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jeudi, 25 août 2011

I Quattro Pilastri dell'Anno

I Quattro Pilastri dell'Anno

Ex: http://aurhelio.blogspot.com/

 

In prossimità dell'equinozio di Autunno, riteniamo opportuno pubblicare questo articolo estratto dalla rivista "Solstitium" Anno IV numero 3-4 del Dicembre 1979. Esso, consente un approccio ciclico al senso del tempo e una riflessione sui ritmi cosmici. Una lettura imprescindibile per l'uomo di milizia


I quattro pilastri dell'anno sono i solstizi e gli equinozi. Essi formano la grande croce dell'anno o zodiacale, la cui braccia delimitano le stagioni. In scala ridotta corrispondono al giorno ed alle quattro fasi solari. Le quattro braccia dividono il cerchio zodiacale in quattro gruppi di segni, tre per ciascuno, che danno le caratteristiche delle rispettive stagioni. Ogni data segna l'inizio di un nuovo periodo, diverso dal precedente, in cui la luce del sole assume diversa forma e significato. Le quattro fasi si succedono regolarmente e tutto assume il senso di una rotazione costante attorno a un centro che fa da perno a tutto il movimento. Le quattro fasi dell'anno corrispondono ai quattro elementi ed il sole alla luce che li comprende e li trasfigura. Ogni periodo ha un riflesso esterno e uno interno, creando il presupposto di una stagione interiore che è nostro compito analizzare.

Il primo pilastro è il Solstizio d'inverno, data significativa in ogni tradizione, che segna astronomicamente l'inizio dell'inverno. Corrisponde alla posizione del Sole nel punto più basso dell'orizzonte ed alla maggiore disuguaglianza tra giorno e notte: qui la notte è più lunga del giorno. Il 22 dicembre segna la data ufficiale del calendario "astronomico" dell'anno.1 Da questo momento prende inizio la serie ascendente che porterà in avanti il giorno fino al futuro solstizio estivo, in cui i rapporti si invertiranno. Astrologicamente questa data segna il passaggio del Sole nel Capricorno (segno di Terra), a cui seguiranno l'Acquario e i Pesci. Nel simbolismo del giorno corrisponde invece al punto in cui il sole tocca il culmine della sua discesa: la Mezzanotte, in cui è opposto allo zenith meridiano.

Nell'antico Egitto, veniva simbolizzato nella forma di Khephra, lo scarabeo, chiara immagine dei sole occulto e sotterraneo.

Esotericamente2 questo momento è uno dei più importanti e significativi. Segna il punto preciso in cui l'esterno tace nel freddo e nel silenzio e l'interno vive di luce propria. II sole della coscienza è ora rivolto all'interno di sé e nella mezzanotte dell'anima tutto è pronto per una nuova rilevazione. E' in questo istante senza tempo che venivano eseguite le antiche cerimonie di iniziazione ai misteri dell'lo, nel profondo di grotte e caverne, a Mezzanotte in punto. Tramite esse una luce virtuale, occulta, veniva accesa nell'animo dell'adepto, che ora attendeva la nascita del proprio seme. E' in Inverno infatti che il seme, giacendo sotto la neve ed il gelo, dorme e matura i suoi frutti futuri. Ritualmente il nuovo periodo è rivolto alle opere della Terra: alla creazione cioè di basi e realtà concrete che facciano da perno ad ogni futura attività e alla coagulazione di precedenti iniziative. I tre segni invernali del Capricorno, dell'Acquario e dei Pesci suggeriscono un clima di freddezza, di silenzio e umidità che deve essere sciolto prima che il calore del sole porti con sé la Primavera.

Questo avviene il 21 marzo, il secondo pilastro annuale, data dell'Equinozio di Primavera o ascendente, in cui ciò che era sepolto torna adesso alla luce. Nel simbolismo segna il punto in cui il giorno eguaglia la notte: da questo momento essa sarà sempre più breve del giorno. Il sole della Mezzanotte precedente è ora sorto sull'orizzonte e il giorno è in equilibrio con la notte: è il Ra egizio, il sole occulto che ora diventa visibile. Nel piano zodiacale il Sole passa in Ariete (segno di Fuoco), a cui seguiranno il Toro ed i Gemelli.
II significato esoterico della Primavera è tutto nella luce che ora sorge. L'occulto si fa manifesto, la Terra si apre sotto la spinta del Fuoco e dà inizio alla vita. La luce interiore diventa ora visibile anche all'esterno, che si anima di vita propria. Il seme nascosto sorge dalla terra e tutta la natura si ricopre di verde e di fiori. La luce interiore si proietta all'esterno e dà vita al mondo,che ora viene vissuto come dotato di una propria interiorità. La natura già morta è ora animata da misteriosi significati che divengono chiaramente visibili alla coscienza. E' in questo periodo che venivano eseguiti dei riti di apertura cosmica verso il Creato, con lo scopo di ridurre quello che prima era separato dall'Essere, ma che ora tendeva a fondersi con lui. Sacre orgie e riti di fertilità avevano questo scopo, perché anche il sesso è spirituale.

Lo scopo era quello di riconoscersi nell'universo esterno, considerato come divino: Questo sei tu, secondo l'antica saggezza orientale. L'esterno e l'interno sono due facce di un'identica realtà, che li sovrasta. Ritualmente questo è il periodo del Fuoco, in cui si dà il via a iniziative di ogni genere, dato che anche la creatività personale è stimolata da questa fiamma che ora arde visibile. Si è spinti in ogni caso ad agire, a muoversi, a crescere, a fiorire, in un continuo avvicendarsi di impulsi, idee e sensazioni. E' noto come la Primavera influenzi l'eros animale e umano svegliando e moltiplicando i desideri. Meno noto è come esso, invece, vada al di là della semplice pulsione istintuale. II sesso è la Vita stessa e nell'adepto ai misteri della Luce esso si manifesta in altre forme ignote all'uomo comune. Il sesso cioè si svincola dal tendere al basso e sale, portato dalla fiamma che sorge, verso l'alto investendo idee, volontà e sentimenti di una nuova luce e fecondità. L'adepto cioè è fecondo in alto anziché in basso e il sesso diventa una via per la propria liberazione dai legami umani. La fiamma che sale, alimentata dall'Aria (i Gemelli) e sostenuta dalla Terra (il Toro), si innalza fino allo zenith dando inizio all'Estate.

Questa inizia il 22 giugno, giorno del Solstizio d'Estate e terzo pilastro annuale. Qui il giorno è più lungo della notte e l'anno e la luce sono al culmine. E' una data trionfale che segna la vittoria della luce sull'oscurità e il pieno sole meridiano. Corrisponde infatti all'ora del Mezzogiorno, in cui il sole è allo zenith e irradia al massimo luce e calore. Nel simbolismo egizio è Hathoor, il dio della luce meridiana e pienamente manifesta opposta a quella del Sole di Mezzanotte. Nella volta celeste il sole occupa ora il punto più alto e i suoi raggi arrivano perpendicolari alla luce terrestre. L'arco di luce è massimo e ricaccia la notte nella sua dimora oscura: ora tutto è in pieno sole e chiede di essere completamente manifestato. Astronomicamente il Sole entra nel Cancro (segno dell'Acqua), seguito dal Leone e dalla Vergine. Esotericamente questo periodo segna il momento in cui esterno e interno, Essere e Natura, sono perfettamente uniti e armonizzati, esaltati fino al massimo grado. L'Estate è il trionfo del sesso, della vita e delle opere intraprese. E' il periodo in cui il grano imbiondisce e viene mietuto, in cui sotto l'ardore del sole assume una tinta aurea, segno di perfezione e completamento. L'Estate porta con sé una corona d'oro, che l'adepto assume come segno di Vittoria sulla propria natura inferiore. E' il periodo in cui la materia è al Rosso e in cui i frutti attendono di essere colti dalla sua mano. Negli antichi riti questo periodo era una testimonianza di vittoria forse formava il supporto adatto di ogni cerimonia di incoronazione. Ritualmente l'Estate è il periodo dell'Acqua, in cui si procede a diffondere nel mondo quanto si è percepito e compreso in Primavera. Ora ogni cosa deve prendere corpo in attività che coinvolgano il mondo esterno e lo portino in sintonia con quanto vibra all'interno. Simile in questo all'acqua che si dilata e tende a unirsi con quanto lo circonda, comprendendo tutto in sé. Questo riflette l'antica idea dell'Unità e dell'inesistenza di ogni altro fuori di sé. La realtà esterna è illusione appunto perché si è incapaci di viverla come facente parte di sé stessi. Nell'assunzione positiva del mondo il senso del corpo si dilata e viene a comprendere nel suo ambito tutta la natura esterna e gli esseri che la popolano. Al limite la coscienza individuale si amplia fino a dissolversi in uno stato di coscienza cosmica che rappresenta la perfezione dell'Opera. E il Fuoco del Sole allo zenith provvede a fornirgli un aspetto attivo.
Facendo seguito al periodo estivo, l'Autunno avanza come un lento ripensamento. La fiamma della passione si riduce dando luogo ad un periodo di intensa riflessione, in cui il mondo esterno è filtrato attraverso lo schermo dei propri pensieri e si giudica quanto si è fatto. E' il 23 settembre, data dell'Equinozio d'Autunno o discendente e quarto pilastro dell'anno. La notte è ora di nuovo uguale al giorno, ma in forma diversa che in Primavera. La vita ora si ritira lentamente in se stessa e medita sul passato. Astrologicamente il Sole entra nella Bilancia (segno d'Aria), seguita dallo Scorpione e dal Sagittario. Nel giorno corrisponde all'ora del Tramonto, l'egizio Tum, in cui la luce si bilancia con l'oscurità e tende lentamente verso la morte. E' un'ora malinconica in cui i fantasmi passati risorgono e antiche e nuove idee affollano la mente, in cui si fa il bilancio sul proprio passato immediato e se ne tirano le somme. E' il periodo in cui si raccolgono i frutti e si semina il grano che nascerà nel nuovo anno. Esotericamente la luce dell'Essere si ritrae dall'esterno e tende a coagularsi nella propria origine spirituale, dando l'impressione come di una lenta morte che prende la natura interna ed esterna. E' in questo periodo che venivano praticati riti di astinenza e di purificazione, per liberarsi di tutto e iniziare il nuovo anno rinnovati interiormente. Di solito il periodo di astinenza precedeva immediatamente la data del Solstizio d'Inverno. La sera che va verso la notte è un'ora di purificazione in cui più forte deve splendere il Sole interno, ora non più oscurato dalla luce del giorno, e il crepuscolo fa da silenzioso ingresso. Ritualmente questo è il periodo dell'Aria: intelligenza e comprensione per quanto si è fatto e quanto si farà. La luce ora splende limpida nella propria mente e permette un giudizio obiettivo sui propri fatti e misfatti. Si può anche sorridere di sé, con paziente tolleranza, ma tutto ormai è dietro se stessi e va lasciato da parte.

E così torniamo verso l'inverno. Il cerchio zodiacale ha compiuto un nuovo giro e si appresta ad accendere i fuochi di quello che sarà l'inizio di un nuovo anno.

Nemo.

NOTE
1: I Solstizi, come gli Equinozi, corrispondono ad un particolare evento astronomico. Per convenzione si situano in alcuni giorni specifici sul calendario. amerò, a causa delle sei ore di scarto tra un anno e l'altro (la giurata di un anno è di 365 giorni e sei ore), si determina ogni quattro anni il giorno 29 di febbraio (anno bisestìle); di conseguenza la data in cui cadono i Solstizi e gli Equinozi non è sempre la stessa
ed in ogni caso l'orario differirà comunque dall'anno precedente.

2: Per esoterico, si intende l'insegnamento a una "conoscenza" (esoterica) che, per la sua particolare Natura e Forza, non è data alla portata di tutti. L'insegnamento tradizionale, dottrinario, che viene rivolto indistintamente, rispetto alla qualificazione del singolo, è chiamato essoterico;
l'insegnamento, che si rivolge a persone più qualificate ed in grado di essere sensibili e recettive verso alcuni messaggi, si dice esoterico. Vi è oltremodo da sottolineare che l'insegnamento esoterico non può essere compreso da colui che non ha già in sé le condizioni per il suo apprendimento.
 

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dimanche, 21 août 2011

Il culto della dea madre in Nord Europa

Il culto della dea madre in Nord Europa

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Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

Come già altrove osservato per quanto riguarda la civiltà romana, anche nelle civiltà nordiche, specificatamente quella celtica e quella norrena, si potrebbe pensare che, riflettendo quelle che, nell’immaginario collettivo, si strutturano come  società guerriere, il pantheon religioso finisse per escludere la presenza di figure femminili in posizioni di particolare rilievo.

In realtà, già l’idea di “società guerriere” per quanto riguarda le civiltà menzionate andrebbe ampiamente riveduta rispetto all’immaginario collettivo: se, infatti, in entrambe risulta presente, come in qualunque altro contesto del mondo antico, una componente guerriera legata a necessità espansive, predatorie o difensive, non è in alcun modo possibile paragonare né la società celtica né quella norrena a contesti come, ad esempio, quello spartano o quello di Roma alto-imperiale, in cui la funzione bellica risultava normalmente prevalente.

Per quanto i Celti, la componente guerriera era, in fin dei conti, ristretta alla scelta di un capo (“Ri”) di ogni clan (“Tauath”) tra le diverse famiglie componenti (“Fine”) capace di guidare gli uomini in una eventuale guerra e di stipulare alleanze con altri clan, ma, già all’interno del clan stesso, la nobiltà non era necessariamente dedita alle armi, essendo formata in buona parte da proprietari terrieri (le altre due classi sociali erano date da artisti e druidi e da contadini e artigiani)[1].

Il valore del singolo (il cosiddetto “prezzo d’onore” in base al quale si stabilivano punizioni e ammende) non veniva attribuito sulla base dei successi guerreschi quanto su elementi ben differenti, che andavano dalle capacità lavorative (in particolare per quanto riguardava il possesso di tecniche artigianali) alle conoscenze sacre (tanto che aedi e druidi erano esentati da qualunque attività militare), alle ricchezze materiali (misurate in termini di terre e capi di bestiame posseduti) fino alle doti estetiche (sia uomini che donne erano attentissimi al loro aspetto e alla loro forma fisica)[2]. Anche gli insediamenti non mostrano una particolare visione virile e marziale dell’esistenza: ogni “Fine” viveva per lo più in fattorie isolate e non in aree fortificate, che venivano utilizzate solo nel caso in cui un “Tauath” si trovasse in guerra, così come, a conti fatti, le tecniche agricole e zootecniche celtiche, che comprendevano la rotazione biennale e l’addomesticamento di pressoché ogni animale, ci appaiono oggi ben più sviluppate delle tecniche belliche, che includevano unicamente l’attacco frontale non protetto[3].

In più, anche le numerose “guerre tra clan” ci appaiono oggi più che altro dispute territoriali risolte da una prima “componente scenografica” in cui linee di guerrieri di entrambe le parti si fronteggiavano in assetto da guerra (cioè nudi, con spade e giavellotti e coperti di monili e colori di guerra) insultandosi lungamente ma poi tutto veniva deciso dallo scontro di due “campioni”[4]. Insomma, rispetto a certe immagini moderne, i Celti risultano molto più un popolo piuttosto pacifico di agricoltori, allevatori e abili mercanti (la loro rete commerciale era estesissima) con, in più, uno sviluppatissimo senso religioso che si differenziava tra una spiritualità popolare, con un ampio pantheon di divinità in gran parte legate ad ogni “tuath”, ed una religiosità alta, tipicamente druidica, che si concentrava su un culto delle forze naturali[5].

Sebbene con un diverso (ma non inferiore) livello di speculazione filosofico-religiosa, considerazioni non dissimili si adattano anche alla società norrena. Pur disegnati dalle cronache medievali come guerrieri feroci (come, in realtà, divenivano in caso di guerra) e predoni sanguinari (cosa anche questa veritiera, ma legata, più che altro, a necessità di sopravvivenza in momenti di estrema improduttività di zone già normalmente piuttosto sterili), i Vichinghi facevano parte di una società, così come descritta nel Rígsþula, eminentemente agricola e, a differenza di strutturazioni fortemente gerarchico-piramidali e rigide tipiche di popoli bellicosi, notevolmente fluida. La grande maggioranza dei norreni appartenevano alla classe media, la classe dei “Karls”, formata da artigiani e piccoli proprietari terrieri. Gli “Jarls”, i nobili (per altro non presenti in alcune zone particolari come l’Islanda), si distinguevano per la loro ricchezza, misurata in termini di seguaci, tesori, navi, e, soprattutto, tenute agricole e non per particolari doti guerriere, se non quelle legate alla difesa dei seguaci stessi. Il compito essenziale dello Jarl era, infatti, quello di sostenere la sicurezza, la prosperità, e l’onore dei suoi seguaci e per questo si serviva di un gruppo molto ristretto di “soldati professionisti”, per lo più giovani, detti “hirðmaðr”, ma nella sua carica le abilità di amministrazione agricola e di espressione oratoria erano molto più importanti che il saper maneggiare  le armi.

Sotto entrambe le classi vi erano i “þræll”, i servi e gli schiavi, più normalmente finiti in tali condizioni per debiti che per essere frutto di raid bellicosi.

Anche all’interno dei popoli norreni, così come tra i Celti, la cultura era tenuta in gran conto: i poeti, in uno status simile a quello reale e molto spesso i Godi, i capi locali che avevano compiti giuridici e amministrativi (in particolare in Islanda) venivano scelti tra i sacerdoti della religione odinica, considerati come esseri che avevano un rapporto speciale con gli dei. Di fatto, però, il vero potere si basava sul possesso di terra e sul numero di capi di bestiame allevati o, nel caso dei commercianti, sul valore delle loro ricchezze[6].

Insomma, anche in questo caso siamo di fronte ad una società eminentemente agricolo-commerciale e solo occasionalmente guerriera.

Per molti versi, le caratteristiche meno “marziali” di quanto certa epica hollywoodiana vorrebbe far credere su Celti e soprattutto Vichinghi, si riflettono sulla condizione della donna in entrambe le società.

Sebbene le fonti classiche (latine e greche) non ci dicano molto sulle donne nella società celtica, sia dalle saghe che dai reperti archeologici possiamo evincere che esse godessero, in paragone al mondo classico mediterraneo, di libertà notevoli e, in alcune occasioni, anche di grande potenza: certamente tutta la produzione alimentare e l’intera gamma della produzione artigianale (ceramica, vimini, lavorazione del cuoio, tessitura delle stoffe) erano, infatti, loro appannaggio, spesso portando a notevoli ricchezze e, come visto, la ricchezza portava a potere politico, così che non sono infrequenti i casi di capiclan donne o, addirittura, di regine (si pensi a Boudica) nel corso della storia celtica. Sebbene siano probabilmente erronee le idee di una poligamia sia maschile che femminile, anche il matrimonio ​​era visto più in forma di collaborazione paritaria rispetto al modello di proprietà dei Greci e dei Romani, una collaborazione consensuale che poteva essere interrotta in qualsiasi momento anche da parte della donna, che aveva la piena possibilità di lasciare un cattivo matrimonio portando con sé tutto quello che aveva portato in dote. e se è, altresì, falso dire che il mondo celtico fosse matriarcale, nondimeno la discendenza matrilineare era importante quanto e forse più di quella della linea maschile[7].

Il campo in cui l’alta considerazione delle donne si esprimeva più chiaramente era, però, quello religioso.

Come è noto, nell’antica società celtica i druidi e le druidesse formavano una élite intellettuale esperta, dopo uno studio ventennale, di letteratura, poesia, storia, legge, astronomia, erboristeria e medicina e, naturalmente di tutto quanto riguardasse la sfera del sacro.

Nei primi documenti romani riguardanti i Celti non si fa menzione, come giustamente osserva Jones[8], di figure sacerdotali femminili, probabilmente a causa dell’impossibilità per gli scrittori di  Roma di concepire una indifferenziazione sessuale nelle cariche pubbliche ma, finalmente, nel I secolo d.C., è Tacito che ci informa che “i Celti non facevano alcuna distinzione tra governanti maschi e femmine[9]. Essendo quella celtica una cultura orale, è difficile per noi oggi comprendere se tale governo fosse soprattutto spirituale o vi fosse una commistione tra potere religioso e temporale. Di fatto, alcune sepolture trovate a Vix e Reinham mostrano che le donne celtiche, in alcuni casi, potevano esercitare un forte potere politico, ma sono soprattutto le saghe come il Mito di Finn a dirci della presenza di druidesse e “donne sagge” nel mondo celtico: veggenti, incantattrici e persino addette a sacrifici sacrali sono comuni nelle leggende folkloristiche e ci dicono di una totale pariteticità di ruoli spirituali tra uomini e donne[10] .

La situazione non è esattamente identica nelle aree norrene. I ruoli di uomini e donne nella società norrena erano ben distinti ed erano i primi ad avere il dominio: le donne difficilmente partecipavano alle incursioni (anche se chiaramente parteciparono a viaggi di esplorazione e insediamento in posti come Islanda e Vinland) e alcuni comportamenti “mascolini” (indossare abiti maschili, tagliarsi i capelli corti, portare armi) erano loro severamente vietati dalla legge. Difficilmente partecipavano all’attività politica (non potevano essere Godi o giudici), di norma non potevano parlare nel “Thing” (assembla di clan) e, formalmente erano sottoposte all’autorità paterna. Ugualmente, però, è impossibile non vedere come le donne fossero molto rispettate nella società vichinga e avessero una grande libertà, soprattutto se paragonata ad altre società europee di quel periodo: gestivano le finanze della famiglia, dirigevano la fattoria in assenza del marito, in caso di vedovanza potevano diventare ricche e importanti proprietarie terriere ed erano ampiamente legalmente protette da una vasta gamma di attenzioni indesiderate. Significativo è che i personaggi femminili delle saghe siano lodati per la bellezza ma più spesso per la loro saggezza: in moltissimi casi emerge come siano le donne il potere neppure troppo occulto dietro le decisioni maschili e come la loro influenza sia quasi sempre positiva. Anche all’interno del nucleo familiare una donna poteva usare la minaccia di divorzio come un mezzo per stimolare il marito in azione: ottenere il divorzio era relativamente facile e poteva dar luogo a gravi oneri finanziari per il marito. Inoltre, le donne erano spesso viste come depositarie della magia “bianca” (e, come tali, erano spesso temute anche dai personaggi più importanti del “Thing” dei quali diventavano ascoltate consigliere) e delle conoscenze medico-erboristiche di origine divina[11].

In entrambe le società, dunque, è possibile notare come, nell’immaginario collettivo, l’elemento femminile avesse una sorta di “legame speciale” con il sacro. Da dove derivava questa diffusa credenza? Naturalmente, come in ogni altra società umana, lasciando da parte le caratteristiche tipicamente “lunari” di riflessività, “insight” e intuitività, dal potere femminile per eccellenza: quello generativo-creativo.

Non stupisce, allora, che, in un comune gioco di riflessi tra “supra” e “infra”, sia possibile reperire elementi chiaramente legati al femminino sacro in entrambe le culture.

All’interno del mondo celtico e della sua ricchissima strutturazione religiosa, al di là di rielaborazioni fantasiose e romanzesche su Avalon e le sue sacerdotesse e di teorie new e next age di stampo Wicca, due figure sacre rispecchiano più di tutte le altre (numerose) divinità femminili il femminino sacro declinato nel suo senso generativo-maternale, con tutto ciò che, in termini di creazione e alimentazione fisica e spirituale dell’essere umano ciò comporta: Rhiannon e Cerridwen.

La dea Rhiannon è una dea lunare gallese il cui nome significa Grande (o divina) Regina. Per molti versi è una figura di potere assoluto, sovrana degli dei e, a livello filosoficamente più alto, rappresentante simbolica della natura. All’interno della religiosità popolare la sua immagine è fortemente associata con gli equini: nella storia di Rhiannon, così come raccontata dalle saghe folkloristiche i cavalli svolgono un ruolo importante dal momento che essa prima cattura l’attenzione del suo futuro sposo mentre è cavallo, cavalcando con lui ne conquista l’amore e, allorché ingiustamente accusata (e poi riabilitata) della morte del figlio da lui concepito, sopporta il peso della punizione con grazia e dignità, mostrando, come sottolineato proprio dai testi mitologici,  una energia equina di resistenza[12]. Questo accostamento può apparire sconcertante, ma solo se decontestualizziamo il racconto dal suo background d’origine, rappresentato da allevatori di pony: come dea dei cavalli, infatti, Rhiannon viene a rappresentare sia la generatività naturale, che perpetua le mandrie di generazione in generazione, sia il sostentamento umano, che proprio su tale generatività si basa. Rhiannon è, comunque, una divinità multifunzionale, che racchiude in sé anche il senso dell’ordine naturale delle cose e della giustizia distributiva e retributiva maternale propria, appunto, della natura così come percepita dai Celti con la sua capacità di trascendere l’ingiustizia, avendo compassione e comprensione per coloro che falsamente l’accusano.

Ancora in sintonia con l’immagine della madre, la dea è nota per avere uccelli magici che cantano canzoni incantate che riportano sonni tranquilli agli esseri umani (i suoi figli) e, infine, ritornando al suo ruolo creativo anche sul piano simbolico, agisce come una Musa, portando l’energia illuminante di ispirazione per scrittori, poeti, musicisti e artisti[13].

Si è già altrove avuto modo di osservare come, però, la figura della “dea madre” non sia sempre positiva a tutto tondo, includendo, nella sua valenza simbolica di rappresentante della natura, anche tutti quegli aspetti violenti e pericolosi propri della natura stessa e incarnando il pericolo del potere femminile di stampo sessuale.

Ebbene, nella mitologia celtica, in particolare gallese, l’aspetto più oscuro della dea è rappresentato da Cerridwen, la vegliarda che ha poteri di profezia ed è custode del calderone della conoscenza e dell’ispirazione negli Inferi. Come è tipico delle dee celtiche, essa ha due figli: la figlia Crearwy è giusta e solare e il figlio Afagddu (chiamato anche Morfran) è scuro, brutto e malvagio, a voler simboleggiare la maternità incondizionata di tutto il genere umano e la dedizione maternale della dea verso chiunque[14].

Perché, dunque, si è parlato di “lato oscuro”?

Perché Cerridwen incarna il lato “stregonesco” e sessuale (quindi potenzialmente pericoloso rispetto a Rhiannon, nella quale questo aspetto viene “depotenziato” con l’affermazione di una sua mai completamente delineata verginità) della dea madre a partire dalla prima leggenda fondativa che la riguarda contenuta nel Mabinogion, il ciclo dei miti gallesi: in esso si racconta come la dea fermenti una pozione nel suo calderone magico per darla al figlio Afagddu e migliorarne le fattezze; avendo posto il giovane Gwion a custodia del calderone, tre gocce della sostanza in esso contenuta cadono su un dito del ragazzo, che diventa onnisciente e viene per questo perseguitato dalla dea attraverso un ciclo di stagioni fino a quando, sotto forma di una gallina, essa non riesce a catturalo e ingoiarlo mentre si nasconde tramutato in una spiga di grano, finendo nove mesi dopo, per partorire Taliesen, il più grande di tutti i poeti gallesi[15].

Come è facile notare, le istanze di trasformazione sono molto presenti lungo tutta la leggenda, con i due protagonisti che si mutano in un numero notevole di animali e piante, con un forte simbolismo legato alle trasformazioni cicliche della natura e del mondo, ma anche altri elementi rivestono un notevole interesse: in particolare, allorché, dopo la nascita di Taliesen la dea contempla l’uccisione del bambino, ma, cambiando idea, decide invece di gettarlo in mare, dove è salvato dal principe celtico Elffin, risulta evidente il rimando ai cicli cosmici di morte e rinascita, dei quali, tra l’altro, il calderone sacro della dea (che, secondo alcuni, sarà il primo nucleo del mito del Graal), risulta, con il suo potere rigenerativo, paradigma ultimativo[16].

Dunque, nella cultura celtica, la figura della dea madre, epitome del femminino sacro, risulta ben presente, ma anche  multiforme e sfaccettata, specchio di una società in cui la donna ha grande possibilità di movimento e, conseguentemente, di espressione di tutti gli aspetti del dominio lunare.

Nel mondo norreno, indubbiamente caratterizzato da aspetti meno filosofico-speculativi e più pratici, tutto si semplifica notevolmente e la figura della dea madre diviene più lineare e a tutto tondo, venendo incarnata da Frigga.

Frigga (noto anche come Frigg, “l’amata”) era la dea dell’amore coniugale, del matrimonio e del destino, la moglie del potente signore degli dei Odino. Responsabile della tessitura delle nuvole (e quindi, in un tipico attributo della dea madre, del sole e della pioggia, quindi della fertilità dei raccolti), e dei destini di tutti i viventi, Frigga era una veggente (sebbene non potesse cambiare gli eventi che vedeva) ed era, con palese riferimento lunare, la dea della notte, perché proprio di notte, in un richiamo sessuale “pacificato” (rispetto alla sessualità “pericolosa” e conturbante, che era appannaggio di Freya, dea della bellezza sensuale), dispensava la vita, tanto che la sua benedizione veniva invocata dalle partorienti.

Madre amorevole di tutto il creato, la  sua capacità di vedere nel futuro le avrebbe causato il più grande dolore, avendo previsto la morte del suo figlio prediletto Baldur: pur sapendo di non poter cambiare il suo destino, Frigga aveva fatto promettere a tutte le cose di non fare del male al figlio, ma purtroppo aveva trascurato una cosa, il vischio, che sembrava troppo insignificante per essere pericoloso e il malvagio Loki, scoperta questa dimenticanza, aveva collocato nelle mani di Hodor, fratello di Baldur, una freccia di vischio, facendogliela scagliare, durante una sessione di apprendimento di tiro con l’arco, nel cuore del “più perfetto tra gli dei”[17]. In alcune versioni del mito, a questo punto, interviene un’altra caratteristica della “dea madre” Frigga, quella rigenerativa (della natura, dei frutti della terra, etc.), che riesce a riportare Baldur in vita, mentre un’altra caratteristica è presente in tutte le saghe che la riguardano, quella di fornire nutrimento materno agli esseri umani, tanto che in Germania veniva venerata come la dea Holda o Bertha (la dea dell’allattamento e dei raccolti), in seguito modello per la favola di “Mamma Oca”.

Infine, all’apice dei suoi tratti simbolici, Frigga era anche dea della fertilità femminile e del matrimonio e, in quanto tale, era pregata dalle mogli sterili e dalle ragazze in età da marito[18].


[1] B. Cunliffe, The Ancient Celts, Penguin 2000, pp. 56 ss.

[2] Ivi, pp. 34-36

[3] K. Ralls-MacLeod, I. Robertson, The Quest for the Celtic Key, Luath Press Limited 2005, pp. 49 ss.

[4] [4] B. Cunliffe, Citato, pp. 79-87

[5] J. A. MacCulloch, The Religion of the Ancient Celts, General Books LLC 2010, pp.23-24

[6] H. Adams Bellows,  The Poetic Edda, CreateSpace 2011, pp. 61 ss.passim

[7] P. Berresford Ellis, Celtic Women: Women in Celtic Society & Literature, Trans-Atlantic Pub. 1996, passim

[8] L. Jones, Druid-Shaman-Priest: Metaphors of Celtic Paganism, Hisarlik Press 1998, pp. 45 ss.

[9] Citato ivi, p.48

[10] P. Berresford Ellis, Citato, p.77

[11] J. Jochens, Women in Old Norse Society, Cornell University Press 1998, passim

[12] M.J. Aldhouse-Green, Celtic Goddesses: Warriors, Virgins and Mothers, George Braziller 1996, pp. 107 ss.

[13] Ivi, pp. 121 ss.

[14]Ivi, pp. 172 ss.

[16] Ivi, pp. 111 ss.

[17] M. Pope Osborne, Favorite Norse Myths, Scholastic 2001, pp. 51-52

[18] J. Green, Gods and Goddesses in the Daily Life of the Vikings, Hodder Wayland 2003, pp. 31 ss


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samedi, 20 août 2011

Dioses del panteon Astur

Dioses del panteon Astur
 
Me he animado a escribir un pequeño artículo sobre los dioses astures, nuestros amados dioses, olvidados, (pero no del todo) durante mucho tiempo bajo el cristianismo que fue introducido en Asturias allá por el siglo VII. Lo cierto es que muchos historiadores, ( y no tan historiadores) se han dedicado a negar el pasado celta de esta tierrina nuestra, apoyándose en que no hay documentos fiables que lo demuestren... (es que nosotros, los astures, siempre fuimos vagos para escribir) Bromas aparte, es cierto que no existe una documentación tan sólida como la que se cuenta para las costumbres, Historia y religión de los antiguos galos, pero negar la tradición céltica de Asturias así sin más es un poco bestia. Existe en esta tierra una controvertida polémica sobre el "asturianismo": por un lado, el nacionalista trasnochado, que defiende la oficialidad de un bable que solo se habla en bares (porque el auténtico bable se ha perdido) y por otro el antinacionalista miedoso, que, ante cualquier posible amenaza separatista, echa por tierra todo el pasado celta astur.

Afortunadamente, algunos historiadores de los de verdad, han sido conscientes en las últimas décadas de que toda aquella rica tradición no se perdió en el olvido (por eso dije que "no del todo") sino que permaneció latente en el arte, la mitología (xanes, nuberus, trasgos...) y en los topónimos, por ejemplo.

Hoy en día ya se sabe que existió un firme culto a un panteón astur... el único problema radica en si ese culto estaba asentado en cada comunidad, gentilicio y región, o si bien cada zona de Asturias tenía sus propios dioses. Se sabe que el culto a muchos de nuestros dioses fue "general", como es el caso de Lugh, o Taranos... Otros no está tan claro.

También se mantiene en pie la hipótesis de una organización religiosa... No basada en el druidismo, como ocurría en algunas regiones del centro de la Galia, pero sí que existieron sacerdotes, tanto de uno como de otro sexo. Una de las principales dificultades que se tiene a la hora de estudiar la religión astur, es que, como todos bien sabéis, no había templos que dejaran su testimonio. El culto a los dioses se practicaba en lugares abiertos, sobretodo al lado de arroyos y manantiales, cuevas, árboles...
Existen numerosos estudios sobre las funciones del panteón indoeuropeo, origen de las creencias celtas (supongo que todos sabréis ya que los celtas no son un invento irlandés, sino que llegaron desde Bielorrusia) y ya se ha demostrado que existe concordancia entre los datos sobre la cultura castreña gallega y esta tesis. Estas eran las funciones en la jerarquía divina de los pueblos indoeuropeos (Dumézil, 1966):

- Dioses protectores del poder político y sacerdotal

- Dioses protectores de los guerreros

- Dioses de la tercera función, la productiva: protectores de agricultores, ganaderos, etc.

En resumen: No se ha desvelado por completo TODO el intrincado sistema de culto de nuestros lejanos abuelos, pero ya tenemos unas piezas muy valiosas. Aquí os pongo ahora unos datos sobre nuestros dioses.

LUGH. El culto a Lugh, protector de la autoridad política, está extendido por toda Europa. La mitología irlandesa se ha currado bastante la imagen de Lugh... Aquí los romanos, efectivamente, lo asimilaron con el dios Mercurio... Pero hoy en día sabemos que no tenía nada que ver el uno con el otro. Para todos aquellos que duden de la presencia de Lugh en nuestras tierras hispanas, que piensen en topónimos: Lugo, Lugo de Llanera, Lugones... Un pequeño paréntesis: La organización social astur se basaba en una agrupación de "gentilidades". Una gentilidad, (o tribu, más o menos) era la agrupación de los descendientes de un antepasado común; compartían entre ellos unas tierras, y contaba con la presencia de un jefe o consejo, que era electo. Un grupo de gentilidades se agrupaba en torno a un "pueblo", o grupo étnico en general. En el mapa se puede ver... un poquito. ¿A qué viene el rollo? Uno de esos grupos étnicos eran los Luggones y se consideraban descendientes de Lugh.

TARANOS. Estrabón lo equiparó a Ares. Su culto extiende también a las Galias y a Germania. Su nombre quedó impreso en algunos topónimos de Asturias: Taraño, Taraña, Taranes, Tárañu... El geógrafo griego explicó (no está muy clara la veracidad) que los cántabros y astures celebraban hecatombes en su honor. A él estaba consagrado el caballo, el famoso asturcón, presente en toda batalla.

ARAMO. ¿Hace falta buscar derivados? Tenemos la Sierra del Aramo. Se le creía vinculado a un significado muy interesante, pero no muy específico: El cruce de caminos, una bifurcación, una decisión... (?)

TILENUS. Para los de León, que conocéis mejor que yo el Monte Teleno... El dios protector de la agricultura y la economía.

VINDONIUS. También relacionado con la riqueza material, en la Galia fue asimilado con el dios Apolo.

CERNUNNOS. Harto conocido también, creo que sobran las explicaciones. Se ha asimilado con la Sierra del Cermoño y Cermuñu. Cuando comenzaron a aparecer las primeras representaciones gráficas de Cernunnos, este era siempre representado sosteniendo un torque en la mano derecha y una serpiente en la izquierda. El torque de oro es un símbolo de poder y riqueza, mientras que la serpiente representa la Abundancia y la fertilidad.

Este es el que a mí me resulta más interesante... Al contrario que los británicos, aún no se ha adscrito un panteón femenino propiamente dicho. No hay testimonios de nombres como Morrigan, Freya, etc. Sin embargo, sí está testimoniada la existencia de la divinidad femenina. Solamente conozco un nombre:

DEVA. La traducción más literal para esta voz celta es, según el filólogo de la Universidad de Oviedo Martín Sevilla, es Diosa. El nombre Deva se relaciona con diversas corrientes de agua en Asturias: los ríos Deva, en Gijón, Deva también en Cangas de Onís y Deva entre Asturias y Cantabria. La Deva es el nombre de un islote en la desembocadura del Nalón, también. Y por lo que he oído, el culto a una Virgen en Deva (Gijón) con su correspondiente iglesia, etc. se fundamenta en el antiguo culto a la diosa que se practicó en ese lugar... hace mucho, mucho tiempo...
Sylvia V. M.

Les Indo-Européens et la domestication du cheval

 

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Les Indo­-Européens et la domestication du cheval

par Wilfried Peter A. FISCHER

Ex: http://vouloir.hautetfort.com/

L'article qui suit est extrait d'un ouvrage que nous avions reçu en service de presse depuis longtemps déjà. Cet ouvrage est si riche en informations sur le plus lointain passé de l'Europe que nous avions eu du mal à en faire la recension. Il nous est paru plus sage d'en publier une infime partie, afin de donner au lecteur l'envie de le lire en entier. La domestication du cheval est sans doute l'une des prestations les plus spectaculaires de l'humanité indo-euro­péenne au cours de cette période charnière entre la préhistoire et l'histoire. Les recherches de Wilfried Fischer permettent, par leur option interdisciplinaire, d'établir une nouvelle chro­nologie et de dégager des faits qui bouleversent la vision étriquée de la préhistoire que nous véhiculons toujours.

 

Notre thématique est très complexe : elle s'étend des domaines biologiques et archéologiques aux disciplines linguistiques, historiques et philoso­phiques. C'est pourquoi il m'apparaît opportun de partir des faits naturels. La famille des équi­dés était répandue dans l'ancien et le nouveau monde, même sous sa forme finale monodactyle. Peu avant la période de domestication attestée, toutes les formes américaines avaient disparu. Les mustangs, considérés erronément comme une variante du cheval sauvage, n'étaient en fait que des chevaux domestiques d'origine euro­péenne retournés à l'état sauvage. En Eurasie et en Afrique, un seul genre (genus) a survécu : le genre equus, dans une diversité d'espèces que certains spécialistes ont classées dans diverses sous-espèces. La seule unité de base taxono­mique réellement naturelle est l'espèce (species), laquelle, en règle générale, se subdivise en di­verses sous-espèces, en vertu de critères géo­graphiques dans la plupart des cas. Quant au concept de «race», il devrait être réservé aux hominidés actuels et aux espèces domestiques. Tous les représentants d'une espèce (quelle que soit leur sous-espèce) sont fertiles entre eux. Les bâtards entre les espèces d'un même genre (p. ex. les mules, les zébroïdes, etc.) sont stériles. Chaque forme d'animal domestique descend d'une espèce jadis sauvage. Depuis C. v. Linné, chaque espèce porte un nom double (p. ex. : equus africanus = âne sauvage), où le premier terme désigne le nom du genre. Les sous-­espèces reçoivent un troisième terme (p. ex. equus africanus atlanticus = âne sauvage de l'Atlas). Toutes les races d'animaux domestiques reçoivent également un troisième terme, que l'on fait toutefois précéder d'un f. (pour forma = forme domestique). Ainsi : equus africanus f. asinus = âne domestique. Toutes les races de la forme domestique d'une espèce sauvage sont bien sûr non seulement fertiles entre elles mais aussi fertiles avec toutes les sous-espèces de l'espèce de base en question. Il convient de tenir compte de ce fait, lorsque l'on recense les carac­téristiques spéciales des sous-espèces domes­tiques afin de rechercher des preuves quant à l'origine de leur domestication. Un flux de gènes de cette nature peut s'être produit à n'importe quelle période ultérieure. Un bon exemple est celui des chats domestiques, qui combinent des caractéristiques de deux sous-espèces : le chat fauve de Libye et le chat des forêts d'Europe. Sans attestation historique, le moment où ces ca­ractéristiques se sont combinées ne peut être re­constitué.

 

La domestication de l'onagre

 

Au départ de ces données de base, retournons au cheval. À côté de l'espèce «âne sauvage», il existe en Afrique plusieurs espèces zébrines à robe tigrée qui n'ont jamais été domestiquées. Au Proche-Orient, vit l'espèce «onagre» (equus hemionus). Les hommes n'ont pas seulement chassé l'onagre mais l'on maintenu en captivité à Çatal Hüyük vers -6000. À partir de -3200, l'onagre est utilisé comme bête de somme, avec anneau nasal, à Sumer. Les zoologues nient la domestication parce qu'on n'a pas découvert d'ossements mais les historiens l'affirment parce qu'il existe des représentations imagées. L'exemple des onagres est intéressant lorsque l'on aborde les problèmes analogues dans la domestication du cheval.

 

 

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La désignation de l'espèce de base «cheval sau­vage» a été contestée pendant longtemps à cause de tendances inflationnaires. Ce n'est qu'en 1970 que Nobis a pu imposer le nom d'espèce : equus ferus, laquelle comprend toutes les sous-­espèces fossiles de l'âge glaciaire. La systèmatique zoologique des formes récentes préfère encore et toujours le nom d'equus przewalskii.

 

En pratique toutefois, on utilise les désignations ferus et przewalskii comme synonymes. À l'é­poque historique, il n'y avait que trois sous-es­pèces de cheval sauvage en Eurasie septentrio­nale, chacune ayant été considérée comme une espèce à part entière. Comme elles ont toutes disparue, du moins à l'état sauvage, plus aucun examen empirique n'est encore possible. Il s'agit des sous-espèces suivantes :

1) E.f. = p. silvaticus = le tarpan des forêts (robe éclaircie, petite taille, extinction vers 800) ;

2) E.f. = p. gmelini = le tarpan des steppes (robe gris souris, taille moyenne, extinction en 1871) ;

3) E.f. = p. przewalskii = le tarpan oriental (robe d'un jaune rougeâtre, grande taille, ex­tinction après 1946).

 

Ces trois espèces ont une crinière de poitrine et des lignes transversales sur les membres anté­rieurs.

 

La domestication originelle s'est faite en Europe

 

Il va de soi qu'une première domestication du cheval n'a pu s'effectuer que dans la région de son expansion naturelle. L'Orient, région des premières cultures et de la plus ancienne do­mestication des chèvres et des moutons, ne peut être retenu comme lieu de la première domes­tication du cheval. Pour l'histoire des sciences, il est intéressant de rappeler que l'on a longtemps cru que l'origine du cheval domestique (equus ferus = przewalskii f. caballus) se trouvait en Mongolie. Deux causes majeures président à cette erreur, me semble-t-il. D'abord, le tarpan oriental, cheval sauvage de Mongolie, est la seu­le forme sauvage encore vivante qui a pu être observée scientifiquement. Ensuite, chez les Eu­ropéens, il y avait encore le choc psychologique des invasions mongoles qui agissait inconsciem­ment. La maîtrise parfaite du cheval par les peuplades hunniques ne prouve rien. Il suffit de songer à l'exemple récent des Indiens d'Amé­rique qui ont su maîtriser à la perfection et très rapidement les chevaux européens capturés, après avoir été pris de panique en les apercevant pour la première fois. Pour prouver la fausseté de l'origine asiatique du cheval domestique, il suffit de signaler un fait : la civilisation chinoise, même arrivée à un degré de développement élevé, n'a appris à connaître le cheval que par l'intermédiaire de tribus indo-européennes orientales.

Si les Mongols ne sont pas les premiers domes­ticateurs du cheval, alors ce ne peuvent être que les Indo-Européens. Les traces de la plus ancienne domestication du cheval en Russie sont le fait d'Indo-Européens. L'opinion qui voulait attribuer une origine orientale au cheval do­mestique doit être reportée sur les Indo-Eu­ropéens. À ce sujet, Franz Hancar (2), profes­seur à Vienne, avait dès 1955 débroussaillé le terrain et conforté l'origine européenne du cheval domestique. Le sort de ce travail de grande valeur a été tragique, car il a été publié à une époque où toutes les dates du néolithique eu­ropéen avaient été erronément avancée de 2000 ans. Thenius, professeur de paléontologie, écrit dans un manuel publié à Vienne en 1969 : « Les chevaux ont été inclus dans l'oikos humain en Europe dès le néolithique. Un second centre de domestication a existé en Sibérie au 3ième mil­lénaire av. notre ère » (3). Cette assertion, claire et succincte, n'est pas passée dans le grand pu­blic ni dans la recherche dominante actuelle en matières indo-européennes.

 

Bref résumé de l'histoire de la domestication

 

Examinons, au moins brièvement, les origines de la domestication des animaux. Les racines les plus anciennes des rapports entre l'homme et des mammifères, outre la chasse, remontent à la phase finale des hommes de Néanderthal, il y a 40.000 ans en Europe. L'image que l'on se faisait de cette sous-espèce (homo sapiens neanderthalensis) de l'homme accompli a radi­calement changé au cours de ces cent dernières années : on avait cru qu'elle était à mi-chemin entre le singe et l'homme ; on sait désormais qu'elle était au moins égale au sapiens actuel et possédait un volume crânien plus important. Ces hommes ont laissé des autels de pierre dans les régions montagneuses de l'Europe centrale, sur lesquels étaient exposés des crânes et des fémurs d'ours des cavernes. Ce qui est important dans ce culte, c'est que les canines de ces crânes d'ours avaient été limées. Comme le prouve la présence d'une nouvelle couche d'émail, ces animaux ont vécu un certain temps sous la houlette de l'homme. Dans le Sud de la France (4), on a retrouvé trace d'une opération sem­blable sur des défenses de sanglier. Le culte de l'ours a été repris pas l'homo sapiens sapiens. Il s'est répandu à travers toute la Sibérie jusqu'à Hokaïdo, où des savants ont pu l'observer chez les Aïnous paléo-europides.

 

La domestication proprement dite commence avec celle du loup (canis lupus) en Eurasie sep­tentrionale. L'ancienne hypothèse, qui postulait que la domestication découlait du fait que les loups suivaient les hommes, n'est plus défendue aujourd'hui par les biologistes. Nos ancêtres ne vivaient pas dans une société de gaspillage. Hommes et loups étaient d'âpres concurrents. La cause première de la domestication serait une su­perposition d'instincts. Les jeunes animaux dé­clenchent, via le schéma de l'enfant, l'instinct nourricier de l'homme ; le jeune animal, via le schéma de l'animal dominant dans le cadre des instincts grégaires, en vient à voir l'homme qui le soigne comme son dominant.

 

 

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Le premier objectif de la domestication, c'est d'obtenir de la docilité par voie de sélection génétique. Le second objectif, c'est, au départ, d'obtenir une source de protéines et de matières grasses aisément accessible. Cela vaut pour tou­tes les phases premières de la domestication, du chien au cheval. Ce n'est que lorsque des co­chons, des moutons et des chèvres domestiques ont été élevés que le chien a été réservé à d'autres tâches.

 

Chiens, cochons, moutons et chèvres

 

Les plus anciens ossements attestés de chiens domestiques (canis lupus f. familiaris) remon­tent à environ 8000 av. notre ère et ont été découverts dans le Yorkshire et dans le Senckenbergmoor (5). En 1986, j'ai pu prouver, grâce à un enchaînement d'indices, que déjà les chasseurs de mammouths il y a plus de 20.000 ans élevaient des chiens affublés de taches claires au-dessus des yeux (6). Les ossements les plus anciens de cochons domestiques (sus scrofa f. domestica) découverts jusqu'ici remontent à - 7500 et ont été découverts en Crimée. On remarquera que ces deux animaux domestiques n'impliquent aucunement la culture sur champ. Leurs éleveurs appartiennent encore au groupe linguistique boréen non fractionné tout en étant déjà les ancêtres des futurs Indo-Européens.

 

Dans la zone du Croissant fertile, l'agriculture commence vers -9000, de même que l'élevage des chèvres et des moutons. Les quatre espèces d'animaux domestiques sont des mammifères grégaires de taille moyenne. Ceux de la zone septentrionale sont omnivores ; ceux de la zone méridionale sont herbivores. Dès 1986, j'ai pu prouver, avec force arguments, que seuls le chien et le cochon étaient les premiers animaux domestiques des Indo-Européens. Une prière hittite-louvite le signale. En voici un extrait : « Dieu Soleil du ciel, mon seigneur, à l'enfant de l'homme, au chien, au cochon, à l'animal sauvage des champs, dites ce qui est juste, ô Dieu Soleil, dites-le jour après jour » (7).

 

Même si à l'époque de la transcription de cette prière, vers -1300, les Hittites, peuple indo-eu­ropéens, disposent déjà d'un large éventail d'a­nimaux domestiques, leur prière rappelle ce qu'il y avait avant. Dès 6000 av. notre ère, l'Europe et l'Orient s'étaient échangé leurs animaux do­mestiques. Mais jusqu'à ce jour, le chien et le cochon chez les Indo-Européens, le mouton et la chèvre chez les Hamito-Sémites, sont nettement privilégiés dans les cultes et dans les croyances populaires.

 

En Grèce, les Paléo-Egéens, qui, sur le plan lin­guistique, appartenaient probablement au groupe caucasien- anatolien, réussissent à domestiquer pour la première fois un mammifère de grande taille : le bœuf  domestique (bos primigenius f. taurus). Cette performance mérite une ample at­tention, surtout si l'on songe combien dangereux peuvent encore être les taureaux et au rôle qu'a joué le bœuf dans l'alimentation de l'homme. Les recherches récentes relatives à la domesti­cation ont découvert que la transformation phy­sique la plus frappante dans la phase initiale de la domestication, c'est une diminution de la taille. On peut encore voir de très petits bovidés do­mestiques en Anatolie aujourd'hui.

 

En Europe

 

Au nord des premiers éleveurs de bœufs, dans la péninsule balkanique, vivaient vers -6000, les porteurs de la culture des céramiques à ban­deaux. Ils adoptent, en même temps que la cul­ture des céréales, les animaux domestiques mé­diterranéens et transmettent ces formes d'éco­nomie à l'Europe Centrale en l'espace de 800 ans seulement. Il faut signaler dans ce processus trois stations de transmission au nord du cours supérieur du Danube pendant le néolithique : Müglitz/Mohelnice en Moravie ; Karbitz/Chaba­rovice en Bohème du Nord ; Olszanica en Haute-Silésie (8). Vers 5000 av. notre ère, la culture des céramiques à bandeaux linéaires s'étend déjà depuis l'Ouest de la France jusqu'à la Vistule. Les régions littorales du Nord et la Russie ne sont pas encore atteintes. Cela signifie que l'Europe du Sud-Est et du Centre possède à cette époque une avance culturelle et économique par rapport à toutes les autres régions du sous­-continent.

 

Cette nouvelle forme d'économie provoque un premier mouvement de population, accompagné du défrichage par incendie et de la construction de maisons longues rectangulaires. Les haches perforées qui, dans le Nord de l'Europe pré­historique, étaient des haches faites en bois de cervidés et avaient déjà une longue tradition derrière elles, se fabriquent désormais en pierre taillée. Les morts sont enterrés assis. On re­connaît les tombes des hommes aux bijoux faits de fragments de coquilles d'huîtres. Le type racial dominant est est-méditerranéen. La taille des corps augmente en direction du nord, en concordance avec les lois de la zoologie. Les crânes hauts, étroits et longs se rapprochent de l'aspect de ceux des Est-nordides. Ce groupe démographiquement important et culturellement homogène pour les critères de cette lointaine époque ne peut qu'être indo-européen du point de vue linguistique. Vu les preuves nombreuses et les indices dont nous disposons, je ne puis que me référer à mon livre de 1986. Idem pour la justification exacte de la chronologie que j'em­ploie.

 

La capture des chevaux

 

À côté de l'élevage des animaux domestiques, la chasse continue à jouer un rôle important pour la satisfaction des besoins en protéines et en matières grasses. Le cheval sauvage est compris dans les animaux chassés, comme le prouvent les découvertes du Solutréen près de Lyon en France (28.000 - 17.000 av. notre ère). À cet endroit, les Paléo-Européens ouest-boréens ont tué quelque 40.000 à 100.000 chevaux en profi­tant de la panique de cet animal qui fuit devant le danger ; les chevaux tombaient du haut d'une falaise en fuyant. Ce cheval du Solutréen est, croit-on aujourd'hui, une forme primitive et occidentale du tarpan des forêts.

 

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Si déjà les Paléo-Européens du Solutréen pou­vaient organiser des chasses à battues efficaces, les représentants de la culture de la céramique en bandeaux devaient, eux aussi, en pratiquer. Grâce à leurs expériences acquises avec le bœuf domestique, ils savent comment s'y prendre avec les mammifères de grande taille. Dans les clai­rières, les lopins cultivés devaient immanqua­blement attirer les chevaux sauvages. D'après nos connaissances quant à la construction des bâtiments longitudinaux, il était possible de fabriquer des enclos vers lesquels on poussait les chevaux sauvages. De telles conditions n'exis­taient pas dans la steppe. De plus, même pour les représentants de la céramique à bandeaux linéai­res, nous ne possédons pas encore de preuves de la domestication du cheval.

 

Les découvertes de Woldrich

 

Environ vers -4800, l'unité de la grande culture centre-européenne se fractionne. Dans le vieux centre que fut la Bohème et la Saxe, se dé­veloppe une culture de la céramique à poinçon, qui dura jusque vers -4200. Tous les sites archéologiques démontrent qu'à cette époque, l'élevage des animaux joue un rôle beaucoup plus important. Mais il nous manque toujours des indices (des ossements en l'occurrence) prouvant une domestication du cheval. Dans un ancien rapport de fouilles, relatif au site de Karbitz/Aussig, le paléontologue J. Woldrich si­gnale toutefois des données intéressantes quant à la présence d'ossements dans les fosses cul­tuelles de la culture des céramiques à bandeaux. À l'époque de Woldrich, les dénominations en zoologie pour les animaux domestiques n'étaient pas encore uniformes et l'âge de la culture n'était pas encore déterminé avec certitude. Je remar­quai tout particulièrement que Woldrich signalait la présence de nombreux restes d'os d'equus caballus minor, puis de différents types de bo­vidés et aussi d'equus caballus. Ces noms d'es­pèce ne sont plus utilisés aujourd'hui. Mais ils correspondent à equus ferus = przewalskii, le cheval sauvage d'Eurasie. Nous venons de voir qu'il existait en Europe deux sous-espèces de cette espèce. Je tiens pour exclu que la dé­signation «minor» désigne le tarpan des forêts, plus petit et différent du tarpan des steppes. La région située entre les Monts Métallifères et les Monts de Bohème, à l'époque fort humide, était recouverte d'une épaisse forêt. Ce n'était pas du tout un espace adéquat pour le tarpan des steppes. De surcroît, les sous-espèces naturelles se sont précisément développées par isolation géographique. Souvenons-nous de cette con­naissance, établie récemment, qui prouve que la taille moyenne des premiers animaux domesti­qués diminuait par rapport à leur forme sauvage ; alors les descriptions de fouilles de Woldrich nous apparaissent sous un jour nouveau. À côté de quelques ossements de cheval sauvage (equus caballus ; dans la nomenclature moderne : e. f. = p.), Woldrich mentionne de très nombreux os­sements de cheval domestique, qu'il nomme equus caballus minor (dans la nomenclature moderne : e. f. = p. f. caballus).

 

La découverte de mors

 

Mais pour les règles très sévères établies pour les recherches relatives à la domestication, les résul­tats de Woldrich ne sont pas suffisants pour ser­vir de preuves. En revanche, il existe des dé­couvertes provenant de sites relevant de la cul­ture de la céramique à bandeaux poinçonnés, dé­couvertes qui étayent mes interprétations de façon convaincante. Il s'agit de la découverte de deux mors de bridon. Déjà en 1907, on en avait découvert une paire en bois de cerf poli dans un habitat à Goldbach près d'Halberstadt. Ces pièces auraient disparu. Je possède toutefois la publication originale avec photo. Le deuxième bridon provient de Zauschwitz près de Pegau en Saxe et se trouve au Musée de Dresde (9).

 

La découverte de mors de bridon, c'est pour la problématique que nous soulevons, une preuve beaucoup plus intéressante que la découverte d'ossements. Dans la plupart des cas, les indices de la domestication d'un animal n'apparaissent sur le squelette qu'après plusieurs siècles d'élevage. De plus, nous savons que l'objectif premier de la domestication est d'obtenir une ré­serve alimentaire. Les mors de bridon prouvent néanmoins que le cheval domestique primitif, petit de taille et dérivant de la sous-espèce «tarpan des forêts», était déjà utilisé comme bête de somme. Tandis que les bœufs sont attelés au moyen d'un joug, aux chevaux, on mettait, à l'origine, un bridon léger en cuir. Celui-ci re­posait sur l'espace sans dents, entre les incisives et les molaires et avait besoin de mors latéraux. Par l'intermédiaire de rênes, le cheval pouvait aussi être guidé depuis l'arrière. C'était un grand avantage pour le charriage de troncs d'arbre, pour tirer des objets ou des pièces ou pour les traîner sur la neige ou la glace. L'invention du mors et de la bride a été une condition indispensable à l'invention du char et pour les techniques de cavalerie, plus récentes encore.

 

On ne pouvait pas monter ces premiers et faibles petits chevaux domestiques. On ne peut conclu­re, au départ de ces premières tentatives d'atte­lage, que les Européens de cette époque possé­daient déjà des véhicules à roues. Même à Su­mer, beaucoup plus tard, vers 3500 av. notre ère ; on ne trouve que des traîneaux de bois, pas encore de chars à roues pleines. Ce que l'on peut concevoir de plus réaliste, c'est l'utilisation de traîneaux comme chez les Amérindiens et en Sibérie, où comme on l'a parfois revu en Europe récemment en période de détresse. Les traîneaux, pour les voyages sur glace ou sur neige, sont sans doute la deuxième étape dans les progrès de l'attelage. Quoi qu'il en soit, les indices récoltés dans les régions de Halberstadt, Pegau et Aussig proviennent du centre de la zone d'expansion des porteurs de la culture de la céramique à bandeaux et à poinçons, culture dans laquelle nous pou­vons situer les plus anciens éleveurs indo-euro­péens de chevaux.

 

Je voudrais brièvement rappeler ici que chez les porteurs de cette culture, on trouve, outre les haches de schiste en forme de semelles, des haches-marteaux à trous en pierre de roche. Mais la découverte la plus importante, après la do­mestication du cheval, se situe dans le domaine astronomique. À Leitmeritz, en Bohème du Nord, on a découvert une plaquette dans laquelle un calendrier lunaire avait été gravé (10). La disposition des traits gravés ressemble à un cercle de pieux de bois récemment découvert près de Quenstedt en Thuringe. Je rappelle au lecteur que, sur base de données établies grâce au C-14, nous nous trouvons entre -4800 et – 4200. À la même époque, les premiers méga­lithes apparaissent en Bretagne et, en Bulgarie, les premiers rudiments de la métallurgie du cuivre et de l'or.

 

Le cheval comme animal domestique

 

La culture des céramiques à bandeaux et à poinçons a été remplacée par la culture des vases en entonnoirs (Trichterbecherkultur) ; le littoral de l'Allemagne du Nord et le Sud de la Scan­dinavie sont désormais inclus dans la zone néo­lithique agricole. À cela s'ajoute l'inhumation individuelle sous tumulus / kourgan, avec ou sans bords de pierre : c'est en dernière instance une caractéristique archéologique des Indo-Eu­ropéens. Les tumuli du Groupe de Baalberg en Saxe/Thuringe sont plus anciens que les kour­gans en bordure de la Mer Caspienne. Au cours de la phase des tombes à couloir (-3200/-2800), dans les habitats le long du Lac Dümmer (Basse­-Saxe), le nombre d'ossements de chevaux dé­passe largement celui de tous les animaux à sabots (11). Chez les porteurs contemporains dé la culture de Bernburg (sur le territoire de la RDA), on a recensé une paire de mors de bridon fait dans des défenses de sanglier à Warn­stedt/Thale et des restes de crânes d'une race de petits chevaux domestiques près de Großquen­stedt.

 

On a également trouvé à Jordansmühl en Silésie des inhumations de chevaux datant de -3600/­3200 ; ces inhumations constituent les indices premiers d'une position cultuelle du cheval. Dans un site relevant de la culture de Baden en Basse-Autriche (-3200/-2800), on a retrouvé une pièce jugulaire en os provenant d'un mors. Le plus ancien point à l'Est, où l'on trouve trace d'une domestication du cheval, se situe en Ukraine occidentale. C'est dans cette région que la culture de Cucuteni-Tripolye, caractérisée par la présence de poteries peintes, a pris son envol à partir de -4200. Son origine doit être recherchée dans la plus ancienne des cultures de la cérami­que à bandeaux peinte dans les Balkans. Les os­sements de chevaux domestiques sont déjà pré­sents dans la phase de transition AB, laquelle commence vers ± -4000 ; on les retrouve à côté de traîneaux dans un territoire situé au Nord-Est de la zone de la culture de Tripolye. Parce qu'ils négligent les découvertes provenant des cultures plus anciennes de la céramique à bandeaux et à poinçons, les défenseurs de la thèse postulant une origine ouralienne des Indo-Européens af­firment que ces vestiges constituent les preuves les plus anciennes de la domestication du cheval. Il est certain toutefois que les preuves les plus anciennes de la domestication du cheval entre 4800 et 3200 av. notre ère se limitent à l'espace entre le Lac Dümmer (Basse-Saxe) et le Dniepr.

 

L'apparition de la roue

 

Dès que l'élevage des chevaux se confirme, l'érection de tumuli s'étend à partir de -3800 depuis l'Ukraine occidentale jusqu'à l'espace sud-russe. Sur la base de signes écrits sumé­riens, on peut dater l'apparition des premières roues pleines en bois de -3300. D'après le tour de potier connu à Sumer depuis environ -4000, on pense que la roue est une invention des Sumériens. Même en tenant à cette théorie, on doit admettre qu'il soit étonnant que des roues pleines de bois, que l'on peut dater avec exac­titude de -3000, aient été trouvées en Hollande et au Jutland, tandis que dès -3200 on trouve trace de massues cylindriques à l'époque des tombes à couloir de la culture des vases en entonnoir. Les massues cylindriques que j'ai pu observer ne présentent aucune trace d'usure prouvant qu'elles aient été utilisées. On peut évidemment penser qu'il s'agit de massues de cérémonie. Leur forme, présentant à l'évidence un moyeu affûté, correspond de manière frappante à des disques d'argile datant de la même époque et découverts en Hongrie. Dans ce site, on a également découvert un modèle miniature com­plet de char en argile datant d'environ -3000. Trois roues de bois bien conservées d'un diamètre variant entre 73 et 78 cm, trouvées près de Herning dans le Jutland, prouvent l'existence de chars dès -2800. Un char de la même époque a également été découvert dans le Sud de la Russie.

 

Le char, instrument de l'expansion indo-européenne

 

Dès que le char a été connu, il a dû se répandre en 300 ans de Sumer à l'Europe du Nord-Ouest. Le contact a dû indubitablement s'établir dans le Caucase. Les intermédiaires ont dû être ces Indo­-Européens qui, à partir de -4200, ont quitté leur patrie originelle de l'Europe Centrale pour traverser l'Ukraine et buter contre les montagnes du Caucase. Dans les régions du Sud de la Rus­sie, l'organisation économique se transforme : elle passe d'une structure de paysannerie nomade à l'élevage, avec une plus grande mobilité et une densité de population réduite. J'estime que c'est une erreur entachée d'idéologie de croire que ces tribus sont opposées et différentes, sur les plans de la langue et de la race, de leurs congénères paysans d'Europe Centrale. Hérodote nous rap­pelle pourtant que les Iraniens de son temps se répartissent en tribus d'élite paysannes et no­mades. Sachons aussi que les farmers et les cow-boys d'Amérique représentent des types humains dérivés d'une même matrice, retrouvant sans doute les mêmes réflexes que leurs plus lointains ancêtres des steppes russo-ukrai­niennes. D'après les preuves chronologiques que l'on a pu rassembler, les guerriers de l'Est, armés de haches de combat et dressant des tumuli pour leurs morts, ne sont ni les premiers Indo-Européens ni les inventeurs de la domesti­cation du cheval. Ils sont certainement des Indo-­Européens de la première heure, qui possédaient des chevaux et des chars ; ils ont assuré une diffusion rapide des ethnies et des langues indo-européennes de l'Atlantique à la Mer d'Aral.

 

Les Sumériens aux yeux bleus

 

J'aimerais évoquer encore le processus de transmission de la roue et signaler un état de choses que j'ai été le premier à mettre en évi­dence et à exploiter scientifiquement. On peut constater sur les reproductions photographiques de nombreux ouvrages illustrés que, dans le groupe de statuettes d'argile dit des «hommes en prière», ainsi que pour d'autres figures sumé­riennes, datant de -2700, un bon tiers des personnes représentées, appartenant aux castes supérieures ont un iris bleu incrusté en lapis-­lazuli. Les deux autres tiers ont un iris brun. La pierre de couleur bleue devait être importée d'Afghanistan. Personne ne se serait donné tant de mal si des hommes aux yeux bleus étaient in­connus. Par hétérozygotie, ce gène récessif ne survient que dans le phénotype. Les mutants de cette caractéristique n'étaient pas installés au départ dans les zones subtropicale et centre­asiatique. Les yeux bleus ne sont qu'un phé­nomène connexe sans valeur sélective naturelle dans le processus général d'éclaircissement des pigments. Les spécialistes ne s'entendent pas entre eux pour dire que les yeux bleus sont apparus au plus tard au début du néolithique en Europe centrale et en Europe du nord-ouest. Les éléments à yeux bleus dans les castes nobles de Sumer ne peuvent avoir immigré que d'une région située à l'Ouest. Lorsque je vis pour la première fois en 1979 la statuette du tronc d'un prince d'Ourouk, j'eus immédiatement l'impres­sion d'avoir en face de moi un conducteur de char. Archéologues et historiens de l'art ne pourront jamais expliquer la position des mains, s'ils persistent à croire que ce prince est en prière. Plus tard, je pus apprendre, dans la Propyläen-Kunstgeschichte, que dans les or­bites de cette figure, de 500 ans plus ancienne, on a découvert des restes de lapis-lazuli dans un noyau en coquillage blanc (12).

 

Grâce à cette découverte, je me suis convaincu que dès -3200 une première caste de conducteurs de chars a déboulé en Orient, exactement de la même façon que vers -1650 les Mitanniens indo­aryens surgiront en Syrie. Évidemment, il s'agissait encore de chars primitifs, dotés de roues de bois pleines, dont les chevaux n'étaient encore guère accoutumés au climat subtropical. Pour cette raison, ces tribus attelèrent des ona­gres. Mais il est possible de parler dès cette épo­que d'un contact culturel reliant Sumer à la Mer du Nord.

 

Peu après apparaissent également de riches tumuli érigés par des Indo-Européens orientaux dans la région du Kouban. À partir de cette ré­gion, des tribus s'élancent vers la Sibérie et vers l'Altaï, où se crée alors, au IIIième millénaire av. notre ère, un second centre de domestication du cheval. Déjà en Russie, l'espèce, de taille plus grande, qu'est le tarpan des steppes, s'était croi­sée avec le cheval domestique. Aux temps histo­riques, les étalons tarpans séduisaient et enle­vaient des juments domestiques, ce qui a con­duit, au siècle passé, à l'extermination des der­niers tarpans de Russie. Le tarpan oriental a pu se croiser en Mongolie avec des chevaux do­mestiqués. En Europe les chevaux de fjord nor­végiens constituent les derniers vestiges d'une forme ancienne de cheval domestique retournée à l'état sauvage et dérivée du tarpan des forêts. Ces chevaux sont toutefois plus forts et capables de meilleures prestations que les premiers che­vaux domestiques.

 

Les racines linguistiques des mots signifiant «chevaux»

 

En langue indo-européenne primitive, le mot commun pour désigner le cheval est *ekvos. En tokharien, il prend la forme de yakvé et celle-ci se retrouve jusqu'en Chine. Chez les Indo-ar­yens, le mot devient asva, à cause de la mutation consonantique qui transforme le k en s. La mu­tation iranienne, laquelle se retrouve également dans les nom de personnes en Thrace, donne aspa. Les Illyriens et les Celtes, originaires d'Europe Centrale, transforment le groupe con­sonantique kv en p. C'est ainsi que le cons­tructeur du Cheval de Troie se nomme Épeios et que la déesse chevaline gauloise s'appelle Épo­na. Cette forme s'est maintenue dans certains dialectes allemands et en grec ancien. Le terme allemand Mähre, que l'on retrouve dans le vo­cable péjoratif Schindmähre (rosse, carne), est dérivé du vieil-haut-allemand merila, signifiant jument. La racine de ce mot est mongole (*mörin). On peut penser que ce sont les Huns qui nous l'ont transmis. Le mot Pferd (nl : paard) dérive, quant à lui, du moyen-latin para­veredus, qui désignait les chevaux de la poste gallo-romaine. Le mot ouralique *kaväl nous est venu d'Asie centrale via le finnois et le slave. L'origine de *kob-moni n'est pas encore tout à fait élucidée. De ce mot dérive le terme greco-la­tin kaballe/us, que l'on retrouve â côté de hippos et equus. Nous l'avons conservé dans les mots français «cavalier» (Kavalier) et «cavalerie» (Kavallerie). La racine *mandus est westique-méditerranéenne : on la retrouve chez les Basques et les Étrusques. Celtes et Italiques utilisent le mot mannus pour désigner le poney.

 

Friedrich Cornelius (13) fut le premier à remarquer que la plus ancienne preuve ono­mastique d'une invasion venue de l'Ouest à Akkad en Mésopotamie date de -2270, sous le règne de Naramsin. Il s'agit des Erin Manda, guerriers montés sur chars appartenant très certainement au groupe des Hittites-Louvites. Ceux-ci avaient pénétré en Anatolie centrale et méridionale via Troie. C'est à eux que l'on doit l'invention du char à deux roues, lesquelles sont à rayons en bois de frêne. Mandus est ici la désignation particulière du cheval des chars. Les Hittites, au plus tard vers -1700, avaient mis sur pied des corps d'armée puissants montés sur des chars de combat et de chasse. Une organisation semblable se retrouve également chez la noblesse guerrière indo-aryenne des Hourrites. À côté de noms de dieux, on trouve des expressions pro­pres au dressage des chevaux parmi les vocables découverts sur documents écrits et relevant des Aryens au temps où ils vivaient non encore divisés en Asie Mineure.

 

Assyriens, Babyloniens et Égyptiens adoptent le cheval

 

En Grèce et dans la culture nordique de Scan­dinavie, le char léger de combat est attesté par des représentations depuis -1600 au moins. Très rapidement les Assyriens, les Babyloniens et les Égyptiens, sous l'influence des Kassites et des Hyksos, s'approprient la nouvelle arme. En Égypte, les dynasties d'après la libération des dominations étrangères sont très clairement mar­quées par les idéaux des guerriers charistes. Les femmes des pharaons et leurs suites, composées d'une noblesse aryenne-hourritique, ont certai­nement renforcer la tendance.

 

Il n'est pas étonnant que la toute première repré­sentation égyptienne d'un véritable cavalier au milieu de guerriers dans un camp de campagne date de -1325 (18ième Dynastie). Le cheval y est fringant et bridé ; le cavalier ne dispose pas de selle et est nu. Il s'agit peut-être d'un cheval de char mené à l'abreuvoir. Cornelius croit que l'origine de la cavalerie proprement dite (sans char) doit être recherchée chez les Amazones de l'Anatolie du nord-ouest. Il s'agirait de femmes originaires du pays d'Adzzi et des localités d'Amisos, d'Amasia et Amastris (Am- désignant «femme»). Par une étymologie vulgaire et erro­née, les Grecs en auraient fait a-mazi, c'est-à­-dire guerrières sans seins. D'après Cornelius (14), ce serait ces femmes-là qui seraient les in­venteurs de la cavalerie vers -1230. Dans l'Em­pire des Hittites, on ne montait les chevaux que pour les dresser à tracter des chars de course. D'après des gravures rupestres de Suède, Spa­nuth date trop tôt (de 200 ans) les premiers cavaliers, avec boucliers rectangulaires. Ce n'est pas avant -1200 que les guerriers cavaliers ap­paraissent simultanément en Europe, en Orient et en Sibérie.

 

Se représenter des Indo-Européens primitifs cavaliers venus de l'Est est donc une aberration. Car au moment de l'apparition du char léger de combat vers -2300, l'unité linguistique indo-­européenne n'existait déjà plus. Mais chez tous les Indo-Européens, qui descendent des plus anciens paysans d'Europe Centrale, on trouve une croyance commune : le dieu solaire est tiré le jour par un couple de chevaux. Dans le char so­laire de Trundholm, cette croyance est illustrée par l'une des plus belles pièces d'art de la «pré­histoire». En tant qu'Alces chez les Germains de l'Âge du Bronze, qu'Asvin chez les Aryens et que les Dioscures chez les Grecs et les Romains, le divin attelage chevalin a été personnifié. Les jumeaux divins aident les guerriers, les nau­fragés et les femmes qui accouchent dans la dé­tresse. À partir de -1380, à l'époque de la culture des champs d'urnes, la représentation du char solaire se couple au culte des cygnes. C'est pourquoi des têtes de chevaux et de cygnes or­nent les étraves des bateaux scandinaves depuis l'Âge du Bronze.

 

Le cheval domestique, dressé par les Indo-Eu­ropéens, est devenu l'animal le plus important de toute l'histoire mondiale.

 

► Wilfried Peter Adalbert FISCHER, Vouloir n°52/53, 1989.

(texte issu de Deutschland in Geschichle und Gegenwart, 36. Jg., Nr. 4, 1988 ; adresse : Grabert-Verlag, Am Apfelberg 18, Postfach 1629, D-7400 Tübingen 1.Trad. française : R. Steuckers).

 

Wilfried Peter A. FISCHER, Alteuropa in neuer Sicht : Ein interdisziplinärer Versuch zu Ursprung und Leistung der Indoeuropäer, LIT Verlag, Münster, 1986, 300 S., DM 58 ; adresse : Dieckstr. 56, D-4400 Münster, tel. : (0251) 23.19.72.

 

La richesse de cet ouvrage est impressionnante : Fisher nous y initie à l'archéologie préhistorique, à la linguistique, à la raciologie. Son livre com­plète utilement les recherches des instituts amé­ricain (Journal of Indo-European Studies) et français (Institut d'Études indo-euro­péennes de l'Université de Lyon 3) des professeurs Marija Gimbutas, Jean-Paul Allard, Jean Haudry et Jean Varenne. Nous le recom­mandons chaleureusement.

 

Notes

 

(1) Wolf Herre u. Manfred Röhrs, Haustiere - zoologisch gesehen, Gustav Fischer Verlag, Stuttgart, 1973, S. 29. (2) Franz Hancar, Das Pferd in prähistorischer und früher historischer Zeit, Verlag Herold, Wien/München, 1956.

(3) Erich Thenius, Phylogenie der Mammalia, Walter de Gruyter & Co., Berlin, 1969, S. 565.

(4) Burchard Brentjes, Die Haustierwerdung im Orient, Franckh'sche Verlagshandlung, Stuttgart, 1965, S.10. (5) Wilfried Peter A. Fischer, Alteuropa in neuer Sicht, Lit Verlag, Münster, 1986, S. 35.

(6) Ibid., S.36f.

(7) Ibid., S.138.

(8) David u. Ruth Whitehouse, Lübbes archäologischer Weltatlas, Gustav Lübbe Verlag, Bergisch Gladbach, 1976, S. 134.

(9) WPA Fischer, op. cit., S. 72.

(10) Ibid., S. 238.

(11) Ibid., S. 36.

(12) Ibid., S. 136. D’après Marin Dinn, dans une thèse publiée en 1981, on trouve des modèles de roues de char en Roumanie dès -4200. Ces modèles sont donc plus anciens que ceux de Sumer, ce qui étaye mes considérations à propos des conducteurs de chars à yeux bleus.

(13) Friedrich Cornelius, Geschichte der Hethiter, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt, 1976.

(14) Ibid., S. 269 ff.

jeudi, 18 août 2011

Christian Kopff on Radical Traditionalism and Julius Evola

Christian Kopff on Radical Traditionalism and Julius Evola

mercredi, 17 août 2011

Le n°3 de "Grande Provence" est sorti!

Le n°3 de Grande Provence est sorti !

Grande Provence (tout en couleurs, 104 pages) est un trimestriel dont la vocation est de s’ancrer durablement dans le paysage éditorial régional. Des articles fouillés sur les sujets qui font la vie provençale, qui intéressent en premier lieu ceux qui y résident et aussi, sans doute, ceux qui l’aiment. Des sujets qui sont regroupés en rubriques aussi variées que la culture, l’art, l’environnement, l’histoire, la prospective économique, la saga des entrepreneurs, l’actualité, les légendes, le symbolisme, le patrimoine et qui parle des hommes et des femmes qui vivent et travaillent au pays.

SOMMAIRE DU N°3

- Les jeux de la fête Dieu

- La reliure d’art ou la passion du livre

- Le château de la Tour d’Aigues

- Le site de Vernègues

- Albert Spaggiari, un bandit d’honneur

- Suffren, marin illustre, Provençal méconnu

- La terrible cargaison du Grand-Saint-Antoine

- Andarta, la déesse guerrière des Voconces

- Le Grand Verger à Lambesc

- L’archéologie populaire

-Sculpture : Jane Deste et Gilles de Kerversau

- Art’croche-toi à Bargemon

- Nostradamus, médecin sans frontières

- Les plantes comestibles sauvages

- La Belle de Mai

- Des livres qui se mangent

- Claudia Haering, les chevaux qui dansent

- La quête initiatique de Tintin le globe-trotter

Abonnement pour 1 an (4 numéros) : 40 euros pour la France métropolitaine.

Exemplaires à l’unité : 13 euros port compris pour la France métropolitaine.

Grande Provence, BP 1, Maison des associations, Le Ligourès, place Romée de Villeneuve, 13090 Aix-en-Provence.

mardi, 16 août 2011

Aeschylus' Agamemnon: The Multiple Uses of Greek Tragedy

Aeschylus’ Agamemnon:
The Multiple Uses of Greek Tragedy

Jonathan BOWDEN

Ex: http://www.counter-currents.com/

eschyle.jpgGreek tragedy is all but forgotten in mainstream culture, but there is a very good reason for looking at it again with fresh eyes. The reasons for this are manifold, but they basically have to do with anti-materialism and the culture of compression. To put it bluntly, reading Greek tragedy can give literally anyone a crash course in Western civilization which is short, pithy, and terribly apt.

Let’s take — for purposes of illustration — the first part of the Oresteia by Aeschylus, which concentrates on Agamemnon’s murder by his wife Clytemnestra. This work would take about two hours to read in a verse translation by Lewis Campbell (say). You will learn more about the civilization in those two hours than many a university foundation course, or hour after hour of public television, are capable of giving you.

The real reason for perusing this material, however, is the sense of excitement which it is capable of generating. Agamemnon and his entourage have returned to Argos after the successful sack of Troy and the destruction of Priam’s city.

A series of torches across the Greek peninsula announces the triumph, and the Watchman on the palace roof is the first to bear witness to the signal. The Chorus of Argive Elders soon gathers and is addressed in turn by a herald and then Clytemnestra. She swears undying loyalty to her husband (falsely) and makes way for his triumphant entry, although for those with acute ears there is a sense of foreboding in the imagery and early language of the play.

Agamemnon enters and speaks of his victories, but is ill-disposed to walk on the purple vestments that his wife has had strewn on the ground. He considers them unworthy or liable to damage his standing with the Gods. Clytemnestra seems to want her husband to behave more like an Eastern potentate than a Greek monarch. After much show of reluctance — he accedes to his wife’s wishes, kicks off his sandals and walks on the Imperial purple . . . in a manner that Clytemnestra knows will antagonize the Gods. She wishes this due to the future assassination which she has in view.

The prophetess Cassandra is then introduced from Agamemnon’s car, and she outlines — in ecstatic asides and verbal follies — the likelihood of her paramour’s death at the hands of his wife. She also speculates on the origin of the curse deep in the history of the House of Atreus — when Thyestes’ own children were baked in a pie for the edification of their father in revenge for adultery. This sets in train the codex of revenge and hatred which inundates the House’s walls with blood and gore and sets the ground for new horrors at a later date. Cassandra, surrounded by the near-seeing and purblind chorus, goes into the House where her Fate is sealed.

After a discrete interval, Clytemnestra emerges in one of the most dramatic sequences in all of Western art. She clutches a dagger in one hand and is partly covered in blood; whereas Agamemnon, her previous lord and husband, lies dead inside the folds of a net, with Cassandra raving and raving over him. The prototype for Lady Macbeth and every other three-dimensional female villain, Clytemnestra boasts of her deed and how she executed it — to the shock, horror, and awe of the Argive elders.

The killing is justified — in her eyes at least — by the sacrifice of her daughter, Iphigenia, to make the wind change its direction when the Greek fleet is becalmed at Aulis on the way to Troy. For this willful act of child-murder, Clytemnestra has lain in wait with her lover, Aegisthus, to slay the King of Argos. (Aegisthus is descended from Thyestes and has his own reasons for wishing doom to the House of Atreus.)

This particular play ends with a confrontation between Aegisthus’ soldiers and the elderly members of the Chorus, but Clytemnestra — by now sick of bloodshed and desiring peace — intervenes so as to prevent further conflict. The play concludes with the two tyrants, surrounded by their mercenaries, walking back towards the palace where they will rule over the Argives.

The question is always raised in modernity: Why bother with this material now? The real reason is the abundant ethnic and racial health of ancient Greek culture. Although tragic, blood-thirsty, and mordant in tone, it is abundantly alive at several different levels. It also exists as the prototype for so much Western culture, whether high or low.

As I have already intimated, a two-hour read is broadly equivalent to a short university course in and of itself. Also, the pre-Christian semantics of this material speaks across two and a half thousand years very directly to us today, certainly in the post-Christian context of Western Europe. Another reason for parents reading this material to adolescent children (at the very least) is its pagan immediacy. This is not cultural fare that can be dismissed as lacking pathos, blood-and-guts, or a sense of reality, if not normalcy.

Another reason for refusing to give this work a wide berth has to be the fact that various forces which were out-gunned and defeated in the twentieth century definitely took the Greek side in various cultural debates. This can also be seen in Wyndham Lewis’ Childermass which I reviewed [2] elsewhere on this site, where the chorus of opposition to the Humanist Bailiff (a sort of democratic Punch) has to be the philosopher Hesperides and his band of Greeks.

The culture of the Greeks still has dangers associated with it, hence the re-routing of Classics to a netherworld in the Western academy. Yet the refutation of Bernal’s Black Athena is still everywhere around us; as long as people have the wit to pick up the plays of Aeschylus and read.


Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

URL to article: http://www.counter-currents.com/2011/08/aeschylus-agamemnon/

lundi, 15 août 2011

Apuntes sobre el Mitraismo

Apuntes sobre el Mitraismo

Enrique RAVELLO

Ex: http://identidadytradicion.blogia.com/

La historiografía utiliza el término de «cultos mistéricos» para todo el conjunto de formas religiosas que, procedentes de Oriente, irrumpen en el Imperio romano tardío. El engañoso término de cultos mistéricos podría hacernos pensar en una unidad interna de los mismos; nada más lejos de la realidad, poco tenían que ver entre sí los cultos a Attis, Cibeles, Serapis, Isis o Júpiter - Amón , pero si uno de ellos merece mención aparte es, sin duda, el culto a Mitra.

Es precisamente lo que le diferencia del resto lo que le hace interesante para nosotros y lo que motiva el sentido de este artículo: a diferencia del resto de divinidades «orientales» llegadas a la Urbs desde el cambio de Era, Mitra sólo tiene de «oriental» la procedencia geográfica: Persia, siendo una de las divinidades que los indoeuropeos de origen nordeuropeo (medos, persas, hindúes y mitanios) llevaron a Asia durante sus migraciones e invasiones de aquellas tierras. Divinidad indoeuropea que, como tal no podía ser extraña a los romanos, los que pronto la asimilaron con sus dioses solares; así Mitra no era uno más de los cultos de «religiosidad segunda» del Bajo imperio , sino que propuso una posibilidad de enderezamiento espiritual -siguiendo el concepto evoliano- en un momento en que la Tradición romana parecía haber entrado en una fase de crisis

Mitra y su ascesis son profundamente indoeuropeos :«Los misterios mitraicos nos llevan al seno de la gran tradición mágica occidental , a un mundo todo él de afirmaciones , todo de luz y de grandeza , de una espiritualidad que es realeza y de una realeza que es espiritualidad , a un mundo en el que todo lo que es huída de la realidad , ascesis , mortificación en humildad y devoción , pálida renuncia y abstracción contemplativa , no tienen ningún lugar . Es la vía de la acción de la potencia solar» (1).

 

MITRA : DEL MUNDO INDO-IRANIO A ROMA.

 

Mitra como divinidad ario-irania

 

Para determinar los orígenes de Mitra hay que remontarse a la religión preavéstica donde aparece junto a Varuna y Surya entre los dioses soberanos o de la primera función indoeuropea. Mitra preside las alianzas y asegura la soberanía de los persas en las tierras recientemente conquistadas, asegura también la feliz doma de animales (2). Es un dios común a los indo-arios de la India y Persia, pero entre estos últimos tiene una función más guerrera que entre los primeros. Su nombre significa a la vez «alianza» y «el amigo» (3) . Mitra aparece en el panteón de tres pueblos indoeuropeos étnicamente muy relacionados: indo-arios, iranios y mitanos, de los que todo hace pensar que se trató de una rama de los indo-arios que se desgajó hacia zonas más occidentales. Siempre aparece como divinidad de la primera función junto a Varuna con quien está en una relación de complementariedad, en todos los sentidos «si los principios conjuntos se consideran en su reciprocidad, el Dios manifestado es el poder masculino y la Divinidad no manifestada es el poder femenino, reserva inagotable de toda posibilidad incluida en la manifestación: es pues Mitra, quien fecunda a Varuna (PB XXX10,10)» (4).

 

Etimológicamente la raíz de su nombre sería la indoeuropea *mei/*moi- con la idea de intercambio, seguido del instrumental -tra. Ésta es al menos la opinión de Meillet y la que más consenso tiene entre los estudiosos. Así Mitra inicialmente habría sido el garante de los acuerdos, el orden del mundo y del orden social, en definitiva de la relación de los dioses con los hombres y de éstos entre ellos mismos. Mitra engloba los conceptos de amigo y de contrato, y, siguiendo a G Bonafonte la evolución conceptual habrá comenzado desde esa raíz *mei/* moi (intercambio)  -obligación mutua (por intercambio de bienes) -amigo, amistad - dios Mitra (5). Siendo el garante de la palabra dada, y, en definitiva, de las relaciones entre los dioses y los hombres y de éstos entre sí. Mitra es quien «sostiene el cielo y la tierra» (Rg Veda, 3, 59).

 

En el espacio temporal que va desde la época védica hasta la reforma zoroastriana, la figura de Mitra también experimentará ciertos cambios, más bien matices, en la naturaleza y función de su divinidad.

 

En el mundo védico, Mitra y Varuna son las dos caras complementarias (que no antitéticas) de la función soberana del panteón indoeuropeo, una relación semejante en el mundo latino sería la de Rómulo- Numa (6). El Mitra védico encarna los aspectos jurídico soberanos, luminosos, siendo un dios cercano al mundo y a los hombres «la función de este culto (el de Mitra) es por lo tanto la de orientar religiosamente y consolidar la cohesión familiar, de amistad, social y, por lo tanto, la red de relaciones interpersonales que constituyen el tejido constitutivo de la vida de una tribu, de un pueblo, de una etnia» (7). Por su parte, Varuna encarna el aspecto mágico, violento, invisible y lejano.

 

Para conocer la figura del Mitra del mundo iranio antiguo, tenemos una gran escasez de fuentes para el periodo más arcaico. Durante la predicación de Zaratustra , todos los dioses del panteón persa se subordinan a Ahura Mazda y, aunque el nombre de Mitra aparezca en el Avesta, donde se le dedica un himno , lo hace de forma casi ocasional , esto ha sido interpretado por los estudiosos como un «eclipse» de esta divinidad , «relegada» por Zaratustra a un papel secundario , aunque hay otro tipo de opiniones : «Los estudiosos occidentales han sacado la errónea conclusión de que Mitra había sido rechazado por Zaratustra sólo porque no es mencionado en los Gatha , como si Zaratustra no hubiese compuesto más que los himnos de fragmentario corpus que han llegado a nosotros» (8). Aparece en el décimo Yashts (cántico) del Avesta, y se enfatiza su aspecto guerrero, y su función de guardián de la moral (9).

 

A. Loisy confirma que el origen de Mitra se encuentra en la religión preavéstica , en la que es el mediador entre el mundo superior y luminoso donde impera Ahura Mazda y el inferior donde ejerce su influencia Arimán (10).En el Mitra -Yasht , un himno religioso en su honor fechado entre el siglo V y VI  a. C. aparece como el dios de la luz , de los guerreros , de los pactos y de la palabra dada, algo que protege muy especialmente y cuya alteración o incumplimiento queda determinado como un sacrilegio y una grave perturbación del orden social y cósmico. Está claramente relacionado con la luz y el sol. Es descrito como «el más victorioso de los dioses que marchan sobre esta tierra»,  «el más fuerte de los fuertes» y físicamente como «el dios de los cabellos blancos», siendo -como ya sabemos- muy frecuentes los elementos fenotípicamente nórdicos en las descripciones físicas de las divinidades indo-ario-persas.

 

Bajo el reinado de Aqueménida, es la divinidad principal con la diosa Anahita y Ahura Mazda, siendo al dios que invocan los reyes en sus testamentos y combates. La religión medo-persa no tenía imágenes, que llegaron con la helenización del Asia menor, a la divinidad que más afectó este proceso fue precisamente a Mitra, que desde estos momentos pasó a un primer plano. Además durante el Helenismo muchas divinidades son asimiladas a los dioses greco-latinos, Ahura Mazda lo será con Júpiter; Ahrimán se convertirá en Hades; mientras que Mitra, conservará su nombre, ya que no tiene correspondencia exacta con los dioses greco-latinos, y aunque durante el Helenismo es el segundo dios en importancia, sin duda es el más adorado.

 

F. Cumont pone de relieve la importancia y la admiración que se tuvo entre los griegos y los romanos hacia el Imperio aqueménida , y cómo muchas de sus instituciones fueron adoptadas por los emperadores romanos por ejemplo los amici Augusti, del mismo modo que llevar delante del César el fuego sagrado como emblema de la perennidad del poder (11) . Lo que ya es más difícil es seguir los caminos, bastante más ocultos, por los que se transmitieron las ideas de unos pueblos a otros. Parece cierto que  a comienzos de nuestra Era, determinadas concepciones mazdeas se habían difundido más allá de Asia. La conquista macedónica de Asia Menor puso a los griegos en contacto directo con el mazdeísmo y hubo un interés general entre los filósofos por su conocimiento. Así como la  «ciencia»  que se extendía entre las clases populares con el nombre de magia, tenía, como su propio nombre indica, en gran parte origen persa. Antes de la conquista de Asia por Roma, algunas instituciones persas ya habían hallado en el mundo greco-oriental imitadores y adeptos a sus creencias. Los más activos agentes de esta difusión parecen haber sido para el mazdeísmo -como, por otro lado también para el judaísmo -las colonias de fieles que habían emigrado lejos de la madre patria (12).

 

Aún así es conveniente recordar la opinión de Julius Evola respecto a la relación entre el culto de Mitra y la religión zoroástrica: «Emanación del antiguo mazdeísmo iránico, el mitraísmo retomaba el tema central de una lucha entre las potencias de la luz y las de las tinieblas y el mal. Podía tener también formas religiosas, exotéricas, pero su núcleo central estaba constituido por sus Misterios, o sea por una iniciación en el verdadero sentido. Ello constituía un límite, aunque así se hacía una forma tradicional más completa. Sucesivamente, se debía, sin embargo, asistir a una cada vez más decidida separación entre la religión y la iniciación» (13)

 

De Persia a Roma.

 

Fue F. Cumont el primero en afirmar la continuidad entre el Mitra iranio y el del culto de época romana, tesis admitida por la práctica totalidad de los estudiosos. S. Wikander negó esta identificación, pero su tesis es paradoxal e insostenible, otro en negarla más recientemente ha sido David Ulansey (14) en su libro, The Origins of the Mithraic Mysteries(15) quien centra exclusivamente su interpretación del mitraísmo como religión astrológica y la representación del Mitra tauróctono únicamente desde el punto de vista astrológico zodiacal, si bien los datos que aporta  sí son interesantes , la interpretación de fondo no deja de ser limitada por reduccionista.

 

En cuanto a la propagación propiamente dicha del mitraísmo en Occidente, data de la fecha de la anexión de Asia Menor y Siria. Y aunque parece haber existido ya en Roma , en la época de Pompeyo, una comunidad de adeptos, la auténtica difusión no comenzó hasta el tiempo de los Flavios, y fue cada vez más importante con los Antoninos y los Severos, para ser hasta finales del siglo IV el culto más importante del paganismo. Aunque hay que tener en cuenta que la influencia de Persia, no fue sólo religiosa, sobre todo desde el 88 d. C; con la llegada al poder de la dinastía Sasánida. En la propia corte de Diocleciano se adoptaron las genuflexiones ante el emperador, igualado a la divinidad. Así que la propagación de la religión mitraica, que siempre se proclamó orgullosamente persa, se vio acompañada de una influencia persa en la política, la cultura y el arte.

 

En cuanto al proceso concreto de llegada de Mitra desde Irán a la península itálica, tenemos una dramática ausencia de fuentes, dos líneas de Plutarco, y una referencia de un mediocre escolástico de Estancio, Lactancio Plácido. Ambos autores coinciden en situar en Asia Menor el origen de la religión irania que se difundió por Occidente, así el mitraísmo se había constituido, antes de que fuese descubierto por los romanos, en las monarquías anatólicas de épocas precedentes, allí llego en la época de dominio Aqueménida, donde los persas se convirtieron en la aristocracia dominante de Capadocia, Ponto o Armenia, y seguirían siendo los amos de la zona después de la muerte de Alejandro. Esta aristocracia militar y feudal propició a Mitríades Eupator, un buen número de oficiales que ayudaron a desafiar a Roma y a defender la independencia de Armenia. Estos guerreros adoraban a Mitra como genio militar de sus ejércitos, y es por esto por lo que siguió siendo siempre, incluso en el mundo latino, el dios «invencible», tutelar de los ejércitos y honrado, sobre todo, por los soldados. 

 

Paralelamente a esta nobleza, otra clase también persa se había establecido en Asia Menor, los «magos» estaban diseminados por todo el Levante y conservaron escrupulosamente sus ritos. Sería el máximo fundamento de la grandeza de los misterios de Mitra.

 

La religión mazdeísta fue a los ojos de los griegos puramente bárbara y no tuvo ningún eco entre los helenos, como sí pudo tener el culto de Isis y Serapis, los griegos jamás aceptaron una divinidad que viniera de sus eternos enemigos. Mitra pasó directamente al mundo latino, además la transmisión fue de una rapidez fulminante, pues los romanos nada más conocer la doctrina de los mazdeos, la adoptaron con entusiasmo. Y llevado hacia fines del siglo I por los soldados a todas las fronteras, el culto de Mitra llegó al Danubio, al Rin, Britania, fronteras del Sáhara y valles de Asturias. Mitra conquistó pronto el favor de los altos funcionarios y del propio emperador. A finales del siglo II, Cómodo se hizo iniciar en los misterios, cien años después su poder era tal que eclipsó a todos sus rivales en Occidente y en Oriente. En 307 Diocleciano, Galeno y Licio le consagraron como protector del Imperio, fautori Imperio sui.

 

MISTERIA MITRAE

 

Los mitreos

 

El de Mitra es un culto totalmente mistérico que celebraban los iniciados para sí. Las cofradías mitraicas admitían solamente a hombres. El primitivo lugar de adoración de Mitra debieron ser las grutas de las montañas, especie de cavernas, en la época que nos ocupa, eran ya los mitreos que consistían en una pequeña capilla, pero, en definitiva seguían siendo grutas, a los que los iniciados se referían como specus. La distribución de la nave parece un comedor, pues el rito principal consistía en una comida para los iniciados, «en efecto, el Mithraeum no es, como el templo greco-romano, la casa de dios, sino un lugar de comunión entre los hombres y los dioses» (16). Había en los mitreos una mesa de piedra en la que estaba representado Mitra matando al toro, montado sobre un eje y esculpida a ambos lados, donde se combinaban imágenes del sol. Este pequeño santuario representaba el mundo, además toda su decoración tenía un alto contenido simbólico, aunque difícil de interpretar por la ausencia de textos contemporáneos. El Mitra tauróctono representa el sacrificio del toro, el tauribolio, como principio de la vida bienaventurada prometida al iniciado.

 

El acceso al mitreo era por una sola puerta, para descender algunos escalones, la capacidad no excedía las 100-120 personas, el lugar sagrado estaba reservado a los iniciados, el resto estaba en salas adyacentes. La disposición interna es constante, la imagen de Mitra está siempre en el centro o en la pared del fondo y en las escenas representadas aparece matando al toro y rodeado de los dadóforos, bien visible está el altar o la mesa sobre las que se apoyan las ofrendas y los alimentos, a los lados los bancos para los sacerdotes, destacando siempre el podium para el pater que preside la asamblea. En el mitreo no hay ventanas, y, al ser las reuniones nocturnas, la luz constituía un elemento de suma importancia, siendo el reclamo al Sol. En el ingreso al mitreo había un zodiaco, representando al universo, en el centro se reúne y canta la comunidad iniciática, reforzando la solidaridad fraterna del grupo.

 

El culto a Mitra conocía la semana con consagración de los siete días a las siete esferas planetarias, santificándose especialmente el primer día dedicado al Sol. Había también fiestas estacionales, se cree que tuvo cierta importancia la del equinoccio de primavera, común a otras iniciaciones, pero sin duda la más importante fue la de la Natividad del Sol, fiesta del Sol Invictus, que se celebraba, coincidiendo con el solsticio de invierno, el 25 de Diciembre. Mitra nace entre un buey y una mula en una gruta, con dos pastores de testigos: Cautes y Cautópates, Cautes tiene una antorcha encendida hacia arriba (el día), Cautópates tiene una antorcha encendida hacia abajo (la noche).

 

 

Los grados iniciáticos

 

La religión de Mitra no era un conocimiento sagrado escrito y codificado, que se podía aprender leyendo, la verdad sobre la que se sustenta, la base de sus misterios, son transmitidos de boca a oído entre los fieles y adeptos de las distintas jerarquías internas.

 

Siete eran los grados por los que debía de pasar un iniciado que pretendiera llegar al grado supremo: el cuervo, el oculto, el soldado, el león, el persa, el mensajero del Sol, y el padre. Se piensa que se determinaron según los siete planetas y son las siete esferas planetarias que el alma tendría que atravesar hasta llegar a la morada de los bienaventurados. No ajeno a este concepto es la expresión aún hoy coloquial de «llegar al séptimo cielo», para hacerlo el iniciado mitraísta tenía que atravesar siete puertas anteriores:

 

La primera es de plomo y frente a Saturno, debe despojarse del peso del cuerpo y de su vinculación a la vida y la tierra.

 

Venus le espera en la segunda, hecha de estaño, y le exige el abandono de la belleza física y del placer sexual.

 

En la siguiente puerta, que es de bronce, se encontrará con Júpiter ante el que tendrá que despojarse de la seguridad personal y la confianza en sí mismo y su pequeño yo.

 

La cuarta es de hierro y Mercurio es quien la custodia, ya no sirven ni inteligencia ni cultura, tampoco la antorcha luminosa ilumina nada ante la verdadera luz que es dios.

 

Frente a la puerta de Marte - de bronce y hierro -  nada puede hacer la espada que es sustituida por la fuerza divina.

 

La Luna vela la puerta de plata donde se dejan orgullo, ambiciones y amor a sí mismo, amor que sólo merece dios.

 

La última puerta es de oro y la cuida el Sol, quién tiende la mano al adepto pidiéndose un último gesto, ir más allá de sí mismo aceptando la mano que el propio Sol le está ofreciendo .

 

También, cada uno de los siete grados estaba influenciado por una diferente esfera planetaria:

 

korax  (cuervo)                                      Mercurio

 

nymphus                                              Venus

 

miles (soldado)                                        Marte

 

leo (león)                                              Júpiter

 

perses (persa)                                      Luna

 

Heliodromus                                          Sol

 

Pater                                                    Saturno (17)

 

 

Según Porcino (18) los cuervos serían una especie de auxiliares de los misterios, puede que en algún tiempo fuesen niños.

 

Este primer grado toma su nombre del animal que en la tauroctonía lleva a Mitra el mensaje de dios en el que le ordena matar al toro. Así el iniciado que tiene este grado, protegido por Mercurio, «es portador de mensajes» (19). Téngase presente también la relación entre las aves y el «lenguaje simbólico». Según los restos que nos han llegado, especialmente del mitreo de Capua, sabemos que viste una capa blanca con bandas rojas. En las ceremonias tiene la función de servir los alimentos que él no puede probar, el sentido es desposeer al iniciado de primer grado de los restos de ego profano.

 

El segundo grado tiene dos nombres, el de cryphius y el de nimphos. El primero (el oculto) ha sido relacionado con el hecho de que permanece escondido, no aparece en los bajorrelieves, sólo se les mostraba una vez y parece que era una ceremonia especialmente solemne. Puede que primitivamente fueran adolescentes, antes de llegar a soldados, que vivían en un régimen de separación especial. Pero realmente si hay presencia de este grado en los restos arqueológicos, con lo que habrá que centrarse en su segundo nombre nimphus o nymphos para darle una interpretación correcta. Así mismo, nymphos puede tener dos significados, el de esposo o mejor prometido, que lo relacionaría con Venus, su esfera protectora, y el Amor (en sentido iniciático) que debe tener hacia Mitra. También puede significar ninfa-crisálida, haciéndose referencia a una especie de proceso metamórfico en el que « de gusano»  (= el ser ligado a lo terreno, a las pasiones y a los instintos), pasa al estado de «crisálida» (=el huevo, el estado de clausura de aislamiento y de preparación), para propiciar el nacimiento de esa abeja o «mariposa» (=la capacidad en acto del alma de alzar el vuelo, de desvincularse de las ataduras terrenas)» (20). En este grado viste un velo amarillo sobre su rostro -de ahí lo de oculto -y tiene como atributo una lámpara, símbolo de la luz  necesaria para la consagración de este grado,

 

El soldado, es un iniciado propiamente dicho. En la Antigüedad ya guerreros plenamente dedicados al combate y a la caza. Su iniciación era una especie de bautismo, con la imposición de una marca en la frente, similar al cristiano. Sus símbolos son la espada y la corona. Corona que, simbolizando el poder, se le ofrece y debe rechazar al grito de «Mitra es mi corona ». En los mitreos de Capua y Ostia aparece con una capa ornada en púrpura y un gorro frigio. Su misión es garantizar la justicia y el orden. En los ritos de iniciación es el «liberador» y en las asambleas el encargado de mantener el orden.

 

En la exaltación al grado de los leones, se vierte miel en vez de agua, sobre sus manos y se les invita a conservarlas puras de todo mal, mala acción y de toda mancha, también con la miel se les purifica la lengua de toda falta. La miel tiene una gran importancia en la tradición persa, se cree que es una sustancia celestial, llegada de la luna, es superior al agua en su virtud, y comparable desde el punto de vista místico al brebaje sagrado del haoma. En los restos arqueológicos aparece con una toga roja y un manto rojo, en algunas ocasiones con remates amarillos. Es importante hacer notar que, a diferencia de los grados inferiores, es ahora -como leo- cuando el adepto recibe un nuevo nombre. Para este grado -protegido por Júpiter-  su atributo simbólico es el rayo, símbolo presente en varias tradiciones indoeuropeas: Zeus, Odín, Indra y Varuna también lo tienen como iconografía propia. El rayo, símbolo de la luz y potencia, estaría aludiendo a una experiencia de iluminación interior, el paso a un estado superior de conciencia.

 

El nombre del persa, es una clara referencia a la patria de origen del dios Mitra. También se usa la miel en su consagración, pero con un simbolismo diferente, «es considerado como el guardián de los frutos en amplio sentido (incluidos los cereales) y en la Antigüedad la miel usada de azúcar fue símbolo de conservación» (21). En cierta medida representaría a Mitra en su relación con la vegetación y la fecundidad de la tierra.

 

Sin embargo mucho más interesante nos parece la interpelación de este grado y su relación con la Luna que hace Stefano Arcella en su libro, I Misteri del Sole, aplicando criterios tradicionales y evolianos donde otros autores positivistas se limitan a criterios racionalistas, arqueológicos e incluso artísticos con los que es imposible penetrar y descifrar el mito. Para Arcella la Luna sería su numen titular, al ser el astro que da luz durante la noche, leído interior y simbólicamente, se estaría dando a entender que el iniciado-durante esta fase- tendría que sumergirse en su propio mundo interior «sin luz»  -asimilado con la noche- tomar conciencia de él y ser capaz de dominarlo, ese viaje nocturno sólo podría hacerse bajo la protección de la Luna que ilumina las tinieblas. Así -intuye el autor italiano -habría que pensar que la iniciación de este grado sería durante la noche, y, posiblemente, las pruebas consistieran en cumplir determinadas encomiendas aun a pesar de la nocturnidad y la oscuridad, es decir «venciendo la noche». En las ceremonias del culto llevaba el traje persa y el gorro frigio que también llevaba Mitra.

 

Heliodromus es el corredor del Sol, Arcella también lo califica como «la puerta del Cielo». Se asimila al Sol, pues no corre delante del Sol, sino que sube con él en un carro, es el grado anterior al supremo, y se muestra al adepto sobre el carro del cielo, adonde le basta penetrar con Mitra para alcanzar la esfera de la divinidad. «Heliodromus está subordinado al Pater, como el Sol lo está a Mitra, verdadero Sol Invictus» (22).Viste túnica roja con cinturón amarillo y se le representa con una antorcha encendida. En este grado se le vuelve a ofrecer la corona -rechazada anteriormente-y esta vez la asume, porque ahora la corona no está simbolizado el  poder mundano sino que es la corona-rayo que simboliza los rayos solares y significa la apertura del iniciado a la Luz del Sol espiritual. La corona tiene siete rayos, cifra presente en varias tradiciones, por lo menos desde el Pitagorismo, según el cual cada planeta irradia una propia vibración sonora, siete son los planetas a los que están ligados los adeptos mitraicos, así como siete son los días de la semana. Sin duda el requisito para llegar a Heliodromus era ser capaz de dominar los impulsos concupiscibles e irascibles del alma «La iniciación al grado de Heliodromos sucedía, verosímilmente, cuando cantaba el gallo, a la primera luz del alba, ya que el iniciado debía entrar en sintonía con el sentido anímico de abrirse a la luz» (23). Durante los banquetes guía a los comensales y hace los honores de la casa.

 

El padre es el grado supremo, su dignidad corresponde a la de Mitra en el cielo. Son los perfectos iniciados que participan plenamente de Mitra. A su cabeza está el padre de los padres (24). Cumbre de la jerarquía, lleva un gorro frigio ornado con perlas y un manto púrpura sobre una túnica roja con bandas amarillas, lleva un anillo y en la mano derecha el bastón que simboliza mando y poder. Es el guía de la comunidad. Entre sus atributos estaba la hoz. El cetro del mago y el gorro de persa. En un mitreo encontrado en Mesopotamia los padres estaban representados con hábitos persas, sentados en tronos, el cetro del mago en la mano derecha y en la izquierda un pergamino, que simboliza su conocimiento de los textos rituales y su significado religioso. Eso, y la elección del vocablo Pater los relaciona con la tradición jurídica y religiosa romana, de la misma estirpe que la indo-aria.

 

Lejos de considerar el paso por los diferentes grados iniciáticos como una convención o algo parecido a una representación teatral para adeptos, hay que reflexionar sobre las indicaciones que, al respecto, da Evola: «Existe un nivel en el que resulta por evidencia inmediata que los mitos misteriosóficos son, esencialmente, transcripciones alusivas de una serie de estados de conciencia a lo largo de la autorrealización. Las diferentes gestas y las varias vivencias de los héroes míticos no son ficciones poéticas, sino realidades- son actos bien determinados del ser interior que relampaguean uniformemente en cualquiera que quiere avanzar en la dirección de la iniciación, esto es, en la dirección, de un cumplimiento más allá del estado humano de existencia» (25).

 

Iniciaciones y celebraciones.

 

Aunque se ignora cuál era el ritual de las iniciaciones, se sabe que entre las condiciones preliminares de admisibilidad a los distintos grados había «pruebas» bastante duras y que incluso el ritual de las iniciaciones, sobre todo para el soldado, mantenía cuanto menos un simulacro de luchas y peligros. A juzgar por los restos encontrados en los mitreos los sacrificios de animales debían ser numerosos.

 

Además existía la oblación del pan del brebaje sagrado, imitado luego por los cristianos, y en esta «comunión» se repetían las palabras «éste es mi cuerpo» y «ésta es mi sangre», pues representaban la sustancia del toro mítico y divino que era Mitra, entendido como Ser supremo. El líquido que se servía pudo ser agua o en ocasiones vino, aunque en su inicio era ahoma (el soma de la India védica), que se mantuvo en el ritual ascético, pero ante la imposibilidad de obtener la planta sagrada, se sustituyó el líquido aunque no el significado.

 

Las imágenes que tenemos de escenas iniciáticas corresponden a los frescos del mitreo de Capua, en todas vemos características comunes: el iniciado desnudo, vendado y/o arrodillado; el oficiante poniéndole una túnica blanca, el pater con un gorro y una capa roja.

 

En otro mitreo cercano a Roma, se han encontrado dos series de representaciones que corresponden a las procesiones de los leones; la primera serie está fechada en 202, en ambas los iniciados de cuarto grado, aparecen desfilando ante el Pater, al que le ofrecen algunos dones. En estos tipos de ritos mitraicos dos elementos son constantes y tienen una importante función simbólica; el incienso; común a varias tradiciones espirituales, siempre con un sentido de purificación; y el fuego , como símbolo de luz y vida, doblemente como símbolo de sacralidad solar, y como símbolo de la «cadena» que forman los iniciados en los misterios mitraicos, que-cada uno de ellos individualmente -una vez establecido el contacto con esa Luz son capaces de transformar y dominar su elemento telúrico- lunar- taurino, otro de los significados -y no el menos importante del simbolismo de la tauroctonía mitraica.

 

La comida sagrada, otra celebración importante para la comunidad mitraica, simbolizaba el encuentro entre Mitra y el Sol. El pan consagrado remitía a la unión mística del grupo que, ingiriéndolo se apropiaba de una determinada energía, que les transmutaba en algo diferente (el paralelismo con la eucaristía cristiana es más que evidente). También se consagraba el vino, que en el mitraísmo romano había sustituido definitivamente al ahoma iranio, que ya nadie sabía cómo lograr preparar. Para S. Arcella cabría otra lectura de este banquete: «...inherente a la realización individual: una vez vencida, sacrificada y transformada la propia componente "taurina", el iniciado se encuentra y se reúne con su Principio solar (en el símbolo: el banquete entre Mitra y el Sol): utiliza toda la energía de la naturaleza inferior, a favor de un empuje ascendente y de una estabilidad en la realización espiritual» (26).

 

En cuanto al aspecto de la autorrealización individual , y de la posibilidad de potenciar determinadas facultades innatas en sentido de lograr una identificación ontológica con la divinidad, tenemos pruebas documentales en el llamado Ritual Mitraico del Gran Papiro Mágico de París, en el que se habla claramente de un rito no comunitario sino individual, en el que el iniciado a los «misterios mayores»  -es decir grados superiores- entra en disposición de lograr un contacto unificador con el dios, venciendo el elemento «taurino-telúrico» y lo hace con la pronunciación de nuevo logos, que cada uno de ellos abre sucesivas puertas sutiles, produciéndose los correspondientes saltos de calidad ontológica . Estos logos serían parte de la técnica tradicional de la sonoridad ritual capaz de dar vibraciones «sutiles» que producen cambios a nivel interno y externo, es el mantra hindú.

 

 

Iconografía

 

Mitra nace de una piedra, y siempre -desde el momento de su nacimiento -es representado con un puñal en la mano derecha y una antorcha en la izquierda, los cabellos en forma de rayos solares. También existe otra versión menos extendida en la que el dios nace de un árbol o de la parte inferior del «huevo cósmico». La lectura desde el simbolismo tradicional infiere que el nacimiento de una roca alude a la materialidad que encierra un elemento luminoso y vivificar, que ahora -con el nacimiento- es capaz de regenerar su naturaleza anterior, si Mitra nace de la piedra, su cuerpo es el templo -no la cárcel- de su espíritu desde el cual puede manifestar todo su poder y luminosidad «la organización corpórea es el signo de un cierto núcleo de potencia cualificada, y la iniciación mágica no consiste en disolver tal núcleo en la indistinta fluctuación de la vida universal, al contrario, en potenciarlo, en integrarlo, en llevarlo no hacia atrás, sino adelante» (27) la piedra sería también símbolo de la incorruptibilidad, «estaríamos tentados de establecer una analogía entre esta génesis de Mitra y un tema del ciclo artúrico, en el que figura una espada que hay que extraer de una piedra que flota sobre las aguas» (28). El nacimiento de un árbol podría tener el mismo significado, el de la potencial sacralidad de la naturaleza, pero también podría relacionarse con la imagen del árbol como guardián y fuente de la sabiduría eterna, en paralelo con el caso de Wotan y el Yggdrasil. El nacimiento desde el Huevo Cósmico, símbolo de la potencialidad que origina la Manifestación Universal, remite a la fuerza espiritual parte de esta manifestación.

 

En varias escenas de su nacimiento, vemos que Mitra está acompañado por un grupo de pastores, interpretados por Evola como ciertas «superiores presencias espirituales » que ayudan en el nacimiento iniciático (29). En otras tantas, vemos que en su nacimiento,  Mitra está acompañado de dos personajes: Cautes y Cautópates, el primero, Cautes, lleva una antorcha con el fuego hacia arriba, representa la luz del Sol ascendiente, del día que crece: del solsticio de invierno al solsticio de verano, también el amanecer; la antorcha de Cautópates está hacia abajo representando la luz del Sol que decrece: del solsticio de verano al solsticio de invierno, también el atardecer.

 

 

Ética mitraica. La dexiosis.

 

F. Cumont se pregunta el porqué del éxito del mitraísmo. Según él esta religión, la última de las orientales en llegar a Roma, aporta una nueva idea: el dualismo. Se identificó el principio del Mal, rival del dios supremo; con este sistema, que proporcionaba una solución simple al problema de la existencia del mal-escollo para tantas teologías- sedujo tanto a mentes cultas como a las masas. Pero esta concepción dualista, no basta para que la gente se convirtiera a la nueva religión, además el mitraísmo ofrecía razones para creer, motivos para actuar y temas de esperanza, esta religión fue el fundamento de una ética y una moral muy eficaz y concreta, esto fue lo que en la sociedad romana de los siglos I y III, llena de insatisfechas aspiraciones hacia una justicia y una ética más perfecta, garantizó el éxito de los misterios mitraicos. Según el emperador Juliano, Mitra daba a sus iniciados entolai o mandamientos y recompensas en éste y en el otro mundo a su fiel cumplimento. Y así el mazdeísmo trajo una satisfacción largo tiempo esperada y los latinos vieron en ella una religión con eficacia práctica y que imponía unas reglas de conducta a los individuos que contribuían al bien del Estado.

 

Mitra, antiguo genio de la luz, se convirtió en el zoroastrismo y continuó siéndolo en Occidente, en el dios de la verdad y de la justicia. Fue siempre el dios de la palabra dada y que asegura estrictamente el cumplimiento de los acuerdos y pactos. En su culto, se exaltaba, la lealtad y sin duda se buscaba inspirar sentimientos muy similares a los de la moderna noción de honor. También se predicaba el respeto a la autoridad y la fraternidad, al considerarse los iniciados como hijos de un mismo padre, pero a diferencia de la «fraternidad cristiana» basada en la compasión o en la mansedumbre, la fraternidad de estos iniciados, que tomaban el nombre de soldados era más afín a la camaradería de un regimiento, y se basaba en aspectos viriles y guerreros.

 

En la religión de Mitra tiene gran importancia la lucha y la acción, es loable la resistencia a la sensualidad y la búsqueda de la virtud, pero para llegar a la pureza espiritual, hace falta algo más, es la lucha constante contra la obra del espíritu infernal, sus creaciones demoníacas salen constantemente de los abismos para errar por la superficie de la Tierra, se meten por todas partes y llevan la corrupción, la miseria y la muerte. Los guías celestiales y guardianes de la piedad deben impedir que triunfen. La lucha es continua y se refleja en el corazón y la conciencia del hombre, miniatura del universo, entre la divina ley del poder y las sugestiones de los espíritus perfectos. La vida es una guerra sin cuartel, una continua lucha. Los mitraístas no se perdían en misticismos contemplativos, su moral agonal, favorecía sobre todo la acción y en una época de anarquía y desconcierto los iniciados hallaban en sus preceptos un estímulo en consuelo y orgullo. El cielo se merece, se gana en la guerra, el mismo concepto lo tenemos en otro extremo del mundo indoeuropeo, entre los vikingos y su idea del Walhalla, como morada de los guerreros.

 

El italiano Tullio Ossana dedica la mayor parte de su libro La stretta di mano . Il contenuto etico della Religione di Mitra, -tras la correspondiente explicación de orígenes, difusión, estructura interna y ritos- precisamente a ese rasgo tan propio de la religión mitraica, sin duda una de sus principales activos a la hora de ganar adhesiones, que fue la elaboración de una ética propia de raíz guerrera. Esta ética tendría tres objetivos:

 

- Hacer del hombre un hombre consciente, maduro, comprometido, por lo tanto capaz de actuar según sus capacidades y de poner su vida en acción.

 

- El segundo objetivo sería entrar en armonía en el Cosmos y cumplir su gran misión de ser intermediario entre dioses y hombres, entre hombres y la creación.

 

-Ser parte del plan de Mitra, revelado a el por el Sol. Representar el orden divino allí donde esté presente, con las implicaciones escatológicas y de ultratumba que ello implicaría.

 

Habría, según F. Cumont (30) una especie de decálogo que la religión mitraíca trazaría para que cada uno de sus adeptos fuese capaz de llegar a cumplir los tres objetivos mencionados. Cumont no llega a explicitar dicho decálogo, pero Tulio Ossana sí que nos da pistas para poder hacernos una certera idea de en qué podría haber consistido.

 

-Ética de la luz. Indicando el aporte de la inteligencia a la acción, la sabiduría en toda realización y la fidelidad a la verdad y a la palabra dada.

 

 

- Ética de la espada, como símbolo trascendente de la fuerza física, de la que queda excluido su uso prepotente e irracional.

 

-Ética de la transformación -preferimos este término al de «progreso» utilizado por T. Ossana-. En la acción de Mitra y sus iniciados existe una evidente transformación cuyo objetivo final es la transformación y la gloria.

 

-Ética de la amistad. Que liga a los adeptos con Mitra -el amigo- y a los adeptos entre sí en una fraternidad guerrera: la militia Mithrae.

 

Ética del servicio. Mitra, ejemplo de sus adeptos, pone su superioridad al servicio de la lucha por el bien y el orden. Rechazando cualquier pasividad (auto)-contemplativa.

 

Ética de la salvación. El fiel, salvado por el conocimiento de Mitra, se empeña en la salvación de sus hermanos, como éstos debe entenderse sólo a los miembros de la militia Mithrae.

 

Ética de la acción. La ética mitraica despierta al hombre a la acción, que estará en relación con sus capacidades interiores innatas que ahora debe poner a actuar.

 

Ética de la lucha contra el mal. Recordemos la visión dualista del mitraismo y su implícita obligatoriedad para luchar activa y firmemente frente al mal representado por Ahrimán.

 

Ética de la jerarquía-también aquí preferimos este término que los utilizados por T Ossana: orden y obediencia-. Evidentemente se refiere a la obediencia de los grados inferiores hacia los superiores.

 

Si hay un gesto que resume visualmente todo el contenido ético del que estamos hablando es la destrarum iunctio o dexiosis que convierte a los mitraístas en syndexioi (literalmente «unidos por la mano derecha»). En las civilizaciones arcaicas la mano se considera como un centro de potencia y un punto de focalización de energía (31), especialmente la derecha se ha relacionado con las capacidades creativas y guerreras del hombre. En el zazen la derecha es considerada la mano masculina o yang, en el típico mudra que se utiliza durante la meditación, ésta protege a la izquierda considerada como la femenina o yin. Así el gesto de unir las manos derechas alude tanto a la comunidad de camaradería que era la milicia mitraica como al hecho de abrir circuitos sutiles de energía que circularían entre todos los miembros de la misma, no lejano es el simbolismo de la cadena de algunas sociedades medievales iniciáticas e incorporado-una vez «desactivado» como es típico de esta institución-por la masonería.

 

Siguiendo estos preceptos éticos el adepto mitraista alcanzaba una serie de virtudes que, al parecer realmente, fueron características propias de los miembros de la militia mitraica a lo largo de su existencia: coherencia interna y externa, fidelidad, disponibilidad, coraje, humildad y alegría, entendida como plenitud. Lo que ayudó mucho a que las autoridades romanas vieran en el mitraísmo una religión que aportaba buenos ciudadanos siempre dispuestos a la defensa del Imperio.

 

El dualismo también condicionó las creencias escatológicas de los mitraístas. La oposición entre cielo e infierno continuaba en la existencia de ultratumba. Mitra también es el antagonista de los poderes infernales y asegura la salvación de sus protegidos en el más allá. Según el profesor Gonzalo Fernández de Córdoba, el alma se someterá a un juicio presidido por Mitra si sus méritos pasados en la balanza del dios, son mayores que los fallos, él lo defenderá frente a los agentes de Ahrimán, que tratarán de llevarla a los abismos infernales. Las almas de los justos se van a habitar a la Luz infinita, que se extiende por encima de las estrellas, se despojan de toda sensualidad y codicia al pasar a través de las esferas planetarias y de este modo se convierten en tan puras como las de los dioses, que serán, en adelante, sus compañeros. Al final de los tiempos, resucitará a todos los hombres y dará a los buenos un maravilloso brebaje que les garantizará la inmortalidad definitiva, mientras que los malos serán aniquilados por el fuego junto al propio Ahrimán.

 

El mitraísmo fue el culto mistérico que ofreció un sistema más rico, fue el que alcanzó una mayor elevación espiritual y ética, ninguno de ellos atrajo tantas mentes ni tantos corazones. El mazdeísmo mitráico fue una especie de religión de Estado del Imperio romano en el siglo III, de ahí la conocida frase de Renán: «si el cristianismo se hubiese detenido en su crecimiento por alguna enfermedad mortal, el mundo hubiera sido mitraísta».

 

 

EL MITRAÍSMO EN EL IMPERIO ROMANO.

 

Expansión y relación con el poder.

 

Es en el siglo I d. C. cuando el mitraísmo se instala en la Urbs romana, desde un primer momento, lo hace en círculos cercanos al imperial. La representación más antigua del dios sacrificando al toro data del año 102 bajo el reinado de Trajano. Fuera del Lacio es Etruria meridional la zona con mayor número de mitreos, siendo Campania y la Cisalpina dos importantes zonas de penetración.

 

La difusión del rito mitraísta se manifiesta en Retia y especialmente en Nórica. En el reinado de Adriano, poco antes de 130, llega a Germania, y con Antonino Pío hasta la Panonia. Desde la época de Marco Aurelio hasta los Severos -es decir entre 161-235- los santuarios se suceden a ambos lados del Rin y en las provincias danubianas, siendo también frecuentes en Tracia y Dalmacia, mucho menos en Macedonia y Grecia, donde solo tenemos noticia de un mitreo cercano a Eleusis que había sido consagrado por legionarios claramente itálicos. El Asia helenizada fue muy refractaria a este culto. Por el contrario sí hay constatación de templos consagrados a Mitra en Capadocia, en el Ponto, en Frigia, en Lidia y en Cilicia, cerca del mar Negro hay restos arqueológicos en Crimea, donde habría penetrado desde Trevisonda. También se han encontrado en Siria y en el Eúfrates, casi siempre relacionados con campamentos de legionarios, lo mismo que en Egipto.

 

A finales del siglo II su culto alcanza la cúpula de la jerarquía militar imperial e incluso hay emperadores que se hacen iniciar en estos misterios. El caso de Nerón es aún dudoso, M. Yourcenar en sus célebres Memorias de Adriano, da el dato de este emperador hispano, pero del primer emperador que hay constancia cierta es de Cómodo que habilitó una dependencia subterránea de la residencia imperial de Ostia para la práctica de este culto. También es claro el caso de Séptimo Severo, por el contrario, el emperador oriental y orientalizante Caracalla tuvo como dios a Serapis. La primera mención clara, pública y oficial en la que Galeno, Diocleciano y Licinio, en 307 califican al dios de fautor imperii sui (protector de su poder), el primero de ellos fue, sin duda, adepto al culto de Mitra. Mucho se ha dicho, en este sentido, sobre Juliano el Apóstata, aunque la única prueba concreta de la que se tiene constancia es la mención a Mitra en su Banquete de los Césares, emperador que ha pasado a la historia con el sobrenombre despectivo del Apóstata, aunque otros, con mejor criterio se refieren a Juliano Flavio, como Juliano Emperador (32), «porque en rigor si alguien debe ser llamado "apóstata" debería ser el caso de los que abandonaron las tradiciones sacras y los cultos hacedores del alma y la grandeza de la Roma antigua(...) no debería ser, por el contrario, el caso de quien tuvo el coraje de ser tradicional y de intentar reafirmar el ideal "solar" y sacro del Imperio, como fue el intento de Juliano Flavio» (33).

 

Mitra tuvo numerosos fieles en el orden senatorial de la Urbs. El medio urbano es, a lo largo y  ancho de todo el Imperio, el más propicio para el culto mitraico y donde se encuentra a sus seguidores y adeptos, el medio rural, mucho más conservador, lo rechazó claramente, como posteriormente haría con el cristianismo (34). Socialmente vemos que está presente «en su fase más antigua, entre siervos y libertos, posteriormente, en el curso del siglo II, en el estamento militar. Se difunde, a lo largo del siglo III, en el ordo equester y en el siglo IV en el senatorial»(35). El hecho de que al principio fueran siervos y libertos habla claramente de la gran tolerancia religiosa del mundo romano y de sus clases dirigentes, otro ejemplo curioso es que está datada la existencia de un pater mitraísta que a la vez era sacerdos de la domus Augusta, evidenciando la postura oficial de tolerancia y reconocimiento hacia el culto mitraico. En general las inscripciones del siglo III-IV revelan la gran importancia que tuvo el componente militar en la composición de los adeptos de Mitra y en su difusión por el Imperio.

 

 

 

El culto a Mitra en Hispania

 

En cuanto a la presencia del mitraismo en la península ibérica, según García y Bellido es, de los cultos mistéricos practicados en la Antigüedad, el que menos representado está arqueológicamente. Hispania es el país de Europa occidental más pobre en restos mitraicos. La explicación es bastante sencilla, el culto a Mitra estuvo íntimamente relacionado con el movimiento y el asentamiento de las legiones, e Hispania en los siglos II y III, época de expansión y culto, vive una existencia bastante pacífica y al margen del movimiento de tropas, tan frecuente en otras partes del Imperio, y por tanto al margen de las vías de penetración del mitraísmo (36).

 

Testimonios arqueológicos de presencia mitraica hay en las antiguas tres provincias de la Hispania de época imperial, siempre en zonas periféricas de la Meseta. En el Tarraconense hay ejemplos en sus dos extremos: la zona noroeste y el territorio astur y centros urbanos del litoral mediterráneo, como Barcino, Tarraco, Cabrera del Mar y, en la Comunidad de Valencia hay atestiguada una inscripción encontrada en 1922, en la localidad de Benifayó, en un lugar donde se han encontrado varios restos romanos. El epígrafe allí encontrado, tiene 65 cm de altura y se conserva en el Museo Provincial de Valencia. El texto dice:

 

                    Invicto/Mithrae/Lucanus/Ser(vus)

 

En Lusitania los restos arqueológicos están esparcidos por todo el territorio, pero indudablemente el centro principal e irradiador del mitraísmo estuvo en Emerita Augusta. Para la Bética la zona de hallazgos corresponde a la zona interior: Itálica, Corduba, Munda e Igagrum (actual Capra), donde se encontró una gran estatua de Mitra tauróctono, con Mitra vestido con pantalón persa, túnica con mangas y gorro frigio (37), exceptuando algún dato en la ciudad portuaria de Malaca.

 

 

«En general, el material que disponemos, procede de capitales de provincias, conventus, de colonias y municipios, es decir de zonas fuertemente romanizadas, donde hubo arraigo municipal. Fueron al mismo tiempo ciudades portuarias, administrativas o militares, asiento de soldados y comerciantes que transportaron el culto en su bagaje» (38). Siendo indudablemente el elemento militar el numéricamente más importante entre los adeptos al mitraísmo y el que ejerce principalmente la función de difusor por el territorio hispano. Otra vía fueron los comerciantes llegados a puertos del Mediterráneo hispánico.

 

FINAL Y PERVIVENCIAS DE UN CULTO GUERRERO

 

El fin del mitraísmo.

 

Al no incluir mujeres entre sus adeptos el mitraísmo limitó su campo de crecimiento y se encontró en desventaja frente a otros cultos como por ejemplo el cristianismo. Su segundo problema fue que siempre conservó la «marca persa» y Persia nunca se integró en el imperio, siendo por el contrario, enemigo hereditario y amenaza constante.

 

Constantino, el primer emperador cristiano, manifestó una particular hostilidad hacia el mitraísmo, así en 324 prohibió expresamente el sacrificio a «ídolos» y la celebración de cultos mistéricos. El rito mitraico tenía circunstancias agravantes: el sacrificio terminaba con un banquete con el dios y los emperadores cristianos tenían presentes las palabras de Pablo en su I carta a los corintios: «No quiero que entréis en comunión con los demonios». La legislación se hace más dura en el siglo IV  cuando se prohíbe cualquier sacrificio nocturno, precisamente la hora del ritual mitraico. El culto mitraico está en decadencia cuando Constancio II en 357 llega a Roma, circunstancia que aprovecha la aristocracia senatorial para obligarle a recortar las «leyes antipaganas», el reinado de Juliano el Apóstata (361-363) reactiva los cultos paganos, y de forma muy clara al mitraico, pero esta tendencia dura poco, en 391 una ley prohíbe toda clase de culto o manifestación pagana, y en 394 el mitraísmo desaparecerá de la Urbs, en el resto del Imperio las dos últimas dedicatorias epigráficas a Mitra tendrían fecha de 325 y 367.


Influencias y permanencias mitraicas en el cristianismo.

 

Sin embargo hay testimonios que indican que, aún después de la destrucción de los mitreos, la vitalidad de culto permaneció durante largo tiempo. Es lógico inferir que continuó teniendo influencia en importantes capas de la sociedad, y que el cristianismo- nuevo culto dominante-recogió y adaptó muchos de sus temas e iconografías:

 

La influencia más evidente históricamente confirmadas del culto solar sobre el cristianismo en el Imperio tardío es la elección del 25 de Diciembre como la del nacimiento de Cristo, es decir la misma fecha que Aureliano consagró en 274 al Natalis Sol Invicti, fecha que también era celebrada por los mitraistas, que no dejaban de ser un culto solar particular.

 

Trascendente fue también el cambio del sábado al domingo como «día del Señor», lo que se explica al renunciar al calendario lunar semita y adoptar el solar en que el domingo (día del sol = Sunday en inglés, Sonntag en alemán) da comienzo a la semana.

 

También hubo influencia mitraica directa en los rituales comunitarios, es de resaltar la afinidad entre el ritual de consagración mitraica y los sacramentos cristianos del bautizo, comunión y confirmación, sacramentos que entre ellos no serán autónomos hasta el siglo XI. Según expresión de Santo Tomás de Aquino el bautizado se convierte en «soldado de Cristo» lo que nos recuerda claramente a la idea al adepto como miembro de la «milicia de Mitra», y en la comunión se da la idea espiritual de «luchar contra los enemigos de la fe», en el mismo sentido del culto mitraico.

 

Por otro lado resulta llamativo que los cristianos conservaran el nombre de pater para sus sacerdotes y que los obispos sigan llevando un gorro que recibe el nombre de mitra. No lo es menos la imagen del Arcángel San Miguel con la espada en la mano para matar al dragón que puede recordarnos a la imagen de Mitra, puñal en mano matando al toro; en ambos casos estaríamos ante la imagen de «la lucha victoriosa de una figura trascendente contra una bestia que primero es domada y luego sacrificada» (39).

 

Otra influencia irania y zoroástrica, aunque no es definitivo que sea también mitraica, es la adoración de los Reyes Magos. Herodoto define a los « magos» como una casta sacerdotal irania que ejercía su función primero entre los medas y luego entre los persas. Los regalos que le llevan tienen un claro simbolismo tradicional: el oro siempre ha sido símbolo del sol y, en consecuencia de la realeza, que es la representación en la tierra de lo que el sol es en el sistema solar, precisamente Melchor regala oro por tratarse de un rey, Gaspar incienso por ser un dios y Baltasar mirra por ser un hombre. Siguiendo con los Magos que visitan a Jesucristo recién nacido es obligatorio referirse a los cambios iconográficos que ha hecho la iglesia en su iconografía, mucho han variado desde la representación de los mosaicos de Rávena a la actualidad, en un primer momento son hombres de una misma edad e igualmente de raza blanca, es en el siglo XV cuando Petrus Natalibus establece arbitrariamente que Melchor tiene 60 años, Gaspar 40, y Baltasar 20. Durante la Edad media habían incorporado una iconografía alquímica, representando -por los atributos-cada uno de ellos una de las fases alquímicas: blanco/Melchor-rojo/Gaspar-negro/Baltasar/África, es desde esa fecha cuando se representa a Baltasar como un hombre «negro», en este caso nos negamos a decir: como un hombre «subsahariano».

 

¿Fue posible la supervivencia?

 

Es lógico pensar que una ley no fue suficiente para terminar de un plumazo con un culto tan extendido y con un gran número de adeptos cual fue el mitraísmo. Hay restos y testimonios dispersos que infieren la existencia de núcleos de resistencia mitraísta en el siglo V. En el siglo XX las obras de inspiración tradicional y evoliana se encargan de buscar restos aún vivos de tradiciones europeas precristianas, especialmente de la continuidad de la tradición romana y de pervivencias mitraicas. Así la revista Mos maiorum en un número de 1996(40) llega a afirmar que «el culto mistérico de Mitra, a consecuencia de la hostilidad del Estado, desaparece de la superficie de la historia, conservándose en una tradición oculta y operando invisiblemente sobre las grandes corrientes de la historia occidental. El resurgir de la sacralidad del Imperium en la tradición gibelina medieval, el trasfondo iniciático de los poemas épicos y caballerescos de la Edad Media, los vestigios de la tradición hermética hasta el Renacimiento y el renacimiento espiritual evidenciados en tiempos mucho más recientes, testimonian en modo vivo y concreto la continuidad de la fuerza de la herencia sapiencial pagana en Occidente».

 

También en Oriente se atestiguan presencia mitraica en épocas muy posteriores. En la tradición épica de Armenia hasta el siglo XIX se hace referencia a un gigante de nombre Mehr, cuya descripción y función nos recuerda llamativamente a la del dios Mitra.

 

Varios estudiosos - entre ellos Mircea Eliade (41) y Ellemire Zolla(42)-  han dado certezas de la continuidad del culto zoroástrico en Irán hasta, por lo menos, los años 70 del siglo XX . En este sentido conocido es el hecho de que en 1.964, Mary Boyce visitó una serie de pueblos y aldeas iraníes en los que pervivía la fe en Zaratustra, constatando que veneraban a un dios-héroe llamado Mihr, con enormes paralelismos con Mitra. No se sabe cuál es actualmente la situación de estos parsis bajo el régimen integrista de Teherán. Nos tememos que están atravesando tiempos difíciles que amenazan la perpetuación de su religión, mantenida durante milenios.

 

También conocida es la comunidad parsi de Bombay, es el mismo E. Zolla quien en su libro Aure nos narra su encuentro con un adepto al mitraismo de esta comunidad, que le habla-desde el conocimiento operativo- de los ritos de la llamada «Cámara del Consejo» en el palacio de Darío, así como del poder y la efectividad de la misteriosa secuencia vocálica («mántrica» podríamos decir) del Ritual Mitraico del Gran Papiro Mágico de París(43), que incluye técnicas sobre el dominio de las corrientes de la respiración -cálida y fría - que es necesario armonizar , en mismo modo a cómo las técnicas yóguicas lo determinan .

 

No quisiéramos cerrar este apartado sin hacer mención de una curiosa e interesante entrevista(44) aparecida en el número 4- solsticio de verano 1994 de la revista belga Antaios , número titulado precisamente «Mysteria Mithrae», el entrevistado, se identifica con el nombre de Corax (el cuervo) primer grado de iniciación mitraica, y se define a sí mismo como «joven universitario europeo, me definiría a riesgo de pasar por un provocador , como un seguidor de Mitra, un fiel del Sol Invictus, en la línea espiritual de Akenatón, y del emperador Juliano llamado el Apóstata. Al igual que ellos, mi toma de conciencia solar fue resultado del reencuentro con una tradición y una búsqueda personal», si bien deja claro que «No pretendemos en absoluto, contrariamente a ciertos druidas modernos, ninguna filiación iniciática (aunque hayamos buscado durante años en vano esos "testigos")».

 

Más allá de supervivencias reales, imaginadas o deseadas hemos querido dar las claves del culto mitraico que no hace más que repetir el mundo de valores indoeuropeos. Si pretendemos un verdadero enderezamiento espiritual tendremos necesariamente que recuperarlos y remitirnos a ellos, sea cual sea la forma religiosa exterior que los englobe.

 

Enrique Ravello

 

Notas

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1    J. Evola,  «La via della realizzazione di sé secondo i Misteri di Mitra»(1926) en La via della realizzazione di sé secondo i misteri di Mitra (recop). Quaderni di Testi Evoliani, nº 4. Fundazione Julius Evola . Roma, p.5.

2     J Varenne, Zoroastro. El profeta del Avesta. Ed Edaf, Madrid 1989, p,23.

3      Ibídem, p, 56.

4      A.  Coomaraswamy, El Vedanta y la tradición occidental.

Ed. Siruela, Madrid 2001, p, 269.

5       Cfr: G Bonfante, «The Name of Mitra» en Etudes mitrhriaques (= Acta Iranica,17)-Teherán-Lieja,1978.p.47 y ss.

6        Sobre la realidad de la mitología romana como manifestación de la ideología indoeuropea, v. G Dumézil, Iupiter, Mars, Quirinus. Essai sur la conception indoeuropéene de la Societé et sur les origines de Rome, París 1944, y La religion romaine archaïque. París 1966.

7         S. Arcella I Misteridel Sole. Ed Controcorrente, Nápoles 2002, p.26.

8         S.S Hakim, «I misteri di Mitra visti da un zoroastriano», en Conoscenza religiosa  I 1976.

9          Ibídem, p.87.

10       A. Loisy; Los misterios paganos y el misterio cristiano. Ed Paidos Oriental, Barcelona 1990,p.119.

11        F. Cumont , Las religiones orientales y el paganismo romano. Ed. Akal universitaria. Madrid 1987 p.129.

12        Ibídem, p. 121.

13        J. Evola, «Note sui Misteridi Mithra» en op.cit. (recop) p.18.

14         David Ulansey, profesor de Filosofía y Religión en el Californian Institute of Integral Studies.

15         D. Ulansey, The Origins of the Mithraic Mysteries. Cosmology & Salvation in the Ancient World. Ed Oxford University Press. Nueva York 1989.

16         R. Turcan, op.cit, p.103.

17         Eliade, M y Couliano, I. P, Diccionario de las religiones. Circulo de lectores. Ed. Paidós, Barcelona 1997.

18        A. Loisy: op, cit, p.129

19        T. Ossana, La stretta di mano. Il contenuto etico della Religione di Mitra. Ed Borla, Nápoles 1988.

20        S. Arcella , I Misterio del Sole. Ed. Controcorrente, Nápoles2002,p.119.

21        R.Turcan, Mithra et le Mithriacisme .Ed. Les Belles Lettres . París 2000, p.119

22        R. Turcan.op.cit,p.90.

23        S. Arcella, op.cit,p.134.

24        A. Loisy, op.cit, p.129-135.

25        J. Evola,op.cit, p.5

26        S. Arcella,op.cit,p.102

27        J. Evola ,op.cit, p.7

28        J  Evola «Note sui Misteri di Mithra » (1950).op.cit (recop) p.19.

29        J  Evola ,«La via della realizzazione di sé secondo i Misteri di Mitra» (1926).Recogido en op. cit (recop.) Fundazione Julius Evola. Roma.p.7

30         F. Cumont, Le religione orientali nel paganesimo romano, Bari 1967, p.183 y Les mystéres de Mitra, Bruselas 1919, p.141.

31        Técnicas autocurativas japonesas como el reiki o el katsugen se basan principalmente en esto.

32        Cfr: R. Prati en la traducción al italiano de los escritos de Juliano Imperador con el título: Sugli dei e sugli uomini.

33         J. Evola «Giuliano Imperatore» (1932) en op.cit. (recop.) p.15.

34         R. Turcan ,op. cit, pp.41-43

35         S. Arcella .«I collegi mithraici nella Roma imperiale», en Arthos nº 9 (nueva serie) , 2001.

36         A. García y Bellido. Les religiones orientales dan l Éspagne romaine. Leiden1967, p.21.

37         Cfr JL Jiménez y M. Martín- Bueno, La casa del Mithra, Capra-Córdoba. Ilmo.Ayto de Cabra 1992.

38          Mª Antonia de Francisco Casado, El culto de Mitra en Hispania. Ed Universidad de Granada. Granada 1989. p.64.

39          S. Arcella, op.cit p. 211.

40          Mos maiorum, Revista trimestrale di Studi tradizionali. Año II, nº4,1996,pp.34.

41          M. Eliade, Storia,  pp.338-344.

42          E. Zolla, Il Signore delle grotte, pp.64 y ss.

43          Para un mayor conocimiento sobre la realidad, potencialidad y operatividad del Gran Papiro Mágico de París, cfr: «Apathanatismos. Rituale Mithraico del Gran Papiro Magico di Parigi» en , Grupo UR, Introduzione alla Magia . Vol I . Ed Mediterranee, Roma 1971.pp.114-139.

44           «Corax, entretien avec un adepte du culte socaire» en Antaios nº4, solsticio de verano de 1994, Bruselas.

jeudi, 11 août 2011

La musique du Doudou (Mons, Hainaut)

 

La musique du Doudou (Mons, Hainaut)

Doudou 2010 - Le combat

 

Combat du lumeçon

 

dimanche, 10 juillet 2011

International Conference : "Actual Problems of Traditionalism"

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International conference

'Actual problems of traditionalism'

Within the bounds of the new project "Tradition" 15-16 October 2011 in Moscow will take place the international conference "Actual problems of traditionalism".
 
Main topics:
 
• The Tradition and the Postmodernity.
• The Desecularization (the revival of the religious factor).
• The Eschatology (orthodoxy and heterodoxy).
• The Simulacra of the neospiritualism.
• Traditionalism and the Tradition in Russia, the Slavic world, Eastern Europe.
• The problem of initiation.
• The Reign of post-Quantity.
• The Revision of the traditionalist discourse
• The Tradition and Revolution
 
Conference sessions:
 
• Section I. "Tradition vs. Postmodernity. "
• Section II. "Horizons of the new metaphysics and the figure of Radical Self. "
• Section III. "The mission of Julius Evola. "
• Section IV. "Traditionalism and esoterism in Islam. "
• Section V. "Traditionalism and the problem of monotheism. "
• Section VI. "The primordiality as a problem. "
 
There will be the participation of different Western traditionalists (among other prof. Claudio Mutti). During the conference will be held a personal exhibition of Russian artiste peintre Alexey Belyaev-Gintovt and other art collectives.
 
To participate in the conference are invited the authors of publications on the philosophy of traditionalism and similar issues, as well as those who interested in the development of traditionalist thought in Russia.
 
To participate in the conference one should send an application indicating your personal data to address solomon2770@yandex.ru (for audience), and the theses of your proposed report (for participants). Theses must be given in electronic form in the text editor Word (Russian, Englisn, French, Portuguese, Spanish, German, Italian and other). Times New Roman, size 14.
 
As a result of the conference will be published a book of materials.
 
Chairman of organizing committee Natella Speranskaya

samedi, 21 mai 2011

Evola e il mondo di lingua tedesca

Evola e il mondo di lingua tedesca

Alberto Lombardo

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

evola_envers_cong.pngLa Germania e in genere il mondo di cultura tedesca ebbero per Evola un’importanza centrale. Sin da giovanissimo questi apprese il tedesco per avvicinarsi alle opere della filosofia idealistica; la sua dottrina filosofica deve molto all’idealismo, ma ancor più a Nietzsche, Weininger e Spengler. Nel 1933 compì il suo primo viaggio in Austria ; per tutti gli Anni ’30 e ’40 continuò a tenersi aggiornato leggendo saggî scientifici in lingua tedesca sui diversi argomenti dei quali si occupava: dalla romanità antica (Altheim) alla preistoria (Wirth, Günther), dall’alchimia (Böhme) alle razze (Clauß, ancora Günther), dalla teoria politica (Spann, Heinrich) all’economia (Sombart) e via dicendo. In generale, considerando gli apparati di note, i riferimenti culturali e in un bilancio che tenga conto di tutti gli apporti non mi sembra affatto di esagerare sostenendo che il peso degli studi pubblicati in tedesco sia nell’opera complessiva di Evola almeno pari a quello di quelli italiani.

Tutto questo è già assai indicativo dell’influenza della cultura tedesca sull’opera di Evola. Vanno aggiunti però altri dati: richiamando qui quanto accennato in sede biografica nel capitolo primo, ricordo i lunghi soggiorni di Evola in Austria e Germania, le numerose conferenze ivi tenute, i rapporti con esponenti della tradizione aristocratica e conservatrice mitteleuropea e della Konservative Revolution etc . Inoltre nei paesi di lingua tedesca Evola godette, almeno sino alla fine della seconda guerra mondiale, di una notorietà diversa da quella che ebbe in Italia, poiché vi fu accolto quasi come l’esponente di una particolare corrente di pensiero italiana, e ciò sin dal 1933, anno della pubblicazione di Heidnischer Imperialismus . Questo il giudizio in merito di Adriano Romualdi: «L’azione di Evola in Germania non fu politica, anche se contribuì a dissipare molti equivoci e a preparare un’intesa tra Fascismo e Nazionalsocialismo. Essa investì il significato di quelle tradizioni cui in Italia e in Germania si richiamavano i regimi, il simbolo romano e il mito nordico, il significato di classicismo e romanticismo, o di contrapposizioni artificiose, come quella tra romanità e germanesimo» .

Dal 1934 Evola tiene conferenze in Germania: in un’università di Berlino, al secondo nordisches Thing a Brema, e all’Herrenklub di Heinrich von Gleichen, rappresentante dell’aristocrazia tedesca (era barone) col quale stabilì una «cordiale e feconda amicizia» . Così Evola ricordò nel 1970 quest’importante esperienza: «ogni settimana si invitava una personalità tedesca o internazionale in quel circolo di Junkers. Devo dire peraltro che, se ci fossimo aspettati di vedere dei giganti biondi con gli occhi azzurri la delusione sarebbe stata grande, poiché per la maggior parte erano piccoli e panciuti. Dopo la cena e il rituale dei toasts, l’invitato doveva tenere una conferenza. Mentre questi signori fumavano il loro sigaro e sorseggiavano il loro bicchiere di birra, io parlavo. Fu allora che Himmler sentì parlare di me» .
È effettivamente assai verosimile che l’attenzione da parte degli ambienti ufficiali per Evola sia nata in seguito alle prime conferenze in Germania. I suoi rapporti col nazionalsocialismo furono di collaborazione esterna, e specialmente con diversi settori delle SS tra cui l’Ahnenerbe ; Evola espresse nei confronti dell’“ordine” guidato da Himmler parole assai positive , anche nel dopoguerra , che da una parte gli valsero i prevedibili (e fors’anche scontati) strali dei suoi detrattori, dall’altra determinarono una rilettura – in seno alla storiografia e allo stesso “sentimento del mondo” della Destra Radicale del dopoguerra – del nazionalsocialismo come di un movimento popolare guidato da un’élite ascetico-guerriera . Dagli ormai numerosi dati d’archivio pubblicati, risulta un quadro di Evola tenuto in considerazione ma sempre osservato con cura dagli ambienti ufficiali tedeschi .

Dopo il conflitto mondiale la notorietà di Evola nei paesi di lingua tedesca andò scemando; la sua immobilità fisica pare che gli impedì, tra l’altro, ulteriori viaggi all’estero. Solo negli ultimi decenni Evola è stato fatto oggetto di una sorta di riscoperta, per merito soprattutto di Hans Thomas Hansen, che ne ha tradotto (e ritradotto) la buona parte delle opere, con il consenso dello stesso Evola quando questi era ancora in vita, e che viene giustamente considerato uno dei massimi conoscitori del pensiero e della vita di Evola. Oltre alla rivista da questi fondata e animata, «Gnostika» (che come suggerisce il titolo ha interessi prevalentemente esoterici), negli ultimissimi anni stanno nascendo diverse attività che si ispirano in vario modo all’opera di Evola, tra le quali meritano una menzione le riviste tedesche «Elemente» e «Renovatio Imperii» e soprattutto l’austriaca «Kshatriya», diretta da Martin Schwarz (autore della più ampia bibliografia evoliana sino a oggi stilata ), di più marcata impronta “evoliana ortodossa”. A margine di ciò, si stanno iniziando a tenere convegni sul pensatore e a tradurre sue ulteriori opere. Inoltre il centenario della nascita di Evola, nel 1998, è stato occasione per varie testate tedesche per ricordarlo con ampi articoli, tra cui quelli apparsi sulla storica «Nation & Europa» (che esce ormai da mezzo secolo, e cui nei primi Anni ’50 lo stesso Evola collaborò), «Criticn» e la prestigiosa «Zeitschrift für Ganzheitforschung», altra rivista cui Evola collaborò (nei primi Anni ’60) e che fu fondata e lungamente diretta da Walter Heinrich (sino alla morte di questi, avvenuta nel 1984), che era in grande amicizia con Evola. Come curiosità, segnaliamo che per l’occasione numerosi complessi e gruppi musicali tedeschi e austriaci hanno dedicato nel centenario allo scrittore tradizionalista un disco, intitolato Cavalcare la tigre.

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Sebbene alcuni elementi politici della storia d’Italia e di quella tedesca appaiano affini, (il processo di unificazione nazionale avvenuto nella seconda metà dell’Ottocento, la comune partecipazione alla Triplice Alleanza, l’Asse Roma-Berlino), Evola individua nella “tradizione germanica” dei tratti che differenziano nettamente – in senso positivo – i paesi di lingua tedesca dall’Italia. Così anzitutto «può dirsi che in Germania il nazionalismo democratico di massa di tipo moderno non fece che una fuggevole apparizione. […]. Il nazionalismo in tal senso, con un fondo democratico, non andò oltre il fugace fenomeno del parlamento di Francoforte del 1848, in connessione con i moti rivoluzionari che in quel periodo imperversavano in tutta l’Europa (è significativo che il re di Prussia Federico Guglielmo IV rifiutò l’offerta, fattagli da quel parlamento, di mettersi a capo di tutta la Germania perché accettandola egli avrebbe anche accettato il principio democratico – il potere conferito da una rappresentanza popolare – rinunciando al suo diritto legittimistico, sia pure ristretto alla sola Prussia). E Bismarck, creando il secondo Reich, non gli diede affatto una base “nazionale”, vedendo nella corrispondente ideologia il principio di pericolosi disordini anche dell’ordine europeo, mentre i conservatori della Kreuzzeitung accusarono nel nazionalismo un fenomeno “naturalistico” e regressivo, estraneo ad una più alta tradizione e concezione dello Stato» . Estranei a questa forma “naturalistica” di nazionalismo, i paesi di lingua tedesca cullarono un diverso spirito, quello del Volk, che animò lo spirito pangermanico. La corrente völkish, che un notevole peso ebbe anche nella genesi del nazionalsocialismo, affondava le sue radici nei Discorsi alla nazione tedesca di Fichte, in Arndt, Jahn e Lange e soprattutto nel Deutschbund e nella deutsche Bewegung . In questa diversità di retroterra si ha la prima divaricazione tra Italia e Germania.

Ma le differenze di ambiente sono assai più nette. Nel suo saggio sul Terzo Reich, delineando le correnti culturali complesse e spesso irriducibili che cooperarono nella sua genesi, Evola scrive: «Dopo la prima guerra mondiale in Germania la situazione era sensibilmente diversa da quella dell’Italia. […] Mussolini dovette creare quasi dal nulla, nel senso che nel punto di combattere la sovversione rossa e di rimettere in piedi lo Stato non poteva rifarsi ad una tradizione nel senso più alto del termine. Tutto sommato, ad essere minacciato era solo il prolungamento dell’Italietta democratica ottocentesca, con un retaggio risorgimentale risentente delle ideologie della Rivoluzione Francese, con una monarchia che regnava ma non governava e senza salde articolazioni sociali. In Germania le cose stavano altrimenti. Anche dopo il crollo militare e la rivoluzione del 1918 e malgrado il marasma sociale sussistevano resti aventi radici profonde in quel mondo gerarchico, talvolta ancora feudale, incentrato nei valori dello Stato e della sua autorità, facenti parte della precedente tradizione, in particolare del prussianesimo. […]. In effetti, nell’Europa centrale le idee della Rivoluzione Francese non presero mai tanto piede quanto nei restanti paesi europei» .

evola_julius_-_meditations_on_the_peaks.jpgIn un’occasione Evola cita la teoria giuridica di Carl Schmitt dell’international law . Il filosofo della politica tedesco aveva espresso l’idea della caduta del diritto internazionale europeo consuetudinario avvenuta, all’incirca, dopo il 1890, e la conseguente affermazione di un diritto internazionale più o meno ufficializzato. «Noi però qui non siamo interamente del parere dello Schmitt», scrive Evola, spiegando che «di contro all’opinione di molti, nei riguardi dell’azione svolta da Bismarck, sia all’interno della Germania che in Europa, non tutte le cose sono “in ordine”. […]. Più che Bismarck, a noi sembra che, se mai, Metternich sia stato l’ultimo “Europeo”, vale a dire l’ultimo uomo politico che seppe sentire la necessità di una solidarietà delle nazioni europee non astratta, o dettata solo da ragioni di politica “realistica” e da interessi materiali, ma rifacentesi anche a delle idee e alla volontà di mantenere il migliore retaggio tradizionale dell’Europa» . Contrariamente a quanto sostenuto da Baillet , Evola fu dunque piuttosto critico nei confronti di Bismarck, che non ebbe, secondo la visione tradizionale evoliana, il coraggio di opporsi in modo sistematico e rigoroso al mondo moderno e della sovversione (nella sua forma economico-capitalistica), ma dovette in alcuni casi venire a patti con esso.

La stessa Germania federiciana e poi guglielmina, seppur conservante le strutture e l’ordine di uno stato tradizionale, nel quale la stessa burocrazia e l’apparato statale apparivano quasi come corpi di un ordine, conteneva i germi della dissoluzione, dovuti alle idee illuministe che avevano iniziato a filtrare – in modo più larvato che altrove – presso le varie corti. Se il giudizio evoliano nei confronti del codice federiciano conservante l’ordinamento diviso negli Stände è positivo, ciò è poiché, per l’epoca in cui sorse, quel codice conservava meglio d’ogni altro le strutture feudali e gerarchiche precedenti. Esse, tramite la tradizione prussiana, affondavano nell’Ordine dei cavalieri teutonici e nella loro riconquista delle terre baltiche: un ordine ascetico-cavalleresco formato da una disciplina e da una severa organizzazione gerarchica. Così, sin da giovanissimo Evola intuì l’assurdità della “guerra civile europea” che, come ufficiale, egli andava a combattere sulla frontiera carsica: l’Italia si schierava cioè contro ciò che restava della migliore tradizione europea. «Nel 1914 gli Imperi Centrali rappresentavano ancora un resto dell’Europa feudale e aristocratica nel mondo occidentale, malgrado innegabili aspetti di egemonismo militaristico ed alcune alleanze sospette col capitalismo presenti soprattutto nella Germania guglielmina. La coalizione contro di essi fu dichiaratamente una coalizione del Terzo Stato contro le forze residue del Secondo Stato […]. Come in poche altre della storia, la guerra del 1914-1918 presenta tutti i tratti di un conflitto non fra Stati e nazioni, ma fra le ideologie di diverse caste. Di essa, i risultati diretti e voluti furono la distruzione della Germania monarchica e dell’Austria cattolica, quelli indiretti il crollo dell’impero degli Czar, la rivoluzione comunista e la creazione, in Europa, di una situazione politico-sociale talmente caotica e contraddittoria, da contenere tutte le premesse per una nuova conflagrazione. E questa fu la seconda guerra mondiale» .

Come accennato, anche nei confronti della tradizione dell’Austria Evola espresse un giudizio marcatamente positivo. La stessa linea dinastica degli Asburgo ebbe un ruolo di rilievo in questa valutazione (Evola si era espresso in termini molto positivi nei confronti di Massimiliano I) ; nel periodo in cui visse a Vienna Evola respirò ciò che restava dell’atmosfera antica dell’Austria felix, e venne in contatto con quella temperie culturale e spirituale e soprattutto con uomini in cui, per usare le parole di Ernst Jünger, «la catastrofe aveva certo lasciato le sue ombre […], ma si era limitata a distruggerne la serenità innata senza distruggerla. A tratti scorgevamo […] una patina di quella sofferenza che potremmo definire austriaca e che è comune a tanti vecchi sudditi dell’ultima vera monarchia. Con essa venne distrutta una forma del piacere di vivere che negli altri paesi europei già da generazioni era diventata inimmaginabile, e le tracce di questa distruzione si avvertono ancora nei singoli individui. […]. Da noi nel Reich, se si prescinde dal generale esaurimento delle forze, si incominciava a notare tutt’al più la disparità degli strati sociali; qui invece si erano aperte, come voragini, le differenze tra le varie etnie» . In questo humus storico degli anni compresi tra le due guerre, in cui ancora forti erano i legami sentimentali ed etici di molti con la precedente tradizione imperiale – la monarchia asburgica d’Austria aveva almeno formalmente conservato, sino al Congresso di Vienna, la titolarità del Sacro Romano Impero – Evola ebbe anche modo di percepire direttamente l’attaccamento diffuso a livello popolare alla monarchia , e lo spiegò in questi termini: «Senza riesumare forme anacronistiche, invece di una propaganda che “umanizzi” il sovrano per accattivare la massa, quasi sulla stessa linea della propaganda elettorale presidenziale americana, si dovrebbe vedere fino a che punto possano avere un’azione profonda i tratti di una figura caratterizzata da una certa innata superiorità e dignità, in un quadro adeguato. Una specie di ascesi e di liturgia della potenza qui potrebbero avere una loro parte. Proprio questi tratti, mentre rafforzeranno il prestigio di chi incarna un simbolo, dovrebbero poter esercitare sull’uomo non volgare una forza d’attrazione, perfino un orgoglio nel suddito. Del resto, anche in tempi abbastanza recenti si è avuto l’esempio dell’imperatore Francesco Giuseppe che, pur frapponendo fra sé e i sudditi l’antico severo cerimoniale, pur non imitando per nulla i re “democratici” dei piccoli Stati nordici, godette di una particolare, non volgare popolarità» . In questo stesso senso nel 1935, scrivendo a proposito della possibilità di una restaurazione regale in Austria, Evola riferisce ciò che gli esponenti del pensiero conservatore e monarchico in quel paese sostenevano: «La premessa, intanto, è quella a cui ogni mente non ingombra di pregiudizî può anche aderire, cioè che il regime monarchico, in generale, è quello che più può garantire un ordine, un equilibrio e una pacificazione interna, senza dover ricorrere al rimedio estremo della dittatura e dello Stato centralizzato, sempreché nei singoli sussista la sensibilità spirituale richiesta da ogni lealismo. Questa condizione, secondo dette personalità, sarebbe presente nella gran parte della popolazione austriaca, se non altro, per la forza di una tradizione e di uno stile di vita pluricentenario» .

Il problema dell’Anschluss, dell’annessione dell’Austria alla Germania naizonalsocialista, fu negli anni che lo precedettero al centro di un ampio dibattito internazionale. Giuristi e politici lo affrontarono da diversi punti di vista; Evola non fu in concordanza di vedute, su questo tema, con l’amico Othmar Spann, che, scriveva Evola, per la coraggiosa coerenza delle sue idee non era ben visto né in Austria né in Germania. Scrivendo sul sociologo viennese, Evola affermava: «gli Austriaci non perdonano le sue simpatie per la Germania, mentre i Tedeschi non gli perdonano le critiche da lui mosse al materialismo razzista» . Ampliando alla scuola organicistica viennese e al mondo culturale austriaco il suo sguardo, Evola ne esponeva in questi termini le vedute: «Non ci si può rassegnare a far scendere una nazione, che ha la tradizione che l’Austria ha avuto, al livello di un piccolo Stato balcanico. Qui non si fa quistione della mera autonomia politica, si fa essenzialmente quistione di cultura e di tradizione. Storicamente, la civiltà austriaca è indisgiungibile da quella germanica. Non è possibile che oggi l’Austria a tale riguardo si emancipi e cominci a far da sé. Proprio perché essa è stata menomata, ridotta ad un’ombra di quel che essa fu precedentemente, le si impone di connettersi nel modo più stretto alla Germania, appoggiarsi ad essa, trarre da essa gli elementi che possono garantire l’integrità della sua eredità tedesca». Proseguiva Evola sostenendo che dal lato positivo l’Austria avrebbe avuto molto a sua volta da trasmettere alla Germania sotto il profilo della tradizione culturale. Ma di là dal piano squisitamente intellettuale, «Nel dominio delle tradizioni politiche l’antitesi è ancor più visibile. Vi sarebbe infatti da chiedere a questi intellettuali germanofili che cosa essi pensino quando parlano di tradizione austro-tedesca. La tradizione austriaca era una tradizione imperiale. Erede del Sacro Romano Impero, il Reich austriaco, formalmente almeno, non poteva dirsi tedesco. Di diritto, era supernazionale, e di fatto esso sovrastava un gruppo di popoli assai diversi come razza, costumi e tradizioni, gruppo nel quale l’elemento tedesco non figurava che come parte. Nemmeno giova dire che purtuttavia la direzione dell’impero austriaco era intonata in senso tedesco e faceva capo ad una dinastia tedesca. Dal punto di vista dei principî ciò conta così poco quanto il fatto che i rappresentanti del principio supernazionale della Chiesa Romana siano stati in larga misura italiani. Se si deve parlare di tradizione austriaca», concludeva Evola, «è ad una tradizione imperiale che bisogna riferirsi. Ora, che cosa può avere a che fare una tale tradizione con la Germania, se Germania oggi vuol dire nazionalsocialismo?» . Francesco Germinario ha scritto a tale proposito che per Evola «un’Austria legata alle radici cattoliche, e in cui, soprattutto, rimaneva ancora vivo il ricordo degli Asburgo, era molto più vicina ai valori della Tradizione rispetto a una Germania travolta dalla nuova ondata di modernizzazione promossa dal nazismo» .

Si esprimevano in questi termini già nel 1935 le posizioni critiche di Evola nei confronti del nazismo, di cui il filosofo tradizionalista accusava gli eccessi populistici, sociali e di sinistra. Il tono in questo caso è particolarmente critico perché il raffronto è con l’Austria, nella quale Evola vedeva appunto l’erede spirituale della più alta tradizione europea. D’altronde, si tratta di una linea interpretativa e storiografica apprezzabile, e che Evola mantenne anche nel dopoguerra, tendendo a separare i diversi elementi e le varie correnti che operarono nel nazionalsocialismo per giudicarli separatamente . Concludeva dunque la sua lettura politica della situazione internazionale affermando: «Se non ci si vuole rassegnare alla perdita dell’antica tradizione supernazionale centro-europea, l’Austria più che verso la Germania dovrebbe volgere i suoi sguardi verso gli Stati successori, nel senso di vedere fino a che punto è possibile ricostruire una comune coscienza centro-europea come base non solo della soluzione di importantissimi problemi economici e commerciali ma eventualmente […] anche della formulazione di un nuovo principio politico unitario di tipo tradizionale» .

Nei confronti della seconda guerra mondiale, il cui esito indubbiamente Evola vedeva come l’ultima fase del crollo epocale della civiltà europea, lo scrittore tradizionalista denunciava le colpe morali delle potenze occidentali: «a Himmler si deve un tentativo di salvataggio in extremis (considerato da Hitler come un tradimento). Pel tramite del Conte Bernadotte egli tramise una proposta di pace separata agli Alleati occidentali per poter continuare la guerra soltanto contro l’Unione Sovietica e il comunismo. Si sa che tale proposta, la quale, se accettata, forse avrebbe potuto assicurare all’Europa un diverso destino, evitando la successiva “guerra fredda” e la comunisticizzazione dell’Europa di là dalla “cortina di ferro”, fu nettamente respinta in base ad un cieco radicalismo ideologico, come era stata respinta, per un non diverso radicalismo, l’offerta di pace fatta da Hitler di sua iniziativa all’Inghilterra in termini ragionevoli in un famoso discorso dell’estate del 1940 quando i Tedeschi erano la parte vincente» .

Anche dopo la seconda guerra mondiale Evola mantenne un occhio di riguardo nei confronti dei paesi di lingua tedesca. La sua visione fu di ammirazione nei confronti della nuova resurrezione economica operata dai Tedeschi dopo la distruzione del secondo dopoguerra («questa nazione ha saputo completamente rialzarsi di là da distruzioni senza nome. Perfino in regime di occupazione essa ha sopravvanzato le stesse nazioni vincitrici sul piano industriale ed economico riprendendo il suo posto di grande potenza produttrice») , e per il coraggio col quale la Repubblica federale aveva bandito il pericolo comunista dalla sua politica («I Tedeschi fanno sempre le cose con coerenza. Così anche nel giuoco di osservanza democratica. Essi hanno messo su una democrazia-modello come un sistema “neutro” – diremmo quasi amministrativo, più che politico – equilibrato ed energico a un tempo. A differenza dell’Italia, la Germania proprio dal punto di vista di una democrazia coerente ha messo al bando il comunismo. La Corte Costituzionale tedesca ha statuito ciò che corrisponde all’evidenza stessa delle cose, ossia che un partito che, come quello comunista, segue le regole democratiche soltanto in funzione puramente tattica e di copertura, per scopo finale dichiarato avendo invece la soppressione di ogni contrastante corrente politica e la dittatura assoluta del proletariato, non può essere tollerato da uno Stato democratico che non voglia scavare la fossa a sé stesso») . Ma, ciò nonostante, la guerra aveva ormai prodotto un vacuum, un vuoto spirituale non più colmato: «Di contro a tutto ciò, stupisce, nella Repubblica Federale, la mancanza di qualsiasi idea, di qualsiasi “mito”, di qualsiasi superiore visione del mondo, di qualsiasi continuità con la precedente Germania» . Anche nel campo della cultura, Evola ravvisa un generale franamento, una sorta di generale “venire meno” alle posizioni coraggiose e d’avanguardia tenute dall’intellettualità tedesca negli anni – ad avviso di Evola, assai floridi e proficui sotto il profilo culturale – del Reich nazionalsocialista. Nel suo giudizio negativo Evola prende come esempio di questo crollo Gottfried Benn ed Ernst Jünger (cadendo con ciò in errori di veduta piuttosto grossolani ).

 

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Da Vie della Tradizione 125 (2002), pp. 37-50.
Il presente articolo è stato ripubblicato privo delle note a pié pagina.

samedi, 14 mai 2011

Wende, een interessant uitgesproken heidens tijdschrift

Wende, een interessant uitgesproken heidens tijdschrift

 

Ex: Deltanieuwsbrief nr. 47 - Mei 2011

Men kent onze bezwaren tegen bepaalde vormen van modern heidendom, die eigenlijk meer te maken hebben met een folkloristische beleving van iets dat er misschien in die vormen nooit is geweest. Bepaalde vormen van modern heidendom moeten inderdaad gezien worden als een emanatie van de “Tweede religiositeit”, zoals Oswald Spengler ze meende te moeten omschrijven. En bij Wende was ik bepaald op mijn hoede, op mijn ‘qui-vive’ door de vrij bombastische omschrijving als het halfjaarlijks “Odalistisch vormingsblad van de Werkgroep Hagal”.

Mijn oorspronkelijke scepsis verdween weliswaar toen ik het tijdschrift aandachtig begon te lezen. Twee bijdragen trokken mijn bijzondere aandacht als ‘leek’ op het vlak van heidendom: een bijdragen waarin de (Noord-) Franse groep Les Fils d’Odin werden voorgesteld en een artikel over Heidendom en ecologie.

Les Fils d’Odin werd opgericht in 2004 en als vereniging in 2006 door een zekere Josselin De Jonckheere – iemand met Vlaamse wortels dus. Uit het sympathiek interview halen wij volgend citaat, het antwoord op de vraag naar de bedoeling van de vereniging: “Het doel van onze vereniging is om zoveel mogelijk mensen te laten kennismaken met onze tradities. Dit is meer een soort van ‘laten herontdekken’ dan een ‘bekeren’. Wij hebben absoluut geen hoge hoed op met proselitisme. We streven naar een heropleving van de tradities, niet alleen in de besloten kring, maar ook in het openbaar en in de meest ruime zin van het woord”. Geen missionarissen dus op zieltjesjacht: altijd sympathiek, vind ik.

En uit de bijdrage over heidendom en ecologie geef ik u graag volgend citaat van Nick Krekelbergh mee: “Het is dan ook wellicht vanuit een combinatie van hedendaags wetenschappelijk inzicht en een ethische basishouding die afkomstig is vanuit de tradities van onze voorouders, dat een nieuw ecologisch besef kan ontstaan. Dat traditie, identiteit en milieu met elkaar in verband kunnen worden gebracht zonder dat de ondeelbaarheid en onderlinge afhankelijkheid van de verschillende gemeenschappen en culturen die het overkoepelende systeem herbergt, uit het oog wordt verloren”.

Wende verschijnt op 100% hergebruikt papier om de omgeving niet tot last te zijn.
Een abonnement kost 15 euro en kan worden betaald op volgend rekeningnummer:

BE75 9792 2723 6851 (BIC-code: ARSPBE22).

Adres: Grote Ieperstraat 9, 8560 Gullegem.
Wende wordt uitgegeven door enkele enthousiaste jongeren.

 


(Peter Logghe)

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samedi, 07 mai 2011

Georges Dumézil, l'historien des origines

Georges Dumézil, l’historien des origines

par Rémi Soulié

Ex: http://tpprovence.wordpress.com

Immense savant, il parlait les langues les plus rares. Sa théorie de la « trifonctionnalité » indo-européenne entre le prêtre, le guerrier et le marchand reste une grille d’analyse de nos sociétés.

Quoi de commun entre Rome et l’Inde, entre un Irlandais et un Iranien ? En dépit des religions, des mœurs, des usages et des traditions qui les séparent aujourd’hui, un vaste espace symbolique et idéologique, découvert et exploré seulement au XXe siècle par un navigateur de l’esprit que n’effrayèrent jamais les tourmentes suscitées par ses audaces théoriques : Georges Dumézil (1898-1986).

Cet érudit, tout à sa recherche attaché, réussit le tour de force de traverser son temps sans jamais succomber aux sirènes du marxisme – il n’avait guère de considération, c’est un euphémisme, pour un Jean-Paul Sartre -, non plus qu’aux errances nombreuses de la corporation des « intellectuels » donneurs de leçons. Proche à la fois de l’historien Pierre Gaxotte et du philosophe Michel Foucault, suffisamment libre pour saluer Charles Maurras, il pratiqua ces «amitiés stellaires» chères à Nietzsche qui impliquent un certain aristocratisme, insupportable aux dévots de tous les camps.

Bordelais par son père, angevin par sa mère, Dumézil naît à Paris, mais l’enfance de ce fils d’officier se déroule en province, au gré des affectations militaires : collège de Neufchâteau, lycées de Troyes et de Tarbes, puis retour à Paris, au lycée Louis-le-Grand, pour préparer le concours de l’Ecole normale supérieure, qu’il intègre en 1916. Elève officier à l’école d’artillerie de Fontainebleau, il participe aux combats de la Grande Guerre puis passe l’agrégation de Lettres au mois de décembre 1919.

Une thèse sur l’ambroisie, la boisson des dieux

D’abord professeur au lycée de Beauvais, il poursuit sa carrière à l’université de Varsovie – où, lecteur de français, il prépare une thèse de doctorat consacrée à l’ambroisie, la boisson des dieux, publiée plus tard sous le titre Le Festin d’immortalité-, à l’université d’Istanbul où il enseigne pendant six ans et, enfin, à l’université d’Upsala, en Suède.

Dumézil regagne la France en 1933. Grâce à l’entremise du grand indianiste Sylvain Lévi – «mon sauveur», dira-t-il ! -, il est élu directeur d’études à l’Ecole pratique des hautes études avant que d’occuper la chaire de civilisation indo- européenne créée pour lui au Collège de France. Il y enseignera de 1949 à sa retraite, en 1968. Dix ans plus tard, il sera élu à l’Académie française au fauteuil de l’historien et diplomate Jacques Chastenet.

Linguiste, ethnologue, anthropologue, philologue, mythologue, Dumézil se définissait modestement comme un «comparatiste» et un «scribe», dont le domaine de recherche se situait en bordure de la préhistoire et de l’histoire, cette «ultra-histoire» déjà «éclairée par les premiers documents écrits», comme il le confiait au journaliste Didier Eribon dans un recueil d’Entretiens.

C’est en 1938 qu’il eut l’intuition qui allait orienter l’ensemble de sa recherche et de sa vie. En Inde, trois castes sont garantes de l’harmonie sociale : les prêtres, les guerriers et les agriculteurs-producteurs. Dans la Rome archaïque, avant la période étrusque, trois dieux sont associés : Jupiter, le plus sacré, Mars, le dieu de la guerre, et Quirinus, le dieu de la masse du peuple telle qu’elle s’organise dans les curies.

La «trifonctionnalité» ou «tripartition fonctionnelle» était mise en évidence : depuis l’Inde jusqu’à l’ouest de l’Europe, la quarantaine de langues que maîtrise Dumézil atteste d’une organisation commune originelle d’«Indo-Européens» dont on ne sait à peu près rien, sinon qu’ils furent animés par ces trois «schèmes» aussi bien culturels et religieux que politiques.

Plus précisément, Dumézil évoque «trois domaines harmonieusement ajustés qui sont, en ordre décroissant de dignité, la souveraineté avec ses aspects magiques et juridiques et une sorte d’expression maximale du sacré; la force physique et la vaillance dont la manifestation la plus voyante est la guerre victorieuse; la fécondité et la prospérité avec toutes sortes de conditions et de conséquences qui sont presque toujours (…) figurées par un grand nombre de divinités parentes…».

La Nouvelle Droite l’a fait connaître au grand public

Cette tripartition se retrouve dans les théologies, les mythes, les symboles, les épopées, les légendes, les rites et les contes, de la Scandinavie à la Perse. La division de l’ancienne France en trois ordres – clergé, noblesse, tiers état – peut elle-même être interprétée comme la résurgence de ce «vieil archétype» que la Nouvelle Droite, dans les années 1970, annexerait abusivement à son « néopaganisme » européen.

Parallèlement à ces travaux, Dumézil part apprendre le quechua en six mois au Pérou et se passionne surtout pour les coutumes et les langues du Caucase, la «deuxième vocation» de sa vie, dit-il, au point qu’il songe, un temps, à abandonner ses chers Indo- Européens. Il s’efforce en particulier de sauver l’oubykh, langue qui compte quatre-vingt-deux consonnes pour trois voyelles et dont il connaît le dernier locuteur. C’est avec lui, Tevfik Esenç, qu’il publie des études descriptives et comparatives sur Le Verbe oubykh après avoir travaillé à une grammaire, envisagé l’écriture d’un dictionnaire et rédigé, de 1960 à 1967, les Documents anatoliens sur les langues et les traditions du Caucase.

La réédition, en un volume, de trois grands livres de Dumézil dans la collection « Mille et une pages » de Flammarion – « Loki », considéré par Claude Lévi-Strauss comme son «discours de la méthode»,  « Heur et malheur du guerrier et, surtout, « Mythes et dieux des Indo-Européens », admirable choix de textes réalisé par Hervé Coutau-Bégarie en 1992 – est l’occasion de mesurer toute l’ampleur d’une pensée dont la Renaissance a été à la fois le modèle et l’espérance.

«Si j’avais à me choisir de saints patrons dans cette forme d’humanisme, écrivait Dumézil, je m’abriterais volontiers, pour la prudence et la tolérance, derrière Erasme et Montaigne, sages et modérés dans le triste affrontement des fanatismes.» Que n’ont-ils été plus nombreux, au siècle dernier, à partager une telle profession de foi ! »

Mythes et dieux des Indo-Européens, précédé de Loki et Heur et malheur du guerrier, de Georges Dumézil, Flammarion, 832p., 29€.

Par  Rémi Soulié – Le Figaro Magazine

Source : Métamag.

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vendredi, 06 mai 2011

La tradition indo-européenne chez les Celtes

La tradition indo-européenne chez les Celtes

Jean Haudry

 
Avec les Celtes, nous entrons de plein pied, sans reconstruction préalable, dans les deux dernières périodes de la tradition indo-européenne: la société lignagère des quatre cercles et des trois fonctions, qui est celle des royaumes celtiques de la période historique, et la société héroïque, qui est celle des fianna. Tout ce qui, dans le monde gréco-romain, appartient à un passé mythique est encore vivant.

1. La société des quatre cercles et des trois fonctions

L’ancienne société irlandaise telle qu’elle ressort des textes en moyen-irlandais a pour base la tribu túath (*tewtā) gouvernée par un roi, (*rēg-s). La formule du serment des héros irlandais «je jure le serment que jure ma tribu» illustre l’importance de ce cercle d’appartenance. L’évolution de la société a entraîné la création d’unités supérieures et par suite une hiérarchie des rois: il y a des «hauts rois», des «rois des hauts rois», et au-dessus d’eux le roi d’Irlande. A chaque échelon est attachée une assemblée. En dessous de la tribu, il y a la famille de quatre générations, derb-fhine «famille certaine» qui succède à la fois au village clanique et à la famille de la société antérieure; la lignée proprement dite, fine, ici comme ailleurs, est réservée aux familles nobles.

La société comporte trois castes, celle des druides, celle des nobles, celle des hommes libres. Cette institutionnalisation de la triade des fonctions, qui ne se retrouve que dans le monde indo-iranien, peut être considérée soit comme une conservation commune et donc un archaïsme, soit comme une évolution parallèle et, vu l’éloignement géographique, indépendante. Comme dans le monde indo-iranien, les esclaves, qui sont ordinairement des prisonniers de guerre, ne font pas partie de la société. On sait que cette organisation a servi de modèle à la société des trois ordres du moyen âge occidental: la société germanique dont elle était issue ne comportait pas de caste sacerdotale et ne pouvait donc faire une place au clergé chrétien. La société irlandaise médiévale est donc plus proche de la société védique du deuxième millénaire que de la cité grecque ou à plus forte raison de la république romaine ou de l’empire romain. Ses institutions et ses coutumes confirment cet archaïsme. Le roi y est soumis à divers interdits (geis) dont la violation entraîne des calamités publiques; il en va de même pour son obligation de «vérité», c’est-à-dire surtout de justice. La pratique magique de l’énonciation de vérité, celle du jeûne du créancier sont aussi des archaïsmes. Les diverses modalités du mariage sont en partie parallèles à celles du droit indien. Louange et blâme sont les mécanismes essentiels de cette société où l’honneur est tenu pour la valeur centrale. C’est une société purement rurale, où la ville est inconnue. La monnaie l’est également: tous les paiement se font en bétail.

2. La société héroïque

En marge de cette société existe une contre société institutionnalisée qui reflète les idéaux, les valeurs et les comportements de la société héroïque: la f́ian, troupe de jeunes guerriers, les fianna, qui bien qu’issus de la noblesse vivent en dehors de la société comme les vrātyas indiens, les maryas iraniens, les berserkir scandinaves. En entrant dans la fían, ils quittent leur lignage. Comme l’indique une étymologie ancienne leur nom, fíanna a venatione, ils vivent de chasse, mais aussi de diverses formes de prédation. Marie-Louise Sjoestedt les a définis en ces termes: «Les fíanna sont des compagnies de guerriers chasseurs, vivant sous l’autorité de leurs propres chefs, en semi-nomades; on les représente passant la saison de la chasse en de la guerre (de Beltine à Samain) à parcourir les forêts d’Irlande, à la poursuite du gibier, ou menant la vie de guérilla; des récits plus récents en font les défenseurs attitrés du pays contre les envahisseurs étrangers, mais tout indique qu’il s’agit là d’un développement secondaire du cycle. Pendant la mauvaise saison (de Samain à Beltine) ils vivent principalement sur le pays à la façon de troupes cantonnées chez l’habitant. Ils n’obéissent pas au pouvoir royal, avec lequel leurs chefs sont fréquemment en conflit». Ce conflit avec les autorités de la société lignagère est typique de la société héroïque. Il se double de conflits internes aux clans fíanna dont on trouve nombre d’exemples dans le cycle de Finn.

En Gaule, la société lignagère des communautés naturelles est elle aussi concurrencée, mais de l’intérieur, par des solidarités électives, comme l’a observé César, La guerre des Gaules, 6,11: «En Gaule, non seulement toutes les cités, tous les cantons et fractions de cantons mais, peut-on dire, toutes les familles sont divisés en partis rivaux; à la tête de ces partis sont les hommes à qui l’on accorde le plus de crédit; c’est à eux qu’il appartient de juger en dernier ressort pour toutes les affaires à régler, pour toutes les décisions à prendre. Il y a là une institution très ancienne qui semble avoir pour but d’assurer à tout homme du peuple une protection contre plus puissant que lui: car le chef de faction défend ses gens contre les entreprises de violence ou de ruse et, s’il agit autrement, il perd tout crédit. Le même système régit la Gaule dans son ensemble: tous les peuples y sont groupés en deux partis». Inutile de préciser que César a tiré de cette situation un avantage décisif. On voit par là que les réalités de la société héroïque de l’âge du bronze coexistent avec celles de la société lignagère, qui remontent au néolithique.

3. Formulaire et groupes de notions

Or paradoxalement les textes ne nous conservent à peu près rien du formulaire traditionnel, et la triade des fonctions est absente des récits et en particulier de la mythologie. On ne saurait expliquer l’absence du formulaire par le caractère oral de la tradition, auquel les druides étaient aussi attachés que leurs homologues indiens et iraniens, car une foule de légendes nous ont été conservées de cette façon. La raison essentielle est que ces récits sont en prose; la poésie, domaine privilégié du formulaire, n’y figure que sporadiquement. L’absence des trois fonctions, surprenante dans une société trifonctionnelle, s’explique par le fait que les récits se fondent en grande partie sur des traditions qui remontent à la période la plus ancienne, celle de la «religion cosmique» et de l’habitat circumpolaire, dont l’Irlande conserve le souvenir avec ses «Iles au nord du monde», où les «tribus de la déesse Dana», c’est-à-dire les dieux du panthéon irlandais, ont «appris le druidisme, la science, la prophétie et la magie, jusqu’à ce qu’ils fussent experts dans les arts de la science païenne». C’est là une attestation directe de l’origine polaire de la plus ancienne tradition indo-européenne. Un bon exemple en est la conception du «héros» telle que l’a résumée Philippe Jouët à l’article correspondant de son Dictionnaire de la mythologie celtique à paraître: «On peut donc attribuer aux cultures celtiques une doctrine d’héroïsation, issue d’une conception préhistorique selon laquelle la survie effective dépendait de la capacité à traverser l’hiver. Traduite en métaphores, cette conception a engendré mythes et doctrines. Par son aptitude à dominer la ténèbre hostile, le héros gagne un lieu généralement insulaire, parfois souterrain quand la terre noire équivaut à la ténèbre, où il reçoit les marques de sa promotion: illumination solaire, faveur des Aurores, trésors, «fruits de l’été» découverts en plein mois de novembre, gloire et renommée. Le vieux schéma celtique de l’incursion dans le Síd, le monde des Tertres enchantés, prend tout son sens dans cette perspective. C’est par là qu’il faut expliquer les métaphores, les images, les scénarios mythologiques et épiques les plus archaïques de la tradition celtique». Un tel «héros» n’a pas grand chose en commun avec celui de la société héroïque, mais illustre la parenté formelle entre son nom grec hērōs et celui de la déesse Hērā «Belle saison».

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De Les peuples indo-européens d’Europe.

jeudi, 05 mai 2011

Sippenpflege in Athen und in Sparta

Sippenpflege in Athen und in Sparta

Hans Friedrich Karl Günther

Ex: http://centrostudilaruna.it/

Eine attische Sippenpflege [läßt sich im ganzen Hellenentum wahrnehmen], wenn auch nirgends so entschieden wie in Sparta, ein Rassenglaube, den Jacob Burckhardt so bezeichnet und eingehender dargestellt hat. Dieser Rassenglaube, ein Vertrauen zu den ausgesiebten Anlagen der bewährten Geschlechter und die Gewißheit, daß leibliche Vortrefflichkeit als ein Anzeichen geistigen und seelischen Vorrangs gelten dürfe, überdauert in Athen und bei anderen hellenischen Stämmen die Zeiten der Adelsherrschaft und der Tyrannis und reicht bei den Besten noch weit in die Zeiten der Volksherrschaft hinein. In Athens „Blütezeit“, einer Spätzeit der lebenskundlich gesehenen athenischen Geschichte, bricht der Rassenglaube noch einmal bei Euripides hervor. Überall bei den Hellenen verließ man sich „auf den Anblick der Rasse, welche mit der physischen Schönheit den Aus-druck des Geistes verband“ (J. Burckhardt); es gab einen allgemeinen hellenischen Glau-ben „an Erblichkeit der Fähigkeiten“, eine allgemeine hellenische Überzeugung von der Unabänderlichkeit ererbter Eigenschaften: der Wohlgeborene sei durch nichts zu verschlechtern, der Schlechtgeborene durch nichts zu verbessern, und alle Schulung (pai-deusis) bedeute den Anlagen gegenüber nur wenig. Aus diesen Überzeugungen ergab sich die echt hellenische Zielsetzung der „Schön-Tüchtigkeit“ (kalokagathía), dieser Ausruf zuerst für die Gattenwahl und Kinderzeugung, dann für die Erziehung, die eine günstige Entfaltung guter Anlagen verbürgen sollte. Am mächtigsten bricht dieser Rassenglaube bei dem thebanischen Dichter Pindaros hervor (Olympische Ode IX, 152; X, 24/25; XI, 19 ff; XIII, 16; Nemeische Ode 70 ff). Das Auslesevorbild des Wohlgearteten blieb bis in die Zerfallszeiten hinein in den besten Geschlechtern aller hellenischen Stämme bestehen. Die Bezeichnung gennaios enthält wie die lateinische Bezeichnung generosus („wohlgeboren, wohlgeartet“) die Vorstellung edler Artung als ererbter und vererblicher Beschaffenheit (vgl. auch Herodotos 111,81; Sohn XXIII, 20 D). Herodotos (VII, 204) zählt die tüchtigen Ahnen des bei den Thermopylen gefallenen Spartanerkönigs Leonidas auf bis zu Herakles zurück.

Die staatliche Stärke Spartas wurde von den hellenischen Geschichtsschreibern der Siebung, Auslese und Ausmerze des Stammes und seiner Geschlechter zugeschrieben. Xenophon hat in seiner Schrift über die Verfassung der Lakedaimonier (1,10; V, 9) zunächst ausgesprochen, die lykurgischen Gesetze hätten Sparta Männer verschafft, die durch hohen Wuchs und Kraft ausgezeichnet seien, und dann zusammenfassend geurteilt: „Es ist leicht zu erkennen, daß diese [siebenden, auslesenden und ausmerzenden] Maßnahmen einen Stamm hervorbringen würden, überragend an Wuchs und Stärke; man wird nicht leicht ein gesünderes und tauglicheres Volk finden als die Spartaner”. Herodotos (IX, 72) nennt die Spartaner die schönsten Männer unter den Hellenen. Die rassische Eigenart der Spartanerinnen wird durch den um – 650 in Sparta wirkenden Dichter Alkman (Bruchstücke 54) gekennzeichnet, der seine Base Agesichora rühmt: ihr Haar blühe wie unvermischtes Gold über silberhellem Antlitz. Der Vergleich heller Haut mit dem Silber findet sich schon bei Homer. Im 5. Jh. rühmte der Dichter Bakchylides (XIX, 2) die „blonden Mädchen aus Lakonien“. Noch der Erzbischof von Thessalonike (Saloniki), der im 12 Jh. lebende Eustathios, der Erläuterungen zu Homer schrieb, bekundete bei Erwähnung einer Iliasstelle (IV, 141), bei den Spartanern hätten helle Haut und blondes Haar die Zeichen männlichen Wesens bedeutet.

Einsichtige Männer der anderen hellenischen Stämme haben immer die edle Art des Spartanertums anerkannt, selbst dann, wenn ihr Heimatstaat mit Sparta im Kriege lag. Der weitblickende Thukydides (III, 83) beklagt das Schwinden des Edelmuts und der Auf-richtigkeit bei den Dorern während des Peloponnesischen Krieges, den seine Vaterstadt Athen gegen Sparta führte. In ganz Hellas haben die Edlergearteten in Sparta ein Wunschbild besten Hellenentums erblickt. So hat auch Platon gedacht, dessen Vorschläge zu einer staatlichen Erbpflege dem dorischen Vorbilde folgen. Männlichkeit und Staatsgesinnung des Dorertums in Sparta, dessen Bewahrung von Maß und Würde, diese apollinischen Züge eines sich selbst beherrschenden, zum Befehl geschaffenen Edelmannstums: alle diese Wesenszüge sind von den Besten in Hellas bewundert worden. Die gefestigte Einheitlichkeit spartanischen Wesens durch die Jahrhunderte ist aber sicherlich ein Ergebnis der bestimmt gerichteten Auslese im Stamm der Spartaner gewesen, einer bewußten Einhaltung der lykurgischen Ausleserichtung.

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Sorge: Lebensgeschichte des hellenischen Volkes, Pähl 1965, S. 158 f.

mercredi, 04 mai 2011

Helios von Emesa

Helios von Emesa

Franz Altheim

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

 

Auf den ersten Blick hin scheinen Verbindungen zu den Baalim von Baalbek und von Damaskus zu bestehen. Iupiter Helipolitanus und Iupiter Damascenus tragen die Übereinstimmung im Namen. Auch bei Emesas Gott konnte man die Frage aufwerfen, ob er Iupiter gleichzusetzen sei. Doch wird sich zeigen, daß es bei ihm anders liegt.

In Baalbeek war die Dreiheit von Iupiter-Hadad, Venus-Atargatis und Mercurius-Schamasch nach ihrer Reihenfolge jüngeren Ursprungs. Anfänglich stand der Sonnengott, eben Schamasch, an der Spitze. Erst unter dem Einfluß babylonischer oder, wie das spätere Altertum sie nannte: chaldäischer Vorstellungen wurde Hadad zum Herrn des Schicksals, rückte er an die erste Stelle. Schamaschi, nachträglich Mercurius gleichgesetzt, mußte sich mit einer dienenden Rolle begnügen: gleich dem Götterboten Hermes oder Mercurius wurde er zum ausführenden Organ des obersten Gottes. Im Pantheon von Palmyra stand Helios, der Sonnengott, neben Bel. Erneut war er Bote und Mittler, während Bel als Weltenherr im obersten Himmel thronte. Von seiner dienenden Stellung erhielt der Sonnengott den Namen: als Malakbel, ‚Bote des Bel’, begegnet er in der göttlichen Dreiheit Palmyras, wiederum Mercurius gleichgesetzt.

Auch in Emesa kannte man den babylonischen Schicksalsglauben und seine Zwillingsschwester, die Astrologie. Iulia, späterer Gattin des Kaisers Septimus Severus (193-211), war durch ihr Horoskop verheißen, sie werde dereinst einen Herrscher ehelichen; sie entstammte dem Priesterhaus von Emesa. Im Aithiopienroman Heliodors, der mancherlei von emesenischer Vorstellungswelt vermittelt, heißt es, die Bahn der Gestirne bestimme unentrinnbar das menschliche Geschick. Ausgrabungen nordöstlich der Stadt haben astrologische Tafeln in Keilschrift zutage gefördert.

Und doch hat sich der Sonnengott in Emesa nicht, wie Schamasch in Baalbek und Palmyra, vom ersten Platz vertreiben lassen. Münzen und Inschriften zeigen, daß er sich keineswegs zu Iupiter, zu Baal oder Bel gewandelt hat, sondern der Sonnengott blieb. Deus Sol Elagabalus oder Invictus Sol Elagabalus lauten eindeutig; man versteht, daß auf einer Inschrift aus Cordoba der ‚große Helios’ von Emesa dem ägyptischen Sonnengott Re angeglichen ist. Auch als ‚Stammvater’ wurde er angerufen, wie denn Emesener zuweilen die Herkunft von der Sonne oder ‚dem Gott’ schlechthin im Namen tragen.

Auch der zweite Gott, Dusares, hatte sich der Sonne verbunden, Hauptgott der Nabatäer, findet man ihn überall, wohin ihr Karawanenhandel und ihr Machtbereich sich erstreckt haben. Wie alle Sonnengötter trug Dusares den Beinamen des Unbesieglichen; er war mit Mithras verbunden, und sein Geburtstag fiel auf den 25. Dezember. Gleich dem göttlichen Herrn Emesas besaß er einen heiligen Stein.

Man kennt diese Art der Verehrung auch bei dem Mondgott von Karrhai, überhaupt bei Göttern, die arabischen Ursprungs waren. Der Name dieser ‚Baityloi’ besagt, daß sie Wohnung der betreffenden Götter waren, nicht diese selbst. In Emesa besaß der heilige Stein die Gestalt eines Kegels, unten mit runder Grundfläche, oben spitz zulaufend. Erhebungen, die sich auf der Oberfläche abhoben, zeigten einen Adler mit Schlange im Schnabel. Man erkannte darin das Symbol der Sonne. Wiederum also fiel der Stein nicht mit dieser zusammen; er trug ihr Bild. Und doch war der Gott in den Stein eingegangen, war ihm irgendwie gesellt, wie man dies auch von den zahlreichen Steinblöcken weiß, die im vorislamischen Arabien verehrt wurden.

Meist hört man von ihnen, wenn muslimischer Gotteseifer daranging, solche Idole zu zerstören. Die Priester altarabischer Gottheiten mahnten diese, bei den Steinen den Kampf gegen die Vertreter der neuen Religion zu wagen. Denn sie verlieren ihren Kult und ihr Ansehen, gelingt es ihnen nicht, ihren Stein und damit ihr ‚Haus’ zu behaupten. Ein Gott, der bei seinem Stein nicht kämpft, ist eine ‚wertlose Sache’. Al-Uzza, die einen ähnlichen Kampf verloren hat – es ging bei ihr nicht um heilige Steine, sondern um drei ihr gehörige Bäume – ‚wird hinfort nie wieder verehrt werden’, lautete das Urteil des siegreichen Propheten Mohammed (569 bis 632).

Steine sind nicht einem bestimmten Ort verhaftet: sie sind beweglich. Einführung von Göttern geschieht derart, daß man sich Göttersteine schenken läßt oder aus bestehendem Heiligtum solche mitbringt. Als der Kult des Sonnengottes nach Rom verlegt wurde, wanderte Emesas heiliger Stein ans Tiberufer. Als man dort nach Elagabals Ermordung (222) sich des Fremdkultes zu entledigen wünschte, schickte man den Stein in seine syrische Heimat zurück.

Neben der Verehrung des heiligen Steines steht, gleichfalls eine uralte Form, der Höhlenkult. ‚Elagabal’ war ursprünglich Name des Gottes selbst: er bezeichnete diesen als ‚Herrn des Berges’. Gemeint war der Burgberg von Emesa, denn dort hatte der Gott seinen Sitz. Aus der Ebene, darin die Stadt sich erstreckt, erhebt sich im Südwesten die Zitadelle, unmittelbar den nördlichen Ausläufern des Libanon gegenüber. Hier stand der Tempel, dessen First, nach den Worten eines antiken Gewährsmannes, mit den bewaldeten Höhen des Gebirges wetteiferte.

Wieder läßt sich Dusares vergleichen. Südöstlich des Toten Meeres, schon an den Pforten des eigentlichen Arabien, liegt Petra. Hauptstadt der Nabatäer, gehörte es einem Volk, das seine Inschriften in einem überkommenen aramäischen Dialekt aufzeichnete, aber nach Ausweis seiner Eigennamen arabisch war. Inmitten eines steinernen Kessels, eingebettet in die roten und violetten Schroffen eines Felsmassivs von urtümlicher Gewalt, scheint dieses Petra seiner Umgebung entrückt. Nur ein steiniges Bachbett, das sich tief in die steilen Wände eingeschnitten hat, ermöglicht den Zugang. Stätte der Sicherheit, scheint dieser Ort durch seine Menschenferne, seine Verzauberung wie geschaffen, die Nähe der Gottheit empfinden zu lassen. Unter der Fülle der Gräber, Höhlen und Tempel beeindruckt der Opferplatz auf dem höchsten Gipfel in den anstehenden Fels geschnitten. Altar und Schlachtbank, das eingetiefte Becken, darein das Blut des Opfertieres floß, zwei Baitylen unweit davon – sie vermitteln eine Vorstellung davon, was ein altsemitischer Höhlenkult gewesen sein mag.

Nicht zufällig wurden die angezogenen Vergleiche aus der arabischen Welt genommen. Dieser entstammen, wie gesagt, die Nabatäer und auch ihr göttlicher Herr Dusares. Emesas Gott wird in denselben Bereich führen.

* * *

Sorge: Der unbesiegte Gott. Heidentum und Christentum; Rowohlts Deutsche Enzyklopädie; Hamburg 1957.

dimanche, 24 avril 2011

Ostara

  

Ostara

Ex: http://tpalsace.wordpress.com/

OSTARA (appelé aussi Oestara, jour d’Eostre) est une fête païenne solaire célébrée à l’équinoxe du printemps (21 mars), période au cours de laquelle la durée du jour est égale à celle de la nuit.

On perçoit l’influence nordique de cette date avec le nom qu’on lui donne : OSTARA provient en effet d’Eostre, déesse germanique de la fertilité à qui on faisait des offrandes d’œufs peints pour assurer la venue du Printemps.

Cette fête célèbre donc le réveil de toutes les énergies sur la terre, la fertilité, le premier jour du Printemps : il ne peut y avoir de fête d’Ostara sans une place d’honneur réservée aux plantes !

Après la torpeur de l’Hiver , c’est l’époque des recommencements, le temps d’agir, de semer, de s’occuper des jardins. Il est conseillé de faire ce jour-là une promenade en pleine nature en célébrant la venue des beaux jours et des plantes éclatantes de vie.

On célèbre également la renaissance du dieu soleil et de son pouvoir créateur sur la nature.

Les coutumes païennes veulent que l’on allume des feux à l’aube pour symboliser le renouveau de la vie et la protection des récoltes. Les païens actuels célèbrent ce sabbat mineur en faisant sonner les cloches, en plantant les semences, en faisant le grand nettoyage de Printemps, physique et spirituel, afin de se débarrasser des énergies négatives mais aussi en parant la maison de plantes et de fleurs  reflétant nos émotions et nos pensées. Il est également d’usage de prononcer  des incantations de bannissement et de purification si nécessaire.

Par ailleurs, la nourriture est un très bon moyen de faire honneur à cette fête. Préparer des repas adaptés aux saisons est un symbole fort pour s’harmoniser avec la nature : toutes les pousses et les plantes sont considérées comme sacrées et donc une base excellente pour agrémenter les repas (soja, tournesol, sésame, courges, salades etc.)

L’œuf tient la place d’honneur sous toutes ses déclinaisons (omelettes, œufs durs, flans, tartes ou encore peint pour la décoration des tables) car il détient en lui la genèse du monde, il est une réalité primordiale qui contient en germe la différenciation des êtres, il est souvent la représentation de la puissance  de la lumière, symbole de la rénovation périodique de la nature.  Jadis les œufs étaient ramassés dans les nids puis utilisés comme talismans avant d’être mangés pendant les rituels.

L’animal représentatif  d’Ostara est le lièvre que nous mangeons souvent sous forme de chocolat (d’où le lièvre de Pâques chez les chrétiens), il est le symbole de la fertilité et le fait que la terre renait après la froideur de l’hiver. Les gâteaux à base de miel sont également à l’honneur ainsi que les boissons telles que, tisanes , lait , hydromel…

 

« Elles murmurent, les sources qui coulent vers la vallée, toutes habillées de goutellettes d’argent.

C’est de là qu’Ostara sortait de la terre paysanne, la déesse prête à dispenser ses bienfaits.

Tout la haut s’envolent les alouettes, chantant de leurs trilles un salut de joie au Printemps.

C’est là que s’ouvraient les bourgeons fleuris sous les pieds d’Ostara.

Puis elle levait dans les airs sa clé d’or, appelant par son geste toutes choses à germer,

Et dispensant, de son chaudron brillant, des fleurs à profusion, d’une main solennelle.

Sa chevelure dorée restait comme suspendue au milieu des bourgeons épanouis en foule.

Je voulais les saisir, tenter de m’en emparer.

Mais je ne pris dans ma main que les rayons du soleil qui se jouait de moi. »

Lotte HUWE


lundi, 21 mars 2011

Traditionalism and Dugin, in Russian

Alexander_Dugin.pngTraditionalism and Dugin, in Russian

There is a new article in Russian on Dugin by Andreas Umland and Anton Shekhovtsov, "Philosophia Perennis и «неоевразийство»: роль интегрального традиционализма в утопических построениях Александра Дугина" (Philosophia Perennis and 'Neo-Eurasianism:' The Role of Integral Traditionalism in the Utopian Constructions of Aleksandr Dugin), in Форум новейшей восточноевропейской истории и культуры - Русское издание 2 (2010), available at http://www1.ku-eichstaett.de/ZIMOS/forum/inhaltruss14.html. This is a translation of Anton Shekhovtsov and Andreas Umland, "Is Aleksandr Dugin a Traditionalist? 'Neo-Eurasianism' and Perennial Philosophy" The Russian Review 68 (October 2009), pp. 662–78, discussed in a previous post.

jeudi, 17 mars 2011

Jean Haudry: 1 h 30 d'entretien

 

Jean Haudry était l’invité de Méridien Zéro…

Pour écouter l’émission N° 39  datée du 6 Mars, cliquez sur le lien ci-dessous…

http://meridienzero.hautetfort.com/

Pour l’enregistrer, cliquez sur le lien ci-dessous

http://meridienzero.fr/mp3/Meridien_0_06.03.2011.mp3

jeudi, 10 mars 2011

Man's Devolution Across Cycles: Radical Traditionalism on Anthropogenesis

Man’s Devolution Across Cycles:
Radical Traditionalism on Anthropogenesis

Michael Bell

Ex: http://www.counter-currents.com/

Sonnenrad.jpgConcerning the genesis of modern humanity, there are two primary theories that receive credence in anthropological circles. One is the “Out of Africa” hypothesis, which argues that today’s humans are the evolved descendants of a primitive race of hominids that, 70,000 years ago, departed its homeland in Africa and spread across the globe. Upon entering Asia and Europe, these archaic humans displaced the indigenous Neanderthals through violent conflict and higher birthrates. They then adapted to their environments and gradually morphed into today’s human races through a process called localized evolution.

The other theory is “Divergent Evolution,” which posits that the various races of mankind were spawned out of continuous admixtures between the different proto-humans (Homo-erectus, Cro-Magnon, Neanderthal, etc.) many millennia ago. The countless hybrid amalgams then underwent localized evolution like the single ancestor of the “Out of Africa” process.

While these hypotheses are considered to be at loggerheads, they are united by one key concept: the idea of progress. While each gives a different origin to mankind, both proceed from the assumption that as time goes on, mankind has become better. Although evolutionary theory does not imply that superior adaptations are also superior in terms of intelligence or beauty, this notion is particularly hard to shake with regard to human evolution.

Radical Traditionalism rejects the modernist assumption of progressive human evolution, regarding it as the exact opposite of how the universe functions. For Traditionalism, all things begin at their zenith and gradually degenerate, through a series of stages, into mere shadows of their former glory, a pattern no less true of human beings. The purpose of this essay is to explain how this rule has applied to mankind, who has not risen to mastery of the world from the lowly origins of some apelike ancestor, but rather has fallen from godhood into his current, all-too-human condition.

To do so, it will first be necessary to describe the Radical Traditionalist understanding of history. Like all tenets of Traditionalism, this conception of history is held to be a revealed truth passed down through a chain of initiation. What recommends the Traditionalist outlook to the non-initiate is its coherence and explanatory power. In the following essay, I show that Traditionalism explains archaeological and historical records and harmonizes with ancient myths as well. The modern empiricist will likely disregard such myths as the fancies of primitive imaginations, but that begs the question, for it is just another version of the progress thesis that Traditionalism rejects.

Cyclical History

Radical Traditionalism shares the same view of human history as our ancient forerunners from nearly every corner of the globe. As opposed to the linear model of history—whether ruled by an overriding purpose of by mere chance—the ancients accepted a cyclical model. This is evident in the texts of virtually every civilized race. The Hindus traced man’s descent across four ages or yugas, from the age of Truth (Satya Yuga) to the Dark Age (Kali Yuga), with the series comprising a single Great Age (Mahayuga). The Hellenic Hesiod, in his Works and Days, described the procession from a Golden Age to Silver, Bronze, and Iron Ages, which corresponds to the Persian rendition of the cycles. The Old Testament reveals that the Semitic peoples also shared this cyclical understanding. In a dream experienced by the Chaldean king Nebuchadnezzar, there stood a statue with a head made of gold, a chest and arms of silver, thighs of bronze, and legs and feet made of iron and clay, all of which eventually crumbled upon being struck by a stone.[1] The list can go on, with discussions of peoples from the Aztecs to the Japanese, but the examples provided are sufficient to reveal the universality of this cyclical concept.

The ancients also agreed that with each successive age, man becomes more and more distant from a primordial state of perfection. In the Golden Age, man lived in harmony with divine beings and according to absolute, transcendent principles that brought happiness, wholeness, and near immortality to individuals while it brought order and prosperity to collective life. With the ushering in of the Silver Age came a fall from this state of grace and the establishment of an imperfect existence, where those old principles were abandoned, the gods lost much of their divine nature, and man took a step away from cosmic harmony toward chaos. For the purposes of this essay, we shall elaborate on the Golden and Silver Ages, for it was in these prehistoric periods that humanity underwent processes that bestowed our multitude of contemporary mental and physical forms upon us.

The Atlantean Silver Age

The Golden Age was a period of perfection on all levels. Human life was directly guided by the gods themselves and therefore orderly, plentiful, and enjoyable. Though the Golden Age was long ago and its location long since lost, its memory is kept alive by the mythical traditions of nearly every people on the planet. Hesiod, writing in the eighth century B.C., describes this “Age of Gold” thusly:

Men spent a Life like Gods in Saturn’s Reign,
Nor felt their Mind a Care, nor Body Pain;

The fields, as yet untill’d, their Fruits afford,
And fill a sumptuous, and enevy’d, Board.
From Labour free they all Delights enjoy,
Nor could the Ills of Time and Peace destroy;
They dy, or rather seem to dy, they seem
From hence transporting in a pleasing Dream.
Thus, crown’d with Happyness their ev’ry Day,
Serer, and joyful, pass’d their Lives away.[2]

Hesiod is one of few writers to directly mention the Golden Age and describe its qualities. Using his work as a reference point, however, the scholar can detect allusions to the same period in other ancient texts. For example, in Book 6 of the Mahabharata, the author discusses Mount Meru, “made of gold,” where the “measure of human life is 10,000 years” and “men are all of a golden complexion . . . [and] without sickness, without sorrow, and always cheerful.”[3] Outside the Aryan tradition, the Book of Lieh-Tzu (fourth century B.C.) describes what appear to be the inhabitants of the Golden Age:

All were equally untouched by the emotions of love and sympathy, of jealousy and fear. Water had no power to drown them, nor fire to burn; cuts and blows caused them neither injury nor pain, scratching or tickling could not make them itch. They bestrode the air as though treading on solid earth; they were cradled in space as though resting in a bed. Clouds and mist obstructed not their vision, thunder-peals could not stun their ears, physical beauty disturbed not their hearts, mountains and valleys hindered not their steps. They moved about like gods.[4]

Finally, we have in the Semitic memory the Garden of Eden, where man was first established on Earth at God’s decree. According to the Book of Genesis, those who dwelled there lived for nearly 1000 years in a blissful paradise.[5] The allusions to this pristine setting are numerous, from the Avestic recollection of a distant period in the Airyana Vaego, where man was under the aegis of the creator god Ahura Mazda himself, to the Buddhist remembrance of Shambhala, roughly translated “land of peace” or “tranquility.”

In tracing anthropogenesis, it is crucial to establish the physical location of this primordial paradise. Unfortunately, no material archaeological evidence lends any insight into this question. We are thus forced to rely solely on the mythological memories of our ancestors. Among the Greeks, this land “beyond the pole” where neither “pestilence nor wasting eld approach” the inhabitants was referred to as Hyperborea, meaning “beyond the north wind.”[6]

In his book Arctic Home in the Vedas, the Hindu nationalist and scholar Bal Gangadhar Tilak, writing in the early twentieth century, presents a vast array of clues from Vedic and Avestic literature to argue that the primordial paradise was located in the Arctic. Tilak explains that if one were stationed at the North Pole, the sky above would appear to be rotating around one “from left to right, somewhat like the motion of a hat or umbrella turned over one’s head.”[7] He also explains that one would see the sun continuously in the sky for roughly six months, followed by a period of dusk, night, and dawn of two months each. Thus for the Arctic inhabitant, a full year would appear to unfold as a single day.

With these astral phenomena in mind, Tilak proceeds to pinpoint allusions to them in the Aryan texts. For example, in the Mahabharata, Mount Meru is discussed in one passage as a place where the “sun and the moon go round from left to right every day and so do all the stars” and “The day and the night are together equal to a year to the residents of the place.”[8] He supports this with a selection from the post-Vedic Laws of Manu, which says “A year (human) is a day and a night of the Gods; thus are the two divided, the northern passage of the sun is the day and the southern the night.”[9] Tilak corroborates this evidence with clues from Persian tradition. From the Avesta we have reference to an “enclosure” in the Airyana Vaejo in which “the stars, the moon, and the sun are only once (a year) seen to rise and set, and a year seems only as a day.”[10]

The present conditions in the Arctic make it uninhabitable. According to Tilak, however, modern scientists have conceded that at one time in distant prehistory, perhaps in pre-Glacial times, the region was hospitable, fertile, and filled with life. Among these scientists is the geologist James Geikie, who in 1893 argued that “during the Inter-Glacial period the climate was characterized by clement winters and cool summers so that the tropical plants and animals, like elephants, rhinoceroses, and hippopotamuses, ranged over the whole of the Arctic region, and in spite of numerous fierce carnivora, the Paleolithic man had no unpleasant habitation there.”[11] Joscelyn Godwin confirms that such conditions were indeed possible when, as “numerous authorities” claim, “the earth was not tilted, but spun perfectly upright with . . . its axis perpendicular to the plane of its orbit around the sun,” which was the case in “primordial times.”[12]

Since the Arctic Golden Age took place many eons before recorded history, assessing its actual place in time is troublesome. Using Hindu calculations, Traditionalist René Guénon concluded that this Golden Age took place nearly 65,000 years ago.[13] We must prefer this number over Tilak’s hypothesized 12,000 years, as the latter would place the subsequent Silver Age far too near recorded history to be possible, especially considering that the fourth, Dark Age, “is said” to have begun only 6000 years ago.[14] In addition, it would be implausible to place man’s origins only 12,000 years ago, as the devolutionary processes that reduced him to his modern form could not have fully unfolded within that short span.

Eventually, the Arctic seat and its Golden Age met a catastrophic end for a number of reasons, both physical and metaphysical. In his magnum opus, Revolt Against the Modern World, Julius Evola argues that the Earth’s axis shifted positions slightly, ushering in a cataclysmic climate change.[15] As a result, the Polar Regions became inhospitable to most life forms. In ancient texts one finds numerous references to this tilting of the axis. The Taoist tradition recalls when the “pillar which connects Heaven and earth” was “snapped” (the axis is essentially an invisible pillar that unites the sky with Earth), explaining “why Heaven dips downwards to the north-west, so that sun, moon and stars travel towards that quarter.”[16] The Hebrew story of the crumbling of the Tower of Babel, which connected Heaven to Earth, is another example. The Avesta explains the onset of the climate change in a dialog between the creator god and his disciple, king Yima: “And Ahura Mazda spake unto Yima, saying: ‘O fair Yima, son of Vîvanghat! Upon the material world the fatal winters are going to fall, that shall bring the fierce, foul frost; upon the material world the fatal winters are going to fall, that shall make snow-flakes fall thick.”[17] As this event would have occurred tens of thousands of years ago, it likely coincides with the beginning of one of the various Ice Ages.

One more event, metaphysical in nature, is explained to us by the Old Testament. It tells of how the “sons of God” mated with the “daughters of man” and spawned a race of mighty giants, whose evil behavior, driven by the appetites of the flesh, made God unleash elemental forces against them.[18] These sons are likely parallels to the “celestial gods” who dwelled in Airyana Vaego, as well as the other gods and demigods that the ancient texts say lived in this primordial paradise. From the clues above, we can paint the following picture regarding the end of the Golden Age. Human beings lived harmoniously with divine beings in the Arctic paradise until the two entered sexual unions that produced powerful, semi-divine half-breeds. This action caused such a rupture in the cosmic balance of the universe that the Earth’s axis shifted, bringing on the Ice Age that turned the paradise into a cold wasteland.

Following the destruction of Airyana Vaego/Mount Meru/Eden/ Hyperborea, the semi-divine survivors were forced to migrate southwards. In their exodus they retained the memory of their Polar homeland, evinced by polar symbols such as the swastika (a bent cross revolving about a fixed point) and the axial World Tree, which traditionally links Midgard (Earth) with the realms above. Some settled in areas of North America and Northern Europe, but the majority regrouped in an Atlantic location to reconstitute their civilization.

If we are to make any conjectures about the race of our Hyperboreans, we must look to those people who carried with them the memory of the primordial home. By Hyperboreans, I mean the Arctic race of “men” who lived among the gods. Discerning the features of the latter is impossible, as they are not bound by the limitations of material existence; they could have been anthropomorphic, ethereal, or capable of alternating between the two. Our only clue is that they were “Golden,” which may be an allusion to vibrant blondness.[19]

In all of the civilizations discussed above, as well as in others, our concern would be with the upper castes, namely the priests and the military aristocracy, who preserved the memories of Hyperborea. Among the Aryan peoples of Europe, this task is simpler due to the abundance of physical evidence available, namely statues, frescoes, engravings, and physical remains. The ancestors of classical Greece and Rome, Germania, and Celtia, who brought with them the worship of Zeus, Saturn, Tuisto, and Dana, were evidently of a tall, robust, fair-haired, and fair-skinned Nordic stock. The fourth century A.D. physician, Adamantios, gives us a picture of the early Hellenes, claiming that “Wherever the Hellenic and Ionic race has been kept pure, we see proper tall men of fairly broad and straight build, neatly made, of fairly light skin and blond; the flesh is rather firm, the limbs straight, the extremities well made.”[20]

As we push further east, the evidence becomes less plentiful but nonetheless revealing. The Brahmins who carried to India the oldest extant accounts of the Golden Age in Mount Meru were of that same Nordic race. If one juxtaposes a modern Brahmin or Kshatriya with a member of the lower castes, it often appears that the former has something quite different “in his woodpile.” He would tend to be taller and fairer in complexion and occasionally possess blue or green eyes and, more rarely still, fair hair. Lower caste individuals generally tend to be shorter and darker, and although many have fine Caucasoid features, others display an Australoid phenotype. Kaiyata, writing in the second century B.C., affirms that White Brahmins once “flourished in a previous cycle of existence” but that their “descendants are rarely met with even now.”[21] The sixth century B.C. Kshatriya noble, Siddhartha Gautama (Buddha), is described in the Pali Canon as having abhi nila netto, or “very blue eyes,” a typical Nordic trait.

In the Far East, we have a non-Aryan milieu entirely. However, there is ample genetic evidence that tall, fair Whites roamed both Western[22] and Eastern[23] China long before the present-day Mongoloids. Taken with the racial description of the Buddha, we have enough to surmise a heavy influence upon China’s culture by Nordics or a stalwart white race akin to them. Since Buddhism influenced the development of Japanese religious culture, the same rule applies to Japan.

The list can go on, but we have already given sufficient proof that the bearers of the oldest and clearest recollections of Hyperborea were tall, fair, blue-eyed, and red or blonde-haired whites. It would thus be fair to conclude that the Hyperboreans, from whom they claim descent, were likely of a proto-Nordic race.

 

The Atlantean Silver Age

Hesiod’s poem continues with a discussion of a second age, “which the Celestials call the Silver years.”[24] In this period, man became subject to sickness and mortality. He no longer lived according to the absolute principles provided by his divine tutors during the Golden Age, and paid the gods themselves “no honors.”[25]

It is with the dawning of this era that the Arctic inhabitants, now a race mixed with divine and human elements, traveled as refugees from their destroyed Urheimat to a southern location somewhere in the Atlantic. There they founded the famed city of Atlantis in mimicry of their original homeland. After establishing themselves, they embarked on a colonizing campaign across the world, passing the “Pillars of Hercules” (the Straits of Gibraltar) and reaching deep into the Mediterranean Sea. There they established their hegemony, holding “sway . . . over the country within the Pillars as far as Egypt and Tyrrhenia.”[26] It is reasonable to assume that they also sent voyagers to the Americas, as Atlantis would have lain between them and Europe.

As this new civilization was built before recorded history, it is difficult to ascertain its precise chronology. Plato asserts that Atlantis crumbled 9000 years before his own time, while Guénon, relying once again on Vedic mathematics, says this occurred several thousand years earlier. This would, therefore, place its origins even further back. Regardless, our concern is the racial state of those dwelling within Atlantis.

The Boreal race inhabiting the Arctic was probably quite Nordic in appearance. When they mixed with the gods, however, they spawned “men of monstrous size” according to Hesiod, paralleling the Nephilim of the book of Genesis. Given that modern Nordics are some of the tallest humans, and that they themselves are merely degenerated descendants of something greater, the mythological testimony seems plausible. Thus, the Atlanteans sired from the union of gods and men were likely much taller than today’s tallest people and probably more muscular; they would have been frightfully imposing giants. Further credence is given to this idea by the fact that in Numbers, the Hebrews refer to the Anakim as “Nephilim” due to their immense stature, which made the Hebrews feel like “grasshoppers.”

These giants were not the norm, however. Plato speaks of them becoming “diluted too often and too much with the mortal admixture,” suggesting that unmixed Boreal humans also lived within Atlantean borders. This was also the cause of Atlantis’s inevitable downfall, much like that of Hyperborea. After several generations of unchecked miscegenation with their human subjects, the Atlantean giants forfeited their angelic constitution and “grew visibly debased, for they were losing the fairest of their precious gifts.”[27] When this happened, the cosmic balance was once again disrupted. Evidence from the myths, sometimes suggestive and other times affirmative, leads us to believe that a massive earthquake occurred, causing Atlantis, the seat of the Silver Age, to sink beneath the Atlantic. The Mesopotamian story of the deluge that submerged the first cult-centers, linked to the Biblical flood that Noah overcame, is an example.[28]

With the Atlantean admixture with humans came a race almost entirely sapped of divinity. They were the direct ancestors of modern Northern Europeans (proto-Nordics), retaining the fair complexion and keen intellect but losing their titanic build and strength. Forced to flee their sinking kingdom, these people migrated in an East-West trajectory, bringing significant numbers into the Americas and Europe.

There is some physical and genetic evidence to substantiate this claim.

Firstly, there is the link between the 18,000 year old Solutrean weapon culture of France and the 13,500 year old American weapon culture of Clovis, New Mexico. Archaeologists Bruce Bradley and Dennis Stanford concluded in 2004 that there was a striking similarity between the manufacturing methods of each culture, particularly because they both used a very difficult and rare technique called overshot flaking.[29] They also noted that a weapon culture discovered in Virginia, dating to 16,000 years ago, appeared to be a “technological midpoint between the French Solutrean style and the Clovis points.”[30]

Our second piece of evidence is genetic. Scientists have found that among the genes of Native American populations, the mitochondrial DNA (mtDNA) of haplogroups A through D, which are common in Asia, predominates. However, it has been found that a significant number of Native Americans in the Eastern United States possess mtDNA from haplogroup X, which is only also found in Western European populations and in some parts of Mongolia. One might argue that the presence of this mtDNA in Mongolia debunks the argument that Whites settled North America first, but this simply is not so when combined with all the other evidence provided here. Significantly, the mtDNA of pre-Columbian Native American skeletons has been studied, revealing that X was present in that race’s genes before the conquistadores arrived.[31]

Thirdly, we have the controversial Kennewick Man corpse. This 9300 year old skeleton, unearthed in Washington State in 1996, was discovered by anthropologist James Chatters to be of Caucasoid origin. In a clay reconstruction the face even ended up resembling that of British actor, Patrick Stewart.[32]

These bits of evidence indicate that a race of people predating the Mongoloid Native Americans split up and branched out into Europe and America from the Atlantic. They carried with them the same genes and tool-making methods, which they adapted to the available resources. An alternative possibility would be that this Upper Paleolithic race migrated first into Europe, with a group then splitting off and migrating eastward to America.

The Children from the Earth

As our Hyperborean ancestors ventured across the globe, first to the Atlantic and then in an East-West trajectory, they encountered preexisting societies in the lands they traversed. As the Golden and Silver Ages took place tens of thousands of years ago, these indigenous peoples were likely from the countless breeds of hominids, including Neanderthalensis and Soloensis. Whatever stock of proto-human they were, our ancestors characterized them as either chthonic, Earth-spawned beings or creatures originating from the chaotic waters. In most cases, their interaction resulted in conflict, but in others the two coexisted and even intermixed. These events have been vividly preserved in the various myths of Hyperborean origin: the epic struggle between the Tuatha da Danaan and the Fomors (people “from the water”); the battles between the Olympians and the various monsters spawned by Gaia (Earth); the vitriolic relationship between the Aesir (the Nordic sky gods) and the Vanir (trolls, giants, and other monsters); even the Anglo-Saxon epic Beowulf recaptures this theme in the fight between the hero and Grendel, a humanoid demon that lives beneath a lake.

Wherever the newcomers settled down and mixed with the natives, new races were spawned representing further bastardizations of the semi-divine Arctic prototype. Thus our giant, proto-Nordic race ramified into various hybrid breeds, each differing in appearance and attributes depending upon the areas they settled in, the stocks with which they mixed, and just how far they allowed this miscegenation to continue. From these mixed unions sprung the various Mongoloid, Semitic, Australoid, and Negroid races, with the latter two probably representing the farthest debasement from the original Hyperborean phenotype. In instances where mixing was less pronounced, or where adaptation to the environment and other factors had their effect, the various white races were generated (i.e. Nordics, Mediterraneans, Alpines, etc.).

Conclusions

In summary, anthropogenesis was a process of devolution, not evolution. Sixty-five thousand years ago, a race of gods described as “Golden” lived harmoniously with a race of advanced early humans, characterized by fair skin, fair hair, and light eyes, in a joyous, orderly Golden Age somewhere in the Arctic. At some point, the two races intermixed and bred giant demigods. As the Arctic seat froze over in one of the Ice Ages, these demigods led the remaining human survivors south into the Atlantic, with some remaining in different lands along the way. Those who did so, encountered autochthonous races with whom they ultimately mixed, debasing their divine nature and giving rise to a new, Silver Age that corresponded to the Atlantean civilization vividly described by Plato and remembered by many traditions as a “Western” land. It sent explorers out across the world from the Americas to the Far East. Thousands of years later this second super-civilization floundered due to continued mixing between the demigods and their human companions, generating the Upper Paleolithic proto-Nordic race.

With the sinking of Atlantis, these beings, now human in nature but still retaining a divine spark, migrated in an East-West trajectory. On this second great exodus, corresponding to a Bronze Age, some intermarried with indigenous peoples and further debased their line while others maintained their purity. The latter would later erect the most revered civilizations and empires of recorded history, such as Sumeria, Vedic India, Egypt, Hellas, Rome, China, and much later, the feudal regimes of Western Europe. The mixed peoples would be remembered as the Pelasgians, Minoans, Etruscans, Hebrews, Arameans, Iberians, and all other chthonic ethnicities that were subdued and restricted to a plebeian caste. Unfortunately, the vast empires noted above served as little more than dim reflections of the original Hyperborean civilization, precluded from fulfilling their true potential by the prevailing metaphysical conditions of the age in which they flourished.

We have now entered into the terminal phase of the Dark Age, and the type of humanity that is to inherit the succeeding Mahayuga remains to be seen; however, if the races of the world continue down the path of profligate inter-mixing, that divine spark, which drove the white peoples of the world to erect history’s grandest civilizations, and is now harbored by so few, will be completely extinguished. Humanity will then be forced to pass the torch of greatness to a succeeding species.

Notes

1. Dan. 2:35.

2. Hesiod, Works and Days, 1.154–63.

3. Mahabharata, 6.1.6.

4. Lieh-Tzu, The Book of Lieh-Tzu, trans. Lionel Giles (1912), 36.

5. Gen. 5:5.

6. Pindar, Pythian Odes, 10.29, 10.41.

7. Lokamanya Bal Gangadhar Tilak, Arctic Home in the Vedas (Poona City, India: 1903), 43.

8. Mahabharata, 3.7.163. Quoted in Tilak, 64.

9. The Laws of Manu, 1.67. Quoted in Tilak, 63.

10. Vendidad, 2.40. Quoted in Tilak, 350.

11. James Geikie, Fragments of Earth Lore: Sketches and Addresses, Geological and Geographical (1893), 266. Quoted in Tilak, 22–23.

12. Joscelyn Godwin, Arktos: The Polar Myth in Science, Symbolism, and Nazi Survival (Kempton: Adventures Unlimited Press, 1996), 13.

13. René Guénon, Traditional Forms and Cosmic Cycles (Paris: Gallimard, 1970), 24.

14. René Guénon, The Crisis of the Modern World, trans. Marco Pallis (Hillsdale: Sophia Perennis, 2001), 7.

15. Julius Evola, Revolt Against the Modern World (Rochester, Vt.: Inner Traditions International, 1995), 189.

16. Lieh-Tzu, 79.

17. Vendidad, 2.22.

18. Gen. 6: 2–7.

19. Julius Evola, Revolt Against the Modern World, 185. In his chapter “The Golden Age,” Evola contends that gold symbolizes the gods’ divine nature, which is “incorruptible, solar, luminous, and bright.” I see no reason, however, to reject the possibility that it could be a reference to something phenotypical.

20. Hans F. K. Gunther, The Racial Elements of European History, trans. G. C. Wheeler (London: Methuen, 1927), 157.

21. R. P. Chanda, The Indo-Aryan Races: A Study of the Origin of Indo-Aryan People and Institutions, Part I (Rajshahi: Varendra Research Society, 1916), 24.

22. “Genetic Testing Reveals Awkward Truth About Xinjians’s Famous Mummies,” Khaleej Times Online, April 19, 2005.

23. Li Wang et al, “Genetic Structure of a 2500-Year-Old Human Population in China and Its Spatiotemporal Changes,” Molecular Biology and Evolution, 17 (2000): 1396–1400.

24. Hesiod, Works and Days, 1.175.

25. Hesiod, Works and Days, 1.189.

26. Plato, Timaeus, 25.

27. Plato, Critias, 120.

28. “A Sumerian Myth: The Deluge,” trans. S. N. Kramer, The Ancient Near East, ed. James Pritchard, vol. 1 (Princeton: Princeton University Press, 1953), 29.

29. Bruce Bradley and Dennis Stanford, “The North Atlantic ice-edge corridor: a possible Paleolithic route to the New World,” World Archaeology 36 (2004): 465.

30. “Stone Age Columbus-programme summary,” BBC, 21 Nov. 2002. <http://www.bbc.co.uk/science/horizon/2002/columbus.shtml>. 1 Sept. 2008.

31. Maggie Villiger, “Tracing the Genes,” PBS, July 20, 2004, http://www.pbs.org/saf/1406/features/dna.htm.

32. Timothy Egan, “Old Skull Gets White Looks, Stirring Dispute,” The New York Times, April 2, 1998.

TOQ, vol. 10, no. 1 (Spring 2010)

 

vendredi, 11 février 2011

Julius Evola's Concept of Race: A Racism of Three Degrees

Julius Evola’s Concept of Race:
A Racism of Three Degrees

Michael Bell

Ex: http://www.counter-currents.com/

EvolaTrent'AnniDopo.jpgSince the rise of physical anthropology, the definition of the term “race” has undergone several changes. In 1899, William Z. Ripley stated that, “Race, properly speaking, is responsible only for those peculiarities, mental or bodily, which are transmitted with constancy along the lines of direct physical descent.”[1]

In 1916, Madison Grant described it as the “immutability of somatological or bodily characters, with which is closely associated the immutability of psychical predispositions and impulses.”[2] He was echoed a decade later by German anthropologist Hans F. K. Günther, who in his Racial Elements of European History said, “A race shows itself in a human group which is marked off from every other human group through its own proper combination of bodily and mental characteristics, and in turn produces only its like.”[3]

According to the English-born Canadian evolutionary psychologist J. Philippe Rushton:

Each race (or variety) is characterized by a more or less distinct combination of inherited morphological, behavioral, physiological traits. . . . Formation of a new race takes place when, over several generations, individuals in one group reproduce more frequently among themselves than they do with individuals in other groups. This process is most apparent when the individuals live in diverse geographic areas and therefore evolve unique, recognizable adaptations (such as skin color) that are advantageous in their specific environments.[4]

These examples indicate that, within the academic context (where those who still believe in “race” are fighting a losing battle with the hierophants of cultural anthropology), a race is simply a human group with distinct common physical and mental traits that are inherited.

Among white racialists, where race has more than a merely scientific importance, a deeper dimension was added to the concept: that of the spirit. In The Decline of the West, Oswald Spengler set forth the idea of the Apollinian, Faustian, and Magian “soul forms,” which can be understood as spiritual racial types.[5] In his highly influential Spenglerian tome Imperium, Francis Parker Yockey elaborated this notion, asserting that while there are genetically related individuals within any particular human group, race itself is spiritual: it is a deeply felt sense of identity connected with a drive to perpetuate not just genes, but a whole way of life. “Race impels toward self-preservation, continuance of the cycle of generations, increase of power.”[6] Spiritual race is a drive toward a collective destiny.

The spiritual side of race, however, was never systematically explained to the same extent as the physical. Its existence was, rather, merely suggested and taken for granted. It was only in the writings of the much overlooked Italian Radical Traditionalist and esotericist Julius Evola that the spiritual dimension was finally articulated in detail. One who has studied race from the biological, psychological, and social perspectives should turn to Evola’s writings for a culminating lesson on the subject. Evola’s writings provide a wealth of information that one cannot get elsewhere. Through a careful analysis of ancient literature and myths, along with anthropology, biology, history, and related subjects, Evola has pieced together a comprehensive explanation of the racial spirit.

My purpose here is simply to outline Evola’s doctrine of race. Since Evola’s life and career have been thoroughly examined elsewhere,[7] the only biographical fact relevant here is that Evola’s thoughts on race were officially adopted as policy by Mussolini’s Fascist party in 1942.[8]

Body and Mind

Evola’s precise definition of “race” is similar to Yockey’s: it is an inner essence that a person must “have”; this will be explained further below. In the meantime, a good starting point is Evola’s understanding of distinct human groups.

Evola agrees with the physical anthropologists that there are distinct groups with common physical traits produced by a common genotype: “the external form . . . which, from birth to birth, derives from the ‘gene’ . . . is called phenotype.”[9] He refers to these groups as “races of the body,” and concurs with Günther that suitable examples include the Nordic, Mediterranean, East Baltic, Orientalid, Negroid, and many others.[10]

Evola decribes the “race of the soul” as the collective mental and behavioral traits of a human stock, and the outward “style” through which these are exhibited. Every race has essentially the same mental predispositions; all human peoples, for example, desire sexual satisfaction from a mate. However, each human stock manifests these inner instincts externally in a different way, and it is this “style,” as Evola terms it, which is the key component of the “race of the soul.”

To illustrate this point, compare the Spartan strategos (Nordic soul) to the Carthaginian shofet (Levantine soul)[11]: the Spartan considers it heroic to fight hand-to-hand with shield and spear and cowardly to attack from a distance with projectiles, whereas the Carthaginian finds it natural to employ elephants and grand siege equipment to utterly shock and scatter his enemies for an expedient victory.

The names of these races of the soul correspond to those of the body, hence a Nordic soul, a Mediterranean soul, Levantine soul, etc. Evola devotes an entire chapter in Men Among the Ruins to comparing the “Nordic” or “Aryo-Roman” soul to the “Mediterranean.” The Nordic soul is that of “‘the race of the active man,’ of the man who feels that the world is presented to him as material for possession and attack.”[12] It is the character of the quintessential “strong and silent type”:

Among them we should include self-control, an enlightened boldness, a concise speech and determined and coherent conduct, and a cold dominating attitude, exempt from personalism and vanity. . . . The same style is characterized by deliberate actions, without grand gestures; a realism that is not materialism, but rather love for the essential . . . the readiness to unite, as free human beings and without losing one’s identity, in view of a higher goal or for an idea.[13]

Evola also quotes Helmuth Graf von Moltke (the Elder) on the Nordic ethos: “Talk little, do much, and be more than you appear to be.”[14]

The Mediterranean soul is the antithesis of the Nordic. This sort of person is a vain, noisy show-off who does things just to be noticed. Such a person might even do great deeds sometimes, but they are not done primarily for their positive value, but merely to draw attention. In addition, the Mediterranean makes sexuality the focal point of his existence.[15] The resemblance of this picture to the average narcissistic, sex- and celebrity-obsessed American of today—whether genetically Nordic or Mediterranean—is striking. One need only watch American Idol or browse through the profiles of Myspace.com to see this.

Race of the Spirit

The deepest and therefore most complicated aspect of race for Evola is that of the “spirit.” He defines it as a human stock’s “varying attitude towards the spiritual, supra-human, and divine world, as expressed in the form of speculative systems, myths, and symbols, and the diversity of religious experience itself.”[16] In other words, it is the manner in which different peoples interact with the gods as conveyed through their cultures; a “culture” would include rituals, temple architecture, the role of a priesthood (or complete lack thereof), social hierarchy, the status of women, religious symbolism, sexuality, art, etc. This culture, or worldview, is not simply the product of sociological causes, however. It is the product of something innate within a stock, a “meta-biological force, which conditions both the physical and the psychical structures” of its individual members.[17]

The “meta-biological force” in question has two different forms. The first corresponds to an id or a collective unconscious, a sort of group mind-spirit that splinters off into individual spirits and enters a group member’s body upon birth. Evola describes it as “subpersonal” and belonging “to nature and the infernal world.”[18] Most ancient peoples, as he explains, depicted this force symbolically in their myths and sagas; examples would include the animal totems of American aborigines, the ka of the Pharaonic Egyptians, or the lares of the Latin peoples. The “infernal” nature of the latter example was emphasized by the fact that the lares were believed to be ruled over by an underground deity named Mania.[19] When a person died, this metaphysical element would be absorbed back into the collective from whence it came, only to be recycled into another body, but devoid of any recollection of its former life.

The second form, superior to the first, is one that does not exist in every stock naturally, or in every member of a given stock; it is an otherworldly force that must be drawn into the blood of a people through the practice of certain rites. This action corresponds to the Hindu notion of “realizing the Self,” or experiencing a oneness with the divine source of all existence and order (Brahman). Such a task can only be accomplished by a gifted few, who by making this divine connection undergo an inner transformation. They become aware of immutable principles, in the name of which they go on to forge their ethnic kin into holistic States—microcosmic versions of the transcendent principle of Order itself. Thus, the Brahmins and Kshatriyas of India, the patricians of Rome, and the samurai of Japan had a “race of the spirit,” which is essential to “having race” itself. Others may have the races of body and soul, but race of the spirit is race par excellence.

Transcendence is experienced differently by different ethnic groups. As a result, different understandings of the immutable arise across the world; from these differences emerge several “races of the spirit.” Evola focuses on two in particular. The first is the “telluric spirit” characterized by a deep “connection to the soil.” This race worships the Earth in its various cultural manifestations (Cybele, Gaia, Magna Mater, Ishtar, Inanna, etc.) and a consort of “demons.” Their view of the afterlife is fatalistic: the individual spirit is spawned from the Earth and then returns to the Earth, or to the infernal realm of Mania, upon death, with no other possibility.[20] Their society is matriarchal, with men often taking the last names of their mothers and familial descent being traced through the mother. In addition, women often serve as high priestesses. The priesthood, in fact, is given preeminence, whereas the aristocratic warrior element is subordinated, if it exists at all.

This race has had representatives in all the lands of Europe, Asia, and Africa that were first populated by pre-Aryans: the Iberians, Etruscans, Pelasgic-Minoans, Phoenicians, the Indus Valley peoples, and all others of Mediterranean, Oriental, and Negroid origin. The invasions of Aryan stock would introduce to these peoples a diametrically opposed racial spirit: the “Solar” or “Olympian” race.

The latter race worships the heavenly god of Order, manifested as Brahman, Ahura-Mazda, Tuisto (the antecedent of Odin), Chronos, Saturn, and the various sun deities from America to Japan. Its method of worship is not the self-prostration and humility practiced by Semites, or the ecstatic orgies of Mediterraneans, but heroic action (for the warriors) and meditative contemplation (for the priests), both of which establish a direct link with the divine. Olympian societies are hierarchical, with a priestly caste at the top, followed by a warrior caste, then a caste of tradesmen, and finally a laboring caste. The ruler himself assumes the dual role of priest and warrior, which demonstrates that the priesthood did not occupy the helm of society as they did among telluric peoples. Finally, the afterlife was not seen as an inescapable dissolution into nothingness, but as one of two potential conclusions of a test. Those who live according to the principles of their caste, without straying totally from the path, and who come to “realize the Self,” experience a oneness with God and enter a heavenly realm that is beyond death. Those who live a worthless, restless existence that places all emphasis on material and physical things, without ever realizing the presence of the divine Self within all life, undergoes the “second death,”[21] or the return to the collective racial mind-spirit mentioned earlier.

The Olympian race has appeared throughout history in the following forms: in America as the Incas; in Europe and Asia as the Indo-European speaking peoples; in Africa as the Egyptians; and in the Far East as the Japanese. Generally, this race of the spirit has been carried by waves of phenotypically Nordic peoples, which will be explained further below.

Racial Genesis

Of considerable importance to Evola’s racial worldview is his explanation of human history. Contrary to the views of most physical anthropologists and archaeologists, and even many intellectual white racialists, humanity did not evolve from a primitive, simian ancestor, and then branch off into different genetic populations. Evolution itself is a fallacy to Evola, who believed it to be rooted in the equally false ideology of progressivism: “We do not believe that man is derived from the ape by evolution. We believe that the ape is derived from man by involution. We agree with De Maistre that savage peoples are not primitive peoples, but rather the degenerating remnants of more ancient races that have disappeared.”[22]

Evola argues in many of his works, like Bal Ganghadar Tilak and René Guénon before him, that the Aryan peoples of the world descend from a race that once inhabited the Arctic. In “distant prehistory” this land was the seat of a super-civilization—“super” not for its material attainments, but for its connection to the gods—that has been remembered by various peoples as Hyperborea, Airyana-Vaego, Mount Meru, Tullan, Eden, and other labels; Evola uses the Hellenic rendition “Hyperborea” more than the rest, probably to remain consistent and avoid confusion among his readers. The Hyperboreans themselves, as he explains, were the original bearers of the Olympian racial spirit.

Due to a horrible cataclysm, the primordial seat was destroyed, and the Hyperboreans were forced to migrate. A heavy concentration of refugees ended up at a now lost continent somewhere in the Atlantic, where they established a new civilization that corresponded to the “Atlantis” of Plato and the “Western land” of the Celts and other peoples. History repeated itself, and ultimately this seat was also destroyed, sending forth an Eastward-Westward wave of migrants. As Evola notes, this particular wave “[corresponded] to Cro-Magnon man, who made his appearance toward the end of the glacial age in the Western part of Europe,”[23] thus lending some historical evidence to his account. This “pure Aryan” stock would ultimately become the proto-Nordic race of Europe, which would then locally evolve into the multitude of Nordic stocks who traveled across the world and founded the grandest civilizations, from Incan Peru to Shintoist Japan.

Evola spends less time tracing the genesis of nonwhite peoples, which he consistently refers to as “autochthonous,” “bestial,” and “Southern” races. In his seminal work Revolt Against the Modern World, he says that the “proto-Mongoloid and Negroid races . . . probably represented the last residues of the inhabitants of a second prehistoric continent, now lost, which was located in the South, and which some designated as Lemuria.”[24] In contrast to the superior Nordic-Olympians, these stocks were telluric worshippers of the Earth and its elemental demons. Semites and other mixed races, Evola asserts, are the products of miscegenation between Atlantean settlers and these Lemurian races. Civilizations such as those of the pre-Hellenes, Mohenjo-Daro, pre-dynastic Egyptians, and Phoenicians, among countless others, were founded by these mixed peoples.

Racialism in Practice

Racialist movements from National Socialist Germany to contemporary America have tended to emphasize preserving physical racial types. While phenotypes were important to Evola, his foremost goal for racialism was to safeguard the Olympian racial spirit of European man. It was from this spirit that the greatest Indo-European civilizations received the source of their leadership, the principles around which they centered their lives, and thus the wellspring of their vitality. While de Gobineau, Grant, and Hitler argued that blood purity was the determining factor in the life of a civilization, Evola contended that “Only when a civilization’s ‘spiritual race’ is worn out or broken does its decline set in.”[25] Any people who manages to maintain a physical racial ideal with no inner spiritual substance is a race of “very beautiful animals destined to work,”[26] but not destined to produce a higher civilization.

The importance of phenotypes is described thusly: “The physical form is the instrument, expression, and symbol of the psychic form.”[27] Evola felt that it would only be possible to discover the desired spiritual type (Olympian) through a systematic examination of physical types. Even to Evola, a Sicilian baron, the best place to look in this regard was the “Aryan or Nordic-Aryan body”; as he mentions on several occasions, it was, after all, this race that carried the Olympian Tradition across the world. He called this process of physical selection “racism of the first degree,” which was the first of three stages.

Once the proper Nordic phenotype was identified, various “appropriate” tests comprising racism of the second and third degrees would be implemented to determine a person’s racial soul and spirit.[28] Evola never laid out a specific program for this, but makes allusions in his works to assessments in which a person’s political and racial opinions would be taken into account. In his Elements of Racial Education, he asserts that “The one who says yes to racism is one in which race still lives,” and that one who has race is intrinsically against democratic ideals. He also likens true racism to the “classical spirit,” which is rooted in “exaltation of everything which has form, face, and individuation, as opposed to what is formless, vague, and undifferentiated.”[29] Keep in mind that for Evola, “having race” is synonymous with having the “Olympian race” of the spirit. Upon discovering a mentality that fits the criteria for soul and spirit, a subsequent education of “appropriate disciplines” would be carried out to ensure that the racial spirit within this person is “maintained and developed.” Through such trials, conducted on a wide scale, a nation can determine those people within it who embody the racial ideal and the capacity for leadership.

Protecting and developing the Nordic-Olympians was primary for Evola, but his racialism had other goals. He sought to produce the “unified type,” or a person in whom the races of body, soul, and spirit matched one another and worked together harmoniously. For example: “A soul which experiences the world as something before which it takes a stand actively, which regards the world as an object of attack and conquest, should have a face which reflects by determined and daring features this inner experience, a slim, tall, nervous, straight body—an Aryan or Nordic-Aryan body.”[30]

This was important because “it is not impossible that physical appearances peculiar to a given race may be accompanied by the psychic traits of a different race.”[31] To Evola, if people chose mates on the basis of physical features alone, there is a good chance that various mental and spiritual elements would become intermingled and generate a dangerous confusion; there would be Nordics with Semitic mental characteristics and Asiatic spiritual predispositions, Alpines with Nordic proclivities and fatalistic religious attitudes, and so on. Such a mixture was what Evola considered to be a mongrel type, in whom “cosmopolitan myths of equality” become manifested mentally, thus paving the way for the beasts of democracy and communism to permeate the nation and take hold.

Evola cared more about the aristocratic racial type, but he did not want the populace to become a bastardized mass: “We must commit ourselves to the task of applying to the nation as a whole the criteria of coherence and unity, of correspondence between outer and inner elements.”[32] If the aristocracy had as its subjects a blob of spiritless, internally broken people, the nation would have no hope. For the Fascist state, he promoted an educational campaign to ensure that the peoples of Italy selected their mates appropriately, looking for both appearances and behavior; non-Europeans would of course be excluded entirely. The school system would play its role, as would popular literature and films.[33]

Another way to develop the “inner race” is through combat. Not combat in the modern sense of pressing a button and instantly obliterating a hundred people, but combat as it unfolds in the trenches and on the battlefield, when it is man against man, as well as man against his inner demons. Evola writes “the experience of war, and the instincts and currents of deep forces which emerge through such an experience, give the racial sense a right, fecund direction.”[34] Meanwhile, the comfortable bourgeois lifestyle and its pacifist worldview lead to the crippling of the inner race, which will ultimately become extinguished if external damage is thenceforth inflicted (via intermixing with inferior elements).

Conclusion

American racialists have much to gain from an introduction to Evola’s thoughts on race. In the American context, racialism is virtually devoid of any higher, spiritual element; many racialists even take pride in this. There are, without a doubt, many racialists who consider themselves devout Catholics or Protestants, and they may even be so. However, the reality of race as a spiritual phenomenon is given little attention, if any at all. For whatever reason, American racialists are convinced that the greatness of Western civilization, evinced by its literature, architecture, discoveries, inventions, conquests, empires, political treatises, economic achievements, and the like, lie solely in the mental characteristics of its people. For instance, the Romans erected the coliseum, the English invented capitalism, and the Greeks developed the Pythagorean theorem simply because they all had high IQs. When one compares the achievements of different Western peoples, and those of the West to the East, however, this explanation appears inadequate.

Intelligence alone cannot explain the different styles that are conveyed through the culture forms of different peoples; the Greeks’ Corinthian order on the one hand, and the Arabs’ mosques and minarets on the other, are not results of mere intellect. Sociological explanations do not work either; the Egyptians and the Mayans lived in vastly different environments, yet both evoked their style through pyramids and hieroglyphs. The only explanation for these phenomena is that there is something deeper within a folk, something deeper and more powerful than bodily structures and mental predispositions. As Evola elucidates through his multitude of works—themselves the result of intense study of ancient and modern texts from every discipline imaginable—race has a “super-biological” aspect: a spiritual force. Ancient peoples understood this reality and conveyed it through their myths: the Romans used the lares; the Mayans used totemic animal symbols; the Persians used the fravashi, which were synonymous with the Nordic valkyries[35]; the Egyptians used the ka; and the Hindus in the Bhagavad-Gita used Lord Krishna.

To better understand the spiritual side of race, the best place to look is Julius Evola. Through his works, which have greatly influenced the European New Right, Evola dissects and examines the concept of the Volksgeist, or racial spirit. It is the supernatural force that animates the bodies of a given race and stimulates the wiring in their brains. It is the substance from which cultures arise, and from which an aristocracy materializes to raise those cultures to higher civilizations. Without it, a race is simply a tribe of automatons that feed and copulate:

When the super biological element that is the center and the measure of true virility is lost, people can call themselves men, but in reality they are just eunuchs and their paternity simply reflects the quality of animals who, blinded by instinct, procreate randomly other animals, who in turn are mere vestiges of existence.[36]

Nowhere would Evola’s racial ideas be more valuable than in the United States, a land in which the idea of transcendent realities is mocked, if not violently attacked. Even American racialists, who nostalgically look back to “better” times when people were more “traditional,” are completely unaware of how the Aryan Tradition, in its purest form, understands the concept of race. Many of these people claim to be “Aryan” while simultaneously calling themselves “atheist” or “agnostic,” although in ancient societies, one needed to practice the necessary religious rites and undergo certain trials before having the right to style onself an Aryan. Hence the need for these “atheist Aryans” to become more familiar with Julius Evola.

Notes

1. William Z. Ripley, The Races of Europe: A Sociological Study (New York: D. Appleton and Co., 1899), 1.

2. Madison Grant, The Passing of the Great Race (North Stratford, N.H.: Ayer Company Publishers, Inc., 2000), xix.

3. H. F. K. Günther, The Racial Elements of European History, trans. G. C. Wheeler (Uckfield, Sussex, UK: Historical Review Press, 2007), 9.

4. J. Philippe Rushton, “Statement on Race as a Biological Concept,” November 4, 1996, http://www.nationalistlibrary.com/index2.php?option=com_c...

5. Oswald Spengler, The Decline of the West, 2 vols., trans. Charles Francis Atkinson (New York: Knopf, 1926 & 1928), vol. 1, chs. 6 and 9; cf. vol. 2, ch. 5, “Cities and Peoples. (B) Peoples, Races, Tongues.”

6. Francis Parker Yockey, Imperium (Newport Beach, Cal.: Noontide Press, 2000), 293.

7. See the Introduction to Julius Evola, Men Among the Ruins, trans. Guido Stucco, (Rochester, Vt.: Inner Traditions International, 2002).

8. Evola, Men Among the Ruins, 47.

9. Julius Evola, The Elements of Racial Education, trans. Thompkins and Cariou (Thompkins & Cariou, 2005), 11.

10. Evola, Elements of Racial Education, 34–35.

11. For more on the Levantine “race of the soul” see Elements of Racial Education, 35.

12. Evola, Elements of Racial Education, 35.

13. Evola, Men Among the Ruins, 259.

14. Evola, Men Among the Ruins, 262.

15. Evola, Men Among the Ruins, 260. Evola’s descriptions of Nordic and Mediterranean proclivities show the strong influence of Günther’s The Racial Elements of European History.

16. Evola, Elements of Racial Education, 29.

17. Julius Evola, Metaphysics of War: Battle, Victory & Death in the World of Tradition, ed. John Morgan and Patrick Boch (Aarhus, Denmark: Integral Tradition Publishing, 2007), 63.

18. Julius Evola, Revolt Against the Modern World, trans. Guido Stucco (Rochester, Vt.: Inner Traditions International, 1995), 48.

19. Evola, Revolt Against the Modern World, 48.

20. Evola, Elements of Racial Education, 40.

21. Evola, Revolt Against the Modern World, 48.

22. Julius Evola, Eros and the Mysteries of Love, trans. anonymous (Rochester, Vt.: Inner Traditions International, 1991), 9.

23. Evola, Revolt Against the Modern World, 195.

24. Evola, Revolt Against the Modern World, 197.

25. Evola, Revolt Against the Modern World, 58.

26. Evola, Revolt Against the Modern World, 170.

27. Evola, Elements of Racial Education, 30.

28. Julius Evola, “Race as a Builder of Leaders,” trans. Thompkins and Cariou, http://thompkins_cariou.tripod.com/id7.html.

29. Evola, The Elements of Racial Education, 14, 15.

30. Evola, The Elements of Racial Education, 31.

31. Evola, “Race as a Builder of Leaders.”

32. Evola, Elements of Racial Education, 33.

33. Evola, Elements of Racial Education, 25.

34. Evola, Metaphysics of War, 69.

35. Evola, Metaphysics of War, 34.

36. Evola, Revolt Against the Modern World, 170.

Source: TOQ, vol.9, no. 2 (Spring 2009).

jeudi, 10 février 2011

La chandeleur sans les crêpes

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La chandeleur sans les crêpes

Ex: http://www.insolent.fr/

110203Il paraît que le président Obama se dit chrétien. Je lui dédie donc ce texte avec plaisir.

Du temps de nos grands-mères, on n'eût pas imaginé, au soir du 2 février, chaque année, de ne pas faire des crêpes. Ce très vieil usage français remontait à on ne savait quand. Aujourd'hui, bien des gens soupirent, peut-être à juste titre, à propos de la déchristianisation de la France. Mais ils ne font en général que ronchonner, pour la plupart d'entre eux, comme s'il s'agissait d'une simple perte purement esthétique de ce qu'on appelle l'identité, sans jamais dire de quoi il retourne.

Chacun pourtant devrait s'interroger. Les origines de cette coutume et même la signification de cette fête de la chandeleur semblent ignorées du plus grand nombre.

Commençons par les crêpes. On attribue cet usage au pape nord-africain Gélase Ier (492-496) qui aurait imposé à Rome cette fête dite aussi la Sainte Rencontre. Adversaire ardent de l'hérésie monophysite, il voyait dans l'épisode évangélique, propre à saint Luc, chapitre II, versets 21 et suivants, une illustration des deux natures, divine et humaine, du Christ. En cette occasion auraient été distribuées les fameuses crêpes dont la coutume a été conservée, avec plus ou moins de talent culinaire, jusqu'à nos jours. Cette festivité fut aussi imposée aux habitants de l'ancienne Rome et aux occidentaux comme substitut de cérémonies païennes d'hiver, à Rome les lupercales, en Scandinavie et en Germanie le culte de la fécondité qui deviendra la sainte Brigitte, en Gaule et en Irlande la lustration d'Imbolc prendra le même chemin.

Mais en réalité cette commémoration de la présentation au Temple de l'Enfant Jésus, lors de son 40e jour a été instituée en Palestine. Elle existait déjà à l'époque du pèlerinage d'Éthérie à Jérusalem, c'est-à-dire au IVe siècle, plus de 150 ans avant Gélase.

Sur la rencontre, le récit de Luc est parfaitement explicite. On peut regretter à ce sujet que les lectures liturgiques commencent au verset 22.

Car, si l'on prend l'épisode, ce que les exégètes appellent la "péricope" évangélique dans son entier, à partir du verset 21, il y est d'abord mentionné la circoncision de l'enfant au 8e jour, selon la loi du Seigneur.

Puis, les deux parents, et pas seulement la sainte Vierge, verset 22 (1) observent une période de purification de 40 jours. Ce délai, que l'on retrouve dans toute la vie chrétienne reprend les 40 années de passage des Hébreux dans le désert, épreuve nécessaire, aux yeux des rédacteurs de la Bible, à ce que le peuple reçoive sa terre et sa loi. À la suite de quoi ils font l'offrande si poétique des deux tourterelles. (2)

Et enfin, c'est aussi en application de la Loi de Moïse que l'enfant premier-né est présenté au temple de Jérusalem. (3)

L'évangéliste Luc, comme l'on sait, écrivait directement en grec pour les païens de culture grecque. Il se basait en grande partie sur les souvenirs de témoins oculaires et notamment sur ceux de Marie elle-même (4).

Or, il souligne par ce récit, et il le fait précisément à l'usage des convertis venus du paganisme, que le Seigneur et Sauveur est bel et bien né dans le judaïsme (5). On peut en tirer, et on en a tiré, au cours de l'Histoire, des conclusions très contrastées. Les faits sont sacrés les commentaires sont libres.

Mais relativement à cette donnée scripturaire, que tout chrétien doit recevoir et comprendre, cette présentation de l'Enfant devient "sainte Rencontre", du fait de la présence de deux personnages prophétiques qui attestent la continuité des deux "alliances" : le vieillard Syméon et la prophétesse Anne. L'un comme l'autre reconnaissent en Jésus le Messie. Le consolateur d'Israël est entré dans son Temple.

Finalement, cette fête nous donne la clef de toute notre "culture de l'Incarnation", laquelle a toujours rencontré sur sa route les fausses gnoses, les diverses hérésies, y compris celle que combattait Gélase à Rome et qu'avait anathématisée, un demi-siècle plus tôt, en 451, le concile de Chalcédoine.

Affirmée en Égypte par le moine Eutychès cette doctrine dite "monophysite" (6) ne veut voir, au contraire, dans le Christ que la nature divine en laquelle la nature humaine aurait été "absorbée comme une goutte d'eau l'est par la mer". Mais cette tendance se retrouve tout au long de l'Histoire du christianisme. La gnose de l'hérétique Marcion (dès le IIe siècle) ne dit déjà pas autre chose, dans son désir d'évacuer l'Ancien Testament. Maurras aussi quoiqu'en disent les maurrassiens catholiques, parlait du "venin juif du Magnificat". En occident, un croyant aussi ardent que Pierre Chaunu allait jusqu'à reconnaître "au fond nous sommes tous monophysites. Nous avons beaucoup de mal à concevoir la nature humaine de Jésus".

Pour dire les choses crûment beaucoup de chrétiens ne veulent pas entendre parler, par exemple, du "Christ hébreu".

Il fallait bien pourtant qu'Il appartienne à un peuple pour faire partie de l'humanité.

Oui, le Christ est né dans une patrie, oui, il a grandi dans une famille, oui il a exercé un travail.

Proclamer ou même imaginer le contraire serait le commencement de l'affreuse et sanglante utopie mondialiste. C'est au nom de cette lubie, que certains trouvent normal, depuis Washington ou depuis Paris, de juger de la vie des autres pays sans la connaître. Mais je m'égare, j'ai l'impression de revenir à une certaine actualité médiatisée, et mondialisée.
JG Malliarakis


Apostilles

  1. Luc 2,22 : "Puis, une fois passé le temps prescrit par la Loi de Moïse pour leur purification (texte grec originel :"katharistou auton" génitif pluriel), les parents de Jésus l’emmenèrent à Jérusalem pour le présenter au Seigneur."
  2. Lévitique 12.8 : "Si elle n’a pas de quoi offrir un agneau, elle prendra deux tourterelles ou deux pigeonneaux, l’un pour l’holocauste et l’autre pour le sacrifice pour le péché ; le prêtre accomplira le rite d’expiation pour elle, et elle sera rituellement pure."
  3. Exode 13.2 : "Consacre-moi tout premier-né qui naîtra parmi les Israélites ; qu’il s’agisse d’un garçon ou d’un animal, il m’appartient."
  4. Médecin et peintre, l'évangéliste réalisa les trois premières icônes en réalisant le portrait de celle que l'orthodoxie appelle la Mère de Dieu. L’une d'entre elles fut acquise en Palestine par l'impératrice Placidie. Rapportée dans la capitale de l'Empire, elle sert aujourd'hui encore de modèle à la "Conductrice" (Hodigitria) indéfiniment reproduite par les iconographes. On peut aujourd'hui encore la vénérer, sinon la contempler car elle est conservée à l'abri de la Lumière du jour, dans le monastère de Kykko, à Chypre.
  5. Dans son homélie du 2 février 2006, premier sermon comme pape de Rome, Benoît XVI donne un éclairage auquel les catholiques peuvent se référer.
  6. Ses adeptes s'adossaient à une citation malheureuse de saint Cyrille d'Alexandrie "une seule nature du Christ incarné". Le patriarche reniera plus tard cette formule.

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mardi, 08 février 2011

Sulla via del risveglio

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Domenico Turco
SULLA VIA DEL RISVEGLIO
 L’Idealismo “esistenziale” di Julius Evola

 

C’è una fondamentale differenza tra l’idealismo classico e l’idealismo magico o “concreto” di Julius Evola, il quale assegna al pensiero una funzione attiva ed affermativa, in vista della messa in pratica di principi di saggezza utilizzabili nella ricerca interiore dell’uomo.

 

Ex: http://www.mondo3.it/

Da qui deriva la successiva attenzione per le più diverse tradizioni spirituali, ampliando lo schema di riferimento del Tradizionalismo integrale, mediante la scoperta o la rivalutazione di insegnamenti alternativi, come la dottrina del risveglio buddhista, lo Shintoismo e altre religioni, valorizzate in relazione al percorso evolutivo dell’esistenza individuale verso il risveglio o l’illuminazione spirituale dell’io.

Rispetto ad altri esponenti della corrente tradizionalista, Evola si distingue per la sua originale formulazione del problema esistenziale, in genere scarsamente frequentato da Guénon e seguaci. L’interesse per l’esistenza si giustifica con la finalità prevalentemente pratica del Tradizionalismo evoliano, diretto alla realizzazione dell’io in termini spirituali e trascendenti, ma riconducibile anche ad un orientamento etico, relativo ad una trasformazione delle istanze valoriali.

La dimensione esistenziale era presente già prima della svolta tradizionalista degli anni Trenta, all’epoca dell’Idealismo magico, orientamento filosofico tendente a oltrepassare le ristrette vedute della concezione idealistica di origine hegeliana.

L’espressione idealismo magico non presuppone un riferimento alla magia nel significato corrente del termine; per magia infatti Evola intende un’attività demiurgica sull’io che porti al dominio di sé e al rigetto della realtà empirica, secondo un principio ascetico che verte sulla nozione di purificazione, peculiare di ogni visione spirituale che si rispetti.

È con atteggiamento quasi mistico che Evola parlerà di una estinzione del legame tutto terreno e immanente tra noi e gli enti. La possibilità di una realizzazione del nostro mondo interiore nel segno della personalità autentica risiede nel rivolgimento all’io come centro di gravitazione spirituale, e non certo nel banale commercio consumistico con l’ente in qualità di “semplice-presenza”.  

Il compimento dell’esistenza consiste in una graduale liberazione dalla “sete” o “brama” nel senso della <<dottrina del risveglio>> buddhista, liberazione come e in quanto liquidazione di ogni compromesso tra le cose e l'uomo, secondo una significativa ed efficace espressione evoliana.            

Il trapasso dell’Idealismo prevede appunto un concentrarsi su quella prospettiva magica individuata nell’autorealizzazione di un io in via di costruzione o di cristallizzazione, per usare un termine tecnico dell'alchimia.

Qui entra in gioco l’ideale della personalità, che da mezzo dell’esistenza deve tornare ad esserne il fine...

La persona immemore di sé stessa può guadagnare la sua liberazione evolvendo in personalità, dimensione di una rinnovata consapevolezza spirituale, che Evola definisce come potenza e che deriva dal riconoscimento di un principio divino immanente nell’io, secondo un’ottica da illuminazione buddhista, sia pure nel quadro di una terminologia ancora influenzata dall’Idealismo.

In ogni caso, l’Idealismo evoliano denota una forte volontà di emanciparsi dal paradigma hegeliano, in cui la realtà era subordinata alle ragioni dell’Assoluto. Evola modifica l’Idealismo riportandolo alle origini, al suo fondo spirituale.

La concezione idealistica è qui interpretata solo come presa di contatto con una realtà più ampia di quella proiettata dai nostri sensi e rielaborata dall’intelletto, ma senza nessuna concessione ai deliri visionari della riflessione romantica.

Evola accentua soprattutto la funzione formatrice del pensiero metafisico, gli attribuisce una vocazione didattica, che è riconosciuta sin dagli inizi della sua attività di pensatore-scrittore. Consapevole che la filosofia idealistica era giunta al crepuscolo, Evola rimarrà fedele alla propria equazione personale di "idealismo," riformato profondamente in senso esistenziale, esoterico e metafisico nell’accezione aristotelica, relativa alla dimensione che va al di là del semplice piano “fisico”, sovra-naturale in un significato superiore.

L’attenzione di Evola al problema dell’esistenza può sorprendere, considerata la successiva sconfessione dei vari esistenzialismi contemporanei.

In realtà la sua critica sarà in seguito indirizzata all’ Esistenzialismo come filosofia del piagnisteo, che abbandona ogni programma di riscatto sul piano ascetico o eroico , per lasciare il posto ai remissivi miti del vivere-per-la-morte e del naufragio nichilistico.

Evola  rende ragione dell'importanza della corrente esistenzialistica come pensiero della coscienza infelice sperimentata dall’uomo-massa contemporaneo, pensiero della crisi che per sortire una valenza positiva deve essere superato, attraverso una messa in questione della realtà di tutti i giorni, in direzione della Trascendenza.

Evola propone un rifiuto delle sovrastrutture che soffocano il nucleo fondamentale della dottrina idealistica, che pone una realtà superiore a quella suggerita dai sensi della comune esperienza, e come tale determinante un principio peraltro già presente nella filosofia perenne e nelle prospettive spirituali, religiose o di carattere esoterico, che saranno discusse a vario titolo nel successivo sviluppo tradizionale della riflessione evoliana.

L’esistenza è interpretata come laboratorio, opera in divenire e luogo di scontro con le forze occulte sovrastanti il singolo, che ha l’obbligo di costruire la sua personalità e così identificarsi progressivamente nel ruolo di uomo differenziato, che è un ruolo estremamente complicato nell’era del secolarismo contemporaneo e delle sue contraddizioni.

La differenziazione come modalità di intervento sull’io sembra rinviare a un concetto di autocompimento esistenziale assimilabile alla posizione del Buddhismo, qui inteso come prassi di dominio della coscienza e tecnica d’ascesi.

Il senso dell’illuminazione ascetica presuppone un processo di graduale liberazione dagli orpelli della conoscenza ordinaria, che ha come suo fine specifico il purificare la dimensione umana dalle cose.

Nella prospettiva evoliana, non è essenziale assumere integralmente gli aspetti confessionali del messaggio di Siddharta: al Buddhismo si attribuisce soprattutto una funzione pratica, come complesso di metodologie dirette al prodursi di una forza interiore, di una potenza esotericamente orientata.

Il Buddhismo delle origini pone inoltre l’accento su un percorso di salvezza individuale non consolatorio, che è particolarmente congeniale alla sensibilità di Julius Evola, e in linea con l’ideale della spiritualità virile.

Evola sente una profonda vocazione a diffondere un messaggio che è sì filosofico, ma che sarebbe del tutto incomprensibile senza la preventiva adozione di una prospettiva di vita individuale, di sperimentazione attiva e in prima persona di un percorso di cambiamento. 

L’esistenza reclama una filosofia che ne guidi l’orientamento nel mondo, la quale, tornando a essere amore della sapienza, deve necessariamente alimentarsi dell’esistenza, di una progettualità esistenziale di origine alchemica, finalizzata alla trasmutazione e quindi all’autorealizzazione dell’io, al dominio di sé e delle vere leggi della realtà.

Evola caldeggia l’ipotesi di una filosofia sperimentale, che vincoli il sapere all’agire, e l’agire al vivere nel mondo, assumendo una missione esistenziale, che consiste nel promuovere una visione spirituale trascendente.

E, di contro, è espresso con forza il rifiuto di una statica e passiva adesione a quelli che sono i valori correnti, le categorie negative del nichilismo, dell’edonismo esasperato, del materialismo, e del dogmatismo fine a sé stesso.

La ragione della differenza peculiare da Guenon consiste anche nel fatto che Evola non si accosta al mondo della Tradizione da un punto di vista meramente teorico, ma solo dopo aver sperimentato di persona e sulla propria pelle quell’esigenza di autorealizzazione spirituale che è l’obiettivo principale di ogni ricerca sull’essenza della verità, e quindi sul valore da assegnare alla nostra esistenza…

samedi, 05 février 2011

Sostener el cosmos: conocimiento y sabiduria en el politeismo

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SOSTENER EL COSMOS : CONOCIMIENTO Y SABIDURÍA EN EL POLITEÍSMO.

 

Plan

SOBRE LA HOMOLOGIA

1 - Ciclos temporales y verdad

2 - Renovar de un ciclo a otro.

3 - Mentira y decadencia

4 - Construir la armonía

ORDEN CONCRETO : EL DEBER

NOCHE Y PRINCIPIO VITAL

UNA TRADICIÓN DE LAS INSTITUCIONES

1 - La familia

2 - Ni dios ni ley

3 - Organizar la diversidad : castas y comunidades.

EN PRÁCTICA, el politeísmo vive en el marco de instituciones a temporales que aseguran la transmisión de su tradición cuya origen comenzó cuando este universo se desplegó. Ningún universo fue creado. La tradición inicia con el despliegue de aquel universo o, sino, cuando ha terminado el caos original.

EN PENSAMIENTO, el politeísmo razona por medio de símbolos que permiten relacionar los niveles de realidad entre si, con una doble lógica de equivalencia y de jerarquía. Cualquier hecho siempre está colocado en el cruce de dos ejes: horizontal (equivalencias) ; vertical (jerarquia). El eje vertical termina con el desconocido por una parte y con el caos (en Grecia) o el principio neutro (caso de la India) por otra parte. Toda la diversidad del mundo está integrada por el método de la homologia

SOBRE LA HOMOLOGIA

Entre todos los aspectos de la vida se encuentran equivalencias y paralelismos : sonidos, formas, números, colores, ideas, etc. Representar una cosa en términos de algo diferente necesita un sistema de correspondencia. La base fundamental de la representación del mundo es el ciclo, que siempre inicia abriendo una “puerta” : la Aurora y la Primavera.

La Aurora del ciclo cósmico es homóloga de la del año y de la del día. En el caso de Grecia, la Aurora cotidiana se llamaba EOS, cuando las dos otras, año y cósmica se llamaban Afrodita quien, por esa razón, era la diosa del amor. El poema La Iliada, expone como la unión amorosa de Zeus y Hera inicia la Primavera, teniéndose sobre una montaña, lugar en que se observa el regreso del sol. Las auroras salen de la montaña en Grecia como, en el Veda, las Auroras salen de una gruta (la gruta Vala).

Los ciclos son el marco del culto y también su objeto. Los seres humanos deben asegurar el regreso del sol y de las estaciones. Tal preocupación sirve de modelo tan a la verdad como al orden social.

1 -  Ciclos temporales y verdad

En el sanscrito, el nombre de las estaciones es rtavah, semejante al nombre de la verdad, rta, los dos dimanando de la raíz indo-europea AR  “ajustar, articular, adaptar lo correcto”. La definición, es muy probable, viene de la dificultad que tropezó a los sabios en su esfuerzo para determinar con exactitud el año y la concordancia entre ciclos solares y lunares. El ciclo del año sostiene la verdad y expresa una concepción técnica de ella. La verdad es lo que está bien ajustado, lo que concorda. El regreso de las estaciones y en particular de la buena época del año es la imagen de la verdad, poste del orden en el mundo y en la sociedad.

Considerar que la Verdad significa “ajuste correcto” es la característica fundamental del politeísmo cuyos efectos fueron fundamentales para el pensamiento y la civilización. La necesidad de buscar la verdad dio forma a la ciencia y a la técnica como a la mentalidad crítica y filosófica. No existe un corpus de verdades todas hechas desde siempre, impuesto por un poder político-religioso. La verdad se quedó el objeto de un libre examen, de una investigación sin fin contestando el adquirido sin cesar.

2 - Renovar : de un ciclo al otro.

Pasar de un ciclo al otro, a cualquier nivel, día, año, cosmos, supone la intervención de algunas fuerzas. Por medio del método simbólico se establecen correspondencias entre el día y la vida, entre la noche y la muerte. Durante el año, el invierno se asimila a una muerte y para el cosmos, la noche de los tiempos es el caos de donde emergerá la vida. La fuerza de renovación cambia según las zonas culturales, pero está asimilada a una divinidad. Por ejemplo, Es Zeus en Grecia y Agni en la India.

El mundo nocturno contiene entidades que atan el Sol, las Auroras, o las Aguas. El poder de las entidades nocturnas, el poder de las fuerzas que se manifiestan en la noche se caracteriza por una parálisis. Por eso, en la sociedad, garantizan los juramentos, aseguran la buena fin de las promesas solemnes.

A las entidades nocturnas, se rinde un culto “negativo” : se les honra al no ofenderles. De aquí viene la concepción de que la mentira y el engaño traducen la ruptura de un compromiso.

El cambio de una fase del ciclo a la otra, de la noche al día, del invierno a la primavera resulta de un conflicto entre las potencias de contención y las fuerzas de restauración. Una de ellas, es la palabra de verdad que surtes la energía para fracturar las potencias de contención. Palabra que se expresa en formas diversas : la palabra sagrada del sacerdote (el braman por ejemplo) ; la palabra inspirada por la emoción o el temor ; la fórmula bien pensada y reflexionada (el mantra) ; la voz que canta o grita. La palabra de verdad puede expresarse directamente, como una flecha, cuando su contenido carece de ambigüedad, que todo aparece claro sin nada en la sombra, pero también la palabra se revela inaudible a veces para los que no saben interpretarla. Ciertas aserciones valen en algunos casos como verdades en otros como mentiras, por ejemplo la poesía, por que el conocimiento se adquiere con esfuerzos y los niveles más profundos se comprenden con educación : la muchedumbre no puede acceder a tal nivel.

3 - Decadencia y mentira

La mentira se relaciona con el inicio del caos cosmológico, con la noche y el invierno. Son el odio y el desdén hacia el cumplimiento de sus deberes que provocan el desorden “oscuro”. Una categoría de gente, los brujos, a través de sus mentiras y sus palabras engañosas rompe el espíritu de buen acuerdo dentro del grupo social. Los enemigos del culto y del orden social utilizan la calumnia y las insultas para incitar a la violación de los contratos. En el mundo escandinavo por ejemplo, según la EDDA, la decadencia inicia con el perjurio de los dioses frente al constructor de su palacio, el Valhalla. La origen del perjurio la tiene la culpa el dios Loki, personificación de la palabra de fuego de los calumniadores.

La verdad es el pilar de la concepción politeísta del mundo. A la vez con la ética de la verdad, apoyada en divinidades que se honran en evitando ofenderlas, por que vigilan el respecto de los contratos, y a la vez con la religión de la verdad, manifestada por dioses a los cuales se rinde un culto positivo. La ética de la verdad, con el respeto a los compromisos se aplica a los contratos, juramentos, enlace social y el reparto de las riquezas.

4 - Construir la armonía.

La sociedad armoniosa significa la conformidad entre realeza y verdad. En el orden social, eso se traduce por el comportamiento conforme a su posición social y a sus funciones. Es un ideal que fija una norma para el comportamiento, con necesidad de reanimarlo cada mañana, cada primavera y a lo largo de los siglos para luchar en contra del caos. La investigación de la verdad, la del comportamiento perfecto según su rango y su función llevan al orden y la armonía.

El divino está en el ser humano que puede despertarlo a partir de cualquier situación, con tal de que sigue un camino que reproduce, simbolícamente, la carrera del sol. Todos los caminos son aceptables, lo que fundamenta la tolerancia. Todos podemos subir hacia la perfección, hacia el absoluto.

La renovación de la armonía cotidiana, anual y cosmica necesita artesanos muy adiestrados con calidad de artistas para que el nuevo ciclo sea similar (y no idéntico) al anterior. En cada tradición se encuentra esta función : los Rbhu en la India, los Alfes en escandinavia, hasta en Roma que humanizó la función en la persona de Veterius, capaz producir once escudos semejantes. La armonía se construye gracias a la competencia técnica y con la destreza de los que utilizan la palabra. Ellos, por función, luchan

en contra de las mentiras, directamente por vía de sus palabras, o al movilizar los dioses guerreros que golpean los calumniadores. Una actitud valorizada por la ética de la verdad es la ausencia de malignidad, del malo espíritu.

EL ORDEN CONCRETO : EL DEBER.

El deber de cada uno contribuye a la armonía social. Si cada uno respeta su deber la sociedad será bien “ajustada”. La sociedad politeista define la armonía social como la interdependencia entre tres funciones sociales : la soberanía, la fuerza, la abundancia. En cada una, los deberes difieren. Los miembros tienen que aprender el deber de su función y actuar para que sus actas sean conformes al ideal :

- El soberano. Su deber abarca la justicia equitativa y la paz interna. El nacimiento no da los atributos del poder, solo lo merece el que tiene las calidades adecuadas.

- El guerrero. Muchas leyendas describen el deber del guerrero. En Grecia, por ejemplo, Heraclés encarna esa función. Debe de alejarse de las culpas hacia los dioses, hacia el enemigo, hacia los demás.

- La abundancia. Supone saber elegir los elementos del crecimiento y, en cada actividad saber ejercer su arte con eficacia.

De eso sobresale el héroe, lo mejor en cualquier actividad, consecuencia de la escala establecida entre los dos polos extremos : hombres de un lado y dioses al otro. Toda una gama de posibilidades se abre, puesto que los hombres pueden acercarse a los dioses y al revés, algunos dioses caen. El héroe se detiene a la confluencia entre hombres y dioses. Proporcionan una imagen de la perfección en su dominio de excelencia y escapen a la segunda muerte del anonimato.

LA NOCHE Y EL PRINCIPIO VITAL

Pasar de un ciclo a otro supone que algunas divinidades cambian de partido, abandonan los dioses de la fase a la cual pertenecen y toman el partido de las nuevas fuerzas que van a acompañar la nueva fase. En Grecia, Zeus toma el poder después de haberse rebelado en contra de Ouranos. En la India, algunos de los Asuras (divinidades nocturnas) toman el partido de Indra, jefe de los Devas, el partido luminoso. La noche, la oscuridad contiene un principio de cambio, lo que los Indues han llamado el principio vital o ASU.

La noche se relaciona a la muerte. A la escala de una jornada, durante la noche, el ser humano que duerme está como muerto. Cuando despierte, el ser humano retoma posesión de su principio vital (ASU) que rechaza la noche a favor de la luz. Este principio vital conoce dos estados : latento, en la noche y el sueño ; patento cuando el ser despierta. En la noche, como en la muerte se encuentra el inicio y el fin.

También, el sueño fundamenta la función del silencio. El sueño prepara el terreno para el rejuvenecimiento del universo que intervendrá a la próxima aurora. Una correspondencia entre el silencio y el sueño explica el rol de ese. Durante la noche, el terreno lo ocupan los hechiceros, las fuerzas negativas. Al mismo tiempo, no hacer nada, no decir nada protege lo que se prepara, el brote de la nueva época. La inactividad de los seres de luz, durante la fase oscura, su silencio entonces, empide los rayos lanzados por las fuerzas maléficas aplastar la semilla del rebrote. Sin embargo, el silencio no se concibe como estado de ánimo pasivo. El sabio silencioso ilumina su ser, a dentro, con conocimiento y concentra su pensamiento.

UNA TRADICIÓN DE LAS INSTITUCIONES

Los politeistas afirman que lo esencial para cada uno consiste en entenderse a si mismo y, después, realizarse. Por eso, la teología no se mezcla con la Iglesia. La autoridad es la de las instituciones : familias, castas, gremios. El hombre piensa lo que quiere, pero tiene que respetar los ritos que caracterizan su deber social, el enlace entre generaciones y la continuidad de la tradición. Es normal boicotear a los que desdeñan a las tradiciones aunque acepten vivir en esta sociedad.

1 - La Familia

Es el grupo familiar que fundamenta todo. No la pareja. La familia, con les hermanos y hermanas, tíos y tías,

esposas y esposos es sagrada. Uno alaba su familia. Como institución, aquella se somete a reglas y preceptos religiosos. Según las castas, las leyes son más o menos rígidas y estrictas. Pero, como se trata de una unión moral y material, los miembros viven según una jerarquía precisa que fija a cada uno sus derechos y deberes, como su manera de vestirse y dirigir la palabra a los demás. 

Cada individuo es orgulloso de sus ancestros y considera que ellos han sido engendrado por un ser glorioso en una actividad. Cada uno mira a sus papás con respeto, de tal manera que es inconcebible desobedecerles. Es imposible actuar sin su aprobación puesto que ellos representan la suma autoridad humana. Encarnan el enlace real entre todos los seres vivientes de la familia y los ancestros cuyo culto se celebra a diario. El culto a los ancestros toma la forma del respeto y transmisión de la doble herencia cultural y social que nos han legado.

El matrimonio no se limita a un permiso para fornicar. Se arregla según las costumbres de la casta, del clan, del linaje. Como organiza la aparición de un nuevo escalón de la familia, el matrimonio con personas de grupos étnicos o raciales diferentes es un ultraje a la creación y a la armonía del mundo.

2 - Ni dios ni ley. Elogio de la jerarquía : el caso de China.

Ni dioses ni ley. Las costumbres, los modales son los fundamentos de la vida social en China. Se observa

cuatro tipos de devociones religiosas : el taoísmo ( de origen china, del siglo VI antes de la era cristiana. Instaurador principal del TAO : Lao-Tseu) ; el budismo ( llegó desde India en el siglo I) ; el confucianismo, filosofía en la cual descansó el Imperio a partir del siglo II antes de la era cristiana); el maoísmo, ajuste del comunismo al estilo chino incluyendo además procedimientos abusivos.

Los chinos tienen para resolver sus problemas una cosmovisión holística : Una percepción global del mundo. No aplican el método de disgregación de los problemas que enseño el filósofo francés René Descartes (1596 - 1650). Para ellos el contexto tiene una mayor preponderancia que el análisis de las causas del contexto.

Practican el pensamiento concreto a base de experiencia y de observaciones. Utilizan refranes y metáforas. El aspecto explícito transpira en su arte de la caligrafía. En dicho arte se dibujan cosas concretas por medio de figuras.

Los patrónes de conductas privilegian la asociación. La antigua tradición taoísta explica el mundo a través de la interdependencia entre el Ying y el Yang. Vivir en harmonía con la naturaleza resulta esencial. En la vida práctica eso significa que el principio de contradiccíon se rechaza. Lo que es verdad desde un punto de vista, se revela falso desde otro punto y vice versa.

Los chinos acuerdan menos importancia a las palabras que otros pueblos. Están más a gusto actuando a partir de imágenes que reflejan un complejo de realidades, sentimientos y emociones. El dicho famoso de MAO lo dice todo : « Una imagen vale más que mil palabras ».

Una concepción circular del tiempo. Lo que ya pasó puede repetirse, no de forma igual en sus elementos constitutivos, pero semejante en sus estructuras y sus significados. Es el concepto de la homología. Jamás se puede hablar de cosas totalmente nuevas, porque a los fenómenos no existe ningún principio ni fin.

La verdad se ve muy relativa y se aproxima con matices. La verdad es efímera, para una configuración definida y no en el absoluto. 

 

3 - Organizar la diversidad : castas y comunidades. El caso de la India.  Los grupos son distintos y relacionados por tres caracteres :

- Separación para los matrimonios y ningún contacto directo o indirecto.

- División del trabajo. Cada grupo tiene una profesión cuyos miembros pueden alejarse en limites estrechas.

- Jerarquía. Los grupos son ordenados en relativamente superiores o inferiores.

Al final, todos los grupos son interdependientes y complementarios.

Una vía se salud personal está abierta : la del renunciante. 

CONCLUSIÓN : ENSEÑANZAS

1 - El politeismo no tiene inicio histórico. La origen es cósmica. Entonces, las variantes son poco relevantes. El punto fundamental es la comprensión de que los dioses son entidades espacio temporales a las cuales uno puede prestar une realidad. La realidad dada a los dioses es una construcción que cada uno puede rehusar considerándola como falsa. El paso, lo salvaron los filósofos griegos quienes, renunciando a los relatos míticos decidieron pensar el mundo a través de la razón. La vía, siempre será abierta.

2 - Sin revelación, cualquier texto puede guiar o educar. La necesidad de cumplir con sus deberes sociales se mantiene a pesar de elegir un camino personal. El yo no se opone a las convenciones sociales.

De igual forma, la fe resulta necesaria para fundamentar un sistema de valor por el cual vale la pena sacrificarse. La fe en algo funciona a la manera de un clavo que fija y entonces disuelve la duda. La fe significa fe en la naturaleza cósmica de nuestro ser. La fe toma la forma de una convicción en el sentido de la vida (homóloga a la des cosmos), que en cada uno se encuentra el divino, que somos más que materia. 

3 - La estructura social en la cual vivimos pide respecto de normas y ritos. Participar a ellos es afirmarse solidario de la vida social. Es cierto que cualquier sociedad siempre conoce tensiones cuyas causas son recurrentes. En particular, dos fenómenos son peligrosos :

- Grupos que se organizan para apoderarse las funciones de los otros. Poco a poco se expande el desorden y la incompetencia. Unas jerarquías se instituyen en base a las intrigas y la suerte. Cuando unos grupos se atribuyen las prerrogativas de varias funciones, entonces entramos en una tiranía unilateral.

- Grupos quieren privar a los otros de lo que no pueden o no quieren tener. Actitud anti social que justifica una restricción de sus tejemanejes.

Es así que, en una época, el conocimiento no se transmite, los deberes se olviden, etc. Aberraciones se observan. Sin embargo, no vienen del politeísmo. Es la consecuencia de otros factores.

 ¿ QUE HACER ? 

Durante nuestra vida, cualquier sea la época, es preciso guardar su moral personal, transmitida por su cultura o linaje. Para cada uno, la búsqueda de perfección es la norma, gracias a la cual siempre se manifiesta la voluntad de hacer algo mejor en el triple nivel de la virtud, de la riqueza y del amor.

Si el entorno se presenta como muy hostil, es fundamental practicar una vida “secreta” a la manera de los heréticos de la edad media en Europa. Por ejemplo, el mundo actual destruye las condiciones de vida digna de las clases medias. En importante saber reducir sus necesidades para no caer en la esclavitud voluntaria del trabajo no elegido. También, en algunos casos es preferible salir del marco social e ir a vivir en otras estructuras.

En un mundo en transformación permanente, la tiranía desaparecerá algún día. Todo debe de ser preparado para un renacimiento.

Bernard Notin

00:10 Publié dans Traditions | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : cosmos, traditions, traditionalisme, polythéisme, tradition | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook