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vendredi, 18 décembre 2015

Il sole e gli Dei

 

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Il sole e gli Dei
di Ass. Cultural "Uomini Liberi Uomini Dei"
Ex: http://www.insorgente.com 

Nel sincretismo delle religioni del passato, il concetto di Dio unico prese una forma così generalizzata, tale da disconoscere talvolta il suo nome e la sua reale identità. In altre parole oggi crediamo, almeno nella maggioranza dell'umanità, in un unico Dio solamente perché tutti gli altri sono semplicemente scomparsi dalla scena divina, per ragioni di una cruenta realtà storica che vinse sulla ragione e la razionalità dell'uomo.

Amon Ra, il Dio supremo. Semplicemente Ra, divinità creatrice, custode di un pantheon egizio di Dei ognuno dei quali aveva un suo compito preciso, quello di educare ed accompagnare la spiritualità della civiltà egiziana a considerare l'importanza della vita, della natura e degli astri che influenzavano nell'uomo ogni sensazione di contatto divino tra cielo e terra.

Dopo qualche migliaio di anni, Ra e tutti gli altri Dei lentamente scomparvero dalla scena religiosa, ed emerse Aton, la proposta di un Dio che manifestava tutta la sua sacralità nella materia stessa. Aton, l'adorazione del disco solare stesso proposto dal faraone Akenaton quasi ad enfatizzare un concetto di divinità monoteista che verrà assorbita secoli più tardi dalle principali religioni abramitiche che conosciamo, ognuna delle quali con una propria teologia personalizzata.

Quello che non comprendiamo, è la presunzione delle tre principali religioni monoteiste e cioè che il loro Dio esiste, tutti gli altri no. Per il cristianesimo, l'ebraismo e l'islam, tutti gli altri Dei e le loro antiche tradizioni, i loro culti, sono da considerarsi semplicemente idoli di un passato remoto non solo dimenticato, ma sciocco da ricordare. Per la maggioranza del mondo che presume l'esistenza di un solo Dio, tutto è scontato. L'unica verità marcia a favore di un'ottusità a senso unico e chi la pensa al contrario è subdolo e sacrilego. Chi marcia al contrario è il solito “pagano” rozzo, intorpidito dalla realtà e da chissà quali sciocche e superate credenze popolari. Ma quale realtà? Nel medioevo, la maggioranza delle persone credevano che la terra fosse piatta. Si sbagliavano tremendamente di grosso.

Alle soglie del terzo millennio è inutile continuare a nascondere che il cristianesimo nella rappresentazione della propria immagine divina quale Gesù Cristo abbia attinto per molti aspetti da millenarie tradizioni religiose già esistenti, reinventando l'immagine di culti presenti da migliaia di anni sulla scena politica e religiosa di popolazioni antiche. Se un Dio supremo esiste, dategli pure un nome e un'identità, ma ricordatevi che anche gli Dei esistono anche se a un certo punto della storia vennero semplicemente sommersi e rinnegati dal buon senso e dalla ragione. Almeno un centinaio di passaggi senza equivoco o allegoria possibile dimostrano la loro esistenza nella bibbia stessa.. Per esempio eccone tre:

Giosuè 24,2 “Giosuè disse a tutto il popolo: «Dice il Signore, Dio d'Israele: I vostri padri, come Terach padre di Abramo e padre di Nacor, abitarono dai tempi antichi oltre il fiume e servirono altri Dei”.

Giosuè 24,15 “...Se vi dispiace di servire il Signore, scegliete oggi chi volete servire; Se gli Dei che i vostri padri servirono oltre il fiume oppure gli Dei degli Amorrei, nel paese dei quali abitate”.

I lettera ai Corinzi 8,5-6 “In realtà, anche se vi sono cosiddetti Dei sia nel cielo che sulla terra e difatti ci sono molti Dei e molti signori, per noi c’è un solo Dio...”

E' inutile continuare a rinnegare la storia, l'archeologia e una dottrina biblica veicolata che a volte racconta di più di ciò che si vuole far credere. Subdolo sarebbe continuare a nascondere che la data della nascita divina del Cristo è puramente simbolica e mitologica, collegata al concetto di resurrezione del sole di ogni popolazione antica da nord a sud, da est a ovest del mondo che muterà in un definitivo concetto di resurrezione dell'anima, quando in qualche modo il Dio del sole e della luce o la suprema identità comunicativa diventa un tutt'uno con il faraone, (l'uomo) l'incarnazione del Dio disceso sulla terra, il soter (salvatore) di Platone della Grecia antica.

La resurrezione del sole o solstizio invernale fu e dovrebbe esserlo ancora, semplicemente una festa di luce maggiore, che assieme all'equinozio di primavera annunciava ad ogni popolo della nascita per volere divino della natura e della vita e venne in un secondo momento assoggettata alla nascita simbolica di molti Dei dell'antichità. Per comprendere cosa rappresentasse il solstizio invernale per gli antichi,vi rimandiamo all'articolo che trovate nella sezione cultura del nostro sito datato 21-12-2012 : “Ma cosa è il Solstizio?”

Per capire invece meglio quanto la misticità del sole emergesse dai principali culti egiziani, europei, orientali, greco romani, basterebbe soltanto accertarsi come il sole nascente venisse rappresentato sempre alla sommità o dietro il capo di ogni Dio o Dea maggiore che prometteva luce e verità es. Ra, Hathor, Iside (la vergine col bambino), Krishna, Mitra e molti altri. Per rimarcare come il sole venisse associato per ovvie ragioni alla sacralità degli Dei, troviamo uno dei mille esempi di coniugazione nel monolito di Commagene in Turchia (ex provincia romana) dove gli Dei Apollo, Elio e Demetrio sono scolpiti nella pietra e il sole viene evidenziato, raffigurato sovrastante di essi.

La classica immagine dello stesso Gesù, se ci fate caso, è spesso rappresentata con un sole splendente alle spalle. I santi più importanti per il cristianesimo vengono rappresentati sempre con un'aureola solare alla nuca. Come potete constatare nella foto in anteprima, (mitra o mitria papale medioevale museo di Salisburgo) la sacralità del sole nacque associata al cristianesimo stesso e nel medioevo era ancora molto viva la sua rappresentazione attraverso e non solo le vesti papali. Il sole “cristiano” veniva solitamente raffigurato da uno o più soli d'oro sulle facciate del sacro cappello mentre tutta la sua misticità ritornava a tradizioni lontanissime, quando fu tempo che correnti filosofiche religiose e rituali Esseni si fondessero nel nascente cristianesimo. Così in un passo ci ricorda lo storico Giuseppe Flavio di alcuni rituali Esseni precursori del cristianesimo:

Libro II:128

“Verso la divinità sono di una pietà particolare; prima che si levi il sole non dicono una sola parola su argomenti profani, ma soltanto gli rivolgono certe tradizionali preghiere, come supplicandolo di risorgere.”

Il culto del sole racconta il suo massimo splendore fin dalla nascita del mondo. Il sole, sia esso di creazione divina o naturale possibile, si propone omaggio dell'universo alla vita dell'uomo, della terra e del nostro sistema solare. Ogni occasione era buona per un ringraziamento alla natura che collegava una cultura universale alla luce solare, alla sua quotidiana nascita o resurrezione e che, in qualunque modo possibile, ogni civiltà trovò motivo di personale lode.

A questo punto due riflessioni per le conclusioni. Innanzitutto quando si parla di culto solare o solstizio, sarebbe ora di finirla di tacciarlo come evento “pagano”. Ma che vuol dire pagano? Oggi nella società manca l'informazione corretta del “sacrilego” significato. Il termine viene forgiato con l'avvento del cristianesimo e si diffonde come una sorta di suffisso denigratorio nel generalizzare religioni praticate in precedenza al culto di Cristo.

Ma se nel cristianesimo, come abbiamo visto, il culto del sole o meglio dire in questo caso la nascita del sole viene simbolicamente assimilata e associata alla nascita del Cristo, tra l'altro ripreso per ragioni storiche dalla nascita di Mitra il 25 dicembre, è giusto secondo voi considerare il solstizio un evento volgarmente ancora detto e denigrato di natura pagana? Non sarebbe forse meglio dire semmai, di natura divina?

Il centro dell'universo spirituale dell'uomo è inconfutabilmente iniziato per ovvie ragioni dall'adorazione del sole e le religioni lo “adottarono” come naturale, fondamentale simbologia di vita e di rinascita. Non comprendere il significato, l'importanza della nostra unica fonte di salvezza che rimane ancora oggi innegabilmente il sole, è per noi semplicemente una questione di superficialità e stupidità umana.

Buon solstizio a tutti, quest'anno astronomicamente parlando, sarà il 21 dicembre alle ore 23,03.

Ass. Culturale “Uomini Liberi Uomini Dei”

lundi, 14 décembre 2015

Eschatology of the Russian-Turkish conflict

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Eschatology of the Russian-Turkish conflict

Netwars
Ex: http://www.katehon.com

Orthodox solidarity

On November 26th, 2015 in the center of Athens, protestors burned the US and Turkish flags at a pro-Russian rally. A similar rally was held in Bulgaria. Both countries are Turkey’s neighbors and historical adversaries, and are populated mostly by Russia’s coreligionists.

The recent events in the Middle East increased anti-Turkish sentiments among Christian Orthodox peoples within post-Byzantine space: Greeks, Serbs, Bulgarians and Romanians. The increasing tensions led many people in the region and in other Christian Orthodox countries, including Russia, to refer to the prophecies of Orthodox Saints about war between Russia and Turkey.

Orthodox prophesies

Elder Paisius of Mt. Athos and many other Orthodox saints, including Saint Cosmas of Aetolia, have prophesied that modern Istanbul will once again become Orthodox, and most probably within our lifetime. According to the prophecy, Turkey will lead a war against Russia, and will be defeated and dismembered.

According to Saint Paisius, in the war between Russia and Turkey, the Turks will at first believe they are winning, but this will lead to their destruction. The Russians, eventually, will win and take over Constantinople. After that, it will be given to Greece.

The saints predict that a third of the Turks will go back to where they came from, the depths of Turkey. Another third will be saved because they will become Christians, and the other third will be killed in this war.

The most important prophesy that is believed, which can most clearly be justified right now, is that Turkey will be dissected into three or four parts, and one of the parts will belong to an independent Kurdistan.

The position of Radical Islamists

From the point of view of Sunni-radicals, the recent events will be followed by the Great War, where Russia will fight against Muslims as the force of Dajal (the Antichrist).

They support Turkish Islamic President Erdogan in his possible fight against Russia. They strongly oppose Iran, and perceive Shia-Muslims as heretics. So the Russian-Shia alliance is perceived by them as an Apocalyptic threat.

The view of Continental Islam

The prominent contemporary Islamic scholar Sheikh Imran Hosein rejects this opinion, and urges Muslims to return Constantinople to the Orthodox Christians. He says it will come back after the Great War, where the forces of true Islam will fight alongside Orthodox Christians against Turkey. That prediction is based on the next arguments:
· From his point of view, Russia is Rūm of the Qur’an, mentioned in Surat ar-Rum, and that it will be the ally of true believing Muslims against the Dajjal (Antihrist). In his interpretation Rum (derived from Rome) is the Third Rome, Russia and Christian Orthodox civilization that succeed Byzantium, the Second Rome, and not the Occident.
· The Ottoman Empire and Turkey always was an instrument of Dajjal and the Judeo-Christian or Atheist West, in the fight against authentic Islam and Orthodoxy. The conquest of Constantinople according to the Prophet Muhammad would occur at the end times.
· Therefore the 1453 conquest of Constantinople by Sultan Muhammad Fatih had nothing to do with the prophecy.
· Wahhabi petro-states of the Persian Gulf as well as pseudo-Islamic extremists are heretics of the Muslim world and were created with the help of the Atlanticist powers. And as heretics they will fight on the side of Dajjal in the coming war.

According to Imran Hosein, a giant army of Islamic non-fundamentalist states (Iran, Egypt, Syria) will attack and defeat Turkey. It will be the Malhama (great war) prophesied by the Prophet Muhammad, that will lead to the conquest of Constantinople. After the victory of true Muslims, the city will be returned to Orthodox Christians. After that, both armies will fight against the Dajjal who will be backed by the modern Occident and Israel in the land of Syria.

The view of American Dispensationalists

American radical Protestants have always perceived Russia as an Apocalyptic threat. This view is based on their interpretation of Ezekiel 38 – 39. This group is very strong in the US and in the American elite. They believe that Russia is the Biblical Magog and that together with Persia (Iran), Israel will be attacked and invaded, the latter of which will be backed by American Protestants.

The strengthening Russian presence in the Middle East is considered by them as an imminent threat, and in any potential war they believe that Russia is Satan’s force.

Strange Alliances

It is strange, but the fact that despite the religious differences in beliefs of American Protestant pro-Israel fundamentalists and Sunni-radicals, their views regarding Russia are very close. Both think and act as though Russia and Iran are their eschatological enemy. Both believe that they will fight in an Armageddon battle against Russia. This issue reveals the Atlanticist nature of modern Sunni radicalism. Driven by these views, Islamists always will be a tool in the hands of Atlanticists.

On the other side are the forces of traditionalist Islam, that is more pro-Russian than pro-Western. Its geopolitical eschatology almost coincides with the Christian Orthodox one. This creates space for the forging of another alliance, an alliance of the Orthodox World and Traditional Islam.

samedi, 12 décembre 2015

La senda del samurai

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La senda del samurai

por José Luis Muñoz Azpiri 

Ex: http://culturatransversal.wordpress.com

A la memoria de Moisés Mauricio Prelooker. “Es mejor prender una vela que maldecir las tinieblas” (Confucio).

Desde hace ya muchos años constituye un lugar común entre los “analistas de café” el célebre apotegma de un premio Nóbel de economía que sentenció: “Existen cuatro clases de países en el mundo: Desarrollados, subdesarrollados, Japón y la Argentina”, dando a entender que un país pródigo en recursos materiales y humanos no tiene nada y que otro, sometido a las adversidades del medio geográfico y a las trágicas vicisitudes de su historia lo tiene todo.

Dicha frase a pasado a integrar la larga lista de sentencias autodenigratorias con las cuales la “intelligentzia” y sus voceros que, pontifican respecto a la “nociva” experiencia histórica de los protagonismos populares y nos estigmatizan como representantes del pensamiento arcaico o resabios de ideologías perimidas y arrasadas por los vientos de una discutible globalización. Omiten destacar que el Japón pudo convertirse en un país moderno porque fue atípico, porque se aferró a sus instituciones tradicionales, porque mantuvo en forma inquebrantable su propia personalidad nacional.

El desarrollo japonés se caracterizó por un elevadísimo ritmo de acumulación, sobre todo de capital productivo. La reinversión llegó a la tercera parte del producto en el largo período de prosperidad que siguió a la Segunda Guerra Mundial. El capitalismo japonés fue fundamentalmente austero, no solo en los estratos superiores, sino en toda la población

Los gastos militares, que antes constituían el 7% del producto, se redujeron a niveles insignificantes a partir del gobierno del general Mc Arthur. Por otra parte, el mismo gobierno japonés impuso una reforma agraria más avanzada que la que habían deseado algunos reformadores. El desmantelamiento de las fuerzas armadas liberó a muchos técnicos, que iniciaron modestas empresas que después alcanzaron dimensiones gigantescas. El gobierno y la iniciativa privada incorporaron masivamente la tecnología de Occidente, sobre todo por el envío sistemático de gente a formarse en el exterior. Pero no renegó de sus propios valores ni abjuró de su historia y su tradición. Solo se admitieron las trasnacionales cuando el Japón pudo tenerlas y competir con ellas.

Ahora bien, ¿A qué se debe la austeridad del capitalismo japonés? ¿Algunos pueblos están predestinados a la acumulación previsora y otros al derroche por su carácter nacional o por un determinismo genético? ¿Existe algún fatalismo histórico que lleva a algunas naciones a la prosperidad y a otras a la pobreza y a la dependencia?

Indagando el pasado

En 1543, un barco comercial portugués que iba rumbo a China naufragó en alta mar y después de varias semanas de estar a la deriva encalló en la isla Tanegashima en el extremo sur de Kyushu. Los tripulantes fueron rescatados por los isleños, quienes repararon el buque portugués para que pudieran volver a su patria. Los portugueses, muy agradecidos, hicieron una demostración de “tubos negros que lanzaban fuego estruendosos y simultáneamente dan al blanco con una distancia de más de setenta metros”. El señor feudal de Tanegashima se asombró por la precisión con que alcanzaron el blanco las balas y compró dos ejemplares a cambio de una cuantiosa cantidad de plata. Fueron los primeros fusiles que se conocieron en Japón.

Unos años después, los portugueses volvieron a Japón trayendo muchos fusiles tratando de venderlos bien; pero el precio que lograron no llegaba al nivel esperado. Después de varios días de frustración, los portugueses descubrieron que ya en el mercado japonés estaban en venta gran cantidad de fusiles fabricados por los japoneses. Resultó que el señor de Tanegashima (Tokitaka, 1528–1579), al comprar los dos fusiles, ordenó a su súbdito, Kinbei Yaita, encontrar la manera efectiva de reproducirlos. Kinbei desarmó los fusiles y con la ayuda profesional de los herreros de espadas logró dominar la metodología para fabricarlos.

sam2.jpgLa técnica de manufactura de fusiles fue transmitida a Sakai (en aquella época era el centro comercial “industrial” de Japón; se ubica al lado de Osaka). Los herreros especializados en producir las famosas espadas japonesas dominaban los secretos de cómo forjar el acero y dar tratamiento térmico más adecuado para aumentar la resistencia del metal. Tenían sus talleres alrededor de Sakai y empezaron a manufacturar los fusiles con mejores resultados que los originales en cuanto a la calidad de la puntería y resistencia al calor.

Al principio, los tradicionales señores feudales no reconocieron el verdadero valor de los fusiles. Los consideraban armas cobardes e indignas de un samurai y rechazaron darles un lugar merecido en la estrategia militar. Pero la historia de Japón fue drásticamente modificada a partir de la batalla de Nagashino en 1575, cuyos protagonistas no fueron famosos caballeros con armaduras, lanzas y espadas, sino desconocidos fusileros.

Este episodio, y posteriores, se encuentra en el encantador e imprescindible libro de Kanji Kikuchi: “El origen del poder. Historia de una nación llamada Japón” (Sudamericana, 1993) de obligatoria lectura para quien quiera aproximarse al espíritu nipón. Con este incidente, se inicia una lucha de cuatro siglos contra las tentativas de los “bárbaros del este”, es decir, los occidentales.

Una sociedad jerárquica

Hasta 1867 existía en Japón una estructura de poder dual. El emperador, con residencia en Kyoto, resumía la autoridad religiosa y la santificación de la jerarquía social, pues otorgaba títulos y poderes nobiliarios, pero carecía de funciones políticas reales. El verdadero poder estaba en manos de los grandes señores feudales, los daimyos, entre los cuales descolló Tokugawa, quien dio su nombre a todo este período. El emperador era un personaje sin poder real, relegado a un papel simbólico, de carácter esencialmente religioso. El verdadero jefe de gobierno era el shogun, equivalente al chambelán de palacio de los francos, que ejercía un cargo igualmente hereditario.

Al servicio de los daimyos estaba la casta militar de los samurai y, en la base, los labradores (no), los artesanos (ko), los comerciantes (sho) y los desclasados (hinin, “no humanos”); todos despreciados y oprimidos al no ejercer la actividad guerrera, y sujetos a disposiciones rigurosas sobre vestimenta, prohibición de montar a caballo, etcétera.

Los daimyos y sus guerreros profesionales, los samurai, combinaban una difusa lealtad al emperador y a las antiguas instituciones con una despiadada explotación de los campesinos, cuya situación era tan desesperante que los inducía con frecuencia al mabiki (infanticidio) con el objeto de los niños sobrevivientes pudieran seguir alimentándose.

Los occidentales intentaron repetidas veces poner el pie en el Japón, aunque los shogun, en un intento desesperado de cortar todo lazo con Occidente – llegaron a prohibir la construcción de barcos oceánicos y a castigar con la pena de muerte el arribo de extranjeros. Pero todo cambió con la penetración imperialista: en 1853, cuatro barcos pintados de negro dirigidos por el Comodoro norteamericano M.C.Perry (1794-1858) aparecieron el la bahía de Tokio (Edo de entonces) y exigieron la apertura del Japón. ¿La razón?, aunque parezca increíble: las ballenas.

En aquel entonces, los puertos japoneses se necesitaban como bases de reabastecimiento para los buques balleneros norteamericanos. Los estadounidenses, conquistando la frontera oeste, llegaron a California. La población norteamericana estaba en franca expansión y la demanda de la grasa de ballena, una suerte de petróleo de la época, como aceite para las lámparas y la materia prima para fabricar alimentos y jabones, crecía cada vez más. Al principio, los norteamericanos cazaban ballenas en el Océano Atlántico, pero al exterminarlas (los cachalotes del Atlántico), se trasladaron al Pacifico y pronto se convirtieron en los dueños del Océano Pacífico del Norte. Los buques balleneros salían de su base en California y tomaban a las islas Hawai como base de reabastecimiento. Según la estadística del año 1846, los buques balleneros norteamericanos en el Océano Pacífico sumaban 736 y la producción anual de aceite de ballena llegó a 27.000 toneladas.

Estos buques balleneros persiguiendo cachalotes navegaron desde el mar de Behring hasta la costa norte del Japón. Entrando al siglo XIX, los buques balleneros norteamericanos aparecieron varias veces en la costa japonesa, pidiendo suministros de agua y comida, además de combustible. Porque la autonomía de esos balleneros que navegaban a vapor no era suficiente para un viaje que demandara más de cinco meses. Conseguir la base de reabastecimiento en Japón, o no, era de vital importancia para mejorar la productividad de estos buques factorías. Sin embargo, las autoridades locales de las pequeñas aldeas de pescadores del Japón automáticamente rechazaron a los buques balleneros y ni siquiera les permitieron desembarcar. Para ellos no hubo ningún motivo de discusión al cumplir la orden de la Carta Magna celosamente respetada durante siglos por sus antepasados. A nadie le importaba el por qué del aislamiento. No tratar con los extranjeros era simplemente una regla de juego que había que cumplir so pena de muerte, y punto. La ley de aislamiento ya formaba parte del ser japonés.

El Comodoro Perry volvió a la bahía de Edo en el año siguiente (1854), esta vez con siete negros buques de guerra, y llegó hasta la distancia adecuada para el alcance de sus modernos cañones que apuntaban al castillo y a la ciudad de Edo, y exigió de nuevo la apertura. El Shogunato de Tokugawa, completamente asustado, firmó el acuerdo de amistad con Norteamérica, concediendo dos puertos como base de reabastecimiento para sus barcos: Shimeda y Hakodate.

De esta manera, el aislamiento en que el Japón vivía desde el comienzo del siglo XVII fue levantado a la fuerza por la escuadra de Perry. Ese año arribó al Japón el primer Cónsul General de Norteamérica, Mr. Harris (1804-78). La misión del señor Harris era lograr la firma del Tratado de Libre Comercio bilateral con el Gobierno del Japón. Inmediatamente lograron concesiones similares Inglaterra, Holanda, Francia y Rusia.

Esto contribuyó a desprestigiar al Shogun, y el Emperador, apoyado por una parte de la nobleza, de los samurai que controlaban la flota y el ejército, y de algunas poderosas familias de banqueros, depuso al Shogun, destruyó el poder territorial de la nobleza feudal e impuso un régimen centralizado: un ministerio de quince miembros, fuerzas armadas unificadas, impuestos, administración y justicia nacionales.

El grito que surgió en Japón, sin embargo, fue Isshin: volvamos al pasado, recobremos lo perdido. Era lo opuesto a una actitud revolucionaria. Ni siquiera era progresiva. Unida al grito de “Restauremos al Emperador”, surgió el de “Arrojemos a los bárbaros”, igualmente popular. La nación apoyaba el programa de volver a la edad dorada del aislamiento, y los pocos dirigentes que vieron cuán imposible era seguir semejante camino fueron asesinados por sus esfuerzos de renovación.

Con la misma terca determinación con que se habían negado durante cuatro siglos a todo contacto con los extranjeros (salvo la curiosa excepción de los holandeses, que eran tolerados, pero confinados en una isla artificial) los japoneses se lanzaron a la aventura de vencer a los occidentales con sus propias armas. Se acusó al shogun – uno de cuyos títulos era el de “generalísimo dominador de los bárbaros” – de ser incapaz de impedir la humillación nacional, se le obligó a renunciar y se desencadenó un tsunami bautizado como “Restauración Meiji”.

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La Restauración Meiji

Desde 1867 ocupaba el trono imperial un muchacho de quince años, Mutsuhito, quien adoptó en 1868 para designar su reinado el nombre del año en curso, Meiji (“gobierno ilustrado”). Los eruditos del culto nacional (Shinto) habían ganado mucho apoyo para su concepción de que el Japón era un país superior, por contar con una casa imperial fundada por la Diosa del Sol. Estas enseñanzas – que constituían en realidad la doctrina nacional japonesa – fueron rescatadas por los grandes señores feudales del sudoeste del Japón, que querían debilitar la institución del Shogunato para imponer su propia autoridad.

Cuando el Estado se configura como tal, a partir de la acumulación mercantil, elementos como la religión (transformación cultural del animismo, según algunos antropólogos), queda incorporado al orden estatal como regulador del consenso.

Se levantó así la bandera del “retorno a lo antiguo” (fukkó) y los jóvenes samurai, violentamente antiextranjeros – que se habían vinculado extensamente entre si a través de años de entrenamiento en las academias de la espada, y que a menudo eran pobres – se plegaron al bando de los daimyos del sur, y derrocaron al último shogun, entregando el poder al emperador adolescente, en cuyo nombre se había realizado todo el movimiento.

En 1868 los principales señores feudales fueron convocados al palacio imperial de Kyoto, donde se proclamó la restauración del poder imperial. Al año siguiente la capital fue trasladada a Tokio, y se inició la construcción del Japón moderno.

Para 1889 se había creado una monarquía constitucional fuertemente oligárquica, con dos cámaras: la de los pares, vitalicios, designados por el emperador y elegidos por los grandes propietarios, y la de diputados, elegida por los habitantes que pagan censo (500.000 sobre 50 millones que componían la población total. El apoyo directo del régimen lo constituía la casta militar.

Tales cambios no modificaron la situación del jornalero agrícola, ferozmente explotado, y fueron acompañados por el empobrecimiento brutal de los pequeños campesinos propietarios, que debieron vender e hipotecar sus tierras. Tampoco se evitaron totalmente las tensiones entre la casta militar y la nueva burguesía. Pero la estructura samurai, actuando sobre el capitalismo existente y el poder fuertemente centralizado, dio origen a un desarrollo aceleradísimo, que se benefició del éxodo de los campesinos arruinados y de los obreros agrícolas, empujados por la miseria hacia las ciudades, donde formaron un enorme ejército de mano de obra barata.

La centralización del poder permitió que, en lugar del tradicional laissez-faire de los capitalismos occidentales, se instituyera un fuerte capitalismo de Estado, que mediante la asociación con la nueva oligarquía, dio origen a una rápida trustificación, tanto en la banca como en la industria. El Estado creó y modernizó la industria del hierro, del acero y las empresas textiles, cediéndolas luego a los particulares. Se crearon instituciones bancarias a imitación de las de Estados Unidos, y los comerciantes japoneses, apoyados por el Estado, desplazaron a los extranjeros.

El período llamado Meiji significó así la estructuración en pocos años de una sociedad capitalista centralizada, monopólica, militarista, que producía a muy bajos costos debido a lo económico de la mano de obra. Estaban dadas todas las condiciones para que Japón se lanzara a la expansión imperialista y territorial, en conflicto con las otras potencias, y en primer término con Rusia, con la que debía dirimir la hegemonía sobre la costa asiática del Pacífico.

Pilares de la transformación

Los líderes revolucionario-tradicionalistas estaban convencidos que la fuerza de los países occidentales provenía de tres factores:

– El constitucionalismo, que originaba la unidad nacional
– La industrialización, que proporcionaba fuerza material
– Un ejército bien preparado. La nueva consigna fue: “país rico, armas fuertes” (fukoku-kyohei).

Basados en estas premisas pusieron en marcha drásticas reformas que significaron en poco tiempo la liquidación de toda la estructura de la sociedad feudal. En primer término se obligó a los grandes daimyos a revertir sus propiedades al trono, que era considerado titular de toda la tierra japonesa. Los señores feudales, en una primera etapa, fueron nombrados gobernadores de sus antiguos feudos.

Pero eso duró poco. En 1871 los gobernadores-daimyos fueron convocados a Tokio, se les entregó un título de nobleza, a la usanza occidental, y se les quitaron sus cargos, al mismo tiempo que se declaraba abolido oficialmente el feudalismo. Los 300 feudos fueron convertidos en 72 prefecturas y tres distritos metropolitanos.

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No menos decidida fue la campaña contra la estratificación social que había predominado durante la época feudal. Era fácil otorgar títulos y generosas pensiones a los grandes señores feudales, pero resultaba mucho más difícil reubicar a más de dos millones de samurai y demás dependientes, sin dinero y sin tierras. A éstos se les concedió una pensión igual a una parte de su antiguo estipendio, y cuando la erogación resultó una carga demasiado pesada para el erario, se los sustituyó por bonos del tesoro, inconvertibles y de bajo interés. Se les prohibió también portar espada y seguir exhibiendo su característica coleta.

Pronto las pensiones y bonos se esfumaron, pues la inflación devoró gran parte de su valor. Por otra parte, los samurai carecían de capacidad para adaptarse a las nuevas condiciones imperantes. En 1873, el mazazo final: se instituyó la conscripción obligatoria, con lo cual los samurai perdieron su tradicional monopolio del servicio militar. Hubo motines, por supuesto, pero fueron sofocados. El más célebre fue el de Saigo.

Caballos desbocados

Después de la Restauración Meiji, los samurai que pelearon para derrocar el régimen feudal, advirtieron que habían sido utilizados y que su premio había sido la desocupación y la pérdida de todos sus privilegios. Al hecho de no poder portar katana ni la indumentaria que los había caracterizado durante siglos se sumaba la obligación de tener que trasladarse a Tokio (ex Edo) con el consiguiente abandono de sus castillos tradicionales y la separación de sus súbditos. Era el precio a pagar por la modernización a la que consideraban una traición a los valores tradicionales y nacionales y una imitación servil de todo lo extranjero.

Takamori Saigo, quien fuera Comandante Supremo de las Fuerzas Unidas Reales que derrotaron al Shogunato, surgió por propia gravitación como líder de los descontentos.
Por esa época, al igual que la actual, Rusia porfiaba en lograr puertos cálidos en el sur, que no se congelaran en el invierno (Tal fue una de las principales causas, sino la principal, de la invasión a Afganistán), en algún lugar en la Bahía del Mar Amarillo o en la costa coreana. Por ello el Imperio Ruso se interesaba tanto en Manchuria o en la Península Coreana a las que Japón consideraba vitales para su defensa. Saigo intentó resolver militarmente los dos frentes aprovechando la energía latente de los samurai ora desempleados y planeó la invasión de Corea. El rechazo a sus planes detonó la rebelión de Satsuma de 1877.

Fue la última de las grandes protestas armadas contra las reformas del nuevo gobierno Meiji, y sobre todo contra aquellas que representaban una amenaza para la clase samurai al acabar con sus privilegios sociales, reducir sus ingresos y obstaculizar su tradicional estilo de vida. Son muchos los samurai de Satsuma que en 1873 abandonaron el gobierno junto a Saigo, resentidos por el rechazo a la propuesta de éste de invadir Corea y por el proceso de reforma, que parecía hacer caso omiso a sus intereses. La rebelión surgirá por fin en enero de 1877, acabando con el suicidio de Saigo. Cuenta la tradición que se quitó la vida cometiendo el tradicional seppuku (harakiri) junto con trescientos de sus últimos seguidores.

Junto con Saigo, murieron los samurai como fuerza política vigente. Pero la imagen que dejaron, idealizada y embellecida, renació inmediatamente después de la muerte como símbolo de la ética del pueblo. El espíritu honorable de los samurai y sus almas nobles empezaron a buscar un lugar en el corazón de los ciudadanos comunes de Japón. Hoy se venera su memoria junto a las leyendas de los Marinos de Tsushima, el general Kuribayashi de Iwo Jima o los más de 300 pilotos Kamikaze de la Segunda Guerra Mundial.

Con ligeras variantes, este episodio fue narrado en las novelas de Yukio Mishima, las películas de Kurosawa o en la versión hollywoodense de “El último samurai”.

Cómo generar capital sin endeudarse

La abolición de los señores feudales y la expropiación de sus feudos hizo posible desechar el viejo sistema de tenencia de la tierra e instituir un sistema impositivo regular y confiable. Los líderes del Japón moderno estaban convencidos de que sólo podían y debían depender de sus propios recursos. Para obtenerlos no vacilaron en decretar un impuesto en dinero del 3% sobre los valores inmobiliarios, para lo cual se realizó previamente, en 1873, un censo agrario, determinando sus tasaciones sobre la base de los rendimientos medios en los años anteriores. Este censo permitió también otorgar títulos de propiedad a los campesinos, a quienes se liberó de todas las tabas feudales, dándoles entera libertad para escoger sus propias siembras.

Todas estas medidas requirieron cierto tiempo, y como implicaban cambios fundamentales, hubo momentos de gran confusión y frecuentes desajustes, que provocaron levantamientos y manifestaciones de campesinos. Sin embargo, la entrega en propiedad a los campesinos, junto con las enérgicas medidas adoptadas por el nuevo régimen para promover los adelantos tecnológicos y adoptar nuevos fertilizantes y semillas seleccionadas, produjeron finalmente un enorme incremento en la producción agraria. Sobre esas bases se construyó el Japón moderno, que en tres décadas pasó de sus inofensivos barcos de guerra de madera a una poderosa flota, con la cual el almirante Togo hundió en el estrecho de Tsushima (1905) a toda la flota rusa del Báltico, que acudía a Extremo Oriente para tratar de levantar el bloqueo japonés.

El impuesto a la tierra y la emisión de papel moneda avalado por los valores inmobiliarios se convirtieron durante varias décadas en la principal fuente de recursos del Estado japonés.

En toda su historia, el Japón sólo ha hecho uso de un préstamo inglés de un millón y medio de libras esterlinas.

Así, en el plazo de una generación y contando solamente con sus propias fuerzas, el Japón se convirtió en una gran potencia. Téngase en cuenta para valorar lo realizado, la extrema pobreza del territorio japonés, que obliga a depender tanto del mar como de la tierra para alimentarse. La alternativa consistía en convertirse en una colonia europea o norteamericana, a lo cual Japón parecía predestinado por su carencia de recursos materiales y su falta de tradición tecnológica. Eligió otro camino.

Japón probó que un pueblo asiático era capaz de desarrollar los adelantos técnico-industriales ostentados por los occidentales, y luego enfrentar militarmente a estos, aún derrotándolos, como sucedió con Rusia. El Japón, como ejemplo que demostraba la mentira occidental de una superioridad basada en la raza o en recónditas cualidades espirituales, contó con las simpatía del naciente movimiento nacionalista, tanto chino como indio, indonesio, vietnamita, birmano, malayo o filipino.

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¿Imitación o creatividad endógena?

La autogestión y la imitación, ¿son en realidad dos polos opuestos? Un país que desee acelerar su industrialización debe ser capaz de reconciliar ambos aspectos, como lo demuestra la experiencia japonesa.

En 1875 el gobierno Meiji inició la primera fábrica moderna de manufactura de hierro, en Kamaishi, bajo la supervisión de un ingeniero británico. Durante veinte años habían operado allí pequeños hornos, construidos también conforme a un diseño extranjero, pero sin ingenieros extranjeros. Los hornos habían tenido dificultades financieras, pero técnicamente habían tenido éxito. Con todo, el gobierno ignoró esta tecnología tradicional y prefirió los métodos británicos. Los resultados fueron desastrosos. Al cabo de cien días se acabó en carbón. Después de un tiempo se reanudó la producción utilizando coque. Pero esto dio por resultado la congelación del hierro y el coque en el horno y, así, hubo de clausurarse toda la planta.

La investigación tecnológica e histórica señala las tres causas siguientes del fracaso: había una amplia brecha entre la modernidad de la tecnología en que se basaba el nuevo horno y la forma anticuada de producir carbón: la ubicación de los hornos y el sistema total de transporte no eran adecuados para proporcionar rápidamente materia prima, y el diseño del horno mismo era fundamentalmente defectuoso. Además, la operación era dirigida por extranjeros, quienes no tomaron en consideración las características del mineral de hierro y el carbón japoneses. Debe añadirse una cuarta causa, a saber, la veneración por Occidente que sentía el gobierno. Este fracaso inicial de establecer la industria moderna del hierro en Japón demuestra claramente los peligros de importar tecnología sin prestar atención a las condiciones locales, y también demuestra la ventaja de la tecnología doméstica, es decir, su integración prioritaria con las condiciones locales.

Si deseamos examinar intentos anteriores de crear un moderno sector de la manufactura de hierro, podemos volvernos a la historia de la fundición de cañones. Aquí encontramos lo que se puede designar como el “modelo de la autogestión /imitación”, que podría demostrar ser un ejemplo valiosos para los países actualmente en desarrollo. Los hornos de reverbero en Saga, Kagoshima, Nirayama, Tottori y Hagi se basaban todos en un libro en idioma holandés. Hubo un prolongado proceso de prueba y error: tan solo la mitad del hierro se fundía, los cañones estallaban al primer disparo, etc… Pero no debe pasarse por alto el hecho de que, en medio de innumerables fracasos tuvieron un progreso constante. En efecto, en solo unos cuantos años todos los problemas iniciales habían sido superados y para fines del período Edo (1600 –1868) habían construido alrededor de doscientos cañones, incluyendo tres con rayado en espiral, que eran el último avance en la Europa contemporánea. Pese a innumerables fracasos, la velocidad con que asimilaban la nueva técnica exógena nos parece sorprendente. Ha habido muchos debates acerca de las razones de esta velocidad, pero aquí es de interés especial la posición adoptada por el profesor Shuji Ohashi: Usando sus estudios detallados sobre la metalurgia del hierro en las postrimerías del período Edo, el profesor Ohashi ha mostrado tres etapas diferentes en el proceso de formación de la tecnología del fundido de cañones en Saga. Cada una de estas etapas tuvo su propia contraparte en el desarrollo europeo.

La primera etapa fue el fundido de cañones de bronce. En Japón, este período duró de 1842 a 1859, mientras que la misma tecnología en Europa había permanecido en la etapa del bronce hasta mediados del siglo XVII. En ambos lugares, constituyó la base histórica para el fundido de cañones posterior. En Japón, esta segunda etapa de fundir cañones de hierro tuvo lugar entre 1851 y 1859 y correspondió a un avance que tuvo lugar en Europa desde mediados del siglo XVII a la década de 1850. La tercera etapa, que data de 1863, se centró en la capacidad de hacer cañones rayados de acero fundido. Esta etapa correspondió al desarrollo europeo desde la década de 1840. Debe observarse que, aunque cada etapa cubrió solo un breve período de tiempo, Saga había pasado exactamente por las mismas etapas y en el mismo orden que Europa.

En este desarrollo, confiaron no sólo en su propia experiencia en el fundido de cañones de bronce, sino también en muchos otros logros de la ciencia y la tecnología locales, tales como la elaboración de ladrillo refractarios, la utilización de la energía hidráulica, la aritmética japonesa local y, sobre todo, la totalidad de la tecnología doméstica de manufactura de hierro. Los artesanos desde hacía tiempo habían hecho armas, tales como espadas y pistolas, e implementos agrícolas tales como rastrillos y hoces de hierro en bruto y acero. Las temperaturas de sus horno eran comparables a la de los altos hornos. Así, los artesanos tenían un nivel notablemente alto en el arte del forjado y la fundición, y estaban bien informados acerca del comportamiento del hierro fundido y otros materiales diversos en altas temperaturas.

Sin el apoyo sólido de la tecnología local y de sus propias experiencias en las tecnologías precedentes, no puede esperarse que tenga éxito cualquier intento de imitación. Esto está fuera de toda dudad. Pero ¿podrían haber alcanzado los mismos resultado sin imitación alguna?. Sin duda, pero posiblemente con mucha lentitud. El intento de imitar un modelo occidental sin duda los alentó.

Exactamente debido a que sus intentos de fundir cañones fueron una imitación de tecnología exógena, estos intentos fueron acompañados por problemas nuevos, previamente desconocidos. La resolución de éstos requería de un nivel de destreza tecnológica más alto que el que realmente habían logrado los ingenieros.

Afortunadamente, las brechas que se encontraban cada vez eran lo suficientemente pequeñas como para superarlas. Pero, debido a la presencia de estas brechas, el incremento de sus habilidades puede describirse mejor como una serie de “saltos” en vez de cómo un simple progreso.

sam6.jpgEl desarrollo tecnológico japonés ha conocido muchos saltos así, uno de los cuales, por lo general, se considera como la fecha de nacimiento de la moderna industria del hierro de Japón: el primero de diciembre de 1857 vio encenderse el primer fuego en el alto horno de Kamaishi, un horno de carbón que una vez más se basó en el libro único mencionado arriba. Claro está que, fuera de estos saltos, hubo fracasos, pero también éstos fueron importantes, ya que prepararon a los ingenieros japoneses para su siguiente salto. Esta característica (es decir, una serie de saltos pequeños) del desarrollo tecnológico japonés es extremadamente importante para los países actualmente en desarrollo. En la medida que los países emergentes pretenden alcanzar el mismo nivel tecnológico que los países desarrollados en un período de tiempo más corto, sus planes de desarrollo necesariamente deben diseñarse como una serie de saltos.

Los problemas sociales relacionados con los saltos tecnológicos también deben ser interesantes para los países que inician su propio desarrollo. Los saltos técnicos deben ser vistos en sus contextos sociales e históricos. Pues, aunque en sí es un logro tecnológico, cada salto siempre fue parte inseparable de algún movimiento social histórico. El primer salto surgió de la agitación que comenzó con el choque social ocasionado por la Guerra del Opio y la aparición de buques de guerra occidentales y que terminó con la caída del gobierno Edo. Muchos cañones fundidos durante esa época fueron disparados contra el gobierno de Tokuwaga así como contra escuadrones occidentales. El segundo salto, claro está, estuvo asociado con el gran cambio social después de la Revolución Meiji, y el tercero con la tensión internacional entre la guerra ruso-japonesa. Mas tarde, también, los acontecimientos históricos siguieron siendo el incentivo de los saltos.

Hablando de manera general, en siempre que Japón tuvo siempre éxito en utilizar la pasión nacionalista creada por los períodos de agitación, y emplearla como fuerza motriz para un salto tecnológico. Esto sigue siendo verdad. Por ejemplo, los dirigentes japoneses hicieron uso pleno de la crisis del petróleo en 1973 a fin de crear un sentimiento de urgencia que pudieron aprovechar para el desarrollo integral de tecnología economizadora de energía.

Respecto a los sentimientos nacionalistas como ayuda para crear un salto tecnológico, un período especialmente interesante de la ciencia y tecnología japonesas es el período entre las dos guerras mundiales. La Primera Guerra Mundial impresionó mucho a los japoneses con las virtudes de la ciencia. Mas concretamente, habían sufrido varios tipos de carencias porque hubo que detener ciertas importaciones, y admiraban a los alemanes por haber inventado materiales sustitutos, bajo circunstancias similares, gracias a su ingenio científico. La tendencia que comenzó con esta guerra fue la “ciencia de los recursos”, que significaba la ciencia para asegurarse los recursos y para la invención de sustitutos, así como la ciencia de los “materiales de los recursos”. El problema que Japón había afrontado durante la guerra fue una especie de “dependencia tecnológica” parecida a la que puede verse ahora en los países periféricos. En consecuencia, más tarde se recalcó la independencia respecto de la tecnología occidental.

El respeto a la propia cultura, clave del éxito japonés

¿Cómo puede una sociedad reaccionar a las influencias exógenas y desarrollar capacidades potenciales endógenas? El hecho de que ambas van de la mano se ha demostrado repetidamente a lo largo de la historia. Como hemos visto, la experiencia japonesa misma lo comprueba: Japón fracasó cuando trató sencillamente de importar el conocimiento, sin tener en cuenta las condiciones propias. E incluso Europa lo había tomado en préstamo y lo había integrado, ya que en la temprana edad de este milenio Europa aprendió mucho de la ciencia y técnica altamente avanzadas de las zonas culturales árabe, hindú y china. Este proceso incluyó abundantes ejemplos de imitación y préstamo. Pero, una vez arraigados en la cultura europea, estos elementos exógenos permitieron que surgiera la energía latente en las condiciones domésticas europeas. Y Europa comenzó a desarrollarse rápidamente.

Sobre la industrialización del Japón existen los excelentes estudios del profesor Kazuko Tsurumi, que rechaza la opinión que considera la ciencia y la tecnología como entidades independientes de la cultura de cualquier sociedad en particular. Cada cultura tiene sus propias formas tradicionales de conocer y hacer. Esto significa que habrá un conflicto entre toda la tecnología prestada y la cultura local del país que la pide en préstamo, conflicto que no puede resolverse sino en el momento en que la tecnología se haya integrado a la cultura. El profesor Tsurumi investigó los conflictos en la tecnología local de la manufactura del hierro en el período Meiji en Japón. Este enfoque se recomienda a sí mismo como un método tecnosociológico. Si comparamos los diversos conflictos ocasionados por la importación de tecnología en algunos países, podemos encontrar muchas claves para la comprensión de la relación entre tecnología y cultura social. No obstante, al comparar China y Japón, el profesor Tsurumi siempre parece considerar la autogestión de manera favorable y positiva, refiriéndose a la imitación en términos negativos. Pero sería imposible para los países en desarrollo alcanzar la industrialización sin imitar o tomar a préstamo tecnología. Tal el caso de nuestra industria metalmetalúrgica de aplicación agrícola.

Un país capitalista atípico

Como Rusia, el Japón llegó tarde al desarrollo capitalista. Pero a diferencia de aquella, a partir de la Revolución Meiji de 1867, el sistema feudal fue superado en forma muy acelerada, por un lado; por el otro, también a diferencia de la burguesía rusa, la japonesa, apoyada en un fuerte capitalismo de Estado, logró controlar férreamente el proceso excluyendo del mismo la presencia y penetración del capital extranjero.

La modernización del Japón, ocurrida de este modo, prácticamente se salteó el período del capitalismo de libre competencia, pasando en forma casi directa del feudalismo al capitalismo monopolista. La Restauración Meiji (1868) convirtió al Japón en un país moderno, aunque atípico. En realidad, tendríamos que señalar que pudo convertirse en un país moderno porque fue atípico, porque se aferró a sus instituciones tradicionales, porque mantuvo en forma inquebrantable su propia personalidad nacional.

Ese espíritu independiente se puso de manifiesto en todos los terrenos. En lo referente al desarrollo industrial japonés, este fue totalmente autofinanciado, y los nipones no pidieron el más mínimo crédito a Occidente. Los bancos controlados por el Estado y ampliamente provistos de fondos provenientes de la recaudación del impuesto a la tierra, suministraron todos los capitales necesarios para crear la industria pesada y la liviana. Una vez que se consolidaron las grandes familias (zaibatzu), dotadas de enorme poder económico y político, e integradas en algunos casos por parientes y amigos de los líderes Meiji, se les fueron entregando las plantas industriales. El desarrollo tuvo un ritmo impresionante, pero gracias al bajísimo nivel de vida de la población.

Al mismo tiempo, se producía una profunda revolución político – religiosa. Un decreto imperial de 1890, que amalgamaba elementos confucianos y shintoístas, estableció la política educacional del nuevo régimen. Las lealtades feudales fueron reemplazadas por la lealtad a la Nación, encarnada en la figura mítica del Emperador, como un deber patriótico ineludible. Se inculcó en todos los estratos sociales el ideal samurai del honor y la lealtad, que de este modo se convirtió en la herencia legada por los antiguos clanes dominantes. También quedó claramente en vigencia la veneración por los ancianos – rasgo típico de toda cultura arcaica – y los estadistas de mayor edad, después de abandonar la función pública, integraban una especie de gerontocracia, formando un consejo asesor que mantuvo en forma inflexible la continuidad y la coherencia de la política japonesa.

No se podría comprender nada de lo que ocurrió en Japón en estos cien largos años sin tener presente esta mezcla inextricable de lo antiguo y lo moderno. Y digámoslo con claridad: para que un país se realice debe asumir plenamente su destino y su tradición nacional, es decir, debe de tener como punto de referencia su futuro y su pasado.

En estos términos es posible comprender lo que ocurrió en Japón. En ese país se mantenía totalmente viva, apenas recubierta por un débil estrato feudal, la cultura arcaica, que liga al hombre con su tierra y consigo mismo, esa sociedad que el mundo occidental niega, porque lo toca demasiado de cerca, o que lo relega a los pueblos que llama “primitivos” (Véase al respecto las obras de Pierre Clastres). La Restauración Meiji rescató y permitió el afloramiento de dos aspectos básicos de esta sociedad, en las condiciones históricas muy especiales de ese aislado país insular:

1. la lealtad a la institución imperial, en la cual habían quedado sintetizados y simbolizados todos los valores espirituales de la aldea arcaica, y
2. el odio a los bárbaros es decir, hacia la civilización occidental, en lo cual no se equivocaban en absoluto, porque esa civilización representaba una amenaza clara de destrucción de todos sus valores esenciales.

Civilización y Barbarie

¿Por qué pudieron los japoneses afianzar su existencia como nación ante las presiones de todas las potenciales coloniales?

Disentimos en un todo con las explicaciones reduccionistas de ciertos “analistas” que atribuyen el desarrollo nipón a su espíritu imitativo y pragmático. Esta explicación, elemental por cierto, que atribuye a una civilización milenaria un supuesto deslumbramiento por la técnica y la cultura de Occidente, se da, como hemos visto, de bruces con la realidad, con la historia del Japón. No es otra cosa, que una de las tantas manifestaciones de etnocentrismo occidental.

El Japón evitó ser aplastado e impuso su presencia como nación porque se replegó sobre sus propias tradiciones, que se apoyan en el basamento inconmovible de la cultura arcaica, cimiento insustituible de una comunidad bien organizada.

De este modo se constituyó, como hemos dicho, en el heraldo de las reivindicaciones nacionales de otras naciones asiáticas. Lo logró porque a partir de sus propios valores, plenamente vigentes, antepuso ante todo lo demás su reconstrucción nacional, tras ser el único pueblo del planeta en sufrir una agresión atómica, aceptó una total austeridad, desechó todo lo superfluo y contando solamente con sus propias fuerzas se colocó en dos décadas a la vanguardia de las potencias industriales.

Comprendieron que en el dilema “civilización o barbarie” tan caro al pensamiento de nuestros liberales; que llegaron a importar maestras norteamericanas que ni siquiera sabían el castellano y esgrimieron la consigna para realizar una salvaje campaña de “limpieza étnica” con las montoneras del interior, que civilización es lo propio y barbarie lo extraño. Y los países que lo advierten tienen defensas más eficaces ante el intento la imposición del pensamiento único, mediante el bombardeo masivo de los medios de comunicación donde se ofrece un supuesto mundo racionalista y eficiente. “Un infierno climatizado que nos quieren vender como felicidad” decía Julio Cortázar. Un racionalismo que ha realizado un asalto despiadado e irracional contra el hombre y la naturaleza y una eficacia que se traduce en crisis y guerras eternas.

Al igual que el Japón, debemos afirmar que nuestro propios valores y nuestras propias esencias son más trascendentes, porque hacemos propio el certero axioma de Le Corbusier: “Lo que permanece, en las empresas humanas, no es lo que sirve, sino lo que conmueve”.

Fuente: Una Mirada Austral.

dimanche, 06 décembre 2015

Mantenersi fermi nella notte del mondo. Appunti solstiziali

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Mantenersi fermi nella notte del mondo. Appunti solstiziali

Ex: http://www.ilprimatonazionale.it 

Dicembre. Ultimo mese dell’anno, il mese dei riepiloghi, delle chiusure, delle attese per i nuovi inizi. Il mese di Natale, come è stato in epoca cristiana e ancor più, ancor prima, in tutto il mondo indoeuropeo con le feste collegate al Solstizio d’Inverno, la Porta degli Dei, il momento sacro più importante.

A Roma le festività che si accavallavano in occasione del Solstizio invernale erano addirittura tre: i Saturnalia, dal 17 al 24 dicembre; gli Angeronalia, il 21 dicembre – giorno del Solstizio vero e proprio, quando Terra e Sole sono allineati nel perielio sull’asse maggiore dell’orbita di rivoluzione; infine il 25 dicembre, divenuto il Dies Natalis Solis Invicti sotto Aureliano, il giorno in cui il Sole rende visibile la sua rinascita grazie dell’apparente inversione del suo moto.

Prima che nel periodo imperiale il Sol Invictus divenisse il protagonista indiscusso di queste festività, nel mondo arcaico erano tre le divinità che entravano in gioco in queste feste: Saturno, Angerona e Giano. Angerona è forse la meno conosciuta, una dea rappresentata con il capo velato e soprattutto con un dito sulle labbra chiuse, ad indicare il silenzio. Ma il suo essere meno conosciuta di altre divinità non indica un’importanza minore, anzi. Angerona era la dea che proteggeva i Misteri – si dice anche che proteggesse il Nome Segreto di Roma affinché i nemici non potessero mai scoprirlo e quindi non potessero mai conquistare l’Urbe – era la dea che accompagnava il Mystes, l’iniziato, nel suo percorso.


Era la dea dei segreti sacri più profondi e importanti, la dea dei segreti inaccessibili e non rivelabili, sia perché “pericolosi” per i profani ma anche perché non comprensibili se non attraverso la partecipazione attiva ad essi, essendo sovra-sensibili e soprattutto sovra-razionali. Nel giorno degli Angeronalia, nel giorno in cui il Sole effettua astronomicamente il passaggio, i pontefici osservavano un profondo silenzio e officiavano i loro sacrifici mantenendo una tranquillità polare e immutabile mentre il caos dei Saturnalia dilagava tutto intorno a loro.

Diventavano così incarnazione di quel principio di assialità cosmica e luminosa che regge il mondo rimanendo immutato di fronte all’incessante movimento dei cicli cosmici. Lo stesso principio che, mutuato dal mondo germanico attraverso un sempreverde illuminato, sarebbe diventato l’Albero di Natale, emblema dell’Albero Cosmico.

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Giano, conosciuto dai profani come il “dio bifronte” o “dio degli inizi”, condivideva con Angerona la potestà degli stati di passaggio. Giano ha la stessa radice di “ianua”, ovvero “porta”. Suo simbolo era la nave, l’emblema del viaggio iniziatico in tutte le civiltà, da Odisseo e Argo fino alla Barca Solare dei misteri di Iside e Osiride. Giano è colui che custodisce l’universo e ha il potere di volgerlo sui cardini, come ci dice Ovidio. È colui che ha le chiavi che aprono e chiudono, che legano e slegano, il dio che unisce e dissolve, colui che controlla i due movimenti contrastanti del cosmo attraverso il suo terzo volto, quello nascosto, quello che sintetizza l’unità degli opposti e che di Due fa Uno.

Infine Saturno. La figura di Saturno è sicuramente più nota rispetto alle altre due. Ma paradossalmente il suo essere “più famoso” lo ha reso anche il più sensibile a clamorosi fraintendimenti. Saturno per la maggior parte delle persone è il malvagio titano Kronos che mangia i suoi stessi figli, il dio nero con un carro trainato da draghi che rappresenta le forze divoranti e dissolventi a cui gli dei olimpici si devono opporre. Tutto ciò è parziale e impreciso. Giano e Saturno erano divinità molto legate, quasi inscindibili. Si dice che fu Giano ad accogliere Saturno nel Lazio, divenuto appunto la Saturnia Tellus, dopo che questi fu esiliato dal suo regno dell’Età dell’Oro. Saturno era infatti il sovrano dell’Era che fu prima di ogni inizio, l’Era in cui il tempo non esisteva, l’Era di felicità in cui ogni cosa dava frutto perché ogni potenza diveniva atto – per questo nel Lazio Saturno fu anche divinità agricola che proteggeva il seme nella sua fioritura – l’Era in cui l’uomo era in armonia e unità con il Divino.

Eppure Saturno si addormenta, il suo regno si sospende. E il tempo inizia a fluire, a far invecchiare, a divorare nel suo ciclo di morte e rinascita. Diventa il Kronos dell’immaginario comune, il drago che divora incessantemente, che non riesce mai a sfamarsi, come l’ego che incatena ogni ascesi o come il pensiero associativo che con il suo continuo fluire non permette di fermarsi e passare. Saturno è dunque tanto l’Oro quanto il piombo alchemico. Ma come insegna la stessa Arte Regale, è nel piombo che vi è l’Oro, è dal piombo che si fa l’Oro ed è solo rettificando il piombo che si realizza l’Oro.

Le feste dei Saturnalia che precedevano il Solstizio sono un rituale che realizza esattamente questo processo. Nelle notti più oscure, in cui il Sole-Oro è sempre più avvolto dall’oscurità plumbea della notte invernale, il mondo viene sconvolto dal caos. Ogni ordine sociale costruito tramite una gerarchia evocata dal piano divino viene sovvertito. Gli schiavi comandano sugli uomini liberi, la dissonanza e la perdita delle forme prende il sopravvento nelle città. Viene portata per le strade l’effige di un re vecchio, malato, infermo, un re che divorato dal tempo ha perso l’assialità e quindi diventa preda delle forze caotiche. Ma c’è chi mantiene la calma, il silenzio e la gerarchia, c’è chi conserva i segreti che neanche le forze più vulcaniche e infere del caos possono intaccare. C’è chi mantiene l’assialità quando tutto intorno è caos, ci sono le Angeronalia durante i Saturnalia. Ma chi in silenzio segue i misteri di Angerona non lo fa solamente per “mantenere” i segreti, per “conservare” ciò che è sacro in attesa che il caos finisca e che torni il Saturno dell’Età dell’Oro.

Chi segue Angerona agisce, il Mystes è un soldato, un milite. Egli sa che ciò che è senza tempo non può avere inizio o fine, sa che attendere nel tempo l’inizio di qualcosa che è a-temporale è pura follia. Sa che Saturno celato va risvegliato e che per raggiungerlo c’è bisogno di Giano, il dio sia degli inizi che della fine e che quindi è hic et nunc, in ogni momento e in ogni luogo, in ogni punto di contatto tra ciò che è qui e ciò che è Sopra, tra ciò che è tempo e ciò che è Eternità, proprio come l’Urbe che è anche Orbe fondata nel cuore della Saturnia Tellus in cui regnano tanto Giano quanto Saturno e in cui si può incarnare l’azione sacra che permetta di mantenersi immutabile nel caos e attraversare la porta del guardiano cosmico che veglia sul sonno del dio celato. Solo così la follia che vede al vertice gli schiavi e i loro principi degradanti che rendono schiavi anche gli uomini liberi può aver fine, preannunciando una nuova Era in cui il re vecchio, malato e malfermo può morire e rinascere nel Fuoco per tornare ad essere Re, il Re Saturno che torna al suo splendore a-temporale.

Carlomanno Adinolfi

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mardi, 27 octobre 2015

Osaragi Jirö et les 47 ronins

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Osaragi Jirö et les 47 ronins

Rémy Valat
Ex: http://metamag.fr

Nojiri Haruhiko (4 octobre 1897-30 avril 1973), plus connu sous son nom de plume, Osaragi Jirō est un célèbre écrivain de la culture populaire japonaise qui a signé de nombreux romans parus en feuilletons dans la presse. Fils de charpentier, il est le fruit de la méritocratie : excellent élève, il entrera à l’université impériale de Tôkyô (département de science politique) et incorporera le ministère des Affaires étrangères, institution qu’il quittera rapidement pour se consacrer totalement à l’écriture (1924). Il deviendra ultérieurement le conseiller du prince Higashikuni Naruhiko, premier ministre du Japon de l’immédiat après-guerre. Son nom de plume, Osaragi, est une prononciation différente du terme « daibutsu » (大仏) qui signifie le « Grand Bouddha », c’est-à-dire une statue du Bouddha, comme celle sise à Kamakura (Nojiri Haruhiko habitait à proximité de celle-ci). En outre ce pseudonyme est en lien avec l’histoire du lieu puisque les Osaragi étaient des membres du clan Hôjô mentionné dans la chronique Taiheiki qui traite de la fin du shôgunat de Kamakura (1185-1333). 


aaaaajiro.jpgAuteur de fictions de cape et d’épées, de romans contemporains et de politique française (affaire dreyfus, boulangisme, Commune de Paris), l’écrivain est aussi connu pour son adaptation de l’histoire des 47 rônins. Osaragi Jirô publie cette histoire intitulée Akô Rôshi, sous forme de feuilletons paru dans le quotidien Tôkyô Nichinichi Shimbun en 1927. L’oeuvre sera réalisée pour le cinéma par Matsuda Sadatsugu en 1961.

 
Le roman connaît un grand succès, et pour cause, outre les qualités littéraires de son auteur, l’histoire des 47 rônins est un fait d’armes héroïque enraciné dans la culture populaire . En outre, en cette période de nationalisme ardent, la bravoure, l’indéfectible fidélité et l’esprit de sacrifice de ces 47 samouraïs (ou serviteurs) est mise en avant par la propagande ; chaque citoyen-samouraï-soldat ne pesait alors guère plus lourd qu’une pétale de cerisier en fleurs... Ce roman, dans l’esprit d’un Emile Zola ou d’un Alexandre Dumas, et une oeuvre remarquablement documentée, qui nous plonge dans le Japon d’Edo et mêle petites et grandes intrigues, celles des courtisans et des malandrins. Il existe une version aussi tranchante qu’une lame de katana, celle de George Soulié de Morant : je préfère celle-ci à la première pour sa sobriété, et aussi parce qu’elle va et touche l’essentiel, mais ceci est question de goûts. Une excellente traduction de ce monument de la littérature nippone est parue aux éditions Picquier en 2007 (Osaragi Jirō, Les 47 rônins, éditions Picquier, 2007). Le roman a été traduit en français par Jacques Lalloz, et ce dernier a été récompensé du prix de la Fondation Konishi le 14 décembre 2009. Un texte savoureux sans comparaison aucune avec la pitrerie cinématographique d’Hollywood, que l’âme d’Ôishi la maudisse.... 


Osaragi Jirō, Les 47 rônins, traduction par Jacques Lalloz, éditions Picquier, 2007, 896 pages, 27 €

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Comment oublier Halloween avec Chrétien de Troyes

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Comment oublier Halloween avec Chrétien de Troyes
 
Je reprends un sujet qui nous tient à cœur, celui du Graal, qui montrait au Moyen âge le mystère fragile de la civilisation française.
 
Ecrivain
Ex: http://www.bvoltaire.fr

Oublions Halloween sans même polémiquer avec la Bête…

Je reprends un sujet qui nous tient à cœur, celui du Graal, qui montrait au Moyen âge le mystère fragile de la civilisation française. Nous en sommes loin mais ce n’est pas une raison pour ne pas rappeler un aspect méconnu de l’œuvre de Chrétien de Troyes : son noble hellénisme.

Cligès est un splendide roman ignoré. Il tente de réconcilier l’orient byzantin et l’occident après le schisme en montrant la grande unité culturelle de la civilisation européenne. Dès le début Chrétien nous donne ses sources. Car tout le monde enfin oublie de qui Chrétien se réclame : « Celui qui traita d’Erec et Enide, mit les commandements d’Ovide et l’Art d’aimer en français, fit le Morsure de l’épaule, traita du roi Marc et d’Yseult la Blonde… se remet à un nouveau conte, d’un jeune homme qui vivait en Grèce et qui vivait sous le règne du roi Arthur ».

chtr331452-gf.jpgChrétien, venu à la cour de l’empereur Barberousse vers 1180, y avait rencontré l’ambassadeur byzantin. Les chansons de geste byzantines étaient proches des nôtres, et Chrétien explique les liens entre cette littérature et nos prédécesseurs.

Voici ce que nous ont appris nos livres ; la Grèce fut, en chevalerie et en savoir, renommée la première, puis la vaillance vint à Rome avec la somme de la science, qui maintenant est venue en France.

La France avait pris un relais de vaillance et de science. Tout cela s’est fait par une transmission monastique des textes venus des grands auteurs grecs, d’Ovide et de Virgile. Au Moyen âge on fait aussi des « remakes » et des copies bien mimétiques ; ainsi Eneas, ainsi Troie, ainsi Alexandre. Et l’on comprend alors l’omniprésence de l’alchimie grecque dans nos textes bien étudiés par Fulcanelli.

Edmond Faral publia en 1913 un livre magnifique sur Les sources latines et grecques de nos romans de chevalerie. On peut le lire sur archive.org. Il explique que ces sources ont été négligées et que ce n’est hélas pas fortuit.
Il donne même les raisons de cet oubli : le préjugé de la Renaissance qui voit l’opinion publique rendue inculte par son école considérer le Moyen âge comme une ère de Zabulon et le seizième siècle de notre bonne vieille Renaissance comme l’âge de la perfection ultime. Or Victor Hugo souligne au début de Notre-Dame l’effondrement (sic) de l’architecture à la Renaissance.

Edmond Faral :

Affirmer que les romanciers du XIIème siècle étaient nourris de la lecture de Virgile, d’Ovide et de la plupart des bons poètes de l’ancienne Rome, c’est s’en prendre, à coup sûr, quoique indirectement, aux théories qui expliquent la Renaissance poétique française du XVIème siècle par la découverte de l’Antiquité.
Le moyen âge a connu l’Antiquité beaucoup mieux qu’on ne le dit d’ordinaire et, au moins sur la poésie des Latins, on n’était guère moins bien renseigné en 1150 qu’en 1550.

Nous évoquerons avec plaisir les sources celtiques chez Chrétien de Troyes ; mais passé leur Halloween…

jeudi, 22 octobre 2015

Las raíces religiosas del pacifismo

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Las raíces religiosas del pacifismo

por Manuel Fernández Espinosa

Ex: http://culturatransversal.wordpress.com

La insustancialidad del pacifismo rebañego

El pacifismo viene definido por el diccionario de la RAE como: “Conjunto de doctrinas encaminadas a mantener la paz entre las naciones”. Pero esas doctrinas de las que se nutre el pacifismo son muy variadas y es por ello que me propongo hacer una inspección sobre este asunto.

Aunque se pueden traer a colación muchos antecedentes del pacifismo diremos que el pacifismo tiene una médula religiosa, como vamos a tener ocasión de ver abajo. Sin embargo, en un occidente desacralizado, el pacifismo que se estila prescinde de esta dimensión religiosa, ofreciéndose una versión apta para todos los públicos, sin que comporte mayor compromiso que la escenificación más o menos patética de un deseo de paz evanescente.

A falta de un compromiso real que sí puede encontrarse de forma plena en lo religioso hasta el “heroísmo pacifista” (sea la religión que sea), el “pacifismo” occidentalista no deja de ser una ideología que sirve como instrumento de dominio de masas. Su funcionalidad está desnaturalizada y no deja de ser un recurso que el poder económico y político emplea a su conveniencia. Y el mecanismo que este “pacifismo rebañego” sigue es tan simple como lo podemos ver en no pocas de sus manifestaciones de la historia más reciente.

Image: Gandhi en Italie dans les années 20, conversant avec des jeunes garçons du mouvement "Balilla"

BalillaGandhi1931-30b19.jpgUn suceso trágico de índole bélica impacta en la opinión pública, mediante los medios de intoxicación de masas (llamarle “medios de comunicación” sería convertirse en cómplices de las conspiraciones del poder), inmediatamente se desencadena un efecto sobre las masas, recogiéndose lo que se había calculado recoger: lo mismo la adhesión masiva a una intervención militar que la recepción de “refugiados”. El pacifismo fue empleado magistralmente por el comunismo soviético que, durante la Guerra Fría, lo exportó a sus sucursales en todos los países que permanecían bajo la férula estadounidense: se minaba así la combatividad de la opinión pública de los países capitalistas y se neutralizaba cualquier esfuerzo bélico procedente de los gobiernos. Dábase el caso paradójico de que, mientras en occidente los comunistas reclamaban la “paz”, los países comunistas seguían rearmándose. La lección ha sido aprendida por las demás potencias, independientemente de su signo político.

El pacifismo de las religiones de extremo oriente

Prevalece una enorme ignorancia en cuanto a las religiones y no parece que nadie quiera remediarla. Es por ello que se tiende a generalizaciones totalmente equivocadas. Se ha llegado a admitir una clasificación de las religiones en:

Religiones violentas.

Religiones pacifistas.

Entre las religiones violentas, el Islam y el Cristianismo cargan con la peor de las famas: el Islam por su “yihad” y el Cristianismo por sus “Cruzadas” de antaño. Y esto se hace con el máximo desdén intelectual hacia la complejidad que podemos hallar tanto en el Islam (sunnitas y chiítas) como en el cristianismo (protestantes, ortodoxos y católicos). Por ser enormente problemático, este tema lo dejamos a un lado, para centrarnos en el “pacifismo religioso” que es el que nutre al “pacifismo rebañego”. Éste, el rebañego, tiene una imagen parcial de la realidad de las religiones consideradas como “pacifistas”, las de Extremo Oriente y, como es de esperar, no actúa en consecuencia como sí que actuaron los grandes ejemplos del “pacifismo religioso”, el mismo ejemplo que -sin “religión” y degradado a icono o eslogan publicitario- reclama para sí.

Las religiones del Extremo Oriente son conceptuadas como “pacifistas”, lo que muestra el abrumador desconocimiento que el occidental tiene de las mismas.

He dicho más arriba que el pacifismo, en efecto, es de índole religiosa. Puede verse en sus dos figuras mundialmente más representativas: Lev Tolstoi y Mahatma Gandhi. Gandhi ha sido convertido en un icono del pacifismo rebañego, prescindiéndose de sus motivaciones y, por supuesto, sin animar a nadie a reproducir el ejemplo de su determinación.

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Gandhi y la “Ahimsa”

Mahatma Gandhi (1869-1948) empleó el pacifismo por razones estrictamente religiosas, sin dejar por ello de perseguir una finalidad política: luchar incruentamente por expulsar a Gran Bretaña de la India y alcanzar la independencia de su nación. Y este pacifismo gandhiano nunca fue obstáculo para que Gandhi admirara a Benito Mussolini y al fascismo italiano (algo que ignora la mayoría de pacifistas de rebaño). Es cierto que Tolstoi ejerció una formidable influencia sobre el pensamiento de Gandhi, pero la inspiración de Gandhi no hay que encontrarla en el “El Reino de Dios está en Vosotros” de Tolstoi, sino en el concepto religioso y filosófico de la tradición india: la “Ahimsa”. Y aquí debemos aclarar un poco la procedencia de este término sánscrito.

La “Ahimsa” suele traducirse como “no-violencia”, pero sería más apropiado traducirlo como “no hacer daño”. Puede encontrarse en los textos de la “Upanishads”, pero la “Ahimsa” fue asimilada por algunas modalidades del hinduísmo, del budismo y del jainismo. Sin embargo, es tal el desconocimiento de las diversas tradiciones de Extremo Oriente que se considera que todo el hinduísmo, todo el budismo y todo el jainismo la acepta con el mismo rigor. Eso ha dado una imagen de “benevolencia” (muy buen rollo) a estas religiones que está muy lejos de hacerles justicia.

Ahimsa en el hinduísmo

Estas tres religiones son tan antiguas como para haberse ido complicando en su despliegue y su complejidad es más de la que puede sospechar el necio occidental, ese que se apresura a identificar hinduísmo y budismo con la “no-violencia”.

El hinduísmo fue el suelo sobre el que surgieron tanto el budismo como el jainismo. Pero en el hinduísmo la “Ahimsa” no puede entenderse como un concepto permanente en el tiempo ni tampoco generalizado socialmente, dado que la doctrina de las “varnas” (las castas) establece con claridad meridiana que la sociedad hindú se halla estratificada en cuatro órdenes sociales con obligaciones y derechos muy distintos: los brahmanes, los ksatryas (guerreros), los vaisyas (mercaderes) y los siervos (sudras). Atendiendo a la segunda de las castas hindúes vemos que esta religión antiquísima admite la función militar como algo necesario para la defensa de la sociedad. A lo largo de su historia, el hinduísmo ha manifestado que, si bien es cierto que existe una tendencia por el “no hacer daño”, la violencia es algo necesario. Lo vemos clamorosamente en el “Bhagavad Gita” (perteneciente al Mahabharata, aproximadamente siglo III a. C.) En el “Bhagavad Gita”, Krisna (avatar de Visnú) le dice a Arjuna (que duda si combatir a sus parientes):

“¿De dónde este decaimiento
te ha invadido en el riesgo,
impropio de un noble, que aleja del cielo,
que no trae gloria, oh Arjuna?

No vayas a caer en cobardía, hijo de Prtha.
Es algo que no es propio de ti.
La vil debilidad del corazón
arrojando lejos, yérguete, Destructor de enemigos”.

Krisna termina convenciendo a Arjuna de la necesidad de entrar en batalla y aniquilar físicamente a sus adversarios mediante la guerra, en la persuasión de que los muertos que siembre sobre el campo de batalla, bien mirado por encima del mundo de las apariencias, no mueren, puesto que se reencarnarán.

Según el cómputo de las edades que rigen para el hinduísmo, estamos (en nuestros presentes días) en el llamado “Kali Yuga” (la edad oscura) en que abunda la contienda, la ignorancia, la irreligión y el vicio y se vaticina en el hinduísmo que para dar fin al colmo de este exceso del mal vendrá otro avatar de Visnú, Kalki, que destruirá a los demonios para abrir la siguiente edad llamada “Satya Yuga”. Es interesante reparar en el asombroso parecido que muestra la iconografía del Kalki hindú con nuestro Santiago Matamoros.

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Ahimsa en el budismo

El budismo que goza en occidente de tantas simpatías y una proyección considerable no puede tampoco decirse que sea pacifista en bloque. Si bien es cierto que la “Ahimsa” es el primero de los diez preceptos y el primer elemento de la disciplina moral, sería imposible comprender el fenómeno de los samuráis japoneses (budistas) si la “Ahimsa” fuese un precepto practicado en toda su radicalidad. Esto se debe al mismo despliegue del budismo que tan diversos frutos ha dado dependiendo del terreno sobre el que ha florecido, hasta tal punto que no puede decirse que el budismo zen o el budismo tibetano sean lo mismo, por mucho que participen de una base común. La tendencia occidental de considerar el budismo como algo “puro” es un error de enfoque. El budismo tuvo sus propios sincretismos allí donde aterrizó, como ocurrió con el Bön (chamanismo prebudista) tibetano y el shintoísmo japonés.

Ahimsa en el jainismo

Si hinduísmo y budismo son bastante desconocidos en occidente (ver una fotografía del Dalai Lama no es comprender el budismo tibetano, p. ej.), mucho más se ignora el jainismo, cuyo fundador Mahavira (llamado Jina, el Conquistador) fue contemporáneo de Buda. Los jainas están divididos desde el año 79 d. C. en “svetambaras” (tradición más relajada) y los “dighambaras” ´(los más estrictos) que practican el nudismo. Los jainas tienen, a modo de mandamientos, los Grandes Votos (mahavratas) para los religiosos y los Pequeños Votos (anuvratas) para los laicos y aquí la “Ahimsa” se estipula para ambos.

Gandhi encontró en su propia tradición la inspiración para su “Ahimsa”, elemento fundamental del “pacifismo” religioso de Extremo Oriente, pero -como podemos ver- se trata de una de las muchas vías que se proponen en el abigarrado y complejo mundo donde tienen arraigo aquellas religiones. Y, lejos de ser una actitud ampliamente generalizada, el pacifismo religioso es una vía muy particular, abrazada por algunos singulares personajes, no por la sociedad en su conjunto; lo que nunca se les ha ocurrido a los hindúes y budistas es practicar a rajatabla el “pacifisimo religioso”, pues ello, ante la amenaza de un enemigo violento, significaría el exterminio de sus feligresías.

Conclusión

El pacifismo puede dividirse, a nuestro juicio, en dos grandes clases:

-El Pacifismo religioso que nos merece todo el respeto en sus grandes figuras, algunas veces heroicas, pero que es un fenómeno bastante extraño incluso en las religiones que son consideradas como sustancialmente “pacifistas”.

-El Pacifismo rebañego que no es más que la occidentalización del pacifismo religioso, desustanciado y convertido en ideología que sirve a intereses políticos, sobre todo para dominar y debilitar a las masas. Y que no nos merece ningún respeto, como no nos lo merece cualquier cosa que ha dado esa perversión de la Cristiandad que se llama “occidente”.

Fuente: Raigambre

lundi, 19 octobre 2015

Albion’s Hidden Numina - The Land of the Green Man

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Albion’s Hidden Numina
The Land of the Green Man

Carolyne Larrington
The Land of the Green Man: A Journey Through the Supernatural Landscapes of the British Isles
London: I. B. Tauris, 2015

Is Britain the most mystical of all countries? It certainly seems that way to me, but then I’m irreparably biased. Whilst every human culture has its own folklore, the magic seems more potent, more alive, when it’s our own. “The myth is not my own, I had it from my mother,” as Coomaraswamy (quoting Euripides) would have it. Carolyne Larrington’s new book, The Land of the Green Man, will appeal to anyone who, like me, has an unquenchable thirst for tales of the supernatural inhabitants of the isles of Albion.

Perhaps my only reservations about this book are its cover and title. Stumbling across it in a bookshop, the serious student of folklore might assume that it’s just another new age effort seeking to stitch together a few disparate tales into an overarching and unwarranted key to all mythologies. This would be a great shame as The Land of the Green Man is a fascinating discussion of a living tradition of folklore which is based on sound scholarship. As a scholar of Medieval Literature, Larrington is well placed to bring an academic perspective to these matters. In fact, I was previously aware of Caroline Larrington from her English translation of the Poetic Edda although I have always found that translation to be too academic for my tastes. It certainly doesn’t stand up to reading aloud as well as Henry Bellows’ old-fashioned but rhetorically fine-tuned translation. But it does demonstrate Larrington’s immersion in the sort of mythological matrix that often underlies folk traditions. Her ear for the rhythms and structures embedded in folklore is finely attuned and it lends an authoritative depth of understanding to her various interpretations of ballads, fairy tales, and local stories.

The book is divided into six chapters, each of which deals with a particular thematic concern: “The Land Over Time,” “Lust and Love,” “Death and Loss,” “Gain and Lack,” “The Beast and the Human,” and “Continuity and Change.” Often, books that attempt to compile together folkloric material will group it together by county or town, like Westwood and Simpson’s The Lore of the Land. Steve Roud’s The English Year structures the material according to its place in the calendar. Inevitably, I always end up consulting The Lore of the Land for the areas that I am familiar with and I always read The English Year during the first few days of January when I remember that I own it. By eschewing the gazateer/ritual year approach Larrington has written a book that benefits from a coherent narrative flow.

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The approach throughout is to introduce a topic through a few relevant stories and then to tease out those aspects that are relevant to the chapter’s subject. Other examples of similar motifs are then brought to the discussion. So, in the chapter on “Lust and Love,” the ballads of “Thomas the Rhymer,” “Tam Lin,” and “The Elfin-Knight” are recounted and discussed and the threads discovered there are traced through Hayao Miyazaki’s animation, Spirited Away, Christina Rossetti, Harry Potter, and Susanna Clarke’s novel Jonathan Strange and Mr Norrell.

Larrington’s interpretations of the inner meanings of folkloric material do tend to veer towards what we might call the materialistic. That is, she approaches each chapter looking for a sociological or ideological understanding of the material at hand (as the chapter titles indicate). But there are two things that prevent this from being a dull, reductionist reading of the folklore.

The first is that she has a terrific understanding of the inner meanings of folk tales. For instance, she discusses the multiple occasions when the elfish denizens of the Otherworld distort what people see by applying magical ointment to their eyes, or by other methods. Typically, this is to hide their true nature as Otherworldly creatures and to make them appear as human. Inevitably, at some point the magic stops working, and the elf is seen for what he really is. When Larrington then says that the restoration of correct vision is, “a proxy for a loss of innocence, a fall into knowledge and desire which has irreversible consequences,” this does not feel like a forced interpretation of the texts. Instead, it comes across as something that emerges naturally from multiple stories; it is not distorted or over-emphasized in order to support a pre-existing ideological position. The conclusions are allowed to arise from the material.

The second thing that elevates the book is Larrington’s consistent understanding that folklore is a living and evolving tradition, not simply a matter for archiving. This leads to some very interesting connections being made between the archaic material and contemporary culture. Perhaps unsurprisingly, Larrington discusses Alan Garner and Susan Cooper’s use of myth and folklore in their novels, and the work of J. R. R. Tolkien, but some of the other references are less expected. In the chapter on “Death and Loss,” she discusses not only the BBC’s Sherlock, but also Nick Drake and the glam rock band The Darkness. Lest it be thought that these references are casually thrown in to widen the appeal of the book, it is worth emphasizing that Larrington always relates them to specific folkloric material (the three examples above are all to do with black dogs: Baskerville, Black-Eyed Dog, and Black Shuck respectively).

This approach leads to some really lively discussions and throws up a few surprising notions. In a section on house-elves, Larrington discusses Dobby, the house-elf from J. K. Rowling’s Harry Potter books. In these books, the house-elves work as slaves, without any payment, just as traditional house-elves do. But in Harry Potter, Hermione decides that they need to be liberated. They are, “classic victims of false consciousness, as Marx might have put it” (p. 147). Hermione’s efforts are apparently unsuccessful because the house-elves have no desire to change their ways. “Hermione’s idealism is that of the liberal do-gooder. In failing to consult the house-elf constituency she alienates those whom she is trying to help: the classic dilemma of the intelligentsia trying to persuade the workers of what’s good for them . . . Dobby’s failure to engage his fellow elves in revolutionary struggle . . . hints at Rowling’s cynicism about the politics of the left” (p. 148). This is not the sort of thing I was expecting from Land of the Green Man, but it’s a wonderful analysis, and it gives a good sense of the work’s scope.

At the end of the book, Larrington discusses the history of the Green Man himself, pointing out that he has no real folkloric associations. But, she argues, this does not necessarily matter, because the twentieth century “creation” of the Green Man as an ancient vegetation god answers some of that century’s anxieties: “It’s hard to read the expression in his face; if he’s smiling it’s an enigmatic smile, hidden among the foliage. Neither kindly nor welcoming, his stare suggests a countryside that has become deeply alienated from the modern human” (p. 232). And it’s in this understanding that Land of the Green Man differs from many other books on folklore. Larrington is too much of a scholar to try to pretend that the Green Man is an authentically ancient symbol of the woodland but she is also too receptive to the power of living symbols to deny that he is, in some sense, “real.” Unlike most other writers on the subject, Larrington seems to understand that new gods can, and must, be born.

The Land of the Green Man is an essential read for anyone interested in the wyrd history of Albion. Carolyne Larrington does an admirable and convincing job of demonstrating that whilst this story has had a varied and strange past, it is continuing to progress towards a numinous future.

Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

URL to article: http://www.counter-currents.com/2015/10/the-land-of-the-green-man/

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[2] The Land of the Green Man: A Journey Through the Supernatural Landscapes of the British Isles: http://www.amazon.com/gp/product/1780769911/ref=as_li_tl?ie=UTF8&camp=1789&creative=390957&creativeASIN=1780769911&linkCode=as2&tag=thesavdevarc-20&linkId=ODNF6ULM7TBG6VIH

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mardi, 29 septembre 2015

Archerie et arts martiaux japonais

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ARCHERIE ET ARTS MARTIAUX JAPONAIS

Le paradis perdu

Rémy Valat
Ex: http://metamag.fr 

Le Sentier, la Voie « n’est rien d’autre que le méridien central sis au cœur de la moelle épinière à travers lequel le pratiquant au cours de sa vie cherche à s’élever de l’obscurité (l’ego) vers la lumière (le Soi). » Michel Coquet, "Le Kyûdô".


L’histoire des guerriers japonais, leurs techniques de combat et leur éthique fascinent le public occidental. Études, romans, films, animations et mangas nous offrent une image souvent trompeuse sur ces hommes dépeints comme des fanatiques, des serviteurs zélés, fidèles jusqu’à la mort, le drame de la Grande Guerre en Asie, venant pour beaucoup, confirmer cette interprétation des guerriers japonais. La guerre terminée, le Japon pacifié et placé sous tutelle nord-américaine, s’efforce d’oublier ce passé violent et militariste et de forger une nouvelle image, que l’on appelle depuis peu, le Cool Japan. La soif du public européen et nord-américain pour une spiritualité exotique, et par conséquent plus vrai, plus authentique, a favorisé le développement en Occident des arts martiaux modernes, exportés du Japon.

Le budô, apparu au début de l’ère Meiji, représente aujourd’hui l’image que le Japon et les Japonais souhaiteraient se donner d’eux-mêmes au monde. Un grand écart donc entre le Hagakure de Yamamoto Tsunetomo (et son apologie contemporaine, Le Japon moderne et l’éthique samouraï de Mishima Yukio) et les publications contemporaines sur les arts martiaux mettant en avant le développement personnel masquant en réalité, dans le cas du kendô par exemple, une activité sportive occidentalisée. Le livre de Michel Coquet, « Le kyûdô, art sacré de l’éveil », paru cette année aux éditions du Chariot d’Or (groupe éditorial Piktos) apporte un éclairage « objectif », reposant sur une longue et sincère "expérience" de la méditation, des arts martiaux en général et du kyûdô en particulier. Il existe une multitude d’ouvrages sur un sujet vendeur qui fait le bonheur des auteurs et éditeurs spécialisés, dont il ne faut pas diminuer l’importance et le rôle dans la connaissance- et bien souvent la méconnaissance - de la culture martiale japonaise. Il est préférable de jeter un voile pudique sur le manque de fondement (et de profondeur) de certains de leur propos (tel ce grand maître de ïaïdô japonais au « keikogi » bariolé, qui nous laisse découvrir non seulement des techniques prétendument avancées, apprises dès la première année au Japon avec un professeur digne de ce nom, mais aussi son beau caleçon bleu...).


kyudo82360470525.jpgLoin du tape-à-l’oeil, Michel Coquet, né en 1944, a sincèrement voué sa vie à l’apprentissage des arts martiaux japonais (karaté, kenjutsu, ïaïdô, kyûdô, aïkidô, etc.), un apprentissage spirituel, car le budô, la voie du guerrier, ne peut être assimilée à un sport ou à une discipline olympique (tel le judô, et comme une partie de la fédération internationale de kendô le souhaiterait). Au Japon, une grande compagnie de sécurité sponsorise des lutteurs, des kendôkas, et les "matches de sumo" flairent bon le business... Actuellement le budô inclut de multiples disciplines, comme le judô, le kyudô, sumô, l’aïkidô, shôrinji kempô, naginata, jukendô : le guerrier de jadis est aujourd’hui éclaté en de multiples disciplines édulcorées. En somme, « budô » désigne les « arts martiaux » depuis l’ère Meiji (1868-1912). Avant cette date, on employait les termes de « bugei » et de « bujutsu », et même « l’ancienne voie du guerrier », ou « kobudô » est un néologisme. Bugei, ou l’ « art du guerrier » est une appellation caractéristique de la période d’Edô, où l’art militaire s’inspirait des autres domaines artistiques, comme le noh (pour les déplacements et les postures) ou la cérémonie du thé (les katas), ce qui manifestait une volonté d’esthétiser les techniques de combat. 


Les auteurs contemporains rappellent non sans raison que l’idéophonogramme désignant le guerrier « bu » (武) se décompose en « hoko », partie supérieure du tracé ressemblant à deux lances entrecroisées signifiant « lance, hallebarde » et, dans sa partie inférieure « tomeru » (止arrêter), soit une idée défensive, proche de l’idéal de la shinkage-ryu, le « sabre de vie ». L’interprétation la plus satisfaisante, car la plus ancienne, rappelle que le radical « tomeru » serait dérivé d’un idéogramme d’une graphie proche signifiant « pied » ce qui désignerait l’homme portant les armes pour la bataille ou le fantassin. Une autre, toute aussi pertinente et en relation avec l’objet du livre de Michel Coquet, serait que l’ensemble du kanji « bu » serait un dérivé d’un autre idéogramme homophone désignant la « danse », en particulier dans sa dimension religieuse, ce qui souligne la place de la spiritualité dans les arts martiaux depuis leur origine. 


La « Voie » (道) est un terme polysémantique signifiant prosaïquement « point de passage », « voie », « distance », un terme qui se réfère aussi à des concepts philosophico-religieux, comme une manière d’agir, un domaine de la connaissance, une discipline, un état, une essence, un secret... Dans la Chine antique, et en particulier le taoïsme, il était employé en référence aux grands principes de l’univers. Dans son acception contemporaine, « dô » insiste sur l’importance spirituelle, et non uniquement sportive ou physique, de l’individu. La « Voie » est un moyen de développement et d’accomplissement personnels. Le kyûdô est celle de l’arc, un chemin comme tant autre susceptible de conduire à l’éveil (au sens bouddhique du terme).


Après l’invention du propulseur, l’arc est la première machine issue de l’imagination humaine, une machine autonome permettant de dépasser les limites de l’anatomie, une machine permettant de tuer aussi bien pour se nourrir que pour assurer la défense du groupe. Elle était l’arme de prédilection des communautés de chasseurs-cueilleurs, et pour tous ces motifs cette arme faisait l’objet de vénération (lire Michel Otte, À l’aube spirituelle de l’humanité, Odile Jacob, 2012). Dans son ouvrage, Michel Coquet se concentre sur l’aire culturelle asiatique, et en particulier l’antiquité du sous-continent indien, la Chine et le Japon. L’arc tient une place importante dans les mythologies et les traditions asiatiques (et indo-européennes, il suffit de se rappeler les épreuves infligées par Pénélope à ses prétendants...): l’auteur consacre un beau chapitre à la lecture et à la compréhension du « joyau spirituel » qu’est la Bhagavad Gîtâ", mythe mettant en scène l’archer Arjuna, engagé dans une bataille plus spirituelle que militaire, la bataille pour la réalisation de soi. 


D’un point de vue historique et technique, les premières écoles d’archerie nippones seraient, selon la tradition, apparues au tournant des VIe et VIIe siècles au moment de l’introduction du bouddhisme dans l’archipel nippon. L’arc était utilisé monté et il était primordial pour un guerrier de savoir tirer à cheval, et diverses formes d’entraînement ont été mises au point : le tir sur un cheval lancé au galop, une chasse à courre ayant pour cible des chiens, ou bien encore le tir à longue distance à l’aide d’un arc spécifique, le tôya. L’arc était la pierre-angulaire des stratégies développées sur le champ de bataille, et les archers les plus habiles, capturés par l’ennemi, étaient parfois mutilés pour les empêcher de reprendre du service (pendant la Guerre de Cent Ans en Europe, on amputait un ou plusieurs doigts des archers faits prisonniers (souvent l’index et-ou- le majeur, pratique à l’origine du doigt d’honneur).

L’introduction des armes à feu par des marins portugais, en 1543, changera la donne, comme en Europe l’archerie est alors condamnée : d’habiles forgerons parvinrent à imiter et à améliorer les prototypes originaux et bon nombre de fusils de fabrication japonaise seront exportés de par l’Asie. Toutefois, le fusil restera une arme sans valeur spirituelle, car dans le fond, les Japonais appréciaient les duels ou les moyens de mettre en valeur leur habileté et leur courage, ce qui était le cas des tireurs à l’arc monté et des fantassins combattant à l’arme blanche. Lors de son séjour au Japon (1969-1973), Michel Coquet s’initia au kyûdô, et son dernier livre revient sur cette expérience, car dans les arts martiaux, la seule réalité c’est l’Expérience. Les katas que l’on répète inlassablement et avec sincérité pour maîtriser une technique martiale font partie de l’enseignement traditionnel, comme jadis l’apprentissage par la répétition et les moyens mnémotechniques ( il suffit de relire l’Odyssée ou l’Illiade pour s’en rendre compte). La posture du corps, la manière de marcher, la respiration, participent à cette quête de la « non-pensée » ou du « temps éclaté » (le terme est de Kenji Tokitsu), toutes ces petites choses « oubliées », broyées par la conscience (et la modernité) et pourtant fondamentale et caractéristiques de notre espèce. À l’exception de quelques erreurs historiques mineures (concernant surtout la protohistoire), qui tiennent à mon avis à la difficulté d’accès à une documentation récente, le livre de Michel Coquet pose les bases de la philosophie et de la pratique de l’arc traditionnel japonais ; même si ce livre complète (et est sur bien des points plus accessible) le livre de Eugen Herrigel, « le zen dans l’art chevaleresque du tir à l’arc », rien ne vaut, comme le souligne Michel Coquet, la pratique avec un bon « sensei »... Une pratique sans esprit de compétition ou de recherche de résultat : au kendô deux adversaires qui se frappent en même temps marquent des points, dans la réalité brute, ils seraient morts... Ici, l’ennemi s’est surtout soi-même...


La pratique des arts martiaux contient intrinsèquement un rapport avec la mort, et cette relation aide au détachement et à mieux vivre... Le kyûdô répond à ce besoin d’union avec le réel, ce paradis perdu, peut-être le « Sacré éladien » tapi au fond de chacun d’entre-nous. Cette quête du paradis perdu, que d’aucuns compensent, une bière à la main, en regardant Games of the Trone, c’est aussi un phénomène de société : le grand malheur de l’Occident est d’avoir « oublié », d’avoir dénigré notre culture et nos valeurs martiales et spirituelles : il y a quelque chose à puiser dans l’esprit de la chevalerie et les valeurs martiales, sans pour autant y voir l’ombre du fascisme. Les arts martiaux traditionnels créent du sens et sont vraiment un moyen de réenchanter le monde. 


Michel Coquet, «Le KYÛDÔ - Art sacré de l’éveil» aux éditions Chariot d'Or, Format : 15,5 x 24, pages : 320, 25 €

Lo zen delle vette

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Lo zen delle vette

La sacralità della montagna, il rito dell’ascesa, la trasfigurazione interiore. Dino Buzzati intuì una luce, Luigi Mario la trovò in quota

di Giulia Pompili

Ex: http://www.ilfoglio.it

Nel centro di Zermatt, la cittadina di tradizione walser che ospita il versante svizzero dell’inconfondibile Cervino, c’è un piccolo cimitero dedicato agli alpinisti. Ognuno di loro ha un nome e cognome. Chi non ce l’ha, viene ricordato con una lapide dedicata all’alpinista ignoto. Poco più in là c’è una targa che ricorda il gemellaggio di Zermatt con la città di Myoko, uno dei posti più particolari del Giappone perché protetto da cinque vette, il luogo di ritiro invernale della famiglia imperiale. Il Cervino, più di altre montagne, è legato alla vita e alla morte. Quest’anno ricorre il centocinquantesimo anniversario della conquista della vetta, e fu l’inglese Edward Whymper a riuscirci, dopo anni di vani tentativi. Ogni volta che una spedizione partiva e falliva, si avvalorava l’idea che il Cervino fosse inaccessibile, che il dèmone della montagna rifiutasse la presenza umana. Improfanabile. Si dice che molte guide esperte non accettassero cospicue somme di denaro pur di non sfidare quel dèmone. Poi, il 14 luglio del 1865, Whymper raggiunse la vetta. Era il primo di una cordata composta dalla guida alpina Michel Croz di Chamonix, dal reverendo Charles Hudson, dagli inglesi Lord Francis Douglas, Douglas Robert Hadow e dalle due guide alpine di Zermatt Peter Taugwalder padre e Peter Taugwalder figlio. Ma durante la discesa, ecco la tragedia. Croz, Hadow, Hudson e Douglas, i primi quattro della cordata, caddero. La corda si ruppe. I corpi dei tre furono ritrovati nei giorni successivi, quello di Lord Francis Douglas riposa ancora sul Cervino. Si salvò Whymper, che continuò a fare l’alpinista ma venne divorato dai fantasmi dei morti sul Cervino, e morì alcolista nel 1911, a Chamonix. Gli altri due che si salvarono erano due guide alpine.

“Adesso, che sono ormai quasi vecchio e i fortissimi amici di un tempo si sono dispersi chi qua chi là oppure hanno smesso la montagna, adesso che io ritorno da solo, di quando in quando, alle mie corde, ma ben assicurato alla corda di una paziente guida brevettata, vivo e amaro è il rimpianto di non essere stato all’altezza dei miei sogni, di non avere avuto abbastanza coraggio, di non aver saputo lottare da solo, di non essermi impegnato a fondo così da poter essere, o per lo meno assomigliare, a uno di loro. Ormai, purtroppo, è troppo tardi. Ma, guardandomi malinconicamente indietro, ora capisco come soltanto a loro, ai capicordata, alle guide, e soprattutto agli accademici e a quelli che, senza avere la formale laurea, appartengono tuttavia alla loro intrepida famiglia, ora capisco come unicamente a loro la grande montagna abbia rivelato i suoi più gelosi e potenti segreti. E non ai poveretti come me, che hanno avuto paura”. Quando scrive queste righe per il centenario del Cai, il Club alpino italiano, Dino Buzzati ha cinquantasette anni. E’ l’anno in cui il Corriere della Sera lo manda a Tokyo per un mese intero, a seguire lo stato di avanzamento dei lavori per l’Olimpiade giapponese del 1964. Ed è pure l’anno della morte di Arturo Brambilla, l’amico più caro di Buzzati. Dallo scambio epistolare tra i due, che durò quarant’anni, verrà fuori il primo ritratto del Buzzati alpinista, e di quell’“ossessione d’amore” che ebbe inizio quando aveva quindici anni con la vetta della Croda da Lago, la cima di 2.701 metri tra le Dolomiti di Cortina. Buzzati tornò sulla Croda da Lago nel 1966, insieme con il collega Rolly Marchi. A guidarli in quell’occasione c’era Lino Lacedelli, il celebre alpinista che scalò il K2 nel 1954 con la spedizione organizzata da Ardito Desio. L’impresa storica costò a Lacedelli il pollice di una mano, congelato. Quando si aprì il “caso K2” – che durò cinquant’anni – sul ruolo dell’altra figura chiave della letteratura alpinistica italiana, quella di Walter Bonatti, Lacedelli fu l’unico a riconoscere che senza Bonatti gli italiani non ce l’avrebbero fatta. Fu un’ammissione sincera, dopo anni di menzogne. E questo perché la storia dell’alpinismo è una storia di imprese eroiche e di tritacarne mediatici, di arditismo, di bugie che finiscono per sbattere contro con la nuda verità della roccia. Quella stessa roccia i cui colori sono indicibili – le Dolomiti, di che colore sono? si chiede Buzzati – i cui strapiombi sono indescrivibili (“La gente che si accontenta di guardare le montagne dal basso non li conosce, gli strapiombi, e non sa neppure bene cosa siano”, scrive il giornalista e alpinista sulla Lettura nel 1933).

Poco prima di morire, il 28 gennaio del 1972, il giornalista bellunese domandò alla moglie Almerina Antoniazzi di poter tornare, pure da morto, sulla vetta della Croda da Lago. E così si fece, nel 2010, non appena la Regione Veneto si è dotata della legge che rende possibile disperdere in natura le ceneri. Buzzati riconosce di non essere mai andato oltre un quarto grado di difficoltà, nel suo scalare, eppure parla delle guide, di quegli alpinisti coraggiosi, quei “fuorilegge” – così li definisce, e “I fuorilegge della montagna” è anche il titolo di una imponente raccolta dei sui articoli sulle alte vette pubblicato nel 2010 da Mondadori – che lo aiutarono a scalare. Quelli sempre primi in una cordata. La vetta non avrebbe mai potuto raggiungerla senza di loro. La montagna è anche questo, spiega Buzzati: riconoscere i propri limiti. Oppure superarli, nel caso di alcuni uomini straordinari. E’ così che – forse inconsapevolmente – il giornalista bellunese incontra uno dei più grandi misteri dell’alpinismo, che lega indissolubilmente la montagna alla cultura e alla spiritualità orientale.

Nell’anno in cui morì Buzzati, Luigi Mario aveva appena ricevuto il suo nuovo nome, Engaku Taino, quello da monaco buddista, nel monastero Shofukuji di Kobe diretto da Yamada Mumon roshi. Nato da una famiglia di operai romani il 7 maggio del 1938, Luigi Mario è stato il primo romano a diventare guida alpina. A dire la verità, Mario è stato il primo in molte cose: la prima guida di Roma, il primo gestore del rifugio Gran Sasso, il primo italiano a essere ordinato monaco in un monastero zen giapponese. E poi quel luogo da lui fondato, Scaramuccia, un podere nella campagna umbra di Orvieto, che dal 1975 in poi inizia a essere chiamato monastero. Il primo luogo residenziale del buddismo in Italia e soprattutto la prima scuola al mondo dove l’arte della montagna – che comprende l’arrampicata e lo scivolamento – viene insegnata insieme con il taichi, lo yoga, la meditazione, lo zazen. E’ lo stesso maestro Engaku a raccontare la sua storia nel libro “Lo zen e l’arte di arrampicare le montagne”, appena pubblicato dalle edizioni Monte Rosa. Anche lui, come succede ai grandi della montagna, ha iniziato giovanissimo, intorno ai sedici anni: “Ufficialmente sono entrato nel mondo della montagna iscrivendomi al Cai nel ’54 influenzato da due avvenimenti. Il primo si può far risalire alla gita scolastica sul lago di Como, mentre la spedizione italiana scalava il K2. Frequentavo il secondo anno della scuola professionale, dopo la licenza di avviamento al lavoro, come si chiamavano i tre anni successivi alle elementari quando non c’era ancora la scuola media unificata. Facevamo il giro del lago e nel vedere tutte quelle rocce, così importanti poi per la mia crescita alpinistica, pensai ad alta voce che sarebbe stato bello montarci sopra. […] L’altro episodio importante fu il raduno nazionale degli alpini. Per la prima volta potevo vedere dei veri scalatori: si arrampicavano in cima al Colosseo e scendevano saltellando e scorrendo lungo le corde!”. L’autore prosegue raccontando che qualche giorno dopo volle raggiungere in bicicletta il Colosseo per andare a toccare quei chiodi da roccia che erano stati piantati dagli alpini.

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Quando era salito di sette, otto metri, un pizzardone romano lo avvertì a modo suo: a regazzi’, scenni giù che qui sotto mica ce sta er buro. Una frase che Luigi Mario fu costretto a ripetersi spesso, nel corso degli anni successivi. La carriera alpinistica inizia con la montagna degli arrampicatori romani: il monte Morra, sui Lucretili laziali. Poi apre la Via dei Camini sulla montagna Spaccata di Gaeta, poi le scalate sul Terminillo, con base a Pietracamela. Sempre più a lungo, sempre più professionalmente. Alla fine Luigi Mario lascia il lavoro sicuro in banca e inizia a viaggiare di continuo, su e giù tra le Alpi e gli Appennini, a Cervinia con Dino Buzzati, a Pescasseroli con Pier Paolo Pasolini, gli esami con Cesare Maestri. Ma ogni volta che superava se stesso, scalando una montagna, c’era qualcosa che mancava: “La cima della montagna, questa punta estrema, questo punto supremo al quale si sacrifica tanto della propria vita, non rappresentava affatto quello che si diceva e le scalate più difficili davano certo sensazioni più forti delle altre ma rimanevano sul piano della sensazione, richiedendone altre più forti ancora e anche, vanitosamente, maggiori consensi nel gruppo. Ciò che dico ora l’ho capito dopo, poco per volta, perché altrimenti avrei cercato qualcosa di diverso come poi ho fatto”. Luigi Mario ha una scrittura schietta, decisa. Come quando un maestro giapponese insegna le do (le vie di ascesi, di cui fanno parte anche le arti marziali) che per un occidentale sono artistiche in quanto poetiche. Ma non è nient’altro che tecnica, ripetizione, il gesto fine a se stesso. Nella parte del libro in cui parla del suo metodo d’insegnamento questo è ancora più chiaro. Niente fronzoli: “Nelle do giapponesi il maestro è il depositario dell’arte che si vuole apprendere e in lui si ripone completamente la propria fiducia. Egli ha ricevuto dal proprio maestro la trasmissione dell’arte e al suo maestro ha promesso di trasmetterla con sincera fede ai discepoli che avrà”. In principio fu il filosofo tedesco Eugen Herrigel, che studiò il Kyudo (l’arte del tirare con l’arco) durante il suo quinquennio d’insegnamento in Giappone. Basandosi su ciò che aveva imparato, nel 1953 pubblicò il famoso libro “Lo zen e l’arte del tirare con l’arco”, che non era affatto una guida all’insegnamento religioso. Piuttosto, nel libro si esplicitava per la prima volta agli occhi di un occidentale la possibilità di riconoscere l’esperienza spirituale orientale in quelli che da noi erano considerati né più né meno che degli sport.

E’ un po’ quello che ha fatto Marie Kondo, l’autrice giapponese di un best seller sul “magico potere del riordino. Il metodo giapponese che trasforma i vostri spazi e la vostra vita”. Il libro promette di organizzare gli spazi domestici e di ridare serenità ove prima regnava il caos, “perché nella filosofia zen il riordino fisico è un rito che produce incommensurabili vantaggi spirituali”, dice la quarta di copertina. Sai che scoperta. Ogni volta che sento parlare di lei, e del suo straordinario successo, mi viene in mente lo zaino per la montagna. La sua preparazione è un rito. E il nemico, l’ossessione del trekking alpino di più giorni, è il peso. Preparare lo zaino per la montagna rende tangibile l’idea di essenziale, perché non esiste cosa che non abbia un peso e guadagnare anche solo cento grammi può dare un significativo vantaggio. Chi conosce la montagna conosce il peso di ogni parte dell’“equipaggiamento” e – sembrerà ingenuo dirlo – il valore di ogni cosa che viene portata fino in cima. Per ore si cammina in silenzio, perché ogni respiro è dedicato all’unico scopo di salire. Come nelle discipline orientali, la respirazione è il fondamento di ogni “ascesa”. Il filosofo Julius Evola, conoscitore del mondo buddista tibetano, la chiama l’ascesa d’assalto: “Negli speciali riguardi delle ascese alpine (s’intende: là dove non si tratta di salti, di pareti da scalata – là dove l’ascensione, per quanto aspra, presenta sempre un certo andamento continuo), per tal via si può distunguere dal comune metodo, un metodo che potremmo chiamare d’assalto. Il potere che il fattore psichico morale può avere sul fisico è sufficientemente noto, perché qui vi si debba insistere: per via di disposizione interne, di esaltazione o di entusiasmo, corpi anche deboli o stremati in innumerevoli casi si sono dimostrati capaci di affrontare inaspettatamente e vittoriosamente le difficoltà e gli sforzi più incredibili […] Per tal via, bisogna riconoscere che oltre alla ‘forza vitale’ abitualmente in azione nelle membra e negli organi e legata a questi, ve ne è, per così dire, una riserva profonda e ben più vasta, la quale non si manifesta che eccezionalmente, essendovi costretta, e quasi sempre sotto l’azione di un fattore psichico o emotivo. Il tutto sta perciò nel trovare un ‘metodo’ per l’evocazione di questa sorgente sotterranea di energia”. Per Evola si tratta di esaurire sin da subito le energie normali, ed entrare nello stato di ritmo e di “instancabilità”, mantenendo il controllo sul passo e – soprattutto – sul respiro. Arrivati in cima, poi, ogni sforzo effettuato per raggiungere la vetta scompare, in pochi minuti. E di nuovo viene in aiuto Evola, per spiegare cosa succede in quell’attimo. E’ quello che il filosofo chiama “il momento della contemplazione”.

Tutto si lega alla tradizione della “sacralità della montagna” presente in tutte le culture antiche, sia occidentali sia orientali. La montagna è un simbolo naturale “direttamente offerto ai sensi”, scrive Evola, ma la sua spiritualità risponde soprattutto a un simbolismo dottrinale e tradizionale, basti pensare all’Olimpo ellenico, al tempio Walhalla di Ratisbona, al buddista “monte degli eroi”. “Meditazioni delle Vette” (Mediterranee, 2003) è una raccolta di scritti che il filosofo dedicò alla montagna. “Non le cime, non le difficoltà, non il record mi interessano, ma quello che succede all’uomo quando si avvicina alla montagna. Questo libro ci dà la risposta”, aveva detto uno dei più grandi alpinisti italiani, Reinhold Messner, leggendo gli scritti di Evola. E non è un caso se Messner è uno di quegli alpinisti che mai si sono fermati alla pura vicenda atletica dello scalare le montagne. Ricorda infine Evola: “A proposito del decadere dell’alpinismo in sport, ci sembra interessante rilevare che a fondatore dell’alpinismo in Italia – quasi più di mezzo secolo fa – non stette uno sportman, ma un uomo di alta mente e di nobile cuore: Quintino Sella, il quale volle che a simbolo del nuovo impulso stesse la parola latinissima: Excelsior, ‘Più in alto!’. In questa idea, le grandi ascensioni dovevano essere esse stesse un simbolo e quasi un rito: simbolo e rito di un’ascensione interna, di un impulso alla liberazione e alla vita ‘in un più spirabil aere’”.

 

lundi, 14 septembre 2015

Zarathoestra beleeft revival in Noord-Irak

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Door: Dirk Rochtus - Ex: http://www.doorbraak.be

Zarathoestra beleeft revival in Noord-Irak

Koerden in Noord-Irak herontdekken de oude religie van Zarathoestra als een wapen in de strijd tegen het door IS belichaamde Kwaad.

Een golf van politiek, religieus en sektarisch geweld overspoelt het Midden-Oosten. In Syrië woedt de soennitische terreurorganisatie Islamitische Staat (IS) in alle hevigheid tegen andersdenkenden en aanhangers van andere geloofsstrekkingen. In Turkije escaleert de strijd tussen het Turkse leger en de milities van de Koerdische Arbeiderspartij PKK. Iran en Saoedi-Arabië wedijveren met elkaar om de macht in de regio. Sjiieten en soennieten bestrijden elkaar om de juiste uitlegging van de islam.

Ware cultuur

De chaos drijft niet alleen vele mensen op de vlucht, maar doet ook velen onder de thuisblijvers snakken naar zekerheid en geborgenheid. Zo komt het bijvoorbeeld dat meer en meer Koerden een oude religie herontdekken. In de provincie Suleiman, in de Koerdische deelstaat van Noord-Irak, vond in de maand mei een merkwaardige ceremonie plaats. Honderden Koerden deden er een gewijde gordel, de 'koeshti', om. Ze betoonden zo hun gehechtheid aan het zoroastrisme, de religie van de Perzische profeet Zarathoestra (ook Zarathustra of Zoroaster genaamd). Ook dienden ze bij de overheid van de Kurdistan Regional Government (KRG) een aanvraag in voor de bouw van twaalf zoroastrische tempels en voor de erkenning van het zoroastrisme als officiële godsdienst. Volgens Luqman al Hadsch Karim van de zoroastrische organisatie Zand zouden met de revival van het zoroastrisme de 'ware cultuur en religie van de Koerden' weer in ere worden hersteld.

De 'betere Bijbel'

Over het leven van Zarathustra is niet veel geweten. Hij zou rond 1200 voor Christus geleefd hebben in Perzië, het huidige Iran. Hij predikte als eerste het geloof in 'één God' - Ahura Mazda, de 'Wijze Heer' of de god van het goede die strijdt tegen de duivel Ahriman -, het bestaan van engelen, van hemel en hel en het Laatste Oordeel. Al deze geloofsbeelden zouden via de Joden in ballingschap in Babylon binnengeslopen zijn in de latere monotheïstische religies. Voor de publicist Paul Moonen schreef Zarathustra daarom ook de 'betere Bijbel'. Maar juist omdat Zarathoestra als de 'vader' van het monotheïsme geldt, gebruikte de godloochenende Duitse filosoof Friedrich Nietzsche hem in een ironische omkering in zijn poëtisch meesterwerk 'Also sprach Zarathustra' om de 'dood van God' te verkondigen.

zor520-9-8df4d.jpgVuur

De zoroastriërs vereren in hun vuurtempels het eeuwig brandende vuur als afbeeld van Ahura Mazda. Het zoroastrisme groeide later uit tot de staatsgodsdienst van het Perzische Rijk. Toen de islam in de zevende eeuw Perzië veroverde, vluchtten vele zoroastriërs naar het naburige India. Vandaag de dag leven er vooral nog in Bombay een paar tienduizend 'parsi's' die vasthouden aan het zoroastrische geloof. In Iran zelf telt de zoroastrische gemeenschap een dertigduizend leden. Ze wordt in de Islamitische Republiek van Iran erkend als een minderheid. Net zoals de Armeense en de Joodse gemeenschap heeft ze recht op één zetel in de Majlis, het Iraanse parlement. Toch moet ze nog heel wat onderdrukking en discriminatie doorstaan. Ook de Jezidi's, de aanhangers van een door IS vervolgde Koerdische 'volksreligie', zouden door het zoroastrisme beïnvloed zijn. Zijzelf wijzen elke band met de leer van Zarathoestra af.

Strijdtoneel

Het zoroastrisme leek de laatste jaren op de terugweg. Het aantal gelovigen in Iran en India was aan het slinken ten gevolge van lagere geboortecijfers, vervolging en discriminatie. Merkwaardig is het dan ook dat Koerden in Noord-Irak de Oud-Perzische religie van Zarathoestra herontdekken. Sowieso zijn er culturele verbanden. De Koerden spreken een met het Farsi (Perzisch) verwante taal en in Newroz, hun nieuwjaarsfeest, speelt het vuur een grote rol. Volgens analisten zou de onzekerheid over wat nu de ware islam is nationalistische en liberaal denkende Koerden in de armen van een tolerante religie als het zoroastrisme drijven. Zarathoestra zag in de wereld het strijdtoneel van het Goede en het Kwade en riep de mensen op om de zijde van de goede god Ahura Mazda te kiezen. In zulk een wereldbeeld past voor vele Koerden ook de strijd tegen IS als de belichaming van het Kwade.

 

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mardi, 11 août 2015

Asatru: A Native European Spirituality

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Stephen A. McNallen’s Asatru: A Native European Spirituality

Mcnallen-200x300.jpgStephen A. McNallen
Asatru: A Native European Spirituality
Runestone Press, 2015

The Good Preacher

Steve McNallen is a serious character. A former U.S. Army Ranger, he has hitchhiked across the Sahara Desert and traveled to such exotic locales as Tibet and Burma, usually to report on military conflicts. His articles have appeared in Soldier of Fortune magazine (a periodical that fascinated me when I was a teenager, especially the classified ads in the back). McNallen has also worked as a jailer, a juvenile corrections officer, and has served in the National Guard (he was witness to the Rodney King riots back in 1992). Oh, and he taught math and science for six years in an American high school, using his summer vacations like Indiana Jones, setting off on foreign adventures.

Steve McNallen is also the man principally responsible for the revival of Asatru in North America. He gives us a brief overview of his life, written with typical modesty and understatement, in this wonderful new book, several years in the making. McNallen tells us that he decided to follow the gods of his ancestors while he was in college “in either 1968 or 1969” (p. 61).

I like the honesty of this. A lot of men, if they were uncertain which year it was, would have just picked one, perhaps even giving a specific date: e.g., “Walpurgisnacht 1969!” But McNallen is not concerned to make an impression, or create an image for himself. His sincerity, earnestness, and lack of pretension have a great deal to do with why he has become a genuine religious leader.

Steve_McNallenWhen I first met McNallen I thought “this man is a born preacher.” I come from a long line of Methodists, and some of my ancestors were clergy. One was a “circuit rider,” a preacher assigned to travel around the countryside (usually on horseback) ministering to settlers and establishing congregations. My use of the term “preacher” is not pejorative. I share the faith of my very distant ancestors, not the more recent ones — but I honor them all. And being a preacher is an honorable profession.

A good preacher has the ability to form people into a genuine community through appealing to their better nature. No easy task. And a good preacher establishes his authority not through his book learning or some seal of approval from a Council of Elders, but rather through the force of his personality. Just what that consists in is a complex issue. Partly, it’s a simple matter of “good character.” Aristotle said that one of the necessary conditions of being an effective speaker is that the audience must perceive the speaker as having good character. Otherwise they will not be convinced by what he says, no matter how cogent his arguments are.

However, “force of personality” also involves strength of conviction. A good preacher is someone whose faith is so strong that others believe because he believes. Privately, they may suffer doubts. But just being in the presence of a good preacher, a man with real strength of conviction, is often enough to bolster them. And I do not necessarily mean listening to him preach. A good preacher communicates his faith and sincerity in his every act, even in the way he moves across a room or eats a meal.

I experienced McNallen’s force of personality for the first time one evening several years ago on a beach in California. I was one of about 25 people who gathered together around a bonfire to participate in a blot led by McNallen. It was truly a mixed crowd, running the gamut from university professors to skinheads. I had driven there with McNallen and his wife Sheila, on the way picking up a cake at a local supermarket. My job was to ride shotgun and serve as navigator, directing McNallen to the beach. He was in an extraordinarily good mood and as I gave him each direction (“turn left here . . .” etc.) he responded in crisp military fashion: “Roger that!”

I wasn’t sure how this was going to play out. I am a lone wolf by nature, and Asatru for me has always been a pretty solitary affair. On those occasions when I participated in rituals with others it usually felt like we were LARPing (Live Action Role Playing). In other words, I felt a bit silly. But on the beach something strange and uncanny happened. It was a constellation of factors. One was the natural setting: fall on a northern California beach, nighttime, waves crashing, bonfire crackling and roaring. But the key factor was McNallen. As he spoke, mead horn in his hand, Asatru came alive for me (and, I think, everyone else) in a way it never had before.

I am a philosopher, and that means that my life is mostly about theory. And this is true of my relation to Asatru: theory, to the neglect of practice (though, to be clear, not the total neglect). A few hours prior to heading for the beach, McNallen had asked me what rituals I perform. I confessed to him that I performed few rituals, and very seldom. He seemed disappointed, and I felt slightly ashamed. Such is the power of a good preacher! I had encountered the same disappointment with others on revealing to them my neglect of ritual, and my standard response had been to quip “I’m a Protestant” (i.e., as opposed to a “Catholic” follower of Asatru, who needs rituals and candles and incense). But I knew I couldn’t be so glib with McNallen.

When he led that blot on the beach I felt a real sense of connection to my ancestors, and to the gods. It was a transformative experience. However, it wasn’t a “mystical experience”: I didn’t feel suddenly at one with all things, or that the Being of beings had been revealed to me. No, it was something more basic than this: it was a religious experience. And a key part of this was the presence of others. As I said, it was a constellation of factors. There was the natural setting, and McNallen’s charisma, and the truth that came through his words. But in addition there was an absolutely essential component, without which this religious experience would not have been possible: others — others like me.

A few years ago I wrote a controversial article titled “Asatru and the Political” (it’s included in my recent book What is a Rune? And Other Essays). The major point of the piece was that since Asatru is a folk religion, born of the spirit of European people, we followers of Asatru must take an interest in the survival and flourishing of the race that gave rise to it. In short, I argued that commitment to Asatru entails what is sometimes called today “white nationalism” (not the same thing, as I explain in the essay, as “white supremacism”). In Asatru: A Native European Spirituality, McNallen makes essentially the same point (without using the term “white nationalism”). I hasten to add that McNallen was making such arguments long before I was — a point to which I will return later.

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In any case, in that same essay I argued that every religion is really a way in which a people confronts itself, for every religion is an expression of a people’s spirit, born of the encounter between a distinct ethnic group, with its own inherent (i.e., genetic) characteristics and a place. What I did not emphasize is a corollary point: that religion is inherently communal. It is often asserted that the word “religion” comes from a root meaning “to bind,” and on this basis it has been speculated that “religion” means “to bind together.” If this is correct (and no one really knows), two interpretations are possible. The first is that religion binds or connects individuals to the divine (sort of like the literal meaning of “yoga,” as that which yokes us to the divine). The second is that religion binds us together in a community.

Anthropologists and sociologists favor the latter interpretation, with some going so far as to suggest that the “purpose” of religion is really nothing more than making communities cohesive. This is a vulgar, flat-souled notion that I discuss elsewhere (see my essay “The Stones Cry Out,” also in What is a Rune?). The truth is that religion binds together a community, through binding it to the divine. Both of the interpretations just mentioned are correct. Through religion, I achieve connection with the gods — but that is only possible through connection with others who have the same aim, and worship the same gods.

Religion is not the only way of making some “connection” to the divine. Mysticism is another way. So are philosophy and theology. Even art and poetry are means. But these can all be solitary activities. We may want an audience for our poetry (or our philosophy), but we don’t need one in order for poetry (or philosophy) to occur.

For religion to “occur” we need others. There can be no such thing as a private religion. Elsewhere I have discussed at length my commitment to Odinism (see “What is Odinism?” in Tyr Volume 4). Odinism is the path of one who follows Odin — really of one who seeks to become him. It is not about “worshipping” Odin, and it is not a religion. It would be accurate to call Odinism (as I define it[1]) a cult within Asatru. Though by its very nature it is a cult arguably best suited for lone individuals (at least, that’s how it is for me): a cult whose “cells” consist of isolated individuals. Until that night on the beach in California, Odinism really was Asatru for me. It was when the blot had ended that I realized my error.

What happened when the blot ended? There was silence. We ate our cake and sat around the bonfire, speaking in hushed tones. There was a kind of electricity in the air, and I think I speak for everyone there when I say that I felt lifted out of myself. I felt connected. Connected to the divine but also — and this is very unusual for me — connected to the others. I felt part of a religious community. It was then that I realized that my Odinism, while entirely legitimate, was not enough.

Imagine the absurdity of a Christian theologian who said that the practice of theology was sufficient unto itself and that he had no need of belonging to a church. But this was exactly my own position: an Odinist, a Germanic neo-pagan philosopher who never practiced his neo-paganism. And by “practice” here I mean practice with others. I was an irreligious neo-pagan. A Protestant indeed.

Of course, there’s an Odinic response to this — or one that seems plausibly Odinic: “Odin is the lone wanderer, he does not need others. If you aspire to be Odin, you do not need blots and such.” But there are two problems here. First, Odin clearly needed the company of the other gods: he returned to them from his wanderings again and again. The second problem is that while there is a part of me that is Odin, and my Odinism is the cultivation of this (again, see my essay in Tyr #4), it is only a part of me. I am still a man, and man is a social animal. And the supreme, most elevated and sublime aspect of his sociability is his religiosity. My experience on the beach didn’t teach me that I ought to come together with others and practice Asatru; it taught me that I needed to, but hadn’t been aware of the need.

Of course, the blot on the beach and the important realization I had there was more than three years ago. And I am still a lone Odinist, keeping an eye on Asatru from the periphery but seldom ever joining with others. Old habits die hard. There are many people who have a much stronger desire to come together with others than I do, but simply cannot because they don’t live near anyone. In one way I am not alone: many of us have been solitary cultists, for a great many years. Then there’s that other big problem: sometimes when you meet others who claim to follow Asatru you are very, very disappointed.

The Rise and Fall and Rise of the AFA

But all of this seems to be changing. And primarily we have Steve McNallen to thank for it. McNallen is well aware that Asatru must be about community; that the solitary practice of Asatru is ultimately insufficient. In recent years, there have been more and more occasions for people who follow the ancestral gods to come together. More people — serious, sincere, and sane people — are being drawn to Asatru and forming local kindreds, or assemblies. McNallen’s organization, the Asatru Folk Assembly (AFA) has organized several events each year for a number of years now. The most successful of these have been “Winter Nights in the Poconos,” held in the fall at a camp in Pennsylvania. And, of course, the internet is helping people to find each other.

McNallen’s own experience of Asatru — which he narrates in this new book — is one that also began in isolation. As noted earlier, McNallen decided to follow the gods of his ancestors when he was in college in the late sixties, serving in the ROTC. This was the Age of Aquarius, and I was in diapers. But I was nonetheless very much aware of the “Occult Revival” when I was a small child in the early seventies. I still remember the weird shop in the strip mall, down the block from Rose’s Department Store, where (at the age of eight or so) I bought my copies of The Sorcerers Handbook and Illustrated Anthology of Sorcery, Magic and Alchemy. (However, once my mother figured out that it was also a head shop she stopped letting me go in there.) Wicca was certainly on the scene, but Asatru was nowhere to be found.

McNallen thought that he was totally alone. In desperation, he took out ads in magazines like Fate, looking for others like himself. Slowly, he formed a small group which he called the Viking Brotherhood: the first Asatru organization in the U.S. McNallen began publishing his own periodical, The Runestone, in 1971, and by the following year the Viking Brotherhood had become a tax-exempt religious organization. He told me once that at the time he and his comrades were making Thor’s hammers out of the keys from sardine cans. (Today, of course, Thor’s hammers are available with two-day Prime shipping from Amazon — largely thanks to McNallen spreading the faith.)

But almost as soon as he had launched the Viking Brotherhood, McNallen had to report for active duty as an officer in the Army. Needless to say, this severely restricted his work on behalf of Asatru. At the time, by the way, Asatru was not Asatru. McNallen did not begin using that term until 1976, after reading it in a book by Magnus Magnusson. Up until then, he had called his religion “Norse Paganism,” or sometimes “Odinism.” It is important to note that our ancestors did not have a name for their religion at all. (“Asatru” which means “true to the Aesir,” is a term coined in the 19th century.)

Names for religions have come into use as a result of the rise of universalist faiths like Christianity, Islam, and Buddhism. These religions needed to call themselves something because they imparted an ideology, and sought to convert people away from their folk religions: they needed to be able to approach people and say “we represent x.” As to the names traditionally given to folk or ethic religions, typically they do not distinguish a member of the ethnic group from an adherent to the religion. The term “Hinduism” is derived from the Persian word “Hindu,” which actually just denotes the Indian people. The etymology of “Judaism” is similar, derived from a word that simply means “Jew.”

By all rights, Asatru — which is an ethnic religion — ought to be called “Germanism,” or “Teutonism,” or something like that. Though both of these are problematic choices, for a number of reasons. But “Asatru” is problematic as well (though it looks like we are stuck with it — which is fine). Imagine if Judaism changed its name to “Yahwism,” the religion of those who worship Yahweh.[2] Inevitably, along would come a gentile who felt entitled to describe himself as a “Yahwist,” because he has decided to worship Yahweh. But if “Yahwist” had the same denotation as “Jewish,” he would have to be taken aside and politely told that the Yahwists are a people, a tribe, not just a collection of believers in a particular theology. And so he cannot be a Yahwist. (Wisely, the Jews — like most Hindus — have remained aware of the ethnic identity of their religion, and are not particularly eager to embrace converts.)

Our term “Asatru” invites a similar problem. If the religion is literally being “true to the Aesir” (“true” as in being loyal to or believing in) well then why can’t a man whose ancestors came from Niger decide that he wants to be true to Odin, Freya, and Thor? McNallen came to face this problem squarely in the seventies:

It was in about 1974 that I began to realize that there was an innate connection between Germanic paganism and the Germanic people. I had resisted the idea as being somehow racist, but I could not ignore the evidence. Within a year or two I had shifted from a “universalist” to a “folkish” position — even though neither of those terms would enter our vocabulary for many years. (pp. 62-63)

It was around the time that McNallen adopted the term “Asatru,” after his discharge from the Army, that he formed the Asatru Free Assembly as successor to the Viking Brotherhood. This is not to be confused with the Asatru Folk Assembly, his present organization. As the above quotation implies, the folkishness of the “first AFA” was largely implicit, for the simple reason that McNallen was surrounded by like-minded people. The Asatru Free Assembly went from being a small group meeting in the back of an insurance agency in Berkeley, California, to a national organization. It published booklets and audio tapes, and beginning in 1980 held an annual summit, the Althing. “Guilds” formed within the first AFA, each with its own newsletter.

There was no other Asatru organization in North America until the mid-1980s. The AFA was it. But by the mid-’80s it was dying. McNallen and his wife were both holding down full-time jobs, and trying to run the AFA on the side. The ideal situation, of course, would have been if they could have turned the AFA into their full-time work. But when they tried that, soliciting financial support from AFA members, they were accused of being “money hungry.” Some people just expect something for nothing. (A problem with which the editor of this website is all too familiar.) It was an impossible situation, and eventually McNallen had to close the AFA, the remains of which morphed (with his blessing) into Valgard Murray’s Asatru Alliance.

Then came McNallen’s years of wandering, writing for Soldier of Fortune, interviewing Tibetan resistance fighters, serving in the National Guard. With characteristic frankness, he admits that while he never wavered from being true to the Aesir during this period, the collapse of the first AFA left him quite bitter. For a long time, he simply gave up on being involved (at least in a leadership capacity) with organized Asatru. What drew him back in was precisely the realization that circumstances had forced those true to the Aesir to make explicit what had been the movement’s implicit folkishness. McNallen writes:

In 1994, I saw signs that a corrupt faction was making inroads into the Germanic religious movement in the United States. Individuals and groups had emerged which denied the innate connection of Germanic religion and Germanic people, saying in effect that ancestral heritage did not matter. This error could not be allowed to become dominant. I decided to reenter the fray and throw my influence behind Asatru as it had been practiced in America since the founding of the Viking Brotherhood back in the 1970s. I formed the Asatru Folk Assembly. (pp. 65-66)

The change from “Free” to “Folk” made things pretty explicit. (And, I will add, has the further advantage of disabusing those who thought that commitment to Asatru cost nothing.) McNallen is too much of a gentleman to name names here, but the “corrupt faction” he is referring to is typified by folks (and I use the term loosely) like the ultra-PC “Ring of Troth,” who are truer to the Frankfurt School than to the Aesir. I won’t say anything else about such people here, as their attempt to turn Asatru into a universalist creed is unworthy of serious discussion.

Article Two of the Declaration of Purpose of the Asatru Folk Assembly states:

Ours is an ancestral religion, one passed down to us from our forebears from ancient times and thus tailored to our unique makeup. Its spirit is inherent in us as a people. If the People of the North ceased to exist, Asatru would likewise no longer exist. It is our will that we not only survive, but thrive, and continue our upward evolution in the direction of the Infinite. All native religions spring from the unique collective soul of a particular people. Religions are not arbitrary or accidental; body, mind and spirit are all shaped by the evolutionary history of the group and are thus interrelated. Asatru is not just what we believe, it is what we are. Therefore, the survival and welfare of the Northern European peoples as a cultural and biological group is a religious imperative for the AFA.

As always, the cunning of reason — or the hand of the gods — has been at work: as I noted earlier, the new AFA has wings the old AFA never possessed. If the old organization had never fallen apart, and McNallen had not lived his wilderness years, we would never have seen the birth of the Asatru Folk Assembly, and the Asatru Renaissance that it has helped bring about.

There is more to the tale of the new AFA — such as the saga of its involvement in the “Kennewick Man” controversy — but for the rest you will have to read the book.

Asatru: A Native European Spirituality fills a void. It is intended to introduce readers to Asatru — readers with no prior acquaintance. As such, it is written in a highly-accessible style. And yet there is much here that will be of interest to those already well acquainted with Asatru: the fruits of almost 50 years not just of McNallen’s experience as a leader and exponent of Asatru, but of his deep reflection upon the meaning of the religion, and its integral relation to the Northern European peoples and their spirit. There is no other book I know of that is as comprehensive and illuminating an introduction to folkish Asatru.

Why Asatru?

Before I close this review there is one more issue that I need to address. There is a tendency among those in the New Right to either embrace Asatru, or simply to tolerate it (usually on the basis that it might — repeat, might — be a useful political tool). Those who tolerate it typically think it’s a bit silly — or at least not something for them. And so a lot of my readers may find this review interesting, but conclude that McNallen’s book and the AFA are for those already converted. I’d like to encourage those folks to think about things differently.

McNallen actually takes no position on whether or not the gods “really exist.” In the AFA, one can be a “hard polytheist,” who actually believes there’s an Odin riding around out there on Sleipner, or a “soft polytheist” who thinks the gods are inflections of some ultimate Brahman-like principle — or even that they are just poetic constructs that hold up a mirror to our Northern souls. There are tricky issues here, and my own position doesn’t readily fall into any of these categories. But one thing is certain: whether or not the gods “really exist,” the gods and the myths about them most certainly do poetically mirror our Northern souls. This is the first thing I’d like New Right “sceptics” about Asatru to consider. Asatru is us.

As I put it in my essay “Asatru and the Political”:

Ásatrú is an expression of the unique spirit of the Germanic peoples. And one could also plausibly claim that the spirit of the Germanic peoples just is Ásatrú, understanding its myth and lore simply as a way in which the people projects its spirit before itself, in concrete form. And this leads me back to where I began, to the “political” point of this essay: to value Ásatrú is to value the people of Ásatrú; to value their survival, their distinctness, and their flourishing. For one cannot have the one without the other.

Here I was enjoining followers of Asatru to defend the interests of people of European ancestry. But now I am enjoining those who already believe in that cause to value Asatru. Because, you see, valuing “the people of Asatru” — European (or Northern European) people — must mean, at its most basic level, coming together with them in a community.

What Asatru offers to the New Right is a community of people of European ancestry focused around the celebration of that ancestry, and common culture. I have already discussed the progress the AFA has made in building this community — in genuinely bringing people together. McNallen writes:

We console each other in times of death, and celebrate the birth of new children. We share favorite books, career tips, and recipes. We make plans to meet down at a local pub, or to attend an event the next state over. Locally, we gather for rituals and for birthday parties, or to load a truck for someone moving to a new home. (p. 69)

The Fourth Article of the AFA’s Declaration of Purpose states that it is devoted to “The restoration of community, the banishment of alienation, and the establishment of natural and just relations among our people.” The banishment of alienation — the condition so many of us on the Right suffer from. And often it is our own doing. The idea of a community of people of European ancestry celebrating that ancestry sounds really good — but there’s all that stuff about Odin . . .

Well, I mentioned earlier that I come from a long line of Methodists. And my mother attended the local Methodist church all her life. But here’s something that will surprise you: she wasn’t particularly “religious.” Yes, she believed in God and in Heaven in some sense, and she thought that the Bible was mostly a good influence on people (though I think she never read it). But my mother thought it unbecoming to carry things to extremes. In particular she looked down on people who talked about Jesus all the time: “Jesus loves you” made her flesh crawl. She thought that people who talked that way were a bit “touched” (in the bad sense), and a bit low class.

For my mother, church was about community. It was a place where you met what she called “decent people,” and often had the satisfaction of helping each other. It was a place where people were brought together by a shared desire, to one degree or another, to orient their lives to an ideal (or at least to be seen to be doing so). And it was a place where people were brought together by common ancestry — for my mother’s church was implicitly white (a fact she would have readily admitted). Yes, some of the people there were, in her eyes, a little too “Jesusy.” And others not enough. Some took the Bible just a little too seriously, and said and did peculiar things. They were cranks. But in my mother’s eyes they were “our cranks.” She derived enormous satisfaction and comfort from her participation in that community. This was something I didn’t understand until much later in life.

So, if you are skeptical about Asatru just start here — I mean just with the kind of tentative, minimalist recommendation I’ve made in the last few paragraphs. Asatru as a community of people like you. This is actually quite a lot. More may come later. Or perhaps not. Perhaps you’ll always think that people who talk about Odin are a bit “touched.” But you’ll be with your people; with people who are aware that they are your people. As Steve McNallen says in this book, “Asatru is about roots. It’s about connections. It’s about coming home.”

You can access the AFA’s splendid new website here.

Postscript: I have just learned that the AFA is raising money to buy its own hall. You can read more about it, and donate, here.

Notes

1. I derive my understanding of Odinism from Edred Thorsson. See Edred Thorsson, Runelore: A Handbook of Esoteric Runology (York Beach, Maine: Samuel Weiser, 1987), 179.

2. This term actually is used by scholars, to denote the cult of Yahweh among the ancient Hebrews — the cult that eventually became Judaism.

dimanche, 14 juin 2015

Inde, comprendre le système des castes

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INDE, COMPRENDRE LA CULTURE DES CASTES
 
La cohésion sociale dans le respect des valeurs

Rémy Valat
Ex: http://metamag.fr
 
Sandrine Prévot, anthropologue, spécialiste des sociétés du sous-continent indien et directrice d’études, est l’auteure d’une remarquable synthèse sur la société indienne contemporaine, abordée du point de vue des castes : Inde, comprendre la culture des castes
 
Le terme « caste », hérité du colonisateur portugais (« casta ») reflète imparfaitement la réalité des groupes sociaux indiens et leurs substructures hétérogènes se retrouvant au sein d’une même caste. Le jati est le groupe social d’un individu dont l’appartenance est, dans la culture brahmanique, conditionnée par la naissance. La « caste » est une notion socio-religieuse traditionnelle : les jatis sont des « espèces » sociales, héritées d’un ordre naturel, immuable et cosmique.  Leur nombre est incalculable et sujet à des variables régionales ; bien que les jatis régissent et conditionnent les rapports entre les individus, ceux-ci ne déterminent ni leur destin ni leur statut économique.
 
indesp.jpgInscrite dans le sacré, l’organisation sociale indienne se fonde sur une stricte idéologie de l’inégalité des hommes, reflet d’une réalité naturelle. Le statut des êtres à leur naissance est le reflet de leurs actions pendant leurs vies antérieures et de leur karma. La société indienne est quadripartite :  les brahmanes (prêtres) occupent le haut de la société, suivis par les kshatriyas (guerriers) puis les vaishyas (force productrice) et enfin au bas de l’échelle sociale les sudras, les dalits ou les tribus (plus connus sous l’appellation d’intouchables). Ces derniers sont estimés être particulièrement impurs, parce qu’exerçant des métiers dégradants, souvent en relation avec la mort et le sang (métiers du cuir, bouchers, chasseurs, pêcheurs, etc.). Les jatis sont des compartimentations quasi-étanches, les mariages sont endogamiques : l’infraction à cette règle est motif à des violences physiques et d’exclusion : une quasi-mort sociale dans une société où le poids de la famille, source de protection affective et de soutien et d’entraide matériels, est prépondérant.
 
Si la reproduction sociale reste forte en Inde, il n’existe plus comme jadis d’adéquation radicale entre le métier et le jati. Toutefois, l’inégalité est source de tensions, d’humiliations et de violences : une forte compétition oppose les castes entre-elles : l’Inde est, comme le définit Jackie Assayag (directeur de recherche au Centre national de la recherche scientifique (CNRS) à l'École des Hautes études en sciences sociales de Paris), un « immense chantier de lutte de classements, de déclassements, de reclassements. » Le colonisateur britannique inaugura une politique de discrimination positive en faveur des basses castes en instaurant des quotas de postes réservés dans les écoles et dans les administration : ce geste contribua à l’éveil des castes défavorisées de prendre conscience de leur force politique.
 
Même si la discrimination fondée sur l’appartenance à une caste est inconstitutionnelle depuis 1950, violences symboliques et agressions physiques perdurent. La justice amnistie les auteurs de viols perpétrés par des hommes des hautes castes sur des femmes des castes inférieures au motif qu’un homme de haut rang « ne peut violer une femme de basse caste en raison de l’impureté statutaire et de sa crainte d’être souillé » (p. 28). Pour échapper à leur sort, des dalits se radicalisèrent  au sein d’un mouvement inspiré de la doctrine des Blacks Panthers (les Dalits Panthers) ou embrassèrent l’islam, le christianisme ou le bouddhisme. D’autres préfèrent adopter l’idéologie brahmanique avec un espoir d’élévation sociale en adoptant les pratiques, des coutumes et des valeurs des hautes castes, acculturation qui passe notamment par l’éducation et l’apprentissage du sanskrit. Les rejetons des hautes castes apprennent aussi et surtout l’anglais : les English Brahmin affichent un attachement à la modernité, au progrès par son adhésion aux valeurs de marché et de libéralisme, mais restent hermétiques à l’idée de réformer une société qui remettrait en question leur supériorité... Les médias, et en particulier le marketing et la publicité, ne cessent de valoriser les principes brahamiques et le monde de vie occidentalisé des élites.  Comme quoi Mickey et Brahma peuvent faire bon ménage !
  
Si la société indienne est tolérante et non-violente, la violence contenue fait surface régulièrement pour contre-balancer les cruautés de la vie quotidienne. En Inde, celle-ci est légitimée par la nécessité de préserver l’ordre social et cosmique : une personne identifiée comme « sorcière » peut être battue à mort, une intouchable violée, etc.  Cette violence affecte la vie politique et attise les tensions religieuses. Si les tensions entre Musulmans et Hindous sont consubstantielle de la naissance de la nation indienne, Sandrine Prévot attire également l’attention du lecteur sur les actions commises par les extrémistes hindous contre les Chrétiens :  « Les violences envers les missionnaires, les destructions d’églises ou les profanations de tombes sont en hausse depuis 1997. Les actions de prosélytisme des missionnaires chrétiens auprès des tribaux et des basses castes sont mal perçus par les fondamentalistes. Même s’il s’agit d’améliorer leur dignité et d’offrir un meilleur accès à l’éducation et aux soins, les nationalistes hindous, considèrent que les chrétiens profitent de cette population vulnérable et démunie pour porter atteinte à l’hindouisme, à l’intégrité de la nation » (p. 90). 

En somme, la modernisation de l’Inde et le maintien de sa cohésion sociale se font dans le respect des valeurs indiennes, centrées sur la caste, la famille et la religion. L’uniformisation culturelle à l’américaine n’a pas de prise dans ce pays. Toutefois, c’est la persistance des inégalités, amplifiée par les méfaits de la globalisation économique, qui est source de conflits, de revendications identitaires de caste et de rejet des élites indiennes, dont nous avons relevé ci-dessus les flagrantes contradictions. 

Sandrine Prévot, Inde, comprendre la culture des castes. éditions de l’Aube.

00:05 Publié dans Traditions | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : traditions, traditionalisme, inde, système des castes | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

mardi, 02 juin 2015

Julius Evola’s Influence on Jobbik and Gabor Vona

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Julius Evola’s Influence on Jobbik and Gabor Vona

Ex: http://islam-freemasonry.com

The Budapest Times has just published an article on the “esoteric” influence on Gabor Vona, the leader of Hungary’s controversial Jobbik Party, and Tibor Imre Baranyi, Vona’s advisor. Of particular importance to the journalist is the influence of the founder of the school of Traditionalism, Rene Guenon, and, more especially, Julius Evola, one of the more popular yet more frequently criticized of Traditionalist thinkers.

According to the Budapest Times, Baranyi is Vona’s official advisor, and receives a monthly gross salary of HUF 189.878 (if this is correct, that’s about $0.67 USD according to various online currency exchange sites). He is also the owner of Kvintesszencia, a publishing house in Debrecen, which has published some of Evola’s work. The Budapest Times say that,

Evola was in close contact with the SS during World War II and worked for the Study Society for Primordial Intellectual History, German Ancestral Heritage founded by Heinrich Himmler.
By the way, Vona wrote a passionate introduction for the Evola compilation published by Kvintesszencia..

This seems to be an oversimplification. Evola was close to elements in Italy’s Fascist party, and lectured to the SS, though his views were seen as incompatible with Nazi racialism, and his activities in Germany were effectively stopped. Evola saw “race” in spiritual terms, or terms of character and inclination. This may seem unsavory to us today, and while many of Evola’s opinions — such as they were influenced by the Protocols of the Elders of Zion, etc. — may have been wrong, these not unusual for his time, either on the Left or Right.

What’s important, when considering Evola’s influence, is the broad range of material he produced, some of it bad, some of it interesting. Evola’s books have been largely published by Inner Traditions, an occult/New Age publisher, since most of his work concerns spirituality, from Buddhism and Islam to Hermeticism, all of which he speaks about positively.

Without understanding this — and the Budapest Times certainly doesn’t seem to — it is difficult to understand what Evola’s impact may be on Vona. Speaking about Traditionalism, the newspaper says:

The doctrine likes to take examples from Buddhism, Hinduism, Islamic tradition and other directions of religion in order to compare the dilapidation of the Western world against something. The person who combined many different spiritual movements in such a way and is considered as the icon of traditionalists today is the Frenchman René Guénon (1886-1951). Guénon spent his late years as a Muslim Sufi mystic under the name Abdel Wahid Yahia in Cairo, the Egyptian capital becoming the final destination of his spiritual movement.

Vona does not seem to really mind that the traditional school based on the global synthesis of different religious directions and spiritual-cultural tradition contradicts the official Jobbik image of being “Christian and Hungarian”. He himself follows the “metaphysical tradition”. A couple of months ago this is what he told weekly newspaper Heti Válasz: “Every larger global religion has a core truth which is the same as in the other ones and in most cases it’s called God. Everyone has the task to get as close to God as possible in his own cultural circle and within his own faith. As a Hungarian, European and Roman Catholic person I have the same task. However, at the same time I pay attention to, study and understand other cultures and religions too.”

This again mischaracterizes Guenon and Traditionalism. Guenon — who was at one time involved with esoteric Freemasonry, and who later “moved into” Islam — did not “combine” different religions, but perceived that they were all reflections of a spiritual “primordial Tradition,” and thus all contained elements of Truth. Although concerned with both gnosis and how to live authentically rather than with society, we see something similar in anthropology, where aspects of the various religions may be compared.

Moreover, though once an obscure and academic approach, it is now a common belief in the West that all religions are in some way true. Usually this opinion is seen on the Left, as an endorsement of multiculturalism — often in a political sense, of seeing the religions as clients to be represented by a political class that is above believing in a single religion. Vona takes a Traditionalist, or more Right-wing approach, believing that though one can get close to God through any of the major religions, each person has a duty to do this through the culture of their heritage.

Personally, since I grew up in a nominally Christian country, but do not consider myself Christian, I don’t agree with Vona. But I also think these things are worth talking about seriously. Though it’s always interesting to see Traditionalism discussed in the mainstream, it’s a pity the Budapest Times got it so wrong.

 

lundi, 01 juin 2015

Iraqi Kurds revive ancient Kurdish Zoroastrianism religion

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Thanks to Islamic extremism, Iraqi Kurds revive ancient Kurdish Zoroastrianism religion

by Alaa Latif

Ex: http://ekurd.net

The One, True Kurdish Prophet

SLEMANI, Kurdistan region ‘Iraq’,— The small, ancient religion of Zoroastrianism is being revived in Iraqi Kurdistan. Followers say locals should join because it’s a truly Kurdish belief. Others say the revival is a reaction to extremist Islam.

One of the smallest and oldest religions in the world is experiencing a revival in the semi-autonomous region of Iraqi Kurdistan. The religion has deep Kurdish roots – it was founded by Zoroaster, also known as Zarathustra, who was born in Iranian Kurdistan (the Kurdish part of Iran) and the religion’s sacred book, the Avesta, was written in an ancient language from which the Kurdish language derives. However this century it is estimated that there are only around 190,000 believers in the world – as Islam became the dominant religion in the region during the 7th century, Zoroastrianism more or less disappeared.

Until – quite possibly – now. For the first time in over a thousand years, locals in a rural part of Slemani (Sulaymaniyah) province conducted an ancient ceremony on May 1, whereby followers put on a special belt that signifies they are ready to serve the religion and observe its tenets. It would be akin to a baptism in the Christian faith.

The newly pledged Zoroastrians have said that they will organise similar ceremonies elsewhere in Iraqi Kurdistan and they have also asked permission to build up to 12 temples inside the region, which has its own borders, military and Parliament. Zoroastrians are also visiting government departments in Iraqi Kurdistan and they have asked that Zoroastrianism be acknowledged as a religion officially. They even have their own anthem and many locals are attending Zoroastrian events and responding to Zoroastrian organisations and pages on social media.

Although as yet there are no official numbers as to how many Kurdish locals are actually turning to this religion, there is certainly a lot of discussion about it. And those who are already Zoroastrians believe that as soon as locals learn more about the religion, their numbers will increase. They also seem to selling the idea of Zoroastrianism by saying that it is somehow “more Kurdish” then other religions – certainly an attractive idea in an area where many locals care more about their ethnic identity than religious divisions.

As one believer, Dara Aziz, told Niqash: “I really hope our temples will open soon so that we can return to our authentic religion”.

“This religion will restore the real culture and religion of the Kurdish people,” says Luqman al-Haj Karim, a senior representative of Zoroastrianism and head of the Zoroastrian organisation, Zand, who believes that his belief system is more “Kurdish” than most. “The revival is a part of a cultural revolution, that gives people new ways to explore peace of mind, harmony and love,” he insists.

In fact, Zoroastrians believe that the forces of good and evil are continually struggling in the world – this is why many locals also suspect that this religious revival has more to do with the security crisis caused by the extremist group known as the Islamic State, as well as deepening sectarian and ethnic divides in Iraq, than any needs expressed by locals for something to believe in.

“The people of Kurdistan no longer know which Islamic movement, which doctrine or which fatwa, they should be believing in,” Mariwan Naqshbandi, the spokesperson for Iraqi Kurdistan’s Ministry of Religious Affairs, told Niqash. He says that the interest in Zoroastrianism is a symptom of the disagreements within Islam and religious instability in the Iraqi Kurdish region, as well as in the country as a whole.

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“For many more liberal or more nationalist Kurds, the mottos used by the Zoroastrians seem moderate and realistic,” Naqshbandi explains. “There are many people here who are very angry with the Islamic State group and it’s inhumanity.”

Naqshbandi also confirmed that his Ministry would help the Zoroastrians achieve their goals. The right to freedom of religion and worship was enshrined in Kurdish law and Naqshbandi said that the Zoroastrians would be represented in his offices.

Zoroastrian leader al-Karim isn’t so sure whether it is the Islamic State, or IS, group’s extremism that is changing how locals think about religion. “The people of Kurdistan are suffering from a collapsing culture that actually hinders change,” he argues. “It’s illogical to connect Zoroastrianism with the IS group. We are simply encouraging a new way of thinking about how to live a better life, the way that Zoroaster told us to.”

On local social media there has been much discussion on this subject. One of the most prevalent questions is this: Will the Kurdish abandon Islam altogether in favour of other beliefs?

“We don’t want to be a substitute for any other religion,” al-Karim replies. “We simply want to respond to society’s needs.”

However, even if al-Karim doesn’t admit it, it is clear to everyone else. Committing to Zoroastrianism would mean abandoning Islam. But even those who want to take on the Zoroastrian “belt” are staying well away from denigrating any other belief system. This may be one reason why, so far, Islamic clergy and Islamic politicians haven’t criticised the Zoroastrians openly.

As one local politician, Haji Karwan, an MP for the Islamic Union in Iraqi Kurdistan, tells Niqash, he doesn’t think that so many people have actually converted to Zoroastrianism anyway. He also thinks that those promoting the religion are few and far between. “But of course, people are free to choose whatever religion they want to practise,” Karwan told Niqash. “Islam says there’s no compulsion in religion.”

On the other hand, Karwan disagrees with the idea that any religion – let alone Zoroastrianism – is specifically “Kurdish” in nature. Religion came to humanity as a whole, not to any one specific ethnic group, he argues.

By Alaa Latif
Regions and cities names in Kurdish may have been changed or added to the article by Ekurd.net.

dimanche, 24 mai 2015

Le dieu cornu des Indo-Européens

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Le dieu cornu des Indo-Européens

par Thomas Ferrier

Ex: http://thomasferrier.hautetfort.com

De toutes les figures divines du panthéon proto-indo-européen, celle du dieu « cornu » est la plus complexe et la moins analysée. Elle est pourtant essentielle, même si son importance n’est pas comparable à celle du dieu de l’orage, dont il est souvent le compagnon de lutte mais parfois aussi l’adversaire. On le retrouve chez presque tous les peuples indo-européens, à l’exception notable des Germains même si, on le verra, il est possible d’y retrouver sa trace. Son nom originel était sans doute *Pauson, « celui qui guide ». Représenté avec deux cornes, il fut alors surnommé chez certains peuples le dieu « cornu ».

Chez les Grecs, l’équivalent en toutes choses de *Pauson était le dieu Pan. Son nom, qui ne signifiait pas « tout », comme une étymologie populaire le proposait, dérive directement de son ancêtre indo-européen. Pan est justement représenté cornu avec des pieds de bouc. Il était le dieu des troupeaux, qu’il protégeait contre les loups. C’est là un de ses rôles les plus anciens. On le dit natif d’Arcadie, une région de collines où il était très sollicité par les bergers du Péloponnèse. Son nom a également donné celui de « panique », car on dotait Pan de la capacité d’effrayer les ennemis.

Pan n’était pas le fils de n’importe quel dieu. Il était celui d’Hermès avec lequel il se confond. Comme souvent chez les Grecs, un même dieu indo-européen pouvait prendre plusieurs formes. On confondait ainsi Eôs et Aphrodite ou encore Hélios et Apollon. Le premier portait le nom originel, le second celui d’une épiclèse devenue indépendante. Pan et Hermès étaient dans le même cas de figure. Hermès disposait de la plupart des rôles auparavant dévolus à celui dont les Grecs feront paradoxalement le fils. Il était le dieu des chemins et lui aussi conducteur des troupeaux. On raconte que dans ses premières années il déroba le troupeau dont Apollon avait la garde. C’était le dieu des voleurs et le dieu qui protégeait en même temps contre le vol. Il était aussi le gardien des frontières, d’où sa représentation sous forme d’une borne, tout comme le dieu latin Terminus. Il était également le dieu du commerce et de l’échange, le protecteur des marchands. Enfin, Hermès était un dieu psychopompe, conduisant les âmes des morts aux Champs Elyséens ou dans le sombre royaume d’Hadès.

En Inde, l’homologue de Pan était le dieu Pusan. A la différence de Pan, Pusan avait conservé l’intégralité de ses prérogatives. Il était dieu psychopompe, emmenant les âmes chez Yama. Il protégeait les voyageurs contre les brigands et les animaux sauvages. Ce dieu offrait à ceux qu’il appréciait sa protection et la richesse symbolisée par la possession de troupeaux. Son chariot était conduit par des boucs, là encore un animal associé au Pan grec.

Le dieu latin Faunus, qui fut associé par la suite non sans raison avec Pan, se limitait à protéger les troupeaux contre les loups, d’où son surnom de Lupercus (sans doute « tueur de loup »), alors que Mars était au contraire le protecteur de ces prédateurs. Son rôle était donc mineur. Le dieu des chemins était Terminus et le dieu du commerce, lorsque les Romains s’y adonnèrent, fut Mercure, un néologisme à base de la racine *merk-. Faunus était également le dieu des animaux sauvages auprès de Silvanus, dieu des forêts.

Enfin, le dieu lituanien Pus(k)aitis était le dieu protecteur du pays et le roi des créatures souterraines, avatar déchu d’une grande divinité indo-européenne mais qui avait conservé son rôle de gardien des routes et donc des frontières.

cernunnos-1.jpgLes autres peuples indo-européens, tout en conservant la fonction de ce dieu, oublièrent en revanche son nom. Les Celtes ne le désignèrent plus que par le nom de Cernunnos, le dieu « cornu ». En tant que tel, il était le dieu de la richesse de la nature, le maître des animaux sauvages comme d’élevage, le dieu conducteur des morts et un dieu magicien. Il avait enseigné aux druides son art sacré, d’où son abondante représentation en Gaule notamment. Sous le nom d’Hernè, il a pu s’imposer également chez les Germains voisins. Représenté avec des bois de cerf et non des cornes au sens strict, il était le dieu le plus important après Taranis et Lugus. En revanche, en Bretagne et en Irlande, il était absent. Son culte n’a pas pu traverser la Manche. Chez les Hittites, le dieu cornu Kahruhas était son strict équivalent mais notre connaissance à son sujet est des plus limités.

Dans le panthéon slave, les deux divinités les plus fondamentales était Perun, maître de l’orage et dieu de la guerre, et Volos, dieu des troupeaux. Même si Volos est absent du panthéon officiel de Kiev établi par Vladimir en 980, son rôle demeura sous les traits de Saint Basile (Vlasios) lorsque la Rous passa au christianisme. Il était notamment le dieu honoré sur les marchés, un lieu central de la vie collective, d’où le fait que la Place Rouge de Moscou est jusqu’à nos jours dédiée à Basile. Volos n’était pas que le dieu des troupeaux. Il était le dieu des morts, ne se contentant pas de les conduire en Nav, le royaume des morts, même si la tradition slave évoque éventuellement un dieu infernal du nom de Viy. Il apportait la richesse et la prospérité en même temps que la fertilité aux femmes. Dieu magicien, il était le dieu spécifique des prêtres slaves, les Volkhvy, même si ces derniers avaient charge d’honorer tous les dieux. Perun et Volos s’opposaient souvent, le dieu du tonnerre n’hésitant pas à le foudroyer car Volos n’était pas nécessairement un dieu bon, et la tradition l’accusait d’avoir volé le troupeau de Perun. Une certaine confusion fit qu’on vit en lui un avatar du serpent maléfique retenant les eaux célestes, qui était Zmiya dans le monde slave, un dragon vaincu par la hache de Perun, tout comme Jormungandr fut terrassé par Thor dans la mythologie scandinave.

Dans le monde germanique, aucun dieu ne correspond vraiment au *Pauson indo-européen. La société germano-scandinave n’était pas une civilisation de l’élevage, et les fonctions commerciales relevaient du dieu Odin. Wotan-Odhinn, le grand dieu germanique, s’était en effet emparé de fonctions relevant de Tiu-Tyr (en tant que dieu du ciel et roi des dieux), de Donar-Thor (en tant que dieu de la guerre). Il existait certes un Hermod, dont le nom est à rapprocher de celui d’Hermès, mais qui avait comme seul et unique rôle celui de messager des dieux. Mais c’est sans doute Freyr, dont l’animal sacré était le sanglier, qui peut être considéré comme le moins éloigné de *Pauson. Frère jumeau de Freyja, la déesse de l’amour, il incarnait la fertilité sous toutes ses formes mais était aussi un dieu magicien. On ne le connaît néanmoins pas psychopompe, pas spécialement dédié non plus au commerce, ni à conduire des troupeaux. Wotan-Odhinn là encore était sans doute le conducteur des morts, soit en Helheimr, pour les hommes du commun, soit au Valhöll, pour les héros morts au combat. Le *Pauson proto-germanique a probablement disparu de bonne date, remplacé dans tous ses rôles par plusieurs divinités.

*Pauson était donc un dieu polyvalent. En tant que dieu des chemins, dieu « guide », ce que son nom semble signifier, il patronnait toutes les formes de déplacement, les routes mais aussi les frontières et les échanges. Il était en outre le dieu des animaux sauvages et des troupeaux, qu’il conduisait dans les verts pâturages. Il conduisait même les âmes morts aux Enfers et délivrait aux hommes les messages des dieux, même si ce rôle de dieu messager était partagé avec la déesse de l’arc-en-ciel *Wiris (lituanienne Vaivora, grecque Iris). C’était un dieu qui maîtrisait parfaitement les chemins de la pensée humaine. Les Grecs firent ainsi d’Hermès un dieu créateur et même celui de l’intelligence théorique aux côtés d’Athéna et d’Héphaïstos. Ils lui attribuèrent l’invention de l’écriture et même de la musique. Il est logique d’en avoir fait un magicien, capable de tous les tours et de tous les plans, y compris de s’introduire chez Typhon pour récupérer les chevilles divines de Zeus ou de libérer Arès, prisonnier d’un tonneau gardé par les deux géants Aloades. Sous les traits du romain Mercure, main dans la main avec Mars, il finit par incarner la puissance générée par le commerce, facteur de paix et de prospérité pour la cité autant que les légions à ses frontières.

Son importance était telle que les chrétiens annoncèrent sa mort, « le grand Pan est mort », pour signifier que le temps du paganisme était révolu. Pourtant il ne disparut pas, alors ils en firent leur Diable cornu et aux pieds de bouc. Il conserva ainsi son rôle de dieu des morts mais uniquement pour les pêcheurs, les vertueux accédant au paradis de Dieu.

Thomas FERRIER (PSUNE/LBTF)

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samedi, 23 mai 2015

Archives de Julius Evola en français (1971)

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Archives de Julius Evola en français (1971)

Unique interview en intégralité de Julius Evola en français, vieilli, paralysé mais toujours alerte, quelque temps avant sa mort. Sorte de testament biographique, on y trouvera entre autres les thèmes de l'essence de ses ouvrages, sa période artistique dadaïste, ses rapports avec René Guénon, ainsi qu'avec les régimes politiques de l'époque, et bien d'autres explorations métaphysiques.

(Le bruit sourd s'estompera après les premières vingt minutes)

vendredi, 22 mai 2015

A Vedic Examination of Abrahamism

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A Vedic Examination of Abrahamism

The following article is from chapter 3 of the groundbreaking new work The Dharma Manifesto“, by Sri Dharma Pravartaka Acharya.

By Sri Dharma Pravartaka Acharya

The Abrahamic worldview is today represented by five closely aligned ideological tendencies: 1) Judaism, 2) Pauline Christianity, 3) Islam, 4) Marxism, and to a less significant extent 5) the Baha’i movement. Of these Abrahamic tendencies, Marxism is the only self-stated atheistic one, the others being religious in nature. The greatest real-world challenge and exact philosophical juxtaposition to the entire Dharmic worldview has historically been, and continues to this day to be, the Abrahamic mentality and worldview.

While some very important theological and ritual distinctions can be seen between them all, nonetheless the specifically religious-oriented aspects of Abrahamism – Judaism, Christianity and Islam – share a common worldview, psychological make-up, and guiding ethos. Judaism, Christianity and Islam are historically referred to as the “Abrahamic” religions because all three religions trace their origins to the prophet Abraham, and can thus be seen to be quite similar in many aspects of their respective outlooks. The following are only a few of the similarities that they all share.

1. All three religions have a shared acceptance of the teachings of the Old Testament prophets (Christianity, in addition to the accepting the Old Testament prophets, also accepts Jesus. Islam, in addition to the Old Testament prophets and Jesus, also accepts Muhammad).

2. Anthropomorphic monotheism. The supreme god of Abrahamism is seen in very human terms, including in his exhibition of such very human emotions as anger, jealousy, prejudice and vengeance.

3. A profound sense of religious exclusivity, creating two strictly delineated camps of “believers” in opposition to everyone else.

4. The belief that there is only the sole true faith, and that any other form of religious expression external to the “one true faith” is necessarily wrong.

5. The acceptance of terrorism, violence, mob action, looting and aggressive missionary tactics to spread their religion.

6. A common sense of being at a war to the death with the Dharmic (“Pagan”) world that preceded Abrahamic ascendency.

7. The centrality of unidirectional prayer to commune with their god, with systematic meditation practice playing either little or no part in the practice of their respective religions.

8. A belief in the existence of angels, the devil, demonic spirits, etc.

9. All three teach the bodily resurrection, the Final Judgment, the creation of the soul at the time of conception or birth (as opposed to the soul’s pre-existence, which all Dharmic spiritual traditions teach), the binding effects of sin, etc.

10. The importance of a specific holy day of the week set aside for prayer and rest: For Jews – Saturday. For most Christians – Sunday. For Muslims – Friday.

These are only a few of the elements of the Abrahamic worldview, of which mainstream Christianity is an integral part.

Up until 2000 years ago, the Dharmic worldview was by far the predominant worldview for most of humanity – from Ireland in the West to the Philippines in the East. Though there were thousands of diverse individual cultures, languages, foods, customs and traditions among the ancient Indo-European peoples, most of these ethnically varied cultures were united in their deep respect for, and attempted adherence to, the Natural Way (Dharma).

This ancient uniformity in adherence to Dharma was the case for tens of thousands of years until the radically anti-human and anti-nature Abrahamic ideology suddenly burst upon the world scene 4000 years ago with an evangelical fury, religiously-inspired violence, and zealous civilization-destroying vengeance the likes of which the civilized world had never seen previously. Never before had the multiple ancient and noble pre-Christian cultures of the world ever experienced such massive destruction, death, persecution, forced conversion, and cultural annihilation performed in the name of an artificially expansive religion as it witnessed at the hands of the new Abrahamic ideology that had arrived, seemingly out of nowhere, onto the world stage. It was in the wake of this never before experienced juggernaut of Biblically inspired destruction that the light of Dharma began to swiftly wane, and that Reality as it was known up till then was turned literally on its head.

Religiously inspired imperialism began with the more localized expansion of the Israelites in the Levant region two thousand years before the birth of Christianity.[1] However, it was soon after the appropriation of the original teachings and spiritual movement of Jesus, and the massive expanse of this later, corrupt form of post-Constantine Christianity, that the expansion of the Abrahamic ideology began to take on truly global proportions. As the French thinker Alain de Benoist explains this catastrophe in the context of European history,

“. . . the conversion of Europe to Christianity and the more or less complete integration of the European mind into the Christian mentality, was one of the most catastrophic events in world history – a catastrophe in the proper sense of the word…”[2]

With the ascent of the Abrahamic onslaught came the counter-proportional descent of the Indo-European world’s traditional Dharmic civilizations.

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Christianity, in retrospect, was but one of several artificially constructed, new movements that all fall under the general term “Abrahamic”, named after the infamous founder of fanatical religious exclusivity, Abraham (1812 BC – 1637 BC).  These four anti-nature ideologies are 1) Judaism, 2) Christianity, 3) Islam, and 4) Marxism.  Whether we speak of Judeo-Christian “holy wars” and Inquisitions, or the bloody and unending Islamic jihads against “infidels”, or the genocide of over 100 million people in the name of Marxist revolution, all four of these Abrahamic movements have been responsible for more destruction, loss of life, and social mayhem than all other ideas, religions, and ideologies in world history combined.

The Abrahamic onslaught has been an unparalleled juggernaut of death. More, while all four ideologies have remained seemingly divided by dogmatic, sectarian concerns, all Abrahamic movements have been fanatically united in both their common origin, and in their shared aim of annihilating their perceived enemy of Dharma from the earth, and seeking sole domination of world power for themselves alone. While Judaism, Christianity and Islam have been at war with each other for millennia, they are all united in their insistence that Dharma is their principal hated enemy. The essential driving principle of Abrahamism is to bring about the immediate death of Dharma.

Dharma and Abrahamism are exact opposites in every way.  Dharma and Abrahamism stand for two radically opposed visions for humanity’s future. Dharma stands for nature, peace, diversity, and reason. Abrahamism stands for artificiality, war, uniformity, and fanaticism. They are the only two real ideological poles of any true significance in the last two-thousand years. There has been an ongoing Two-Thousand Year War between these two opposing worldviews that has shaped the course of much of human history since this conflict’s start. Every philosophical construct, religious denomination, political ideology and general worldview of the past two millennia falls squarely into one camp or the other. Every human being living today falls squarely into one camp or the other. Dharma and Abrahamism are the only two meaningful ideological choices for humanity today. And for all too much of the duration of this Two-Thousand Year War, Dharma has been on the losing end as Abrahamism has continuously succeeded in its unrivalled ascendancy.

The destructive ascendancy of Abrahamism is, however, about to come to an end. We are now about to witness a period of Dharmodaya – of Dharma ascending – in this very generation. As is explained in thorough detail in the two books “The Dharma Manifesto” and “Sanatana Dharma: The Eternal Natural Way”, we are about to experience the rebirth of Dharmic and Vedic civilization throughout the totality of our world.

The Dharma world-view represents a positive moral and philosophical alternative to the many ills and cultural distortions of Abrahamic modernity. Vedic culture is human culture, because Vedic culture is the model of spiritual civilization. Our world is not without meaning. Our future is not without hope. Though the darkness of the Kali Yuga (our current “Age of Conflict”) and a civilizational crisis has now descended upon us, the Sun of Dharma will soon be seen again. No cloud can obscure our vision of the Sun forever. We will live to see Dharma triumphant again, and to see a Golden Age of compassion, true culture, and the Natural Way be firmly established.



[1] One of the prime example of such Abrahamist expansion was the conquest of Canaan (circa 1400-1350 BC), described in the Book of Joshua and the first chapter of Judges.

[2] Alain de Benoist, On Being a Pagan, ed. Greg Johnson, trans. Jon Graham (Atlanta: Ultra, 2004), p. 5.

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This article is from chapter 3 of the groundbreaking new political work “The Dharma Manifesto“, by Sri Dharma Pravartaka Acharya.

The Dharma Manifesto serves as the first ever systematic revolutionary blueprint for the nascent global Vedic movement that will, in the very near future, arise to change the course of world history for the betterment of all living beings. The Dharma Manifesto signals the beginning of a wholly new era in humanity’s eternal yearning for meaningful freedom and happiness.

About the Author

Sri Dharma Pravartaka Acharya has been acknowledged by many Hindu leaders throughout the world to be one of the most revolutionary and visionary Vedic spiritual masters on the Earth today.

With a forty year history of intensely practicing the spiritual disciplines of Yoga, and with a Ph.D. in Religious Studies, Sri Acharyaji is one of the most eminently qualified authorities on Vedic philosophy, culture and spirituality. He is the Director of the Center for the Study of Dharma and Civilization.

His most historically groundbreaking politico-philosophical work, “The Dharma Manifesto“, is now offered to the world at a time when its people are most desperately crying out for fundamental change.

samedi, 16 mai 2015

Brocéliande ou la filiation celtique des Européens

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Brocéliande ou la filiation celtique des Européens

par Marie Monvoisin
Ex: http://www.breizh-info.com

Lors du 2ème  colloque de l’Institut Iliade qui s’est tenu à la Maison de la Chimie, à Paris, le 25 avril dernier, Marie Monvoisin a évoqué Brocéliande, haut-lieu de l’univers celtique européen.

En termes de haut-lieu, nous aurions pu évoquer bien des sites de l’hexagone. Mais Brocéliande présente un atout particulier en ce sens que le fonds culturel des Celtes y est toujours présent et qu’il suffit d’y puiser pour retrouver un certain état d’esprit.

Certes, des historiens objectifs vous expliqueront à juste titre que les Celtes sont les vaincus de l’histoire et qu’ils n’ont pu nous transmettre l’essence de ce que l’on subodore de l’âme celte. Il n’empêche que nous en avons connaissance aujourd’hui, et nous pouvons nous la réapproprier, en ces temps troublés de perte d’identité, de perte de sens, et de vagabondage culturel.

N’est-il pas étrange, si l’on y réfléchit, qu’un Européen cultivé n’ignore rien de l’histoire, de la littérature, de la mythologie des anciens Grecs et Romains, mais n’éprouve aucune honte à ne rien connaître des Celtes, alors que les deux tiers de l’Europe ont été celtiques. L’incroyable ignorance de leurs propres ancêtres par les gens cultivés trouve son excuse dans les manuels d’histoire : nos ancêtres les Gaulois étaient des barbares sauvages, et ce sont les Romains qui sont venus leur apporter les lumières de la civilisation, alors que ces conquérants n’ont atteint un haut niveau qu’en copiant leurs voisins, Etrusques, Grecs ou Celtes.

Brocéliande, légendes et mythes

Venons-en à Brocéliande, en quoi est-ce un haut-lieu pour nous autres Européens, et en quoi nous inspire-t-il ? En effet, si on parle d’histoire, concernant Brocéliande, on peut sans exagérer parler d’histoire inventée par des mythes, car les grands événements du monde ne se sont pas déroulés en forêt de Paimpont, mais plutôt du côté de ceux qu’on appelle les Gaulois. L’histoire médiévale a réinscrit cette contrée dans l’histoire européenne avec notre bonne duchesse Anne, mais c’est déjà un autre monde.

En revanche, ce qui forge aussi une âme en matière d’histoire, ce sont les légendes d’un côté et les mythes de l’autre.

Pour autant, à défaut d’histoire, c’est d’abord un haut-lieu en ceci qu’il nous relie à notre filiation celte.

La forêt de Paimpont, puisque c’est son nom administratif, fut toujours habitée par les Celtes. Celtes qui sont un rameau de la famille indo-européenne, et sont passés en Europe en étendant leurs colonies sur le vaste territoire qui deviendra la Gaule, jusqu’à l’Armorique, sylve sauvage impénétrable de l’extrême occident.

Habitée ensuite au sens noble par les druides qui, lors des grandes migrations des Ve et VIe siècles, sous la poussée des hordes anglo-saxonnes, bien que christianisés, n’ont pas rompu avec la tradition celtique druidique, et sont des anachorètes sanctifiés et révérés par le peuple. Ce sont ces druides qui fondent la principauté BroWaroch, qui donnera la Bretagne. Plus tard, au Moyen Age, le massif acquiert sa réputation de forêt légendaire et c’est au XIIe siècle que Brocéliande prend rang dans « les mythiques forêts enchantées » grâce à Chrétien de Troyes, notamment. Les légendes arthuriennes païennes réinvestissent ce lieu en pleine période médiévale chrétienne.

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Le décor est planté pour toujours

Brocéliande est un haut-lieu qui nous inspire également parce que les légendes qui y sont attachées trouvent à la fois un écho au tréfonds de notre esprit européen pour les valeurs qu’elles véhiculent et une certaine esthétique de l’âme.

Nous examinerons le sens du sacré dans la société celtique, la quête du Graal, la place de la femme, l’esprit de clan, l’organisation trifonctionnelle, la forêt.

Une société qui a le sens du sacré

La société celtique ne vit que dans et par le sacré. La classe sacerdotale est prééminente, très hiérarchisée et d’une autorité indiscutée. Les druides sont des initiés qui ont le sacré dans leurs attributions, mais il n’existe pas de différence entre le sacré et le profane : à la fois prêtres et savants, les druides cumulent les fonctions de ministres du culte, devins, conseillers politiques, juges, médecins, penseurs et universitaires. Les études pour parvenir à cet état sont ouvertes à tous, y compris les femmes, et durent 20 ans.

Dans la mythologie instinctive initiale, les Forces de la Nature sont déifiées ainsi que les rythmes cycliques, solaire, lunaire et stellaire. Ce sont les druides qui accompliront l’évolution spirituelle ultérieure.

Une société qui donne naissance à la quête du Graal

Au centre de la cour arthurienne, la Table Ronde rassemble les meilleurs chevaliers, venus du monde entier briguer l’honneur de servir. Alors commencent les expéditions, entreprises sur un signe, une requête, un récit marqué d’étrangeté. Lorsqu’il prend la route, chaque chevalier devient à lui seul l’honneur de la Table Ronde et la gloire du roi. Il forme l’essence même de la chevalerie arthurienne, affirmant la nécessité de l’errance, le dédain des communes terreurs, la solitude qui ne s’accompagne que d’un cheval et d’une épée. Il ne sait ni le chemin à suivre, ni les épreuves qui l’attendent. Une seule règle, absolue, lui dicte de « prendre les aventures comme elles arrivent, bonnes ou mauvaises ». Il ne se perd pas tant qu’il suit la droite voie, celle de l’honneur, du code de la chevalerie.

La nécessité de la Quête est partie intégrante du monde arthurien. Au hasard de sa route, le chevalier vient à bout des forces hostiles. Il fait naître l’harmonie, l’âge d’or de la paix arthurienne dans son permanent va-et-vient entre ce monde-ci et l’Autre Monde, car l’aventure où il éprouve sa valeur ne vaut que si elle croise le chemin des Merveilles. Sinon, elle n’est qu’exploit guerrier, bravoure utilitaire. Seul le monde surnaturel qui attend derrière le voile du réel l’attire, et lui seul est qualifiant.

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Les poètes recueillent la Matière de Bretagne vers le XIIe siècle. La société cultivée européenne découvre les légendes des Celtes, un univers culturel d’une étrangeté absolue. Ce roman, nourri de mythes anciens, donne naissance à des mythes nouveaux, Table ronde, Graal, Merlin, etc. Parmi les référents culturels de l’Europe en train de naître, elle s’impose en quelques dizaines d’années, du Portugal à l’Islande, de la Sicile à l’Ecosse. La légende celtique, mêlée d’influences romanes ou germaniques, constitue en effet une composante fondamentale pour l’Europe en quête d’une identité qui transcende les nécessités économiques et politiques. Mais le thème de la quête représente plus fondamentalement un itinéraire proprement spirituel, initiatique ou mystique même. Elle manifeste un besoin d’enracinement, la recherche de valeurs anciennes – prouesse, courtoisie, fidélité, largesse… -, l’aspiration à l’image idéale de ce que nous pourrions être.

Le roman arthurien n’a pas inventé la quête, mais il lui a donné une couleur et une dimension renouvelées. La quête chevaleresque n’est ni la descente aux enfers d’Orphée ou de Virgile, la fuite d’Enée ou la dérive volontaire d’Ulysse. A travers d’innombrables épreuves, dont on ne sait dans quelle réalité elles se déroulent, elle unit à un voyage qui porte ordre et lumière là où règne le chaos, un cheminement d’abord intérieur, une recherche de perfection et d’absolu.

Une société qui honore la femme

Dans les sociétés européennes anciennes, il faut toujours rappeler que la femme tient une place originale, réelle et influente en tant que muse, inspiratrice, créatrice, sans négliger sa mission de mère, d’éducatrice, et de gardienne du foyer. Dans la société celtique en particulier, les femmes jouent un rôle qui n’est ni effacé ni subalterne : libres, maitresses d’elles-mêmes et de leurs biens, entraînées au combat, elles peuvent prétendre à l’égalité avec les hommes.

Le merveilleux participant pleinement au monde, la femme en est à la fois la médiatrice et l’incarnation. Elle tient une place prépondérante dans les cycles initiatiques. Le but de la fée n’est pas de dominer l’homme, mais de le révéler, de le réveiller. Le partenaire est jaugé pour ses qualités tripartites : ni jalousie, ni crainte, ni avarice. La femme celtique n’est ni intouchable, ni adultérine. Elle reste souveraine. Et force est de constater que la souveraineté celtique vient et tient des femmes.

La Dame est triple : visionnaire, reine et productrice. Son sacerdoce n’est pas limité à la prophétie et à la médecine.

Le mystère qui entoure les cultes féminins témoigne plus d’un secret initiatique que d’une absence. Rappelons enfin qu’Epona, déesse des cavaliers et de la prospérité, est la seule divinité celtique que les Romains incluront à leur calendrier.

Une société qui pratique l’esprit de clan

L’unité sociale des Celtes n’est ni la nation, cette invention de la Révolution, ni la famille comme dans le monde antique. C’est la tribu ou le clan. Dans ce cadre s’épanouit la personnalité, qui est donc collective et non pas individuelle. Le Celte pense « nous » plus que « je ». Et le « nous » est restrictif. Chez les Celtes, leur respect inconditionnel de la coutume est le contrepoids de leurs foucades anarchiques, leur unité culturelle et leurs rassemblements cycliques, le remède à leur dispersion sur le terrain.

Que la forme de vie celtique, essentiellement spirituelle et pratique, ait disparu avec les premières ambitions de « faire nombre » montre combien la celticité est peu compatible avec la modernité. Elle est d’un temps où la notion moderne de sujet n’existait pas, pas plus que la ville avec ses populations hétérogènes, et où la fusion de tout individu avec une réalité spirituelle englobante avait encore une signification pratique et intellectuelle, autant que sociale.

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Une société qui repose sur le modèle trifonctionnel indo-européen

Cette tripartition possède chez les Celtes des traits originaux. Le druide qui est à la fois prêtre, juriste, historien, poète, devin, médecin, représente la première fonction. Le roi, de deuxième fonction, ne peut régner sans les conseils d’un druide qui le guide dans toutes ses actions, même dans la guerre. Le druide ne peut ni ne doit exercer le pouvoir lui-même. Le roi est élu par les hommes libres des tribus, parmi ceux que les druides choisissent ou suscitent. Le druide préside à la cérémonie religieuse qui doit ratifier cette élection. Le druide et le roi ont donc deux obligations fondamentales et conjointes : le druide doit dire la vérité, et le roi doit dispenser les richesses.

Une société qui vit en harmonie avec la nature, dont la forêt est l’archétype

Brocéliande, c’est avant tout une Forêt avec tout ce que ce mot emporte de symboles et de sens.

« D’autres peuples ont élevé à leurs dieux des temples et leurs mythologies mêmes sont des temples. C’est dans la solitude sauvage du Nemeton, du bois sacré, que la tribu celtique rencontre ses dieux, et son monde mythique est une forêt sacrée, sans routes et sans limites. » En Brocéliande, « pays de l’Autre Monde », nous sommes dans l’Argoat, le pays du bois. A Brocéliande, on vient en pèlerinage, pas en balade ; on n’y pénètre pas, c’est la forêt qui entre en nous.

Pour vous aider à plonger dans cette atmosphère singulière, un poème d’Hervé Glot :

« Echine de roc / émergeant du couvert / au-dessus du val des ombres / labyrinthique chemin noir vers la source des orages, Brocéliande n’existe pas / sans un aveuglement spirituel / une mise en état de l’âme. »

Et pour Gilbert Durand : « La forêt est centre d’intimité comme peut l’être la maison, la grotte ou la cathédrale. Le paysage clos de la sylve est constitutif du lieu sacré. Tout lieu sacré commence par le ‘bois sacré’ ».

C’est pourquoi l’atmosphère particulière qui règne sur cette forêt druidique convient au personnage de Merlin. Peu importe l’authenticité de celui-ci, l’essentiel est qu’il soit l’âme traditionnelle celtique. Merlin, à l’image du druide primitif, est à la charnière de deux mondes. Il joue le rôle d’un druide auprès du roi Arthur qu’il conseille. Il envoie les compagnons de la Table Ronde à la quête du mystérieux Saint Graal. Il pratique la divination ; il a pour compagnon un prêtre, l’ermite Blaise, dont le nom se réfère au breton Bleizh qui signifie loup. Or Merlin commande aux animaux sauvages, et est accompagné d’un loup gris. Dans la légende de Merlin, ce qui importe c’est un retour à un ille tempus des origines, à l’âge d’or.

Deux étapes à Brocéliande…

Pénétrons dans la forêt pour deux étapes.

La Fontaine de Barenton d’abord. C’est une fontaine « qui bout bien qu’elle soit plus froide que le marbre », une fontaine qui fait pleuvoir, et qui guérit de la folie. Elle se trouve aux lisières de la forêt, dans une clairière où règne un étonnant silence. Endroit protégé, donc, en dehors du monde, de l’espace et du temps. Et le nom de Barenton incite à la réflexion, abréviation de Belenos, qualificatif donné à une divinité lumineuse telle que Lug, le Multiple-Artisan.

Cette clairière est un Nemeton, un sanctuaire non bâti, isolé au milieu des forêts, endroit symbolique où s’opèrent les subtiles fusions entre le Ciel et la Terre, entre la Lumière et l’Ombre, entre le Masculin et le Féminin. Dans le mot Nemeton, il y a nemed qui veut dire « sacré ». Et donc il est normal que Merlin hante cette clairière, lui qui est au milieu, sous l’arbre qu’on appelle Axis Mundi, et c’est de là qu’il répercute le message qu’il reçoit de Dieu et dont il est le dépositaire sacerdotal.

Le persifleur qu’il représente est la mauvaise conscience d’une société occidentale, comme l’était Diogène le Cynique chez les Athéniens, chargé de provoquer son seigneur en le mettant en face de ses faiblesses.

Une étape s’impose aussi à l’église de Tréhorenteuc, qui par la grâce de l’Abbé Gillard a donné un sanctuaire bâti à la Nemeton celtique : en effet, Jésus y côtoie Merlin et il y est rendu un vibrant hommage au cycle arthurien. Sur le mur de l’église, est gravé « la porte est en dedans », c’est-à-dire en nous. Il faut donc franchir cette porte avant que d’aller en forêt.

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En conclusion

Il s’agissait donc d’évoquer un lieu en rapport avec l’univers esthétique et mental qui est propre aux Européens, où souffle l’esprit, un lieu porteur de sens et de valeurs qui nous sont proches. Brocéliande et le monde celte remplissaient cet office.

Cette intervention veut aussi être un hommage à tous ceux des nôtres qui ont si bien su appréhender la poésie, la magie, l’essence du monde de la forêt, attentifs à cet infinitésimal qui renvoie à l’ordre cosmique. Difficile pour nous, hommes des villes entourés de verre et d’acier, où l’on porte le masque et perd le sens du sacré.

Pour terminer, dans cette enceinte où les acteurs anciens et modernes du monde celte sont évoqués, non seulement pour l’esthétique, mais pour leur rôle dans la formation et l’approfondissement de notre âme européenne, je citerai Bruno de Cessole, évoquant la façon dont Dominique Venner a choisi de partir, et le replaçant à sa manière dans le Panthéon celtique :

« En des temps de basses eaux comme les nôtres, où les valeurs d’héroïsme et de sacrifice sont tenues pour de vieilles idoles dévaluées, voilà qui est incompréhensible aux yeux des petits hommes anesthésiés de cette époque, qui ne sauraient admettre qu’un intellectuel choisisse de se tuer pour prouver que la plus haute liberté consiste à ne pas être esclave de la vie, et inciter ses contemporains à renouer avec le destin ».

Une fois de plus, le Roi Arthur revient. Non pas la figure royale, mais l’univers de liberté et d’imaginaire qu’il convoie. A qui s’interroge sur ces postérités tenaces et ces résurrections insistantes, on peut trouver des raisons diverses et multiples mais la principale, c’est que c’est la plus belle histoire du monde et qu’il suffit de revenir aux récits, à ces mots qui voyagent vers nous depuis plus de huit siècles pour comprendre, comme le souligne Hervé Glot, que les enchantements de Bretagne ne sont pas près de prendre fin. Si avec le mythe de l’éternel retour, le monde médiéval chrétien a connu la résurgence du mythe celte, nul doute qu’à Brocéliande, tôt ou tard, le Roi Arthur reviendra, et pour toujours !

Marie Monvoisin

 Source

dimanche, 10 mai 2015

Lafcadio Hearn and Japanese Buddhism

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Lafcadio Hearn and Japanese Buddhism

by Kenneth Rexroth

Ex: http://www.bobsecrets.org

“In attempting a book upon a country so well trodden as Japan, I could not hope — nor would I consider it prudent attempting — to discover totally new things, but only to consider things in a totally new way. . . . The studied aim would be to create, in the minds of the readers, a vivid impression of living in Japan — not simply as an observer but as one taking part in the daily existence of the common people, and thinking with their thoughts.”

So Lafcadio Hearn wrote to Harper’s Magazine in 1889 just prior to leaving for Japan. He kept this promise so well that by his death in 1904 (as Koizumi Yakumo, a Japanese citizen) he was acclaimed as one of America’s greatest prose stylists and the most influential authority of his generation on Japanese culture. That reputation has dimmed somewhat since then. Changing tastes in literary styles have made Hearn’s work seem old-fashioned, and Japan’s astonishing absorption of Western industrial methods and industrial values have made him for a time irrelevant.

Now interest in ancient Japanese culture and religion is again on the rise, and Hearn’s work, devoted as it is to what he perceived as lasting and essential in Japanese life, is experiencing a revival. From his essays and stories emerges a sensitive and durable vision of how Buddhism was and still is lived in Japan — the ancient Buddhist traditions, rituals, myths, and stories that are still preserved, and their effects upon the beliefs and daily life of ordinary Japanese people.

lafcadio-hearn-1406.jpgLafcadio Hearn was born on the Ionian island of Santa Maura in either June or August 1850 and died in Okubo, Japan in 1904. His father was an Irish surgeon major stationed in Greece and his mother a Greek woman, famous for her beauty. It was she who named him Lafcadio, after Leudakia, the ancient name of Santa Maura, one of the islands connected with the legend of Sappho. In a relatively short lifespan of fifty-four years he managed to live several different literary lives.

From Greece, at two years of age, he went to Ireland, where his father soon obtained a dissolution of marriage from his mother. She was sent back to Greece. His father quickly remarried and went off to India. That is the last Hearn saw of either of them.

His formal education consisted of one year at a Catholic school in France (he just missed Guy de Maupassant, who entered the school a year later and who later became one of his literary idols), and four years at St. Cuthbert’s in England, where he lost one eye in a playing field accident. The disfigurement (the blinded eye was whitened, the good eye protruded from overuse) helped to make Hearn a painfully sensitive and shy person for the rest of his life. At seventeen, as a result of financial and personal misfortunes in the family, he was withdrawn from school. A year later, his uncle gave him passage money to America and advised him to look up a distant relative in Cincinnati. From then on Hearn had to make his own way in the world.

After a year of homelessness and near-starvation in Cincinnati, Hearn got a job as an editor for a trade journal and then as a reporter for the daily Enquirer. His assignment was the night watch, his specialty sensational crimes and gory murders. He had good contacts in the coroner’s office, and his small, shy figure and one-eyed face did not arouse suspicion among the street people. His stories, with their ghastly descriptions, were frequent features that titillated the Enquirer’s readers. The editor reluctantly fired Hearn when rumors began to circulate that he was living with a mulatto woman whom he insisted he had married. (He had, but Ohio law refused to recognize mixed marriages.)

Another daily newspaper, the Cincinnati Commercial, hired him immediately. Here Hearn was allowed to contribute brief scholarly essays, local color stories, and prose poems, as well as the sensational stories that had got him his reputation. But he was restless with this kind of newspaper work, and sick of Cincinnati. In 1877 he quit the Commercial and left for New Orleans.

There he found work as a reporter for the struggling Item, though what he reported was anything he fancied, most often sketches of Creole and Cajun life. His Item essays were eccentric, flamboyant, and often self-indulgent, but they caught the eye of New Orleans’ literary establishment. When the city’s two largest newspapers merged to form the Times-Democrat, Hearn was invited to be its literary editor. He translated and adapted French stories (principally Gautier, Maupassant, Flaubert, and Loti — none of whom yet had a reputation in America); he wrote original stories in the lavish prose style he was perfecting at that time; and he collected local legends and factual narratives. His subjects ranged from Buddhism to Russian literature, from popularizations of science to European anti-Semitism. Altogether he offered the people of New Orleans such unpredictable and exotic fare that his reputation soon spread throughout the South. By this time he had become a disciple of his contemporary, Robert Louis Stevenson (or perhaps vice versa: they developed similarly mellifluous prose styles and shared a fondness for fantastic and exotic subject matter). Hearn was enormously popular. From these years in New Orleans date Stray Leaves from Strange Literatures, 1884, Some Chinese Ghosts, 1887, and a novel, Chita, 1889.

In 1887 Hearn went to the West Indies for Harper’s Magazine and produced Two Years in the French West Indies, 1890, and his last novel, Youma, 1890, an unprecedented story about a slave rebellion.

In 1890 he went to Japan for Harper’s but soon became a school teacher in Izumo, in a northern region then little influenced by Westernization. There he married Koizumi Setsuko, the daughter of a Samurai. In 1891 he moved to Kumamoto Government College.

Hearn was by now well known in America as an impressionistic prose painter of odd peoples and places. For this he was at first celebrated and later deprecated. Yet much of his Japanese work is of an entirely different quality and intention. He wrote to his friend Chamberlin in 1893, “After for years studying poetical prose, I am forced now to study simplicity. After attempting my utmost at ornamentation, I am converted by my own mistakes. The great point is to touch with simple words.” The Atlantic Monthly printed his articles on Japan and syndicated them to a number of newspapers. They were enormously popular when they appeared and became even more so when they were published in two volumes as Glimpses of Unfamiliar Japan, 1894.

In 1895 Hearn became a Japanese citizen and took the name of Koizumi Yakumo. In 1896 he became professor of literature at Tokyo Imperial University, a most prestigious academic position in the most prestigious school in Japan. From then until his death he produced his finest books: Exotics and Retrospectives, 1898, In Ghostly Japan, 1899, Shadowings, 1900, A Japanese Miscellany, 1901, Kwaidan, 1904, Japan, An Attempt at Interpretation, 1904. These were translated into Japanese and became at least as popular in Japan as they did in America.

During the last two years of his life, failing health forced Hearn to give up his position at Tokyo Imperial University. On September 26, 1904, he died of heart failure. He had instructed his eldest son to put his ashes in an ordinary jar and to bury it on a forested hillside. Instead, he was given a Buddhist funeral with full ceremony, and his grave is to this day a place of pilgrimage perpetually decorated with flowers.

At the turn of the century, Hearn was considered one of the finest, if not the finest, of American prose stylists. He was certainly one of the masters of the Stevensonian style. As literary tastes changed, he was thought of more as a writer of pretty but dated essays about Japanese tame crickets and of sentimental ghost stories. After his death, his literary reputation was further damaged by the publication of several collections of his florid earlier work. His all-but-final reputation was as a lush, frothy stylist whose essays and stories were about as important as the pressed flowers likely to be found between their pages.

In fact, Hearn’s Japanese writings demonstrate economy, concentration, and great control of language, with little stylistic exhibitionism. Their attitude of uncritical appreciation for the exotic and the mysterious is as unmistakably nineteenth century as the fine prose idiom with which it is consistent.

lafc2.jpgIn spite of the incredible changes that have taken place in Japan since Hearn’s death in 1904, as an informant of Japanese life, literature, and religion he is still amazingly reliable, because beneath the effects of industrialization, war, population explosion, and prosperity much of Japanese life remains unchanged. For Hearn the old Japan — the art, traditions, and myths that had persisted for centuries — was the only Japan worth paying attention to. Two world wars and Japan’s astonishing emergence as a modern nation temporarily extinguished the credibility of Hearn’s vision of traditional Japanese culture. But both in the West and in Japan interest in the old forms of Japanese culture is increasing. In Tokyo there are still thousands of people living the old life by the traditional values alongside the most extreme effects of Westernization. Pet crickets, for example, still command high prices, and more people apply their new prosperity to learning tea ceremony, calligraphy, flower arrangement and sumi-e painting than ever before. Ghost stories like those told by Hearn are popular on television; three of his own were recently combined to make a successful movie that preserves his title, Kwaidan.

One of the foreigners’ (and Westernized, secularized Japanese intellectuals’) myths of Japan is that the Japanese are a fundamentally secular, irreligious people. Nothing could be less true. The great temples swarm with pilgrims and are packed during their major festivals. Buddhism is more popular than ever. Shinto and Shingon and Tendai Buddhism perpetuate rites that began long before the dawn of Japanese history.

Although it is no longer true, if it ever was, that Japan is totally “Westernized,” it is certainly the most Post-Modern of all the major nations today. With an economy which has ceased to be based on the mechanical, industrial methods of the nineteenth century (really because the old industrial capital structure was destroyed and everything dates from 1946), Japan has moved into the electronic age more completely than any other nation. Yet any Japanese who wishes can still make immediate contact with the Stone Age.

Hearn foresaw the industrialization of Japan and her development of imperialist ambitions. As much as possible he avoided the atmosphere of modernization, spending his summers away from Tokyo at Yaizu, a small fishing village where today there is a Hearn monument. His happiest period in Japan was the early years he spent as a country school teacher in Matsue on the southwest coast. His house and garden there are still preserved, and a Hearn museum is located next door. The essay “In a Japanese Garden” in his book Glimpses of Unfamiliar Japan describes his home and Matsue.

Beginning with Charles Eliot’s Japanese Buddhism, there has grown up an immense bibliography of Buddhological works in Western languages. Since World War II, there is an ever greater store in the United States of books on Zen, which has become a popular form of Existentialism. There is no interpreter of Japanese Buddhism quite like Hearn, but he is not a Buddhologist. Far from it. Hearn was not a scholar, nor was he in the Western sense a religious believer. What distinguishes him is an emotional identification with the Buddhist way of life and with Buddhist cults. Hearn is as good as anyone at providing an elementary grounding in Buddhist doctrine. But what he does incomparably is to give his reader a feeling for how Buddhism is lived in Japan, its persistent influence upon folklore, burial customs, children’s riddles, toys for sale in the marketplace, and even upon the farmer’s ruminations in the field. For Hearn, Buddhism is a way of life, and he is interested in the effects of its doctrine upon the daily actions and common beliefs of ordinary people. Like the Japanese themselves, he thinks of religion as something one does, not merely as something one believes, unlike the orthodox Christian whose Athanasian Creed declares: “Whosoever would be saved, it is necessary before all things that he believe . . .”

One of the things Hearn admires about Buddhism is its adaptability to the spiritual and historic needs of a people. If they need a pantheon of gods, Buddhism makes room for them. If they need to fix upon a savior, Buddhism provides one. But the Buddhist elite, the more learned monks, never lose sight of the true doctrine. I will never forget a symposium in which I once took part along with a number of Buddhist clergy. A Westerner asked the leading Shinshu abbot, “Do you really believe in the existence of supernatural beings like Amida and Kannon, and in a life after death in the True Land Paradise of Amida?” The abbot answered very quietly, “These are conceptual entities.” In fact the Diamond and Womb Mandalas with their hundreds of figures (sometimes represented by quasi-Sanskrit letters) are tools for meditation. The monk moves from the guardian gods at the outer edge, in to the central Buddha — the Vairocana — and at last beyond him to the Adi Buddha — the Pure, unqualified Void.

Yet, popular rather than “higher” Buddhism is Hearn’s main subject, and he always is careful to distinguish between the metaphysically complex Buddhism of the educated monks and the simpler, more colorful Buddhism of the ordinary people.

The only peculiarity in Hearn’s Buddhism is his habit of equating it with the philosophy of Herbert Spencer, now so out of date. However, this presents few difficulties for the modern reader, as his Spencerianism can be said to resemble Buddhism more than his Buddhism resembles Herbert Spencer. Also, it is not Spencer’s Darwinism, “red in tooth and claw,” but Spencer’s metaphysical and spiritual speculations that have influenced Hearn’s interpretation of Buddhism. We must not forget that Teilhard de Chardin, who certainly is not out of date, is, in the philosophical sense, only Herbert Spencer sprinkled with holy water. Philosophies and theologies come and go, but the group experience of transcendence is embedded in human nature, and when it is abandoned, theology, philosophy, and eventually culture, perish.

It is difficult to think of a better guide to Japanese Buddhism for the completely uninformed than Hearn, though there are others who may be his equals. Certainly the popularizers of Zen are not. Zen, after all, is a very special sect, in many ways more Vedantist or Taoist than Buddhist. And of course as the religion of the Japanese officer caste and of the great rich it plays in Japan a decidedly reactionary role. Hearn’s Buddhism is far less specialized than Zen. It is the Buddhism of the ordinary Japanese Buddhist of whatever sect.

The first distinction to be made in any consideration of Buddhism itself is that Christianity is the only major religion whose adherents live lives and hold beliefs diametrically opposed to those of its founder. Nothing could be less like the life of Jesus than that of the typical Christian, clerical or lay. Imagine thirteen men with long beards, matted hair, and probably lice, in ragged clothes and dusty bare feet, taking over the high altar at St. Peter’s in Rome or the pulpit of a fashionable Fifth Avenue sanctuary. The Apostolic life survives in only odd branches of Christianity: the Hutterites, some Quakers, even Jehovah’s Witnesses, but not, as everyone knows, in official and orthodox denominations. Catholicism carefully quarantines such people in monasteries and nunneries where a life patterned on that of the historic Jesus is not wholly impossible to achieve. The opposite is true of Buddhism. No matter how far the sect — Lamaism, Zen, or Shingon — may have moved from the Buddhologically postulated original Buddhist Order, all sects of Buddhism are pervaded by the personality of the historic Siddhartha Gautama.

The historicity of almost all the details of what are generally considered to be the earliest Buddhist documents is subject to dispute and in many instances is improbable. The earliest surviving Life of Buddha was written hundreds of years after his death. The prevailing form of Buddhism in Japan, Mahayana, seems to Westerners more like a group of competing, highly speculative philosophies than a religion. The complete collection of Hinayana, Mahayana and Tantric Buddhist texts makes up a very large library. In addition, there are many thousands of pages of noncanonical commentary and speculation. Yet out of it all emerges, with extraordinary clarity, a man, a personality, a way of life and a basic moral code.

lafc.jpgBuddha was born in Kapilavastu, now Rummimdei, Nepal, sometime around 563 BC and died about 483 BC in Kusimara, now Kasia, India. His personal name was Siddhartha Gautama. Buddha, The Enlightened One, is a title, not a name, as is Shakyamuni, the saint of the Shaka clan. In Japan, the historic Buddha is commonly known as Shakya. He was a member of the Kshatriya warrior caste, the son of the ruler of a small principality.

For six years Buddha lived with five other ascetics in a grove at Uruvela practicing the most extreme forms of self-mortification and the most advanced techniques of Hatha Yoga, until he almost died of starvation. He gave up ascetic life, left his companions, and traveled on. At Bodh Gaya he seated himself under a Bo tree (ficus religiosa) and resolved not to get up until he had achieved true enlightenment. Maya, the personification of the world’s illusion, with his daughters and all the attendant incarnate sins and illusions, attacked him without success. Gautama Siddhartha achieved final illumination, entered Nirvana and arose a Buddha: an Enlightened One. He returned to his five companions at Uruvela and preached to them the Middle Way between self-indulgence and extreme asceticism. They were shocked and repudiated him, but after he had preached to them the Noble Eightfold Way and the Four Truths, they became the first Buddhist monks.

The first Truth is the Truth of suffering: birth is pain, old age is pain, sickness is pain, death is pain, the endless round of rebirths is pain, the five aggregates of grasping are pain. The second Truth is the cause of pain: the craving that holds the human being to endless rebirth, the craving of the passions, the craving for continued existence, the craving for nonexistence. The third Noble Truth is the ending of pain: the extirpation of craving. The fourth Noble Truth is the means of arriving at the cessation of pain: the Noble Eightfold Path, which is right views, right intentions, right speech, right action, right livelihood, right effort, right mindfulness, right concentration (or contemplation). This doctrine is the essence of Buddhism, common to all of its otherwise divergent sects. It is always there, underlying the most extreme forms of Tantrism or Amidism. It produces in the personality of the devout Buddhist what the Japanese would call the iro, the essential color of the Buddha-life.

As Hinduism was taking form in the Upanishads, it began to teach the doctrine of the identity of the individual self, the Atman, and of the universal self, Brahman as Atman. Buddha attacked the Atman doctrine head-on, denying the existence of the individual or absolute self. He taught that the self is simply a bundle of skandhas, the five aggregates of grasping: body, feeling, perception, mental elements, and consciousness. The skandhas that comprise the self are momentary and illusory in the flux of Being — but they do cause and accumulate karma, the moral residue of their acts in this life and in past lives. It is karma which holds the aggregates embedded in the bonds of craving and consequence until the skandhas disintegrate in the face of Ultimate Enlightenment. In the most philosophical teaching of Buddhism, it is the karma and the skandhas which reincarnate. The individual consciousness or soul, as we think of it, disappears. But the universal belief in the reincarnation of the individual person has always overridden this notion. The ordinary Buddhist in fact believes in the rebirth of the self, the atman.

It is these doctrines which distinguish Buddhism. Many ideas which we think of as especially Buddhist are actually shared by Hinduism, by Jainism, and in fact by many completely secular modern Indians — transmigration, Yogic practices (some modern Buddhologists have held that Buddhism is only a special form of Yoga, anticipating its final synthesis in the Yoga Sutras of Patanjali). Vedic gods appear at all the crucial moments in Buddha’s life, from his conception to his entry into final Nirvana. Some time after its inception, Buddhism developed the practice of bhakti, personal devotion to a Savior, parallel to that of Hinduism. But always what distinguishes Buddhism is the Buddha Way, the Buddha-life, the all-pervasive personality of its founder, as the personality of Krishna in the Bhagavad Gita does not.

The fifty years after his illumination Buddha spent traveling and preaching, usually with a large entourage of monks. In his eightieth year he stopped at the home of Cunda the smith, where he and his followers were given a meal of something to do with pigs. The language is obscure — pork, pigs’ food, or something that had been trampled by pigs. Buddha became ill and later stopped in the gardens of Ambhapala, where he announced to his monks that he was about to enter Parinirvana, the final bliss. He lay down under the flowering trees and died, mourned by all creation, monks, laymen, gods, and the lowest animals. His last words were, “The combinations of the world are unstable by nature. Monks, strive without ceasing.”

This is the account preserved by the Pali texts, the sacred books of the Theravada Buddhists, of the religion of Ceylon, Burma, and the countries of the Indo-Chinese peninsula. Pali is a dialect of a small principality in Northern India, now forgotten in its homeland. The Pali texts are earlier than all but fragments of Buddhist Sanskrit documents, but this does not necessarily mean that the Hinayana (“The Lesser Vehicle”) Buddhism which they embody is the most primitive form of the religion. Theirs is simply the religion of the Theravada, “The religion of the Elders,” one of the early sects. However, up until the reign of Ashoka, the saintly Buddhist emperor who ruled more of the Indian subcontinent than anyone before him, Buddhism seems to have been a more or less unified religion resembling the later Hinayana. From the reign of Ashoka to the beginning of the Christian era two currents in Buddhism began to draw more and more apart until Mahayana, “The Greater Vehicle,” became dominant in the North and in Java. All the forms of Japanese Buddhism with which Hearn came into contact are rooted in the Mahayana tradition.

The many Mahayana texts are differentiated from the postulated Buddha Word as it appears in Pali by several radically different, indeed contradictory, beliefs and practices. In Hinayana man achieves Nirvana, or advances towards it in a future life, solely by his own efforts to overcome the accumulated evil karma of thousands of incarnations. There is devotion to the Founder as the Leader of the Way, but no worship, because there is nothing to worship. The difference is the same as that which the Roman Catholic Church calls dulia, adoration of the saints, and latria, adoration of God. Mahayana introduced the idea of saviors, Bodhisattvas, who have achieved Buddhahood but who have taken a vow not to enter Nirvana until they can take all sentient creatures with them. As saviors they are worshipped with a kind of hyper-dulia, as is the Blessed Virgin in Roman Catholicism. Buddhism was influenced by the great wave of personal worship that swept through India, bhakti, the adoration of Krishna, the incarnation of Vishnu, or of Kali, the female embodiment of the power of Shiva. At least theoretically above the Bodhisattvas arose a pantheon of Buddhas of whom Vairocana was primary. Later, an Adi-Buddha was added above him. It is disputable if either properly can be called the Absolute. If there is any absolute in Buddhism, it is Nirvana, which in fact means the religious experience itself. From Vairocana emanate the four Dhyana Buddhas, the Buddhas of Contemplation, of whom Amida is the best known, and of whom the historic Shakyamuni is only one of four, although in his most transcendental form he can be equated with Vairocana or the Adi Buddha.

lafc4.jpgThe story of the development of Mahayana as it spread from what is now Afghanistan and Russian Turkestan to Mongolia and Indonesia to Tibet, China and Japan, while it died out in India, would take many thousands of words to tell. There are traces of Buddhism in China two hundred years or more before the Christian era. Its official introduction is supposed to have occurred in the first century AD. From then until the Muslim conquest of India, Chinese pilgrims visited India and brought back caravan loads of statuaries and sutras (sacred texts) which were translated into Chinese.

Indian missionaries emigrated to China and taught and translated. Buddhism was introduced into Korea in the fourth century and had thoroughly established itself in the three countries of the peninsula by the seventh. From there it passed to Japan in the sixth century.

The first missionaries converted the Soga Clan, which was then the power behind the Japanese throne. For the greater part of a century Buddhism was almost exclusively the religion of a faction of the nobility, and its fortune varied with the factional struggles of the court. In 593 AD Prince Shôtoku became the effective head of state. His knowledge of Buddhism and of the more profound meanings of Mahayana was extraordinary. He not only saved Buddhism from rapidly becoming a cult of magic and superstition, but like Ashoka in India before him, he went far to make it a religion of the people. He copied sutras in characters of gold on purple paper. He preached the doctrines of Mahayana to the common people as well as to the court. He established hundreds of monasteries, nunneries and temples. Not least, he promulgated a kind of charter which modern Japanese called The Seventeen Article Constitution, in which Buddhist ethics and, to a lesser degree, Confucianism were established as the moral foundations of Japan. To this day he is regarded by many as an avatar of Avalokiteshvara, Kuan Yin in Chinese and Kannon or Kwannon in Japanese — the so-called Goddess of Mercy and the most popular of all Bodhisattvas.

By the eighth century Buddhism had become Japan’s official state religion, a feat Hearn credits to Buddhism’s absorption and expansion of the older Shinto worship of many gods, ghosts, and goblins (the gods, Buddhas or Bodhisattvas, the ghosts beings in transit from one incarnation to another, and the goblins, gakis, beings suffering in a lower state of existence). By the thirteenth century most of the major forms of Japanese Buddhism — a religion quite distinct from Buddhism elsewhere in the world — had been established, though minor sects continued to proliferate.

Ten large sects dominate Japanese Buddhism. The oldest of these are Tendai and Shingon. First was Tendai, established by the monk Saichô in 804 on Mt. Hiei northeast of Kyoto (Heian kyo), facing the most inauspicious direction. Not long afterwards the monk Kukai returned from China and introduced Shingon, which became the Japanese form of Tantric Buddhism. In China, Tendai attempted a synthesis of the various schools and cults in the great complex of monasteries on Mt. T’ien Tai. The similar monastic city on Mt. Hiei sheltered a wide variety of cults, doctrines, and philosophies. Basically, however, Japanese Tendai modified what in India was known as “right-handed” Tantrism, which we see today in the Yellow Hat sect of Tibetan Lamaism in exile. All the great Buddhist sutras were studied, the doctrine of the Void, the doctrine of Mind Only, the vision of reality as the interpenetration of compound infinitives of Buddha natures of the Avatamsaka Sutra, and the complex panpsychism of the Lankavatara Sutra. Most popular, however, was the Lotus Sutra (Hokkekyo in Japanese), the Saddharma Pundarika Sutra, the only major Buddhist document a Japanese lay person is at all likely to have read. Tendai is a ceremonial religion, and only in recent years has it done much for the laity except to permit them to participate in pilgrimages and to watch public ceremonies.

Shingon is even more esoteric than Tendai and is in fact Japanese Lamaism. Its doctrines are occult, its mysteries are not divulged to the people, and many of its rites are kept secret. The worship of Buddhas and Bodhisattvas as sexual dualities or as terrifying wrathful figures is not as common in Japan as in Tibet, though in both cultures the emphasis on magic formulas, gestures, spells and special methods of inducing trance remains essential. It is not known how many Tantric shastras (scriptures secondary to sutras) survive and are studied in Shingon monasteries, but recent discoveries and paintings of this literature are read by the more learned Japanese monks. “Left-handed” Tantrism, with its cult of erotic mysticism, survives underground in Tachigawa Shingon.

The worship of Amida which began in India around the advent of the Christian era, almost certainly under the influence of Persian religion, effected a complete revolution in Japanese Buddhism when it was introduced in the ninth century. Originally sheltered within the Tendai sect, Amidism grew to be the most popular form of Buddhism in Japan — and the one with which Hearn was most familiar. Amida is the Buddha of Endless Light whose paradise, The Pure Land, is in the west. He has promised that any who believe in him and call on his name will be saved and at death will be reborn in his Pure Land. Buddha, of course, insisted that by oneself one is saved and thus achieves, not paradise, but Nirvana, which far transcends any imaginable paradise. Hearn, however, observed that few Japanese even knew of the concept of Nirvana. For them Amida’s Pure Land was the highest heaven imaginable. Buddha also forbade worship of himself or others and considered the gods inferior to human beings because they could not escape the round of rebirths and enter Nirvana. Amidism, as a gesture to orthodoxy, teaches that the older Buddhism is too hard for this corrupt age and that the Pure Land, unlike other paradises, provides a direct stepping stone to Nirvana. As the Amidist sects developed in Japan, the doctrine of salvation by faith became more and more extreme. At first, it was necessary to invoke the name of Amida many times a day and especially with one’s last words, but finally one had only to invoke it once in a lifetime. This was enough to erase the karma, the consequences, of a life of ignorance and sin.

The Japanese monk Nichiren, who played a role not unlike that of the Hebrew Prophets, taught that salvation could be won by reciting the words “Namu Myohorengekyo,” “Hail to the Lotus Sutra!” The Lotus Sutra is a sort of compendium of Mahayana Buddhism, lavishly embroidered with miraculous visions, with thousands upon thousands of Buddhas, Bodhisattvas, gods, demigods and lesser supernatural beings. But its important chapter is the Kannon (Avalokiteshvara), which raises the Bodhisattva to a position similar to that of Amida, The Savior of the World, “He Who Hears The World’s Cry.” The earliest Kannon statues and paintings seem to have reached Japan from the oasis cities of Central Asia. Their peculiar sexlessness led the Japanese, as it did the Chinese, to think of the Bodhisattva as a woman. Not just Westerners, but most Japanese, refer to him as the Goddess of Mercy, and cheap modern statues which depict him holding a baby bear a striking resemblance to popular representations of the Virgin Mary.

The secret of the tremendous success of Amidism and Nichirenism is that they are congregational religions. The largest of all Buddhist sects, the Amidist Jodo-Shinshu, is in this sense much like a modern Christian denomination. But in other respects, and despite its tremendous pilgrimages, Buddhism seems inaccessible to the common Japanese. Very few people know anything about the profound and complex metaphysics of the Mahayana speculation. A surprising number do know the life of Buddha as it is told in Hinayana, which scarcely exists in Japan, and do try to model their lives on the Buddha-life — with remarkable success. But for most secular Japanese, a Buddhist monk is just a kind of undertaker, to be called upon only when somebody dies.

Zen Buddhism cultivated a special sensibility that many Japanese people think of as Japanese. The tea ceremony, sumi-e ink painting, the martial arts (archery, sword play, jiu-jitsu, judo, aikido, wrestling), flower arrangement, pottery, and haiku survive as creative expressions of the Zen sensibility in pursuit of perfection. But this sensibility has weakened in most modern Japanese.

Zen is often translated as Enlightenment (Ch’an or Dhyana), but it means something like illumination, specifically illumination achieved by systematic religious meditation of the kind we identify as yoga. It is supposed to have been introduced to China by a missionary Indian monk, Bodhidharma, probably in the sixth century. It spread to Japan in the thirteenth as the long civil wars were beginning, became popular with the military castes and the great rich, and for a long time dominated the intellectual and artistic life of the country. Zen owed its powerful influence to the fact that it began as a revolt against the Buddhist cults of its time and reverted to what the nineteenth century was to call “Primitive” Buddhism. It rejected the salvation by faith and the devotional worship of Amidism, the cults of Kannon and the Lotus Sutra (“By yourself alone shall you be saved,” says Gautama). It reinstated yogic meditation with a view to final enlightenment as the central and essential practice of the Buddhist religious life. Finally, it reinstated Shakyamuni himself, Shaka, as he is known in Japanese: its special interpretation of the Buddha-life is modeled on his.

Since World War II, Zen Buddhism has become enormously popular in the West, and largely in response to its reception here it has seen an intellectual revival in Japan. Although Hearn was familiar with Zen theories and practices, and had Zen Buddhist friends, he wrote little about the sect that was to become the most influential in the West. Neither Zen as a manifestation of aristocratic traditions nor Zen as a popular fad interested him. Instead, he kept his eye on what had persisted in Japanese Buddhism through the centuries among the farmers, fishermen, and other poor folk. Many of their beliefs inform their stories, and many of their customs in turn have stories behind them. It was the survival of Buddhism in such forms that above all else engaged Hearn.

Hearn’s role in the spread of Buddhism to the West was a preparatory one. He was the first important American writer to live in Japan and to commit his imagination and considerable literary powers to what he found there. Like the “popular” expressions of Buddhist faith that were his favorite subject, Hearn popularized the Buddhist way of life for his Western readers. And he was widely read, both in his articles for Harper’s Magazine and the Atlantic Monthly, and in his numerous books on Japan. Hearn’s essays, with their rich descriptions and queer details, almost never generalizing but staying with a particular subject, always backed by the likeable and enthusiastic personality of Hearn himself, and always factually reliable, satisfied the vague and growing curiosity of his American readers about the mysterious East.

At St. Cuthbert’s school, at age fifteen, Hearn had discovered that he was a pantheist. That is not unusual for a fifteen-year-old, and the fact that pantheism is unaccepted in Christian doctrine or in Western philosophical thought normally suffices to extinguish the common adolescent philosophy or to transmute it to something less vulnerable. But the idea stuck with Hearn, and when finally, at forty, he arrived in Japan, he was delighted to find that he could now exercise and explore his intuition of God-in-All. If Hearn entered Japanese culture and achieved understanding of Japanese Buddhist (and Shinto) thought with unprecedented rapidity for a Westerner, it is because his own spirit had always longed for an atmosphere in which his belief in the sentience and blessedness of all Nature could flourish.

Hearn never became a Buddhist, and he remained skeptical about certain of Buddhism’s key doctrines — such as the relationship of karma and rebirth — but he passionately believed that Buddhism promoted a far better attitude toward daily life than did Christianity. It would be up to more scholarly and less imaginative writers to begin to translate and preach specific Buddhist doctrines, but Hearn has done much to translate the spirit of Japanese Buddhism and to prepare Western society for it.

KENNETH REXROTH
1977

 

This essay was originally published as the Introduction to The Buddhist Writings of Lafcadio Hearn (1977). It was reprinted in World Outside the Window: Selected Essays of Kenneth Rexroth (1987). The Buddhist Writings collection is out of print, but dozens of other Hearn books are still available.

Copyright 1987 Kenneth Rexroth Trust. Reproduced by permission of New Directions Publishing Corp.

 

jeudi, 19 mars 2015

Norooz, Persian New Year

Shakila Norouz Eid Persian New Year Song

 

Norooz, The Persian New Year

 

jeudi, 05 mars 2015

Island baut erste nordische Kultstätte seit Wikingerzeit

Island baut erste nordische Kultstätte seit Wikingerzeit

Ex: http://www.der-dritte-weg.info

Nachdem die Zahl der Anhänger der nordischen Glaubensrichtung sich auf Island seit dem Jahr 2000 verfünffacht hat, soll in der isländischen Hauptstadt Reykjavík erstmals seit der Wikingerzeit wiedereine heidnische Kultstätte entstehen.Nach der Christianisierung Islands im Jahre 1000 durfte das Heidentum nicht mehr praktiziert werden.

Die Insel-Zeitung "The Independent" berichtet, daß die Glaubensgemeinschaft Ásatrúarfélagið, auf Deutsch „Gemeinschaft der Asen-Gläubigen“, ein Kultgebäude für die Götter mitten in Reykjavík auf einem Hügel, der die Stadt überblickt, errichten will. Die heidnische Kultstätte soll aus einem Gebäude mit einer Kuppel bestehen, so der "Indepent" weiter. In dem neuen Gebäude werde man heiraten können, Begräbnisse begehen, Lebensleiten feiern sowie das traditionelle Blót-Fest feiern können, bei dem mit Horn-Bechern auf die Götter angestoßen und zusammen gespeist wird.

Auch in Deutschland finden sich Ableger des Asen-Glaubens. Die Artgemeinschaft – Germanische Glaubens-Gemeinschaft wesensgemäßer Lebensgestaltung wurde 1951 gegründet. Die Artgemeinschaft versteht sich als Glaubensgemeinschaft von Menschen, die von nordisch-germanischer Art sind. Sie orientiert sich nicht am germanischen Polytheismus, sondern pflegt wie andere Deutschgläubige eher einen arteigenen Monotheismus und bezeichnet ihr „nordisch-germanisches Heidentum“ als Artbekenntnis und beruft sich auf die germanischen Sittengesetze.

dimanche, 15 février 2015

David Herbert Lawrence: vers un paganisme solaire

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David Herbert Lawrence: vers un paganisme solaire

Un auteur maudit?

par Jean-Christophe Mathelin

Ex: http://www.archiveseroe.eu

L’écrivain — et peintre — britannique David Herbert Lawrence (1885-1930), que l’on ne confondra pas avec son compatriote et contemporain T.E. Lawrence, alias Lawrence d’Arabie, est essentiellement connu des lecteurs de langue française pour deux romans : L’Amant de Lady Chatterley et Le Serpent à plumes. Le premier participa aux émois de quelques générations d’adolescents (j’en suis !) qui l’empruntaient clandestinement dans la bibliothèque de leurs parents. Ajoutons que le film de J. Jaeckin (1981) avec Sylvia Christel (Emmanuelle) dans le rôle de lady Chatterley renforçait l’impression du grand public selon laquelle D.H. Lawrence n’était qu’un auteur érotique (1). Pourtant le public cultivé savait que cet écrivain “osé”, dont certaines œuvres furent interdites dans son pays, avait aussi écrit Le Serpent à plumes, du nom de la divinité aztèque Quetzalcoatl. Ce roman d’aventures mexicaines connut un grand succès de librairie dans les années 50, et passa même en épisodes quotidiens radiodiffusés sur France Culture, à l’occasion du cinquantenaire de sa publication, en 1976. D.H. Lawrence a écrit, outre une douzaine de romans, à peu près autant d’essais, 70 nouvelles, quatre pièces de théâtre et quatre recueils de poèmes.

Compte tenu de sa mort relativement précoce — il avait 45 ans —, l’œuvre est donc considérable. Lorsque l’on s’y plonge, on découvre que l’aspect sensuel de Lawrence n’est qu’une des composantes de sa conception philosophico-religieuse, beaucoup plus vaste, “païenne”, c’est-à-dire traditionnelle et cosmique.

En effet, Lawrence ne renoue-t-il pas avec l’idéal grec antique lorsqu’il affirme : « la vie n’est supportable que quand le corps et l’esprit sont en harmonie, qu’un équilibre naturel s’établit entre eux et que chacun des deux a pour l’autre un respect naturel ». Selon lui, « l’amour physique (…) permet de renouer avec les forces instinctives et naturelles de l’existence », forces éteintes dans l’homme occidental par le mode de vie moderne. De même, il reproche au Christianisme (dans lequel il a été élevé) d’être dépourvu du sens vital, d’être, comme l’avait vu Nietzsche, une religion du ressentiment collectif. À l’inverse, la sacralisation de la sexualité par le Paganisme permettait, en reconnaissant à l’homme et à la femme leur complémentarité, par-delà leurs différences, de participer à l’Ordre du Monde (2). Lawrence, pour qui la sexualité n’est pas synonyme d’orgies, écrit : « La communion des deux fleuves de sang de l’homme et de la femme, dans le sacrement du mariage, parachève la création : elle complète le rayonnement du Soleil et le rutilement des étoiles ».

Dans le présent article, nous nous intéresserons particulièrement à l’aspect païen et surtout solaire de l’écrivain car dans la conception cosmique flamboyante de Lawrence, le Soleil occupe une place centrale, comme nous le verrons à travers quelques-uns de ses ouvrages.

Un roman païen : “Le Serpent à plumes”

dhl2268068633.jpgCette fresque mystico-politique a été écrite dans un village du Nouveau-Mexique en 1925. L’action se passe au Mexique, riche de son passé, mais usé, décadent, vidé de sa substance par les trois grands maux apportés par l’homme blanc, qui sont (selon Lawrence) le Christianisme, l’américanisme, le socialisme. Un homme est particulièrement conscient de cette déchéance, c’est l’archéologue-historien Don Ramon. Cet aristocrate de l’esprit sait pourtant qu’une chose pourra sauver son pays : le retour, aux anciennes valeurs, incarnées par le Dieu Quetzalcoatl, fils du Soleil, Seigneur de la Sagesse et de l’étoile du matin. Don Ramon ne se dissimule pas les difficultés de l’entreprise : pour amener le Mexique à renouer avec ses traditions glorieuses, il lui faudra combattre à la fois l’amour universel de la religion trompeuse, le culte du dollar et la classe politique corrompue. Tâche immense dans laquelle il sera aidé par Don Cipriano, un général auquel ses hommes ont voué leur vie pour rétablir le culte de Huitzilopochtli, Dieu du Soleil et de la guerre. Unis par un idéal commun et une amitié sans faille, « l’homme de Quetzalcoatl » (Ramon l’Européen) et « l’homme de Huirzilopochtli » (Cipriano l’indien) mènent une sorte de croisade païenne, qui connaît un succès croissant auprès du peuple. Celui-ci est en effet sensible aux beaux hymnes de Ramon, qui annoncent que Jésus ayant fait son temps, les anciens Dieux vont renaître. Une Irlandaise, Kate, se joint à eux. Fascinée par ce retour d’un pays à sa culture ancestrale, déçue par la société moderne, elle ira jusqu’à épouser Cipriano (bien qu’il lui reste toujours étranger) et devenir ainsi Malitzi, la Déesse de la végétation. Mais le jour où la religion de Quetzalcoatl sera déclarée religion officielle du Mexique, Kate repartira vers l’Europe. Don Ramon la charge d’une mission : « Dites aux gens de votre Irlande de faire comme nous ici ». C’est là que le livre de Lawrence prend tour son sens. À travers Ramon, c’est aux Européens que Lawrence s’adresse, car, malgré ses errances aux quatre bouts du monde (motivées par les persécutions subies en Angleterre), il n’a jamais cessé de penser au salut de l’Europe. Ramon, bâtisseur d’une nouvelle histoire, jette un pont entre le plus lointain passé et le plus lointain futur, là où l’homme atteindra à la plus grande vie. À l’opposé du cosmopolitisme uniformisant, il souhaite que chaque peuple retrouve ses racines spirituelles, chacun invoquant son Hermès, son Wotan ou son Mithra.

La solarité au féminin : “L’Amazone fugitive”

Deux ans après Le Serpent à plumes, paraissait ce recueil de nouvelles, du titre de la plus longue et de la plus connue d’entre les nouvelles. L’Amazone fugitive est inspirée, elle aussi, du séjour de Lawrence au Nouveau-Mexique, et de son admiration pour ces Indiens Pueblos, adeptes du culte solaire (3). Lawrence met à nouveau en scène une femme blanche au Mexique. Comme Kate, elle est désillusionnée par une vie terne. Elle décide un jour d’abandonner le ranch de son mari et ses enfants pour rejoindre une mystérieuse tribu indienne, censée avoir conservé l’antique religion aztèque. Au terme de son périple, l’amazone fugitive rencontre trois Indiens qui la conduisent enfin dans la fameuse tribu.

« Il dit : Pourquoi a-t-elle quitté sa maison et les hommes blancs ? Veut-elle apporter le Dieu de l’homme blanc aux Chilchuis ? Non, répliqua-t-elle avec témérité. J’ai quitté moi-même le Dieu de l’homme blanc. Je suis venue chercher le Dieu des Chilchuis. (…) Il demande si vous avez apporté votre cœur aux Dieux des Chilchuis, traduisit le Jeune Indien. Dites-lui que oui, répondit-elle automatiquement. »

Traitée avec égard par ses hôtes, dont elle est néanmoins prisonnière, elle découvre peu à peu l’importance fondamentale du culte solaire pour ces Indiens. Elle réalise ainsi le sens inconscient de sa fuite : venir s’offrir en sacrifice au Dieu-Soleil. Même si cette idée lui fait parfois horreur, elle comprend qu’elle doit aller jusqu’au bout de sa quête, sans regrets :

«  Faut-il que je meure et que je sois livrée au Soleil ? demanda-t-elle.

- Un jour, dit-il avec un sourire évasif. Un jour ou l’autre nous mourrons tous. »

Nous trouvons ici un autre thème lawrencien : plutôt une mort glorieuse et volontairement choisie (on pense ici aux kamikaze) que de vivre en mort-vivant , comme la société moderne nous l’impose. Pendant les mois précédant le solstice d’hiver, où elle sera sacrifiée, elle sentira se développer en elle les mille liens la reliant à l’Univers. Lawrence est un animiste et un panthéiste convaincu ; il décrit admirablement « ce sentiment exquis (…) de se fondre dans la beauté et l’harmonie des choses » : 

« Alors elle entendit les grandes étoiles, qu’elle voyait au ciel dans l’encadrement de sa porte ouverte, parler par leur mouvement et leur éclat, faire des confidences au Cosmos tandis qu’elles dansaient en formant de parfaites figures pareilles à des clochettes au firmament et se croisaient et se groupaient dans la danse éternelle, séparées par des espaces sombres. Et, les jours froids et nuageux, elle entendait les flocons de neige qui gazouillaient et sifflaient timidement dans le ciel comme des oiseaux qui s’assemblent et s’envolent en automne, puis brusquement poussaient un cri d’adieu vers la lune invisible et s’esquivaient des plaines de l’air en dégageant une douce chaleur. Elle-même criait à la Lune invisible de ne plus être en colère, de refaire la paix avec le Soleil invisible comme une femme qui cesse d’être irritée dans sa maison. Et elle sentait que la Lune se radoucissait pour le Soleil dans le ciel hivernal quand la neige tombait avec un abandon languissant et glacé, tandis que la paix du Soleil se mêlait dans une sorte d’unisson à la paix de la Lune ».

dhl214.jpgEt le jour venu, c’est sans état d’âme qu’elle accomplira son destin. Une autre nouvelle du même recueil, intitulée Soleil, reprend encore ce thème de la femme mûre insatisfaite de son existence, mais il est traité de manière beaucoup plus pacifique, comme un conte naturiste. Juliette quitte les États-Unis, où elle dépérit, pour le Soleil de la Méditerranée. Là commencera pour elle une nouvelle existence à travers un face à face quotidien avec l’Astre divin (évoquant l’expérience d’Anna de Noailles [4]). Elle s’épanouira enfin sous ses rayons qui harmonisent à la fois le corps et l’âme :

« À sa connaissance du Soleil, à la certitude que le Soleil la connaissait dans le sens cosmique et charnel du mot, s’ajoutait une impression de détachement et un certain mépris pour tous les êtres humains. Ils étaient si loin des éléments primordiaux, si privés de Soleil. Ils étaient pareils aux vers des cimetières. »

Le jugement très dur de Lawrence sur ses contemporains résulte de sa conception selon laquelle « la seule raison de vivre est d’être pleinement vivant ». Or Lawrence reproche à la civilisation moderne de tuer l’étincelle divine dans l’individu, qui apparaît, dès lors, comme incomplet, endormi. Seul l’homme “primitif”, qu’il a rencontré notamment chez les Indiens, est pleinement humain car il se fie à son instinct. Cet homme a de plus à ses yeux l’immense avantage « d’avoir conservé avec l’Univers des liens mystérieux ».

Le nouveau Discours sur Hélios-Roi : “Apocalypse”

dhl19613.jpgCette pensée, que Lawrence exprime de manière allégorique dans ses romans et nouvelles, sera explicite dans son dernier ouvrage, paru un an après sa mort, et qui représente son testament spirituel. Apocalypse est l’étude fouillée du texte de Jean de Patmos, qui clôt le Nouveau Testament. Si la notion même d’apocalypse lui répugne, à cause de cet « ignoble désir de fin du monde », Lawrence s’intéresse à cet écrit car il y découvre deux influences opposées. Tout d’abord, le message de ceux qui « ne peuvent même pas supporter l’existence de la Lune et du Soleil », mais par-delà la strate judéo-chrétienne, il y trouve une strate païenne. Car pour faire passer de manière frappante cette vision apocalyptique, le ou les auteurs ont eu recours à un langage, à une symbolique cosmiques, donc païens (5). L’étude de l’Apocalypse est ainsi pour Lawrence prétexte à comparer entre elles ces deux conceptions du monde antagonistes :

« Ne nous figurons pas que nous voyons le Soleil comme le voyaient les civilisations anciennes. Nous ne voyons qu’un petit luminaire scientifique, réduit à un ballon de gaz enflammé. Dans les siècles précédant Ézéchiel et Jean, le Soleil était encore une réalité magnifique. Les hommes en tiraient force et splendeur, et lui rendaient hommage, lustre et remerciements. À l’époque de Jésus, les hommes ont fait du ciel une machine de destin et de fatalité, une prison. Les chrétiens s’évadaient de cette prison en reniant radicalement le corps. Mais hélas, quelles petites évasions, ces évasions par reniement ! — ce sont les plus fatales des évasions. La chrétienté et notre civilisation idéaliste n’ont été qu’une longue évasion, cause de stagnation infinie et de misère — la misère que les gens connaissent aujourd’hui, qui ne vient pas d’un manque physique, mais d’une façon plus mortifère, d’un manque de désir vital. Mieux vaut manquer de pain que manquer de vie — grande évasion dont le seul fruit est la machine ! »

Lawrence développe sa vision d’un Paganisme solaire, qui rejoint l’expérience des grands mystiques et anticipe l’inconscient jungien :

« Et certaines des grandes images de l’Apocalypse remuent en nous d’étranges profondeurs, nous procurent une étrange et sauvage vibration pour la liberté, la vraie liberté : fuite vers quelque chose et non fuite vers nulle part. Fuir la petite cage exiguë de notre univers, exiguë car elle n’est qu’une extension à sens unique, une suite morne sans aucune signification ; la fuite vers le Cosmos vital, vers un Soleil à la vie grande et sauvage, qui abaisse ses regards pour nous raffermir, ou bien, foudroyant, merveilleux, passe son chemin. Qui dit que le Soleil ne peut pas me parler ! Le Soleil a une vaste conscience flamboyante, moi j’en ai une petite. Quand j’arrive à me débarrasser de mon fatras d’idées et de sentiments personnels, et à descendre jusqu’à mon être solaire dépouillé (6), alors le Soleil et moi pouvons nous entretenir sur l’heure, échange flamboyant, il me donne vie, Soleil de vie, et je lui envoie un peu d’une vivacité nouvelle venue d’un monde au sang vif — le grand Soleil (…) aime le sang rouge et vif de la vie, et peut l’enrichir à l’infini si nous savons comment le recevoir.  »

Ce Paganisme solaire est naturellement complémentaire d’un Paganisme lunaire :

« Et nous avons perdu la Lune, la Lune fraîche, brillante et changeante. C’est elle qui peut toucher nos nerfs, les polir de son rayonnement soyeux et les policer par sa fraîche présence. Car la Lune est la maîtresse et la mère de nos corps aquatiques, le corps pâle de notre conscience nerveuse et de notre chair moite. La Lune pourrait nous apaiser et nous guérir entre ses bras comme une grande et fraîche Artémis. Mais nous l’avons perdue, nous l’ignorons dans notre stupidité, et rageuse, elle nous fixe et nous cingle de coups de fouet nerveux. Oh ! prenons garde à la coléreuse Artémis des cieux nocturnes, prenons garde à la rancune et au croissant d’Astarté.  »

Mais attention, prévient Lawrence, le culte solaire n’a rien à voir avec la moderne “bronzette” :

«  Nous ne pouvons nous assimiler le Soleil en nous couchant tout nus comme des cochons sur une plage. Le Soleil lui-même qui nous bronze nous désagrège du dedans (…) il ne peur que fondre sur nous et nous détruire (…) dragon de destruction et non plus faiseur de vie. (…) Nous ne pouvons nous assimiler le Soleil que par une sorte de culte, de même avec la Lune — en décrétant un culte au Soleil ».

Il s’agit d’un état de conscience et d’un vitalisme (7) :

« Il y a une éternelle correspondance vitale entre notre sang et le Soleil : il y a éternelle correspondance vitale entre nos nerfs et la Lune. Si nous perdons le contact et l’harmonie avec la Lune et le Soleil, tous deux se retournent contre nous comme deux grands dragons de destruction. Le Soleil est une source de vitalité sanguine, il rayonne de force à notre égard. Mais si une fois nous lui résistons en disant : ce n’est qu’un ballon de gaz ! — alors la vraie vitalité rayonnante de sa lumière se change en subtile force désagrégeante et nous défait. Même chose pour la Lune, les planètes, les grandes étoiles. Ce sont nos producteurs ou nos destructeurs, il n’y a pas d’échappatoire. »

Ce Paganisme est aussi un panthéisme (8) :

« Le Cosmos et nous-mêmes ne faisons qu’un. Le Cosmos est un grand organisme vivant dont nous faisons toujours partie. Le Soleil est un grand cœur dont les pulsations parcourent jusqu’à nos veines les plus fines. La Lune est un grand centre nerveux étincelant d’où nous vibrons sans cesse. Qui peut dire le pouvoir que Saturne a sur nous, ou Vénus ? C’est un pouvoir vital, ondoiement extrême qui nous traverse sans interruption. Et si nous renions Aldébaran, Aldébaran nous transperce d’infinis coups de poignards. Celui qui n’est pas avec nous est contre moi ! — c’est la loi cosmique. Et tout ceci est vrai à la lettre, comme le savaient les hommes du temps passé, et comme ils le sauront à nouveau ».

Malheureusement, le lien cosmique s’est dégradé depuis l’Antiquité jusqu’à nos jours :

« Or la connexion en nous est rompue, les centres sont morts. Notre Soleil, tellement plus banal, est tout autre chose que le Soleil cosmique des Anciens. Nous pouvons voir ce que nous appelons Soleil, mais nous avons perdu Hélios pour toujours, et plus encore le grand globe des Chaldéens. Nous avons perdu le Cosmos, nous en avons déconnecté notre sensibilité, c’est notre principale tragédie. Qu’est-ce que notre minable petit amour de la nature — la Nature — comparé à une ancienne et magnifique vie commune avec le Cosmos, honorée du Cosmos ! (…) Le Soleil ne nous nourrit plus, ni la Lune. En langage mystique, la Lune s’est obscurcie et le Soleil est devenu noir. Quand j’entends des gens modernes se plaindre d’être seuls, je sais ce qui est arrivé. Ils ont perdu le Cosmos ».

Il nous faut donc retrouver une sensibilité, une conscience cosmiques :

«  Nous ne manquons ni d’humanité ni de subjectivité ; ce dont nous manquons, c’est de vie cosmique, du Soleil en nous et de la Lune en nous. (…) Maintenant, il nous faut retrouver le Cosmos, et ça ne s’obtient pas par un tour de passe-passe mental. Il nous faut revivre tous les réflexes de réponse qui sont morts en nous. Les tuer nous a pris deux mille ans. Qui sait combien de temps il faudra pour les ranimer ?  »

Nous avons ici l’ouvrage capital de la pensée lawrentienne, qui expose dans un style éblouissant son Paganisme panthéiste et solaire. Un des plus beaux discours sur Hélios-Roi depuis celui de l’Empereur Julien ! On peut considérer cet écrit inclassable (9), mais sublime, comme le successeur du Zarathoustra de Nietzsche, auquel il s’apparente par le style et la recherche de valeurs supérieures (10).

Les poèmes solaires de Pensées

Parues également à titre posthume, quelques années après Apocalypse, on retrouve dans ce recueil les différentes facettes de l’auteur. Le Soleil y est omniprésent, comme dans le charmant poème « Femmes solaires  », qui rejoint totalement le personnage de Juliette :

« Comme ce serait étrange si des femmes s’avançaient et disaient :

Nous sommes les femmes solaires !
Nous n’appartenons ni aux hommes ni à nos enfants ni à nous-mêmes
Mais au Soleil.
Ah ! quel délice de sentir le Soleil sur moi !
Quel délice de s’ouvrir comme une fleur
Lorsqu’un homme vient et vous regarde
Le visage plein de lumière, de sorte qu’une femme
Ne peut que s’ouvrir comme une fleur
Percée par les rayons étincelants ».

Les préoccupations sociales de Lawrence apparaissent dans le poème « Les classes moyennes », où il proclame son mépris pour la bourgeoisie :

« Les classes moyennes
Sont sans Soleil.
Elles n’ont que deux étalons,
L’homme et l’argent,
Elles n’ont absolument aucune parenté avec le Soleil. »

DH-Lawrence-L.jpg

En politique, sa conception aristocratique l’amène à se situer en dehors des partis classiques. Il s’en exprime dans « Démocratie » :

« Je suis démocrate dans la mesure où j’aime dans l’homme sa liberté solaire.
Je suis aristocrate dans la mesure où je hais l’étroit esprit de possession.
J’adore le Soleil en tous les hommes
Lorsque je vois briller sur un front
Clair et sans peur, si petit soit-il.
Mais lorsque je vois ces ternes hommes qui arrivent à la puissance
Si laids, pareils à des cadavres, absolument privés de Soleil
Et qui se dandinent machinalement
Comme de gros esclaves victorieux,
Alors je suis plus que radical,
J’ai envie d’amener la guillotine.
Et lorsque je vois des travailleurs
Pâles, vils, semblables à des insectes
Machinalement affairés
Qui vivent comme des poux sur une maigre pitance
Et ne regardent jamais plus haut,
Alors je voudrais, comme Tibère, que la foule n’eût qu’une tête
Pour que je pusse la trancher.
Lorsque les êtres sont totalement dépourvus de Soleil
Ils ne devraient pas exister »

Dans « l’Espace » reparaissent les conceptions panthéistes d’Apocalypse :

« L’espace, bien sûr, est vivant,
C’est pourquoi il bouge ;
Et c’est ce qui le rend éternellement spacieux et aéré.
Quelque part en lui est un cœur sauvage
Dont les battements me transpercent
Et je l’appelle le Soleil ;
Et je me sens aristocrate, plein de noblesse,
Lorsqu’un battement me traverse
Venant du cœur sauvage de l’espace, que je nomme Soleil suprême. »

Pour Lawrence comme pour Nietzsche, la morale chrétienne n’est qu’une morale d’esclaves, avec sa comptabilité anxieuse du péché. La vraie immoralité est pour lui très différente, ainsi qu’il l’a exprimée dans le poème du même nom :

« Il est immoral
D’être mort-vivant,
Éteindre en soi le Soleil
Et l’éteindre dans les autres »

Lawrence, héraut du Soleil

Initié, visionnaire, Lawrence l’a certes été. Comme tous les prophètes, il fut d’abord incompris, à commencer dans son propre pays. Précurseur de la révolution sexuelle, il avait aussi dénoncé les dangereux mirages de la société industrielle. En cette fin de millénaire, où l’homme occidental met toute la planète en danger, où nos systèmes sans âme génèrent toutes sortes de pathologies abjectes, combien les faits ont abondé dans son sens ! Sa vie illustre parfaitement les mots de Teilhard de Chardin : « Ceux qui ont raison trop tôt s’exposent à finir en hérétiques ». Lawrence avait aussi prévu la renaissance du Paganisme, ce qui lui fut reproché. Cette renaissance païenne, aujourd’hui évidente, est pour nous indissociable d’un réveil de la solarité, auquel nous travaillons. Lawrence, chantre du Soleil, nous montre la voie : par la hauteur de ses visions, par la force de son art, il doit être considéré comme l’un des grands représentants de la solarité du XXe siècle.

► Jean-Christophe Mathelin, Antaios n°14, 1999.

Docteur en géologie, JC Mathelin est professeur. Depuis 1992, il anime la revue Solaria et le Cercle de Recherches sur les Cultes Solaires. Il prépare une anthologie des hymnes et prières au Soleil.

Notes :

  • (1) Le génie littéraire de D.H. Lawrence est aujourd’hui largement reconnu et ses audaces érotiques ont été dépassées depuis, par des auteurs qui n’ont pas son talent.
  • (2) A. Maupertuis, Le sexe et le plaisir avant le christianisme : L’érotisme sacré, Retz, Paris 1977.
  • 3) Voir à ce sujet C.G. Jung, Ma vie, Gallimard, 1962.
  • 4) Notamment les poèmes « La Prière au Soleil » et « L’Accueil au Soleil » : cf. Solaria n°7.
  • 5) Le succès historique de la Bible auprès des populations européennes, a priori peu réceptives aux religions du désert, pourrait entre autres s’expliquer par le fait qu’elles y auraient reconnu des éléments indo-européens : un message apollinien dans l’Évangile de Jean (le Prologue par ex.), une eschatologie iranienne dans l’Apocalypse, etc.
  • 6) Pour Jung, lorsque le mystique descend au fond de son âme, il y trouve le « Soleil de l’au-delà ». Voir C.G. Jung, Métamorphoses de l’âme et ses symboles, Librairie de l’Université - Georg et Cie, Genève, 1983.
  • 7) La théorie du vitalisme solaire fut soutenue notamment par le stoïcien Posidonius. Voir F. Cumont, La Théologie solaire du paganisme romain, Mémoires présentés à l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres de l’Institut de France, II, 2, Paris, 1913.
  • 8) Vieille théorie stoïcienne. Voir l’article « Panthéisme » dans l’Encyclopaedia Universalis.
  • 9) Osons une comparaison avec Citadelle de Saint-Exupéry, livre posthume et philosophique, un peu décousu, mais profond et poétique.
  • (10) Notamment le très solaire Prologue.


A lire :

  • Le Serpent à plumes, Stock, 1957, (Londres, 1926).
  • L’Amazone fugitive, Stock, 1976, (Londres 1928).
  • Apocalypse, Balland, 1978, (Londres 1931).
  • Matinées mexicaines - Pensées, Stock, 1986 (Londres 1935).

mardi, 10 février 2015

Esquilino in maschera!

mercredi, 28 janvier 2015

To celebrate Imbolc

Song: Imbolc (Candlemas)
Artist: Lisa Thiel
Album: Circle Of The Seasons
# song: 03

Lyrics

Blessed Bridget comest thou in
Bless this house and all of our kin
Bless this house, and all of our kin
Protect this house and all within

Blessed Bridget come into thy bed
With a gem at thy heart and a crown on thy head
Awaken the fire within our souls
Awaken the fire that makes us whole

Blessed Bridget, queen of the fire
Help us to manifest our desire
May we bring forth all thats good and fine
May we give birth to our dreams in time

Blessed Bridget comest thou in
Bless this house and all of our kin
From the source of Infinite Light
Kindle the flame of our spirits tonight

Blessed Bridget come into thy bed
With a gem at thy heart and a crown on thy head
Awaken the fire within our souls
Awaken the fire that makes us whole

Blessed Bridget, queen of the fire
Help us to manifest our desire
May we bring forth all thats good and fine
May we give birth to our dreams in time

Blessed Bridget comest thou in
Bless this house and all of our kin
From the source of Infinite Light
Kindle the flame of our spirits tonight

Lisa Thiel - Imbolc (Candlemas)

 

Reclaiming - Welcome Brigid - sung by Beverly Frederick