Lo strumento fondamentalista
“Il vero problema per l’Occidente non è il fondamentalismo islamico, ma l’Islam in quanto tale”. Questa frase, che Samuel Huntington colloca in chiusura del lungo capitolo del suo Scontro delle civiltà intitolato “L’Islam e l’Occidente”1, merita di essere letta con un’attenzione maggiore di quella che ad essa è stata riservata finora.
Secondo l’ideologo statunitense, l’Islam in quanto tale è un nemico strategico dell’Occidente, poiché è il suo antagonista in un conflitto di fondo, che non nasce tanto da controversie territoriali, quanto da un fondamentale ed esistenziale confronto tra difesa e rifiuto di “diritti umani”, “democrazia” e “valori laici”. Scrive infatti Huntington: “Fino a quando l’Islam resterà l’Islam (e tale resterà) e l’Occidente resterà l’Occidente (cosa meno sicura) il conflitto di fondo tra due grandi civiltà e stili di vita continuerà a caratterizzare in futuro i reciproci rapporti”2.
Ma la frase riportata all’inizio non si limita a designare il nemico strategico; da essa è anche possibile dedurre l’indicazione di un alleato tattico: il fondamentalismo islamico. È vero che nelle pagine dello Scontro delle civiltà l’idea di utilizzare il fondamentalismo islamico contro l’Islam non si trova formulata in una forma più esplicita; tuttavia nel 1996, allorché Huntington pubblicò The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, una pratica di questo genere era già stata inaugurata.
“È un dato di fatto – scrive un ex ambasciatore arabo accreditato negli Stati Uniti e in Gran Bretagna – che gli Stati Uniti abbiano stipulato delle alleanze coi Fratelli Musulmani per buttar fuori i Sovietici dall’Afghanistan; e che, da allora, non abbiano cessato di far la corte alla corrente islamista, favorendone la propagazione nei paesi d’obbedienza islamica. Seguendo le orme del loro grande alleato americano, la maggior parte degli Stati occidentali ha adottato, nei confronti della nebulosa integralista, un atteggiamento che va dalla benevola neutralità alla deliberata connivenza”3.
L’uso tattico del cosiddetto integralismo o fondamentalismo islamico da parte occidentale non ebbe inizio però nell’Afghanistan del 1979, quando – come ricorda in From the Shadows l’ex direttore della CIA Robert Gates – già sei mesi prima dell’intervento sovietico i servizi speciali statunitensi cominciarono ad aiutare i guerriglieri afghani.
Esso risale agli anni Cinquanta e Sessanta, allorché Gran Bretagna e Stati Uniti, individuato nell’Egitto nasseriano il principale ostacolo all’egemonia occidentale nel Mediterraneo, fornirono ai Fratelli Musulmani un sostegno discreto ma accertato. È emblematico il caso di un genero del fondatore del movimento, Sa’id Ramadan, che “prese parte alla creazione di un importante centro islamico a Monaco in Germania, intorno al quale si costituì una federazione ad ampio raggio”4. Sa’id Ramadan, che ricevette finanziamenti e istruzioni dall’agente della CIA Bob Dreher, nel 1961 espose il proprio progetto d’azione ad Arthur Schlesinger Jr., consigliere del neoeletto presidente John F. Kennedy. “Quando il nemico è armato di un’ideologia totalitaria e dispone di reggimenti di fedeli devoti, – scriveva Ramadan – coloro che sono schierati su posizioni politiche opposte devono contrastarlo sul piano dell’azione popolare e l’essenza della loro tattica deve consistere in una fede contraria e in una devozione contraria. Solo delle forze popolari, genuinamente coinvolte e genuinamente reagenti per conto proprio, possono far fronte alla minaccia d’infiltrazione del comunismo”5.
L’uso strumentale dei movimenti islamisti funzionali alla strategia atlantica non terminò con il ritiro dell’Armata Rossa dall’Afghanistan. Il patrocinio fornito dall’Amministrazione Clinton al separatismo bosniaco ed a quello kosovaro, l’appoggio statunitense e britannico al terrorismo wahhabita nel Caucaso, il sostegno ufficiale di Brzezinski ai movimenti fondamentalisti armati in Asia centrale, gl’interventi a favore delle bande sovversive in Libia ed in Siria sono gli episodi successivi di una guerra contro l’Eurasia in cui gli USA e i loro alleati si avvalgono della collaborazione islamista.
Il fondatore di An-Nahda, Rachid Ghannouchi, che nel 1991 ricevette gli elogi del governo di George Bush per l’efficace ruolo da lui svolto nella mediazione tra le fazioni afghane antisovietiche, ha cercato di giustificare il collaborazionismo islamista abbozzando un quadro pressoché idilliaco delle relazioni tra gli USA e il mondo islamico. A un giornalista del “Figaro” che gli chiedeva se gli americani gli sembrassero più concilianti degli Europei il dirigente islamista tunisino ha risposto di sì, perché “non esiste un passato coloniale tra i paesi musulmani e l’America; niente Crociate, niente guerra, niente storia”; ed alla rievocazione della lotta comune di americani e islamisti contro il nemico bolscevico ha aggiunto la menzione del contributo inglese6.
La “nobile tradizione salafita”
L’islamismo rappresentato da Rachid Ghannouchi, scrive un orientalista, è quello che “si richiama alla nobile tradizione salafita di Muhammad ‘Abduh e che ha avuto una versione più moderna nei Fratelli Musulmani”7.
Ritornare al puro Islam dei “pii antenati” (as-salaf as-sâlihîn), facendo piazza pulita della tradizione scaturita dal Corano e dalla Sunna nel corso dei secoli: è questo il programma della corrente riformista che ha i suoi capostipiti nel persiano Jamal ad-Din al-Afghani (1838-1897) e nei suoi discepoli, i più importanti dei quali furono l’egiziano Muhammad ‘Abduh (1849-1905) e il siriano Muhammad Rashid Rida (1865-1935).
Al-Afghani, che nel 1883 fondò l’Associazione dei Salafiyya, nel 1878 era stato iniziato alla massoneria in una loggia di rito scozzese del Cairo. Egli fece entrare nell’organizzazione liberomuratoria gli intellettuali del suo entourage, tra cui Muhammad ‘Abduh, il quale, dopo aver ricoperto una serie di altissime cariche, il 3 giugno 1899 diventò Muftì dell’Egitto col beneplacito degl’Inglesi.
“Sono i naturali alleati del riformatore occidentale, meritano tutto l’incoraggiamento e tutto il sostegno che può esser dato loro”8: questo l’esplicito riconoscimento del ruolo di Muhammad ‘Abduh e dell’indiano Sir Sayyid Ahmad Khan (1817-1889) che venne dato da Lord Cromer (1841-1917), uno dei principali architetti dell’imperialismo britannico nel mondo musulmano. Infatti, mentre Ahmad Khan asseriva che “il dominio britannico in India è la cosa più bella che il mondo abbia mai visto”9 ed affermava in una fatwa che “non era lecito ribellarsi agli inglesi fintantoché questi rispettavano la religione islamica e consentivano ai musulmani di praticare il loro culto”10, Muhammad ‘Abduh trasmetteva all’ambiente musulmano le idee razionaliste e scientiste dell’Occidente contemporaneo. ‘Abduh sosteneva che nella civiltà moderna non c’è nulla che contrasti col vero Islam (identificava i ginn con i microbi ed era convinto che la teoria evoluzionista di Darwin fosse contenuta nel Corano), donde la necessità di rivedere e correggere la dottrina tradizionale sottoponendola al giudizio della ragione e accogliendo gli apporti scientifici e culturali del pensiero moderno.
Dopo ‘Abduh, capofila della corrente salafita fu Rashid Rida, che in seguito alla scomparsa del califfato ottomano progettò la creazione di un “partito islamico progressista”11 in grado di creare un nuovo califfato. Nel 1897 Rashid Rida aveva fondato la rivista “Al-Manar”, la quale, diffusa in tutto il mondo arabo ed anche altrove, dopo la sua morte verrà pubblicata per cinque anni da un altro esponente del riformismo islamico: Hasan al-Banna (1906-1949), il fondatore dell’organizzazione dei Fratelli Musulmani.
Ma, mentre Rashid Rida teorizzava la nascita di un nuovo Stato islamico destinato a governare la ummah, nella penisola araba prendeva forma il Regno Arabo Saudita, in cui vigeva un’altra dottrina riformista: quella wahhabita.
La setta wahhabita
La setta wahhabita trae il proprio nome dal patronimico di Muhammad ibn ‘Abd al-Wahhab (1703-1792), un arabo del Nagd di scuola hanbalita che si entusiasmò ben presto per gli scritti di un giurista letteralista vissuto quattro secoli prima in Siria e in Egitto, Taqi ad-din Ahmad ibn Taymiyya (1263-1328). Sostenitore di ottuse interpretazioni antropomorfiche delle immagini contenute nel linguaggio coranico, animato da un vero e proprio odium theologicum nei confronti del sufismo, accusato più volte di eterodossia, Ibn Taymiyya ben merita la definizione di “padre del movimento salafita attraverso i secoli”12 datagli da Henry Corbin. Seguendo le sue orme, Ibn ‘Abd al-Wahhab e i suoi partigiani bollarono come manifestazioni di politeismo (shirk) la fede nell’intercessione dei profeti e dei santi e, in genere, tutti quegli atti che, a loro giudizio, equivalessero a ritenere partecipe dell’onnipotenza e del volere divino un essere umano o un’altra creatura, cosicché considerarono politeista (mushrik), con tutte le conseguenze del caso, anche il pio musulmano trovato ad invocare il Profeta Muhammad o a pregare vicino alla tomba di un santo. I wahhabiti attaccarono le città sante dell’Islam sciita, saccheggiandone i santuari; impadronitisi nel 1803-1804 di Mecca e di Medina, demolirono i monumenti sepolcrali dei santi e dei martiri e profanarono perfino la tomba del Profeta; misero al bando le organizzazioni iniziatiche e i loro riti; abolirono la celebrazione del genetliaco del Profeta; taglieggiarono i pellegrini e sospesero il Pellegrinaggio alla Casa di Dio; emanarono le proibizioni più strampalate.
Sconfitti dall’esercito che il sovrano egiziano aveva inviato contro di loro dietro esortazione della Sublime Porta, i wahhabiti si divisero tra le due dinastie rivali dei Sa’ud e dei Rashid e per un secolo impegnarono le loro energie nelle lotte intestine che insanguinarono la penisola araba, finché Ibn Sa’ud (‘Abd al-’Aziz ibn ‘Abd ar-Rahman Al Faysal Al Su’ud, 1882-1953) risollevò le sorti della setta. Patrocinato dalla Gran Bretagna, che, unico Stato al mondo, nel 1915 instaurò relazioni ufficiali con lui esercitando un “quasi protettorato”13 sul Sultanato del Nagd, Ibn Sa’ud riuscì ad occupare Mecca nel 1924 e Medina nel 1925. Diventò così “Re del Higiaz e del Nagd e sue dipendenze”, secondo il titolo che nel 1927 gli venne riconosciuto nel Trattato di Gedda del 20 maggio 1927, stipulato con la prima potenza europea che riconobbe la nuova formazione statale wahhabita: la Gran Bretagna.
“Le sue vittorie – scrisse uno dei tanti orientalisti che hanno cantato le sue lodi – lo han reso il sovrano più potente d’Arabia. I suoi domini toccano l’Iràq, la Palestina, la Siria, il Mar Rosso e il Golfo Persico. La sua personalità di rilievo si è affermata con la creazione degli Ikhwàn o Fratelli: una confraternita di Wahhabiti attivisti che l’inglese Philby ha chiamato ‘una nuova massoneria’”14.
Si tratta di Harry St. John Bridger Philby (1885-1960), l’organizzatore della rivolta araba antiottomana del 1915, il quale “aveva occupato alla corte di Ibn Saud il posto del deceduto Shakespeare”15, per citare l’espressione iperbolica di un altro orientalista di quell’epoca. Fu lui a caldeggiare presso Winston Churchill, Giorgio V, il barone Rothschild e Chaim Weizmann il progetto di una monarchia saudita che, usurpando la custodia dei Luoghi Santi tradizionalmente assegnata alla dinastia hascemita, unificasse la penisola araba e controllasse per conto dell’Inghilterra la via marittima Suez-Aden-Mumbay.
Con la fine del secondo conflitto mondiale, durante il quale l’Arabia Saudita mantenne una neutralità filoinglese, al patrocinio britannico si sarebbe aggiunto e poi sostituito quello nordamericano. In tal senso, un evento anticipatore e simbolico fu l’incontro che ebbe luogo il 1 marzo 1945 sul Canale di Suez, a bordo della Quincy, tra il presidente Roosevelt e il sovrano wahhabita; il quale, come ricordava orgogliosamente un arabista statunitense, “è sempre stato un grande ammiratore dell’America, che antepone anche all’Inghilterra”16. Infatti già nel 1933 la monarchia saudita aveva dato in concessione alla Standard Oil Company of California il monopolio dello sfruttamento petrolifero, mentre nel 1934 la compagnia americana Saoudi Arabian Mining Syndicate aveva ottenuto il monopolio della ricerca e dell’estrazione dell’oro.
I Fratelli Musulmani
Usurpata la custodia dei Luoghi Santi ed acquisito il prestigio connesso a tale ruolo, la famiglia dei Sa’ud avverte l’esigenza di disporre di una “internazionale” che le consenta di estendere la propria egemonia su buona parte della comunità musulmana, al fine di contrastare la diffusione del panarabismo nasseriano, del nazionalsocialismo baathista e – dopo la rivoluzione islamica del 1978 in Iran – dell’influenza sciita. L’organizzazione dei Fratelli Musulmani mette a disposizione della politica di Riyad una rete organizzativa che trarrà alimento dai cospicui finanziamenti sauditi. “Dopo il 1973, grazie all’aumento dei redditi provenienti dal petrolio, i mezzi economici non mancano; verranno investiti soprattutto nelle zone in cui un Islam poco ‘consolidato’ potrebbe aprire la porta all’influenza iraniana, in particolare l’Africa e le comunità musulmane emigrate in Occidente”17.
D’altronde la sinergia tra la monarchia wahhabita e il movimento fondato nel 1928 dall’egiziano Hassan al-Banna (1906-1949) si basa su un terreno dottrinale sostanzialmente comune, poiché i Fratelli Musulmani sono gli “eredi diretti, anche se non sempre rigorosamente fedeli, della salafiyyah di Muhammad ‘Abduh”18 e in quanto tali recano inscritta fin dalla nascita nel loro DNA la tendenza ad accettare, sia pure con tutte le necessarie riserve, la moderna civiltà occidentale. Tariq Ramadan, nipote di Hassan al-Banna ed esponente dell’attuale intelligencija musulmana riformista, così interpreta il pensiero del fondatore dell’organizzazione: “Come tutti i riformisti che l’hanno preceduto, Hassan al-Banna non ha mai demonizzato l’Occidente. (…) L’Occidente ha permesso all’umanità di fare grandi passi in avanti e ciò è avvenuto a partire dal Rinascimento, quando è iniziato un vasto processo di secolarizzazione (‘che è stato un apporto positivo’, tenuto conto della specificità della religione cristiana e dell’istituzione clericale)”19. L’intellettuale riformista ricorda che il nonno, nella sua attività di maestro di scuola, si ispirava alle più recenti teorie pedagogiche occidentali e riporta da un suo scritto un brano eloquente: “Dobbiamo ispirarci alle scuole occidentali, ai loro programmi (…) Dobbiamo anche prendere dalle scuole occidentali e dai loro programmi il costante interesse all’educazione moderna e il loro modo di affrontare le esigenze e la preparazione all’apprendimento, fondate su metodi saldi tratti da studi sulla personalità e la naturalità del bambino (…) Dobbiamo approfittare di tutto ciò, senza provare alcuna vergogna: la scienza è un diritto di tutti (…)”20.
Con la cosiddetta “Primavera araba”, si è manifestata in maniera ufficiale la disponibilità dei Fratelli Musulmani ad accogliere quei capisaldi ideologici della cultura politica occidentale che Huntington indicava come termini fondamentali di contrasto con l’Islam. In Libia, in Tunisia, in Egitto i Fratelli hanno goduto del patrocinio statunitense.
Il partito egiziano Libertà e Giustizia, costituito il 30 aprile 2011 per iniziativa della Fratellanza e da essa controllato, si richiama ai “diritti umani”, propugna la democrazia, appoggia una gestione capitalistica dell’economia, non è contrario ad accettare prestiti dal Fondo Monetario Internazionale. Il suo presidente Muhammad Morsi (n. 1951), oggi presidente dell’Egitto, ha studiato negli Stati Uniti, dove ha anche lavorato come assistente universitario alla California State University; due dei suoi cinque figli sono cittadini statunitensi. Il nuovo presidente ha subito dichiarato che l’Egitto rispetterà tutti i trattati stipulati con altri paesi (quindi anche con Israele); ha compiuto in Arabia Saudita la sua prima visita ufficiale e ha dichiarato che intende rafforzare le relazioni con Riyad; ha dichiarato che è un “dovere etico” sostenere il movimento armato di opposizione che combatte contro il governo di Damasco.
Se la tesi di Huntington aveva bisogno di una dimostrazione, i Fratelli Musulmani l’hanno fornita.
NOTE:
1. Samuel P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 2000, p. 319.
2. Ibidem, p. 310.
3. Rédha Malek, Tradition et révolution. L’enjeu de la modernité en Algérie et dans l’Islam, ANEP, Rouiba (Algeria) 2001, p. 218.
4. Stefano Allievi e Brigitte Maréchal, I Fratelli Musulmani in Europa. L’influenza e il peso di una minoranza attiva, in: I Fratelli Musulmani nel mondo contemporaneo, a cura di M. Campanini e K. Mezran, UTET, Torino 2010, p. 219.
5. “When the enemy is armed with a totalitarian ideology and served by regiments of devoted believers, those with opposing policies must compete at the popular level of action and the essence of their tactics must be counter- faith and counter-devotion. Only popular forces, genuinely involved and genuinely reacting on their own behalf, can meet the infiltrating threat of Communism” (http://www.american-buddha.com/lit.johnsonamosqueinmunich.12.htm)
6. “- Les Américains vous semblent-ils plus conciliants que les Européens? – A l’égard de l’islam, oui. Il n’y a pas de passé colonial entre les pays musulmans et l’Amérique, pas de croisades; pas de guerre, pas d’histoire… – Et vous aviez un ennemi commun: le communisme athée, qui a poussé les Américains à vous soutenir… – Sans doute, mais la Grande-Bretagne de Margaret Thatcher était aussi anticommuniste…” (Tunisie: un leader islamiste veut rentrer, 22/01/2011; http://plus.lefigaro.fr/article/tunisie-un-leader-islamiste-veut-rentrer-20110122-380767/commentaires).
7. Massimo Campanini, Il pensiero islamico contemporaneo, Il Mulino, Bologna 2005, p. 137.
8. Cit. in: Maryam Jameelah, Islam and Modernism, Mohammad Yusuf Khan, Srinagar-Lahore 1975, p. 153.
9. Cit. in: Tariq Ramadan, Il riformismo islamico. Un secolo di rinnovamento musulmano, Città Aperta Edizioni, Troina (En) 2004, p. 65.
10. Massimo Campanini, Il pensiero islamico contemporaneo, cit., p. 23.
11. Cit. in: Tariq Ramadan, op. cit., p. 143.
12. Henry Corbin, Storia della filosofia islamica, Adelphi, Milano 1989, p. 126.
13. Carlo Alfonso Nallino, Raccolta di scritti editi e inediti, Vol. I L’Arabia Sa’udiana, Istituto per l’Oriente, Roma 1939, p. 151.
14. Henri Lammens, L’Islàm. Credenze e istituzioni, Laterza, Bari 1948, p. 158.
15. Giulio Germanus, Sulle orme di Maometto, vol. I, Garzanti, Milano 1946, p. 142.
16. John Van Ess, Incontro con gli Arabi, Garzanti, Milano 1948, p. 108.
17. Alain Chouet, L’association des Frères Musulmans, http://alain.chouet.free.fr/documents/fmuz2.htm. Sulla presenza dei Fratelli Musulmani in Occidente, cfr. Karim Mezran, La Fratellanza musulmana negli Stati Uniti, in: I Fratelli Musulmani nel mondo contemporaneo, cit., pp. 169-196; Stefano Allievi e Brigitte Maréchal, I Fratelli Musulmani in Europa. L’influenza e il peso di una minoranza attiva, ibidem, pp. 197-240.
18. Massimo Campanini, I Fratelli Musulmani nella seconda guerra mondiale: politica e ideologia, “Nuova rivista storica”, a. LXXVIII, fasc. 3, sett.-dic. 1994, p. 625.
19. Tariq Ramadan, op. cit., pp. 350-351.
20. Hassan al-Banna, Hal nusir fi madrasatina wara’ al-gharb, “Al-fath”, 19 sett. 1929, cit. in: Tariq Ramadan, op. cit., p. 352.