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lundi, 01 avril 2013

Musulmano o costruito dai robot: il Papa di fantascienza finisce così

Musulmano o costruito dai robot: il Papa di fantascienza finisce così

di Gianfranco de Turris

Fonte: il giornale [scheda fonte]

Le religioni (e la teologia) sono argomenti che hanno sempre attirato gli scrittori fantastici e fantascientifici. In particolare la Chiesa cattolica, sotto il profilo temporale e spirituale, ha ottenuto attenzione speciale sia in positivo che negativo. Molti autori ne hanno preso spunto per le loro ipotesi proiettate nel futuro. È soprattutto la fine della Chiesa che ha sollecitato la loro immaginazione. Il concetto di «fine» può infatti intendersi in molti modi: una religione che ha anche un potere temporale può concludere la propria missione in forme diverse. Ovviamente le cosiddette Profezie di Malachia sono spesso lo spunto di base, specie negli ultimi anni dato che ci si avvia alla conclusione dell’elenco dei papi contenuto in quello scritto, pubblicato per la prima volta nel 1595 in appendice a «Legnum Vitae» di Arnold de Wyon. Molti sostengono invece che sia un testo realizzato intorno al 1590 da un famoso falsario, Alfonso Ceccarelli, una specie di Simonides umbro.

 

roma-senza-papaSia come sia, in base a quella elencazione, che parte da Celestino II nel 1143, l’attuale Benedetto XVI sarebbe il 111esimo e penultimo della serie con il moto «De Gloria olivae». Subito dopo c’è una citazione che alcuni interpreti riferiscono a questi, mentre la maggioranza intende come riferita al 112° e conclusivo pontefice: «Durante l’ultima persecuzione di Santa Romana Chiesa siederà (sul trono) Pietro Romano che pascerà il gregge in mezzo a molte tribolazioni; terminate queste la città dei sette colli sarà distrutta, e il terribile Giudice giudicherà la gente».

 

Questa conclusione apocalittica, in linea con molte altre profezie cristiane, non poteva non colpire certi scrittori che l’hanno intesa in modi diversi. Una Chiesa e un Papato possono estinguersi e crollare non solo e non tanto materialmente, quanto spiritualmente, concludendo, fallendo o distorcendo la loro missione. E così per primo si deve ricordare il grande rimosso della letteratura italiana, Guido Morselli l’antimoderno, che come suo primo romanzo dopo il periodo realista scrisse nel 1966-7 Roma senza papa, anche il primo pubblicato da Adelphi nel 1974 dopo il suo suicidio l’anno precedente. Morselli rifiutava l’oggi e quindi la religione del suo oggi, che già manifestava sintomi di decadenza negli anni Sessanta del Novecento (il Concilio Vaticano II si era concluso nel 1965 con tutte le sue novità), e quindi la fine della Chiesa di Roma e del Papato viene descritta nel suo romanzo come una decadenza abissale dei valori tradizionali del Cristianesimo. La sua è una critica della Chiesa «al passo coi tempi» con papi fidanzati, favorevoli alla liberalizzazione di droga, contraccettivi, eutanasia, che utilizza più la psicanalisi freudiana che la teologia, dove il turismo di massa è una benedizione sicché ogni cosa nello Stato del Vaticano viene finalizzata a fare denaro. La Chiesa è finita perché non è più la vera Chiesa.

 

la-moschea-di-san-marcoE di una mercificazione totale, ad uso appunto dei turisti, parla anche, ma in una prospettiva più laica, Roberto Vacca, nel racconto L’ultimo papa (1965), dove il pontefice si esibisce nelle sue funzioni ad uso dei curiosi di tutto il mondo che pagano per vederlo all’insegna dello slogan «Peep-a-Pope-Show» (i «peepshow» sono spettacoli erotici). E, se ci si consente un’autocitazione, mi permetterò di ricordare che in un racconto che scrissi insieme a Piero Prosperi quando eravamo ventenni (Petrus Romanus, 1965) si immaginava una fine “politica” del Papato sotto un regime comunista instauratosi in Italia. Ma il tempo passa e i pericoli per la Chiesa cattolica cambiano: ad esempio, il relativismo dei valori, la crisi delle vocazioni, l’aggressività dell’Islam hanno indotto due autori a descriverne una fine traumatica, una resa senza condizioni: cinquant’anni dopo Prosperi, nel suo romanzo La moschea di San Marco (Bietti, 2007) prevede che nel 2015 Benedetto XVII, successore di Ratzinger, dopo aver creato una commissione di consulenti musulmani per allargare il dialogo, in un discorso Urbi et Orbi dichiari conclusa l’«eresia cristiana» e chieda ad Allah di riammettere i cattolici nella Umma dei credenti.

 

apocalissi-2012Di recente Antonio Bellomi torna sul tema e nel suo Finis mundi (antologia Apocalissi 2012, Bietti) prende spunto dalla profezia Maya sulla fine del mondo per immaginarsi la morte di Bendetto XVI e il suo successore uscito dal Conclave, il cardinale indonesiano Giovanni Ali Sudarto, che sceglie per sé il nome di Hussein I e che, senza portare alcun simbolo della croce, inizia la sua prima allocuzione alla folla dicendo: «In nome di Allah, misericordioso e compassionevole…». E uno dei personaggi del racconto dice: «Non è la fine del mondo. È la fine dell’era della Chiesa di Roma come l’abbiano conosciuta…».

 

Anche gli autori anglosassoni si sono avvicinati all’argomento con atteggiamento fantascientifico e futuribile. La storia più interessante non è il racconto Il dilemma di Benedetto XVI di J.H.Brennan (uscito nel 1977 con un titolo diverso e tradotto da Urania nel 1978), citato in questi giorni solo per la coincidenza del nome: vi si racconta delle visioni del Pontefice per dichiarar guerra ad un dittatore e di uno psicanalista chiamato per capire se esse siano vere o false. L’opera più curiosa è Il papa definitivo di un grande nome come Clifford D. Simak. Scritto nel 1981, racconta del pianeta Vaticano 17, dove si è rifugiata una stirpe di robot che, non potendo accedere sulla Terra alla religione cattolica in quanto privi d’anima, hanno creato una civiltà ed una religione simil-cattoliche con identiche strutture e riti, costruendo il «papa definitivo», cioè un immenso computer in cui immettere tutta la conoscenza dell’universo. Due temi, religione e robot, tipici di Simak che li usa per decretare la fine della Chiesa come l’abbiamo conosciuta sinora. In tema di automi Robert Silverberg con Buone notizie dal Vaticano del 1971 immagina che da un futuribile Conclave esca un pontefice robot che invece di rivolgersi alla gente in Piazza San Pietro accenda i propri razzi e sparisca in alto, nel cielo. Ma non occorre essere di metallo per fare e decidere cose inaspettate: il papa Roberto I descritto da Norman Spinrad nel suo Deus X emana una enciclica in cui proclama la possibilità di trapiantare l’anima tra esseri umani, come fosse il cuore, il fegato o i polmoni.


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samedi, 23 mars 2013

Othmar Spann: A Catholic Radical Traditionalist

Othmar Spann:
A Catholic Radical Traditionalist

 

By Lucian Tudor

Ex: http://www.counter-currents.com/

 

spann3464600893.jpgOthmar Spann was an Austrian philosopher who was a key influence on German conservative and traditionalist thought in the period after World War I, and he is thus considered a representative of the intellectual movement known as the “Conservative Revolution.” Spann was a professor of economics and sociology at the University of Vienna, where he taught not only scientific social and economic theories, but also influenced many students with the presentation of his worldview in his lectures. As a result of this he formed a large group of followers known as the Spannkreis (“Spann Circle”). This circle of intellectuals attempted to influence politicians who would be sympathetic to “Spannian” philosophy in order to actualize its goals.[1]

Othmar Spann himself was influenced by a variety of philosophers across history, including Plato, Aristotle, Thomas Aquinas, J. G. Fichte, Franz von Baader, and most notably the German Romantic thought of Adam Müller. Spann called his own worldview “Universalism,” a term which should not be confused with “universalism” in the vernacular sense; for the former is nationalistic and values particularity while the latter refers to cosmopolitan or non-particularist (even anti-particularist) ideas. Spann’s term is derived from the root word “universality,” which is in this case synonymous with related terms such as collectivity, totality, or whole.[2] Spann’s Universalism was expounded in a number of books, most notably in Der wahre Staat (“The True State”), and essentially taught the value of nationality, of the social whole over the individual, of religious (specifically Catholic) values over materialistic values, and advocated the model of a non-democratic, hierarchical, and corporatist state as the only truly valid political constitution.

Social Theory

Othmar Spann declared: “It is the fundamental truth of all social science . . . that not individuals are the truly real, but the whole, and that the individuals have reality and existence only so far as they are members of the whole.”[3] This concept, which is at the core of Spann’s sociology, is not a denial of the existence of the individual person, but a complete denial of individualism; individualism being that ideology which denies the existence and importance of supra-individual realities. Classical liberal theory, which was individualist, held an “atomistic” view of individuals and regarded only individuals as truly real; individuals which it believed were essentially disconnected and independent from each other. It also held that society only exists as an instrumental association as a result of a “social contract.” On the other hand, sociological studies have disproven this theory, showing that the whole (society) is never merely the sum of its parts (individuals) and that individuals naturally have psychological bonds with each other. This was Othmar Spann’s position, but he had his own unique way of formulating it.[4]

While the theory of individualism appears, superficially, to be correct to many people, an investigation into the matter shows that it is entirely fallacious. Individuals never act entirely independently because their behavior is always at least in part determined by the society in which they live, and by their organic, non-instrumental (and thus also non-contractual) bonds with other people in their society. Spann wrote, “according to this view, the individual is no longer self-determined and self-created, and is no longer based exclusively and entirely on its own egoicity.”[5] Spann conceived of the social order, of the whole, as an organic society (a community) in which all individuals belonging to it have a pre-existing spiritual unity. The individual person emerges as such from the social whole to which he was born and from which he is never really separated, and “thus the individual is that which is derivative.”[6]

Therefore, society is not merely a mechanical aggregate of fundamentally disparate individuals, but a whole, a community, which precedes its parts, the individuals. “Universalists contend that the mental or spiritual associative tie between individuals exists as an independent entity . . .”[7] However, Spann clarified that this does not mean that the individual has “no mental self-sufficiency,” but rather that he actualizes his personal being only as a member of the whole: “he is only able to form himself, is only able to build up his personality, when in close touch with others like unto himself; he can only sustain himself as a being endowed with mentality or spirituality, when he enjoys intimate and multiform communion with other beings similarly endowed.”[8] Therefore,

All spiritual reality present in the individual is only there and only comes into being as something that has been awakened . . . the spirituality that comes into being in an individual (whether directly or mediated) is always in some sense a reverberation of that which another spirit has called out to the individual. This means that human spirituality exists only in community, never in spiritual isolation. . . . We can say that individual spirituality only exists in community or better, in ‘spiritual community’ [Gezweiung]. All spiritual essence and reality exists as ‘spiritual community’ and only in ‘communal spirituality’ [Gezweitheit].[9]

It is also important to clarify that Spann’s concept of society did not conceive of society as having no other spiritual bodies within it that were separate from each other. On the contrary, he recognized the importance of the various sub-groups, referred to by him as “partial wholes,” as constituent parts and elements which are different yet related, and which are harmonized by the whole under which they exist. Therefore, the whole or the totality can be understood as the unity of individuals and “partial wholes.” To reference a symbolic image, “Totality [the Whole] is analogous to white light before it is refracted by a prism into many colors,” in which the white light is the supra-temporal totality, while the prism is cosmic time which “refracts the totality into the differentiated and individuated temporal reality.”[10]

Nationality and Racial Style

Volk (“people” or “nation”), which signifies “nationality” in the cultural and ethnic sense, is an entirely different entity and subject matter from society or the whole, but for Spann the two had an important connection. Spann was a nationalist and, defining Volk in terms of belonging to a “spiritual community” with a shared culture, believed that a social whole is under normal conditions only made up of a single ethnic type. Only when people shared the same cultural background could the deep bonds which were present in earlier societies truly exist. He thus upheld the “concept of the concrete cultural community, the idea of the nation – as contrasted with the idea of unrestricted, cosmopolitan, intercourse between individuals.”[11]

Spann advocated the separation of ethnic groups under different states and was also a supporter of pan-Germanism because he believed that the German people should unite under a single Reich. Because he also believed that the German nation was intellectually superior to all other nations (a notion which can be considered as the unfortunate result of a personal bias), Spann also believed that Germans had a duty to lead Europe out of the crisis of liberal modernity and to a healthier order similar to that which had existed in the Middle Ages.[12]

Concerning the issue of race, Spann attempted to formulate a view of race which was in accordance with the Christian conception of the human being, which took into account not only his biology but also his psychological and spiritual being. This is why Spann rejected the common conception of race as a biological entity, for he did not believe that racial types were derived from biological inheritance, just as he did not believe an individual person’s character was set into place by heredity. Rather what race truly was for Spann was a cultural and spiritual character or type, so a person’s “racial purity” is determined not by biological purity but by how much his character and style of behavior conforms to a specific spiritual quality. In his comparison of the race theories of Spann and Ludwig Ferdinand Clauss (an influential race psychologist), Eric Voegelin had concluded:

In Spann’s race theory and in the studies of Clauss we find race as the idea of a total being: for these two scholars racial purity or blood purity is not a property of the genetic material in the biological sense, but rather the stylistic purity of the human form in all its parts, the possession of a mental stamp recognizably the same in its physical and psychological expression.[13]

However, it should be noted that while Ludwig Clauss (like Spann) did not believe that spiritual character was merely a product of genetics, he did in fact emphasize that physical race had importance because the bodily racial form must be essentially in accord with the psychical racial form with which it is associated, and with which it is always linked. As Clauss wrote,

The style of the psyche expresses itself in its arena, the animate body. But in order for this to be possible, this arena itself must be governed by a style, which in turn must stand in a structured relationship to the style of the psyche: all the features of the somatic structure are, as it were, pathways for the expression of the psyche. The racially constituted (that is, stylistically determined) psyche thus acquires a racially constituted animate body in order to express the racially constituted style of its experience in a consummate and pure manner. The psyche’s expressive style is inhibited if the style of its body does not conform perfectly with it.[14]

Likewise Julius Evola, whose thought was influenced by both Spann and Clauss, and who expanded Clauss’s race psychology to include religious matters, also affirmed that the body had a certain level of importance.[15]

On the other hand, the negative aspect of Othmar Spann’s theory of race is that it ends up dismissing the role of physical racial type entirely, and indeed many of Spann’s major works do not even mention the issue of race. A consequence of this was also the fact that Spann tolerated and even approved of critiques made by his students of National Socialist theories of race which emphasized the role of biology; an issue which would later compromise his relationship with that movement even though he was one of its supporters.[16]

The True State

Othmar Spann’s Universalism was in essence a Catholic form of “Radical Traditionalism”; he believed that there existed eternal principles upon which every social, economic, and political order should be constructed. Whereas the principles of the French Revolution – of liberalism, democracy, and socialism – were contingent upon historical circumstances, bound by world history, there are certain principles upon which most ancient and medieval states were founded which are eternally valid, derived from the Divine order. While specific past state forms which were based on these principles cannot be revived exactly as they were because they held many characteristics which are outdated and historical, the principles upon which they were built and therefore the general model which they provide are timeless and must reinstituted in the modern world, for the systems derived from the French Revolution are invalid and harmful.[17] This timeless model was the Wahre Staat or “True State” – a corporative, monarchical, and elitist state – which was central to Universalist philosophy.

1. Economics

In terms of economics, Spann, like Adam Müller, rejected both capitalism and socialism, advocating a corporatist system relatable to that of the guild system and the landed estates of the Middle Ages; a system in which fields of work and production would be organized into corporations and would be subordinated in service to the state and to the nation, and economic activity would therefore be directed by administrators rather than left solely to itself. The value of each good or commodity produced in this system was determined not by the amount of labor put into it (the labor theory of value of Marx and Smith), but by its “organic use” or “social utility,” which means its usefulness to the social whole and to the state.[18]

Spann’s major reason for rejecting capitalism was because it was individualistic, and thus had a tendency to create disharmony and weaken the spiritual bonds between individuals in the social whole. Although Spann did not believe in eliminating competition from economic life, he pointed out that the extreme competition glorified by capitalists created a market system in which there occurred a “battle of all against all” and in which undertakings were not done in service to the whole and the state but in service to self-centered interests. Universalist economics aimed to create harmony in society and economics, and therefore valued “the vitalising energy of the personal interdependence of all the members of the community . . .”[19]

Furthermore, Spann recognized that capitalism also did result in an unfair treatment by capitalists of those underneath them. Thus while he believed Marx’s theories to be theoretically flawed, Spann also mentioned that “Marx nevertheless did good service by drawing attention to the inequality of the treatment meted out to worker and to entrepreneur respectively in the individualist order of society.”[20] Spann, however, rejected socialist systems in general because while socialism seemed superficially Universalistic, it was in fact a mixture of Universalist and individualist elements. It did not recognize the primacy of the State over individuals and also held that all individuals in society should hold the same position, eliminating all class distinctions, and should receive the same amount of goods. “True universalism looks for an organic multiplicity, for inequality,” and thus recognizes differences even if it works to establish harmony between the parts.[21]

2. Politics

Spann asserted that all democratic political systems were an inversion of the truly valuable political order, which was of even greater importance than the economic system. A major problem of democracy was that it allowed, firstly, the manipulation of the government by wealthy capitalists and financiers whose moral character was usually questionable and whose goals were almost never in accord with the good of the community; and secondly, democracy allowed the triumph of self-interested demagogues who could manipulate the masses. However, even the theoretical base of democracy was flawed, according to Spann, because human beings were essentially unequal, for individuals are always in reality differentiated in their qualities and thus are suited for different positions in the social order. Democracy thus, by allowing a mass of people to decide governmental matters, meant excluding the right of superior individuals to determine the destiny of the State, for “setting the majority in the saddle means that the lower rule over the higher.”[22]

Finally, Spann noted that “demands for democracy and liberty are, once more, wholly individualistic.”[23] In the Universalist True State, the individual would subordinate his will to the whole and would be guided by a sense of selfless duty in service to the State, as opposed to asserting his individual will against all other wills. Furthermore, the individual did not possess rights because of his “rational” character and simply because of being human, as many Enlightenment thinkers asserted, but these rights were derived from the ethics of the particular social whole to which he belonged and from the laws of the State.[24] Universalism also acknowledged the inherent inequalities in human beings and supported a hierarchical organization of the political order, where there would be only “equality among equals” and the “subordination of the intellectually inferior under their intellectual betters.”[25]

In the True State, individuals who demonstrated their leadership skills, their superior nature, and the right ethical character would rise among the levels of the hierarchy. The state would be led by a powerful elite whose members would be selected from the upper levels of the hierarchy based on their merit; it was essentially a meritocratic aristocracy. Those in inferior positions would be taught to accept their role in society and respect their superiors, although all parts of the system are “nevertheless indispensable for its survival and development.”[26] Therefore, “the source of the governing power is not the sovereignty of the people, but the sovereignty of the content.”[27]

Othmar Spann, in accordance with his Catholic religious background, believed in the existence of a supra-sensual, metaphysical, and spiritual reality which existed separately from and above the material reality, and of which the material realm was its imperfect reflection. He asserted that the True State must be animated by Christian spirituality, and that its leaders must be guided by their devotion to Divine laws; the True State was thus essentially theocratic. However, the leadership of the state would receive its legitimacy not only from its religious character, but also by possessing “valid spiritual content,” which “precedes power as it is represented in law and the state.”[28] Thus Spann concluded that “history teaches us that it is the validity of spiritual values that constitutes the spiritual bond. They cannot be replaced by fire and sword, nor by any other form of force. All governance that endures, and all the order that society has thus achieved, is the result of inner domination.”[29]

The state which Spann aimed to restore was also federalistic in nature, uniting all “partial wholes” – corporate bodies and local regions which would have a certain level of local self-governance – with respect to the higher Authority. As Julius Evola wrote, in a description that is in accord with Spann’s views, “the true state exists as an organic whole comprised of distinct elements, and, embracing partial unities [wholes], each possesses a hierarchically ordered life of its own.”[30] All throughout world history the hierarchical, corporative True State appears and reappears; in the ancient states of Sparta, Rome, Persia, Medieval Europe, and so on. The structures of the states of these times “had given the members of these societies a profound feeling of security. These great civilizations had been characterized by their harmony and stability.”[31]

Liberal modernity had created a crisis in which the harmony of older societies was damaged by capitalism and in which social bonds were weakened (even if not eliminated) by individualism. However, Spann asserted that all forms of liberalism and individualism are a sickness which could never succeed in fully eliminating the original, primal reality. He predicted that in the era after World War I, the German people would reassert its rights and would create revolution restoring the True State, would recreate that “community tying man to the eternal and absolute forces present in the universe,”[32] and whose revolution would subsequently resonate all across Europe, resurrecting in modern political life the immortal principles of Universalism.

Spann’s Influence and Reception

Othmar Spann and his circle held influence largely in Germany and Austria, and it was in the latter country that their influence was the greatest. Spann’s philosophy became the basis of the ideology of the Austrian Heimwehr (“Home Guard”) which was led by Ernst Rüdiger von Starhemberg. Leaders of the so-called “Austro-fascist state,” including Engelbert Dollfuss and Kurt Schuschnigg, were also partially influenced by Spann’s thought and by members of the “Spann circle.”[33] However, despite the fact that this state was the only one which truly attempted to actualize his ideas, Spann did not support “Austro-fascism” because he was a pan-Germanist and wanted the German people unified under a single state, which is why he joined Hitler’s National Socialist movement, which he believed would pave the way to the True State.

Despite repeated attempts to influence National Socialist ideology and the leaders of the NSDAP, Spann and his circle were rejected by most National Socialists. Alfred Rosenberg, Robert Ley, and various other authors associated with the SS made a number of attacks on Spann’s school. Rosenberg was annoyed both by Spann’s denial of the importance of blood and by his Catholic theocratic position; he wrote that “the Universalist school of Othmar Spann has successfully refuted idiotic materialist individualism . . . [but] Spann asserted against traditional Greek wisdom, and claimed that god is the measure of all things and that true religion is found only in the Catholic Church.”[34]

Aside from insisting on the reality of biological laws, other National Socialists also criticized Spann’s political proposals. They asserted that his hierarchical state would create a destructive divide between the people and their elite because it insisted on their absolute separateness; it would destroy the unity they had established between the leadership and the common folk. Although National Socialism itself had elements of elitism it was also populist, and thus they further argued that every German had the potential to take on a leadership role, and that therefore, if improved within in the Volksgemeinschaft (“Folk-Community”), the German people were thus not necessarily divisible in the strict view of superior elites and inferior masses.[35]

As was to be expected, Spann’s liberal critics complained that his anti-individualist position was supposedly too extreme, and the social democrats and Marxists argued that his corporatist state would take away the rights of the workers and grant rulership to the bourgeois leaders. Both accused Spann of being an unrealistic reactionary who wanted to revive the Middle Ages.[36] However, here we should note here that Edgar Julius Jung, who was himself basically a type of Universalist and was heavily inspired by Spann’s work, had mentioned that:

We are reproached for proceeding alongside or behind active political forces, for being romantics who fail to see reality and who indulge in dreams of an ideology of the Reich that turns toward the past. But form and formlessness represent eternal social principles, like the struggle between the microcosm and the macrocosm endures in the eternal swing of the pendulum. The phenomenal forms that mature in time are always new, but the great principles of order (mechanical or organic) always remain the same. Therefore if we look to the Middle Ages for guidance, finding there the great form, we are not only not mistaking the present time but apprehending it more concretely as an age that is itself incapable of seeing behind the scenes.[37]

Edgar Jung, who was one of Hitler’s most prominent radical Conservative opponents, expounded a philosophy which was remarkably similar to Spann’s, although there are some differences we would like to point out. Jung believed that neither Fascism nor National Socialism were precursors to the reestablishment of the True State but rather “simply another manifestation of the liberal, individualistic, and secular tradition that had emerged from the French Revolution.”[38] Fascism and National Socialism were not guided by a reference to a Divine power and were still infected with individualism, which he believed showed itself in the fact that their leaders were guided by their own ambitions and not a duty to God or a power higher than themselves.

Edgar Jung also rejected nationalism in the strict sense, although he simultaneously upheld the value of Volk and the love of fatherland, and advocated the reorganization of the European continent on a federalist basis with Germany being the leading nation of the federation. Also in contrast to Spann’s views, Jung believed that genetic inheritance did play a role in the character of human beings, although he believed this role was secondary to cultural and spiritual factors and criticized common scientific racialism for its “biological materialism.”

Jung asserted that what he saw as superior racial elements in a population should be strengthened and the inferior elements decreased: “Measures for the raising of racially valuable components of the German people and for the prevention of inferior currents must however be found today rather than tomorrow.”[39] Jung also believed that the elites of the Reich, while they should be open to accepting members of lower levels of the hierarchy who showed leadership qualities, should marry only within the elite class, for in this way a new nobility possessing leadership qualities strengthened both genetically and spiritually would be developed.[40]

Whereas Jung constantly combatted National Socialism to his life’s end, up until the Anschluss Othmar Spann had remained an enthusiastic supporter of National Socialism, always believing he could eventually influence the Third Reich leadership to adopt his philosophy. This illusion was maintained in his mind until the takeover of Austria by Germany in 1938, soon after which Spann was arrested and imprisoned because he was deemed an ideological threat, and although he was released after a few months, he was forcibly confined to his rural home.[41] After World War II he could never regain any political influence, but he left his mark in the philosophical realm. Spann had a partial influence on Eric Voegelin and also on many Neue Rechte (“New Right”) intellectuals such as Armin Mohler and Gerd-Klaus Kaltenbrunner.[42] He has also had an influence on Radical Traditionalist thought, most notably on Julius Evola, who wrote that Spann “followed a similar line to my own,”[43] although there are obviously certain marked differences between the two thinkers. Spann’s philosophy thus, despite its flaws and limitations, has not been entirely lacking in usefulness and interest.

Notes

1. More detailed information on Othmar Spann’s life than provided in this essay can be found in John J. Haag, Othmar Spann and the Politics of “Totality”: Corporatism in Theory and Practice (Ph.D. Thesis, Rice University, 1969).

2. See Othmar Spann, Types of Economic Theory (London: George Allen and Unwin, 1930), p. 61. We should note to the reader that this book is the only major work by Spann to have been published in English and has also been published under an alternative title as History of Economics.

3. Othmar Spann as quoted in Ernest Mort, “Christian Corporatism,” Modern Age, Vol. 3, No. 3 (Summer 1959), p. 249. Available online here: http://www.mmisi.org/ma/03_03/mort.pdf [2].

4. For a more in-depth and scientific overview of Spann’s studies of society, see Barth Landheer, “Othmar Spann’s Social Theories.” Journal of Political Economy, Vol. 39, No. 2 (April, 1931), pp. 239–48. We should also note to our readers that Othmar Spann’s anti-individualist social theories are more similar to those of other “far Right” sociologists such as Hans Freyer and Werner Sombart. However, it should be remembered that sociologists from nearly all political positions are opposed to individualism to some extent, whether they are of the “moderate Center” or of the “far Left.” Furthermore, anti-individualism is a typical position among many mainstream sociologists today, who recognize that individualistic attitudes – which are, of course, still an issue in societies today just as they were an issue a hundred years ago – have a harmful effect on society as a whole.

5. Othmar Spann, Der wahre Staat (Leipzig: Verlag von Quelle und Meyer, 1921), p. 29. Quoted in Eric Voegelin, Theory of Governance and Other Miscellaneous Papers, 1921–1938 (Columbia: University of Missouri Press, 2003), p. 68.

6. Spann, Der wahre Staat, p. 29. Quoted in Voegelin, Theory of Governance, p. 69.

7. Spann, Types of Economic Theory, pp. 60–61.

8. Ibid., p. 61.

9. Spann, Der wahre Staat, pp. 29 & 34. Quoted in Voegelin, Theory of Governance, pp. 70–71.

10. J. Glenn Friesen, “Dooyeweerd, Spann, and the Philosophy of Totality,” Philosophia Reformata, 70 (2005), p. 6. Available online here: http://members.shaw.ca/hermandooyeweerd/Totality.pdf [3].

11. Spann, Types of Economic Theory, p. 199.

12. See Haag, Spann and the Politics of “Totality,” p. 48.

13. Eric Voegelin, Race and State (Columbia: University of Missouri Press, 1997), pp. 117–18.

14. Ludwig F. Clauss, Rasse und Seele (Munich: J. F. Lehmann, 1926), pp. 20–21. Quoted in Richard T. Gray, About Face: German Physiognomic Thought from Lavater to Auschwitz (Detroit: Wayne State University Press, 2004), p. 307.

15. For an overview of Evola’s theory of race, see Michael Bell, “Julius Evola’s Concept of Race: A Racism of Three Degrees.” The Occidental Quarterly, Vol. 9, No. 4 (Winter 2009–2010), pp. 101–12. Available online here: http://toqonline.com/archives/v9n2/TOQv9n2Bell.pdf [4]. For a closer comparison between the Evola’s theories and Clauss’s, see Julius Evola’s The Elements of Racial Education (Thompkins & Cariou, 2005).

16. See Haag, Spann and the Politics of “Totality, p. 136.

17. A more in-depth explanation of “Radical Traditionalism” can be found in Chapter 1: Revolution – Counterrevolution – Tradition” in Julius Evola, Men Among the Ruins: Postwar Reflections of a Radical Traditionalist, trans. Guido Stucco, ed. Michael Moynihan (Rochester: Inner Traditions, 2002).

18. See Spann, Types of Economic Theory, pp. 162–64.

19. Ibid., p. 162.

20. Ibid., p. 226.

21. Ibid., p. 230.

22. Spann, Der wahre Staat, p. 111. Quoted in Janek Wasserman, Black Vienna, Red Vienna: The Struggle for Intellectual and Political Hegemony in Interwar Vienna, 1918–1938 (Ph.D. Dissertion, Washington University, 2010), p. 80.

23. Spann, Types of Economic Theory, pp. 212.

24. For a commentary on individual natural rights theory, see Ibid., pp.53 ff.

25. Spann, Der wahre Staat, p. 185. Quoted in Wassermann, Black Vienna, Red Vienna, p. 82.

26. Haag, Spann and the Politics of “Totality,” p. 32.

27. Othmar Spann, Kurzgefasstes System der Gesellschaftslehre (Berlin: Quelle und Meyer, 1914), p. 429. Quoted in Voegelin, Theory of Governance, p. 301.

28. Spann, Gesellschaftslehre, p. 241. Quoted in Voegelin, Theory of Governance, p. 297.

29. Spann, Gesellschaftslehre, p. 495. Quoted in Voegelin, Theory of Governance, p. 299.

30. Julius Evola, The Path of Cinnabar (London: Integral Tradition Publishing, 2009), p. 190.

31. Haag, Spann and the Politics of “Totality, p. 39.

32. Ibid., pp. 40–41.

33. See Günter Bischof, Anton Pelinka, Alexander Lassner, The Dollfuss/Schuschnigg Era in Austria: A Reassessment (New Brunswick, NJ: Transaction Publishers, 2003), pp. 16, 32, & 125 ff.

34. Alfred Rosenberg, The Myth of the Twentieth Century (Sussex, England: Historical Review Press, 2004), pp. 458–59.

35. See Haag, Spann and the Politics of “Totality, pp. 127–29.

36. See Ibid., pp. 66 ff.

37. Edgar Julius Jung, “Germany and the Conservative Revolution,” in: The Weimar Republic Sourcebook, edited by Anton Kaes, Martin Jay, and Edward Dimendberg (Berkeley and Los Angeles: University of California Press, 1995), p. 354.

38. Larry Eugene Jones, “Edgar Julius Jung: The Conservative Revolution in Theory and Practice,” Conference Group for Central European History of the American Historical Association, Vol. 21, No. 02 (1988), p. 163.

39. Edgar Julius Jung, “People, Race, Reich,” in: Europa: German Conservative Foreign Policy 1870–1940, edited by Alexander Jacob (Lanham, MD, USA: University Press of America, 2002), p. 101.

40. For a more in-depth overview of Jung’s life and thought, see Walter Struve, Elites Against Democracy: Leadership Ideals in Bourgeois Political Thought in Germany, 1890–1933 (Princeton, N.J.: Princeton University, 1973), pp. 317 ff. See also Edgar Julius Jung, The Rule of the Inferiour, 2 vols. (Lewiston, New York: Edwin Mellon Press, 1995).

41. Haag, Spann and the Politics of “Totality, pp. 154–55.

42. See our previous citations of Voegelin’s Theory of Governance and Race and State; Armin Mohler, Die Konservative Revolution in Deutschland 1918–1932 (Stuttgart: Friedrich Vorwerk Verlag, 1950); “Othmar Spann” in Gerd-Klaus Kaltenbrunner, Vom Geist Europas, Vol. 1 (Asendorf: Muth-Verlag, 1987).

43. Evola, Path of Cinnabar, p. 155.

 

 


 

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[2] http://www.mmisi.org/ma/03_03/mort.pdf: http://www.mmisi.org/ma/03_03/mort.pdf

[3] http://members.shaw.ca/hermandooyeweerd/Totality.pdf: http://members.shaw.ca/hermandooyeweerd/Totality.pdf

[4] http://toqonline.com/archives/v9n2/TOQv9n2Bell.pdf: http://toqonline.com/archives/v9n2/TOQv9n2Bell.pdf

 

dimanche, 17 mars 2013

Le sentiment de culpabilité et son usage collectif

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Le sentiment de culpabilité et son usage collectif

par Martin Mosebach

Ex: http://www.catholica.presse.fr/

Le thème de la culpabilité revêt une dimension particulière en Allemagne, du fait de l’histoire de ce pays et de l’exploitation qui en a été faite pendant de nombreuses années, rendant pour longtemps difficile la mise en place d’un discours dépassionné. On se souvient sans doute de la « querelle des historiens » lancée en 1986 par Ernst Nolte autour de l’interprétation comparatiste des totalitarismes nazi et communiste, ou encore de la polémique autour de l’écrivain allemand Martin Walser qui s’était élevé, à l’occasion de la remise d’un important prix littéraire, contre l’instrumentalisation de la culpabilité allemande et son rappel permanent dans les médias.
Ecrivain renommé, auteur de nombreux romans et nouvelles, honoré à plusieurs reprises de prix littéraires d’envergure, Martin Mosebach est un observateur avisé de la société allemande et des tendances idéologiques qui la parcourent. Il est également un analyste de l’influence exercée par ces tendances sur le monde catholique1 [1] . C’est à ce double titre que nous lui avons posé quelques questions sur le sentiment de culpabilité qui affecte la culture occidentale et sur la manière dont il frappe le catholicisme.

Catholica – La culpabilité est très présente dans l’idéologie qui est actuellement dominante en Europe occidentale et qui trouve de nombreux échos dans le reste du monde. Nous sommes en présence d’une sorte de lamentation contrôlée qui a généralement pour objet tout ce qui relève de la culture traditionnelle, chrétienne en particulier, voire plus précisément catholique. Jusqu’à quel point cela se vérifie-t-il en Allemagne dans ce que Habermas appelle l’« espace public » ?


Martin Mosebach – Le sentiment de culpabilité est un concept issu de la psychanalyse, qui signifie la souffrance névrosée due à une faute qui n’existe pas. Si l’on s’en tient à la vérité, il nous faut constater que la  « faute » de la chrétienté dont on entend si souvent parler n’a rien à voir avec cette question de l’imagination névrosée. Il est tout à fait certain que la transformation complète et soudaine du monde occidental par la révolution industrielle – avec l’immense destruction de civilisation qui l’a accompagnée – est en quelque sorte l’un des « fruits » du christianisme.
C’est le christianisme qui a « désenchanté » le monde, qui a chassé les nymphes et les druides des forêts et qui a livré la terre à l’emprise de l’homme. Les grands mouvements politiques qui ont ravagé le monde depuis la Révolution française peuvent tous être analysés comme des hérésies chrétiennes. Liberté, égalité et fraternité sont une version sécularisée de la Trinité, le communisme est un millénarisme hérétique, le libéralisme, avec sa main invisible du marché est une théologie sécularisée du Saint-Esprit, le calvinisme est le père du capitalisme, le national-socialisme a conçu l’image hérétique d’un peuple choisi. La force explosive du christianisme s’exprime aussi dans la violence destructrice extrêmement dangereuse de ses hérésies – cette analyse permet d’avoir un jugement beaucoup plus nuancé sur l’Inquisition des siècles passés.
Mais cette fatalité de la religion chrétienne, qui n’exprime pas autre chose que l’inquiétude constante dans laquelle la doctrine chrétienne place l’homme, n’est pas ce que les critiques modernes de l’Eglise ont à l’esprit lorsqu’ils voient en elle la source de tous les maux.
Nous nous trouvons – comme toujours – dans une situation contradictoire. D’un côté, les psychanalystes à l’ancienne mode et les neurobiologistes dénient à l’homme toute possibilité d’une culpabilité effective. De l’autre, on veut attribuer tous les torts à l’Eglise. Le péché originel n’existe pas mais l’Eglise est accusée d’avoir commis un péché originel, celui de l’avoir « inventé ». Je vois dans cette tendance la répugnance de principe qu’a le démocrate moderne à l’idée de devoir accepter une institution qui ne doit pas son existence à une décision prise suivant le principe majoritaire démocratique moderne, qui ne reçoit pas ses critères de légitimité du temps présent et qui ne considère pas la volonté majoritaire comme la source ultime du droit. Pour l’idéologie radicale-démocratique, une institution dont la tradition n’est aucunement soumise au consentement d’une majorité est fondamentalement inacceptable. Elle est le mal par excellence, une sorte d’ennemi mortel à caractère religieux. [...]

  1. . Martin Mosebach est notamment l’auteur d’un livre traduit en français, La liturgie et son ennemie. L’hérésie de l’informe, Hora decima, 2005 ; voir également le texte de son intervention au colloque organisé par le cardinal Ranjith à Colombo (Sri Lanka) en septembre 2010, « Le missel traditionnel, perdu et retrouvé », in Revue Una Voce, n. 277, mars-avril 2011. [ [2]]

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samedi, 16 mars 2013

Un Papa argentino: mamma mia

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Un Papa argentino: mamma mia

 

Alberto Buela (*)

 

Si los argentinos somos famosos en el mundo por nuestra desmedida autovaloración, qué no dirán ahora.

A Maradona, Messi, Fangio, Gardel, Perón, Evita, el Ché Guevara, Borges y la Reina Máxima de Holanda, ahora sumamos a un Papa.

Además es el primer el primer Papa americano[1], aunque algunos periodistas zafios sostienen que es el primer no europeo, ignorando a San Pedro y otros muchos.

Ahora bien, ¿ tiene esto alguna significación primero para nuestro país, luego para Suramérica y la ecúmene iberoamericana y luego para el mundo?.

Es sabido que es muy difícil realizar una prognósis con cierto rigor, pues el conocimiento del futuro nos está vedado desde el momento que tal don quedó encerrado en la Caja de Pandora.

Con esta prevención y sabiendo que vamos a hablar más como filodoxos, como amantes de la opinión, es que intentaremos algunas observaciones.

 

Para Argentina esta elección como Papa de uno de sus hijos es una exigencia de un mayor compromiso católico tanto de su pueblo como, sobretodo, de sus gobernantes. Pues tiene que haber una cierta proporcionalidad entre lo que somos y lo que decimos que somos. De lo contrario, vamos a hacer verdad aquel viejo chiste que dice que el mejor negocio del mundo es comprar a un argentino por lo que vale y venderlo por lo que él dice que vale. Y hoy esta elección del Papa Francisco está diciendo que los argentinos valemos mucho. Bueno, si es así, nosotros como pueblo y nuestros gobernantes como tales tenemos que realizar, todos, acciones que nos eleven a esa consideración hacia la que nos arrastra la designación de un Papa de nuestra nacionalidad.

 

Con respecto a Suramérica el hecho potencia a la región. Porque las vivencias que de la zona tiene el Papa hacen de él un vocero privilegiado de sus necesidades e intereses y porque además pues posee un conocimiento directo, no mediado o mediático de la región y sus diferentes países.

 

Con relación a la ecúmene iberoamericana en su conjunto, el Papa Francisco tiene una visión integradora  al estilo de Bolivar, San Martín y más cercanos a nosotros Perón, Vargas o el reciente fallecido Chávez. Esto no quiere decir que Francisco sea peronista, pero sí que tiene una acabada comprensión de este fenómeno político.

 

Finalmente, con respecto al resto del mundo, estimamos que iniciará una gran campaña de evangelización intentando recuperar África y las ex repúblicas soviéticas para la Iglesia. Y seguramente reclamará por los reiterados asesinatos de cristianos, en 2011 hubo 105.000 muertos, mayoritariamente, en países con gobiernos islámicos.

 

En cuanto a su perfil cultural es un jesuita formado en la época de plena ebullición del Concilio Vaticano II. Esto es, cuando comienza la decadencia de la orden. No recibe casi formación teológica sino mas bien sociológica de acuerdo con la pautas de la orden en ese momento. Así, el sacerdote no tenía que “hacer lo sagrado” sino “militar y activar políticamente”. Los jesuitas se transformaron en sociólogos más que curas. De ahí que la orden se vació en tan solo una década. Cuando el Padre Bergoglio fue provincial de la orden (1973/79) entregó el manejo de la Universidad jesuita del Salvador a los protestantes (Pablo Franco, Oclander et alii). Mientras él se dedicaba a asesorar espiritual y políticamente a la agrupación Guardia de Hierro, que vendría a ser una especie de sucursal argentina del Movimiento Comunione e liberzione. Una agrupación político religiosa bicéfala, que era liberacionista en Argentina y conservadora en Italia.

Su elección como Pater inter pares, cuyo acróstico forma el término Papa, trajo tranquilidad a la curia vaticana porque Francisco es hijo de italianos por parte de madre y padre y es nacido y criado en Buenos Aires, esa mega ciudad que  hiciera exclamar al medievalista Franco Cardini: la piu grande citá italiana del mondo. Es decir, estamos hablando de un “primo hermano, hermano” de los italianos. Al mismo tiempo, su vinculación simpatética (con el mismo páthos) con la comunidad judía argentina, la más numerosa después de la de Israel, le asegura al Vaticano que no habrá ningún sobresalto, “raigalmente católico,” por parte de Francisco. Hoy en Buenos Aires todos los rabinos y judíos sin excepción festejan su designación como Papa. Salvo el caso del periodista Horacio Verbitsky, difamador profesional y administrador de “los derechos humanos selectivos” del gobierno de Kirchner.

Como Arzobispo de Buenos Aires y como cardenal primado ha mostrado siempre una predilección por los pobres en la línea de Juan Pablo II y Ratzinger. Al mismo tiempo que comparte con ellos una cierta ortodoxia.

 

Y desde este lugar se opuso siempre al gobierno neoliberal de Menem y al socialdemócrata de los Kirchner. Con estos últimos su enfrentamiento ha sido y es muy fuerte, no tanto por razones ideológicas, no olvidemos que los dos se dicen progresistas, sino que se trata de dos personalidades (una profana y otra religiosa) que creen ser los auténticos intérpretes del pueblo.

 

¿Qué nos está permitido esperar?.  Que Francisco I siga la senda marcada por el Vaticano II, por Juan Pablo II y por Benedicto XVI sin mayores sobresaltos. La centralidad de la Iglesia seguirá siendo Roma pero su hija predilecta dejará de ser Europa para ser Iberoamérica, donde vive la mayor masa de católicos del mundo.

 

Hoy desde todos los centros de poder mundano, y los “analfabetos locuaces”(los periodistas) como sus agentes, piden que la Iglesia cambie en todo para terminar transformándose en una “religión política”  más, como lo son el liberalismo, la socialdemocracia, el marxismo y los nacionalismos. Y lo lamentable es que el mundo católico acepta esto como una necesidad ineluctable. Olvidando que el cristianismo es, antes que nada, un saber de salvación y no un saber social.

 

Y lo sagrado, la sacralidad de la Iglesia, la actio sacra,  la sed de sacralidad del pueblo, el retiro de Dios, el crepúsculo de la trascendencia?. 

 

¡Ah, no!, eso es pedirle demasiado a un Papa argentino.

 

(*) arkegueta, mejor que filósofo

buela.alberto@gmail.com



[1] Por favor, no digan más latinoamericano, que es un error conceptual grave. Latinos son solo los del Lacio en Italia. Nosotros en América somos hispanoamericanos, iberoamericanos, indoibéricos, indianos o simplemente americanos. Pero no latinoamericanos que es un invento espurio, falaz y, sobretodo, desnaturalizante para designarnos.

mardi, 12 mars 2013

La Iglesia post-Malaquias

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La Iglesia post-Malaquias

por Ernesto Milá 

Ex; http://infokrisis.blogia.com/

Infokrisis.- Como se sabe Benedicto XVI era el último papa de la profecía de Malaquías, quizás no tan antigua como se creyó, pero que, en cualquier caso, desde el siglo XVII acierta en cuanto a las características de los papas que se van sucediendo en el trono de San Pedro. Albino Luciani, como se sabe estaba asociado al lema “luz blanca”, perfecta traducción de su nombre laico. Juan Pablo II, “labori dei soli”, correspondía tanto a su carácter trabajador como a la novedad de que fuera uno de los pocos papas rubicundos de la historia. Y así sucesivamente. Da la sensación de que Malaquías o quien fuera, percibió como en una perspectiva aérea y rápida las características del reinado de los papas y retuvo en su memoria el rasgo que más le llamó la atención, asociándola a un lema. A fin de cuentas, una profecía no es más que la dramatización sensible de un hecho intuido. Pues bien, la lista de papas aportada por Malaquías ya ha concluido.

Con Benedicto XVI ha tenido lugar una novedad sin precedentes. No era normal encontrarse con un papa dimisionario. La cuestión que se plantea es por qué ha dimitido. El decir que no se sentía con fuerzas no sirve: ¿Con fuerzas para qué? A fin de cuentas, el antiguo miembro de las Hitlerjugend y artillero de la FLAK, era un intelectual y si llegó al papado fue precisamente por su superioridad en ese terreno. El intelectual lo es hasta su muerte. Pero el intelectual no es, necesariamente un gestor enérgico. Y todos sabemos que resulta muy difícil dirigir incluso una empresa familiar con la bondad y la razón.

El problema de fondo es el que se planteó desde los años 60 cuando el Concilio Vaticano II se presentó como una necesidad (la de “aggiornar” la Iglesia, “ponerla al día”), pero que concluyó en un lamentable fracaso autodestructivo. La Iglesia se puso al día en casi todo… menos en los problemas que preocupaban a los jóvenes: especialmente en todo lo relativo a la sexualidad. Y en ello sigue. Se modificó la liturgia (para “acercarla al pueblo”) y se aumentó el rol de la Virgen (muy por encima de su presencia efectiva en los Evangelios)… los prelados creyeron en la sugestión de los años 60, cuando todos, incluido los hippis, pensaban que se entraba en “tiempos nuevos”, cuando incluso en las filas eclesiásticas se creía que estaba próximo el advenimiento de una “nueva era” bajo el signo del humanismo y el universalismo y que sonaban tiempos en los que la mujer aumentaría su papel en la sociedad. Todo eso no eran más que sugestiones con las que se justificó el desmantelamiento de la liturgia y la creación de un ceremonial a medio camino entre el protestantismo y la iglesia tridentina.

Lo que hasta entonces eran certidumbres y dogmas, se convirtieron en algo en lo que hasta los mismos sacerdotes dejaron de creer y que nunca estuvieron en condiciones de transmitir. Los argumentos para defender la virginidad o las restricciones puestas a la sexualidad, serían admisibles dentro de un contexto de autocontrol y en la educación de la voluntad, pero no podían solamente avalarse en función de dogmas o encíclicas. De la misma forma que la educación en España languidece porque una parte sustancial del profesorado ha dejado de creer (por las razones que sean) en su misión, la Iglesia ha periclitado porque sus pastores han dejado de dominar el arte de conducir a su rebaño.

Todo eso importa ya poco: el papel de la Iglesia ha pasado y la misma Iglesia pertenece, más que a otro mundo, a otro tiempo. La homosexualidad y la pederastia entre algunos cleros nacionales es solamente una desagradable anécdota más. Mucho más grave es que los seminarios estén vacíos, que la edad media del clero supere los 60 años y que Europa haya dejado de ser el centro de la Iglesia para pasar éste a Asia y especialmente África. Hoy, Europa es nuevamente “tierra de misiones”.

La unidad de la Iglesia ha sido sustituida por la multiplicidad de sectas, sectillas (o si se le quiere llamar “prelaturas personales” y “asociaciones confesionales”) construidas por personajes de los que lo más piadoso que puede decirse es que sean ejemplos de moralidad, santificados o no. Mientras el clero diocesano es hoy casi una entelequia, estas asociaciones tienen medios, movilizan militancia y despliegan una actividad que ya el sacerdote de barrio no está en condiciones, ni con ganas de realizar. Siempre ha habido órdenes religiosas en la Iglesia, sí, pero las nuevas “asociaciones” y sus fundadores carecen de al altura de benedictinos, franciscanos, dominicos, etc. Y eso es lo que queda de la Iglesia, eso y un patrimonio extraordinario cuyo control, por cierto, es lo que persiguen buena parte –no digamos todos, por pura prudencia- de esos grupos.

En cuanto a la Iglesia española no hay que olvidar que los conventos femeninos ya están casi completamente vacíos de monjas de menos de 60 años, la mayoría de las novicias son filipinas, sudamericanas y africanas. Sin olvidar que en El Raval de Barcelona existen 15 “puntos de oración” islamistas y una sola iglesia católica con oficios una vez a la semana (y otras dos cerradas). La llegada masiva de sudamericanos ha servido mucho más para revitalizar las dormidas sectas evangélicas y a los protestantes, que a la adormilada iglesia local. Y los seminarios siguen vacíos.

Hace diez años escribimos que a la Iglesia española sólo le quedaba irse extinguiendo como la luz de una vela en su último tramo. Hoy reiteramos esa impresión en la certidumbre de que así ha ido ocurriendo. No se espere que tal acumulación de patrimonio y tantos millones de fieles pueden desaparecer de un día para otro, pero si resulta inevitable que se vayan extinguiendo poco a poco, perdiendo influencia primero, luego perdiendo peso social, luego dándose dentelladas en su interior y, finalmente, dirigido por una jerarquía para la que lo predicado no tiene ya nada que ver con lo pensado o con el día a día vivido por ella misma. Porque el problema no es de falta de vocaciones, sino de plantearse ¿cuántos sacerdotes y jerarquías en activo siguen creyendo verdaderamente en el dogma y cuántos otros están donde están por simple inercia, por conveniencia social, ambición o apatía?

En España todo esto es mucho más trágico, especialmente para los patriotas que asocian su fe política a su fe religiosa. La escuela de historiografía que asoció la historia de nuestro país con la iglesia católica hizo que España empezara a existir SÓLO desde la conversión de Recaredo… Pero hubo una Hispaniae antes del episodio, de la misma forma que hay una España ahora cuando con propiedad puede decirse que “España ha dejado de creer en el catolicismo” (porque el catolicismo militante es sólo patrimonio de una minoría y la inmensa mayoría de la población está ausente de los oficios religiosos). Creemos, en estas circunstancias, que resulta muy difícil seguir manteniendo esta identidad entre Catolicismo y España. El declive inevitable del primero, no debe necesariamente entrañar el fin del segundo.

El problema religioso no me interesa más allá de mí mismo. Allá cada cual con su conciencia y su vida y allá cada cual con sus creencias. Pero hay que reconocer que no podemos hacer nada para rectificar la pendiente decadente de la Iglesia (doctores tiene la institución…) en este período post-Malaquías. Pero sí podemos hacer algo por nuestro país. Es hora de un patriotismo emancipado definitivamente de la idea religiosa que responda a las preguntas de cuál es la “misión” y el “destino” de España en el siglo XXI, sin recurrir a algo que ya sigue una dinámica autodestructiva propia ante la cual no podemos hacer nada.

Poco importa lo que decida el cónclave y cuál sea el nuevo “rostro” que presidirá el Vaticano, la crisis de la Iglesia es tal que con las meras fuerzas humanas resulta imposible rescatarla… y para los que esperan una intervención divina, lo sucedido en las últimas décadas en la Iglesia induce a dudar sobre si allí queda algo de divino o, simplemente, es un pozo de inmoralidades tal como parece haberlo percibido un intelectual metido a Papa que prefiere dimitir antes que seguir al frente de la cáscara hecha de oropel y dogma, vacía y hueca, en la que las dentelladas entre sectas sustituyen al amor fraterno, las inversiones del Banco Vaticano tienen más peso que el ejercicio de la caridad, la tercermundización interesa más que la difusión de una visión cultural clásica, el vicio se enseñorea de la jerarquía cuando la jerarquía debía ser ejemplo y cuando lo único que puede hacerse es, o gritar la verdad esperando una reacción o bien retirarse a meditar a la espera de los últimos días.

Benedicto XVI, el antiguo artillero de la FLAK y el antiguo Hitlerjugend ha optado por lo segundo. No voy a ser yo quien se lo reproche a quien, en rigor, puede ser llamado “el último papa”

© Ernesto Milá – infokrisis – ernesto.mila.rodri@gmail.com

mardi, 12 juin 2012

Recension: le livre de cécile Vanderpelen-Diagre sur la littérature catholique belge dans l’entre-deux-guerres

Recension: le livre de cécile Vanderpelen-Diagre sur la littérature catholique belge dans l’entre-deux-guerres

Script du présentation de l’ouvrage dans les Cercles de Bruxelles, Liège, Louvain, Metz, Lille et Genève

Recension : Cécile Vanderpelen-Diagre, Écrire en Belgique sous le regard de Dieu, éd. Complexe / CEGES, Bruxelles, 2004.

89714410.jpgDans son ouvrage majeur, qui dévoile à la communauté scientifique les thèmes principaux de la littérature catholique belge de l’entre-deux-guerres, Cécile Vanderpelen-Diagre aborde un continent jusqu’ici ignoré des historiens, plutôt refoulé depuis l’immédiat après-guerre, quand le monde catholique n’aimait plus se souvenir de son exigence d’éthique, dans le sillage du Cardinal Mercier ni surtout de ses liens, forts ou ténus, avec le rexisme qui avait choisi le camp des vaincus pendant la Seconde Guerre mondiale.

Pendant plusieurs décennies, la Belgique a vécu dans l’ignorance de ses propres productions littéraires et idéologiques, n’en a plus réactivé le contenu sous des formes actualisées et a, dès lors, sombré dans l’anomie totale et dans la déchéance politique : celle que nous vivons aujourd’hui. Plus aucune éthique ne structure l’action dans la Cité.

Le travail de C. Vanderpelen-Diagre pourrait s’envisager comme l’amorce d’une renaissance, comme une tentative de faire le tri, de rappeler des traditions culturelles oubliées ou refoulées, mais il nous semble qu’aucun optimisme ne soit de mise : le ressort est cassé, le peuple est avachi dans toutes ses composantes (à commencer par la tête...). Son travail risque bien de s’apparenter à celui de Schliemann : n’être qu’une belle œuvre d’archéologue. L’avenir nous dira si son livre réactivera la “virtù” politique, au sens que lui donnaient les Romains de l’antiquité ou celui qui entendait la réactiver, Nicolas Machiavel.

“Une littérature qui a déserté la mémoire collective”

Dès les premiers paragraphes de son livre, C. Vanderpelen-Diagre soulève le problème majeur : si la littérature catholique, qui exigeait un sens élevé de l’éthique entre 1890 et 1945, a cessé de mobiliser les volontés, c’est que ses thèmes “ont déserté la mémoire collective”. Le monde catholique belge (et surtout francophone) d’aujourd’hui s’est réduit comme une peau de chagrin et ce qu’il en reste se vautre dans la fange innommable d’un avatar lointain et dévoyé du maritainisme, d’un festivisme abject et d’un soixante-huitardisme d’une veulerie époustouflante. Aucun citoyen honnête, possédant un “trognon” éthique solide, ne peut se reconnaître dans ce pandémonium. Nous n’échappons pas à la règle : né au sein du pilier catholique parce que nos racines paysannes ne sont pas très loin et plongent, d’une part, dans le sol hesbignon-limbourgeois, et, d’autre part, dans ce bourg d’Aalter à cheval sur la Flandre occidentale et orientale et dans la région d’Ypres, comme d’autres naissent en Belgique dans le pilier socialiste, nous n’avons pas pu adhérer (un vrai “non possumus”), à l’adolescence, aux formes résiduaires et dévoyées du catholicisme des années 70 : c’est sans nul doute pourquoi, en quelque sorte orphelins, nous avons préféré le filon, alors en gestation, de la “nouvelle droite”.

L’époque de gloire du catholicisme belge (francophone) est oubliée, totalement oubliée, au profit du bric-à-brac gauchiste et pseudo-contestataire ou de parisianismes de diverses moutures (dont la “nouvelle droite” procédait, elle aussi, de son côté, nous devons bien en convenir, surtout quand elle a fini par se réduire à son seul gourou parisien et depuis que ses antennes intéressantes en dehors de la capitale française ont été normalisées, ignorées, marginalisées ou exclues). Cet oubli frappe essentiellement une “éthique” solide, reposant certes sur le thomisme, mais un thomisme ouvert à des innovations comme la doctrine de l’action de Maurice Blondel, le personnalisme dans ses aspects les plus positifs (avant les aggiornamenti de Maritain et Mounier), l’idéal de communauté. Cette “éthique” n’a plus pu ressusciter, malgré les efforts d’un Marcel De Corte, dans l’ambiance matérialiste, moderniste et américanisée des années 50, sous les assauts délétères du soixante-huitardisme des années 60 et 70 et, a fortiori, sous les coups du relativisme postmoderne et du néolibéralisme.

L’exigence éthique, pierre angulaire du pilier catholique de 1884 à 1945, n’a donc connu aucune résurgence. On ne la trouvait plus qu’en filigrane dans l’œuvre de Hergé, dans ses graphic novels, dans ses “romans graphiques” comme disent aujourd’hui les Anglais. Ce qui explique sans doute la rage des dévoyés sans éthique — viscéralement hostiles à toute forme d’exigence éthique — pour extirper les idéaux discrètement véhiculés par Tintin.

Les imitations serviles de modèles parisiens (ou anglo-saxons) ne sont finalement d’aucune utilité pour remodeler notre société malade. C. Vanderpelen-Diagre, qui fait œuvre d’historienne et non pas de guide spirituelle, a amorcé un véritable travail de bénédictin. Que nous allons immanquablement devoir poursuivre dans notre créneau, non pour jouer aux historiens mais pour appeler à la restauration d’une éthique, fût-elle inspirée d’autres sources (Mircea Eliade, Seyyed Hossein Nasr, Walter Otto, Karl Kerenyi, etc.). Il s’agit désormais d’analyser le contenu intellectuel des revues parues en nos provinces entre 1884 et 1945 au sein de toutes les familles politiques, de décortiquer la complexité idéologique qu’elles recèlent, de trouver en elles les joyaux, aussi modestes fussent-ils, qui relèvent de l’immortalité, de l’impassable, avec lesquels une “reconstruction” lente et tâtonnante sera possible au beau milieu des ruines (dirait Evola), en plein désert axiologique, où qui conforteront l’homme différencié (Evola) ou l’anarque (Jünger) pour (sur)vivre au milieu de l’horreur, dans le Château de Kafka, ou dans labyrinthe de son Procès.

Les travaux de Zeev Sternhell sur la France, surtout son Ni gauche, ni droite, nous induisaient à ne pas juger la complexité idéologique de cette période selon un schéma gauche/droite trop rigide et par là même inopérant. Dans le cadre de la Belgique, et à la suite de C. Vanderpelen-Diagre et de son homologue flamande Eva Schandervyl (cf. infra), c’est un mode de travail à appliquer : il donnera de bons résultats et contribuera à remettre en lumière ce qui, dans ce pays, a été refoulé pendant de trop nombreuses décennies.

La “Jeune Droite” d’Henry Carton de Wiart

de_wia10.jpgPour C. Vanderpelen-Diagre, les origines de la “révolution conservatrice” belge-francophone, essentiellement catholique, plus catholique que ses homologues dans la France républicaine, plus catholique que l’Action Française trop classiciste et pas assez baroque, se trouvent dans la Jeune Droite d’Henry Carton de Wiart (1869-1951), assisté de Paul Renkin et de l’historien arlonnais germanophile Godefroid Kurth, animateur du Deutscher Verein avant 1914 (le déclenchement de la Première Guerre mondiale et le viol de la neutralité belge l’ont forcé, dira-t-il, de « brûler ce qu’il a adoré » ; pour un historien qui s’est penché sur la figure de Clovis, cette parole a du poids...). La date de fondation de la Jeune Droite est 1891, 2 ans avant l’encyclique Rerum Novarum. La Jeune Droite n’est nullement un mouvement réactionnaire sur le plan social : il fait partie intégrante de la Ligue démocratique chrétienne. Il publie 2 revues : L’Avenir social et La Justice sociale. Les 2 publications s’opposent à la politique libéraliste extrême, prélude au néo-libéralisme actuel, préconisée par le ministre catholique Charles Woeste. Elles soutiennent aussi les revendications de l’Abbé Adolf Daens, héros d’un film belge homonyme qui a obtenu de nombreux prix et où l’Abbé, défenseur des pauvres, est incarné par le célèbre acteur flamand Jan Decleir.

Henry Carton de Wiart, alors jeune avocat, réclame une amélioration des conditions de travail, le repos dominical pour les ouvriers, s’insurge contre le travail des enfants, entend imposer une législation contre les accidents de travail. Il préconise également d’imiter les programmes sociaux post-bismarckiens, en versant des allocations familiales et défend l’existence des unions professionnelles. Très social, son programme n’est pourtant pas assimilable à celui des socialistes qui lui sont contemporains : Carton de Wiart ne réclame pas le suffrage universel pur et simple, et lui substitue la notion d’un suffrage proportionnel à partir de 25 ans, dans un système de représentation également proportionnelle.

En parallèle, Henry Carton de Wiart s’associe à d’autres figures oubliées de notre patrimoine littéraire et idéologique, Firmin Van den Bosch (1864-1949) et Maurice Dullaert (1865-1940). Le trio s’intéresse aux avant-gardes et réclame l’avènement, en Belgique, d’une littérature ouverte à la modernité. Deux autres revues serviront pour promouvoir cette politique littéraire : d’abord, en 1884, la jeune équipe tente de coloniser Le Magasin littéraire et artistique, ensuite, en 1894, 3 ans après la fondation de la Jeune Droite et un an après la proclamation de l’encyclique Rerum Novarum, nos 3 hommes fondent la revue Durandal qui paraîtra pendant 20 ans (jusqu’en 1914). Comme nous le verrons, le nom même de la revue fera date dans l’histoire du “mouvement éthique” (appellons-le ainsi...). Parmi les animateurs de cette nouvelle publication, citons, outre Henry Carton de Wiart lui-même, Pol Demade, médecin spécialisé en médecine sociale, et l’Abbé Henri Moeller (1852-1918). Ils seront vite rejoints par une solide équipe de talents : Firmin Van den Bosch, Pierre Nothomb (stagiaire auprès du cabinet d’avocat de Carton de Wiart), Victor Kinon (1873-1953), Maurice Dullaert, Georges Virrès (1869-1946), Arnold Goffin (1863-1934), Franz Ansel (1874-1937), Thomas Braun (1876-1961) et Adolphe Hardy (1868-1954).

Spiritualité et justice sociale

Leur but est de créer un “art pour Dieu” et leurs sources d’inspiration sont les auteurs et les artistes s’inspirant du “symbolisme wagnérien”, à l’instar des Français Léon Bloy, Villiers de l’Isle-Adam, Francis Jammes et Joris Karl Huysmans. Pour cette équipe, comme aussi pour Bloy, les catholiques sont une “minorité souffrante”, surtout en France à l’époque où sont édictées et appliquées les lois du “petit Père Combes”. Autres références françaises : les œuvres d’Ernest Psichari et de Paul Claudel. Le wagnérisme et le catholicisme doivent, en fusionnant dans les œuvres, générer une spiritualité offensive qui s’opposera au “matérialisme bourgeois” (dont celui de Woeste). La spiritualité et l’idée de justice sociale doivent donc marcher de concert. Le contexte belge est toutefois différent de celui de la France : les catholiques belges avaient gagné la bataille métapolitique, ils avaient engrangé une victoire électorale en 1884, à l’époque où Firmin Van den Bosch tentait de noyauter Le Magasin littéraire et artistique. Dans la guerre scolaire, les catholiques enregistrent également des victoires partielles : face aux libéraux, aux libéraux de gauche (alliés implicites des socialistes) et aux socialistes, il s’agit, pour la jeune équipe autour de Carton de Wiart et pour la rédaction de Durandal, de « gagner la bataille de la modernité ». À l’avant-garde socialiste (prestigieuse avec un architecte “Art Nouveau” comme Horta), il faut opposer une avant-garde catholique. La modernité ne doit pas être un apanage exclusif des libéraux et des socialistes. La différence entre ces catholiques qui se veulent modernistes (sûrement avec l’appui du Cardinal) et leurs homologues laïques, c’est qu’ils soutiennent la politique coloniale lancée par Léopold II en Afrique centrale. Le Congo est une terre de mission, une aire géographique où l’héroïsme pionnier ou missionnaire pourra donner le meilleur de lui-même.

Quelles valeurs va dès lors défendre Durandal ? Elle va essentiellement défendre ce que ses rédacteurs nommeront le “sentiment patrial”, présent au sein du peuple, toutes classes confondues. On retrouve cette idée dans le principal roman d’Henry Carton de Wiart, La Cité ardente, œuvre épique consacrée à la ville de Liège. La notion de “sentiment patrial”, nous la retrouvons surtout dans les textes annonciateurs de la “révolution conservatrice” dus à la plume de Hugo von Hofmannsthal, où l’écrivain allemand déplore la disparition des “liens” humains sous les assauts de la modernité et du libéralisme, qui brisent les communautés, forcent à l’exode rural, laissent l’individu totalement esseulé dans les nouveaux quartiers et faubourgs des grandes villes industrielles et engendrent des réflexes individualistes délétères dans la société, où les plaisirs hédonistes, furtifs ou constants selon la fortune matérielle, tiennent lieu d’Ersätze à la spiritualité et à la charité. Cette déchéance sociale appelle une “restauration créatrice”. Le sentiment d’Hofmannsthal sera partagé, mutatis mutandis, par des hommes comme Arthur Moeller van den Bruck et Max Hildebert Boehm.

L’idée “patriale” s’inscrit dans le projet du Chanoine Halflants, issu d’une famille tirlemontoise qui avait assuré le recrutement en Hesbaye de nombreux zouaves pontificaux, pour la guerre entre les États du Pape et l’Italie unitaire en gestation sous l’impulsion de Garibaldi. Avant 1910, le Chanoine Halflants préconisera tolérance et ouverture aux innovations littéraires. Après 1918, il prendra des positions plus “réactionnaires”, plus en phase avec la “bien-pensance” de l’époque et plus liées à l’idéal classique. Qu’est ce que cela veut dire ? Que le Chanoine entendait, dans un premier temps, faire figurer les œuvres littéraires modernes dans les anthologies scolaires, ainsi que la littérature belge (catholique qui adoptait de nouveaux canons stylistiques et des thématiques romanesques profanes). Il s’opposait dans ce combat aux Jésuites, qui n’entendaient faire étudier que des auteurs grecs et latins antiques. Halflants gagnera son combat : les Jésuites finiront par accepter l’introduction de nouveaux écrivains dans les curricula scolaires. De ces efforts naîtra une “anthologie des auteurs belges”. L’objectif, une fois de plus, est de ne pas abandonner les formes modernes d’art et de littérature aux forces libérales et socialistes qui, en épousant les formes multiples d’ “Art Nouveau” apparaissaient comme les pionniers d’une culture nouvelle et libératrice.

Bourgeoisie ethétisante et prêtres maurrassiens

Cette agitation de la Jeune Droite et de Durandal repose, mutatis mutandis, sur un clivage bien net, opposant une bourgeoisie industrielle et matérialiste à une bourgeoisie cultivée et esthétique, qui a le sens du Bien et du Beau que transmettent bien évidemment les humanités gréco-latines. La bourgeoisie matérialiste et industrielle est incarnée non seulement par les libéraux sans principes éthiques solides mais aussi par des catholiques qui se laissent séduire par cet esprit mercantile, contraire au “sentiment patrial”. Cette idée d’un clivage entre matérialistes et esthètes, on la retrouve déjà dans l’œuvre laïque et irreligieuse de Camille Lemonnier (édité en Allemagne, dans des éditions superbes, par Eugen Diederichs). La bourgeoisie affairiste provoque une décadence des mœurs que l’esthétisme de ceux de ses enfants, qui sont pieux et contestataires, doit endiguer. Pour enrayer les progrès de la décadence, il faut, selon les directives données antérieurement par Louis de Bonald en France, lutter contre le libéralisme politique.

C’est à partir du moment où certains jeunes catholiques belges, soucieux des questions sociales, entendent suivre les injonctions de Bonald, que la Jeune Droite et Durandal vont s’inspirer de Charles Maurras, en lui empruntant son vocabulaire combatif et opérant. Les catholiques belges de la Jeune Droite et les Français de l’Action française s’opposent donc de concert au libéralisme politique, en le fustigeant allègrement. Dans ce contexte émerge le phénomène des “prêtres maurrassiens”, avec, à Liège, Louis Humblet (1874-1949), à Mons, Valère Honnay (1883-1949) et, à Bruxelles, Ch. De Smet (1833-1911) et J. Deharveng (1867-1929). Ce maurrasisme est seulement stylistique dans une Belgique assez germanophile avant 1914. Les visions géopolitiques et anti-allemandes du filon maurrassien ne s’imposeront en Belgique qu’à partir de 1914. D’autres auteurs français influencent l’idéologie de Durandal, les 4 “B” : Barrès, Bourget, Bordeaux et Bazin.

C’est Bourget qui exerce l’influence la plus importante : il veut, en des termes finalement très peu révolutionnaires, une “humanité non dégradée”, reposant sur la famille, l’honneur conjugal et les fortes convictions (religieuses). Le poids de Bourget sera de longue durée : on verra que cette éthique très pieuse et très conventionnelle influencera le groupe de la “Capelle-aux-Champs” que fréquentera Hergé, le créateur de Tintin, et Franz Weyergans, le père de François Weyergans (qui répondra par un livre aux idéaux paternels, inspirés de Paul Bourget, livre qui lui a valu le “Grand Prix de la langue française” en 1997, ce qui l’amena plus tard à occuper un siège à l’Académie Française ; cf. : Franz et François, Grasset, 1997 ; pour comprendre l’apport de Bourget, tout à la fois à la modernisation du sentiment littéraire des catholiques et à la critique des œuvres contemporaines de Baudelaire, Stendhal, Taine, Renan et Flaubert, lire : Paul Bourget, Essais de psychologie contemporaine, Plon, Paris, 1937).

La Première Guerre mondiale va bouleverser la scène politique et métapolitique d’une Belgique qui, de germanophile, virera à la francophilie, surtout dans les milieux catholiques. La Grande Guerre génère d’abord une littérature inspirée par les souffrances des soldats. Parmi les morts au combat : le jeune Louis Boumal, lecteur puis collaborateur belge de L’Action française. Autour de ce personnage se créera le “mythe de la jeunesse pure sacrifiée”, que Léon Degrelle, plus tard, reprendra à son compte. Mais c’est surtout son camarade de combat Lucien Christophe (1891-1975), qui a perdu son frère Léon pendant la guerre, qui défendra et illustrera la mémoire de Louis Boumal. Celui-ci, tout comme Christophe, était un disciple d’Ernest Psichari, chantre catholique de l’héroïsme et du dévouement guerriers. Les anciens combattants de l’Yser, Christophe en tête, déploreront l’ingratitude du pays à partir de 1918, l’absence de solidarité nationale une fois les hostilités terminées. Christophe et les autres combattants estiment dès lors que les journalistes et les écrivains doivent s’engager dans la Cité. Un écrivain ne peut pas rester dans sa tour d’ivoire. C’est ainsi que les anciens combattants rejettent l’idée d’un art pour l’art et ajoutent à l’idée d’un art pour Dieu, présent dans les rangs de la Jeune Droite avant 1914, celle d’un art social. Le catholicisme militant, social dans le sillage de Daens et de Rerum Novarum, national au nom du sacrifice de Louis Boumal et Léon Christophe, réclame, à l’instar d’autres idéologies, d’autres milieux sociaux ou habitus politiques, l’engagement.

ACJB et Cercle Rerum novarum

Lucien Christophe va donner l’éveil à une génération nouvelle, qui comptera de jeunes plumes dans ses rangs : Luc Hommel (1896-1960), Carlo de Mey (1895-1962), Camille Melloy (de son vrai nom Camille De Paepe, 1891-1941) et Léopold Levaux (1892-1956). C’est au départ de ce groupe, inspiré par Christophe plutôt que par Carton de Wiart, que se forme l’ACJB (Association Catholique de la Jeunesse Belge). Pierre Nothomb, qui entend préserver l’unité du bloc catholique, œuvrera pour que le groupe rassemblé au sein de la revue Durandal fusionne avec l’ACJB. Quant à la Jeune Droite de Carton de Wiart, avec ses aspirations à la justice sociale, elle fusionnera avec le Cercle Rerum Novarum, animé, entre autres personnalités, par Pierre Daye, futur sénateur rexiste en 1936. Daye a des liens avec les Français Marc Sangnier et l’Abbé Lugan, fondateurs d’une Action Catholique, hostile à l’Action française de Maurras et Pujo.

Le Cercle Rerum Novarum poursuivait les mêmes objectifs que ceux de la Jeune Droite de Carton de Wiart, dans la mesure où il s’opposait à toute politique économique libérale outrancière, comme celle d’un Charles Woeste pourtant ponte du parti catholique, entendait ensuite remobiliser les idéaux de l’Abbé Daens. Il n’était pas sur la même longueur d’onde que l’Action française, plus nationaliste que catholique et plus préoccupée de justifier la guerre contre l’Allemagne (même celle de la république laïcarde) que de réaliser en France, et pour les Français, des idéaux de justice sociale. En Belgique, nous constatons donc, avec C. Vanderpelen-Diagre, que les idéaux nationaux (surtout incarnés par Pierre Nothomb) sont intimement liés aux idéaux de justice sociale et que cette fusion demeurera intacte dans toutes les expressions du catholicisme idéologique belge jusqu’en 1945 (même dans des factions hostiles les unes aux autres, surtout après l’émergence du rexisme).

En 1918, Pierre Nothomb et Gaston Barbanson plaident tous deux pour une “Grande Belgique”, en préconisant l’annexion du Grand-Duché du Luxembourg, du Limbourg néerlandais et de la Flandre zélandaise. Ils prennent des positions radicalement anti-allemandes, rompant ainsi définitivement avec la traditionnelle germanophilie belge du XIXe siècle. Ces positions les rapprochent de l’Action française de Maurras et du maurrassisme implicite du Cardinal Mercier, hostile à l’Allemagne prussianisée et protestante comme il est hostile à l’éthique kantienne, pour lui trop subjectiviste, et, par voie de conséquence, hostile au mouvement flamand et à la flamandisation de l’enseignement supérieur, car ce serait là offrir un véhicule à la germanisation rampante de toute la Belgique, provinces romanes comprises.

Les annexionnistes sont en faveur d’une alliance militaire franco-belge, qui sera fait acquis dès 1920 mais que contesteront rapidement et l’aile gauche du parti socialiste et le mouvement flamand (cf. Dr. Guido Provoost, Vlaanderen en het militair-politiek beleid in België tussen de twee wereldoorlogen – Het Frans-Belgisch militair akkoord van 1920, Davidsfonds, Leuven, 1977). En adoptant cette démarche, les adeptes de la “Grande Belgique” quittent l’orbite du “démocratisme chrétien” qui avait été le leur et celui de leurs amis pour fonder une association nationaliste, le Comité de Politique Nationale (CPN), où se retrouvent Pierre Daye (qui n’est plus alors à proprement parler un “rerum-novarumiste” ou un “daensiste”), l’historien Jacques Pirenne (qui renie ses dettes intellectuelles à l’historiographie allemande), Léon Hennebicq, le leader socialiste et interventionniste Jules Destrée, ami des interventionnistes italiens regroupés autour de Mussolini et d’Annunzio, et un autre socialiste, Louis Piérard.

Les annexionnistes germanophobes et hostiles aux Pays-Bas réclament une occupation de l’Allemagne, son morcellement à l’instar de ce que venait de subir la grande masse territoriale de l’Empire austro-hongrois défunt ou l’Empire ottoman au Levant. Ils réclament également l’autonomisation de la Rhénanie et le renforcement de ses liens économiques (qui ont toujours été forts) avec la Belgique. Enfin, ils veulent récupérer le Limbourg devenu officiellement néerlandais en 1839 et la Flandre zélandaise afin de contrôler tout le cours de l’Escaut en aval d’Anvers. Ils veulent les cantons d’Eupen-Malmédy (qu’ils obtiendront) mais aussi 8 autres cantons rhénans qui resteront allemands. Le Roi Albert Ier refuse cette politique pour ne pas se mettre définitivement les Pays-Bas et le Luxembourg à dos et pour ne pas créer l’irréparable avec l’Allemagne. Les annexionnistes du CPN se trouveront ainsi en porte-à-faux par rapport à la personne royale, que leur option autoritariste cherchait à valoriser.

Le ressourcement italien de Pierre Nothomb

nothom10.jpgLe passage du démocratisme de la Jeune Droite au nationalisme du CPN s’accompagne d’un véritable engouement pour l’œuvre de Maurice Barrès. Plus tard, quand l’Action française, et, partant, toutes les formes de nationalisme français hostiles aux anciens empires d’Europe centrale, se retrouvera dans le collimateur du Vatican, le nouveau nationalisme belge de Nothomb et la frange du parti socialiste regroupée autour de Jules Destrée va plaider pour un “ressourcement italien”, suite au succès de la Marche sur Rome de Mussolini, que Destrée avait rencontré en Italie quand il allait, là-bas, soutenir les efforts des interventionnistes italiens avant 1915. Nothomb   [ci-contre] traduira ce nouvel engouement italophile, post-barrèsien et post-maurrassien, en un roman, Le Lion ailé, paru en 1926, la même année où la condamnation de l’Action française est proclamée à Rome. Le Lion ailé, écrit C. Vanderpelen-Diagre, est une ode à la nouvelle Italie fasciste. Celle-ci est posée comme un modèle à imiter : il faut, pense Nothomb, favoriser une “contagion romaine”, ce qui conduira inévitablement à un “rajeunissement national”, par l’émergence d’un “ordre vivant”. Jules Destrée, le leader socialiste séduit par l’Italie, celle de l’interventionnisme et celle de Mussolini, salue la parution de ce roman et en encourage la lecture. La réception d’éléments idéologiques fascistes n’est donc pas le propre d’une droite catholique et nationale : elle a animé également le pilier socialiste dans le chef d’un de ses animateurs les plus emblématiques.

Nothomb avait créé, comme pendant à son CPN, les Jeunesses nationales en 1924. Ce mouvement appelle à un renforcement de l’exécutif, à une organisation corporative de l’État, à l’émergence d’un racisme défensif et d’un anti-maçonnisme, tout en prônant un catholicisme intransigeant (ce qui n’était pas du tout le cas dans l’Italie de l’époque, les Accords du Latran n’ayant pas encore été signés). Le CPN et les Jeunesses nationales entendant, de concert, poser un “compromis entre la raison et l’aventure”. Ce message apparaît trop pauvre pour d’autres groupes en gestation, dont la Jeunesse nouvelle et le groupe royaliste Pour l’autorité. Ces 2 groupes, fidèles en ce sens à la volonté du Roi, refusent le programme de politique étrangère du CPN et des Jeunesses nationales : ils veulent maintenir des rapports normaux avec les Pays-Bas, le Luxembourg et l’Allemagne. Ils insistent aussi sur la nécessité d’imposer une “direction de l’âme et de l’esprit”. En réclamant une telle “direction”, ils enclenchent ce que l’on pourrait appeler, en un langage gramscien, une “bataille métapolitique”, qu’ils qualifiaient, en reprenant certaines paroles du Cardinal Mercier, d’“apostolat par la plume”. Ils s’alignent ainsi sur la volonté de Pie XI de promouvoir un “catholicisme plus intransigeant”, en dépit de l’hostilité du Pontife romain à l’endroit de la francophilie maurrassienne du Primat de Belgique. Enfin, les 2 nouveaux groupes sur l’échiquier politico-métapolitique belge entendent suivre les injonctions de l’encyclique Quas Primas de 1925, proclamant la « royauté du Christ », du « Christus Rex », induisant ainsi le vocable “Rex” dans le vocabulaire politique du pilier catholique, ce qui conduira, après de nombreux avatars, à l’émergence du mouvement rexiste de Léon Degrelle, quand celui-ci rompra les ponts avec ses anciens associés du parti catholique. Le « catholicisme plus intransigeant », réclamé par Pie XI, doit s’imposer aux sociétés par des moyens modernes, par des technologies de communication comme la “TSF” et l’édition de masse (ce à quoi s’emploiera Degrelle, sur ordre de la hiérarchie catholique la plus officielle, au début des années 30).

Beauté, intelligence, moralité

L’appareil de cette offensive métapolitique s’est mis en place, par la volonté du Cardinal Mercier, au moins dès 1921. Celui-ci préside à la fondation de La Revue catholique des idées et des faits (RCIF), revue plus philosophique que théologique, Mercier n’étant pas théologien mais philosophe. Le Cardinal confie la direction de cette publication à l’Abbé René-Gabriel Van den Hout (1886-1969), professeur à l’Institut Saint Louis de Bruxelles et animateur du futur quotidien La Libre Belgique dans la clandestinité pendant la Première Guerre mondiale. L’Abbé Van den Hout avait également servi d’intermédiaire entre Mercier et Maurras. Volontairement le Primat de Belgique et l’Abbé Van den Hout vont user d’un ton et d’une verve polémiques pour fustiger les adversaires de ce renouveau à la fois catholique et national (ton que Degrelle et son caricaturiste Jam pousseront plus tard jusqu’au paroxysme). En 1924, avant la condamnation de Maurras et de l’Action française par le Vatican, les Abbés Van den Hout et Norbert Wallez, flanqués du franciscain Omer Englebert, envisagent de fonder une Action belge (AB), pendant de ses homologues française et espagnole (sur l’Accion Española, cf. Raùl Morodo, Los origenes ideologicos del franquismo : Accion Española, Alianza Editorial, Madrid, 1985). On a pu parler ainsi du “maurrassisme des trois abbés”. Le programme intellectuel de la RCIF et de l’AB (qui restera finalement en jachère) est de lutter contre les formes de romantisme, mouvement littéraire accusé de véhiculer un “subjectivisme relativiste” (donc un individualisme), ou, comme le décrira Carl Schmitt en Allemagne, un “occasionalisme”. Les abbés et leurs journalistes plaideront pour le classicisme, reposant, lui, à leurs yeux, sur 3 critères : la beauté, l’intelligence et la moralité (le livre de référence pour ce “classicisme” demeure celui d’Adrien de Meeüs, Le coup de force de 1660, Nouvelle Société d’Édition, Bruxelles, 1935 ; à ce propos, voir plus bas notre article « Années 20 et 30 : la droite de l’établissement francophone en Belgique, la littérature flamande et le ‘nationalisme de complémentarité’ »).

Revenons maintenant à l’ACJB. En 1921 également, les abbés Brohée et Picard (celui-là même qui mettra Degrelle en selle 10 ans plus tard) entament, eux aussi, un combat métapolitique. Leur objectif ? “Guider les lectures” par le truchement d’un organe intitulé Revue des auteurs et des livres. Au départ, cet organe se veut avant-gardiste mais proposera finalement des lectures figées, déduites d’une littérature bien-pensante. L’ACJB a donc des objectifs culturels et non pas politiques. C’est cette option métapolitique qui provoque une rupture qui se concrétise par la fondation de la Jeunesse nouvelle, parallèle à l’éparpillement de l’équipe de Durandal, dont les membres ont tous été appelés à de hautes fonctions administratives ou politiques. La Jeunesse nouvelle se donne pour but de “régénérer la Cité”, en y introduisant des ferments d’ordre et d’autorité. Elle vise l’instauration d’une monarchie antiparlementaire et nationaliste. Elle réagit à l’instauration du “suffrage universel pur et simple”, imposé par les socialistes, car celui-ci exprimerait la “déchéance morale et politique” d’une société (sa fragmentation et son émiettement en autant de petites républiques individuelles – la “verkaveling” dit-on en néerlandais ; cf. l’ouvrage humoristique mais intellectuellement fort bien charpenté de Rik Vanwalleghem, België Absurdistan – Op zoek naar de bizarre kant van België, Lannoo, Tielt, 2006, livre qui met en exergue l’effet final et contemporain de l’individualisme et de la disparition de toute éthique). La Jeunesse nouvelle s’oppose aussi au nouveau système belge né des “accords de Lophem” de 1919 où les acteurs sociaux et les partis étaient convenus d’un “deal”, que l’on entendait pérenniser jusqu’à la fin des temps en excluant systématiquement tout challengeur survenu sur la piste par le biais d’élections. Ce “deal” repose sur un canevas politique donné une fois pour toutes, posé comme définitif et indépassable, avec des forces seules autorisées à agir sur l’échiquier politico-parlementaire.

L’organe de la Jeunesse nouvelle, soit La Revue de littérature et d’action devient La Revue d’action dès que l’option purement métapolitique cède à un désir de s’immiscer dans le fonctionnement de la Cité. La revue d’Action devient ainsi, de 1924 à 1934, la porte-paroles du mouvement Pour l’autorité, dont la cheville ouvrière sera un jeune historien en vue de la matière de Bourgogne, Luc Hommel. Pour celui-ci, la revue est un “laboratoire d’idées” visant une réforme de l’État, qui reposera sur un renforcement de l’exécutif, sur le corporatisme et le nationalisme (à références “bourguignonnes”) et sur le suffrage familial, appelé à corriger les effets jugés pervers du “suffrage universel pur et simple”, imposé par les socialistes dès le lendemain de la Première Guerre mondiale. Hommel et ses amis préconisent de rester au sein du Parti Catholique, d’y être un foyer jeune et rénovateur. Les adeptes des thèses de la La Revue d’action ne rejoindront pas Rex. Parmi eux : Etienne de la Vallée-Poussin (qui dirigera un moment Le Vingtième siècle fondé par l’Abbé Wallez), Daniel Ryelandt (qui témoignera contre Léon Degrelle dans le fameux film que lui consacrera Charlier et qui était destiné à l’ORTF mais qui ne passera pas sur antenne après pression diplomatique belge sur les autorités de tutelle françaises), Gaëtan Furquim d’Almeida, Charles d’Aspremont-Lynden, Paul Struye, Charles du Bus de Warnaffe. La revue et le groupe Pour l’autorité cesseront d’exister en 1935, quand Hommel deviendra chef de cabinet de Paul van Zeeland. Plusieurs protagonistes de Pour l’autorité œuvreront ensuite au Centre d’Études pour la Réforme de l’État (CERE), dont Hommel, de la Vallée-Poussin et Ryelandt. Ils s’opposeront farouchement Rex en dépit d’une volonté commune de renforcer l’exécutif autour de la personne du Roi. L’idéal d’un renforcement de l’exécutif est donc partagé entre adeptes et adversaires de Rex.

La “Troisième voie” de Raymond De Becker

raymon10.jpgLa période qui va de 1927 à 1939 est aussi celle d’une recherche fébrile de la “troisième voie”. C’est dans ce contexte qu’émergera une figure que l’on commence seulement à redécouvrir en Belgique, en ce début de deuxième décennie du XXIe siècle : Raymond De Becker. Contrairement à tous les mouvements que nous venons de citer, qui veulent demeurer au sein du pilier catholique, les hommes partis en quête d’une “troisième voie” cherchent à élargir l’horizon de leur engagement à toutes les forces sociales agissant dans la société. Ils ont pour point commun de rejeter le libéralisme (assimilé au “vieux monde”) et entendent valoriser toutes les doctrines exigeant une adhésion qu’ils apparentent à la foi : le catholicisme, le communisme, le fascisme, considérés comme seules forces d’avenir. C’est la démarche de ceux que Jean-Louis Loubet del Bayle nommera, dans son ouvrage de référence, les “non-conformistes des années 30”. Loubet del Bayle n’aborde que le paysage intellectuel français de l’époque. Qu’en est-il en Belgique ? Le cocktail que constituera la “troisième voie” ardemment espérée contiendra, francophonie oblige, bon nombre d’ingrédients français : Blondel (vu ses relations et son influence sur le Cardinal Mercier, sans oublier sa “doctrine de l’action”), Archambault, Mounier (le personnalisme), Gabriel Marcel (la distinction entre l’Être et l’Avoir), Maritain et Daniel-Rops. Après la condamnation de Maurras et de l’Action française par le Vatican, Jacques Maritain, que Paul Sérant classe comme un “dissident de l’Action française”, remplace, dès 1926, Maurras comme gourou de la jeunesse catholique et autoritaire en Belgique. R. de Becker et Henry Bauchau (toujours actif aujourd’hui, et qui nous livre un regard sur cette époque dans son tout récent récit autobiographique, L’enfant rieur, Actes Sud, 2011 ; R. De Becker y apparaît sous le prénom de “Raymond” ; voir surtout les pp. 157 à 166) sont les 2 hommes qui entretiendront une correspondance avec Maritain et participeront aux rencontres de Meudon. Du “nationalisme intégral de Maurras”, que voulait importer Nothomb, on passe à l’“humanisme intégral” de Maritain.

Le passage du maurrassisme au maritainisme implique une acceptation de la démocratie et de ses modes de fonctionnement, ainsi que du pluralisme qui en découle, et constate l’impossibilité de retrouver le pouvoir supratemporel du Saint Empire (vu de France, on peut effectivement affirmer que le Saint Empire, assassiné par Napoléon, ou l’Empire austro-hongrois, assassiné par Poincaré et Clemenceau, est une “forme morte” ; ailleurs, notamment en Autriche et en Hongrie, c’est moins évident... Il suffit d’évoquer les propositions très récentes du ministre hongrois Orban pour “resacraliser” l’État, notamment en le dépouillant du label de “république”). Par voie de conséquence, les maritainistes ne réclameront pas l’avènement d’une “Cité chrétienne”. En ce sens, ils vont plus loin que le Chanoine Jacques Leclercq (cf. infra) en Belgique, dont le souci, tout au long de son itinéraire, sera de maintenir une dose de divin et, subrepticement, un certain contrôle clérical sur la Cité, même aux temps d’après-guerre où le maritainisme débouchera partiellement sur la création et l’animation d’un parti politique “catho-communisant”, l’UDB (auquel adhèrera un William Ugeux, ancien journaliste au Vingtième Siècle et responsable de la “Sûreté de l’État” pour le compte du gouvernement Pierlot revenu de son exil londonien).

La Cité, rêvée par les adeptes d’une “troisième voie” d’inspiration maritainiste, est un “contrat entre fidèles et infidèles”, visant l’unité de la Cité, une unité minimale, certes, mais animée par l’amitié et la fraternité entre les hommes. Cette vision repose évidemment sur la définition “ouverte” que Maritain donne de l’humanisme. D’où la question que lui poseront finalement R. de Becker et Léon Degrelle : “Où sont les points d’appui ?”. En effet, l’idée d’une “humanité ouverte” ne permet pas de construire une Cité, qui, toujours, par la force des choses, aura des limites et/ou des frontières. Le maritainisme ne fera pas l’unité des anciens maurrassiens, des chercheurs de “troisièmes voies” voire des thomistes recyclés, modernisant leur discours, ou des “demanistes” socialistes non hostiles à la religion : le monde catholique se divisera en chapelles antagonistes qui le conduiront à l’implosion, à une sorte de guerre civile entre catholiques (surtout à partir de l’émergence de Rex) et à une sorte d’aggiornamento technocratique (qui, parti du technocratisme à l’américaine de Van Zeeland, donnera à terme la “plomberie” de Dehaene et son basculement dans les fiascos financiers postérieurs à l’automne 2008) ou à un discours assez hystérique et filandreux, évoquant justement le thème de l’humanisme maritainien, avec Joëlle Milquet qui abandonne l’appelation de Parti Social-Chrétien pour prendre celle de CdH (Centre Démocrate et Humaniste).

Marcel De Corte

mdecor10.jpg[En septembre 1975, Marcel De Corte accorde une entretien au Front de la jeunesse publié dans la rubrique "Europe-Jeunesse" du Nouvel Europe magazine (NEM)]

Quelles seront les expressions de l’humanisme intégral de Maritain en Belgique ? Il y aura notamment la Nouvelle équipe d’Yvan Lenain (1907-1965). Lenain est un philosophe thomiste de formation, qui veut “une Cité régénérée par la spiritualité”. Si, au départ, Lenain s’inscrit dans le sillage de Maritain, les évolutions et les aggiornamenti de ce dernier le contraindront à adopter une position thomiste plus traditionnelle. Par ailleurs, l’ouverture aux gens de gauche, les “infidèles” avec lesquels on aurait pu, le cas échéant, conclure un contrat, s’est avérée un échec. Le repli sur un thomisme plus classique est sans doute dû à l’influence d’une figure aujourd’hui oubliée, Marcel De Corte (1905-1994), professeur de philosophie à l’Université de Liège. De Corte, actif partout, notamment dans une revue peu suspecte de “catholicisme”, comme Hermès de Marc. Eemans et René Baert, est beaucoup plus ancré dans le catholicisme traditionnel (et aristotélo-thomiste) que ne l’était Lenain au départ : il rompra d’ailleurs avec Maritain en 1937, comme beaucoup d’autres auteurs belges, qui ne supportaient pas le soutien que l’humaniste intégral français apportait aux républicains espagnols (en Belgique, l’hostilité, y compris à gauche, à la République espagnole vient du fait que l’ambassadeur de Belgique, qui avait fait des locaux de l’ambassade du royaume un centre de la Croix Rouge, fut abattu par la police madrilène en 1936, laquelle vida ensuite le bâtiment de la légation de tous les réfugiés et éclopés qui s’y trouvaient et massacra les blessés dans la foulée). La pensée de De Corte, consignée dans 2 gros volumes parus dans les années 50, reste d’actualité : la notion de “dissociété”, qu’il a contribué à forger, est reprise aujourd’hui, même à gauche de l’échiquier politique français, notamment par le biais de l’ouvrage de Jacques Généreux, intitulé La dissociété (Seuil, 2006 ; pour se référer à De Corte directement, lire : Marcel De Corte, De la dissociété, éd. Remi Perrin, 2002).

Raymond De Becker : électron libre

Entre toutes les chapelles politico-littéraires de la Belgique francophone des années 30, R. De Becker va jouer le rôle d’intermédiaire, tout en demeurant un “électron libre”, comme le qualifie C. Vanderpelen-Diagre. De Becker, bien que catholique à l’époque (après la guerre, il ne le sera plus, lorsqu’il œuvrera, avec Louis Pauwels, dans le réseau Planète), ne plaide jamais pour une orthodoxie catholique : il incarne en effet un mysticisme très personnel, rétif à tout encadrement clérical. Dans ses efforts, il aura toujours l’appui de Maritain (avant la rupture suite aux événements d’Espagne) et du Chanoine Jacques Leclercq, qui fut d’abord un maritainiste plus ou mois conservateur avant de devenir, via les revues et associations qu’il animait, le fondateur du nouveau démocratisme chrétien, à tentations marxistes, de l’après-1945. De Becker va jouer aussi le rôle du relais entre les “non-conformistes” français et leurs homologues belges. En 1935, il se rend ainsi à la fameuse abbaye de Pontigny en Bourgogne, véritable laboratoire d’idées nouvelles où se rencontraient des hommes d’horizons différents soucieux de dépasser les clivages politiques en place. C’est à l’invitation de Paul Desjardins (2), qui organise en 1935 une rencontre sur le thème de l’ascétisme, que De Becker rencontre à Pontigny Nicolas Berdiaev, André Gide et Martin Buber.

Le reproche d’antisémitisme qu’on lui lancera à la tête, surtout dans le milieu assez abject des “tintinophobes” parisiens, ne tient pas, ne fût-ce qu’au regard de cette rencontre ; par ailleurs, les séminaires de Pontigny doivent être mis en parallèle avec leurs équivalents allemands organisés par le groupe de jeunesse Köngener Bund, auxquelles Buber participait également, aux côtés d’exposants communistes et nationaux-socialistes. En étudiant parallèlement de telles initiatives, on apprendra véritablement ce que fut le “non-conformisme” des années 30, dans le sillage de l’esprit de Locarno (sur l’impact intellectuel de Locarno : lire les 2 volumes publiés par le CNRS sous la direction de Hans Manfred Bock, Reinhart Meyer-Kalkus et Michel Trebitsch, Entre Locarno et Vichy – les relations culturelles franco-allemandes dans les années 30, CNRS éditions, 1993 ; cet ouvrage explore dans le détail les idéaux pacifistes, liés à l’idée européenne et au désir de sauvegarder le patrimoine de la civilisation européenne, dans le sillage d’Aristide Briand, du paneuropéisme à connnotations catholiques, de Friedrich Sieburg, des personnalistes de la revue L’Ordre nouveau, de Jean de Pange, des germanistes allemands Ernst Robert Curtius et Leo Spitzer, de la revue Europe, où officiera un Paul Colin, etc.).

De Becker, toujours soucieux de traduire dans les réalités politiques et culturelles belges les idées d’humanisme intégral de Maritain, accepte le constat de son maître-à-penser français : il n’est plus possible de rétablir l’harmonie du corporatisme médiéval dans les sociétés modernes ; il faut donc de nouvelles solutions et pour les promouvoir dans la société, il faut créer des organes : ce sera , d’une part, la Centrale politique de la jeunesse, présidée par André Mussche, dont le secrétaire sera De Becker, et, d’autre part, la revue L’esprit nouveau, où l’on retrouve l’ami de toujours, celui qui ne trahira jamais De Becker et refusera de le vouer aux gémonies, Henry Bauchau. Les objectifs que se fixent Mussche, De Becker et Bauchau sont simples : il faut traduire dans les faits la teneur des encycliques pontificales, en instaurant dans le pays une économie dirigée, anti-capitaliste, ou plus exactement anti-trust, qui garantira la justice sociale. Toujours dans l’esprit de Maritain, De Becker se fait le chantre d’une “nouvelle culture”, personnaliste, populaire et attrayante pour les non-croyants (comme on disait à l’époque). Il appellera cette culture nouvelle, la “culture communautaire”. Lors du Congrès de Malines de 1936, Bauchau se profile comme le théoricien et la cheville ouvrière de ce mouvement “communautaire” ; il est rédacteur depuis 1934 à La Cité chrétienne du Chanoine Leclercq, qui essaie de réimbriquer le christianisme (et, partant, le catholicisme) dans les soubresauts de la vie politique, animée par les totalitarismes souvent victorieux à l’époque, toujours challengeurs. Cette volonté de “ré-imbriquer” passe par des compromissions (qu’on espère passagères) avec l’esprit du temps (ouverture au socialisme voire au communisme).

“Communauté” et “Capelle-aux-Champs”

evany_pv182030.jpgEn 1937, les “communautaires” maritainiens créent l’École supérieure d’humanisme, établie au n°21 de la Rue des Deux Églises à Bruxelles. Cette école prodigue des cours de “formation de la personnalité”, comprenant des leçons de philosophie, d’esthétique et d’histoire de l’art et de la culture. Le corps académique de cette école est prestigieux : on y retrouve notamment le Professeur De Corte. Cette école dispose également de relais, dont l’auberge “Au Bon Larron” de Pepinghem, où l’Abbé Leclercq reçoit ses étudiants et disciples, le cercle “Communauté” à Louvain chez la mère de De Becker, où se rend régulièrement Louis Carette, le futur Félicien Marceau. Enfin, dernier relais à signaler : le groupe de la “Capelle-aux-Champs”, sous la houlette bienveillante du Père Bonaventure Feuillien et du peintre Evany [Eugène van Nijverseel] (ami d’Hergé). Le créateur de Tintin fréquentera ce groupe, qui est nettement moins politisé que les autres et où l’on ne pratique pas la haute voltige philosophique. Quelles autres figures ont-elles fréquenté le groupe de la “Capelle-aux-Champs” ? La “Capelle-aux-Champs” ou Kapelleveld se situe exactement à l’endroit du campus de Louvain-en-Woluwé et de l’hôpital universitaire Saint Luc. C’était avant guerre un lieu idyllique, comme en témoigne la fresque ornant la station de métro “Vandervelde” qui y donne accès aujourd’hui.

C’est donc là, au beau milieu de ce sable et de ces bouleaux, que se retrouvaient Marcel Dehaye (qui écrira dans la presse collaborationniste sous le pseudonyme plaisant de “Jean de la Lune”), Jean Libert (qui sera épuré), Franz Weyergans (le père de François Weyergans) et Jacques Biebuyck. L’idéal qui y règne est l’idéal scout (ce qui attire justement Hergé) ; on n’y cause pas politique, on vise simplement à donner à ses contemporains “un cœur simple et bon”. L’initiative a l’appui de Jacques Leclercq. En dépit de ses connotations catholiques, le groupe se reconnaît dans un refus général de l’esprit clérical et bondieusard (voilà sans doute pourquoi Tintin, héros créé par la presse catholique, n’exprime aucune religion dans ses aventures. Comme bon nombre d’avatars du maritainisme, les amis de la “Capelle-aux-Champs” manifestent une volonté d’ouverture sur l’“ailleurs”. Mais leurs recherches implicites ne sont pas tournées vers une réforme en profondeur de la Cité. Les thèmes sont plutôt moraux, au sens de la bienséance de l’époque : on y réfléchit sur le péché, l’adultère, un peu comme dans l’œuvre de François Mauriac, qui avait appelé à jeter « un regard franc sur un monde dénaturé ».

L’esprit de “Capelle-aux-Champs” est également, dans une certaine mesure, un avatar lointain et original de l’impact de Bourget sur la littérature catholique du début du siècle (pour saisir l’esprit de ce groupe, lire entre autres ouvrages : J. Libert, Capelle aux Champs, Les écrits, Bruxelles, 1941 [5°éd.] et Plénitude, Les écrits, 1941 ; J. Biebuyck, Le rire du cœur, Durandal, Bruxelles, [s. d., probablement après guerre] et Le serpent innocent, Casterman, Tournai, 1971 [préf. de F. Weyergans] ; Franz Weyergans, Enfants de ma patience, éd. Universitaires, Paris, 1964 et Raisons de vivre, Les écrits, 1944 ; cet ouvrage est un hommage de F. Weyergans à son propre père, exactement comme son fils François lui dédiera Franz et François en 1997).

Notons enfin que les éditions “Les Écrits” ont également publié de nombreuses traductions de romans scandinaves, finnois et allemands, comme le firent par ailleurs les fameuses éditions de “La Toison d’Or”, elles carrément collaborationnistes pendant la Seconde Guerre mondiale, dans le but de dégager l’opinion publique belge de toutes les formes de parisianismes et de l’ouvrir à d’autres mondes. Le traducteur des éditions “Les Écrits” fut-il le même que celui des éditions “La Toison d’Or”, soit l’Israélite estonien Sulev J. Kaja (alias Jacques Baruch, 1919-2002), condamné sévèrement par les tribunaux incultes de l’épuration et sauvé de la misère et de l’oubli par Hergé lors du lancement de l’hebdomadaire Tintin dès 1946 ? Le pays aurait bien besoin de quelques modestes traducteurs performants de la trempe d’un Sulev J. Kaja...) (2).

Revenons aux animateurs du groupe de la Capelle-aux-Champs. Il y a d’abord Marcel Dehaye (1907-1990) qui explore le monde de l’enfance, exalte la pureté et l’innocence et, avec son personnage Bob ou l’enfant nouveau campe un garçonnet « qui ne sera ni banquier ni docteur ni soldat ni député ». Pendant la Deuxième Guerre mondiale, Dehaye collabora au Soir et au Nouveau Journal sous le pseudonyme de “Jean de la Lune”, ce qui le sauvera sans nul doute des griffes de l’épuration : il aurait été en effet du plus haut grotesque de lire une manchette dans la presse signalant que « l’auditorat militaire a condamné Jean de la Lune à X années de prison et à l’indignité nationale ».

Jacques Biebuyck (1909-1993) est issu, lui, d’une famille riche, ruinée en 1929. Il a fait un séjour de 3 mois à la Trappe. Il a d’abord été fonctionnaire au ministère de l’intérieur puis journaliste. C’est un ami de Raymond De Becker. Il professe un anti-intellectualisme et prône de se fier à l’instinct. Pour lui, la jeunesse doit demeurer “vierge de toute corruption politique”. Biebuyck rejette la politique, qui se déploie dans un “monde de malhonnêtes”. Il renoue là avec un certain esprit de l’ACJB à ses débuts, où le souci culturel primait l’engagement proprement politique. L’illustrateur des œuvres de Biebuyck, et d’autres protagonistes de la Capelle-aux-Champs fut Pierre Ickx, ami d’Hergé et spécialisé dans les dessins de scouts idéalisés.

Jean Libert (1913-1981), lui, provient d’une famille qui s’était éloignée de la religion, parce qu’elle estimait que celle-ci avait basculé dans le “mercantilisme”. À 16 ans, Libert découvre le mouvement scout (comme Hergé auparavant). Ses options spirituelles partent d’une volonté de suivre les enseignements de Saint François d’Assise, comme le préconisait aussi le Père Bonaventure Feuillien. “Nono”, le héros de J. Libert dans son livre justement intitulé Capelle-aux-Champs (cf. supra), va incarner cette volonté. Il s’agit, pour l’auteur et son héros, de conduire l’homme vers une vie joyeuse et digne, héroïque et féconde. Libert se fait le chantre de l’innocence, de la spontanéité, de la pureté (des sentiments) et de l’instinct.

Jean Libert et la “mystique belge”

En 1938, avec Antoine Allard, Jean Libert opte pour l’attitude pacifiste et neutraliste, induite par le rejet des accords militaires franco-belges et la déclaration subséquente de neutralité qu’avait proclamée le Roi Léopold III en octobre 1936, tout en arguant qu’une conflagration qui embraserait toute l’Europe entraînerait le déclin irrémédiable du Vieux Continent (cf. les idées pacifistes de Maurice Blondel, à la fin de sa vie, consignée dans son ouvrage, Lutte pour la civilisation et philosopohie de la paix, Flammarion, 1939 ; cet ouvrage est rédigé dans le même esprit que le “manifeste neutraliste” et inspire, fort probablement, le discours royal aux belligérants dès septembre 1939). J. Libert signe donc ce fameux manifeste neutraliste des intellectuels, notamment patronné par Robert Poulet.

Parallèlement à cet engagement neutraliste, dépourvu de toute ambigüité, Libert plaide pour l’éclosion d’une “mystique belge” que d’autres, à la suite de l’engouement de Maeterlinck pour Ruusbroec l’Admirable au début du siècle, voudront à leur tour raviver. On pense ici à Marc. Eemans et René Baert, qui, outre Ruusbroec (non considéré comme hérétique par les catholiques sourcilleux car il refusera toujours de dédaigner les “œuvres”), réhabiliteront Sœur Hadewijch, Harphius, Denys le Chartreux et bien d’autres figures médiévales (cf. Marc. Eemans, Anthologie de la Mystique des Pays-Bas, éd. de la Phalange / J. Beernaerts, Bruxelles, s. d. ; il s’agit des textes sur les mystiques des Pays-Bas publiés dans les années 30 dans la revue Hermès). R. De Becker se penchera également sur la figure de Ruusbroec, notamment dans un article du Soir, le 11 mars 1943 (« Quand Ruysbroeck l’Admirable devenait prieur à Groenendael »). Comme dans le cas du mythe bourguignon, inauguré par Luc Hommel (cf. supra) et Paul Colin, le recours à la veine mystique médiévale participe d’une volonté de revenir à des valeurs nées du sol entre Somme et Rhin, pour échapper à toutes les folies idéologiques qui secouaient l’Europe, à commencer par le laïcisme républicain français, dont la nuisance n’a pas encore cessé d’être virulente, notamment par le filtre de la “nouvelle philosophie” d’un marchand de “prêt-à-penser” brutal et sans nuances comme Bernard-Henri Lévy (classé récemment par Pascal Boniface comme « l’intellectuel faussaire », le plus emblématique).

Fidèle à son double engagement neutraliste et mystique, Jean Libert voudra œuvrer au relèvement moral et physique de la jeunesse, en prolongeant l’effet bienfaisant qu’avait le scoutisme sur les adolescents. Au lendemain de la défaite de mai 1940, J. Libert rejoint les Volontaires du Travail, regroupés autour de Henry Bauchau, Théodore d’Oultremont et Conrad van der Bruggen. Ces Volontaires du travail devaient prester des travaux d’utilité publique, de terrassement et de déblaiement, dans tout le pays pour effacer les destructions dues à la campagne des 18 jours de mai 1940. C’était également une manière de soustraire des jeunes aux réquisitions de l’occupant allemand et de maintenir sous bonne influence “nationale” des équipes de jeunes appelés à redresser le pays, une fois la paix revenue. Pendant la guerre, J. Libert collaborera au Nouveau Journal de Robert Poulet, ce qui lui vaudra d’être épuré, au grand scandale d’Hergé qui estimait, à juste titre, que la répression tuait dans l’œuf les idéaux positifs d’innocence, de spontanéité et de pureté (le “cœur pur” de Tintin au Tibet). Jamais le pays n’a pu se redresser moralement, à cause de cette violence “officielle” qui effaçait les ressorts de tout sursaut éthique, à coup de décisions féroces prises par des juristes dépourvus de “Sittlichkeit” et de culture. On voit les résultats après plus de 6 décennies...

Franz Weyergans

Parmi les adeptes du groupe de la “Capelle-aux-Champs”, signalons encore Franz Weyergans (1912-1974), père de François Weyergans. Lui aussi s’inspire de Saint François d’Assise. Il sera d’abord journaliste radiophonique comme Biebuyck. La littérature, pour autant qu’elle ait retenu son nom, se rappellera de lui comme d’un défenseur doux mais intransigeant de la famille nombreuse et du mariage. Weyergans plaide pour une sexualité pure, en des termes qui apparaissent bien désuets aujourd’hui. Il fustige notamment, sans doute dans le cadre d’une campagne de l’Église, l’onanisme.

Franz Weyergans est revenu sous les feux de la rampe lorsque son fils François, publie chez Grasset Franz et François une sorte de dialogue post mortem avec son père. Le livre recevra un prix littéraire, le Grand Prix de la Langue Française (1997). Il constitue un très beau dialogue entre un père vertueux, au sens où l’entendait l’Église avant-guerre dans ses recommandations les plus cagotes à l’usage des tartufes les plus assomants, et un fils qui s’était joyeusement vautré dans une sexualité picaresque et truculente dès les années 50 qui annonçaient déjà la libération sexuelle de la décennie suivante (avec Françoise Sagan not.). Deux époques, deux rapports à la sexualité se télescopent dans Franz et François mais si François règle bien ses comptes avec Franz — et on imagine bien que l’affrontement entre le paternel et le fiston a dû être haut en couleurs dans les décennies passées — le livre est finalement un immense témoignage de tendresse du fils à l’égard de son père défunt.

L’angoisse profonde et terrible qui se saisit d’Hergé dès le moment où il rencontre celle qui deviendra sa seconde épouse, Fanny Vleminck, et lâche progressivement sa première femme Germain Kieckens, l’ancienne secrétaire de l’Abbé Wallez au journal Le Vingtième siècle, ne s’explique que si l’on se souvient du contexte très prude de la “Capelle-aux-Champs” ; de même, son recours à un psychanalyste disciple de Carl Gustav Jung à Zürich ne s’explique que par le tournant jungien qu’opèreront R. De Becker, futur collaborateur de la revue Planète de Louis Pauwels, et Henry Bauchau dès les années 50.

Biebuyck et Weyergans, même si nos contemporains trouveront leurs œuvres surannées, demeurent des écrivains, peut-être mineurs au regard des critères actuels, qui auront voulu, et parfois su, conférer une “dignité à l’ordinaire”, comme le rappelle C. Vanderpelen-Diagre. Jacques Biebuyck et Franz Weyergans, sans doute contrairement à Tintin (du moins dans une certaine mesure), ne visent ni le sublime ni l’épique : ils estiment que “la vie quotidienne est un pèlérinage ascétique”.

De l’ACJB à Rex

Mais dans toute cette effervescence, inégalée depuis lors, quelle a été la genèse de Rex, du mouvement rexiste de Léon Degrelle ? Les 29, 30 et 31 août 1931 se tient le congrès de l’ACJB, présidé par Léopold Levaux, auteur d’un ouvrage apologétique sur Léon Bloy (Léon Bloy, éd. Rex, Louvain, 1931). À la tribune : Monseigneur Ladeuze, Recteur magnifique de l’Université Catholique de Louvain, l’Abbé Jacques Leclercq et Léon Degrelle, alors directeur des Éditions Rex, fondées le 15 janvier 1931. Le futur fondateur du parti rexiste se trouvait donc à la fin de l’été 1931 aux côtés des plus hautes autorités ecclésiastiques du pays et du futur mentor de la démocratie chrétienne, qui finira par se situer très à gauche, très proche des communistes et du résistancialisme qu’ils promouvaient à la fin des années 40. L’organisation de ce congrès visait le couronnement d’une série d’activités apostoliques dans les milieux catholiques et, plus précisément, dans le monde de la presse et de l’édition, ordonnées très tôt, sans doute dès le lendemain de la Première Guerre mondiale, par le cardinal Mercier lui-même. L’année de sa mort, qui est aussi celle de la condamnation de l’Action française par le Vatican (1926), est suivie rapidement par la fameuse “substitution de gourou” dans les milieux catholiques belges : on passe de Maurras à Maritain, du nationalisme intégral à l’humanisme intégral. En cette fin des années 20 et ce début des années 30, Maritain n’a pas encore une connotation de gauche : il ne l’acquiert qu’après son option en faveur de la République espagnole.

C’est une époque où le futur Monseigneur Picard s’active, notamment dans le groupe La nouvelle équipe et dans les Cahiers de la jeunesse catholique. En août 1931, à la veille de la rentrée académique de Louvain, il s’agit de promouvoir les éditions Rex, sous la houlette de Degrelle (c’est pour cela qu’il est hissé sur le podium à côté du Recteur), de Robert du Bois de Vroylande (1907-1944) et de Pierre Nothomb. En 1932, l’équipe, dynamisée par Degrelle, lance l’hebdomadaire Soirées qui parle de littérature, de théâtre, de radio et de cinéma. Les catholiques, auparavant rétifs à toutes les formes de modernité même pratiques, arraisonnent pour la première fois, avec Degrelle, le secteur des loisirs. La forme, elle aussi, est moderne : elle fait usage des procédés typographiques américains, utilise en abondance la photographie, etc. La parution de Soirées, hebdomadaire en apparence profane, apporte une véritable innovation graphique dans le monde de la presse belge. Les éditions Rex ont été fondées “pour que les catholiques lisent”. L’objectif avait donc clairement pour but de lancer une offensive “métapolitique”.

L’équipe s’étoffe : autour de Léon Degrelle et de Robert du Bois de Vroylande, de nouvelles plumes s’ajoutent, dont celle d’Aman Géradin (1910-2000) et de José Streel (1911-1946), auteur de 2 thèses, l’une sur Péguy, l’autre sur Bergson. Plus tard, Pierre Daye, Joseph Mignolet et Henri-Pierre Faffin rejoignent les équipes des éditions Rex. Celles-ci doivent offrir aux masses catholiques des livres à prix réduit, par le truchement d’un système d’abonnement. C’est le pendant francophone du Davidsfonds catholique flamand (qui existe toujours et est devenu une maison d’édition prestigieuse). Cependant, l’épiscopat, autour des ecclésiastiques Picard et Ladeuze, n’a pas mis tous ses œufs dans le même panier. À côté de Rex, il patronne également les Éditions Durandal, sous la direction d’Edouard Ned (1873-1949). Celui-ci bénéficie de la collaboration du Chanoine Halflants, de Firmin Van den Bosch, de Georges Vaxelaire, de Thomas Braun, de Léopold Levaux et de Camille Melloy. L’épiscopat a donc créé une concurrence entre Rex et Durandal, entre Degrelle et Ned. C’était sans doute, de son point de vue, de bonne guerre. Les éditions Durandal, offrant des ouvrages pour la jeunesse, dont nous disposions à la bibliothèque de notre école primaire (vers 1964-67), continueront à publier, après la mort de Ned, jusqu’au début des années 60.

Degrelle rompt l’unité du parti catholique

rex-0410.jpgLéon Degrelle veut faire triompher son équipe jeune (celle de Ned est plus âgée et a fait ses premières armes du temps de la Jeune Droite de Carton de Wiart). Il multiplie les initiatives, ce qui donne une gestion hasardeuse. Les stocks d’invendus sont faramineux et les productions de Rex contiennent déjà, avant même la formation du parti du même nom, des polémiques trop politiques, ce qui, ne l’oublions pas, n’est pas l’objectif de l’ACJB, organisation plus culturelle et métapolitique que proprement politique et à laquelle les éditions Rex sont théoriquement inféodées. Degrelle est désavoué et Robert du Bois de Vroylande quitte le navire, en dénonçant vertement son ancien associé. Meurtri, accusé de malversations, Degrelle se venge par le fameux coup de Courtrai, où, en plein milieu d’un congrès du parti catholique, il fustige les “banksters”, c’est-à-dire les hommes politiques qui ont créé des caisses d’épargne et ont joué avec l’argent que leur avaient confié des petits épargnants pieux qui avaient cru en leurs promesses (comme aujourd’hui pour la BNP et Dexia, sauf que la disparition de toute éthique vivante au sein de la population n’a suscité aucune réaction musclée, comme en Islande ou en Grèce par ex.).

Degrelle, en déboulant avec ses “jeunes plumes” dans le congrès des “vieilles barbes”, a commis l’irréparable aux yeux de tous ceux qui voulaient maintenir l’unité du parti catholique, même si, parfois, ils entendaient l’infléchir vers une “voie italienne” (comme Nothomb avec son “Lion ailé”) ou vers un maritainisme plus à gauche sur l’échiquier politique, ouvert aux socialistes (notamment aux idées planistes de Henri De Man et pour mettre en selle des coalitions catholiques / socialistes) voire carrément aux idées marxistes (pour absorber une éventuelle contestation communiste). De l’équipe des éditions Rex, seuls Daye, Streel, Mignolet et Géradin resteront aux côtés de Degrelle : ils forment un parti concurrent, le parti rexiste qui remporte un formidable succès électoral en 1936, fragilisant du même coup l’épine dorsale de la Belgique d’après 1918, forgée lors des fameux accords de Lophem. Ceux-ci prévoyaient une démocratie réduite à une sorte de circuit fermé sur 3 formations politiques seulement : les catholiques, les libéraux et les socialistes, avec la bénédiction des “acteurs sociaux”, les syndicats et le patronat. Les Accords de Lophem ne prévoyaient aucune mutation politique, aucune irruption de nouveautés organisées dans l’enceinte des Chambres. Et voilà qu’en 1936, 3 partis, non prévus au programme de Lophem, entrent dans l’hémicycle du parlement : les nationalistes flamands du VNV, les rexistes et les communistes.

Toute innovation est assimilée à Rex et à la Collaboration

Les rexistes (en même temps que les nationalistes flamands et les communistes), en gagnant de nombreux sièges lors des élections de 1936, relativisent ipso facto les fameux accords de Lophem et fragilisent l’édifice étatique belge, dont les critères de fonctionnement avaient été définis à Lophem. Depuis lors, toute nouveauté, non prévue par les accords de Lophem, est assimilée à Rex ou au mouvement flamand. Fin des années 60 et lors des élections de 1970, des affiches anonymes, placardées dans tout Bruxelles, ne portaient qu’une seule mention : “FDF = REX”, alors que les préoccupations du parti de Lagasse n’avaient rien de commun avec celles du parti de Degrelle. Ce n’est pas le contenu idéologique qui compte, c’est le fait d’être simplement challengeur des accords de Lophem. Même scénario avec la Volksunie de Schiltz (qui, pour sauver son parti, fera son aggiornamento belgicain, lui permettant de se créer une niche nouvelle dans un scénario de Lophem à peine rénové). Et surtout même scénario dès 1991 avec le Vlaams Blok, assimilé non seulement à Rex mais à la collaboration et, partant, aux pires dérives prêtées au nazisme et au néo-nazisme, surtout par le cinéma américain et les élucubrations des intellectuels en chambre de la place de Paris.

Le choc provoqué par le rexisme entraîne également l’implosion du pilier catholique belge, jadis très puissant. Le voilà disloqué à jamais : une recomposition sur la double base de l’idéal d’action de Blondel (avec exigence éthique rigoureuse) et de l’idéal de justice sociale de Carton de Wiart et de l’Abbé Daens, s’est avérée impossible, en dépit des discours inlassablement répétés sur l’humanisme, le christianisme, les valeurs occidentales, la notion de justice sociale, la volonté d’être au “centre” (entre la gauche socialiste et la droite libérale), etc. Une telle recomposition, s’il elle avait été faite sur base de véritables valeurs et non sur des bricolages idéologiques à base de convictions plus sulpiciennes que chrétiennes, plus pharisiennes que mystiques, aurait permit de souder un bloc contre le libéralisme et contre toutes les formes, plus ou moins édulcorées ou plus ou moins radicales, de marxisme, un bloc qui aurait véritablement constitué un modèle européen et praticable de “Troisième Voie” dès le déclenchement de la guerre froide après le coup de Prague de 1948.

Cet idéal de “Troisième Voie”, avec des ingrédients plus aristotéliciens, grecs et romains, aurait pu épauler avec efficacité les tentatives ultérieures de Pierre Harmel, un ancien de l’ACJB, de rapprocher les petites puissances du Pacte de Varsovie et leurs homologues inféodées à l’OTAN (sur Harmel, lire : Vincent Dujardin, Pierre Harmel, Le Cri, Bruxelles, 2004). L’absence d’un pôle véritablement personnaliste (mais un personnalisme sans les aggiornamenti de Maritain et des personnalistes parisiens affectés d’un tropisme pro-communiste et craignant de subir les foudres du tandem Sartre-De Beauvoir) n’a pas permis de réaliser cette vision harmélienne d’une “Europe Totale” (probablement inspirée de Blondel, cf. supra), qui aurait parfaitement pu anticiper de 20 ans la “perestroïka” et la “glasnost” de Gorbatchev.

Une véritable implosion du bloc catholique

Le pilier catholique de l’après-guerre n’ose plus revendiquer expressis verbis un personnalisme éthique exigeant. Fragmenté, il erre entre plusieurs môles idéologiques contradictoires : celui d’un personnalisme devenu communisant avec l’UDB (où se retrouve un William Ugeux, ex-journaliste du Vingtième Siècle de l’Abbé Wallez, l’admirateur sans faille de Maurras et de Mussolini !), qui, après sa dissolution dans le désintérêt général, va générer toutes les variantes éphémères du “christianisme de gauche”, avec le MOC et en marge du MOC (Mouvement Ouvrier Chrétien) ; celui du technocratisme qui, comme toutes les autres formes de technocratisme, exclut la question des valeurs et de l’éthique de l’orbite politique et laisse libre cours à toutes les dérives du capitalisme et du libéralisme, provoquant à terme le passage de bon nombre d’anciens démocrates chrétiens du PSC, ceux qui confondent erronément “droite” et “libéralisme”, dans les rangs des PLP, PRL et MR libéraux ; le technocratisme fut d’abord importé en Belgique par Paul Van Zeeland, immédiatement dans la foulée de sa victoire contre Rex, lors des élections de 1937, provoquées par Degrelle qui espérait déclencher un nouveau raz-de-marée en faveur de son parti.

Van Zeeland avait besoin d’un justificatif idéologique en apparence neutre pour pouvoir diriger une coalition regroupant l’extrême-gauche communiste, les socialistes, les libéraux et les catholiques. Les avatars multiples du premier technocratisme zeelandien déboucheront, dans les années 90, sur la “plomberie” de Jean-Luc Dehaene, c’est-à-dire sur les bricolages politiciens et institutionnels, sur les expédiants de pure fabrication, menant d’abord à une Belgique sans personnalité aucune (et à une Flandre et à une Wallonie sans personnalité séduisante) puis sur une “absurdie”, un “Absurdistan”, tel que l’a décrit l’écrivain flamand Rik Vanwalleghem (cf. supra). Enfin, on a eu des formes populistes vulgaires dans les années 60 avec les “listes VDB” de Paul Van den Boeynants qui ont débouché au fil du temps dans le vaudeville, le stupre et la corruption. Autre résultat de la mise entre parenthèse des questions axiologiques ou éthiques...

De l’UDB au PSC et du PSC au CdH, l’évacuation de toutes les “valeurs” structurantes a été perpétrée parce que Degrelle avait justifié son “Coup de Courtrai”, son “Opération Balais” et ses éditoriaux au vitriol au nom de l’éthique, une éthique qu’il avait d’abord partagée avec bon nombre d’hommes politiques ou d’écrivains catholiques (qui ne deviendront ni rexistes ni collaborateurs). Toute référence à une éthique (catholique ou maritainiste au sens du premier Maritain) pourrait autoriser, chez les amateurs de théories du complot et les maniaques de l’amalgame, un rapprochement avec Rex, donc avec la collaboration, ce que l’on voulait éviter à tout prix, en même temps que les campagnes de presse diffamatoires, où l’adversaire est toujours, quoi qu’il fasse ou dise, un “fasciste”. Cette éthique pouvait certes indiquer une “proximité” avec Rex, sur le plan philosophique, mais non une identité, vu les différences notoires entre Rex et ses adversaires (catholiques) sur les réformes à promouvoir aux plans politique et institutionnel. Le fait que Degrelle ait justifié ses actions perturbantes de l’ordre établi à Lophem au nom d’une certaine éthique catholique, théorisée notamment par José Streel, qui lui ajoute des connotations populistes tirées de Péguy (“les petites et honnêtes gens”), n’exclut pas qu’un pays doit être structuré par une éthique née de son histoire, comme des auteurs aussi différents que Colin, Hommel, Streel, Libert, De Becker ou Bauchau l’ont réclamé dans les années 30.

En changeant de nom, le PSC devenu CdH (Centre démocrate et humaniste) optait pour un retour à l’universalisme gauchisant du dernier Maritain, s’ôtant par là même tout socle éthique et concret sous prétexte qu’on ne peut exiger de la rigueur au risque de froiser d’autres croyants ou des “incroyants” ; on se privait volontairement d’une éthique capable de redonner vigueur à la vie politique du royaume. L’idéologie vague du CdH, sans plus beaucoup de volonté affichée d’ancrage local en Wallonie et même sans plus aucun ancrage catholique visibilisé, laisse un pan (certes de plus en plus ténu en Wallonie mais qui se fortifie à Bruxelles grâce aux voix des immigrants subsahariens) de l’électorat ouvert à toutes les dérives du festivisme contemporain ou d’un utilitarisme libéral, néo-libéral et sans profondeur : la société marchande, la dictature des banquiers et des financiers, ne rencontre plus aucun obstacle dans l’intériorité même des citoyens. Cette fraction de l’électorat, que l’on juge, à tort, susceptible d’opposer un refus éthique, puisque “religieux” ou “humaniste”, à la dicature médiatique, festiviste et utilitariste dominante, est alors “neutralisé” et ne peut plus contribuer à redonner vigueur à la virtù de machiavélienne mémoire. De cette façon, on navigue de Charybde en Scylla. La spirale du déclin moral, physique et politique est en phase descendante et “catamorphique” sans remède apparent.

La théorie de Pitirim Sorokin pour théoriser la situation

Quel outil théorique pourrait-on utiliser pour saisir toute la problématique du catholicisme belge, où il y a eu d’abord exigence d’éthique dans le sillage du Cardinal Mercier, sous l’impulsion directe de celui-ci, puis déconstruction progressive de cette exigence éthique, après le paroxysme du début des années 30 (avec l’ouvrage de Monseigneur Picard, Le Christ-Roi, éd. Rex, Louvain, 1929). La condamnation de l’Action française par Rome en 1926, le remplacement de l’engouement pour l’Action Française par l’universalisme catholique de Maritain, qui deviendra vite vague et dépourvu de socle, la tentation personnaliste théorisée par Mounier, le choc du rexisme qui fait imploser le bloc catholique sont autant d’étapes dans cette recherche fébrile de nouveauté au cours des années 30 et 40.

Le sociologue russe blanc Pitirim Sorokin (1889-1968), émigré aux États-Unis après la révolution bolchevique, nous offre sans doute, à nos yeux, la meilleure clef interprétative pour comprendre ce double phénomène contradictoire d’exigence éthique, parfois véhémente, et de deconstruction frénétique de toute assise éthique, qui a travaillé le monde politico-culturel catholique de la Belgique entre 1884 et 1945 et même au-delà. P. Sorokin définit 3 types de mentalité à l’œuvre dans le monde, quand il s’agit de façonner les sociétés. Il y a la mentalité “ideational”, la mentalité “sensate” et la mentalité intermédiaire entre “ideational” et “sensate”, l’”idealistic”. Pour Sorokin, les hommes animés par la mentalité “ideational” sont mus par la foi, la mystique et/ou l’intuition. Ils créent les valeurs artistiques, esthétiques, suscitent le Beau par leurs actions. Certains sont ascètes. Ceux qui, en revanche, sont animés par la mentalité “sensate”, entendent dominer le monde matériel en usant d’artifices rationnels. Les “idealistic” détiennent des traits de caractère communs aux 2 types. La dynamique sociale repose sur la confrontation ou la coopération entre ces 3 types d’hommes, sur la disparition et le retour de ces types, selon des fluctuations que l’historien des idées ou de l’art doit repérer.

La civilisation grecque connaît ainsi une première phase “ideational” (quand émerge la “période axiale” selon Karl Jaspers ou Karen Armstrong), suivie d’une phase “idealistic” puis d’une phase de décadence “sensate”. De même, le Moyen Âge ouest-européen commence par une phase “ideational”, qui dure jusqu’au XIIe siècle, suivie d’une phase hybride de type “idealistic” et du commencement d’une nouvelle phase “sensate”, à partir de la fin du XVe siècle. Sorokin estimait que le début du XXe siècle était la phase terminale de la période “sensate” commencée fin du XVe siècle et qu’une nouvelle phase “ideational” était sur le point de faire irruption sur la scène mondiale. La vision du temps selon Sorokin n’est donc pas linéaire ; elle n’est pas davantage cyclique : elle est fluctuante et véhicule des valeurs toujours immortelles, toujours susceptibles de revenir à l’avant-plan, en dépit des retraits provisoires (le “withdrawal-and-return” de Toynbee), qui font croire à leur disparition. Une volonté bien présente dans un groupe d’hommes à la mentalité “ideational” peut faire revenir des valeurs non matérielles à la surface et amorcer ainsi une nouvelle période féconde dans l’histoire d’une civilisation (cf. Prof. Dr. S. Hofstra, « Pitirim Sorokin », in : Hoofdfiguren uit de sociologie, deel 1, Het Spectrum, coll. “Aula”, nr. 527, Utrecht / Antwerpen, 1974, pp. 202-220).

De l’”ideational” au “sensate”

La phase “ideational” est celle qui recèle encore la virtus politique romaine, ou la virtù selon Machiavel. Elle correspond au sentiment religieux de nos auteurs catholiques (rexisants ou non) et à leur volonté d’œuvrer au Beau et au Bien. Face à ceux-ci, les détenteurs de la mentalité “sensate” qui, dans une première phase, sont matérialistes ou technocratistes ; ils ne jugent pas la recherche du profit comme moralement indéfendable ; ils seront suivis par des “sensate” encore plus radicaux dans le sillage de mai 68 et du festivisme qui en découle puis dans la vague néo-libérale qui a conduit l’Europe à la ruine, surtout depuis l’automne 2008. Le bloc catholique en liquéfaction dans le paysage politique belge a d’abord été animé par une frange jeune, nettement perceptible comme “ideational”, une frange au sein de laquelle émergera un conflit virulent, celui qui opposera les adeptes et les adversaires de Rex.

Au départ, ces 2 factions “ideational” partageaient les mêmes aspirations éthiques et les mêmes vues politiques (renforcement de l’exécutif, etc.) : les uns feront des compromis avec les tenants des idéologies “sensate” pour ne pas être marginalisés ; les autres refuseront tout compromis et seront effectivement marginalisés. Les premiers se forceront à oublier leur passé “ideational” pour ne pas être confondus avec les seconds. Ces derniers seront mis au ban de la société après la défaite de l’Allemagne en 1945 et des mesures d’ordre judiciaire les empêcheront de s’exprimer aux tribunes habituelles d’une société démocratique (journalisme, enseignement, etc.). Toute forme d’expression politique de nature “ideational” sera réellement ou potentiellement assimilée à Rex (et à la collaboration). C’est ce que C. Vanderpelen-Diagre veut dire quand elle dit que les valeurs véhiculées par ces auteurs catholiques, les scriptores catholici, « ont déserté la mémoire collective ». On les a plutôt exilé de la mémoire collective...

Sa collègue de l’ULB, Bibiane Fréché, évoque, elle, l’émergence dans l’immédiat après-guerre d’une « littérature sous surveillance », bien encadrée par les institutions étatiques qui procurent subsides (souvent chiches) et sinécures à ceux qui veulent bien s’aligner en « ignorant le présent », « en se détachant des choses qui passent », bref en ne prenant jamais parti pour un mouvement social ou politique. On préconise la naissance d’une nouvelle littérature post-rexiste ou post-collaborationniste, et aussi post-communiste, qui serait détachée des réalités socio-politiques concrètes, des engagements tels qu’ils sont exaltés par les existentialistes français : bref, la littérature ne doit pas aider à créer les conditions d’une contestation des accords de Lophem. Il y a donc bien eu une tentative d’aligner la littérature sur des canons “gérables”, dès la fin de la Seconde Guerre mondiale (Bibiane Fréché, Littérature et société en Belgique francophone (1944-1960), Le Cri / CIEL-ULB-Ulg, Bruxelles, 2009). L’implosion du bloc catholique suite à la victoire de Rex en 1936 et la volonté de “normaliser” la littérature après 1945 créent une situation particulière, un blocage, qui empêche la restauration du politique au départ de toute initiative métapolitique. Les verrous ont été mis.

Quand un homme comme le Sénateur MR de Bruxelles, Alain Destexhe, entend, dans plusieurs de ses livres, “restaurer le politique” contre la déliquescence politicienne, il exprime un vœu impossible dans le climat actuel, héritier de cet envahissement du “sensate”, de cette inquisition répressive des auditorats militaires de l’après-guerre et de la volonté permanente et vigilante de “normalisation” voulue par les nouveaux pouvoirs : on ne peut restaurer ni le politique (au sens où l’entendaient Carl Schmitt et Julien Freund) ni la force dynamisante de la virtù selon Machiavel, sans recours à l’ “ideational” fondateur de valeurs qui puise ses forces dans le plus lointain passé, celui des périodes axiales de l’histoire (Jaspers, Armstrong). Pour revenir à Sorokin, la transition subie par la Belgique au cours du XXe siècle est celle qui l’a fait passer brutalement d’une période pétrie de valeurs “ideational” à une période entièrement dominée par les non valeurs “sensate”.

La réhabilitation tardive de Raymond De Becker

La récente réhabilitation de R. De Becker par les universités belges, exprimée par un long colloque de 3 jours au début avril 2012 dans les locaux des Facultés Universitaires Saint Louis de Bruxelles, est une chose dont il faut se féliciter car De Becker a d’abord été totalement ostracisé depuis sa condamnation à mort en 1946 suivie de sa grâce, sa longue détention sur la paille humide des cachots et le procès qu’il a intenté à l’État belge en 1954 et qu’il a gagné. Il est incontestablement l’homme qu’il ne fallait plus ni évoquer ni citer pour “chasser de la mémoire collective” une époque dont beaucoup refusaient de se souvenir. La fidélité que lui a conservée Bauchau a sans doute été fort précieuse pour décider le monde académique à réouvrir le dossier de cet homme-orchestre unique en son genre. L’intérêt intellectuel qu’il y avait à réhabiliter complètement De Becker vient justement de sa nature d’”électron libre” et de “passeur” qui allait et venait d’un cénacle à l’autre, correspondait avec d’innombrables homologues et surtout avec Jacques Maritain.

Cécile Vanderpelen-Diagre, dans un ouvrage rédigé avec le Professeur Paul Aron (Vérités et mensonges de la collaboration, éd. Labor, Loverval, 2006 ; sur De Becker, lire les pp. 13-36) souligne bien cette qualité d’homme-orchestre de De Becker et surtout l’importance de son ouvrage Le livre des vivants et des morts, où il retrace son itinéraire intellectuel (jusqu’en 1941). Elle reproche à De Becker, qui n’avait jamais été germanophile avant 1940-41, de s’octroyer dans cet ouvrage une certaine germanophilie dans l’air du temps. Ce reproche est sans nul doute fondé. Mais l’historienne des idées semble oublier que la conversion, somme toute assez superficielle, de De Becker à un certain germanisme (organique et charnel) vient de l’écrivain catholique Gustave Thibon, inspirateur de Jean Giono, qui avait rédigé sa thèse sur le philosophe païen et vitaliste Ludwig Klages, animateur en vue de la Bohème munichoise de Schwabing au début du siècle puis exilé en Suisse sous le national-socialisme mais inspirateur de certains protagonistes du mouvement anti-intellectualiste völkisch (folciste), dont certains s’étaient ralliés au nouveau régime.

Ubiquité de De Becker : personnalisme, socialisme demaniste + “Le Rouge et le Noir”

Vu l’ubiquité de De Becker dans le paysage intellectuel des années 30 en Belgique comme en France, et vu ses sympathies pour le socialisme éthique de Henri De Man, il est impossible de ne pas inclure, dans nos réflexions sur le devenir de notre espace politique, l’histoire des idées socialistes, notamment après analyse de l’ouvrage récent d’Eva Schandevyl, professeur à la VUB, qui vient de consacrer un volume particulièrement dense et bien charpenté sur l’histoire des gauches belges : Tussen revolutie en conformisme – Het engagement en de netwerken van linkse intellectuelen in België, 1918-1956 (ASP, Bruxelles, 2011). Sans omettre non plus l’histoire du mouvement et de la revue Le Rouge et le Noir, organe et tribune anarchiste-humaniste avant-guerre, dont l’un des protagonistes, Gabriel Figeys (alias Mil Zankin), se retrouvera sous l’occupation aux côtés de Louis Carette (le futur Félicien Marceau) à l’Institut National de Radiodiffusion (INR) et dont l’animateur principal, Pierre Fontaine, se retrouvera à la tête du seul hebdomadaire de droite anti-communiste après la guerre, l’Europe-Magazine (avant la reprise de ce titre par Émile Lecerf).

Les aléas du Rouge et Noir sont très bien décrits dans l’ouvrage de Jean-François Füeg (Le Rouge et le Noir : La tribune bruxelloise non-conformiste des années 30, Quorum, Ottignies / Louvain-la-Neuve, 1995). Füeg, professeur à l’ULB, montre très bien comment l’anti-communisme des libertaires non-conformistes, né comme celui d’Orwell dans le sillage de l’affontement entre anarcho-syndicalistes ibériques et communistes à Barcelone pendant la guerre civile espagnole, comment le neutralisme pacifiste des animateurs du Rouge et Noir a fini par accepter la politique royale de rupture de l’alliance privilégiée avec une France posée comme indécrottablement belliciste et première responsable des éventuelles guerres futures (Koestler mentionne cette attitude pour la critiquer dans ses mémoires), ce qui conduira, très logiquement, après l’effondrement de la structure que constituait “le rouge et le noir”, à redessiner, pendant la guerre et dans les années qui l’ont immédiatement suivie, un paysage intellectuel politisé très différent de celui des pays voisins. La lecture de ces itinéraires interdit toute lecture binaire de notre paysage intellectuel tel qu’il s’est déployé au cours du XXe siècle. Ce que nous avions toujours préconisé depuis la toute première conférence de l’EROE sur Henri De Man en septembre 1983, en présence de témoins directs, aujourd’hui tous décédés, tels Léo Moulin, Jean Vermeire (du Vingtième Siècle et puis du Pays Réel) et Edgard Delvo (sur Delvo, lire : Frans Van Campenhout, Edgard Delvo – Van marxist en demanist naar Vlaams-nationalist, chez l’auteur, Dilbeek, 2003 ; l’auteur est un spécialiste du mouvement “daensiste”).

Au-delà du clivage gauche/droite

Nos initiatives ont toujours voulu transcender le clivage gauche/droite, notamment en incluant dans nos réflexions les critiques précoces du néo-libéralisme par les auteurs des éditions “La Découverte” qui préconisaient le “régulationnisme”. C’était Ange Sampieru qui se faisait à l’époque le relais entre notre rédaction et l’éditeur parisien de gauche, tout en essuyant les critiques ineptes et les sabotages irrationnels d’un personnage tout à la fois bouffon et malfaisant, l’inénarrable et narcissique Alain de Benoist, qui s’empressera de se placer, 2 ou 3 ans plus tard, dans le sillage de Sampieru, qu’il ignorera par haine jalouse et complexe d’infériorité et qu’il évincera avant de l’imiter. Le “Pape de la ‘nouvelle droite’” ira flatter de manière ridiculemernt obséquieuse les animateurs du MAUSS (Mouvement Anti-Utilitariste dans les Sciences Sociales), qui publiaient chez “la Découverte”, pour essuyer finalement, sur un ton goguenard, une fin de non recevoir et glâner une “lettre ouverte” moqueuse et bien tournée... Notre lecture de Nietzsche était également tributaire de ce refus, dans la mesure où nous n’avons jamais voulu le lire du seul point de vue de “droite” et que nous avons toujours inclu dans nos réflexions l’histoire de sa réception à gauche des échiquiers politiques, surtout en Allemagne.

Quant au catholicisme politique belge, il s’est suicidé et perpétue son suicide en basculant toujours davantage dans les fanges les plus écœurantes du festivisme (Milquet) ou de la corruption banksterienne (Dehaene), au nom d’une très hypothétique “efficacité politique” ou par veulerie électoraliste. Il est évident qu’il ne nous attirera plus, comme il ne nous a d’ailleurs jamais attiré. Il n’empêche que la Belgique, de même qu’une Flandre éventuellement indépendante et que la Wallonie, est le produit de la reconquête des Pays-Bas par les armées de Farnèse et de la Contre-Réforme, comme le disait déjà avant guerre le Professeur louvaniste Léon van der Essen et que cette reconquête est celle des iconodules pré-baroques qui reprennent le contrôle du pays après les exactions des iconoclastes, qui avaient ravagé le pays en 1566 (3) : un Martin Mosebach, étoile de la littérature allemande contemporaine, dirait qu’il s’agit d’une victoire de la forme sur la “Formlosigkeit”, tout comme l’installation des “sensate” dans les rouages de la politique et de l’État est, au contraire, une victoire de la “Formlosigkeit” sur les formes qu’avaient voulu sauver les “ideational” ou gentiment maintenir les “idealistic”.

Même si la foi a disparu sous les assauts du relativisme postmoderne ou par épuisement, 2 choses demeurent : le territoire sur lequel nous vivons est une part détachée de l’ancien Saint-Empire, dont la référence était catholique, et la philosophie qui doit nous animer est surtout, même chez les adversaires de Philippe II ralliés au Prince d’Orange ou à Marnix de Sainte-Aldegonde, celle d’Érasme, très liée à l’antiquité et très marquée par le meilleur des humanismes renaissancistes. Érasme n’a pas rejoint le camp de la Réforme non pas pour des raisons religieuses, mais parce qu’un retour au biblisme le plus littéral, hostile au recours de la Renaissance à l’Antiquité, le révulsait et suscitait ses moqueries : autre volonté sereine de maintenir les formes antiques, née à la période axiale de l’histoire et ravivée sous Auguste, contre la “Formlosigkeit” que constitue les autres formes, importées ou non. Nous devons donc rester, devant cet héritage du XXe siècle et devant les ruines qu’il a laissés, des érasmiens impériaux, bien conscients de la folie des hommes.

► Robert Steuckers (Forest-Flotzenberg, mai 2012).

Notes :

(1) Paul Desjardins inaugure un filon de la pensée qui apaise et fortifie les esprits tout à la fois. Dreyfusard au moment de l’”affaire”, il achète en 1906 l’Abbaye de Pontigny confisquée et vendue suite aux mesures du “P’tit Père Combes”. Dans cette vénérable bâtisse, il crée les Décades de Pontigny, périodes de chaque fois 10 jours de séminaires sur un thème donné. Elles commencent avant la Première Guerre mondiale et reprennent en 1922. Parallèlement à ces activités qui se tenaient dans le département de l’Yonne, P. Desjardins suit les Cours universitaires de Davos, en Suisse, où, de 1928 à 1931, des intellectuels français et allemands, flanqués d’homologues venus d’autres pays, se rencontreront en terrain neutre. En 1929, Heidegger, Gonzague de Reynold, Ernst Cassirer et le théologien catholique et folciste (völkisch) Erich Przywara y participent en tant que conférenciers. Parmi les étudiants invités, il y avait Norbert Elias, Karl Mannheim, Emmanuel Lévinas, Léo Strauss et Rudolf Carnap. L’axe des réflexions des congressistes est l’anti-totalitarisme. En 1930, on y trouve Henri De Man et Alfred Weber (le frère trop peu connu en dehors d’Allemagne de Max Weber, décédé en 1920). En 1931, on y retrouve l’Italien Guido Bartolotto, théoricien de la notion de “peuple jeune”, Marcel Déat, Hans Freyer et Ernst Michel (disciple de Carl Schmitt). On peut comparer mutatis mutandis ces activités intellectuelles de très haut niveau au projet lancé à l’époque par Karl Jaspers, visant à établir l’état intellectuel de la nation (allemande) dans une perspective pluraliste et constructive, initiative que Jürgen Habermas tentera, à sa façon, d’imiter à l’aube des années 80 du XXe siècle. P. Desjardins collabore également à la Revue politique et littéraire, plus connue sous le nom de Revue Bleue, vu la couleur de sa couverture. Sa fille Anne Desjardins, épouse Heurgon, poursuit l’œuvre de son père mais vend l’Abbaye de Pontigny pour acheter des locaux à Cerisy-la-Salle, où se tiendront de nombreux colloques philosophico-politiques.

Plus tard, surgit sur la scène française un auteur, apparemment sans lien de parenté avec P. Desjardins, qui porte le même patronyme, Arnaud Desjardins (1925-2011). Ce disciple de Gurdjieff, comme le sera aussi Louis Pauwels qui s’assurera pour Planète le concours de Raymond De Becker, influence également De Becker (et par le truchement de De Becker, Hergé) et infléchit les réflexions de ses lecteurs en direction du yoga et de la spiritualité indienne, dans le sillage de Swâmi Prâjnanpad. Son ouvrage Chemins de la sagesse influencera un grand nombre d’Occidentaux friands d’un “ailleurs” parce que leur civilisation, sombrant dans le matérialisme et la frénésie acquisitive, ne les satisfaisait plus. A. Desjardins participera à plusieurs expéditions, en minibus Volkswagen, en Afghanistan, dont il rapportera, à l’époque, des reportages cinématographiques époustouflants. Signalons également qu’A. Desjardins fut un animateur en vue du mouvement scout, auquel il voulait insuffler une vigueur nouvelle, plus aventureuse et plus friande de grands voyages, à la façon des Nerother allemands. Le scoutisme d’A. Desjardins participera à la résistance, notamment en facilitant l’évasion de personnes cherchant à fuir l’Europe contrôlée par l’Axe.

Le fils d’Arnaud, Emmanuel Desjardins, prend le relais, œuvre actuellement, et a notamment publié Prendre soin du monde – Survivre à l’effondrement des illusions (éd. Alphée / Jean-Paul Bernard, Monaco, 2009), où il dresse le bilan de la « crise du paradigme du progrès » inaugurant le « règne de l’illusion » suite au « déni du réel » et de la « dénégation du tragique ». Il analyse de manière critique l’”intransigeance idéaliste” (à laquelle un De Becker, par ex., avoue avoir succombé). E. Desjardins tente d’esquisser l’émergence d’un nouveau paradigme, où il faudra avoir le « sens du long terme » et « agir dans la complexité ». Il place ses espoirs dans une écologie politique bien comprise et dans la capacité des êtres de qualité à « se changer eux-mêmes » (par une certaine ascèse). Enfin, E. Desjardins appelle les hommes à « retrouver du sens au cœur du tragique » (donc du réel) en « renonçant au confort idéologique » et en « prenant de la hauteur ».

La trajectoire cohérente des 3 générations Desjardins est peut-être le véritable filon idéologique que cherchaient en tâtonnant, et dans une fébrilité “pré-zen”, ceux de nos rêveurs qui cherchaient une “troisième voie” spiritualisée et politique (qui devait spiritualiser la politique), surtout De Becker et Bauchau, dont les dernières parties du journal, édité par “Actes Sud”, recèlent d’innombrables questionnements mystiques, autour de Maître Eckart notamment. Hergé, très influencé par De Becker en toutes questions spirituelles, surtout le De Becker d’après-guerre, avait reconnu sa dette à l’endroit d’Arnaud Desjardins dans un article intitulé « Mes lectures » et reproduit 23 ans après sa mort dans un numéro spécial du Vif-L’Express et de Lire – Hors-Série, 12 déc. 2006. Hergé insiste surtout sur l’œuvre de Carl Gustav Jung et sur les travaux d’Alan Wilson Watts (1915-1973), ami d’A. Desjardins. Alan Watts est considéré comme le père d’une certaine “contre-culture” des années 50, 60 et 70, qui puise son inspiration dans les philosophies orientales.

(2) Sur Sulev J. Kaja, lire : Michel Fincœur, Sulev J. Kaja, un Estonien de cœur.

(3) Lire : Solange Deyon et Alain Lottin, Les casseurs de l’été 1566 : l’iconoclasme dans le Nord de la France, Hachette, 1981.

mardi, 01 mai 2012

Maron, Mosebach und der Islam in Deutschland

 

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Maron, Mosebach und der Islam in Deutschland

Martin LICHTMESZ

Ex: http://www.sezession.de/

Der Feind ist die eigene Frage als Gestalt, formulierte Carl Schmitt. Ob man den Islam pauschal als „Feind“ einstuft oder nicht: seine wachsende Präsenz in Deutschland wie in ganz Westeuropa wirft Fragen über die eigene Identität auf, denen kaum mehr auszuweichen ist und die über kurz oder lang einen Entschluß erzwingen werden. Insofern kann man den koranverteilenden Salafisten geradezu dankbar sein, daß sie die Öffentlichkeit mit der Nase auf eine gern verdrängte Problematik stossen – nicht zuletzt auf die Frage, wer wir eigentlich selbst sind.

Der berüchtigte Satz des unseligen Christian Wulff, wonach der Islam zu Deutschland „gehöre“, hat nun erneut von zwei verschiedenen Seiten Einspruch erhalten. Da wäre zum einen die 1941 geborene Schriftstellerin Monika Maron, die erkannt hat, daß gutgemeinte Umarmungen und Eingemeindungen dieser Art keineswegs die real bestehende Kluft überbrücken können:

Ehe dieser Satz so unkommentiert in den Boden des deutschen Grundgesetzes gerammt wird, sollte wenigstens für alle deutschen Staatsbürger hinreichend erklärt werden, welche Konsequenzen er nach sich zieht und welche Kollisionen mit anderen Selbstverständlichkeiten, die seit der Aufklärung zu Deutschland gehören, unausweichlich wären.

Die Salafisten belehren uns gerade, wie es aussieht, wenn Muslime den Koran tatsächlich so ernst nehmen, wie er es von ihnen verlangt. Wer auf YouTube gesehen hat, wie der oberste Prediger der Salafisten in Deutschland muslimische Knaben indoktriniert, kann nur erschrecken.

Und es beruhigt nicht wirklich zu hören, dass nur vier- oder fünftausend Salafisten in Deutschland leben und die wenigsten von ihnen Terroristen sind, wenn man gleichzeitig weiß, dass als Salafisten die nicht-saudischen Wahabiten bezeichnet werden, der Wahabismus aber Staatsdoktrin im reichen Saudi-Arabien ist, das seine religiös-dogmatischen Verbündeten weltweit unterstützt und finanziert.

Es ist nicht nur leichtfertig, sondern verantwortungslos, dem Islam seine Zugehörigkeit zu Deutschland zu bescheinigen, ohne gleichzeitig klar zu benennen, wie er sich reformieren muss, um kein Fremdkörper in einem säkularen und demokratischen, die Freiheitsrechte des Individuums achtenden Staat zu bleiben.

(…)

Ich frage mich auch, warum unter dem Dach der Religionsanstalt Ditib, die der Leitung, Kontrolle und Aufsicht des staatlichen Präsidiums für Religiöse Angelegenheiten der Türkei und damit indirekt dem türkischen Ministerpräsidenten untersteht, mehr als 800 türkische Beamte in Deutschland dafür sorgen dürfen, dass ihre ehemaligen Landsleute ihrem Herkunftsland und traditionellen Religionsverständnis möglichst eng verbunden bleiben, und ihnen damit die allmähliche Verschmelzung mit der deutschen Gesellschaft erschweren oder sogar unmöglich machen.

All das führt geradezu zwangsläufig zur Konfrontation mit der eigenen Identität, da die Moslems keinerlei Probleme haben, die ethnisch, kulturell und religiös „Anderen“ zu identifizieren:

Seit 20 Jahren gewöhnen wir uns nun daran, dass wir nicht mehr Bundesbürger und DDR-Bürger sind, sondern einfach Deutsche, wie die Bewohner anderer Länder einfach Polen, Engländer, Franzosen oder Türken sind.

Ich möchte nicht, dass man mich jetzt mit der rassistischen Bezeichnung Bio-Deutsche belegt, wie ich auch gerne auf die Klassifizierung „mit Migrationshintergrund“ verzichten würde, wenn die so Genannten sich auch als Deutsche verstehen wollten, weil sie hier geboren wurden, vielleicht sogar schon ihre Eltern, weil wir alle gemeinsam hier leben, und weil es mir gleichgültig ist, an welchen Gott jemand glaubt, solange es dem anderen auch gleichgültig ist.

Ja, das ist die immer wiederkehrende Melodie, „wenn“ es doch so wäre, und alle gleichermaßen mitspielen würden! Aber warum tun sie es nicht? Warum sind sie nicht so wie wir? Warum denken und fühlen sie nicht so wie wir? Es ist der immergleiche Schock des Liberalen darüber, daß die „Differenz“ eben doch mehr als ein diskursives Spiel im pluralistischen Sandkasten ist, sondern eine blutige Realität.

Maron bezeichnete bereits letztes Jahr im Spiegel  die Ausbreitung des Islam als Gefahr für den säkularen, religionsneutralen Staat. Dabei hat sie erkannt, daß das liberale System vor einer Herausforderung steht, der es kaum gewachsen ist, und die seine Lücken und Selbstwidersprüche zutage treten läßt. Maron schrieb:

Irreführend und unverständlich wird es, weil natürlich niemand der öffentlich Streitenden von sich behaupten würde, er sei ein Gegner aufklärerischen Gedankenguts.

Im Gegenteil, die glühendsten Verteidiger islamischer Sonderrechte berufen sich auf die Toleranz als oberstes Gebot der Aufklärung und erklären die Kritiker des Islam und seiner weltlichen Ansprüche für paranoid, phobisch oder aber, noch schlimmer, für fremdenfeindlich und rassistisch. Das Absurde ist, dass mit diesem Vorwurf auch islamkritische Türken, Iraner, Ägypter bedacht werden, die vom Verdacht der Fremdenfeindlichkeit und des Rassismus ja ausgeschlossen sein müssten, so dass allein ihre Kritik am Islam Anlass genug ist, sie öffentlich zu diskreditieren.

Nun kann man sich erklären, warum die Vertreter von Milli Görüs und der Ditib im Namen gläubiger Muslime ihre Anforderungen an die deutsche Gesellschaft lauthals vertreten. So verstehen sie ihre Aufgabe, auch wenn das dem Zusammenleben der Muslime mit allen anderen Bürgern des Landes nicht unbedingt zuträglich ist. Dagegen bleibt es ein Rätsel, warum die Grünen und die SPD, deren Mitglieder und Anhängerschaft des religiösen Fundamentalismus dieser oder jener Art kaum verdächtig sind, kleinstadtartige Riesenmoscheen und die Kopftuchpflicht für kleine Mädchen zu Zeichen aufklärerischer Toleranz erheben; warum der sich als links verstehende Journalismus eine geschlossene Kampffront bildet für das Eindringen einer vormodernen Religion mit ihrem reaktionären Frauenbild, ihrer Intoleranz gegenüber anderen Religionen und einem archaischen Rechtssystem. Warum stehen diese Wächter der richtigen Gesinnung nicht auf der Seite der Säkularen aller Konfessionen? Warum verteidigen sie islamische Rechte gegen europäische Werte und nicht umgekehrt?

Das sind entscheidende Fragen,deren Antworten wohl in den Untiefen eines gestörten Identitätsgefüges zu suchen sind. Schon Botho Strauß hat 1993 erkannt, daß die linken Intellektuellen nicht freundlich zum Fremden um seiner selbst willen sind, „sondern weil sie grimmig sind gegen das Unsere und alles begrüßen, was es zerstört“, woran sich utopische Hoffnungen und Wahnideen knüpfen. Was aber das „Unsere“ ist, das gerade die Deutschen so scheuen, läßt sich nicht durch einen Katalog von „Werten“ oder ein regulatives System ersetzen, denn unser gewordenes geschichtliches Sein umfaßt viel mehr als dies.

Jan Werner Müller kritisierte in der Zeit, daß der europäische Rechtspopulismus à la Wilders und Le Pen „Werte wie Freiheit und Emanzipation“ nicht „liberal-universalistisch“ verstehen würde, „sondern als Teil eines nationalen Selbstverständnisses, das die Fremden – vor allem die Muslime – nicht teilen können.“ Das kann man drehen und wenden und bewerten, wie man will: Wilders, Le Pen & Co. sind hier nicht nur faktisch im Recht: sobald diese „Werte“ tatsächlich absolut, als oberster Gott quasi, gesetzt werden, verlieren sie ihren konkreten Sinn und ihre Erdung, entorten und abstrahieren sich ins Bodenlose und Luftleere, machen ihre Gläubigen letztlich politik- und überlebensunfähig.

Das pluralistisch-liberale System, das durchaus dem europäischen Hang zum Individualistischen entgegenkommt, kann nur so lange einigermaßen bestehen, als in der Gesellschaft ein gewisser Konsens existiert, und die „kulturellen Selbstverständlichkeiten“ und Erwartungshaltungen im Großen und Ganzen geteilt werden. Wenn der pluralistische Ansatz jedoch überdehnt wird, droht das ohnehin schon recht fragile und komplizierte Gefüge auseinanderzufallen. Und dieser Fall tritt eben durch die signifkante Zuwanderung von Moslems ein, deren mentale Prägungen und primäre Loyalitäten zu einem erheblichen Teil grundverschieden von den Unseren sind. Dennoch müssen sie vom Rechtsstaat und vom Grundgesetz her als Gleiche behandelt werden. Und das wirft nun einige nicht geringe Probleme auf.

Der Staatsrechtler Ernst-Wolfgang Böckenförde äußerte in einem Interview dazu:

Den Katalog solcher verbindlicher Normen finden Sie im Grundgesetz. Jenseits dessen gehört es aber auch zur freiheitlichen Ordnung einer Gesellschaft, dass sie innere Vorbehalte gegenüber ihre Wertsetzungen akzeptiert. (…) Entscheidend ist, dass alle Bürger das geltende Recht und die Gesetze anerkennen und befolgen. Wenn aber jemand denkt, „eigentlich ist das nichts Gutes, andere Gesetze wären besser“ – dann ist ihm das unbenommen. Die Gedanken sind frei. Daran darf eine freie Gesellschaft keinen Zweifel lassen.

Ihnen genügt wirklich die formale Anerkenntnis, auch ohne innere Zustimmung?

Innere Zustimmung wäre gewiss wünschenswert. Ich darf sie aber nicht zur Voraussetzung für ein Leben in unserem Land machen. Ich halte gar nichts davon, Einwanderern irgendwelche Wertebekenntnisse abzuverlangen, zumal der Begriff „Wert“ schwammig ist und mit den verschiedensten Inhalten gefüllt werden kann. Verlangen kann und muss ich, dass sich jeder an die Gesetze hält. Mit dieser bürgerlichen Loyalität muss ich es dann aber auch bewenden lassen. Zumal auch diese mehr ist als etwas rein Formales.

Worin liegt das „mehr“?

Im pflichtgemäßen Verhalten gegenüber einer Rechtsordnung, wie sie übrigens der Islam von den Gläubigen in der Diaspora ausdrücklich erwartet.

Schon hier könnte man einwerfen: vor allem aus taktischen Gründen. Und für den gläubigen Moslem steht in jedem Fall das islamische Recht über dem jeweiligen Recht des Diaspora-Staates. Böckenförde zeigte sich dennoch optimistisch:

Das bewirkt eine bestimmte Einstellung. Rechtsgehorsam, wie es das Verfassungsgericht einmal genannt hat, hat so sehr konkrete Verhaltensweisen zur Folge, die auch geeignet sind, mentale Gegensätze auf die Dauer abzuschleifen.

Auf letzteres sollte man nicht vertrauen, zumal die Frage offen bleibt, wodurch der Rechtsgehorsam, der Respekt vor dem Gesetz, also die nicht  nur taktische Anerkennung seiner Legitimität denn erzwungen werden soll, wenn nicht von vornherein eine gewisse innere Zustimmung besteht, wie man sie eben bei den meisten Stammeuropäern voraussetzen kann. Sollte sie nur auf Gewaltandrohung beruhen, ist die Grundlage brüchig. Die Respektlosigkeit vor Staatsorganen und Polizei ist europaweit ein typisches und häufiges Phänomen unter moslemischen Einwanderern, insbesondere unter den notorisch unruhigen „Jugendlichen“.

Einspruch gegen das Wulff-Axiom kam auch in der Welt vom 20. April von Martin Mosebach. Im Gegensatz zu der aus der DDR stammenden Monika Maron, die generell mit keiner Form von Religion „behelligt“ werden will, vertritt Mosebach einen dezidiert römisch-katholischen Standpunkt traditionalistischer Prägung. Hier hat die Verteidigung des religionsneutralen, liberal-säkulären Staates, die Maron so am Herzen liegt, geringe bis keine Bedeutung. So argumentiert er auch stärker auf historischer Grundlage, weniger mit „Werten“:

 Mosebach: Wenn ein Politiker sich über den Islam äußert, kann er sagen: Die Deutschen, die sich zum Islam bekennen, haben dieselben Bürgerrechte wie die anderen Deutschen. Das ist eine Selbstverständlichkeit. Aber der Satz „Der Islam gehört zu Deutschland“ ist eine verantwortungslose und demagogische Äußerung. Was hat der Islam zu unserer politischen und gesellschaftlichen Kultur bisher beigetragen? Unser Grundgesetz fußt auf dem Christentum, auf der Aufklärung und auf weit in die deutsche Geschichte zurückreichenden Konstanten, wie etwa dem Partikularismus. Da gibt es kein einziges islamisches Element – woher sollte das auch kommen? Wenn die muslimischen Deutschen die kulturelle Kraft besitzen sollten, der deutschen Kultur islamische Wesenszüge einzuflechten, dann mag man in hundert Jahren vielleicht einmal sagen: der Islam gehört zu Deutschland.

Welt Online: Gehört das Christentum noch zu Ostdeutschland?

Mosebach: Natürlich. Dieses Land ist ein Geschöpf des Christentums. Seine Städte, seine Sprache, seine Kunst, alles. Das vergeht nicht in ein paar Jahrzehnten religiöser Ausdünnung.

Nun gibt es freilich auch hier einige Fallstricke und blinde Flecken, die man häufig bei katholischen Konservativen antrifft. Es gibt hier eine gewisse hartnäckige Verachtung jenes Blutes, das stärker als Wasser ist, all dessen, was etwas voreilig als „biologisch“ oder „nur biologisch“ abgetan hat, wie eben der Volkszugehörigkeit, die, so man es will oder nicht, ein bedeutendes, nicht aus der Welt zu schaffendes Movens unter den Menschen ist. Aber die katholische Welt, so wie ich sie sehe und liebe, ist eben auch die Welt des Konkreten, des Fleisches und der Inkarnation. Sie besteht es aus einer vertikalen und einer horizontalen Linie, Geist und Körper, und beide zusammen formen das Kreuz.  Mögen wir alle Brüder in Christo sein, wir gehören dennoch auch irdischen Ordnungen an, für die wir eine ethische Verantwortung tragen.

Mosebach spricht von „Deutschen, die sich zum Islam bekennen“: meint er damit deutsche Konvertiten, von denen es bisher nicht allzu viele gibt, oder ist er gar, nicht anders als ein durchschnittlicher Grüner oder Sozialdemokrat, der Auffassung, daß die deutsche Staatsbürgerschaft ausreiche, um etwa einen Türken, Kurden oder Araber in einen Deutschen zu verwandeln? Jedermann, und gerade der Paßdeutsche selbst, weiß, daß dies nicht der Fall ist. Ein Kalb wird kein Pferd, wenn es in einem Pferdestall geboren wird.Wenn Deutschland in den nächsten Jahrzehnten islamisch wird, dann geschieht dies ja nicht durch massenhafte Konversionen der Stammdeutschen, sondern primär auf demographischem Weg durch die Kolonisierung des Landes durch fremde Völker. Kein Affekt gegen einen „Volksbegriff“ oder die „Biologie“ sollte den Blick für diese Tatsache trüben.

Eine weitere Falle ist hier, die islamische Frage als eine reine Religions- und Konfessionsfrage mißzuverstehen. Wie es dazu kommt, liegt nahe. Ein religiöser Mensch, der die Heißen und die Kalten den Lauwarmen vorzieht, und von einer glaubens- und transzendenzlosen Welt angewidert ist, wird sich nur ungern in eine Reihe mit etwa Monika Maron oder Necla Kelek oder Henryk Broder stellen, die von den Moslems (und eben auch Christen) die Anpassung an die „säkulare, freiheitliche Gesellschaft“ fordern.  Mosebach:

Welt Online: Warum sehen so viele Menschen in Deutschland den Islam als Konkurrenz, obwohl sich immer weniger zum Christentum bekennen?

Mosebach: Die Sorge vor dem Islam in Deutschland ist weniger eine Sorge von Christen als von Leuten, die sich von der Kirche schon sehr weit entfernt haben. Die empfinden Religion an sich als gefährlich, und im Islam sehen sie eine Rückkehr der Religion.

Welt Online: Ist Ihnen aus christlicher Sicht ein Muslim lieber als ein Atheist?

Mosebach: Was heißt lieber. Er ist mir auf jeden Fall näher. Selbstverständlich.

Da fragt man sich nun, welchen „Muslim“ Mosebach hier meint. Pierre Vogel? Osama bin Laden? Mullah Krekar? Ibrahim Abou Nagie? Abu Hamza? Mohammed Merah? Allein die Vorstellung ist lachhaft. Und denkt Mosebach, daß sich diese Herren, die allesamt keine Atheisten sind und an ihren Gott glauben, umgekehrt ähnlich generös ihm gegenüber äußern würden? Nun zweifle ich nicht, daß es irgendwo auf der Welt kultivierte moslemische Pendants zu Mosebach gibt, wie es auch in der Tat so etwas wie eine universelle Wahlverwandtschaft der geistigen Menschen gibt, sein „Moslem“ ist aber eine reine Denkfigur aus einer idealisierten Nathan-der-Weise-Sphäre, und diese Aussage erscheint mir, offen gesagt, nicht konsequent für jemanden, der die Religion nicht allein „kulturalistisch“ versteht und bejaht, sondern explizit die Wahrheitsfrage stellt.

Und dann ist „Religion“ eben nicht gleich „Religion“, und dann gibt es auch kein Mehr oder Weniger der Wahrheit, sondern nur ein Entweder-Oder, und dann sind aber auch nicht alle Religionen gleichermaßen respektabel. Aus streng christlicher Sicht ist der Islam die häretische Irrlehre eines falschen Propheten, und Mohammed, den Dante nicht umsonst in der Hölle schmoren ließ, das Urbild dieser Figur. Der falsche Prophet aber ist noch schlimmer als der bloße Ungläubige oder Glaubenslose, denn er verbreitet aktiv die Lüge, wie der Antichrist. Umgekehrt macht es aus islamischer Sicht keinen Unterschied, ob ein Ungläubiger Atheist oder Christ oder Jude ist – er ist gleichermaßen verdammt und wird auch entsprechend behandelt. Der Koran ist diesbezüglich völlig eindeutig.

Mosebach liegt auch falsch, anzunehmen, daß sich die Menschen in erster Linie vor dem Islam als Religion fürchten. Sie fürchten sich viel mehr vor Gewalt, Landnahme, Repression, Erpressung, Enteignung, Entfremdung und Überfremdung. Nicht der Islam an sich ist unser Problem, sondern die Masseneinwanderung inkompatibler Völker. Die „Islamkritiker“ müssen reif werden und zu Einwanderungskritikern werden. In dieser Problematik spielt der Islam allerdings die Rolle eines aggressiven, verschärfenden und beschleunigenden Moments. Man sollte hier sich nicht von dem religiösen Element hypnotisieren lassen wie das Kaninchen von der Schlange.

Gerade viele Konservative erliegen dieser Versuchung, weil sie in dieser religionsfeindlichen Zeit dazu neigen, generell die Partei der geschmähten und hochmütig überwunden geglaubten Religion zu ergreifen. Wir alle wissen, daß uns nur noch ein Gott retten kann. So hat es Martin Heidegger 1966 gesagt. Aber nicht jeder beliebige dahergelaufene Gott. An ihren Früchten werdet ihr sie erkennen. Trotzdem kenne ich viele verzagte Konservative, unter ihnen nicht wenige dem Traditionalismus nahestehende Christen, die schon unsicher die Hand nach Allah ausstrecken oder sich ihm gegenüber zumindest aufwärmen, weil offenbar keine anderen Götter im Angebot sind.

Hier gilt es, den Skeptiker und Aufklärer einzuschalten. Eine Religion kann, wie etwa bei Canetti nachzulesen, Folge eines Massenwahns und eine Art evolutionäres Vehikel des Willens zur Macht sein, das dann letzten Endes vor allem weltlichen Dingen dient. Der Islam wäre dafür das Beispiel par excellence, und darum ist er auch ausreichend von Nietzsche und vielen Faschisten bewundert worden. Der Koran erteilt den Freibrief zum ungehemmten Willen zur Macht in einem Maße, wie es dem Neuen Testament diametral entgegengesetzt ist, wie das Leben Christi dem des Mohammed. Zu seinen Blütezeiten war der Islam eine pure, gut geölte Machtentfaltungs- und Eroberungsmaschine, und als solche funktioniert er noch heute.

Die Sorge um die Islamisierung hat mit Kirchenferne und Abfall vom Glauben also erstmal rein gar nichts zu tun. Sie ist in der Tat angesichts ihres fortgeschrittenen Stadiums immer noch allzu gering. Wären die Deutschen heute kirchentreu und gläubig, dann würde der Islam kaum so nachsichtig toleriert und verteidigt werden, wie es heute der Fall ist, dann wäre es überhaupt gar nicht erst zu einer derart massiven Landnahme gekommen, und dann würde es heute schon längst heftig krachen zwischen Christen und Moslems. Dafür spricht sowohl die historische als die zeitgenössische Evidenz. Die Glaubensstarken haben einander in der Geschichte selten toleriert, und sie standen sich gegenseitig umso ferner, je stärker ihr Glaube war. Das alte, gläubige Europa hat nicht nur den Islam als Todfeind bekriegt, es hat innerhalb der Christenheit erbittert um die Rechtgläubigkeit gekämpft. Es waren auch nicht die kirchentreuen Christen, die die Moslems in die Mauern Europas ließen, sondern die Glaubenslosen und die Anhänger diverser säkularer Ersatzreligionen, die unter anderem vom Haß auf das Christentum motiviert sind.

Auch hier antwortet Mosebach ausweichend:

Welt Online: Sie fürchten nicht, dass der Islam das Christentum in Europa verdrängt?

Mosebach: Dem Christentum ist ja nicht der historische Erfolg geweissagt. In den verschiedenen Apokalypsen ist ihm geweissagt, dass die Kirche in den letzten Tagen vor dem Ende der Welt fast vollständig verschwinden wird.

Nun gut – aber auch die Welt wird nach dieser Weissagung vollständig verschwinden, die Ernte wird eingefahren, und das große Tier, der falsche Prophet, Gog und Magog werden vernichtet werden. Kein Grund für den Christenmenschen, sich diesen in irgendeiner Weise „nahe“ zu fühlen.


 Maron, Mosebach und der Islam in Deutschland

vendredi, 03 février 2012

Carl Schmitt y el Federalismo

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Carl Schmitt y el Federalismo

Por Luís María Bandieri*

Ex: http://www.disenso.org/

Cuando se trata de abordar la relación que el título de este trabajo propone,  entre nuestro autor y el concepto jurídico-político de federación, aparece de inmediato una dificultad. El federalismo resulta un tema episódico en su obra -un índice temático de la opera omnia schmittiana registraría escasas entradas del término. Más aún, puede sospecharse que se trata, antes que de una presencia restringida y a contraluz, de una ausencia a designio.  Entonces, además de reseñar lo que dice sobre el federalismo, cabría preguntarse, también, el por qué de lo que calla. Schmitt es un autor tan vasto y profundo que, como todos los de su categoría, habla también por sus silencios, dejando una suerte de "escritura invisible" que el investigador no puede desdeñar.

El lector de Schmitt advierte, ante todo, que cuando nuestro autor se refiere al Estado, a la "unidad política" por excelencia, no suele detallar las modalidades de su organización interna y, especialmente, de cómo se articula hacia adentro, funcional o territorialmente, el poder. Autodefinido como último representante del jus publicum europaeum, Schmitt destaca en el Estado su capacidad de lograr la paz interior, sin preguntarse demasiado por cuáles mecanismos se alcanza. Las preguntas iniciales, pues,  podrían ser: formuladas así: ¿cabe el federalismo dentro de la estatalidad clásica, propia de aquel jus publicum y tan cara a Schmitt? ¿Nuestro autor concibió otras formas políticas trascendentes a aquella estatalidad clásica? Si ese ir más allá se dio ¿hubo lugar para el federalismo?

En principio, aunque luego se verá que esta caracterización resulta insuficiente, cuando nos referimos al federalismo, según surge de la literatura jurídica corriente en nuestro país, nos  referimos a una forma particular de articulación territorial del poder. El control de un territorio por el aparato de poder del Estado.

El control de un territorio por parte del Estado puede realizarse fundamentalmente de dos maneras:

  • conun modelo de articulación territorial del poder en que las partesnacen y dependen del todo -el centro-, que posee el monopolio delcontrol.

  • conun modelo de articulación territorial del poder donde el todo -elcentro- nace y depende de las partes, entre las cuales y el centrose reparten dicho control.

El primero es un modelo unitario o centralista. El segundo es el modelo federal o más exactamente “federativo”. La Argentina, por ejempo, es un Estado federativo compuesto por estados provinciales federados. La confederación resulta un procedimiento de articulación territorial del poder donde un cierto número de Estados acepta delegar ciertas competencias a un organismo común supraestatal. Basten, por ahora, estas nociones rudimentales.

Schmitt se forma en un medio jurídico-político donde las ideas de lo federal y confederal   están vivas y presentes. Después de todo, aquéllas toman entidad en la Lotaringia y el Sacro Imperio Romano Germánico, donde se desarrollan aldeas, ciudades y comunas, cada una de ellas con objetivos y alcances propios, sin perjuicio de estar relacionadas con los conjuntos más amplios del reino o el imperio, originándose así la idea de la unidad como una "concordia armoniosa", presente en el pensamiento medieval[1]. Cuando Napoleón derriba al antiguo imperio alemán, comprende que los múltiples principados alemanes no pueden sobrevivir aislados y, para organizar la Mitteleuropa, crea, bajo su protectorado, la Confederación del Rhin (1806-1813), excluída Prusia.. A la caída de Napoleón, se establece la Confederación Germánica (1815-1866), integrada por treinta y ocho  estados soberanos donde se cuentan un Imperio (Austria) y cinco reinos (Prusia, Baviera, Wurtemberg, Sajonia y Hannover). El II Reich alemán se organiza en 1871 como un Estado federal, formado por veinticinco estados federados bajo hegemonía prusiana. El Consejo federal, o Bundesrat, estaba presidido por el rey de Prusia, que llevaba el título de emperador de Alemania y designaba al canciller del Reich. La República de Weimar de 1919, es federal, parlamentaria y democrática, si bien los Länder retenían facultades limitadas. En fin, sean cuales fueren las limitaciones y problemas que manifestaron estas confederaciones y federaciones, lo cierto es que un jurista, en la Alemania de principios del siglo XX, no podía evitar la reflexión inmediata sobre el federalismo[2].

En la vasta obra schmittiana, sólo hay dos textos donde se desarrolla su pensamiento sobre el federalismo. El primero es la "Teoría  de la Constitución", Verfassungslehre, publicada en 1928. La otra, aparecida en 1931, aunque reúne estudios publicados ya en 1929, es "El Guardián de la Constitución", Der Hütter der Verfassung.  Reseñemos lo que ambas dicen sobre nuestro tema.

El primero, "Teoría de la Constitución", es la única obra de Schmitt concebida y desarrollada mediante el formato del tratado jurídico convencional y clásico. Podría pensarse en un desafío de nuestro jurista renano a sus colegas más reconocidos de la época: escribo en igual molde que ustedes, diciendo todo lo contrario de lo que inveteradamente repiten ustedes. Schmitt, que fue, al fin de cuentas, más jurista -más Kronjurist- de la república de Weimar que del Tercer Reich, donde terminó como un outsider, construye esta obra como una empresa de demolición del Estado de derecho, esto es, del tipo de Estado que la constitución weimariana pretendía más adecuadamente reflejar. Ella, sin embargo, lo convierte, paradójicamente, en uno de los mejores y más agudos expositores de los aspectos del  Rechtstaat  en general más descuidados por los análisis habituales[3].

Hasta ese momento, y salvo la opinión de Max von Seydel, sobre la que se apoya nuestro autor, la teoría dominante contraponía la confederación de Estados -Staatenbund- (al modo de la Confederación de 1815) al Estado federal -Bundstaat- (como el II Reich de 1871). Para Schmitt, en cambio, no existen diferencias entre ambas formas.

Para él, "federación [en el sentido amplio y abarcativo señalado] es una unión permanente, basada en libre conveniencia y al servicio del fin común de la autoconservación de todos los miembros, mediante la cual se cambia el total status político de cada uno de los miembros en atención al fin común"[4]. La federación da lugar a un nuevo status jurídico-político de cada miembro. El pacto federal es un pacto interestatal de status con vocación de permanencia (toda federación es concertada para la "eternidad", esto es, para la eternidad relativa de toda forma política, mortal por definición).

Toda federación, según nuestro autor, reposa sobre tres antinomias o contradicciones:

  1. Derechode autoconservación vs. renuncia al ius belli.

  1. Derechode autodeterminación vs. Intervenciones.

  1. Existenciasimultánea, por un lado. de la federación común y, por otro, de los estados miembros.La esencia de la federación reside, pues, en un dualismo de laexistencia política. Tal coexistencia de una unidad políticageneral y de unidades políticas particulares da lugar a unequilibrio difícil.   Se presenta, ante todo,  elproblema de la soberanía: ¿serán soberanos los estados federadosy no la federación? ¿o  la federación  es la únicasoberana y los estados federados carecen de tal atributo?. Se tratade soberanía, es decir, de una decisión (soberano es el que decidesobre el estado de excepción; en este caso, el que decide sobre su propia existencia política o, invirtiendo la fórmula, acerca deque un extraño no decida sobre  su propia existenciapolítica). Si la decisión  es deferida a un tribunaljudicial, éste se tornaría inmediatamente soberano, en otraspalabras, poder político existencial. La respuesta, según nuestroautor, tampoco puede consistir (según la teoría corriente en sutiempo, y vigente entre nuestros constitucionalistas) en ladistinción entre confederación y federación: en la confederación los estados federados son soberanos y en el Estado federal  lasoberanía reside en la federación misma. Ya hemos visto su rechazode  esa distinción, que no tiene en cuenta -afirma - cómosurge una decisión soberana en caso de un conflicto en que esté enjuego la propia existencia de la forma política en cuestión. Enpuridad, dice Schmitt,  conforme aquel criterio  dominanteresulta que la confederación se disuelve siempre en caso deconflicto, y que la federación se resuelve siempre, cuando mediaconflicto, en un Estado unitario. Schmitt, citándolo a través delos escritos de Max von Seydel, se refiere a las doctrinas de JohnCalhoun, que sirvieran a la argumentación  de los confederadossudistas[5].Calhoun no  admitía que, al sancionarse en Norteamérica laconstitución federativa de 1787, los estados federados hubiesenrenunciado a  sus derechos soberanos, los State Rights,anteriores a la federación y en principio ilimitados, salvo lascompetencias  que expresamente se delegaron en la constitución.Calhoun, como Seydel hará suyo, sostiene que una suma decompetencias delegadas no transmite soberanía  al delegado, niimplica renuncia a ella por parte del delegante. Los estadosfederados conservaban, pues, un derechoa la anulación delas leyes y actos federales y, cuando estuviese comprometida suseguridad y existencia, un derechoa la secesión (loque condujo a la guerra civil de 1861-65). Derrotada esa posiciónen  el campo de batalla (a partir de allí anulación ysecesión equivalen a rebelión y sobre las cuestiones entre estadosfederados decide en último término la Corte Suprema) no queda,según Schmitt, refutado por ello el argumento calhouniano. Lo queocurre es que la Constitución como tal ha cambiado su carácter yla federación ha cesado: subsiste tan sólo una autonomíaadministrativa y legislativa de los estados federados; en otraspalabras, una seudofederación.

A continuación, nuestro autor se plantea cómo se diluyen las antinomias que afectan a la federación. La federación supone homogeneidad de todos sus miembros. Para Montesquieu, esta homogeneidad significaba que los federados fueran estados republicanos, es decir, que tuviesen homogeneidad de  organización política. La homogeneidad podría ser, también, de nacionalidad, de religión, de civilización etc. Schmitt parece privilegiar la homogenidad nacional de la población, esto es, para él, la homogeneidad de origen.

Así, la primera antinomia (derecho a la autodefensa y renuncia al ius belli) se diluye porque la homogenidad con los otros federados excluye la la hostilidad entre ellos.

La segunda antinomia (autonomía e intervención) se disuelve porque la voluntaCarl Schmitt y el Federalismo - SILACPOd de autodeterminación se plantea frente a una ingerencia extraña, pero no  resulta extraña la de la propia federación.

La tercera antinomia (dualismo existencial entre federación soberana y estados miembros soberanos) se disuelve porque la homogeneidad excluye el conflicto existencial decisivo. Como las cuestiones de la existencia política pueden presentarse en campos diversos, se da así la posibilidad de que la decisión de una clase de cuestiones tales como, por ejemplo, de la política exterior, competa a la federación y que, por el contrario, la decisión de otras, por ejemplo, mantenimiento de la seguridad y el orden público dentro de un estado federado, quede reservada al propio estado miembro. No se trata de una división de la soberanía, porque en caso de una decisión que afecte a la existencia política como tal, la tomará por entero sea la federación, sea el estado miembro[6]. Donde hay homogeneidad, el caso de conflicto decisivo entre la federación y los estados miembros debe quedar excluída. De otro modo, el pacto federal se convierte en un "seudonegocio jurídico nulo y equívoco"[7].

El traductor español de la obra, Francisco Ayala, apunta en el prólogo, respecto de esta conclusión: "se las ingenia de manera a asegurar que tanto las federaciones como los estados miembros aparezcan al mismo tiempo como unitarios y soberanos". Pero Schmitt, en verdad, está señalando como propio de toda organización federativa la tensión conflictual entre federación y federados, que puede llegar al pico de la situación excepcional y resolverse por decisión soberana de la primera o de los segundos. Las antinomias que están en la base de esa tensión conflictual pueden diluirse, para Schmitt, mientras la homogeneidad que ha llevado al foedus o pacto originario, en cuya virtud ha cambiado el status de los federados, se mantenga. En el momento  en que alguno de los federados sienta su propia existencia amenazada porque aquella homogeneidad se ha roto o no es reconocido como integrándola, entonces, o el foedus se revelará como pacto de origen de un Estado, en el fino fondo, "uno e indivisible", o será quebrado por ejercicio de los derechos de anulación y secesión. En otras palabras, en el primer caso, ante  la situación excepcional, la federación ejerce la soberanía irrenunciable y deviene, en los hechos, un Estado centralizado y, en el segundo, el acto soberano proviene del estado federado, que rompe la federación.  La Ausnahmezustand, la situación o estado de excepción, en ese caso, y cualquiera sea quien protagonice la decisión (federación o estado federado), da lugar al acto soberano y consecuente re-creación de un nuevo orden jurídico[8]. De todos modos, las circunstancias bien apuntadas por Schmitt no significarían una debilidad especial de la federación con respecto a otras formas de articulación territorial del poder. Basta observar el Estado unitario descentralizado italiano o español ("Estado de regiones" o "Estado de las autonomías"), o el caso del Reino Unido de la Gran Bretaña, para advertir la misma tensión existencial entre Estado central y comunidad particular que nuestro autor apunta como meollo antinómico y foco conflictivo de la federación, con situaciones extremas y excepcionales cual el Ulster o el País Vasco. Hasta en Francia, república "una e indivisble" por antonomasia, apunta, sobre otros, el caso inmanejable de Córcega. A tal punto que Raymond Barre, ex primer ministro francés, medio en broma medio en serio, proponía devolvérsela a Génova.

Volvamos a nuestro autor. Nos ha presentado las dificultades mayúsculas y tensiones conflictivas que, a su juicio, aparecen allí donde una federación exista.  Luego aparenta disolverlas acudiendo al recurso de la homogeneidad, especialmente la homogeneidad de origen, la homogeneidad nacional de un pueblo. Pero a continuación, nos plantea una nueva dificultad, en la que aquella homogenidad amenaza destruir la federación. Se trata de una antinomia sobreviniente, que enfrenta a democracia y federalismo.

A mayor democracia, menor esfera propia de los Estados federados. Democracia y federación descansan, ambas, en el supuesto de la homogeneidad. El pensamiento de Schmitt, como se sabe, apunta en este aspecto a separar la noción de democracia de la noción de Estado liberal-burgués. Democracia, para Schmitt, es una forma política que corresponde al principio de identidad entre gobernantes y gobernados, de los que mandan y de los que obedecen, dominadores y dominados, esto es, identidad del pueblo y de la unidad política. Ello por la sustancial igualdad que es su   fundamento y que supone, parejamente, una básica homogeneidad, en el pueblo. Por ello, en el desarrollo de la democracia dentro de una federación, la unidad nacional   homogénea del pueblo transpasará las fronteras políticas de los Estados federados y tenderá a suprimir el equilibrio de la coexistencia de federación y estados federados políticamente independientes, a favor de una unidad común.

Ello conduce a un "Estado federal sin fundamentos federales"[9], como los EE.UU. o la República de Weimar, según nuestro autor. En ellos, la constitución toma elementos de una anterior organzación federal y expresa la decisión de conservarlos, pero el concepto democrático de poder constituyente de todo el pueblo, a juicio de Schmitt, suprime el concepto de federación. Se organiza un complejo sistema de distinción de poderes y descentralización, pero falta el fundamento federativo: hay una unidad política (la unidad política de un pueblo en un Estado) y no una pluralidad de unidades políticas, que es lo que supone la federación propiamente dicha. No existe, apunta Schmitt, un pueblo bávaro, prusiano, hamburgués en la constitución de Weimar: sólo existe el pueblo alemán. Sin embargo, la contradicción entre democracia y federación, donde la consecuencia de la primera, el poder constituyente del pueblo uno y único, socava los fundamentos de la segunda, no parece haber afectado a Suiza, por ejemplo. Una respuesta más afinada nos la dará Schmitt en la segunda obra donde se encuentran referencias al federalismo: Der Hüter der Verfassung.

En ella, sostiene que el presidente es el custodio de la constitución, como poder neutro y super partes. No podría serlo un tribunal judicial o corte constitucional porque, en ese caso, se le trasladaría la decisión soberana, convirtiéndose la Corte Suprema o el Consejo Constitucional en soberanos "legisladores negativos" (la expresión es de Kelsen). Detalla los peligros concretos que acechan a la defensa de la constitución que asigna al presidente del Reich. Por un lado, la existencia de partidos dotados de Weltanschauungen   o cosmovisiones totales y encontradas (el nacionalsocialismo y el comunismo), es decir, partidos totalitarios. Cada uno de ellos trata de arrebatarle al Estado su prerrogativa propiamente política, esto es, trazar la línea divisoria entre el amigo y el enemigo. Al lado de estos partidos totalitarios, se manifiestan coaliciones parlamentarias lábiles, que acentúan tendencias pluralistas, es decir, para nuestro autos, fragmentantes de la unidad política. También contribuye a desarticular el Estado weimariano, prosigue nuestro autos, el "policratismo" de los diversos sectores de la economía pública (correo, ferrocarriles, Reichbank, etc.) que se mueven cada uno independientemente del otro y hasta chocando entre sí. Por otra parte, al haberse dado la república de Weimar una organización al mismo tiempo parlamentaria y federal, continúa nuestro autor, resurge la antinomia ya señalada en Verfassungslehre entre federalismo y democracia. Schmitt no oculta que la organización federativa   de la república de Weimar le parece desestabilizante para el Estado, y la función presidencial de guardián de la constitución. Este peligro se acentúa cuando federalismo y pluralismo político se refuerzan mutuamente, consiguiéndose, dice nuestro jurista, "un doble quebrantamiento del hermetismo y de la solidez de la unidad estatal"    En un   Estado al mismo tiempo federal y parlamentario el federalismo, según nuestro autor, puede justificarse sólo de dos maneras:

  1. Comorecurso de auténtica descentralización territorial, contra lospoderes pluralistas y policráticos enquistados en el gobierno y enla actividad económica.

  2. Como"antídoto contra los métodos peculiares del pluralismo de lospartidos" [10].Esta última es una observación de gran actualidad: la realidad deun sistema de articulación territorial del poder reside en elsistema de partidos. Con partidos nacionales de direccióncentralizada, como en el caso de nuestro país, y más aún con sistemas electorales donde tales partidos monopolizan larepresentación y la manejan a través de listas cerradas,reduciéndose así, poco a poco, la democracia a un ejercicioautorreferencial de lo que se ha llamado el englobante "partidode los políticos", la variedad de las comunidades federadas sediluye en cacicazgos locales dentro de los bloques partidarios. Otra consecuencia es la aparición defensiva de partidosparticularistas, como se ve en España, Italia, Escocia, etc., comoreacción simétrica a lo anterior. Por lo tanto, y esto explica lainaplicabilidad, en principio, de la reflexión schmittiana enVerfassungslehre al caso suizo, la antinomia más virulenta se daríaentre federación y democracia monopolizada por partidos nacionalesy centralizados.

Muchos conocedores de Schmitt sostienen que, si bien advirtió la declinación del Estado-nación como forma política, jamás pudo superar   el horizonte teórico estatalista. José Caamaño Martínez afirma, por ejemplo, ante la dúplice soberanía que otorga nuestro autor a la federación y a los miembros federados: "esta teoría   de la federación nos muestra claramente que la forma histórica del Estado nacional unitario sigue siendo un dogma del pensamiento de Schmitt"[11].

"No deja lugar -dice Francisco por su parte Ayala- a un tipo de organización de la convivencia política distinto del Estado nacional [centralizado]"[12].

Gary Ulmen, por su lado, resume así la cuestión: Schmitt consideraba sustancialmente al federalismo como una fase del pasaje entre el mundo plural y parcializado de los Estados Naciones y el mundo contemporáneo, que tiende a la unidad homogeneizante. Schmitt plantea en el federalismo algunas antinomias fundamentales: partiendo del presupuesto que una federación es un contrato de status entre unidades más o menos iguales, que adhieren a la federación con finalidad de mutua protección, gestión e integración,   conlleva una permanente tensión entre la autonomía de las unidades federadas y la intervención federal. Con el tiempo, la mayor fuerza de la federación respecto de las unidades federadas producirá una creciente centralización, mientras que la heterogeneidad de las diversas unidades (ej. los EE.UU) choca con el principio democrático del pueblo soberano, que trasciende las diferencias entre los Estados miembros y tiende a una única homogeneidad. En ese punto la contradicción se manifiesta insoluble: sin homogeneidad la federación democrática no puede funcionar, pero si la homogeneidad se logra, las diferencias resultan superadas y, de hecho, se realiza un Estado unitario. Un proceso, pues, de gradual reductio ad unum [13].

En Schmitt hay una permanente tensión entre la nostalgia del jus publicum europaeum, derecho público interestatal,   y su percepción de la declinación de la forma estatal. Es muy claro respecto a esto último cuando prologa la reedición de "El Concepto de lo Político":

"Hasta los últimos años la parte europea de la Humanidad vivió una época cuyas nociones jurídicas eran acuñadas desde el punto de vista estatal. Se supuso al Estado modelo de la unidad política. La época del estatismo está terminando ahora. No vale la pena discutirlo. Con ello se termina toda la infraestructura de construcciones relacionadas con el Estado, que una ciencia europeo-céntrica del derecho internacional y del derecho político había erigido en cuatrocientos años de trabajo espiritual. Se destrona al Estado como modelo de la unidad política, al Estado como portador del monopolio de la decisión política. Se destrona a esta obra maestra de la concepción europea y del racionalismo occidental. Pero se mantienen sus nociones e incluso se mantienen como ideas clásicas, aunque hoy día la palabra clásico suena casi siempre equívoca y ambivalente, por no decir irónica"[14].    Se advierte, junto a la claridad de la toma de posición, el tono elegíaco respecto de la época que se cierra y   un   pronóstico ominoso respecto de la que se abre. Hay una cierta renuencia a pensar más allá de la forma estatal. Nuestro autor es claro, preciso y de seguimiento ineludible en cuanto a la pars destruens respecto de lo que asoma tras la retirada de la estatalidad y el jus publicum europaeum, donde aquélla se expresaba. Recoge la frase de Proudhon, "quien dice Humanidad quiere engañar" y alerta sobre la intensificación de la enemistad hacia posiciones absolutas que encubre el interventismo humanitarista.   Pero, a la vez, desde la pars construens, no alcanza a concebir una pluralidad superadora de la estatalidad moderna, un orden jurídico postestatal, tanto hacia adentro del Estado y la articulación terriotorial del poder, como hacia fuera de los Estados, que suceda sin traicionar en lo esencial y valioso aquel jus publicum moribundo. Para Schmitt, la unidad política estatal fue el unum necessarium; ahora, marchamos hacia una unidad política de alcance planetario, que no podría cumplir con lo que el Estado consiguió ad intra: la paz interior, la deposición de la enemistad intestina; en otras palabras, se perdería, a escala global, el vivere civile, la dimensión civilizatoria de la política. Pero a Schmitt no le interesó jamás cómo se articulaba hacia adentro, funcional y territorialmente, aquella paz interior. Lo seduce la unitas, pero no lo atrae   la universitas donde se articulan diversidades y diferencias. Así, deja a un lado la corriente de pensamiento medieval, con culminación en Dante, luego reaparecida con Altusio, que resulta basilar para la noción federativa. Los jurisconsultos del medioevo hablaban de una bóveda de universitates locales ordenadas desde el domus, el vicus, la civitas, la provincia, el regnum, el imperium. Es probable que nuestro autor viese en esta corriente una manifestación del romanticismo político que solía fulminar. Así, por ejemplo, en las fórmulas de Adam Müller acerca de una   concepción "orgánica" y estamental del Estado como una comunidad superior de comunidades, transmitidas por la obra de Gierke y recogidas por un contemporáneo de Schmitt, Othmar Spann. Schmitt polemizó en varias   ocasiones   con las teorías organicistas que asimilaban el Estado a las otras comunidades, tanto las menos como las más amplias, afectando así la summa potestas del soberano[15]. En "El Concepto de lo Político" (1927) hace referencia expresa a Gierke, cuya teología política, según nuestro autor, en la búsqueda de una unidad última, de un "cosmos' y de un "sistema" resulta "superstición y reminiscencia de la escolástica medieval"[16].   En "El Leviatán en la Teoría del Estado de Tomás Hobbes" (1938) señala que los mecanismos estamentales, generadores de un derecho de resistencia, conducen a la guerra civil, cuando la misión del Estado es ponerle un cierre definitivo[17]. Pero su ataque se concentró, especialmente, sobre las concepciones pluralistas de Harold Laski y G.D.H. Cole, que, entre 1914 y 1925, habían propiciado, desde posiciones cercanas al socialismo inglés y los fabianos, la descentralización y repartición del poder estatal. Aunque las notas polémico de Schmitt son de 1927[18], cuando Laski ya había abandonado el pluralismo o policratismo, le servían a nuestro autor para reafirmar su pensamiento nuclear de rechazo de toda forma de contestación o recorte de la superioridad ad intra del Estado.

Nuestro autor, como se sabe, desde los años 40 comienza a hablar de los imperios y de los grandes espacios, los Grosseraume, como las formas políticas surgentes tras la estatalidad. El mundo quedaría parcelado en una pluralidad de grandes espacios, pero como pluralidad de unidades estancas. Habría, en otras palabras, un nuevo jus publicum con menos protagonistas que el antiguo: "un equilibrio de varios grandes espacios que creen entre sí un nuevo derecho de gentes en un nuevo nivel y con dimensiones nuevas, pero, a la vez, dotado de ciertas analogías con el derecho de gentes europeo de los siglos dieciocho y diecinueve, que también se basaba en un equilibrio.de potencias, gracias al cual se conservaba su estructura"[19]. Nada nos dice de cómo se organizarían ad intra los grandes espacios: súlo sabemos que deberían mantener alguna homogeneidad interna y que algún Estado ejercería en ellos un papel hegemónico (el ejemplo es el papel de los EE.UU respecto al resto de América, luego de que la doctrina Monroe estableciera límites y exclusiones configuradoras de este gran espacio).

Los Grosseraume se plantean como alternativa al gran peligro, a la remoción del katéjon (es decir, lo que retiene, ataja   u obstaculiza, concepto recurrente en la teología política final de nuestro autor). El katéjon actúa en toda época y es, por lo tanto, variable con el decurso de aquéllas. El katéjon asienta o mantiene el Nomos epocal y desaparece con él[20]. Se lo menciona en Pablo de Tarso (II epístola a los tesalonienses, 2, 6/7), que lo considera el obstáculo o retardo, qui tenet nunc,   el que retiene   ahora la manifestación del Anticristo.   El Anticristo de Schmitt es la soberanía global, el mundo uno y uniforme correspondiente al pensamiento técnico-industrial. El sistema de Estados nacionales en pugna controlada, construcción de la racionalidad europea, edificadores al mismo tiempo, cada uno, de su propia paz interior, he allí el verdadero katéjon para Schmitt. Ninguna virtualidad le ve en ese sentido a la provisoria federación, contrato temporario de status, fuente de desestabilizaciones, que prefiere mostrar a contraluz o no mostrar, como dijimos al principio de este trabajo. Aunque, a pesar de su desconfianza hacia las formas federativas, dejó sobre ellas notables observaciones jurídico-políticas, como hemos visto. Quizás, alguien ha señalado, se consideraba el mismo Schmitt como el katéjon intelectual al  diseño maligno de la soberanía global desde la unidad política del mundo. De todos modos, advierte que un Nomos de la tierra desaparece y no ha apuntado el otro todavía. No alcanza a divisar si es posible un nuevo Nomos pluralístico donde la conflictualidad se canalice y yugule, sin proclamar su desaparición, como sueña la soberanía global mientras desarrolla sin pausa sus operaciones de policía humanitaria.

Schmitt advertía una sustancial oposición entre estatalidad y federalismo. Por eso decía que el Estado federal, seudonegocio jurídico nulo y equívoco se resuelve, como el federalismo hamiltoniano, en la forma de Estado unitario más o menos matizado. Hoy reaparece el federalismo de raíz lotaringio germánica, cuyo teórico más reciente fuera Proudhon, como visión comprensiva del mundo y de la sociedad, no como simple forma de Estado (su fórmula   podría ser, en lugar de   e pluribus, unum, del federalismo norteamericano, la de   ex uno, plures[21]). El katéjon schmittiano está removido. Una soberanía global es posible. Hasta hace poco, se pensaba que esa soberanía residía impersonal y ubicuamente en los mecanismos,   soportes y programas autosuficientes de las redes tecnológicas, de comunicación, informáticas y financieras que rodean el planeta[22]. Al no haber un Leviatán visible, se lo suponía muerto o dormido. Después del 11 de septiembre de 2001, Leviatán debe manifestarse otra vez, ahora para asegurar el globo ante la amenaza del terrorismo global y "privatizado".    En esa bufera o borrasca dantesca nos toca movernos, y las reflexiones schmittianas permiten allí algunos vislumbres. Decía Hölderlin que en el peligro crece también lo que salva. Y nuestro autor agregaba que, al borde del abismo, en la situación excepcional, "la mente se abre al arcano".

* Doctor en Ciencias Jurídicas, Universidad Católica Argentina.

NOTAS

[1]) Ver Otto von Gierke, "Teorías Políticas de la Edad Media",con introducción de F.W. Maitland, traducciónindirecta del ingléspor Julio Irazusta, Editorial Huemul, Bs. As., 1963, p. 108/109.

[2] )Tras la Segunda Guerra Mundial, la República Federal Alemana seconfiguró en 1949, como su nombre lo indica, bajo un sistemafederativo. La República Democrática Alemana, en cambio, como"Estado socialista de la nación alemana", se configuróbajo un sistema unitario. Anteriormente, bajo el III Reich, la Leyde Plenos Poderes del 24 de marzo de 1933, que en los hechos derogóla Constitución de Weimar, otorgó la potestad legislativa laGobierno del Reich, es decir, al Fuehrer., que designaba algobernador (Gauleiter) en cada uno de los distritos. La organizacióndel Reich fue asimilándose (Gleichschaltung) a la organizacióncentralizada y uniforme del Partido Nacional Socialista ObreroAlemán. Alemania, hoy, es un Estado federal.

[3] )Ver Carl Schmitt, "La Defensa de la Constitución", trad.de Manuel Sénchez Sarto, prólogo de Pedro de Vega, ed. Tecnos,Madrid, 1998, 2ª. Edición, p. 12

[4] )Carl Schmitt, "Teoría de la Constitución", traducción ypresentación de Francisco Aala, epílogo de Manuel García-Pelayo,Alianza editorial, Madrid, 1982, p. 348.

[5] )Schmitt solía adherir a la causa de los vencidos: victrix causadiis placuit, sed victa Catoni,la causa de los vencedores place alos dioses, pero la de los vencidos a Catón..y a Schmitt.

[6] )Contra James Madison en "El Federalista", XXXIX, XLIV yXLV: se propone una soberanía distributiva, donde los estadosfederados retienen una porción no delegada, un residuo inviolable,y la federación ejerce sólo la delegada. Ello es posible porque elpueblo, organizado en ciudadanía, no en masa, manifiesta suvoluntad soberana parcialmente en varias represdentaciones: comoindividuo, como miembro del estado federado, como miembro de lafederación. Ver Hamilton, Madison y Jay, "El Federalista",prólogo y traducción de Gustavo R. Velasco, FCE, Mexico,6ª.reimpresión, 1998. Para Schmitt, este deslinde, esta especie definium regundorum entre federación y estados miembros de la mismasoberanía, no resulta concebible. En la situación excepcional,quien decida, federación o estado miembro, resulta plenamentesoberano.

[7] )Op. cit. n. iv, p. 359

[8] )Sobre las dificultades de traducción de Ausnahmezustand como"estado" o "situación" excepcional puede versela nota del traductor, Jean-Louis Schlegel en "ThéologiePolitique, 1922,1969", Gallimard, 1988, p. 15. Para otrosdesarrollos sobre el concepto de soberano en Schmitt me remito a miprólogo a "Teología Política", Ed. Struhart y Cía.,2ª. Ed., Bs. As. 1998.

[9] )Op. cit nota iv, p. 369.

[10] )Op. cit. n. iii, p. 161.

[11] )José Caamaño Martínez: "El Pensamiento Juídico-Político deCarl Schmitt", prólogo de Luis Legaz y Lacambra, Ed. Porto yCía, Santiago de Compostela, 1950, p. 159.

[12] )Op. cit. n iv, p. 17

[13] )  Gary L. Ulmen en Paul Piccone y otros, "La RivoluzioneFederalista", Settimo Sigillo, Roma, 1995.

[14] )Carl Schmitt, "La Noción de lo Político", en Revista deEstudios Políticos, Instituto de Estudios Políticos, nº 132, Madrid, noviembre-diciembre 1963, p.6

[15] )Una de ellas fue en una conferencia de 1930 en honor de Hugo Preuss,discípulo de Gierke. Ver George Schwab, "Carl Schmitt, lasfida dell'eccezione", introducción de FrancoFerrarotti, traducción de Nicola Porto, Laterza, Bari, 1986, p.92

[16] )Carl Schmitt, "El Concepto de lo Político", trad. deFrancisco Javier Conde, en "Estudios Políticos", Doncel,Madrid, 1975, p. 118.

[17] ) Carl Schmitt, "El Leviatán en la Teoría del Estado de TomásHobbes", traducción de Francisco Javier Conde, Ediciones Haz,Madrid,1941 p. 72/73.

[18] )Op. cit. nota anteror, loc. cit. Un eco de este ataque al pluralismo"extremista" del "judío Laski" aparece en "ElConcepto de Imperio en el Derecho Internacional" (1940), trad.de Francisco Javier Conde, Revista de Estudios Políticos, Madrid,1941, p. 97.

[19] )Carl Schmitt, "La Unidad del Mundo", Ateneo, Madrid, 1951,p.24

[20] )Carl Schmitt, "El Nomos de la Tierra en el Derecho de Gentesdel jus publicum europaeum", trad. Dora Schilling Thon,Estudios Internacionales, Madrid, 1979, p. 37 y sgs.

[21] )Me remito a mi trabajo "El Federalismo Argentino en elNovecientos o de cémo perdimos el siglo", IV Congreso Nacionalde Ciencia Política, UCA -SAAP, Buenos Aires, RA, noviembre 17 al20 de 1999,.

[22] )Ver Bandieri, Luis María, "¿Soberanía Global vs. SoberaníaNacional? (Hacia una Micropolítica Federativa)" Ponencia en laPrimeras Jornadas nacionales de derecho Natural, San Luis, RA, 14 al16 de junio de 2001, RA

lundi, 26 décembre 2011

Carl Schmitt et la théologie politique...

Carl Schmitt et la théologie politique...

Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com

Les éditions du Cerf viennent de publier un recueil comportant quatre essais inédits du juriste et philosophe politique allemand Carl Schmitt. Le volume est présenté par Bernard Bourdin, professeur de philosophie et de théologie à l'université de Metz, et préfacé par Jean-François Kervégan, auteur récent d'un essai intitulé Que faire de Carl Schmitt ? (Gallimard, 2011).

 

Schmitt - quatre essais.jpg


"L'expression « théologie politique » n'a jamais été utilisée en tant que telle par les théologiens chrétiens. Elle n'apparaît pour la première fois que dans le titre d'un ouvrage majeur de la philosophie du XVIIe siècle, le « Traité théologico-politique » de Spinoza. L'intention de son auteur était de conjoindre la souveraineté et la liberté de pensée, et par là même de régler le « problème théologico-politique ». Il faut attendre l'anarchiste Bakounine, au XIXe siècle, pour « réhabiliter » la théologie politique à des fins révolutionnaires, puis pour dénoncer le déisme de Mazzini.

En 1922, en rédigeant son premier texte sur la théologie politique, Carl Schmitt prend le contre-pied de l'anarchisme révolutionnaire. Avec le juriste rhénan, la théologie politique est désormais identifiée à la théorie de la souveraineté. C'est par une formule lapidaire, devenue célèbre, qu'il commence son essai : « Est souverain celui qui décide de la situation exceptionnelle. » Dès la fin du IIe Reich, puis dans le context de la république de Weimar, tout le projet intellectuel de Schmitt est d'articuler sa théorie du droit et du politique à une structure de pensée théologico-politique. Le problème de la démocratie libérale est son incapacité à disposer dune véritable théorie de la représentation, en raison de l'individualisme inhérent à la pensée libérale. Face à cette impuissance, le catholicisme, par sa structure ecclésiologique, offre au contraire tous les critères de la représentation politique et de la décision.

Les textes que Bernard Bourdin présente dans ce volume, parus entre 1917 et 1944, sont des plus explicites s'agissant de ces aspects de la théorie schmittienne : institution visible de l'Église, forme représentative et décisionnisme. Ils mettent de surcroît en évidence la double ambivalence de la pensée de Schmitt dans son rapport au christianisme (catholique) et à la sécularisation. En raison de son homologie de structure entre Dieu, État et Église, la nécessité d'une transcendance théologico-politique plaide paradoxalement pour une autre approche d'une pensée politique séculière. Ambivalence qui ne sera pas non plus sans équivoque."

vendredi, 12 août 2011

Carl Schmitt's Decisionism

Carl Schmitt's Decisionism

Paul Hirst

Ex: http://freespeechproject.com/

 

politik.gifSince 1945 Western nations have witnessed a dramatic reduction in the variety of positions in political theory and jurisprudence. Political argument has been virtually reduced to contests within liberal-democratic theory. Even radicals now take representative democracy as their unquestioned point of departure. There are, of course, some benefits following from this restriction of political debate. Fascist, Nazi and Stalinist political ideologies are now beyond the pale. But the hegemony of liberal-democratic political agreement tends to obscure the fact that we are thinking in terms which were already obsolete at the end of the nineteenth century.

Nazism and Stalinism frightened Western politicians into a strict adherence to liberal democracy. Political discussion remains excessively rigid, even though the liberal-democratic view of politics is grossly at odds with our political condition. Conservative theorists like Hayek try to re-create idealized political conditions of the mid nineteenth century. In so doing, they lend themselves to some of the most unsavoury interests of the late twentieth century - those determined to exploit the present undemocratic political condition. Social-democratic theorists also avoid the central question of how to ensure public accountability of big government. Many radicals see liberal democracy as a means to reform, rather than as what needs to be reformed. They attempt to extend governmental action, without devising new means of controlling governmental agencies. New Right thinkers have reinforced the situation by pitting classical liberalism against democracy, individual rights against an interventionist state. There are no challenges to representative democracy, only attempts to restrict its functions. The democratic state continues to be seen as a sovereign public power able to assure public peace.

The terms of debate have not always been so restricted. In the first three decades of this century, liberal-democratic theory and the notion of popular sovereignty through representative government were widely challenged by many groups. Much of this challenge, of course, was demagogic rhetoric presented on behalf of absurd doctrines of social reorganization. The anti-liberal criticism of Sorel, Maurras or Mussolini may be occassionally intriguing, but their alternatives are poisonous and fortunately, no longer have a place in contemporary political discussion. The same can be said of much of the ultra-leftist and communist political theory of this period.

Other arguments are dismissed only at a cost. The one I will consider here - Carl Schmitt's 'decisionism' - challenges the liberal-democratic theory of sovereignty in a way that throws considerable light on contemporary political conditions. His political theory before the Nazi seizure of power shared some assumptions with fascist political doctrine and he did attempt to become the 'crown jurist' of the new Nazi state. Nevertheless, Schmitt's work asks hard questions and points to aspects of political life too uncomfortable to ignore. Because his thinking about concrete political situations is not governed by any dogmatic political alternative, it exhibits a peculiar objectivity.

Schmitt's situational judgement stems from his view of politics or, more correctly, from his view of the political as 'friend-enemy' relations, which explains how he could change suddenly from contempt for Hitler to endorsing Nazism. If it is nihilistic to lack substantial ethical standards beyond politics, then Schmitt is a nihilist. In this, however, he is in the company of many modern political thinkers. What led him to collaborate with the Nazis from March 1933 to December 1936 was not, however, ethical nihilism, but above all concern with order. Along with many German conservatives, Schmitt saw the choice as either Hitler or chaos. As it turned out, he saved his life but lost his reputation. He lived in disrepute in the later years of the Third Reich, and died in ignominy in the Federal Republic. But political thought should not be evaluated on the basis of the authors' personal political judgements. Thus the value of Schmitt's work is not diminished by the choices he made.

Schmitt's main targets are the liberal-constitutional theory of the state and the parliamentarist conception of politics. In the former, the state is subordinated to law; it becomes the executor of purposes determined by a representative legislative assembly. In the latter, politics is dominated by 'discussion,' by the free deliberation of representatives in the assembly. Schmitt considers nineteenth-century liberal democracy anti-political and rendered impotent by a rule-bound legalism, a rationalistic concept of political debate, and the desire that individual citizens enjoy a legally guaranteed 'private' sphere protected from the state. The political is none of these things. Its essence is struggle.

In The Concept of the Political Schmitt argues that the differentia specifica of the political, which separates it from other spheres of life, such as religion or economics, is friend-enemy relations. The political comes into being when groups are placed in a relation of emnity, where each comes to perceive the other as an irreconcilable adversary to be fought and, if possible, defeated. Such relations exhibit an existential logic which overrides the motives which may have brought groups to this point. Each group now faces an opponent, and must take account of that fact: 'Every religious, moral, economic, ethical, or other antithesis transforms itself into a political one if it is sufficiently strong to group human beings effectively according to friends and enemy.' The political consists not in war or armed conflict as such, but precisely in the relation of emnity: not competition but confrontation. It is bound by no law: it is prior to no law.

For Schmitt: 'The concept of the state presupposes the concept of the political.' States arise as a means of continuing, organizing and channeling political struggle. It is political struggle which gives rise to political order. Any entity involved in friend-enemy relations is by definition political, whatever its origin or the origin of the differences leading to emnity: 'A religious community which wages wars against members of others religious communities or engages in other wars is already more than a religious community; it is a political entity.' The political condition arises from the struggle of groups; internal order is imposed to pursue external conflict. To view the state as the settled and orderly administration of a territory, concerned with the organization of its affairs according to law, is to see only the stabilized results of conflict. It is also to ignore the fact that the state stands in a relation of emnity to other states, that it holds its territory by means of armed force and that, on this basis of a monopoly of force, it can make claims to be the lawful government of that territory. The peaceful, legalistic, liberal bourgeoisie is sitting on a volcano and ignoring the fact. Their world depends on a relative stabilization of conflict within the state, and on the state's ability to keep at bay other potentially hostile states.

For Hobbes, the political state arises from a contract to submit to a sovereign who will put an end to the war of all against all which must otherwise prevail in a state of nature - an exchange of obediance for protection. Schmitt starts where Hobbes leaves off - with the natural condition between organized and competing groups or states. No amount of discussion, compromise or exhortation can settle issues between enemies. There can be no genuine agreement, because in the end there is nothing to agree about. Dominated as it is by the friend-enemy alternative, the political requires not discussion but decision. No amount of reflection can change an issue which is so existentially primitive that it precludes it. Speeches and motions in assemblies should not be contraposed to blood and iron but with the moral force of the decision, because vacillating parliamentarians can also cause considerable bloodshed.

In Schmitt's view, parliamentarism and liberalism existed in a particular historical epoch between the 'absolute' state of the seventeenth century and the 'total state' of the twentieth century. Parliamentary discussion and a liberal 'private sphere' presupposed the depoliticization of a large area of social, economic and cultural life. The state provided a legally codified order within which social customs, economic competition, religious beliefs, and so on, could be pursued without becoming 'political.' 'Politics' as such ceases to be exclusively the atter of the state when 'state and society penetrate each other.' The modern 'total state' breaks down the depoliticization on which such a narrow view of politics could rest:

 

Heretofore ostensibly neutral domains - religion, culture, education, the economy - then cease to be neutral. . . Against such neutralizations and depoliticizations of important domains appears the total state, which potentially embraces every domain. This results in the identity of the state and society. In such a state. . . everything is at least potentially political, and in referring to the state it is no longer possible to assert for it a specifically political characteristic.

 



Democracy and liberalism are fundamentally antagonistic. Democracy does away with the depoliticizations characteristic of rule by a narrow bourgeois stratum insulated from popular demands. Mass politics means a broadening of the agenda to include the affairs of all society - everything is potentially political. Mass politics also threatens existing forms of legal order. The politicization of all domains increases pressure on the state by multiplying the competing interests demanding action; at the same time, the function of the liberal legal framework - the regulating of the 'private sphere' - become inadequate. Once all social affairs become political, the existing constitutional framework threatens the social order: politics becomes a contest of organized parties seeking to prevail rather than to acheive reconciliation. The result is a state bound by law to allow every party an 'equal chance' for power: a weak state threatened with dissolution.

Schmitt may be an authoritarian conservative. But his diagnosis of the defects of parliamentarism and liberalism is an objective analysis rather than a mere restatement of value preferences. His concept of 'sovereignty' is challenging because it forces us to think very carefully about the conjuring trick which is 'law.' Liberalism tries to make the state subject to law. Laws are lawful if properly enacted according to set procedures; hence the 'rule of law.' In much liberal-democratic constitutional doctrine the legislature is held to be 'sovereign': it derives its law-making power from the will of the people expressed through their 'representatives.' Liberalism relies on a constituting political moment in order that the 'sovereignty' implied in democratic legislatures be unable to modify at will not only specific laws but also law-making processes. It is therefore threatened by a condition of politics which converts the 'rule of law' into a merely formal doctrine. If this 'rule of law' is simply the people's will expressed through their representatives, then it has no determinate content and the state is no longer substantially bound by law in its actions.

Classical liberalism implies a highly conservative version of the rule of law and a sovereignty limited by a constitutive political act beyond the reach of normal politics. Democracy threatens the parliamentary-constitutional regime with a boundless sovereign power claimed in the name of the 'people.' This reveals that all legal orders have an 'outside'; they rest on a political condition which is prior to and not bound by the law. A constitution can survive only if the constituting political act is upheld by some political power. The 'people' exist only in the claims of that tiny minority (their 'representatives') which functions as a 'majority' in the legislative assembly. 'Sovereignty' is thus not a matter of formal constitutional doctrine or essentially hypocritical references to the 'people'; it is a matter of determining which particular agency has the capacity - outside of law - to impose an order which, because it is political, can become legal.

Schmitt's analysis cuts through three hundred years of political theory and public law doctrine to define sovereignty in a way that renders irrelevant the endless debates about principles of political organization or the formal constitutional powers of different bodies.

 

From a practical or theoretical perspective, it really does not matter whether an abstract scheme advanced to define sovereignty (namely, that sovereignty is the highest power, not a derived power) is acceptable. About an abstract concept there will be no argument. . . What is argued about is the concrete application, and that means who decides in a situation of conflict what constitutes the public interest or interest of the state, public safety and order, le salut public, and so on. The exception, which is not codified in the existing legal order, can at best be characterized as a case of extreme peril, a danger to the existence of the state, or the like, but it cannot be circumscribed factually and made to conform to a preformed law.

 



Brutally put: ' Sovereign is he who decides on the exception.' The sovereign is a definite agency capable of making a decision, not a legitimating category (the 'people') or a purely formal definition (plentitude of power, etc.). Sovereignty is outside the law, since the actions of the sovereign in the state of exception cannot be bound by laws since laws presuppose a normal situation. To claim that this is anti-legal is to ignore the fact that all laws have an outside, that they exist because of a substantiated claim on the part of some agency to be the dominant source of binding rules within a territory. The sovereign determines the possibility of the 'rule of law' by deciding on the exception: 'For a legal order to make sense, a normal situation must exist, and he is sovereign who definitely decides whether this normal situation actually exists.'

Schmitt's concept of the exception is neither nihilistic nor anarchistic, it is concerned with the preservation of the state and the defence of legitimately constituted government and the stable institutions of society. He argues that ' the exception is different from anarchy and chaos.' It is an attempt to restore order in a political sense. While the state of exception can know no norms, the actions of the sovereign within the state must be governed by what is prudent to restore order. Barbaric excess and pure arbitrary power are not Schmitt's objecty. power is limited by a prudent concern for the social order; in the exception, 'order in the juristic sense still prevails, even if it is not of the ordinary kind.' Schmitt may be a relativist with regard to ultimate values in politics. But he is certainly a conservative concerned with defending a political framework in which the 'concrete orders' of society can be preserved, which distinguishes his thinking from both fascism and Nazism in their subordination of all social institutions to such idealized entities as the Leader and the People. For Schmitt, the exception is never the rule, as it is with fascism and Nazism. If he persists in demonstrating how law depends on politics, the norm on the exception, stability on struggle, he points up the contrary illusions of fascism and Nazism. In fact, Schmitt's work can be used as a critique of both. The ruthless logic in his analsysis of the political, the nature of soveriegnty, and the exception demonstrates the irrationality of fascism and Nazism. The exception cannot be made the rule in the 'total state' without reducing society to such a disorder through the political actions of the mass party that the very survival of the state is threatened. The Nazi state sought war as the highest goal in politics, but conducted its affairs in such a chaotic way that its war-making capacity was undermined and its war aims became fatally overextended. Schmitt's friend-enemy thesis is concerned with avoiding the danger that the logic of the political will reach its conclusion in unlimited war.

Schmitt modernizes the absolutist doctrines of Bodin and Hobbes. His jurisprudence restores - in the exception rather than the norm - the sovereign as uncommanded commander. For Hobbes, lawas are orders given by those with authority - authoritas non veritas facit legem. Confronted with complex systems of procedural limitation in public law and with the formalization of law into a system, laws become far more complex than orders. Modern legal positivism could point to a normal liberal-parliamentary legal order which did and still does appear to contradict Hobbes. Even in the somewhat modernized form of John Austin, the Hobbesian view of sovereignty is rejected on all sides. Schmitt shared neither the simplistic view of Hobbes that this implies, nor the indifference of modern legal positivism to the political foundation of law. He founded his jurisprudence neither on the normal workings of the legal order nor on the formal niceties of constitutional doctrine, but on a condition quite alien to them. 'Normalcy' rests not on legal or constitutional conditions but on a certain balance of political forces, a certain capacity of the state to impose order by force should the need arise. This is especially true of liberal-parliamentary regimes, whose public law requires stablization of political conflicts and considerable police and war powers even to begin to have the slightest chance of functioning at all. Law cannot itself form a completely rational and lawful system; the analysis of the state must make reference to those agencies which have the capacity to decide on the state of exception and not merely a formal plentitude of power.

In Political Theology Schmitt claims that the concepts of the modern theory of the state are secularized theological concepts. This is obvious in the case of the concept of sovereignty, wherein the omnipotent lawgiver is a mundane version of an all-powerful God. He argues that liberalism and parliamentarism correspond to deist views of God's action through constant and general natural laws. His own view is a form of fundamentalism in which the exception plays the same role in relation to the state as the miracles of Jesus do in confirming the Gospel. The exception reveals the legally unlimited capacity of whoever is sovereign within the state. In conventional, liberal-democratic doctrine the people are sovereign; their will is expressed through representatives. Schmitt argues that modern democracy is a form of populism in that the people are mobilized by propaganda and organized interests. Such a democracy bases legitimacy on the people's will. Thus parliament exists on the sufferance of political parties, propaganda agencies and organized interest which compete for popular 'consent.' When parliamentary forms and the rule of 'law' become inadequate to the political situation, they will be dispensed with in the name of the people: 'No other constitutional institution can withstand the sole criterion of the people's will, however it is expressed.'

Schmitt thus accepts the logic of Weber's view of plebiscitarian democracy and the rise of bureaucratic mass parties, which utterly destroy the old parliamentary notables. He uses the nineteenth-century conservatives Juan Donoso Cortes to set the essential dilemma in Political Theology: either a boundless democracy of plebiscitarian populism which will carry us wherever it will (i.e. to Marxist or fascist domination) or a dictatorship. Schmitt advocates a very specific form of dictatorship in a state of exception - a "commissarial' dictatorship, which acts to restore social stability, to preserve the concrete orders of society and restore the constitution. The dictator has a constitutional office. He acts in the name of the constitution, but takes such measures as are necessary to preserve order. these measures are not bound by law; they are extralegal.

Schmitt's doctrine thus involves a paradox. For all its stress on friend-enemy relations, on decisive political action, its core, its aim, is the maintenance of stability and order. It is founded on a political non-law, but not in the interest of lawlessness. Schmitt insists that the constitution must be capable of meeting the challenge of the exception, and of allowing those measures necessary to preserve order. He is anti-liberal because he claims that liberalism cannot cope with the reality of the political; it can only insist on a legal formalism which is useless in the exceptional case. He argues that only those parties which are bound to uphold the constitution should be allowed an 'equal chance' to struggle for power. Parties which threaten the existing order and use constitutional means to challenge the constitution should be subject to rigorous control.

Schmitt's relentless attack on 'discussion' makes most democrats and radicals extremely hostile to his views. He is a determined critic of the Enlightenment. Habermas's 'ideal speech situation', in which we communicate without distortion to discover a common 'emancipatory interest', would appear to Schmitt as a trivial philosophical restatement of Guizot's view that in representative government, ' through discussion the powers-that-be are obliged to seek truth in common." Schmitt is probably right. Enemies have nothing to discuss and we can never attain a situation in which the friend-enemy distinction is abolished. Liberalism does tend to ignore the exception and the more resolute forms of political struggle.

dimanche, 08 mai 2011

Inflation der Wunder

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Inflation der Wunder

Baal MÜLLER

Ex: http://www.jungefreiehit.de/

Erstaunlicherweise war gerade das zwanzigste Jahrhundert ein Jahrhundert des Wunders und der Heiligkeit – jedenfalls wenn man dafür die Zahl der Heilig- und Seligsprechungen, zu deren Voraussetzungen mindestens ein durch den Kandidaten gewirktes Wunder gehört, als Indikator nimmt: Allein während des Pontifikats Johannes Pauls II. (1978 bis 2005) wurden 1820 Wunder (482 von Heiligen und 1338 von Seligen) anerkannt; der gesamte Zeitraum vom Beginn des Verfahrens 1588 bis 1978 brachte es nur auf 302 Heiligsprechungen, wie Jürgen Kaube in seiner Rezension des Sammelbandes „Wunder – Poetik und Politik des Staunens im 20. Jahrhundertvon Alexander Geppert und Till Kössler mitteilt (FAZ online vom 23. April 2011).

Mehr als achtzig Prozent aller Heiligsprechungen erfolgte im zwanzigsten Jahrhundert; über die Hälfte dieser „neuen Heiligen“ stammt überraschenderweise aus dem wenig christlich geprägten Ostasien – China, Korea und Vietnam –, erst danach folgen traditionell katholische Länder wie Italien und Spanien, Polen oder Mexiko.

Inflationäre Produktion von Heiligen

„Was Gott bewegt hat, gerade in diesem Zeitabschnitt und in diesen Regionen mit Wundern nicht zu geizen, darüber kann nur spekuliert werden“, merkt Kaube ein wenig süffisant an und zieht eine Parallele von den in der Nachkriegszeit besonders häufigen Marienerscheinungen zum Wirtschaftswunder – der Soziologe Rudolf Stichweh vergleicht die „Produktion von Heiligen“ sogar mit der „inflationären Versorgung von Wirtschaft mit Geld“ und entwirft in diesem Zusammenhang eine „allgemeine Theorie der Funktionssystemkrise“.

Freilich hinken diese systemtheoretischen – in der Sache recht marxistischen – Vergleiche selbst dann ziemlich, wenn man sich, zwecks überprüfenden Nach-Denkens, auf das ihnen zugrundeliegende ökonomische Modell einläßt: Die katholische Kirche erscheint dann zwar als eine Institution, die ihren Gläubigen Dienstleistungen erbringt, indem sie Lebenssinn stiftet und metaphysische Tröstung spendet, aber die Heiligen sind in diesem System wohl kaum eine „Währung“, sondern ein Teilaspekt oder Ausdruck der Sinnstiftung, die von den Gläubigen – eher im Sinne eines Tauschgeschäftes – mit Glauben sowie aus diesem resultierenden materiellen Zuwendungen (Spenden, Kirchensteuern) „bezahlt“ wird.

Wunder brauchen Kausalgefüge

Unabhängig von diesem allzu schlichten Schematismus ist die „Konjunktur“ des Wunders in der wissenschaftsgläubigen Moderne verwunderlich, ja fast schon selbst ein Wunder. Einerseits wäre zu erwarten, daß der Wunderglaube im Zuge des neuzeitlichen Rationalisierungsprozesses abgenommen hätte, andererseits setzt der Begriff des Wunders die Anerkennung von Naturgesetzen, das Prinzip einer durchgängigen, empirisch nachvollziehbaren Kausalkette, die durch das Wunder durchbrochen wird, überhaupt erst voraus.

Insofern ist es doch „kein Wunder“, daß die Neigung, die Welt als Kausalgefüge zu sehen, den Glauben an das Wunder befördert, denn dieser nimmt in dem Maße zu, in dem der forschende Verstand an immer neue Grenzen stößt, die er unter vorwissenschaftlich-archaischen Bedingungen gar nicht wahrnehmen konnte. Als noch alles ein einziges, großes Wunder war, das den Menschen zum Staunen über das Sein überhaupt anregte – hierin liegt nach Aristoteles bekanntlich der Ursprung der Philosophie –, trat das einzelne, „kleine Wunder“, das hier und da eine Kausalkette durchbricht, noch gar nicht in das Gesichtsfeld.

Rationalisierung und Reduzierung Gottes

Diese Haltung des mythischen Menschen wiederholt sich auf rationalisierter Stufe im Pantheismus der Aufklärung, die das Wunder für überflüssigen Aberglauben erklärte, da Gott allein in den Naturgesetzen wirke; der nächste Schritt war dann freilich, einen solchen, lediglich auf eine reine Gesetzlichkeit reduzierten Gott selbst als überflüssig anzusehen.

Weder in einer völlig irrationalen noch in einer gänzlich durchrationalisierten Welt hat das Wunder seinen Platz, sondern nur in der Durchdringung beider, in der es gleichsam die Schnittstellen und Übergänge besetzt, die sich mit dem Forschungsprozeß immer wieder verschieben. Hatte der „Paradoxograph“ Phlegon von Tralles im zweiten Jahrhundert zahlreiche mittlerweile erklärbare Erscheinungen unserer Lebenswelt wie Hermaphroditismus oder Mißgeburten aller Art als Wunder verzeichnet, so drängt sich heute das „Wunderbare“ vor allem im unendlich Kleinen oder Großen, in Quanten- und Astrophysik auf.

Auch wenn Gott „tot“ ist, wird es in Zukunft noch Wunder geben: das große, philosophische, daß „überhaupt etwas ist und nicht vielmehr nichts“ (Heidegger), und die zahllosen „kleinen“, gleichsam theologischen Wunder, die dort aufscheinen, wo sich das alle menschlichen Maße transzendierende Sein „als Ganzes“ dem Forschungsdrang immer aufs Neue entzieht.

dimanche, 19 décembre 2010

The Return of Carl Schmitt

The Return of Carl Schmitt

 Scott Horton

 

"Woe unto him who has no enemy, for at the Last Judgment I shall be his enemy."
- Carl Schmitt, Ex Captivitate Salus (1950)

 

Schmitt_nomos_de_la_terre-23a63.jpgA recent study points to 108 deaths in detention in the War on Terror, with a substantial part clearly linked to the Bush Administration’s controversial new coercive interrogation practices. Some of the most egregious cases involve the CIA. In this week’s New Yorker, Jane Mayer takes a close look at one case – that of Manadel al-Jamadi. Approximately two years ago, Jamadi died at the infamous Abu Ghraib prison near Baghdad. His death was quickly ruled a homicide, a CIA investigation found clear indicia of criminal wrongdoing, and with that the matter was placed in the hands of Paul McNulty – the U.S. Attorney for the Eastern District of Virginia and now the Bush Administration’s new nominee to serve as Deputy Attorney General. Since that time, from all appearances nothing has been done – the file has languished “in a Justice Department drawer,” in the words of one of Mayer’s informants.

Mayer, whose earlier writings have greatly contributed to the public understanding of the detainee abuse scandal, astutely recognizes the wide-ranging significance of the case. Justice in a homicide case is important enough, but this case raises another and potentially far more troublesome question: Has the Department of Justice been corrupted by its “torture memoranda”? Would a prosecution expose indelible links between the crime and the highest echelons of the Department of Justice? The question is not far-fetched. Indeed, its potential to rock the Bush Administration dwarfs that of the Plamegate scandal. As Marty Lederman established in a lengthy series of posts, the “torture memoranda” served a concrete double function: they overcame Agency objections that certain interrogation techniques violated the law (by furnishing an Attorney General opinion that they were lawful), and they offered effective impunity to CIA agents who uses these techniques. I caution that this is the function they were intended to serve. Whether memoranda of the Office of Legal Counsel can actually shield those who rely on them from prosecution is doubtful.

Let us assume that the techniques employed on Jamadi – including the likely fatal “Palestinian hanging” approach – were within the scope of the torture memoranda. Were charges to be brought against the agent who had custody of Jamadi and used the fatal technique, he would certainly plead the torture memoranda as an affirmative defense. Confronted with such claims, a truly independent prosecutor would have to consider the possibility that the authors of these memoranda counseled the use of lethal and unlawful techniques, and therefore face criminal culpability themselves. That, after all, is the teaching of United States v. Altstötter, the Nuremberg case brought against German Justice Department lawyers whose memoranda crafted the basis for implementation of the infamous “Night and Fog Decree.” Who can imagine Paul McNulty, now nominated to serve as Alberto Gonzales’ deputy, undertaking such an investigation of his boss? Hence, McNulty’s dilemma is understandable, but his failure to act should not be lightly dismissed.

Mayer’s article raises fair and compelling questions about McNulty’s handling of the Jamadi homicide case – and about the role of the Department of Justice in the investigation of detainee homicides generally.

But Mayer’s article is significant for another reason. It sheds new light on one of two of the “torture memoranda” which is not yet in the public domain, but has long been viewed as critical to understanding the inhumane practices that became commonplace in Iraq beginning in the fall of 2003.



A March [14], 2003, classified memo was “breathtaking,” the same source said. The document dismissed virtually all national and international laws regulating the treatment of prisoners, including war-crimes and assault statutes, and it was radical in its view that in wartime the President can fight enemies by whatever means he sees fit. According to the memo, Congress has no constitutional right to interfere with the President in his role as Commander-in-Chief, including making laws that limit the ways in which prisoners may be interrogated. Another classified Justice Department memo, issued in August, 2002, is said to authorize numerous “enhanced” interrogation techniques for the C.I.A. These two memos sanction such extreme measures that, even if the agency wanted to discipline or prosecute agents who stray beyond its own comfort level, the legal tools to do so may no longer exist. Like the torture memo, these documents are believed to have been signed by Jay Bybee, the former head of the Office of Legal Counsel, but written by a Justice Department lawyer, John Yoo, who is now a professor of law at Berkeley.



As has been noted in this space before, the March 14, 2003 Yoo memorandum has assumed a “Rosetta Stone” quality. It was transmitted to the Department of Defense as advice at a critical juncture – as the Iraq War moved off the drawing boards and into reality, and questions were repeatedly raised about how the Geneva Conventions were to be applied. But that's not all. Mayer's article now suggests the existence of other advice which explicitly addressed the situation in Iraq:

By the summer of 2003, the insurgency against the U.S. occupation of Iraq had grown into a confounding and lethal insurrection, and the Pentagon and the White House were pressing C.I.A. agents and members of the Special Forces to get the kind of intelligence needed to crush it. On orders from Secretary of Defense Donald Rumsfeld, General Geoffrey Miller, who had overseen coercive interrogations of terrorist suspects at Guantánamo, imposed similar methods at Abu Ghraib. In October of that year, however—a month before Jamadi’s death—the Justice Department’s Office of Legal Counsel issued an opinion stating that Iraqi insurgents were covered by the Geneva Conventions, which require the humane treatment of prisoners and forbid coercive interrogations. The ruling reversed an earlier interpretation, which had concluded, erroneously, that Iraqi insurgents were not protected by international law.



SCHMITT_HamletHecuba_MED.gifDocuments which have circulated in connection with the Fay/Jones and Taguba Reports made clear that following the issuance of high-level legal advice outside normal Department of Defense channels, command authorities in Iraq no longer considered the Geneva Conventions to restrain them in their handling of detainees. Internal email traffic among military intelligence units is consistent: Once you label the insurgent detainees as “terrorists,” “they have no rights, Geneva or otherwise.” It seems highly improbable that officers carefully trained in the Geneva rules would suddenly discard them on their own initiative. To the contrary, it is reasonably clear that instructions to that effect were transmitted from a very high source. The Yoo memoranda are critical to understanding what happened, and the March 14, 2003 combined with the initial OLC advice concerning treatment of insurgents in Iraq are likely the most significant pieces of the puzzle not yet in place.

But where exactly did Yoo come up with the analysis that led to the purported conclusions that the Executive was not restrained by the Geneva Conventions and similar international instruments in its conduct of the war in Iraq? Yoo’s public arguments and statements suggest the strong influence of one thinker: Carl Schmitt.

The Friend/Foe Paradigm
Perhaps the most significant German international law scholar of the era between the wars, Schmitt was obsessed with what he viewed as the inherent weakness of liberal democracy. He considered liberalism, particularly as manifested in the Weimar Constitution, to be inadequate to the task of protecting state and society menaced by the great evil of Communism. This led him to ridicule international humanitarian law in a tone and with words almost identical to those recently employed by Yoo and several of his colleagues.


Beyond this, Yoo’s prescription for solving the “dilemma” is also taken straight from the Schmittian playbook. According to Schmitt, the norms of international law respecting armed conflict reflect the romantic illusions of an age of chivalry. They are “unrealistic” as applied to modern ideological warfare against an enemy not constrained by notions of a nation-state, adopting terrorist methods and fighting with irregular formations that hardly equate to traditional armies. (Schmitt is, of course, concerned with the Soviet Union here; he appears prepared to accept that the Geneva and Hague rules would apply on the Western Front in dealing with countries such as Britain and the United States). For Schmitt, the key to successful prosecution of warfare against such a foe is demonization. The enemy must be seen as absolute. He must be stripped of all legal rights, of whatever nature. The Executive must be free to use whatever tools he can find to fight and vanquish this foe. And conversely, the power to prosecute the war must be vested without reservation in the Executive – in the words of Reich Ministerial Director Franz Schlegelberger (eerily echoed in a brief submission by Bush Administration Solicitor General Paul D. Clement), “in time of war, the Executive is constituted the sole leader, sole legislator, sole judge.” (I take the liberty of substituting Yoo’s word, Executive; for Schmitt or Schlegelberger, the word would, of course, have been Führer). In Schmitt’s classic formulation: “a total war calls for a total enemy.” This is not to say that in Schmitt’s view the enemy was somehow “morally evil or aesthetically unpleasing;” it sufficed that he was “the other, the outsider, something different and alien.” These thoughts are developed throughout Schmitt’s work, but particularly in Der Begriff des Politischen (1927), Frieden oder Pazifismus (1933) and Totaler Feind, totaler Krieg, totaler Staat (1937).

A Practical Guide to Evasion of the Geneva Conventions
Given this philosophical predisposition, how was a lawyer then to evade the application of the Geneva and Hague Conventions? Here an answer can be drawn not from Schmitt’s academic works, but from a series of determinations by the German General Staff which quite transparently reflected the influence of the then-Prussian State Councilor Carl Schmitt. A careful review of the original materials shows that the following rationales were advanced for decisions not to apply or to restrict the application of the Geneva Conventions of 1929 and the Hague Convention of 1907 during the Second World War:




(1) Particularly on the Eastern Front, the conflict was a nonconventional sort of warfare being waged against a “barbaric” enemy which engaged in “terrorist” practices, and which itself did not observe the law of armed conflict.
(2) Individual combatants who engaged in “terrorist” practices, or who fought in military formations engaged in such practices, were not entitled to protections under international humanitarian law, and the adjudicatory provisions of the Geneva Conventions could therefore be avoided together with the substantive protections.
(3) The Geneva and Hague Conventions were “obsolete” and ill-suited to the sort of ideologically driven warfare in which the Nazis were engaged on the Eastern Front, though they might have limited application with respect to the Western Allies.
(4) Application of the Geneva Conventions was not in the enlightened self-interest of Germany because its enemies would not reciprocate such conduct by treating German prisoners in a humane fashion.
(5) Construction of international law should be driven in the first instance by a clear understanding of the national interest as determined by the executive. To this end niggling, hypertechnical interpretations of the Conventions that disregarded the plain text, international practice and even Germany’s prior practice in order to justify their nonapplication were entirely appropriate.
(6) In any event, the rules of international law were subordinated to the military interests of the German state and to the law as determined and stated by the German Führer.


The similarity between these rationalizations and those offered by John Yoo in his hitherto published Justice Department memoranda and books and articles is staggering. It is of course possible that John Yoo came upon all of this on his own, like a scholar laboring in some parallel universe unaware of the work of others. Possible. But not probable.

It is more likely that Yoo’s work is a faithful, through crude and occasionally flawed interpretation of Schmitt. I say "crude" principally because Schmitt expresses from the outset the severest moral reservations about his concept of "demonization." It is, he fears, subject to "high political manipulation" which "must at all costs be avoided." The use of this technique, he writes, may only be available when "the survival of the people is at stake." Der Begriff des Politischen, pp. 20-33. Yoo expresses no comparable hesitation, preferring simply to place all confidence in the Executive, and justifying this implausibly in the writings of the Founding Fathers.

But Yoo's conclusions are rendered even more inexplicable by another point. After World War II was over and the full horror of what the Axis Powers had done was apparent, a consensus was reached to overhaul the Geneva Conventions with the express intention of repudiating the German evasions of the Conventions listed above. So, while these positions may have been arguable with respect to the two 1929 Geneva Conventions, they hardly could be invoked with respect to the 1949 Conventions. But Yoo continues to cite them, oblivious to the shifts in text and commentary that occurred in 1949.

So how does Yoo come by the work of Carl Schmitt, and why does he fail to acknowledge it in his publications? Yoo is currently a scholar in residence at the American Enterprise Institute, the center stage of the American Neoconservative movement. That movement traces itself back to Leo Strauss, the political philosopher who lived and taught for many years in Chicago. Though a Jew forced to flee Nazi Germany, Strauss was a lifelong admirer of Carl Schmitt, a scholar and teacher of his works. Moreover, Strauss’ early work in Germany played a key role in development of the Begriff des Politischen, and Schmitt’s intercession helped Strauss obtain a key scholarship that made his escape from Germany possible. Though arrested by the Americans and accused of complicity in Nazi crimes, Schmitt achieved a partial rehabilitation late in his life - thanks in large part to Leo Strauss. Indeed, Schmitt emerged as an essential part of the Neocon canon, and his work – including all the relatively obscure works cited here – were translated into English and published by the University of Chicago Press (also Yoo’s publisher). It is therefore hardly plausible to suggest that Yoo would be unfamiliar with the writings of Carl Schmitt. On the other hand, it is easy to surmise why he would fail to acknowledge his reliance on such a highly stigmatized writer. After all, Schmitt was a notorious antisemite best known for crafting the legal cover for Hitler's Machtergreifung.

Why Carl Schmitt Hates America
Carl Schmitt was a rational man, but he was marked by a hatred of America that bordered on the irrational. He viewed American articulations of international law as fraught with hypocrisy, and saw in American practice in the late nineteenth and early twentieth centuries a menacing new form of imperialism (“this form of imperialism… presents a particular threat to a people forced in a defensive posture, like we Germans; it presents us with the greater threat of military occupation and economic exploitation” he writes in 1932 – at a time of almost unprecedented American isolationism)(Die USA und die völkerrechtlichen Formen des modernen Imperialismus, p. 365). He saw in the peculiarly American notion of consensus-democracy an unsustainable foolishness, and in the Jeffersonian vision of small government with a maximum space for individual freedom a threat to his peculiar Catholic values.

Today, President Bush has again defended his indefensible treatment of detainees and claimed for himself rights that all his predecessors firmly disavowed. As president, he has cast aside the values of George Washington, Abraham Lincoln and Dwight Eisenhower – values on which the country was founded and built – and embraced instead those of Carl Schmitt, the lawyer who prostituted his genius to the cause of Fascism and fervently prayed for America’s destruction. What a great irony.

John Yoo and his colleagues present their critique of international humanitarian law as a validation of the sovereigntist tradition of the American Founding Fathers. That such claims can be taken seriously reflects a failure of critical thought in contemporary America. Yoo’s views on international humanitarian law have absolutely nothing to do with the Founding Fathers. They are a cheap, discredited Middle European import from the twenties and thirties. Viewed this way, it becomes increasingly clear where they would lead us.

mercredi, 01 décembre 2010

Un grand catholique: Carl Schmitt

Un grand catholique : Carl Schmitt

par Rémi Soulié

Ex: http://stalker.hautetfort.com/ 

Série: (Infréquentables, 6) - Tous les infréquentables.

Le texte de Rémi Soulié, ci-dessous légèrement amendé, a paru dans le numéro spécial de La Presse littéraire consacré aux écrivains infréquentables.

«Je tiens Carl Schmitt pour un profond penseur catholique…»
Jacob Taubes.


carl_schmitt9999.jpgAucun bricolage néo-kantien ne pourra longtemps masquer le nihilisme démocratique et la vacuité moderne – d’autant moins d’ailleurs que cet excellent lecteur de Kant que fut Jacobi diagnostiqua parmi les premiers la maladie nihiliste que les trois Critiques incubèrent fort peu de temps avant qu’elle ne se déclare. L’Europe, c’est-à-dire très exactement la chrétienté selon Novalis, ne pourra réagir qu’en opposant son antidote souverain : le catholicisme. On peut prendre la question dans tous les sens, ce n’est qu’en réactivant l’interrogation théologico-politique, comme l’ont compris Joseph de Maistre, Donoso Cortès, Carl Schmitt, mais aussi Leo Strauss et Jacob Taubes d’un point de vue juif, donc, en dernière analyse, chrétien, que l’on pourra faire rendre gorge au néant. L’adhésion très temporaire de Carl Schmitt au NSDAP (après d’ailleurs qu’il a mis tout Weimar en garde, dès 1932, sur le danger national-socialiste et l’urgence à interdire, par l’article 48 de la Constitution, les partis communiste et nazi) ne s’explique là encore que par la mystique au sens de Péguy – et non la politique: le catholique conséquent croyant en l’existence de l’univers invisible et donc des mauvais anges peut être abusé par les ruses et les séductions de l’Ennemi (au sens schmittien, d’une certaine façon, nous y reviendrons) jusqu’à prendre des vessies pour des lanternes et le point culminant du nihilisme actif (et non passif, celui-ci relevant de la juridiction démocratique) pour le paroxysme de la vérité. À la lettre oxymorique, il côtoie toujours les cimes des abîmes, comme un abbé Donissan ou un curé d’Ambricourt et à la différence de n’importe quel démocrate-chrétien. Les enfileurs de perles et les analystes du rien, hommes du ni oui ni non, font aujourd’hui écran au théologien politique, homme des affirmations absolues et des négations souveraines fidèle à l’Évangile («Que votre oui soit oui, que votre non soit non», Mt 5, 37) alors que ce dernier est évidemment requis par la tiédeur infernale. Le libéralisme, hostile à toute forme de vision, ne voit bien entendu se profiler aucune eschatologie à l’horizon de sa myopie : il rassemble l’alpha et l’oméga de l’Histoire – formule inadéquate quoique révélatrice de la parodie – dans l’alternance, le marché, l’hédonisme, le sentimentalisme et l’humanitarisme (ce que Schmitt appellera, non sans mépris, «la décision morale et politique dans l’ici-bas paradisiaque d’une vie immédiate, naturelle, et d’une «corporéité» sans problèmes» ou «les faits sociaux purs de toute politique»). Qui décidera de l’état d’exception en cas de guerre civile ? Le souverain, soit, personne (l’anti-personne démoniaque – en ceci, le désespoir demeure en politique une sottise absolue, puisque aussi bien le diable porte pierre).

Né en 1888 dans une famille catholique de Rhénanie lointainement originaire de Lorraine, le jeune Carl Schmitt se définit ainsi : «J’étais un jeune homme obscur, d’ascendance modeste […]. Je n’appartenais ni aux couches dirigeantes, ni à l’opposition […]. La pauvreté et la modestie sociale étaient les anges gardiens qui me tenaient dans l’ombre. C’était un peu comme si, me tenant dans un noir total […] j’avais depuis mon poste observé une pièce vivement éclairée […]. La tristesse qui me remplissait me rendait plus distant et suscitait chez les autres distance et antipathie. Pour les couches dirigeantes, quiconque ne vibrait pas à l’idée de les côtoyer était un corps étranger. Il s’agissait de s’adapter ou de se retirer. Je demeurai donc à l’extérieur.» Il poursuit : «Pour moi, la foi catholique est la religion de mes ancêtres. Je suis catholique non pas seulement par confession, mais par origine historique, et si j’ose dire, par la race» (où l’on notera, avec ce dernier terme, l’influence de Péguy).
Lecteur de L’Action Française, francophile, classique, latin, Carl Schmitt s’inscrit également dans la lignée des penseurs qui refusèrent l’absolutisation de la raison trop humaine aux côtés du Karl Barth commentateur de l’Épître aux Romains dans le domaine protestant ou de Martin Buber dans les études juives, fussent-elles hétérodoxes. Si, comme il l’affirme, tous les concepts fondamentaux de la théorie moderne de l’État sont des concepts théologiques sécularisés – ainsi, par exemple, de l’état d’urgence pensé en analogie avec le miracle puisque dans l’un et l’autre cas, la législation naturelle ou politique est rompue par ceux-là mêmes qui l’ont instituée –, seule la théologie permettra de cerner la vérité des sociétés qui croient s’être affranchies de l’une et de l’autre. Le libéralisme nie l’essence de la haute politique qui suppose, en termes schmittiens, un ennemi c’est-à-dire un conflit (chez les pères de l’Église et saint Augustin en particulier, l’Ennemi, c’est le Mauvais, ce qui peut être également le cas chez Schmitt dès lors que la dramaturgie historique oppose in fine le Christ et l’Antéchrist). En niant l’immortalité de l’âme ou en renvoyant cette croyance dans la sphère privée – ce qui revient au même –, le libéral tente de remplacer la tragédie par le vaudeville. La haute politique présuppose la croyance dans le péché originel, la discrimination de l’ami et de l’ennemi qu’elle induit, la dénonciation des leurres de l’Antéchrist – paix perpétuelle, harmonie universelle, gouvernement mondial («Vous savez vous-mêmes que le Jour du Seigneur arrive comme un voleur en pleine nuit. Quand les hommes se diront : Paix et Sécurité ! c’est alors que tout d’un coup fondra sur eux la perdition, comme les douleurs sur la femme enceinte, et ils ne pourront y échapper» (I Thessaloniciens, 5, 2-3) -, l’acceptation de notre condition de créature, donc d’être limité voué à la mort voire au «sérieux» du sacrifice, la décision, enfin, dont l’infaillibilité pontificale pourrait être l’un des modèles. Avec Donoso Cortès, Carl Schmitt considère que le libéralisme et la démocratie consistent soit à ne pas répondre à la question «le Christ ou Barrabas ?» en multipliant les motions de renvoi en commission ou, mieux, en créant une commission d’enquête, soit à y répondre nécessairement par la libération de Barabbas, comme Hans Kelsen en convient d’ailleurs mais pour s’en féliciter, c’est-à-dire par la mise à mort de Dieu – ou, dirait Benny Lévy d’un point de vue juif donc chrétien, par le «meurtre du Pasteur». (L’établissement de la République, en France, releva encore partiellement du domaine politique et donc non libéral puisque les républicains avaient désigné en l’Église catholique l’ennemi «schmittien», et c’était de bonne guerre cela va de soi; la «lutte millénaire entre le christianisme et l’islam» (La Notion de politique ) en est un autre exemple).
Comme aucun discours véridique ne peut être proféré sans que son auteur ne subisse d’une manière ou d’une autre la persécution de ceux-là mêmes à qui il s’adresse ou qu’il défend – toute l’histoire biblique l’atteste –, Schmitt, à l’instar de Maurras, souffrit par l’Église catholique. Sur un coup de tête, il épouse à Munich, pendant la Grande Guerre, une affreuse mythomane originaire de Bohême, Paula Dorotic, qui s’enfuit peu de temps après avec, comble de l’horreur, une partie de sa bibliothèque. Le mariage est annulé civilement le 18 janvier 1924 mais la «bureaucratie de célibataires» que peut être aussi la sainte Église catholique, apostolique et romaine refuse par deux fois d’annuler cette union malencontreuse. Schmitt se résout à se remarier et fut ainsi privé des sacrements jusqu’en 1950, date de la mort de sa seconde épouse. Voilà un signe supplémentaire attestant de son élection.
Excellent papiste, il prend la défense de l’Inquisition, même s’il déplore qu’elle ait été hélas pervertie par l’usage de la torture : «Ce fut une mesure terriblement humaine que la création du «droit inquisitorial» par le pape Innocent III. L’Inquisition fut sans doute l’institution la plus humaine qu’on puisse imaginer, puisqu’elle partait de l’idée qu’aucun accusé ne pouvait être condamné sans aveux […]. En termes d’histoire du droit, l’idée d’Inquisition ne peut guère être contestée, même aujourd’hui» (1).
(On ne s’étonnera pas qu’il argumente une fois encore dans des termes voisins de ceux de Péguy, dans un ordre comparable : «La politique de frapper les têtes (les mauvaises têtes) est une politique d’économie, et même la seule politique d’économie […]. Rien n’est humain comme la fermeté. C’est Richelieu qui est humain – et c’est Robespierre qui est humain. C’est la Convention nationale qui est en temps de guerre le régime de douceur et de tendresse. Et c’est l’Assemblée de Bordeaux et le gouvernement de Versailles qui est la brutalité de la brute et l’horreur et la cruauté. [… ] Tout mon vieux sang révolutionnaire me remonte et […] je ne mets rien au- dessus de ces excellentes institutions d’ancien régime, qui se nomment le Tribunal Révolutionnaire et le Comité de Salut Public et même je pense le Comité de Sûreté Générale… […] et je ne mets rien au-dessus de Robespierre dans l’ancien régime»).

Car Schmitt défendra bien entendu le Grand Inquisiteur contre l’orthodoxe Dostoïevski. En ces temps qui sont les derniers, autrement dit en régime apocalyptique, il écoute les derniers prophètes : «Remarquez-le bien, il n’y a déjà plus de résistances ni morales ni matérielles. Il n’y a plus de résistances matérielles : les bateaux à vapeur et les chemins de fer ont supprimé les frontières, et le télégraphe électrique a supprimé les distances. Il n’y a plus de résistances morales : tous les esprits sont divisés, tous les patriotismes sont morts […]. Il s’agit de choisir entre la dictature qui vient d’en bas et la dictature qui vient d’en haut : je choisis celle qui vient d’en haut, parce qu’elle vient de régions plus pures et plus sereines. Il s’agit de choisir, enfin, entre la dictature du poignard et la dictature du sabre : je choisis la dictature du sabre, parce qu’elle est plus noble».
Une chose est sûre : «Le monde avance à grands pas vers l’établissement du despotisme le plus violent et le plus destructeur que les hommes aient jamais connu […]. Je tiens pour assurer et évident que, jusqu’à la fin, le mal triomphera du bien et que le triomphe sur le mal sera, en quelque sorte, réservé à Notre Seigneur. Il n’est donc aucune période historique qui ne soit destinée à s’achever en catastrophe.»
Ainsi s’exprimait Donoso Cortès au parlement espagnol le 4 janvier 1849 dans son Discours sur la dictature. À Ernst Jünger, Schmitt confiera qu’il considère ce texte comme «le plus extraordinaire discours de la littérature mondiale sans excepter ni Périclès et Démosthène, ni Cicéron ou Mirabeau ou Burke».
Carl Schmitt continue de lire Dostoïevski, Sorel, Bloy, pour qui il a de la «vénération» – c’est lui qui introduit d’ailleurs Jünger à la lecture du Belluaire. Il saluera plus tard «la magnifique confrontation d’un Allemand avec Léon Bloy» dans le Journal de Jünger, qui est «le plus grand document de la spiritualité européenne contemporaine.» Comme tout homme bien né, Schmitt attend donc les Cosaques et le Saint-Esprit, soit, la Rédemption – d’où son influence sur Benjamin, qui lui envoie ses Origines du drame baroque allemand et l’assure de l’influence méthodologique de La Dictature sur ses propres réflexions esthétiques mais aussi de sa dette à l’endroit de sa «présentation de la doctrine de la souveraineté au XVIIe siècle», sur Leo Strauss également ou sur l’«archijuif» – comme il se définissait lui-même – Jacob Taubes. Une étude sérieuse des relations entre Carl Schmitt, les Juifs et le judaïsme, que l’on attend toujours (2), devrait également intégrer la notion cardinale de Nomos : si Schmitt se refuse de la traduire par «loi», ce qui pourrait être hâtivement interprété comme une oblitération du judaïsme, il la comprend à partir des trois catégories fondamentales qui y sont incluses – prendre, partager et paître – ce dernier terme engageant certes le Bon Pasteur christique mais également… David ou Moïse (3). Sans mythe structurant, les agnostiques modernes, eux, collaborent pendant ce temps à la damnation du monde tout en jacassant.
Mais c’est surtout par l’analyse de la figure essentielle du katékhon que Carl Schmitt manifeste une hauteur de vue et un sens aigu de l’Histoire toujours sainte dont la pertinence demeure bouleversante. Pour la comprendre, il faut se reporter à un passage particulièrement difficile de la deuxième Épître aux Thessaloniens de saint Paul concernant ce qui précèdera la parousie : «Il faut que vienne d’abord l’apostasie et que se révèle l’Homme de l’impiété, le Fils de la perdition […]. Et maintenant, vous savez ce qui le retient [tò katékhon], pour qu’il ne soit révélé qu’en son temps. Car le mystère de l’impiété est déjà à l’œuvre; il suffit que soit écarté celui qui le retient [ho katékhon] à présent. Alors se révèlera l’Impie, que le Seigneur Jésus détruira du souffle de sa bouche» (2, 3-9). Qui est ce Katékhon, ce «Rétenteur» ou «Retardateur» dont le rôle est ambigu puisqu’à la fois il empêche la survenue des catastrophes finales mais en même temps retarde d’autant la seconde venue du Christ en gloire et donc de la fin de l’histoire puis du Jugement ? Est-il personnel ? Impersonnel ? Saint Jérôme et saint Jean Chrysostome l’identifièrent avec l’Empire romain; dans la terminologie schmitienne, ce rôle semble tenu successivement par le dictateur commis ou souverain, le défenseur de la Constitution ou le Léviathan, ceci étant révélateur de sa propre hésitation entre la nécessité de conserver partiellement ce qui est et sa non moins nécessaire liquidation partielle ou totale (où Bloy s’impatiente, Schmitt temporise). Voilà pour l’interprétation positive. Sur un plan mystique, ce thème manifeste la nécessité de maintenir ouverte la brèche qui déchire la terre, monte au ciel et plonge en enfer, pendant le règne vermineux du dernier homme (règne possiblement antéchristisque, ce qui infirmerait la pérennité de l’action katékhontique). En elle est serti le roc de Pierre, le Corps visible de Jésus-Christ que cette tension ne parvient pas à écarteler. La mission katékhontique relève peut-être de l’Église catholique, et en particulier de l’ordre jésuite, comme Schmitt le suggère dans son Glossarium : elle seule détiendrait le pouvoir mystérieux de prononcer en même temps le «Marana Tha» de l’Apocalypse – «Viens, Seigneur Jésus !» – et la demande d’un délai de grâce (Schmitt sait que le temps n’est pensable qu’en terme de délai, comme tous les Juifs conséquents). D’une manière énigmatique, comme il convient d’évoquer ces questions, il écrit à Pierre Linn en 1932 : «Vous connaissez ma théorie du katékhon. Je crois qu’il y a en chaque siècle un porteur concret de cette force et qu’il s’agit de le trouver. Je me garderai d’en parler aux théologiens, car je connais le sort déplorable du grand et pauvre Donoso Cortès. Il s’agit d’une présence totale cachée sous les voiles de l’histoire». Jacob Taubes, grand interlocuteur de Schmitt, comprend simplement le katékhon, dans sa Théologie politique de Paul, comme une tentative de dominer le chaos par la forme.
À ceux qui prétendent que l’Église catholique a désamorcé la charge évangélique, Schmitt répond que la juridisation est la réalisation : «Car qu’est-ce que le droit ? La réponse de Hegel est : le droit est l’Esprit se rendant effectif. […] L’Église romaine est réalité historique». Théodore Paléologue a donc raison de considérer que «la politisation schmittienne du katékhon répond à la conviction que l’Esprit doit se rendre effectif et que toute idée chrétienne est une idée incarnée».
«Homme de contemplation», comme il se définissait lui-même, dont «le centre inoccupable» de la pensée «n’est pas une idée, mais un événement historique, l’Incarnation du Fils de Dieu», grand démystificateur des impuissances libérales et de leur juridisme – lequel ne serait que ridicule s’il n’était enclin au totalitarisme – Carl Schmitt a dénoncé le misérable «affect anti-romain» sous la domination duquel nous survivons. Comme Heidegger, dit Jacob Taubes, il a posé des questions fondamentales, en ceci précisément intolérables au libéralisme (qui ne tolère que les insignifiantes), d’où son éviction et la «récitation» obligatoire, dit toujours Taubes, de «l’ABC démocratique» qui doit s’en suivre. Schmitt définit «la clé secrète de toute [son] existence spirituelle et de toute [son] activité d’auteur» comme «le combat pour la radicalisation authentiquement catholique», laquelle constitue sans doute aussi le «savoir intègre» qu’il appelait de ses vœux, au service de la «pensée concrète de l’ordre». Une certitude néanmoins : «Jusqu’au retour du Christ, le monde ne connaîtra pas l’ordre».

Carl Schmitt est mort le dimanche de Pâques 7 avril 1985.

Notes
(1) En 1936 (N.d.a.), Schmitt s’inscrit ici dans la lignée de Joseph de Maistre pour qui «L’inquisition est, de sa nature, bonne, douce, conservatrice».
(2) Je ne méconnais pas l’étude de Raphaël Gross, Carl Schmitt et les Juifs (PUF, 2005, préface d’Yves-Charles Zarka, traduction de Denis Trierweiler) mais elle est hélas exclusivement à charge.
(3) Voir, à nouveau, le très beau livre de Benny Lévy, Le Meurtre du Pasteur (Grasset, 2002) mais, également, Rémi Soulié, Avec Benny Lévy (Le Cerf, 2009).

Bibliographie succincte
- Carl Schmitt, Théologie politique (Gallimard, 1988).
- Heinrich Meier, Carl Schmitt, Leo Strauss et la notion de politique. Un dialogue entre absents (Julliard, 1990).
- Sous la direction de Carlos-Miguel Herrera, Le droit, le politique. Autour de Max Weber, Hans Kelsen, Carl Schmitt (L’Harmattan, 1995).
- Jacob Taubes, La Théologie politique de Paul. Schmitt, Benjamin, Nietzsche et Freud, Seuil, 1999 et En divergent accord. À propos de Carl Schmitt (Payot, 2003).
- Théodore Paléologue, Sous l’œil du Grand Inquisiteur. Carl Schmitt et l’héritage de la théologie politique (Cerf, 2004).
- David Cumin, Carl Schmitt. Biographie politique et intellectuelle (Cerf, 2005).
- Gopal Balakrishnan, L’Ennemi. Un portrait intellectuel de Carl Schmitt (Éditions Amsterdam, 2006).

L'auteur
Rémi Soulié, né en 1968 en Rouergue. Essayiste, critique littéraire au Figaro Magazine, il a récemment consacré un essai à Benny Lévy (Le Cerf, 2009) et prépare une étude, De l'Histoire sainte : Joseph de Maistre, Donoso Cortès, Carl Schmitt.

mardi, 12 octobre 2010

Carl Schmitt: A Dangerous Man

Carl Schmitt (part IV)

 A Dangerous Man

by Keith PRESTON
 
 
Carl Schmitt (part IV)
 

When Hitler first came to power, Carl Schmitt hoped that President von Hindenburg would be able to control him, and dismiss him from the chancellor’s position if necessary. But within days of becoming chancellor, Hitler invoked Article 48 and began imposing restrictions on the freedoms of speech, press, and assembly. Within a month, all civil liberties had essentially been suspended. Within two months, a Reichstag dominated by the Nazis and their allies (with the communists having been purged and subject to repression under Hitler’s emergency measures) passed the Enabling Act, which, more or less, gave Hitler the legal right to rule by decree. The Enabling Act granted Hitler actual legislative powers, beyond the emergency powers previously provided for by Article 48. Schmitt regarded the Enabling Act as amounting to the overthrow of the constitution itself and the creation of a new constitution and a new political and legal order.

The subsequent turn of events in Schmitt’s life remains the principal, though certainly not exclusive, source of controversy regarding Schmitt’s ideas and career as a public figure and intellectual. Schmitt remained true to his Hobbesian view of political obligation that it is the responsibility of the individual to defer to whatever political and legal authority that becomes officially constituted. On May 1, 1933, Carl Schmitt officially joined the Nazi Party.

Despite his past as an anti-Nazi, Schmitt’s prestigious reputation as a jurist and legal scholar heightened his value to the party. Herman Goering appointed Schmitt to the position of Prussian state councilor in July, 1933. He then became leader of the Nazi league of jurists and was appointed to the chair of public law at the University of Berlin. While occasionally including a racist or anti-Semitic comment in his writings and lectures during this time, Schmitt also hoped to strike a balance between Nazi ideology and his own more traditionally conservative outlook.

Schmitt’s hopes for such a balance were dashed by the Night of the Long Knives purge on June 30, 1934. Not only were hundreds of Hitler’s potential rivals within the party killed, but so were a number of prominent conservatives, including Schmitt’s former associate, General Kurt von Schleicher. Even Papen, who had initially been vice-chancellor under the Hitler regime, was placed under house arrest.

In response to the purge, Schmitt published the most controversial article of his career, “The Fuhrer Protects the Law.” On the surface, the article was merely a sycophantic and opportunistic effort at defending Hitler’s brutality and lawlessness. While Schmitt likely regarded the killing of rival Nazis as little more than a dishonorable falling out among thugs, he also included within the article subtle references to unjust murders that had been committed during the course of the purge, meaning the killing of his friend General Schleicher and others outside Nazi circles, and urged justice for the victims. The wording of the article pretended to absolve Hitler of responsibility while dropping very discreet and coded hints to the contrary.

Though Schmitt enjoyed the protection afforded to him by his associations with Goering and Hans Frank, he never exerted any influence over the regime itself. The purge of the SA leadership had the effect of empowering within the Nazi movement one of its most extreme elements, the SS. The SS soon concerned itself with the presence of “opportunists” and the ideologically impure elements, which had joined the party only after the party had seized power for the sake of being on the winning side. These elements included many middle-class persons and ordinary conservatives whose actual commitment to the party’s ideology and value system were questionable.

Schmitt was a prime example of these. His efforts to revise his theories to make them somewhat compatible with Nazi ideology were subject to attacks from jurists committed to the Nazi worldview. Further, former friends, professional associates, and students of Schmitt who had emigrated from the Third Reich were incensed by his collaboration with the regime and began publishing articles attacking him from abroad, pointing out his anti-Nazi past during his association with Schleicher, his prior associations with Jews, his Catholic background, and the fact that he had once referred to Nazism as “organized mass insanity.”

Schmitt attempted to defend himself against these attacks by becoming ever more virulent in his anti-Semitic rhetoric. When the Nuremberg Laws were enacted in September of 1935, he defended these laws publicly. His biographer Bendersky described the political, ethical, and professional predicaments Schmitt found himself in during this time:

No doubt at the time he tried to convince himself that he was obligated to obey and that as a jurist he was also compelled to work within the confines of these laws. He could easily rationalize his behavior with the same Hobbesian precepts he had used to explain his previous compromises. For he always adhered to the principle Autoritas, non veritas facit legem (Authority, not virtue makes the law), and he never tired of repeating that phrase. Authority was in the hands of the Nazis, their racial ideology became law, and he was bound by these laws.

Schmitt further attempted to counter the attacks hurled at him by both party ideologues and foreign critics by organizing a “Conference on Judaism in Jurisprudence” that was held in Berlin during October of 1936. At the conference, he gave a lecture titled “German Jurisprudence in the Struggle against the Jewish Intellect.” Two months later, Schmitt wrote a letter to Heinrich Himmler discussing his efforts to eradicate Jewish influence from German law.

Yet, the attacks on Schmitt by his party rivals and the guardians of Nazi ideology within the SS continued. Schmitt’s public relations campaign had been unsuccessful against the charges of opportunism, and Goering had become embarrassed by his appointee. Goering ordered that public attacks on Schmitt cease, and worked out an arrangement with Heinrich Himmler whereby Schmitt would no longer be involved with the activities of the Nazi party itself, but would simply retain his position as a law professor at the University of Berlin. Essentially, Schmitt had been politically and ideologically purged, but was fortunate enough to retain not only his physical safety but his professional position.

For the remaining years of the Third Reich, Schmitt made every effort to remain silent concerning matters of political controversy and limited his formal scholarly work and professorial lectures to discussions of routine aspects of international law or vague and generalized theoretical abstractions concerning German foreign policy, for which he always expressed outward support.

Even though he was no longer active in Nazi party affairs, held no position of significance in the Nazi state, and exercised no genuine ideological influence over the Nazi leadership, Schmitt’s reputation as a leading theoretician of Nazism continued to persist in foreign intellectual circles. In 1941, one Swiss journal even made the extravagant claim that Schmitt had been to the Nazi revolution in Germany what Rousseau had been to the French Revolution. Schmitt once again became fearful for his safety under the regime when his close friend Johannes Popitz was implicated and later executed for his role in the July 20, 1944, assassination plot against Hitler (though, in fact, Schmitt himself was never in any actual danger.)

When Berlin fell to the Russians in April 1945, Schmitt was detained and interrogated for several hours and then released. In November, Schmitt was arrested again, this time by American soldiers. He was considered a potential defendant in the war crimes trials to be held in Nuremberg and was transferred there in March 1947. In response to questions from interrogators and in written statements, Schmitt gave a detailed explanation and defense of his activities during the Third Reich that has been shown to be honest and accurate. He pointed out that he had no involvement with the Nazi party after 1936, and had only very limited contact with the party elite previously. Schmitt provided a very detailed analysis and description of the differences between his own theories and those of the Nazis. He argued that while his own ideas may have at times been plagiarized or misused by Nazi ideologists, this was no more his responsibility than Rousseau had been responsible for the Reign of Terror. The leading investigator in Schmitt’s case, the German lawyer Robert Kempner, eventually concluded that while Schmitt may have had a certain moral culpability for his activities under the Nazi regime, none of his actions could properly be considered crimes warranting prosecution at Nuremberg.

Schmitt’s reputation as a Nazi, and even as a war criminal, made it impossible for him to return to academic life, and so he simply retired on his university pension. He continued to write on political and legal topics for another three decades after his release from confinement at Nuremberg, and remained one of Germany’s most controversial intellectual figures. For some time, his pre-Nazi works were either ignored or severely misinterpreted. A number of prominent left-wing intellectuals, including those who had been directly influenced by Schmitt, engaged in efforts at vilification.

An objective scholarly interest in Schmitt began to emerge in the late 1960s and 1970s, even though Schmitt’s reputation as a Nazi apologist was hard to shake. Interestingly, the framers of the present constitution of the German Federal Republic actually incorporated some of Schmitt’s ideas from the Weimar period into the document. For instance, constitutional amendments that alter the basic democratic nature of the government or which undermine basic rights and liberties as outlined in the constitution are forbidden. Likewise, the German Supreme Court may outlaw parties it declares to be anti-constitutional, and both communist and neo-Nazi parties have at times been banned.

Schmitt himself returned to these themes in his last article published in 1978. In the article, Schmitt once again argued against allowing anti-constitutional parties the “equal chance” to achieve power through legal and constitutional means, and expressed concern over the rise of the formally democratic Eurocommunist parties in Europe, such as those in Italy and Spain, which hoped to gain control of the state through ordinary political channels.

 

Schmitt’s Contemporary Relevance

 

The legacy of Schmitt’s thought remains exceedingly relevant to 21st-century Western political and legal theory. His works from the Weimar period offer the deepest insights into the inherent weaknesses and limitations of modern liberal democracy yet to be discussed by any thinker. This is particularly significant given that belief in liberal democracy as the only “true” form of political organization has become a de facto religion among Western political, cultural, and intellectual elites. Schmitt’s writings demonstrate the essentially contradictory nature of the foundations of liberal democratic ideology. The core foundation of “democracy” is the view that the state can somehow be a reflection of an abstract “peoples’ will,” which, somehow, rises out of a mass society of heterogeneous individuals, cultural subgroups, and political interest groups with irreconcilable differences.

This is clearly an absurd myth, perhaps one ultimately holding no more substance than ancient beliefs about emperors having descended from sun-gods. Further, the antagonistic relationship between liberalism and democracy recognized by Schmitt provides a theoretical understanding of the obvious practical truth that as democracy has expanded in the West, liberalism has actually declined. The classical liberal rights of property, exchange, and association, for instance, have been severely comprised in the name of creating “democratic rights” for a long list of social groups believed to have been excluded or oppressed by the wider society. The liberal rights of speech and religion have likewise been curbed for the ostensible purpose of eradicating real or alleged “bigotry” or “bias” towards former out-groups favored by proponents of democratic ideology.

The contradictions between liberalism and democracy aside, Schmitt’s work likewise demonstrates the ultimately self-defeating nature of liberalism taken to its logical conclusion. A corollary of liberalism is universalism, yet liberal universalism likewise contradicts itself. Liberalism, as Westerners have come to understand it, is a particular value system rooted in historic traditions and which evolved within a particular civilization and was affected by historical contingencies (the Protestant Reformation, the Enlightenment, and Modernism being only the most obvious.)

Schmitt’s definition of the essence of the political as the friend/enemy dichotomy simultaneously exposes the limitations of liberalism’s ability to sustain itself. Robert Frost’s quip about a liberal being someone who is unable to take his own side in a fight would seem to apply here. The principal weakness of liberalism is its inability to recognize its own enemies. Even in the final months of the Weimar republic, liberals, socialists, and even Catholic centrists held so steadfastly to the formalities of liberalism that they were unable to perceive the imminent destruction of liberalism that lurked a short distance ahead.

This insight of Schmitt would seem to go a long way towards explaining the behavior of many present day zealots of Liberal Democratic Fundamentalism. It is currently the norm for liberals to react with a grossly exaggerated, almost phobic, sense of urgency concerning the supposed presence of elements espousing “racism,” “fascism,” “homophobia,” and other illiberal or ostensibly illiberal ideas in their own societies. In virtually all Western countries, elements espousing the various taboo “isms” and “phobias” with any degree of seriousness are marginal in nature, often merely eccentric individuals, tiny cult-like groups, or politically irrelevant subcultures.

And yet, liberals who become hysterical over “fascism,” typically express absolutely no concern about the importation of unlimited numbers of persons from profoundly illiberal cultures into their own nations. Indeed, criticizing such things has itself become a serious taboo among liberals, who somehow believe that such values as secularism, feminism, and homosexual rights can never be threatened by the mass immigration of those from cultures with no liberal tradition, where theocratic rule is the norm, or where the political and social status of women has not changed in centuries or even millennia, where there is no tradition of free speech, where capital punishment is regularly imposed for petty offenses, and where homosexuality is often considered to be a capital crime.

A related irony is that liberals have embraced “Green” consciousness in a way comparable to the enthusiasm and adulation shown to pop music stars by teenagers, while remaining oblivious to the demographic and ecological consequences of unlimited population growth fueled by uncontrolled immigration.

Schmitt’s steadfast opposition to legal formalism as a method of constitutional interpretation and as an approach to legal theory in general is also interesting when measured against the standard complaints about “judicial activism” found among “mainstream” American conservatives. Schmitt’s view that laws, even constitutional law itself, should be interpreted according to the wider essence or deeper substance of the laws and constitutions in question and according to the concrete realities of specific political situations would no doubt make a lot of American conservatives uncomfortable. Of course, an important distinction has to be made between Schmitt’s seemingly open-ended approach to legal theory and the standard ideas about a “living constitution” found among American liberal jurists. Schmitt was concerned with the very real and urgent question of the need to preserve civil order and political stability in the face of severe social and economic crisis, civil unrest, and threats of revolution, whether through direct violence or cynical manipulation of ordinary political and legal processes. The various legal theories involving a supposed “living constitution” or “evolving standards” advanced by American liberals represents the far more dubious project of simply replacing the traditional Montesquieu-influenced American constitution with an ostensibly more “progressive” democratic socialist one.

That said, one has to wonder if it would not be appropriate for American anti-liberals to initiate an ideological move away from advocating strict adherence to the principle of legal or judicial neutrality towards a perspective that might be called “defensive judicial activism,” e.g. the advocacy of the use of the courts at every level to resist the encroachments of the present therapeutic-managerial-multiculturalist-welfare state in the same manner that liberals have used the courts to impose their own extra-legislative agenda. This would be an approach that is more easily discussed than implemented, of course, but perhaps it is still worthy of discussion nevertheless.

The political theory of Carl Schmitt likewise aids the development of a more thorough understanding of the nature of the state itself. Contrary to the prevailing view that political rule can be rooted objectively in sets of formal legal rules and institutional procedures, or that the state can be a mere reflection of the idealized abstraction of “the people,” Schmitt recognized that ultimately political rule is based on the question of “Who decides?” Ideological pretenses to the contrary, there will be a “sovereign” (whether an individual or a group) who possesses final authority as to what the rules will be and how they will be interpreted or applied.

Schmitt’s friend/enemy thesis likewise contains the recognition that the prospect of lethal violence defines the essence of politics. Political rule is about force, and about possessing the ability to exercise the necessary amount of physical violence to maintain a system of rule. The truth of these observations and of Schmitt’s broader critique of liberalism and democracy do not by themselves eliminate the problematical nature of Schmitt’s own Hobbesian outlook. Clearly, Schmitt’s own life and career illustrate the limitations of such a view. Indeed, after his purge by the Nazis, Schmitt reflected on Hobbes more extensively and modified his views on political obligation somewhat. He concluded that political obligation must be reciprocal in nature. Hobbes taught that the individual was obligated to obey political authority for the sake of his own protection. Schmitt argued in light of the Nazi experience that the individual’s obligation of obedience is negated when the state withdraws its protection. Schmitt’s concern with the primacy of order and stability could well be summarized by the Jeffersonian principle that “prudence, indeed, will dictate that governments long established should not be changed for light and transient causes.”

Yet, there is the wider question of the matter whereby the malignant nature of a particular state is such that the state not only fails to provide protection for the individual but threatens the wider culture and civilization itself, a situation for which Dr. Samuel Francis coined the term “anarcho-tyranny.” Clearly, in such a scenario, it will seem that the obligation of political obedience, individually or collectively, becomes abrogated.

Keith Preston

 

mercredi, 08 septembre 2010

Immigration et identité: les erreurs de la Nouvelle droite et de l'Eglise catholique romaine

Immigration extra-européenne et identité : les erreurs de la Nouvelle droite et de l’Eglise catholique romaine…

Ex: http://tpprovence.wordpress.com/

Le dernier numéro de la revue Eléments pose la question en gros titre de couverture  et s’interroge pour savoir si certains intellectuels dits de La Nouvelle droite  dans leur combat remarquable contre le monde individualiste, droit de l’hommiste, globalisé, anglo-saxon, et de la consommation effrénée n’appartiendraient pas en fait à la Nouvelle gauche ?

Après tout,  le fait que Mohammed soit le nouveau prénom le plus usité  des naissances dans la région bruxelloise ne serait pas aussi grave que certains Européens traditionalistes, xénophobes et dépassés auraient tendance à le croire ! Finalement, une identité n’est pas immuable en soi et ne peut qu’évoluer au fil des siècles. L’immigration extra-européenne, à tout prendre, est un moindre danger pour notre identité européenne que le règne aliénant de la marchandise et de la consommation. Le vrai danger serait le capitalisme financier visant toujours plus à étendre son empire et transformant les êtres vivants en objets inanimés (1).

Nous tenons à nous élever avec force contre cette idée qui est très belle sur le papier et qui se rapproche effectivement de la conception (Weltanschauung) des hommes de gauche pratiquant trop facilement  et allègrement le déni des réalités.

Le véritable et plus grave  danger  pour les Français qui se définissent avant tout comme des Européens de langue française, c’est bien l’inacceptable phénomène migratoire extra-européen car il porte atteinte, au-delà des risques évidents de guerre civile et à une difficile politique du retour, d’une façon irréversible, à l’identité européenne, à la substance ethnique du peuple français. Le système économique, lui, pourrait  être adapté et changé sans trop d’encombres du jour au lendemain ! (fin du libre échange, mise en place de la préférence communautaire, mise en place d’un capitalisme volontariste industriel). L’immigration au contraire, engage la patrie charnelle du peuple français qui a pris son origine bien avant 1789. Le système économique suicidaire actuel ne présente pas les mêmes dangers à long terme ; il est , nonobstant les trop nombreuses  vies  déjà gâchées et les emplois définitivement  perdus  suite aux délocalisations inconscientes, plus facilement  modifiable et réversible.

Lorsqu’on voit les réactions de jeunes vierges effarouchées telles que celles de Jean-Pierre Raffarin ou de Michel Rocard, suite au renvoi volontaire avec un pécule de 300 euros, avion payé, de quelques Roms dans leur pays d’origine, on réalise à quel point est grave pour la société française le cancer mortel droit de l’hommiste. La réaction des élus de l’UMPS est d’autant plus inacceptable que ces mêmes Roms expulsés auront le droit de revenir d’ici quelque temps dans notre douce France ! En fait, pour la majorité d’entre eux, ce sont des congés payés dans leur pays d’origine aux frais du contribuable français ! A noter  également que  La France est un des rares pays au monde où des clandestins peuvent manifester publiquement  et tranquillement pour se faire régulariser   à tour de bras !

Ces réactions de l’UMPS sont d’autant plus stupides et scandaleuses que ces expulsions ne contribuent en rien  et pas le moins du monde à la diminution du véritable  danger  migratoire qui consiste, sous le règne médiatique  des seuls effets d’annonce du Président Sarkozy, à ne rien faire contre l’entrée annuelle effective de 250 000 nouvelles  personnes par an en France, essentiellement du Maghreb et de l’Afrique subsaharienne, soit une nouvelle agglomération lilloise extra-européenne tous les 3 ans dans l’hexagone, nonobstant une natalité délirante de ces nouveaux arrivants  et un nouvel appel d’air pour les mariages mixtes et les regroupements familiaux ! Et avec Madame Ségolène Royal, Madame Aubry et les socialistes, ce serait 450 000 personnes par an !

Quant aux réactions de certains hommes d’Eglise pour ces mêmes Roms,  elles nous rappellent que le christianisme a contribué au déclin et à la chute de l’Empire romain. Thomas Molnar a bien analysé les causes principales de la décadence européenne actuelle qui prennent leurs sources dans l’Eglise catholique romaine, l’Université et la Culture.(2)

Orateur et homme politique important vivant au IVème siècle, époque du chaos qui vit triompher le christianisme, Symmaque  le romain est célèbre pour avoir protesté publiquement quand les chrétiens, soutenus par Théodose, enlevèrent du Sénat de Rome, en 382, la statue et l’autel de la Victoire. Tout cela se termina par le sac de Rome par  Alaric en 410 ! L’Europe avec une fin possible du christianisme connaitra-t-elle un sort équivalent à la fin de l’Empire romain et du paganisme, se demandait à juste titre Thomas Molnar ?

L’Eglise catholique, les droits de l’hommistes, les intellectuels soit disant éclairés contribuent donc à cette « peste de l’esprit » selon Dominique Venner (3) qui s’est étendue à l’ensemble du monde blanc jusqu’à combiner sournoisement son autodestruction par la voie d’un brassage généralisé. Nietzsche avait aussi déjà vu le danger voyant dans le christianisme la religion des faibles avec tout ce que cela comporte de beau pour les envolées humanitaires, mais aussi de risques mortels et bien réels pour notre civilisation.

Seuls résistent finalement  à ces absurdités et à la catastrophe programmée, comme à la veille de la chute de l’Empire romain, quelques intellectuels épars, quelques hommes et  partis politiques, le  bon sens, l’âme populaire, la Russie et ne l’oublions pas, l’Eglise catholique  orthodoxe qui a un point de vue très différent de l’Eglise catholique romaine. Selon la religion catholique orthodoxe, « il existe des valeurs qui ne sont pas inférieures aux droits de l’homme tels la foi, la morale, le sacré et la Patrie ».

N’est ce pas un certain Poutine qui a prédit qu’au rythme où vont les choses, « la France finirait par devenir la colonie de ses anciennes colonies » ! Seuls le populisme, le nationalisme et la droite identitaire peuvent sauver la France ! La situation est grave. Il n’est plus possible de rester « Zen », de jouer au philosophe éclairé  à l’esprit  impassible et supérieur. L’heure semble bien au contraire venue de baisser les masques, de sortir  très vite du bois et de  donner la Garde car sinon la bataille dores et déjà engagée pour la survie de l’identité française et européenne pourrait  bien être définitivement perdue !

Marc Rousset*

*Marc Rousset est l’auteur de « La nouvelle Europe Paris-Berlin-Moscou », Editions Godefroy de Bouillon, 2009 . Il collabore régulièrement à la revue Synthèse nationale.

Notes

(1) Alain de Benoist, Nous et les autres, Problématique de l’identité, p 134, Krisis,  2007

(2)Thomas Molnar, Moi, Symmaque, L’Age d’Homme, Lausanne-Paris, 2000

(3) Dominique Venner, Histoire et tradition des Européens, Editions du Rocher, p 38, 2009

vendredi, 20 août 2010

In memoriam: Thomas MOlnar (1921-2010)

In Memoriam: Thomas Molnar (1921–2010)
 
 

MolnTH.jpgThomas Molnar, the esteemed political philosopher and historian, passed away on July 20 at the age of eighty-nine. Dr. Molnar was a friend of ISI from its earliest days. He lectured frequently for the Institute and contributed many articles to the Intercollegiate Review and Modern Age. In 2003 ISI awarded him its Will Herberg Award for Outstanding Faculty Service.

Requiescat in pace.

The following profile of Dr. Molnar was originally published in American Conservatism: An Encyclopedia (ISI Books, 2006). Also, consult the First Principles archival section to read some of Dr. Molnar’s fine essays.

A political philosopher by training, Thomas Molnar was born June 26, 1921, in Budapest and studied in France just before the Second World War, by the end of which he found himself interned in Dachau for anti-German activities. His first book, Bernanos: His Political Thought and Prophecy (1960), was a pioneering study of the work of the famous French Catholic novelist, who had moved from membership in the Action Française to writing on behalf of the French resistance. Taking his cue from Bernanos, Molnar would, like the novelist, go on to become a fiercely independent and contrarian writer, as well as a critic of modern political and economic systems that attempted to deny or transform man’s nature and his place in the cosmos. As Molnar would write of Teilhard de Chardin in perhaps his most wide-ranging book, Utopia: The Perennial Heresy (1967): “[Teilhard’s] public forgets . . . that man cannot step out of the human condition and that no ‘universal mind’ is now being manufactured simply because science has permitted the building of nuclear bombs, spaceships and electronic computers.” Throughout his career, Molnar would remain the enemy of such transformative philosophical endeavors—whether they came in the form of Soviet communism or Western technological hubris. In this respect, his critique of classical and modern “Gnosticism” mirrored the work of the philosophical historian Eric Voegelin.

Revolted by the communist conquest (and 1956 suppression) of his homeland, Molnar early found himself interested in twentieth-century counterrevolutionary movements such as the Action Française and the Spanish Falangists. He examined such movements in his penetrating study The Counter-Revolution (1969), pointing to the quality they shared with their counterparts on the Left: a loathing of the rise of the commercial class and its mores. Regardless of the important constituencies such movements might find in the middle class—Engels was a factory owner’s heir, Maurras got his funding from French manufacturers—Molnar concluded that the animating sentiment of each such movement was hostility to the “bourgeois spirit.”

Molnar’s study of these secular counterrevolutionary movements revealed their limitations and their participation in the modern spirit that aims to “manage” human nature by means of state or party in accord with an ideological plan. Molnar rediscovered his childhood Catholic faith in the early 1960s, and it would ever after serve as the lodestar guiding his political, cultural, and philosophical writings. Among his most important books are Twin Powers: Politics and the Sacred (1988) and The Church: Pilgrim of Centuries (1990), which examine the struggle between church and state in medieval and early-modern history—and this battle’s continuing implications for politics and ecclesiastical governance. Molnar identifies two destructive tendencies rooted in the medieval and early-modern periods whose implications only became obvious in the twentieth century: first, Erastianism, the subjection of spiritual authority to the power of the state or the preferences of civil society; and second, Puritanism, a claim by the state to spiritual power and redemptive purpose.

Molnar was one of the earliest writers and academics to associate himself with the Intercollegiate Society of Individualists (later Intercollegiate Studies Institute), joining its lecture program and frequently publishing in the Intercollegiate Review and Modern Age. His writing also appeared in dozens of other publications and in several European languages on topics ranging from classical history and French literature to foreign policy and modern philosophy. Molnar traveled to every inhabited continent and moved increasingly in his later years toward a global, world-historical (rather than particularly Western) view of events; he retained, however, a firmly Catholic faith that rendered him skeptical of secular undertakings, including the conservative movement. A personal friend of luminaries Russell Kirk and Wilhelm Röpke, Molnar was more pessimistic than either of those thinkers about the prospects of saving the essentials of Western civilization from the advancing effects of the “ideology of technology,” which promised with more apparent plausibility than did previous systems (such as Marx’s) to make man into a different animal, if not in fact a god. Molnar was the author of more than thirty books.

Further Reading
  • Molnar, Thomas. The Decline of the Intellectual. Cleveland: World, 1961.
  • ———. The Emerging Atlantic Culture. New Brunswick, N.J.: Transaction, 1994.
  • ———. The Pagan Temptation. Grand Rapids, Mich.: Eerdmans, 1988.

vendredi, 13 août 2010

Thomas Molnar (1921-2010)

Thomas Molnar (1921-2010)
 
Ex: Nieuwsbrief Deltastichting nr. 38 - Augustus 2010
 
De Hongaars-Amerikaanse politieke filosoof Thomas Molnar werd in 1921 geboren te Boedapest als Molnár Tamás. Hij liep school in de stad Nagyvárad, op de Hongaars-Roemeense grens, die werd ingenomen door Roemeense troepen in 1919. Het jaar nadien bepaalde het Verdrag van Trianon dat de stad, herdoopt als Oradea, zou toebehoren aan Roemenië. Begin jaren ‘40 verhuisde hij naar België om er in het Frans te studeren aan de Université Libre de Bruxelles (ULB). Tijdens de oorlog werd hij er als leider van de katholieke studentenbeweging door de Duitse bezetter geïnterneerd in het KZ Dachau. Na de oorlog keerde hij terug naar Boedapest en was er getuige van de geleidelijke machtsovername door de communisten. Daarop vertrok hij naar de Verenigde Staten, waar hij in 1950 aan de Universiteit van Columbia zijn doctoraat in filosofie en geschiedenis behaalde. Hij droeg vaak bij tot National Review, het in 1955 door William F. Buckley opgerichte conservatieve tijdschrift. Hij doceerde aan verscheidene universiteiten en na de val van het communistisch regime in Hongarije ook aan de Universiteit van Boedapest en de Katholieke Péter-Pázmány-Universiteit. Sinds 1995 was hij ook lid van Hongaarse Academie der Kunsten. Hij is de auteur van meer dan 40 boeken, zowel in het Engels als Frans, en publiceerde in tal van domeinen zoals politiek, religie en opvoeding.
 
Geïnspireerd door Russell Kirks ”The Conservative Mind” ontwikkelde Molnar zich tot een belangrijk denker van het paleoconservatisme, een stroming in het Amerikaanse conservatisme die het Europese erfgoed en traditie wil bewaren en zich afzet tegen het neoconservatisme. Paul Gottfried vermeldt terecht in zijn memoires (Encounters. My Life with Nixon, Marcuse, and Other Friends and Teachers. ISI Books, 2009) dat Molnar in verschillende van zijn geschriften zijn verachting voor de Amerikaanse maatschappij en politiek niet onder stoelen of banken steekt. Zo bespot hij de “boy scout” mentaliteit van Amerikaanse leiders , hun “Disney World”-opvattingen over de toekomst van de democratie en identificeert hij protestantse sektarische driften achter het Amerikaanse democratische geloof. Het Amerikaanse materialisme is volgens hem geëvolueerd van een ondeugd naar een wereldvisie. Het is dus niet toevallig dat Molnar vandaag wordt ‘vergeten’ door mainstream conservatieven aan beide zijden van de Atlantische Oceaan.
 
Molnar trad ook veelvuldig in debat met Europees nieuw rechts. Toen Armin Mohler zijn "Nominalistische Wende" uiteenzette, bediende Molnar hem van een universalistisch antwoord. Als katholiek intellectueel publiceerde Molnar in 1986 samen met Alain de Benoist “L’éclipse du sacré” waarin zij vanuit hun gemeenschappelijke bezorgdheid voor de Europese cultuur de secularisering van het Westen bespreken. “The Pagan Temptation”, dat het jaar nadien verscheen, was Molnars weerlegging van de Benoists “Comment peut-on etre païen?” Molnars eruditie en originaliteit blijken echter onverenigbaar met elk hokjesdenken en dat uitte zich onder meer  in het feit dat hij enderzijds lid was van het comité de patronage van Nouvelle Ecole, het tijdschrift van Alain de Benoist, en anderzijds ook voor de royalisten van de Action Française schreef.
 
Thomas Molnar stierf op 20 juli jongstleden, zes dagen voordat hij 90 zou worden, te Richmond, Virginia.
 
Meer informatie bij het Intercollegiate Studies Institute, waar men tal van artikels en lezingen van Thomas Molnar kan consulteren.
 

jeudi, 17 juin 2010

Christen als Freiwild

padovese.jpgChristen als Freiwild

Der EU ist die Lage der Christen in der Türkei gleichgültig

Von Andreas Mölzer

Ex: http://zurzeit.at/

Vergangene Woche wurde der Vorsitzende der türkischen Bischofskonferenz, der aus Italien stammende Erzbischof Luigi Padovese, brutal ermordet. Diese Untat als Einzelfall abzutun, wäre vollkommen verfehlt. So wurde beispielsweise 2006 ein katholischer Priester in der Stadt Trabzon an der Schwarzmeerküste auf offener Straße umgebracht, und ein Jahr später wurden in Mittelanatolien drei Mitglieder einer evangelikalen Freikirche Opfer eines grauenhaften Verbrechens. Anscheinend besteht in breiten Teilen der türkischen Bevölkerung ein Haß gegen Christen, der sich jederzeit in einem Mord entladen kann

Überhaupt müssen in der Türkei Christen ein Leben als Bürger zweiter Klasse führen. Die Religionsausübung in diesem nach außen hin laizistischen Staat wird ihnen so schwer wie möglich gemacht, das Priesterseminar der orthodoxen Kirche ist bereits seit Jahrzehnten geschlossen, und Kirchenbesitz wird – sofern er überhaupt noch vorhanden ist – von den türkischen Behörden mit fadenscheinigen juristischen Argumenten zu enteignen versucht.

Genauso skandalös wie die Diskriminierung der Christen ist freilich die Tatsache, daß die Europäische Union zu den Vorgängen in dem kleinasiatischen Land schweigt. Somit stellt sich die Frage, wieviele Christen noch ihr Leben lassen müssen, damit Brüssel endlich erkennt, daß die Türkei kein europäisches Land ist und es offenbar auch nicht sein will. Und ebenso stellt sich die Frage, warum die sogenannte EU-Wertegemeinschaft, die sich sonst so um die angebliche Diskriminierung von Moslems in Europa sorgt, die Beitrittsverhandlungen mit Ankara nicht schon längst abgebrochen hat.

Die Antwort ist einfach: Dem EU-Polit-Establishment ist das Schicksal der Anhänger Jesu Christi in der Türkei schlichtweg egal. Bekanntlich will die Europäische Union kein „Christenklub“ sein, und das geistige Fundament Europas, welches das christliche Abendland ist, soll durch einen aus Wirtschaftsinteressen und Gutmenschlichkeit bestehenden Unterbau ersetzt werden. In dieses Konzept paßt nur allzugut, daß die Türkei trotz ihrer kulturhistorischen Verankerung im Morgenland um jeden Preis in die EU aufgenommen werden soll. Daß Europa und seinen historisch gewachsenen Völkern damit ein denkbar schlechter Dienst erwiesen wird, liegt auf der Hand: Denn Europa soll seiner Identität, seiner Unverwechselbarkeit und Einzigartigkeit und damit auch seiner Zukunft beraubt werden.

00:20 Publié dans Actualité | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : turquie, catholicisme, proche-orient, méditerranée | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

samedi, 08 mai 2010

San Giorgio: Il Santo uccisor del Drago

Tableau_StGeorge.gifSan Giorgio: Il Santo uccisor del Drago

di Andrea Sciffo

Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]



Un tempo, dal 22 al 25 di aprile nelle terre della cristianità europea, si celebravano grandi feste in onore dei Santi Teodoro, Giorgio, Giorgino, Marco Evangelista: un inno di genti che salutavano l’arrivo del tempo, suddividendo nei trionfi in giorni consecutivi a uomini la cui storia (personale) si intreccia con il momento (cosmico) in cui la stagione della primavera veste il verde più bello e inneggia alla propria Sagra.
Giorgio è una figura talmente incarnata nelle tradizioni agiografiche dei primi secoli dopo Cristo, da dilatarsi ben oltre i confini che di lui abbiamo: un giovane, militare, convertito al cristianesimo e martire per la fede sotto le persecuzioni di Diocleziano. E l’uccisione del drago? E la liberazione della fanciulla?
Se si cercano le tracce di San Giorgio si deve entrare nella grotta dell’Europa premoderna, dalla Palestina alla Cappadocia, dalla Grecia alla Catalogna all’Inghilterra dei Re Crociati, ai Balcani, dove gli ortodossi vedevano in lui Giorgio-il-verde ricoperto di fogliame novello al tornare della bella stagione dell’anno: non c’è liturgia che non lo veneri, nelle innumerevoli chiese a lui dedicate, nelle centinaia di Croci sventolanti nei cieli del passati, rosse in campo bianco. Nella grotta del tempo faremmo incontri arcani, ma liberatorii, fin tanto che l’ossigeno a nostra disposizione ci permette la discesa nel profondo, là dove il buio splende (come nella lanterna di Novalis…). Feste di contadini, giovani mascherati di foglie, vescovi che battezzano antichi rituali pagani, mercati, fiere del bestiame e banchetti: c’è qualcosa che arriva perché deve arrivare, in questa sequenza di giorni verdeggianti. Chiamare Folklore tutto questo è un errore di prospettiva.
Basti dire che il luogo mitico del combattimento di San Giorgio contro il Drago è collocato, tra gli altri, a Lydda-Lod a nord ovest di Gerusalemme; e che per i musulmani Giorgio è riverito sotto le spoglie misteriose di Al-Khidr (con moschea a Beirut), mentre i Crociati nel 1098 giuravano di averlo visto redivivo scalare le mura dell’assedio e porre il vessillo di vittoria contro i nemici. Dal sud della Francia attraverso la Padania esiste poi una “fascia della croce di s.Giorgio” sino alla Slovenia, per cui il biancorosso delle insegne araldiche giorgiane fanno di lui un archetipo dell’animo europeo che volutamente ci si rifiuta di studiare e contemplare. Si scoprirebbero legami intimi e duplicità/molteplicità feconde, che l’impero malvagio di questa Postmodernità teme (giustamente, perché esse ne sancirebbero la fine!) il con terrore… Sono fuori strada anche quanti ritengono che qui si svela l’inimicizia tra evangelizzazione medievale (la Chiesa) e persistenze pagane (il Rito ancestrale).
Giorgio, Zorzo, Gorge o Georg, Jürgen, Yorick, Joris o Jörg, Jorge e Jordi, Jerzy e Juri, Girgis. La toponomastica è il suo trionfo occulto, perché è il suo nome a presiedere nazioni e regioni storiche, e persino il famoso Banco Genovese che anticipò la finanza “corporativa” prima del trionfo del capitalismo dell’usura moderna.
Nel libro di Oneto c’è quindi un piccolo manuale per combattere il Drago, rilegato in rosso porpora, un atlante per snidare i nemici della “vita della vita”, un arsenale in attesa, un disegno da restituire alla vista. E infatti tutti i maggiori pittori (Pisanello, Mantegna, Cosmé Tura, Paolo Uccello, Bellini, Memling, Dürer, Carpaccio, Raffaello, Giorgine, Cranach, Tintoretto, Paolo Veronese, Rubens, Gericault, Kandinsky, Dalì) hanno offerto personali interpretazioni visive della scena della lotta dei loro Giorgi contro il mutevole mostro, forse intuendo inconsciamente che la parola SANTI deriva dal Sanscrito, dove è la terza persona plurale del verbo “essere”, tempo presente, modo indicativo e dunque significa: “ESSI SONO”.

spunti da Gilberto Oneto Il Santo uccisor del Drago (Il Cerchio, 2009  pp.122 €16)

Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

mardi, 27 avril 2010

The Lesson of Carl Schmitt

cs1.jpgThe Lesson of Carl Schmitt

Translated by Greg Johnson

Ex: http://www.toqonline.com/

We met Carl Schmitt in the village of Plettenberg, the place of his birth and retirement. For four remarkable hours we conversed with the man who remains unquestionably the greatest political and legal thinker of our time. “We have been put out to pasture,” said Schmitt. “We are like domestic animals who enjoy the benefits of the closed field we are allotted. Space is conquered. The borders are fixed. There is nothing more to discover. It is the reign of the status quo . . .”

Schmitt always warned against this frozen order, which extends over the Earth and ruins political sovereignties. Already in 1928, in The Concept of the Political,[1] he detects in the universalist ideologies, those “of Rights, or Humanity, or Order, or Peace,” the project of transforming the planet into a kind of depoliticized economic aggregate which he compares to a “bus with its passengers” or a “building with its tenants.” And in this premonition of a world of the death of nations and cultures, the culprit is not Marxism but the liberal and commercial democracies. Thus Schmitt offers one of the most acute and perspicacious criticisms of liberalism, far more profound and original than the “anti-democrats” of the old reactionary right.

He also continues the “realist” manner of analyzing of politics and the state, in the tradition of Bodin, Hobbes, and Machiavelli. Equally removed from liberalism and modern totalitarian theories (Bolshevism and fascisms), the depth and the modernity of his views make him the most important contemporary political and constitutional legal theorist. This is why we can follow him, while of course trying to go beyond some of his analyses, as his French disciple Julien Freund, at the height of his powers, has already done.[2]

The intellectual journey of the Rhenish political theorist began with reflections on law and practical politics to which he devoted two works, in 1912 and 1914,[3] at the end of its academic studies in Strasbourg. After the war, having become a law professor at the universities of Berlin and Bonn, his thoughts were focused on political science. Schmitt, against the liberal philosophies of the Right, refused to separate it from politics.

His first work of political theory, Political Romanticism (1919),[4] is devoted to a critique of political romanticism which he opposes to realism. To Schmitt, the millennialist ideals of the revolutionary Communists and the völkisch reveries of the reactionaries seemed equally unsuitable to the government of the people. His second great theoretical work, Die Diktatur [Dictatorship] (1921),[5] constitutes, as Julien Freund writes, “one of the most complete and most relevant studies of this concept, whose history is analyzed from the Roman epoch up to Machiavelli and Marx.”[6]

Schmitt distinguishes “dictatorship” from oppressive “tyranny.” Dictatorship appears as a method of government intended to face emergencies. In the Roman tradition, the dictator’s function was to confront exceptional conditions. But Machiavelli introduces a different practice; he helps to envision “the modern State,” founded on rationalism, technology, and the powerful role of a complex executive: this executive no longer relies upon the sole sovereign.

Schmitt shows that with the French jurist Jean Bodin, dictatorship takes to the form of a “practice of the commissars” which arose in the sixteen and seventeenth centuries. The “commissars” are omnipotent delegates of the central power. Royal absolutism, established on its subordinates, like the Rousseauist model of the social contract which delegates absolute power to the holders of the “general will” set up by the French revolution, constitutes the foundation of contemporary forms of dictatorship.

From this point of view, modern dictatorship is not connected with any particular political ideology. Contrary to the analyses of today’s constitutionalists, especially Maurice Duverger, “democracy” is no more free of dictatorship than is any other form of state power. Democrats are simply deceiving themselves to think that they are immune to recourse to dictatorship and that they reconcile real executive power with pragmatism and the transactions of the parliamentary systems.

In a fundamental study on parliamentarism, The Crisis of Parliamentary Democracy (1923),[7] Schmitt ponders the identification of democracy and parliamentarism. To him, democracy seems to be an ideological and abstract principle that masks specific modalities of power, a position close to those of Vilfredo Pareto and Gaetano Mosca. The exercise of power in “democracy” is subject to a rationalist conception of the state which justified, for example, the idea of the separation of powers, the supposedly harmonious dialogue between parties, and ideological pluralism. It is also the rationality of history that founds the dictatorship of the proletariat. Against the democratic and parliamentarian currents, Schmitt places the “irrationalist” currents, particularly Georges Sorel and his theory of violence, as well as all non-Marxist critiques of bourgeois society, for example Max Weber.

This liberal bourgeois ideology deceives everyone by viewing all political activity according to the categories of ethics and economics. This illusion, moreover, is shared by liberal or Marxist socialist ideologies: the function of public power is no longer anything but economic and social. Spiritual, historical, and military values are no longer legitimate. Only the economy is moral, which makes it possible to validate commercial individualism and at the same time invoke humane ideals: the Bible and business. This moralization of politics not only destroys all true morals but transforms political unity into neutralized “society” where the sovereign function is no longer able to defend the people for whom it is responsible.

By contrast, Schmitt’s approach consists in analyzing the political phenomenon independently of all moral presuppositions. Like Machiavelli  and Hobbes, with whom he is often compared, Schmitt renounces appeals to the finer feelings and the soteriology of final ends. His philosophy is as opposed to the ideology of the Enlightenment  (Locke, Hume, Montesquieu, Rousseau, etc.) and the various Marxian socialisms as it is to Christian political humanism. For him, these ideologies are utopian in their wariness of power and tend to empty out the political by identifying it with evil, even if it is allowed temporarily—as in the case of Marxism.

But the essence of Schmitt’s critique relates to liberalism and humanism, which he accuses of deception and hypocrisy. These theories view the activity of public power as purely routine administration dedicated to realizing individual happiness and social harmony. They are premised on the ultimate disappearance of politics as such and the end of history. They wish to make collective life purely prosaic but manage only to create social jungles dominated by economic exploitation and incapable of mastering unforeseen circumstances.

Governments subject to this type of liberalism are always frustrated in their dreams of transforming politics into peaceful administration: other states, motivated by hostile intentions, or internal sources of political subversion, always emerge at unforeseen moments. When a state, through idealism or misunderstood moralism, no longer places its sovereign political will above all else, preferring instead economic rationality or the defense of abstracted ideals, it also gives up its independence and its survival.

Schmitt does not believe in the disappearance of the political. Any type of activity can take on a political dimension. The political is a fundamental concept of collective anthropology. As such, political activity can be described as substantial, essential, enduring through time. The state, on the other hand, enjoys only conditional authority, i.e., a contingent form of sovereignty. Thus the state can disappear or be depoliticized by being deprived of the political, but the political—as substantial—does not disappear.

The state cannot survive unless it maintains a political monopoly, i.e., the sole power to define the values and ideals for which the citizens will agree to give their lives or to legally kill their neighbors—the power to declare war. Otherwise partisans will assume political activity and try to constitute a new legitimacy. This risk particularly threatens the bureaucratic states of modern liberal social democracies in which civil war is prevented only by the enervating influence of consumer society.

These ideas are expressed in The Concept of the Political, Schmitt’s most fundamental work, first published in 1928, revised in 1932, and clarified in 1963 by its corollary Theory of the Partisan.[8] Political activity is defined there as the product of a polarization around a relation of hostility. One of the fundamental criteria of a political act is its ability to mobilize a population by designating its enemy, which can apply to a party as well as a state. To omit such a designation, particularly through idealism, is to renounce the political. Thus the task of a serious state is to prevent partisans from seizing the power to designate enemies within the community, and even the state itself.

Under no circumstances can politics be based on the administration of things or renounce its polemical dimension. All sovereignty, like all authority, is forced to designate an enemy in order to succeed in its projects; here Schmitt’s ideas meet the research of ethologists on innate human behavior, particularly Konrad Lorenz.

Because of his “classical” and Machiavellian conception of the political, Schmitt endured persecution and threats under the Nazis, for whom the political was on the contrary the designation of the “comrade” (Volksgenosse).

The Schmittian definition of the political enables us to understand that contemporary political debate is depoliticized and connected with electoral sideshows. What is really political is the value for which one is ready to sacrifice one’s life; it can quite well be one’s language or culture. Schmitt writes in this connection that “a system of social organization directed only towards the progress of civilization” does not have “a program, ideal, standard, or finality that can confer the right to dispose of the physical life of others.” Liberal society, founded on mass consumption, cannot require that one die or kill for it. It rests on an apolitical form of domination: “It is precisely when it remains apolitical,” Schmitt writes, “that a domination of men resting on an economic basis, by avoiding any political appearance and responsibility, proves to be a terrible imposture.”

Liberal economism and “pluralism” mask the negligence of the state, the domination of the commercial castes, and the destruction of nations anchored in a culture and a history. Along with Sorel, Schmitt pleads for a form of power that does not renounce its full exercise, that displays its political authority by the normal means that belong to it: power, constraint, and, in exceptional cases, violence. By ignoring these principles the Weimar Republic allowed the rise of Hitler; the techno-economic totalitarianism of modern capitalism also rests on the ideological rejection of the idea of state power; this totalitarianism is impossible to avoid because it is proclaimed humane and is also based on the double idea of social pluralism and individualism, which put the nations at the mercy of technocratic domination.

The Schmittian critique of internal pluralism as conceived by Montequieu, Locke, Laski, Cole, and the whole Anglo-Saxon liberal school, aims at defending the political unity of nations, which is the sole guarantor of civic protection and liberties. Internal pluralism leads to latent or open civil war, the fierce competition of economic interest groups and factions, and ultimately the reintroduction within society of the friend-enemy distinction which European states since Bodin and Hobbes had displaced outwards.

Such a system naturally appeals to the idea of “Humanity” to get rid of political unities.  “Humanity is not a political concept,” writes Schmitt, who adds:

The idea of Humanity in doctrines based on liberal and individualistic doctrines of natural Right is an ideal social construction of universal nature, encompassing all men on earth. . . . which will not be realized until any genuine possibility of combat is eliminated, making any grouping in terms of friends and enemies impossible. This universal society will no longer know nations. . . . The concept of Humanity is an ideological instrument particularly useful for imperialistic expansion, and in its ethical and humane form, it is specifically a vehicle of economic imperialism. . . . Such a sublime name entails certain consequences for one who carries it. Indeed, to speak in the name of Humanity, to invoke it, to monopolize it, displays a shocking pretense: to deny the humanity of the enemy, to declare him outside the law and outside of Humanity, and thus ultimately to push war to the extremes of inhumanity.[9]

To define politics in terms of the category of the enemy, to refuse humanitarian egalitarianism, does not necessarily lead to contempt for man or racism. Quite the contrary. To recognize the polemical dimension of human relations and man as “a dynamic and dangerous being,” guarantees respect for  any adversary conceived as the Other whose cause no less legitimate than one’s own.

This idea often recurs in Schmitt’s thought: modern ideologies that claim universal truth and consequently consider the enemy as absolute, as an “absolute non-value,” lead to genocide. They are, moreover, inspired by monotheism (and Schmitt is a Christian pacifist and convert). Schmitt claims with good reason that the conventional European conception that validated the existence of the enemy and admitted the legitimacy of war—not for the defense of a “just” cause but as eternally necessitated by human relations—caused fewer wars and induced respect for the enemy considered as adversary (as hostis and not inimicus).

Schmitt’s followers, extending and refining his thought, have with Rüdiger Altmann coined the concept of the Ernstfall (emergency case), which constitutes another fundamental criterion of the political. Political sovereignty and the credibility of a new political authority is based on the capacity to face and solve emergency cases. The dominant political ideologies, thoroughly steeped in hedonism and the desire for security, want to ignore the emergency, the blow of fate, the unforeseen. Politics worthy of the name—and this idea pulverizes the abstract ideological categories of “right” and “left”—is that which, secretly, answers the challenge of the emergency case, saves the community from unforeseen trials and tempests, and thereby authorizes the total mobilization of the people and an intensification of its values.

Liberal conceptions of politics see the Ernstfall merely as the exception and “legal normality” as the rule. This vision of things, inspired by Hegel’s teleological philosophy of history, corresponds to the domination of the bourgeoisie, who prefer safety to historical dynamism and the destiny of the people. On the contrary, according to Schmitt, the function of the sovereign is his capacity to decide the state of the exception, which by no means constitutes an anomaly but a permanent possibility. This aspect of Schmitt’s thought reflects his primarily French and Spanish inspirations (Bonald, Donoso Cortès, Bodin, Maistre, etc.) and makes it possible to locate him, along with Machiavelli, in the grand Latin tradition of political science.

In Legality and Legitimacy (1932),[10] Schmitt, as a disciple of Hobbes, suggests that legitimacy precedes the abstract concept of legality. A power is legitimate if it can protect the community in its care by force.  Schmitt accuses the idealistic and “juridical” conception of legality for authorizing Hitler to come to power. Legalism leads to the renunciation of power, which Schmitt calls the “politics of non-politics” (Politik des Unpolitischen), politics that does not live up to its responsibilities, that does not formulate a choice concerning the collective destiny. “He who does not have the power to protect anyone,” Schmitt writes in The Concept of the Political, “also does not have the right to require obedience. And conversely, he who seeks and accepts power does not have the right to refuse obedience.”

This dialectic of power and obedience is denied by social dualism, which arbitrarily opposes society and the sovereign function and imagines, contrary to all experience, that exploitation and domination are the political effects of “power” whereas they much more often arise from economic dependency.

Thus Schmitt elaborates a critique of the dualistic State of the nineteenth century based on the conceptions of John Locke and Montesquieu aiming at a separation between the sphere of the State and the private sphere. In fact, modern technocracies, historically resulting from the institutions of parliamentary representation, experience interpenetrations and oppositions between the private and public, as shown by Jürgen Habermas. Such a situation destabilizes the individual and weakens the State.

According to Schmitt, it is this weakness of the democracies that allowed the establishment of one party regimes, as he explains in Staat, Bewegung, Volk [State, Movement, People].[11] This type of regime constitutes the institutional revolution of the twentieth century; in fact, it is today the most widespread regime in the world. Only Western Europe and North America preserved the pluralist structure of traditional democracy, but merely as a fiction, since the true power is economic and technical.

The one party state tries to reconstitute the political unity of the nation, according to a threefold structure: the state proper includes civil servants and the army; the people are not a statistical population but an entity that is politicized and strongly organized in intermediate institutions; the party puts this ensemble in motion (Bewegung) and constitutes a portal of communication between the state and the people.

Schmitt, who returns again and again to Nazism, Stalinism, theocracies, and humanitarian totalitarianisms, obviously does not endorse the one party state. He does not advocate any specific “regime.” In the old Latin realist tradition inherited from Rome, Schmitt wants an executive who is both powerful and legitimate, who does not “ideologize” the enemy and can, in actual cases make use of force, who can make the state the “self-organization of society.”

War thus becomes a subject of political theory. Schmitt is interested in geopolitics as a natural extension of politics. For him, true politics, great politics, is foreign policy, which culminates in diplomacy. In The Nomos of the Earth (1951),[12] he shows that the state follows the European conception of politics since the sixteenth century. But Europe has become decadent: the bureaucratic state has been depoliticized and no longer allows the preservation of the history of the European people; the jus publicium europaeum which decided inter-state relations is declining in favor of globalist and pacifist ideologies that are incapable of founding an effective international law. The ideology of human rights and the vaunted humanitarianism of international institutions are paradoxically preparing a world where force comes before law. Conversely, a realistic conception of the relations between states, which allows and normalizes conflict, which recognizes the legitimacy of will to power, tends to civilize the relationship between nations.

Schmitt is, along with Mao Tse-Tung, the greatest modern theorist of revolutionary war and of the enigmatic figure of the partisan who, in this era of the depoliticization of states, assumes the responsibility of the political, “illegally” designates his enemies, and indeed blurs the distinction between war and peace.[13]

Such “a false pacifism” is part of a world where political authorities and independent sovereignties are erased by a world civilization more alienating than any tyranny. Schmitt, who influenced the constitution of the Fifth French Republic—the French constitution that is most intelligent, most political, and the least inspired by the idealism of the Enlightenment—gives us this message: liberty, humanity, peace are only chimeras leading to invisible oppressions. The only liberties that count—whether of nations or individuals—are those guaranteed by the legitimate force of a political authority that creates law and order.

Carl Schmitt does not define the values that mobilize the political and legitimate the designation of the enemy. These values must not be defined by ideologies—always abstract and gateways to totalitarianism—but by mythologies. In this sense, the functioning of government, the purely political, is not enough. It is necessary to add the “religious” dimension of the first function, as it is defined in Indo-European tripartition. It seems to us that this is the way one must complete Schmitt’s political theory. Because if Schmitt builds a bridge between anthropology and politics, one still needs to build another between politics and history.


[1] Carl Schmitt, The Concept of the Political, trans. George Schwab, expanded edition (Chicago: University of Chicago Press, 2007)—trans.

 

[2] Cf. Julien Freund, L’Essence du politique (Paris: Sirey, 1965), and La Fin de la Renaissance (Paris: PUF, 1980).

[3] Carl Schmitt, Gesetz und Urteil. Eine Untersuchung zum Problem der Rechtspraxis [Law and Judgment: An Investigation into the Problem of Legal Practice] [1912] (Munich: C. H. Beck, 1968) and Der Wert des Staates und die Bedeutung des Einzelnen [The Value of the State and the Meaning of the Individual] (Tübingen: J. C. B. Mohr [Paul Siebeck], 1914)—trans.

[4] Carl Schmitt, Political Romanticism, trans. Guy Oakes (Cambridge, Mass: The MIT Press, 1985).—trans.

[5] Carl Schmitt, Die Diktaur: Von den Anfängen des modernen Souveränitätsgedankens bis zum proletarischen Klassenkampf [The Dictator: From the Origins of Modern Theories of Sovereignty to Proletarian Class Struggle] (Berlin: Duncker & Humblot, 1921)—trans.

[6] In his Preface to the French edition of The Concept of the Political: Carl Schmitt, La notion de politique (Paris: Calmann-Lévy, 1972).

[7] Carl Schmitt, The Crisis of Parliamentary Democracy, trans. Ellen Kennedy (Cambridge, Mass.: The MIT Press, 1986). See also Carl Schmitt, Political Theology: Four Chapters on the Theory of Sovereignty [1922], trans. George Schwab (Cambridge, Mass.: The MIT Press, 1986)—trans.

[8] Carl Schmitt, Theory of the Partisan: Intermediate Commentary on the Concept of the Political, trans. G. L. Ulmen (New York: Telos Press, 2007)—trans.

[9] Cf. The Concept of the Political, 53–54—trans.

[10] Carl Schmitt, Legality and Legitimacy, trans. Jeffrey Seitzer (Durham, N.C.: Duke University Press, 2004)—trans.

[11] Staat, Bewegung, Volk: Die Dreigleiderung der politischen Einheit [State, Movement, People: The Three Organs of Political Unity] (Hamburg: Hanseatische Verlagsanstalt, 1934)—trans. It concerns a series of studies on one-party states, primarily Marxist, that appeared in 1932.

[12] Carl Schmitt, The Nomos of the Earth in the International Law of Jus Publicum Europaeum, trans. G. L. Ulmen (New York: Telos Press, 2006)—trans.

[13] Cf. “The Era of Neutralizations and Depoliticizations” [1929], trans. Matthias Konzett and John P. McCormick, in the expanded edition of The Concept of the Political—trans.

lundi, 05 avril 2010

Der Begriff des Politischen aus der Idee des Volkes bei Carl Schmitt

Der Begriff des Politischen aus der Idee des Volkes bei Carl Schmitt

Ex: http://www.eiwatz.de/


cs1.jpgWintergrau liegt auf der Heimat. Eisig fegen frostige Stürme über kahle Felder, darüber ziehen Krähenschwärme hin. Am Horizont versinkt ein matter Sonnenball ins Grau das über die Welt gekommen ist mit dem Fall der letzten Blätter - von ferne kündet Trommelschlag: SCHWERTZEIT bricht an!



Die westliche Welt erwachte vor kurzem aus ihrem selbstgefällig gepflegten Konsumtraum einer befriedeten Zivilisation. Im Herzen des globalen Traumes vom weltweiten Amerika fielen symbolträchtige Bauten in Asche. Amerika kann auf diese Provokation nicht anders als mit Krieg reagieren, da seine Vormachtstellung in der Welt in Frage gestellt wurde. Es herrscht Krieg – doch wo steht der Feind? Dies ist eine Frage, die man speziell in Deutschland sich abgewöhnen wollte zu stellen. Wir sind doch alles friedliebende Menschen! Und nun sollen deutsche Soldaten in einem amerikanischen Welt-Bereinigungskrieg mitmarschieren? Warum scheint die Regierung keine andere Wahl zu haben, nach dem Nato – „Bündnisfall“? Ist Deutschland nicht souverän? Ist denn der amerikanische Feind wirklich auch unserer? Warum konnten wir den dämmernden Konflikt der Kulturen nicht früher erkennen und beherbergten und beherbergen möglicherweise immer noch Terroristen? Wer ist UNSER Feind? Wo stehen wir – in der Schwertzeit?



Alle diese Fragen haben wir uns in den vergangenen Wochen sicher oft gestellt und sind dabei zu unterschiedlichen Antworten gekommen. Der folgende Text möchte dieser Antwortsuche nachgehen und gleichzeitig den Weg Carl Schmitts (1888 – 1985) aufzeigen. Er war ein konservativer Staatsrechtler - befreundet mit Ernst Jünger, bekannt mit Julius Evola und doch wie viele konservative Revolutionäre – der Versuchung der Macht im Nationalsozialismus erlegen. Ebenso wie andere (Jünger, Benn) ging Schmitt nachdem er im nationalsozialistischen Staat seine Ideale nicht ausreichend verwirklicht sah in die innere Emigration. Im folgenden soll sein Hauptwerk „Der Begriff des Politischen“ vorgestellt werden. In diesem 1932 geschriebenen Buch zeigt sich seine klare Sicht auf die Dinge, an der wir unsere heutige Lage: die Lage unserer Heimat im Kulturkampf zwischen Amerikanismus, Islam und europäischer Selbstbehauptung messen müssen.



Die Herleitung von Bedeutung und Wirkungsweise des Begriffes des Politischen bei Carl Schmitt soll mit einem Zeitzeugnis – nämlich der Rezeption einer früheren Version des Aufsatzes durch Ernst Jünger eingeleitet werden.



„Der Rang eines Geistes wird heute durch sein Verhältnis zur Rüstung bestimmt. Ihnen ist eine besondere kriegstechnische Erfindung gelungen: eine Mine, die lautlos explodiert. Man sieht wie durch Zauberei die Trümmer zusammensinken; und die Zerstörung ist bereits geschehen, ehe sie ruchbar wird.“ (1)



Welcher Art ist diese „lautlose Mine“ die Schmitt erfunden hat und was sinkt dadurch in Trümmer? Eine kurze historische Einordnung des Aufsatzes scheint für ein besseres Verständnis erforderlich zu sein. Der „Begriff des Politischen“ entsteht unter den Nachwehen eines verlorenen Krieges und dem so empfundenen Diktat des Versailler Vertrages. Der Parlamentarismus der Weimarer Republik konnte keine dauerhafte Stabilisierung der innen- und außenpolitischen Lage Deutschlands vermitteln. Wechselnde demokratische Regierungen haben bürgerkriegsähnliche Zustände im Reich (Feldherrenhalle, Kapp-Putsch u.ä.) mit Mühe niederhalten können und die Außenpolitik Deutschlands reibt sich, zwischen der innenpolitischen Forderungen nach dem Ende der Reparationsleistungen an die Siegermächte und dem staatlichen Bestreben nach Rückkehr in die Gemeinschaft westlicher Demokratien (Völkerbund), auf. Die Weltwirtschaftskrise schließlich verstärkt die subjektive Unerträglichkeit der politischen Lage für Deutschland zusätzlich. In diesem Klima gedeiht die Konservative Revolution – eine Denkströmung zu der sowohl Ernst Jünger als auch Carl Schmitt gerechnet werden. Als gemeinsamer Nenner jener Strömung kann ihr Charakter als Antithese zu den Ideen von 1789 konstatiert werden.(2) In plakativ - antipodischen Begriffspaaren zusammengestellt liest sich eine solche konservative „Weltanschauung“ ungefähr so: Verpflichtung des Einzelnen vor der Freiheit; Hierarchie vor Gleichheit; Volkstreue vor (internationaler) Brüderlichkeit. Schmitt´s lautlose Mine ist seine klare Formulierung der Forderung „zurück zum starken Staat“ und ihrer Begründung, die eine krisengeschüttelte pazifistisch - liberalistische Gedankenwelt zum Einsturz bringt.

Welche Argumente die konservative Revolution gegen Liberalismus und Demokratie ins Feld führt und aus welchen Quellen sich diese Argumente speisen soll im Folgenden aus Schmitt´s Begriff des Politischen herausgearbeitet werden.



Wichtigstes Grundwerkzeug zur Problemanalyse ist für Schmitt die klare, dichotome Begriffsverwendung in Gegensatzpaaren. Besonders prägnant wird dies bei der weiter unten vorzustellenden Freund-Feind Unterscheidung, jedoch ist dieses Vorgehen durch das gesamte Werk erkennbar. Im Vorwort von 1963 leitet Schmitt seinen Politikbegriff vom griechischen polis, der Regierung eines Stadtstaates - her. Dabei handelte es sich um eine Schutz und Sicherungsfunktion nach innen für die Polis – also gewissermaßen um eine Polizeifunktion. Darüber hinaus kam noch eine weitere Aufgabe der Politik zu, nämlich zur Außenpolitik gewendet, Entscheidungsträger über Krieg und Frieden mit anderen (Stadt-)Staaten zu sein.

Für Carl Schmitt stellt somit ein nach innen geschlossener und befriedeter – nach außen souveräner Staat das klassische Staatsziel dar. Souverän ist dabei wer, im Ernstfall – d.h. dem Fall einer Kriegserklärung – entscheidet.



Was aber konstituiert einen Staat? Nach Carl Schmitt setzt der Begriff des Staates den Begriff des Politischen voraus.(3) Eine Definition des Staatsbegriffes läßt sich nur durch eine solche des Politischen erreichen. Beschreiben läßt sich „Staat“ allenfalls als „besonders gearteter Zustand eines Volkes“(4) – nämlich der im Ernstfall entscheidende. Dies führt zurück zum Souveränitätsbegriff, es kann also formuliert werden: Ein Volk befindet sich dann im Zustand (Status) des Staates wenn es souverän, im Ernstfall (Kriegseintritt!), entscheiden kann.



Es deutet sich hier bereits die hohe Bedeutung des Ernstfall - Begriffes für Schmitt an. Der Staat ist Inhaber des legalen Machtmonopols – er kann als alleinige Institution von seinen Bürgern verlangen entgegen ihrem individuellen Selbsterhaltungstrieb für seinen Erhalt ihr Leben zu geben. Als Gegenleistung zu diesem ihm zugebilligten Gewaltmonopol schützt der Staat durch Recht und Polizei die Sicherheit und Ordnung im Innern. Das Paradigma von Schutz und Gehorsam gilt also für die Beziehung zwischen Staat und Bürger als Binnenverhältnis.



Wie aber konstituiert sich das Politische? Wichtig erscheint es festzustellen, daß Schmitt anstatt „Politik“ den etwas umständlicheren Begriff des „Politischen“ gebraucht. Es ist zu unterstellen, daß er seinen Begriff dadurch zum einen gegen den moralisch diskreditierten Politikbegriff seiner Zeit abzugrenzen sucht, aber auch etwas der Politik vorgelagertes, nämlich das Feld des Politischen als Entscheidungsspielraum für (Partei)politik, beschreiben möchte.



Schmitt kritisiert die allgemein unklare Definitionslage für den Begriff des Politischen. Häufig wird er über den staatlichen Machtbegriff hergeleitet was in so fern nicht zulässig ist, als sich Staat und Macht nach Schmitt erst aus dem Vorhandensein des Politischen ergeben.(5)



Ein Begriff des Politischen ist nach Schmitt nur aus einer klaren Definition des Feldes der Politik, wie er es im Gebiet der Erkennung von Freund und Feind sieht, herzuleiten.

Wie das Feld der Moral durch eine dualistische Einteilung in gut und böse letztlich den Moralbegriff definiert (die Unterscheidung dessen was gut und was böse ist = Moral), so wie die Ästhetik sich als Unterscheidung von schön und häßlich definieren läßt, so ist Politik auf das Erkennen von Freund und Feind zurückzuführen und dadurch definiert.



Schmitt verwahrt sich gegen eine zwingende Gleichsetzung der Freund - Feindunterscheidung mit den zur Illustration zitierten anders gelagerten Gebieten (Ästhetik, Moral). Der Feind ist immer bloß politischer Feind – also nicht zugleich „das Häßliche“ und „das Böse“ an sich.

Hinter der Frage: Wie erkennt man den Feind? Verbirgt sich streng genommen die Frage: Wer kann den Fein erkennen? Für Schmitt ist letztlich das V o l k Träger der Feinderkennung. Ein Feind ist hierbei das fremde Subjekt mit einem Konfliktpotential das nicht durch Verträge zu regeln ist. Die am Konflikt Beteiligten (Völker) erkennen, wann das jeweils Fremde ihre eigene Seinsweise bedroht und der Kriegsfall eintritt. Damit ist das Politische als Erkennung von Freund und Feind durch das Volk umschrieben und definiert. Weiterhin läßt sich der Krieg als Fortsetzung der Politik unter Beihilfe anderer Mittel – die sich aus dem Gewaltmonopol des Staates ergeben – verstehen. Hierin folgt Schmitt dem deutschen General Clausewitz, dessen Werk „Vom Kriege“ er auch in anderen eigenen Schriften als Grundlegung seines Begriffshorizontes im Zusammenhang mit zwischenstaatlichen Auseinandersetzungen zitiert.



Wenn auch der Staat als Träger eines Volkswillens legitimiert ist, bleiben dennoch offene Fragen: Wie definiert sich in diesem Zusammenhang das „Volk“? Was kann die Seinsweise eines Volkes bedrohen? Gibt es auch „innere Feinde“ des Volkes?



Die Problematik des Volksbegriffes wird von Schmitt im „Begriff des Politischen“ nicht diskutiert sondern das Volk als monolithisches Willensträgergebilde als vorausgesetzt angenommen. Da Volkszugehörigkeit in Deutschland über Blutsverwandtschaft konstituiert ist könnte also eine Bedrohung der Seinsweise des deutschen Volkes nur über Genozidabsichten oder Aufweichung der Blutsverwandtschaft von „innen her“ geschehen.



Wie manifestiert sich das Politische nun im Staat und in welchen Relationen stehen beide Begriffe zueinander? Prinzipiell erkennt Schmitt zwei unterschiedliche Zuordnungsweisen von Staat und Politischem.

Der Staat ist dann mit dem Politischen identisch, wenn er gegenüber nichtpolitischen Gruppen (Assoziationen der Gesellschaft) das Monopol am Politischen, also der Freund –Feinddefinition, hat. Der Staat ist dann nicht mehr mit dem Politischen identisch, wenn Staat und Gesellschaft sich durchdringen und nicht - staatliche Kräfte sich das Politische aneignen. In der Demokratie sieht Schmitt diese Differenz zwischen Staat und Politischem unter anderem dadurch gegeben, daß an sich politisch „neutrale“ Gebiete wie Religion, Wirtschaft und Bildung zunehmend politisiert werden – und daher Gegenstand einer eigenen Kirchenpolitik, Wirtschafts- und Bildungspolitik werden müssen. Dieser Prozess wurde dadurch in Gang gesetzt, daß gesellschaftliche Gruppen dem Staat gegenüber Definitionsmacht über das nach Schmitt „feindliche“ erhielten, indem sie selbst für den Bestand des nach innen befriedeten Staates problematisch wurden. Eine Sozialpolitik war so zum Beispiel für den Staat nicht notwendig, solange die Sozialen Problemlagen nicht in Interessengemeinschaften massiv für die innere Sicherheit bedrohlich wurden. In Folge dieser Entwicklungen (beispielsweise der Reaktionen des Kaiserreiches unter Bismarck auf die Sozialisten mit „Zuckerbrot und Peitsche“ die den Aufbau von Gewerkschaft und Arbeiterparteien doch nicht verhinderten) kam es zu einer zunehmenden Vermischung der Aufgabenverteilung zwischen Staat und Gesellschaft. Die Zunehmende Emanzipation der gesellschaftlichen Gruppen und die Verteilung von Staatsaufgaben und Entscheidungsmacht von oben nach unten entpolitisierten den Staat. Die Freund - Feinderkennung war nicht mehr ohne weiteres möglich. Das beruht zum einen darauf, daß der Feind nicht mehr als solcher bezeichnet werden darf, was Schmitt dem Liberalismus zuschreibt der Feinde zu „Diskussionsgegnern“ verharmlost – zum anderen ist dies sicher auch auf eine Wandlung des Volkes zurückzuführen, dessen postulierte monolithische Beschaffenheit und Fähigkeit zur Feinderkenntnis durch vielfältige Binnendifferenzierung in Interessengemeinschaften verloren geht. Das Politische verliert damit seine Manifestationsmöglichkeit (den klar definierten Staat), sein Subjekt (das Volk) und seinen Gegenstand (den Feind).



Als Ursache für diese Entwicklung gibt Schmitt wie oben erwähnt den Liberalismus als Ergebnis der 1789er französischen Revolution an, womit übrigens ein Brückenschlag zur konservativen Revolution in Deutschland gelungen ist.



Welche Folgen aber hat nach Carl Schmitt die Aufweichung des Politischen in der liberalen Demokratie?

Im wesentlichen führt ein Weniger an Staat und ein Mehr an Demokratie zum Verlust von Weitsicht auf das Tatsächliche.



Wenn innenpolitische Gegensätze das Staatsganze mehr definieren als außenpolitische Gemeinsamkeiten der Bürger so ist ein Bürgerkrieg wahrscheinlicher als ein Völkerkrieg. Diese Lähmung des Staates macht ihn gewissermaßen blind für eine Bedrohung von außen. Dabei verliert der Staat zusätzlich an Souveränität. Wir erinnern uns, dass Souverän ist, wer im Ernstfall entscheidet. Wenn Gewerkschaften zum Beispiel so erstarken, daß sie durch Generalstreik den Kriegseintritt eines Staates verhindern könnten, dann wäre nicht mehr der Staat souverän sondern jene Gewerkschaften. Die Entwicklung zum Pluralismus degradiert den Staat zu einer Assoziation der Gesellschaft unter vielen anderen. Als aktuelles Beispiel sei an den Konflikt im „Wohlfahrtsstaat“ BRD erinnert, der zwar einerseits die soziale Mindestabsicherung aller Bürger garantieren soll, aber andererseits keinen Kriegsdienst für alle fordern kann. Dadurch wird aber nicht nur seine politische Entscheidungsfähigkeit verringert, sondern das Politische „pluralistisch“ auf viele untereinander wiederstreitende Interessenträger verteilt. Das Ganze, der Staat als Status eines Volkes in einem Territorium, wird dadurch geschwächt und angreifbar. Das Volk verzichtet nach Schmitt in einer solchen Situation auf seine politische Existenz: es kann und will keinen Feind mehr erkennen.



Wo sieht Schmitt einen Lösungsansatz?

Es ist dies bereits aus dem Eingangszitat von Ernst Jünger angesprochen worden: Der Rang des Geistes wird (in jener Zeit, in diesen Kreisen) aus seiner Einstellung zur Rüstung ermittelt. Rüstung zum Kriege als formende Kraft für das Politische. Man kann mit Schmitt die Hypothese aufstellen: Wenn das Volk einen Feind erkennen würde der seine Seinsweise bedroht erwüchse daraus das Politische, welches den Staat aus allen demokratischen und liberalen Aufweichungen seiner Macht erstarken läßt. Tatsächliche Phänomene der Kriegsbegeisterung 1914 (Kaiser Wilhelm: „Ich kenne keine Parteien mehr, ich kenne nur noch Deutsche“) sind manifest.

Was Schmitt als Ausweg aus der Gefährdung von Staat und damit Volk sieht, ist der Krieg nicht aus rein moralischen, religiösen oder ökonomischen Gründen, sondern ein Krieg gegen den „echten“ Feind des Volkes.(6)



Ein Blick auf die größere Bühne: In welchem geistesgeschichtlichen Horizont stehen die Schmitt´schen Begriffe von Staat und Politik?

Der Staat ist in seinem Denken dem Individuum ganz deutlich vorgeordnet. Erst im Staat wird ein Volk souverän, erst durch den Staat ist der Einzelne in Sicherheit und Ordnung aufgehoben. Nur der Staat kann vom Einzelnen alles verlagen – nämlich seinen Tod. Diese Staatsidee verdient es aber vom Einzelnen nur dann verteidigt zu werden, wenn er sich sicher sein kann, daß ein geschlossener Volkswille sie trägt. Dann erst handelt der Einzelne auch in seinem eigenen Interesse, wenn er dem Volke dient.



Woher nimmt aber der Staat die Legitimation seiner Macht? Oft findet man bei Schmitt die Idee eines streng hierarchisch gegliederten Herrschaftsmodells. Vorbilder finden sich dafür im Katholizismus und dem mittelalterlichen traditionalen Kaiserreich. Man kann übrigens noch weiter zurückgehen und darin Elemente der traditionalen Ausrichtung der Menschen auf einen Pol hin (Schmitt kritisiert die pluralistische Staatstheorie dafür, daß sie kein „Zentrum“ habe) erkennen. Die Idee einer allgemeinen solaren- bzw. polaren Urreligion die Regierungsform und Ordnung der indoeuropäischen Völker gestiftet und bestimmt hätte findet sich u.a. bei Julius Evola, einem italienischen „Religionsphilosophen“ und Grenzwissenschaftler, mit dem Carl Schmitt zwar erst 1937 persönlichen Kontakt hatte(7), der aber bereits vor seinem 1934 erschienenen Buch „Rivolta Contro Il Mondo Moderno“(Revolte gegen die moderne Welt) ähnliche Argumentationslinien verfolgt und im Katholizismus nur noch einen schwachen Wiederhall älterer hyperboreisch - atlantischer Geist - Königtümer erkennt. Im Rahmen dieses Essays kann auf diese Hintergründe jedoch nicht im erforderlichen Umfang eingegangen werden.



Abschließend sei nochmals auf die Rolle des Volksbegriffes bei Schmitt hingewiesen sowie die Bedrohung der „Seinsweise“ eines Volkes. Beide sind einem organisch - mythischen Verständnis verpflichtet. Das deutsche Volk als organische Einheit ist heute aber nicht mehr ohne weiteres erkennbar. Die Tatsache, daß über Krieg und Frieden heute in einer Weise abgestimmt wird, die nicht mit der wirklichen Mehrheitsmeinung (Volkswillen!) übereinstimmt, zeigt wie wenig souverän (unabhängig) der deutsche Staat heute ist. Warum ist das so?



Der faktische Partikularismus der Einzel- und Gruppeninteressen, letztlich die moderne Parteiverdrossenheit und zunehmende Verlagerung innergesellschaftlicher Konflikte von Auseinandersetzungen zwischen Interessengruppen zu Verhandlungen Einzelner vor den Gerichten entsolidarisiert das Volk: keiner vertraut mehr dem anderen. Der zunehmende Neoliberalismus marginalisiert den Staat tatsächlich im Sinne Schmitts zum Fürsorger der sozial Schwachen, zum Dienstleister, zum Handlanger wirtschaftlicher Verbände und demontiert damit seine Macht und sein Ansehen bei jenen, die von seinen Leistungen noch profitieren. Seine Eingebundenheit in vielfältige internationale Verpflichtungen und Organisationen (NATO, EU, WTO usw.) nehmen ihm Souveränität. Damit wandelt sich der starke Staat im Zeitalter der Globalisierung unter Abgabe von Entscheidungsmacht zu einem durch Rechtsnormen steuernden Akteur auf einer zunehmend unübersichtlicheren Bühne des Dramas der Gesellschaft. Die Souveränität verteilt sich heute auf mehr und auf andere Schultern als dies Schmitt vor Augen hatten. Dennoch verschwinden weder sie noch das Politische aus der Welt. Die Proteste der Anti - Globalisierungsbewegung und die Anschläge des islamistischen Terrors deuten an, wohin sich die Grenzen der Erkenntnis von Freund und Feind heute verschoben haben.



Zusammenfassend lässt sich feststellen, daß ohne eine ideelle Wiedergeburt des Volkes aus seinen besten Kräften keine Souveränität und damit kein echter Staat mehr möglich sein wird. Wir scheinen unserem Schicksal, das von fragwürdigen Akteuren auf einer unübersichtlichen Bühne internationaler Verbindungen inszeniert wird, solange ausgeliefert zu sein, wie wir nicht jenen Volksgedanken in uns zum Volkswillen nach außen wenden. In der aktuellen Lage können wir uns ins Glied einreihen und Amerika im Ausland verteidigen – wir können aber auch das Schwert für die Existenz unseres Volkes aufnehmen und standhaft bleiben – in der Schwertzeit.


:RG:




lundi, 29 mars 2010

Warum Carl Schmitt lesen?

Götz KUBITSCHEK:

Warum Carl Schmitt lesen?

Ex: http://www.sezession.de/

schmitt_carl.jpgSeit der Frühjahrsprospekt meines Verlags versandt ist, hat ein rundes Dutzend Leser angerufen, um zu erfragen, wieso ich gerade die Bücher Carl Schmitts in den Versand aufgenommen habe und warum ich ihn derzeit wieder intensiv lese. Meine Antwort:

+ Schmitt zu lesen ist wie Bach zu hören: Beiläufig, schlagartig, nachhaltig stellt sich Klarheit in der eigenen Gedankenführung ein. Ich nahm mir vorgestern Die geistesgeschichtliche Lage des heutigen Parlamentarismus vor und las vor allem die Vorbemerkung zur 2. Auflage von 1926 sehr langsam und genau: Schmitts Unterscheidung von „Demokratie“ und „Parlamentarismus“, seine Herleitung der für eine Demokratie zwingend notwendigen Homogenität der Stimmberechtigten, seine Dekonstruktion Rousseaus – das alles löst den Nebel auf, durch den wir auf unsere heutige Situation blicken.
Dabei ist es von Vorteil, daß Schmitt kein reiner Staatsrechtler war, sondern ebenso Kulturkritiker wie Geschichtsphilosoph. Helmut Quaritsch schreibt in seiner Studie über die
Positionen und Begriffe Carl Schmitts: „Die heutige Politikwissenschaft würde diese Schrift wohl gern für sich reklamieren, wenn ihr der Inhalt mehr behagte.“

+ Man muß Schmitt aus der geistigen Situation seiner Zeit verstehen und man versteht seine Zeit, wenn man ihn liest: Ohne die Erfahrung der Auflösung staatlicher Ordnung und des Zustands des Souveränitätsverlustes nach dem Ersten Weltkrieg kann man Schmitts Ordnungsdenken und seine Verteidigung einer starken staatlichen Führung nicht würdigen. Die Lektüre seiner frühen Texte etwa über „Wesen und Werden des faschistischen Staates“ oder „Staatsethik und pluralistischer Staat“ sind lehrreich und wiederum klärend. Bestens geeignet dafür ist der Sammelband Positionen und Begriffe, in dem 36 Aufsätze aus den Jahren 1923-1939 versammelt sind, unter anderem auch der schwerwiegende „Der Führer schützt das Recht“ oder „Großraum gegen Universalismus“.

+ Vielleicht greift man jetzt, da die katholische Kirche wieder einmal in aller Munde ist, auch einmal zu Schmitts kleiner und feiner Studie Römischer Katholizismus und politische Form. Daraus ein Wort?

Die fundamentale These, auf welche sich alle Lehren einer konsequent anarchistischen Staats- und Gesellschaftsphilosophie zurückführen lassen, nämlich der Gegensatz des „von Natur bösen“ und des „von Natur guten“ Menschen, diese für die politische Theorie entscheidende Frage, ist im Tridentinischen Dogma keineswegs mit einem einfachen Ja oder Nein beantwortet; vielmehr spricht das Dogma zum Unterschied von der protestantischen Lehre einer völligen Korruption des natürlichen Menschen nur von einer Verwundung, Schwächung oder Trübung der menschlichen Natur und läßt dadurch in der Anwendung manche Abstufung und Anpassung zu.

Ich stimme dem Leser zu, der mir gestern schrieb: „Schmitt lesen, das ist in hohem Maße elektrisierend, selbst oder gerade dann, wenn man nicht alles versteht.“ So ist es.

Oder irren wir uns?

lundi, 08 mars 2010

Amor, milagro, excepcion: la Rosa mistica en Dante y Schmitt

Amor, milagro, excepción: La Rosa mística en Dante y Schmitt

Giovanni B. Krähe - Ex: http://geviert.wordpress.com/

Advenimiento como ordo ordinans: Amor como accidente in sustanzia

rose-hiver.jpgLa Vita nuova (1292-1293) de Dante  es el canto que prepara a la  recta lectura de la Divina commedia. El lector atento sabe que el ejercicio necesario para la compresión del Amor dantesco en términos impersonales y político-religiosos, depende del soneto de la Vita nuova. Se trata, en este breve libro, de la compresión del dogma del Milagro como evento del Automaton (la casualidad), como la realización del evento excepcional  en el accidente. En Dante el Automaton es la inmediatez ineluctable y subitánea del advenimiento en su Ahora perpetuo bajo la forma del saluto. Il saluto (saludo) irrumpe en el tiempo (lo crea más precisamente) para imponer su Salud: Beatrice (1). Se trata, en otras palabras, del advenimiento de un nuevo orden bajo la forma del acontecimiento fortuito: se trata del orden necesario de lo excepcional (genitivo subjetivo). El advenimiento necesario de lo excepcional como (nuevo) orden es  un problema que Carl Schmitt en su politische Theologie resuelve invirtiendo radicalmente el principio de lo accidental en Aristóteles (Schmitt, PT: 21). En efecto, Schmitt y Dante saben que el Automaton era considerado por los antiguos como un principio extrínseco que afecta a los entes. La causa era un principio necesario, por lo tanto, intrínseco. En vez de observar una regularidad procesual aparente en los acontecimientos y luego una irregularidad en tal proceso como eventual excepción, Dante y Schmitt observan más bien la realización en el evento de la analogía entre necesidad y casualidad. Se podría hablar de un isomorfismo, de un único principio en acto que irrumpe en la Physis y que se refleja tanto en la forma de los entes (la belleza por ejemplo), como en todo lo que le toca y le tocará vivir al ente como posibilidad. Frente a tal irrupción indeterminada, el ser humano tiene únicamente dos posibilidades, dos polos donde puede expresar su capacidad de deliberación y vivirla como libertad prescrita: imitar la irrupción paraclética del Automaton en la Physis como rito (mímesis religiosa) o enfrentarse a ella con su Techne. Se reflexione cómo los antiguos y la sociedades tradicionales logran colectivamente un equilibrio entre estos dos polos. En efecto, las virtudes antiguas – con excepción de las teologales, es decir, la caridad, la esperanza, la fe – son principios de equilibrio entre Automaton y Techne, o modernamente expresado, entre contingencia y técnica. Para Dante y Schmitt toda la teleología aristótelica, como la finalidad del ente, se realiza completamente en el momento constitutivo e inicial de su orden como advenimiento: un orden que se reproduce  una y otra vez en su Ahora (Jeweiligkeit) como acontecimiento, determinando una identidad que se realiza intrínsecamente una y otra vez (jeweils) entre la esencia del ente y lo que esta manifiesta  como tiempo y forma. Dicha relación intrínseca es (west) la identidad del ente (2).

En Dante, más evidente que en Schmitt sin duda, toda la finalidad del acontecer del ente se realiza completamente en un advenimiento sutil, al parecer inocuo: il saluto, el saludo de Beatrice. Se podría afirmar que en Dante lo excepcional muestra además un aspecto de carácter salvífico completamente indeterminado, no por esto menos ineluctable: es, en efecto, el encuentro completamente fortuito con Beatrice lo que permite la visión de la Salud (Dante, Vita nuova: 3). Si consideramos, entonces, esta inversión de Aristóteles a partir de ambos autores, debemos concluir rectamente que cualquier acontecimiento exterior, no sólo aquello que no se da como regular-procesual, debe ser considerado como excepcional. No se trata de una inversión meramente lógica. No todo acontecimiento adviene (!) en su finalidad última completamente, como no todo acontecer es salvífico o logramos notar la Salud que nos muestra y ofrece (3). Es precisamente esta (aparente) “latencia” en el telos del ente como tiempo lo que determina toda su posibilidad y toda su necesidad ya escrita. Para poder comprender esto, necesitamos introducir, además del Automaton, un ulterior principio extrínseco al ente, que define precisamente la irrupción de lo excepcional como posible momento salvífico o como completo fracaso: la Tyche (fortuna). Con estos dos principios podemos notar que el tiempo del ente (genitivo subjetivo) es tiempo dramático, es drama permanente. En Dante y Schmitt, la excepción, lo excepcional, se convierten en la regla porque “lo excepcional se explica a sí mismo y explica lo general… lo excepcional piensa lo general con enérgica pasión” (Schmitt citando a Kierkegaard, PT: 21).

Del advenimiento al acontecimiento: el acontecimiento como ordo ordinatur

A diferencia de Dante, Schmitt concentra su interés en la compresión de un aspecto específico del advenimiento, es decir, el acontecimiento en su irrupción dada en el tiempo. Es la comprensión de la mencionada latencia télica como ordo ordinatur, como orden constituido que crea el tiempo de los hombres (el Estado por ejemplo). Se trata de la compresión del orden constituido que (se) realiza kathechontisch (“kathechonticamente”) una y otra vez, (en) su finalidad. Este orden constituido se realiza en el ámbito (Be-Reich) completamente contingente y paraclético de lo excepcional: se trata de la permanencia, conservación y realización del destino del ente en el ámbito (Reich) del mencionado Automaton. Es el mismo ámbito contingente desde donde surge, victorioso o derrotado, el enemigo, “nuestra única forma” dirá Schmitt. Para Schmitt (y los Románticos), aquello que denominamos corrientemente “naturaleza” o ambiente “externo” (Um-welt) es comprendido en los términos de abismo (Ab-grund), o más modernamente como contingencia. El término Um-Welt, (ambiente), es todo aquello indeterminado que rodea (um) el mundo (Welt) (4). La metafísica dantesca nos muestra, en cambio, el otro lado especular del mismo evento: nos enseña el acontecimiento como advenimiento, es decir nos muestra la inversión schmittiana de Aristóteles sin ninguna mediación temporal, ni procesual, ni final en su sentido moderno: nos muestra todo el acahecer de un único evento puntualmente como accidente amoroso in sustanzia (Dante, Vita Nuova, XXV). El soneto dantesco nos permite, entonces, comprender el mismo evento que Schmitt estudia, pero como el advenimiento que crea el tiempo, que crea su tiempo: como ordo ordinans, como orden constituyente. Es pues legítimo indagar próximamente el nexo entre Dante y Schmitt como el nexo analógico entre Amor (evento), milagro (advenimiento) y excepción (acontecimiento). En este Orden, el Amor es la gnosis (política y religiosa) que le es propia a la relación entre milagro y excepción: la Rosa mística.

Notas

(1) En la simbología dantesca il saluto, (el saludo) mantiene la misma raíz etimológica con el saludo beato o bienaventurado, la Salute (Salud).

(2) No es casual que Heidegger use el sustantivo alemán Wesen (esencia) como verbo: es decir, wesen. Tal vez “existente” sea su traducción más apropiada en castellano, es decir, como participio presente, no como su sustantivación: lo existente. Se haga el ejercicio de declinar el verbo heideggeriano wesen rectamente  y se comprenderá inmediatamente a Heidegger, sin necesidad de mucho manierismo hermenéutico postmoderno á la Gianni Vattimo.

(3) Algo que impone necesariamente una gnoseología (barroca) que remplace completamente el mirar por el admirar (El reflejo).

(4) se haga el ejercicio de redefinir completamente ( o interpretar rectamente), bajo esta definición de Umwelt, el término Lebenswelt.

mercredi, 27 janvier 2010

Saint Chesterton, riez pour nous !

Saint Chesterton, riez pour nous !

Dieu : la preuve par l’Absurde

Ex: http://www.causeur.fr

g-k-chesterton

Puisque la mode est aux béatifications, j’en ai une bien bonne à vous raconter ! En plus, celle-là n’a guère été médiatisée, et pour cause : Gilbert K. Chesterton n’a pas été pape de 1939 à 1945. Primo, la place était prise ; deuxio les papes anglais, ça se fait plutôt rare ces deux mille dernières années ; et puis de toute façon, l’intéressé était mort depuis trois ans.
Accessoirement, la cause de béatification de Gilbert n’en est qu’à ses tout débuts. C’est seulement l’été passé que le Chesterton Institute a eu l’idée de l’introduire auprès du Vatican, à l’issue d’un colloque judicieusement intitulé  “The Holiness of Gilbert K. Chesterton“.
La nouvelle fut annoncée au monde ébahi le 14 juillet dernier par Paolo Giulisano, auteur de la première biographie en italien de mon écrivain ultra-mancien préféré1.

Il y raconte comment Pie XI avait réagi à l’annonce du décès de Chesterton (par la plume de son secrétaire d’Etat Eugenio Pacelli, encore lui !) Bref le pape Ratti déplorait, dans son message de condoléances, la perte de ce “fils fervent de la Sainte Eglise, brillant défenseur des bienfaits de la foi catholique.”

C’était seulement la deuxième fois dans l’Histoire qu’un pontife décernait ce titre, jadis prestigieux, de “défenseur de la foi” à un Anglais. Et encore, rappelle malicieusement Giulisano, la première fois ce ne fut pas un succès : ça concernait Henry VIII, peu avant qu’il n’invente sa propre Eglise pour des raisons de convenance personnelle2.

Le chemin de Chesterton fut exactement inverse : élevé dans le protestantisme pur porc, marié à une “high anglican“, il n’a cessé de se rapprocher du catholicisme jusqu’à s’y convertir.
Dès ses jeunes années de journaliste, Gilbert s’exerça à dézinguer tour à tour les penseurs organiques de la société anglicano-victorienne : Kipling, Wells, G.-B. Shaw et leur “monde rapetissé”.
En 1901, il publie ses chroniques dans un recueil aimablement intitulé Hérétiques. Pourtant, il ne sortira lui-même officiellement de cette hérésie dominante, en se faisant baptiser, qu’à 40 ans passés… Le temps sans doute de peser la gravité d’une telle apostasie, et surtout de ménager son épouse – qui le suivra un an plus tard dans cette conversion. Happy end !

Dans l’intervalle, il avait quand même publié Orthodoxie, son Génie du christianisme à lui, en moins chiant quand même. Ce Credo iconoclaste, si l’on ose dire, fut sa réponse à une question mille fois entendue, genre : “C’est bien beau de tout critiquer, mais tu proposes quoi, petit con ?” (Gilbert avait 27 ans à la parution d’Hérétiques.) Une réponse en forme de pamphlet prophétique et drôle qui à coup sûr, un siècle plus tard, a moins vieilli que l’avant-dernier Onfray.
Je ne saurais trop recommander la lecture de ce chef-d’œuvre d’humour et d’amour – y compris à ceux d’entre vous qui n’ont “ni Dieu ni Diable”, comme disait ma grand-mère3. Après tout, les amateurs de films de vampires ne croient pas tous à l’existence de ces fantômes suceurs de sang…

Je reviendrai volontiers, à l’occasion, sur l’apologétique chestertonienne, pour peu qu’Elisabeth Lévy m’en prie… Mais pour aborder le bonhomme, dont toute l’œuvre n’a d’autre but que de mettre l’esprit au service de l’Esprit, il semble plus raisonnable de commencer par le “e” minuscule. Surtout sur un site comme Causeur – laïc et gratuit, faute hélas d’être obligatoire.

Journaliste, essayiste et romancier, “confesseur de la Foi” et auteur de polars, Chesterton fut d’abord, dans toutes ces entreprises, un incomparable théoricien mais aussi praticien du Rire (contrairement à l’ami Bergson, qui rit quand il se brûle4).
Ainsi, dans Le Défenseur5, publié la même année qu’Hérétiques, consacre-t-il un chapitre à la “Défense du nonsense”. Est-ce à dire que sa foi relève elle-même du nonsense ?

La réponse est oui à toutes les questions ! Ce punk, figurez-vous, n’hésite pas à justifier un paradoxe par un jeu de mots. Le fou, le vrai, nous dit-il, ce n’est pas comme dans le dico l’homme qui a perdu la raison ; c’est “celui qui a tout perdu sauf la raison”.
Le nonsense au sens de l’oncle Gilbert, c’est le contraire de la folie : une des façons les plus sensées, pour nous autres pauvres créatures – peut-être même pas créées ! – d’assumer notre condition. Et d’abord notre incapacité naturelle à “comprendre” l’Univers qui nous inclut. Il ferait beau voir, n’est ce pas, qu’un contenu explique son contenant !
Mais Chesterton ne plaisante pas avec le nonsense. N’allez pas, par exemple, lui parler de Lewis Carroll ! Son Alice au Pays des Merveilles relève tout juste de l’ ”exercice mathématique”. Loin d’abjurer la foi en la déesse Raison, il en intègre tous les principes. Ses fantaisies millimétrées ne sont pas un moyen d’évasion : juste la cour de la prison !

Le vrai nonsense selon G.K., il faut aller le chercher chez Edward Lear (1812-1888), passé d’extrême justesse à la postérité grâce à ses Nonsense poems6. Pourtant, au temps de Chesterton déjà, ce ouf malade était bien démodé, quand “Alice” avait commencé de s’imposer comme la Bible du nonsense.
Eh bien, Gilbert s’en fout : la différence irréductible, explique-t-il, c’est que les limericks de Lear ne riment littéralement à rien – même si leur versification, elle, a la rigueur métronomique d’une nursery rhyme. Et si l’ensemble donne une idée de l’Absolu, c’est qu’il n’est relatif à rien de particulier : ouvert comme un Oulipo en plein air.

Bien sûr la lettre en est inaccessible, et plus encore au lecteur non anglophone. Reste l’esprit, qui n’en est que plus libre.
Un exemple ? Mais bien volontiers : à la demande générale, laissez-moi “traduire” les premiers vers de Cold are the crabs, un des plus beaux poèmes du roi Lear 7. Ça m’a pris plus d’une heure pour un quatrain, alors doucement les basses ! De toute façon, je ne risque rien : personne n’a jamais pu faire le job convenablement, même Google !

Faute de “sens” conventionnel, que traduire exactement ? Rien. A sa façon, le learisme est un darwinisme : adapt or die ! Voici donc mon adaptation de Cold are the crabs8 (on considérera comme muets, par licence poétique, les “e” qui figurent entre parenthèses) :
“Froids sont les crab(e)s qui rampent sur nos monts,
Et plus froids les concombr(e)s qui poussent tout au fond ;
Mais plus froides encor(e) les menteries cyniques
Qui emballent nos trist(e)s pilules philosophiques.”

Comment ça, je ne suis pas fidèle au texte ? Mais qui êtes-vous pour parler de contre-sens dans l’adaptation d’un nonsense ? Bien sûr, là où j’écris “menteries cyniques”, Google préfère traduire littéralement “côtelettes d’airain”. Du coup ça vous prend une consonance surréaliste, et ça perd tout sens.

Or, pour notre ami Gilbert, le vrai nonsense a un sens, et c’est précisément que le sens de la vie nous est caché ! On ne peut y accéder qu’en passant par le “Royaume des Elfes”.

Pas les délires formatés à la Lewis Carroll ; plutôt les rêveries inspirées à la C.S. Lewis… Je sais : Chesterton n’a connu que l’un des deux, et moi aucun. Mais à ce compte-là, qu’est ce qu’on fait de vous ?

En tout cas, ça serait con de se brouiller maintenant, surtout sans raison. Alors j’en ai trouvé une excellente : pinailler jusqu’au bout sur le sens du nonsense.
Deux erreurs de perspective, plutôt courantes ces derniers siècles, consistent d’un même mouvement à naturaliser le surnaturel et à surnaturaliser le naturel. Grâce au nonsense, prêche le père Gilbert, sortons enfin de ce cercle vicieux !
Admettons-le une fois pour toutes en souriant : quelque chose ici-bas nous dépasse ! “Et si les plus vieilles étoiles n’étaient que les étincelles d’un feu de joie allumé par un enfant ?”


Les enquêtes du Père Brown
Gilbert Keith Chesterton
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  1. Et encore, il la partage avec l’excellent Hilaire Belloc (”Chesterton & Belloc : Apologia e Profezia”, Ed. Ancora).
  2. Du temps de son “Adversus Lutherum”, qui fait toujours autorité.
  3. Maternelle. L’autre était athée.
  4. Et encore, au deuxième degré !
  5. Un des noms de Dieu dans la Bible.
  6. Que Chesterton et son pote Hilaire ont même tenté d’imiter ; mais on ne peut pas être doué pour tout, n’est ce pas ? Moi-même, etc.
  7. D’après moi.
  8. Cold are the crabs that crawl on yonder hills,
    Colder the cucumbers that grow beneath,
    And colder still the brazen chops that wreathe
    The tedious gloom of philosophic pills
    !

mardi, 22 décembre 2009

Le monothéisme comme système de pouvoir en Amérique latine

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1999

 

 

Le monothéisme comme système de pouvoir en Amérique latine

 

 

Jacques-Olivier MARTIN

 

Considéré comme le bastion traditionnel du catholicisme, l'Amérique latine est actuellement l'enjeu de luttes d'influence entre différents groupes religieux chrétiens dont le prosélytisme atteint son paroxysme. Vivement encouragés par les dirigeants politiques du continent, le développement des sectes protestantes permet d'assurer le contrôle politique de populations misérables qui constituent le terreau des guérillas anti-américaines et dont quelques prêtres catholiques, adeptes de la Théologie de la Libération ont pris la défense. Particulièrement visés par cette stratégie, les Indiens constituent en effet une menace pour le système car ils associent revendications sociales et défense de leur identité culturelle et religieuse. D'où l'intéret d'une religion associant individualisme, universalisme et soumission à I'ordre établi, valeurs par excellence d'une société soumise à I'hégémonie américaine.

 

Un continent soumis depuis cinq siècles à l'hégémonie européenne, puis américaine

 

Avec l'accession à l'indépendance des anciennes colonies de la couronne d'Espagne, l'Amérique latine connaît tout le contraire d'un processus d'émancipation durant le XIXième siècle. Ses élites politiques, essentiellement espagnoles, ne parviennent pas à contrer les plans de l'Angleterre qui impose le morcellement de l'empire en une kyrielle de petits États. C'est ainsi qu'ils font échouer, en 1839, le projet de Grande-Colombie initié par Simon Bolivar, et font exploser les Provinces-Unies d'Amérique centrale en plusieurs petits États de taille ridicule. Conformément à sa logique de thalassocratie, l'Angleterre empêche ainsi la constitution de toute puissance continentale qui pourrait contester les règles commerciales et financières qu'elle impose facilement à de petits États clients.

 

Les États-Unis, malgré la politique de solidarité panaméricaine annoncée par la doctrine de Monroe datant de 1823, se méfient aussi de l'émergence d'une puissance ibéro-américaine. La création du micro-Etat panaméen en 1903 est la mise en application la plus éloquente de ce principe, les Américains fomentant une révolte contre la Colombie pour obtenir la sécession du Panama, afin de se faire concéder la souveraineté sur le canal par un régime panaméen faible et soumis à l'Oncle Sam.

 

L'éclatement de l'Amérique latine en une vingtaine d'États ouvre pour le continent une ère de chaos et d'anarchie entretenue par les grandes puissances. Des conflits meurtriers opposent ainsi de jeunes nations; tels que la guerre du Pacifique des années 1880, entre le Pérou et la Bolivie d'une part, et le Chili d'autre part. Les dépôts de nitrate du désert d'Atacama suscitaient en effet la convoitise des trois États mais les capitalistes européens ont soutenu financièrement le Chili, vainqueur du conflit, car le gouvernement péruvien avait appliqué une politique spoliatrice à leur égard. La stratégie américaine du Big Stick  (gros bâton) et de la diplomatie du dollar vient concurrencer les Européens, surtout vers la fin du XIXième siècle, lorsque les Etats-Unis chassent les Espagnols de Porto-Rico et de Cuba, îles dans lesquelles ils avaient investi dans les plantations de canne à sucre. En 1901, l'amendement Platt voté par le Sénat transforme Cuba en un protectorat de fait, Haïti et Saint-Domingue subissant le même sort en 1916 et en 1923. Quant à la diplomatie du dollar, elle s'applique aux États plus solides ou plus éloignés de la sphère d'influence américaine.

 

Le sous-développement endémique dont a toujours souffert l'Amérique latine s'explique donc en partie par sa dépendance politique. La composition ethnique des États de la région, héritage de la colonisation espagnole, ne fait qu'aggraver le phénomène car, face à une masse indigène, noire ou métisse, une élite créole affiche un sentiment de supériorité sociale et ne montre guère d'intérêt pour le développement économique. Lorsqu'une mine est exploitée à l'aide de capitaux et d'ingénieurs européens, il est fréquent que la ligne de chemin de fer qui achemine le minerai destiné à l'exportation vers le port ne soit même pas connectée à la ville la plus proche.

 

Eralio%20Gill%20et%20Nicolarapa.jpgLa Révolution mexicaine de 1912 est sans doute la première réaction notable à cette situation de pillage du pays par les capitalistes étrangers et leurs collaborateurs locaux. Le Mexique était en effet dépossédé de ses champs pétrolifères dont la concession était accordée aux compagnies anglo-saxonnes; tandis que lrs terres se concentraient entre les mains de quelques familles au détriment des communautés indiennes. Cette Révolution est l'aboutissement d'un mouvement pour l'émancipation des Indiens et contre le capital étranger, s'accompagnant de la lutte contre le clergé catholique qui est considéré comme le meilleur allié du régime. Le rôle de ce dernier a été déterminant dans les conflits qui ont ponctué l'histoire de l'Amérique latine, surtout au XXième siècle, période de remous et de mutations pour l'Église catholique.

 

L'Église catholique dans la tourmente révolutionnaire.

 

Les sociétés latino-américaines ont longtemps été dominées par la trilogie Evêque-Général-Propriétaire terrien. Cette alliance du sabre et du goupillon est conforme à la définition de la religion, certes restrictive  —mais particulièrement pertinente lorsque l'on analyse le rôle de l'Église catholique sur ce continent—  du sociologue français Pierre Bourdieu. Selon lui, le religieux se caractérise par sa fonction de conservation et de légitimation de l'ordre social. Si les diverses religions polythéistes traditionnelles encore pratiquées à travers le monde ont rarement pour objectif de conquérir et d'influencer le pouvoir, les monothéismes chrétien et musulman ne font quant à eux pas preuve de la même faiblesse, s'appuyant largement sur les régimes politiques en place, quelle que soit leur nature.

 

Le Vatican joue d'ailleurs un rôle direct dans la politique latino-américaine, tel le nonce apostolique négociant la reddition de Noriega à Panama ou le cardinal de Managua qui œuvre à la recomposition politique d'une opposition au gouvernement sandiniste. Si l'Église a constitué la première force d'opposition au régime du général Pinochet, la majorité de la hiérarchie catholique conservatrice du Brésil contribue à la chute du président J. Goulard en 1964 et à l'instauration du gouvernement militaire. En organisant «une marche avec Dieu pour la famille et la liberté»,en mars 1964, avec le financement de la CIA et du patronat, elle assène un coup décisif au régime civil. Son but est en effet de mettre un terme aux réformes sociales entamées par le régime, assimilées à une évolution vers le communisme et soutenues par la minorité réformiste du clergé s'inspirant de Dom Helder Camara.

 

L'Église est aussi au centre des conflits qui ensanglantent l'Amérique centrale depuis des années, où elle torpille le projet réformiste du président Arbenz au Guatemala. Au nom de l'anti-communisme, le Congrès eucharistique réunit 200.000 personnes en 1951dans une croisade pour la «défense de la propriété». Par la suite, le cardinal Casariego restera muet sur les atrocités commises par les juntes au pouvoir à partir de 1954. Quant à la famille Somoza, elle a bénéficié aussi du soutien de l'Église nicaraguéenne, l'archevêque de Managua sacrant, en 1942, la fille du dictateur reine de l'armée avec la couronne de la Vierge de Candelaria.

 

La Théologie de la libération rompt avec l'attitude traditionnelle de l'Église catholique.

 

Le changement d'attitude de l'Église date de la fin des années cinquante, à la suite du choc causé par la révolution cubaine de 1958. Bien avant la convocation du Concile Vatican II, le pape Jean XVIII manifeste en effet la volonté que l'épiscopat latino-américain sorte de son inertie et s'adapte aux réalités du continent, soulignant l'urgence d'une réforme des structures sociales. Selon lui, l'Église doit retrouver l'appui des masses en adoptant un discours différent de celui de l'acceptation des rapports sociaux, idée développée lors du congrès de Medellin de 1968.

 

Le Concile Vatican II développe ainsi plusieurs thèmes devant réconcilier le peuple et son Église, qui doit désormais se considérer comme le «peuple de Dieu». Le rôle du laïc est revalorisé afin de rendre plus active la parti­ci­pa­tion de tous les fidèles aux célébrations liturgiques et à l'enseignement du catéchisme. Les paroisses sont décentralisées pour que des «commu­nautés de base» s'auto-organisent dans le monde rural et dans les bidon­villes. L'intérêt que présentent ces communautés est double: d'une part elles intègrent dans les chants et les rituels certains éléments de la reli­gio­si­té populaire, d'autre part elles sont le lieu où les populations pau­vres dis­cu­tent des problèmes quotidiens avec des animateurs.

 

En Amérique centrale, ces théologiens de la libération sont même à l'origine du développement de plusieurs mouvements révolutionnaires, effectuant un travail de conscientisation des masses et brisant le tabou de l'incompatibilité entre chrétiens et marxistes. Che Guevara est le symbole de cette pensée christo-marxiste qui reconnaît le droit à l'insurrection. En outre, le “Che” fait figure de martyr dans les églises populaires. En disant que la révolution latino-américaine serait invincible quand les chrétiens deviendraient d'authentiques révolutionnaires, il prouvait que ce basculement idéologique de l'Église risquait de déstabiliser des régimes politiques privés de réels soutiens populaires.

 

Au Nicaragua, où les communautés de base diffusent la propagande du front sandiniste, le Père Ernesto Cardenal est converti par les Cubains aux thèses révolutionnaires et prône l'idée que le royaume de Dieu est de ce monde. Les chrétiens seront d'ailleurs représentés dans le gouvernement san­diniste dans lequel ils auront quatre ministres. Au Guatemala, la jeunes­se d'action catholique rurale se rapproche des communautés paysannes in­diennes en révolte dans les années soixante, l'accentuation de la ré­pres­sion militaire contribuant à ce phénomène.

 

C'est au Salvador que la solidarité entre les guérilleros et les chrétiens progressistes est la plus frappante, ces derniers étant plus nombreux que les marxistes dans le mouvement de guérilla. Le réseau des centres de for­ma­tion chrétienne mobilise les paysans salvadoriens, combinant évan­gé­li­sa­tion, alphabétisation, enseignement agricole et éveil socio-politique. Le par­cours de Mgr Romero, l'archevêque de San Salvador constitue presque l'ar­chétype de cette prise de conscience politique de certains hommes d'É­glise. L'élection au siège archiépiscopal de cet évêque conservateur proche de l'Opus Dei avait enchanté les dirigeants du pays, le Vatican l'ayant choisi pour faire contrepoids à son prédécesseur, Mgr Chavez, qualifié d'«ar­che­vê­que rouge». Mais, suite à l'un des nombreux assassinats de prêtres par les militaires survenu en 1977, il rejoint les rangs des révolutionnaires avant de se faire à son tour assassiné. Étant devenu le martyr de la révolution sal­va­dorienne, il est l'un des symboles d'un phénomène qui inquiète de plus en plus le Vatican.

 

La mise à pieds des chrétiens progressistes par Jean-Paul II

 

folklore.jpgLa Théologie de la libération, impulsée par des intellectuels occidentaux et par des prêtres latino-américains venus étudier dans les universités euro­péen­nes, a donc trouvé dans les réalités socio-politiques du continent le ter­reau favorable à son expansion. Dès le début des années 80, Jean-Paul II, pa­pe farouchement anticommuniste, tente cependant de juguler ce mou­ve­ment. En 1984, une “instruction sur quelques aspects de la Théologie de la li­bération” fait le point sur ce phénomène en évitant de le condamner en bloc mais en critiquant certaines de ses dérives. Dans ce document, le car­di­nal Ratzinger, préfet de la congrégation de la foi met en garde contre le ris­que de perversion de l'inspiration évangélique par la philosophie mar­xiste.

 

Par peur de se couper définitivement d'un mouvement dont il espère toujours récupérer les bénéfices, il ne condamne pas ouvertement les prêtres progressistes mais il adresse des critiques régulièrement à ceux qui confondent christianisme et marxisme. C'est ainsi qu'il avait demandé, sans succès, de se retirer aux quatre prêtres membres du gouvernement sandiniste. De même, il entretenait des relations difficiles avec Mgr Romero à qui il reprochait son zèle excessif dans l'action sociale, demandant quand même au président Carter de cesser son aide à une armée salvadorienne “qui ne sait faire qu'une chose: réprimer le peuple et servir les intérêts de l'oligarchie salvadorienne”. Au Nicaragua, alors qu'il célèbre une messe à Managua en 1983, il fait une prière pour les prisonniers du régime mais passe sous silence les crimes des contras.

 

Dans son “instruction sur la liberté chrétienne et la libération” en 1986, le cardinal Ratzinger ne renie pas la préférence de l'Eglise pour les pauvres, le discours du Vatican tentant en fait de s'approprier la théologie de la li­bé­ra­tion mais en aseptisant le discours de ses aspects les plus révolution­nai­res. La seconde stratégie adoptée par Jean-Paul II consiste à nommer systé­matiquement des évêques conservateurs de l'Opus Dei à la tête des diocèses progressistes. En Equateur, il a ainsi contenu l'influence grandis­sante d'une partie du clergé catholique qui militait en faveur de la cause indigène, incarné depuis les années 50 par Mgr Leonidas Proano, sur­nom­mé l'“évêque des Indiens”.

 

Le catholicisme latino-américain subit la concurrence croissante des sectes protestante.

 

L'engagement d'une partie du clergé en faveur des guérillas d'Amérique centrale ou de ceux qui luttent contre les latifundistes en faveur des paysans sans terres au Brésil a généré de nouvelles formes de religiosité convenant mieux aux intérêts des régimes pro-américains de la région. Il s'agit essentiellement d'églises relevant du pentecôtisme (assemblée de Dieu, Eglise de Dieu, de l'Evangile complet, Prince de la paix) ou de diverses variétés du néo-pentecôtisme (Eglise Elim, du Verbe, Club 700 de Pat Robertson ou club PTL). Ces mouvements reçoivent donc une aide importante de leur nation d'origine, les Etats-Unis, où ils sont dirigés par les anticommunistes les plus fanatiques formant l'aile droite du parti républicain.

 

On comprend dès lors pourquoi les oligarchies et les militaires ont favorisé ces sectes protestantes dont l'influence grandit sans cesse auprès des couches populaires les plus misérables. Leur message va dans le sens d'un désengagement vis-à-vis de la sphère publique en prônant une interprétation individualiste du christianisme, centré sur le perfectionnement de l'individu. Comme les protestants européens, ils assèchent la religion qui se réduit à un simple moralisme, fondé sur l'honnêteté, le refus de l'alcoolisme. Ce désintérêt pour le salut collectif se double d'une action efficace menée en direction des populations déshéritées à qui les protestants prodiguent des aides grâce à l'argent venu des Etats-Unis. Le soutien apporté aux victimes du tremblement de terre qui a frappé le Guatemala en 1976 s'est accompagné d'une vaste campagne de conversion, Jerry Faldwell et Pat Robertson venant évangéliser les foules dans les stades de football. La même année, l'Alliance évangélique se range du côté d'un régime qui a massacré entre 100.000 et 200.000 Indiens en prônant le respect des autorités. En 1982, c'est un chrétien conservateur de l'Eglise du Verbe, le général Rios Montt, qui accède au pouvoir à la suite d'un coup d'Etat. Avec lui, répression et massacres d'Indiens s'accentuent tandis que des hameaux stratégiques poussent comme des champignons. Bâtis sur le modèle des villages stratégiques de la guerre du Viet Nam, ces hameaux ont pour but de déstructurer les communautés indiennes afin de détruire les bases de la guérilla. Les Etats-Unis jouent un rôle actif en fournissant capitaux et experts à l'armée guatémaltèque.

 

Au Salvador, les militaires se servent également des évangélistes pour donner un contenu idéologique à leur action contre-révolutionnaire. Ces sectes protestantes font aussi une percée dans des pays où règne la paix. Au Brésil, ils ont supplanté les adeptes de la Théologie de la libération. Leur succès auprès des pauvres est immense car on estime qu'ils représentent près de 14% des électeurs contre seulement 2% pour les prêtres progressistes. En 1994, ils contribuent à la défaite électorale du candidat de gauche, Lula, qui est assimilé au diable. En constituant un groupe parlementaire évangélique, ils sont ainsi en mesure de négocier des aides pour leur église.

 

Un christianisme de plus en plus négateur de l'identité indienne

 

Les églises protestantes mènent aussi une politique d'éradication du «paganisme» indien avec lequel les catholiques avaient dû composer. Ce syncrétisme indien-chrétien est visible dans toutes les manifestations de la vie religieuse et dans les lieux de culte, telle l'église du village de Mixtèque s'appelant «maison du soleil» et les saints étant appelés les dieux, alors que seul le mot espagnol désigne Dieu. Les rites et les offrandes pratiqués sont d'ailleurs souvent à mi-chemin entre le sacrifice et la prière chrétienne.

 

Chez les Afro-Brésiliens, le catholicisme s'est transformé en une religion magique faite de croyance en des êtres surnaturels, de communication avec les âmes des défunts. Un rôle important est donné à l'interférence des saints dans la vie terrestre, le Dieu ne revêtant pas l'image du Père dominateur et puissant habituel.

 

Les catholiques, qui s'érigent en défenseurs des Indiens, poursuivent aussi leur vieille stratégie d'acculturation, obligeant ainsi les Amazoniens récemment convertis à adopter un mode de vie sédentaire, prélude à leur prolétarisation. Le mythe de Bartolomé de las Casas, fondateur de la pensée indigéniste, illustre l'ambiguité de ce rôle de protecteur, car, selon lui, il n'existait ni Espagnols ni Indiens, mais un seul populus christianus.  La défense des Indiens se limitait donc au domaine social mais se gardait bien d'aborder le problème de l'identité.

 

Le monothéisme latino-américain a donc été le complément indispensable à la domination socio-politique des Indiens dont la renaissance ne pourra se réaliser que par un retour aux sources de leur religion, ce que les révolutionnaires marxistes n'ont jamais compris.

 

Jacques-Olivier MARTIN.