vendredi, 31 janvier 2014
L’ordine Templare e la Tradizione europea
L’ordine Templare e la Tradizione europea
È questo un periodo storico molto intenso, in cui gli eventi che viviamo portano la nostra memoria indietro nel tempo, alla storia più antica; andiamo indietro alla ricerca di un nesso, una ragione, che possa giustificare un presente difficile da accettare.
Ci chiediamo il perché le cose, oggi, siano arrivate a questo punto e perché il mondo abbia perduto quella memoria delle nostre origini, che ci aveva portato così in alto nella concezione della vita.
Un pensiero ricorrente da tempo mi gira nella testa, nato dal mio modo di vedere la storia con un’ottica di revisione, differente rispetto a come ci è stata insegnata a scuola. Da sempre, ho anche avuto una grande passione per la storia e le vicissitudini dell’Ordine dei Cavalieri del Tempio, conosciuti come “i Cavalieri Templari”; sin da bambino, come molti, subivo il fascino dei guerrieri rossocrociati. Una volta cresciuto, e posata la spada di legno, mi sono messo a leggere e studiare tutto quello che era stato scritto su di loro, sia di buono che di meno buono, per rimettere insieme le idee ed essere in grado di trarne dei concetti che andassero al di là delle solite supposizioni.
A tutti la storia dei Templari è conosciuta per due cose fondamentali: il particolare ed affascinante connubio tra il monaco ed il guerriero e la cancellazione ingloriosa dell’ordine legata al processo che mise fine alla sua esistenza nel 1313. Su questi due argomenti sono stati scritti una valanga di romanzi fantasticando sul presunto tesoro nascosto dai Monaci e mai trovato da Filippo IV re di Francia e sul magico segreto sapienziale che si sarebbe perduto, o segretamente tramandato, fino ad oggi e che avrebbe generato tutta quella mistica ideologica che si raggruppa sotto il nome di “templarismo”.
Non voglio, a parte qualche accenno dovuto, in questa sede, mettermi ad approfondire troppo la storia dell’Ordine monastico, narrando della sua costituzione e delle magnifiche imprese compiute in Terra Santa, né tantomeno voglio mettermi a revisionare il terribile processo che fu costruito contro di loro da Filippo il Bello con l’abile aiuto del Nogaret, e la presunta complicità passiva di Clemente V.
Voglio invece mettere a fuoco una questione, meno visibile, che per certi motivi, è legata alla storia successiva dell’Europa fino all’era attuale.
I Templari, per quelle che sono state le idee che hanno portato alla costituzione dell’ordine monastico guerriero e per quelle che sono state le loro opere nei due secoli di vita dell’ordine, non sono stati solo un gruppo di monaci, armati per combattere per la libertà della terra santa dai popoli mussulmani. Il loro contributo alla difesa della terra Santa è stata, senza dubbio, di vitale importanza, fino alla caduta di Acri del 1291, che segnò la fine del Regno di Gerusalemme, ma la loro presenza diffusa in tutta Europa avrebbe lasciato una traccia profonda e indelebile nell’oppressiva presenza della religione cattolica e nel rigido assolutismo del sistema Feudale che regnava sovrano in quel periodo, anche se la prematura soppressione dell’Ordine ne limitò di molto la portata.
Nell’idea iniziale dei suoi ideatori l’ordine fu creato per questo! Per sconvolgere il feudalesimo e per generare una spinta spirituale nei popoli d’Europa, tale da creare un “nuovo ordine mondiale” mosso dalla Tradizione, con l’Europa al centro, come un’unica Nazione e unico contenitore di idee ed identità di razza, un vero Sacro romano Impero, ben oltre il concetto pseudo-cristiano, che aveva portato Carlo Magno a compiere gli eccidi di massa per fondare un Europa sotto il giogo della religione Cattolica. L’approvazione e la supervisione della chiesa di Roma, erano il punto di partenza irrinunciabile. Almeno queste erano parte delle idee che spinsero Bernardo da Chiaravalle (uno dei Dottori della Chiesa più controversi del Cristianesimo) a sostenere la fondazione dell’ordine, travasandovi la spiritualità Cistercense e mettendo in essere, un’opera di promozione pubblicitaria e finanziaria, prima e unica nel suo genere.
È nel 1118 che Ugo De Payns, nobile francese , 19 anni dopo la conquista di Gerusalemme decise di chiedere al Re di Gerusalemme Baldovino II l’autorizzazione a costituire un gruppo di cavalieri devoti alla Madonna per dedicare la loro vita di povertà e astinenza alla difesa dei Pellegrini sulle strade per la terra santa. Baldovino concesse loro alcune stanze del palazzo Reale e successivamente di insediarsi nel sito dove sorgeva il Tempio di Re Salomone, allora sede delle rovine della Moschea di al Aqsa, per stabilirvi la loro sede; da questo episodio la costituzione vera e propria dell’ordine si concretizza con il Concilio di Troyes nel 1129, dove i Poveri Cavalieri di Cristo ne ricevono l’investitura con l’adozione della cosiddetta “regola Latina” scritta da San Bernardo in persona.
Ma l’idea deve essere ricercata scavando ancora più a fondo, nelle vicende di quel periodo, subito successivo alla conquista di Gerusalemme del 1099. Infatti l’abate dell’Abbazia di Citeaux fondatore dell’Ordine Cistercense nel 1111, Steve Harding di origini anglosassoni, fece avere al monaco Bernardo l’autorizzazione a fondare giovanissimo, il Monastero di Clairvaux.
Il nuovo Ordine Cistercense, di regola Benedettina, prendeva ispirazione dal Cristianesimo anglosassone, diffuso cinque secoli prima da San Colombano, che aveva assorbito molto delle tradizioni e della religiosità druidica. Per questo si può affermare che, tramite il suo fondatore Steve Harding, la religiosità Cistercense risentisse molto della Tradizione anglosassone; ne fanno da testimonianza i luoghi che venivano scelti come sedi delle loro Abbazie, le cosidette salt lines: tracciati sulla superficie terrestre, da sempre considerati di valenza mistica dalle popolazioni pre-Cristiane come i Celti e gli stessi Romani e spesso utilizzati per l’edificazione di santuari e templi di culto pagano.
Anche l’abbazia di Clairvaux era costruita su una salt line longitudinale, non lontano da Troyes, ed il terreno era stato concesso proprio dal Conte Ugo di Champagne che sarà uno dei fondatori dell’Ordine dei poveri Cavalieri del Tempio. Il conte era un caro amico di Andrè de Montbart, zio di Bernardo, che diventerà anch’egli uno dei primi Cavalieri.
Molte coincidenze legano la fondazione dell’Ordine Templare, gemmazione dell’Ordine Cistercense, alla tradizione anglosassone, ma da qui a supporre il legame di quest’ultimo alle Tradizione druidico pagana, pare cosa difficile; mentre può essere molto più semplice supporlo attraverso il loro operare dei due secoli successivi alla loro fondazione.
La devozione mariana di Bernardo e successivamente dell’Ordine Templare, è anch’essa una particolare coincidenza, in quanto il culto Cristiano della Vergine Maria, compare tardi nel Cristianesimo (Consiglio di Efeso 431 d.c.) e sia per l’aspetto iconografico, che per la ricorrenza delle varie festività dedicate, è considerato come derivante dal culto di Iside e Horus dell’antico Egitto.
Per i fondatori dell’Ordine Ugo di Payns, Goffredo de Saint Omer, e soprattutto il Conte Ugo di Champagne, l’occasione delle Crociate era unica e fondamentale: sostenere il Regno di Gerusalemme, da un punto di vista logistico e militare, e nello stesso tempo entrare in contatto con le tracce di civiltà antiche, conosciute solo in maniera indiretta, tramite la cultura della Grecia Classica, allargando i ristretti orizzonti culturali della allora vigente cultura Europea limitati dalla censura cattolica.
Questo è uno degli aspetti dell’ordine poco conosciuto, offuscato in parte dalle eroiche ed esaltanti gesta dei guerrieri monaci, e dai tanti contributi, così importanti ed innovativi che hanno dato, alla vita di quel periodo: primo fra tutti il sistema del credito a distanza, precursore dell’assegno bancario, che permetteva ai pellegrini di percorrere lunghe distanze senza doversi portare dietro il denaro contante che avrebbe fatto di loro bersagli per i predoni. L’influenza dell’Ordine sulla vita quotidiana di quel periodo iniziò a crescere, insieme al loro patrimonio; dopo pochi anni dalla loro costituzione i soldi continuavano ad aumentare e oltre a spenderli per il mantenimento delle guarnigioni in Terra Santa, li prestavano senza fare usura. A quel tempo il prestito con usura era vietato ai Cristiani ma era concesso solo agli Ebrei; per questo motivo i Templari prestavano soldi senza interessi ma solo con delle commissioni di spesa, tanto che il ricorso al prestito Templare fu accessibile a molti e sempre senza conseguenze dannose; da loro fu costituita anche una specie di “cassa Agraria” per permettere ai contadini più poveri di coltivare la terra senza dipendere dalle prepotenze dei feudatari.
Costruirono una loro forza navale, inizialmente nata per necessità logistiche, ma che in breve tempo fece concorrenza a quella delle Repubbliche marinare, arrivando persino a navigare ben oltre i confini del Mediterraneo; organizzavano minuziosamente la vita delle campagne per la gestione delle loro Magioni e Consorterie, migliorando le produzioni agricole, dando casa e lavoro alla povera gente. Costruirono una nuova rete viaria all’interno dell’Europa per consentire ai loro convogli e ai pellegrini stessi di muoversi più velocemente e più tranquillamente verso la Terra Santa, e tra queste la più conosciuta è proprio la via Francigena.
Le popolazioni più povere, contadine ed artigiane, furono notevolmente sostenute dai Templari, sia economicamente che nella qualità della vita, al contrario di come versavano normalmente dove l’ingerenza feudale e la costrizione religiosa erano libere di agire. Un’altra grande innovazione fu la costituzione delle prime Corporazioni di mestiere. Una di queste, la più importante, fu quella de “I figli di Re Salomone”: la corporazione dei Maestri muratori, che si ritiene essere stata l’artefice della costruzione delle prime cattedrali gotiche, che in quel periodo in Europa cominciarono a spuntare come funghi, maestose e uniche, impossibili da costruire con le conoscenze di quegli anni, un miracolo architettonico, farcito abbondantemente di simbologie e riferimenti magici richiamanti religiosità antiche.
Sono davvero innumerevoli le innovazioni gestionali e tecnologiche che vennero introdotte in Europa per la gestione delle loro proprietà rurali e immobiliari; si era creata una sorta di catena di trasmissione che importava “nuova conoscenza e tecnologia” dalla Terra Santa per migliorare il sistema di produzione e di insediamento sociale in Europa, il profitto così ricavato veniva speso in parte per mandare rifornimenti come armi, cavalli e vettovaglie, alle guarnigioni di stanza a Gerusalemme, mentre il rimanente veniva dato in prestito o ri-investito in Europa.
La loro presenza cominciò a divenire molto scomoda, e ad essere mal vista dai feudatari locali, inoltre il loro patrimonio attirava l’attenzione di Sovrani senza scrupoli. Ma, dopo la caduta di Acri, e la fine del regno di Gerusalemme, una volta perduto il motivo che permetteva loro di rimanere in armi, quello che iniziò a non piacere fu il loro modo di interpretare e vivere la religione Cristiana.
Che i Templari fossero sin dall’inizio un entità molto particolare, già lo si sapeva: “Monaci e Guerrieri” allo stesso tempo; un controsenso che portò lo stesso San Bernardo a dover ideare il concetto di “Malecidio” per sostituirlo a quello di omicidio, permettendo e giustificando la loro azione in armi , naturalmente solo verso gli infedeli. Ma il prolungato contatto ravvicinato con le testimonianze delle civiltà Egiziane antiche e la conoscenza dei loro aspetti più reconditi, anche attraverso l’interpretazione di queste, fatta dalla cultura islamica, permise loro di venire a conoscenza di un crogiuolo sapienziale antico, proveniente direttamente dalla culla delle civiltà medio orientali, la stessa che fu all’origine del rinascimento fiorentino con la traduzione del Corpus Hermeticum da parte di Marsilio Ficino nel successivo quindicesimo secolo.
Una conoscenza infinita derivò dall’apertura di questo scrigno, solo in piccola parte assorbito dalle popolazioni islamiche, ma mai, fino ad allora, interamente reso disponibile; e cosi la loro apparente religiosità Fideistica di elevata spiritualità si mutò, lentamente ed inevitabilmente, in Gnosticismo, in una religiosità antica e in una spiritualità esoterica poco tollerabile per quei tempi.
Entrarono in contatto con i loro stessi nemici, gli islamici, e con loro scambiarono idee e conoscenza, e da quel momento in poi , le cose cominciarono a cambiare radicalmente: se inizialmente avevano seguito le regole, e si erano attenuti al loro status di monaci cristiani, in Europa il loro ora et labora diventò un lavorare per cambiare il mondo di allora: tentare di cancellare quanto era stato costruito della dinastia Carolingia , che aveva impiantato con la forza la confessione Cristiana su tutti i popoli dell’Europa Romana e aveva schiacciato la Tradizione con la barbarie dell’ordine feudale.
È evidente , a questo punto, che vi era un piano ben determinato, sin da prima della costituzione dell’Ordine, un piano con un progetto smisurato: riportare l’Europa alla sua essenza precristiana, prima del giogo Carolingio, e ridare a tutte le genti Europee la dignità di popoli liberi in totale armonia con la loro terra.
Lo stesso spirito guerriero dei Templari si incarnava perfettamente, in un periodo in cui le Crociate infiammavano le anime di tutte le genti, dal semplice pellegrino, al vescovo fanatico fino al guerriero più desideroso di gloria eterna. I Templari indossarono volentieri l’abito dei guerrieri religiosi, per affrontare la gloriosa morte in battaglia sul suolo sacro di Gerusalemme, ponte terreno verso l’aldilà. Una guerra santa per combattere in nome del divino vincendo la morte stessa. Lo stesso Bernardo da Chiaravalle celebrò questo aspetto del sacrificio in nome di Dio con la sua “De Laude nuova Militia”, che funzionò come il miglior bando di arruolamento di tutti tempi: Bernardo aveva toccato quei tasti nascosti che risvegliarono i desideri più ancestrali degli uomini d’arme di quel periodo e non solo appartenenti alla nobiltà più esclusiva, ma anche al popolo più umile.
Vi era in seno all’Ordine una gerarchia molto sviluppata che andava dal Gran Maestro fino al servitore laico, ma all’interno di questa gerarchia , gli obbiettivi e le finalità dell’Ordine più reconditi erano gestiti da una ristretta cerchia di saggi: un gruppo di “Superiori Incogniti” che stabilivano le regole e comandavano sopra a tutti; questo gruppo di Saggi avevano il compito di tramandare quello che era lo scopo principale per cui l’Ordine stesso era stato costituito e di cercare le strade e le conoscenze per raggiungerlo, il tutto senza destare troppi sospetti.
L’arroganza di un Re smanioso di affermare il suo potere assoluto già da tempo voleva cancellare la loro scomoda presenza sul suolo francese, e la sua volontà di arricchirsi con i loro immensi patrimoni, oltre che l’obbiettivo di cancellare un grosso debito, creò il movente. Come lui la chiesa Romana, non aveva ancora realizzato, realmente quali fossero gli scopi dell’Ordine, direttamente ostili ad entrambi.
Tutto inizia nel 1303 quando una bolla di scomunica nei confronti di Filippo IV (della dinastia Capetingia) detto il Bello viene emessa dal Pontefice Bonifacio VIII, e scatena la reazione dell’arrogante sovrano. Ad Anagni il Papa venne maltrattato ed imprigionato fino a morirne un mese dopo. Filippo impose il trasferimento della Curia papale nella sede Francese di Avignone; in quella sede pretese che Bonifacio VIII fosse dichiarato eretico e simoniaco dal suo successore Clemente V e nel 1307 usò la scomoda condanna come merce di scambio per poter agire contro l’Ordine Templare che fu accusato di Eresia.
Le motivazioni furono molte (furono messi in piedi 124 capi di accusa) ma una delle più eclatanti, tra le accuse di sodomia e vilipendio alla croce, fu quella che riguardava l’adorazione di un idolo demoniaco che fu paragonato a Satana in persona, il famoso “Baffometto” il cui nome riprendeva in chiave ironica il nome del profeta degli infedeli. In realtà il processo non riuscì veramente a dimostrare l’adorazione di questo strano idolo, salvo qualche caso in cui qualcuno dei processati disse di aver visto una figura baffuta tra le icone delle chiese Templari. Il Baffometto, se sia stato oggetto di adorazione dei Cavalieri, non si può dimostrare con certezza, ma il significato di questa figura non ha niente a che vedere con il diavolo dei Cattolici, perché rappresenterebbe un simbolo esoterico di alto livello iniziatico, coniugante gli opposti alchemici e riferibile alla tradizione Ermetica più ortodossa; per cui se per caso fosse stato un simbolo dei Templari, di certo non dimostrerebbe altro che il loro essere un ordine iniziatico in tutto e per tutto!
All’alba del Venerdì 13 Ottobre del 1307 iniziò la persecuzione dei cavalieri Gerosolimitani per la brama dei loro tesori, ma tutto quello che successe nei sette anni successivi non fu altro che una lucida scelta della Chiesa di nascondere una scomoda realtà; tanto che in quegli stessi anni fu creata appositamente per l’occasione la “Santa Inquisizione” per perseguire un’eresia ritenuta pericolosa. Sono famosi i processi di Parigi, Londra, Cipro, Firenze dove le rare assoluzioni venivano cancellate con ricatti ai tribunali e torture agli accusati. Clemente V nella conclusione del processo nel 1313 al Concilio di Vienne con l’enciclica Vox in Eccelso, in un ultimo sussulto di dignità clericale, o forse perché non aveva ancora capito cosa si nascondesse veramente dietro l’Ordine rossocrociato, non volle cancellare l’Ordine Templare, ma ne decretò solo la sospensione; la reazione di Filippo il Bello a questo inatteso finale fu, nel 1314, di far mettere sul rogo di Parigi l’ultimo dei Gran Maestri dell’ordine Jaques de Molay.
Profondo fu il cordoglio del mondo colto di quell’epoca; perfino il Divino Poeta, direttamente coinvolto come appartenente laico dell’Ordine, celebrò il suo sdegno nella sua opera più celebre mettendo all’inferno entrambi i protagonisti, Papa e Re.
Negli anni successivi i numerosi cavalieri sopravvissuti si riorganizzarono in altri ordini monastici come i Cavalieri dell’ordine di Cristo in Portogallo o in sette segrete delle quali molte hanno rivendicato l’origine templare, ma realmente il proseguo della loro opera si è in buona parte perduto, nonostante si sia voluto intravedere nelle varie correnti di pensiero future, dall’umanesimo alla riforma protestante all’illuminismo.
La vera distruzione dell’ordine in realtà avviene nei decenni successivi, durante il pontificato di Giovanni XXII, successore di Clemente V, un Papa cultore di Alchimia ed Esoterismo, che venuto in stretto contatto con alcuni segreti dell’ordine dei Templari, dopo la sua sospensione, ebbe a reagire con estrema violenza decretandone la definitiva cancellazione con la Damnatio Memoriae, una condanna che veniva riservata solo alle eresie più pericolose.
Fu un definitivo colpo di spugna su un periodo storico durato due secoli, durante il quale un ordine monastico, derivante dall’evoluzione dell’alta e controversa spiritualità dei Cistercensi con l’aiuto di una nobiltà francese che voleva recuperare il retaggio del proprio passato, si fondava con l’impegno di pochi illuminati come distillato della Tradizione Europea per diventare un ordine monastico-guerriero, arrivando a scrivere perfino le regole della futura cavalleria. Un periodo nel quale l’elite spirituale dell’ordine aveva modo di entrare in contatto con realtà culturali e religiose fino a quel momento avversate e sconosciute, assorbendo conoscenze antiche da civiltà dimenticate, trasformando la religiosità fideistica in una gnosi sapienziale ed esoterica fino cercare di piantarne il seme per un nuovo ordine mondiale, trapiantandolo nell’Europa di allora, dove vigeva l’oppressione Feudale a governo dell’ordine sociale e il dogmatismo della chiesa cattolica, a governo delle coscienze.
“La cancellazione dell’Ordine del Tempio rappresenta la frattura dell’Occidente con la propria Tradizione – una tradizione che era religiosa e guerriera al tempo stesso, mediatrice tra il Potere Temporale e l’Autorità Spirituale.” (Renè Guenon, Autorità spirituale e Potere temporale).
L’opera dei Cavalieri Templari non si è esaurita del tutto dopo la cancellazione dell’Ordine; quello che era stato fatto prima rimane a perpetua testimonianza della loro grandezza, ma quello che hanno continuato a fare dopo, non ha più trovato né pace né favore da parte della Chiesa, come da parte di una società che ha continuato a decadere nei suoi contenuti spirituali fino ai nostri giorni.
Il mondo occidentale contemporaneo ha un’unica speranza per salvarsi dalla disfatta totale alla quale sta andando incontro, oramai da alcuni secoli, ora più rapidamente che mai: la riscoperta della Tradizione attraverso la conoscenza di un sapere che fu così ben difeso fino all’ultimo respiro dai Cavalieri Templari, ma che da allora è rimasto in balia dell’oblio e dall’adorazione dei falsi idoli.
00:05 Publié dans Traditions | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : traditions, tradition, moyen âge, europe, templiers, ordres de chevalerie, chevalerie | | del.icio.us | | Digg | Facebook
jeudi, 23 janvier 2014
Les Argonautes sont un exemple pour le monde d'aujourd'hui
«Les Argonautes
sont un exemple pour le monde d’aujourd’hui,
perdu dans ses calculs mesquins»
Qui n’a entendu parler des 50 héros, menés par Jason, partis pour retrouver la Toison d’or ? Ils sont passés à la postérité sous le nom d’Argonautes (du nom de leur navire L’Argo)…
Entretien avec Dimitris Michalopoulos auteur deLes Argonautes
(Propos recueillis par Fabrice Dutilleul)
Pourquoi les Argonautes fascinent-ils toujours autant ?
Ils nous éblouissent même aujourd’hui, car ils étaient des héros au sens vrai du terme. Ils ont fait l’impossible : ils arrivèrent, en effet, au bout de la Mer noire, enlevèrent la Toison d’or en dépit des monstres qui y veillaient, échappèrent à leurs ennemis farouches, firent le périple de l’Europe et regagnèrent la Grèce via l’océan Atlantique. Autrement dit, ils sont un exemple pour le monde d’aujourd’hui, perdu dans ses calculs mesquins.
Comment êtes-vous parvenus à séparer ce qui appartient à la légende et ce qui appartient à l'histoire ?
En fouillant les sources grecques et latines ainsi que presque l’ensemble de la littérature contemporaine. À mon avis, il suffit de lire attentivement les textes anciens, pour comprendre très bien ce qu’il était vraiment passé pendant le voyage, voire la campagne, des Argonautes.
Pensez-vous avoir fait un livre exhaustif ou y a-t-il encore, d'après vous, des choses à découvrir pour d'autres chercheurs ?
En ce qui concerne les Argonautes, non ! Je ne crois pas qu’il y a des choses à découvrir. En ce qui concerne toutefois les voyages des Anciens dans les océans et leurs campagnes en Amérique, oui… il y a toute une épopée à étudier et à écrire.
Y a-t-il encore un impact du voyage des Argonautes sur la Grèce actuelle… ou sur d'autres pays ?
Impact du voyage des Argonautes sur la Grèce actuelle ? Non, pas du tout (à l’exception, bien sûr, de quelques rares amateurs de l’Antiquité). À vrai dire, la Grèce d’aujourd’hui est plutôt hostile aux sciences de l’Homme, parmi lesquelles l’Histoire est toujours la prima inter pares. Or, c’est différent dans d’autres pays, oui ! En France et en Espagne, mais aussi dans des pays du Caucase, on m’a souvent posé la question : « Pourquoi a-t-on oublié les Argonautes, qui avaient parcouru l’Europe de l’est et laissé des traces presque partout sur les côtes de notre continent ? » Je ne savais quoi répondre, car il me fallait faire toute une conférence sur la situation actuelle de la Grèce, ses liens brisés avec les Hellènes et les Pélasges de l’antiquité etc. Voilà donc pourquoi je me suis mis au travail… et j’ai écrit mon livre sur les Argonautes et leur voyage.
Les Argonautes, Dimitris Michalopoulos, préface de Christian Bouchet, Éditions Dualpha, collection « Vérités pour l’Histoire », dirigée par Philippe Randa, 194 pages, 21 euros.
BON DE COMMANDE
à renvoyer à : Francephi diffusion - Boite 37 - 16 bis rue d’Odessa - 75014 Paris - Tél. 09 52 95 13 34 - Fax. 09 57 95 13 34 – Mél. diffusion@francephi.com
Commande par internet (paiement 100 % sécurisé par paypal ou carte bancaire) sur notre site www.francephi.com.
Je souhaite recevoir :
… ex. de Les Argonautes (21 euros)
00:05 Publié dans Entretiens, Livre, Livre, Traditions | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : tradition, argonautes, traditions, mythologie, grèce antique, hellénisme | | del.icio.us | | Digg | Facebook
samedi, 18 janvier 2014
La fête de la Sainte Lumière
La fête de la Sainte Lumière
(Epiphanie, Ste. Maigre)
par le Dr. COREMANS
Elles sont passées, les douze nuits [de la période solstitiale, ndlr]; le monde souterrain s'est fermé. La terre appartient aux vivants, au présent, à l'avenir; les morts, le passé gîtent dans le sombre empire de Hella. La fête du jour annonce l'espoir, le futur bonheur! Pour quelques heures, les dignitaires, élus la veille, entrent en fonctions. C'est à eux à justifier le choix du hasard, s'ils veulent que le peuple le ratifie vers l'Iostur ou au champ de Mai. En attendant, on se livre à la joie. La Ste Lumière éclaire l'oie du banquet, les cornes à boire se remplissent et se vident bravement! Grimm croit que cette fête était consacrée à Berchta ou Helle, en sa qualité de déité lunaire, à Helle qui brille et qui éclaire au milieu des ténèbres. Tout en fêtant la renaissance du soleil, nos ancêtres ne voulaient pas oublier les bienfaits de l'astre qui préside aux nuits raffraîchissantes de l'été, à la rosée si salutaire aux plantes, après les brûlantes journées estivales. N'omettons pas, en outre, de faire remarquer que si la science nie l'influence de la lune sur les variations du temps, le peuple y croyait et y croit encore partout.
Néanmoins, si l'on témoignait de l'attachement et de la reconnaissance à la bonne déesse, on ne se montrait pas moins sévère à l'égard des génies ténébreux de mort et de destruction sur lesquels elle règne dans les profondeurs de la terre. On vengeait sur eux les outrages qu'ils avaient fait souffrir, pendant six mois, aux déités bienfaisantes de la lumière. C'est ainsi, comme nous l'avons dit, qu'en Italie, la Béfana, représentée sous les traits d'une femme maigre et décharnée, est maltraitée, lapidée et enfin sciée par le peuple, le treizième jour après les fêtes de Noël. Des usages de ce genre se rencontrent aussi dans les contrées méridionales de l'Allemagne, qui avoisinent l'Italie. Il est aussi évident que des réminiscences du paganisme se sont jointes aux terribles détails du martyre de Ste Macre, Mager ou Maigre, dont on célèbre la fête, en Champagne, le jour de l'Epiphanie.
D'après la tradition, cette sainte endura le martyre du temps de la grande persécution des Chrétiens, sous Dioclétien. Elle fut jetée au feu, et, n'en ayant reçu aucun dommage, on lui coupa les mamelles, on la roula sur des morceaux très aigus de pots cassés et ensuite sur des charbons enflammés; enfin, Dieu l'enleva à la cruauté des hommes! Tel est le résumé des rimes populaires que chantent parfois encore les enfants qui, le jour des Rois, parcourent, en Champagne, les villages avec un mannequin figurant une femme et qu'ils disent être l'effigie de Ste. Maigre! Nous voyons, dans cette sainte, une christianisation d'un usage païen qui ne pouvait se maintenir, après la chute du paganisme, que sous une forme nouvelle.
St Mélanie, évêque et confesseur, est pour Rennes, ce que Ste Macre ou Maigre est devenue pour Reims et la Champagne. Les miracles que la voix populaire lui attribue sont innombrables. Comme St. Macaire, il avait, dit-on, le pouvoir de faire parler les morts.
Les habitants des montagnes du Monta-Rosa prétendent qu'un mirage céleste fait quelquefois apercevoir, le jour de l'Epiphanie, la «vallées perdue», dont les souvenirs délicieux vivent dans la tradition de leur contrée alpine. Effectivement, qu'est cette vallée perdue, sinon un pays d'espérance, et la fête du treizième jour n'était-elle pas aussi principalement consacrée à l'Espoir?
Nous cherchons tous et toujours la vallée perdue, mais quel est l'heureux mortel qui la retrouve?
En Flandre comme en plusieurs parties de l'Allemagne, on nomme le jour des Rois: le Grand Nouvel An, et les Tyroliens attribuent à l'eau bénite de ce jour des forces particulières. Ils en aspergent les champs, les étables, les granges, etc. C'est aussi une croyance populaire à peu près générale que les mariages contractés le jour de la Sainte-Lumière sont heureux par excellence. En Brabant et en Flandre, les enfants chantent la veille et le jour des Rois différentes rimes qui paraissent très anciennes et qui ont trait, soit à la Sainte-Lumière soit à la demande d'un nouveau couvre-chef, le vieux s'étant sans doute usé, pendant le cours de l'année antérieure.
Dr. COREMANS.
(ex Etudes sur les mythes, tome I, Les fêtes du Joul, Héliopolis, 1851).
Note sur l'auteur: le Dr. Coremans, né à Bruxelles à la fin du XVIIIième siècle a dû quitter sa ville natale, en compagnie de son père, haut fonctionnaire impérial, à l'arrivée de la soldatesque jacobine dans les Pays-Bas autrichiens (1792). Elevé à Vienne, il y entre à la faculté de droit et s'engage dans les Burschenschaften nationalistes et grandes-allemandes, qui s'opposent au morcellement du monde germanique, confirmé par le Traité de Vienne de 1815. Revenu à Bruxelles, parfaitement trilingue, il reste un légitimiste absolu: sa fidélité politique va à l'Autriche, au cadre germanique et centre-européen plutôt qu'à la dynastie des Habsbourg qui ne veut rien comprendre aux aspirations du peuple à l'unité. Païen dans l'âme, il rédigera une quantité d'études sur les mythes et les traditions populaires; dans bien des domaines de l'ethnologie, il sera un pionnier, mais, depuis, il a été bien oublié.
00:05 Publié dans Traditions | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : tradition, cultes solstitiaux, solstices, épiphanie, sainte maigre, paganisme, traditions | | del.icio.us | | Digg | Facebook
dimanche, 22 décembre 2013
The Rites of Manhood: Man’s Need for Ritual
Does modern life ever feel excruciatingly flat to you? A bleak landscape devoid of layers, rhythm, interest, texture?
Are you ever haunted by the question “Is this all there is?”
Have you ever looked at an old photo and felt that the scene held such an inexplicable richness that it seemed you could practically step right into it?
The barren flatness of modern life is rooted in many things, including mindless consumerism, the absence of significant challenges, and the lack of shared values and norms, or even shared taboos to rebel against. But what is the solution?
Many would be quick to say faith, or philosophy, or relationships. All good answers.
But what is it that vivifies beliefs to the extent they can transform your perspective not simply for an hour on Sunday, but also in the mundane moments throughout your week? What can move an understanding of abstract truths from your mind into your very sinews? What can transform superficial ties with others into deep and meaningful bonds?
The answer I would suggest is ritual.
Our modern world is nearly devoid of rituals – at least in the way we traditionally think of them. Those that remain – such as ones that revolve around the holidays – have largely lost their transformative power and are often endured more than enjoyed, participated in as an obligatory going through of the motions. Ritual has today become associated with that which is rote, empty, meaningless.
Yet every culture, in every part of the world, in every era has engaged in rituals, suggesting they are a fundamental part of the human condition. Rituals have even been called our most basic form of technology – they are a mechanism that can change things, solve problems, perform certain functions, and accomplish tangible results. Necessity is the mother of invention, and rituals were born out of the clear-eyed perspective that life is inherently difficult and that unadulterated reality can paradoxically feel incredibly unreal. Rituals have for eons been the tools humans have used to release and express emotion, build their personal identity and the identity of their tribe, bring order to chaos, orient themselves in time and space, effect real transformations, and bring layers of meaning and texture to their lives. When rituals are stripped from our existence, and this fundamental human longing goes unsatisfied, restlessness, apathy, alienation, boredom, rootlessness, and anomie are the result.
The Rites of Manhood
In the coming year we plan to do in-depth posts on some of the rituals that have been most central to the meaning and making of manhood, such as rites of passage, initiations, and oaths. This week we will be laying the foundation for these posts in two articles; the first will set up a definition of ritual, and the second will explore the many ways rituals are so vital for a full and meaningful life.
Today we’ll provide a little context as to the nature of ritual and why it has largely disappeared from modern societies.
What Is Ritual?
According to Catherine Bell, professor of ritual studies and author of the preeminent textbook on the subject, ritual has been traditionally defined as an action that lacks a “practical relationship between the means one chooses to achieve certain ends.” For example, shaking hands when you meet someone can be considered a ritual as there is no real reason why grabbing another’s hand and shaking for a second or two should lead to acquaintanceship. It is a culturally-relative gesture; we might very well greet each other with a pat on the shoulder or even no physical contact at all. As another example, washing your hands to clean them is not a ritual since there exists a clear practical relationship between your action and the desired result. But if a priest splashes water on his hands to “purify” them, that’s a ritual, since the water is largely symbolic and not really meant to rid the hands of bacteria.
Bell lists six attributes of rituals:
- Formalism: This is a quality rooted in contrast and how restrictive or expressive the accepted code of behavior is for a given event/situation. For example a backyard picnic is very casual and will not feel like a ritual because there are few guidelines for how one may express oneself. A very formal dinner, on the other hand, has a more limited range of accepted behaviors and thus can feel quite ritual-like. Bell argues that while we sometimes see formality as stuffy, since it curbs more spontaneous expression, formalized activities are not “necessarily empty or trivial” and “can be aesthetically as well as politically compelling, invoking what one analyst describes as ‘a metaphoric range of considerable power, a simplicity and directness, a vitality and rhythm.’ The restriction of gestures and phrases to a small number that are practiced, perfected, and soon quite evocatively familiar can endow these formalized activities with great beauty and grace.”
- Traditionalism. Rituals are often framed as activities that carry on values and behaviors that have been in place since an institution’s creation. This link to the past gives the ritual power and authority and provides the participant with a sense of continuity. The ritual may simply harken to those who came before, as when university graduates don the gowns that were once typical everyday classroom wear for scholars, or it may actually seek to recreate a founding event – as in the American celebration of Thanksgiving.
- Disciplined invariance. Often seen as one of the most defining features of ritual, this attribute involves “a disciplined set of actions marked by precise repetition and physical control.” Think of soldiers marching in drill step or the sit/stand/kneel pattern followed by Catholics during the course of a Mass. Disciplined invariance suppresses “the significance of the personal and particular moment in favor of the timeless authority of the group, its doctrines, or its practices,” and “subordinates the individual and the contingent to a sense of the encompassing and the enduring.”
- Rule-governance. Rituals are often governed by a set of rules. Both war and athletics are examples of activities that can be quite ritual-like when their rules regulate what is and is not acceptable. Rules can both check and channel certain tensions; for example, the game of football channels masculine aggression into a form of ritualized and controlled violence. On occasion the rules fail to sufficiently check the tension that is always bubbling right at the surface, as when a chaotic brawl breaks out amongst players. That the game reflects a similar submerged tension within society at large is part of why the audience finds the ritual so compelling.
- Sacral symbolism. Ritual is able to take ordinary or “profane” objects, places, parts of the body, or images, and transform them into something special or sacred. “Their sacrality,” Bell writes, “is the way in which the object is more than the mere sum of its parts and points to something beyond itself, thereby evoking and expressing values and attitudes associated with larger, more abstract, and relatively transcendent ideas.” Thus something like incense can be a mere mixture of plants and oils designed to perfume a room, or, when swung from a censer, can represent the prayer of the faithful ascending into heaven.
- Performance. Performance is a particular kind of action – one that is done for an audience. A ritual always has an intended audience, even if that audience is God or oneself. Tom F. Driver, a professor of theology, argues that “performance…means both doing and showing.” It is not a matter of “show-and-tell, but do-and-show.” Human are inherently actors, who wish to see themselves as characters in a larger narrative, and desire the kind of drama inherent in every timeless tale. Rituals function as narrative dramas and can satisfy and release this need. In the absence of ritual, people resort to doing their “showing” on social media and creating their own drama – often through toxic relationships or substances.
The more of these attributes a behavior/event/situation invokes, the more different from everyday life and ritual-like it will seem. The fewer of these attributes present, the more casual and ordinary it will feel.
For a more simple definition of ritual, here’s one that works: thought + action. A ritual consists of doing something in your mind (and often feeling something in your heart), while simultaneously connecting it to doing something with your body.
Rituals fall into a wide variety of categories. Theorist Ronald Grimes lists 16 of them:
- Rites of passage
- Marriage rites
- Funerary rites
- Festivals
- Pilgrimage
- Purification
- Civil ceremonies
- Rituals of exchange (as in worshipers making sacrifices to the gods in hope of receiving blessings from the divine)
- Worship
- Magic
- Healing rites
- Interaction rites
- Meditation rites
- Rites of inversion (rituals of reversal, where violating cultural norms is temporarily allowed, as in men dressing like women)
- Sacrifice
- Ritual drama
The important thing to understand about rituals is that they are not limited to very big, very formal events. Rituals can in fact be large or small, private or public, personal or social, religious or secular, uniting or dividing, conformist or rebellious. Funerals, weddings, presidential inaugurations, church services, baptisms, fraternal initiations, and tribal rites of passage are all rituals. Handshakes, dates, greetings and goodbyes, tattoos, table manners, your morning jog, and even singing the Happy Birthday song can be rituals as well.
Whither Ritual?
In many traditional societies, almost every aspect of life was ritualized. So why is there such a dearth of rituals in modern culture?
The embrace of ritual in the Western World was first weakened by two things: the Protestant Reformation’s movement against icons and ceremonialism and the Enlightenment’s emphasis on rationalism.
Historian Peter Burke, argues “the Reformation was, among other things, a great debate, unparalleled in scale and intensity, about the meaning of ritual, its functions and its proper forms.” Many Protestants concluded that the kind of rituals the Catholic Church practiced gave too much emphasis to empty, outward forms, rather than one’s internal state of grace. They rejected the “magical efficacy” of rites to be able to do things like change bread and wine into the literal body and blood of Christ.
The magical efficacy of ritual was attacked from the other side by Enlightenment thinkers. As discussed above, ritual is inherently nonrational since there is no practical relationship between the action and the end result. It is not rational to think that painting one’s body before battle will offer protection, that a rite of passage can turn a boy into a man, or that smoking a peace pipe can seal a treaty. Thus, ritual began to be associated with the superstitions of primitive peoples.
Suspicion of ritual again grew after World War II, in the wake of the way in which ritual ceremonies had been used to solidify loyalty to the Nazi cause.
Cultural embrace of ritual then really began to unravel during the social movements of the 1960s, which emphasized free expression, personal freedom, and individual emotional fulfillment above all. Rituals — which prescribe certain disciplined behaviors in certain situations, and require a person to forfeit some of their individuality in service to the synchrony and identity of the group — constrain spontaneity and the ability to do whatever one pleases. Ritual thus came to be seen as too constraining and not sufficiently “authentic.”
For these reasons, the use of and participation in rituals has been greatly curtailed. Or perhaps as historian Peter Burke argues, we’ve just replaced old rituals with new ones: “If most people in industrial societies no longer go to church regularly or practice elaborate rituals of initiation, this does not mean that ritual has declined. All that has happened is the new types of rituals—political, sporting, musical, medical, academic and so on—have taken the place of the traditional ones.” But the new rituals – watching sports, attending music festivals, checking Facebook, shopping, visiting a strip club on your 18th birthday — are light on nourishment and do not satisfy. Traditional rituals provided a mechanism by which humans could channel and process that which was difficult to grapple with – death, maturation, aggression – allowing the participant to discover new truths about themselves and the world. New rituals, if they can even really be called such, attempt to deny anything ugly in life (lest that lead you to close your wallet) and present a shiny, glossy façade — “confetti culture” – that facilitates passive consumption and turning away from examining given assumptions.
In our next post, we will argue that despite the cultural disdain for ritual, it is a human art form and practice which should be revived. It is true that ritual can be used for good or for ill, yet its benefit is so great that fear of the bad should not lead us to throw out the baby with the bathwater. Even if a man sees no place for ritual in his faith, he can have great use for it in other areas in his life (indeed, if his faith is completely unritualized, he has all the more need for other kinds of rituals). We will argue that even the most rational man might make room in his life for some “magic,” and that while ritual may seem constraining, it can paradoxically be incredibly empowering and even liberating. How that might be so, is where we will turn next time.
____________
Sources:
Ritual: Perspectives and Dimensions by Catherine Bell
Liberating Rites: Understanding the Transformative Power of Ritual by Tom F. Driver
00:05 Publié dans anthropologie, Définitions, Traditions | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : traditions, tradition, rituels, anthropologie, virilisme, machisme, masculinisme | | del.icio.us | | Digg | Facebook
Le Mazdéisme et l’Avesta : à l’origine des tribus indo-européennes
Le Mazdéisme et l’Avesta : à l’origine des tribus indo-européennes
« On vit apparaître
un si grand nombre d’analogies,
de points identiques entre les dogmes, les mythes,
les légendes, les institutions religieuses
de l’Orient et de l’Occident,
que les recherches prirent aussitôt
une direction nouvelle et précise »
(propos sélectionnés par Fabrice Dutilleul de la préface d’Émile Burnouf)
Qu’est-ce que l’Avesta ?
C’est l’ensemble des textes sacrés de la religion mazdéenne et forme le livre sacré, le code sacerdotal des zoroastriens. Il est parfois connu en Occident sous l’appellation erronée de Zend Avesta. Il est rédigé en plusieurs états de l’iranien ancien, désignés sous le nom d’avestique. Les parties les plus anciennes, celles des gathas, sont dans une langue aussi archaïque que celle du Rig Veda (sanskrit védique), le « gathique », les autres en avestique tardif. Le tout est écrit dans l’alphabet avestique.
Et qu’est-ce que le Mazdéisme ?
Le Mazdéisme originel remonte aux tribus indo-européennes des 2e et 1er millénaires avant JC. Il possède une étroite parenté avec l’ancienne religion indienne décrite dans les Veda. Le dieu suprême, Ahura Mazda ou Ormazd (Varuna, en Inde), est entouré de divinités, les Amesa Spenta. Cette religion est donc polythéiste. La société des hommes, quant à elle, est tripartite… Prêtres, guerriers et agriculteurs-éleveurs.
Que permet la persévérance de l’étude des religions ?
Que la science cherche depuis un siècle à en saisir l’unité. L’unité cherchée n’est pas cette fusion des églises qu’ont vainement discutée Leibniz et Bossuet ; c’est la communauté des dogmes primitifs d’où les diverses religions sont sorties ; c’est une unité historique.
Comment la science a-t-elle été conduite à cette recherche ?
Ce ne fut point par une théorie préconçue, par une rêverie ; ce fut par les faits eux‑mêmes. Tant qu’on n’eut pour matériaux que les doctrines chrétiennes, soit romaines, soit orthodoxes et, d’autre part, les anciennes mythologies grecques et latines, l’opposition entre elles parut si grande qu’on ne put pas les supposer issues d’un fonds commun. Mais lorsque, dans la seconde moitié du XVIIIe siècle et dans la première moitié du XIXe, on fut en possession des livres sacrés de l’Inde et de la Perse et qu’on put converser avec des Brahmanes et des Parsis, une révolution se fit dans la science. On vit apparaître un si grand nombre d’analogies, de points identiques entre les dogmes, les mythes, les légendes, les institutions religieuses de l’Orient et de l’Occident, que les recherches prirent aussitôt une direction nouvelle et précise.
Plusieurs conceptions primordiales ont donné lieu à plusieurs groupes de religions
Le groupe aryen parut le plus important et, après lui, le groupe sémitique. Le premier comprenait l’Inde, la Perse avec la Médie, les anciens Pélasges avec les Grecs et les Latins, les Germains, les Celtes, les Scandinaves. Le second était représenté par les peuples de race sémitique, notamment par les Assyriens, les Hébreux et plus tard par les Arabes. On voit que cette division des dogmes répond presque exactement à celle des langues. Si dans l’avenir, les langues sont, par de nouvelles découvertes, ramenées à une origine commune, il pourra en être de même des religions. Jusqu’à présent, disons‑le, rien ne fait prévoir un tel résultat. Constater des similitudes et une communauté d’origine entre plusieurs religions, ce n’est pas supprimer les différences. La science, prudente et sincère, ne supprime rien ; mais elle doit rendre raison de tous les faits constatés.
Le Mazdéisme. L’Avesta, Gaston-Eugène de Lafont, préface d’Émile Burnouf, éditions de L’Æncre, collection « Patrimoine des religions », dirigée par Philippe Randa, 238 pages, 26 euros
BON DE COMMANDE
Je souhaite commander :
...ex de Le Mazdéisme. L’Avesta (26 euros)
Autres livres de la collection
« Patrimoine des Religions » :
… ex de Le Mazdéisme. L’Avesta de Gaston-Eugène de Lafont (26 euros)
à renvoyer à : Francephi diffusion - Boite 37 - 16 bis rue d’Odessa - 75014 Paris - Tél. 09 52 95 13 34 - Fax. 09 57 95 13 34 – Mél. diffusion@francephi.com
Commande par internet (paiement 100 % sécurisé par paypal ou carte bancaire) sur notre site www.francephi.com
00:01 Publié dans Traditions | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : avesta, mazdéisme, traditions, traditionalisme, indo-européens | | del.icio.us | | Digg | Facebook
lundi, 16 décembre 2013
Défendre les fêtes et les traditions européennes...
Défendre les fêtes et les traditions européennes...
Voici le discours prononcé par Hughes Bouchu, responsable de la Ligue Francilienne, à Paris le 8 décembre :
Chers Amis,
Nietzsche disait de la fête qu’elle était « Le paganisme par excellence ». C’est dire si la préservation des fêtes traditionnelles de notre civilisation héléno-chrétienne est consubstantielle de notre identité. Aujourd’hui, une religion ostentatoire, totalitaire et conquérante, entend étouffer nos valeurs sous les sables d’un désert prêt à nous submerger.
Mes chers Amis, soyez en sûr, le combat de demain, sera gagné au nom de nos valeurs, de notre héritage civilisationnel, « par des veilleurs, disait Dominique Venner, postés aux frontières du royaume et du temps » et je rajouterai, des veilleurs arc boutés au Parthénon et à Notre Dame de Paris !
Lorsqu’on s’attaque en vérité à nos fêtes, ce n’est pas parce qu’elles sont chrétiennes, mais parce qu’elles sont de notre terre Europe, parce qu’elles remontent à notre histoire la plus lointaine, parce qu’elles sont nées du génie et de la volonté de nos ancêtres.
A Lutèce, qui est devenue Paris, notre sol sacré est irrigué du sang de nos pères. Là, Camulogène, le chef gaulois, a résisté aux soldats de César. Ici l’empereur fut applaudi par ses soldats et proclamé « impérator ». Les étudiants de toutes l’Europe médiévale venaient aux universités de Paris recevoir les enseignements des maîtres.
Ne nous y trompons pas. Lorsque certains réclament que nos fêtes soient mises sur le même plan que d’autres fêtes religieuses, ce n’est pas à une plus grande tolérance qu’on nous appelle, mais à renoncer à ce que nous sommes, à déshonorer notre patrie, à céder chez nous à la tyrannie de l’Autre, avec un grand A.
« Le triomphe des démagogues », disait Charles Péguy, « est passager, mais les ruines sont éternelles ». Alors qu’à Athènes, nous devrions construire une mosquée, à Istanbul on ne restitue pas Saint Sophie aux chrétiens.
La Turquie arrogante d’Erdogan veut nous imposer sa loi et nous devrions acclamer l’adhésion à l’Union Européenne de ce pays non-européen qui balance l’oeuvre de Kémal Atatürk aux orties, et qui prône un islamisme de Rabat à Ankara !
C’est aujourd’hui, une fois de plus, que nous devons montrer que nous ne renoncerons pas à ce que nous sommes. Et si cela déplait, et bien tant mieux ! Nous n’exigeons pas des autres qu’ils se plient à notre culture et à nos traditions. Ils ont le droit, tout comme nous, de défendre leurs coutumes, mais si l’Europe ne leur plait pas, telle qu’elle est, nous ne la changerons pas pour leurs faire une place qu’ils n’ambitionnent que par la trahison depuis plusieurs décennies de nos dirigeants corrompus. Comme savait nous le dire Georges Bernanos : « les démocraties ne peuvent plus se passer d’être hypocrites ! »
Oui, ils ont le droit de défendre leurs valeurs, leur culture, leurs fêtes et leurs rites, comme nous en avons le droit, mais chez eux, sur la terre de leurs ancêtres.
C’est pourquoi, en manifestant en ce jour, nous signifions clairement à tous ceux qui veulent nous néantiser, notre liberté de nous opposer à ce que l’on veut injustement nous imposer. Nous resterons maîtres chez nous, fidèles à la foi civilisationnelle de nos aïeux, respectueux du sens divin des fêtes et des rites, des sacrifices et des offrandes. Car, avant d’être chrétien ou d’être agnostique, avant d’être nationaliste, patriote ou d’être européiste, ce qui compte c’est d’être français et européen, d’être gaulois et romain, d’être un homme ou d’être une femme.
C’est notre identité dans sa complexité qui nous réunit pour combattre ceux qui nous nient.
Il y a quelques jours, défilaient ceux qui, au nom d’un anti-racisme fantasmé, veulent nous interdire de dire ce que nous pensons d’une greffe de peuplement qu’on nous impose et que nous rejetons. Ils veulent nous interdire de dénoncer l’usurpation d’une religion étrangère sur notre sol, sous prétexte que « des gens » pourraient être heurtés par l’affirmation identitaire des natifs, des indigènes, sur leur propre terre. Par contre, « eux » auraient le droit de s’affirmer en tant que tel ou que sais-je encore, mais pas nous.
Nous devrions payer le prix d’une substitution de population que nous n’avons pas souhaitée, d’un esclavage qui n’a enrichi qu’une extrême minorité de fumistes et de glandeurs, les mêmes qui s’enrichiront ensuite sur le dos des travailleurs français et européens dans les bureaux, dans les mines et dans les usines.
Eh bien, non ! Nous refuserons toute capitulation qui ne serait qu’une attitude par laquelle on se met à expliquer au lieu d’agir.
Chers camarades, en cette période d’avant Noël qui est la fête la plus enracinée de notre civilisation, je vous en conjure : défendons bec et ongles nos traditions, toutes nos traditions… Traditions gauloises, traditions celtiques, traditions médiévales, traditions antiques et traditions chrétiennes…
Et pour paraphraser Péguy, je dirais : « Notre droit ne fait pas la paix, il fait la guerre ! ».
00:05 Publié dans Traditions | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : fêtes, fêtes européennes, traditions | | del.icio.us | | Digg | Facebook
dimanche, 10 novembre 2013
LE JAPON MEDIEVAL : LE MONDE A L'ENVERS...
Rémy Valat
Le Japon médiéval est méconnu en France et grande est la tentation de le comparer à la période féodale européenne, tant il est vrai que nombreuses similitudes peuvent être constatées entre ces deux modèles de sociétés pourtant situées aux deux extrémités du continent eurasiatique.
Ce rapprochement, plutôt cette interprétation, est notamment le produit de l'historiographie nippone : le terme de « Moyen-Âge » apparaît pour la première fois sous la plume de l'historien Hara Katsurô, auteur d'une Histoire du Moyen-Âge parue en 1906. Pour lui, cette période instable et transitoire se situe entre deux sociétés stabilisées : Heian (794-1185) et Edo (1603-1867). Ce néologisme s'imposa sur l'appellation originelle des contemporains (l'« âge des guerriers »). Il est vrai que l'émiettement de l'autorité, la captation du pouvoir politique par les hommes d'armes, l'apparition de liens de vassalité, la naissance de seigneuries foncières, le phénomène monastique, l'émergence d'oppositions pour les libertés communales, l'essor économique et démographique, le développement d'une bourgeoisie urbaine favorisent le rapprochement (en dépit d'un décalage chronologique dans le développement de ce type de société au Japon).
À l'heure de la montée en puissance du nationalisme et d'une politique coloniale dynamique, le livre Hara Katsurô écrit dans le contexte de la victorieuse guerre russo-japonaise souhaite interpréter le « Moyen-Âge » comme une période fondatrice, d'affirmation de l'identité nationale, similaire à la période féodale européenne et où auraient dominé les valeurs martiales : ce discours visait à démontrer une « supériorité intrinsèque » des industries et des armées japonaises et à légitimer l'expansion coloniale en Asie. Une idée similaire sous-tend le livre de Nitobe Inazo, Le Bushidô : l'âme du Japon, ouvrage paru en 1910 et très prisé des artistes martiaux ou amoureux de la chose militaire qui tombent dans le piège tendu par l'auteur...
Le travail de Pierre-François Souyri a été de « remettre à l'endroit » l'histoire médiévale nippone et de corriger cette interprétation... L'histoire du Japon médiéval : le monde à l'envers, paru cette année au éditions Perrin-Tempus , paru en août 2013, est une réédition de l'ouvrage Monde à l'envers, la dynamique de la société médiévale, publié par la très regrettée maison d'éditions Maisonneuve et Larose en 1998. Le contenu de ce livre offre une forte similitude avec la 3ème partie (consacrée au Moyen-Âge) du même auteur de L'histoire du Japon des origines à nos jours, paru chez Hermann en 2009 avec cependant un intéressant chapitre additionnel comparant les sociétés médiévales européennes et nippones (chapitre 13. De la comparaison entre les sociétés médiévales d'Occident et du Japon). L'auteur, Pierre-François Souyri, professeur à l'université de Genève et ancien directeur la Maison Franco-japonaise de Tôkyô, est un spécialiste incontesté du sujet : on lui doit notamment la traduction du livre de Katsumata Shizuo relatif aux coalitions et ligues de la période médiévale (Ikki. Coalitions, ligues et révoltes dans le Japon d'autrefois, CNRS éditions, 2011). Enfin, le livre se fonde sur une abondante documentation et sources primaires japonaises, soigneusement confrontées et analysées.
L'« âge des guerriers » est une période foisonnante, aussi violente que créatrice. Après la victoire du clan des Minamoto sur celui des Taira (1185), un premier pouvoir militaire central s'impose : le shôgunat de Kamakura (1185-1333). Minamoto Yoritomo obtient de l'empereur le titre de sei tai shôgun (征夷大将軍 ), c'est-à-dire de « général en chef chargé de la pacification des barbares ». Mais, à la mort de ce dernier en 1199, le pouvoir réel échappe au fils du défunt (Minamoto Yoriie) ; le pouvoir est confié à un conseil de vassaux que domine le clan des Hôjô, clan dont l'influence ne cesse de s'étendre et de s'affirmer. Le shôgunat de Kamakura est resté dans toutes les mémoires en raison du célèbre épisode des tentatives d'invasions mongoles, dispersées par un typhon, un « vent divin » (1274 et 1281)... Ce long XIIIe siècle est propice à une intense réflexion spirituelle et à la contestation religieuse : des réformes sont initiées par les prédicateurs Hônen, Shinran, Nichiren et les maîtres zen, Eisai et Dôgen.
L'échec des invasions mongoles aussi est le prélude à la chute du clan Hôjô, incapable de récompenser les guerriers qui ont contribué aussi bien financièrement que par leur engagement personnel à la victoire. Une coalition de malcontents appuie l'empereur Go Daigo qui réalise une éphémère et autoritaire restauration impériale (restauration Kemmu, 1333-1336). L'empire se scinde ensuite en deux entités rivales (les cours du Nord et du Sud) ; la guerre civile fait rage, mais celle-ci profite au clan des Ashigaka, partisan de la cours kyôtoîte du Nord : en 1338, Ashikaga Takauji reprend la fonction de shôgun. Après la défaite de la « cour sudiste » en 1392 : les Ashikaga deviennent les maîtres du pays. La période Muromachi (1392-vers 1490) est entrecoupée de crises politiques et sociales sur fond d'essor économique (développement d'une économie commerciale avec échanges monétaires et premières tentatives d'accumulation de capital). C'est le « monde à l'envers » (gekokujô, 下剋上) : les mouvements civils ou religieux d'autonomie rurale et urbaine et l'irrésistible ascension de la classe des guerriers débouchent sur un affrontement général, dont l'enjeu devient l'unification du pays. Oda Nabunaga, Toyotomi Hideyoshi et Tokugawa Ieyasu la réaliseront au prix d'une longue guerre contre les forces politiques centrifuges, conflit dont Ieyasu sort vainqueur en créant la dernière dynastie de shôgun en 1603.
Le monde à l'envers c'est surtout celui des petites gens avides d'autonomie et d'ascension sociales dans un contexte de mutation économique et sociale, mais aussi celui d'un monde flottant qui a influencé les modes de vie et la culture nippones (les parias, appelés notamment kawaramono, 河原者). Les guerriers, acteurs principaux de la période médiévale et en particulier ceux de l'est de l'île d'Honshû, s'organisent sur une base familiale et clanique et créent des liens de vassalité (bushidan, 武士団). Ils sont issus de lignées de déclassés de la cour (voire de princes de la famille impériale, c'est le cas du lignage des Taira et des Minamoto qui font s'affronter entre 1180 et 1185) venu tenter leur chance loin de la capitale ou bien proviennent du milieu des paysans aisés et de la petite notabilité rurale. Ces hommes sont très attachés à leur terroir et défendent les intérêts des travailleurs de la terre, desquels ils se désolidarisent progressivement pour les dominer. Ces militaires en quête d'ascension sociale et de récompenses sont loin de la représentation conventionnelle du serviteur fidèle et loyal façonnée à l'époque d'Edo. Leur engagement est conditionné par les revenus de leurs terres : la période des récoltes (et de la perception des redevances) venue, le souffle d'un vent politique ou militaire contraire, ces hommes s'évaporent ou changent de camp. Leurs prouesses militaires, relatées dans les « dits » servent autant à bâtir une réputation qu'à ouvrir droit à récompenses... Si la bravoure du guerrier japonais médiéval ne peut être remis en question, leur éthique et leurs motivations étaient cependant plus prosaïques...
Histoire du Japon médiéval, le monde à l'envers, de Pierre-François Souyri, aux éditions Perrin-Tempus, août 2013, 522 p.
00:09 Publié dans Traditions | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : traditioon, traditions, traditionalisme, japon, asie, samourai | | del.icio.us | | Digg | Facebook
mercredi, 06 novembre 2013
Un texte du 19ème siècle sur la formation du Samouraï déchiffré
Un texte du 19ème siècle sur la formation du Samouraï déchiffré
Ex: http://www.zejournal.mobi
Un texte d'entraînement, utilisé par une école d'arts martiaux pour enseigner aux membres de la classe bushi (samurai ou samouraï), a été déchiffré. Il révèle les règles que les samouraïs étaient censés suivre et ce qu'il fallait faire pour devenir un véritable maître épéiste.
Le texte est appelé Bugei no jo, ce qui signifie "Introduction aux arts martiaux" et est daté de la 15e année de Tenpo (1844).
Écrit pour les étudiants samouraïs sur le point d'apprendre le Takenouchi-Ryu, un système d'arts martiaux , il devait les préparer pour les défis qui les attendaient.
Une partie du texte traduit donne ceci: "Ces techniques de l'épée, nées à l'âge des dieux, ont été prononcées par la transmission divine. Elles forment une tradition vénérée de par le monde, mais sa magnificence se manifeste seulement quand on a pris connaissance (...). Quand [la connaissance] est arrivée à maturité, l'esprit oublie la main, la main oublie l'épée," un niveau de compétence que peu obtiennent et qui requiert un esprit calme.
Le texte comprend des citations écrites par les anciens maîtres militaires chinois et est écrit dans un style Kanbun formel: un système qui combine des éléments de l'écriture japonaise et chinoise.
Le texte a été publié à l'origine par des chercheurs en 1982, dans sa langue originale, dans un volume de l'ouvrage "Nihon Budo Taikei." Récemment, il a été partiellement traduit en anglais et analysé par Balázs Szabó, du département d'études japonaises de l'Université Eötvös Loránd à Budapest, en Hongrie.
La traduction et l'analyse sont décrites dans la dernière édition de la revue Acta Orientalia Academiae Scientiarum Hungaricae.
Parmi ses nombreux enseignements, le texte dit aux élèves de montrer une grande discipline et de ne pas craindre le nombre d'ennemis. "(...) c'est comme franchir la porte d'où nous voyons l'ennemi, même nombreux, nous les voyons comme quelques uns, donc aucune crainte ne s'éveille, et nous triomphons alors que le combat vient à peine de commencer", citation d'un enseignement Sur les Sept Classiques Militaires de la Chine ancienne.
Le dernier siècle des samouraïs
En 1844, seuls les membres de la classe Samouraï étaient autorisés à recevoir une formation d'arts martiaux. Szabó explique que cette classe était strictement héréditaire et qu'il y avait peu de possibilités pour les non-samurai d'y adhérer.
Les étudiants Samurai, dans la plupart des cas, auraient participé à plusieurs écoles d'arts martiaux et, en outre, auraient appris "l'écriture chinoise, les classiques confucéens et la poésie dans les écoles du domaine ou des écoles privées", a expliqué Szabó.
Les étudiants qui commencent leur formation de Takenouchi-ryu en 1844 ne réalisaient pas qu'ils vivaient à une époque où le Japon était sur ??le point de subir d'énormes changements.
Pendant deux siècles, il y a eu des restrictions sévères sur les Occidentaux entrant au Japon. Cela a pris fin en 1853 quand le commodore américain Matthew Perry est entré dans la baie de Tokyo avec une flotte et a exigé que le Japon signe un traité avec les États-Unis.
Dans les deux décennies qui ont suivi, une série d'événements et de guerres ont éclaté qui on vu la chute du Japon Shogun, la montée d'un nouveau Japon moderne et, finalement, la fin de la classe des Samouraïs.
Les règles Samurai.
Le texte qui vient d'être traduit énonce 12 règles que les membres de l'école de Takenouchi-ryu étaient censés suivre.
Certaines d'entre elles, dont "Ne quittez pas le chemin de l'honneur !" et "Ne commettez pas de turpitude !" étaient des règles éthiques que les samouraïs étaient censés suivre.
Une règle notable, "Ne laissez pas les enseignements de l'école s'échapper !" a été créé pour protéger les techniques secrètes d'arts martiaux de l'école et à aider les élèves s'ils devaient se trouver au milieu d'un combat.
"Pour une école d'arts martiaux ... afin d'être attrayante, il était nécessaire de disposer de techniques spéciales permettant au combattant d'être efficace même contre un adversaire beaucoup plus fort. Ces techniques sophistiquées faisaient la fierté de l'école et étaient gardées secrètes, car leur fuite aurait causé une perte aussi bien économique que de prestige", écrit Szabó.
Deux autres règles, peut-être plus surprenantes, précisent que les étudiants "ne se concurrencent pas !" et "Ne racontent pas de mauvaises choses sur d'autres écoles !".
Les occidentaux modernes ont une vision populaire des samouraïs s'affrontant régulièrement, mais en 1844, ils n'étaient pas autorisés à se battre entre eux.
Le shogun Tokugawa Tsunayoshi (1646-1709) avait placé une interdiction sur les duels d'arts martiaux et a même réécrit le code que le samouraï devait suivre, en l'adaptant pour une période de paix relative. "L'apprentissage et la compétence militaire, la loyauté et la piété filiale, doit être promue, et les règles de la bienséance doivent être exécutées correctement", expliquait le shogun (traduction du livre "Études sur l'histoire intellectuelle du Japon des Tokugawa," par Masao Maruyama, Princeton University Press, 1974).
Les compétences secrètes.
Le texte propose seulement un faible aperçu des techniques secrètes que les élèves auraient appris à cette école, en séparant les descriptions en deux parties appelées "secrets les plus profonds du combat" et "secrets les plus profonds de l'escrime."
Une partie des techniques secrètes de combat à mains nues est appelé Shinsei no daiji, ce qui se traduit par "techniques divines", indiquant que ces techniques étaient considérées comme les plus puissantes.
Curieusement, une section de techniques secrètes d'escrime est répertoriée comme ?ry?ken, également connu sous le nom IJU ichinin, ce qui signifie "ceux considérés être accordés à une personne" - dans ce cas, l'héritier du directeur.
Le manque de détails décrivant ces techniques dans des cas pratiques n'est pas surprenant pour Szabó. Les directeurs avaient des raisons pour utiliser un langage crypté et l'art du secret.
Non seulement ils protégeaient le prestige de l'école, et les chances des élèves dans un combat, mais ils contribuaient à "maintenir une atmosphère mystique autour de l'école," quelque chose d'important pour un peuple qui tenait l'étude des arts martiaux en haute estime.
- Source : Les Découvertes Archéologique
00:05 Publié dans Traditions | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : tradition, traditions, traditionalisme, japon, samourai, asie, castes guerrières | | del.icio.us | | Digg | Facebook
lundi, 28 octobre 2013
Remplacer les fêtes chrétiennes par Yom Kippour et l’Aïd
Remplacer les fêtes chrétiennes par Yom Kippour et l’Aïd : 80% des français disent non
Ex: http://zejournal.mobi
La France est un pays de culture et de tradition catholique, sous un régime républicain et démocratique. Je mérite sûrement la guillotine, bien affûtée, de la libre parole républicaine pour ces propos nauséabonds. Plus besoin de guillotine, elle est désormais implantée directement dans les âmes et consciences, et ce, dès l’enfance, grâce à la « ligne Buisson » de la laïcité de Vincent Peillon, et la pastorale républicaine qu’il met en place à l’école. Prochaine étape : la suppression des fêtes chrétiennes. On y vient très vite, on y est : une «sociologue» convertie à l’islam, membre de l’Observatoire de la laïcité, vient de proposer de remplacer deux fêtes chrétiennes par une fête juive et une fête musulmane…
L’Observatoire de la laïcité, organisme étatique dépendant directement du Premier Ministre de la République, a été créé en 2007, sûrement pour contrer, au moins en tant que « poudre aux yeux », la problématique du culte musulman au cœur du quotidien des citoyens. Aujourd’hui, au main des socialistes, cet observatoire devient très dangereux – comme pour nombre de lois prises sous la droite, que la droite applaudissait, et qu’elle se prend aujourd’hui en pleine poire. Dounia Bouzar, qui a été nommée dimanche à l’observatoire de la laïcité par le Premier ministre, qui est une anthropologue spécialiste du fait religieux, propose, dans un entretien à Challenges, de remplacer deux fêtes chrétiennes (au choix) par Yom Kippour et l’Aïd…
Cette experte, donc, nous informe que « la France a montré l’exemple de la laïcité au monde en instaurant la première la liberté de conscience » [sauf pour les pharmaciens ou les maires - ajout de l’ami Michel Janva]. Liberté de conscience, soit dit en passant, qui existait dès la grèce antique, sinon avant, et qui trouve d’ailleurs dans la théologie médiévale des arguments étayés. Il suffit d’ouvrir saint Thomas d’Aquin pour comprendre que l’homme créé à l’image de Dieu veut dire qu’il en est l’image en tant qu’il est libre, comme Lui, de ses actes et de ses pensées.
À la fin de cet entretien sur les cas posés par la problématique musulmane au travail et dans les cantines, le journaliste lui demande quand même s’il faut ajouter deux fêtes en plus ; et notre experte en laïcité de répondre : « le clergé y a longtemps été opposé mais il a évolué et n’y est plus hostile car il y a beaucoup de fêtes chrétiennes ». Il a « évolué ». Comprenez : le clergé sort enfin des siècles sombres, moyenâgeux et lugubres dans lesquels il était enfermé, et il en sort sous l’impulsion du « sens de l’histoire », qui file en droite ligne vers le Grand Soir socialiste, le paradis terrestre, enfin délivré de toute croyance et de toute vérité des cieux.
Et, comme toute histoire a ses prophètes, je vous en offre deux qui avait tout prévu : le prophète Jacques Attali disait déjà, en février 2003, qu’« il convient (…) d’enlever de notre société laïque les derniers restes de ses désignations d’origine religieuse. »… Pas mieux que l’autre prophète, Vincent Peillon, qui affirmait dans une vidéo de 2005 qu’il fallait détruire la religion catholique, pour imposer sa « religion laïque et républicaine » (l’équivalent, chez lui, de « socialiste »). L’enjeu, dit Peillon, est « de forger une religion qui soit non seulement, plus religieuse que le catholicisme dominant, mais qui ait davantage de force, de séduction, de persuasion et d’adhésion, que lui. ». La chose est claire ? Il parle exclusivement du catholicisme, et non des autres religions : la rivalité mimétique de la République et de l’Église, dès la Révolution française – qui n’est pas terminée, rappelons-le, est un combat, une guerre des religions qui est strictement polarisée par ces deux-là. L’islam est là de surcroit, comme un allié objectif de la République dans ce combat, quoi qu’on puisse en penser.
L’objectif est donc clairement de bâtir une société anti-chrétienne. Pourquoi autant de pessimisme et de fermeture, me direz-vous : l’espace social n’est-il pas le lieu de la « cohabitation des différences » et du « multiculturalisme » ? Oui, très bien, et alors il ne resterait qu’à nous, chrétiens, de convaincre les autres – sans pouvoir trop en parler publiquement, en se cachant dans les caves, en évitant d’être trop « visible », se faisant tout petit, et en n’intervenant surout pas dans les débats publics. Comment voulez qu’une lampe éclaire le monde si elle est placée sous la table ? Comment voulez-vous que l’avenir de la France se batisse sans son passé ? Comment voulez-vous construire une maison sans ses fondations ? Point n’est besoin de fondation, d’historicité et de continuité, puisque, dans leurs esprit peilloniens, tout commence par la Révolution, et tout finira avec la Révolution achevée : une Révolution, selon le grand-maître Peillon, qui est « un événement religieux », une « nouvelle genèse » un « nouveau commencement du monde », une « nouvelle espérance », une « incarnation théologico-politique », qu’il faut porter à son terme, à savoir : « la transformation socialiste et progressiste de la société toute entière » (La révolution française n’est pas terminée, p. 195).
« c’est encore une religion, sinon une certaine forme de religiosité, qui est encore à l’œuvre dans ce médiocre spectacle dit laïque »
Que les musulmans (et les juifs) ne se réjouissent donc pas trop vite : ils sont aujourd’hui les idiots utiles de la République, plus que les alliés objectifs. Une République qui se sert de l’islam, à sa droite, et du « multiculturalisme », à sa gauche, pour imposer sa propre religion, mais qui veut les fendre toutes, et, au premier chef, l’Église, dont elle est depuis le début la copie mondaine et le décalque horizontal. Elle veut et n’existe que pour s’imposer elle-même comme religiosité, et, grâce à Vincent Peillon, dont on peut reconnaître, au moins, la franchise, cela est rendu public. Oui il faudra répandre la bonne parole, selon le rapport de l’Observatoire de la laïcité remis le 25 juin au Premier ministre : « favoriser la diffusion de guides de la laïcité dans les municipalités, hopitaux, maternité, entreprises privées », « inventer une charte laïque » ou encore « enseigner la morale laïque à l’école » (p. 4), tout cela en s’appuyant « sur la lutte contre toutes les discriminations économiques, sociales, urbaines ». L’homme nouveau, républicain et socialiste, ouvert à tout sans n’être à rien, subissant toutes les cultures du monde sans avoir le droit à la sienne, étant partout « chez autrui » plutôt que « chez lui », sera lisse et livide, sans visage et sans porosité, homme relatif et relativiste, où tout se vaut, dans une angoisse permanente et suffoquante. Rien à quoi se rattacher. Sinon à la République laïque et socialiste qui est là, et qui tend les bras.
Oui, c’est encore une religion, sinon une certaine forme de religiosité, qui est encore à l’œuvre dans ce médiocre spectacle dit « laïque ». Les petits rituels narcissiques, ludiques ou névrotiques de l’homo festivus sont désormais les grandes-messes du monde post-moderne, avec leurs prêtres, leurs thuriféraires, leurs porte-croix, leurs fêtes de Bacchus, leurs processions infâmes et leurs vêpres télévisuelles débilisantes. Et les sermons servis au cours de ces messes profanes sont d’une violence inouïe pour toute personne attachée à la continuité, la verticalité, la transcendance et le sérieux de la vie en société. Chrétiens, vous n’êtes pas les bienvenues : vous représentez le passé, le mur, l’échaffaud sur lequel, certes – et encore ! – on a bâti la civilisation, mais qu’il faut désormais rejeter. Place aux autres, à tout le monde, sauf à vous, déchets moyenâgeux.
- Faites donc une « croix » sur deux fêtes (au choix, mais ne rêvez pas trop pour un réferundum) :
Lundi de Pâques (21 avril pour 2014)
Jeudi de l’Ascension (29 mai pour 2014)
Lundi de Pentecôte (9 juin pour 2014)
Assomption (15 août)
Toussaint (1er novembre)
Noël (25 décembre)
Puis tournez-vous vers le dieu républicain, ses valeurs « humanistes » et immanentes, cette « transcendance flottante », cette réduction anthropologique, gage de paix, de sérénité, et surtout, comme nous le voyons tous les jours dans notre société, de beau, de vrai et de bien. Amen.
- Source : Nouvelles de France
00:07 Publié dans Actualité, Traditions | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : fêtes chrétiennes, fêtes musulmanes, fêtes juives, yom kippour, aïd el kebir, traditions, actualité, fête du mouton | | del.icio.us | | Digg | Facebook
vendredi, 18 octobre 2013
La era de la ginecocracia
por Evgueni Golovín*
Ex: http://paginatransversal.wordpress.com
Muchos libros en nuestro siglo se han escrito sobre la visión del mundo femenina, sobre la psicología femenina y el erotismo femenino. Muy pocos fueron escritos sobre los hombres. Y estos pocos estudios dejan una impresión bastante desoladora. Dos de ellos, escritos por conocidos sociólogos son especialmente sombríos: Paul Duval – “Hombres. El sexo en vías de extinción”, David Riseman – “El mito del hombre en América”. La multitud masculina de rostros variopintos no inspira optimismo. Al contemplar a la multitud masculina uno se entristece: “él”, “ello”, “ellos”… con sus discretos trajes, corbatas mal atadas… sus estereotipados movimientos y gestos están sometidos a la fatal estrategia de la más pulcra pesadilla. Tienen prisa porque “están ocupados”. ¿Ocupados en qué? En conseguir el dinero para sus hembras y los pequeños vampiros que están creciendo.
Son cobardes y por eso les gusta juntarse en manadas. Si prescindimos de las refinadas divagaciones, la cobardía no es más que una tendencia centrípeta, deseo de encontrar un centro seguro y estable. Los hombres tienen miedo de sus propias ideas, de los bandidos, de los jefes, de “la opinión pública”, de las arañas que se chupan el dinero y que lo dan. Pero las mujeres son las que más miedo les dan. “Ella” camina multicolor y bien centrada, su pecho vibra tentadoramente… y los ansiosos ojos siguen sus curvas, y la carne se rebela dolorosamente. Su frialdad – qué desgracia, su compasión erótica – ¡qué felicidad! “Ella” es la materia formada de manera atrayente en este mundo material, en el que vivimos solo una vez, “ella” – es una idea, un ídolo, sus emergentes encantos saltan de los carteles, portadas de revistas y pantallas. “Ella” es un bien concreto. El cuerpo femenino bonito cuesta caro, tal vez más barato que “La maja desnuda” de Goya, pero hay que pagarlo. Una prostituta cobra por horas, la amante o la esposa, naturalmente, piden mucho más. El lema del matrimonio estadounidense es sex for support. Las puertas del paraíso sexual se abren con la llavecita de oro. El cuerpo masculino sin cualificar y sin muscular no vale nada.
La realidad de la civilización burguesa
Aunque nos acusen de cargar las tintas, la situación sigue siendo triste. La igualdad, emancipación, feminismo son los síntomas del creciente dominio femenino, porque la “igualdad de los sexos” no es más que otro fantasma demagógico de turno. El hombre y la mujer debido a la marcada diferencia de su orientación están luchando permanentemente de forma abierta o encubierta, y el carácter del ciclo histórico-social depende del dominio de uno u otro sexo. El hombre por naturaleza es centrípeto, se mueve de izquierda a derecha, hacia adelante, de abajo a arriba. En la mujer es todo al revés. El impulso “puramente masculino” es entregar y apartar, el impulso “puramente femenino” es quitar y conservar. Claro que se trata de impulsos muy esquemáticos, porque cada ser en mayor o menor medida es andrógino, pero está claro que de la ordenación y armonización de estos impulsos depende el bienestar del individuo en particular y de la sociedad en su conjunto, pero semejante armonía es imposible sin la activa irracionalidad del eje del ser, convencimiento intuitivo de la certeza del sistema de valores propios, la instintiva fe en lo acertado del camino propio. De otro modo la energía centrípeta o destrozará al hombre, o le obligará a buscar algún centro y punto de aplicación de sus fuerzas en el mundo exterior. Lo cual lleva a la destrucción de la individualidad y a la total pérdida de control del principio masculino propio. La energía erótica en vez de activar y templar el cuerpo, como ocurre en un organismo normal, comienza a dictar al cuerpo sus propias condiciones vitales.
La androginia del ser está provocada por la presencia femenina en la estructura psicosomática masculina. La “mujer oculta” se manifiesta en el nivel anímico y espiritual como el principio regulador que sujeta o el ideal estrellado del “cielo interior”. El hombre debe mantener la fidelidad hacia esta “bella dama”, la aventura amorosa es la búsqueda de su equivalente terrenal. En el caso contrario estará cometiendo una infidelidad cardinal, existencial.
¿Pero de qué estamos hablando?
Del amor.
La mayoría de los hombres actuales pensarán que se trata de tonterías románticas, que solo valen cuando se habla de los trovadores y caballeros. Oigan, nos dirán, todos nosotros – mujeres y hombres – vivimos en un mundo cruel y tecnificado en condiciones de lucha y competencia. Todos por igual dependemos de estas duras realidades, y en este sentido se puede hablar de la igualdad de los sexos. En cuanto a la dependencia del sexo, sabrá que en todos los tiempos ha habido obsesos y erotómanos. En efecto, las mujeres ahora juegan mucho mayor papel, pero no es suficiente para hablar de no se sabe qué “matriarcado”.
Ciertamente, no se puede hablar del “matriarcado” en la actualidad en el sentido estricto. Según Bachofen, el matriarcado es más bien un concepto jurídico, relacionado con el “derecho de las madres”. Pero perfectamente podemos ocuparnos de la ginecocracia, del dominio de la mujer, debido a la orientación eminentemente femenina de la Historia Moderna. Aquí está la definición de Bachofen:
“El ser ginecocrático es el naturalismo ordenado, el predominio de lo material, la supremacía del desarrollo físico”
J.J. Bachofen. Mutterrecht, 1926, p. 118
Nadie podrá negar el éxito de la Época Moderna en este sentido. A lo largo de los últimos dos siglos en la psicología humana se ha producido un cambio fundamental. De entrada a la naturaleza masculina le son antipáticas las categorías existenciales tales como “la propiedad” y el tiempo en el sentido de “duración”. El carácter centrípeto, explosivo del falicismo exige instantes y “segundos” que están fuera de la “duración”, que no se componen en “duración”. El destino ideal del hombre es avanzar hacia adelante, superar la pesadez terrenal, buscar y conquistar nuevos horizontes del ser, despreciando su vida, si por vida se entiende la existencia homogénea, rutinaria, prolongada en el tiempo. Los valores masculinos son el desinterés, la bondad, el honor, la interpretación celestial de la belleza. Desde este punto de vista, “Lord Jim” de Joseph Conrad es casi la última novela europea sobre un “hombre de verdad”. Jim, simple marinero, ofendido en su honor, no lo puede perdonar, ni superar. Por eso el autor le concedió el título, porque el honor es el privilegio y el valor de la nobleza. El justo y el caballero errante son los auténticos hombres.
Podrán replicar: si todos se ponen a hacer de Quijote o a hablar con los pájaros ¿en qué se convertirá la sociedad humana? Es difícil contestar a esta pregunta, pero es fácil observar en qué se convertiría dicha sociedad sin San Francisco y sin Don Quijote. Don Quijote es mucho más necesario para la sociedad que una docena de consorcios automovilísticos.
La civilización burguesa es medio civilización, es un sinsentido. Para crear la civilización hacen falta los esfuerzos conjuntos de los cuatro estamentos.
Decimos: centralización, centrípeto. Sin embargo no es nada fácil definir el concepto “centro”. El centro puede ser estático o errante, manifestado o no, se puede amarlo u odiarlo, se puede saber de él, o sospechar, o presentirlo con la sutilísima y engañosa antena de la intuición. Es posible haber vivido la vida sin tener ni idea acerca del centro de la existencia propia. Se trata del paradójico e inmóvil móvil de Aristóteles. En el centro coinciden las fuerzas centrífugas y las centrípetas. Cuando una de ellas apaga a la otra el sistema o explota o se detiene en una muerte gélida. Es evidente: lo incognoscible del centro garantiza su centralidad, porque el centro percibido y explicado siempre se arriesga a trasladarse hacia la periferia. De ahí la conclusión: el centro permanente no se puede conocer, hay que creer en él. Por eso Dios, honor, bien, belleza son centros permanentes. Es la condición principal de la actividad masculina dirigida, radial.
En los dos primeros estamentos – el sacerdotal y el de la nobleza – la actividad masculina, entendida de esta forma, domina sobre la femenina. Y únicamente con la posición normal, es decir alta, de estos estamentos se crea la civilización, en todo caso la civilización patriarcal. El burgués reconoce los valores ideales nominalmente, pero prefiere las virtudes más prácticas: el honor se sustituye por la honradez, la justicia por la decencia, el valor por el riesgo razonable. En el burgués la energía centrífuga está sometida a la centrípeta, pero el centro no se encuentra dentro de la esfera de su individualidad, el centro hay que afirmarlo en algún lugar del mundo exterior para convertirse en su satélite. La tendencia de “entregar y apartar” en este caso es posible como una maniobra táctica de la tendencia de “quitar, conservar, adquirir, aumentar”.
Después de la revolución burguesa francesa y la fundación de los estados unidos norteamericanos vino el derrumbe definitivo de la civilización patriarcal. La rebelión de La Vendée, seguramente, fue la última llamarada del fuego sagrado. En el siglo XIX el principio masculino se desperdigó por el mundo orientado hacia lo material, haciéndose notar en el dandismo, en las corrientes artísticas, en el pensamiento filosófico independiente, en las aventuras de los exploradores de los países desconocidos. Pero sus representantes, naturalmente, no podían detener el progreso positivista. La sociedad expresaba la admiración por sus libros, cuadros y hazañas, pero los veía con bastante suspicacia. Marx y Freud contribuyeron bastante al triunfo de la ginecocracia materialista. El primero proclamó la tendencia al bienestar económico como la principal fuerza motriz de la historia, mientras que el segundo expresó la duda global acerca de la salud psíquica de aquellas personas, cuyos intereses espirituales no sirven al “bien común”. Los portadores del auténtico principio masculino paulatinamente se convirtieron en los “hombres sobrantes” al estilo de algunos protagonistas de la literatura rusa. “Wozu ein Dichter?” (¿Para qué el poeta?) – preguntaba Hölderlin con ironía todavía a principios del siglo XIX. Ciertamente ¿para qué hacen falta en una sociedad pragmática los soñadores, los inventores de espejismos, de las doctrinas peligrosas y demás maestros de la presencia inquietante? Gotfied Benn reflejó la situación con exactitud en su maravilloso ensayo “Palas Atenea”:
“… representantes de un sexo que se está muriendo, útiles tan solo en su calidad de copartícipes en la apertura de las puertas del nacimiento… Ellos intentan conquistar la autonomía con sus sistemas, sus ilusiones negativas o contradictorias – todos estos lamas, budas, reyes divinos, santos y salvadores, quienes en realidad nunca han salvado a nadie, ni a nada – todos estos hombres trágicos, solitarios, ajenos a lo material, sordos ante la secreta llamada de la madre-tierra, lúgubres caminantes… En los estados de alta organización social, en los estados de duras alas, donde todo acaba en la normalidad con el apareamiento, los odian y toleran tan solo hasta que llegue el momento”.
Los estados de los insectos, sociedades de abejas y termitas están perfectamente organizados para los seres que “solo viven una vez”. La civilización occidental muy exitosamente se dirige hacia semejante orden ideal y en este sentido representa un episodio bastante raro en la historia. Es difícil encontrar en el pasado abarcable una formación humana, afianzada sobre las bases del ateísmo y una construcción estrictamente material del universo. Aquí no importa qué es lo que se coloca exactamente como la piedra angular: el materialismo vulgar o el materialismo dialéctico o los procesos microfísicos paradójicos. Cuando la religión se reduce al moralismo, cuando la alegría del ser se reduce a una decena de primitivos “placeres”, por los que además hay que pagar ni se sabe cuánto, cuando la muerte física aparece como “el final del todo” ¿acaso se puede hablar del impulso irracional y de la sublimación? Por eso en los años veinte Max Scheler ha desarrollado su conocida tesis sobre la “resublimación” como una de las principales tendencias del siglo. Según Scheler la joven generación ya no desea, a la manera de sus padres y abuelos, gastar las fuerzas en las improductivas búsquedas del absoluto: continuas especulaciones intelectuales exigen demasiada energía vital, que es mucho más práctico utilizar para la mejora de las condiciones concretas corporales, financieras y demás. Los hombres actuales ansían la ingenuidad, despreocupación, deporte, desean prolongar la juventud. El famoso filósofo Scheler, al parecer, saludaba semejante tendencia. ¡Si viera en lo que se ha convertido ahora este joven y empeñado en rejuvenecerse rebaño y de paso contemplara en lo que se ha convertido el deporte y otros entretenimientos saludables!
Y además.
¿Acaso la sublimación se reduce a las especulaciones intelectuales? ¿Acaso el impulso hacia adelante y hacia lo alto se reduce a los saltos de longitud y de altitud? La sublimación no se realiza en los minutos del buen estado de humor y no se acaba con la flojera. Tampoco es el éxtasis. Es un trabajo permanente y dinámico del alma para ampliar la percepción y transformar el cuerpo, es el conocimiento del mundo y de los mundos, atormentado aprendizaje del alpinismo celestial. Y además se trata de un proceso natural.
Si un hombre tiene miedo, rehúye o ni siquiera reconoce la llamada de la sublimación, es que, propiamente, no puede llamarse hombre, es decir un ser con un sistema irracional de valores marcadamente pronunciado. Incluso con la barba canosa o los bíceps imponentes seguirá siendo un niño, que depende totalmente de los caprichos de la “gran madre”. Obligando el espíritu a resolver los problemas pragmáticos, agotando el alma con la vanidad y la lascivia, siempre se arrastrará hasta sus rodillas buscando la consolación, los ánimos y el cariño.
Pero la “gran madre” no es en absoluto la amorosa Eva patriarcal, carne de la carne del hombre, es la siniestra creación de la eterna oscuridad, pariente próxima del caos primordial, no creado: bajo el nombre de Afrodita Pandemos envenena la sangre masculina con la pesadilla sexual, con el nombre de Cibeles le amenaza con la castración, la locura y le arrastra al suicidio. Algunos se preguntarán ¿qué relación tiene toda esta mitología con el conocimiento racional y ateísta? La más directa. El ateísmo no es más que una forma de teología negativa, asimilada de manera poco crítica o incluso inconsciente. El ateo cree ingenuamente en el poder total de la razón como instrumento fálico, capaz de penetrar hasta donde se quiera en las profundidades de la “madre-naturaleza”. Sucesivamente admirando la “sorprendente armonía que reina en la naturaleza” e indignándose ante las “fuerzas elementales, ciegas de la naturaleza” es como un niño mimado que quiere recibir de ella todo sin dar nada a cambio. Aunque últimamente, asustado ante las catástrofes ecológicas y la perspectiva de ser trasladado en un futuro próximo a las hospitalarias superficies de otros planetas, apela a la compasión y el humanismo.
Pero el “sol de la razón” no es más que el fuego fatuo del pantano y el instrumento fálico no es más que un juguete en las depredadoras manos de la “gran madre”. No se debe acercar al principio femenino que crea y que también mata con la misma intensidad. “Dama Natura” exige mantener la distancia y la veneración. Lo entendían bien nuestros patriarcales antepasados, teniendo cuidado de no inventar el automóvil, ni la bomba atómica, que ponían en los caminos la imagen del dios Término y escribían en las columnas de Hércules “non plus ultra”.
El espíritu se despierta en el hombre bruscamente y este proceso es duro, – esta es la tesis principal de Erich Neumann, un original seguidor de Jung, en su “Historia de la aparición de la conciencia”. El mundo orientado ginecocráticamente odia estas manifestaciones y procura acabar con ellas utilizando diferentes métodos. Lo que en la época moderna se entiende por “espiritualidad”, destaca por sus características específicamente femeninas: hacen falta memoria, erudición, conocimientos serios, profundos, un estudio pormenorizado del material – en una palabra, todo lo que se puede conseguir en las bibliotecas, archivos, museos, donde, cual si fuera el baúl de la vieja, se guardan todas las bagatelas. Si alguien se rebela contra semejante espiritualidad, siempre podrán acusarlo de ligereza, superficialidad, diletantismo, aventurerismo – características esencialmente masculinas. De aquí los degradantes compromisos y el miedo del individuo ante las leyes ginecocráticas del mundo exterior, que la psicología profunda en general y Erich Neumann en particular denominan el “miedo ante la castración”. “Tendencia a resistir, – escribe Erich Neumann, – el miedo ante la “gran madre”, miedo ante la castración son los primeros síntomas del rumbo centrípeto tomado y de la autoformación”. Y continúa:
“La superación del miedo ante la castración es el primer éxito en la superación del dominio de la materia”.
Erich Neumann. Urspruggeschichte des Bewusstseins, Munchen, 1975, p. 83
Ahora, en la era de la ginecocracia, semejante concepción constituye en verdad un acto heroico. Pero el “auténtico hombre” no tiene otro camino. Leamos unas líneas de Gotfried Benn del ya citado ensayo:
“De los procesos históricos y materiales sin sentido surge la nueva realidad, creada por la exigencia del paradigma eidético, segunda realidad, elaborada por la acción de la decisión intelectual. No existe el camino de retorno. Rezos a Ishtar, retournons a la grand mere, invocaciones al reino de la madre, entronización de Gretchen sobre Nietzsche – todo es inútil: no volveremos al estado natural”.
¿Es así?
Por un lado: conocimiento dulce, embriagador: sus vibraciones, movimientos gráciles, zonas erógenas… paraíso sexual.
Por el otro:
“Atenas, nacida de la sien de Zeus, de ojos azules, resplandeciente armadura, diosa nacida sin madre. Palas – la alegría del combate y la destrucción, cabeza de Medusa en su escudo, sobre su cabeza el lúgubre pájaro nocturno; retrocede un poco y de golpe levanta la gigantesca piedra que servía de linde – contra Marte, quien está del lado de Troya, de Helena… Palas, siempre con su casco, no fecundada, diosa sin hijos, fría y solitaria”.
1 de enero de 1999.
* Evgueni Golovín (1938-2010) fue un genio inclasificable. Situado completamente fuera del mundo actual, cuya legitimidad rechazaba de plano. “Quien camina contra el día no debe temer a la noche” – era su lema vital. Profundo conocedor de alquimia y de tradición hermética europea, también era especialista en los “autores malditos” franceses, románticos y expresionistas alemanes, traductor de libros de escritores europeos cuya obra está catalogada como “de la presencia inquietante”. Su identificación con el mundo pagano griego llegó al punto de que algunos que le conocieron íntimamente llegaron a definirlo como “Divinidad” (para empezar por el principio, Golovín aprendió el griego a los 16 años y comenzó con la lectura de Homero). En los años 60 del siglo pasado se convirtió en la figura más carismática de la llamada “clandestinidad mística moscovita”, conocido como “Almirante” (de la flotilla hermética, formada por los “místicos”). Fue el primero en la URSS en difundir la obra de autores tradicionalistas como Guénon y Évola. Ya en los años 90 y 2000 redactó la revista Splendor Solis, publicó varios libros y una recopilación de sus poemas. Veía con recelo las doctrinas orientales que consideraba poco adecuadas para el hombre europeo. Y, sobre todo, nunca buscó el centro de gravedad del ser en el mundo exterior. En su “navegación” sin fin siempre se mantuvo firmemente anclado a su interiore terra. El encuentro con Evgueni Golovín, en distintas etapas de sus vidas, fue decisivo para la formación de futuras figuras clave en la vida intelectual rusa como Geidar Dzhemal o
Alexandr Duguin
24/08/2012
Fuente: Poistine.com
(Traducido del ruso por Arturo Marián Llanos)
00:05 Publié dans Littérature, Traditions | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : evgueni golovin, russie, littérature, littérature russe, lettres, lettres russes, traditions, gynécocratie | | del.icio.us | | Digg | Facebook
dimanche, 13 octobre 2013
Living in Accordance with Our Tradition
Living in Accordance with Our Tradition
By Dominique Venner
Ex: http://www.counter-currents.com
Every great people own a primordial tradition that is different from all the others. It is the past and the future, the world of the depths, the bedrock that supports, the source from which one may draw as one sees fit. It is the stable axis at the center of the turning wheel of change. As Hannah Arendt put it, it is the “authority that chooses and names, transmits and conserves, indicates where the treasures are to be found and what their value is.”
This dynamic conception of tradition is different from the Guénonian notion of a single, universal and hermetic tradition, which is supposedly common to all peoples and all times, and which originates in a revelation from an unidentified “beyond.” That such an idea is decidedly a-historical has not bothered its theoreticians. In their view, the world and history, for three or for thousand years, is no more than a regression, a fatal involution, the negation of of the world of what they call “tradition,” that of a golden age inspired by the Vedic and Hesiodic cosmologies. One must admit that the anti-materialism of this school is stimulating. On the other hand, its syncretism is ambiguous, to the point of leading some of its adepts, and not the least of them, to convert to Islam. Moreover, its critique of modernity has only lead to an admission of impotence. Unable to go beyond an often legitimate critique and propose an alternative way of life, the traditionalist school has taken refuge in an eschatological waiting for catastrophe.[1]
That which is thinking of a high standard in Guénon or Evola, sometimes turns into sterile rhetoric among their disciples.[2] Whatever reservations we may have with regard to the Evola’s claims, we will always be indebted to him for having forcefully shown, in his work, that beyond all specific religious references, there is a spiritual path of tradition that is opposed to the materialism of which the Enlightenment was an expression. Evola was not only a creative thinker, he also proved, in his own life, the heroic values that he had developed in his work.
In order to avoid all confusion with the ordinary meaning of the old traditionalisms, however respectable they might be, we suggest a neologism, that of “traditionism.”
For Europeans, as for other peoples, the authentic tradition can only be their own. That is the tradition that opposes nihilism through the return to the sources specific to the European ancestral soul. Contrary to materialism, tradition does not explain the higher through the lower, ethics through heredity, politics through interests, love through sexuality. However, heredity has its part in ethics and culture, interest has its part in politics, and sexuality has its part in love. However, tradition orders them in a hierarchy. It constructs personal and collective existence from above to below. As in the allegory in Plato’s Timaeus, the sovereign spirit, relying on the courage of the heart, commands the appetites. But that does not mean that the spirit and the body can be separated. In the same way, authentic love is at once a communion of souls and a carnal harmony.
Tradition is not an idea. It is a way of being and of living, in accordance with the Timaeus’ precept that “the goal of human life is to establish order and harmony in one’s body and one’s soul, in the image of the order of the cosmos.” Which means that life is a path towards this goal.
In the future, the desire to live in accordance with our tradition will be felt more and more strongly, as the chaos of nihilism is exacerbated. In order to find itself again, the European soul, so often straining towards conquests and the infinite, is destined to return to itself through an effort of introspection and knowledge. Its Greek and Apollonian side, which are so rich, offers a model of wisdom in finitude, the lack of which will become more and more painful. But this pain is necessary. One must pass through the night to reach the dawn.
For Europeans, living according to their tradition first of all presupposes an awakening of consciousness, a thirst for true spirituality, practiced through personal reflection while in contact with a superior thought. One’s level of education does not constitute a barrier. “The learning of many things,” said Heraclitus, “does not teach understanding”. And he added: “To all men is granted the ability to know themselves and to think rightly.” One must also practice meditation, but austerity is not necessary. Xenophanes of Colophon even provided the following pleasant instructions: “One should hold such converse by the fire-side in the winter season, lying on a soft couch, well-fed, drinking sweet wine, nibbling peas: “‘Who are you among men, and where from?” Epicurius, who was more demanding, recommended two exercises: keeping a journal and imposing upon oneself a daily examination of conscience. That was what the stoics practiced. With the Meditations of Marcus Aurelius, they handed down to us the model for all spirtual exercises.
Taking notes, reading, re-reading, learning, repeating daily a few aphorisms from an author associated with the tradition, that is what provides one with a point of support. Homer or Aristotle, Marcus Aurelius or Epictetus, Montaigne or Nietzsche, Evola or Jünger, poets who elevate and memorialists who incite to distance. The only rule is to choose that which elevates, while enjoying one’s reading.
To live in accordance with tradition is to conform to the ideal that it embodies, to cultivate excellence in relation to one’s nature, to find one’s roots again, to transmit the heritage, to stand united with one’s own kind. It also means driving out nihilism from oneself, even if one must pretend to pay tribute to a society that remains subjugated by nihilism through the bonds of desire. This implies a certain frugality, imposing limits upon oneself in order to liberate oneself from the chains of consumerism. It also means finding one’s way back to the poetic perception of the sacred in nature, in love, in family, in pleasure and in action. To live in accordance with tradition also means giving a form to one’s existence, by being one’s own demanding judge, one’s gaze turned towards the awakened beauty of one’s heart, rather than towards the ugliness of a decomposing world.
Notes
1. Generally speaking, the pessimism intrinsic to counter-revolutionary thought – from which Evola distinguishes himself – comes from a fixation with form (political and social institutions), to the detriment of the essence of things (which persist behind change).
2. The academic Marco Tarchi, who has for a long time been interested in Evola, has criticized in him a sterile discourse peopled by dreams of “warriors” and “aristocrats” (cf. the journal Vouloir, Bruxelles, january-february 1991. This journal is edited by the philologist Robert Steuckers).
Excerpt from the book Histoire et traditions des Européens: 30,000 ans d’identité (Paris: Éditions du Rocher, 2002). (Read Michael O’Meara’s review here [2].)
Online source: http://eurocontinentalism.wordpress.com/2013/10/05/living-in-accordance-with-our-tradition-dominique-venner/ [3]
Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com
URL to article: http://www.counter-currents.com/2013/10/living-in-accordance-with-our-tradition/
00:05 Publié dans Nouvelle Droite, Traditions | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : dominique venner, nouvelle droite, traditions, traditionalisme | | del.icio.us | | Digg | Facebook
mercredi, 09 octobre 2013
Redécouvrez les contes de Grimm
Redécouvrez les contes de Grimm
Ex: http://aucoeurdunationalisme.blogspot.com
Le 1er fils de Philipp Wilhelm Grimm et Dorothea Zimmer étant mort en bas âge, Jacob et Wilhelm Grimm furent les aînés des 8 enfants de la fratrie subsistante. La famille remonte à un Johannes Grimm, qui fut maître de poste à Hanau vers 1650. C'est dans cette ville que Jacob naît le 4 janvier 1785, 13 mois avant Wilhelm. On est alors à la frontière de 2 mondes. En France, les signes avant-coureurs de la Révolution se multiplient. Le Times est fondé à Londres. En Prusse, fonctionne la 1ère machine à vapeur ; le Grand Frédéric règne à Sanssouci.
Juriste de son état, le père Grimm est nommé fonctionnaire à Steinau en 1791. La famille déménage avec lui pour s'installer dans la Hesse, région située à la frontière de la plaine du Nord et du fossé rhénan, qui fut occupée dès le VIIIe siècle par les Francs. Cinq ans plus tard, Philipp Wilhelm Grimm disparaît ; sa femme ne lui survivra que quelques années (le fils aîné se retrouvera chef de famille à 23 ans). Jacob et Wilhelm sont envoyés chez leur tante, à Kassel, où ils fréquentent le célèbre Lyceum Friedricianum.
Au printemps de 1802, Jacob Grimm s'inscrit à l'université de Marburg pour y faire des études de droit. Agé de 17 ans, c'est alors un adolescent grave, mélancolique, au caractère réservé, qui passe déjà pour un travailleur opiniâtre. À Marburg, il se lie rapidement avec le juriste Friedrich Carl von Savigny, le fondateur de l'école du droit historique, et cette relation va exercer sur lui une empreinte déterminante. En 1803, tandis que Savigny lui fait connaître la littérature médiévale, il entre aussi en contact avec Clemens Brentano et lit avec enthousiasme les Minnelieder aus dem schwäbischen Zeitalter de Ludwig Tieck.
En 1805, c'est l'expérience décisive. De février à septembre, Jacob Grimm accompagne Savigny à Paris - ville qu'il trouve bruyante et fort sale ! Par contre, à la Bibliothèque impériale, il découvre toute une série de manuscrits littéraires allemands du Moyen Age qui lui emplissent le cœur d'une singulière exaltation. À dater de ce jour, sa vocation est faite : il se consacrera à l'étude des monuments culturels du passé national. Tout l'y pousse, et d'abord la triste situation dans laquelle se trouve son pays.
La Prusse, en effet, depuis la défaite de Valmy (1792), connaît des jours sombres. En 1805, Jacob Grimm s'afflige de voir "l’Allemagne enserrée en des liens indignes, le pays natal bouleversé et son nom même anéanti". L'année suivante, ce sera la catastrophe. Inquiet de la formation de la Confédération du Rhin, Frédéric-Guillaume III s'allie à la Russie. Las ! En quelques mois, la coalition s'effondre. Après les défaites d'Iéna et d'Auerstedt, les troupes napoléoniennes occupent Berlin. En 1807, au traité de Tilsit, la Prusse, dépossédée de la moitié de son territoire, se voit en outre condamnée à payer des indemnités de guerre considérables. Brême, en 18l0, deviendra sous l'occupation française le chef-lieu du département des Bouches-du-Weser ! L'identité allemande, dès lors, est menacée.
Aussi bien, pour J. Grimm, l'étude de la littérature nationale n'est-elle pas qu’une simple démarche universitaire. C'est un acte de foi politique, qui participe d'une véritable réforme intellectuelle et morale. Celle-ci trouve son point d'appui dans la 1ère réaction romantique, centrée autour de l'école de Heidelberg qui, avec Arnim et Brentano, s'emploie notamment à définir les éléments constitutifs de la nationalité. "Ces écrivains, souligne Jacques Droz, ont admis qu'il ne pouvait pas y avoir de réveil du peuple si celui-ci ne prenait pas conscience qu'il recelait en son sein, s’il ne substituait pas à une culture réservée à une élite une culture véritablement populaire, si l’individu ne cherchait pas à se rattacher spirituellement à la nation tout entière" (Le romantisme politique en Allemagne, 1963, p. 23).
À l'heure de l’éveil des nationalités, l'entreprise des frères Grimm vise donc à faire prendre conscience aux Allemands de la richesse du patrimoine culturel qui leur est commun et à leur montrer que ce patrimoine, qui représente "l’âme germanique" dans son essence, en même temps que la "conscience nationale courbée sous l'occupation", peut servir aussi de base à leur unité politique.
Dans ses Souvenirs, Grimm raconte dans quel esprit il entreprit à Paris ces études auxquelles il allait consacrer toute sa vie : "Je remarquai d’abord que presque tous mes efforts ou bien étaient consacrés à l’étude de notre langue ancienne, de notre poésie ancienne, de notre droit ancien, ou bien s’y rapportaient directement. Certains peuvent avoir considéré ou considèrent encore que ces études sont sans aucun profit ; pour moi, elles me sont apparues de tout temps comme une tâche noble, sérieuse, qui se rapporte de façon précise et forte à notre patrie commune et fortifie l’amour qu’on lui porte" (Kleinere Schriften, Berlin, 1864, vol. I, p. 64).
C’est dans la même intention qu'Achim von Arnim et C. Brentano collectent les vieilles poésies populaires. En septembre 1806, Arnim écrit à Brentano : "Celui qui oublie la détresse de la patrie sera oublié de Dieu en sa détresse". Quelques jours plus tard, à la veille de la bataille d'Iéna, il distribue aux soldats de Blücher des chants guerriers de sa composition. Parallèlement, il jette les bases de la théorie de l'État populaire (Volksstaat). Systématiquement, le groupe de Heidelberg s'emploie ainsi à mettre au jour les relations qui existent entre la culture populaire et les traditions historiques. Influencé par Schelling, Carl von Savigny oppose sa conception historique du droit aux tenants du jusnaturalisme [droit naturel]. Il affirme qu'aucune institution ne peut être imposée du dehors à une nation et que le droit civil est avant tout le produit d’une tradition spécifique mise en forme par la conscience populaire au cours de l'histoire. Le droit, dit-il, est comme la langue : "Il grandit avec le peuple, se développe et meurt avec lui lorsque celui-ci vient à perdre ses particularités profondes" (De la vocation de notre temps pour la législation et la science du droit).
Avec les romantiques, J. Grimm proteste lui aussi contre le rationalisme des Lumières. Il exalte le peuple contre la culture des "élites". Il célèbre l'excellence des institutions du passé. Revenu à Kassel, où Jérôme Bonaparte, roi de Westphalie, s’installe en 1807 au Château de Wilhelmshöhe (construit au pied d'une colline dominant la ville par le prince-électeur Guillaume Ier), il occupe avec son frère diverses fonctions dans l'administration et à la bibliothèque. À partir de 1808, ils collaborent tous 2 à la Zeitung für Einsiedler, où l'on retrouve les signatures de Brentano, Arnim, Josef Görres, etc. En 1813, ils lanceront leur propre publication, les Altdeutsche Wälder.
Le 1er livre de J. Grimm, Über den altdeutschen Meistergesang, paraît à Göttingen en 1811. Contestant les rapports établis habituellement entre la poésie raffinée du Moyen Age (Meistergesang) et le chant populaire (Minnegesang), l’auteur y défend l'idée que la "poésie naturelle" (Naturpoesie) est absolument supérieure à la "poésie artistique" (Kunstpoesie), tout comme la source jaillissante de l'âme populaire est supérieure aux œuvres des élites cultivées. La "poésie naturelle", disait déjà Herder, fait comprendre le sens de l'univers ; elle maintient vivant le lien entre l'homme et la nature. Étant l'expression même des croyances instinctives et des sentiments du peuple, elle apparaît dès que les hommes font advenir en eux à la présence ce qui les apparente au monde. La Kunstpoesie, au contraire, si belle qu'elle puisse être, est inévitablement affectée d’individualisme et d'artificialité. Au-delà de ses qualités mêmes, elle traduit une coupure "intellectuelle" qui est un germe de déclin (on retrouve ici l'idée que le raffinement équivaut déjà à une perte de puissance, à un début d'épuisement).
Contrairement à Görres, J. Grimm va jusqu'à éliminer toute activité particulière ou individuelle dans la production poétique populaire ! Celle-ci, selon lui, se manifestespontanément, de façon divine au sens propre. La vérité légendaire ou mythique, d'essence divine elle aussi, s'oppose de la même façon à la vérité historique humaine. De façon plus générale, tout ce qui se perd dans la nuit des temps, tout ce qui relève de l'ancestralité originelle, est divin. Résumant ses idées sur ce point, J. Grimm déclare vouloir montrer qu'"une grande poésie épique a vécu et régné sur toute la surface de la terre, puis a peu à peu été oubliée et abandonnée par les hommes, ou plutôt, car elle n'a pas été abandonnée tout à fait, comment les hommes s'y alimentent encore". Il ajoute : "De même que le paradis a été perdu, le jardin de l'ancienne poésie nous a été fermé". Et plus loin : "Je ne regarde pas le merveilleux comme une rêverie, une illusion, un mensonge, mais bien comme une vérité parfaitement divine ; si nous nous rapprochons de lui, il ne s'évanouit nullement à la façon d'un brouillard, mais prend toujours un caractère plus sacré et nous contraint à la prière. (...) C'est pourquoi l'épopée n'est pas simplement une histoire humaine, comme celle que nous écrivons maintenant, mais contient aussi une histoire divine, une mythologie". Cette thèse quelque peu extrême ne convainc pas Arnim, pas plus que Schlegel ou Görres, et moins encore Brentano. Des discussions passionnées s'ensuivent...
Dans les années qui suivent, les frères Grimm vont approfondir leur intuition en se penchant sur de grands textes littéraires. Ils travaillent d'abord sur la Chanson des Nibelungen, puis sur les chansons de geste, les vieux chants populaires écossais, les runes, l'Irminsul. Ils préparent aussi une nouvelle édition du Hildebrandslied et du Reinhard Fuchs, et s'attaquent à la traduction d'une partie de l'Edda. Wilhelm, de son côté, traduit les Altdänische Heldenlieder (Heidelberg, 1811), qu'il n'hésite pas à comparer aux poèmes homériques et qu'il oppose à la littérature des scaldes à la façon dont Jacob oppose Naturpoesie et Kunstpoesie. Les 2 frères, enfin, déploient une intense activité pour recueillir les contes populaires qui vont constituer la matière de leur ouvrage le plus fameux : les Contes de l’enfance et du foyer.
Le 1er volume de ces Contes (Kinder- und Hausmärchen) est publié à Noël 1812 par la Realschulbuchhandlung de Berlin. Les frères Grimm l'ont dédié à leur "chère Bettina", épouse d'Arnim et sœur de Brentano (la fille de Bettina épousera par la suite le fils de Wilhelm Grimm). Le volume suivant paraîtra en 1815. Un 3ème volume, contenant les variantes et les commentaires, sortira en 1822 à l’instigation du seul Wilhelm Grimm. Dès sa parution, l'ouvrage connaît le plus vif succès. Goethe le recommande à Mme de Stein comme un livre propre à "rendre les enfants heureux". Schlegel, Savigny, Arnim s'en déclarent enchantés. Seul C. Brentano reste réservé.
C'est en 1806, dès le retour de Jacob de Paris, que les 2 frères Grimm ont commencé leur collecte. La région dans laquelle ils vivent s'avérait d'ailleurs particulièrement propice à la réalisation de leur projet. Sur les chemins de la Hesse et de la Weser, dans le pays de Frau Holle, les "fées" semblent avoir de tout temps trouvé refuge. Entre Hanau et Brême, Steinau et Fritzlar, Munden et Alsfeld, les légendes se sont cristallisées autour des forêts et des villages, des collines et des vallées. Aujourd'hui encore, dans les bois environnants, près des vieilles maisons à colombage, aux toits de tuile rouge et aux murs recouverts d'écailles de sapins, la trace des frères Grimm est partout (1).
La plupart des contes réunis par Jacob et Wilhelm Grimm ont été recueillis auprès de gens du peuple : paysans, artisans, servantes. Deux femmes ont à cet égard joué un rôle essentiel. Il s'agit d'abord d'une paysanne de Niederzwehrn, près de Kassel, à laquelle Wilhelm Grimm donne le nom de "Frau Viehmännin" et dont le nom exact était Dorothea Viehmann (2). L'autre femme était Marie Hassenpflug (1788-1856), épouse d'un haut fonctionnaire hessois installé à Kassel ; on estime que les frères Grimm recueillirent une cinquantaine de contes par son intermédiaire. Ces 2 femmes étaient d'origine huguenote. Par sa mère, Marie Hassenpflug descendait d'une famille protestante originaire du Dauphiné. En 1685, la révocation de l'édit de Nantes conduisit en effet quelque 4 000 huguenots français à s'installer en Hesse, dont 2 000 dans la ville de Kassel.
Cette ascendance huguenote des 2 principales "informatrices" des frères Grimm a conduit quelques auteurs modernes à gloser de façon insistante sur les "emprunts français" (Heinz Rölleke) auxquels les 2 frères auraient eu recours. Certains en ont conclu à "l'inauthenticité" des contes de Grimm, qui trouveraient leur véritable origine dans les récits littéraires de Charles Perrault ou de Marie-Catherine d'Aulnoy, beaucoup plus que dans l’authentique "tradition populaire" allemande. Cette thèse, poussée à l’extrême par l'Américain John M. Ellis (One Fairy Story, Too Many. The Brothers Grimm and Their Tales, Univ. of Chicago Press, 1983) qui va jusqu'à parler de "falsification" délibérée, est en fait inacceptable. Il suffit de lire lesContes de Grimm pour s'assurer que l'immense majorité de ceux-ci ne se retrouvent ni chez Perrault ni chez Mme d'Aulnoy. Les rares contes présents chez l'un et chez l'autre auteur (Hänsel et Gretel et le petit Poucet, Aschenputtel et Cendrillon, Dornröschen et la Belle au bois dormant, etc.) ne constituent d'ailleurs pas la preuve d'un "emprunt". Perrault ayant lui-même largement puisé dans le fonds populaire, il y a tout lieu de penser que les frères Grimm ont simplement recueilli une version parallèle d'un thème européen commun. Le fait, enfin, que certains contes de Grimm aient été directement recueillis en dialecte hessois ou bas-allemand et que, de surcroît, la majeure partie d'entre eux renvoient de toute évidence à un héritage religieux germanique, montre que les accusations de John M. Ellis sont parfaitement dénuées de fondement.
En fait, pour les frères Grimm, le conte populaire fait partie de plein droit de laNationalpoesie. Au même titre que le mythe, l'épopée, le Volkslied (chant populaire), il est une "révélation de Dieu" surgie spontanément dans l'âme humaine. Évoquant les contes, dont il dit que "leur existence seule suffit à les défendre", Wilhelm Grimm écrit : "Une chose qui a, d'une façon si diverse et toujours renouvelée, charmé, instruit, ému les hommes, porte en soi sa raison d’être nécessaire et vient nécessairement de cette source éternelle où baigne toute vie. Ce n'est peut-être qu'une petite goutte de rosée retenue au creux d'une feuille, mais cette goutte étincelle des feux de la première aurore".
En retranscrivant les contes populaires qu'ils entendent autour d'eux, les 2 frères restent donc rigoureusement fidèles à leur démarche originelle. Leur but est toujours de faire éclore à la conscience allemande les sources de son identité, de redonner vie à l'esprit populaire à l'œuvre dans ces récits que le monde rural s'est retransmis au fil des siècles. Leur démarche est par-là foncièrement différente de celle des auteurs français. Tandis que l'œuvre de ces derniers s'inscrit dans un contexte littéraire et "mondain", la leur entend plonger aux sources mêmes de "l'âme nationale". Elle est un geste de piété en même temps qu'un acte radicalement politique. Certes Jacob et Wilhelm Grimm ont le souci de remettre en forme les contes qu'ils recueillent mais c'est avant tout le respect qui commande leur approche. Mus par un parti pris de fidélité, ils ne s'intéressent ni aux formes littéraires ni au "moralités" qui enchantaient Perrault. Ils ne visent pas tant à amuser les enfants ou à distraire la cour d'un prince ou d'un roi qu'à recueillir à la source, de la façon la plus minutieuse qui soit, les traces encore existantes du patrimoine auquel ils entendent se rattacher. Bref, comme l'écrit Lilyane Mourey, ils entendent travailler "au nom de la patrie allemande" (3). Tonnelat, de même, insiste sur "les rapports qu'ils croyaient apercevoir entre le conte et l'ancienne légende épique des peuples germaniques. Rapports si étroits qu'on ne peut plus, lorsqu'on va au fond des choses, distinguer l'un de l'autre. Le conte n'est qu'une sorte de transcription des grands thèmes épiques en un monde familier tout proche de la simple vie du peuple" (Les frères Grimm. Leur oeuvre de jeunesse, A. Colin, 1912, pp. 214-215).
L'étude des contes populaires (Märchenforschung), dont J. et W. Grimm ont ainsi été les précurseurs, a donné lieu depuis plus d'un siècle à des travaux aussi érudits que nombreux. La matière, par ailleurs, n'a cessé d’être plus étroitement cernée. En 1910, le folkloriste finlandais Antti Aarne a publié une classification des contes par thèmes et par sujets (The Types of the Folktale, Suomaleinen Tiedeakatemia, Helsinki, 1961) qui, affinée par Stith Thompson (The Folk Tale, Dryden Press, New York, 1946 ; Motif Index of Folk Litterature, 6 vol., Indiana Univ. Press, Bloomington, 1955), est aujourd'hui universellement utilisée. Elle ne rassemble pas moins de 40 000 motifs principaux. Pour le seul domaine d'expression française, on a dénombré plus de 10 000 contes différents (cf. Paul Delarue, Le conte populaire français. Catalogue raisonné des versions de France et des pays de langue française d'outre-mer, Maisonneuve et Larose, 1976), dont un grand nombre trouvent leur origine dans la matière de Bretagne.
S’il est admis que le conte tel que nous le connaissons apparaît aux alentours du Xe siècle, époque à laquelle il semble prendre le relais du récit héroïque ou épique, se comprend mieux alors que l'étude des filiations, des modes de transmission et des variantes représente un énorme champ de travail. Pour Cendrillon, par ex., on n'a pas dénombré moins de 345 variantes ! Selon l'école finlandaise, la comparaison de ces variantes permet le plus souvent de reconstruire une forme primordiale" (à la façon dont la comparaison des langues européennes a permis aux philologues de "reconstruire" l'indo-européen commun), mais le bien-fondé de cette démarche est contesté par certains. Ainsi que l'avait pressenti J. Grimm, le problème de l'origine des contes renvoie en fait à celui de la formation de la pensée mythique. C'est dire qu'il est impossible de la situer avec précision. Diverses thèses ont néanmoins été avancées. Plusieurs auteurs (P. Saintyves, V.J. Propp, Sergius Golowin, A. Nitzschke) ont recherché cette origine dans de très anciens rituels. Plus généralement, la parenté des contes et des mythes religieux est admise par beaucoup mais les opinions diffèrent quant à savoir si les contes représentent des "résidus" des mythes ou, au contraire, s'ils les précédent. Tout récemment, le professeur August Nitzschke, de l’université de Stuttgart, a affirmé que l'origine de certains contes pourrait remonter jusqu'à la préhistoire de la période post-glaciaire. Après Paul Saintyves (Les contes de Perrault et les récits paralléles, Émile Nourry, 1923), d'autres chercheurs, not. C.W. voit Sydow et Justinus Kerner, ont essayé de démontrer l'existence, effectivement fort probable, d'un répertoire de base indo-européen.
Dans la préface au 2nd volume de leur recueil, les frères Grimm déclarent, eux aussi, qu'il y a de bonnes raisons de penser que de nombreux contes populaires renvoient à l'ancienne religion germanique et, au-delà de celle-ci, à la mythologie commune des peuples indo-européens. Le 3ème volume propose à cet égard divers rapprochements qui, par la suite, ont été constamment repris et développés. Le thème de Cendrillon (Aschenputtel), par ex., est visiblement apparenté à l'histoire de Gudrun. L'histoire des 2 frères (conte 60) évoque la légende de Sigurd. La Belle au bois dormant (Dornröschen), dont le thème se trouve dès le XIVe siècle dans lePerceforest, est de toute évidence une version populaire de la délivrance de Brünhilde par Siegfried au terme d'une quête "labyrinthique", etc. D'autres contes renvoient probablement à des événements historiques. Il en va ainsi de Gnaste et ses 3 fils (conte 138), qui conserve apparemment le souvenir de la christianisation forcée du peuple saxon et se termine par cette apostrophe : "Bienheureux celui qui peut se soustraire à l'eau bénite !"
N'a-t-on pas été jusqu'à voir dans l'histoire de Blanche-Neige (Schneewittchen) l'écho d'un vieux conflit entre le droit saxon et le droit romain, où les 7 nains auraient représenté les 7 anciennes provinces maritimes frisonnes ? Et dans l'exclusion de la 13ème fée dans la Belle au bois dormant un souvenir du passage, chez les anciens Germains, de l'année de 13 mois à celle de 12 (Philipp Stauff) ? Certaines de ces hypothèses sont aventurées. Mais derrière les "sages femmes" dont parlent les frères Grimm, il n'est pas difficile d'identifier d’anciennes "sorcières" (Hexe) persécutées (4), tout comme les 3 fileuses incarnent les 3 Nomes, divinités germaniques du destin (5).
Bien d'autres interprétations ont été avancées, qui font appel à l'ethnologie et à la psychologie aussi bien qu'à l'histoire des religions ou à l'anthropologie : analyses formelles (Vladimir Propp), approches historiques ou structuralistes, recours à l'inconscient collectif du type jungien (Marie-Louise von Franz), études symboliques (Claudio Mutti), aspects thérapeutiques de l'école de Zurich (Verena Kast), exploitations parodiques (Iring Fetscher), etc.
L'importance qu'ont les relations de parenté dans la plupart des contes populaires a aussi donné lieu, not. chez Bruno Bettelheim (Psychanalyse des contes de fées, Laffont, 1979) et Erich Fromm (Le langage oublié, Payot, 1980), à des interprétations psychanalytiques. Pour Bettelheim, les contes ont essentiellement pour but de permettre aux enfants de se libérer sans dommage de leurs craintes inconscientes : l’heureux dénouement du récit permet au moi de s'affirmer par rapport à la libido. En fait, comme le montre Pierre Péju (La petite fille dans la forêt des contes, Laffont, 1981), cette interprétation n'est acquise qu'au prix d'une réduction qui transforme le conte en "roman familial" par le biais de la "moulinette psychanalytique". Elle laisse "l'histoire" des contes entièrement de côté, avec tous ses arrière-plans mythiques et ses variantes les plus significatives. Bettelheim, finalement, ne s'intéresse pas aux contes en tant que tels ; il n'y voit qu'un mode opératoire à mettre au service d'une théorie préformée sur la personnalité psychique - ce qui ne l'a d'ailleurs pas empêché d'exercer une profonde influence(6).
Pour Bettelheim, le conte aide l'enfant à devenir adulte. Pour Jacob Grimm, il aiderait plutôt les adultes, en les remettant au contact de l'originel, à redevenir des enfants. Ce n'est en effet qu'à une date relativement récente que les contes ont constitué un genre littéraire "pour les enfants". Le recueil des frères Grimm évoque d'ailleurs dans son titre aussi bien l'enfance que le foyer : si les enfants entendent les contes dans le cercle de famille, ils n'en sont pas pour autant les destinataires privilégiés. Dans une lettre à L.J. Arnim, Jacob Grimm écrit : "Ce n'est pas du tout pour les enfants que j'ai écrit mes contes. Je n'y aurais pas travaillé avec autant de plaisir si je n'avais pas eu la conviction qu'ils puissent avoir de l'importance pour la poésie, la mythologie et l'histoire, aussi bien à mes yeux qu'à ceux de personnes plus âgées et plus sérieuses".
Produit d'un fond culturel retransmis par voie orale pendant des siècles, sinon des millénaires, le conte populaire est en fait, comme disent les linguistes, un modèle fort qui va bien au-delà du simple divertissement. Les lois du genre en font le véhicule et le témoin privilégié d'un certain nombre de types et de valeurs, grâce auxquels l'auditeur peut à la fois s'appréhender comme l’héritier d'une culture particulière et s'orienter par rapport à son environnement.
C'est par son caractère intemporel, anhistorique, que le conte s'apparente au mythe. Tandis que le récit biblique dit : in illo tempore, "en ce temps-là" (un temps précis), le conte affirme : "il était une fois", formule qui extrait la temporalité de tout contexte linéaire ou finalisé. Avec ces mots, le conte évoque un "jadis" qui équivaut à un "nulle part" aussi bien qu'à un "toujours".
"Comme toute utopie, écrit Marthe Robert, le conte nie systématiquement les données immédiates de l'expérience dont le temps et l'espace sont les 1ers fondements mais cette négation n'est pas son véritable but ; il ne s'en sert que pour affirmer un autre temps et un autre espace, dont il révèle, par toutes ses formules, qu'ils sont en réalité un ailleurs et un avant" (Un modèle romanesque : le conte de Grimm in Preuves, juillet 1966, 25). Dans le conte, l'état civil, l'histoire et la géographie sont abolis délibérément. Les situations découlent exclusivement de relations mettant en jeu des personnages-types : le roi, le héros, la fileuse, la marâtre, la fée, le lutin, l'artisan, etc., qui sont autant de figures familières, valables à tout moment. Plus encore que le passé, c'est l'immémorial, et par-là l'éternel, que le conte fait surgir dans le présent pour y faire jaillir la source d'un avenir rénové par l'imaginaire et par la nostalgie : témoignage fondateur, qui implique que "l'antérieur" ne soit jamais clairement situé. Le conte, en d'autres termes, ne se réfère au "passé" que pour inspirer "l'avenir". Il est une métaphore destinée à inspirer tout présent. L'apparente récréation ouvre la voie d'une re-création. Loin que son caractère "merveilleux" l’éloigne de la réalité, c'est par-là au contraire que le contenu du conte est rendu compatible avec toute réalité. Pour Novalis, les contes populaires reflètent la vision supérieure d'un "âge d'or" évanoui. Cet "âge d'or", du fait même qu'il se donne comme émanant d'un temps situé au-delà du temps, peut en réalité s'actualiser aussi à chaque instant. Lorsqu'ils évoquent l'enfance, Jacob et Wilhelm Grimm n'ont pas tant à l'esprit l'âge de leurs jeunes lecteurs que cette "enfance de l'humanité" vers laquelle ils se tournent pour en extraire la source d'un nouveau commencement qui, après des siècles d’histoire "artificielle", renouerait avec l’innocence de la création spontanée.
Le conte, par ailleurs, témoigne de la parenté de tout ce qui compose le monde. Il est par-là à l'opposé de tout le dualisme propre aux religions révélées. Les frères Grimm remarquent eux-mêmes que dans les contes populaires, la nature est toujours "animée". "Le soleil, la lune et les étoiles fréquentent les hommes, leur font des cadeaux, écrit Wilhelm Grimm. (...) Les oiseaux, les plantes, les pierres parlent, savent exprimer leur compassion ; le sang lui-même crie et parle, et c'est ainsi que cette poésie exerce déjà des droits que la poésie ultérieure ne cherche à mettre en œuvre que dans les métaphores". Dans la dimension mythique qui est propre au conte, toutes les frontières nées de la dissociation inaugurale s'effacent. Le héros comprend le langage des oiseaux les bêtes communiquent avec les humains : la nature porte présage. Toutes les dimensions de visible et d'invisible se confondent, comme au temps où les dieux et les hommes vivaient ensemble dans une présence amicale. Sorte d'épopée familière liée à la "poésie naturelle", le conte traduit ici un paganisme implicite, que les frères Grimm ne se soucient pas de cerner en tant que tel, mais qu'ils fondent, toutes croyances confondues, dans l'exaltation du Divin.
On comprend mieux, dès lors, que le conte populaire n'ait cessé, à l'époque moderne, de faire l'objet des critiques les plus vives. Au XVIIIe siècle, les pédagogues des Lumières y voyaient déjà un ramassis de superstitions détestables. Par la suite, les libéraux en ont dénoncé le caractère "irrationnel" aussi bien que la violence "subversive" tandis que les socialistes y voyaient des "histoires à dormir debout" propres à désamorcer les nécessaires révoltes, en détournant les enfants des travailleurs des réalités sociales. Plus récemment, les contes ont été considérés comme "traumatisants" ou ont été attaqués pour des raisons moralo-pédagogiques ridicules (7).
Si, au XIXe siècle, le conte devient progressivement un outil pédagogique bourgeois, coupé du milieu populaire, et dont le contenu est réorienté dans un sens moralisateur censé servir de "leçon" aux enfants, son rôle n'en reste pas moins profondément ambigu. Certains auteurs ont observé que la vogue des contes est d'autant plus grande que l'état social est perçu comme menacé. Le merveilleux, porteur d'un ailleurs absolu, joue alors un rôle de compensation, en même temps qu'il constitue une sorte de recours. Les auteurs marxistes ont beau jeu de dénoncer la montée de "l'irrationnel" dans les périodes de crise ; le conte, fondamentalement duplice, va en fait bien au-delà. Loin d’être purement régressive, la "nostalgie" peut être aussi la source d'un élan. Les frères Grimm, on l'a vu, en collectant la matière de leurs Contes, voulaient d'abord lutter contre l'état d'abaissement dans lequel se trouvait leur pays. La vogue actuelle du merveilleux, désormais relayée par le cinéma et la bande dessinée, est peut-être à situer dans une perspective voisine. Que l'on pense au succès, outre-Rhin, de L'Histoire sans finde Michael Ende...
Les contes, finalement, sont beaucoup plus utiles à l'humanité que les vitamines aux enfants ! Pièces maîtresses de cette "nourriture psychique" indispensable à l'imaginaire symbolique dans lequel se déploie l'âme des peuples, ils renaissent tout naturellement lorsque l'on a besoin d'eux. Par-là, ils révèlent toute la complexité de leur nature. Modèles profonds, sources d'inspiration, ils s'adressent à tout moment à des hommes "au cœur préparé". Car, comme le constate Mircea Eliade, si le conte, trop souvent, "constitue un amusement ou une évasion, c'est uniquement pour la conscience banalisée et notamment pour la conscience de l'homme moderne ; dans la psyché profonde, les scénarios initiatiques conservent toute leur gravité et continuent à transmettre leur message, à opérer des mutations" (Aspects du mythe, Gal., 1963).
En 1816-1818, Jacob et Wilhelm Grimm (qui travaillent tous 2 désormais à la bibliothèque de Kassel) publient les Deutsche Sagen. Ce recueil de légendes a été composé selon le même principe que les Contes de l'enfance et du foyer. Une fois de plus, la légende, assimilée à la "poésie naturelle", est opposée à l'histoire. Sur son exemplaire personnel, Wilhelm Grimm écrit ce vers d’Homère : "Je ne sais rien de plus doux que de reconnaître sa patrie" (Odyssée IX, 28). À cette date, la Prusse a précisément recouvré sa liberté. Le 18 juin 1815, la bataille de Waterloo a sonné le glas des espérances napoléoniennes en Europe. Jacob Grimm, en 1814-1815, a lui-même été Legationsrat au Congrès de Vienne. Les Deutsche Sagen sont accueillies avec faveur par Goethe, qui saisit cette occasion pour attirer sur leurs auteurs l'attention des dirigeants de Berlin.
À partir de 1820-1825, les frères Grimm consacrent chacun la majeure partie de leur temps à des œuvres personnelles. Après les Irische Elfenmärchen (Leipzig, 1826), seul le Deutsches Wörterbuch sera publié sous leur double-signature. Leur champ d'études reste néanmoins le même. Wilhelm continue à travailler sur la légende héroïque médiévale (Die deutsche Heldensage, 1829), la Chanson de Roland, l'épopée danoise, etc. En 1821, se penchant sur la question de l'origine des runes (Über deutsche Runen), il affirme que l'ancienne écriture germanique découle d'un alphabet européen primitif, au même titre que les écritures grecque et latine, et ne résulte donc pas d'un emprunt. La thèse sera très contestée. Par contre, Wilhelm Grimm ne se trompe pas quand il déclare que les Germains continentaux ont dû connaître l'usage des runes au même titre que les Scandinaves et les Anglo-Saxons : l'archéologie lui a depuis donné raison.
Jacob, lui, se plonge dans un énorme travail de philologie et d'étude de la religion germanique. Les livres qu'il publie se succèdent rapidement. À côté de monuments comme la Deutsche Grammatik, la Deutsche Mythologie, la Geschichte der deutschen Sprache, on trouve des essais sur Tacite, la poésie latine des Xe et Xle siècles, l'histoire de la rime poétique, et quantité de textes et d'articles qui seront réunis dans les 8 volumes des Kleinere Schriften, publiés à Berlin à partir de 1864.
Le 1er volume de la Deutsche Grammatik paraît en 1819. Dans cet ouvrage dédié a Savigny, Jacob Grimm s'efforce de jeter les bases historiques de la grammaire allemande en transposant dans l'étude des formes linguistiques les principes appliqués par Savigny à l'étude du droit. Les règles qu'il énonce en philologie comparée le haussent d'emblée au niveau de Wilhelm von Humboldt, Franz Bopp, Rask, etc. "Aucun peuple sur terre, écrit-il dans la préface, n'a pour sa langue une histoire comparable à celle des Allemands". S'appuyant sur la longue durée, il démontre la "supériorité" des formes linguistiques anciennes. La perfection d'une déclinaison, assure-t-il, est fonction du nombre de ses flexions - c'est pourquoi l'anglais et le danois doivent être regardés comme des langues particulièrement pauvres...
À peine ce 1er volume a-t-il paru que Jacob procède à sa refonte. La nouvelle version sort en 1822 (les 3 volumes suivants seront publiés entre 1826 et 1837). Tenant compte des travaux récents qui commencent à se multiplier sur les langues indo-européennes, Jacob Grimm énonce, en matière de phonétique, une loi restée célèbre sur la façon dont les lettres de même classe tendent à se substituer les unes aux autres, ce qui lui permet de restituer les mutations consonantiques avec une grande rigueur. De l'avis général, c'est de la publication de ce texte que datent les débuts de la germanistique moderne.
Peu après, dans les Deutsche Rechtsaltertümer (Göttingen, 1828), Jacob Grimm défend, dans l'esprit des travaux de Savigny, l'identité "naturelle" du droit et de la poésie. Étudiant les textes juridiques anciens, il s'applique à démontrer la précellence du droit germanique sur le droit romain, de la tradition orale sur la tradition écrite, du droit coutumier sur celui des "élites". Les institutions juridiques les plus durables, dit-il, sont-elles aussi d'origine "divine" et spontanée (selbstgewachsen). Il n'existe pas plus de créateurs de lois que d'auteurs d'épopées : le peuple seul en est la source.
En 1835, ce sont les 2 gros volumes de la Deutsche Mythologie (rééditée en 1968 par l'Akademische Verlagsanstalt de Graz). Là encore, pour son temps, Jacob Grimm fait œuvre d'érudition au plus haut degré. Parallèlement, il réaffirme son credo : comme le langage, comme la poésie populaire, les mythes sont d'origine divine ; les peuples sont des incarnations de Dieu. Son frère Wilhelm le proclame en ces termes : "La mythologie est quelque chose d'organique, que la puissance de Dieu a créé et qui est fondé en lui. Il n'y a pas d'homme dont l'art parvienne à la construire et à l'inventer ; l'homme ne peut que la connaître et la sentir".
À leur grand déchirement, les 2 frères ont dû en 1829 abandonner Kassel pour Göttingen. Ils y professent de 1830 à 1837, date à laquelle ils sont brutalement destitués pour avoir protesté avec 5 de leurs collègues contre une violation de constitution dont le roi de Hanovre s'est rendu coupable ; c'est l'affaire des "Sept de Göttingen" (Göttingen Sieben). Ils reviennent alors à Kassel, où ils consacrent l'essentiel de leur temps à leurs travaux. Wilhelm publie son Ruolandes liet (1838) et son Wernher von Niederrhein (1839). Jacob fait paraître son histoire de la langue allemande (Geschichte der deutsche Sprache, 2 vol., 1848). Après quoi, avec son frère, il se plonge dans la rédaction d'un monumental dictionnaire en 33 volumes (Deutsches Wörterbuch), qui commencera à paraître à Leipzig en 1854. L'ouvrage, équivalent du Littré pour les Français, fait encore aujourd'hui autorité.
Les frères Grimm sont alors au sommet de leur carrière. En 1840, le roi Frédéric-Guillaume IV leur propose une chaire à l'université de Berlin et les nomme membres de l'Académie des sciences. Couverts d'honneurs, ils n'occupent toutefois leur chaire que pendant quelques années, afin de pouvoir retourner à leurs études d'histoire littéraire et de philologie. Après la révolution de mars 1848, Jacob siège au Parlement de Francfort. Durant cette période finale, il mobilise toute son énergie pour la rédaction de son dictionnaire. Wilhelm meurt le 16 décembre 1859. Son frère s'éteint 4 ans plus tard, le 20 septembre 1863.
Jacob et Wilhelm ont vécu et travaillé ensemble de leur naissance jusqu'à leur mort, sans jamais abandonner leur but : la résurrection du passé national allemand. Objectif qu'ils servirent avec un savoir et un désintéressement que tous leurs contemporains leur ont reconnu. Des 2 frères, Jacob était sans doute à la fois le plus doué, le plus savant et le plus conscient de la mission à laquelle il s'était voué. Wilhelm, d'un naturel moins "ascétique", était à la fois plus artiste et plus sociable. Tonnelat écrit : "En Jacob il y a du héros. Wilhelm fut assurément très inférieur à son frère ; mais peut-être son infériorité fut-elle la rançon de son bonheur". Telle qu'elle nous est parvenue, leur œuvre a ceci de remarquable qu'elle associe une force de conviction peu commune, touchant parfois au mysticisme, avec une méticulosité et une rigueur scientifique remarquables. Les frères Grimm comptent assurément parmi les grands savants du siècle dernier. Mais en même temps, ils n’abandonnèrent jamais l'idée qu'une nation n'est grande que lorsqu'elle conserve présente à elle-même la source toujours jaillissante de l'âme populaire, et que celle-ci, au fur et à mesure qu'elle perd sa pureté originelle, s'éloigne aussi de Dieu. "Jusqu'à leur mort, écrit Tonnelat, ils ont conservé leur foi romantique dans la sainteté et la supériorité des âges anciens". Attitude que les temps actuels semblent discréditer, mais qui apparaît pourtant fort logique dès lors que l'on comprend que le "passé" et "l'avenir" ne sont jamais que des dimensions du présent - qu'ils ne sont vivables que dans le présent -, en sorte que ce qui fut "une fois" peut être appelé aussi à revenir toujours.
Notes :
1 À Steinau, on visite la maison où ils vécurent, et un petit musée évoque leur existence.
2 Un portrait de Dorothea Viehmann, dû à un autre frère Grimm, Ludwig Emil, figure comme frontispice à la 2nde édition des Contes, publiée en 1819-1822 (qui est aussi la 1ère édition illustrée).
3 On ne saurait dire si ce nationalisme des frères Grimm explique que, début janvier 1985, le Board of Deputies, organisme représentatif de la communauté juive de Grande-Bretagne, se soit donné le ridicule de demander la saisie pour "antisémitisme" d'une édition des Contes de Grimm non expurgée du conte intitulé Le Juif dans les épines (Der Jude im Dorn, conte 110, p. 638-643 de l'édition Flammarion).
4 Dans sa Deutsche Mythologie (1835, p. 586), Jacob Grimm signale lui-même que le mot allemand Hexe (sorcière) correspond à un ancien Hagalfrau (femme sage, avisée) (vieil-ht.all. hagazussa, moyen-ht.all. hexse). Ce terme renvoie au norroishgr qui a le même sens que le latin sagus (sage, avisé). Le mot anglais witch(sorcière) est de même à rapprocher de wise (sage).
5 À noter aussi que l'étymologie la plus probable pour le mot fée renvoie au latinfata, ancien nom des Parques (cf. L. Harf-Lancner, Les fées au Moyen Age. Morgane et Mélusine, la naissance des fées, Honoré Champion,, 1984).
6 Signalons, pour ne citer qu'un exemple, que le réalisateur du film L'Empire contre-attaque (2nd volet de La guerre des étoiles), Irvin Kershner, a explicitement déclaré s’être inspiré des thèses de Bettelheim pour la mise au point de son scénario.
7 "Après les crématoires d'Auschwitz, est-il encore possible de raconter comment Hänsel et Gretel poussent la sorcière dans le feu pour la brûler ?" demande très sérieusement Manfred Jahnke dans la Stuttgarter Zeitung du 29 août 1984.
http://www.archiveseroe.eu/tradition-c18393793/45
00:04 Publié dans Littérature, Traditions | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : liitérature, lettres, lettres allemandes, littérature allemande, traditions, traditionalisme, frères grimm, grimm, allemagne, 19ème siècle, contes, contes de fées | | del.icio.us | | Digg | Facebook
dimanche, 06 octobre 2013
Archetipi della Russia nella lettura di Elémire Zolla
Archetipi della Russia nella lettura di Elémire Zolla
Ex: http://www.centrostudilaruna.it
Nel suo libro Archetipi (Marsilio, Venezia, 2002), Elémire Zolla descrive i modelli mitici con un linguaggio allusivo, quasi esso stesso simbolico, che lascia spazio all’intuito del lettore e ne sollecita il risveglio.
Il superamento del dualismo io/mondo, il senso dell’Uno-Tutto, i significati archetipici dei numeri, il continuo richiamo alla loro valenza simbolica, la loro percezione emotiva e non freddamente intellettuale, la esplicazione della loro funzione: lo studioso introduce in un mondo antico, a volte addirittura primordiale, eppure straordinariamente presente nel nostro tempo.
“Un archetipo – egli scrive – è ciò che aduna in un insieme una pluralità di oggetti, coordinandoli a certi sentimenti e pensieri. Il contatto con un archetipo non si può esprimere nel linguaggio ordinario, esige esclamativi e idiotismi, comporta una certa eccitazione. Quando una mente feriale sfiori un archetipo, smarrisce il suo instabile equilibrio e cade nella disperazione. Può capitare all’improvviso: scatta l’amore durante una recita galante, scoppia la furia nell’occasione più futile, cala la disperazione quando l’ambizione è soddisfatta, il dovere compiuto, l’affetto di tutti assicurato … Una vita del tutto sensata e disciplinata è un’utopia: crede di poter ignorare gli archetipi. L’uomo ha bisogno di assiomi per la mente e di estasi per la psiche come ha bisogno di cibo per il corpo: estasi e assiomi possono provenire solo dal mondo degli archetipi. Né bastano estasi lievi, brividi modesti: la psiche cerca la pienezza del panico. L’uomo vuole periodicamente smarrirsi nella foresta degli archetipi. Lo fa quando sogna, ma i sogni non bastano. Deve sparire da sveglio, rapìto da un archetipo in pieno giorno” (p.76).
Eppure, è difficile dare una definizione precisa ed esauriente degli archetipi. Essi sono, per Zolla, “energie formanti”, ma li potremmo anche chiamare “miti mobilitanti” che parlano alla psiche dell’uomo, “idee-forza” primordiali che si rivolgono al cuore, alle emozioni, alla sensibilità e che quindi rifuggono da un inquadramento rigido nel pensiero dialettico.
Nel quadro di un intero capitolo dedicato alla “politica archetipale”, ossia alle risonanze degli archetipi nel dominio politico, Zolla illumina anche gli archetipi che si sono manifestati nella storia russa.
“Bisanzio instillò il suo ultimo mito nella Roma teocratica, ma in Russia risorse. Certi circoli ecclesiastici vi coniarono il mito di Mosca come terza e ultima Roma. Ivan III sposò nel 1472 la nipote di Costantino Paleologo. Era come se il destino russo fosse stato suggellato quando, secondo la vecchia cronaca, gli inviati di Vladimir ispezionarono per lui l’Islam, l’Occidente e Bisanzio. Nell’Islam li colpì uno scomposto fervore, nell’Occidente non ravvisarono traccia di gloria, ma la bellezza dei riti bizantini non riuscirono a scordarla.
Ivan IV il terribile assunse il titolo di zar, parola slavonica assonante con Caesar. Nel secolo XVI fu lanciata la leggenda di Augusto che aveva assegnato la Russia a Prus, avo di Rjurik, fondatore della prima dinastia” (p.104).
Vladimir, il duca di Mosca nel X secolo: tanto è antica la vocazione bizantina della Russia. La descrizione di Zolla coincide con quella di Arnold Toynbee, ma aggiunge questa importante leggenda di Augusto che esprime un richiamo ideale diretto alle origini dell’Impero Romano d’Occidente e non solo a Bisanzio; il mito si fa storia e la storia diviene incarnazione di un mito. In questa dimensione mitica possiamo cogliere l’anima russa molto più di quanto non ci dicano le cronache, le successioni dinastiche, gli intrighi diplomatici.
L’analisi di Zolla si differenzia da quella di Toynbee quando evidenzia che il mito incrollabile degli Zar fu la liberazione dell’ortodossia prigioniera dei Turchi, la conquista di Costantinopoli chiave dell’impero ecumenico.
Nella storia e nella cultura russa, Zolla coglie due miti: quello “costantinianeo”- ossia il mito dell’Imperatore romano-orientale – e quello dell’imperatore-filosofo, di ascendenza ellenica e platonica che ha la sua riemersione nel pensiero, negli scritti e nell’opera di Giorgio Gemisto Pletone, che nel XV secolo pone il seme fecondo della fioritura del neoplatonismo “pagano” prima in Grecia, a Mistrà, poi in Italia, in occasione del suo viaggio nel 1439. Quando Bisanzio cadde, nel 1453, per mano dei Turchi, avvenne una divaricazione dei due miti: i neoplatonici greci si trasferirono in Italia, mentre il mito dell’imperatore “costantinianeo” rifiorì in Russia. Eppure, anche il mito dell’imperatore-filosofo trova una sua espressione nella storia russa: Pietro il Grande, nel 1721, abolì il patriarcato ortodosso di Mosca, proclamò la tolleranza religiosa e assunse il titolo latino di Imperator; il mito imperiale-filosofico eclissò, in quel momento, il mito dell’imperatore costantinianeo.
Caterina II, amica dei philosophes e imperatrice-filosofa, si presenta come Minerva o Astrea rediviva e riporta in terra il regno di Saturno come Augusto. Ella educa, però, il nipote da principe bizantino e per porlo sul trono si allea con Giuseppe II, l’imperatore-filosofo dell’Occidente.
“I due miti, il costantiniano e il filosofico – scrive Zolla – sedurranno alternativamente gli Zar che si troveranno sempre tutti impediti all’ultimo di raggiungere il Bosforo: Nicola I, Alessandro II, Nicola II” (p.105.)
La soggezione all’archetipo parve interrotta con la rivoluzione bolscevica del 1917 in cui Zolla coglie la manifestazione, su un piano materialistico, dell’archetipo romùleo, ossia l’irruzione di un modello di violenza e di forza distruttrice e creatrice, come Romolo si era affermato fondatore di Roma uccidendo Remo. In realtà, l’interruzione dell’archetipo fu solo una maya, come direbbero gli Indiani.
“Lo stemma bolscevico ripropone gli dèi delle rifondazioni, l’astro rosso di Marte, il martello di Vulcano, la falce di Saturno coi mannelli del suo regno restaurato. Il cranio sfondato di Trotzky conferì allo Stato proletario la compattezza che a Roma era venuta dal cadavere di Remo. Si compirono molte mosse simboliche oscure: la capitale riportata alla terza Roma, la Chiesa ortodossa ricostituita in patriarcato, il Fondatore mummificato come un faraone” (p. 105).
E ancora Zolla ricorda come l’ossessione del Bosforo rimase intatta nei colloqui fra Ribbentropp e Molotov.
Riguardo ai simboli arcaici presenti nel bolscevismo, Evola e Guénon avrebbero sicuramente parlato – come del resto fecero – di segni di una contraffazione contro-iniziatica. Gli archetipi di Marte, Vulcano e Saturno agirono nelle forme di una religione rovesciata, il “credo” dell’ateismo.
Il filo rosso della storia russa è, dunque, il costante richiamo al modello della romanità nella duplice e oscillante versione dell’imperatore costantinianeo e dell’imperatore-filosofo, fra Bisanzio e la Grecia classica, fra l’impero assolutistico di stampo più orientale e il modello romano-occidentale più tollerante e pluralista.
Comunque, pur in questa oscillazione, la Russia scelse consapevolmente di connettersi all’Impero Romano d’Oriente e di raccoglierne l’eredità, pur avendo la possibilità storica di accogliere altri modelli, come quello religioso giudaico scelto dai Kazari nel IX secolo d.C., o quello turco-islamico.
E tale costante è fondamentale per inquadrare la vocazione storica della Russia e la sua anima, nonché le basi della sua comunanza culturale con l’Europa.
00:05 Publié dans Terres d'Europe, Traditions | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : russie, terres d'europe, elémire zolla, italie, traditions, traditionalisme, archétypes | | del.icio.us | | Digg | Facebook
jeudi, 19 septembre 2013
L’Alevismo Turco
L’Alevismo Turco
Ex: http://www.statopotenza.eu
L’Alevismo nella odierna Turchia è un elemento religioso molto interessante che si è sviluppato nei secoli, attualmente vivono in Turchia più di 10 milioni di Aleviti che non sono da confondere con gli Alawiti che vivono in Siria e Libano, discendono entrambi però da gruppi sciiti che vedremo nello specifico, nel mondo islamico la divisione tra sunniti e sciiti, risale agli avvenimenti seguiti alla morte del profeta Muhammad (pace su di lui), la questione della successione, di chi prenderà il suo posto, la lotta per il Califfato. Per i sunniti il successore doveva essere Abu Baker, per gli sciiti invece Ali (sas) marito di Fatima (sas) la figlia di Muhammad (pace su di lui), è destinato a prendere il posto del Profeta. Tra gli sciiti, come tra i sunniti, ci sono poi correnti diverse. Gli Aleviti non rientrano in nessuna di queste correnti.
L’Alevismo è una setta unica si pensa che le tribù turche e iraniche e azere del nord dell’Iran e dell’Anatolia Orientale furono convertite allo Sciismo durante l’Ikhanato Mongolo che dominava la Persia e l’Iraq all’epoca e parte dell’Anatolia. Il poeta Yunus Emre e il santo Hajji Bektash furono i primi santi di quel periodo e più tardi vennero associati con l’Alevismo. Gli Aleviti emersero in questo contesto come un ordine sufi militante con base ad Ardabil nell’odierno Iraq, il cui leader Shah Ismail riuscì a conquistare la Persia e dare vita alla dinastia Safavide. Ora nell’ambito dell’Islam sciita duodecimano, dal momento che gli Aleviti accettano si il credo sciita riguardo Ali (as) e i dodici Imam (as), ci sono dei distinguo, alcuni Aleviti non vogliono essere descritti come Sciiti ortodossi, a causa di grosse differenze nella filosofia, abitudini e rituali rispetto alle forme prevalenti dello Sciismo dell’Iraq e del moderno Iran nonostante questo, l’Ayatollah Ruhollah Khomeini (r.a.) nel 1970 ha dichiarato gli Aleviti parte della linea tradizionale sciita.
Gli Aleviti credono e professano i dodici imam come discendenti del Profeta, Imam che torneranno un giorno a portare pace e giustizia nel mondo, elementi che avvicinano gli Aleviti agli Sciiti. Nella teologia e nella pratica ci sono però molte differenze e vedremo quali, per esempio la ritualità Alevita non prevede le cinque preghiere quotidiane, non c’è il mese del digiuno (il Ramadan) e neppure il pellegrinaggio alla Mecca. La credenza nella uguaglianza tra uomini e donne che condividono lo stesso spazio nella preghiera, l’esistenza di un semah, cioè un rituale sufi che consiste in una danza esoterica e gnostica detta “dei pianeti” l’uso della musica, l’uso degli alcolici nelle cerimonie, sono tutti elementi che mostrano quanto gli Aleviti siano lontani dalla Tradizione Sciita. Nelle cerimonie Alevite si parla molto dei fatti di Karbala nell’odierno Iraq, città dove nel 680 d.C. l’esercito Omayyade di Yazid l’usurpatore assassinò Hussein nipote di Muhammad (pace su di lui). Il ruolo della sofferenza, del martirio sono importanti così come nella tradizione sciita. L’ingiustizia patita a Karbala da Ali nel corso della lotta per la successione, l’avvelenamento di suo figlio Hasan (as) e l’uccisione del fratello Hussein (as) sono elementi importanti tra gli Aleviti ma anche qui ci sono differenze rilevanti soprattutto per quanto riguarda il dolore e la sua manifestazione. La questione del lutto e del Martirio tra gli sciiti è molto importante, durante il periodo del Muharram e di Ashura cioè le cerimonie di lutto che si celebrano in questo mese , si possono vedere queste differenze. Ferirsi, tagliarsi, colpirsi con delle catene, anche se si tratta di tradizioni che stanno perdendo la loro forza e per inciso in Iran sono vietate ma il folklore popolare a volte si manifesta in questi atti sono elementi caratteristici del mondo sciita.
Tra gli Aleviti queste tradizioni sono completamente assenti. Il ricordo dei fatti di Karbala avviene durante le cerimonie chiamate “Cem” dentro le Cemevi che sono case assemblative in luogo delle moschee che non esistono nell’Alevismo, attraverso orazioni funebri, con una modalità poetica ed artistica queste cerimonie vengono celebrate senza le tradizionali letture coraniche o formule di richiesta a Dio, questa è una differenza importante. Un’altra differenza è che nella cerimonia del Cem il momento in cui si ricorda l’ascensione di Muhammad (pace su di lui) al fianco d Allah (SwT) e chiamato “miraclama”, in questa fase assistiamo anche alla divinizzazione della figura di Ali, questa una differenza fondamentale e importante rispetto a gran parte del mondo Sciita. Una nota a parte merita la confraternita “Sciita” dei Bektashi ancora oggi presente nei Balcani, Albania, Grecia e Turchia. I Bektashi sono una confraternita e quindi chiunque può diventare Bektashi, certo, ma l’Alevismo è qualcosa che passa attraverso di essa, il padre e la madre, i bektashi eleggono i loro “dede” cioè i loro maestri , i loro leader spirituali mentre per gli Aleviti il dede è una carica che si trasmette tra le generazioni, da padre in figlio. La confraternita dei bektashi è stata considerata il braccio spirituale dei giannizzeri, il corpo militare d’élite dello stato ottomano. Con le riforme del Sultano Mahmut II, la modernizzazione ottomana ha soppresso i giannizzeri ed allo stesso tempo la confraternita poiché visti come sciiti e quindi sospettati di cospirazione con l’Impero Persiano Safavide sciita, in epoca ottomana ogni professione, gruppo o corporazione, aveva legami privilegiati con una confraternita religiosa, molto fiorenti in Turchia e tra le migliori come quella dei Mevlevi di Rumi o i Jerrahi-Halveti. I giannizzeri erano legati ai Bektashi i quali erano spesso legati agli Aleviti , il problema è guardare l’Impero Ottomano come uno stato nazionale moderno e in questa prospettiva vedere le relazioni tra confraternite e il centro come unidimensionali. Molti intellettuali Aleviti vedevano di cattivo occhio una relazione tra i Bektashi ed il potere ottomano.
Nel mondo Turco c’erano diversi rapporti di forza e i Bektashi possono aver avuto una relazione privilegiata con i giannizzeri, del resto molti esponenti di spicco dei giannizzeri erano Bektashi e gli stessi erano cristiani convertiti all’Islam, perché era particolare il carattere dei giannizzeri formati da bambini cristiani, reclutati secondo il sistema della devsirme, ovvero venivano rapiti dalle famiglie di origine e poi spesso affidati a famiglie Alevite-bektashi poiché gli Aleviti non facevano discriminazioni rispetto ai loro figli naturali, quindi le famiglie Alevite rappresentavano un ambiente ideale per crescere i futuri soldati. La religione nel mondo ottomano non aveva però un carattere così conservatore come vorrebbero gli islamisti odierni, difatti il Salafismo è una ideologia moderna come lo sono i Fratelli Musulmani nati negli anni 20′ del ’900, i Sunniti non avevano una posizione così predominante e il potere ottomano intrecciava relazioni coi differenti gruppi religiosi in modo pragmatico, strumentale a seconda delle circostanze, si può dire che almeno fino al XVI secolo nell’Islam sia impossibile parlare di una ortodossia consolidata. Quindi possiamo dire che in questo contesto non è possibile parlare neanche di eterodossia.
Dopo il XVI secolo si può parlare tuttavia di una ortodossia Sunnita Hanafita cioè una delle 4 scuole teologiche che preferisce l’intelletto e la moderazione , ora bisogna vedere se possibile parlare di ortodossia nella Turchia contemporanea che oggi è un paese laico ma probabilmente esiste ancora una ortodossia ufficiosa di origine sufi , come lo sono Gul o Erdogan per esempio di scuola Naqsbanhdi .Il carattere “moderato” turco non sempre è stato manifestato dagli stessi…anzi per esempio nel 1993 , il 2 luglio precisamente ci fu il triste massacro di Sivas dove morirono degli Aleviti per mano dei Sunniti , quel giorno cantanti, scrittori e filosofi Aleviti si riunirono per celebrare la festa di Pir Sultan Abdal, una loro importante figura storico culturale nell’ambito musicale Alevita , la festa venne celebrata nell’hotel Madimak e poco dopo una folla di 20.000 sunniti si riuni’ e circondò l’edificio, dandolo alle fiamme, bersagliandolo con pietre mentre intonavano slogan anti-Alevismo e pro-Sharia. Il massacro durò diverse ore durante nei quali ne i pompieri, la polizia e la gendarmeria fecero nulla per fermare il massacro, alcuni filmati mostreranno come le richieste d’aiuto furono respinte, alla fine della strage si conteranno 33 morti, tutti Aleviti., nel 1997 la polizia arrestò 31 presunti responsabili e li condanno a morte, ma poi la pena di morte venne trasformato in carcere a vita. Altro episodio nel 1995 dove questa volta ci fu una sparatoria da un’auto nel quartiere Gazi di Istanbul che causò la morte di alcuni Aleviti. Durante le manifestazioni di protesta, la polizia aprì più volte il fuoco contro i dimostranti che abbatterono altri 15 Aleviti.
Oggi gli Aleviti politicamente sono contrapposti al fondamentalismo Sunnita e al Salafismo con le sue ramificazioni, assicurando la continuazione del secolarismo turco Kemalista. sono i principali alleati delle forze secolari e alla sinistra, cercano anche l’alleanza dei Sunniti moderati contro gli estremisti. Richiedono che lo stato riconosca l’Alevismo come una comunità ufficiale islamica, con gli stessi diritti del, ma diversa dal, Sunnismo interessante è il pensiero Alevita secondo cui tutti gli sviluppi negativi dell’Islam sono visti come un fallimento della società e delle caratteristiche Arabe. Il Sunnismo, secondo gli Aleviti, non è vero Islam, ma un’aberrazione il cui stretto legalismo si oppone al pensiero libero e indipendente ed è visto come reazionario, bigotto, fanatico e antidemocratico. Gli Aleviti credono che il nazionalismo Sunnita sia intollerante, dominatore e settario credono fermamente che il Sunnismo sia una propria peculiarità araba e fallimentare come i loro popoli e strutture governative e l’Alevismo sia la vera Tradizione Religiosa Turca e Anatolica.
Mustafà
00:05 Publié dans Traditions | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : alévites, turquie, traditions, traditionalisme | | del.icio.us | | Digg | Facebook
vendredi, 30 août 2013
D. H. Lawrence’s Phallic Traditionalism
D. H. Lawrence’s Phallic Traditionalism
By Derek Hawthorne
Ex: http://www.counter-currents.com
Sex and Religion
D. H. Lawrence argues that through the sex act, individuals participate in some kind of mysterious power running through nature. But does this momentary experience have any kind of long-term effect on them? Lawrence directly addresses this question. When the sex act is over, he writes, “The two individuals are separate again. But are they as they were before? Is the air the same after a thunderstorm as before? No. The air is as it were new, fresh, tingling with newness. So is the blood of man and woman after successful coition.” He states further that coition alters “the very quality of being, in both.”[1]
But how? Not surprisingly, Lawrence actually says little about how the experience changes the woman, but as for the man he has plenty to say. After coitus, “The heart craves for a new activity. For new collective activity. That is, for a new polarized connection with other beings, other men.”[2] As we have seen, Lawrence believes that sex involves an encounter with the creative force at the basis of nature. This encounter renews the male’s own creativity. He is eager, after the encounter, to break away from the woman for a time and to take action in the world, to bring something new into being: “Men, being themselves made new after the action of coition, wish to make the world anew. A new, passionate polarity springs up between men who are bent on the same activity, the polarity between man and woman sinks to passivity. It is now daytime, and time to forget sex, time to be busy making a new world.”[3]
The man yearns for union with the woman. At the time, all other considerations other than that union become trivial. Union must be achieved. But once it is achieved, he is renewed and yearns now to come together with other men in a new kind of union: a union directed toward the accomplishment of purposive activity. Again, however, what of the woman in all of this? Doesn’t she yearn for a purposive activity beyond the marriage bed? Lawrence answers that, in the main, this is not the case. He writes, “Primarily and supremely man is always the pioneer of life, adventuring onward into the unknown, alone with his own temerarious, dauntless soul. Woman for him exists only in the twilight, by the camp fire, when day has departed. Evening and the night are hers.”[4]
Lawrence’s view is that in life we must oscillate between an encounter with the source—through sex, for example—and purposive, creative activity. In other words, we must oscillate between blood-consciousness and mental consciousness. Lawrence is not anti-intellectual. Mental consciousness exists in order to allow us to carry out the inspirations we have received from blood-consciousness (recall that “it is through the phallic roots that inspiration enters the soul”). It is when mental consciousness is cut off from blood-consciousness and tries to make itself radically autonomous that problems result.
Lawrence at one point frames the issue of the relation of the two forms of consciousness in terms of “nighttime” and “daytime” selves:
Well, then, we have night-time selves. And the night-self is the very basis of the dynamic self. The blood-consciousness and the blood-passion is the very source and origin of us. Not that we can stay at the source. Nor even make a goal of the source, as Freud does. The business of living is to travel away from the source. But you must start every single day fresh from the source. You must rise every day afresh out of the dark sea of the blood.
When you go to sleep at night you have to say: “Here dies the man I am and know myself to be.” And when you rise in the morning you have to say: “Here rises an unknown quantity which is still myself.”[5]
When Lawrence speaks of rising in the morning, he means emerging from the world of dreams. Like Jung, Lawrence believed that we encounter our primal, pre-mental selves in dream. But he does not just mean this. He means that whenever we emerge from an encounter with the source – whenever we have sloughed off, for a time, our individuality and then put it back on again – we must be prepared to be changed, to be inspired with something that has emerged from the source. We must be willing to bring this into the light. He alludes to this idea in Studies in Classic American Literature when he tell us he believes “That my soul is a dark forest” and “That gods, strange gods, come forth from the forest into the clearing of my known self, and then go back.”[6]
Human beings generally make the mistake of absolutizing either the daytime self or the nighttime self; either making sex the be all and end all, to the exclusion of purposive activity, or vice versa. Lawrence writes that “With sex as the one accepted prime motive, the world drifts into despair and anarchy.”[7] In the sex act, as we have said, the sense of individuality, of personal identity is lost and the participants have the sense of merging into some larger unity. But what of the rest of life? We must live as individuals, with a sense of ourselves as separate beings for most of our waking existence.
But what are we to make of our individuality? Some people find the burden of separate, individual existence so great that they seek to have the sort of transcendence one can experience through sex on an almost constant basis, through alcohol or drugs or thrill-seeking. And what we often find with such individuals is that their lives come to pieces, they drift into “despair and anarchy.”
We have, according to Lawrence, two selves: the nighttime self which is the same in all of us, and which is an offshoot of the worldself, the life mystery; and the daytime self, which is different in each of us, and individual. To deny either is unnatural. We must shuttle back and forth between the two. If we absolutize the nighttime self, then we are destroyed as individuals. And any society that tries to found itself on the nighttime self would quite literally descend into chaos. (Consider the case of Woodstock, for example.) “Assert sex as the predominant fulfillment, and you get the collapse of living purpose in man. You get anarchy.”[8]
But it is equally mistaken to assert purpose above everything. This is, in effect, the mistake of idealism. There are individuals who deny sex or any act that involves a contact with the source. Such acts involve a loss of control, and a temporary breakdown in the sense of individual separateness. And this is terrifying to many people. So they live, as it were, from the neck up and devote themselves wholly to achievement, to productive work, to purpose. This is essentially what Freud means by the sublimation of the libido. Such individuals may not literally cease to have sex, but their sex is mechanical and without any real sensual depth. “Assert purposiveness as the one supreme and pure activity of life,” Lawrence writes, “and you drift into barren sterility, like our business life of today, and our political life.”[9]
Lawrence sees in these observations a key to understanding world history. “You become sterile, you make anarchy inevitable,” he says.[10] In other words, if a society asserts purposiveness above all, eventually it reaches a mass psychological breaking point, and the society will abandon itself to pure sensuousness. If this happens, however, things are destined to cycle back again. Someone or some movement will arise in response to this sensuous anarchy, and it will put forward the solution: abandon sensuousness, in favor of pure purpose, or pure idealism. And so on. To quote Anaximander (one of Lawrence’s favorite philosophers), “they pay penalty and retribution to each other for their injustice according to the assessment of time.”[11]
For Lawrence, the solution to this problem is for individuals to live in complete acceptance of sex and the blood-consciousness. They must accept these not only without guilt, but with positive reverence. Sex and all that puts us into touch with the primal, chthonic source is to be regarded as the touchstone of life. All plans and purposes of human beings are to draw their inspiration from the encounter with this source, and must be compatible with the free, regular, sensual contact with it.
Lawrence writes that “no great purposive passion can endure long unless it is established upon the fulfillment in the vast majority of individuals of the true sexual passion. No great motive or ideal or social principle can endure for any length of time unless based upon the sexual fulfillment of the vast majority of individuals concerned.” And just to make sure we have gotten his point, he says again a few lines later, “You have got to base your great purposive activity upon the intense sexual fulfillment of all your individuals.”[12] (Mysteriously, he adds, “That was how Egypt endured.”)
To sum up, it is certainly true to say that Lawrence was preoccupied with sex. But that was because for him sex was religion. In sex we awaken the deepest part of ourselves; we become that part, which is itself part of the life energy of which we are an expression. In sex we contact this mystery, and draw creative strength from it. Lawrence insists, however, that we cannot dwell forever in this mystery. Our lives must be a perpetual shifting back and forth between blood-consciousness and mental consciousness. Contact with the chthonic blood mystery spurs us on to purposive action. And in terms of what our purposes are to be, we draw inspiration from opening ourselves to the chthonic and whatever it may bring forth.
Sex in the Head
Ideally, sex should not be the only means by which we contact the life mystery, but for modern people it usually is. That is, when they can manage to have fulfilling sex at all. The trouble is that modern people live almost exclusively from the intellect, from conscious, mental awareness. And they live with rigid conceptions of selfhood. These are constructions of the intellect and, not surprisingly, they make intellect central to selfhood.
We tend to think, in other words, that we are minds simpliciter. But it is actually worse than that. We tend to think of ourselves almost as disembodied minds, and we relate as one disembodied mind to another. We invest a tremendous amount in maintaining these conceptions. Anything that would break down or challenge our sense of individual distinction is regarded as a threat.
Consequently, as Lawrence tells us over and over again, we have “got our sex into our head.”[13] This is a favorite expression of his. As much as we may locate our sense of self in the head, we cannot ever fully extinguish thereby the flame of the “lower self.” Rather than cede any of its power to the lower self, intellect must find some way to get sex into the head and control it. Sex becomes a matter of ego-aggrandizement, and the object of myriad neuroses. Even sexual arousal comes to be controlled by the head. The instinctual, animal sexual response that nature equips us with is suppressed by intellect. The head develops its own fixations and these become “cues” which trigger arousal.
For example, fetishism is a sexual response triggered not by the presence of an actual man or woman, or male or female genitalia, but by something which somehow symbolizes or refers to these. For example, the fetishist who gets excited over women’s underwear but has difficulty getting excited in the presence of a real woman. This is a person whose response is, again, intellectual and unnatural. He is disconnected from natural sexual feelings, and achieves arousal by routing information through the intellect: “I associate panties with women’s crotches, and they’re sexy, therefore this is sexy.”
The head may even declare some sexual feelings “wrong,” because they are incompatible with the ego’s self-conception. Repression and terrible inner conflict are the result. The more we get our sex into our head, the more a natural, fulfilling sexual response becomes impossible. The end result is almost inevitably impotence in the man and frigidity in the woman. Lawrence would not have been surprised at all had he lived to see the plethora of drugs that have now become available to treat sexual dysfunction, and the massive profits made by the companies that produce them.
One would think that getting sex into the head would put modern people off of sex, but instead it actually makes them terrifically hungry for repeated, transient sexual experiences. Lawrence writes, “The more individual the man or woman, the more unsatisfactory is a non-individual connection: promiscuity.”[14] By identifying only with the “daytime self,” with the mental self alone, we in effect disown our bodies and their sensations and urges. But the urges remain, and we must satisfy them. So we go to a sexual encounter, but because we have rendered our bodies largely insensate, we wind up feeling very little. And because we are terrified of anything that might break down or transform our sense of ourselves, we emerge from the act unchanged.
We are unwilling to surrender ego and make ourselves vulnerable, and so the sex act becomes merely a gymnastic exercise, followed by some mildly pleasurable muscular contractions. Dimly, we sense that something is missing—or that we have missed out on something. So we are driven to go on to another encounter, but the old pattern repeats itself. Of course, part of what drives us to another encounter is the biological sex urge itself, but Lawrence believes that the sex urge alone cannot explain the extraordinary promiscuity of modern people.
A solution to promiscuity, of course, is to find a steady partner, ideally one to hold onto for a lifetime. But modern people tend to approach this from the head as well. Lawrence writes,
We have made the mistake of idealism again. We have thought that the woman who thinks and talks as we do will be the blood-answer. . . . We have made love and sex a matter of seeing and hearing and of day-conscious manipulation. We have made men and women come together on the grounds of the superficial likeness and commonality—their mental and upper sympathetic consciousness. And so we have forced the blood into submission. Which means we force it into disintegration.[15]
We relate to potential love partners through the head, looking for intellectual agreement and a “shared mutuality of values.” This is much more so the case today than when Lawrence wrote. It has become increasingly the case in today’s world that one feels obliged in certain contexts (for example, the workplace) to suppress one’s feelings of magnetic attraction to the opposite sex, and certainly never to give voice to it. Some find an expression of such feelings to be somehow degrading or demeaning, no matter the context. And so men and women tend now to relate to each other primarily through talking, and talking mainly about ideas, opinions, and preferences.
The other side of the coin, of course, is relationships based upon physical attraction. While these may seem superficially more healthy than the relationships just described, in their modern form they are in fact no better. Modern people, as I have said, are caught up in preserving ego boundaries, and that means they are caught up in not losing themselves in the other, in not going too far in the direction of sensuous abandon. Hence, after a while, modern relationships based upon sex reach a dead end, where neither partner is willing to go further for fear of actually becoming something other than what he or she already is. The sex becomes overly familiar, overly mechanical, and, for lack of anything else to sustain it, the relationship ends.
Between dissatisfying sexual encounters, modern people (especially males) steel themselves against the possibility that the next time might be a profound, transformative experience by making a smirking joke of sex; by treating sex as a game in which numbers count: number of conquests, number of orgasms, minutes elapsed before ejaculation, inches of erection, etc. Sex becomes a possession of the ego, something I do which elevates me in my own eyes, a selfish pursuit. What it should be, in fact, is the most selfless pursuit of all—not in the sense of being altruistic, but in the sense of being egoless and ecstatic:
But today, all is image consciousness. Sex does not exist; there is only sexuality. And sexuality is merely a greedy, blind self-seeking. Self-seeking is the real motive of sexuality. And therefore, since the thing sought is the same, the self, the mode of seeking is not very important. Heterosexual, homosexual, narcissistic, normal, or incest, it is all the same thing. . . . Every man, every woman just seeks his own self, her own self, in the sexual experience.[16]
Contrary to appearance, modern people hate and fear sex. They hate and fear the loss of control, the loss of ego, and the abandonment to the life mystery that real, “blood-conscious” sex involves. So they reduce sex to smut and laugh at it, and at themselves for wanting it. In his essay “Pornography and Obscenity,” Lawrence writes, “Pornography is the attempt to insult sex, to do dirt on it. This is unpardonable.”[17] Further, as we have already discussed, scientism conspires with pornography to deflate the sex mystery and render it all a mundane matter of chemicals and “procreative drive.” “The scientific fact of sex is no more sex than a skeleton is a man,” Lawrence writes. “Yet you’d think twice before you stuck a skeleton in front of a lad and said, ‘You see, my boy, this is what you are when you come to know yourself.’”[18]
The “scientific” approach to deflating sex is largely the hard-headed approach of the sexually-repressed male. The sexually-repressed female has given us the “lovey-dovey” approach. Sex is “something wonderful and extra lovey-dovey, a bill-and-coo process of obtaining a sweet little baby.” Both approaches are, Lawrence tells us, “disastrous to the deep sexual life.” “But perhaps,” he adds, “that is what we want.”[19] We want, at some level, to destroy the sexual life because it threatens the ego and the control of intellect.
Phallic Traditionalism
Fear of sex, Lawrence tells us in John Thomas and Lady Jane is “fear of the phallus”:
This is the root fear of all mankind. Hence the frenzied efforts of mankind to despise the phallus, and to nullify it. All out of fear. Hence the modern jazz desire to make the phallus quite trivial, a silly little popgun. Fear, just the same. Fear of this alter ego, this homunculus, this little master which is inside a man, the phallus. Men and women alike committed endless obscenities, in order to be rid of this little master, to be free of it! Free! Free! Freedom![20]
Remember that the phallus—the erect penis—is the second man within the man: the expression of the primal, chthonic self. It is the bodying-forth in the male’s body of the unconscious, or the blood-consciousness. It is not a thing of intellect; its roots go much deeper. And because of this, it is an affront to the intellect, which prides itself on its autonomy. Lawrence is telling us that all of our reductive scientism, our pornography, our sanitized “lovey-dovey” smarm about sex, indeed most of modern life, are a concerted effort to deny the power of the phallus and to assert the radical autonomy of intellect.
It would be a mistake to understand Lawrence as simply saying that modern men and women fear a physical organ. In a way, Lawrence is saying this. The erect penis represents, in the minds of most people, the primal self within the self, deeper than intellect. And, indeed, it is under the control of that primal self; again, an erection cannot be “willed.” But recall also that for Lawrence the phallus is an expression of the life mystery that permeates all of nature.
The fear of the phallus thus represents, in another way, the fear and hatred of that which is greater than ourselves. It is no accident that the scientific “deflation” of sex usually goes hand in hand with atheism. They spring from the very same sort of mentality, the mentality that fears losing itself in something that would break the bounds of ego. To prevent this from ever happening, it must deny mystery, beauty, and God. These are all, in a way, the phallus. It must deny these or somehow explain them away. And above all it must deny itself pleasure. The fear of the phallus goes hand in hand with a fear of pleasure, for pleasure threatens to carry us away and give us a transcendent experience in which we feel absorbed into something greater than ourselves. As a Shaivite text says: “every pleasure is a divine experience. The entire universe springs forth from enjoyment. Pleasure is at the origin of all that exists.”
In “A Propos of ‘Lady Chatterley’s Lover’” Lawrence writes that “the bridge to the future is the phallus, and there’s the end of it.” At this point, as strange as it may seem, it should be unsurprising to hear Lawrence make such a claim. What is surprising, however, is that he insists that he is not saying that the bridge to the future is sex. In the same essay, Lawrence goes on to say that if England (and, by extension, the entire modern, Western world) is to be “regenerated . . . then it will be by the arising of a new blood contact, a new touch, and a new marriage. It will be a phallic rather than a sexual regeneration. For the phallus is the only great old symbol of godly vitality in a man, and of immediate contact.”[21]
What can Lawrence mean by “phallic rather than sexual”? One must keep in mind that which the phallus represents. Lawrence is calling upon us to return to consciousness of the life mystery, in every way that we can. Sex is only one way. The phallus is “only the great old symbol of godly vitality in a man,” and it is this godly vitality that we must put ourselves back in touch with. But what does Lawrence mean when he says, further, that the phallus is the old symbol of “immediate contact”?
Here he refers to his provocative claim, discussed earlier, that the phallus “is a column of blood that fills the valley of blood of a woman.” The phallus is the means by which the two great rivers, which are metaphysical opposites, are brought together wordlessly, and more profoundly than any words or ideas could convey. The phallus represents this and all other forms of “blood-contact,” meaning instinctive or intuitive, non-verbal contact between individuals.
Lawrence believes that individuals relate to each other in countless, mysterious ways that he often designates by the term “vibrations.” We relate to the opposite sex through these vibrations. No matter our sexual orientation, the vibrations are there. We relate to members of our own family, or our own ethnic group, or to members of another, different ethnic group through these vibrations. We must learn somehow to recover our awareness of these, and cease attempting to relate to one another exclusively through words and ideas. But this is only part of what we must do to get back in touch with “the phallus.”
In the same essay, Lawrence speaks of the necessity of establishing an entire life lived in connection to the phallus:
We must get back into relation, vivid and nourishing relation to the cosmos and the universe. The way is through daily ritual, and the re-awakening. We must once more practise the ritual of dawn and noon and sunset, the ritual of the kindling fire and pouring water, the ritual of the first breath, and the last. This is an affair of the individual and the household, a ritual of day. The ritual of the moon in her phases, of the morning star and the evening star is for men and women separate. Then the ritual of the seasons, with the Drama and Passion of the soul embodied in procession and dance, this is for the community, in togetherness. And the ritual of the great events in the year of stars is for nations and whole peoples. To these rituals we must return: or we must evolve them to suit our needs.[22]
This is, of course, a description of the kind of life our distant ancestors lived. It was a life lived, in effect, in constant meditation upon and connection with the phallic mystery, the pan power. The phallus is the “bridge to the future,” but this bridge takes us roundabout and back again to the distant past.
Notes
[1] D. H. Lawrence, Fantasia of the Unconscious in Fantasia of the Unconscious and Psychoanalysis and the Unconscious (New York: Penguin, 1971), 107.
[2] Fantasia, 108.
[3] Fantasia, 108.
[4] Fantasia, 109.
[5] Fantasia, 182–83.
[6] D. H. Lawrence, Studies in Classic American Literature (New York: Penguin, 1977), 22. Italics in original.
[7] Fantasia, 110. Later in the same text he declares, “Sex as an end in itself is a disaster: a vice” (Ibid., 187).
[8] Fantasia, 111.
[9] Fantasia, 111.
[10] Fantasia, 111.
[11] The Presocratic Philosophers, trans. G. S. Kirk, J. E. Raven, and M. Schofield (Cambridge: Cambridge University Press, 1983), 118.
[12] Fantasia, 110–11.
[13] Fantasia, 85.
[14] Fantasia, 175.
[15] Fantasia, 175.
[16] D. H. Lawrence, Phoenix, ed. Edward McDonald (New York: Viking, 1968), 381–82 (Review of Trigant Burrow, The Social Basis of Consciousness).
[17] Phoenix, 175 (“Pornography and Obscenity”).
[18] Fantasia, 114.
[19] Fantasia, 114.
[20] John Thomas and Lady Jane, 239.
[21] D. H. Lawrence, Phoenix II, ed. Warren Roberts and Harry T. Moore (New York: Viking, 1971), 508 (“A Propos of ‘Lady Chatterley’s Lover’”).
[22] Phoenix II, 510 (“A Propos of ‘Lady Chatterley’s Lover’”).
Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com
URL to article: http://www.counter-currents.com/2013/08/d-h-lawrences-phallic-traditionalism/
URLs in this post:
[1] Image: http://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2013/08/phalluses-delos-greece.jpg
[2] Image: http://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2013/08/woman-phallus.jpg
[3] Image: http://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2013/08/shintophallus2.jpg
[4] Image: http://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2013/08/shintophallus3.jpg
[5] Image: http://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2013/08/shintophallus1.jpg
00:05 Publié dans Littérature, Traditions | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : littérature, littérature anglaise, lettres, lettres anglaises, culte duphallus, phallus, d. h. lawrence, tradition, traditions, traditionalisme | | del.icio.us | | Digg | Facebook
mardi, 13 août 2013
The Importance of Ritual
The Importance of Ritual
By Gregory Hood
Ex: http://www.counter-currents.com/
The culture comes from the cult, and without the cult, we’re just kidding ourselves.
Radical Traditionalists are excellent critics. They can analyze the collapse of a civilization. They can pinpoint the mistaken premises that have led to the wasteland of modernity. They can discover in the most minute expressions of pop culture or contemporary vocabulary the egalitarian rot that is poisoning even the most petty social interaction.
Yet criticism is only a means. The objective is not just to bemoan the Kali Yuga but to restore – or failing that, create – an organic society that can facilitate the upward development of the race [2]. This requires something beyond intellect, criticism, and reason. It requires laying the foundation of a new order of society which can encompass all those necessary to make it function. This means weaving a tapestry of meaning and experience that can enmesh the worker with the philosopher and overcome differences of class, education, and wealth with a shared cultural context. This means religion. To put it more precisely, this means a cult.
Neo-paganism today is largely an intellectual exercise, what Collin Cleary has called [3] “paganism without gods.” Arguably this has been true since the days of Julian the Apostate, when the emperor vainly tried to resurrect the ancient gods through polemics, crackdowns on Christianity, and animal sacrifice. Even in the late Roman Empire, paganism was an aesthetic choice, a sign of cultural rebellion against Christianity, rather than a vital “faith” that had the power of literal belief behind it. Despite the scathing contempt of a Galen [4] or the slashing criticism of the Emperor Julian, Christianity would ultimately subsume the Roman Empire and the last pagan to wear the purple would mournfully cry, “You have won, Galilean.”
The contemporary heathen lives in a world of disbelief and is himself a product of that disbelief, most likely having rebelled against the Christianity of his fathers and grandfathers. Reason, irony, and iconoclasm are the hallmarks of the age and this manifests itself in the tepid spiritual practice of contemporary paganism. For contemporary pagans, their new age “faith” is simply an attempt to rebel against the “restrictions” of Christianity without challenging any of its deeper moral suppositions. Feminist Wiccans, universalist “heathens,” and Renaissance Faire Vikings litter the American landscape, and these supposed rebels align themselves even more firmly with the egalitarian Zeitgeist than the most committed evangelical. One has to ask the universalists [5] and the practitioners of “Wiccatru” – why not just become Unitarians?
“Reconstructionist” heathens present their own challenges, poring over incomplete pagan texts most likely saved by Christian authors and arguing like Byzantine clerics over what are the “correct” interpretations and practices. Like Civil War re-enactors insisting on using historically accurate buttons, this is simply a flight into fancy, interesting and entertaining but without real importance. Learning abut the past is always a worthy effort, but the attempt to escape into a bygone era is an admission of impotence. Dressing in medieval garb or affecting archaic speech is less a rejection of modernity than a surrender to it. The luxury of escapism is a product of affluence and leisure, not a consistent effort to Revolt Against the Modern World [6].
If being a heathen is to stand for anything, it has to offer an authentic spiritual experience and cultural framework that is meaningful within the modern world. In the same way that a Christian church can offer something to both the humble parishioner and the sophisticated theologian, Ásatrú has to forge bonds of spiritual community regardless of a person’s intellectualism and chosen level of involvement. More to the point, in order to avoid the embarrassing debacles of Christian apologists defending [7] such things as young earth creationism, heathen “theology,” for lack of a better word, has to be open to correct understandings of science and the nature of existence.
It begins with, as Collin Cleary suggests, simply premising that the gods exist and that we have in some sense lost our “openness” to them. However, in a deeper sense, to be a heathen in the modern world is to live out the mythology. To the authentic pagan, every social interaction, sexual relationship, meal, creation, struggle, or accomplishment is fraught with meaning, and open to ritual and magic. Instead of simply premising that the gods exist or that there is a divine sphere, the heathen and magical practitioner must regard himself as a character in his own saga, capable of tapping into the power of the gods through study and discipline combined with ecstatic experience.
Such a revolution in thinking is not easy and therefore it must begin with something even Christians regard as otherworldly – ritual. In the High Church tradition of Traditional Catholics or the Orthodox, the Mass is an attempt to bring heaven to Earth, to literally transport the consciousness of the individual to another world. In Germanic paganism, we quite literally seek to bring the gods to ourselves, either as present during a ritual or as a kind of possession within us. This requires a physical and mental separation from the workaday world, accomplished through the archetypal heathen practice of “hallowing.”
Though the specifics differ from group to group, the gothi will carve out a space separate from the rest of the world through the power of Mjölnir [8] (Thor’s hammer), Gungnir [9] (Odin’s spear), or some other instrument. This represents a psychological break with the mundane, as within the vé [10] (or sacred enclosure), it is accepted that reality itself has changed. As one practitioner put it, “Outside the vé, I am an atheist, inside the vé I am a religious fanatic.” Through changes in physical appearance, ritualistic chanting, music, and other practices, consciousness itself is changed, as the holy is separated from the mundane. The demarcation between the sacred and the profane is arguably at the root of all cultural identity, and the very definition of what separates one people from another.
Some could sneer that this is simply a pointless “light” show to “trick” the brain into seeing what is not there. If this is true, so too is the design of the Hagia Sophia (an earthly attempt to imitate heaven), or the use of incense during mass, or even the communal singing and chanting of just about any church service. However, in a greater sense, the ritual is the “lowest” attempt to transform consciousness above the mundane. As the modern world has removed the sacred (indeed, is characterized by the removal of the sacred), beginning practitioners must use extreme methods to “shock” their consciousness into openness to the divine.
This does not mean throwing on a wolf skin and running around screaming will lead to a person meeting the Allfather in the woods one day. However, if done properly, ritual and magic introduces the necessary openness to spiritual experience that begins a transformative process. The point is not simply to perform a ritual once in a while and enjoy fellowship with those of like mind, although this in and of itself is healthy. The point is to understand that the gods, the lore, the runes, and the process of spiritual transformation can be applied to oneself and one’s folk through a kind of psychological programming.
In normal time, one does not have to take a position on whether the gods are literally real or merely cultural archetypes. Instead, whether the gods are real or not, ritual begins a process of mental transformation that works on a continuous basis. This is best described by Aleister Crowley’s [11] view of magic – “the methods of science, the aim of religion.”
In the Hávamál (the words of the High One), we are told how Odin grasped the secret of the runes.
I ween that I hung on the windy tree,
Hung there for nights full nine;
With the spear I was wounded, and offered I was
To Othin, myself to myself,
On the tree that none may ever know
What root beneath it runs
None made me happy with loaf or horn,
And there below I looked;
I took up the runes, shrieking I took them,
And forthwith back I fell.
The Allfather grasps the runes in a moment of ecstasy, but before this moment there is a long period of deprivation, suffering, and discipline. The nine days pinned to Yggdrasil suggests an entry into an alternate form of consciousness, a higher state of awareness similar to that claimed by Christian saints who practiced fasting or sexual abstinence. The acquisition of supreme wisdom comes from the sacrifice of “oneself to oneself,” regulated through ritual, prepared by conscious study, enabled by ecstatic experience.
A talented musician or gifted general may benefit from a blinding insight at a critical moment, but this kind of divine “Odinic” inspiration doesn’t just show up randomly. It is the product of a lifetime of conscious study, united with the unconscious forces within the human mind that seem beyond deliberate control. Anyone can feel the “Muse” – but for the insight to be worthwhile, the ground must first be prepared.
Excellence, said Aristotle (another great pagan) is a habit. We are what we repeatedly do. In pagan societies, ritual is a way of elevating mundane conduct to a higher level of meaning and regulating our baser impulses to give way to a more elevated sensibility. In feudal Japan, for example, the samurai [12] pursued both combat and artistic expression (through such means as the “tea ceremony [13]”) towards the aim of perfection in everything they did. For the heathen, occasional ritual should be the beginning of a process of transformation that eventually informs every action he takes.
Nietzsche called for the Übermensch to live his entire life as a work of art. Total mastery for the heathen would mean turning one’s entire life into a ritual, a Great Work that would transform both his own nature and the world around him through a kind of spiritual alchemy. In the Traditionalist understanding of history, there was a Golden Age when men were one with the gods and their purity of blood, mind, and spirit allowed to them to work wonders and reach depths of understanding denied to the denizens of the Kali Yuga. Ritual, correct practice, discipline, and Odinic frenzy allow the heathen to enable the process of transformation to once again reach for that Golden Age. As it says in the Hávamál,
Knowest how one shall write, knowest how one shall rede?
Knowest how one shall tint, knowest how one makes trial?
Knowest how one shall ask, knowest how one shall offer?
Knowest how one shall send, knowest how one shall sacrifice?
The modern man is at war with nature, at war with his fellows, at war with himself. The heathen seeks to align his spirit with that of the cycles of nature, discover frith [14] with his kinsfolk through organic community, and master himself so he is no longer a slave to his baser impulses. While Christianity suppresses the Will, heathenism glories in it, provided that it can be controlled and understood. To be a heathen is not just to be “open” to the gods, but to pursue the god within. Once properly understood, the heathen carves out in his blood his own Vinlandic Saga each and every day, and even the most mundane activities become a kind of elevating practice.
This requires real experience – real, authentic practice either as a solitary apprentice or, preferably, as part of a kindred or tribe. To rebuild organic culture means creating a shared experience as a community. Heathenism can not be limited to books – or, worse – to the internet. It is to be lived through blood and sweat, the frenzy of inspiration, the toil of shared physical activity, the comradeship and community of shared practice.
Though our sources for “reconstructing how our ancestors did it” are limited, that is relatively unimportant. What is important is taking what we know and embarking on a sincere quest to understand the ancient mysteries, and in so doing, restore our link with Primordial Tradition. The metapolitics, metaphysics, and moral principles of Ásatrú must be explained and defended through every medium possible, but in the end, tens of thousands of words do not carry the power of one authentic “Odinic” experience.
Authentic ritual also allows us to build real community on a level that does not need to be rationally explained. People join groups for one of three reasons – ideological, material, and social. The weakness of abstract, purely “ideological” groups prone to infighting and division is self-evident here. In material terms, a real “kindred” or “tribe” can develop the ability to support its own members through labor, financial aid, and job connections, particularly among working class whites that are cast out on their own by society. However, most importantly, communal ritual, communal symbolism, and communal gatherings “create” a people, and give them their own definition of “good” and “evil,” as described in Thus Spake Zarathustra. It is not whites as they are that we defend, but whites as they could become, and that process of transformation and folk creation has to begin with the establishment of the sacred.
Christianity asks us to rationally believe the unbelievable. Heathens should not compete in apologetics, or take refuge in abstraction. It remains for them to write their own saga by living out the mythology in the modern world. It is not a question of “believing” in Odin, but walking his path, and in so doing, becoming one with the gods. In the end, Ásatrú isn’t something you believe. It’s something you live. It’s not just a tradition “for” a folk. It’s a practice that can create one.
Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com
URL to article: http://www.counter-currents.com/2013/08/the-importance-of-ritual/
URLs in this post:
[1] Image: http://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2013/08/odin745.jpg
[2] upward development of the race: http://www.counter-currents.com/2013/05/race-the-first-principle/
[3] called: http://www.counter-currents.com/2011/06/introduction-to-summoning-the-gods/
[4] Galen: http://www.tertullian.org/rpearse/galen_on_jews_and_christians.htm
[5] One has to ask the universalists: http://www.counter-currents.com/2012/10/asatru-and-the-political/
[6] Revolt Against the Modern World: http://www.amazon.com/gp/product/089281506X/ref=as_li_ss_tl?ie=UTF8&camp=1789&creative=390957&creativeASIN=089281506X&linkCode=as2&tag=countercurren-20
[7] defending: http://www.counter-currents.com/2012/04/the-de-germanization-of-late-american-christianity/
[8] Mjölnir: http://en.wikipedia.org/wiki/Mj%C3%B6lnir
[9] Gungnir: http://en.wikipedia.org/wiki/Gungnir
[10] vé: http://en.wikipedia.org/wiki/V%C3%A9_(shrine)
[11] Aleister Crowley’s: http://www.arktos.com/crowley-thoughts-perspectives.html
[12] samurai: http://www.counter-currents.com/2012/05/the-last-samurai/
[13] tea ceremony: http://en.wikipedia.org/wiki/Japanese_tea_ceremony
[14] frith: http://en.wikipedia.org/wiki/Frith
00:05 Publié dans Traditions | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : ritual, ritualisation, rites, religion, religiosité, tradition, traditions, traditionalisme | | del.icio.us | | Digg | Facebook
lundi, 01 juillet 2013
Entretien avec Gilbert Sincyr
« Le Paganisme est une Vue du monde
basée sur un sens du sacré, qui rejette le fatalisme.
Il est fondé sur le sens de l’honneur
et de la responsabilité de l’Homme,
face aux évènements de la vie »
Entretien avec Gilbert Sincyr, auteur du livre Le Paganisme. Recours spirituel et identitaire de l’Europe
Propos recueillis par Fabrice Dutilleul
Votre livre Le Paganisme. Recours spirituel et identitaire de l’Europe est un succès. Pourtant ce thème peut paraître quelque peu « décalé » à notre époque.
Bien au contraire : si les églises se vident, ce n’est pas parce que l’homme a perdu le sens du sacré, c’est parce que l’Européen se sent mal à l’aise vis-à-vis d’une religion qui ne répond pas à sa sensibilité. L’Européen est un être qui aspire à la liberté et à la responsabilité. Or, lui répéter que son destin dépend du bon vouloir d’un Dieu étranger, que dès sa naissance il est marqué par le péché, et qu’il devra passer sa vie à demander le pardon de ses soi-disant fautes, n’est pas ce que l’on peut appeler être un adulte maître de son destin. Plus les populations sont évoluées, plus on constate leur rejet de l’approche monothéiste avec un Dieu responsable de tout ce qui est bon, mais jamais du mal ou de la souffrance, et devant qui il convient de se prosterner. Maintenant que l’Église n’a plus son pouvoir dominateur sur le peuple, on constate une évolution vers une aspiration à la liberté de l’esprit. C’est un chemin à rebours de la condamnation évangélique, originelle et perpétuelle.
Alors, qu’est-ce que le Paganisme ?
C'est d’abord un qualificatif choisi par l’Église pour désigner d’un mot l’ensemble des religions européennes, puisqu’à l’évidence elles reposaient sur des valeurs communes. C’est donc le terme qui englobe l’héritage spirituel et culturel des Indo-européens. Le Paganisme est une Vue du monde basée sur un sens du sacré, qui rejette le fatalisme. Il est fondé sur le sens de l’honneur et de la responsabilité de l’Homme, face aux évènements de la vie. Ce mental de combat s’est élaboré depuis le néolithique au fil de milliers d’années nous donnant une façon de penser, une attitude face au monde. Il est à l’opposé de l’assujettissement traditionnel moyen-oriental devant une force extérieure, la volonté divine, qui contrôle le destin de chacun. Ainsi donc, le Paganisme contient et exprime l’identité que se sont forgés les Européens, du néolithique à la révolution chrétienne.
Vous voulez donc remplacer un Dieu par plusieurs ?
Pas du tout. Les temps ne sont plus à l’adoration. Les Hommes ont acquit des connaissances qui les éloignent des peurs ancestrales. Personne n’a encore apporté la preuve incontestable qu’il existe, ou qu’il n’existe pas, une force « spirituelle » universelle. Des hommes à l’intelligence exceptionnelle, continuent à s’affronter sur ce sujet, et je crois que personne ne mettrait sa tête à couper, pour l’un ou l’autre de ces choix. Ce n’est donc pas ainsi que nous posons le problème.
Le Paganisme, qui est l’expression européenne d’une vue unitaire du monde, à l’opposé de la conception dualiste des monothéismes, est la réponse spécifique d’autres peuples aux mêmes questionnements. D’où les différences entre civilisations.
Quand il y a invasion et submersion d’une civilisation par une autre, on appelle cela une colonisation. C’est ce qui s’est passé en Europe, contrainte souvent par la terreur, à changer de religion (souvenons-nous de la chasse aux idoles et aux sorcières, des destructions des temples anciens, des tortures et bûchers, tout cela bien sûr au nom de l’amour). Quand il y a rejet de cette colonisation, dans un but de recherche identitaire, on appelle cela une libération, ou une « Reconquista », comme on l’a dit de l’Espagne lors du reflux des Arabes. Et nous en sommes là, sauf qu’il ne s’agit pas de reflux, mais d’abandon de valeurs étrangères au profit d’un retour de notre identité spirituelle.
Convertis par la force, les Européens se libèrent. « Chassez le naturel et il revient au galop », dit-on, et voilà que notre identité refoulée nous revient à nouveau. Non pas par un retour des anciens Dieux, forme d’expression d’une époque lointaine, mais comme un recours aux valeurs de liberté et de responsabilité qui étaient les nôtres, et que le Paganisme contient et exprime.
Débarrassés des miasmes du monothéisme totalitaire, les Européens retrouvent leur contact privilégié avec la nature. On reparle d’altérité plutôt que d’égalité, d’honneur plutôt que d’humilité, de responsabilité, de volonté, de défi, de diversité, d’identité, enfin de ce qui constitue notre héritage culturel, pourchassé, rejeté et condamné depuis deux mille ans.
S’agit-il alors d’une nouvelle guerre de religion ?
Pas du tout, évidemment. Les Européens doivent dépasser ce qui leur a été imposé et qui leur est étranger. Nous devons réunifier sacré et profane, c’est-à-dire réaffirmer que l’homme est un tout, que, de ce fait, il est le maître de son destin car il n’y a pas dichotomie entre corps et esprit. Les Européens ne doivent plus s’agenouiller pour implorer le pardon de fautes définies par une idéologie dictatoriale moyen-orientale. Ce n’est pas vers un retour du passé qu’il nous faut nous tourner, gardons-nous surtout d’une attitude passéiste, elle ne serait que folklore et compromission. Au contraire des religions monothéistes, sclérosées dans leurs livres intouchables, le Paganisme, comme une source jaillissante, doit se trouver de nouveaux chemins, de nouvelles expressions. À l’inverse des religions du livre, bloquées, incapables d’évoluer, dépassées et vieillissantes, le Paganisme est l’expression de la liberté de l’homme européen, dans son environnement naturel qu’il respecte. C’est une source de vie qui jaillit de nouveau en Europe, affirmant notre identité, et notre sens du sacré, pour un avenir de fierté, de liberté et de volonté, dans la modernité.
Le Paganisme. Recours spirituel et identitaire de l’Europede Gilbert Sincyr, éditions de L’Æncre, collection « Patrimoine des Religions », dirigée par Philippe Randa, 232 pages, 25 euros.
BON DE COMMANDE
Je souhaite commander :
… ex deLe paganisme (25 euros)
Francephi diffusion - Boite 37 - 16 bis rue d’Odessa - 75014 Paris - Tél. 09 52 95 13 34 - Fax. 09 57 95 13 34 – Mél. diffusion@francephi.com
Commande par internet (paiement 100 % sécurisé par paypal ou carte bancaire) sur notre site www.francephi.com.
00:01 Publié dans Entretiens, Livre, Livre, Nouvelle Droite, Synergies européennes, Traditions | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : gilbert sincyr, nouvelle droite, paganisme, synergies européennes, traditions, entretien, livre | | del.icio.us | | Digg | Facebook
mardi, 11 juin 2013
Centro Studi La Runa
Centro Studi La Runa
Ultimi articoli pubblicati
http://www.centrostudilaruna.it/
16:12 Publié dans Blog, Traditions | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : italie, traditions, tradition, traditionalisme | | del.icio.us | | Digg | Facebook
lundi, 06 mai 2013
Les Fêtes celtiques et les trois fonctions
Les Fêtes celtiques et les trois fonctions
Ex: http://linformatrionnationaliste.hautetfort.com/
Nous prendrons pour point de départ les quatre fêtes canoniques irlandaises telles qu’elles sont énumérées et décrites dans les textes médiévaux :
• Samain (« réunion, assemblée ») au premier novembre ;
• Imbolc (« lustration ») au premier février ;
• Beltaine (« feu de Bel ») au premier mai ;
• Lugnasad (« réunion de Lug ») au premier août.
Il importe de remarquer que ces quatre fêtes ne portent pas d’autre nom, que leur nom est limité à l’Irlande sans être transposable à une quelconque fête continentale et qu’il n’y a aucun terme spécialisé en irlandais pour désigner la « fête » proprement dite. Le terme usuel, irlandais féil, gallois gwyl, breton gouel, est un emprunt au latin vigilia et ne sert à désigner que la fête d’un saint dans le calendrier liturgique chrétien. Pour les fêtes profanes, il faut se contenter de l’irlandais feasta et du breton fest (qui sont des emprunts, direct ou indirect, par l’intermédiaire de l’anglais, au vieux français feste). Le gallois a un autre mot : gwledd « banquet ».
Nous vous renvoyons, quant à la description générale, à tout ce qui a été dit dans Les Druides (éd. 1986, p. 231-262) et dans La Civilisation celtique (éd. 1990, p. 160-163) et dans Les fêtes celtiques (éd. 1995). La répétition serait superflue. Mais nous insisterons ici sur l’aspect trifonctionnel des quatre fêtes celtiques lequel est très clairement implicite.
Samain, au 1er novembre, marque le début de la saison sombre, clôt la période d’activité militaire et marque le début de l’année. C’est la fête collective de toute l’Irlande puisque la présence de chacun est obligatoire sous peine de mort ou de sanction grave. Elle est l’occasion de cérémonies religieuses et officielles mais le principal moment en est un banquet auquel participent toutes les classes de la société. N’appartenant, ni à l’année qui se termine ni à celle qui commence, Samain est en dehors du temps chronologique et se situe de ce fait dans le mythe, sans idée de durée, c’est-à-dire en réalité dans l’éternité: des événements mythiques se produisent sans interruption ni discontinuité d’une Samain à l’autre, ce qui explique que les gens du sid puissent intervenir dans les affaires humaines ou laisser des hommes pénétrer dans le sid, voire les y inviter ou les y emmener. Avec la participation des druides, de la flaith ou noblesse guerrière et des gens du peuple, la fête est explicitement totale et trifonctionnelle. Elle a été remplacée dans le calendrier chrétien par la Toussaint et la fête des morts. C’est la seule fête celtique dont nous ayons la dénomination gauloise correspondante: Samonios dans le calendrier de Coligny. Le sens étymologique du nom est « réunion ».
Imbolc est, au 1er février, en dépit de tentatives étymologiques aberrantes, la fête de la « lustration » après toutes les souillures de l’hiver. Elle est très peu attestée dans les textes parce qu’elle a pratiquement disparu pour être remplacée par l’immense folklore de sainte Brigit, comprise en cette occurrence comme l’accoucheuse de la Vierge. Elle correspond aux Lupercales latines ou fêtes de février. C’est typiquement la fête de la troisième fonction productrice et artisanale.
Beltaine « feu de Bel » est, au 1er mai, la fête du feu et des maîtres du feu et des éléments atmosphériques, les druides. Fête sacerdotale par excellence, elle indique le début de la saison claire et aussi le commencement de l’activité guerrière. Il n’y a pas d’équivalence continentale attestée mais, dans toute l’Europe, y compris l’ancien domaine celtique, le folklore de mai est immense et varié. C’est surtout celui qui a été le plus difficilement christianisé.
Lugnasad ou «assemblée de Lug» est, au 1er août, la fête royale par définition intrinsèque, en particulier celle du roi régulateur et « centre » de la société humaine. Cela explique les jeux, les concours de poésie et les assemblées de toutes sortes qui en marquent le déroulement. Mais le roi est toujours et en toutes circonstances, en tant que détenteur du pouvoir politique, le représentant le plus éminent de la classe guerrière. Le folklore a fait de Lugnasad une fête agraire à cause de sa position dans le calendrier mais c’est un glissement tardif et l’attribution à Lug de la fête résulte de sa position centrale dans le calendrier. L’équivalent gaulois, récupéré par la politique romaine du début de l’Empire, porte le nom latin de Concilium Galliarum ou « assemblée des Gaules ».
Ces quatre fêtes ont en commun d’être décalées de quarante à quarante-cinq jours sur la date calendaire normale. Deux d’entre elles, Samain et Belteine, comportent des sacrifices et des cérémonies religieuses en même temps que des assemblées administratives et politiques. Elles ont toutes survécu et laissé des traces importantes dans le folklore irlandais. Samain a été récupérée par l’Église pour la fête des morts et de la Toussaint, cependant que le folklore de mai est resté très important dans toute l’Europe occidentale.
Pour aller plus loin :
• Christian-J. Guyonvarc’h et Françoise Le Roux, Les fêtes celtiques, Ouest France, 1995
• Philippe Walter, Mythologies chrétiennes, Imago, 2003.
Cattos http://www.propagandes.info
Source : http://lecheminsouslesbuis.wordpress.com
00:05 Publié dans Traditions | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : traditions, fêtes, celtisme, celtitude, celticité, traditions celtiques, liturgie, religion | | del.icio.us | | Digg | Facebook
samedi, 27 avril 2013
Il grande equivoco della «nuova evangelizzazione»
di Francesco Lamendola
Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]
Sacerdoti e credenti laici, da un po’ di tempo a questa parte, si vanno riempiendo la bocca con una nuova espressione che, a loro parere, dovrebbe spiegare e giustificare tutto, mentre non spiega e non giustifica proprio nulla: la cosiddetta nuova evangelizzazione.
Si parte da un dato corretto, anzi, perfino banale nella sua lampante evidenza: il mondo moderno è diventato radicalmente laico, o, per meglio dire, laicizzato e secolarizzato; si è radicalmente allontanato dal sacro e dal religioso; si è radicalmente scristianizzato. Il sogno di Hébert, degli “enragés”, dei sanculotti del 1793 si è infine realizzato: ma non già, come essi cercarono di fare, chiudendo le chiese e abolendo gli ordini religiosi, bensì svuotando le chiese dei fedeli e trasformando, snaturando lo spirito dei monasteri.
Da questa constatazione nasce l’idea, in sé giusta, che il cristianesimo, almeno in Occidente, deve ripartire da zero: alle masse secolarizzate, immerse nel materialismo e nell’edonismo più sfrenato, si deve riproporre la Buona Novella ripartendo da niente: non ci sono più basi, non si deve dare nulla per scontato, perfino il battesimo non è che un rito formale. La verità è che i cristiani sono diventati non solo minoranza, ma esigua minoranza; e che, anche fra di essi, l’autentico spirito di fede è paurosamente scemato, quando non è stato alterato e perfino travisato.
Le cause sono molteplici, ma tutte riconducibili al fenomeno della modernizzazione: prima con la Rivoluzione scientifica, poi con la Rivoluzione industriale, infine con le ideologie “progressiste” di matrice illuminista – liberalismo, democrazia, socialismo, comunismo, radicalismo -, la società occidentale ha imboccato sempre più decisamente la strada della glorificazione dell’uomo e delle sue opere: gli stati, le merci, il denaro, la scienza e la tecnica; e, contemporaneamente, la strada dell’oblio dell’essere, dell’assoluto, di Dio.
Spesso la glorificazione dell’uomo, davanti ai ripetuti insuccessi, agli errori ed ai crimini di cui è stata costellata la marcia verso le “magnifiche sorti e progressive”, si è rovesciata nel suo contrario: nell’amaro disprezzo, nella svalutazione totale, nello schifo, nella nausea, nella nullificazione. Raramente, però, dallo schifo, dalla nausea e dalla nullificazione di sé, l’uomo moderno ha avuto la forza di ritrovare la necessaria umiltà e di chiarire a se stesso le ragioni del proprio scacco; raramente ha trovato il coraggio di riconoscere l’origine del proprio fallimento e di rimettersi sulla strada dell’essere, alla ricerca dell’assoluto, che sola avrebbe potuto spegnere la sete divorante che ontologicamente appartiene alla sua natura.
La Chiesa cattolica rispecchia e riflette le contraddizioni del mondo moderno, prima fra tutte l’idolatria del’uomo e delle sue opere. A un certo punto ha creduto che l’unico modo per non scomparire, per conservare il proprio messaggio e trasmetterlo alle future generazioni, fosse quello di parlare la stessa lingua del mondo moderno, di adottare i suoi punti di vista, la sua prospettiva, il suo stile, le sue finalità. Molti cristiani lo pensavano in buona fede, sia chiaro, e lo pensano tuttora: hanno creduto, così facendo, di riagganciare il treno in partenza, di ristabilire un dialogo con quanti avevano perso la fede o la stavano perdendo: e non si sono accorti che, un poco alla volta, inavvertitamente, quelli che stavano perdendo la fede erano loro.
Hanno creduto, per esempio, che la liturgia fosse una semplice veste esteriore; e l’hanno a tal punto modificata, da renderla irriconoscibile. Hanno creduto che il dogma si potesse “interpretare” alla luce della mentalità moderna: e, come i protestanti, hanno cominciato a leggerlo ciascuno a suo modo, sempre con la “buona” intenzione di renderlo più comprensibile, più al passo coi tempi. Hanno cominciato a sentire, a pensare, a vestire, a parlare, ad agire in tutto e per tutto come gli “altri”. Perdendo la propria specificità, e ciò sulla base di un grande equivoco: che, per dialogare con l’altro, sia necessario abolire la distanza, rinunciando a quel che si è. Ma questo non è dialogare: questo è camuffarsi, abdicare a se stessi, imbrogliare le carte. Non è una forma di rispetto né verso gli altri, né verso se stessi, né, meno ancora, verso la verità.
Sempre più spesso sedicenti “teologi” cattolici pubblicano libri, rilasciano interviste e imperversano nei salotti televisivi, per sostenere delle autentiche enormità, per vendere come l’ultimo grido del politicamente corretto e dell’audacia speculativa una serie di affermazioni che nulla hanno di cristiano e che gettano solamente la confusione e lo smarrimento fra i credenti, mentre non servono affatto a conquistare l’attenzione e il rispetto dei non credenti, come invece essi - non sai se più ingenui o vanitosi - s’immaginano.
Siffatti teologi negano il mistero, negano i miracoli, o quasi tutti i miracoli; negano, in sostanza, il soprannaturale: imbevuti di evoluzionismo, di psicanalisi, di storicismo e di positivismo, pensano e parlano come se solo le verità della scienza, dell’economia, della politica fossero degne di rispetto; come se soltanto l’agire fosse utile e necessario, mentre il pregare – specie se in un monastero di clausura – fosse parassitismo. Questo non lo dicono esplicitamente, beninteso: ma lo si evince chiaramente da tutti i loro discorsi. Ostentano una filosofia “progressista” che dovrebbe catturare la benevolenza dei loro interlocutori profani, mentre attira su di essi solamente il disprezzo. In compenso, vengono lusingati nella loro umana vanità: i loro libri si vendono bene, i conduttori televisivi li invitano spesso. Non si accorgono nemmeno di essere il trastullo di quei salotti buoni, gli inconsapevoli buffoni della situazione. Li trovano utili, finché parlano male del Papa o deridono la credenza nel Diavolo, finché gettano dubbi sulla vita dell’anima, sul peccato, sul Giudizio: li strumentalizzano ed essi ci cascano, lusingati nella loro ambizione, nel loro narcisismo intellettuale. Si sentono dei grand’uomini, degli “illuminati” e sono gratificati dal pensiero che stanno contribuendo a “modernizzare” il cristianesimo.
E sempre più spesso membri del clero parlano e si comportano come se non credessero nel sacramento del sacerdozio: non vedono l’ora di vestirsi in borghese, appena terminato di officiare la messa; preidicano con disinvolta leggerezza, turbano le coscienze con affermazioni azzardate e gratuite; in privato, ma sovente anche in pubblico, criticano ferocemente la Chiesa, rammentano gli scandali, i casi di pedofilia, la corruzione della Curia; incuranti di ogni spirito di carità, di umiltà, di obbedienza, parlano male del Papa – lo hanno fatto specialmente con Woityla e Ratzinger; in breve: fanno di tutto per piacere al “mondo” e per farsi perdonare la “colpa” di essere, loro malgrado, esponenti di una istituzione oscurantista e retrograda.
In molte chiese, la messa è diventata una sorta di pomposo rito laico, simile, in tutto e per tutto, a una qualsiasi assemblea profana: si ripete qualche formula, magari sopprimendo le più “imbarazzanti” (come il “Confiteor”); si ascolta una omelia che ha ben poco di spirituale; si fa della musica con le chitarre e si cantano delle canzoni insulse e dolciastre, pervase di un buonismo tanto generico quanto insipido; ci si rivolge ai vicini di banco per scambiarsi il cosiddetto “segno di pace”, stringendosi la mano come si farebbe in piazza, al passeggio, con grandi segni di amicizia e simpatia (anche se ciascuno è solo coi suoi problemi e, una volto uscite di lì, le persone non si salutano nemmeno).
L’anima non trova il silenzio, non si rivolge verso l’alto; la presenza di Dio è un “optional”, non la si sente viva e vibrante nei gesti e nelle parole del sacerdote; questi, anzi, volta costantemente le spalle all’altare del Santissino, si tiene sempre rivolto all’assemblea, come farebbe un qualsiasi oratore profano: si direbbe che la Messa sia una faccenda fra lui ed essa, che sia, al massimo, una semplice commemorazione. Dello Spirito che scende sui fedeli, del mistero della transustanziazione, si stenta a riconoscere la presenza. Ciascuno si prende in mano la particola, come se fosse un qualunque pezzo di pane, e la porta alla bocca da sé: come dire: faccio da solo, non ho bisogno di nessun altro. Ma questa è la dottrina luterana del sacerdozio universale: non è una dottrina cattolica.
Ultima in ordine di tempo, da Cagliari giunge la notizia che un gruppo di frati francescani e di suore hanno organizzato canti e balli in piazza, coinvolgendo alcune decine di ragazzi, con lo scopo dichiarato di “riavvicinare” a Dio le persone: il tutto in una sarabanda di movenze scomposte, in un frenetico agitarsi di corpi come in una discoteca, che si sarebbe potuto giudicare semplicemente grottesco, se non fosse stato, prima di tutto, penoso. Alla fine la manifestazione é stata sciolta dalle forze dell’ordine, perché sprovvista delle necessarie autorizzazioni.
La preghiera, il silenzio, il decoro, la modestia, il rientro nelle profondità dell’anima, per trovare la Parola assoluta: tutto questo, per quei religiosi, è passato di moda. Oggi bisogna predicare Dio a tempo di rock; scimmiottando lo stile profano, essi pensano di farsi pescatori di uomini: ma chi è che rimane preso veramente nella rete, a questo punto: il pesce o il pescatore? Lo spettacolo che essi hanno offerto era ridicolo, ma anche pericoloso: il cristianesimo che hanno “proposto” al pubblico non era che una caricatura della fede, una mascherata totalmente fuorviante.
La domanda è sempre la stessa: per dialogare con il mondo moderno, bisogna introiettare la filosofia del mondo moderno? Se così fosse, allora sarebbe più semplice fare quel che fecero Lutero e Calvino cinque secoli fa: abolire la Chiesa, sopprimere gli ordini religiosi e la distinzione fra sacerdoti e laici, leggere e interpretare liberamente le Sacre Scritture, eliminare quasi tutti i sacramenti, negare al Papa qualunque obbedienza; e, soprattutto, smettere di sforzarsi di essere dei buoni cristiani, perché tanto non serve a niente, Dio ha già deciso chi salvare e chi no.
Lutero e Calvino, almeno, furono coerenti (meno coerenti gli storici professionisti che si ostinano a chiamare “riforma” quella che fu una radicale distruzione), mentre questi teologi, questi preti e questi fedeli “progressisti” dei nostri giorni non hanno nemmeno la virtù della coerenza: vorrebbero snaturare completamente la fede, ma senza avere il coraggio di dirlo e, forse, nemmeno l’onestà di rendersene conto. Intanto si affannano per tirare la Chiesa dalla loro parte, per tirare il Papa per la falda della sottana, spostandoli sempre più verso le loro posizioni. La fede?, una possibilità. La vita dopo la morte?, forse. Il sacerdozio femminile: perché no? Le unioni di fatto, i matrimoni gay: perché no, dopotutto? Aborto ed eutanasia: no, certo; però, bisogna vedere, vi sono taluni casi…
E così via, di dubbio in dubbio, di possibilismo in possibilismo, di compromesso in compromesso: alla fine quel che resterà non avrà più niente di specificamente cristiano e neppure di specificamente religioso. Sarà una pseudo-religione fatta da ciascuno sulla propria misura, come si va dal sarto ad ordinare un vestito. Una “religione” buona per tutte le stagioni, che costa il minimo della fatica intellettuale e nessun sacrificio sul piano morale. Una religione comoda, una religione usa e getta. Gesù Cristo, alla fine, sarà uno dei tanti maestri di saggezza: un uomo notevole, certamente, ma insomma un uomo. Come dicono i Testimoni di Geova. E la morte, tornerà ad essere la morte: la parola definitiva sulla vita, come nell’Antico Testamento. Poi, forse, Dio resusciterà i defunti: ma l’anima, l’anima immortale, non sarà più necessaria.
Si tornerà a leggere i Vangeli e si “scoprirà” che Gesù, nel deserto, non è stato tentato da Diavolo, perché quel racconto è un semplice simbolo; che i pani e i pesci non sono stati moltiplicati, perché anche quello è solo un simbolo; che Lazzaro non è stato richiamato dal paese dei morti, perché questo non è possibile. Quasi quasi, si scoprirà che Gesù non ha fondato una nuova religione: era un ebreo, che pensava da ebreo, ed ebrei erano i suoi seguaci - Paolo compreso, l’evangelizzatore dei gentili. Dunque il cristianesimo non è che una forma di ebraismo, un ebraismo rivisto e adattato alla mentalità dei non ebrei.
Allora bisogna avere il coraggio di dire che Pio X, quando ha condannato il modernismo, definendolo “sintesi di tutte le eresie”, ha sbagliato in pieno; bisogna avere il coraggio di dire che molti teologi, preti e laici hanno visto nel Concilio Vaticano II la rivincita della verità rappresentata dal modernismo, ingiustamente condannato; e che il cristianesimo attuale, che essi volevano e vogliono, è un cristianesimo modernista, ossia un cristianesimo fatto a immagine e somiglianza del mondo moderno, che dice solo quelle cose che piacciono al mondo moderno e che tace o si vergogna di tutte le cose che, al mondo moderno, potrebbero dare fastidio.
Resta solo da capire che cosa potrebbe farsene, l’uomo moderno, di un siffatto cristianesimo. Per sentire dei discorsi che piacciono al mondo moderno, non c’è bisogno di una religione, né di una chiesa, e tanto meno del cristianesimo, Le stesse cose le dicono già, e le dicono meglio, innumerevoli ideologie politiche, sociali, filosofiche; meglio ancora: le dice la società moderna, senza bisogno di ideologie. Le dice con l’adorazione quotidiana delle cose, del denaro, del sesso, del potere. E dunque, perché ripeterle tra le navate di una chiesa, scimmiottando lo stile del mondo?
Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it
00:05 Publié dans Actualité | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : religion, catholicisme, évangélisation, traditions, traditionalisme, francesco lamendola | | del.icio.us | | Digg | Facebook
jeudi, 25 avril 2013
Comment l'islam a étouffé les cultures pré-islamiques au nom du culte de l'unicité de Dieu
Comment l'islam a étouffé les cultures pré-islamiques au nom du culte de l'unicité de Dieu
De l'architecture aux divinités, une conférence à Fès au Maroc s'est penchée pour la première fois sur l'histoire du Maroc antique. Mais les cultures pré-islamiques restent largement méconnues.
Al-tawhîd
Ex: http://histoire.fdesouche.com/
"L'islam a conservé, et on l'ignore souvent, des éléments de culture pré-islamique." Crédit DR
Atlantico : De l'architecture aux divinités, une conférence tenue à Fès au Maroc s'est penchée pour la première fois sur l'histoire du Maroc antique. Les cultures pré-islamiques restent largement méconnues. Comment l'expliquer ?
C'est une conférence salutaire à tout point de vue, car, en effet, objectivement, l'histoire des sociétés arabes ne commence absolument pas avec la naissance de l'islam au début du VIIème siècle. Il serait bon de s'en souvenir. Ainsi, cette religion monothéiste, née en Arabie en 610 sous l'apostolat de Muhammad, ne s'est donc pas développée ex nihilo. À côté de l'architecture et du culte des divinités, à l'époque anté-islamique, il ne faut pas omettre de mentionner la littérature arabe et plus exactement encore sa poésie, laquelle fut très raffinée avant et après l'avènement de l'islam.
Si les cultures pré-islamiques sont sinon ignorées du moins délaissées, c'est parce que selon un certain enseignement de l'islam, du culte de l'unicité absolue de Dieu (al-tawhîd), celles-là contribueraient à éloigner l'homme en général et le musulman en particulier, de la croyance en un Dieu unique suivant des règles ou des principes précis édictés dans le Coran, la Sunna (traditions prophétiques) et "la compréhension des pieux prédécesseurs" (al-salaf al-çâlih).
Il y a une confusion regrettable dans l'esprit de certains musulmans de nos jours. En effet, ils confondent démarche de connaissance, historique et démarche piétiste ou fidéiste, en sorte qu'ils croient, à tort, que la première menace inéluctablement l'intégrité de leur foi !
Quelles étaient les valeurs qui y étaient défendues (en particulier le rapport au sexe et à la femme) ? Quelles en ont été les principaux apports et quel en est aujourd'hui l'héritage ?
Dans L'Arabie pré-islamique, par exemple, dominait une vie tribale où la liberté du groupe se confondait avec celle de l'individu, dans une perpétuelle interaction. Il y avait, notamment à La Mecque, outre une culture polythéiste intense à côté du judaïsme et du christianisme, une dialectique de la paix et de la guerre entre les différentes tribus, avec des razzias, etc. Y dominaient par ailleurs des solidarités mécaniques, les vertus de courage, d'honneur, etc. La vie morale des Bédouins reposait, selon Roger Caratini, entre autres orientalistes, essentiellement sur les valeurs suivantes: "le courage, l'honneur tribal, familial, individuel, la générosité et l'hospitalité".
La polygamie était largement de mise, dans la mesure où plus vous aviez de femmes, plus il vous était possible d'asseoir la puissance de la tribu, avec une prime accordée aux garçons (symboles de la puissance du groupe), tandis que les fillettes étaient parfois enterrées vivantes...Et c'est l'islam, très précisément, qui a mis fin à cette pratique horrible!
Quant à la poésie pré-islamique, elle chantait les vertus de l'amour, du vin; elle prônait quelquefois l'injure ou l'ironie vis-à-vis des clans ennemis, etc.
Cependant, l'islam a conservé, et on l'ignore souvent, des éléments de culture pré-islamique. Il faut savoir que le pèlerinage à La Mecque était déjà de rigueur et un lieu prisé par différentes tribus et les grands commerçants installés ou de passage, soit donc bien avant l'arrivée de l'islam. L'autorisation de la polygamie était également un héritage de la période pré-islamique, en plus de la richesse sémantique de la langue arabe qui deviendra aussi la langue du Coran !
Quelles conséquences le développement de l'islam a-t-il eu sur elles et sur leur rayonnement ? Quel regard porte-t-il aujourd'hui sur ces cultures ? Plus globalement, quel rapport l'islam a-t-il à l'histoire ?
Les conséquences sont multiples. L'islam a sévèrement combattu la polythéisme, c'est un fait; a fortiori sous les feux de lectures orthodoxes; il a interdit, suivant l'orthodoxie sunnite notamment, et en plusieurs étapes, la consommation d'alcool, le libéralisme sexuel (sur ce point, comme n'importe quel autre monothéisme); il a également strictement encadré la polygamie, etc. Des acteurs de l'islam (activiste) contemporain qui nourrissent une vision très rigoriste de la religion, entretiennent une véritable animosité et haine vis-à-vis de certains types de culture hérités de la période pré-islamique. Souvenons-nous à cet égard des Talibans afghans qui ont détruit les Bouddhas de Bâmiyâm en 2001 ou, plus récemment, des islamistes qui ont entamé la destruction de mausolées de saints à Tombouctou au Mali... Cela dit, il convient d'être extrêmement précis: c'est moins l'islam, en tant que tel, et intrinsèquement, qui mène une guerre sans pitié à l'encontre de ces cultures, que des activistes qui vouent un souverain mépris à l'endroit de la connaissance de façon générale, et, en particulier, du patrimoine de l'humanité.
00:05 Publié dans Entretiens, Islam, Traditions | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : traditions, traditionalisme, entretien, islam, religion, religion pré-islamique | | del.icio.us | | Digg | Facebook
mardi, 23 avril 2013
Gilbert Sincyr au Local
18:15 Publié dans Evénement | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : gilbert sincyr, événement, paris, france, paganisme, traditions | | del.icio.us | | Digg | Facebook
vendredi, 05 avril 2013
Deux ouvrages récents sur les origines indo-européennes
Deux ouvrages récents sur les origines indo-européennes
Linguiste, M. G. Devoto s’est très tôt intéressé aux réalités historiques, psychologiques, esthétiques qu’expriment et reflètent les faits de langue. En particulier, il n’a pas cessé, depuis ses débuts, de préconiser une collaboration étroite entre grammaire comparée et disciplines historiques. Dès 1931, l’essai Gli antichi Italici montrait l’efficacité de la méthode appliquée à l’Italie pré romaine, et deux éditions n’en ont pas épuisé le succès. Son commentaire des Tables eugubines (1940) est tout nourri d’histoire. Depuis lors, il n’est pas d’année qui n’ait apporté (notamment dans la revue Studi etruschi) le témoignage de la réflexion à laquelle M. Devoto soumettait les résultats conjoints de la linguistique, de l’archéologie, des sciences du droit et des institutions. Dans ces travaux, l’auteur confère à la préhistoire indo-européenne une dynamique, une historicité qu’elle n’avait pas avant lui. Les Scritti minori, recueillis en 1958, sont ainsi comme la préfiguration du grand oeuvre qu’il restait à construire: le livre de doctrine sur les origines indo-européennes.
Un grand oeuvre dont, après vingt-cinq années de recherches, l’auteur considère sans illusion l’inévitable caractère d’inachèvement: «un chantier», écrit-il ; et d’en «prendre congé», comme ferait l’artiste d’un chef-d’oeuvre ambitieux, si longtemps médité, si longuement accru et travaillé qu’à la fin il dépasse son auteur et ne lui appartient plus. Mais il y a là un excès de mod estie, et l’on devine que le livre de M. Devoto est plus qu’un recueil de données. Il comporte une doctrine, à la fois souple et originale, tout en restant, de propos délibéré, ouvert à la critique et à la révision. Comparé au livre récent de M. P. Bosch-Gimpera, analysé ici même en 1963 (1), il en diffère et par la méthode et par les dimensions.
Fondé presque entièrement sur l’archéologie préhistorique, l’exposé de M. Bosch-Gimpera, quoique fortement personnel, laisse assez loin l’aspect proprement linguistique de la recherche, et seules quelques données très générales y demeurent sous-jacentes; mais le problème crucial, qui est de retrouver le processus historique de la diffusion des dialectes indo-européens, demeure en quelque sorte dilué dans l’extrême foisonnement des faits archéologiques. En somme, M. Bosch-Gimpera n’imposait pas au comparatiste des vues nouvelles. Au contraire, M. Devoto a résolu — et c’est là son grand mérite — d’affronter successivement tous les aspects du problème, d’en réunir et d’en organiser toutes les données, sans jamais négliger l’historique de la recherche. M. Devoto est convaincu, évidemment avec raison, que la diffusion de l’indo-européen ne saurait, dans la plupart des cas, s’être accomplie sans un déplacement notable de groupes de colonisateurs ou de conquérants; qu’en outre, ces groupes d’hommes ne peuvent avoir imposé leur langue à l’exclusion de tous les autres éléments culturels, qu’ils soient de nature intellectuelle (faits sociaux, religieux, psychologiques) ou matérielle (outillage, céramique, armement, usages domestiques et funéraires). Des premiers, l’archéologie ne livre que des traces très indirectes; mais ils ont dû conditionner l’histoire du vocabulaire. Des autres, les témoignages livrés par le lexique sont plus fuyants; mais l’archéologie, là du moins où elle est suffisamment avancée, permet d’en restituer les modalités et les variantes avec une fidélité souvent surprenante. Le problème revient à déterminer dans quelle mesure, dans le cas des Indo-Européenes, vicissitudes de la civilisation, que révèle l’archéologie, peuvent correspondre avec les faits qui ont conditionné l’histoire linguistique.
Se situant au point de convergence de plusieurs disciplines qui relèvent de méthodes très différentes, pareille tâche présuppose un aménagement multilatérale des données retenues comme pertinentes. Mais M. Devoto a bien vu que le problème indo-européen étant un problème linguistique, l’enquête doit être orientée dans le sens qu’indiquent les faits de langue. Reste à savoir si l’auteur a opéré avec les faits linguistiques et avec les faits historico-culturels de façon à satisfaire à la fois les comparatistes et les archéologues, et s’il n’est pas inévitable que des faits aient été choisis et traités de manière un peu intentionnelle pour leur capacité de s’accorder les uns avec les autres. Il va de soi qu’en pareille matière, une tentative de solution ne va pas sans une forte part d’hypothèse, sans une sorte de démiurgie. On ne peut qu’admirer en tout cas l’étendue de l’effort déployé pour ordonner une matière aussi vaste et pour dominer un problème d’une complexité aussi décourageante.
Il n’y aurait pas proprement de «problème indo-européen» si l’on n’était à même d’établir l’existence d’une unité linguistique indo-européenne. Aussi est-ce à réexaminer la légitimité du problème, maintes fois mise en doute en ce dernier quart de siècle, que M. Devoto consacre son premier chapitre: reconstruction «structurale», esquissée dans ses grands traits, de l’indo-européen commun; rappel succinct des quelques faits relevant d’un état plus ancien, le «proto-indo-européen» (2); examen rapide du problème des rapports entre indo-européen et d’autres familles linguistiques — on sait qu’outre le sémitique et le finno-ougrien, on a noté des concordances lexicales jusqu’en chinois et en coréen: certaines ne sont peut-être pas fortuites, comme pour le nom du «miel» (chin. arch. *myet: i.-e. *medhu-) ou du «chien» (chin. arch. *k’iwen: i.-e. *k’won-), et posent la question d’antiques relations transasiatiquee et transsibériennes.
Le chap. II examine les données géographiques, anthropologiques et ethnologiques et fait l’historique des nombreuses controverses qu’elles ont soulevées. M. Devoto procède par éliminations successives, en ‘en tenant fermement à un principe simple mais rigoureux: sont à exclure a priori toutes les régions où des témoignages historiques ou linguistiques attestent ou font en trevoir que les populations de langue indo-européenne s’y sont progressivemeént établies à la suite de migrations, et où l’archéologie et l’épigraphie garantissent l’existence, jusqu’à des époques relativement récentes, de civilisations et de langues de substrat (Inde, y compris le bassin de l’Indus, Iran méridional, Caucase, Grèce, Italie, pays celtiques). L’aire qui demeure possible est limitée en gros par le Rhin, les Alpes, le bassin du Danube, les mers Noire et Caspienne; mais les confins orientaux, en direction des steppes, sont fuyants. Quant aux limites chronologiques, M. Devoto, avec raison, considère comme de date trop basse l’âge du Bronze de l’Europe centrale (débuts du IIe millénaire), mais le Mésolithique, qui a pourtant été proposé (avant le Ve millénaire), est visiblement trop haut (3).
M. Devoto estime le volume démographique des migrations comme étant en raison inverse de la supériorité technique ou politico-sociale des colonisateurs sur les colonisés. C’est dire qu’on ne doit pas s’attendre à en retrouver des traces archéologiques à la fois massives et très spécifiques. Aussi une grande partie du livre — et la plus personnelle — est-elle consacrée aux aspects techniques, idéologiques et sociologiques du monde indo-européen. L’auteur ne se fait guère d’illusion sur la vertu de la comparaison en ethnologie et en histoire du droit, et l’on ne peut qu’approuver sa prudence: la probabilité mathématique d’un morphème ou d’un sémantème n’a rien de commun avec celle d’un genre de vie ou d’une institution sociale ou religieuse, où la part de contingence est évidemment beaucoup plus grande.
En revanche, si faible que soit, par définition, la réductibilité de ses résultats à des faits d’ordre ethnique ou linguistique, l’archéologie est devenue au jourd’hui une science trop rigoureuse, trop objective pour n’être pas interrogé: c’est l’objet du chap. III. Selon M. Devoto, les éléments du décor d’une poterie peuvent être considérés comme des critères suffisants, car ils sont par nature non fonctionnels et reposent sur une tradition désintéressée, donc non contingente. Mais l’auteur ne marque pas assez nettement, peut-être, que si les groupements céramologiques n’ont guère de chance a priori de recouvrir des groupements linguistiques, c’est en vertu du fait d’expérience, méthodologiquement fondamental, que les conditions dans lesquelles se transmettent langues et éléments de civilisation sont radicalement différentes. Aussi M. Devoto ne renouvelle-t-il pas les imprudences des «lois» céramologico-linguistiques d’un O. Montelius ou d’un G. Kossinna, qui postulaient un parallélisme entre continuité culturelle (temps ou espace) et continuité ethnique, discontinuité culturelle et discontinuité ethnique. Et il ne cherche pas à identifier les expansions indo-européennes antérieures au IIIe millénaire, c’est-à-dire les expansions qui n’ont pas abouti à la formation des communautés historiques et qui n’offrent pas à l’historien un point d’arrivée où langue et culture soient indiscutablement associées. Ce que cherche avant tout à définir l’auteur, ce n’est donc pas la toute première communauté «proto-indo-européenne», insaisissable, mais plutôt un jeu de forces en mouvement, en partie antagonistes, propre à justifier l’éclatement culturel et linguistique postulé par l’histoire. De même que certains astres ont pu être identifiés par l’incidence de leurs mouvements sur l’ensemble d’un système, c’est par la dialectique des rapports entre traditions linguistiques et culturelles différentes que M. Devoto arrive à saisir l’existence d’une communauté indo-européenne. Ce jeu de forces, il en trouve le cadre, après bien des éliminations, et d’accord avec plusieurs préhistoriens (tels M. Bosch-Gimpera et Mme M. Gimbutas), dans le monde néolithique de la céramique rubanée. Celui-ci, on le sait, présente une relative uniformité entre le Rhin et l’Oder et entre la ligne Cologne-Magdebourg-Francfort-sur-Oder et le bassin de la Drave en Hongrie.
L’aire ainsi définie est vaste, notamment en direction de l’Ouest; et il s’agit d’une époque que les récentes datations au radio-carbone tendent à reporter au-delà du IVe millénaire. G. von Kaschnitz-Weinberg écartait la civilisation de la céramique rubanée, M. H. Hencken la restreint à l’une de ses composantes orientales. On pourrait craindre aussi que le caractère si particulier de la morphologie indo-européenne s’accorde mal avec l’hypothèse de populations nombreuses et dispersées, chez qui toute unité linguistique paraît vouée à une fragmentation dont il semble malaisé de placer les débuts vers le Ve ou même le IVe millénaire. Il est vrai que, d’une part, il ne s’agit pas, dans l’esprit de M. Devoto, d’identifier simplement les porteurs de la civilisation «rubanée» avec les porteurs de l’indo-européen, ni d’assimiler une certaine technique décorative — d’ailleurs dépourvue d’unité organique — à une tradition linguistique donnée. Et ce n’est que plus tard qu’apparaissent la plupart des phénomènes d’attraction, de résistance et d’expansion capables d’éclairer le problème des rapports entre le monde indo-européen et sa périphérie: pressions de l’extérieur et notamment du monde asianique et méditerranéen (spondylus gaederopus, céramique peinte, idoles anthropomorphes) mais aussi du monde nordique (civilisation de Rossen) ou occidental (civilisation du vase campaniforme); attractions et résistances exercées par des foyers extérieurs (Balkans, Thrace, Thessalie, Italie du Nord et du Sud); facteurs internes, foyers d’expansions futures (Hongrie et Silésie avec les civilisations de Jordansmühl, des amphores globulaires, de la céramique cordée; Bohême avec la civilisation d’Unëtice; de nouveau Hongrie et Silésie avec la civilisation de Lusace et l’expansion des Champs d’urnes). On le voit, ces phénomèn esse pour suivent jusqu’à l’âge du Bronze final. Après d’autres, M. Devoto attache une grande importance au dynamisme de la civilisation d’Unëtice, dont des éléments se retrouvent de la Pologne à la Roumanie, mais aussi, mêlés à des traits apenniniens, dans la culture lombardo-émilienne des «terramares». En réaction contre l’«anti-décorativisme» radical d’Unëtice, la civilisation des tumulus s’affirme surtout en direction de l’Occident où elle prépare l’expansion future de la civilisation de Lusace et des Champs d’urnes.
Or, on sait que ces dernières inaugurent en Europe le rite funéraire de l’incinération. Pour M. Devoto cet avènement marque un changement profond des conceptions eschatologiques: cette opinion ancienne paraît devoir être retenue dans certaines limites, en dépit des résistances qu’elle a rencontrées; mais souvent, et parfois très rapidement, les formes extérieures de l’inhumation et les croyances qui y sont attachées ont réagi sur l’incinération et ont tendu à la supplanter. L’auteur marque bien, en tout cas, que l’incinération n’implique, dans les lieux mêmes où s’élabore la culture de Lusace, ni une mutation ethnique ni de changements profonds de la civilisation: ainsi à Knoviz, en Bohême, on peut observer stratigraphiquement le passage graduel de la culture inhumante d’Unëtice à celle, incinérante, de Lusace. Il n’en reste pas moins vrai qu’ailleurs que dans ses foyers d’élaboration, l’incinération introduite par les porteurs des «Champs d’urnes» s’insère brutalement et globalement dans un horizon inhumant, et constitue dès lors le signe probable d’une immigration, peut-être numériquement faible, mais idéologiquement puissante. Ainsi, en Italie, le contraste entre Subapenniniens inhumants et Protovillanoviens incinérants est net à tous égards, quelque interprétation qu’on soit amené à donner de ce contraste.
Le chap. IV étudie la problématique des données linguistiques. La doctrine de M. Devoto est, on le sait, résolument progressiste: critique des conceptions généalogiques abstraites, exclusivement centrifuges, de la linguistique traditionnelle; vision très souple des relations entre mondes indo-européen et non-indo-européens; large utilisation des principes de la linguistique «spatiale». M. Devoto distingue ainsi des courants anti-indo-européens parallèles aux pressions extérieures reconnues par l’archéologie; les noms du «minerai de cuivre» (i.-e. *raud(h)o-) et du «bovin domestique» (*gwôu~), le système de numération duodécimal peuvent avoir été apportés par les mêmes courants de provenance anatolienne et mésopotamienne (cf. resp. sum. urud «cuivre» et gu «boeuf») qui ont introduit en Roumanie, en Thessalie, en Italie du Sud la céramique peinte; de même, le système vigésimal qui apparaît dans le monde celtique pourrait être mis en rapport avec le courant d’origine sud-occidentale représenté archéologiquement par la céramique campaniforme. Là où l’expansion indo-européenne rencontrait ces mêmes courants anti-indo-européens, il est arrivé que l’indo-européen, du moins en un premier temps, ne se soit pas imposé, et n’ait laissé à la langue de substrat que des traces isolées, lexicales ou morphologiques; il en est résulté, spécialement dans l’Europe méditerranéenne et en Anatolie, une frange de neutralisation que M. Devoto appelle péri-indo-européenne: il s’agirait en somme d’un processus amorcé mais non achevé d’indo-européisation. Cette notion permettrait d’expliquer la présence d’éléments indo-européens en étrusque, dans des parlers préhelléniques et asianiques, ainsi que des contaminations de traditions indo-européennes et «méditerranéennes»: des faits tels que gr. πννδαξ «fond de vase» à côté de πνθμήν, πύργος à côté de got. baùrgs «ville» mais aussi de médit. *parga-/*perga-, trouveraient ainsi leur explication.
Le chap. V dégage, par une étude exhaustive du lexique, les traits du patrimoine spirituel, institutionnel et technique. Un effort pour relier ce patrimoine notionnel aux réalités que fait connaître l’archéologie aboutit à de nombreuses explications de détail tantôt convaincantes, tantôt, il faut le dire, simplement ingénieuses. Si, par exemple, il existe un adjectif commun pour «mou, tendre» *mldu-) sans complémentaire pour «dur», c’est, enseigne l’auteur, que le premier avait dans cette communauté néolithique une valeur technique, et se référait à une certaine qualité de la pierre ou du bois les rendant propres à être façonnés: mais la non-aptitude n’est-elle pas aussi une valeur technique? De même, le rapport de lat. color avec celô «recouvrir» — on pourrait y ajouter celui, parallèle, de skr. varnah avec vrnóti — s’expliquer aipart la technique de la céramique peinte introduite dès une phase ancienne du Néolithique; mais l’indo-européen n’a de nom commun ni pour «couleur», ni pour« substance colorante»: M. Devoto ne craint-il pas que cette date soit beaucoup trop haute pour des faits suspects d’être des créations propres à chaque langue? V. h. all. hulsa, p. ex., ne signifie que «gousse».
C’est essentiellement dans les oppositions de nature sociale ou chronologico-spatiale des éléments du lexique que M. Devoto reconnaît le jeu des forces antagonistes qui exprime et explique tout à la fois les mouvements d’expansion indo-européens (chap. VI-VII). D’une part, le fait que les langues occidentales ont en commun un ancien vocabulaire agricole (dit «du Nord-Ouest») dont certains éléments se retrouvent dans les langues orientales (ainsi lat. arô: tokh. A âre «charrue») paraît confirmer l’antiquité de l’agriculture; mais celle-ci ne paraît pas avoir eu le caractère aristocratique de l’élevage. Sans doute, il est normal — et l’opinion avait été émise par A. Meillet — que les expéditions en direction de l’Orient, ayant traversé de vastes régions steppiques qui se prêtaient mal à une économie agraire, aient à la longue perdu une partie notable de ce vocabulaire; en revanche un semi-nomadisme a introduit des termes nouveaux liés de près ou de loin à l’activité pastorale (comme le numéral pour «mille» inconnu en Occident). On peut pourtant se demander si, dans certains cas, M. Devoto ne tend pas à s’exagérer l’antiquité du vocabulaire du Nord-Ouest, où il entre des mots isolés et de caractère anomal comme le nom de la «pomme» (osq. Abella, v. h. a. apful, etc.) ou de la «fève» (lat. faba, ν. h. a. bôna, etc.) et d’autres indiquant des traditions techniques acquises en commun, à une date qui peut être post-néolithique, comme le nom du «timon» (lat. têmô, etc.). Il demeure probable que certains éléments de ce vocabulaire sont de date plus récente et résultent d’une expansion dans des régions encore non ou imparfaitement indo-européisées: ne pourrait-on songer par exemple à la civilisation des tumulus, au Bronze moyen?
M. Devoto, dans plusieurs travaux antérieurs, a développé une théorie opposant un monde indo-européen «central», générateur d’innovations religieuses, économiques et sociales, à une périphérie vers laquelle seraient repoussés des éléments plus archaïques. Cette théorie, amplifiée, occupe le chap. VII. M. Devoto voit dans ces tendances révolutionnaires, de caractère essentiellement démocratique et collectiviste, l’une des causes profondes de la dislocation. Ce n’est pas à dire — le chap. VIII le montre abondamment — que des groupes archaïques déjà éloignés n’aient pu être rejoints plus tard par des groupes innovateurs, voire par des innovations lexicales isolées. M. Devoto pousse jusqu’au bout le principe de l’indépendance des isoglosses: les expéditions n’ont pas perdu tout contact avec la communauté restée sur place, non plus qu’avec d’autres groupes emigrants; et les communautés historiques représentent des synthèses, élaborées parfois tardivement, d’éléments porteurs de traditions non contemporaines. On reconnaît ici la fluidité des conceptions de l’école linguistique italienne, caractéristique notamment de M. V. Pisani. Mais si le principe est juste, et si cet assouplissement de la doctrine paraît historiquement nécessaire, l’application en est très délicate; il est à craindre que, sur ce point, la démonstration de M. Devoto ne suscite des résistances de la part des linguistes. On pourra trouver par exemple qu’il est accordé, d’une manière générale, trop d’importance aux isoglosses phonétiques, les faits de prononciation ayant une probabilité statistique beaucoup plus grande que les faits morphologiques. Et là même où l’idée générale paraît juste, il y aurait, dans le détail, des réserves à faire : ainsi, pp. 296 et 307, M. Devoto oppose à un nom animé *egni- du «feu», conçu comme une force agissante susceptible d’être personnalisée (cf. véd. Agnih), et maintenu dans les langues marginales, le nom inanimé, selon lui nouveau, *pür-, rattaché au verbe «purifier» (skr. punâti), conçu comme instrument de purification, et propre à l’aire centrale. Mais d’abord, on croira difficilement qu’un mot comme *pé∂2ur- n’appartient pas à la couche la plus ancienne du lexique, quand on considère qu’il apparaît en hittite avec une forme qui exclut un apport récent; car la conservation de la laryngale intérieure (pahkur, gén. pahhuenaš) semble exclure tout à fait qu’il n’ait pas été apporté en Anatolie par les premiers colons, autour de 2200/2000 av. J.-C. L’alternance r/n apparaît d’ailleurs dans des langues où l’analogie ne peut avoir joué aucun rôle, comme en germanique ou en arménien (hur «feu»: hn-oc «fourneau»). En outre, la forme *pe∂2- de la racine écarte tout rapprochement avec le groupe de skr. punâti où la racine a la forme *pew- (E. Benveniste, Orig. de la form des noms, p. 169).
Le chap. VIII, par lequel se clôt le volume, en constitue en même temps la conclusion et l’aboutissement. L’histoire de chaque grande communauté de langue indo-européenne s’y trouve reconstruite à la fois sur le plan archéologique et sur le plan linguistique, et la synthèse originale que constitue chacune d’elles, étudiée dans ses diverses composantes: superstrats indo-européens, adstrats anti-indo-européens, substrat indigène. Le courage et la loyauté scientifiques de M. Devoto se révèlent ici pleinement; M. Devoto ne s’est pas dérobé à l’obligation de reconstruire la préhistoire de chaque nation, et d’affronter le jugement d’une multitude de spécialistes. Il tire ainsi les conséquences extrêmes de sa doctrine, il en éprouve le bien-fondé. Le chapitre tout entier est d’un très vif intérêt. Aussi sera-t-on tenté de discuter çà et là avec l’auteur. P. 373, hitt. tuzziaš «armée» est donné comme équivalent à got. þiuda, ombr. tota «cité, peuple», etc., à l’appui du caractère «central» du hittite: mais, dans un livre que M. Devoto ne pouvait connaître (Hitt. et i.-e., pp. 123-124), M. Benveniste a montré que le mot hittite ne signifie à l’origine que «camp», ce qui écarte le rapprochement; le même ouvrage comporte en revanche bien des connexions nouvelles avec l’indo-européen «marginal»: hitt. â- «être chaud», skr. anti-, antikä «foyer, four», ν. irl. áith «id.»; hitt. allaniya- «suer», v. irl. allas «sueur»; hitt. hâ- «accepter pour véridique», lat. ô-men; h tt. hašša «foyer», osq. aasa, lat. âra, etc. Si les parlers anatoliens représentent avec le grec une tradition «centrale», la date très haute (avant 2.000 probablement) des migrations semble du moins exclure que les tendances innovatrices du monde central encore indivis aient eu le temps d’arriver à leur terme, et, tout en ne participant pas entièrement à l’archaïsme marginal, lexical et idéologique, de l’indo-iranien et de l’ensemble italique et celtique, le hittite et le mycénien demeurent archaïques de par leur date. J’hésiterais donc à mettre au compte d’innovations des termes comme hitt. watar (cf. myc. udo), myc. werege « Fέργει», etc.
Ce qu’on sait de la société mycénienne cadre d’ailleurs mal avec un aménagement démocratique des institutions; comme semble le reconnaître implicitement M. Devoto p. 382, si l’ancien *rëg- y a disparu au profit de Fάναξ, ce n’est pas parce que, dans le monde central, le « roi » avait déjà perdu son caractère aristocratique, mais parce que les rois minoens avaient un tout autre caractère que les chefs de tribus des sociétés néo-chalcolithiques de l’Europe centrale. Ce qui est vrai du monde slave, baltique, germanique ou illyrien vers 1500, 1000 ou même 500 av. J.-C. et plus tard encore ne l’était pas nécessairement autour de 2500-2000 av. J.-C.
Pp. 386-387 est à nouveau affirmée la théorie, due à M. Devoto et défendue du point de vue archéologique par M. M. Pallottino, d’une triple tradition à l’origine des peuples italiques. Sans engager ici une discussion approfondie de ces vues, archéologiquement défendables en effet, qu’il soit permis de présenter quelques remarques. Se baser sur le traitement des sonores aspirées pour établir une tripartition en «Protolatins» (cuit, des tombes à fosses), «Proto-Italiques» (Protovillanoviens, Vénètes) et Ombro-Sabelliens, c’est supposer que les traitements de l’époque historique étaient déjà ceux d’une protohistoire lointaine. Or, les traitements «protolatin» et sicule (Aetna), latin et vénète (aedês) et ombro-sabellique (Aefulae) peuvent présenter des stades divers d’une même évolution. Le fait que le vénète n’a pas participé au passage de la dentale à la labiale au voisinage de u, r, passage qui se conçoit mieux au stade spirant (cf. mon c. r. de G. Giacomelli, La lingua falisca, Latomus, XXIV [1965], p. 696), suffit à faire soupçonner que Latins et Vénètes étaient déjà séparés au moment où apparaissent les sonores. Et comment écarter ce stade spirant devant des faits comme wehô en face de uêxi , fingô ? Un mot comme figulus (de *ρίχ-εΙο-) ne montre-t-il pas que le -χ- avait encore une consistance au moment du passage de *-e- à -u- et que, par suite, la sonore intérieure du latin — et du vénète — est chose récente et résulte de répartitions délicates, propres à chaque dialecte? Le -t- de sicule Aίτνα, λίτρα ne peut-il vraiment être le témoin d’un très ancien *-th- «proto-italique» (ou, si l’on préfère, protovillanovien, cf. les découvertes récentes de Milazzo et de Lipari) qui tendait vers -t- au moment où les Grecs, vers le VIII-VIIe siècle, ont rendu ce phonème par -τ- et non par -Θ-?
Ce très bel ouvrage, dont la correction typographique n’est pas loin d’être parfaite, est pourvu d’une illustration archéologique de haute qualité, et d’autant plus précieuse qu’il s’agit le plus souvent de documents rares, qu’il faudrait aller chercher dans des recueils spéciaux. Le linguiste aura par là, pour la première fois peut-être, une vision concrète des groupements culturels que reconstitue l’archéologie dans les aires intéressées par le problème indo-européen. Des cartes très précises permettent d’ailleurs leur constante mise en place. On ne négligera pas, enfin, l’important lexique, qui groupe par catégories concrètes (termes généraux, activités mentales, familles, techniques, etc.) près de 1000 racines ou lexemes, et dont l’heureuse disposition permet d’apprécier du premier coup d’oeil l’extension de chaque élément dans les diverses parties du domaine.
* * *
Dans la vaste et longue enquête qu’il a menée à travers le monde indo-européen, il est un dossier, et l’un des plus volumineux, dont M. Devoto a confié l’étude à une élève: celui de l’histoire de l’habitat. M.lle Gianna Buti a courageusement entrepris ce sujet difficile et elle a tiré, de l’étude parallèle des textes, des faits linguistiques et archéologiques une monographie originale, dont il n’existait aucun équivalent, et qui complète opportunément les Origini indeuropee. On peut d’ores et déjà affirmer qu’avec ce très heureux essai l’autrice se place parmi les spécialistes d’un ordre d’études qui a jusqu’ici été l’apanage des archéologues: l’architecture comparée des peuples indo-européens.
Une amicale préface de M. Devoto indique que, si le livre de M. S. M. Puglisi sur la civilisation apenninienne de l’Italie (paru dans cette même collection en 1959) marque, de la part d’un archéologue, une ouverture vers un échange fécond entre archéologie et linguistique, celui de M.lle Buti se veut une réponse du linguiste, aussi ouverte à cette même collaboration. L’ouvrage est richement illustré, et de belles planches, très originales, constituent un véritable album qui fait revivre l’histoire de l’habitat en Europe à travers l’espace et le temps.
Quelques pages liminaires examinent des points de terminologie et de méthode, et témoignent d’une vision très claire des difficultés du problème. A cet égard, il est intéressant de voir la pensée d’un maître revue et exposée par un disciple. Bien entendu, Mlle Buti réaffirme qu’il n’existe pas proprement de «maison indo-européenne», mais qu’il n’y a que «des manières indo-européennes d’appeler les maisons communes à tout un milieu naturel et culturel», chaque manière de dénommer la «maison», soit comme construction, soit comme lieu d’habitation, soit comme siège de la famille, dénote en face du concept «maison» une attitude psychologique différente et révélatrice. Une première partie est consacrée à cette étude de sémantique historique, et examin successivement l’habitation en cavités rocheuses — qui n’a guère laissé de traces lexicales, sauf peut-être dans le groupe de v. isl. kot, kytia, etc. —; l’habitation à demi creusée dans le sol, typique des communautés du Néolithique et du Bronze — qui s’exprime par la racine *(s)keu- de germ, hûs, serbo-cr. kùca, etc., et dont des témoignages classiques (Virgile, Strabon, Vitruve) ont gardé le souvenir —; l’habitation construite (en bois) au niveau du sol — qu’exprimerait la rac. *dem- «construire», cf. v. isl. timbr «bois de construction» comparé à all. Zimmer.
La seconde partie, fondée plus particulièrement sur les textes, étudie les problèmes de l’interprétation des faits: l’habitation dans la préhistoire indo-européenne, l’habitation dans la protohistoire de chaque peuple indo-européen en particulier (mondes indo-iranien, grec, etc.). On trouvera, p. 163, une curieuse carte donnant la distribution de la maison à atrium dans l’Europe centro-septentrionale.
Une bibliographie soignée et des index linguistiques et archéologiques rendront les plus grands services.
Les circonstances font que cette notice paraît au moment où M. Devoto vient de célébrer son soixante-dixième anniversaire et où, par suite, s’achève à Florence une carrière universitaire d’un éclat singulier. Les deux très beaux livres qui en sont le couronnement auraient sans doute mérité un recenseur moins pressé; du moins a-t-on essayé ici d’en faire saisir l’esprit, de mettre en lumière leur exceptionnelle puissance de reconstruction. Convaincants dans leurs démarches et séduisants dans la plupart de leur résultats, ils font grand honneur au talent et au dynamisme de M. G. Devoto et de son école.
Notes
(*) Giacomo Devoto, Origini indeuropee («Origines». Studi e materiali pubblicati a cura dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria), Florence, Sansoni, 1962, in-4°, xii-428 pp.; 74 figg. et XX pli. hors texte; à part, un fasc. in-4° paginé 425-521, 18.000 lires.
Gianna Buti, La casa degli Indeuropei. Tradizione e archeologia (même collection), Florence, Sansoni, 1962, in-4°, 207 pp., 37 figg. et XVI pli. hors texte, 10.000 lires.
(1) P. Bosch-Gimpera, Les Indo- Européens. Problèmes archéologiques. Préface et trad. de R. Lantier (Paris, 1961). Cf. J. Loicq dans R.B.PLH., XLI (1963), pp. 112 et suiv.
(2) Les comparatistes parlent d’habitude de «pré-indo-européen»; mais ce terme n’est pas conforme aux emplois actuels du préfixe pré- chez les historiens, et évoque des réalités antérieures à l’indo-européisation. Le terme «proto-indo-européen», sans équivoque, paraît donc préférable.
(3) Ceci n’implique pas, bien entendu, que l’on ne puisse supposer théoriquement l’existence, dès le Mésolithique ou le Pré-Néolithique de l’Europe orientale, par exemple, ou de régions encore situées plus à l’Est, de groupes d’hommes porteurs de dialectes se situant au début du continuum dont l’indo-européen conventionnel représente le dernier état avant le départ des premières expéditions «historiques»: une langue a toujours une histoire. Mais toute tentative de définition ou de localisation serait vaine, car il peut s’agir, à cette époque lointaine, de quelques tribus infimes possédant une culture matérielle identique à celle des tribus avoisinantes.
* * *
[Jean Loicq, Archéologie et linguistique historique. Deux ouvrages récents sur les origines indo-européennes. In: Revue belge de philologie et d'histoire. Tome 45 fasc. 1, 1967. Antiquité - Oudheid. pp. 86-96; de http://www.persee.fr/web/revues/home/prescript/article/rbph_0035-0818_1967_num_45_1_2671].
Jean Loicq
00:05 Publié dans archéologie, Langues/Linguistique, Traditions | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : indo-européens, livre, archéologie, traditions, europe, proto-histoire | | del.icio.us | | Digg | Facebook
lundi, 18 mars 2013
Freyja: Señora de la Magia
Por Phil Hine
Según Snorri Sturluson, el autor de la prosa "Edda", Freyja fue la más renombrada de todas las diosas, y era la única todavía con vida. Esta declaración significa que el culto de Freyja había sobrevivido en el siglo doce en Escandinavia. Este ensayo sirve como breve introducción al estudio de Freyja, su linaje, atributos y dominio, ambos exotérico y esotérico. Freyja como Odín, tiene muchos títulos por los cuales es conocida. El nombre Freyja (pronunciar Freia) quiere decir "la señora". Sus otros títulos son: Vanadis (la Diosa de los Vanir), Vanabrudhr (la Prometida de los Vanir), H ö rn (la Amante de Lino), Gefn (la dadora), Syr (la cerda), Mard ö ll (la brillante) y Gullveig (la ávida). Freyja forma parte (quizá la más prominente) de los Vanir, una raza de dioses de la fertilidad que al principio lucharon con, y más tarde se unieron a los Aesir. Frejya es comúnmente conocida como una diosa de la fertilidad.
Como diosa del amor, ella es presentada comor sexualmente atractiva y disponible en sus favores. Ella también tenía autoridad sobre los muertos; algo que compartía con Odín, y cada día se decidía quién entraba a su recinto Sessrumnir, el cual quedaba en Folkvang, 'La Montaña de Gente.' Freyja también fue la Señora de la Magia. Ella poseía una piel de halcón que se ponía para viajar al bajo mundo, trayendo las ulteriores profecías y el conocimiento del destino. Además de cambiar de forma, ella también era la diosa de la magia seidhr y podría controlar el fuego mágicamente .
Ella conducía una carroza jalada por gatos, y su animal totémico era la cerda. Freyja forma parte de los Vanir, un panteón de deidades que son generalmente descritas como dioses de 'la fertilidad'.
Ha habido algunas especulaciones de que los Vanir representaban a un pueblo centrado en una cultura agrícola y matriarcal, que fue invadido, y más tarde asimilado por la tribu cuyos dioses fueron los Aesir. Hay muchas prueba dentro de los Mitos Escandinavos que demuestran que los Aesir no aprobaban la intimidad de Freyja con su hermano, Freyr - y también que Freyja y Freyr fuesen los hijos de Njord y su hermana anónima. Snorri nos dice que los matrimonios entre hermanos eran comunes entre los Vanir, y esto bien podría indicar un choque con las costumbres tribales.
Según H. R. Ellis Davidson (Myths & Gods of Northern Europe), los Vanir eran los dioses del crecimiento en los campos, entre los animales, y en la casa, y también entregaban a los hombres el poder de conectarse con el mundo de lo invisible. Esta autora indica que es probable que el culto a los Vanir incluyera rituales orgiásticos y sacrificatorios.
En The Norse Myths, Kevin Crossley-Hollland nos dice que a la Edad Dorada que le siguió a Odín y sus hermanos ' la creación de los mundos, se le dio fin con la guerra entre los Vanir y los Aesir - la primera guerra. Freyja parece jugar un papel esencial en causar estos acontecimientos. Crossley-Holland relata la historia de que Gullveig la bruja" visitó a los Aesir, y "los lleno de aversión" por la manera lujuriosa en que ella hablaba acerca del oro. La apresaron y atravesaron su cuerpo con lanzas". Tres veces la arrojaron a las llamas, pero en cada ocasión salía, intacta y renacida. Con temor, los Aesir la nombraron Heidh (la Brillante). Cuando los Vanir oyeron acerca del trato que los Aesir le dieron a Gullveig, se prepararon para la guerra, y así lo hicieron también los Aesir. La batalla se enardeció sin que ninguno de los bandos pudiera obtener la victoria, así que los dioses demandaron que se establezca la paz, y quedaron de acuerdo en intercambiar a los líderes como prueba de su buena voluntad. Como parte del acuerdo, los dioses Vanir Njord y Freyr lograron llegar por medio de astucias a Asgard, y Freyja viajó con ellos. Los Aesir nombraron a Njord y Freyr como sumos sacerdotes para presidir los sacrificios, y Freyja fue consagrada como suma sacerdotisa sacrificatoria. Edred Thorsson, en Runelore identifica a Gullveig (la anterior nombrada bruja) como un aspecto, o título, de Freyja, como lo hace Crossley-Holland. Esto ciertamente concordaría con el amor de Freyja por el oro, y con las vestimentas doradas con las que ella se adornaba. Además, es reconocido que Freyja introdujo a los Aesir en las prácticas Seidhr, actuando como instructora de Odín a este respecto. El que Crossley-Holland relate del mito Gullveig confirma que esta ' bruja ' era una profetiza - " ella encantaba varitas de madera; Ella entraba en Trances y lanzaba hechizos ".
Es bien sabido que el culto a Freyja implicaba la práctica de la magia Seidhr. Es interesante notar que probablemente no fue, la pasión de Freyja por el oro mismo lo que tanto enardeció a los Aesir, pero quizá la vehemencia de su avaricia, o deseo. Dioses o actos de deseo y transgresión parecen ser de fundamental importancia en los mitos de la caída, o el final de las edades 'primitivas' o doradas. Es posible que Freyja, como una diosa del deseo erótico y el éxtasis, haya podido ser vista tanto como poderosa, digna de respeto, y al mismo tiempo, alguien de quien desconfiar. Thorsson apunta, en Runelore, que Freyja es una deidad de tres niveles. Ella forma parte de los Vanir, es diosa de la Magia, y diosa de los guerreros. Davidson comenta que es posible ver a Freyja como una Triple Diosa, en conjunto con Frigg y Skadi. En The North Myths, Crossley-Holland relata el cuento del Collar de los Brisings, el mito principal en el cual Freyja juega el papel 'estelar'. La historia básica es que Freyja salió furtivamente de su vestíbulo una noche y en silencio abandonó Asgard, seguida, sin saberlo ella, por Loki. Encontró el camino a la herrería de los cuatro enanos - Alfrigg, Dvalin, Berling y Grerr. Codició un collar de oro labrado con patrones maravillosos, el cual era obra de los enanos. Se ofreció a comprar el collar, pero el precio que pusieron los enanos era que ella se debía acostar con ellos una noche. Freyja aceptó esto, y luego, regresó a su habitación al amparo de la oscuridad. Loki partió directamente rumbo a la habitación de Odín y le dijo al soberano lo que Freyja había hecho. Odín, furioso, ordenó a Loki a conseguir el collar de Freyja, Loki fue convertido en una mosca, pudiendo entrar a Sessrumnir, y así robarle el collar a Freyja mientras dormía. Cuando Freyja se despertó a la mañana siguiente y se dio cuenta que el collar había sido robado, sabía que sólo Loki podría haber sido capaz de algo semejante y que además, sólo lo habría hecho bajo el mandato de Odín. Ella se dirigió apresuradamente hacia Odín y le preguntó por el collar, el soberano dijo que sólo podría volver a verlo otra vez bajo una condición - que promoviera la guerra entre dos reyes humanos en Midgard, y que use sus hechizos para traer a la vida a los caídos en batalla, a fin de que pudiesen pelear nuevamente. Freyja accedió a esto y su collar fue devuelto. Crossley-Holland, en sus notas sobre esta narración, dice que dado el papel de Frejya como una diosa de la guerra y la muerte, es posible que la última exigencia de Odín bien pudo haber sido para la complacencia de ella. Usualmente los estudiosos están de acuerdo de que con el ' collar de los Brisings ' se refiere a la antigua palabra Nórdica brisingr, que significa fuego - en relación a su brillo. Ellis Davisdson registra que el collar es un símbolo a menudo atribuido a las diosas madres. Por lo que respecta a interpretaciones esotéricas de este relato, Freya Aswynn, en "Leaves of Yggdrasil", dice que los enanos representan los cuatro elementos y el collar, la quinta parte, lo cual sólo puede provenir de la integración de los otros cuatro. Thorsson, en Runelore, aporta la explicación que el collar representa el ciclo cósmico de cuatro niveles de generación y regeneración. Thorsson nota que ella pudo haberse acostado con un enano una noche, o con los cuatro simultáneamente. Los Mitos Nórdicos, tal como han sido relatados por Crossley-Holland, nos dan algunas pistas importantes acerca de las habilidades mágicas de Freyja. En el mito de Gullveig, ella exhibe sus poderes ante los Aesir, sobreviviendo todos sus intentos de deshacerse de ella. En el Poema de Hyndla, ella rodea a la gigante Hyndla con un anillo de fuego. Dado su carácter erótico y su amor por el oro, se llegaría a la conclusión de que la magia de Freyja también incluiría poderes de encantamiento - el echar encantos y fascinaciones. Yo señalaría dos instancias en The Norse Myths que parecerían darle soporte a esta idea: En primer lugar, en "El Edificio de la Pared de Asgard", el albañil gigante pide tomar a Freyja por su esposa, a cambio de reconstruir las paredes de Asgard. A estas alturas, Freyja es asi descrita: La bella diosa se levantó de golpe desde su asiento y cuando ella se movió el collar de los Brisings, sus brazaletes, prendedores dorados y el hilo de oro de su ropa centelleó y brilló intensamente. Nadie excepto Odin la pudo mirar directamente. En segundo lugar, en el Duelo de Thor con Hrungnir, ella intenta engañar al gigante que otra vez, amenaza con secuestrarla: Odin inclinó la cabeza y Freyja se movió furtivamente hacia adelante. Cuando ella se movió, todas las joyas que llevaba puesta brillaron intensamente y Hrungnir se restregó los ojos. Bebe otra vez, ' dijo Freya. La capa de plumas de Freyja, la cual ella usó para entrar en el inframundo es dada a Loki en un par de ocasiones - para que este demuestre sus poderes de cambiar de forma por propia descición. Pero el manto de plumas como un arquetipo de traje de pájaro por lo general, parece ser un ingrediente muy importante en una gran cantidad de tradiciones chamánicas, como Mircea Eliade nota en su monumental trabajo "Chamanismo", en el que cuenta de los Tungus de Siberia a los Filidh irlandéses. Snorri dice que Freyja llora ' lágrimas de oro ' cuando vá en busca de su marido perdido, Odhr. Porqué ella hace esto no está muy claro. Davidson, en Gods and Myths of Northern Europe sugiere que éste es otro ejemplo del mito de "la diosa buscando al dios de la fertilidad asesinado". A primera vista, al menos, esto sugiere un enlace entre Freyja y los cultos de Isis o Cibeles. Sin embargo, Thorsson, en Runelore, da una interpretación alternativa de este tema. "El nombre Odh-r simplemente indica la fuerza del éxtasis, de la mente inspirada mágicamente. Por eso, la diosa Freyja se casó con Odhr, y (al igual que Odín) es la meta principal de sus esfuerzos. Freyja vagó buscando a Odhr, derramando lágrimas de oro". Esto, dice Thorsson, no tiene nada que ver con los mitos de Ishtar (o Isis) - esa Freyja busca "la inspiración deífica" contenida en el dios. Freyja es la figura principal del conjunto de prácticas conocido como Seidhr. Como Thorsson explica en "The Nine Doors of Midgard", hubo dos formas de magia practicada en el antiguo norte: Galdor, la cual da énfasis al desarrollo de la voluntad y el ejercer control sobre las circunstancias de la vida de uno, y Seidhr - la magia de inmersión en la cual los estados de Trance jugaron el papel principal. De lo que realmente las prácticas Seidhr consistieron se ha convertido en un asunto de debate estos últimos tiempos. Jan Fries por ejemplo, en Helrunar, usa el término de dos maneras - en primer lugar él dice que la palabra seidhr tiene relación a la fermentación de pociones y medicamentos herbarios, en particular aquellos que tenían como propósito el causar una alteración de la conciencia, y en segundo lugar, él hace referencia al cuerpo ' hirviente ' del chamán, entrando en trance temblando y bamboleándose con espasmos en todo el cuerpo. Davidson, aborda el tema de la Volva, una sacerdotisa en la mitología escandinava y entre las tribus germanas, quien entraba en trance adivinatorio en festivales, y podía contestar las preguntas que los presentes le hacían . La volva estaría sentada sobre una plataforma o asiento elevado, los hechizos eran cantados - la volva sería algunas veces apoyada por un gran grupo que actuaba como coro y proveía música - la pitonisa entraba en un estado de éxtasis. Según Davidson, la volva era consultada sobre asuntos relacionados con el crecimiento de los cultivos, la prosperidad de la comunidad y el matrimonio de personas jóvenes - todos temas relacionados e incluidos en el área de influencia de Freyja. Thorsson, en Nine Doors, brevemente describe tres formas de poder seidhr: Adivinación, Viajes a otros reinos y amor seidhr (magia sexual). Él también menciona a la metamorfosis mágica como una característica seidhr. Randy P. Connor, en Blossom of Bone, dice que los practicantes masculinos de magia seidhr tenían la reputación de poder: "Otorgar y quitar riqueza y fama. Podían traer lo necesario durante tiempos de carestía o podían causar la ruina de la tierra. Podrían causar que las personas enfermen, asi como que los podrían sanar con hierbas y encantos. Podrían reunir amantes y romper relaciones. En tiempos posteriores , auxiliaron a los guerreros mágicamente desafilando las espadas de los enemigos, deteniendo las flechas en el vuelo, creando tormentas en el mar, y desatando las cadenas de los prisioneros ". Todo esto debería servir como ejemplo del posible alcance de la practica seidhr . El tema de la magia seidhr mismo merece un profundo estudio. En conclusión, ofreceré algunos conceptos sobre las posibilidades que el trabajo mágico con Freyja nos ofrece. Freyja es una bruja arquetípica. Ella por consiguiente podría ser invocada por aquellos que quieran aprender métodos de brujería, adivinación, y encanto. Ciertamente Thorsson, en Nine Doors describe una Invocación a Freyja cuyo propósito es un trabajo de bendición ' para adquirir los poderes seidhr. Las invocaciones de Thorsson dan un buen ejemplo de cómo acercarse a Freyja apropiadamente:
"He venido a este lugar para honrar a Freyja, para hablar de mis lujurias por su cuerpo encantador, y de mi avaricia por sus fuerzas poderosas de seidr. Con estas palabras deseo con todo mi corazón que ella venga a mí y permanezca conmigo en cuerpo y alma."
Y....
A ti te invoco y te invito a venir desde Folkvang y de tu asiento en Sessrumnir - y estar aquí conmigo ahora. Camina a grandes pasos con la apariencia de Gullveig - la que tiene sed de oro - y da a conocer tu sagrada fuerza con la forma de Heid" - la reluciente y brillante madre del sagrado Seith.
La fuerza de Freyja es conjurada en un cuerno de aguamiel, en el que los participante beben y comparten con la diosa.
También parecería apropiado pedir la bendición de Freyja en cualquier acto de magia seidhr o Magia de Resultados trabajada usando la Tradición del Norte. Los trabajos con una intención de naturaleza erótica podrían especialmente atraer su favor.
Obras Citadas
Freya Aswynn, Leaves of Yggdrasil (Aswynn)
Randy P. Conner, Blossom of Bone (HarperCollins)
Kevin Crossley- Holland, The Norse Myths (Penguin)
H.R. Ellis Davidson, Gods and Myths of Northern Europe (Penguin)
Mircea Eliade, Shamanism: Archaic techniques of ecstasy (Penguin Arkana)
Jan Fries, Helrunar (Mandrake of Oxford)
Edred Thorsson, Runelore (Samuel Weiser)
Edred Thorsson, The Nine Doors of Midgard (Llewellyn)
Traducido por Kaosmos
00:05 Publié dans Traditions | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : traditions, mythologie, mythologie germanique, mythes, freyja | | del.icio.us | | Digg | Facebook
vendredi, 23 novembre 2012
Inner Revolutions and Kindred Souls
Inner Revolutions and Kindred Souls:
A Review of Indo-Europe Rising and Atoms of Kshatriyas
by Gwendolyn Taunton
Ex: http://shunyarevolution.wordpress.com/
“Of all that is written, I love only what a person hath written with his blood. Write with blood, and thou wilt find that blood is spirit.” — Nietzsche
Azsacra Zarathustra’s work always makes for an interesting read, and his latest books (Indo-Europe Rising and Atoms of Kshatriyas are no exception. Since these books are related in terms of content, I will review them both together in this article). In these texts Azsacra Zarathustra continues to expand on the themes developed in earlier works and a number of concepts presented in these titles are covered extensively and explained in earlier books. As such, I would to stress here that Zarathustra’s work can be intellectually challenging for beginners and people whom are not well versed in traditional metaphysics and philosophy. Therefore it is essential for readers to familiarise themselves with his earlier works in order to understand his writing in the full context. Azasacra Zarathustra: Creator of ShunyaRevoution and Absolute Revolutionis recommended as an introductory text for those who are unfamiliar with the concepts introduced by Zarathustra. For those who are already loyal readers, no such introduction is required and they will thoroughly enjoy immersing themselves in the pages of his latest writing.That being said, like Nietzsche whom I quoted above, I have no time for the idle readers — and it is the readers who appreciate different ideas and perspectives who will experience the greatest rewards from Zarathustra’s books. Here, at last we see some new ideas emerging in Traditionalism — rather than reciting Traditionalists, Zarathustra develops of some of their ideas — and challenges them when need be. In this regard, Zarathustra’s latest book Indo-Europe Uprising is unapologetically addressed to the Hindu and European Traditions (which are linked by linguistic and religious heritage).
It is from this perspective that they need to be understood — the revolution and uprising of which he writes is one rooted in tradition and spirituality, and is not politically motivated. It is a revolution that is rooted deep in the roots of the psyche of India and Europe, and like all good books it speaks not to the head but direct to the heart and to the blood. The Absolute Revolution is an interior one, not an exterior revolution — thus like Krishna’s instructions to Arjuna, it is a spiritual process. This instruction to the Ksatriya is echoed in Zarathustra’s works, who like Evola adopts the perspective that the Ksatriya caste has its own set of spiritual teachings which differs from that of the religious code of the Brahmins. This is readily supported by the Upanisads, to which Ksatriya authorship is attributed, and even to the Buddha who was born into the Ksatriya caste. It is to those people who identify with the Ksatriya role (for caste is not determined by birth in his works, but by temperament and natural inclination) that Zarathustra addresses his works and expounds the theory of the Shunya Revolution; an interior and psychological process weaving together thoughts from Hinduism, Buddhism and Nietzsche — all of which Zarathustra does not merely cite, but actively develops upon, adding new teachings to the old ones to develop a new level.
What is of special interest in Zarathustra’s latest book, is that it offers a new model of Tradition which places emphasis on the ties between Europe and India, in contrast to the older Traditionalist model which favours the Abrahamic Traditions of Christianity and Islam. In terms of the history of religion, this perspective is academically correct as Vedic India and the old gods of Europe come from the same religious family, the Indo-European genus of religion. Christianity, Islam (and also Judaism) originate instead from Abraham, and form a triad which scholars refer to as the Abrahamic Tradition. The remaining Traditions fall under the rubric of Taoic, Dharmic (Hindu), Pagan (European) and Shamanic. Recent developments in the studies of religion such as the reconstruction of the Proto Indo European language and consequential dialect shifts suggest that the Dharmic Traditions and the Pagan Traditions stem from a common heritage in the pre-Vedic era, thus indicating that they are in fact related, and therefore the association of India with Europe is a genuine one which is easily backed up by historical facts. The bond between the Hindu Tradition and the European Tradition is therefore a natural one which is rooted deep in the past where it has existed since the dawn of history. The Indo-Europe Uprising of which Zarathustra writes is one which unites both Hinduism and the indigenous spiritual traditions of Europe at the core of this ancestry, and therefore it is a shared kinship between two cultures. This is the new element of Traditionalism which speaks to the Hindu and Pagan audiences, who have previously been under represented in Traditionalism and have previously occupied only a secondary role to that of the Abrahamic Traditions. Also of interest here is that Zarathustra correctly identifies Tibet as having a religious connection with Hinduism and it is included as part of the theory — thus forming a religious triad of its own as part of the Indo-European Tradition: Hinduism, the European Traditions, and Buddhism.
Into this vision of a shared ancestral past is woven an intricate dialogue of Ksatriya mysticism, the metaphysical state of emptiness and the detachment from the karma-phalam advocated by Krishna. These Hindu and Buddhism thoughts are then coupled with the ideas of Europe’s greatest thinker and philosopher, Freidrich Nietzsche to create a perspective which is not only unique and original, but also profoundly Indo-European in this combination. Much of Nietzsche’s thought expresses an admiration for the Vedic past, and he too advocated the warrior temperament above that of the priest, for he saw it as a more vital mode of life and being, rather than the mode of renunciation which represents a withdrawal from life rather than engaging and conflicting with it head on. It is obvious that Zarathustra is highly influenced by Nietzsche, but he does not merely cite Nietzsche’s works — rather he develops on them by adding layers of mysticism and spiritual development drawn from the esoteric doctrines of India and Tibet, to develop a new teaching for those who identify themselves as Kstariya, in order to fight the great internal war and overcome the flawed human nature which separates them from the numinous essence of the divine which is the great spiritual uprising and the esoteric doctrine of the Absolute Revolution and the forms the Atoms of Ksatriyas.
Gwendolyn Taunton was the recipient of the Ashton Wylie Award for Literary Excellence in 2009 for her work with Primordial Traditions and is a well-known author on Hinduism and Heathen/Pagan Traditions: Her most recent work is ‘Mimir — Journal of North European Traditions’:
http://numenbooks.com.au/books/spirituality_books/mimir_-_journal_of_north_european_traditions.aspx
00:05 Publié dans Livre, Traditions | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : traditions, tradition, traditionalisme, gwendolyn taunton, inde, hindouisme, indo-européens | | del.icio.us | | Digg | Facebook