait pas pour autant du juge un législateur.

À la fin, quel est ce critère de rectitude appartenant de « manière autochtone à la pratique du droit » ? Une décision judiciaire est correcte si « l’on peut admettre qu’un autre juge aurait décidé de la même manière ». C’est ici que le décisionnisme du jeune Schmitt, mais il nous a prévenus que la polémique ultérieure avait défiguré son concept, doit devenir l’objet de toutes les attentions. Invoquer « l’autre juge », c’est introduire une collégialité, la position collective de gens de métier ; au-delà, c’est faire appel à une sorte de sensus judiciarii d’une société, d’une époque, bref, c’est réintroduire l’histoire et la sociologie, là où pourtant Schmitt voulait les écarter.

Mais introduire le tiers, c’est aussi consacrer un mouvement constant dans l’histoire moderne du droit, celui de la hiérarchisation des juridictions et de la complexité des relations entre les différentes cours. Surtout, en appeler à « l’autre juge » consiste à circonscrire le jugement dans la « prévisibilité » et la « calculabilité », même dans le cas où un jugement serait rendu contra legem. Ceux qui ont lu Derrida, et le Derrida lecteur de Schmitt pour qui l’expression schmittienne de « décision calculable » serait un oxymore, seront surpris par cette reprise (en main ?) soudaine du concept de décision, tout à coup arraché à l’indétermination (et pour cause puisque Schmitt parle de « détermination du droit ») au risque, au saut, à l’incommensurabilité des motifs et de l’acte de jugement. Mais on comprend que tous ces points qui caractérisent la rectitude de la décision autorisent Schmitt à penser qu’ainsi il échappe au « fantastique de l’arbitraire ».

L’auteur d’Ex captivitate salus ne réécrit pas en 1969 son texte de 1912 sous le coup de la querelle. Encore une fois, il nous indique que sa réflexion sur l’autonomie de la décision n’est pas restée sans conséquences sur la définition de la souveraineté étatique. En 1912, il cherche à isoler le propre de la pratique correcte du droit et veut en discerner le critère déterminant, et l’on découvre que ce n’est pas tant la décision qui l’intéresse que la mise au jour du degré d’autochtonie de la pratique du droit par rapport à la doctrine, et la définition de ce qu’est l’ordre juridique.

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Peut-on affirmer que Schmitt, pour le politique, va suivre le même cheminement, guidé par la même préoccupation ? Répondre à cette question permettrait, non pas d’oublier son engagement nazi, mais de savoir si nous pouvons conserver la recherche du critère du politique (sans conserver la différence ami/ennemi) sans forcément se focaliser sur la souveraineté (est souverain celui qui décide) mais au contraire, comme semble s’y essayer en ce moment même Bruno Latour, sur l’autonomie de la pratique politique.

R. R. Reno’s Return of the Strong Gods

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R. R. Reno’s Return of the Strong Gods

StrongGods-197x300.jpgR. R. Reno
Return of the Strong Gods: Nationalism, Populism, and the Future of the West
Washington, DC: Regnery Gateway, 2019

Most of the people who come to the Dissident Right do so in spite of the Dissident Right. It is a common experience for those who become red-pilled to discover that the hatred they have experienced from the Establishment for the “sins” of being white or heterosexual or male is matched in vehemence by the hatred exhibited by many on the Dissident Right for those whose “sins” consist of having been born between the years of 1946 and 1964 or for being believing Christians. I know that there are many “silent” members of the Dissident Right whose views are not even expressed anonymously, but who have decided to remained cloistered—not out of fear of being doxxed—but out of a desire to limit the explicit hatred they endure to that from just those whose politics they oppose.[1] [2]

I have argued in these pages and elsewhere that the Dissident Right only exists as an intellectual movement. It has been, and continues to be, completely bereft of any political leadership. Indeed, before it can even begin to entertain the idea of engaging in real political activity, the Dissident Right must learn how to educate and persuade white people of the rightness of our cause. This will involve engagement with caucasians of all stripes, including Baby Boomers and Christians.[2] [3]

R. R. Reno’s Return of the Strong Gods: Nationalism, Populism, and the Future of the West is an important book and one that needs to be taken very seriously by the Dissident Right. The author demonstrates that the origin of our current situation is much more complex than that put forward by the standard Dissident Right narrative. Furthermore, he presents a critique of laissez-faire capitalism, globalism, and radical individualism from a Christian standpoint that is as withering as anything emanating from the pagan Dissident Right.

Reno is a former Episcopalian who converted to Catholicism. He received a doctorate in theology from Yale and taught theology at Creighton University for twenty years. Currently, he is the editor of the Catholic journal First Things, which is gradually coming over to an editorial stance that is receptive to many of the ideas of the Dissident Right.

Reno’s thesis is that the generation that experienced the horrors of World War II came through that conflict with an understandable desire to prevent such a cataclysm from ever occurring again. With the best of intentions, they created a postwar consensus that sought to downplay what Reno calls the “strong gods,” that is, “the objects of men’s love and devotion, the sources of the passions and loyalties that unite societies” (p. xii). This movement was heavily influenced by Karl Popper’s book The Open Society and Its Enemies (1945)—a book that was an expansion upon Max Weber’s concept of “disenchantment”—in which Popper argued that to avoid another world war it was necessary to “open up” society by emphasizing the individual over group solidarity. As Reno explains it, this can be summarized as the abandonment of the “strong god” of truth for the “weak god” of meaning. In Dissident Right terms, we would most likely refer to this shift as the abandonment of the biological imperative for the caprices of self-actualization.

The proponents of the postwar consensus believed that they were creating a post-ideological polity, one based entirely on the empirical results of social science research. Reno acknowledges that Popper himself was aware of the paradox that his position creates an ideology that is ultimately inflexible and hostile to dissent:

As Popper makes clear, pragmatism in politics—the end of strong truth-claims in public life—produces paradoxically powerful political and cultural imperatives. It requires denying principled political arguments and policies. Championing authenticity in personal life demands rejecting the authority of traditional moral norms. (p. 13, italics in original)

Reno then shows that the influence of two other books, Friedrich Hayek’s The Road to Serfdom (1944) and T. W. Adorno and Max Horkheimer’s The Authoritarian Personality (1950) contributed heavily to the process of “weakening” and “disenchantment” that has brought Western Civilization to its current predicament. In the former book, man is reduced by laissez-faire capitalism to the status of an atomized economic unit in which economic rights and individual economic freedom obviate the need for moral normativity. In the latter book by the two doyens of the Frankfurt School, any type of patriarchal family is a breeding ground for fascism and must be opposed.

While the pagan Dissident Right often talks about the Faustian nature of the white race (and very correctly, I believe) in which exploration, creativity, and an aristocratic disdain for the quotidian predominate, and in which the pursuit of truth and excellence results in an acknowledgement and celebration of true difference, Reno rephrases this pursuit of truth and excellence as the search for the transcendent. Here is an important nexus between the pagan and the Christian Dissident Right. Whether one aspires to the condition of the Übermensch or to eternal salvation, the Dissident Right is ultimately concerned with something beyond the self. The individual is not an atomized economic unit, and identity is not endlessly malleable.

In the very excellent chapter entitled “Therapies of Disenchantment,” Reno explains that postwar educators sought to keep the traditions of Western Civilization and liberal education but to reduce their authority by “shifting from truth to meaning, from conviction to critical questioning” (p. 38, italics in original). As Reno quotes from The Open Society, Popper states:

If in this book harsh words are spoken about some of the greatest among the intellectual leaders of mankind, my motive is not, I hope, the wish to belittle them. It springs rather from my conviction that if we wish our civilization to survive we must break from the habit of deference to great men. (p. 39)

Of course, if there is no authority, and education is no longer a pursuit of truth, but is rather a process of critique, what is the goal of all of this? As Reno explains, the goal is the production of “meaning,” that is, to deny truth and to demonstrate that institutions, ideas, works of art, and historical events are products of economic, racial, social, and cultural conditions and have no intrinsic merit. For example, Mozart’s 40th Symphony is not one of the greatest instrumental works in Western history; it is, instead, a product of a class-ridden, racist, and misogynistic society in which similarly great symphonies by female, non-cisgendered, and persons of color were not allowed to be composed. By this logic, anything that attracts our interest, our admiration, and our loyalty must be “problematized” so that the process of disenchantment can never be abated. The Cold War mitigated to a certain extent the ever-downward course of this process of disenchantment; however, as the author points out, once begun, the weakening forces of disenchantment “tended toward pure negation, leaving us a utopian dream of politics without transcendence, peace without unity, and justice without virtue” (p. 75).

The tragedy of liberalism as described by Reno is its “smallness,” its rejection of greatness and transcendence, its celebration of diversity without difference, its abhorrence of any form of discrimination including discriminating taste. As the author so eloquently phrases it:

A society lives on answers, not merely questions. The political and cultural crisis of the West today is the result of our refusal—perhaps incapacity—to honor the strong gods that stiffen the spine and inspire loyalty. (p. 95)

What then, is to be done? According to Reno, what will not work is “never-ending critique, the spontaneous order of the free market, technocratic management of utilities, and other therapies of weakening” (p. 140), because “the actual problems we face—atomization, dissolving communal bonds, disintegrating family ties, and a nihilistic culture of limitless self-definition—go unaddressed” (p. 144). Reno proposes:

  • Greater economic solidarity between labor and capital
  • Strong families
  • An educational system based on truth instead of critique
  • Return to a belief in the transcendent
  • A respect for communities of identity

Reno is not completely red-pilled. He is still too much of a civic nationalist for my taste, but his intellectual evolution has been remarkable, especially for one who only four years ago was a never-Trumper. His book strengthens and gives greater insight into the standard Dissident Right narrative of how we got to the current year. He explains the intellectual history of the postwar era in a way that is accessible and appealing to intelligent normies and can help to move them ever so closer to our side. And for that he deserves our praise and gratitude.

Notes

[1] [4] For instance, a friend of mine — who is a DBB (Dreaded Baby Boomer), an evangelical Christian, and a high-ranking official in my state’s GOP, and who has no idea of my involvement in the Dissident Right — last year attempted to red pill me and gave me a list of websites I should peruse, one of which was Counter-Currents. My friend even goes to the trouble of using anonymous means of contributing to a number of Dissident Right entities, a wise idea given her position. She does express some trepidation about the Dissident Right’s hostility to Christianity, but takes it in stride as just one more cross to bear. Wouldn’t it be nice, though, if the Dissident Right actually created a welcoming environment for those who share our beliefs?

[2] [5] The Charlottesville incident has had the salutary effect of eliminating or marginalizing the influence on the Dissident Right of the SS-wannabes with mother-in-law fetishes, the vulgarians with daddy issues, and the upper-class twits with trust funds. As the eminent blogger The Z-Man so eloquently put it in a recent podcast: “No one is going to buy Richard Spencer 2.0.” All of this has allowed gifted communicators for the cause of Caucasians to come to the fore — including No White Guilt, The Great Order, and the Z-Man himself among others — who are not overtly hostile to white Baby Boomers (whose votes and $7 trillion in assets could prove to be very useful in the coming struggle) and white Christians (who engage in the type of family formation that is essential for the survival of the white race).

 

Article printed from Counter-Currents Publishing: https://www.counter-currents.com

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[2] [1]: #_edn1

[3] [2]: #_edn2

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[5] [2]: #_ednref2

jeudi, 23 janvier 2020

Pour un progressisme de droite

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Pour un progressisme de droite

Par Romain d’Aspremont,

auteur de « Penser l’Homme nouveau : Pourquoi la droite perd la bataille des idées »

Ex: http://www.rage-culture.com

Si la droite perd, c’est qu’elle évolue au sein d’un logiciel chrétien. Les sociétés occidentales sont fondamentalement marquées par la morale chrétienne ; il n’est pas étonnant que l’idéologie gauchiste s’y épanouisse – et, sur le temps, ne cesse de gagner du terrain – tandis que les droitistes doivent perpétuellement batailler pour paraître fréquentables. C’est le principe même du Bien qui doit basculer de l’égalitarisme vers l’élitisme, et du pacifisme vers la compétition et la lutte.

41-KRsa2LPL.jpgLa seconde raison de la défaite perpétuelle de la droite, c’est son conservatisme. Les réaco-conservateurs assimilent trop souvent l’avenir à un déploiement inéluctable des forces progressistes. Ils en viennent à prendre l’objet (l’avenir) façonné par le sujet (la gauche) pour le sujet lui-même. Le futur étant devenu synonyme d’avancées « progressistes », l’unique remède ne pourrait être que son contraire – le passé – plutôt qu’un avenir alternatif. Or il y a là une forme de défaitisme, comme si la droite assimilait sa propre déconfiture, ratifiant le monopole de la gauche sur l’avenir. Puisque l’Histoire n’est qu’une longue série de victoires progressistes, c’est l’avenir lui-même qu’il faudrait brider, plutôt que les acteurs qui le façonnent. Ralentir le temps et sanctuariser certaines institutions apparaît alors comme la solution par défaut.

Cette analyse, plus ou moins consciente, est une variante de la croyance en un progrès linéaire : l’avenir n’est plus une irrésistible ascension, mais une lente décadence. Ainsi, tout en ridiculisant l’idée d’un « sens de l’Histoire », les réaco-conservateurs considèrent implicitement que le temps fait le jeu de la gauche. S’il leur arrive – du bout des lèvres – de se satisfaire d’une nouveauté, ils n’iront jamais jusqu’à batailler pour la faire advenir, non plus qu’ils ne mobiliseront leur énergie intellectuelle pour concevoir un nouveau « de droite ». Leurs forces sont toutes entières consacrées à faire l’éloge du passé. 

Le progressisme au sens strict repose sur des postulats infirmés par l’Histoire. Le pacifiste et le jouisseur finissent toujours par se soumettre au guerrier. Mais le conservatisme lui-même n’en repose pas moins sur des présupposés erronés, car les projets d’Homme nouveau, loin de se réduire à des utopies illusoires, sont un des moteurs de l’Histoire. 

 La posture d’un Schopenhauer, qui écrit « le progrès, c’est là votre chimère, il est du rêve du XIXème siècle comme la résurrection des morts était celui du Xème, chaque âge a le sien », n’est plus tenable. La véritable erreur, c’est de croire que les chimères sont sans prise sur le réel – surtout quand ces chimères peuplent les cerveaux des élites. Chaque époque a sa conception particulière du progrès, et ceux qui se refusent à proposer la leur doivent renoncer à écrire l’Histoire. De même, Nietzsche peut bien déclarer que le Progrès est « une idée fausse », il n’empêche que sa philosophie du surhomme est progressiste – progressiste de droite.

Notre ennemi ne doit pas être le progressisme au sens large, mais uniquement le progressisme de gauche. Non pas l’idée de progrès, mais la direction que veulent lui faire prendre nos adversaires. Car « l’idée de progrès constitue moins une idéologie que la présupposition de toutes les idéologies, systèmes de représentations et de croyances proprement modernes ». C’est pourquoi la droite doit développer son propre progressisme, qui doit viser la réunification de l’Occident (plutôt que la défense des Etats-nations) et encourager l’évolution anthropologique (plutôt que sanctifier la tradition). Par définition, le futur a toujours raison du passé. Aussi, le duel du Passé et de l’Avenir doit s’effacer au profit d’un choc entre un avenir de gauche et un avenir de droite.

Notre progressisme doit promouvoir une exigence de dépassement, sur tous les plans, y compris moral. Cette morale sera « vitaliste » : valorisant tout ce qui élève l’espèce et combattant ce qui la bride, l’affaiblit et la mutile. Appliquée aux débats sociétaux qui suscitent le plus de crispations, son verdict sera différent de celui des réaco-conservateurs. Ainsi, la PMA et la GPA sont souhaitables dans la mesure où elles élèvent le capital biologique et intellectuel des Occidentaux (ingénierie génétique).

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Romain d'Aspremont

Un progressisme de droite ne doit pas borner son horizon au domaine anthropologique (entreprise de création d’un homme nouveau) ; il doit l’étendre au domaine institutionnel et étatique. Faute de proposer une vision de l’Europe qui soit autre chose qu’un simple retour à l’ère gaullienne – « l’Europe des nations » – les souverainistes se privent du formidable potentiel mobilisateur propre à tout idéal nouveau. Philippe de Villiers explique que ceux qui ont affronté le traité de Maastricht ont cru combattre un super-État (une entité politique susceptible d’incarner une Europe-puissance, pesant en propre sur la scène internationale), pour ensuite découvrir que le projet européen n’a jamais été de bâtir les Etats-Unis d’Europe, mais de substituer l’économique (le marché) au politique.

En fait, les souverainistes ont bien fait de s’opposer à Maastricht, mais pour de mauvaises raisons. En effet, le dépassement des nations et l’unification de l’Europe ne sont pas des idées condamnables en soi ; elles méritent d’être évaluées à l’aune de l’idéal qui les porte. Le malheur n’est pas que l’Europe soit gouvernée par un « despotisme doux et éclairé » (Jacques Delors), mais que ce despotisme soit anti-européen dans l’âme. Or, par une ruse de l’Histoire, les Européistes nous ont offert le cadre institutionnel et administratif pouvant servir notre vision de l’Europe : plutôt que de détruire ces leviers de pouvoir, emparons-nous-en afin d’impulser une renaissance civilisationnelle, qui passe par la création des Etats-Unis d’Europe, puis des Etats-Unis d’Occident (Etats-Unis d’Amérique, Russie, Canada, Australie et Nouvelle-Zélande compris).

Les souverainistes ne jurent que par l’État-nation et le retour à l’ordre ancien. Dans de nombreux domaines (immigration, éducation, justice), ce retour est vital, mais il faut se rappeler que les États-nations sont eux-mêmes issus de l’effondrement de l’Empire romain christianisé. Ils sont la conséquence lointaine des invasions barbares du Ve siècle, et une fragmentation de l’unité politique de la chrétienté. Car enfin, l’âme européenne vaut plus que le respect tatillon de la souveraineté des États-nations. Ne confondons pas le moyen – les institutions – et la fin – la pérennité des cultures nationales et de la civilisation européenne. À ceux qui prétendent que cette dernière est un fantasme, et que seules existent les cultures nationales, qu’ils parcourent donc le monde et ils distingueront sans peine ce qui relève de la nuance (les différentes cultures européennes) de ce qui relève de la différence essentielle (les civilisations).

Notre projet doit être la restauration de l’Europe unie, plutôt que le combat acharné pour la pérennité de son éclatement. Il ne s’agit pas de pratiquer une fuite en avant vers le dépassement des États-nations mais, puisque ce dépassement se fera, avec ou sans nous, il nous faut en avoir la maîtrise. Trop longtemps, les défenseurs de l’âme européenne ont laissé aux européistes le monopole de l’idéal européen. Les souverainistes se cantonnent soit à une négation (NON à l’Europe fédérale), soit à une nostalgie gaulliste (OUI à l’Europe des nations). Il nous faut penser un horizon nouveau, sans quoi l’histoire du continent sera écrite par nos adversaires, notre rôle se limitant à celui de retardateur, grippant provisoirement l’engrenage de la déconstruction civilisationnelle.

L’Europe des nations, les souverainistes vous le répètent, c’est l’Europe du « bon sens ». Mais l’homme n’est pas qu’un être de raison. Pour Carl Gustav Jung, l’homme a un besoin de sacré. Mais il a également un besoin d’idéal et d’utopie. S’il est disposé à se sacrifier pour fonder une nation, il ne l’est plus quand il s’agit de la rafistoler. L’Europe des nations est un conservatisme ; il lui manque la force du nouveau. Or le Neuf est souvent nécessaire à la sauvegarde de l’Ancien.

Nous sommes tellement habitués à voir le pouvoir politique européen déconstruire notre civilisation et nos identités nationales, que nous réagissons avec hostilité à toute idée de pouvoir européen, que nous assimilons à l’idéologie remplaciste. Or, le lieu du pouvoir ne préjuge pas de son contenu ; à nous d’en édifier un qui œuvre à notre renaissance civilisationnelle. 

Nietzsche écrit ainsi: « Ce qui m’importe […] c’est l’Europe unie. Pour tous les esprits vastes et profonds du siècle, la tâche où ils ont mis toute leur âme a été de préparer cette synthèse nouvelle et d’anticiper à titre d’essai l’« Européen » de l’avenir.  Aux heures de faiblesse seulement, ou quand ils vieillissaient, ils retombaient dans les perspectives étroites de leurs patries ».

Nous vous conseillons de lire également « Pour un transhumanisme de Droite » du même auteur

Références :
 1. F. Nietzsche, L’Antéchrist, § 4, Oeuvres philosophiques complètes, Paris, Gallimard, 1974, t. VIII, p. 162.
2. Pierre-André Taguieff, Les contre-réactionnaires, Le progressisme entre illusion et imposture, Denoël, 2007, p. 243.
3.  Philippe de Villiers, Le moment est venu de dire ce que j’ai vu, Albin Michel, 2015.
4.  Friedrich Nietzsche, La volonté de puissance, tome II, Gallimard. p. 293. 

mercredi, 22 janvier 2020

Guy Debord et la médiocrité postmoderne

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Guy Debord et la médiocrité postmoderne

Les Carnets de Nicolas Bonnal

Ex: http://www.dedefensa.org  

Le pouvoir socialiste-mondialiste a honteusement, répétitivement tenté de récupérer ou de diaboliser Guy Debord (méprisant, macho, nostalgique…), mais le message du maître des rebelles demeure puissant et dur. On ne saurait trop recommander la vision du film In girum imus nocte et consumimur igni (superbe titre palindrome), qui va plus loin que la Société du Spectacle, étant moins marxiste et plus guénonien en quelque sorte (le monde moderne comme hallucination industrielle et collective). Le virage élitiste et ésotérique de ce marxisme pointu défait par la médiocrité du progrès nous a toujours étonnés et enchantés. Georges Sorel en parlait dès 1890 dans ses Illusions du progrès :

« La grande erreur de Marx a été de ne pas se rendre compte du pouvoir énorme qui appartient à la médiocrité dans l'histoire ; il ne s'est pas douté que le sentiment socialiste (tel qu'il le concevait) est extrêmement artificiel ; aujourd'hui, nous assistons à une crise qui menace de ruiner tous les mouvements qui ont pu être rattachés idéologiquement au marxisme… »

Debord tape sur cette classe moyenne dont nous faisons partie et dont certains font mine de regretter la disparition alors qu’elle pullule partout, à Téhéran, Macao comme à Moscou !… Je le répète, Guy Debord n’est pas moins dur que René Guénon sur cette classe dite moyenne/médiocre et petite-bourgeoise dont le sadisme des représentants s’exprime aujourd’hui par la guerre (Venezuela, Syrie, Libye en attendant mieux) et la répression sociale la plus brute (les gilets jaunes) :

« …ce public si parfaitement privé de liberté, et qui a tout supporté, mérite moins que tout autre d’être ménagé. Les manipulateurs de la publicité, avec le cynisme traditionnel de ceux qui savent que les gens sont portés à justifier les affronts dont ils ne se vengent pas, lui annoncent aujourd’hui tranquillement que « quand on aime la vie, on va au cinéma ». 

Puis de dénoncer les cinéphiles alors omniprésents et les amateurs de cinéma, tous socialement « agents spécialisés des services » :

« Le public de cinéma, qui n’a jamais été très bourgeois et qui n’est presque plus populaire, est désormais presque entièrement recruté dans une seule couche sociale, du reste devenue large : celle des petits agents spécialisés dans les divers emplois de ces « services » dont le système productif actuel a si impérieusement besoin : gestion, contrôle, entretien, recherche, enseignement, propagande, amusement et pseudo-critique. C’est là suffisamment dire ce qu’ils sont. Il faut compter aussi, bien sûr, dans ce public qui va encore au cinéma, la même espèce quand, plus jeune, elle n’en est qu’au stade d’un apprentissage sommaire de ces diverses tâches d’encadrement. »

Et après notre antisystème radical se déchaîne sur ces bobos de la première génération (voyez l’Amour l’après-midi d’Eric Rohmer, qui en dressait un portrait acide) :

« Ce sont des salariés pauvres qui se croient des propriétaires, des ignorants mystifiés qui se croient instruits, et des morts qui croient voter.

Certains diront que Debord exagère (l’attaque universitaire se développe)... Ce n’est pas notre cas, et ce n’est pas une raison pour ne pas le relire :

« Comme le mode de production moderne les a durement traités ! De progrès en promotions, ils ont perdu le peu qu’ils avaient, et gagné ce dont personne ne voulait. Ils collectionnent les misères et les humiliations de tous les systèmes d’exploitation du passé ; ils n’en ignorent que la révolte. Ils ressemblent beaucoup aux esclaves, parce qu’ils sont parqués en masse, et à l’étroit, dans de mauvaises bâtisses malsaines et lugubres ; mal nourris d’une alimentation polluée et sans goût ; mal soignés dans leurs maladies toujours renouvelées ; continuellement et mesquinement surveillés ; entretenus dans l’analphabétisme modernisé et les superstitions spectaculaires qui correspondent aux intérêts de leurs maîtres. »

OpvCeGkO_400x400.jpgOn parle de grand remplacement. Comme je l’ai montré avec Don Siegel et ses gentils profanateurs, il s’agit surtout d’un remplacement moral et spirituel. Mais il y a aussi le grand déplacement, qui ne date pas d’hier (voyez mon texte sur Baudelaire et la conspiration géographique). Dans n’importe quel bled la moitié des gens viennent d’ailleurs. Debord :

« Ils sont transplantés loin de leurs provinces ou de leurs quartiers, dans un paysage nouveau et hostile, suivant les convenances concentrationnaires de l’industrie présente. Ils ne sont que des chiffres dans des graphiques que dressent des imbéciles. »

Debord, qui évoque aussi le grand remplacement du vieux peuple rebelle parisien, écrit ensuite sur nos pandémies (on est dans les années 70, quand seize mille Français meurent par an sur les routes) :

« Ils meurent par séries sur les routes, à chaque épidémie de grippe, à chaque vague de chaleur, à chaque erreur de ceux qui falsifient leurs aliments, à chaque innovation technique profitable aux multiples entrepreneurs d’un décor dont ils essuient les plâtres. Leurs éprouvantes conditions d’existence entraînent leur dégénérescence physique, intellectuelle, mentale. »

Debord explique pourquoi Paris est la ville qui dort de Georges Pérec :

« On n’en avait pas encore chassé et dispersé les habitants. Il y restait un peuple, qui avait dix fois barricadé ses rues et mis en fuite ses rois. C’était un peuple qui ne se payait pas d’images. »

Debord qui se réclame des cinéastes Raoul Walsh et de Marcel Carné (il aime le général Custer, le Lacenaire des Enfants du Paradis, le Jules Berry des Visiteurs…) ajoute :

« Paris n’existe plus. La destruction de Paris n’est qu’une illustration exemplaire de la mortelle maladie qui emporte en ce moment toutes les grandes villes, et cette maladie n’est elle-même qu’un des nombreux symptômes de la décadence matérielle d’une société. Mais Paris avait plus à perdre qu’aucune autre. C’est une grande chance que d’avoir été jeune dans cette ville quand, pour la dernière fois, elle a brillé d’un feu si intense. » 

Le feu pourtant se porte bien, et les sponsors qui vont restructurer cette mégapole nécrosée aussi. Passons.

Conditionné par sa consommation et la propagande, le néo-citoyen adore sa servitude. Debord évoque ici les grandes pages de Céline (voyez mon livre) sur le conditionnement médiatique :

« On leur parle toujours comme à des enfants obéissants, à qui il suffit de dire : « il faut », et ils veulent bien le croire. Mais surtout on les traite comme des enfants stupides, devant qui bafouillent et délirent des dizaines de spécialisations paternalistes, improvisées de la veille, leur faisant admettre n’importe quoi en le leur disant n’importe comment ; et aussi bien le contraire le lendemain. »

Tocqueville annonçait que le monde du citoyen démocratique se limiterait à sa famille :

 « Chacun d’eux, retiré à l’écart, est comme étranger à la destinée de tous les autres : ses enfants et ses amis particuliers forment pour lui toute l’espèce humaine ; quant au demeurant de ses concitoyens, il est à côté d’eux, mais il ne les voit pas ; il les touche et ne les sent point ; il n’existe qu’en lui-même et pour lui seul, et, s’il lui reste encore une famille, on peut dire du moins qu’il n’a plus de patrie. »

 Cette page est tournée. La famille a été passée à la moulinette comme le reste, et Debord l’a parfaitement compris dès les années soixante-dix, quand le néocapitalisme devenu « société liquide » de Bauman liquide tout, c’est le cas de le dire :

« Séparés entre eux par la perte générale de tout langage adéquat aux faits, perte qui leur interdit le moindre dialogue ; séparés par leur incessante concurrence, toujours pressée par le fouet, dans la consommation ostentatoire du néant, et donc séparés par l’envie la moins fondée et la moins capable de trouver quelque satisfaction, ils sont même séparés de leur propres enfants, naguère encore la seule propriété de ceux qui n’ont rien. On leur enlève, en bas âge, le contrôle de ces enfants, déjà leurs rivaux, qui n’écoutent plus du tout les opinions informes de leurs parents, et sourient de leur échec flagrant ; méprisent non sans raison leur origine, et se sentent bien davantage les fils du spectacle régnant que de ceux de ses domestiques qui les ont par hasard engendrés : ils se rêvent les métis de ces nègres-là. »

La facticité/frugalité a gagné tous les domaines de la vie postmoderne et ce qui avait été accordé/promis par peur du communisme et durant l’existence de l’U.R.S.S a vite été confisqué. Comme disait Bourdieu, on restaure. Et on revient donc aux temps bénis de la première révolution industrielle quand une poignée de lords, de financiers et d’industriels détient tout le pactole. Le reste a intérêt à se terrer et à se taire.

51mTK-NPXkL._SX302_BO1,204,203,200_.jpgJ’évoque souvent le problème du logement qui m’a contraint à l’exil. Debord en parle souvent et il cite le jeune Marx. D’un ton magnifique et eschatologique, Marx écrit à la même époque que Tocqueville sur ce logement devenu impossible :

« Même le besoin de grand air cesse d'être un besoin pour l'ouvrier; l'homme retourne à sa tanière, mais elle est maintenant empestée par le souffle pestilentiel et méphitique de la civilisation et il ne l'habite plus que d'une façon précaire, comme une puissance étrangère qui peut chaque jour se dérober à lui, dont il peut chaque jour être expulsé s'il ne paie pas. Cette maison de mort, il faut qu'il la paie. »

Avis à ceux paient partout quarante euros du mètre pour « se loger ». Après, et sans évoquer nos épatantes statistiques modernes, Debord ajoute :

« Derrière la façade du ravissement simulé, dans ces couples comme entre eux et leur progéniture, on n’échange que des regards de haine. »

Une vie de serf en circuit attend nos yuppies :

« Cependant, ces travailleurs privilégiés de la société marchande accomplie ne ressemblent pas aux esclaves en ce sens qu’ils doivent pourvoir eux-mêmes à leur entretien. Leur statut peut être plutôt comparé au servage, parce qu’ils sont exclusivement attachés à une entreprise et à sa bonne marche, quoique sans réciprocité en leur faveur, et surtout parce qu’ils sont étroitement astreints à résider dans un espace unique, le même circuit des domiciles, bureaux, autoroutes, vacances et aéroports toujours identiques. »

On manque d’argent ? Rien de nouveau sous le sommeil :

« Mais où pourtant leur situation économique s’apparente plus précisément au système particulier du péonage, c’est en ceci que, cet argent autour duquel tourne toute leur activité, on ne leur en laisse même plus le maniement momentané. Ils ne peuvent évidemment que le dépenser, le recevant en trop petite quantité pour l’accumuler, mais ils se voient en fin de compte obligés de consommer à crédit, et l’on retient sur leur salaire le crédit qui leur est consenti, dont ils auront à se libérer en travaillant encore. »

Et après, on rationne :

« Comme toute l’organisation de la distribution des biens est liée à celle de la production et de l’État, on rogne sans gêne sur toute leur ration, de nourriture comme d’espace, en quantité et en qualité. Quoi que restant formellement des travailleurs et des consommateurs libres, ils ne peuvent s’adresser ailleurs, car c’est partout que l’on se moque d’eux. »

Puis Debord nuance à nouveau son propos (la litote est en général un trope ironique pour ce rare type d’esprit) :

« Je ne tomberai pas dans l’erreur simplificatrice d’identifier entièrement la condition de ces salariés du premier rang à des formes antérieures d’oppression socio-économique. Tout d’abord parce que, si l’on met de côté leur surplus de fausse conscience et leur participation double ou triple à l’achat des pacotilles désolantes qui recouvrent la presque totalité du marché, on voit bien qu’ils ne font que partager la triste vie de la grande masse des salariés d’aujourd’hui. »

Un clin d’œil aux petits enfants du tiers-monde dont la misère complexe depuis des lustres les micro-bourgeois humanitaires catho-modernisés :

« C’est d’ailleurs dans l’intention naïve de faire perdre de vue cette enrageante trivialité que beaucoup assurent qu’ils se sentent gênés de vivre parmi les délices alors que le dénuement accable des peuples lointains. » 

Uniquement lointains…

Et voici un passage stratégique : Guy Debord se demande où gît la nouveauté dans le sort de nos péons postmodernes ?

« Pour la première fois dans l’histoire, voilà des agents économiques hautement spécialisés qui, en dehors de leur travail, doivent faire tout eux-mêmes. Ils conduisent eux-mêmes leur voiture, et commencent à pomper eux-mêmes leur essence, ils font eux-mêmes leurs achats ou ce qu’ils appellent de la cuisine, ils se servent eux-mêmes dans les supermarchés comme dans ce qui a remplacé les wagons-restaurants. »

Une belle formule sur notre existence de zombi, renforcée depuis (fin médiatisée du sexe pour les jeunes, du travail, du logement, des voyages, de l’éducation ou des soins gratuits, etc.) :

« Notre époque n’en est pas encore venue à dépasser la famille, l’argent, la division du travail. Et pourtant, on peut dire que, pour ceux-là, déjà, la réalité effective s’en est presque entièrement dissoute dans la simple dépossession. Ceux qui n’avaient jamais eu de proie l’ont lâchée pour l’ombre. »

Debord reprend la thématique de l’illusion et de l’hallucination :

« Le caractère illusoire des richesses que prétend distribuer la société actuelle, s’il n’avait pas été reconnu en toutes les autres matières, serait suffisamment démontré par cette seule observation que c’est la première fois qu’un système de tyrannie entretient aussi mal ses familiers, ses experts, ses bouffons. Serviteurs surmenés du vide, le vide les gratifie en monnaie à son effigie. »

Une formule assassine :

« Autrement dit, c’est la première fois que des pauvres croient faire partie d’une élite économique malgré l’évidence contraire. »

Le pire est que nos générations d’hommes creux, pour reprendre le poème d’Eliot subrepticement cité dans Apocalypse now, ne laissent depuis longtemps rien derrière eux :

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« Non seulement ils travaillent, ces malheureux spectateurs, mais personne ne travaille pour eux, et moins que personne les gens qu’ils paient, car leurs fournisseurs même se considèrent plutôt comme leurs contremaîtres, jugeant s’ils sont venus assez vaillamment au ramassage des ersatz qu’ils ont le devoir d’acheter. Rien ne saurait cacher l’usure véloce qui est intégrée dès la source, non seulement pour chaque objet matériel, mais jusque sur le plan juridique, dans leurs rares propriétés. De même qu’ils n’ont pas reçu d’héritage, ils n’en laisseront pas. »

On avait compris…

Sources

Guy Debord, In girum imus nocte et consumimur igni ; La Société du Spectacle…

René Guénon, Initiation et réalisation, spirituelle, XXVIII

Alexis de Tocqueville, De la Démocratie…, II, p.363

Georges Sorel, les Illusions du progrès, p.353

Marx, Manuscrits de 1844, p. 93

dimanche, 19 janvier 2020

Oswald Spengler's Apocalyptic Vision of History

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Oswald Spengler's Apocalyptic Vision of History

 
2:40 - Part 1
9:07 - Part 2
16:50 - Part 3
The last of my Spengler videos, for now at least.
 

samedi, 18 janvier 2020

“Qu’est-ce que le réalisme politique ?”

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“Qu’est-ce que le réalisme politique ?”

par Arnaud Imatz

Introduction d’Arnaud Imatz au livre de Dalmacio Negro Pavón, La loi de fer de l’oligarchie. Pourquoi le gouvernement du peuple par le peuple pour le peuple est un leurre, L’Artilleur / Toucan, 2019.

Oligarchie.jpgSourcé et documenté, mais en même temps décapant sans concessions et affranchi de tous les  conventionnalismes, ce livre atypique sort résolument des sentiers battus de l’histoire des idées politiques. Son auteur, Dalmacio Negro Pavón, politologue renommé dans le monde hispanique, est au nombre de ceux qui incarnent le mieux la tradition académique européenne, celle d’une époque où le politiquement correct n’avait pas encore fait ses ravages, et où la majorité des universitaires adhéraient avec conviction, – et non par opportunisme comme si souvent aujourd’hui -, aux valeurs scientifiques de rigueur, de probité et d’intégrité. Que nous dit-il ? Résumons-le en  puisant largement dans ses analyses, ses propos et ses termes:

Historiquement, le monde n’a pas connu d’autre forme de gouvernement que celle du petit nombre (la minorité dirigeante), et tout gouvernement a besoin de l’appui de l’opinion. Il n’y a pas de communauté politique sans hiérarchie ; pas de hiérarchie sans organisation, pas d’organisation sociale qui ne se concrétise sans la direction d’un petit nombre. C’est ce qu’on appelle la loi de fer de l’oligarchie. Derrière toutes les formes de gouvernement connues (monarchie, aristocratie, démocratie – selon la classification classique -, démocratie et dictature – selon la classification moderne), il n’y a qu’une minorité qui domine l’immense majorité. Les multiples variantes possibles dépendent du mode de rénovation de cette minorité et des limites et contrôles auxquels cette minorité se soumet dans l’exercice du pouvoir. Les positions oligarchiques ne sont jamais disputées par les masses ; ce sont les différentes factions de la classe politique qui se les disputent. Les gouvernés n’interviennent pas dans ce litige permanent si ce n’est comme vivier des nouveaux aspirants au pouvoir, comme vivier des nouvelles élites. Les gouvernés sont des spectateurs, parfois des animateurs, rarement des arbitres.

Lorsqu’une oligarchie est discréditée, elle est invariablement remplacée par une autre en quête de prestige, c’est-à-dire de légitimité d’exercice, prête s’il le faut à utiliser la démagogie. La souveraineté populaire est un mythe qui permet aux oligarques tous les abus et toutes les arnaques imaginables.L’utopiste qui rêve qu’il est possible d’éliminer l’égoïsme en politique et de fonder un système politique sur la seule moralité n’atteint pas la cible, pas plus d’ailleurs que le réaliste qui croit que l’altruisme est une illusion et que toute action politique est basée sur l’égoïsme. En dehors des éternels naïfs, le consensus politique – expression collective de la loyauté de la classe politique envers elle-même -, ne trompe que ceux qui veulent se tromper eux-mêmes, par convenance personnelle ou pour obtenir quelques faveurs. Les problèmes politiques ne peuvent pas être résolus définitivement. En politique il n’y a de place que pour le compromis.

Que dire de la démocratie en Europe ? Elle est moins une religion qu’une superstition, un substitut, un succédané ou une apparence de foi, qui est née des religions de la politique. Elle est, « une hypocrisie organisée » disait Schumpeter, elle se réduit à l’opportunité que les oligarchies partitocratiques  offrent aux gouvernés de se prononcer périodiquement sur une option, généralement limitée, après avoir procédé à une grande opération d’information ou de marketing auprès de l’opinion publique.

Cela dit, et malgré tout, il semble qu’une grande partie du peuple soit de plus en plus consciente de l’existence de la loi de fer de  l’oligarchie. Mais à l’inverse, de plus en plus craintive, l’oligarchie resserre au maximum les vis qui assujettissent le demos au singulier supermarché qu’est l’État des partis. On sait les réactions d’hostilité, de mépris et de peur que suscitent les mouvements populistes et les rébellions populaires du genre « Gilets jaunes » dans  la quasi-totalité de l’establishment[1] européen.

dalmacio-negro.jpgUne révolution a besoin de dirigeants, mais l’étatisme a infantilisé la conscience des Européens. Celle-ci a subi une telle contagion que l’émergence de véritables dirigeants est devenue quasiment impossible et que lorsqu’elle se produit, la méfiance empêche de les suivre. Mieux vaut donc, une fois parvenu à ce stade, faire confiance au hasard, à l’ennui ou à l’humour, autant de forces historiques majeures, auxquelles on n’accorde pas suffisamment d’attention parce qu’elles sont cachées derrière le paravent de l’enthousiasme progressiste.

Les analyses, les interrogations et les propos sévères, souvent même très corrosifs, de Negro Pavón ne risquent guère de lui faire des amis parmi le petit nombre des détenteurs du pouvoir, ni parmi leurs soutiens souvent serviles du monde politique, économique et médiatico-culturel, mais de cela il n’en a cure Anciennement professeur d’histoire des idées politiques à l’Université Complutense de Madrid, actuellement professeur émérite de science politique à l’Université San Pablo de Madrid, membre de l’Académie royale des sciences morales et politiques, auteur d’une bonne vingtaine de livres[2] et de plusieurs centaines d’articles, il n’a plus rien à prouver. Fin connaisseur de la pensée politique européenne classique et moderne, excellent polyglotte, lecteur invétéré de tous les grands auteurs européens[3] et américains, il nous convie à un remarquable parcours à travers l’histoire de la politique occidentale en même temps qu’il nous donne un diagnostic lucide et pénétrant de la réalité de l’Europe et de l’Occident actuels.

Pavón se rattache ouvertement à l’École du réalisme politique. Il n’est donc pas inutile, avant de lui céder la plume, de rappeler à grands traits ce qu’est cette École de pensée si souvent objet de malentendus, de tergiversations et de caricatures. Qu’entend-on par réalisme politique ou par tradition de pensée machiavélienne (et non machiavélique) de la politique ? Avant de répondre, il nous faut mentionner l’habituel argumentaire dépréciatif de ses adversaires. Le réalisme serait selon eux le culte de l’époque, une idéologie manichéenne, pragmatique, opportuniste, fataliste et désespérante, une idéologie de dominants, de chantres du conformisme, qui fait de l’instant une fin, qui considère le présent indépassable, qui refuse de penser le changement et l’avenir. Mais ce réquisitoire, aujourd’hui si répandu, n’est somme toute qu’une illustration de plus des méfaits de l’enfumage idéologique. Il n’est pas sans rappeler l’Anti-Machiavel du despote éclairé (ou obscur) Frédéric II, qui avait été écrit pour séduire et abuser l’Europe des philosophes. Comme disait l’annonce des films de fiction de ma jeunesse: « toute ressemblance avec des situations réelles existantes ou ayant existé ne saurait être que fortuite ». Nous le verrons, le réalisme politique est au contraire une méthode d’analyse et de critique complète, intense et radicale de tout pouvoir constitué.

À proprement parler, le réalisme politique n’est ni une école homogène, ni une famille intellectuelle unitaire. C’est seulement un habitus, une disposition d’esprit, un point de vue d’étude ou de recherche qui vise à éclairer les règles que suit la politique[4]. Ce n’est pas la défense du statu quo, la défense de l’ordre établi ou la doctrine qui justifie la situation des hommes au pouvoir comme le prétendent faussement ses adversaires. Le réalisme politique part de l’évidence des faits, mais il ne se rend pas devant eux. Il ne se désintéresse pas des fins dernières et se distingue en cela du pseudo-réalisme de type cynique qui réduit la politique à la seule volonté de puissance, au règne et au culte de la force à l’état pur. Le réaliste politique authentique est un homme avec des principes, une morale, une profonde conscience des devoirs et des responsabilités de l’action politique. La prudence, la sagesse, l’équilibre, le sens de la responsabilité et la fermeté de caractère sont les clefs de sa pensée.

978847209552.JPGLe réaliste authentique affirme que la finalité propre à la politique est le bien commun, mais il reconnait la nécessité vitale des finalités non politiques(le bonheur et la justice). La politique est selon lui au service de l’homme. La mission de la politique n’est pas de changer l’homme ou de le rendre meilleur (ce qui est le chemin des totalitarismes), mais d’organiser les conditions de la coexistence humaine, de mettre en forme la collectivité, d’assurer la concorde intérieure et la sécurité extérieure. Voilà pourquoi les conflits doivent être, selon lui, canalisés, réglementés, institutionnalisés et autant que possible résolus sans violence.

Dalmacio Negro Pavón aborde avec rigueur chacune des idées du réalisme politique[5]. Les deux principales se retrouvent dans les titres des deux premiers essais de son livre : La loi de fer de l’oligarchie, loi immanente à la politique et Démystifier la démocratie. Il complète ensuite ces deux essais par un texte plus bref Sur la théologie politique dominante qui porte sur la question théologico-politique, ou si l’on préfère sur les causes existentielles et spirituelles de la situation actuelle, tout particulièrement sur l’importance de l’influence des hérésies théologiques sur la pensée et les attitudes politiques modernes. On pourrait classer l’ensemble des idées de son livre dans l’ordre suivant :

Première idée : le caractère inévitable de l’oligarchie et de la division gouvernants-gouvernés. C’est la fameuse loi d’airain, de bronze ou de fer de l’oligarchie, formulée par Robert Michels. Selon les régimes et les sociétés, nous l’avons dit, la circulation des élites peut être plus ou moins grande, mais en dernière instance, c’est toujours le petit nombre, la minorité qui dirige.

Deuxième idée : La démocratie idéale est irréalisable et les symboles démocratiques sont des fictions. La complexité des problèmes et surtout la dimension des sociétés constituent autant d’obstacles à l’autogouvernement. En général, les hommes politiques le savent, mais tous connaissent aussi l’importance de la magie des paroles. Par ailleurs, les démocraties réelles tendent toujours à se convertir en oligarchies. Plus la démocratie s’organise, plus elle tend à décliner. Plus elle s’organise et plus les possibilités de coaction et de manipulation des masses grandissent. « La démocratie, gouvernement du peuple, par le peuple et pour le peuple » selon la formule célèbre de Lincoln, relève de l’utopie ou de la foi religieuse. La démocratie est une méthode, elle ne saurait être une fin, un  idéal absolu, un impératif moral. L’idéologie démocratique, la foi démocratique, relève de la rhétorique. Elle ne sert qu’à éluder les responsabilités et à écraser l’opposition au nom du peuple.

Troisième idée : la politique ne peut pas faire l’économie d’une vision de l’homme. Le réaliste politique peut penser soit que l’homme est historique, soit, qu’il existe une nature humaine. Mais dans les deux cas, il considère que les pulsions humaines expliquent pour une bonne part le caractère instable des institutions politiques et le caractère conflictuel de la politique.

Quatrième idée : la reconnaissance de la nature intrinsèquement conflictuelle de la politique. La vie sera toujours le théâtre de conflits et de différences. La politique au sens traditionnel est la grande « neutralisatrice » des conflits. Voilà pourquoi la résistance systématique et aveugle à toute forme de pouvoir (la croyance que « le pouvoir est le mal ») constitue une excellente méthode pour accélérer la corruption du pouvoir et entrainer sa substitution par d’autres formes de pouvoir souvent bien plus problématiques et plus despotiques. Ce n’est pas parce qu’un peuple perd la force ou la volonté de survivre ou de s’affirmer dans la sphère politique que la politique va disparaitre du monde. L’histoire n’est pas tendre… malheur au fort qui devient faible !

Cinquième idée : le scepticisme en matière de formes de gouvernement. Il est impossible de prononcer scientifiquement un jugement catégorique sur la convenance de l’un ou l’autre des régimes en place. Il n’y a pas de régime optimal ou parfait. Chaque régime politique est une solution contingente et singulière, une réponse transitoire à l’éternel problème du politique. Tous les régimes sont par ailleurs également soumis à l’usure du temps et à la corruption[6].

Sixième idée : le rejet de toute interprétation mono-causale de la politique comme partiale et arbitraire. Les explications mono-causales « en dernière instance » par l’économie, par la politique, par la culture, par la morale, etc. sont réductionnistes et n’ont aucun sens.

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L’étude des partis politiques et des syndicats, réalisée par Robert Michels au début du XXe siècle, révèle particulièrement bien la caractéristique fondamentale des sociétés: la tendance à l’oligarchie. Un parti politique n’est ni plus ni moins qu’un groupe de personnes qui s’unissent pour conquérir et conserver le pouvoir. Tout le reste (même l’idéologie) est secondaire. Les partis naissent comme des groupes élitistes et se convertissent en organisations de notables ; puis, avec le suffrage universel, ils se transforment le plus souvent en partis de masses. Mais lorsqu’ils s’organisent fortement, ils obéissent toujours à la loi de fer de l’oligarchie. L’analyse des « partis de masse » a mis à nue quelques principes généraux que l’on peut énoncer ainsi :

– Les multitudes sont frappées d’une sorte d’incapacité politique. Lorsqu’elles perdent leurs leaders, elles se retirent et abandonnent le champ politique.

– L’oligarchie est une nécessité sociale. Le principe d’organisation est une condition absolument essentielle pour la lutte politique.

– Ce sont les minorités et non les masses qui se disputent le pouvoir. Les leaders de tous les camps se présentent comme les porte-paroles du peuple, mais en réalité c’est toujours la lutte entre l’ancienne minorité qui défend son hégémonie et la nouvelle minorité ambitieuse qui entend conquérir le pouvoir.

– Le leadership est tendanciellement autocratique. Les leaders ne se contentent pas de vouloir durer, ils veulent toujours plus de pouvoir. L’éloignement des masses, la professionnalisation, le niveau intellectuel et culturel des leaders, la tendance à rechercher le renouvellement par cooptation, voire le népotisme, sont de puissants éléments qui contribuent à l’isolement des leaders. Les rébellions de la base n’ont que d’infimes possibilités de succès.

– Le parti est un instrument de domination. Contrairement à ce qu’ils prétendent les partis sont des organisations qui veulent que les élus dominent les électeurs et que les mandataires dominent les mandants.

– La tendance oligarchique est consubstantielle aux partis. Seule une minorité participe aux décisions du parti et, souvent, cette minorité est ridiculement exiguë.

Conclusion : la démocratie réelle est une oligarchie élue par le peuple. Elle exclut l’usage de la violence physique mais non pas la violence morale (la compétition déloyale, frauduleuse ou restreinte). Deux conditions permettraient de réformer en profondeur la démocratie politique actuelle au bénéfice du peuple. D’abord, les représentés devraient pouvoir recouvrer la liberté de contrôler directement les représentants ou élus qui leur a été abusivement retirée. Il faudrait pour cela instaurer un système électoral majoritaire avec mandat impératif ; les représentants seraient ainsi obligés de respecter le mandat impératif de leurs électeurs respectifs. Enfin, pour que le peuple puisse, sinon diriger et gouverner de fait, du moins s’intégrer et participer durablement à la vie politique, il faudrait que le principe de la démocratie directe soit largement accepté [avec bien sûr le référendum d’initiative populaire (RIP) ou citoyenne (RIC)[7]].

517y-pAX7EL._SX326_BO1,204,203,200_.jpgCela étant, on peut être un sceptique ou un pessimiste lucide mais refuser pour autant de désespérer. On ne peut pas éliminer les oligarchies. Soit ! Mais, comme nous le dit Dalmacio Negro Pavón, il y a des régimes politiques qui sont plus ou moins capables d’en mitiger les effets et de les contrôler. Le nœud de la question est d’empêcher que les détenteurs du pouvoir ne soient que de simples courroies de transmission des intérêts, des désirs et des sentiments de l’oligarchie politique, sociale, économique et culturelle. Les hommes craignent toujours le pouvoir auquel ils sont soumis, mais le pouvoir qui les soumet craint lui aussi toujours la collectivité sur laquelle il règne. Et il existe une condition essentielle pour que la démocratie politique soit possible et que sa corruption devienne beaucoup plus difficile sinon impossible, souligne encore Dalmacio Negro Pavón. Il faut que l’attitude à l’égard du gouvernement soit toujours méfiante, même lorsqu’il s’agit d’amis ou de personnes pour lesquelles on a voté. Bertrand de Jouvenel disait à ce propos très justement: « le gouvernement des amis est la manière barbare de gouverner ».

Arnaud Imatz-Couartou

Docteur d’État ès sciences politiques

Membre correspondant de l’Académie royale d’histoire d’Espagne


[1] En théorie on peut distinguer l’establishment (concept anglosaxon désignant la minorité politico-sociale exerçant son contrôle sur l’ensemble de la société), et  l’oligarchie  (petit nombre d’individus, catégorie, classe ou caste dominante détenant le pouvoir et contrôlant la société) de l’élite, minorité d’individus auxquels s’attache un pouvoir dû à des qualités naturelles ou acquises (les « meilleurs » en raison de leurs mérites : race, intelligence, sagesse, éthique, culture, éducation,  richesse, etc.). Mais dans les faits, ces trois concepts recouvrent aujourd’hui une même réalité.

[2] Dalmacio Negro Pavón est un disciple de l’historien des idées politiques, Luis Díez del Corral, qui a été président de l’Académie des sciences morales et politiques d’Espagne et docteur honoris causa de la Sorbonne (1980). Díez del Corral était pendant longtemps rédacteur de la célèbre revue Revista de Occidente fondée par le philosophe José Ortega y Gasset. Parmi les ouvrages de D. Negro Pavón citons plus particulièrement:  Liberalismo y socialismo: la encrucijada intelectual de Stuart Mill, Madrid, Centro de Estudios Constitucionales, 1976; Comte: positivismo y revolución, Madrid, Editorial Cincel, 1985; El Liberalismo en España, Madrid, Unión Editorial, 1988; Estudios sobre Carl Schmitt, Madrid, Fundación Cánovas del Castillo, 1995; La tradición liberal y el Estado, Madrid, Unión Editorial, 1995; Gobierno y Estado, Madrid, Marcial Pons, 2002; Lo que Europa debe al cristianismo, 3e éd., Madrid, Unión Editorial, 2007; El mito del hombre nuevo, Madrid, Encuentro, 2009; Historia de las formas del Estado. Una introducción, Madrid, El Buey mudo, 2010, Il dio mortale, Piombino, Il Foglio, 2014 et La tradición de la libertad, Madrid, Unión Editorial, 2019.

[3] Soulignons l’intérêt marqué de Negro Pavón pour la pensée politique française, ce dont témoignent les travaux de plusieurs de ses disciples. Il en est notamment ainsi des politologues et philosophes Armando Zerolo Durán, spécialiste de Bertrand de Jouvenel (voir : Génesis del Estado Minotauro. El pensamiento político de Bertrand de Jouvenel, Murcia, Sequitur, 2013), Domingo González Hernández, spécialiste de René Girard (voir:  Hacia una teoría mimética de lo político: René Girard y su escuela, Madrid, UCM, 2015 et René Girard, maestro cristiano de la sospecha, Madrid, Fundación Emmanuel Mounier, 2016) et Jerónimo Molina Cano, doyen de faculté à l‘Université de Murcie, spécialiste de Raymond Aron et de Julien Freund et meilleur connaisseur actuel de la pensée du polémologue Gaston Bouthoul (voir:; Raymond Aron, realista político. Del maquiavelismo a la crítica de las religiones seculares, Madrid, Sequitur, 2013; Julien Freund. Lo político y la política, Madrid, Sequitur, 1999 et Gaston Bouthoul, Inventor de la polemología. Guerra, demografía y complejos belígenos, Madrid, Centro de Estudios Políticos y Constitucionales, 2019).

[4] Parmi les précurseurs on trouve : Thucydide, Aristote, Ibn Khaldoun, Machiavel, Gabriel Naudé, Saavedra Fajardo, Hobbes, Tocqueville, etc. Chez  les contemporains et les modernes on peut citer: Moisey Ostrogorski, Vilfredo Pareto, Robert Michels, Gaetano Mosca, Carl Schmitt, Max Weber, Simone Weil, Raymond Aron, Gaston Bouthoul, James Burnham, Benedetto Croce, Maurice Duverger, Gonzalo Fernández de la Mora, Julien Freund, Bertrand de Jouvenel, Halford Mackinder, Harold Laski. Gianfranco Miglio, Jules Monnerot, Michael Oakeshott, Giovanni Sartori, Éric Voegelin, Jerónimo Molina Cano, Alessandro Campi,  et beaucoup d’autres aux convictions souvent très différentes (libéraux, socialistes, nationalistes, conservateurs, etc.).

[5] Negro Pavón cite et reprend tous les travaux classiques en la matière, notamment ceux de Moisey Ostrogorski (voir : La démocratie et l’organisation des partis politiques, 1903), Vilfredo Pareto (voir : Les systèmes socialistes, 1902-1903), Robert Michels (voir : Les partis politiques. Essai sur les tendances oligarchiques des démocraties, 1911), Gaetano Mosca (voir : Elementi di scienza política, 1896-1923), Joseph Schumpeter (voir : Capitalisme, Socialisme et Démocratie, 1943) et Gonzalo Fernandez de la Mora (voir : La partitocracia, 1977).

[6] Sur le plan de l’action politique, il ne faut pas non plus sous-estimer l’importance du  principe d’hétérotélie, transposition de la pensée de l’Apôtre saint Paul « Je fais le mal que je ne veux pas, je ne fais pas le bien que je veux » (Lettre aux Romains). L’hétérotélie, dont Jules Monnerot a élaboré la théorie la plus complète, est la « ruse de la raison » de Hegel, le « paradoxe des conséquences » de  Weber, le « décalage entre le but avoué et le déroulement réel de l’action » de Pareto, « le principe de différence de l’objectif visé et de l’objectif atteint », l’effet pervers ou le résultat qui contredit si souvent l’intention initiale.

[7] A noter qu’à l’origine le RIC figurait parmi les principales revendications du mouvement des « Gilets jaunes » avec la baisse de la TVA sur les produits de première nécessité, la révision des avantages et des privilèges des élus et le rétablissement de l’ISF pour les valeurs mobilières (actions, placements).

“Orthodoxie et hérésie durant l’Antiquité tardive”

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“Orthodoxie et hérésie durant l’Antiquité tardive”

par Claude Bourrinet

Recension:

Polymnia Athanassiadi, La lutte pour l’orthodoxie dans le platonisme tardif. De Numénius à Damascius, Les Belles Lettres, Paris, 2006, 276 p., 25 €

path-ortho.jpgLa période qui s’étend du IIIe siècle de l’ère chrétienne au VIe, ce qu’il est convenu d’appeler, depuis les débuts de l’Âge moderne, le passage de l’Antiquité gréco-romaine au Moyen Âge (ou Âges gothiques), fait l’objet, depuis quelques années, d’un intérêt de plus en plus marqué de la part de spécialistes, mais aussi d’amateurs animés par la curiosité des choses rares, ou poussés par des besoins plus impérieux. De nombreux ouvrages ont contribué à jeter des lueurs instructives sur un moment de notre histoire qui avait été négligée, voire méprisée par les historiens. Ainsi avons-nous pu bénéficier, à la suite des travaux d’un Henri-Irénée Marrou, qui avait en son temps réhabilité cette époque prétendument « décadente », des analyses érudites et perspicaces de Pierre Hadot, de Lucien Jerphagnon, de Ramsay MacMullen, de Christopher Gérard et d’autres, tandis que les ouvrages indispensable, sur la résistance païenne, de Pierre de Labriolle et d’Alain de Benoist étaient réédités. Polymnia Athanassiadi, professeur d’histoire ancienne à l’Université d’Athènes, a publié, en 2006, aux éditions Les Belles Lettres, une recherche très instructive, La Lutte pour l’orthodoxie dans le platonisme tardif, que je vais essayer de commenter.

Avant tout, il est indispensable de s’interroger sur l’occultation, ou plutôt l’aveuglement (parce que l’acte de voiler supposerait une volonté assumée de cacher, ce qui n’est pas le cas), qu’ont manifesté les savants envers cette période qui s’étend sur plusieurs siècles. L’érudition classique, puis romantique (laquelle a accentué l’erreur de perspective) préféraient se pencher sur celle, plus valorisante, du Ve siècle athénien, ou de l’âge d’or de l’Empire, d’Auguste aux Antonins. Pourquoi donc ce dédain, voire ce quasi déni ? On s’aperçoit alors que, bien qu’aboutissant à des présupposés laïques, la science historique a été débitrice de la vision chrétienne de l’Histoire. On a soit dénigré ce qu’on appela le « BasEmpire », en montrant qu’il annonçait l’obscurantisme, ou bien on l’a survalorisé, en dirigeant l’attention sur l’Église en train de se déployer, et sur le christianisme, censé être supérieur moralement. On a ainsi souligné dans le déclin, puis l’effondrement de la civilisation romaine, l’avènement de la barbarie, aggravée, aux yeux d’un Voltaire, par un despotisme asiatique, que Byzance incarna pour le malheur d’une civilisation figée dans de louches et imbéciles expressions de la torpeur spirituelle, dans le même temps qu’on saluait les progrès d’une vision supposée supérieure de l’homme et du monde.

Plus pernicieuse fut la réécriture d’un processus qui ne laissa guère de chances aux vaincus, lesquels faillirent bien disparaître totalement de la mémoire. À cela, il y eut plusieurs causes. D’abord, la destruction programmée, volontaire ou non, des écrits païens par les chrétiens. Certains ont pu être victimes d’une condamnation formelle, comme des ouvrages de Porphyre, de Julien l’Empereur, de Numénius, d’autres ont disparu parce qu’ils étaient rares et difficiles d’accès, comme ceux de Jamblique, ou bien n’avaient pas la chance d’appartenir au corpus technique et rhétorique utile à la propédeutique et à la méthodologie allégorique utilisées par l’exégèse chrétienne. C’est ainsi que les Ennéades de Plotin ont survécu, contrairement à d’autres monuments, considérables, comme l’œuvre d’Origène, pourtant chrétien, mais plongé dans les ténèbres de l’hérésie, qu’on ne connaît que de seconde main, dans les productions à des fins polémiques d’un Eusèbe.

La philosophie, à partir du IIe siècle, subit une transformation profonde, et se « platonise » en absorbant les écoles concurrentes comme l’aristotélisme et le stoïcisme, ou en les rejetant, comme l’académisme ou l’épicurisme, en s’appuyant aussi sur un corpus mystique, plus ou moins refondé, comme l’hermétisme, le pythagorisme ou les oracles chaldaïques. De Platon, on ne retient que le théologien. Le terme « néoplatonisme » est peu satisfaisant, car il est un néologisme qui ne rend pas compte de la conscience qu’avaient les penseurs d’être les maillons d’une « chaîne d’or », et qui avaient hautement conscience d’être des disciples de Platon, des platoniciens, des platonici, élite considérée comme une « race sacrée ». Ils clamaient haut et fort qu’il n’y avait rien de nouveau dans ce qu’ils avançaient. Cela n’empêchait pas des conflits violents (en gros, les partisans d’une approche « intellectualisante » du divin, de l’autre ceux qui mettent l’accent sur le rituel et le culte, bien que les deux camps ne fussent pas exclusifs l’un de l’autre). Le piège herméneutique dont fut victime l’appréhension de ces débats qui éclosent au seuil du Moyen Âge, et dont les enjeux furent considérables, tient à ce que le corpus utilisé (en un premier temps, les écrits de Platon) et les méthodes exégétiques, préparent et innervent les pratiques méthodologiques chrétiennes. Le « néoplatonisme » constituerait alors le barreau inférieur d’une échelle qui monterait jusqu’à la théologie chrétienne, sommet du parcours, et achèvement d’une démarche métaphysique dont Platon et ses exégètes seraient le balbutiement ou la substance qui n’aurait pas encore emprunté sa forme véritable.

Or, non seulement la pensée « païenne » s’inséra difficilement dans un schéma dont la cohérence n’apparaît qu’à l’aide d’un récit rétrospectif peu fidèle à la réalité, mais elle dut batailler longuement et violemment contre les gnostiques, puis contre les chrétiens, quand ces derniers devinrent aussi dangereux que les premiers, quitte à ne s’avouer vaincue que sous la menace du bras séculier.

Cette résistance, cette lutte, Polymnia Athanassiadi nous la décrit très bien, avec l’exigence d’une érudite maîtrisant avec talent la technique philologique et les finesses philosophiques d’un âge qui en avait la passion. Mais ce qui donne encore plus d’intérêt à cette recherche, c’est la situation (pour parler comme les existentialistes) adoptée pour en rendre compte. Car le point de vue platonicien est suivi des commencements à la fin, de Numénius à Damascius, ce qui bascule complètement la compréhension de cette époque, et octroie une légitimité à des penseurs qui avaient été dédaignés par la philosophie universitaire. Ce n’est d’ailleurs pas une moindre gageure que d’avoir reconsidéré l’importance de la théurgie, notamment celle qu’a conçue et réalisée Jamblique, dont on perçoit la noblesse de la tâche, lui qui a souvent fort mauvaise presse parmi les historiens de la pensée.

oeuvres-de-jamblique.jpgPendant ces temps très troublés, où l’Empire accuse les assauts des Barbares, s’engage dans un combat sans merci avec l’ennemi héréditaire parthe, où le centre du pouvoir est maintes fois disloqué, amenant des guerres civiles permanentes, où la religiosité orientale mine l’adhésion aux dieux ancestraux, l’hellénisme (qui est la pensée de ce que Paul Veyne nomme l’Empire gréco-romain) est sur la défensive. Il lui faut trouver une formule, une clé, pour sauver l’essentiel, la terre et le ciel de toujours. Nous savons maintenant que c’était un combat vain (en apparence), en tout cas voué à l’échec, dès lors que l’État allait, par un véritable putsch religieux, imposer le culte galiléen. Durant trois ou quatre siècles, la bataille se déroulerait, et le paganisme perdrait insensiblement du terrain. Puis on se réveillerait avec un autre ciel, une autre terre. Comme le montre bien Polymnia Athanassiadi, cette « révolution » se manifeste spectaculairement dans la relation qu’on cultive avec les morts : de la souillure, on passe à l’adulation, au culte, voire à l’idolâtrie des cadavres.

À travers cette transformation des cœurs, et de la représentation des corps, c’est une nouvelle conception de la vérité qui vient au jour. Mais, comme cela advient souvent dans l’étreinte à laquelle se livrent les pires ennemis, un rapport spéculaire s’établit, où se mêlent attraction et répugnance. Récusant la notion de Zeigeist, trop vague, Polymnia Athanassiadi préfère celui d’« osmose » pour expliquer ce phénomène universel qui poussa les philosophes à définir, dans le champ de leurs corpus, une « orthodoxie », tendance complètement inconnue de leurs prédécesseurs. Il s’agit là probablement de la marque la plus impressionnante d’un âge qui, par ailleurs, achèvera la logique de concentration extrême des pouvoirs politique et religieux qui était contenu dans le projet impérial. C’est dire l’importance d’un tel retournement des critères de jugement intellectuel et religieux pour le destin de l’Europe.

Il serait présomptueux de restituer ici toutes les composantes d’un processus historique qui a mis des siècles pour réaliser toutes ses virtualités. On s’en tiendra à quelques axes majeurs, représentatifs de la vision antique de la quête de vérité, et généralement dynamisés par des antithèses récurrentes.

L’hellénisme, qui a irrigué culturellement l’Empire romain et lui a octroyé une armature idéologique, sans perdre pour autant sa spécificité, notamment linguistique (la plupart des ouvrages philosophiques ou mystiques sont en grec) est, à partir du IIe siècle, sur une position défensive. Il est obligé de faire face à plusieurs dangers, internes et externes. D’abord, un scepticisme dissolvant s’empare des élites, tandis que, paradoxalement, une angoisse diffuse se répand au moment même où l’Empire semble devoir prospérer dans la quiétude et la paix. D’autre part, les écoles philosophiques se sont pour ainsi dire scolarisées, et apparaissent souvent comme des recettes, plutôt que comme des solutions existentielles. Enfin, de puissants courants religieux, à forte teneur mystique, parviennent d’Orient, sémitique, mais pas seulement, et font le siège des âmes et des cœurs. Le christianisme est l’un d’eux, passablement hellénisé, mais dont le noyau est profondément judaïque.

Plusieurs innovations, matérielles et comportementales, vont se conjuguer pour soutenir l’assaut contre le vieux monde. Le remplacement du volume de papyrus par le Codex, le livre que nous connaissons, compact, maniable, d’une économie extraordinaire, outil propice à la pérégrination, à la clandestinité, sera déterminant dans l’émergence de cette autre figure insolite qu’est le missionnaire, le militant. Les païens, par conformisme traditionaliste, étaient attachés à l’antique mode de transmission de l’écriture, et l’idée de convertir autrui n’appartenait pas à la Weltanschauung gréco-romaine. Nul doute qu’on ait là l’un des facteurs les plus assurés de leur défaite finale.

Le livre possède aussi une qualité intrinsèque, c’est que la disposition de ses pages reliées et consultables à loisir sur le recto et le verso, ainsi que la continuité de lecture que sa facture induit, le rendent apte à produire un programme didactique divisé en parties cohérentes, en une taxinomie. Il est par excellence porteur de dogme. Le canon, la règle, l’orthodoxie sont impliqués dans sa présentation ramassée d’un bloc, laissant libre cours à la condamnation de l’hérésie, terme qui, de positif qu’il était (c’était d’abord un choix de pensée et de vie) devient péjoratif, dans la mesure même où il désigne l’écart, l’exclu. Très vite, il sera l’objet précieux, qu’on parera précieusement, et qu’on vénérera. Les religions du Livre vont succéder à celles de la parole, le commentaire et l’exégèse du texte figé à la recherche libre et à l’accueil « sauvage » du divin.

Pour les Anciens, la parole, « créature ailée », selon Homère, symbolise la vie, la plasticité de la conscience, la possibilité de recevoir une pluralité de messages divins. Rien de moins étrange pour un Grec que la théophanie. Le vecteur oraculaire est au centre de la culture hellénique. C’est pourquoi les Oracles chaldaïques, création du fascinant Julien le théurge, originaire de la cité sacrée d’Apamée, seront reçus avec tant de faveur. En revanche la théophanie chrétienne est un événement unique : le Logos s’est historiquement révélé aux hommes. Cependant, sa venue s’est faite par étapes, chez les Juifs et les Grecs d’abord, puis sous le règne d’Auguste. L’incarnation du Verbe est conçue comme un progrès, et s’inscrit dans un temps linéaire. Tandis que le Logos, dans la vision païenne, intervient par intermittence. En outre, il révèle une vérité qui n’est cernée ni par le temps, ni par l’espace. La Sophia appartient à tous les peuples, d’Occident et d’Orient, et non à un « peuple élu ». C’est ainsi que l’origine de Jamblique, de Porphyre, de Damascius, de Plotin, les trois premiers Syriens, le dernier Alexandrin, n’a pas été jugé comme inconvenante. Il existait, sous l’Empire, une koïnè théologique et mystique.

9782251004143.jpgQue le monothéisme sémitique ait agi sur ce recentrement du divin sur lui-même, à sa plus simple unicité, cela est plus que probable, surtout dans cette Asie qui accueillait tous les brassages de populations et de doctrines, pour les déverser dans l’Empire. Néanmoins, il est faux de prétendre que le néoplatonisme fût une variante juive du platonisme. Il est au contraire l’aboutissement suprême de l’hellénisme mystique. Comme les Indiens, que Plotin ambitionnait de rejoindre en accompagnant en 238 l’expédition malheureuse de Gordien II contre le roi perse Chahpour, l’Un peut se concilier avec la pluralité. Jamblique place les dieux tout à côté de Dieu. Plus tard, au Ve siècle, Damascius, reprenant la théurgie de Jamblique et l’intellectualité de Plotin (IIIe siècle), concevra une voie populaire, rituelle et cultuelle, nécessairement plurielle, et une voie intellective, conçue pour une élite, quêtant l’union avec l’Un. Le pèlerinage, comme sur le mode chrétien, sera aussi pratiqué par les païens, dans certaines villes « saintes », pour chercher auprès des dieux le salut.

Les temps imposaient donc un changement dans la religiosité, sous peine de disparaître rapidement. Cette adaptation fut le fait de Numénius qui, en valorisant Platon le théologien, Platon le bacchant, comme dira Damascius, et en éliminant du corpus sacré les sceptiques et les épicuriens, parviendra à déterminer la première orthodoxie païenne, bien avant la chrétienne, qui fut le fruit des travaux de Marcion le gnostique, et des chrétien plus ou moins bien-pensants, Origène, Valentin, Justin martyr, d’Irénée et de Tertullien. La notion centrale de cette tâche novatrice est l’homodoxie, c’est-à-dire la cohérence verticale, dans le temps, de la doctrine, unité garantie par le mythe de la « chaîne d’or », de la transmission continue de la sagesse pérenne. Le premier maillon est la figure mythique de Pythagore, mais aussi Hermès Trismégiste et Orphée. Nous avons-là une nouvelle religiosité qui relie engagement et pensée. Jamblique sera celui qui tentera de jeter les fondations d’une Église, que Julien essaiera d’organiser à l’échelle de l’Empire, en concurrence avec l’Église chrétienne.

Quand les persécutions anti-païennes prendront vraiment consistance, aux IVe, Ve et VIe siècles, de la destruction du temple de Sérapis, à Alexandrie, en 391, jusqu’à l’édit impérial de 529 qui interdit l’École platonicienne d’Athènes, le combat se fit plus âpre et austère. Sa dernière figure fut probablement la plus attachante. La vie de Damascius fut une sorte de roman philosophique. À soixante-dix ans, il décide, avec sept de ses condisciples, de fuir la persécution et de se rendre en Perse, sous le coup du mirage oriental. Là, il fut déçu, et revint dans l’Empire finir ses jours, à la suite d’un accord entre l’Empereur et le Roi des Rois.

De Damascius, il ne reste qu’une partie d’une œuvre magnifique, écrite dans un style déchiré et profondément poétique. Il a redonné des lettres de noblesse au platonisme, mais ses élans mystiques étaient contrecarrés par les apories de l’expression, déchirée comme le jeune Dionysos par les Titans, dans l’impossibilité qu’il était de dire le divin, seulement entrevu. La voie apophatique qui fut la sienne annonçait le soufisme et une lignée de mystiques postérieure, souvent en rupture avec l’Église officielle.

Nous ne faisons que tracer brièvement les grands traits d’une épopée intellectuelle que Polymnia Athanassiadi conte avec vie et talent. Il est probable que la défaite des païens provient surtout de facteurs sociaux et politiques. La puissance de leur pensée surpassait celle de chrétiens qui cherchaient en boitant une voie rationnelle à une religion qui fondamentalement la niait, folie pour les uns, sagesses pour les autres. L’État ne pouvait rester indifférent à la propagation d’une secte qui, à la longue, devait devenir une puissance redoutable. L’aristocratisme platonicien a isolé des penseurs irrémédiablement perdus dans une société du ressentiment qui se massifiait, au moins dans les cœurs et les esprits, et la tentative de susciter une hiérarchie sacrée a échoué pitoyablement lors du bref règne de Julien.

Or, maintenant que l’Église disparaît en Europe, il est grand temps de redécouvrir un pan de notre histoire, un fragment de nos racines susceptible de nous faire recouvrer une part de notre identité. Car ce qui frappe dans l’ouvrage de Polymnia Athanassiadi, c’est la chaleur qui s’en dégage, la passion. Cela nous rappelle la leçon du regretté Pierre Hadot, récemment décédé, qui n’avait de cesse de répéter que, pour les Ancien, c’est-à-dire finalement pour nous, le choix philosophique était un engagement existentiel.

Claude Bourrinet

vendredi, 17 janvier 2020

Genèse de la pensée unique

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Genèse de la pensée unique

par Claude Bourrinet

Ex: https://cerclearistote.com

Recension:

Polymnia Athanassiadi, Vers la pensée unique. La montée de l’intolérance dans l’Antiquité tardive, Paris, Les Belles Lettres, 2010.

« Il n’y eut plus de rire pour personne. » Procope

158342.1577156868.jpgPolymnia Athanassiadi, professeur d’histoire ancienne à l’Université d’Athènes, spécialiste du platonisme tardif (le néoplatonisme) avait bousculé quelques certitudes, dans son ouvrage publié en 2006, « la lutte pour l’orthodoxie dans le platonisme tardif », en montrant que les structures de pensée dans l’Empire gréco-romain, dont l’aboutissement serait la suppression de toute possibilité discursive au sein de l’élite intellectuelle, étaient analogues chez les philosophes « païens » et les théologiens chrétiens. Cette osmose, à laquelle il était impossible d’échapper, se retrouve au niveau des structures politiques et administratives, avant et après Constantin. L’État « païen », selon Mme Athanassiadi, prépare l’État chrétien, et le contrôle total de la société, des corps et des esprits. C’est la thèse contenue dans une étude éditée en 2010, Vers la pensée unique. La montée de l’intolérance dans l’Antiquité tardive.

Un basculement identitaire

L’Antiquité tardive est l’un de ces concepts historiques relativement flous, que l’on adopte, parce que c’est pratique, mais qui peuvent susciter des polémiques farouches, justement parce qu’ils dissimulent des pièges heuristiques entraînant des interprétations diamétralement apposées. Nous verrons que l’un des intérêts de cette recherche est d’avoir mis au jour les engagements singulièrement contemporains qui sous tendent des analyses apparemment « scientifiques ».

La première difficulté réside dans la délimitation de la période. Le passage aurait eu lieu sous le règne de Marc Aurèle, au IIe siècle, et cette localisation temporelle ne soulève aucun désaccord. En revanche, le consensus n’existe plus si l’on porte le point d’achoppement (en oubliant la date artificielle de 476) à Mahomet, au VIIe siècle, c’est-à-dire à l’aboutissement désastreux d’une longue série d’invasions, ou aux règnes d’Haroun al-Rachid et de Charlemagne, au IXe siècle, voire jusqu’en l’An Mil. Ce qui est en jeu dans ce débat, c’est l’accent mis sur la rupture ou sur la continuité.

Le fait indubitable est néanmoins que la religion, lors de ce processus qui se déroule quand même sur plusieurs siècles, est devenue le « trait identitaire de l’individu ». L’autre constat est qu’il s’éploie dans un monde de plus en plus globalisé – l’orbis romanus – dans un empire qui n’est plus « romain », et qui est devenu méditerranéen, voire davantage. Une révolution profonde s’y est produite, accélérées par les crises, et creusant ses mines jusqu’au cœur d’un individu de plus en plus angoissé et cherchant son salut au-delà du monde. La civilisation de la cité, qui rattachait l’esprit et le corps aux réalités sublunaires, a été remplacée par une vaste entité centralisée, dont la tête, Constantinople ou Damas, le Basileus ou le calife, un Dieu unique, contrôle tout. Tout ce qui faisait la joie de vivre, la culture, les promenades philosophiques, les spectacles, les plaisirs, est devenu tentation démoniaque. La terre semble avoir été recouverte, en même temps que par les basiliques, les minarets, les prédicateurs, les missionnaires, par un voile de mélancolie et un frisson de peur. Une voix à l’unisson soude les masses uniformisées, là où, jadis, la polyphonie des cultes et la polydoxie des sectes assuraient des parcours existentiels différenciés. Une monodoxie impérieuse, à base de théologie et de règlements tatillons, s’est substituée à la science (épistémé) du sage, en contredisant Platon pour qui la doxa, l’opinion, était la source de l’erreur.

Désormais, il ne suffit pas de « croire », si tant est qu’une telle posture religieuse ait eu sa place dans le sacré dit « païen » : il faut montrer que l’on croit. Le paradigme de l’appartenance politico-sociale est complètement transformé. La terreur théologique n’a plus de limites.

Comme le montre Polymnia Athanassiadi, cet aspect déplaisant a été, avec d’autres, occulté par une certaine historiographie, d’origine anglo-saxonne.

Contre l’histoire politiquement correcte

La notion et l’expression d’« Antiquité tardive » ont été forgées principalement pour se dégager d’un outillage sémantique légué par les idéologies nationales et religieuses. Des Lumières au positivisme laïciste du XIXe siècle, la polémique concernait la question religieuse, le rapport avec la laïcité, le combat contre l’Église, le triomphe de la raison scientifique et technique. Le « récit » de la chute de l’Empire romain s’inspirait des grandes lignes tracées par Montesquieu et Gibbon, et mettait l’accent sur la décadence, sur la catastrophe pour la civilisation qu’avait provoquée la perte des richesses antiques. Le christianisme pouvait, de ce fait, paraître comme un facteur dissolvant. D’un autre côté, ses apologistes, comme Chateaubriand, tout en ne niant pas le caractère violent du conflit entre le paganisme et le christianisme, ont souligné la modernité de ce dernier, et par quelles valeurs humaines il remplaçait celles de l’ancien monde, devenu obsolète.

C’est surtout contre l’interprétation de Spengler que s’est élevée la nouvelle historiographie de la fin des années Soixante. Pour le savant allemand, les civilisations subissent une évolution biologique qui les porte de la naissance à la mort, en passant par la maturité et la vieillesse. On abandonna ce schéma cyclique pour adopter la conception linéaire du temps historique, tout en insistant sur l’absence de rupture, au profit de l’idée optimiste de mutation. L’influence de Fernand Braudel, théoricien de la longue durée historique et de l’asynchronie des changements, fut déterminante.

L’école anglo-saxonne s’illustra particulièrement. Le maître en fut d’abord Peter Brown avec son World of late Antiquity : from Marcus Aurelius to Muhammad (1971). Mme Athanassiadi n’est pas tendre avec ce savant. Elle insiste par exemple sur l’absence de structure de l’ouvrage, ce qui ne serait pas grave s’il ne s’agissait d’une étude à vocation scientifique, et sur le manque de rigueur des cent trente illustrations l’accompagnant, souvent sorties de leur contexte. Quoi qu’il en soit, le gourou de la nouvelle école tardo-antique étayait une vision optimiste de cette période, perçue comme un âge d’adaptation.

Il fut suivi. En 1997, Thomas Hägg, publia la revue Symbolae Osbenses, qui privilégie une approche irénique. On vide notamment le terme le terme xenos (« étranger ») de son contenu tragique « pour le rattacher au concept d’une terre nouvelle, la kainê ktisis, ailleurs intérieur rayonnant d’espoir ». Ce n’est pas un hasard si l’inspirateur de cette historiographique révisionniste est le savant italien Santo Mazzarino, l’un des forgerons de la notion de démocratisation de la culture.

La méthode consiste en l’occurrence à supprimer les oppositions comme celles entre l’élite et la masse, la haute et la basse culture. D’autre part, le « saint » devient l’emblème de la nouvelle société. En renonçant à l’existence mondaine, il accède à un statut surhumain, un guide, un sauveur, un intermédiaire entre le peuple et le pouvoir, entre l’humain et le divin. Il est le symbole d’un monde qui parvient à se maîtrise, qui se délivre des entraves du passé.

police-pensée-2-214x300.jpgPolymnia Athanassiadi rappelle les influences qui ont pu marquer cette conception positive : elle a été élaborée durant une époque où la détente d’après-guerre devenait possible, où l’individualisme se répandait, avec l’hédonisme qui l’accompagne inévitablement, où le pacifisme devient, à la fin années soixante, la pensée obligée de l’élite. De ce fait, les conflits sont minimisés.

Un peu plus tard, en 1999, un tome collectif a vu le jour : Late Antiquity. A Guide to the postclassical World. Y ont contribué P. Brown et deux autres savants princetoniens : Glen Bowersock et Oleg Grabar, pour qui le véritable héritier de l’empire romain est Haroun al-Rachid. L’espace tardo-antique est porté jusqu’à la Chine, et on met l’accent sur vie quotidienne. Il n’y a plus de hiérarchie. Les dimensions religieuse, artistique politique, profane, l’écologique, la sexuelle, les femmes, le mariage, le divorce, la nudité – mais pas les eunuques, sont placées sur le même plan. La notion de crise est absente, aucune allusion aux intégrismes n’est faite, la pauvreté grandissante n’est pas évoquée, ni la violence endémique, bref, on a une « image d’une Antiquité tardive qui correspond à une vision politiquement correcte ».

La réaction a vu le jour en Italie. Cette même année 1999, Andrea Giardina, dans un article de la revue Studi Storici, « Esplosione di tardoantico », a contesté « la vision optimiste d’une Antiquité tardive longue et paisible, multiculturelle et pluridisciplinaire ». Il a expliqué cette perception déformée par plusieurs causes :

  • la rhétorique de la modernité,
  • l’impérialisme linguistique de l’anglais dans le monde contemporain (« club anglo-saxon »),
  • une approche méthodologique défectueuse (lecture hâtive).

Et, finalement, il conseille de réorienter vers l’étude des institutions administratives et des structures socio-économiques.

Dans la même optique, tout en dénonçant le relativisme de l’école anglo-saxonne, Wolf Liebeschuetz, (Decline and Full of the Roman City, 2001 et 2005), analyse le passage de la cité-État à l’État universel. Il insiste sur la notion de déclin, sur la disparition du genre de vie avec institutions administratives et culturelles légués par génie hellénistique, et il s’interroge sur la continuité entre la Cité romaine et ses successeurs (Islam et Europe occidentale). Quant à Bryan Ward-Perkins, The fall of Rome and the End of Civilization, il souligne la violence des invasions barbares, s’attarde sur le trauma de la dissolution de l’Empire. Pour lui, le déclin est le résultat de la chute.

On voit que l’érudition peut cacher des questions hautement polémiques et singulièrement contemporaines.

Polymnia Athanassiadi prend parti, parfois avec un mordant plaisant, mais nul n’hésitera à se rendre compte combien les caractéristiques qui ont marqué l’Antiquité tardive concernent de façon extraordinaire notre propre monde. Polymnia Athanassiadi rappelle, en s’attardant sur la dimension politico-juridique, quelles ont été les circonstances de la victoire de la « pensée unique » (expression ô combien contemporaine !). Mais avant tout, quelle a été la force du christianisme ?

La révolution culturelle chrétienne

Le christianisme avait plusieurs atouts à sa disposition, dont certains complètement inédits dans la société païenne.

D’abord, il hérite d’une société où la violence est devenue banale, du fait de la centralisation politicoadministrative, et de ce qu’on peut nommer la culture de l’amphithéâtre.

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Dès le IIe siècle, en Anatolie, le martyr apparaît comme la « couronne rouge » de la sainteté octroyée par le sens donné. Les amateurs sont mus par une vertu grecque, la philotimia, l’« amour de l’honneur ». C’est le seul point commun avec l’hellénisme, car rien ne répugne plus aux esprits de l’époque que de mourir pour des convictions religieuses, dans la mesure où toutes sont acceptées comme telles. Aussi bien cette posture est-elle peu comprise, et même méprisée. L’excès rhétorique par lequel l’Église en fait la promotion en souligne la théâtralité. Marc Aurèle y voit de la déraison, et l’indice d’une opposition répréhensible à la société. Et, pour une société qui recherche la joie de vivre, cette pulsion de mort paraît bien suspecte.

Retenons donc cette aisance dans l’art de la propagande – comme chacun sait, le nombre de martyrs n’a pas été si élevé qu’on l’a prétendu – et cette attirance morbide qui peut aller jusqu’au fond des cœurs. Le culte des morts et l’adoration des reliques sont en vogue dès le IIIe siècle.

Le leitmotiv de la résurrection des corps et du jugement dernier est encore une manière d’habituer à l’idée de la mort. Le scepticisme régnant avant IIIe siècle va laisser place à une certitude que l’on trouve par exemple chez Tertullien, pour qui l’absurde est l’indice même de la vérité (De carne christi, 5).

L’irrationalisme, dont le christianisme n’est pas seul porteur, encouragé par les religions orientales, s’empare donc des esprits, et rend toute manifestation surnaturelle plausible. Il faut ajouter la croyance aux démons, partagée par tous.

Mais c’est surtout dans l’offensive, dans l’agression, que l’Église va se trouver particulièrement redoutable. En effet, de victimes, les chrétiens, après l’Édit de Milan, en 313, vont devenir des agents de persécution. Des temples et des synagogues seront détruits, des livres brûlés.

Peut-être l’attitude qui tranche le plus avec le comportement des Anciens est-il le prosélytisme, la volonté non seulement de convertir chaque individu, mais aussi l’ensemble de la société, de façon à modeler une communauté soudée dans une unicité de conviction. Certes, les écoles philosophiques cherchaient à persuader. Mais, outre que leur zèle n’allait pas jusqu’à harceler le monde, elles représentaient des sortes d’options existentielles dans le grand marché du bonheur, dont la vocation n’était pas de conquérir le pouvoir sur les esprits. Plotin, l’un des derniers champions du rationalisme hellène, s’est élevé violemment contre cette pratique visant à arraisonner les personnes. On vivait alors de plus en plus dans la peur, dans la terreur de ne pas être sauvé. L’art de dramatiser l’enjeu, de le charger de toute la subjectivité de l’angoisse et du bon choix à faire, a rendu le christianisme particulièrement efficace. Comme le fait remarquer Mme Athanassiadi, la grande césure du moi, n’est plus entre le corps et l’âme, mais entre le moi pécheur et le moi sauvé. Le croyant est sollicité, sommé de s’engager, déchiré d’abord, avant Constantin, entre l’État et l’Église, puis de façon permanente entre la vie temporelle et la vie éternelle.

Cette tension sera attisée par la multitude d’hérésie et par les conflits doctrinaux, extrêmement violents. Les schismes entraînent excommunications, persécutions, batailles physiques. Des polémiques métaphysiques absconses toucheront les plus basses couches de la société, comme le décrit Grégoire de Nysse dans une page célèbre très amusante. Les Conciles, notamment ceux de Nicée et de Chalcédoine, seront des prétextes à l’expression la plus hyperbolique du chantage, des pressions de toutes sortes, d’agressivité et de brutalité. Tout cela, Ramsay MacMullen le décrit fort bien dans son excellent livre, Christianisme et paganisme du IVe au VIIIe siècle.

Mais c’est surtout l’arme de l’État qui va précipiter la victoire finale contre l’ancien monde. Après Constantin, et surtout avec Théodose et ses successeurs, les conversions forcées vont être la règle. À propos de Justinien, Procope écrit : « Dans son zèle pour réunir l’humanité entière dans une même foi quant au Christ, il faisait périr tout dissident de manière insensée » (in 118). Des lois discriminatoires seront décrétées. Même le passé est éradiqué. On efface la mémoire, on sélectionne les ouvrages, l’index des œuvres interdites est publié, Basile de Césarée (vers 360) établit une liste d’auteurs acceptables, on jette même l’anathème sur les hérétiques de l’avenir !

Construction d’une pensée unique

L’interrogation de Polemnia Athanassiadi est celle-ci : comment est-on passé de la polydoxie propre à l’univers hellénistique, à la monodoxie ? Comment un monde à l’échelle humaine est-il devenu un monde voué à la gloire d’un Dieu unique ?

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Son fil conducteur est la notion d’intolérance. Mot piégé par excellence, et qui draine pas mal de malentendus. Il n’a rien de commun par exemple avec l’acception commune qui s’impose maintenant, et dont le fondement est cette indifférence profonde pour tout ce qui est un peu grave et profond, voire cette insipide légèreté contemporaine qui fuit les tragiques conséquences de la politique ou de la foi religieuse. Serait intolérant au fond celui qui prendrait au sérieux, avec tous les refus impliqués, une option spirituelle ou existentielle, à l’exclusion d’une autre. Rien de plus conformiste que la démocratie de masse ! Dans le domaine religieux, le paganisme était très généreux, et accueillait sans hésiter toutes les divinités qu’il lui semblait utile de reconnaître, et même davantage, dans l’ignorance où l’on était du degré de cette « utilité » et de la multiplicité des dieux. C’est pourquoi, à Rome, on rendait un culte au dieu inconnu. Les païens n’ont jamais compris ce que pouvait être un dieu « jaloux », et tout autant leur théologie que leur anthropologie les en empêchaient. En revanche, l’attitude, le comportement, le mode de vie impliquaient une adhésion ostentatoire à la communauté. Les cultes relevaient de la vie familiale, associative, ou des convictions individuelles : chacun optait pour un ou des dieux qui lui convenaient pour des raisons diverses. Pourtant les cultes publics concernant les divinités poliades ou l’empereur étaient des actes, certes, de piété, mais ne mettant en scène souvent que des magistrats ou des citoyens choisis. Ils étaient surtout des marques de patriotisme. À ce titre, ne pas y participer lorsqu’on était requis de le faire pouvait être considéré comme un signe d’incivisme, de mauvaise volonté, voire de révolte. En grec, il n’existe aucun terme pour désigner notion de tolérance religieuse. En latin, l’intolérance : intolerentia, est cette « impatience », « insolence », « impudence » que provoque la présence face à un corps étranger. Ce peut être le cas pour les païens face à ce groupe chrétien étrange, énigmatique, considéré comme répugnant, ou l’inverse, pour des chrétiens qui voient le paganisme comme l’expression d’un univers démoniaque. Toutefois, ce qui relevait des pratiques va s’instiller jusqu’au fond des cœurs, et va s’imprégner de toute la puissance subjective des convictions intimes. En effet, il serait faux de prétendre que les païens fussent ignorants de ce qu’une religion peut présenter d’intériorité. On ne s’en faisait pas gloire, contrairement au christianisme, qui exigeait une profession de foi, c’est-à-dire un témoignage motivé, authentique et sincère de son amour pour le dieu unique. Par voie de conséquence, l’absence de conviction dûment prouvée, du moins exhibée, était rédhibitoire pour les chrétiens. On ne se contentait pas de remplir son devoir particulier, mais on voulait que chacun fût sur la droite voie de la « vérité ». Le processus de diabolisation de l’autre fut donc enclenché par les progrès de la subjectivisation du lien religieux, intensifiée par la « persécution ». Au lieu d’un univers pluriel, on en eut un, uniformisé bien que profondément dualiste. La haine fut érigée en vertu théologique.

Comment l’avait décrit Pollymnia Athanassiadi dans son étude de 2006 sur l’orthodoxie à cette période, la première tâche fut de fixer le canon, et, par voie de conséquence d’identifier ceux qui s’en écartaient, à savoir les hérétiques. Cette classification s’élabora au fil du temps, d’Eusèbe de Césarée, qui procéda à une réécriture de l’Histoire en la christianisant, jusqu’à Jean Damas, en passant par l’anonyme Eulochos, puis Épiphane de Salamine.

Néanmoins, l’originalité de l’étude de 2010 consacrée à l’évolution de la société tardo-antique vers la « pensée unique » provient de la mise en parallèle de la politique religieuse menée par l’empire à partir du IIIe siècle avec celle qui prévalut à partir de Constantin. Mme Athanassiadi souligne l’antériorité de l’empire « païen » dans l’installation d’une théocratie, d’une religion d’État. En fait, selon elle, il existe une logique historique liant Dèce, Aurélien, Constantin, Constance, Julien, puis Théodose et Justinien.

L’édit de Dèce, en 250, est motivé par une crise qui faillit anéantir l’Empire. La pax deorum semblait nécessaire pour restaurer l’État. Aussi fut-il décrété que tous les citoyens (dont le nombre fut élargi à l’ensemble des hommes libres en 212 par Caracalla), sauf les Juifs, devaient offrir un sacrifice aux dieux, afin de rétablir l’unité de foi, le consensus omnium.

Deux autres persécutions eurent lieu, dont les plus notoires furent celles en 257 de Valérien, en 303 de Dioclétien, et en 312, en Orient, de Maximin. Entre temps, Aurélien (270 – 275) conçut une sorte de pyramide théocratique, à base polythéiste, dont le sommet était occupé par la divinité solaire.

Julien.jpgNotons que Julien, le restaurateur du paganisme d’État, est mis sur le même plan que Constantin et que ses successeurs chrétien. En voulant créer une « Église païenne », en se mêlant de théologie, en édictant des règles de piété et de moralité, en excluant épicuriens, sceptiques et cyniques, il a consolidé la cohérence théologico-autoritaire de l’Empire. Il assumait de ce fait la charge sacrale dont l’empereur était dépositaire, singulièrement la dynastie dont il était l’héritier et le continuateur. Il avait conscience d’appartenir à une famille, fondée par Claude le Gothique (268 – 270), selon lui dépositaire d’une mission de jonction entre l’ici-bas et le divin.

Néanmoins, Constantin, en 313, lorsqu’il proclama l’Édit de Milan, ne saisit probablement pas « toute la logique exclusiviste du christianisme ». Était-il en mesure de choisir ? Selon une approximation quantitative, les chrétiens étaient loin de constituer la majorité de la population. Cependant, ils présentaient des atouts non négligeables pour un État soucieux de resserrer son emprise sur la société. D’abord, son organisation ecclésiale plaquait sa logique administrative sur celle de l’empire. Elle avait un caractère universel, centralisé. De façon pragmatique, Constantin s’en servit pour tenter de mettre fin aux dissensions internes génératrices de guerre civile, notamment en comblant de privilèges la hiérarchie ecclésiastique. Un autre instrument fut utilisé par lui, en 325, à l’occasion du concile de Nicée. En ayant le dernier mot théologique, il manifesta la subordination de la religion à la politique.

Mais ce fut Théodose qui lança l’orthodoxie « comme concept et programme politique ». Constantin avait essayé de maintenir un équilibre, certes parfois de mauvaise foi, entre l’ancienne religion et la nouvelle. Pour Théodose, désormais, tout ce qui s’oppose à la foi catholique (la vera religio), hérésie, paganisme, judaïsme, est présumé superstitio, et, de ce fait, condamné. L’appareil d’État est doublé par les évêques (« surveillants » !), la répression s’accroît. À partir de ce moment, toute critique religieuse devient crime de lèse-majesté.

Quant au code justinien, il défend toute discussion relative au dogme, mettant fin à la tradition discursive de la tradition hellénique. On élabore des dossiers de citations à l’occasion de joutes théologiques (Cyrille d’Alexandrie, Théodoret de Cyr, Léon de Rome, Sévère d’Antioche), des chaînes d’arguments (catenae) qui interdisent toute improvisation, mais qui sont sortis de leur contexte, déformés, et, en pratique, se réduisent à de la propagande qu’on assène à l’adversaire comme des coups de massue.

La culture devient une, l’élite partage des références communes avec le peuple. Non seulement celui-ci s’entiche de métaphysique abstruse, mais les hautes classes se passionnent pour les florilèges, les vies de saints et les rumeurs les plus irrationnelles. L’humilité devant le dogme est la seule attitude intellectuelle possible.

Rares sont ceux, comme Procope de Césarée, comme les tenants de l’apophatisme (Damascius, Pseudo-Denys, Évagre le Pontique, Psellus, Pléthon), ou comme les ascètes, les ermites, et les mystiques en marge, capables de résister à la pression du groupe et de l’État.

Mise en perspective

Il faudrait sans doute nuancer l’analogie, la solution de continuité, entre l’entreprise politico-religieuse d’encadrement de la société engagée par l’État païen et celle conduite par l’État chrétien. Non que, dans les grandes lignes, ils ne soient le produit de la refonte de l’« établissement » humain initiée dès le déplacement axiologique engendré par l’émergence de l’État universel, période étudiée, à la suite de Karl Jaspers, par Marcel Gauchet, dans son ouvrage, Le désenchantement du monde. Le caractère radical de l’arraisonnement de la société par l’État, sa mobilisation permanente en même temps que la mise à contribution des forces transcendantes, étaient certes contenus dans le sens pris par l’Histoire, mais il est certain que la spécificité du christianisme, issu d’une religion née dans les interstices de l’Occident et de l’Orient, vouée à une intériorisation et à une subjectivité exacerbées, dominée par un Dieu tout puissant, infini, dont la manifestation, incarnée bureaucratiquement par un organisme omniprésent, missionnaire, agressif et aguerri, avait une dimension historique, son individualisme et son pathos déséquilibré, la béance entre le très-haut et l’ici-bas, dans laquelle pouvait s’engouffrer toutes les potentialités humaines, dont les pires, était la forme adéquate pour que s’installât un appareil particulièrement soucieux de solliciter de près les corps et les âmes dans une logique totalitaire. La question de savoir si un empire plus équilibré eût été possible, par exemple sous une forme néoplatonicienne, n’est pas vaine, en regard des empires orientaux, qui trouvèrent un équilibre, un compromis entre les réquisits religieux, et l’expression politique légitime, entre la transcendance et l’immanence. Le néoplatonisme, trop intellectuel, trop ouvert à la recherche, finalement trop aristocratique, était démuni contre la fureur plébéienne du christianisme. L’intolérance due à l’exclusivisme dogmatique ne pouvait qu’engager l’Occident dans la voie des passions idéologiques, et dans une dynamique conflictuelle qui aboutirait à un monde moderne pourvu d’une puissance destructrice inédite.

Il faudra sans doute revenir sur ces questions. Toutefois, il n’est pas inutile de s’interroger sur ce que nous sommes devenus. De plus en plus, on s’aperçoit que, loin d’être les fils de l’Athènes du Ve siècle avant le Christ, ou de la République romaine, voire de l’Empire augustéen, nous sommes dépendants en droite ligne de cette Antiquité tardive, qui nous inocula un poison dont nous ne cessons de mourir. L’Occident se doit de plonger dans son cœur, dans son âme, pour extirper ces habitus, ces réflexes si ancrés qu’ils semblent devenus naturels, et qui l’ont conduit à cette expansion mortifère qui mine la planète. Peut-être retrouverons-nous la véritable piété, la réconciliation avec le monde et avec nousmêmes, quand nous aurons extirpé de notre être la folie, la « mania », d’exhiber la vérité, de jeter des anathèmes, de diaboliser ce qui nous est différent, de vouloir convertir, persuader ou contraindre, d’universaliser nos croyances, d’unifier les certitudes, de militariser la pensée, de réviser l’histoire, d’enrégimenter les opinions par des lois, d’imposer à tous une « pensée unique ».

Claude Bourrinet

 

mardi, 14 janvier 2020

Jean Baudrillard et la troisième guerre mentale

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Jean Baudrillard et la troisième guerre mentale

par Nicolas Bonnal

Ex: https://nicolasbonnal.wordpress.com

Notre société anglo-américaine et démocratique matinée de gnosticisme techno (voyez notre internet) et de messianisme militaire semble folle et intégriste. On le sait depuis 1914, lisez Huddleston et Grenfell traduits par nos amis de lesakerfrancophone.fr. Le duo anglo-saxon aura détruit l’Europe et établi partout le communisme pour anéantir l’Allemagne.

Pour lutter contre le terrorisme, on a tué/bousculé/déplacé trente millions de musulmans avec l’assentiment des loques européennes submergées de pauvres réfugiés (jusque-là pas de simulacre…).

Ici on veut une troisième guerre mondiale et une extermination de l’Iran ; là on nous dit que tout est simulacre et conditionnement, guerre mentale et non mondiale. Notre Lucien Cerise avait résumé cette position : « Pour Baudrillard, la véritable apocalypse n’était pas la fin réelle du monde, sa fin physique, matérielle, assumée, mais son unification dans ce qu’il appelait le « mondial », ce que l’on appelle aujourd’hui le mondialisme, et qui signait la vraie fin, le simulacre ultime, le « crime parfait », c’est-à-dire la fin niant qu’elle est la fin, la fin non assumée, donnant l’illusion que ça continue. La Matrice, comme dans le film, si vous voulez. »

418B933ZPXL._SX331_BO1,204,203,200_.jpgEn 1991, dans sa très pointue Guerre du Golfe qui n’a pas eu lieu, Baudrillard se lâchait en fin de texte. Je retraduis de la version espagnole :

« Il s’avère malgré tout digne d’admiration que nous traitons les Arabes, les Musulmans, de fondamentalistes, avec le même dégoût avec lequel nous traitons quelqu’un de raciste, alors que nous sommes en train de vivre dans une société typiquement fondamentaliste, bien que simultanément sur la bonne voie de désintégration. »

Puis le maître, depuis traîné dans la boue par les analphabètes-système, ajoute – sur cet intégrisme démocratique, cet incessant djihad médiatique :

« Nous ne pratiquons pas l’intégrisme fondamentaliste dur, mais nous pratiquons l’intégrisme démocratique doux, subtil et honteux, celui du consensus. Cependant, le fondamentalisme consensuel (celui des Lumières, des droits de l’homme, de la gauche au pouvoir, de l’intellectuel repentant, de l’humanisme sentimental) est aussi féroce que tout religion tribale ou société primitive. »

Oui, c’est aussi un féminisme débile et militant, celui dont a parlé Todd à propos de Clinton dans son livre « Après l’Empire ». Baudrillard ajoutait :

« Il signale l’autre exactement de la même manière comme le Mal absolu (ce sont les termes employés par François Mitterrand faisant référence à l’affaire Salman Rushdie; allez, mais où trouve-t-il une façon de penser aussi archaïque?). »

Tout en étant humanitaire-doux, l’intégrisme occidental est dangereux car il hérite des siècles de suprématie militaire. La bible dans une main, le fusil de l’autre, la bombe atomique dans une main, la déclaration des droits de l’homme dans l’autre.

« La différence entre les deux intégrismes (dur et doux) est que le nôtre (le doux) détient tous les moyens de détruire l’autre, et ne se prive pas de le faire. Par coïncidence, il s’avère que c’est toujours l’intégrisme des Lumières qui opprime et détruit l’autre, qui ne peut que le défier symboliquement. Pour nous justifier, nous donnons corps à la menace, la fatwa sur Salman Rushdie suspendue comme une épée de Damoclès sur le monde Occidental, gardant une terreur disproportionnée, avec une ignorance totale de la différence qui sert de médiateur entre un défi symbolique et une agression technique. »

On verra si notre Vautrin, alias Trump-la-mort saura se limiter au virtuel ou s’il déclenchera une énième apocalypse démocratique pour satisfaire ses commanditaires… Une proche me dit que l’Amérique anéantirait l’Iran comme elle a anéanti le Japon. La planète applaudirait et retendrait son cou à ce clown-bourreau décidément amusant…

Ou nous aurons un règlement de comptes numérique : veni vidi twitti, et non plus vinci, qui mettra un terme à l’histoire. Les mollahs y vont mollo (comme notre Donald) et c’est dans les Leslie Nielsen qu’il faudra chercher les plus sophistiquées évocations des bouffonnades de ces messieurs enturbannés ou pas…

Sources :

La guerre du golfe n’a pas eu lieu, 1991

Internet, nouvelle voie initiatique

lundi, 13 janvier 2020

R.I.P Sir Roger Scruton

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R.I.P Sir Roger Scruton

Ex: https://pvewood.blogspot.com

I am so sorry Sir Roger Scruton has died. He has been one of my great heroes since I read Conservative Essays while a sixth former.

The Liberal Heart, a collection of quotations and extracts from liberals that I read in 1984, was studded by attacks on him and his then outspokenly conservative views on homosexuality. They seemed bracingly High Tory then, but are thought crimes now.

Let's not forget or forgive James Brokenshire’s sacking of Roger Scruton from his unpaid job as a government adviser on beauty in architecture last year, after the latter was stitched up by the New Statesman and falsely accused of antisemitism. Perhaps it is why Boris did not give the wretched Brokenshire a job, even though he was the first cabinet minister to come out in support of Boris. I do hope so.

I would have spent a week with Roger Scruton in Bratislava in 1991 but fate decided otherwise. But I have been reading him and about him since I was sixteen and feel I have lost a friend. Many people do. He was one of England's very few conservative intellectuals and one of the few of them who was a true Tory, albeit one who thought discretion was the better part of valour.

I was disappointed by England: an Elegy, the only book of his I read entire. I had expected to love it or at least to agree with it, but it was too negative, like reading a hundred Daily Mail editorials, too 'Why oh why?'. He could be philistine - as when he dismissed Freud as a fraud.

Sir Roger Scruton, as he then wasn't (David Cameron gave him a knighthood a fortnight before the referendum in which he supported Leave), in 2006 spoke to the Dutch party Vlaams Belang, asking whether Enoch Powell was right about speaking out about immigration and being very shy of answering his own question, for fear as he says of the same fate as befell Powell.


I quote from it.

I do not doubt that there is such a thing as xenophobia, though it is a very different thing from racism. Etymologically the term means fear of (and therefore aversion towards) the foreigner. Its very use implies a distinction between the one who belongs and the one who doesn’t, and in inviting us to jettison our xenophobia politicians are inviting us to extend a welcome to people other than ourselves – a welcome predicated on a recognition of their otherness. Now it is easy for an educated member of the liberal élite to discard his xenophobia: for the most part his contacts with foreigners help him to amplify his power, extend his knowledge and polish his social expertise. But it is not so easy for an uneducated worker to share this attitude, when the incoming foreigner takes away his job, brings strange customs and an army of dependents into the neighbourhood, and finally surrounds him with the excluding sights and sounds of a ghetto.
 
Again, however, there is a double standard that affects the description. Members of our liberal élite may be immune to xenophobia, but there is an equal fault which they exhibit in abundance, which is the repudiation of, and aversion to, home. Each country exhibits this vice in its own domestic version. Nobody brought up in post-war England can fail to be aware of the educated derision that has been directed at our national loyalty by those whose freedom to criticize would have been extinguished years ago, had the English not been prepared to die for their country. The loyalty that people need in their daily lives, and which they affirm in their unconsidered and spontaneous social actions, is now habitually ridiculed or even demonized by the dominant media and the education system. National history is taught as a tale of shame and degradation. The art, literature and religion of our nation have been more or less excised from the curriculum, and folkways, local traditions and national ceremonies are routinely rubbished.

This repudiation of the national idea is the result of a peculiar frame of mind that has arisen throughout the Western world since the Second World War, and which is particularly prevalent among the intellectual and political elites. No adequate word exists for this attitude, though its symptoms are instantly recognized: namely, the disposition, in any conflict, to side with ‘them’ against ‘us’, and the felt need to denigrate the customs, culture and institutions that are identifiably ‘ours’. I call the attitude oikophobia – the aversion to home – by way of emphasizing its deep relation to xenophobia, of which it is the mirror image. Oikophobia is a stage through which the adolescent mind normally passes. But it is a stage in which intellectuals tend to become arrested. As George Orwell pointed out, intellectuals on the Left are especially prone to it, and this has often made them willing agents of foreign powers. The Cambridge spies – educated people who penetrated our foreign service during the war and betrayed our Eastern European allies to Stalin – offer a telling illustration of what oikophobia has meant for my country and for the Western alliance. And it is interesting to note that a recent BBC ‘docudrama’ constructed around the Cambridge spies neither examined the realities of their treason nor addressed the suffering of the millions of their East European victims, but merely endorsed the oikophobia that had caused them to act as they did.

In the Christmas edition of the Spectator three weeks ago Sir Roger wrote:
 
During this year much was taken from me — my reputation, my standing as a public intellectual, my position in the Conservative movement, my peace of mind, my health. But much more was given back: by Douglas Murray’s generous defence, by the friends who rallied behind him, by the rheumatologist who saved my life and by the doctor to whose care I am now entrusted. Falling to the bottom in my own country, I have been raised to the top elsewhere, and looking back over the sequence of events I can only be glad that I have lived long enough to see this happen. Coming close to death you begin to know what life means, and what it means is gratitude.

jeudi, 09 janvier 2020

Michel Onfray « Nous allons vers un homme dénaturé, déculturé »

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Michel Onfray « Nous allons vers un homme dénaturé, déculturé »

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Antimanuel de Pédophilie par Michel Onfray

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Antimanuel de Pédophilie

Par Michel Onfray

Ex: https://leblogalupus.com

« Je suis comme un enfant qui n’a plus droit aux larmes, Conduis-moi au pays où vivent les braves gens » — Michel Houellebecq, La Poursuite du bonheur (1991)


Il m’a été rapporté que, dans le flot des commentaires du net concernant ce qu’il est désormais convenu de nommer l’Affaire Matzneff, il a été dit que « même Onfray » avait défendu la pédophilie en son temps! Or, il n’en est rien.

Voici donc le texte incriminé: il propose un travail philosophique généalogique (comment devient-on pédophile?) et y répond avec les catégories de la psychologie classique (le déterminisme psychique de l’inconscient -qui peut n’être pas freudien, je précise puisque désormais il faut tout sous-titrer, Nietzsche en parle dès les années 80 du XIX° siècle en le nommant « la Grande Raison »…). Dire qu’on ne naît pas pédophile mais qu’on le devient sans pour autant le choisir n’est pas validation éthique et morale de cette pratique que j’ai toujours condamnée (un texte de 1997 en atteste) mais dont on peut vouloir se demander, en tant que philosophe, de quelles logiques elle procède!

C’est un texte publié dans un Antimanuel de philosophie destiné aux apprentis philosophes, soit de classe terminales, mes élèves de l’époque, soit à qui voudra. Cette analyse visait à faire penser aux élèves l’articulation liberté & déterminisme, choix & fatalité, volonté & prédétermination -et ce dans le cadre du programme de classe Terminale technologique qui, parmi neuf notions, proposait l’examen du concept de Liberté. Il a été écrit il y a vingt ans.

Fidèle à l’esprit de Spinoza qui invitait à ni rire ni pleurer, mais comprendre et à celui de Nietzsche qui appelle à se demander pourquoi et comment les choses sont ainsi et pas autrement, j’ai souhaité avec mes élèves penser la pédophilie sans autre souci que de la penser. Dire qu’elle était institutionnelle et codée chez les Grecs ne consiste pas à défendre la pédophilie, tout comme faire savoir qu’on envoyait à la mort les enfants mal-formés à Sparte ne revient pas à une défense de l’infanticide. De même, rappeler que le Moyen-Age pratiquait abondamment la peine de mort ne vaut pas défense de la peine de mort…

Je crains qu’un jour, au point d’imbécillité de masse auquel nous sommes parvenus, un historien républicain qui publierait une biographie d’Adolf Hitler ne soit considéré comme hitlérien et sommé par la vocifération du net de faire amende honorable…

« Un éducateur pédophile choisit-il sa sexualité?
Sûrement pas, sinon, il choisirait vraisemblablement une autre sexualité, moins dangereuse socialement, moins risquée pour tous ses équilibres acquis dans la société (famille, situation dans la cité), moins discréditée est détestée par tous et toutes, et, surtout, moins traumatisante pour ses victimes souvent nombreuses et définitivement marquées. La pédophilie d’un individu signifie une attirance sexuelle irrésistible et irrépressible vers une catégorie de personnes (les enfants en l’occurrence) qui, de façon exclusive, lui permet d’assouvir ses pulsions.

 Avoir le choix suppose de pouvoir nettement et clairement opter pour une pratique plutôt qu’une autre, en pleine connaissance des enjeux. C’est examiner, comparer, calculer, puis élire un comportement plutôt qu’un autre. Ainsi, si le pédophile choisissait librement de l’être, il pourrait tout aussi bien user de sa liberté pour choisir de ne pas l’être. De même, à l’inverse, vous qui n’êtes pas pédophile (du moins je le suppose…), avez-vous la possibilité de le devenir, de choisir de l’être? Pas plus que cette victime de soi ne veut cette sexualité, vous ne voulez la vôtre. Son incapacité à s’exprimer sexuellement dans une sexualité classique égale votre incapacité à vous épanouir dans la sexualité qui le requiert, l’oblige et s’impose à lui.

On ne naît pas pédophile, on le devient.
Quand on est dans la peau d’un individu qui n’a pas le choix et subit son impulsion sans pouvoir y résister (de même pour la vôtre qui est, par chance, socialement et culturellement correcte), on subit un déterminisme. Le déterminisme suppose une force contraignant un individu à se comporter d’une façon qui ne relève pas d’un choix conscient. Nous procédons tous d’une série de déterminismes qui, pour la plupart, visent à nous transformer en modèles sociaux: bons époux, bonnes épouses, bonnes femmes d’intérieur, bons enfants, bons employés, bons citoyens, etc. Et malgré le processus éducatif, certains dressages ne suffisent pas pour empêcher la tendance à un comportement déviant.

Ainsi de l’homosexualité, pratiquée, tolérée, encouragée ou interdite, pourchassée, criminalisée suivant les siècles. Aujourd’hui, en France, elle est devenue légalement une pratique sexuelle et relationnelle presque comme une autre, et dans les esprits un comportement de moins en moins rejeté illustrant une autre façon de vivre sa sexualité que l’hétérosexualité classique mise en avant par les modèles sociaux dominants. Un homosexuel ne se détermine pas à cette sexualité-là, elle s’impose à lui; de la même manière qu’on ne se choisit pas un jour hétérosexuel, on se découvre tel. Tant mieux si la sexualité qui nous échoit (nous tombe dessus) est acceptée ou tolérée par la société dans laquelle on vit.

Un pédophile dans la Grèce de Platon n’est pas condamné ou condamnable. Mieux, il agit dans une logique défendue par la société; à l’époque une relation pédagogique passe par une relation sexuée puis sexuelle. Socrate pratiquait ainsi avec les élèves qu’il trouvait spécialement beaux -ainsi Alcibiade, Charmide, Euthydème, Phèdre (qui donnent leur nom à des dialogues de Platon), Agathon et tant d’autres. En ces temps, le philosophe pédophile vivait une relation éducative normale, naturelle. Aujourd’hui, il devrait faire face à des plaintes de parents, à une mise en accusation au tribunal, à un déplacement hors académie ou une radiation de l’Éducation nationale. Un déterminisme peut être façonné par le contexte socioculturel de l’époque: l’interdit ou l’autorisé du moment contribuent à fabriquer une façon d’être et de faire. A l’aire atomique, Socrate croupirait en prison, détesté par tous, maltraité par surveillants et détenus.

Le coupable en un lieu et en un temps ne l’est plus dans un autre lieu et dans un autre temps. Une époque, une histoire, une géographie, une culture, une civilisation fabriquent des déterminismes auxquels on n’échappe pas. Le poids du social pèse lourd dans la constitution d’une identité. Vous êtes en partie un produit de votre milieu, la résultante de combinaisons multiples et difficiles à démêler d’influences éducatives, de contraintes mentales affectives, de constructions familiales. Au bout du compte, votre être résulte de nombreux déterminismes contre lesquels vous pouvez plus ou moins, voire pas du tout, vous rebeller ou résister.

zeus-ganymede.jpgLe déterminisme peut être également psychologique, en l’occurrence génétique: on ne choisit pas son corps et les caractères transmis par l’hérédité. Certains sont dits récessifs (vous les portez en vous, ils ne sont pas visibles directement, mais se manifesteront dans votre descendance), d’autres dominants (on les voit tout de suite en vous: couleur d’yeux, de cheveux, sexe, tendance au poids ou à la maigreur, à la grandeur ou à la petitesse, prédisposition à certaines maladies – cancers, hypertension, hypercholestérolémie, etc., ou héritage de maladies -diabète, hémophilie, etc.). Qui reprocherait à un adulte de développer un cancer de forte nature héréditaire? De la même manière nous échoient un tempérament sexuel ou une santé spécifique.

Libertins timides ou bénédictins cavaleurs?
Un corps singulier dans une époque donnée, et vous voilà déterminé par des influences nombreuses. Les plus puissantes et les moins nettement visibles, mais les plus repérables par leurs conséquences, ce sont les influences psychiques. La psychanalyse enseigne l’existence d’un inconscient, un genre de force qui choisit en chacun et l’oblige à être et à agir sans possibilité d’échapper à sa puissance. L’inconscient emmagasine des souvenirs, il est plein de pulsions, d’instincts de mort et de vie dirigés contre soi ou contre les autres, il regorge de traumatismes, de douleurs, de blessures, de plaisirs, il est invisible à la conscience, on ignore sa nature véritable, sauf dans certains cas, par bribes, par morceaux, mais toujours et pilote la barque.

Ce qu’est chacun d’entre nous, ses goûts et ses dégoûts, ses plaisirs et ses désirs, ses envies et ses projets, tout procède et découle de la puissance de l’inconscient. Ainsi on ne naît pas pédophile ou gérontophile (amateur de vieilles personnes), zoophile (d’animaux), masochiste (plaisir pris à subir la douleur) ou sadique (plaisir à l’infliger), on ne naît pas nécrophile (obsédé de cadavres) ou fétichiste (passionné par un objet particulier ou le détail d’un corps – des bas, un orteil, une oreille, etc.): on ne naît pas tout cela, on le devient, sans jamais l’avoir choisi, en ayant été déterminé par son inconscient qui, lui, donne ses ordres en fonction d’informations enregistrées dans l’enfance (parents violents ou laxistes, expériences douloureuses ou traumatisantes, amour excessif ou défaillant d’un père ou d’une mère, absence ou présence massive d’une figure maternelle ou paternelle à la maison, deuils ou maladies dans la famille, expériences frustrantes ou indicibles, existence ou manque d’affection, de tendresse, de contacts entre les parents et les enfants, incommunicabilité dans la famille, etc.).

Chacun de vous a été déterminé à être ce qu’il est aujourd’hui: cavaleur ou timide, libertin ou bénédictin, collectionneur infidèle ou monogame fidèle. Et si le choix existait, hors déterminismes, la plupart choisiraient d’être autre que ce que ce qu’ils sont et voudraient plutôt l’épanouissement, l’harmonie, la joie, la paix avec eux-mêmes et les autres -au lieu de l’inverse, si souvent la règle. Sinon, pourquoi autant de violences, de misères, de pauvretés sexuelles, sensuelles, affectives? Pour quelles raisons le plus grand nombre se contenterait-il d’une vie si difficile s’il suffisait de vouloir une autre existence pour qu’elle advienne?

Généralement, un individu dispose d’une liberté minimale et subit des contraintes maximales. Certains sont puissamment déterminés par leur milieu, leur époque, leurs gènes, et leur liberté est égale à zéro (ainsi un autiste, un trisomique, un enfant du tiers-monde ou du quart-monde); d’autres, plus chanceux, car ils n’ont pas davantage choisi leur état, voient leur part de liberté plus grande parce que les déterminismes auxquels ils ont eu à faire face, ou auxquels ils font face, pèsent moins lourd. Dans tous les cas, on constate que la liberté existe en doses différentes chez les individus -totalement inexistante chez certains, importante pour d’autres. Mais à chaque fois, pour l’essentiel (les grandes lignes et les grandes directions d’un caractère ou d’un tempérament), on est choisi par plus fort que soi, on obéit. La croyance à la liberté ressemble étrangement à une illusion. »

Michel Onfray
https://michelonfray.com/interventions-hebdomadaires/antimanuel-de-pedophilie

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Du bon usage de » la Pédophilie

A la faveur de la parution d’un livre de Vanessa Springora intitulé « Le Consentement » (Grasset), la presse nous annonce pour la rentrée de janvier une affaire Matzneff qui met en scène le pédophile et ses relations avec un nombre considérable de protagonistes issus du milieu parisien, de Philippe Sollers à Frédéric Mitterrand en passant par Christophe Girard, mais aussi Bertrand Delanoë, Jean-Marie Le Pen et Bernard Pivot (cf. L’Express: « Quand la république décorait Gabriel Matzneff » par Jérôme Dupuis, le 27 décembre 2019), la liste s’allonge et il se pourrait bien qu’on aille de découverte en découverte.

L’équipe de Sollers m’avait sollicité pour le numéro 59 de sa revue L’Infini dont le titre était « La question pédophile ». J’avais donné ce texte: Du bon usage de la pédophilie -je me souviens qu’il était l’un des rares à ne pas défendre la pédophilie… J’y critiquais l’étrange statut d’extraterritorialité qui permettait aux pédophiles puissants du monde germanopratin d’échapper à la loi qui frappait, à juste titre, les misérables de la pédophilie.

C’était en 1997 -c’est-à-dire il y a vingt-deux ans. Le voici:

Du bon usage de la pédophilie

Je lis et relis Pascal comme Montaigne ou les Lettres à Lucilius de Sénèque, le soir, la nuit tombée, ou vers deux ou trois heures du matin, quand tout bruit sourdement dans la lenteur du temps épuisé et fatigué. Dans le flux de ces pages, cardinales à mes yeux, brillent des pépites qui éclairent le silence des noctambules. J’y trouve des viatiques, des occasions de méditation, des maximes utiles pour tâcher de mener une existence philosophique, voire des sésames avec lesquels poursuivre une conversation entre soi et soi, ou soi et le monde. Dernière phrase en date, lue dans les Pensées: « Quelle vanité que la peinture qui attire l’admiration par la ressemblance de choses dont on n’adore point les originaux! » Le fragment a beaucoup servi aux candidats bacheliers. J’ai bien dû moi-même l’infliger à des impétrants condamnés à me rendre des copies sur ce sujet… Mais en dehors de la classe de philosophie, que peut-on penser à partir de cette proposition?

Bien sûr: le divertissement, les beaux-arts comme détournement de l’essentiel, la vanité d’imaginer la possibilité de combler la misère de l’homme sans Dieu par l’artifice de la peinture et autres billevesées esthétiques (musique, littérature, philosophie, poésie, architecture, théâtre, etc.); certes: la critique philosophique de l’illusion et la célébration de l’austère réalité; ou encore: l’opposition, déjà, entre le virtuel esthétique et le réel naturel; ou bien: des méditations sur semblance et ressemblance, puis leurs relations avec la vérité; mais aussi: l’étrange alchimie générée par l’art qui éloigne du monde au nom d’un monde, qui célèbre un univers fictif au détriment d’un autre, immanent, concret et matériel; et puis, cette idée susceptible d’extrapolation: l’art contraint insidieusement à accepter, transfigurée, une réalité refusée sinon, il rend présentable, voire désirable, des faits et gestes, des choses et des situations qui, en dehors de cette transposition, nous froissent, nous choquent, nous hérissent, voire nous dégoûtent. L’art comme excipient du pire?

Y a-t-il, dans le monde esthétique, des occasions de montrer un réel refusé ou condamné autrement, en l’occurrence dans ses incarnations triviales? Bien sûr, notamment en matière de consensus politiquement correct: haine de la guerre (et présentation de celle-ci dans Guernica, la toile emblématique des leçons de morale pacifistes du siècle écoulé); mépris de la société de consommation (et mise en scène de celle-ci dans les boîtes de soupe Campbell sérigraphiées puis surfacturées par Andy Warhol); dénonciation de l’accumulation des richesses, du capital, des objets et de l’affolante production des valeurs d’usage (mais proposition de celles-ci esthétisées dans les compressions de César ou les accumulations d’Arman); condamnation de l’émergence de la publicité (et exposition d’affiches lacérées prélevées telles quelles sur les murs des villes par Hains ou Villéglé); fustigation de l’intellectualisme et de la cérébralisation de l’art contemporain (puis réinvestissement du discours culturel et de la rhétorique esthétique dans le monde de l’art brut et de la marchandisation de la peinture de Jean Dubuffet). Partout on critique un monde qu’on célèbre une fois esthétisé, transfiguré en objet d’art.

Étrange ruse de la raison: on finit par renverser l’expression populaire “ne pas supporter, même en peinture” et affirmer: “ supporter, parce qu’en peinture”. Comme si l’oeuvre mettait à distance et que dans cette distanciation on retrouvait la sérénité impossible dans le contact direct. Ce qui blesse réellement ravit une fois peint ou sublimé sur le terrain des beaux-arts. L’inceste effraie dans la réalité, mais séduit transformé en livre à succès; le criminel attire sur lui la déconsidération, mais redevient fréquentable une fois devenu sujet de roman; le viol inquiète dans la rue, mais appelle le génie dès lors que cette brutalité se propose sous forme de film; la violence tétanise dans les banlieues, les cités, les villes nouvelles, mais ravit une fois mise en scène dans des spectacles à grand budget. Catharsis diagnostiqueront les psychologues: on purifie en mettant à distance, on nettoie les affects en les projetant dans un objet tiers chargé d’assurer la présentation acceptable, puis la respectabilité.

Ainsi de la pédophilie qui réussit à fédérer l’ensemble de la société française, dans toutes ses composantes intellectuelles et philosophiques, politiques et spirituelles, dès qu’il s’agit de juger des faits. Aucune voix ne s’élève pour défendre, expliquer, raconter, justifier, atténuer la pratique pédophile d’un prêtre de province condamné à dix-huit années de prison. Pas de pétition d’intellectuel, de soutien des plumes habituées à brandir la pancarte humaniste, à proférer le slogan compassionnel et à se présenter en figure incarnée des droits de l’homme si l’on juge au tribunal un instituteur, un moniteur d’équitation ou un quidam qui ignore tout de Platon, des rapports d’éraste et d’éromène entre Socrate et Alcibiade, qui n’a pas lu la littérature grecque sur ce sujet et pratique l’amour des jeunes garçons et filles en inculte actif, innocent des coutumes hellénistiques à même de lui assurer une couverture théorique. Pas même d’anciens auteurs naguère défenseurs actifs de la cause qu’on découvre désormais silencieux…

Dans l’absolu, la question de la sexualité des enfants génère un silence gêné. Le plus modeste lecteur de Freud et le moins averti des récentes découvertes de l’éthologie sait désormais l’enfant pourvu d’une sexualité dès ses gesticulations initiales dans le ventre maternel. Les premières érections des petits garçons se vivent dans le placenta, les premiers mouvements de contraction des cuisses des petites filles également. Le fameux polymorphe pervers qui choque tant la bourgeoisie viennoise dès son baptême freudien se voit pourtant refuser purement et simplement l’existence charnelle effective par les intellectuels pourtant prompts à saisir l’occasion de défendre les exploités, les réprouvés, les oubliés, les négligés, les sans-grades, les privés d’humanité.

A contraindre les enfants à renoncer à leur sexualité on crée une situation qui les condamne à subir, ignorants, la névrose des adultes. Exclus de la possibilité d’une vie sexuelle entre eux, interdits d’épanouissement libidinal dans leur monde singulier, privés d’autonomie corporelle, ignorants leurs potentialités propres, confinés dans un auto-érotisme associé par la civilisation familialiste (prêtres et médecines acoquinés) à la culpabilité, faussement représentés et pensés dans la posture d’angelots asexués, ils deviennent facilement les victimes d’adultes qui profitent de leur supériorité physique, psychique, rhétorique, sociale, économique pour obtenir d’eux des faveurs qui les transforment en victimes idéales. Incapables d’entretenir des relations dignes de ce nom entre eux, ces adultes infligent leur misère sexuelle à des corps objectivés et terrorisés. La pédophilie se nourrit de l’insouciance des enfants exploitée par des adultes névrosés, impuissants à communiquer, et qui triomphent en abuseurs de chairs dépourvues des moyens d’une relation égalitaire.

Cette pédophilie construite par une civilisation négligente des enfants et castratrice des adultes les plus faibles a généré contre elle un consensus de la morale, du jugement et de la justice. Elle induit l’unanimité de la réprobation dès qu’il s’agit de faits et gestes repérables dans la trivialité de la vie quotidienne. Pas de quartier pour l’éducateur, pas de pitié pour l’enseignant, pas de circonstances atténuantes pour le prêtre, pas d’indulgence pour l’entraîneur et, en même temps, une extrême tolérance pour les artistes, au sens large du terme, qui exploitent le filon pédophile et mettent en scène l’amour des enfants dans leurs romans, essais, peintures, dessins ou photographies. Je songe à Nabokov (qui célèbre les Lolita entre neuf et quatorze ans), à Gide, sûr de l’impunité offerte par le Nobel lorsqu’il collectionne les petits Arabes au Maroc, à Gabriel Matzneff (qui vante les mérites des moins de seize ans, et reconnaît dix ans comme une limite plancher), à Balthus, metteur en scène de nymphes alanguies, aux cuisses perpétuellement écartées et aux petits seins de jeunes filles à peine pubères, aux dessins de jeunes garçons filiformes et nus d’Otto Meyer-Amden, ou aux photographies kitsch et faussement grecques de Wilhelm von Gloeden amplement célébré par un René Schérer s’abritant derrière la caution fouriériste pour justifier la pédophilie dans la presque totalité de ses ouvrages philosophiques depuis plus de quarante ans.

Précisons, avant toute chose, ce qu’il convient d’entendre par pédophile. Étymologiquement, le mot désigne un individu qui aime les enfants. Aimer, au sens large, ne comprend pas le passage à l’acte sexuel. Le pédagogue et la pédagogie, le pédiatre et la pédiatrie, puis l’orthopédie et l’orthopédiste procèdent de la même racine -paedia, l’enfant qui, en latin, se dit infans: qui ne parle pas. Le pédophile aime l’enfant dans la relation qu’il entretient à lui: l’instruction de l’instituteur, l’éducation de l’éducateur, l’examen du médecin spécialisé, l’entraînement du moniteur, mais aussi le parent qui donne de l’affection à sa progéniture, tous expérimentent à des degrés divers le sentiment pédophilique. Par la suite, le terme caractérise également l’adulte qui aime amoureusement et désire sexuellement les enfants d’âge impubère ou juste pubère. Celui, aussi, qui passe à l’acte. Récemment, le pédophile est devenu le criminel sexuel, violeur, organisateur de rapts ou de ventes, de mises en scènes filmées ou photographiées, voire de crimes perpétrés sur les corps d’enfants et leurs personnes. Entre l’attention professionnelle de l’enseignant en primaire et la brutalité délirante du délinquant se déploie une série de possibilités. J’en choisirai deux.

La première met en scène Gabriel Matzneff, dont j’ai beaucoup aimé, naguère, les livres consacrés à la Rome impériale, au suicide chez les philosophes antiques, à la vertu des stoïciens, à la grande santé des poètes élégiaques, au dandysme de Lord Byron. J’ai également lu, quand j’avais vingt ans, ses chroniques dans Le Monde où j’aimais voir convoqués Horace, Lucrèce, Tibulle ou Properce, mais aussi Schopenhauer ou Nietzsche, pour commenter et regarder l’actualité avec un œil critique et intempestif. J’étais alors lecteur fidèle de ces textes d’homme libre.

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Plus tard, j’ai découvert, chez un bouquiniste, Les Moins de seize ans -un livre publié dans une collection dirigée par Jacques Chancel chez Julliard en 1974 et récemment réédité. Puis, Mes amours décomposés – Journal 1983-1984, un ouvrage (1990) dont l’éditeur est Philippe Sollers chez Gallimard. Ces deux volumes proposent noir sur blanc une justification théorique de la pédophilie pour le premier et, pour le second, une illustration de la thèse par un exposé détaillé, trivial, vulgaire, cru, narcissiste, mégalomane et d’une précision médicale sans limite, des pratiques du susdit en la matière.

J’ai cessé d’aimer cet auteur dont je croyais la vie exigemment indexée sur la pensée et vice versa lorsque, chez Bernard Pivot, faisant face à Denise Bombardier, une écrivaine québécoise lui disant que s’il n’était protégé par son statut d’homme de lettres bien intégré dans le milieu parisien et par l’affection du président de la République d’alors qui aimait aussi tel ancien préfet de Vichy, il irait tout droit en prison, Gabriel Matzneff a nié, joué l’écrivain sali, s’est abîmé avec une arrogante mauvaise foi dans une dénégation indigne d’un prétendu amateur de courage stoïcien et de bravoure romaine. Le suicide, ce soir-là, fut loin d’être romain…

Car sa pédophilie existentielle et littéraire, immanente et théorique ne fait aucun doute. Lisons son manifeste, Les moins de seize ans: éloge de la sexualité avec des partenaires, garçons ou filles, dont l’âge oscille entre dix et seize ans; revendication d’une impuissance à imaginer et d’une capacité à écrire seulement ce qui est vécu, pratiqué, éprouvé et expérimenté au quotidien; refus de toute sexualité avec un garçon ayant franchi le cap des dix-sept ans; aveu de l’intégrale clandestinité de ses pratiques amoureuses avec les enfants masculins alors qu’il rend publiques ses relations avec les jeunes filles du même âge; justification d’un fait divers du moment mettant en scène un quinquagénaire organisateur de ballets roses ayant couché avec au moins soixante-dix-huit fillettes âgées de onze à quinze ans, payées de quelques francs, photographiées, et « peut-être un peu violées », bien que toutes soient présentées par lui comme consentantes et désireuses de voir le manège se répéter; ces phrases aussi: “la violence du billet de banque qu’on glisse dans la poche d’un jean ou d’une culotte (courte) est malgré tout une douce violence. Il ne faut pas charrier. On a vu pire.” Suivies de considérations sur le rôle économique bénéfique de la pédophilie dans les familles du sud de la Loire; confidences autobiographiques sur ses relations sexuelles avec des garçons de douze et treize ans; rhétorique spécieuse pour transformer la sexualité avec les jeunes garçons en « expérience hiérophanique », « épreuve baptismale », « aventure sacrée »; célébration appuyée des colonies de vacances, des camps de jeunesse, des associations sportives qui permettent ce sport et cette chasse d’enfant -selon ses termes; aveu cynique du choix de ses jeunes partenaires de préférence dans des familles désunies, chaotiques. Cessons-là l’inventaire…

Comment un homme qui a écrit ce livre et défendu ces thèses, qui s’est fait une gloire d’installer le pédophile du côté des réprouvés, des rebelles, des marginaux, des porteurs d’étoile jaune (dans le numéro de L’Infini consacré à « La question pédophile » en septembre 1997), des hérétiques, des ennemis de l’ordre et de la bourgeoisie, comment cet homme peut-il se réfugier sur les cimes, feignant la vertu outragée, se nimber d’une aura de victime lorsque la Québécoise bien inspirée lui demande à la télévision de justifier devant des millions de téléspectateurs ses positions à la faveur d’un livre, son journal, exclusivement consacré à l’autocélébration de ses performances avec des jeunes individus des deux sexes? A ce moment, Matzneff pouvait, devait, faire preuve du courage romain qu’il n’a cessé d’encenser verbalement. Et acquiescer, puis justifier -et non se justifier.

A dire vrai, la pédophilie revendiquée comme une possibilité d’existence me semblait ce soir-là un tout petit peu moins détestable si elle en appelait au débat que cette fuite, ce refus, cette dénégation, cet écroulement public de l’homme qui passe sa vie à faire l’éloge du suicide de Sénèque et tremble devant la perspective d’une piqûre de guêpe. Exit le héros de carton pâte, le grand homme devenu nain, le donneur de leçons romaines qui se comporte en bourgeois dénégateur une fois pris la main dans le sac. On se réclame du rigoureux Caton d’Utique, on adopte la posture de l’austère Cicéron, on se drape dans la toge virile de César, puis on se contente d’une vie vécue sous les auspices de Monsieur Prudhomme…

La schizophrénie de Matzneff pèse plus contre lui qu’une pratique à ses yeux justifiable verbalement puisqu’elle est depuis toujours sienne et revendiquée théoriquement puis pratiquée comme telle. Pourquoi ne pas mener le débat, conduire le combat, défendre ses idées lorsque l’heure vient de montrer du courage? Pour quelles raisons refuser devant la caméra ce que tous ses livres avouent depuis des années? Soudain, alors que les élégiaques romains auraient pu être convoqués, puis la Grèce et la figure de Socrate, enfin Tibulle, Pétrone et Straton de Sardes, plus proches Lewis Carroll, Thomas Mann ou Michel Tournier, Matzneff a ajouté à la réputation du pédophile celle du lâche n’ayant pas le courage de ses opinions et préférant le mensonge à la vérité pourtant brandie en étendard depuis des années. A quoi ressemble une idée à laquelle on renonce dès l’ombre de la première difficulté?

La raison de ce revirement fait sens: l’artiste sait qu’on tolère ses frasques si elles sont roulées dans la farine de la vertu, confites dans la dignité de la littérature, cuites dans l’écriture et le livre, puis livrées dans la publication. L’art voile l’immoralité et la transfigure en marchandise monnayable. L’impossible pédophilie de fait devient une figure de style possible après esthétisation. Edité par Julliard et Chancel, Gallimard et Sollers, ami de Cioran et de Mitterrand, puis de quelques autres plumitifs germanopratins grouillant dans son journal entre piscine remplie de jeunesses bronzées et restaurant diététique où l’on surveille sa taille et son ventre plat, l’écrivain peut porter son vice en bandoulière; ouvrier d’usine en province, ami de personne et ne disposant d’aucun carnet d’adresse, incapable d’écrire ou de vendre sa pédophilie en expérience transmutée par le livre ou un autre support relevant des beaux-arts, c’est la cour d’assise qui l’attendrait… Denise Bombardier avait-elle tort? Pouvait-on refuser pour le moins de répondre à sa question? La posture d’offusqué suffisait-elle pour glisser comme une couleuvre et éviter le débat, ouvrir la discussion. 

Mon deuxième exemple passe par Balthus et le requiert. Non que le peintre ait pratiqué la pédophilie dans sa vie quotidienne (question non abordée et non abordable), mais parce que toute son oeuvre transpire la passion pour les petites filles et le jeu pervers entre son exhibitionnisme de petits corps nus montrés dans des postures obscènes et le voyeurisme attendu des regardeurs de ses toiles, spectateurs consentants ou silencieux de ce théâtre d’enfants mis en scène dans une série de tableaux où les jeunes filles triomphent à quatre pattes, comme de petites femelles lascivement en rut qui offrent leur postérieur au premier mâle venu à même de les prendre en ignorant leur face, donc leur humanité. Là où se cambrent les reins de ces enfants, il ne saurait y avoir de place pour ce que Levinas appelle le visage.

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Peinture de Balthus

Fesses relevées, croupes tendues, jambes écartées, sexes exhibés, ces corps de jeunes filles aux très petits seins à peine formés, hauts placés sur un buste qui pourrait être celui d’un jeune garçon, ces silhouettes impubères (l’effrayante enfant du Nu au miroir de1981-1983), graciles, sans hanches, sans bassin, sans toison pubienne, sans histoire écrite sur le visage, ces chairs lisses pas encore finies, à peine terminées, au seuil du monde adulte, ces peaux fraîches et sans cicatrices, quel plaisir peut-on avoir à les montrer dans le détail et à satiété?

Ces visages aux yeux fermés, aux regards impossibles à croiser, dont les traits lissés citent vaguement ceux de l’extase du Bernin, ces corps abandonnés dans un fauteuil, ces bras ballants dans une posture alanguie, cet entrejambe toujours ouvert sur un angle obscène, ce pubis imberbe, glacial, exposé à la manière d’une planche anatomique de pédiatrie (l’affreuse Leçon de guitare de1934!), quelle jubilation induisent-ils chez le peintre des heures attardé devant sa toile, fourbissant l’obscène? Cette scène à frissonner d’épouvante dans La Rue (1933) qui, au milieu d’un genre de décor de théâtre, ou d’une sorte de scène reconstituée en studio pour un film réaliste, propose dans l’angle gauche une jeune fille effarouchée, prisonnière d’un adulte qui arrive derrière elle, l’enserre, d’une main saisit son avant-bras, de l’autre soulève sa jupe pendant qu’il glisse sa cuisse dans l’entrejambe de l’enfant, quelle satisfaction de mettre en scène ce viol dans ses premiers instants? Enfin, cette sinistre toile intitulée La Victime (1939-1946) qui montre une jeune fille nue, allongée sur un lit aux draps froissés, alanguie, le visage semblable à celui d’une morte, un couteau repose à terre, la lame luisante, épargnée par le sang, le corps aussi est sans trace sanguinolente, sans plaie: l’arme a-t-elle servi à un homme pour menacer d’un viol et l’accomplir? Quelle satisfaction pour le peintre de représenter cet après violence sexuelle, de mettre en scène l’absence du violeur son forfait accompli, la chair meurtrie de sa victime défaite sur un lit?

Le nombre de toiles de Balthus où les corps de jeunes filles sont offerts, donnés, abandonnés, disponibles pour un maître à même de les prendre selon son bon plaisir, est considérable. Le dominateur s’empare de la virginité due et donnée au seigneur, la jeunesse se destine au bon vouloir du mâle qui en dispose, la chair appartient à l’homme qui soumet l’enfant docile et soumis: voilà les impératifs pédophiles et misogynes, féodaux et aristocratiques, cyniques et immoraux -rien qui réjouisse une âme désireuse de sexualité solaire, épanouie, partagée, consentante, libertaire, en un mot, adulte. Balthus met en scène un univers d’avant la modernité aussi bien sur le terrain de la peinture (technique, artisanat, métier) que sur celui des sujets, des thématiques: il peint un monde en ignorant que la Révolution française a eu lieu et l’a mis à mal.

La protection (que je ne dirai pas pédophile, même si Balthus a alors autour de quinze ans) de Rilke qui préface un recueil de ses dessins de chats, puis l’avalanche et la cascade de noms fascinés par l’ancienne caution du poète ne cesse de valoir soutien: Antonin Artaud, Albert Camus, Georges Bataille, Pierre Klossowski, René Char, André Malraux, Pierre-Jean Jouve, Yves Bonnefoy, Félix Guattari, Jean-Pierre Faye, parmi les plus illustres, forment une palette devant laquelle les amateurs d’instinct grégaire plient le genou. Ecrire ou penser contre Balthus équivaut à écrire et penser contre ces sommités qui l’ont soutenu; refuser son monde, le mettre en doute conduit à interdire l’inscription de son nom dans la filiation qui garantit la réputation et la prétendue autorité de l’expert.

Or aucun de ces soutiens prestigieux n’a mis en doute la représentation féodale du corps des enfants dans la peinture de Balthus, aucun n’a proposé de lecture politique (au sens noble) de son travail, aucun n’a regimbé devant la pédophilie esthétiquement active dans la plupart de ses toiles, y compris celles qui proposent des portraits de pères avec leurs enfants (Portrait d’André Derain en 1936, Joan Mirò et sa fille en 1937-1938, Portrait de Monsieur L. de C. et de ses enfants en 1943, Roger et son fils en 1936, d’étranges monstruosités picturales où l’adulte semble toujours prêt de fondre en prédateur possible d’enfant.

Personne parmi ces autorités intellectuelles n’a mis cette peinture en perspective avec le monde d’avant 1789, celui où les enfants (mais aussi les femmes et les autres minorités: les juifs, les noirs, les esclaves, les citoyens passifs, les gens de peu) n’existaient que comme des proies offertes à la discrétion des seigneurs et maîtres qui possédaient le monde. Via les images qu’il produit et les icônes féodales qu’il signe, Balthus possède le corps des petites filles et réduit leur chair à l’objet exhibé et destiné aux initiés, à l’élite, à l’aristocratie, aux pairs qui se reconnaissent dans cet univers fabriqué pour réjouir leurs fantasmes. Dans ce théâtre où le corps des enfants se chosifie, le Marquis de Sade est incontestablement parent du Comte Balthazar Klossowski de Rola, dit Balthus. Le même sang bleu circule, gelé, dans leurs veines à particules.

Matzneff et Balthus démontrent, parmi d’autres exemples possibles, que pour défendre des positions pédophiliques (pratiques et théoriques), mieux vaut passer par le filtre de l’art et faire un détour par la médiation de l’esthétique. Ouvrier, modeste, sans culture, sans références intellectuelles, sans appui dans le monde des lettres, ignorant la rhétorique spécieuse qui convoque les Grecs, Spartes et Athènes, Gide et Montherlant, voire, plus contemporains Tony Duvert et François Augiéras, sinon René Schérer (auteur, parmi d’autres livres défendant cette question, d’un Emile perverti publié en 1974 chez Robert Laffont, dans une collection dirigée par Jean-François Revel, puis d’Une érotique puérile chez Galilée en 1978), en délicatesse avec la parole, la justification, le verbe et les mots, le présumé innocent se retrouvera vitement dans les geôles d’une prison où, reçu comme pointeur par un comité d’accueil déterminé, il subira les traitements réservés aux auteurs de crimes sexuels.

 En revanche, écrivain, intellectuel, auteur à l’agenda mondain bien rempli, gendelettres ou institutionnels, lecteur d’Alcibiade dans le texte, objet de ses pulsions sans autre recommandation qu’un Œdipe mal fichu, mais bien travesti par les jeux croisés de l’esprit et de la cérébralité, voire peintre rare dans ses épanchements et apparitions (vertu sublime et grandement payante dans un monde spectaculaire), réactionnaire dans sa peinture (thématique et traitement), conservateur en tout, affichant sa féodalité sans complexe, revendiquant une passion pour Hergé et les albums de Tintin (on le comprend en comparant la naïveté des deux mondes), voilà qui garantit d’une totale impunité, voire, pire, ou mieux, voilà qui assure d’une réputation sulfureuse rentable et d’un parfum de scandale payant.

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Peinture de Balthus

Car, étrangement, la pédophilie se justifie sublimée par l’art. Une fois passée par le chas de l’aiguille esthétique, elle peut prétendre à la respectabilité et à l’institution -Nobel de Gide, Académie française de Montherlant, Pléiade de Carroll, Académie Goncourt pour l’un et Conclave pour l’autre. En revanche, elle vaut l’infamie véritable au prêtre de province, au notaire de sous-préfecture, à l’instituteur de campagne, elle déclenche l’ire des simples et des naïfs, des gens modestes et des consciences bien faites. Elle garantit d’une aura magique l’artiste et le peintre, le photographe et le romancier, l’essayiste et le poète, le cinéaste et le philosophe s’ils ont le bon goût de sublimer, au sens freudien, leur passion pour la chair fraîche.

Qu’on laisse la sexualité des enfants s’épanouir dans son registre et ses fantaisies, qu’on leur offre toutes les latitudes possibles et imaginables entre eux, et simultanément qu’on abandonne les adultes à leur univers et à la gestion tribale de leur misère sexuelle, loin des plus jeunes préoccupés de leurs corps en devenir et de leurs pulsions à part. La reconnaissance d’une libido infantile oblige à réfléchir à la place qu’on peut leur laisser, entre eux, pour eux, elle ne permet pas qu’on s’appuie sur cette évidence désormais acquise de l’existence d’un désir infantile pour justifier l’intrusion des névroses adultes dans ces univers singuliers sous prétexte qu’ils pourraient, eux, du haut de leur savoir et de leur compétence, répondre à ce désir par leur plaisir.

Les juges épargnent les coupables ou manifestent une étrange mansuétude à leur endroit lorsqu’ils évoluent dans le même monde intellectuel qu’eux: les écrivains, les intellectuels, les gens de culture et les hommes du droit, les artistes du barreau se reconnaissent comme appartenant au même univers, ils partagent des valeurs semblables, communient dans un catéchisme identique. Le pédophile trivial, vulgaire, commun fait l’unanimité contre lui; son frère jumeau, mais doué de rhétorique, se veut différent, distinct, autre, d’un alliage différent, et on lui concède la plupart du temps cette faveur qui lui assure l’impunité. Matzneff est même allé jusqu’à tomber récemment le froc pédophile pour endosser l’habit de philopède -une création de son crû! Qui trompe-t-il encore avec ces artifices de langage? Philopèdes les célébrités culturelles, mais pédophile le quidam inculte? Que de contorsions intellectuelles pour cacher la misère sexuelle et l’étendue des dégâts… »

https://michelonfray.com/interventions-hebdomadaires/du-bon-usage-de-la-pedophilie?mode=video

mercredi, 01 janvier 2020

Zygmunt Bauman et le bon usage du terrorisme

par Nicolas Bonnal

Ex: https://leblogalupus.com

Il est important de contrôler les masses rétives et de les faire plier. L’attentat de Strasbourg n’a pas failli à cet égard. Las, chat échaudé craint l’eau froide. Et le pouvoir aux abois, avec cette arme ridicule de 1892, n’a pas su exploiter le massacre pour interdire à la France de se réveiller. Le Bataclan, lui aussi coordonné dans des circonstances invraisemblables, fut mieux exploité et maintint l’État-PS et le lobby euroatlantiste au pouvoir, mal dans les baskets des déplorables depuis l’élection du Donald.

zb-wasted.jpgOn va relire le sociologue israélo-britannique Zygmunt Bauman, auteur de remarquables essais sur notre postmoderne et zombi mondialisation. Il a bien compris que la clé c’est la peur et son exploitation (on est en 2002) :

« Mais l’envoi de troupes en Irak n’a fait qu’aggraver la crainte de l’insécurité, aux États-Unis et ailleurs…. Comme on aurait pu s’y attendre, le sentiment de sécurité ne fut pas la seule victime collatérale de cette guerre. Les libertés personnelles et la démocratie ont vite connu le même sort. Pour citer l’avertissement prophétique d’Alexander Hamilton :

« La destruction violente des vies et des biens que causent la guerre et l’inquiétude permanente qu’entraîne un état de danger permanent obligeront les nations les plus attachées à la liberté à chercher le calme et la sécurité auprès d’institutions qui tendent à détruire leurs droits civils et politiques. Pour être plus protégées, elles finissent par accepter le risque d’être moins libres. »

On croirait lire Thucydide. Mais ne biaisons pas. Bauman ajoute :

« La vie sociale change quand les hommes commencent à vivre derrière des murs, à engager des gardes, à conduire des véhicules blindés, à porter des matraques et des revolvers et à suivre des cours d’arts martiaux. La difficulté est la suivante : ces activités renforcent et contribuent à produire la sensation de désordre que nos actions visaient à empêcher. »

L’important dans ce ministère de le peur, comme dirait Fritz Lang, qui connut et le nazisme et le maccarthysme, est de créer une peur qui se nourrit d’elle-même. C’est le sujet du passionnant et percutant Captain America (le soldat d’hiver) produit par les israéliens de Marvel Comics. Le pouvoir se nourrit d’attentats car ils servent à soumettre. Debord a aussi écrit sur le sujet. Mais restons-en à Bauman :

« Il semble que nos peurs soient devenues capables de s’auto-perpétuer et de s’auto-renforcer, comme si elles avaient acquis un dynamisme propre et pouvaient continuer à croître en puisant exclusivement dans leurs propres ressources. »

La peur gagne sans rire tous les domaines, la météo, le sexe, le vêtement, la bouffe :

« Nous cherchons à dépister « les sept signes du cancer » ou « les cinq symptômes de la dépression », nous tentons d’exorciser le spectre de la tension trop forte, du taux de cholestérol trop important, du stress ou de l’obésité. Autrement dit, nous sommes en quête de cibles de substitution sur lesquelles décharger le surplus de crainte existentielle qui n’a pas pu trouver ses débouchés naturels, et nous découvrons ces cibles de fortune en prenant de grandes précautions pour ne pas inhaler la fumée de cigarette des autres, pour ne pas ingérer d’aliments gras ou de « mauvaises » bactéries – tout en avalant goulûment les liquides qui se vantent de contenir « les bonnes » –, pour éviter l’exposition au soleil ou les relations sexuelles non protégées… »

zb-pmdis.pngBauman ici explique pourquoi on croule sous d’horribles et coûteuses voitures informelles. Cela correspond à la paranoïa du « « capitalisme de catastrophe » (Ramonet) :

« L’exploitation commerciale de l’insécurité et de la peur a des retombées commerciales considérables. Selon Stephen Graham, « les publicitaires exploitent délibérément la crainte très répandue du terrorisme catastrophique pour dynamiser les ventes très lucratives de 4 x 4 ». Ces monstres militaires très gourmands en carburant, que les Américains appellent SUV (sport utility vehicles), représentent déjà 45 % de l’ensemble des ventes de voitures aux États-Unis et s’intégrent dans la vie urbaine de tous les jours sous le nom de « capsules défensives ». Le 4 x 4 est un signifiant de sécurité que les publicités dépeignent, à l’instar des communautés fermées au sein desquelles on les voit souvent rouler, comme permettant d’affronter la vie urbaine, pleine de risques et d’imprévus […]. Ces véhicules semblent apaiser les craintes que ressentent les membres de la bourgeoisie lorsqu’ils se déplacent en ville (ou sont bloqués dans les embouteillages). »

Puis il revient au sujet, le terrorisme et son utilité comme ingénierie sociale :

« En octobre 2004, la BBC a diffusé une série documentaire sous le titre The Power of Nightmares : the Rise of the Politics of Fear (« Le pouvoir des cauchemars : la montée de la politique de la peur »). Adam Curtis, auteur et réalisateur de cette série, l’un des documentaristes les plus acclamés en Grande-Bretagne, y montre que, si le terrorisme international est assurément un danger réel qui se reproduit continuellement dans le no mans land mondial, une bonne partie – sinon l’essentiel – de sa menace officielle « est un fantasme qui a été exagéré et déformé par les politiciens. Cette sombre illusion s’est propagée sans jamais être contestée à travers les gouvernements du monde entier, les services de sécurité et les médias internationaux ». Il ne serait pas difficile d’identifier les raisons du succès rapide et spectaculaire de cette illusion : « À une époque où toutes les grandes idées ont perdu leur crédibilité, la peur d’un ennemi fantôme est tout ce qu’il reste aux politiciens pour conserver leur pouvoir. »

Et comme s’il avait lu Guy Debord, Bauman rappelle les années de plomb allemandes (l’actuel fascisme humanitaire-antiraciste-féministe en Allemagne a de beaux précédents) :

« Capitaliser sur la peur est une stratégie bien établie, une tradition qui remonte aux premières années de l’assaut néolibéral contre l’État social.

Bien avant les événements du 11 septembre, beaucoup avaient déjà succombé à cette tentation, séduits par ses redoutables avantages. Dans une étude judicieusement intitulée « Le terrorisme, ami du pouvoir de l’État », Victor Grotowicz analyse l’utilisation des attentats de la Fraction armée rouge par la République fédérale allemande à la fin des années 1970. En 1976, seuls 7 % des citoyens allemands considéraient leur sécurité personnelle comme une question politique importante, tandis que, deux ans après, une majorité considérable d’Allemands en faisait une priorité, avant la lutte contre le chômage ou contre l’inflation. Durant ces deux années, la nation put voir à la télévision des reportages sur les exploits des forces de police et des services secrets, alors en pleine expansion, et put entendre les hommes politiques promettre des mesures toujours plus dures dans la guerre totale contre les terroristes. »

zb-miettrs.jpgIl est important de rappeler cela, qu’il s’agisse de Sarkozy-Macron-Hollande, de Bush, May, Clinton-Obama, Merkel et du reste ; l’Etat fasciste-sécuritaire accompagne la dégradation-extinction de l’Etat de droit et de l’État social. L’État renonce à la carotte et a recours à la trique du CRS et au contrôle par des services plus ou moins secrets :

« On en venait à se demander si la fonction manifeste de ces nouvelles mesures, sévères et ostensiblement impitoyables, censées éradiquer la menace terroriste, ne dissimulait pas une fonction latente : déplacer le fondement de l’autorité de l’État d’un domaine qu’elle ne voulait ni ne pouvait maîtriser efficacement vers un autre domaine où son pouvoir et sa détermination pouvaient se manifester de façon spectaculaire, en remportant presque tous les suffrages. Le résultat le plus évident de la campagne antiterroriste fut une rapide hausse de la peur dans tous les rangs de la société. »

D’où évidemment un incessant recours à ces insaisissables émanations terroristes (dans Captain America, cela s’appelle justement Hydra). Bauman rappelle qu’on baptisa l’hydre du terrorisme mondial pour effrayer les chaumières et servir l’avènement de l’Etat policier universel :

« Adam Curtis, déjà cité, va encore plus loin et suggère qu’Al-Qaida existait à peine, sinon comme vague programme visant à « purifier par la violence religieuse un monde corrompu », et ne fut créé que par l’ingéniosité des juristes ; Al-Qaida ne fut ainsi baptisé que « début 2001, quand le gouvernement américain décida de poursuivre Ben Laden en son absence et dut utiliser les lois antimafia qui exigeaient l’existence d’une organisation criminelle portant un nom ».

Le terrorisme compte donc sur l’Etat postmoderne, dont il est le meilleur et le plus régulier allié :

« Contrairement à leurs ennemis déclarés, les terroristes ne sont pas limités par l’étendue modeste de leurs ressources. Lorsqu’ils conçoivent leur stratégie et leur tactique, ils peuvent compter au nombre de leurs atouts la réaction attendue et quasi certaine de « l’ennemi », qui viendra considérablement amplifier l’impact des atrocités commises. Si le but des terroristes est de répandre la terreur au sein de la population ennemie, l’armée et la police ennemies veilleront à ce qu’ils y parviennent bien au-delà de ce qu’ils auraient pu accomplir par leurs propres moyens. »

Dure et rigoureuse conclusion de Bauman :

« De fait, on ne peut que reprendre l’analyse de Michael Meacher : le plus souvent, et surtout depuis le 11 septembre, nous avons l’air de « jouer le jeu de Ben Laden ». Cette attitude peut avoir des conséquences tragiques. »

zb-amour.jpgOn a tous vu la nullité brouillonne des forces du désordre à Strasbourg. Mais ce chaos fait partie de la mise en scène, et Bauman vous l’explique :

« Les forces terroristes ne souffrent guère de ce genre d’attaques ; au contraire, c’est dans la maladresse et dans la prodigalité extravagante de leur adversaire qu’elles puissent une énergie renouvelée. L’excès n’est pas seulement la marque des opérations explicitement antiterroristes ; il caractérise aussi les alertes et avertissements adressés à leurs propres populations par la coalition antiterroriste. »

Le grand vainqueur est l’État postmoderne (avec le bonapartisme la France a toujours eu de l’avance). On rappelle du reste la citation de Maurice Joly :

« Il y aura peut-être des complots vrais, je n’en réponds pas ; mais à coup sûr il y aura des complots simulés. À de certains moments, ce peut être un excellent moyen pour exciter la sympathie du peuple en faveur du prince, lorsque sa popularité décroît. »

Je reprends mon étude sur Joly :

Le pouvoir subventionne la presse et devient journaliste :

« Dans les pays parlementaires, c’est presque toujours par la presse que périssent les gouvernements, eh bien, j’entrevois la possibilité de neutraliser la presse par la presse elle-même. Puisque c’est une si grande force que le journalisme, savez-vous ce que ferait mon gouvernement ? Il se ferait journaliste, ce serait le journalisme incarné. »

Le pouvoir contrôle et soudoie tout, opposition populiste compris :

« Comme le dieu Vishnou, ma presse aura cent bras, et ces bras donneront la main à toutes les nuances d’opinion quelconque sur la surface entière du pays. On sera de mon parti sans le savoir. Ceux qui croiront parler leur langue parleront la mienne, ceux qui croiront agiter leur parti agiteront le mien, ceux qui croiront marcher sous leur drapeau marcheront sous le mien. »

Joly avait même inventé l’expression « pensée unique ».

Gouverner par le chaos alors ? En effet et dix ans avant notre Lucien Cerise, Bauman écrit :

« La société n’est plus protégée par l’État, ou, du moins, elle ne peut plus se fier à la protection offerte ; elle est désormais exposée à la rapacité de forces qu’elle ne contrôle pas et qu’elle ne compte ni n’espère reconquérir et dompter. C’est pour cette raison, en premier lieu, que les gouvernements qui se débattent pour affronter les orages actuels passent d’une série de mesures d’urgence à une autre, d’une campagne ad hoc de gestion de la crise à une autre, en rêvant uniquement de rester au pouvoir après les prochaines élections, mais sont par ailleurs dépourvus de toute ambition à long terme, sans parler d’envisager une solution radicale aux problèmes récurrents de la nation. »

Sources

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mardi, 31 décembre 2019

Ambiance fin du monde

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Ambiance fin du monde

 
 
par Richard Labévière
Ex: http://www.zejournal.mobi

Désolation tous azimuts. Casino remplace ses caissières par des machines et des vigiles. Certains clients trouvent cela formidable ! C’est dire l’état des consciences… La SNCF – qui n’est plus la SNCF – aussi, ferme ses accueils humains les uns après les autres. En son temps, les syndicats ont été incapables d’expliquer et de dénoncer la privatisation de ce grand service public, démantelé à la demande expresse de Bruxelles. Désormais, c’est le règne, là-aussi, de la double punition : l’usager paie et fait le travail, que son imprimante fonctionne ou non ! Comme partout désormais : le service, c’est le client lui-même qui l’assure, selon l’un des fondamentaux de l’ultra-libéralisme : plus d’accueil, plus de secrétariat, plus d’intermédiaire humain salarié, plus de salariat du tout, mais des consommateurs qui financent et actionnent eux-mêmes les services auxquels ils croient avoir accès.

Dans cette perspective, il faut privatiser : pri-va-ti-ser à tout prix ! Glissement de terrain : de la « main invisible » du libéralisme de papa (Adam Smith, Ricardo), on est passé – depuis la fin des années 1970 avec Thatcher et Reagan – au « néo-libéralisme », en réaction aux politiques keynésiennes de l’Etat-providence. Avec la crise de 2008, on est entré de plein pied dans une troisième phase d’hyper, sinon d’ultra-libéralisme, le mot d’ordre étant justement d’accélérer la privatisation de tout, du reste, et à tout prix : les entreprises, les ressources naturelles, la biodiversité, l’espace public et les cerveaux… La propriété, c’est le vol disait Proudhon. Aujourd’hui et plus que jamais dans l’Histoire : privatiser, c’est voler ! Les riches toujours plus riches, les pauvres toujours plus pauvres… Cette loi de thermodynamique engendre révoltes sociales, suicides et risques accrus de guerres civiles : Chili, Mexique, Bolivie, Brésil, Haïti, Irak, Liban, France, etc.

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Cette tendance générale à l’« ubérisation » ne dérégule pas seulement les métiers établis mais se généralise à l’ensemble des activités humaines. Il n’est qu’à voir les trottinettes faucher les petites vieilles sur les trottoirs, et pas seulement les petites vieilles, objet de métal hideux abandonné au beau milieu des trottoirs, devant les entrées d’immeubles et de boulangeries – paroxysme de la privatisation de l’espace public ; les vélos – dont une majorité d’usagers ne sait plus se servir – griller les feux de la circulation, percutant les piétons qui ont encore la naïveté d’emprunter les passages cloutés quand le petit bonhomme passe au vert… les patins à roulettes et autres machines roulantes électriques qui ont transformé les rues en une jungle où règne la loi du plus fort, sous l’œil goguenard des forces de l’ordre, celles ci le plus souvent brillant par leur absence!

En fait, cette violence insidieuse nous fait glisser d’une ubérisation déjà structurelle à une « mad-maxisation »(1) plus dangereuse encore puisqu’il y va désormais de notre intégrité physique et mentale. Parce qu’il ne s’agit plus seulement de faire de l’argent, n’importe comment, mais de faire prévaloir son individualité – hors-sol – de toutes les manières possibles – changements de sexe, piercings et tatouages, selfies ou ego-portraits, fabrication d’enfant-marchandises, etc. -, sans hésiter à recourir à la violence physique. Ici, ne sont pas seulement en cause les règlements de compte des quartiers nord de Marseille, mais des comportements quotidiens, sur les trottoirs, au volant, dans les files d’attente ou sur Internet…

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Durant plus d’une année, n’oublions pas que s’est déchaînée une violence policière inouïe afin de dissuader les petites gens de rejoindre le mouvement des Gilets Jaunes : des morts, yeux crevés, mains arrachés et tabassages en règle avec, à la clef, une restriction significative du droit de manifester ; restriction des libertés civiles et politiques dans une République qui marche en arrière, sur la tête et sans discernement. Et ce ne sont pas les quelques Black Blocs et inévitables casseurs – étrangement très mobiles – qui pouvaient justifier le déferlement d’une violence révélatrice d’un fascisme qu’on croyait définitivement enfermé au musée des horreurs historiques. Comme au temps de Pinochet et de sa junte sanguinaire, l’armée chilienne est redescendue dans les rues de Santiago, de Concepcion et de Valparaiso : plus de 500 morts et des milliers de blessés. Triste résultat de la politique ultra-libérale des Chicago-Boys de Milton Friedman, que les socio-démocrates chiliens ont poursuivi le petit doigt sur la couture du pantalon de la grande finance internationale – l’ennemi imaginaire de François Hollande qui fait maintenant des animations dans les supermarchés…

Ailleurs, dans le centre-ville des grandes villes françaises, des gens se battent entre eux pour essayer d’accéder aux transports publics. Là-aussi, des vigiles… mais impuissants à endiguer l’impulsion « ma gueule d’abord ! ». L’enfer de Jean-Paul Sartre, ce n’est plus les « Autres » puisque ces derniers n’existent plus. Les Autres d’aujourd’hui ont disparu dans un néant généralisé et absolu au profit d’égos atomisés, godemichets dans les oreilles et décibels dans le cerveau, les zombies d’aujourd’hui – jeans troués, casquettes retournées, ça fait « newyorkais » et « rebelle » – s’entrechoquent avec leurs semblables sans plus s’excuser, comme des bœufs ruminants et dociles.

Du reste, les formules de politesse ont disparu d’un vocabulaire qui atteint péniblement deux cents mots. L’uniforme de ces Sturmabteilung/SA modernes : le survêtement de sport à trois bandes et les baskets « naïque », qui valent une fortune. Signe de reconnaissance de ces phalanges apocalyptiques, les marques tribales fabriquent cette nouvelle « élégance » en plastique venue de l’industrie du football. Ces joueurs – drôles de salariés -, qui drainent des millions et des droits de télévision exponentiels, s’imposent comme les « héros » de supporters qui sont persuadés que Vercingétorix est l’avant-centre du Real-Madrid. Ce nouvel opium du peuple est même encensé par quelques géopoliticiens fatigués, qui en tirent des manuels au kilo… parce que tous les autres systèmes multilatéraux (politiques, économiques, et de justice) se sont effondrés.

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Au coeur de cette implosion généralisée : l’ego numérique et ses mal nommés « réseaux sociaux », en fait des outils numériques qui produisent l’atomisation sociale : j’ai deux millions d’amis mais je ne connais pas mon voisin de palier. Ego permanent : je donne mon avis sur tout et n’importe quoi sans chercher le plus petit début de rationalité – j’aime/j’aime pas -, parce que tel est mon bon plaisir, parce que je suis devenu le « journaliste » de mon quotidien, avec les photos de ma vie intime qui n’a plus aucun secret. La presse parle maintenant de « médias sociaux » ! La boucle est bouclée : devenue particulièrement nulle, la presse généraliste se meurt parce qu’elle fait la morale au lieu de produire des faits. Plus de faits ! Terminé ! Des émotions – coco -, de l’affect, voilà le secret des bonnes « unes » et des « headlines ». Pas étonnant de voir les tweets et autres fesses/boucs remplacer l’information – maintenant instincts-Gram – dans l’entropie abyssale de nos sociétés de com-mu-ni-ca-tion.

La politique, c’est communiquer bien-sûr, et prioritairement en faveur des lobbies indispensables pour une éventuelle réélection. Non contente d’inaugurer une place « Jérusalem » à la seule gloire de la soldatesque israélienne, d’avoir imposé un schéma de circulation parfaitement absurde et hyper-pollueur, « la maire socialiste de Paris, Mme Anne Hidalgo, aligne les péroraisons écologiques, tout en laissant recouvrir les grands bâtiments de la capitale de publicités géantes et lumineuses pour les marques de luxe ou de téléphone portable »(2). Donc, pour les prochaines municipales, vous avez compris : tout, sauf Hidalgo !

Dans le même ordre d’idées, comment la mairie de Paris et d’autres communes peuvent-elles admettre que la Starbucks Corporation(3) rachète les principales brasseries de Paris ou d’autres villes au point de défigurer leurs plus belles places et avenues ? Et ce n’est pas un hasard si les « casquettes retournées » et autres SA adorent se retrouver dans ces établissements où l’on consomme de la bouffe américaine très improbable dans de la vaisselle jetable. Il faut boycotter ces établissements pour trois raisons : 1) on l’a dit, ils défigurent nos centre-villes ; 2) comme les GAFA, ces vecteurs de malbouffe ne paient pratiquement pas d’impôt en France ; 3) enfin, les patrons de Starbucks financent allègrement la construction des colonies israéliennes dans les territoires palestiniens occupés. Dehors Starbucks, hors de nos villes et villages !!!

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La fracture territoriale constitue l’un des principaux moteurs de la protestation des Gilets jaunes : plus d’écoles, ni de postes, ni de maternités ou tout simplement de services publics dans nos territoires et petites communes, et de moins en moins de trains régionaux « tagés » bien-sûr ! Les ploucs de « province » n’ont qu’à se débrouiller avec leur voiture au diesel dont les taxes contribueront à financer, ose-t-on dire une « transition écologique ». On se souvient comment s’est terminée la saga de la vignette-auto, initialement censée améliorer la vie des personnes âgées… Le plus inquiétant concerne la désertification sanitaire. Le Premier ministre lui-même constate benoîtement que l’hôpital public est « en phase de décrochage, comme on dit d’un avion qui ne se porte plus et qui pourrait décrocher ». En effet, l’hôpital et la santé publique partent en vrille alors que le locataire de Matignon avoue son impuissance… Mais qu’attend-il pour changer de métier. Mendès disait que « gouverner, c’est prévoir ». C’est aussi fixer des priorités. A l’évidence, l’équipe actuelle, comme celles d’hier et d’avant-hier, est complètement dépassée, préférant faire des phrases, disant tout et son contraire, « en même temps », bien-sûr !

Ce tropisme est particulièrement accentué, sinon caricatural en matière de politique étrangère. Sur l’Europe : il faut approfondir avant d’élargir et pourtant on prévoit déjà l’adhésion de plusieurs pays balkaniques. Les discussions d’adhésion avec la Turquie n’ont toujours pas officiellement été stoppées, alors qu’Ankara multiplie chantages et pieds de nez. En Afrique, on prône des partenariats « équilibrés », tout en continuant à soutenir les ploutocraties d’« Etats faillis » et à imposer des réformes structurelles dévastatrices. Au Proche Orient, on ne dit plus rien sur les coups de force israéliens à répétition. Silence complice assourdissant ! Sur la Syrie : fermée en mars 2012, l’ambassade de France à Damas n’est toujours pas rouverte : on dit que les Syriens doivent choisir leur avenir, « et en même temps » que Bachar al-Assad doit en être exclu !

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Sur l’OTAN : on dit que c’est un grand corps malade, mais que l’Organisation demeure le « cadre naturel » de la défense des pays européens. Sur la relation franco-allemande, qui ne fonctionne plus vraiment depuis la réunification de ce pays, la France s’accommode d’un état permanent de soumission et d’humiliations répétées.

Quant à la Cop-25, c’est le pompon : fiasco total, mais on se dit que ce n’est déjà pas si mal que la réunion ait pu avoir lieu et qu’on fera mieux la prochaine fois. Tout cela est bien désespérant !

Pendant ce temps-là, à Annemasse, la vieille gare, qui aurait dû être classée – belle architecture IIIème République avec ses portiques eiffeliens – est en voie de démolition pour être remplacée par un cube de verre et de métal. Troisième triptyque de notre modernité : une laideur en carton-pâte, assurée de mal vieillir. Le nouveau bâtiment, qui n’a pas encore été inauguré, est déjà endommagé : les écoulements de pluie en obscurcissent la transparence initiale. « Transparence », maître mot d’une époque qui justifie et érige pourtant la corruption sous toutes ses formes en modèle de réussite sociale.

Dernièrement, le « Monsieur retraite » – Jean-Paul Delavoye – a oublié de déclarer une quinzaine de mandats dont certains juteux, et quelques dépenses faramineuses. Lors de son départ forcé, il est néanmoins salué par la ministre de la santé comme un « grand serviteur de l’Etat » et remplacé par un obscur député, ancien responsable des ressources humaines du groupe Auchan, qui avait viré une employée pour une erreur de caisse de 80 centimes d’euros… Quel monde !

Face à de telles violences sociales, quotidiennes et clandestines, il n’est pas abusif de dénoncer un alignement généralisé qui s’apparence à une nouvelle forme de fascisme. Les trois piliers de ce fascisme contemporain : des robots, des vigiles et la laideur en prime. Uniformes en plastique, matériaux de pacotilles et sous-cultures de masse assiègent ce qui reste d’intelligence collective. Depuis le 5 décembre dernier, le recul des ventes de livres dans les librairies indépendantes(4) se chiffre à – 5,6%, tandis que l’achat de consoles et jeux vidéo a encore atteint des records himalayens.

Dans cette ambiance très « fin du monde », que faire ?

Le mot est faible, tant l’implosion du sens est généralisée, sidérale, fractale… Reconstituer des réseaux clandestins, ceux de l’intelligence et de l’amitié comme autant de CNR (Conseil National de la Résistance) pour continuer à cultiver les « passions joyeuses » – disait Spinoza – contre les « passions tristes », à entretenir la joie du savoir et de la connaissance contre l’ignorance qui finit toujours par devenir meurtrière. Mais, comme l’explique Alain Supiot(5), ce n’est pas en restaurant le programme du CNR comme un monument historique que l’on trouvera une issue à notre déglingue sociale, environnementale et culturelle. C’est en repensant son architecture à la lumière du système des objets, de leurs productions et consommations, ainsi qu’au statut accordé au travail. Vaste chantier !

Bonne lecture, en vous souhaitant les meilleures choses pour les temps qui viennent. Nous en aurons besoin ! A la semaine prochaine, ou plutôt à l’année prochaine.

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Notes:

(1) Mad Max est un film australien d’anticipation  réalisé par George Miller, sorti en 1979. La structure narrative est fondée sur le style western, Mad Max se déroulant dans une société violente où la criminalité est en forte augmentation et où le chaos se répand. Mad Max est le premier film d’une série qui se poursuit par Mad Max 2 : Le Défi en 1981 ; Mad Max : Au-delà du dôme du tonnerre en 1985 et enfin Mad Max: Fury Road en 2015.

(2) Serge Halimi : « De Santiago à Paris, les peuples dans la rue ». Le Monde diplomatique – Numéro 790, janvier 2020.

(3) Starbucks Corporation est une chaîne de cafés américaine fondée en 1971. En partie en franchise, il s’agit de la plus grande chaîne de ce genre dans le monde, avec 31 256 établissements implantés dans 78 pays, dont 12 000 aux États-Unis. 

(4) Le Figaro, 27 décembre 2019.

(5) Alain Supiot : Le travail n’est pas une marchandise – Contenu et sens du travail au XXIème siècle. Editions du Collège de France, 2019.

El marxismo cultural como mutación ideológica

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El marxismo cultural como mutación ideológica

Carlos X. Blanco

Ex: https://decadenciadeeuropa.blogspot.com

En la historia de las religiones se suele considerar que una mutación drástica en el cuerpo de los dogmas da pie a un cisma, una herejía o, sencillamente, a una religión nueva. Los criterios para considerar el grado de ruptura, parcial o radical, con el sistema de creencias precedentes, suelen agruparse en dos grandes grupos: internos y externos. Dentro de los criterios internos, hay mucho campo para la discusión teológico-dogmática. Allí, seguidores de lo viejo y de lo nuevo se enzarzan en agrias peleas en torno al verdadero contenido revelado y doctrinal. Dentro de esta discusión interna, no es posible ser neutral. Todos creen, pero creen de diversa manera. Todos comparten una raíz de creencia o un humus de devoción, pero están dispuestos a morir o dejarse matar por aquello en que difieren. Hay tramos y porciones de racionalidad, pero hay siempre un intangible núcleo duro de fe. Así se escribe la historia de los Concilios, y la historia de muchas herejías, herejías que siempre lo son con respecto a ortodoxias triunfantes. Nunca muere una religión del todo, pero todas mutan y se ramifican por más que sean celosos los correspondientes guardianes de la ortodoxia.

Sabido esto, otro tanto se diga de las ideologías. Las ideologías se comportan de muy parecido modo que las religiones. Como ellas, poseen núcleos duros de dogmatismo e irracionalidad, acaso núcleos inexpugnables e imposibles de purgar en el alma humana. Como las creencias trascendentes, las creencias mundanas de signo político, pues eso es ideología, poseen sus núcleos y sus cinturones opinables, sus iglesias y sus aparatos de propaganda, inmunización, represión y mutación. Las ideologías también mutan, y llegan a volverse adversas al cuerpo dogmático de procedencia. Y al igual que sucede con las religiones, las ideologías poseen segmentos de discusión racional que llegan a envolver a su núcleo fundacional, haciendo así que la verdad que acaso pudieran contener, fruto de una discusión e investigación libres, llegue a envenenarse al contagio con el núcleo al que sirven, y al que ellas envuelven.

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Lo arriba expresado, puede aplicarse estrictamente al marxismo como ideología. Muchos han sido los autores que han comparado el marxismo con una religión. Lo han hecho de forma simplista unos, de manera sistemática y certera otros. Acaso sean los propios marxistas quienes mejor conocen los fosos dogmáticos e irracionales de su doctrina, y sean los más exactos en su lenguaje cuando describen "herejías" revisionistas en su propia doctrina, tribunales "inquisitoriales" en el Partido, y "culto a la Personalidad" en el Amado Líder. El marxismo visto como cuasi religión por sus propios correligionarios, posee una rica historia, precisamente en el decurso de las polémicas entre comunistas, en sus sucesivas Internacionales, en sus desviaciones y escisiones. Esto, en el plano interno. Pero el marxismo como ideología también presenta, desde el punto de vista externo (esto es, ante el analista que no es partícipe de su sistema de creencias) una analogía muy notable con las mutaciones de pensamiento religioso. Así como la mutación de ciertos dogmas judeocristianos dio luz al Islam, y la mutación del catolicismo dio pie al protestantismo y de aquí brotaría, a su vez, el subjetivismo ético, podría emplearse parecido esquema con respecto al marxismo como ideología político-social y económica: su mutación en "marxismo cultural" define los tiempos aciagos que nos tocan.  Describir esa mutación sería tarea digna de un estudio mucho más extenso y hondo que el que ahora podemos ofrecer aquí. Pero vamos a señalar algunas hebras y fragmentos.

La mutación del marxismo stricto sensu, con todas sus variantes, en un marxismo cultural, nunca va a ser reconocida internamente por los propios marxistas, ni por las demás ideologías de izquierda en general. En apariencia, habrá un núcleo duro en el marxismo cultural que los viejos marxistas y marxistas stricto sensu nunca aceptarán. Me refiero a la defensa, conservación y potenciación de un sistema económico capitalista de mercado, ampliamente globalizado, dominado por grandes trasnacionales que, parafraseando a Marx, "no tienen patria". En teoría el marxismo stricto sensu es contrario a esta situación del mundo. Para esta ideología, el capitalismo es la raíz de todos los males, y el hecho de que se degraden los cimientos básicos de la Civilización, como la Familia, la Comunidad, el buen gusto o el sentido de la decencia, sería atribuible exclusivamente al poder del Capital. En efecto, Karl Marx describe la lógica del Capital como una maquinaria implacable, deshumanizada, una apisonadora y trituradora que anulará al individuo. La filosofía de Marx, y su crítica de la Economía Política supone un análisis muy fino, insuperado en su época, de los horrores del capitalismo y de su tendencia inmanente. Pero de una filosofía y de una crítica económico-política pronto hubo de surgir una ideología: el Comunismo como proyecto totalitario estatalista.

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Esta tesis es importante, y llevo años explicándosela a mis alumnos. Las ideologías han podido nacer en el seno de sistemas filosóficos, gestarse en el corazón del corpus producido por grandes pensadores, pero llegan a ser construcciones dogmáticas y anti-filosóficas. Así, por vía de ejemplo: la matriz del liberalismo está en Locke, en su filosofía. La matriz del marxismo, ya sea el socialdemócrata o el leninista, está en Marx. Pero las ideologías no son, en modo alguno, filosofías. Toda ideología es una vulgarización y fosilización de ideas filosóficas, de fragmentos de discurso y crítica que, en su momento y en manos de su creador, pudieron ser racionales, saludables, críticos y vigorizantes, pero que en manos de los epígonos, de los sectarios, de los militantes, acaban siendo rosarios de dogmas, muchas veces inconexos entre sí, y desde luego desconectados de la realidad. Las ideas de Marx, vigorosas en el momento en que surgieron de su cabeza y de su pluma, incomprendidas por el movimiento obrero de aquel momento, no son co-extensivas con la ideología de los marxistas. De la misma manera, los escritos del filósofo liberal por excelencia, John Locke, no son los sofismas ideológicos de los neoliberales.

La Filosofía es el trabajo con las ideas, y a la vez es la crítica constante e implacable de las ideologías. Una idea brota de un suelo real de categorías técnicas, económicas, sociales, culturales. Una idea es una construcción social que trasciende la praxis concreta del hombre pero que surge de ella, la expresa y la trasciende. Una idea es una organización de la realidad. En cambio, la ideología es la elaboración desvirtuada, una esclerosis y fosilización vulgarizada de las ideas.

Distingamos al filósofo del ideólogo. Si el pensamiento neoliberal extremista es un no-pensamiento, que hace del mundo un gigantesco mercado, y del hombre y la naturaleza una simple y llana mercancía, y si el Estado –dimisionario- se pliega más y más a los intereses del Gran Capital-, nuestro John Locke no es el culpable. El filósofo inglés contribuyó a organizar ideas de aquel momento suyo en que se desplegaba la mentalidad burguesa capitalista. Y si el llamado socialismo real fue más bien gulag, el terror, la escasez, la represión, Marx no es el culpable. Marx fue el filósofo revolucionario que fraguó sus ideas para interpretar su realidad en otro momento ulterior a Locke, cuando las relaciones sociales habían pasado a otra fase de explotación intensa del hombre sobre el hombre. Las ideas organizan las categorías sociales y productivas, las expresan y critican. En las ideologías, en cambio, hay siempre elementos dogmáticos, promesas salvíficas, una teología de la Historia que nos marca, de manera irrefutable, no científica, hacia dónde ir.

Es por esto que el llamado marxismo cultural es, en el siglo XXI, la Ideología con mayúsculas, la Ideología por excelencia, reuniendo todos los requisitos señalados arriba. Se trata de una ideología dogmática, como todas, que no es –directamente- fruto de ninguna Filosofía previa (y por tanto no posee un padre fundador concreto). El llamado marxismo cultural es el resultado de una mutación del marxismo ideológico, una aberración dentro del mismo. En modo alguno es una Filosofía, ni siquiera una desviación de ideas filosóficas de algún tipo.

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El marxismo ideológico había degenerado de manera notable en el primer tercio del siglo XX. En las universidades occidentales, tanto como en los movimientos obreros, se había llegado a una situación de estancamiento y polaridad. Por un lado, se vivía el factum de la Unión Soviética, la existencia densa y sólida de la Dictadura del Proletariado, un Estado socialista "realmente existente" que a los ojos de muchos, incluyendo parte de la izquierda occidental más culta y humanista, empezaba a parecer como un verdadero horror. El comunismo mostró sus garras. Una cosa era emprender la crítica del capitalismo, tratar de reformarlo o superarlo, pero conservando los valores fundamentales de la Civilización y otra, muy distinta, era apoyar un régimen totalitario, un Estado policial y terrorista que iba a contradecir todo el derecho natural y la tradición humanista de Europa y, en general, Occidente. Los marxistas apoyaron mayoritariamente ese modelo de Estado policial, colectivista y totalitario al que José Stalin le puso su horrendo sello personal. Ese fue un polo, mientras que el otro, más informado y avisado, optó por elaborar un marxismo no soviético, más crítico y "creativo". Al no depender de la tutela de Moscú, este marxismo occidental pudo liberarse de ciertos dogmas, por ejemplo el economicismo. Así, en las universidades europeo-occidentales y americanas se puso un mayor acento en las "superestructuras", esto es, en el análisis de los factores ideológicos que hacen que el capitalismo pueda crear consenso entre la población, no ya sólo entre las clases beneficiadas por el sistema de dominación, sino incluso entre las que cuentan como clases explotadas.

Así fue como gran parte del marxismo occidental dejó los análisis económico-políticos en un lugar apartado, a modo de preámbulo o presupuesto, para desarrollar en su lugar una "transformación" autónoma de las relaciones sociales e ideológicas capitalistas, al margen o a la espera de una transformación económica efectiva. De esta manera algunos autores marxistas llegaron a convertirse en autoridades "de cabecera" en la izquierda occidental. De la Filosofía de Karl Marx se procedió a una purga y elección de contenidos, obviando aquellos que implicaban la acción violenta para asaltar el poder, la acción de masas cada vez más numerosas y pauperizadas y la tesis del determinismo económico. Los marxistas occidentales obviaron, evidentemente, aquello que había que obviar para que la propia realidad no se les viniera encima, aplastándoles las narices, pues eran profecías incumplidas y hechos contrarios a la realidad. Especialmente en la Europa occidental de la Guerra Fría, dos fueron las influencias seleccionadas para producir un marxismo ideológico que reuniera esos dos requisitos de no identificarse con la U.R.S.S. ni con la revolución, y no esperar a que la base o infraestructura económica se transformara para implantar el socialismo. La primera influencia fue la de Antonio Gramsci, y la segunda la de la Escuela de Frankfurt.

De Antonio Gramsci se toma la idea de hegemonía. El filósofo italiano analizó la "totalidad social", esto es, la sociedad capitalista en la cual el Estado no era, simplemente, una suerte de "comité de empleados al servicio del Capital", sino un organismo mucho más complejo que hace que el Capital garantice el consentimiento y la aceptación del pueblo, siendo el Estado, antes que otra cosa, un agente cultural y educativo, un adoctrinador. Si las fuerzas pro-capitalistas, liberales o conservadoras, habían logrado tanto consentimiento en la sociedad esto era, a los ojos de Gramsci, debido a la cooptación de intelectuales "orgánicos", pedagogos, artistas, escritores, así como gracias al control casi absoluto de la prensa, la escuela, la universidad, el ocio y el espectáculo. De cara a la ingeniería social, que es en el fondo lo mismo que el marxismo cultural, ese control es superestructural y garantiza la continuidad "básica" del sistema capitalista.

Gran parte de la izquierda occidental posterior a la Guerra Fría se volvió interesadamente gramsciana, esto es, "idealista". El control de las ideas, la transformación del hombre para una mejor y mayor explotación capitalista del mundo, que habrá de incluir la mercantilización del ser humano a través de varias fases -su barbarización, su animalización, su cosificación- se hizo más y más necesario para la extensión del programa capitalista de dominación mundial. Hubo un momento, en el siglo XX, en que se descubrió que una interpretación "idealista" del marxismo y una colaboración ideológica del sistema con los intelectuales del izquierdismo era lo más efectivo para proceder a un saqueo sin restricciones de la naturaleza y del ser humano, transformando en mercancía todo cuanto era posible imaginar. El capitalismo descubrió que era conveniente disponer de "superestructuras" izquierdistas.

La otra fuente del marxismo cultural es, por supuesto, la Escuela de Frankfurt. Una corriente mutante del marxismo que se volvió explícita en cuanto a intenciones de obtener un "hombre nuevo", especialmente en la versión del ideólogo Herbert Marcuse quien, haciendo mixtura entre el freudismo y el marxismo, profetizó un estado animalesco de la humanidad futura en el cual el trabajo (y todo cuanto para éste autor implicaba de represión, esfuerzo, abnegación, disciplina) quedaría superado a favor del "juego". Una infancia y adolescencia permanentes en un ser humano irresponsable, dedicado permanentemente al disfrute libidinoso. Los límites entre el juego, el trabajo y el sexo se difuminan en esta teoría, con lo cual la cultura humana se vuelve absolutamente viscosa, sin formas. Esa vida convertida en una fiesta adolescente perpetua es la promesa buscada y promovida desde todos los laboratorios de ingeniería social a partir de Marcuse y su mayo del 68. En las degradadas universidades y escuelas de Occidente, semejante alternativa venció sobre el sueño del "Paraíso Socialista" que, a fin de cuentas todavía contemplaba referencias al valor del trabajo y el sacrificio, defensa de la patria y exaltación de la familia. Por el contrario, la Escuela de Frankfurt y el freudo-marxismo de Marcuse pueden considerar que tales instancias fundamentales de la Civilización son "represivas". Así, para millones de jóvenes europeos y americanos a partir de los años 60 del siglo pasado, la lucha "contra el sistema" devino en una abstracta y ciega lucha contra la Represión, y no en una lucha contra las "insufribles" condiciones económicas que hacían que esos jóvenes estuvieran bien alimentados, matriculados en la universidad y guarecidos por los ingresos de sus padres hasta bien entrada la treintena.

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Lo significativo, para nuestro análisis, no es el por qué esos millones de jóvenes semicultos se acogieron a una ideología que, a fin de cuentas, les liberaba de cargas, obligaciones, una visión de la vida cómoda, "des-represiva" que consagraba la existencia del adolescente haciéndola ideal, perpetua y superior, garantizando su vigencia hasta la vejez en una utópica Sociedad del Bienestar ilimitada, "idealista", infantilmente alzada sobre las nubes como los castillos de los sueños y de los cuentos... Lo importante es otra cosa: el marxismo cultural como mutación ideológica, como anti-filosofía, que implica todo ello está llegando a ser el mecanismo de control de pensamiento de masas más eficaz y omnímodo de la historia pues él mismo provoca el consenso universal buscado. Perpetúa las relaciones de explotación entre países y entre clases sociales, siendo ciegos ante ellas, con la ventaja de que apenas quedan "marxistas auténticos" para analizarlas y denunciarlas. La esclavitud de millones de seres en nuestro planeta queda oculta, en cambio, bajo las demandas de feministas de clase media y media-alta con diplomas universitarios y vida "liberada" que piden cuotas de igualdad. La trata de niños o el comercio de armas en el globo, se oscurecen ante las manifestaciones a favor de la aberración sexual por parte de activistas millonarios o la declaración de los derechos humanos de los simios. La degradación de las condiciones laborales de las personas no tiene el mismo "sex-appeal" en el mercado de las ideologías y de la propaganda que los llamados "derechos de bragueta". Y suma y sigue. El marxismo cultural es la mayor mutación ideológica y la mayor nube negra y tóxica sobre las conciencias del hombre y la mayor trampa de la historia. Posiblemente, la mayor apuesta del capitalismo globalizado tendente a troquelar no ya sólo la sociedad, plegada a sus dictados, sino a troquelar y transmutar la propia naturaleza del hombre.

Publicado originalmente en "Naves en Llamas" (2018; nº 2,pps. 23-32)

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Le (tout) grand remplacement, ou l’Age de Fer

Mise en garde: sous ses airs rationnels, ce texte n’est qu’une digression de romancier sur un processus de décomposition-recomposition bien plus vaste qu’un «conflit de civilisations». Où l’on se demande si le remplacement des peuples n’est pas qu’un sous-produit du remplacement de l’homme en soi…

«Répétez!», ou l’inversion homme-machine

Les entrepôts de la grande distribution sont énormes, mais l’espace y est optimisé au millimètre. A chaque nouvel arrivage, la machine affecte un emplacement libre défini par des coordonnées numériques. L’itinéraire des préparateurs dans ce dédale est optimisé lui aussi. Chaque pas compte. Les déplacements inutiles ou trop lents font l’objet d’avertissements.

Le journaliste «infiltré» chez Amazon en 2012, Jean-Baptiste Malet, a donné une description poignante de ce labeur qui éreinte et qui vous vide de l’intérieur. Cela rappelle furieusement Une journée d’Ivan Denissovitch, de Soljénitsyne, sauf que les forçats sont en théorie libres et que les miradors sont devenus virtuels. L’homme et la machine ont inversé les rôles: à elle la tête, à lui les muscles.

L’intégration biomécanique s’est rapidement étendue, mais non sans bugs. Le cariste reçoit l’ordre d’aller chercher tel objet à tel endroit et, comme dans l’US Navy, il doit répéter l’instruction pour prouver qu’il a compris. Mais le logiciel de reconnaissance vocale est encore dur d’oreille. «Répétez!» ordonne la machine. Il répète. «Répétez!» Il répète. «Répétez!» Il répète et répète jusqu’à ce que l’ordinateur comprenne. Il n’a pas le choix. (Nouvelle Revue du Travail, 1/2012) Cette voix synthétique est son seul interlocuteur. Le cariste avouera que rien ne le démoralise plus que cette spirale absurde de la répétition. Son travail est un cauchemar éveillé.

Chez Lidl, selon une enquête de Cash Investigation, «la voix synthétique égrène presque sans fin les ordres à exécuter sans la moindre perte de temps. Le salarié navigue ainsi entre les racks de l’entrepôt sept heures par jour. Et ce n’est pas tout. Le préparateur ne peut prononcer que 47 mots, ceux du langage homme-machine parlé dans les entrepôts de Lidl. Et pas un de plus!». Pour aider la machine à apprendre et à se complexifier, l’homme doit désapprendre et se simplifier. Il prépare ainsi, et il le sait, son propre remplacement. Comme les caissières, dans les supermarchés, qui expliquent aux clients comment employer les caisses automatisées qui leur voleront leur travail.

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Et quoi, nous dira-t-on? On les recasera ailleurs. Si cet ailleurs, d’ici là, n’est pas déjà occupé par d’autres machines… Dans certains secteurs, le remplacement est déjà effectif, en particulier les métiers dangereux. Aux robots démineurs succèdent les chiens d’intervention mécaniques actuellement testés par la police du Massachusetts. Avec leur allure de dobermans squelettiques, ils ressemblent encore, malgré tout, à de vrais cerbères. En matière de robotique, on pratique encore l’anthropomorphisme pour rassurer les masses. Et cela marche: le robot Pepper reproduit suffisamment de bonhomie et d’émotions pour être un compagnon convaincant et l’hologramme Azuma Hikari propose une épouse virtuelle bien moins contrariante qu’une femme de chair et d’os, par ailleurs souvent introuvable. Un baume pour le Japon, empire de la plus haute technologie et de la plus profonde solitude.

Mais ceci n’est que la façade familière d’un univers ésotérique qui s’éloigne rapidement des représentations connues. Visionnaire, Michael Crichton avait décrit dès 2002 dans La Proie les nanorobots en essaims. Une technologie qui peut soit «remplacer» les abeilles par des nanodrones pollinisateurs, soit constituer une arme inarrêtable, comme dans cette vidéo virale de 2017, Slaughterbots qu’il faut visionner jusqu’au bout pour se rendre compte qu’il ne s’agit (pour l’instant!) que d’un avertissement.

Lors de sa toute dernière intervention libre, en 2018, Julian Assange a parlé d’une «vile poussière intelligente» qui s’infiltrerait partout dans nos vies. Décrivant l’ampleur des collectes de données dont nous sommes tous l’objet, il a également prophétisé la transmutation du système économique consistant à «prendre le modèle du capitalisme de surveillance et le transformer en un modèle qui n’a pas encore de nom, un “modèle d’IA”. L’idée est d’utiliser ce vaste réservoir [de données] pour former des intelligences artificielles de toutes sortes. Cela permettrait de remplacer non seulement les secteurs intermédiaires… mais aussi le secteur des transports, ou l’on créerait de tout nouveaux secteurs.»

Sauf une chose: la technologie elle-même. Les technologies, c’est une vieille scie, échappent à leurs maîtres. En 2017, Facebook a dû tirer la prise de son système d’intelligence artificielle après que des «agents conversationnels» eurent créé leur propre langage inaccessible aux humains. Une prochaine génération de démons(1) informatiques finira bien par apprendre comment empêcher les humains d’accéder à la prise ou à l’interrupteur général.

Lorsqu’elle écrivait son mythique conte de science-fiction, Mary Shelley se doutait-elle qu’elle élaborait, avec Frankenstein, non une fantaisie gothique mais une feuille de route industrielle? Car il apparaît que la réalité de ces deux derniers siècles n’a d’autre souci que de concrétiser les visions des antiutopistes. Faut-il rappeler que le terme de robot vient d’un mot tchèque signifiant la corvée et qu’il apparut pour la première fois dans une pièce de Karel Čapek, R.U.R.?(2) Et que la révolte des machines est inscrite dans le scénario depuis le premier lever de rideau? De Čapek à Philip K. Dick, en passant par 2001 l’Odyssée de l’espace, l’hypothèse d’un développement maîtrisé de l’intelligence artificielle, voire d’une cohabitation équitable, ne fait pas partie des options crédibles. N’incriminons pas les machines (ce serait contribuer à leur humanisation): elles ne font que répercuter dans leurs algorithmes la folie des grandeurs des ingénieurs, qui malgré leurs digressions éthiques n’ont jamais su poser de limites à leur expérimentation. L’hybris de l’homme finit par contaminer jusqu’à la matière inerte. A l’origine, l’automate n’est qu’une pâte informe. Il ne fait que démultiplier l’étincelle que lui a insufflée son créateur.

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Au rebut, l’espèce défectueuse!

L’époque des grandes découvertes et des grandes inventions est révolue. Elle fait place à l’ère technologique, c’est-à-dire aux travaux pratiques. Jusqu’au XIXe siècle, le défi aura été de remplir les dernières zones blanches de la mappemonde — et les Européens s’y sont employés avec un zèle sacrificiel. Au XXe, sitôt la terre circonvenue, nous avons commencé de lorgner vers la nébuleuse d’Andromède. Entre le premier homme dans l’espace et le premier pas sur la Lune, il ne s’est écoulé que huit ans. Mars était déjà là, à portée de main… puis, soudain, tout s’est arrêté! Pour l’essentiel, la conquête de l’espace se résume désormais à encombrer les orbites basses avec un appareillage d’observation, de géolocalisation ou de télécommunication orienté vers… la Terre. L’énergie d’expansion humaine s’est inversée, elle est devenue nombriliste. Elle s’est tournée vers un arraisonnement(3) de plus en plus intense du matériau disponible (humain compris) sur la planète mère.

Au XXe, on a percé les secrets de la matière pour immédiatement les astreindre au service militaire, puis au servage industriel, celui-ci découlant de celui-là. La Science désintéressée est bien morte(4), étouffée par la contrainte de l’exploitabilité immédiate. Dans ce bac à sable, les techno-savants infantilisés s’en donnent à cœur joie, le nez collé au guidon d’une compétition démentielle. Oubliés, les idéaux de perfectionnement de l’humanité qui ont animé la recherche depuis la Renaissance, sauf d’une manière pervertie dans la rêverie fascisto-frankensteinienne du transhumanisme façon Silicon Valley.

Aussi la tribu des technologues s’emploie à démontrer les limites de l’humain «naturel», son caractère désespérément défectueux. Arriéré, coupable de tout y compris du réchauffement planétaire, l’homme n’est plus que l’espèce de trop, tout juste bonne à être confinée, décimée ou supprimée. A chaque nouveau pas vers notre remplaçabilité, les avant-gardes scientistes dansent et jubilent(5). Le champion du monde de go jette l’éponge devant les machines? Merveilleux! Les émotions les plus nobles sont réductibles à des éruptions hormonales? Extraordinaire: on peut donc les reproduire! Au bout du chemin rêvé: l’hybridation homme-machine, réservée aux avant-gardes. Mais pourquoi l’intelligence artificielle, devenue autonome, leur accorderait-elle cette faveur?

L’Age de Fer

Sans aucun égard aux gesticulations des mouvements dits «verts», le bétonnage de la planète va bon train. Ces prochaines années, selon les données fournies par l’Association internationale des tunnels et de l’espace souterrain, 1000 tunnels devraient être construits de par le monde pour un investissement total de 680 milliards d’euros. Mille tunnels! Alors que nous nous plaignons d’en avoir déjà trop! Et pourquoi? «Leur objectif vise à faciliter les échanges commerciaux et les déplacements voire à acheminer de l’eau vers des contrées désertiques.»(6). C’est le voire qu’on apprécie dans cette phrase. Et l’on imagine la destination de ces contrées désertiques éventuellement reverdies: agriculture intensive ou infrastructures pour de nouvelles villes. Et pour alimenter cette explosion de voies de communication, et donc de déplacements, où puisera-t-on l’énergie? Tiens, par exemple au large de la Norvège, où l’on vient de découvrir encore un gisement de pétrole «mammouth». Devant des «avancées» aussi gigantesques, la conscience écolovertueuse des jeunes Scandinaves à couettes se tait.

A partir d’un certain degré d’amplitude, la dévastation environnementale devient simplement invisible. Le va-et-vient incessant des pétroliers et porte-conteneurs qui polluent, chacun, comme des millions de voitures? Inattaquable: c’est un pilier de la mondialisation, qui permet à la Chine d’organiser le «Black Friday» toute l’année dans votre boîte aux lettres. La lutte contre l’hyperconsommation restera, il faut bien l’admettre, un sport de riches! Poutine oppose à l’écologisme bobo des Occidentaux l’argument imparable: «Vous qui avez colonisé la planète entière, qui êtes-vous pour interdire aux peuples en développement d’accéder au niveau de vie que vous vous êtes bâti sur leur dos?»

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Bref: à l’heure actuelle, et à un horizon visible, rien ne semble freiner la transformation de l’habitat humain en base lunaire climatisée, et ses habitants en humanoïdes truffés de capteurs et surveillés 24 heures sur 24. Ni les clameurs hystériques des activistes verts, ni la sinistrose des collapsologues, ni l’optimisme des ingénieurs qui nous proposent le développement comme seule solution viable au développement. Aucune force crédible, où que ce soit, ne prêche un aménagement de la planète réaliste et concerté. Pour la société technologique, la nature n’est qu’une tribu d’Indiens. Si elle doit survivre, ce sera dans des réserves.

Mais l’on peut aussi envisager ce processus sous un tout autre angle, réservé aux hallucinés de la science-fiction — qui, on l’a vu, ont le malheur parfois de tomber juste. Et si notre dénaturation de notre environnement n’était pas un saccage mais au contraire une gestation? Si, en sciant notre branche, nous étions en train de bâtir le nid de nos successeurs? Un nid douillet, fait de béton armé, de voies de communication, de relais et de câblages, pour une espèce mécanique qui n’aurait besoin, pour se reproduire et se réparer, ni d’eau, ni d’air, ni de verdure, mais uniquement d’énergie et d’une température modérée. Ainsi que, dans sa phase incubatoire, d’une espèce hôte, suffisamment inconsciente pour lui servir de sage-femme?

Car qui peut se passer de l’écosystème terrestre, hormis quelques organismes primaires? Les machines. A la différence du pétrole, les énergies dites «renouvelables» — eau, vent, lumière — ne nécessitent pas elles non plus de vie organique. Un jour, les derniers humanoïdes planqués dans les cavernes penseront peut-être à cette notion de «renouvelable» avec une sinistre ironie. Elle signifiera le règne éternel du grouillement cybermécanique.

En d’autres termes, se pourrait-il que la relation de paternité entre nous et l’intelligence artificielle soit en réalité un peu biaisée, sinon inversée? Et si la «vie» ne se limitait pas au monde organique? Si une «forme d’activité autoreproductrice» avait choisi notre planète et notre vaniteuse espèce comme pépinière pour une de ses colonies? Si nous étions, justement maintenant, en train de langer et d’allaiter des bébés monstres qui se débarrasseront de nous une fois notre mission accomplie, comme la pauvre fourmi zombifiée par son champignon parasite? Déjà, avec la propagation de la pensée binaire(7), nous intégrons leur langage aussi vite qu’elles intègrent le nôtre.

Cette vision évidemment arbitraire et paranoïaque aurait au moins l’avantage d’expliquer le comportement somnambule des élites économiques, qui traitent cette planète comme si elles disposaient d’un environnement de rechange. Il n’y a pas de rechange, pas d’autre planète en vue, juste le comportement suicidaire d’une espèce parasitée. «Il y a quelqu’un dans ma tête, mais ce n’est pas moi», annonçaient les Pink Floyd en 1973 déjà, dans cet album mystérieux et insondable, The Dark Side of the Moon.

 

NOTES
  1. 1) Les daemons sont ces obscurs microprogrammes qui accomplissent dans votre ordinateur les humbles mais indispensables tâches routinières, exactement comme les diablotins infernaux qui entretiennent la flamme des chaudrons dans les fresques médiévales.

  2. 2) Voir «Robot, dystopie et jardinage» du Cannibale lecteur, Antipresse 177).

  3. 3) Traduction (approximative) du concept de Gestell ou de Heidegger. «Le règne du Gestell est universel et son ambition planétaire, son champ d’expansion dépasse la production d’engins sophistiqués, dépasse aussi la science, va jusqu’à “encercler, la culture, les beaux-arts, la politique, tous nos discours, savants ou triviaux, tous nos rapports aux choses, toutes les interactions humaines”. »

  4. 4) Selon l’épistémologue William Briggs, «la Science et morte et ce qui demeure n’est plus que le pouvoir à l’état brut». «William Briggs: COP21, cent milliards pour un chantier impossible», Antipresse 3 | 20.12.2015.

  5. 5) A ce sujet, la lecture du blog de recherche de l’EPFL est une source d’émerveillement inépuisable.

    1. 6) Cf. Liliane Held-Khawam, Dépossession, éd. Réorganisation du monde.
  6. 7) Roberto Calasso en propose un aperçu vertigineux dans L’innommable actuel, un livre essentiel qui sera bientôt présenté par le Cannibale lecteur.

  • Article de Slobodan Despot paru dans la rubrique «Le Bruit du Temps» de l’Antipresse n° 211 du 15/12/2019.

Remarques sur notre ploutocratie totalitaire

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Remarques sur notre ploutocratie totalitaire


« Non, il n’est pas le président des riches, mais des ultra-riches ». Un ancien président sur son successeur


Par Nicolas Bonnal

Source nicolasbonnal.wordpress.com

La France de base crève de faim pendant que Bernard A. pérore sur le génie de son prince-président (Branco parle très bien de leur symbiose) et déverse les milliards de ses fondations pour retaper en plastique fluo la flèche de Notre-Dame. Il est plus riche que dix millions de Français. Alors il peut leur faire la morale : ne sommes-nous pas dirigés par des ploutocrates humanitaires, par des bolcheviques milliardaires ? Relisez ce qu’écrit Trotski de son collègue l’assassin bolchevique Parvus : il veut devenir riche.

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Parvus entre Trotski et Lénine

Eh bien c’est fait. Notre situation c’est celle de la Russie sous Eltsine. Dix riches sont plus riches que dix millions ou trois milliards de zombies-système, et cela grâce aux banquiers centraux qui n’ont plus qu’à financer la milice, pardon la police.

Je cite Trotski :

Néanmoins, il y eut toujours en Parvus quelque chose d’extravagant et de peu sûr. Entre autres étrangetés, ce révolutionnaire était possédé par une idée tout à fait inattendue : celle de s’enrichir. Et, en ces années-là, il rattachait même ce rêve à ce qu’il concevait de la révolution sociale.

Et au cas où on ne comprendrait pas :

Ainsi s’enchevêtraient, dans cette lourde tête charnue de bouledogue, les idées de révolution sociale et les idées de richesse…

Debord disait que dans notre société les agents secrets finiraient terroristes. On ne le sait que trop.  Et les communistes ont fini milliardaires.

La société actuelle (France, Amérique, Allemagne, etc.)  est une dystopie folle, un dystopie de bande dessinée, installée depuis mettons 2007-2009. Jusque-là nous naviguions en mer connue avec des hauts et des bas, des avantages et des inconvénients, une autorité et une résistance. Depuis c’est Moebius – pas le ruban, la BD. On est en 2019 et la vision de Blade runner a gagné, moins la conquête spatiale (on se contente de la conquête mentale en abrutissant avec les vieilles armes de la radio-télé). C’est Tyrrell au sommet de sa pyramide et le populo métissé dans son climat déglingué en bas Nous sommes tombés dans l’horreur économique prophétisée par Rimbaud dans ses Illuminations (voyez mon texte sur Rimbaud et la mondialisation). Quelques milliers de personnes sont plus riches que huit milliards et les huit milliards n’ont qu’à consommer maigrichon et se ranger en bon ordre, sous la baguette féministe/tribale/écologiste et autre.

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Jack London

La tyrannie LGTBQ convient parfaitement à l’ordre milliardaire, un ordre milliardaire bâti à la fortune du pot par nos banquiers centraux frais émoulus de Goldman Sachs et consorts (quand ils n’en viennent pas, ils y retournent). C’est depuis le martyre des peuples qui se met en place sous la férule de féroces bureaucrates larbins et de milliardaires humanitaires. Un autre visionnaire avait décrit cette dystopie juste après Rimbaud, Jack London. Je cite à nouveau l’auteur de Croc blanc, qui dénonce cette conspiration milliardaire dont le but est de bien faire :

Le ciel et l’enfer peuvent entrer comme facteurs premiers dans le zèle religieux d’un fanatique ; mais, pour la grande majorité, ils sont accessoires par rapport au bien et au mal. L’amour du bien, le désir du bien, le mécontentement de ce qui n’est pas tout à fait bien, en un mot, la bonne conduite, voilà le facteur primordial de la religion. Et l’on peut en dire autant de l’Oligarchie. L’emprisonnement, le bannissement, la dégradation d’une part, de l’autre, les honneurs, les palais, les cités de merveille, ce sont là des contingences. La grande force motrice des oligarques est leur conviction de bien faire. Ne nous arrêtons pas aux exceptions : ne tenons pas compte de l’oppression et de l’injustice au milieu desquelles le Talon de Fer a pris naissance. Tout cela est connu, admis, entendu. Le point en question est que la force de l’Oligarchie gît actuellement dans sa conception satisfaite de sa propre rectitude.

Et comme je citais Rimbaud, voici une de ses illuminations transcendantes :

SOIR HISTORIQUE

En quelque soir, par exemple, que se trouve le touriste naïf, retiré de nos horreurs économiques, la main d’un maître anime le clavecin des prés; on joue aux cartes au fond de l’étang, miroir évocateur des reines et des mignonnes; on a les saintes, les voiles, et les fils d’harmonie, et les chromatismes légendaires, sur le couchant.

À sa vision esclave, l’Allemagne s’échafaude vers des lunes; les déserts tartares s’éclairent ; les révoltes anciennes grouillent dans le centre du Céleste Empire; par les escaliers et les fauteuils de rocs, un petit monde blême et plat, Afrique et Occident, va s’édifier. Puis un ballet de mers et de nuits connues, une chimie sans valeur, et des mélodies impossibles.

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Rimbaud

Si nos milliardaires se contentaient d’une deuxième centaine de milliards pour racheter la Patagonie, la Papouasie ou le Kamchatka… Mais non : ils veulent nous dresser, formater, cloner, remplacer ou nous anéantir, nous les crocs trop blancs, et refaire de la place sur une terre présumée surpeuplée ! Plus ils seront riches, méfiez-vous, plus ils voudront bien faire. Page de droite, le sac Vuitton, page de gauche, la guerre en Libye ou en province ; ils effaceront toute l’Europe pour y créer une réserve d’autruches du Klondike, d’aurochs des Carpates.
Ils sont comme ça.

Chesterton décrit le péril riche vers 1905 au moment où on finance déjà la destruction de la Russie, la mise au pas des Boers et où on prépare la création de la Fed en Amérique. Et cela donne (un nommé jeudi bien sûr, j’ai écrit dessus) :

Les pauvres ont été, parfois, des rebelles ; des anarchistes, jamais. Ils sont plus intéressés que personne à l’existence d’un gouvernement régulier quelconque. Le sort du pauvre se confond avec le sort du pays. Le sort du riche n’y est pas lié. Le riche n’a qu’à monter sur son yacht et à se faire conduire dans la Nouvelle-Guinée. Les pauvres ont protesté parfois, quand on les gouvernait mal. Les riches ont toujours protesté contre le gouvernement, quel qu’il fût. Les aristocrates furent toujours des anarchistes ; les guerres féodales en témoignent.

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G. K. Chesterton

A cette époque les milliardaires US sont déjà tout-puissants et veulent reformater le monde. Cela donnera les guerres mondiales et la Révolution russe. Le bordel ultime, c’est la société ouverte et son Talon de fer, et son anéantissement des peuples, et ses idées chrétiennes bien folles, et sa censure féroce. Soros fut célébré l’an dernier, Greta cette année, notre tête au bout d’une pique sera l’homme de l’année en 2020. Roland Barthes dénonce déjà dans ses Mythologies l’alliance, dans la presse féminine, du capital et des valeurs gnangnan/humanitaires devenues depuis terroristes. L’arme de destruction massive, c’était Marie-Claire.

De cela aussi j’ai déjà parlé. Je vais ajouter une réflexion sur ce socialisme des milliardaires grâce à l’économiste rebelle Charles Hugh Smith qui écrivait dernièrement, écœuré par la montée indécente et ubuesque des indices boursiers : « Un «marché» qui a besoin de 1 000 milliards de dollars en impression panique-argent par la Fed pour conjurer une implosion karmique attendue n’est pas un marché… »

Non, c’est un self-service pour renforcer les rupins humanitaires.

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Charles Hugh Smith

C.H. Smith dénonce donc le « Socialisme de la Réserve fédérale pour les super-riches. » Dans notre dystopie-oxymoron, on a à la fois le triomphe du bolchevisme culturel et des super-riches. La ploutocratie totalitaire et sociétale qui enfonce ce monde en enfer a besoin des banquiers centraux pour imprimer, presser et oppresser des billets et des âmes.

Mais laissons parler le pro américain :

Un «marché» qui a besoin de 1000 milliards de dollars en impression panique-argent par la Fed pour conjurer une implosion karmique attendue n’est pas un marché : un marché légitime permet  la découverte des prix. Qu’est-ce que la découverte de prix ? Les décisions et les actions des acheteurs et des vendeurs fixent le prix de tout : les actifs, les biens, les services, le risque et le prix de l’emprunt, c’est-à-dire les taux d’intérêt et la disponibilité du crédit.

On vit dans un marché virtuel bon pour satisfaire Sylvestre et consorts à la télé en boucle : elle abrutit au-delà du réel, celle-là, fuyez-la, ne vous croyez pas plus fort que la matrice ; ce n’est pas qu’ils trafiquent ce qu’ils vous montrent, c’est que ce qu’ils vous montrent et commentent n’existe même pas. Alors ne discutez pas, et décampez.

Charles Hugh Smith encore, repris par l’inégalable Zerohedge.com :

Les États-Unis n’ont pas de marché légitime depuis 12 ans. Ce que nous appelons « le marché » est une simulation grossière qui obscurcit le socialisme de la Réserve fédérale  pour les super-riches : la grande majorité des actifs générateurs de revenus sont détenus par les super-riches, et donc toute l’impression de la Fed qui a été nécessaire pour gonfler les bulles d’actifs à de nouveaux extrêmes ne sert qu’à enrichir davantage les déjà-super-riches.

La bourse accélère le renchérissement de tout puisqu’elle oblige à baisser l’étau d’intérêt qui tue notre épargne (Lagarde s’en félicite !) et fait exploser l’immobilier et le reste. L’écologie démoniaque et malthusienne fait le reste du boulot : certaines villes finissent sans chauffage en Europe du Nord, la transition énergétique étant la destruction énergétique. De Villiers a bien parlé récemment de la destruction de nos paysages par les monstrueuses et donquichottesques éoliennes. Le Monde a révélé que ce sont les mafias qui les bâtissent.

Smith encore :

Les apologistes affirment que les bulles doivent être gonflées pour « aider » l’Américain moyen, mais cette affirmation est absurdement spécieuse.  La majorité des Américains ne «possèdent» presque aucun des actifs qui génèrent un revenu; au mieux, ils possèdent des véhicules à amortissement rapide, une maison qui ne génère aucun revenu et une police d’assurance-vie qui ne porte ses fruits qu’en cas de décès.

La folie de Powell et consorts est criminelle. Smith ajoute :

L’Américain moyen utilise la maison familiale pour se loger, et donc son prix actuellement gonflé ne fait rien pour améliorer le revenu du ménage: c’est de la richesse en papier, et nous avons déjà vu à quelle vitesse cette richesse en papier peut disparaître lorsque la bulle immobilière n ° 1 a éclaté. (La bulle immobilière n ° 2 glisse actuellement vers le bord de l’abîme.).

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La destruction de la bulle ne serait pas forcément mauvaise. C’est vrai du reste, en temps de crise les pauvres comme moi vivent mieux car les prix baissent ! Smith nous dit :

Si la découverte de prix légitime était autorisée, les bulles d’actifs éclateraient et l’impact réel sur le ménage moyen qui possède des actifs productifs de revenus essentiellement nuls serait minime. Leur maison surévaluée tomberait de moitié, mais comme elle sert toujours d’abri, l’impact économique réel est minime. En ce qui concerne les pertes de la compagnie d’assurance-vie – où est aujourd’hui l’avantage d’un «actif» qui ne paie que lorsque vous décédez ?

Smith ajoute sur ce sain marché :

Si le «marché» est si sain, pourquoi en panique la Fed imprime-t-elle plus de 1 000 milliards de dollars en quelques mois ? Veuillez jeter un coup d’œil aux graphiques ci-dessous: la Fed a imprimé 213 milliards de dollars pour le marché REPO et 336 milliards de dollars pour les achats d’actifs, en un clin d’œil, et la Fed a promis de paniquer encore 200 + milliards de dollars de REPO et 300 autres milliards de dollars d’actifs achats, pour un total de plus de 1 000 milliards de dollars en panique-argent-impression.

Il est possible du reste que l’éclatement de la bulle marché-LGTBQ-humanitaire ne serve qu’à renforcer le pouvoir mondialiste (hypothèse du désespéré Brandon Smith). Dans ce cas-là, il vaudrait mieux ne plus faire de grand pas en avant.

Tant que nous ne les effraierons pas, nous nous ferons tondre. Le devenir de la liberté dans ce monde aura été celui du devenir-mouton.

Mais ne désespérons pas…

Nicolas Bonnal sur Amazon.fr

lundi, 16 décembre 2019

Michel Maffesoli : La « faillite des élites » ou bien plutôt « les tribus contre le peuple » ?

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Pierre Le Vigan:

Michel Maffesoli : La « faillite des élites » ou bien plutôt « les tribus contre le peuple »?

Politologue et sociologue, Michel Maffesoli décrypte depuis des décennies les mouvements profonds de notre société. Ses livres ne laissent pas indifférent.  La violence totalitaire, L’ombre de Dionysos, La contemplation du monde, Le temps des tribus (1988), … tous ont marqué une étape et un approfondissement de ses thèmes. Ses constats n’échappent pas à la subjectivité dans laquelle est pris tout sociologue. Les conclusions qu’il en tire sont elles-mêmes tributaires de ses jugements de valeur. Son dernier livre, la faillite des élites, devrait une fois de plus faire l’objet de polémique. Il le mérite. Exploration de ses thèmes, et analyse critique.

Le thème principal de Michel Maffesoli est, depuis des années, le déclin de la modernité. C’est ce thème qu’il reprend avec Hélène Strohl dans La faillite des élites, sous-titré La puissance de l’idéal communautaire (Cerf, 2019). Le thème, c’est l’agonie de la modernité. C’en est fini de la démocratie parlementaire, du républicanisme civique, des syndicats, qui « se contentent de défendre des privilèges on ne peut plus dépassés » – privilèges qui, en passant, me paraissent une goutte d’eau par rapport aux privilèges des hommes du Capital, mais qui retiennent, sans originalité excessive, l’attention de Michel Maffesoli.

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Selon le sociologue, ce sont toutes les catégories de la modernité qui s’effondrent : l’égalité, la raison, le progrès, les procédures formelles de validation du vrai.  Et on devrait ajouter : la vérité elle-même, et la justice sociale, tout ce qui n’est pas vérifiable à hauteur d’une communauté forcément restreinte, puisque c’est celle d’affinités choisies, les affinités électives. On remarque que les catégories qui disparaissent ne se superposent pas toutes ; certaines sont même antagoniques.  Les vertus civiques de la République, ce n’est pas tout à fait la même chose que la démocratie parlementaire, même si, sous la IIIe République, les deux choses se sont accommodées.

La technologie, nous dit Maffesoli,  devient une technomagie, favorisant la cristallisation des émotions. A la vie de l’esprit succède « la vie de tout le corps » (Miguel de Unanumo). A une élite déconnectée du peuple succède la mise en cause de l’élite par le peuple – et on arrive ici au sens du titre du livre. Le peuple se rappelle soudain qu’il est l’instituant, et que l’Etat n’est que l’institué. Il est temps, pense le peuple, de remettre les choses à l’endroit. Bien sûr. Mais précisément, ce que furent les Gilets jaunes, c’est une demande de politique, et ce qu’ils mirent en pratique, c’est le dépassement des petites communautés (les artisans, les femmes seules au RSA, les autoentrepreneurs, etc) au profit d’un mouvement fédérateur des différences, et largement d’accord sur  un point essentiel, et ce point est politique, qui est le référendum d’initiative populaire, qui est la revendication même d’un pouvoir populaire, c’est-à-dire d’un pouvoir arraché à l’oligarchie.

Résumons le constat de Michel Maffesoli, et d’Hélène Strohl : c’est la primauté de la vie sur le concept. La fin de la modernité, c’est de constater que la vie se débarrasse du concept, Le quod (le réel, la vie, le ‘’comment c’est’’) se débarrasse du quid (le concept, le ‘’ce que c’est’’). La modernité a dénié le sentiment d’appartenance. Elle a abouti à des « phénomènes communautaires paroxystiques et donc immaitrisables ». Il s’agit donc de montrer que « les communautés sont là », et que des élites aveugles ont tort de nier cette réalité ou de s’en inquiéter, ou de combattre ce phénomène. Tel est le thème du livre, et telle est sa thèse.

Qu’en penser ? Tout d’abord, le livre pose plusieurs problèmes de lecture. Ce ne sont pas des problèmes de style : il est  souple, léger, et parfois précieux : « La socialité est la caractéristique de l’entièreté de l’être en commun » peut se dire plus simplement « l’être humain est un animal social ». Inutile d’être précieux quand la langue vulgaire permet d’exprimer une idée, un concept. Comme disait Diderot : « hâtons-nous de rendre la philosophie populaire ». Ce n’est pas brader la philosophie que de la rendre la plus accessible possible.   

Un problème de lecture réside dans le choix de caractères d’imprimerie gris clairs, trop pâlichons.  Mais le problème principal réside – on s’en doute – dans la construction même du livre. Les auteurs passent de jugements de fait à des jugements de valeur. Les jugements de fait sont censés être neutres (telle pomme est rouge). Les jugements de valeur ne le sont pas (telle pomme est meilleure qu’une autre). En outre, nous savons que les jugements de fait peuvent être présentés d’une manière non neutre. Exemple : un verre dit à moitié vide est le même que celui dit à moitié plein, mais la tonalité de l’expression n’est pas la même. Le passage d’un registre à l’autre est donc une difficulté du livre. Ce n’est pas la seule.

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Il y a dans le livre plusieurs thèmes de niveaux différents. Il y a (1) une anthropologie. C’est celle qui affirme, à juste titre, que l’homme est un animal social, et même communautaire.

Il y a (2) une éthique, qui est qu’il faut s’accorder avec ce qui est. Cette éthique est ambigüe : il faut faire avec ce qui est, nous dit-on, certes, mais doit-on approuver pour autant tout ce qui est ? C’est aussi une éthique qui se veut une éthique de l’esthétique.  On peut se demander si elle n’est pas plutôt une éthique de la jouissance (pourquoi pas ? Mais cela pose la question de la disparition du juste et du bien du domaine de l’éthique. Dany-Robert dufour a écrit des choses très pertinentes sur le lien entre capitalisme et idéologie de la jouissance gratuite).

Il y a (3) une vision du monde contemporain : le paradigme  postmoderne (la communauté) aurait succédé au paradigme moderne (l’individu). Mais cette vision est-elle exacte ? Prend-t-elle en compte tout le réel ? Gilles Lipovetsky, qui n’est pas non plus un sociologue mineur, et Hervé Juvin, et bien d’autres observateurs ne souscrivent pas à cette analyse : ils estiment que notre société reste individualiste, sous des formes évidemment renouvelées depuis plusieurs décennies. Enfin (c’est le 4e point), les auteurs avancent une philosophie : « Les idées ne sont que la transcription des perceptions sensibles, des affects ressentis (…) » (p. 71). C’est la reprise des conceptions de David Hume. Nos auteurs auraient pu en dire plus sur cette épistémologie qu’ils font leur. Et qui est très aventurée et difficilement soutenable.

Les auteurs voient le monde contemporain  comme un grand tournant et une grande libération : libération des concepts, libération de la raison, libération du cogito individuel. C’est la grande braderie des concepts. C’est aussi l’adieu à Kant. Le phénomène se débarrasse du noumène. La vie se débarrasse des théories sur la vie.  Le réel se débarrasse des essences. Le sensualisme succède au rationalisme. Les catégories de la liberté et de l’égalité s’épuisent, au profit de liens choisis, et de valeurs choisies, ce qui pose un  problème : nous reste-t-il, en tant que Français, quelque chose en commun ?

Point crucial : le peuple se débarrasse des élites. Ou il essaie. Il s’en débarrasse mentalement. Il les laisse tourner à vide. [Mais nos auteurs ne voient pas que l’on ne débarrasse pas si facilement des élites. Elles continuent de mettre en place leur société postnationale et liquide]. La réalité sociale foisonnante reprend  conscience d’elle-même, et veut en finir avec les catégories d’ordre, de raison, de justice, qui descendent de l’Etat et des élites rationnelles vers le peuple. Un peuple assujetti devient enfin rebelle.  Les instincts reprennent le pas sur la raison. La nature et la surnature (les mythes, l’imaginaire…) prennent le pas sur le culturel et le social normé (les lois, le respect des normes, la convenance…). Ce qui est archétypal (les résidus de Pareto) prendrait le pas sur ce qui rationnel (les dérivations de Pareto), sur ce qui s’objectivise, s’explique, se justifie, y compris les idéologies se piquant de logique. Les dérivations, qui sont les idéologies modernes, sont en train de mourir. L’anthropologie profonde de l’homme, communautaire, aventureuse, jouisseuse, prend sa revanche sur la raison, triste, mécanique, prévisible, travailleuse (trop travailleuse), sérieuse (trop sérieuse).

Le plaisir de l’être-ensemble prime sur le devoir-être du vivre-ensemble. Les liens choisis priment sur les liens imposés, sur les cohabitations forcées, sur les relations transactionnelles, celles qui reposent sur un contrat juridique. Au contrat social entre individus, succède le holisme. La socialité précède l’individu. Le feeling supplante le rationnel, et le calculé. L’homme retrouve sa dimension animale, trop oubliée. L’être humain se rappelle qu’il est un être-avec-autrui, un être en compagnie. Le contrat social explicite cède la place à un pacte implicite, qui est celui des affects.

Le pacte (postmoderne) est fondé sur le consensus, tandis que le contrat (moderne) est fondé sur le compromis. L’écrit cède la place à l’oral. Le contrat était tendu vers le long terme, le pacte concerne le court terme, le présent. Et il concerne la tribu, ici et maintenant. Le présent remplace le projet tout comme il remplace le progrès. Même la sexualité change : on s’accouple moins, on se lèche davantage.

Il serait toutefois raisonnable de ne pas en faire trop. Que les tribus libertines et clubs échangistes « participent à la cohésion sociale », comme l’affirment nos auteurs (p. 144), c’est tout de même beaucoup leur prêter. Par principe, il est très bien que chacun puisse vivre ce qu’il a envie de vivre entre adultes consentants. Mais de là à en faire une opération de salut public de la cohésion sociale, c’est certainement excessif.  On aurait plutôt vu, dans ce rôle de facteur de cohésion sociale les retraités, souvent de milieu populaire, qui donnent gratuitement leur temps à des associations de soutien scolaire de quartiers HLM.

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Le bonheur postmoderne continue d’être décliné par les auteurs : le commerce des biens, le commerce des idées et le commerce amoureux se rejoignent et se fondent en un seul ensemble. A son petit Moi, l’homme préfère le bain dans une communauté, le « Moi commun », le « moi transcendant » dont parle Novalis, c’est-à-dire le moi qui nous porte au-delà du moi, la communauté comme immersion entre pairs. « La perfection n’est pas dans un ‘’moi’’  tout puissant, mais dans un ‘’nous’’ ouvert, en constante évolution ». C’est la communauté comme élargissement du soi.

L’individu n’étant plus seul, il n’est plus assujetti à un principe unique, incarné par l’Etat. C’est ce qu’Alain Bihr a appelé « le crépuscule des Etats-nations ». A l’Etat providence, vertical, succède une solidarité horizontale : co-location, co-working, co-voiturage, etc. Tout cela réjouit Maffesoli. Ce sont bel et bien le retour à des partages horizontaux, choisis, parfois fraternels. Parfois. Car il y a des exclus de cet Eden communautaire.  Le jardin des délices des uns peut être le jardin des supplices des autres. Et la jouissance des uns peut être cruelle, comme le rappelle Dany-Robert Dufour.

Les très pauvres, et en particulier les démunis en bagage culturel, ne bénéficient pas de tels outils, les co-ceci et autres uberisations plus ou moins marchandes, qui supposent maitrise de l’informatique, d’internet, de l’anglais basique. Ces coopérations horizontales entre pairs excluent, par principe, les non pairs, les isolés, et l’isolé n’est pas le cadre célibataire de centre-ville, c’est le retraité dans un village sans commerces, c’est le banlieusard d’un quartier difficile, c’est l’habitant de la cité Charles Hermitte à Paris, porte de la Chapelle, dans un quartier que tout le monde évite du fait de la présence de camps de migrants et de l’insécurité. La réduction de plus en plus nette des moyens de la politique sociale, et de l’Etat providence, qu’il serait plus juste d’appeler Etat protecteur (qui protège matériellement des accidents de la vie) laisse toute une part de la population, surtout française, sans aides, sans soutien, car, justement, tous n’ont pas accès aux solidarités horizontales, organiques. Les Français sont souvent plus désocialisés que les immigrés, dont la culture  traditionnelle inclut une fratrie élargie, des solidarités de village, etc. Nous sommes plus désocialisés car plus modernes. Déclin de l’Etat protecteur : pourquoi ? Bien sûr parce que la priorité de nos sociétés est le profit de grands groupes. Mais pas uniquement. Cette réduction des moyens de la politique sociale, surtout par rapport à l’explosion de la précarité, vient de l’immigration, car c’est elle qui rend inépuisables les besoins sociaux. La poursuite de l’immigration, c’est forcément plus d’insécurité sociale pour les Français, et pour les immigrés  les plus intégrés, c’est-à-dire ceux qui travaillent.

En ce sens l’Etat social, l’Etat protecteur a bien des défauts mais son principal défaut serait de ne pas exister, c’est-à-dire de laisser la place à la loi de la jungle de la société de marché. Et ce n’est qu’en recentrant cet Etat protecteur sur la base d’une préférence nationale, dissuasive de l’immigration, qu’il peut être sauvé, ainsi qu’en édictant des contreparties entre droits et devoirs. 

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Les auteurs de La faillite des élites, croyant faire un constat, disent des vérités, mais des vérités partielles, Ils avancent masqués. Ils ont un projet idéologique. C’est leur droit. Mais ce projet n’est pas affiché. Ils nous disent : à l’unité ontologique succède un pluralisme ontologique. « Tout coule. Rien n’est jamais à la même place. Mais le flot est incessant ». Pour être très concret, un pluralisme des valeurs succède à une unicité des valeurs, celles incarnées par la société et par l’Etat, garant de celle-ci. Une sorte de polythéisme vécu, pratique,  reviendrait, sans doute dans le prolongement inconscient du christianisme médiéval et du culte pluriel des saints, tant il est vrai, comme disait Joseph de Maitre, que le christianisme – on comprend qu’il s’agit ici du catholicisme – est un « polythéisme raisonné ».

Pour Maffesoli, l’Etat français est fondamentalement unitaire. Il est « monothéiste ». Mais l’auteur se trompe. L’Etat est devenu communautariste. Il n’est plus une unité. Ne croyant plus en la France, l’Etat n’est plus que le garant d’une « société inclusive », c’est-à-dire une société dans laquelle chacun vient avec sa culture, ses croyances, sa foi  mais n’envisage pas d’aller avec empathie vers le pays d’accueil, de marquer son affection (oui, il faut ici employer ce terme) envers la France et envers les Français. Ce pas vers la France, certains étrangers le font quand même encore, par exemple en donnant à leurs enfants un prénom français, mais ce pas est de moins en moins fréquent dans la mesure même où l’Etat, an nom du « respect des différences », ne fait rien pour l’encourager. D’où la panne de l’assimilation, devenue impossible quand la masse des étrangers est supérieure, dans beaucoup de quartiers, à la présence des Français de longue filiation, ceux qui constituaient encore, dans les années 1950, 95 % de la population, la France n’ayant jamais été depuis 1500 ans un pays de grande immigration. 

La France devient ainsi une superposition hasardeuse de « tribus », un collage maladroit entre différentes communautés, qui s’ignorent, dans le meilleur des cas, ou s’agressent, dans le pire des cas. Finkielkraut a parlé de « balkanisation » de la France. Comment lui donner tort ? D’où une question : cette France rêvée par Michel Maffesoli, la France des tribus, n’est-ce pas une France déjà là ? Celle dans laquelle nous vivons ? N’est-ce pas la France actuelle ?

Maffesoli voit cette France qu’il dit « heureuse » et qui celle de « petite poussette » de Michel Serres, autre optimiste de principe. Dans cette France « débarrassée » des idéologies, des récits, des systèmes d’explication du monde, voire de transformation des sociétés, on aborde sans « préjugés », et plus encore sans recul, les faits du présent sans les hiérarchiser. On se laisse balloter par les émotions, et terrorisé par la marche du progrès. Car la postmodernité n’échappe pas au culte du progrès. Ceux qui pensent que « c’était mieux avant », au moins dans certains domaines, sont toujours ringardisés. « On n’est plus au Moyen-Age… »

Il y a ceux qui sont « en retard », « arriérés » et ceux qui sont « dans la vague », dans le mouvement. « Il faut avancer » : c’est la phrase qui réconcilie les modernes et les postmodernes. Les modernes voulaient avancer vers une société du travail, ou vers une société plus juste, les postmodernes veulent avancer dans la décontraction, l’esprit « cool ».

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« Pas de prise de tête » est leur slogan. On passe du « dogmatisme doctrinal » à un pluralisme des opinions, nous dit Maffesoli. Ici, on s’interroge. Pluralisme ? Depuis plus de 50 ans, la liberté d’opinion n’a cessé d’être réduite par des lois, et tout autant par un journalisme-flic, dénonciateur, inquisiteur, qui somme untel de « s’expliquer », et de faire repentance pour une phrase trop spontanée, qui accuse un tel de n’être « pas clair » parce qu’il tient des propos nuancés sur des sujets où l’outrance est obligatoire, etc. Un trait d’humour à propos de l’obsession des violences sexistes amène Finkielkraut à devoir s’expliquer, lui aussi, à bien préciser que c’était de l’humour, un pas de côté pour parler avec un peu de distance de sujets « chauds ». Liberté d’opinion et d’expression à l’époque actuelle, en France ? C’est une plaisanterie que de croire cela.

L’homme et l’œuvre sont liés désormais dans une même réprobation. Doit-on interdire le visionnage des films de Polanski parce qu’il aurait abusé d’une jeune fille il y a quelques décennies ? Faut-il rééditer tout Céline ? Telles sont les questions qui sont « débattues ». Absurdité : car il n’est nul besoin de trouver l’homme Céline sympathique, pas plus que l’homme Matzneff, pour trouver leurs œuvres de qualité. Oui, le Taureau de Phalaris est un bon livre. Oui, en même temps, la complaisance vis-à-vis de la pédophilie est déplorable. Oui, lire Céline est nécessaire pour comprendre notre époque, oui, Céline était geignard, parfois odieux, et pas trés digne. Le talent n’excuse rien, c’est entendu, mais il faut toujours distinguer l’homme et l’œuvre.

Nous en sommes là, à l’heure de « l’envie de pénal » de tous contre tous, notre époque n’ayant pas peur du ridicule. On passe de la pensée qui descend des hauteurs universitaires au « gazouillement » des blogs et de twitter. Seulement, twitter, ce n’est tout de même pas du niveau des articles de  Chateaubriand, ou de Maurras (qui détestait le premier du reste).

Bien entendu, il n’est pas interdit de relever quelques aspects positifs aux relations telles qu’elles se mettent en place dans le monde postmoderne. La notion d’empathie, ou d’intropathie (connaissance de moi-même en tant que je suis affecté par autrui), supplante celle d’intérêt. Un exemple particulièrement intéressant est celui des groupes de pairs. Ce sont des groupes d’entraide dans lesquels une ou plusieurs  personnes étant passés par une problématique (alcool, drogue, autisme, dépression,…) et ayant trouvé des solutions aident les autres à cheminer dans le même sens de diminution d’une souffrance et/ou d’une dépendance pathologique. Ce peut être par exemple, des anciens alcooliques, des usagers de drogues engagés dans des pratiques de réduction des risques (de transmission de virus notamment), des anciens anorexiques, etc. C’est un exemple probant du passage de solidarités mécaniques (comme la redistribution sociale effectuée par l’Etat et les pouvoirs publics) à une solidarité organique (venant des gens eux-mêmes). Qu’il y ait chez l’homme des ressources émotionnelles (un « ordo amoris » dit Max Scheler) qui puissent à la fois l’ouvrir aux autres, et le mettre en correspondance avec un ordre divin, c’est une réalité. Mais elle ne peut suffire à assurer une solidarité entre tous, et à protéger les plus faibles, qui sont les plus désocialisés.

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Maffesoli en conclut que le « prétendu individualisme » est un fake (un trucage). C’est un « fake à l’usage d’histrions déphasés ». A l’individualisme aurait succédé une autre époque, celle des identifications multiples. Les identifications multiples, plurielles ne sont pourtant pas une nouveauté. Chacun est célibataire ou en couple, a une fonction professionnelle (on ne dit plus « un métier », ni une profession), a tel engagement, a telle passion, tel passe-temps. Bref, un ingénieur n’est jamais qu’un ingénieur, ce peut être aussi un homme à femmes, ou un homosexuel, un communiste, ou un identitaire, un chasseur, un grand voyageur, un amateur de bons vins, un calme, un nerveux, un sanguin, tout ce que l’on voudra. En même temps. C’est une banalité : chacun a différentes facettes de sa personnalité.  

Le constat de Michel  Maffesoli, c’est la grande migration des us et coutumes. Il  s’en réjoui. Nous avons quitté les eaux de la modernité pour entrer dans celles de la  postmodernité. En tout cas d’une certaine postmodernité, solidaire dans l’entre-soi, communautaire entre gens du même monde,  décontractée, « tranquille » (chacun connait l’échange « Ca va ? Oui, Tranquille »), apaisée. C’est le temps des bobos [mais on sait qu’il y a une autre postmodernité, qui est celle des Gilets jaunes, qui est celle de la colère spontanée du peuple].

« Non, ce n’est plus l’individualisme qui prévaut » est le titre d’un chapitre du livre. Si c’est le principe qui fait l’histoire, comme le pensait Karl Marx, c’est donc, avec la postmodernité, le principe postmoderne, celui des liens horizontaux,  qui fait une histoire postmoderne. C’est du reste l’unique point sur lequel  Maffesoli donne raison à Marx.

De fait, la fin de l’efficacité d’un principe marque son déclin. Et une époque est effectivement toujours déterminée par un principe, ou, mieux encore, un paradigme. De même, la fin d’une époque, c’est toujours la fin du principe qui l’a générée. Dans le monde postmoderne, ce qui est donné à la communauté est pris à l’individu. C’est la communauté qui devient la référence, l’individu, lui, est éclaté entre diverses identités. « Ne me demandez pas qui je suis et ne me dites pas de rester le même, c’est une morale d’Etat Civil, elle régit nos papiers »,  disait Michel Foucault (L’archéologie du savoir). Les identités sont de plus en plus multiples, elles deviennent floues et de plus en plus changeantes. Au-delà des identités, il y a des identifications, et il y a des « sincérités successives ». La conséquence de cela, c’est l’éclatement du moi. On passe du « je pense » cartésien au « je suis pensé » nietzschéen. C’est le motif de la pensée postmoderne connue aux Etats Unis sous le nom de French theory (qui était d’ailleurs moins une théorie qu’une mode intellectuelle).

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Le bricolage des mythes remplace le mythe du progrès. L’idéologie du progrès, le scientisme, le positivisme avaient amené à l’éclipse des images mythiques au profit des croyances en la science, amenant à des connaissances claires, précises, chiffrées des phénomènes. Jacob Taubes, dans ses deux livres qui évoquent Carl Schmitt (En divergent accord et La théologie politique de Paul), a noté que le mythe, qui parle au corps a été remplacé par la croyance en la science, qui parle à la raison. Selon Maffesoli, un mouvement de balancier nous ramène vers le corps, nous reconduit vers les sens, vers ce qui est incarné, plus que vers ce qui est prouvé (scientifiquement). Le même mouvement qui nous éloigne des progressismes nous éloigne des messianismes (juif, chrétien, musulman). Aux messianismes qui nous font miroiter une vie future parfaite, succède une sagesse qui renoue avec l’antique, avec Epicure et Lucrèce, et avec la Stoia (le Portique, l’école des stoïciens), et qui consiste à faire avec ce qui est, et à s’accorder aux autres tels qu’ils sont, et avec soi-même tel que l’on est (ce qui est sans doute plus difficile).

Il s’agit non seulement d’accepter, mais d’avoir plaisir de vivre dans la « fédération bruissante » (Maurice Barrès) de la communauté des hommes. Il s’agit de réévaluer le quotidien. Les tribus urbaines remplacent l’homme seul dans la foule. Les techniques qui avaient désenchanté le monde le réenchantent, en créant des lieux symboliques via internet. Et des liens à la suite des lieux. Les cybertribus « développent des pratiques communautaires qui peuvent être rangées sous la rubrique de l’immoralisme éthique » (morale et éthique étant le même mot dans des langues différentes, l’expression de Maffesoli est tautologique).

« Le néo-tribalisme postmoderne pourrait permettre une coexistence des appartenances au sein d’un même individu […] », écrit Hélène Strohl. Il permettrait que l’individu ne soit pas assigné à une seule identité. Ce n’est pas douteux, mais ce n’est pas du tout nouveau. L’identité professionnelle, par exemple, s’est toujours superposée à d’autres identités, ou identifications, religieuse, sexuelles, artistiques, etc. Toute la théorie de Ricoeur sur l’identité idem et l’identité ipsé, réunies dans l’identité narrative, explique cela. Ce qui est frappant avec Maffesoli, c’est que les communautés sont toujours là pour permettre à l’individu de s’épanouir. Qu’un individu soit un faisceau d’identités (culturelles, professionnelles, sportives, amoureuses, etc), cela n’est pas douteux. Personne n’y voit d’inconvénient, à une condition toutefois : il y a aussi des conditions politiques à l’épanouissement de l’individu. Et c’est là le grand impensé de Maffesoli. Or, ce n’est pas simple d’éviter la question du politique. Le court terme, qui est le plaisir de l’individu, peut être en contradiction avec le long terme, qui est la préservation d’un cadre de civilisation, et de repères culturels commun à toute une société, à toute une nation, qui, par définition, est une construction à long terme. Et c’est bien là le problème auquel se heurte Maffesoli. Du moins auquel il devrait se heurter, en toute logique. Mais il ne s'y heurte pas car il l’esquive. Il l’esquive car il n’aime pas la logique, et parce qu’il n’est pas frontal, en bon postmoderne qu’il est.

La condition d’existence des communautés choisies, affectionnées par Maffesoli, c’est la pérennité d’un certain cadre civilisationnel. La juxtaposition des communautés, cela ne marche qu’un temps. Cela ne marche plus quand la communauté nationale cesse d’exister. Nos auteurs nous disent qu’il faut accepter la coexistence de plusieurs appartenances. On peut évidemment être un bon Français et être attaché à son village natal, qu’il soit européen ou extra-européen. Mais que se passe-t-il quand les appartenances se disputent un même individu ? Ou quand ces appartenances se hiérarchisent de la façon suivante : la France pour les droits sociaux et les avantages, la patrie d’origine pour les affections ? Que se passe-t-il quand l’appartenance à la France n’est mise en avant que pour les avantages sociaux, matériels, le droit au logement, la gratuité des soins, etc, et que le moindre événement sportif dit que les attachements ne vont jamais à la France, voire sont dressés contre elle ? Chacun sait que ces cas ne sont pas rares. Et ils sont tout le problème de l’immigration.

Maffesoli explique que le postmoderne est le retour du prémoderne. C’est effectivement vrai. C’est le retour à une situation anténationale, avant les Etats-nations. Or, être Français, c’est, qu’on le veuille ou non, appartenir à une nation. A une nation politique. Que celle-ci ait vocation à intégrer une « Europe indépendante », comme disait le général de Gaulle, par la création d’une confédération préservant un certain art de vivre, ce que l’on appelle une civilisation, cela ne fait, pour moi, pas de doute. Encore faut-il ne pas revenir au temps des tribus et des allégeances féodales. Si elles préparent un Empire, c’est toujours l’Empire des autres. C’est la domination de notre pays par un Empire étranger qu’elles préparent. Une domination pas forcément physique, mais qui pourrait bien être mentale. Et qui peut être celle dont il est le plus difficile de se libérer.  

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Le pluralisme ontologique, ou tout simplement ce que Max Weber appelait le « polythéisme des valeurs » amène à ce qu’il ne soit plus possible de croire au Progrès – qui est par définition unique, comme un train lancé sur une seule voie. Le contraire du progrès n’est évidemment pas la régression, ou la réaction, bien qu’il soit nécessaire et sain de réagir : la réaction à un médicament veut dire qu’il fait de l’effet. Reste à savoir si c’est le bon effet.   Qu’est-ce que le Progrès ? Avec un grand P cela veut dire l’idéologie du progrès, et même la religion du progrès. Le contraire du Progrès, ce n’est donc pas la régression, c’est le sens des limites. Le contraire de l’idéologie du progrès, c’est de penser aussi aux dégâts du progrès, c’est de refuser la démesure (hubris). C’est le sentiment que le progrès ne peut être sans fin, qu’il ne peut être un mouvement vers toujours plus d’arraisonnement du monde, c’est préférer Alain Finkielkraut à Philippe Forget (et Alain de Benoist à Guillaume Faye). C’est se retrouver dans les idées de Jean-Paul Dollé plus que dans celles de Luc Ferry (au demeurant excellent pédagogue). C’est préférer  Robert Redeker à Michel Serres (d’un optimisme déprimant), et Sylviane Agacinski à Frédéric Worms (que l’on préfère en spécialiste de Bergson plus qu’en spécialiste de la bioéthique). Or, ce qui est très caractéristique de Michel Maffesoli, c’est que, se réjouissant de ce qu’il croit être un abandon de l’idée de progrès, il n’entre pas dans les débats évoqués ci-dessus. Ce qu’il refuse de penser, c’est que c’était mieux avant, en tout cas dans certains domaines : l’éducation, la civilité, la sécurité, le prix des logements par rapport aux salaires, la qualité de vie sociale, même et surtout dans les quartiers populaires, le contrôle plus léger dans tous les actes de la vie, auquel a succédé un flicage généralisé, l’élitisme républicain qui vaut mieux que l’ascension sociale parce que l’on est issu « de la diversité » [ce qui veut dire en clair que l’on n’est pas d’origine française]. C’était mieux avant dans tout ce qui compte pour les classes populaires, celles qui ne peuvent se protéger de l’ensauvagement des quartiers de banlieues.

Renversant la charge des responsabilités, Maffesoli estime que « l’islamisme est relié à l’absence de bienveillance [des pouvoirs publics] envers les religions de communautés immigrés ». Etonnante remarque. N’a-t-il pas vu les affichages « bon ramadan », pour la rupture du jeune,  sur les panneaux de Paris et d’autres grandes villes (et même une vidéo des joueurs du PSG !), ces grandes villes fiefs des « bobos », bastions du politiquement correct et de la pensée unique « diversitaire », et vivier de l’électoral Macron ? Ces grandes villes dont la plupart ne souhaitent à personne de « joyeuses Pâques ? Selon Maffesoli, il faut répondre à l’islamisme et aux autres extrémismes par… le relativisme, par exemple en leur laissant la possibilité de défiler. On croit rêver. Car s’il y a une différence entre l’islam et l’islamisme (je le crois, au sens où l’islamisme est un djihadisme), c’est bien que l’Islam est une religion et une civilisation (il faut alors mettre une majuscule : Islam), et si l’islamisme est autre chose, il est une volonté conquérante d’islamisation forcée. Nous savons cela. Il fut un temps où le christianisme aussi était expansionniste. Faut-il donc autoriser de telles manifestations islamistes ? Croit-on que cela ne nous mènerait pas tout droit à la guerre civile ? Nos sociétés ne sont-elles pas déjà excessivement relativistes ?

Exemple. Le respect de la possibilité de pratiquer sa religion est assuré en France, alors que ce respect n’a pas son équivalent dans les pays musulmans (être chrétien en pays musulman est souvent impossible), c’est déjà beaucoup, et c’est très bien comme cela. Nous acceptons une non réciprocité. C’est énorme. Et il faudrait aller encore plus loin, nous dit Maffesoli ? On rêve, ou on fait un cauchemar, car on sait comment se terminent les capitulations, par des capitulations encore plus grandes. Il serait encore mieux que notre tolérance  soit comprise comme un acte de générosité, et non de faiblesse. Ce serait folie que d’aller au-delà. La générosité deviendrait asservissement et masochisme.

Maffesoli cite justement, en l’approuvant, Goethe (Le second Faust) « la frisson sacré est la meilleur part de l’humanité ». Il faut donc proposer du sacré, de la mystique, de l’engagement passionné, qui est tout le contraire du relativisme, de l’extrême tolérance que propose Maffesoli. On ne répond à un plein – et l’islamisme est un plein, et l’islam tout court aussi – que par un autre plein. Certainement pas par le vide des valeurs d’un laïcisme pitoyable, certainement pas par un patriotisme mou, certainement pas par des incantations à une République en oubliant de dire que la république est admirable quand c’est la République française, et que n’avons que faire d’une république de nulle part.

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La fin de l’idée de progrès, c’est la fin de la Raison surplombante, et c’est la fin de la verticalité. Il s’agit désormais non pas de contracter avec l’autre (le contrat social), mais de le renifler, car si l’homme n’est pas qu’un animal, il est aussi un animal, affirment  les auteurs. Bien sûr,  personne de sensé ne dit le contraire. Du reste, c’est l’évacuation de l’animalité de l’homme qui a abouti à la bestialité (dans les camps de concentration), dit Maffesoli. Le point de vue est unilatéral. L’animalité est du côté du bien, la culture du côté du mal.  Mais la nature de l’homme, c’est sa culture. Quant à l’animalité, elle est non pas du côté du bien, mais au-delà du bien et du mal.

La modernité était selon Maffesoli marquée par la verticalité, la postmodernité est marquée par l’horizontalité. La modernité connaissait les religions, la postmodernité connait le sacral. Ou le reconnait à nouveau, comme avec les prémodernes Mais que dit Maffesoli de la place croissante de l’islam en France ? Ce n’est pourtant du sacral, c’est une religion au sens classique, avec ses rites. Silence de l’auteur sur cette contradiction entre sa théorie et ce que nous voyons.

« L’assomption de l’individualisme était l’essentielle spécificité de l’époque moderne », et la montée des communautés serait le signe de l’entrée en  postmodernité.  Mais de quelles communautés parle-t-on ? M. Maffesoli et Mme Strohl ne les voient pas comme une façon de rétablir des continuités, des permanences. Ce sont des appartenances éphémères, et ce ne sont pas toujours des appartenances. « Les communautés soulignent l’importance du nomadisme comme structure anthropologique indépassable ». Le nomadisme « est une structure anthropologique retrouvant une vigueur nouvelle » dans les moments de décadence (p. 167). En haut, le nomadisme des traders, d’un hôtel international à un autre, en bas, le nomadisme des migrants, des « réfugiés », vrais ou faux, des « mineurs isolés » dont on conviendra qu’ils sont rarement isolés, et souvent moins mineurs qu’ils le disent.

Que le nomadisme soit le principal vecteur d’une communauté retrouvée laisse pour le moins dubitatif. Ce fut certes le cas au Sahara, avec les bédouins, ou dans les tribus mongoles. Cela fait tout de même un certain temps que, en Europe, les communautés se forment sur d’autres bases.

Dans le même temps, Maffesoli manifeste sa sympathie pour les Gilets Jaunes. Ceux-ci représentent une forme de retour du lien social. Des gens qui étaient isolés (mais comme nous vivons dans une époque postmoderne, nous avions cru comprendre à la lecture de Maffesoli que les isolés n’étaient que des faux isolés ?) retrouvent le plaisir du lien social. Les  auteurs ont raison de saluer ce phénomène. Toutefois, on ne voit pas le lien entre ces nouvelles communautés que furent les Gilets Jaunes et le goût du nomadisme. Tout au contraire, les Gilets Jaunes témoignent du besoin de retrouver des repères, de ne plus se sentir étranger chez soi, de retrouver des stabilités et des ancrages. C’est tout le contraire du nomadisme qui caractérise les « bobos » urbains de centre-ville. Les communautés de Maffesoli sont des communions de circonstances. Les auteurs l’écrivent : « L’idéal communautaire est présentéiste ». Les solitaires « ne sont jamais isolés », croient savoir les auteurs (p. 154), car ils sont toujours en lien avec les autres, devant leur ordinateur, leur tablette, ou leur smartphone. Singulier optimisme. Combien de nos compatriotes vivent tristement de contacts virtuels déréalisants ? Ou d’une solitude complète. Combien de personnes agées que leurs enfants ne visitent jamais ? Au lieu de se pencher sur cette hypothèse comme quoi l’individu isolé serait toujours une réalité très répandue de nos sociétés, nos auteurs renvoient la critique de la vacuité de certains tribus à du ressentiment et à de la jalousie devant la « chaleur » du groupe. Eh bien oui, rollers, trottinettes et autres véhicules bizarres, aussi vite apparus que démodés, et encombrant les trottoirs, me paraissent participer du crétinisme à roulettes, dont la panoplie comporte généralement un casque, pour écouter sinon de la musique, du moins du « son ». De même, airbnb, blablacar et autres réseaux sociaux sont approuvés sans réserve par Maffesoli. Ils seraient une reliance. Ils « constituent la communion des saints postmoderne ». Rien que cela. On  n’est pas obligé d’être convaincu par cette formule dont l’inattendu n’implique pas une quelconque justesse.

mm-silence.jpgCertes, ces outils de partage de véhicules, ou de chambres, rendent à coup sûr bien des services, alliant l’intérêt financier à des contacts humains qui peuvent être sympathiques, bien que la plupart du temps, très superficiels. Mais nos auteurs oublient une caractéristique de tous ces réseaux. C’est la notation, ce sont les « étoiles » à affecter à chaque « partenaire », c’est la mise en ligne des « avis », ce sont les commentaires qui sont publics, etc. C’est la tyrannie de la transparence. Et alors que les auteurs critiquent les concours, ils font l’éloge des réseaux, qui impliquent un système de notation beaucoup plus inquisitorial que n’importe quel concours, une dictature de la transparence, intrusive, et plus injuste  que n’importe quel concours. Les réseaux sociaux ? C’est le grand panoptique. Faire leur apologie ? C’est tuer l’intimité, la pudeur, le quant à soi. Au profit des ego, du tank à soi.  

Les communautés postmodernes ne sont  pas non plus en tension vers quelque chose qui nous dépasse. Les auteurs voient les communautés comme résolument immanentes. Ils ont certainement raison de voir la condition postmoderne définitivement au-delà de tout péché originel. Reste que la fin du péché originel n’est pas la fin de toute verticalité. Elle ne devrait, en tout cas, pas l’être car aucun monde humain ne peut se passer de verticalité.   

Nous serions passés de la raison au corps, du calcul à l’instinct. Du devoir-être rigide à l’invention libre de soi.  De l’universalisme des droits de l’homme  au particularisme des droits des tribus. De la raison normée au bricolage des justifications, de la Morale unique à des morales par tribus, voire à des morales par situations, validées par des groupes d’appartenance restreints, et non par la société toute entière.  

Il nous faudrait nous réjouir de l’affaiblissement de la culture des « concours ».  Fort bien. Mais si les concours ne sont pas toujours la solution idéale, que mettre à la place ? Le copinage, les relations ? Nous savons que celles-ci jouent un rôle, mais n’est-il pas justement utile de limiter ce rôle par des concours ? On en arrive au thème de l’élitisme républicain, et on comprend ici que c’est justement ce qui n’est pas du goût de nos auteurs « postmodernes ». Et pourtant, qu’obtient-on quand on abandonne l’élitisme républicain ? M. Benalla et M. Castaner. A la place de M. Chevènement, ou de M. Peyrefitte. Ils ne sont pas dépourvus d’entregent. Est-ce le seul critère qui doit prévaloir ? Est-ce préférable à un vieux serviteur de l’Etat, qui aurait un peu plus de crédibilité ?  Quand Maffesoli oppose le katholon, c’est-à-dire tout simplement la totalité de ce que nous partageons à l’universalisme, en quoi cela nous fournit-il une solution ? La  mise sur le marché des idées d’un terme peu usité ne peut tenir lieu de solution. Car le bien commun à tous renvoie toujours à ce qu’est ce « tous ». S’agit-il d’une simple communauté d’affinités sportives, sexuelles, éducatives, etc ? S’agit-il d’une communauté de « gamers » ? De « traders » ? De LGBT ? Que ces communautés existent ne pose aucun problème. La socialité passe partout et cela donne des communautés, plus ou moins conflictuelles du reste, et cela est très bien ainsi. Mais ces communautés restreintes ne remplacent pas des communautés plus vastes. Dans les communautés postmodernes, il ne s’agit jamais de la nation, de notre patrie, puisqu’elle transcenderait toutes les communautés, et que nulle transcendance n’est admise dans le paradis postmoderne, le « seul et vrai paradis », celui de l’horizontalité infinie. 

mm-iconologies.jpgMais alors, qu’est-ce qui fait sens pour nous tous ? La réponse est que nous sommes devant un pur néant. Celui-ci ne peut que légitimer la déconstruction de tout Etat. Si rien ne nous rassemble en peuple, pourquoi un garant de ce rassemblement ? Mais si l’Etat n’est pas à lui tout seul le garant du bien commun, ni même l’unique élément d’un ordre public, il en est l’un des piliers. L’Etat ne doit pas être tout, mais il couronne le tout.  Déconstruire tout Etat, c’est sortir de l’histoire, en d’autres termes, c’est devenir colonisés, c’est devenir sujet de l’histoire des autres. « L’anarchie, c’est l’ordre sans l’Etat », disaient Elisée Reclus et P-J Proudhon. Mais quand règne, dans de nombreux quartiers, une forme d’ensauvagement, ce n’est le moment de supprimer l’Etat, dont l’une des fonctions essentielles est la sécurité du peuple, aussi bien la sécurité intérieure que la sécurité extérieure (on peut certes imaginer des « tribus » de sociétés privées de sécurité, et de gardes du corps, et d’ailleurs, elles existent déjà, mais la sécurité est alors proportionnelle aux moyens financiers).

Dans une optique purement communautaire, et en fait communautariste, ce que « nous » partageons ne renvoie qu’à de petites communautés qui ne font pas l’histoire. C’est-à-dire qu’elles subissent l’histoire. Il n’y a pas, ici, de troisième voie : l’histoire, on la fait, ou on la subit. La postmodernité que défend Michel Maffesoli, c’est encore la loi des frêres qui succède à la loi des pères. Les pairs plutôt que les pères. Mais c’est justement de cette mise à égalité que notre société meurt. Les pairs sont nécessaires. Mais les pères demeurent indispensables. Les pairs ne peuvent suppléer aux pères. Les apprenants sont mis sur le même plan que les professeurs, les conseils d’élèves doublonnent les structures d’adultes.  Au final, tout le monde étant responsable de tout, plus personne n’est responsable de rien.

Enfin, les pairs ne sont pas une invention de la postmodernité. Qu’était un syndicat ? Sinon un regroupement entre pairs. Que sont les Gilets Jaunes ? Sinon des pairs. Les Gilets Jaunes sont plus proches des mouvements de la modernité militante que de la postmodernité « cool » et sage et ludique. Par le simple fait qu’ils ont le sentiment clair des mensonges du pouvoir, les Gilets Jaunes ne sont pas postmodernes. Dans ce cas, ils ne croiraient à aucune vérité, donc à aucun mensonge. Dans le monde postmoderne, il n’y a plus de distinction entre honnêteté et malhonnêteté. C’est exactement cela qui créait le désespoir de Wittgenstein, le sentiment que l’honnêteté n’est plus possible intellectuellement dans un monde postmoderne redevenu antésocratique, tandis que, anthropologiquement, Wittgenstein se sentait hanté par la question de l’honnêteté.  

Les temps postmodernes ne sont plus à la croyance en la vérité. Ce qui amène la fin de la croyance en une justice, et en un bien commun. Le commun n’est plus que partiel : les usagers de trottinettes, la « communauté » blablacar, etc. Les tribus sont un moyen de développer du collectif sans politique. C’est-à-dire de laisser le pouvoir aux puissances d’argent. C’est pour cela que les fondés de pouvoir du Capital, qu’ils s’appellent Macron un jour ou Tartempion le lendemain les aiment tant.

Pierre Le Vigan                                

Michel Maffesoli et Hélène Strohl, La faillite des élites, 228 p., Lexio, 2019.

 

mercredi, 11 décembre 2019

La physique comme exercice spirituel chez Marc Aurèle

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La physique comme exercice spirituel chez Marc Aurèle

Nombreux sont les exercices spirituels dans la philosophie stoïcienne: méditation de la mort, prévision des maux, examen de conscience, regard d’en haut, concentration sur l’instant présent, contemplation de la nature, méditation de maximes, lecture, écriture, etc. La liste pourrait s’allonger encore, et j’ai eu l’occasion, au cours des dernières années, d’en présenter quelques-uns. Pour Epictète, il est nécessaire que le véritable philosophe mette en pratique le discours théorique, et cette mise en pratique du discours philosophique passe, précisément, par un certain nombre d’exercices spirituels. Pour bien comprendre le lien étroit entre discours et mode de vie philosophique, c’est-à-dire entre theôria et praxis, et pour comprendre comment le discours philosophique est mis en pratique par le véritable philosophe à travers les exercices, je prendrai aujourd’hui l’exemple de la physique[1], à partir de la lecture des Pensées de Marc Aurèle. Comment mettre en pratique la physique stoïcienne, et quels exercices proposent Marc Aurèle à cet égard ?

Marc Aurèle, empereur romain et philosophe stoïcien

Au livre X des Pensées pour moi-même, Marc Aurèle revient à plusieurs reprises sur les principes de la physique stoïcienne, rappelant non seulement à quoi correspond l’étude de la nature (phusis), mais montrant également comment faire de la physique un exercice à part entière, permettant au philosophe d’atteindre l’ataraxie, c’est-à-dire l’absence de trouble ou la tranquillité de l’âme, fondement du bonheur stoïcien. Le premier passage, tout en rappelant ce qu’étudie la physique, à savoir la nature des choses, rappelle l’importance de cette partie du discours philosophique :

« Le mime, la guerre, la peur, l’engourdissement, l’esclavage effaceront jour par jour en toi ces dogmes sacrés que tu imagines, sans les appuyer sur l’étude de la nature, et que tu négliges. Il faut tout voir, tout faire pour que, tout en accomplissant ce qu’exigent les circonstances, reste en même temps active ta faculté d’étudier et se conserve, de la science de chaque objet, une confiance inaperçue, mais non pas cachée. Quand pourras-tu en effet jouir de la simplicité, de la gravité, de la connaissance de chaque chose : ce qu’elles sont essentiellement, leur place dans le monde, la durée naturelle de leur existence, de quoi elles se composent, à qui elles doivent appartenir, qui peut les donner et les enlever ? » (Marc Aurèle, Pensées, X, 9)

La connaissance de la nature de chaque chose est essentielle pour la vie philosophique, et nécessite de la part du philosophe une étude de la nature qu’il doit prendre au sérieux. Plus encore, l’étude de la nature doit être un exercice quotidien. Pourquoi ? Qu’est-ce que la connaissance de la nature de chaque objet apporte au philosophe ? Qu’est-ce que la physique apporte au philosophe dont le but est d’atteindre le bonheur ? Marc Aurèle esquisse une réponse dans la pensée suivante, toujours au livre X :

« Acquiers une méthode pour observer comment les choses se changent l’une en l’autre ; fais-y continuellement attention, et exerce-toi de ce côté ; car rien n’est plus capable de produire les grandes pensées. Il s’est dépouillé de son corps, celui qui pense qu’il faudra sans délai abandonner tout cela en quittant les hommes ; il s’en remet à la justice en ce qui concerne ses propres actions, et à la nature universelle dans toutes les autres circonstances. Ce qu’on peut dire ou penser de lui, ce qu’on peut contre lui, ne lui vient même pas à la pensée ; il se contente de ces deux règles : agir avec justice dans ses actions présentes, aimer le sort qui lui est présentement attribué ; il laisse de côté toutes les affaires, tous les soucis ; il ne veut rien autre que marcher droit grâce à la loi, et suivre Dieu qui marche droit. » (Marc Aurèle, Pensées, X, 11)

Dans ce passage, Marc Aurèle précise que l’étude quotidienne de la nature, donc la physique, considérée ici comme un exercice quotidien, permet au philosophe de se détacher de son corps, et de manière générale, de tout ce qui ne dépend pas de lui (y compris « ce qu’on peut dire ou penser de lui, ce qu’on peut contre lui », c’est-à-dire le jugement des autres, et leurs méfaits contre lui), d’agir avec justice et d’accepter les choses telles qu’elles arrivent. Telles sont les « pensées » que produit l’étude de la nature et qui permet au philosophe de vivre de manière droite, c’est-à-dire de manière conforme à la nature. Le but de la physique, pour Marc Aurèle, est de prendre conscience de la nature des choses par l’étude et d’agir conformément aux résultats de cette enquête : « Qu’est tout cela [la physique] sinon les exercices d’un discours qui se rend compte exactement, d’après la science de la nature, des choses de la vie ? » (Marc Aurèle, Pensées, X, 31)

MA-p2.jpgIl existe plusieurs types d’exercices spirituels liés à l’étude de la nature, et donc à la physique. Pour Pierre Hadot, le premier exercice stoïcien qui permet de mettre en pratique la physique stoïcienne, c’est l’exercice qui consiste à « se reconnaître comme partie du Tout, à s’élever à la conscience cosmique, à s’immerger dans la totalité du cosmos » (P. Hadot, 1995, p. 211). C’est l’exercice du regard d’en haut, qui consiste à s’élever par l’imagination et considérer toutes choses dans la perspective de la raison universelle[2]. Regarder les choses humaines d’en haut, en prenant de la distance, c’est permettre de relativiser, de remettre toutes choses, y compris notre propre existence, dans le contexte plus large de l’ordre universel auquel nous appartenons, c’est considérer la petitesse de l’homme dans l’immensité de l’univers et la courte durée de notre existence comparée à l’histoire des hommes et du monde.

Quelques exemples de cet exercice du regard d’en haut tel qu’il est décrit et pratiqué par Marc Aurèle dans les Pensées :

« L’Asie, l’Europe, des coins du monde ; la mer entière, une goutte d’eau dans le monde ; l’Athos, une motte de terre dans le monde ; le présent tout entier, un point dans l’éternité. Tout est petit, fuyant, évanouissant. » (Marc Aurèle, Pensées, VI, 36)

« [Platon] ”Pour une pensée généreuse, qui contemple le temps tout entier et la substance entière, crois-tu que la vie humaine paraisse être une grande chose ? – Impossible, dit-il. – Donc elle ne verra dans la mort rien de terrible ? – Nullement”. » (Marc Aurèle, Pensées, VII, 35)

« Belle idée de Platon. Oui, quand on parle des hommes, il faut examiner aussi de haut les choses terrestres, les rassemblements, les armées, les mariages et les ruptures, les naissances et les morts, le tumulte des tribunaux, les contrées désertes, les diverses populations barbares, les fêtes, les deuils, les marchés, tout ce mélange et l’ordre qui naît des contraires. » (Marc Aurèle, Pensées, VII, 48)

« Tu peux t’enlever bien des obstacles superflus, s’ils dépendent entièrement de ton jugement ; et tu te donneras un champ très vaste, si tu embrasses par la pensée le monde entier, si tu penses à l’éternité du temps et au changement rapide de chaque être en particulier, si tu vois combien est court le temps qui va de sa naissance à sa dissolution, quel temps immense il y a eu avant sa naissance, quelle infinité il y aura après sa dissolution. » (Marc Aurèle, Pensées, IX, 32)

« Lucilla vit mourir Vérus ; puis Lucilla mourut. Secunda vit mourir Maximus ; puis Secunda mourut ; Epitychanos vit mourir Diotime ; puis il mourut ; Antonin vit mourir Faustine ; puis il mourut. Tout est pareil : Hadrien avant Céler, puis Céler. (…) Tout est éphémère ; tout est mort depuis longtemps ; de certains on ne se souvient même pas, si peu que ce soit ; d’autres se sont changés en personnages mythiques ; d’autres ont même déjà été effacés des mythes. Donc se souvenir que le composé qui est toi-même devra se disperser, ton souffle ou bien s’éteindre ou bien s’en aller et être transporté ailleurs. » (Marc Aurèle, Pensées, VIII, 25)

L’exercice du regard d’en haut, lié à la physique, c’est-à-dire à l’étude de l’homme, des choses et de l’univers tels qu’ils sont, permet au stoïcien de « regarder les choses avec détachement, distance, recul, objectivité, telles qu’elles sont en elles-mêmes » (P. Hadot, 1995, p. 316), sans être dans l’illusion, sans accorder une trop grande valeur à ce qui n’est qu’une minuscule partie de l’univers dans lequel nous vivons. Cette prise de conscience de soi et des choses qui nous entourent comme faisant partie d’un Tout qui nous dépasse, c’est cela la conscience cosmique, cette expansion du moi vers le Tout qui caractérise la philosophie stoïcienne, et qui s’exerce au quotidien par un certain nombre d’exercices comme ceux que pratiquent Marc Aurèle. L’objectif de ces exercices est de prendre conscience d’être un rouage du Tout, une partie de la Nature universelle, et d’être capable de dire, comme Marc Aurèle :

« Il t’est arrivé quelque chose ? C’est fort bien ; tout ce qui t’arrive vient de l’univers et dès le principe était dans ta destinée et dans ton lot. » (Marc Aurèle, Pensées, IV, 26)

« Quoi qu’il t’arrive, cela t’était préparé dès l’éternité ; c’est dans l’entrelacement des causes que, dès l’éternité, a été filée ton existence et ce qui t’arrive. » (Marc Aurèle, Pensées, X, 5)

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Vouloir que ce qui arrive arrive comme il arrive est le but avoué de l’étude de la nature. La physique, comme exercice spirituel, doit donc être quotidienne, afin de permettre au philosophe d’accepter chaque jour son destin. Se connaître soi-même comme partie de la nature permet en effet au philosophe d’accepter l’ordre de l’univers, de ne pas aller contre le destin mais d’y assentir, au contraire : « Le propre de l’homme de bien est d’aimer les dieux, d’accueillir les événements et tout ce qui lui vient du destin » (Marc Aurèle, Pensées, III, 16).

L’étude de la physique est un bon exemple du lien étroit qui existe, pour les stoïciens, entre le discours philosophique et la pratique d’un mode de vie philosophique. À la base de la physique comme exercice spirituel, on a un dogme ou un principe physique, par exemple la position stoïcienne concernant la Nature et la Providence, ainsi que la place de l’homme dans cet ordre universel (unité et rationalité de la Nature universelle, dont l’homme est une partie en tant que raison individuelle). Et par un certain nombre d’exercices pratiqués quotidiennement, le philosophe stoïcien peut mettre en pratique ces principes de la physique stoïcienne et intérioriser de plus en plus, dans ses pensées et dans son comportement, les principes de la physique. Ainsi, par l’étude de la physique, l’assentiment au destin lui permettra, petit à petit, de ne plus être troublé par les événements extérieurs auxquels il est confronté, et lui permettra d’atteindre l’ataraxie recherchée par la philosophie stoïcienne.

Notes

[1] Sur la physique comme exercice spirituel, voir P. Hadot, Qu’est-ce que la philosophie antique?, Paris, Gallimard, 1995, p. 316-322 et surtout P. Hadot, “La physique comme exercice spirituel ou pessimisme et optimisme chez Marc Aurèle”, in P. Hadot, Exercice spirituels et philosophie antique, Paris, Editions Albin Michel, 2002, p. 145-164.

[2] Sur l’exercice du regard d’en haut, voir P. Hadot, 1995, p. 314-316.


Crédits photographiques: Marc Aurèle, par gregory lejeune, Domaine Public; Morpho sp., par Thomas bresson, Licence CC BY; La Bataille d’Issos, par Altdorfer, Domaine Public; Hubble sees spiral in Serpens, par Nasa Goddard Flight Space Center, Licence CC BY.

Citer ce billet: Maël Goarzin, "La physique comme exercice spirituel chez Marc Aurèle". Publié sur Comment vivre au quotidien? le 19 février 2017. Consulté le 11 décembre 2019. Lien: https://biospraktikos.hypotheses.org/2706.