jeudi, 12 mai 2011
O Barao "Sangrento" von Ungern-Sternberg - Louco ou Mistico?
O Barão "Sangrento" von Ungern-Sternberg - Louco ou Místico?
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mardi, 05 avril 2011
Das europäisch-indische Freihandelsabkommen
Das europäisch-indische Freihandelsabkommen
Kavaljit Singh
Seit 2007 verhandeln Indien und die Europäische Union (EU) bereits über ein Freihandelsabkommen (FHA), das die Bereiche Handel von Gütern und Dienstleistungen, Investitionen, geistiges Eigentumsrecht und das Beschaffungswesen der öffentlichen Hand umfassen soll – aber die Verhandlungen haben mit zahlreichen Problemen zu kämpfen. Bisher fanden schon zehn Verhandlungsrunden statt. Das Abkommen soll Mitte 2011 unterschriftsreif sein.
00:23 Publié dans Actualité, Affaires européennes, Economie | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : inde, europe, affaires européennes, asie, affaires asiatiques, économie, libre-échange, eurasisme, eurasie, bric, actualité, politique internationale | | del.icio.us | | Digg | Facebook
lundi, 07 mars 2011
Romania: ponte eurasiatico o sentinella occidentale?
“Romania: ponte eurasiatico o sentinella occidentale?”
Intervista a C. Mutti
Ex: http://www.eurasia-rivista.org/
Il nostro redattore Claudio Mutti è stato intervistato da Luca Bistolfi di “EaST Journal” a proposito della Romania, del suo ruolo storico in Europa e in Eurasia e delle sue miserie attuali. L’intervista originale, pubblicata con un titolo redazione da “EaST Journal”, si trova qui [1]. La riproduciamo di seguito.
***
La Romania, negli ultimi centocinquant’anni, ha attraversato momenti decisivi, incompresi e mal studiati. Uno dei pochissimi, in Italia, ad avere una visione ampia e completa della storia romena è Claudio Mutti, scrittore, editore, profondo conoscitore della storia, e molte altre cose. Lo abbiamo intercettato e gli abbiamo posto alcune domande per diradare la fitta nebbia che attorno a quella che Vasile Lovinescu chiamava la Dacia Iperborea, si è addensata come una maschera necessariamente imposta.
Che cosa è cambiato in Romania dopo gli avvenimenti di metà Ottocento? Come giudica quei passaggi fondamentali che, in certa misura, coincidono con il Risorgimento italiano?
In seguito all’Unione dei due principati valacco e moldavo, avvenuta due anni prima dell’Unità d’Italia, il nuovo regno di Romania attuò una serie di riforme politiche e sociali d’ispirazione democratico-borghese, che avrebbero agevolato lo sviluppo dei rapporti di produzione capitalisti. Un ulteriore momento cruciale fu il 1877, quando la classe politica romena, accogliendo la pretestuosa parola d’ordine della “emancipazione dei popoli cristiani dell’Oriente”, dichiarò guerra alla Sublime Porta, subordinando il Paese agl’interessi plutocratici occidentali. La partecipazione alla guerra intereuropea a fianco dell’Intesa e la successiva adesione alla Piccola Intesa furono altri passi che fecero della Romania una delle sentinelle degl’interessi anglo-francesi nell’area balcanico-danubiana. Oggi, dopo la caduta del regime nazionalcomunista, la Romania è tornata a svolgere la funzione di sentinella dell’Occidente, ma di un Occidente che non è più rappresentato dall’Inghilterra e dalla Francia, bensì dagli Stati Uniti.
Qual è la Sua opinione sull’ingresso della Romania nell’Unione Europea?
L’Europa non è Europa se non comprende tutti i popoli europei, compreso quello che ha dato all’Europa personaggi come Eminescu, Brancuşi, Eliade e Cioran. L’Europa non è pensabile senza il Danubio, senza i Carpazi, senza la costa occidentale del Mar Nero. Anche se oggi la nostra patria europea è rappresentata da una “Unione” dominata da banchieri, burocrati liberali, politicanti traditori e collaborazionisti asserviti alla potenza d’Oltreatlantico, i “buoni Europei” di nietzschiana memoria non devono tuttavia rinunciare a sostenere la necessità di un’Europa degna di questo nome: una realtà unitaria e sovrana che, in stretta alleanza con gli altri grandi spazi del continente eurasiatico, concorra alla costruzione di un potente blocco continentale.
Dove colloca la Romania all’interno dell’idea eurasiatista?
Negli anni Trenta il geopolitico romeno Simion Mehedinţi scriveva che la Romania, trovandosi lungo una diagonale di navigazione privilegiata qual è il corso del Danubio, è predestinata dalla sua stessa posizione geografica a stabilire relazioni fra i paesi dell’Europa occidentale da una parte e quelli del Vicino Oriente dall’altra. A ciò possiamo aggiungere che la Romania, in virtù della sua appartenenza all’area ortodossa, è uno di quei paesi europei che (come la Bulgaria e la Serbia) potrebbe svolgere un ruolo analogo anche in direzione della Russia.
Sappiamo che questo Paese ha subito diversi duri colpi e oggi più che mai: a Suo avviso c’è una possibilità concreta per la Romania di risorgere? Di chi sono le principali responsabilità?
Date le condizioni in cui versa attualmente la Romania e dato il livello della sua attuale classe politica, è necessaria una notevole dose di ottimismo per prospettare una rinascita romena. Non si riesce infatti a intravedere la presenza di quelle forze che, in circostanze storiche analoghe, si assunsero le responsabilità di una riscossa nazionale.
Sappiamo che Lei è, tra le altre cose, un ottimo conoscitore del mondo islamico e della storia dell’Islam in Europa: qual è la Sua impressione sui rapporti tra l’Impero Ottomano e gli antichi principati romeni?
Nicolae Iorga ha mostrato come i principati romeni abbiano rivestito un ruolo egemone in relazione alle più importanti comunità cristiane dell’Impero Ottomano, dal Caucaso all’Egitto. Da parte loro, le autorità islamiche dell’Impero indicavano i Principi valacchi e moldavi come esempi paradigmatici per i capi della Cristianità. Oggi, in un momento in cui la Turchia sta recuperando la posizione che le compete, la Romania potrebbe far tesoro di questa eredità storica e riproporsi come tramite fra l’Europa e la potenza regionale turca.
Per approfondire l’opera di Mutti, consiglio di leggere alcuni dei numerosi articoli presenti sul suo sito [2] e quelli della rivista Eurasia [3], stampata dalle Edizioni all’insegna del Veltro [4], fondate dallo stesso Mutti.
00:10 Publié dans Actualité, Affaires européennes, Eurasisme, Géopolitique | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : roumanie, géopolitique, politique internationale, balkans, eurasie, eurasisme, mer noire | | del.icio.us | | Digg | Facebook
dimanche, 06 février 2011
Russie, alliance vitale
Bientôt en librairie : "Russie, alliance vitale" de Jean-Bernard PINATEL
Ex: http://theatrum-belli.hautetfort.com/
Les grandes inflexions dans le système international peuvent être perçues, bien avant qu'elles ne se produisent, par les observateurs qui disposent d'une grille de lecture et qui fondent leurs réflexions sur les faits en se débarrassant de tout a priori idéologique ou sentiment partisan. Ainsi cet essai soutient des thèses et fournit une analyse des événements internationaux qui sont éloignés de la pensée dominante actuelle d'inspiration essentiellement américaine.
Cette vision a été élaborée en utilisant une méthodologie fondée sur de nombreux emprunts aux enseignements de Marcel Merle (1), à la méthode prospective d'Hugues de Jouvenel et à l'œuvre d'Edgar Morin avec lesquels j'ai eu la chance de partager des réflexions dans le cadre de Futuribles et de la Fondation pour les études de défense à l'époque où elle était présidée par le général Buis.
Ce n'est pas la première fois que je propose une vision prospective différente de celle communément admise. Dès les années 1970 déjà, j'avais pressenti que le temps de l'affrontement Ouest-Est fondé sur l'équilibre des forces nucléaires et classiques était révolu et qu'il serait remplacé par une forme nouvelle d'affrontement entre le Nord et le Sud. Je caractérisais ma vision de la nature différente de la "guerre" que nous connaîtrions dans le futur par le concept de "guerre civile mondiale". Pour ce faire je reçus l'aide précieuse et critique de mon amie Jacqueline Grapin qui était, à l'époque, journaliste au Monde et proche collaboratrice de Paul Fabra.
La publication par Calman-Levy en 1976 de notre livre (2) fit l'effet d'une bombe dans les milieux politico-militaires puisqu'il soutenait que les guerres futures prendraient plus la forme d'une « guerre civile » Nord-Sud que celles d'un affrontement entre deux puissantes armées conventionnelles sous menace nucléaire auquel on se préparait. Nous écrivions : "À y regarder d'un peu près, le concept d'une guerre civile mondiale cerne assez étroitement la réalité. Il transpose, à l'échelle de la planète désormais ressentie comme un monde fini, l'idée du combat fratricide que se livrent les citoyens d'un même État. Et il est bien exact que le système international actuel est le premier à avoir une vocation mondiale, sans échappatoires possibles à ses blocages et à ses conflits. Il implique une guerre sans fronts, qui déborde les frontières et dépasse les militaires, pour défendre des enjeux vitaux dans un processus qui peut aller jusqu'à la mort... À force de détournements d'avions et d'actes terroristes, les Palestiniens ont essayé d'impliquer le monde entier dans leur cause, et le monde dans leur ensemble est devenu leur champ de tir".
Le système international, qui évolue rapidement sous nos yeux, sera dominé dans les prochaines années par deux grands acteurs, les États- Unis et la Chine, qui interagissent dans une relation d'"adversaire- partenaire" : adversaires quand il s'agit d'enjeux ou d'intérêts vitaux à protéger, partenaires pour conquérir de nouveaux espaces et marchés et, surtout, pour empêcher de nouveaux acteurs d'acquérir une autonomie qui pourrait remettre en cause leur sphère d'influence et le partage du monde qu'ils préconisent implicitement ou explicitement. Un exemple récent en est l'accueil condescendant qui a été réservé par les grandes puissances à l'initiative de la Turquie et du Brésil pour apporter une solution à la crise iranienne.
L'élaboration de cette vision s'appuie sur l'analyse et la hiérarchisation des intérêts permanents, vitaux ou majeurs, de ces grands acteurs, et sur l'évaluation de la marge de manœuvre, souvent limitée, que peuvent acquérir par leur charisme les dirigeants de ces pays. C'est ce qui explique les difficultés rencontrées par Barack Obama pour mettre en œuvre sa vision généreuse des rapports internationaux. Elle heurte de plein fouet les intérêts du complexe militaro-industriel américain qui s'est arrogé depuis longtemps le monopole de la désignation des menaces et de la défense des "intérêts permanents" des États-Unis et du "monde libre".
C'est au Premier ministre de la reine Victoria, Benjamin Disraeli (1804-1881), qu'il est généralement convenu d'accorder la paternité de ce concept. En considérant que les États n'ont ni amis ni ennemis mais des "intérêts permanents", il introduisait pour la première fois les enjeux économiques dans la compréhension des relations internationales. Ce concept s'est étendu progressivement à d'autres dimensions comme la dimension culturelle. Ainsi le maintien de liens étroits entre les États francophones fait partie des intérêts permanents de la France car cela lui permet de peser plus que de par son poids dans les instances internationales (3).
Dans les pays démocratiques c'est la perception de ces "intérêts permanents" par les citoyens qui est essentielle. Car il n'est de légitimité que reconnue par l'opinion publique. Ainsi la construction d'une Europe politique disposant de pouvoirs fédéraux ne deviendra un "intérêt permanent" pour les Européens que lorsque la grande majorité de la population des nations qui la composent en auront compris l'importance. Cette construction fait déjà partie des intérêts permanents de la France puisque la majorité des forces politiques y est favorable. La crise financière récente que nous avons traversée a montré la faiblesse d'une Europe fondée sur le plus petit commun dénominateur. De même, la présence des forces armées allemandes en Afghanistan est très critiquée par une majorité des forces politiques et de la population qui n'en comprennent pas les enjeux (4). Ces "intérêts permanents" sont rarement explicités par les dirigeants en dehors de cénacles restreints. Le maintien d'une incertitude sur leur définition précise constitue un atout dont les États auraient tort de se priver dans la compétition mondiale.
Avec l'apparition de l'arme nucléaire, est apparue la notion d'"intérêts vitaux", au nom desquels un État se réserve le droit d'utiliser en premier l'arme nucléaire (5). Là encore, l'ambiguïté et l'imprécision font partie de la logique dissuasive, aucune puissance nucléaire ne déclarant ce qu'elle considère comme ses intérêts vitaux.
Il est cependant possible d'évaluer les "intérêts permanents" des États en analysant les facteurs déterminants de leurs forces et de leurs vulnérabilités. Ainsi dans la Guerre civile mondiale (6) publiée en 1976, en pleine Guerre froide, nous nous interrogions sur la réalité de la menace militaire soviétique comme vecteur de la propagation du communisme, qui a été un des facteurs déterminants du système international entre 1945 et 1989.
À l'époque, analystes et leaders d'opinion s'alarmaient à longueur de pages sur la menace que représentaient les 167 divisions militaires russes, sans jamais analyser les vulnérabilités de l'URSS qui pouvaient légitimer cet effort militaire. Prenant à contre-pied ces analyses, nous mîmes en relief plusieurs facteurs qui offraient un autre éclairage sur la menace soviétique :
- une relative faiblesse en nombre : rapportée à la superficie de l'URSS et, d'un point de vue défensif, cette force militaire "ne représentait plus que 12 militaires de l'armée de terre au km2 contre 60 en France" ;
- une immensité de frontières à défendre : "L'URSS est le plus proche voisin de toutes les puissances actuelles et potentielles. À l'Est, l'URSS n'est séparée de l'Alaska américain que par les 30 km du détroit de La Pérouse, au Sud, elle a 7.000 km de frontières avec la Chine, 2.000 km avec l'Afghanistan, 2.500 avec l'Iran, 500 avec la Turquie..." ;
- un manque de cohésion intérieure : "Mosaïque de 95 nationalités, d'ores et déjà l'URSS connaît un problème musulman avec la hausse de la natalité des populations islamisées qui représenteraient en 1980 72% de la population contre 52% en 1970 dans les cinq républiques d'Asie centrale" ;
- et une "faiblesse de peuplement à l'Est de l'Oural".
- Nous concluions : "L'URSS a de nombreuses vulnérabilités qui peuvent la pousser à s'armer au moins autant que les objectifs offensifs avancés par tous les observateurs".
Cet essai vise ainsi à éclairer d'un jour nouveau les intérêts permanents de l'Europe et de la Russie dans la gestion des menaces et des crises qui se développent à leurs frontières. Il soutient que l'insécurité qui règne à nos frontières sert directement les intérêts du complexe militaro-industriel américain au point de faire penser que les crises qui s'y enracinent ne sont pas le résultat d'erreurs stratégiques des dirigeants américains, mais proviennent d'options mûrement pesées par des conseillers qui en sont issus. Tout se passe en effet comme si la politique américaine visait à maintenir une insécurité permanente dans la région du Moyen-Orient et de la Caspienne. Elle viserait ainsi à freiner le développement économique de nos proches voisins tout en s'appropriant leurs ressources et, par contrecoup, à pénaliser la croissance de l'Europe et de la Russie en les privant de débouchés pour leurs produits et, enfin, à empêcher par tous les moyens la création d'une alliance stratégique de Dunkerque à l'Oural, qui constituerait un troisième acteur du système international capable de s'opposer à leurs ambitions.
Jean-Bernard PINATEL
178 pages, 17 euros
Général (2S) et dirigeant d'entreprise, J.-B. Pinatel est un expert reconnu des questions géopolitiques et d'intelligence économique. Docteur en études politiques et diplômé en physique nucléaire, il est breveté de l'École supérieure de guerre et ancien auditeur de l'IHEDN.
Sommaire :
- Préface, p7
- Avant-propos, p 13
- Introduction, p 19
- La montée en puissance de l'impérialisme chinois, p 23
- Les relations sino-américaines à l'heure de l'interdépendance économique, p 43
- La stratégie américaine d'"adversaire-partenaire", p 63
- Les États-Unis face à l'Europe : éviter l'unification du "Heartland", maintenir la suprématie du "Rimland", p 77
- Les pièges fondamentaux de la politique étrangère américaine, p 99
- Pour un partenariat stratégique entre l'Europe et la Russie, p 119
- La Russie, acteur clé dans la résolution des conflits et dans la lutte contre le terrorisme au Moyen-Orient, p 133
- Irak et Afghanistan : pour une implication accrue de l'Europe et de la Russie, p 149
- Conclusion, p 167
Notes :
1. Sociologie des relations internationales (1987).
2. La Guerre civile mondiale, Paris, Calmann-Levy, 1976.
3. Forte d'une population de plus de 803 millions et de 200 millions de locuteurs de français de par le inonde, l'Organisation internationale de la Francophonie (01F) a pour mission de donner corps à une solidarité active entre les 70 États et gouvernements qui la composent (56 membres et 14 observateurs) — soit plus du tiers des États membres des Nations unies.
4. Le président allemand Horst Köhler, qui occupe une fonction principalement honorifique, a créé la surprise en annonçant sa démission le 31 mai 2010 après avoir déclenché un tollé politique suite à ses déclarations légitimant la participation accrue de son pays aux combats en Afghanistan par des raisons économiques. Il a jugé dans une déclaration à une radio cet effort « nécessaire pour maintenir nos intérêts, comme par exemple libérer les routes commerciales ou prévenir des instabilités régionales qui pourraient avoir un impact négatif sur nos perspectives en termes de commerce, d'emplois et de revenus » allemand sont déplacés, car ils suscitent méprise et malentendu. De fait, il est compréhensible qu'Horst Köhler, qui occupe une fonction symbolisant l'image de l'Allemagne, démissionne de son poste honorifique après les violentes réactions contre ses propos controversées sur une importante mission de son pays à l'étranger.
5. L. Mandeville, "Barack Obama peine à imposer sa doctrine", Le Figaro, 2/3/2010 : "Spécialistes du Pentagone et de la Maison Blanche ferraillent encore sur plusieurs points cruciaux de doctrine. Ainsi l'administration Obama devrait-elle refuser de souscrire au "non-emploi en premier" de l'arme nucléaire pour rester dans l'ambiguïté actuelle, contrairement à ce que les partisans du désarmement nucléaire espéraient, à en croire le quotidien new-yorkais".
6. J. Grapin, J.-P. Pinatel, op. cit., p. 256 et ssq.
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jeudi, 03 février 2011
La Russie dit non à l'invasion migratoire!
La Russie dit non à l’invasion migratoire !
par Marc ROUSSET
En matière démographique, les Russes sont moins naïfs que les Européens de l’Ouest déniant les catastrophiques réalités, endoctrinés par la nouvelle religion droit-de-l’hommiste ! Les Occidentaux ont raillé la Russie qui doit faire face au déclin de sa population, mais s’ils ont effectivement bien vu la paille dans l’œil de la Russie, ils ont oublié la poutre de l’immigration extra-européenne qui était dans le leur ! Certes, les Russes vont connaître encore des moments très difficiles, mais suite aux mesures prises par les présidents Poutine et Medvedev, ils font face et vont s’en sortir progressivement, sans compromettre leur avenir et leur identité, alors que les élites dirigeantes de l’Europe de l’Ouest commettent un crime, une trahison inadmissible, celui de porter atteinte à la patrie charnelle des peuples européens, en acceptant des hordes d’immigrés (l’immigration continue derrière les rideaux de fumée médiatiques avec le Président Sarkozy, soit 250 000 personnes par an et une agglomération comme Lille tous les trois ans) pratiquement inassimilables, principalement en provenance de l’Afrique.
Aujourd’hui, les perspectives réelles de l’Europe de l’Ouest, c’est à terme une inéluctable guerre civile comme en ont connu le Liban, la Bosnie, le Kosovo, la Géorgie, les pays africains , Sri Lanka…, si des mesures favorisant la natalité des populations de souche européenne ne sont pas prises immédiatement. A contrario, l’avenir appartient toujours à la Russie, au-delà de difficultés structurelles, suite en particulier, à la catastrophique décennie de 1990 à 2000 avec une natalité en chute libre et une perte de population de 800 000 individus par an, pendant l’ère de Boris Eltsine. Le déclin démographique, le mal être, la baisse de la natalité de la Russie avait commencé en fait, dans les années 80, dès les premiers signes de l’essoufflement et de l’implosion à venir de l’U.R.S.S. En 2007, au moment même où Poutine exposait son projet de stabilisation démographique, la Russie ne comptait déjà plus que 142 millions d’habitants, alors que la population était encore de 150 millions en 1992. Un rapport présenté en Russie en 2007 et largement diffusé par l’agence Novosti illustrait de manière criante l’érosion inéluctable : chaque heure, la Russie perd cent habitants; toutes les vingt-et-une secondes, on enregistre une naissance, mais une mort se produit toutes les quinze secondes… (1).
En Russie, l’opinion publique est hostile à l’immigration. Contrairement aux affabulations de l’Occident, même si le péril jaune est très réel à terme, plus particulièrement en Sibérie et en Extrême-Orient , il y a à ce jour en Russie, un maximum de 400 000 Chinois, selon Zhanna Zayonchkouskaya, chef de laboratoire de migration des populations de l’Institut national de prévision économique de l’Académie des sciences de Russie, et non pas plusieurs millions comme cela a pu être annoncé. Les Russes ont veillé au grain et ont pris des mesures très sévères pour éviter une possible invasion. La seule immigration qui a été favorisée est le rapatriement de Russes établis dans les anciennes républiques soviétiques (Kirghizistan, Kazakhstan, Pays baltes, Turkménistan). Des villes comme Vladivostok, Irkoutsk, Khabarovsk, Krasnoïarsk… et même Blagovetchensk, à la frontière chinoise, sont des villes européennes avec seulement quelques commerçants ou immigrés chinois en nombre très limité. Une invasion aurait pu avoir lieu en Extrême-Orient dans les années 1990, tant la situation s’était dégradée. Il est à remarquer que les migrants chinois de l’époque ont profité du laxisme et de l’anarchie ambiante pour filer à l’Ouest de la Russie. Être clandestin n’est pas aisé aujourd’hui en Extrême-Orient et en Sibérie : la frontière est relativement imperméable; le risque est grand; les hôtels sont sous contrôle étroit; le chaos qui suivit l’éclatement de l’U.R.S.S. est déjà loin.
Quant aux immigrés en Russie de l’Ouest en provenance du Caucase (Géorgie, Arménie, Azerbaïdjan) ou de l’Asie centrale (Tadjikistan), ils sont quelques millions, dont beaucoup de clandestins, mais ne représentent aucun danger ou aucune menace réelle à ce jour sur le territoire russe tant par leur nombre, que par leur implantation contrôlée d’une façon très étroite par la police et les autorités. La population russe autochtone les perçoit d’une façon très défavorable avec des sentiments nationalistes, comme a pu le montrer l’émeute villageoise pendant plusieurs jours à Kondopoga en Carélie, en septembre 2006, à l’égard de communautés caucasiennes, principalement tchétchènes.
La Russie a réagi à la crise démographique selon le bon sens, en pensant courageusement et d’instinct la natalité à relever. Dès 2003, suite à la proposition du député conservateur Alexandre Tchouev, le Parlement a supprimé la pratique de l’I.V.G. pour raisons sociales; l’avortement n’est autorisé qu’en cas de viol, si la mère est déchue de ses droits parentaux, ou si le père est handicapé. En mai 2006, le président Poutine a confirmé la mise en place d’une politique nataliste. Cette politique permet aux mères de bénéficier d’une « prime de maternité » conséquente (1 250 000 roubles, soit 17 350 euros pour la naissance d’un second enfant et 1 300 000 roubles (18 825 euros pour le troisième). Depuis février 2006, des « certificats de naissance » ont été introduits dans les maternités : remplis lors de la naissance d’un enfant, ils permettent à la mère de toucher sa « prime de maternité » et à la sage-femme de bénéficier d’une « prime d’assistance » de 10 000 roubles (294 euros) pour chaque enfant né dans son service.
La Russie a dû aussi faire face à un véritable drame humanitaire en matière de logement avec l’absence d’espace physique pour l’enfant qui conduisait à l’enfant unique. La construction, en plein essor, devrait contribuer au redressement de la natalité. Le logement, l’éducation, l’agriculture et la santé constituent les quatre « projets nationaux » des perspectives 2020 pour la Russie. Aux États-Unis, le « Baby boom » avait été la conséquence d’une migration de masse des centres-villes vers les banlieues, « vers la terre ».
L’espérance de vie, selon Boris Revitch du Centre de démographie russe, était de 59 ans pendant les années 1990 à la naissance, soit vingt ans de moins qu’en Europe occidentale. Elle est aujourd’hui en 2011, supérieure à 69 ans. Les fléaux que la Russie doit affronter en matière démographique sont les suivants : l’alcoolisme (34 500 morts par an), le tabagisme (500 000 morts par an), les maladies cardio-vasculaires (1,3 millions de morts par an), le cancer (300 000 morts par an), le sida, les accidents de la route (39000 morts par an, soit le plus élevé du monde et trois fois plus qu’en France), les meurtres (36 000 par an), les suicides (46 000 par an), la déficience du système de santé qui faisait la fierté de l’U.R.S.S. et qui est devenue une catastrophe sanitaire. La mortalité infantile (11 pour 1 000 est deux fois plus élevée que dans l’U.E.). Au-delà de la nouvelle législation en place, des progrès doivent encore être faits pour la diminution du nombre d’avortements qui a diminué de 25 % entre 2003 et 2008, mais on recensait tout de même encore 1,234 millions d’avortements en 2008, pour 1,714 million de naissances de la même année ! Par ailleurs, la Russie doit faire face à un effet d’hystérésis, suite à la structure de sa population et à toutes ces années catastrophiques, ce qui a généré un rétrécissement de la strate de population en âge de procréer.
Le retour aux valeurs traditionnelles, à la religion orthodoxe devrait aussi contribuer à sortir de l’habitude de l’enfant unique. Tout progrès réel repose en fait sur une révolution des mentalités favorisant la famille nombreuse. Il semble que la situation à ce sujet soit moins désespérée en Russie qu’en Allemagne. Le président Medvedev a proposé en 2010, en plus des mesures Poutine ci-dessus mentionnées, une réduction d’impôts de trois mille roubles (72 euros) par mois et par enfant à partir du troisième enfant. Pour les autres familles avec enfants, il s’est déclaré également favorable à une réduction des impôts, sans pour autant donner de chiffres. Un exemple anecdotique, mais hautement symbolique de l’attitude politique russe envers les familles et les naissances, est la campagne officielle « Donnez naissance à un patriote pour la fête de l’Indépendance de la Russie ! », dans la région d’Ulyanovsk située à environ 850 km à l’Est de Moscou, campagne dotée de prix, dont le premier est une voiture !
En 2005, la population avait décru de 760 000 habitants, ce qui était le record absolu. En 2006, la baisse ne fut que de 520 000 habitants, puis 280 000 habitants en 2007,116 000 habitants en 2008. La bonne nouvelle, c’est qu’en 2009 avec 1,76 millions de naissances, 1,95 millions de décès, 100 000 émigrants, et 330 000 naturalisations, la population russe a augmenté pour la première fois depuis quinze ans de 50 000 habitants. Le taux de fécondité de 1,9 enfants par femme en 1990, tombé à 1,1 enfant par femme en 2000, est remonté à 1,56 enfants par femme en 2009, soit un taux similaire à celui de l’U.E. qui était de 1,57 enfants par femme en 2008.
Trois prévisions démographiques majeures ont été envisagées pour la démographie en Russie en 2010. Selon une prévision estimée mauvaise du ministère russe de la Santé, la population devrait continuer à baisser pour atteindre 139 630 000 habitants en 2016 et 128 000 000 d’habitants en 2030. Le taux d’immigration resterait faible autour de 200 000 personnes par an pour les vingt prochaines années.
Selon une prévision estimée moyenne du même ministère, la population russe devrait légèrement augmenter jusqu’en 2016 pour atteindre 142 160 000 habitants, puis recommencer à légèrement baisser, de 200 000 ou 300 000 habitants dès 2020, pour atteindre 139 372 000 habitants en 2030. Le taux d’immigration serait contenu à une moyenne de 350 000 nouveaux entrants par an, ce qui est à peu près la moyenne de 2009, année durant laquelle 334 500 étrangers et apatrides ont reçu la nationalité russe.
Selon une prévision haute toujours du même ministère de la Santé, la population devrait augmenter à près de 144 000 000 d’habitants en 2016 et continuer à augmenter jusqu’à 148 000 000 en 2030. Le taux d’immigration serait plus élevé dans cette variante, soutenant la hausse de la population et avoisinerait les 475 000 nouveaux entrants par an. D’ici vingt ans, on arriverait à une « immigration » équivalente à 8 % de la population du pays. Celle-ci serait principalement du Caucase et de la C.E.I., donc de populations post-soviétiques, russophones, dont des communautés sont déjà présentes en Russie et pas foncièrement déstabilisantes.
En conclusion, la hausse de la natalité est le résultat de la politique volontaire de Vladimir Poutine, de Dimitri Medvedev et de leurs gouvernements. La baisse de la natalité dans les pays occidentaux, elle, est le résultat de la politique volontaire de l’oligarchie mondialiste au pouvoir qui ne tient pas compte des causes qu’elle a créées (déchristianisation, corruption des mœurs, libéralisation de la contraception, de l’avortement, de l’homosexualité, féminisme et travail des femmes, destruction des petits agriculteurs, regroupement des populations dans les métropoles, diminution des allocations familiales qui ne sont plus réservées aux citoyens français de souche, mais bien au contraire de plus en plus aux populations immigrées, ce qui est le comble de la bêtise et du suicide programmé…), bref, ce qu’on appelle « la culture de mort ». Déjà Emmanuel Le Roy Ladurie, membre de l’Institut, remarquait que la France reste un pays où le pourcentage des avortements (220 000 par an) égale le taux de mortalité des bébés âgés de moins d’un an au temps de Louis XIV. Peut–on vraiment parler de progrès dans ces conditions ? L’oligarchie mondialiste considère que l’unique remède contre la dénatalité est l’immigration. L’objectif est de fabriquer à l’échelle planétaire, une population d’apatrides et de déracinés opposés les uns aux autres dans une guerre civile mondiale, les peuples devenant des minorités dans leurs propres patries (2).
La Russie qui fait face à des difficultés bien plus grandes que l’U.E. a dit non à ces folies occidentales. Elle nous montre le chemin du redressement démographique, du coup d’arrêt à donner à l’immigration, bref le chemin de la survie de notre civilisation européenne !
Marc Rousset
Notes
1 : Hélène Carrère d’Encausse, La Russie entre deux mondes, Fayard, 2010, p. 64.
2 : cf. Dissonance, le blogue d’Alexandre Latsa.
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mardi, 01 février 2011
"Arkaïm", une cité de l'âge du bronze dans les steppes de l'Oural
« Arkaïm », une cité de l’âge du bronze dans les steppes de l’Oural
Exposition au Musée départemental des Merveilles de Tende du 26 juin 2010 au 31 mars 2011
Manifestation organisée dans le cadre de l’année France-Russie 2010
Exposition « Arkaïm », une cité de l’âge du bronze dans les steppes de l’Oural, présentée, pour la première fois en Europe,
Cette nouvelle exposition temporaire, présentée jusqu’au 31 mars 2011, permettra de révéler aux visiteurs, la richesse des vestiges découverts depuis 1987 dans les steppes, à l’Est de l’Oural, et leur offira un voyage passionnant dans une cité mystérieuse : Arkaïm.
Il y a 4 000 ans, dans les régions des steppes de l’Oural, l’exploitation de minéraux de cuivre présents sur ses contreforts a permis le développement de grandes colonies fortifiées et très organisées.
Constituant ce que les scientifiques appellent « la Contrée des cités » une vingtaine de structures circulaires qui correspondent à des concentrations urbaines de l'âge du Bronze ont été repérées sur le versant oriental de l'Oural et six ont déjà fait l'objet de fouilles archéologiques. Parmi elles, le site emblématique « d'Arkaim ».
Cadre géographique
La cité d'Arkaïm est située au centre de l'Eurasie, à proximité des contreforts orientaux de la chaîne montagneuse de l'Oural, à l'intérieur de l'oblast deTchélyabinsk, et au nord de la frontière entre la Russie et le Kazakhstan.
Les paysages de steppes et de forêts-steppes prédominent : bouleaux, pins et mélèzes sont les espèces végétales prépondérantes.
Historique des recherches
La cité d'Arkaïm a été découverte en 1987, lors de la construction d'un grand réservoir d'eau sur la rivière Bolchaïa Karaganka : le site se trouvait exactement dans ce qui devait être le fond du réservoir. Les scientifiques de l'Université d'Etat de Tchélyabinsk ont mené une lutte sans précédent pour sauvegarder ce site unique et, grâce au puissant soutien des savants les plus éminents de Russie, à la participation active de la municipalité de l'oblast de Tchélyabinsk et à l'engagement de l'opinion publique, la construction du réservoir a été suspendue et Arkaïm a pu être sauvée.
Stratigraphie / datation
L'Oural du sud possède un passé historique très riche : la région était peuplée déjà à l'époque moustérienne; au Mésolithique et au Néolithique, le nombre de campements situés sur les bords des lacs et dans les vallées fluviales est également très important.
A l'âge du Cuivre et à l'âge du Bronze, dans les régions des steppes, le processus de sédentarisation s'accroît fortement et coïncide avec l'apparition des grandes colonies. La mise en valeur des zones steppiques atteint néanmoins son apothéose à l'âge du Bronze moyen, lorsque, suite à l'exploitation des minéraux de cuivre présents sur les contreforts de l'Oural, des colonies fortifiées et organisées commencent à apparaître. Cette période - qui prend le nom de culture de Contrée de cités ou d'Arkaïm-Sintachta – s'insère, par datation radiométrique, dans un intervalle de temps compris entre 2040 et 1690 av. J.-C. et, d'un point de vue chronologique, correspond à l'âge du Bronze final en Europe. Cette phase, dite de la Contrée de cités, peut-être subdivisée en trois étapes principales : ancienne, développée et récente, dont le critère de distinction correspond au changement de forme et d'organisation des colonies fortifiées ainsi que celui de la culture matérielle. Au-dessus des couches datées de la culture d'Arkaïm-Sintachta, la tradition de la construction des villages fortifiés se poursuit avec les porteurs des cultures de l'âge du Bronze final.
Architecture
Dans le cadre de la Contrée de cités, les cités fortifiées se situent à une distance comprise entre 40 et 60 km les unes des autres. Le lieu de construction choisi se révèle toujours sec et plat, surélevé de quelques mètres au-dessus du niveau de l'eau, et délimité sur ses côtés par des fleuves et des pentes naturels. Grâce à des recherches archéologiques récentes et à l'observation de photographies aériennes, il a été possible de reconnaître la succession précise des divers systèmes d'aménagements : les structures de forme ovale sont les plus anciennes, remplacées plus tardivement par des structures en forme de cercle ; enfin, les systèmes de fortification rectangulaires sont les plus récents.
La cité d'Arkaïm se distingue des autres cités par l'état d'intégrité unique de ses ouvrages de fortification et de ses sépulcres, mais surtout par l'exceptionnel état de conservation du paysage alentours.
Matériel archéologique : céramique, industrie lithique, armes et bijoux
Les objets découverts lors des fouilles archéologiques témoignent du développement des différents métiers d'artisanat, tels que la poterie, la sculpture sur os, la taille de la pierre et la métallurgie. Tous les objets produits par les habitants de la Contrée de cités possèdent deux fonctions bien distinctes : utilitaire et sémantique. La poterie, par exemple, est ornée de motifs géométriques qui symbolisent les différentes forces de la nature - cercles, carrés, losanges, triangles, croix gammées - qui se retrouvent également dans l'aspect général des colonies et des constructions tombales. D'autres objets sont également décorés : il s'agit de petites sculptures anthropomorphes et zoomorphes en pierre, de pilons, de coupes en pierre ou de manches d'armes et d'outils.
La plupart des objets découverts proviennent toutefois des sépultures présentes en grand nombre, celles des hommes comme celles des femmes, non moins importantes dans la culture de la Contrée de cités. La tenue funéraire féminine présente ainsi de nombreux éléments de parures, tels que des bandeaux placés sur le front, et décorés de bijoux minuscules en bronze et en or; des pendeloques encadrant le visage de la femme ; des colliers enrichis de diverses amulettes et perles de verroterie ; des bracelets. Les inhumations masculines sont, quant à elles, accompagnées d'un vaste assortiment d'armes : arcs, pointes de flèches, haches de guerre et lances. Dans toutes les sépultures de personnages adultes, on trouve également des récipients emplis de nourriture.
Sépultures et pensée religieuse
Les sépultures d'Arkaïm présentent une organisation complexe : en effet, les anciens habitants de la Contrée de cités les considéraient, non seulement comme de simples tombes, mais aussi comme de véritables asiles pour les défunts ; chaque mort y était enterré avec son outillage funéraire personnel.
Les rites funéraires sont également chargés d'une symbolique complexe. On retrouve différentes typologies d'inhumation, parmi lesquelles les plus frappantes sont sans doute celle des hommes accompagnés d'un char et celle où l'homme et la femme sont inhumés ensemble, dans l'idée probablement d'une union sacrée jusque dans l'au-delà.
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Les sépultures découvertes sur les différents sites de la Contrée decités témoignent d'un système complexe de cultes et de croyances des peuples qui habitaient la région. On peut affirmer que leur religion était de type polythéiste, basée sur l'existence de plusieurs divinités incarnant les différents éléments naturels - eau, feu, soleil, etc.
Faute de documentation écrite, il n'a été possible d'appréhender la pensée religieuse des peuples d'Arkaïm qu'au travers de lamythologie indo-européenne.
Comportement et mode de vie
Les communautés de la Contrée de cités se divisaient de manière tripartite en guerriers, prêtres et artisans, comme c'est typiquement le cas au sein des sociétés indo-européennes. On ne peut toutefois reconnaître l'existence d'un pouvoir détenu par un chef de tribu unique : grâce aux études menées sur les rites funéraires et les sépultures, il a été possible de conclure que la société de la Contrée de cités était en fait hiérarchisée et rassemblée autour d'une élite. L'autorité de ce groupe d'individus n'était pas fondée sur des contraintes économiques mais sur des valeurs religieuses traditionnelles. Les membres de l'élite tenaient le rôle de prêtres et disposaient également d'une position importante dans le domaine militaire. La femme possédait un statut social élevé et la part jouée d'une manière générale par les femmes dans la culture de la Contrée de cités était très développée.
© Texte, photographies, Établissement public de la culture « Réserve de l’histoire et de la culture d’intérêt régional « Arkaïm », ville de Tchéliabinsk, 2010.
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dimanche, 30 janvier 2011
Afghanistan - "Totenacker der Imperien"?
Afghanistan – »Totenacker der Imperien«?
Gedanken zur Verlängerung des Afghanistan-Mandates
Wolfgang Effenberger
Mitte Januar 2011 beschloss die Bundesregierung, das Afghanistan-Mandat vorerst bis Ende 2011 zu verlängern. Dann soll der Abzug beginnen, sofern »die Lage dies erlaubt«. Weder dürften die verbleibenden deutschen Soldaten, noch die »Nachhaltigkeit des Übergabeprozesses» gefährdet werden. Die seit Jahren übliche Rhetorik, die üblichen Worthülsen. Diese schwammigen Formulierungen sind eine Farce. Viel wichtiger als der Beginn eines scheinbaren Abzuges – man erinnere sich an den »Abzug« der US-Kampfbrigaden im Irak im Sommer 2010 (1) – ist das definitive Ende mit der Rückkehr des letzten Soldaten. Diesen Mut hat die Sowjetunion bewiesen und den Rückzug aus Afghanistan fest terminiert: Am 15. Februar 1989 überquerte mit General Boris Gromow der letzte sowjetische Soldat die Termez-Brücke am Grenzfluss Amu Darja.
Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/deutschland/wolf...
Quelle: http://gesellschaftsspiegel.de/wordpress/wp-content/uploads/brz158.jpg
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vendredi, 31 décembre 2010
Türkei und China auf Schmusekurs
Türkei und China auf Schmusekurs
MIchael WIESBERG
Ex: http://www.jungefreiheit.de/
Die Türkei war jahrzehntelange Hätschelkind der US-Außenpolitik, das die Vereinigten Staaten zu gerne auch als EU-Mitgliedsstaat gesehen hätten. Jetzt wird die Entwicklung des kleinasiatischen Staates jenseits des Ozeans mit steigendem Mißmut betrachtet.
Ein Grund dafür ist die chinesisch-türkische Annäherung, die Michael Auslin, Leiter für Japanstudien am American Enterprise Institute, in einem Artikel für die einflußreiche, als konservativ und wirtschaftsliberal geltende Tagezeitung Wall Street Journal unter dem bezeichnenden Titel analysiert: „Kommt eine türkisch-chinesische Achse? Ankara wendet sich von Israel ab und schmeichelt sich bei China ein“.
Ausgangspunkt der Betrachtungen Auslins sind die Folgen der seit einiger Zeit gestörten israelisch-türkischen Beziehungen und die Hinwendung der Türkei zu „aufstrebenden, selbstbewußten Regimen“, darunter eben auch China, das nicht nur bemüht sei, im entlegenen Afrika eine größere Rolle zu spielen, sondern auch in anderen geopolitisch wichtigen Staaten.
Die türkisch-israelische Kooperation
Auslin gibt dann einen Überblick über die Entwicklung der israelisch-türkischen Beziehungen, angefangen bei der Anerkennung des Staates Israel durch die Türkei im Jahre 1948, bis hin zur Kooperation der beiden Staaten in Sicherheitsfragen, zum Beispiel gegenüber Staaten wie dem Iran und Syrien, in den Achtziger und Neunziger Jahren; dazu gehörte auch die Unterstützung Israels bei der Modernisierung türkischer Waffensysteme. Israel konnte im Gegenzug zum Beispiel türkische Luftwaffenstützpunkte nutzen.
Wendepunkt Gaza-Hilfsflotte
All das ist mittlerweile Geschichte: Zwar habe der türkische Premierminister Recep Tayyip Erdoğan anfänglich mit Israel kooperiert, so Auslin, dann aber begann er sich Staaten wie Syrien oder dem Iran zuzuwenden. Als Argumente für die sich abkühlenden Beziehungen zu Israel gab Erdoğan dessen Vorgehen im Gazastreifen im Jahre 2008 und vor allem die Vorgänge um die „Gaza-Hilfsflotte“ Mitte des Jahres an, bei der acht türkische Staatsbürger durch israelische Einwirkung ums Leben kamen. Seitdem liegen die Beziehungen zwischen der Türkei und Israel auf Eis.
Konsequenzen für die NATO
Erdoğans Annäherung an eine weitere „autoritäre Macht“, gemeint ist China, tangiere nun allerdings auch die Interessen der USA, konstatiert Auslin, und zwar spätestens seit der Einladung Ankaras an die chinesische Luftwaffe, am Luftwaffenstützpunkt Konya gemeinsame Manöver abzuhalten. Damit erwüchsen ernste Zweifel daran, ob es bei den engen Beziehungen der Türkei zu „liberalen Nationen“ wie den USA und Israel bleibe.
In diesem Zusammenhang spiele nicht nur eine Rolle, daß die „strategische Partnerschaft“, die Erdoğan und Chinas Staatspräsident Hu Jintao vereinbart hätten, eine Steigerung des Handelsvolumens von derzeit 17 Milliarden Dollar auf 100 Milliarden Dollar im Jahre 2020 vorsehe.
Viel schwerwiegender seien die Konsequenzen für die NATO. Wie weit nämlich könnte die chinesisch-türkische Zusammenarbeit gehen? Auslin nennt hier ein konkretes Beispiel: Die Türkei gehört unter anderem zu einem Konsortium, das am Bau des ersten Tarnkappen-Mehrzweckkampfflugzeuges Lockheed Martin F-35 Lightning II beteiligt ist. Wird die Türkei China einladen, dieses Flugzeug zu inspizieren oder gar Probe zu fliegen? Welche anderen Waffengeschäfte könnte die Türkei mit China vereinbaren?
Türkei droht Isolation
Es sei jedenfalls eine Notwendigkeit, das westliche Analytiker damit begönnen, sich nicht nur mit den Auswirkungen der chinesisch-türkischen Annäherung, sondern auch mit dem wachsenden Netzwerk antiwestlicher Staaten zu beschäftigen. Mit Blick auf Erdoğan konstatiert Auslin, falls der türkische Premier weiter Alliierte bei den „autoritären Staaten“ suche, werde er die Türkei von der liberalen westlichen Welt isolieren.
Das Gewicht der Türkei vergrößern
Auslins Artikel ist in mancherlei Hinsicht instruktiv: So spiegelt er zum Beispiel die Irritation der USA im Hinblick auf das Ausgreifen Chinas in Regionen, die die USA als ihre angestammte Einflußsphäre betrachten. Erdoğan sieht sich in der angenehmen Lage, aufgrund der Heraufkunft des neuen „global players“ China mit dem geopolitischen Pfund der Türkei zu wuchern. Der Konsens der „westlichen Wertegemeinschaft“ interessiert ihn dabei herzlich wenig; sein Ziel besteht ganz offensichtlich darin, das internationale Gewicht der Türkei weiter zu erhöhen.
Mit der Türkei bekommen die USA ganz konkret vorgeführt, daß ihre Position als „einzige Supermacht“ Geschichte ist. Ab jetzt steht mit China ein ernsthafter Herausforderer im Ring, der jede Schwachstelle, die die westliche Führungsmacht bietet, nutzen wird. Zu diesen Schwachstellen gehört, das zeigt sich mehr und mehr, die einseitige Option für Israel.
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mardi, 28 décembre 2010
Una nuova geopolitica indiana?
Una nuova geopolitica indiana?
Daniele GRASSI
Ex: http://www.eurasia-rivista.org/
Una delle maggiori novità sullo scenario geopolitico degli ultimi due decenni è certamente rappresentata dall’India.
Sebbene l’ascesa della Cina abbia come effetto quello di mettere in secondo piano ogni altra realtà, non si può affatto trascurare il percorso che ha portato New Delhi a proporsi come una delle maggiori economie globali in termini assoluti.
Certo, i numeri aiutano e non poco. L’India infatti, con i suoi 1.2 miliardi di abitanti costituisce il paese più popoloso al mondo e ciò fa sì che ogni suo passo getti una lunga ombra su gran parte del globo. Non bisogna dimenticare infatti, che il suo tasso di crescita economica annua, dal 1997 ad oggi, è di circa il 7% ed è secondo solo a quello cinese.
Tuttavia, l’India resta il paese col maggior numero di gente che vive sotto la soglia di povertà, vale a dire, circa il 25% della sua popolazione.
Ci vorranno dunque, tassi di crescita molto elevati per almeno altri due decenni perché la condizione della popolazione più disagiata subisca dei miglioramenti veri e propri.
La politica estera indiana dopo l’indipendenza
Il percorso di crescita indiano è cominciato ad inizio anni Novanta, quando si è proceduto alla liberalizzazione di molti settori economici ed il Paese si è aperto all’economia di mercato.
La trasformazione economica ha proceduto di pari passo con un radicale cambiamento riguardante la politica estera.
L’idea di Nehru era quella di dare vita ad un grande paese che perseguisse una politica di pacifica coesistenza con gli altri attori regionali e globali.
Il suo profondo idealismo si scontrò ben presto con una realtà che non lasciava spazio a velleità neutralistiche e richiedeva prese di posizione nette.
Le tensioni col Pakistan circa il controllo del territorio del principato kashmiro sfociarono in diversi conflitti armati, il primo dei quali nel primo anno dell’indipendenza dei due Paesi, il 1947.
Ciò però non distolse Nehru dal suo intento di percorrere una strada di non allineamento e di guidare gli altri Paesi che volessero intraprendere il medesimo percorso.
Nei primi anni della sua esistenza, New Delhi tentò di sganciarsi dal confronto bipolare alleandosi con Pechino, ma questo tentativo sfociò in una delle maggiori umiliazioni della storia indiana: la sonora sconfitta subita proprio da parte della Cina nel 1962.
Il risultato fu un sostanziale isolamento a cui l’India tentò di porre rimedio avvicinandosi progressivamente alle posizioni del blocco sovietico.
Questa politica la danneggiò tanto in termini economici, quanto a livello geopolitico. Il Pakistan infatti, approfittò di questa situazione per proporsi come maggiore alleato degli Stati Uniti nella regione sud-asiatica, ricevendo enormi benefici in termini di aiuti finanziari e soprattutto militari.
Islamabad si fece anche mediatore tra Washington e Pechino e fu l’artefice dell’incontro avvenuto nel 1972 tra Nixon e Mao Zedong, il quale pose fine alla politica americana delle “due Cine”.
Il tutto si tradusse in un isolamento ancora più accentuato dell’India, che sarebbe terminato solo nei primi anni Novanta.
L’asse Washington-New Dehli-Tel Aviv
Il crollo dell’Unione Sovietica ed una profonda crisi economica spinsero infatti New Delhi a rivolgersi al Fondo Monetario Internazionale per ottenere un prestito che l’aiutasse a superare il momento difficile che stava attraversando. In cambio, all’India fu chiesto di liberalizzare la propria economia e di aprirsi ai mercati internazionali.
Non è una caso che fu proprio in quegli anni che il Pressler Amendment pose fine agli aiuti economici che Washington si era impegnata a fornire al Pakistan, interrompendo una collaborazione che si era intensificata durante l’invasione sovietica dell’Afghanistan.
Gli Stati Uniti decisero di fare dell’India il loro maggiore alleato nell’Asia meridionale e ciò ebbe inevitabilmente ripercussioni negative sul rapporto con Islamabad, storica rivale di New Delhi.
La politica estera indiana è stata da allora contraddistinta dallo stretto legame con Washington, il quale ne ha fortemente condizionato l’andamento e continua tuttora a farlo.
L’India rappresenta, col Giappone ed altri Stati della regione asiatica, una delle armi usate dagli Stati Uniti per contenere l’ascesa della Cina. L’obiettivo americano è infatti quello di impedire che Pechino assurga al ruolo di leader incontrastato dell’area e New Delhi costituisce un alleato fondamentale per la buona riuscita di questa strategia.
La crescente collaborazione tra l’India ed Israele rientra proprio in questo progetto di contenimento della Cina e si è tradotto, specie negli ultimi anni, in un legame molto stretto soprattutto dal punto di vista militare.
New Delhi e Tel Aviv sono infatti impegnate in attività congiunte di lotta al terrorismo e l’India rappresenta ormai il più importante mercato di sbocco per gli armamenti prodotti in Israele.
Tutto ciò ha delle importanti ricadute a livello geopolitico e l’asse Washington – New Delhi – Tel Aviv costituisce ormai una realtà capace di influenzare le dinamiche interne all’Asia e al Medio-Oriente, producendo inevitabili ricadute sulla politica globale.
Riposizionamento strategico?
Tuttavia, la posizione indiana si sta facendo sempre più complicata e richiede un’analisi piuttosto complessa.
Le vicende afghane degli ultimi 3 decenni hanno avuto ripercussioni importanti sulla politica estera indiana e continuano a produrre effetti di non poco conto.
L’ascesa dei talebani a metà anni ’90 ebbe come risultato quello di avvicinare New Delhi a Teheran e Mosca, paesi molto attivi nel sostegno alla cosiddetta Alleanza del Nord, fazione non-pashtun che si opponeva al dominio talebano.
In seguito all’occupazione afghana da parte degli USA e dei suoi alleati nell’ottobre del 2001, l’India è stata uno dei paesi più attivi nella ricostruzione dell’Afghanistan e figura attualmente tra i maggiori donatori del governo di Kabul.
I buoni rapporti col governo guidato da Karzai, il quale ha effettuato i suoi studi proprio in India e conserva legami personali con questo Paese, e l’implementazione di numerosi progetti infrastrutturali hanno fondamentalmente come obiettivo, quello di dar vita ad un’alleanza in grado di contenere l’influenza esercitata dal Pakistan su Kabul.
La presenza indiana in Afghanistan rappresenta dunque una delle maggiori preoccupazioni per Islamabad e ha avuto un peso molto importante nel delineare la politica adottata dal Pakistan nel Paese confinante. Il timore di un governo filo-indiano insediato a Kabul dopo il ritiro delle truppe straniere, ha infatti spinto Islamabad a supportare con decisione gruppi di militanti che hanno proprio nella regione occidentale del Pakistan, le loro basi operative.
Lo scopo è quello di utilizzare questi gruppi come assets strategici, una sorta di asso nella manica da tirar fuori al momento opportuno.
Quel momento sembra oggi essere giunto e il tentativo del governo Karzai di negoziare coi talebani sta dando ragione alla strategia pakistana.
L’ammissione dell’amministrazione Obama di non poter fare a meno del supporto di Islamabad per porre fine al conflitto che da anni sta dilaniando l’Afghanistan, suona infatti come una sorta di resa e apre importanti spazi per la politica estera pakistana.
L’avvicinamento degli ultimi mesi tra Zardari e Karzai costituirebbe un’ulteriore prova di quel che sta accadendo oggi a Kabul.
Gli Stati Uniti hanno ormai compreso di non poter conseguire una vittoria effettiva sui talebani e hanno così deciso di intraprendere la strada dei negoziati e non possono dunque fare a meno del sostegno delle forze armate e di intelligence pakistane.
La promessa fatta da Obama al governo indiano di impegnarsi affinché New Delhi consegua un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, suona un po’ come un contentino, peraltro difficilmente realizzabile, per mettere a freno le crescenti ansie indiane.
Le vicende afghane stanno facendo emergere una verità con cui gli Stati Uniti dovranno fare i conti nei prossimi anni: l’estrema difficoltà di intrattenere rapporti di cooperazione sia con l’India che col Pakistan.
L’incapacità di risolvere la questione kashmira richiede, da parte di Washington, un continuo barcamenarsi tra le richieste indiane e quelle pakistane, spesso inconciliabili tra di loro.
Col tempo diventerà sempre più difficile mantenersi in equilibrio tra Islamabad e New Delhi e, a meno di un improbabile avvicinamento tra i due Paesi, gli Stati Uniti potrebbero essere chiamati a compiere una scelta di campo definitiva.
Il Pakistan e l’India sono consapevoli di ciò e stanno entrambi tentando di acquisire un maggiore potere negoziale nei confronti di Washington.
L’India strizza l’occhio all’Iran
Mentre Islamabad è impegnata ad approfondire i suoi legami storici con Pechino, specie dal punto di vista militare, l’India sta cercando di trovare una posizione di maggiore indipendenza per quel che concerne la sua politica estera.
Sebbene sia ben lungi dal trovarla, alcuni segnali di ciò sono già ravvisabili nei suoi rapporti con l’Iran.
Risalgono, ad esempio, allo scorso 28 ottobre le dichiarazioni del governo indiano circa una presunta volontà di volere riprendere il dialogo con Teheran per la realizzazione di un gasdotto che dovrebbe collegare Iran, Pakistan ed India.
La strenua opposizione di Washington nei confronti di questo progetto, ed i problemi che caratterizzano la regione pakistana del Baluchistan, hanno finora frenato la sua realizzazione.
Tuttavia, i crescenti bisogni energetici dell’India potrebbero spingerla ad esplorare strade affatto gradite all’amministrazione americana.
La recentissima notizia dell’accordo raggiunto dai governi turkmeno, afghano, pakistano e indiano per la realizzazione del gasdotto TAPI, sembrerebbe andare in direzione contraria rispetto a quanto detto, ma i dubbi circa l’effettiva capacità del Turkmenistan di pompare gas a sufficienza, oltre ai problemi di sicurezza che attanagliano il territorio afghano, potrebbero comportare notevoli ritardi di realizzazione, costringendo i paesi dell’Asia meridionale a cercare percorsi alternativi.
La collaborazione tra New Delhi e Teheran riguarda diversi altri progetti e non si ferma dunque all’IPI.
Il porto iraniano di Chabahar risulta centrale nell’ottica di tale cooperazione. Progettato e finanziato proprio dall’India, questo porto detiene un valore strategico molto importante.
L’importanza di Chabahar è legata, ad esempio, alla sua capacità di fare da sbocco per le risorse energetiche della regione centro-asiatica, permettendo all’India di rafforzare le sue relazioni commerciali con questi paesi ritenuti di fondamentale importanza ai fini dello sviluppo economico.
Inoltre, tramite Chabahar, l’India è in grado di aggirare il Pakistan ed esportare le proprie merci in Afghanistan e negli altri Paesi dell’area. Il nuovo accordo di transito siglato da Afghanistan e Pakistan infatti, non permette a New Delhi di utilizzare il territorio pakistano per il trasporto dei beni da esportazione e Chabahar rappresenta la migliore alternativa possibile.
L’Iran soddisfa circa il 15% del fabbisogno energetico indiano, una percentuale piuttosto bassa se si considerano le enormi potenzialità del patrimonio gassifero iraniano.
Tuttavia, è ancora presto perché l’India adotti posizioni non gradite a Washington e per il momento, New Delhi è impegnata in un’azione di mediazione tra l’Iran e gli Stati Uniti.
Nonostante l’opposizione indiana all’acquisizione del nucleare da parte di Teheran, il Paese sud-asiatico si sta impegnando affinché non vengano adottate nuove sanzioni nei confronti dell’Iran.
Complici gli importanti interessi economici nutriti da molte compagnie indiane, New Delhi sta cercando di ammorbidire la posizione americana sull’argomento ed ha come obiettivo ultimo, quello di sottrarre l’Iran all’isolamento in cui si trova attualmente, in modo da poter sviluppare ulteriormente le enormi potenzialità di un’eventuale cooperazione economica e politica.
Gli interessi che legano i due Paesi sono infatti numerosi e vanno dall’energia all’Afghanistan, senza dimenticare che l’India ospita la più numerosa comunità sciita al mondo dopo l’Iran.
Sono troppe le variabili in gioco per poter azzardare, al momento, previsioni circa le dinamiche geopolitiche che caratterizzeranno il futuro prossimo.
I segnali che ci giungono oggi sono talvolta contrastanti e ancora troppo soggetti alla volatilità del presente e dunque suscettibili di smentite ed inversioni di rotta.
Quel che però è certo è che in Asia si sta assistendo ad una netta ridefinizione degli equilibri di forza e nessuno degli attori coinvolti lascerà nulla di intentato per spuntarla sugli altri.
* Daniele Grassi è dottore in Scienze Politiche e specializzando in “Relazioni Internazionali” presso la LUISS Guido Carli. Attualmente è impegnato in uno stage di ricerca presso lo “Strategic Studies Institute” di Islamabad.
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lundi, 27 décembre 2010
L'incubo geopolitico di Washington: Russia e Cina piu vicine
L’incubo geopolitico di Washington: Russia e Cina più vicine Fonte: “
Qualsiasi siano i conflitti in corso all’interno delle mura del Cremlino fra Medvedev e Putin, ci sono ultimamente chiari segnali che sia Pechino sia Mosca si stiano muovendo con decisione, dopo un lungo periodo di esitazione, al fine di rafforzare la cooperazione strategica economica a fronte del palese sgretolarsi del ruolo d’unica superpotenza degli USA. Se questa tendenza si rafforzasse, si verificherebbe il peggiore incubo geopolitico di Washington: una massa continentale eurasiatica riunita, in grado di sfidare l’egemonia economica globale dell’America.
Parafrasando il proverbio cinese, potremmo affermare di vivere senza dubbio in «tempi interessanti». Non appena sembrava che Mosca si stesse avvicinando a Washington nel corso della Presidenza di Medvedev, accettando di cancellare la vendita all’Iran di un controverso sistema di difesa missilistica S-300 e iniziando a cooperare con Washington sui progetti della NATO, incluso forse lo scudo antimissile, Mosca e Pechino si sono accordati su una serie di misure che possono avere grosse implicazioni geopolitiche, non ultime per il futuro della Germania e quello dell’Unione Europea.
Nel corso d’incontri di vertice tenutisi a San Pietroburgo, il primo ministro cinese Wen Jiabao e la sua controparte russa, Vladimir Putin, hanno fatto una serie d’annunci passati relativamente inosservati nei principali mezzi di comunicazione occidentali, temporaneamente ossessionati dai dubbi scandali legati a “Wikileaks”. È già la settima volta che i dirigenti dei due paesi si incontrano quest’anno, e certamente questo significa qualcosa.
Ad oggi non ci sono stati molti investimenti cinesi nel mercato russo e quelli che si sono verificati, avevano forma prevalente di prestiti. Il valore degli investimenti diretti e di portafoglio in progetti concreti rimangono insignificanti, così come il livello di investimento della Russia in Cina: la situazione è destinata però a cambiare. Alcune società russe sono già quotate alla Borsa di Hong Kong ed esiste un numero di progetti di investimento russo-cinesi per la creazione di tecnoparchi sia in Russia sia in Cina.
Lasciando cadere il dollaro
I due Primi Ministri hanno annunciato, fra l’altro, di aver raggiunto un accordo per rinunciare al dollaro nel loro commercio bilaterale utilizzando al suo posto le proprie valute. Inoltre hanno raggiunto accordi potenzialmente di vasta portata su energia, commercio e modernizzazione economica delle remote regioni del vasto spazio euroasiatico dell’Estremo Oriente russo.
Fonti cinesi hanno rivelato alla stampa russa che questa mossa rifletterebbe relazioni più strette fra Pechino e Mosca e lo scopo non sarebbe quello di sfidare il dollaro. Putin ha allegramente annunciato: «Per quanto riguarda la compensazione commerciale, abbiamo deciso di usare le nostre valute». Egli ha aggiunto che la moneta cinese yuan ha cominciato ad essere scambiata col rublo russo nel mercato interbancario cinese, mentre il renminbi, fino ad ora solo moneta domestica e non convertibile, avrà presto una parità col rublo in Russia.
Ad oggi il commercio fra i due paesi avveniva in dollari. In seguito allo scoppio della crisi finanziaria nel 2007 e l’estrema volatilità del dollaro e dell’euro, entrambe le nazioni hanno cercato nuovi modi di evitare l’uso della valuta statunitense nel commercio, tentativo potenzialmente importante per il futuro della stessa. Al fine di ottimizzare lo sviluppo e la struttura del commercio, i due governi hanno creato la Camera di Commercio russo-cinese per i macchinari e prodotti tecnologici. Il Greenwood World Trade Center a Mosca, attualmente in costruzione da una società cinese, sarà nel 2011 un centro espositivo e commerciale di prodotti cinesi in Russia e servirà da piattaforma per incrementare gli scambi non governativi tra i due paesi.
Allo stato attuale il commercio fra Russia e Cina è in rapida crescita. Nei primi 10 mesi di quest’anno, il volume del commercio bilaterale ha raggiunto circa 35 miliardi di euro, un incremento su base annua del 45%. Quest’anno si prevede che gli scambi totali supereranno i 45 miliardi, portandosi così vicini al livello precedente alla crisi finanziaria. Entrambe le parti hanno intenzione di aumentare il volume degli scambi in maniera significativa nei prossimi anni e alcuni analisti russi credono che potrebbe anche raddoppiare nel giro d’un triennio. L’esclusione del dollaro non è cosa da poco e, se seguita da altri Stati dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (il gruppo di sei paesi eurasiatici instaurato da Cina e Russia nel 2001) potrebbe indebolirne il ruolo di valuta di riserva mondiale.
Dal Trattato di Bretton Woods nel 1944 il dollaro è stato posto al centro del sistema di commercio globale e l’egemonia statunitense si è basata su due pilastri indispensabili: il dominio degli Stati Uniti come potenza militare insieme al ruolo esclusivo del dollaro come valuta di riserva mondiale. La combinazione di potenza militare e ruolo di riserva della propria valuta per tutto il commercio di petrolio, altre materie prime essenziali e prodotti finanziari, ha permesso a Washington di finanziarsi concretamente le sue guerre per il dominio globale col “denaro degli altri”.
Cooperazione energetica
Accordi interessanti sono stati siglati anche nell’ambito della cooperazione energetica bilaterale. È chiaro che i due colossi euroasiatici hanno in programma di espandere il commercio bilaterale al di fuori del dollaro in modi interessanti, includendo in maniera significativa l’energia, dove la Cina ha enormi deficit e la Russia enormi sovrappiù e non solo nel petrolio e nel gas.
Le due parti espanderanno la cooperazione nell’energia nucleare a partire dall’aiuto offerto dalla Russia alla Cina per la costruzione di centrali nucleari e di progetti congiunti russo-cinesi al fine di arricchire l’uranio in linea con le normative AIEA e produrlo in paesi terzi ed inoltre per costruire e sviluppare una rete di raffinerie petrolifere in Cina. È già in essere il primo progetto, Tianjin. Un accordo prevede l’acquisto di due reattori nucleari russi da parte della centrale nucleare cinese di Tianwan, il complesso più avanzato di energia nucleare in Cina. Così pure l’esportazione del carbone dalla Russia alla Cina dovrebbe superare i 12 milioni di tonnellate nel 2010, ed è destinata ad aumentare.
Le compagnie petrolifere cinesi forniranno anche gli investimenti necessari per aggiornare i progetti per l’esplorazione e lo sviluppo dei giacimenti d’idrocarburi e la raffinazione del petrolio, in joint venture con società statali e private russe. In aggiunta, un gasdotto russo-cinese diventerà operativo a fine anno. Un punto importante ancora da sistemare è l’ammontare del prezzo del gas russo alla Cina: l’accordo è previsto nei prossimi mesi. La Russia chiede un prezzo per la fornitura di gas Gazprom che sia uguale a quello per i clienti europei, mentre Pechino richiede uno sconto.
I maggiori progetti di sviluppo industriale
Ci saranno intensi e reciproci investimenti industriali nelle remote regioni lungo i 4200 km di frontiera in comune, in particolare fra la Siberia e l’Estremo Oriente russi ed il Dungbei cinese, dove negli anni ’50 e ’60, prima dell’incrinarsi delle relazioni fra Unione Sovietica e Cina, l’URSS aveva costruito centinaia di impianti industriali leggeri e pesanti. Quest’ultimi sono stati modernizzati e rimpiti di nuove tecnologie cinesi o d’importazione, ma le solida fondamenta industriali d’epoca sovietica sono ancora là.
Questo – sostengono alcuni analisti russi – conferirà alla cooperazione regionale un livello tecnologico più elevato, soprattutto fra i territori di Chabarovsk e Primor’e, le regioni di Čita e Irkutsk, la Transbaikalia, tutta la Siberia, l’Heilongjiang ed altre province cinesi.
Nel 2009 Cina e Russia firmavano un programma con scadenza 2018 per lo sviluppo congiunto di Siberia, Estremo Oriente russo, e province nord orientali della Cina, attraverso un chiaro piano d’azione che comprendeva dozzine di progetti di cooperazione tra le specifiche regioni per sviluppare 158 strutture nelle aree di confine, nel settore del legno, chimica, infrastrutture stradali e sociali, agricoltura e diversi progetti di esportazione di energia.
Il viaggio di Wen segue la visita di tre giorni del Presidente Medvedev in Cina a settembre, durante la quale assieme al presidente Hu Jintao ha lanciato il da tempo discusso gasdotto trans-frontaliero da Skovorodino, nella parte orientale della Siberia, a Daqing, nel nord est della Cina. Entro la fine del 2010 il petrolio russo inizierà a fluire verso la Cina al ritmo di 300.000 barili al giorno per i prossimi vent’anni, grazie ad un accordo di tipo “credito in cambio di petrolio” da 20 miliardi di euro, stipulato lo scorso anno.
La Russia sta cercando di espandersi all’interno del crescente mercato energetico asiatico e in particolar modo in quello cinese, e Pechino vuole migliorare il suo approvvigionamento energetico diversificando rotte e fonti. Il gasdotto raddoppierà l’esportazione di petrolio russo in Cina, oggi trasportato principalmente tramite una lenta e costosa rotta ferroviaria, e farà della Russia uno dei suoi primi tre fornitori di greggio alla Cina, assieme a Arabia Saudita e Angola; un importante realizzo geopolitico per entrambi.
Il premier cinese Wen durante una conferenza stampa a San Pietroburgo ha affermato che la partnership fra Pechino e Mosca ha raggiunto «livelli di cooperazione senza precedenti» e ha promesso che i paesi «non diventeranno mai nemici». È dalla rottura sino-sovietica durante la Guerra Fredda che la geopolitica di Washington cerca di creare una profonda spaccatura tra i due paesi per rafforzare la sua influenza sul vasto dominio eurasiatico.
Come ho affermato in precedenza, l’unica potenza del pianeta che in teoria potrebbe ancora offrire un deterrente nucleare credibile a Washington è la Russia, per quanti problemi economici possa avere. La capacità militare cinese è ancora distante anni da quella russa, ed è principalmente difensiva. Sembra essere la Cina l’unica potenza economica in grado di rappresentare una sfida per il declinante gigante statunitense. La complementarità fra i due sembra essere stata pienamente compresa. Forse le prossime rivelazioni di Wikileaks “scopriranno” dettagli imbarazzanti su questa cooperazione; dettagli convienti per l’agenda geopolitica di Washington. Per il momento, però, la crescente cooperazione economica sino-russa rappresenta il peggior incubo geopolitico di Washington in un momento in cui la sua influenza globale è chiaramente in declino.
(Traduzione di Eleonora Ambrosi)
* F. William Engdahl, economista e co-direttore di “Global Research”, fa parte del Comitato Scientifico di “Eurasia”.
Article printed from eurasia-rivista.org: http://www.eurasia-rivista.org
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mercredi, 08 décembre 2010
Washingtons geopolitischer Albtraum: China und Russland verstärken die wirtschaftliche Zusammenarbeit
00:25 Publié dans Actualité, Economie, Géopolitique | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : chine, russie, géoéconomie, géopolitique, géostratégie, économie, etats-unis, politique internationale, eurasie, eurasisme | | del.icio.us | | Digg | Facebook
mercredi, 17 novembre 2010
EU und China knüpfen engere Verbindungen, USA unterstützen Indien
EU und China knüpfen engere Verbindungen, USA unterstützen Indien
F. William Engdahl / ex: http://info.kopp-verlag.de/
In den vergangenen Wochen hat die Volksrepublik China einzelnen EU-Ländern bemerkenswerte wirtschaftliche Offerten unterbreitet. Im Lichte der offenen Kritik, die China an der amerikanischen Zentralbank Federal Reserve und am US-Finanzministerium wegen deren jüngster abenteuerlicher Geldpolitik erhebt, ist diese Öffnung ein deutliches Anzeichen dafür, dass sich China, die am schnellsten wachsende Wirtschaftsnation der Welt, von einer Orientierung, die bislang hauptsächlich auf die USA ausgerichtet war, nun in Richtung EU bewegt. Dies würde weitreichende Auswirkungen haben.
Chinas Staatspräsident Hu Jintao hat soeben dreitägige Gespräche mit dem französischen Präsidenten abgeschlossen, bei denen sich beide Seiten auf neue Wirtschafts- und Handelsverträge in einem bisher noch nie erreichten Umfang von über 20 Milliarden Euro geeinigt haben. Es geht um Kernenergie, Luftfahrt, Finanzen, Energieeffizienz und Umweltschutz. Ein wichtiger Bereich ist die Beteiligung Frankreichs an Chinas ehrgeizigem Programm zur Ausweitung der Nutzung der Kernenergie. Nach Angaben des beteiligten französischen Kraftwerkbauers Areva werden die Beziehungen zu den chinesischen Partnern auf dem größten Kernkraftmarkt der Welt durch diese Verträge auf eine neue Stufe gehoben. China wird außerdem 100 neue Airbus-Maschinen kaufen.
Frankreich rollt für Chinas Präsident Hu den roten (!) Teppich aus, während China engere Verbindungen zur EU knüpft. |
Präsident Hu folgte einer Einladung des französischen Präsidenten, der Anfang dieses Jahres China besucht hatte. In Paris trafen die beiden Staatschefs innerhalb von drei Tagen fünf Mal zu Gesprächen zusammen. Frankreich hat Hu buchstäblich einen »roten Teppich« ausgerollt und ihn mit allen Ehren empfangen. Die beiden Präsidenten unterzeichneten eine umfassende Erklärung, in der sie sich zur Festigung der strategischen Partnerschaft zwischen den beiden Ländern verpflichten.
Beide Länder sind ständige Mitglieder des UN-Sicherheitsrates mit Vetorecht, was politisch von großer Bedeutung ist. China ist darauf bedacht, Verbündete zu finden, um bestimmte Initiativen der USA blockieren zu können, wie beispielsweise zusätzliche Sanktionen gegen den Iran, der ein wichtiger Erdöllieferant für China ist. Außerdem wolle man sich gemeinsam mit Frankreich der Frage des iranischen Atomprogramms, der Entnuklearisierung der koreanischen Halbinsel und des Konflikts in Afghanistan annehmen. In Washington wird man darüber sicher nicht erfreut sein.
Die jetzt getroffene Vereinbarung stellt auch für Sarkozy und Frankreich eine bedeutende Wende dar, denn noch vor den Olympischen Spielen vor zwei Jahren hatte Frankreich für die amerikanischen Destabilisierungsversuche in China Partei ergriffen und den Dalai Lama und die mit amerikanischer Hilfe angefachten Unruhen in Tibet unterstützt. Eindeutigerweise schätzt die französische Wirtschaft bessere Beziehungen zu China jedoch als wichtiger ein als solche zu den USA, denn die US-Wirtschaft rutscht immer tiefer in die Depression, während China boomt.
Anschließend in Portugal
Im Anschluss an den Frankreich-Besuch reiste Präsident Hu nach Lissabon, wo er mit dem portugiesischen Premierminister José Sócrates Gespräche über die Entwicklung einer umfassenden strategischen Partnerschaft beider Länder führte. Dabei wurde über die Vertiefung der bilateralen Wirtschafts- und Handelsbeziehungen gesprochen. Hu unterstrich, er betrachte Portugal als potenziellen Alliierten in der Strategie zum Ausbau einer strategischen Partnerschaft zwischen China und Europa.
Den Staatsbesuchen des chinesischen Präsidenten in Frankreich und Portugal war die beispiellose Unterstützungsaktion Chinas für den griechischen Anleihemarkt vorausgegangen. Wie ich Anfang Oktober an dieser Stelle geschrieben habe, war der chinesische Premierminister zu einem überraschenden Staatsbesuch nach Griechenland gereist, in ein Land also, das normalerweise eines so hochrangigen Besuchs nicht würdig wäre. China bot Griechenland damals seine Hilfe bei der Schuldenkrise an. Bei einer Pressekonferenz Anfang Oktober in Athen erklärte Wen Jiabao: »Wir besitzen bereits griechische Staatsanleihen und werden solche auch in Zukunft kaufen. Wir werden Anstrengungen unternehmen, den Ländern der Eurozone und Griechenland zu helfen, die Krise zu überwinden.«
Insgesamt gesehen wird nun deutlich, dass man sich in Peking entschlossen hat, eine politische Wende in Richtung auf die Europäische Union zu vollziehen und sich schrittweise aus einer zu großen Abhängigkeit von Washington zu lösen. Bezeichnenderweise hält sich US-Präsident Barack Obama, der darum kämpft, seine angeschlagene Präsidentschaft nach der vernichtenden Niederlage bei den Zwischenwahlen zum US-Kongress zusammenzuhalten, derzeit zu einem Besuch in Indien auf, wo das Pentagon ausdrücklich seine eigene Version einer »militärisch-strategischen Partnerschaft« aufbaut. Wenn die USA Indien militärisch umgarnen, so haben sie dabei ein Land im Auge, das zu einer strategischen Bedrohung werden könnte: China. Doch China antwortet jetzt mit einer Gegenstrategie, sodass man in Washington die eigenen Initiativen vielleicht schon bald bereuen wird. Bleiben Sie dran …
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mardi, 16 novembre 2010
Washington treibt Pakistan in Allianz mit China
Washington treibt Pakistan in Allianz mit China
F. William Engdahl / http://info.kopp-verlag.de/
Sollte es das Ziel von Hillary Clintons State Department sein, die Bildung einer wachsenden Allianz von Staaten zu forcieren, die die US-Außenpolitik ablehnen, dann ist diesem Bemühen glänzender Erfolg beschieden. Das jüngste Beispiel ist Pakistan: Die USA machen Druck, weil Pakistan angeblich zu »sanft« mit den Taliban und al Qaida (oder was die USA so bezeichnen) umgeht. Der Effekt ist, dass Pakistan in eine engere Allianz mit China, dem einstigen Partner in der Zeit des Kalten Krieges, gedrängt wird, und zu den USA auf Abstand geht.
Im Im vergangenen Monat hat Obamas Präsidialamt dem US-Kongress einen Bericht übermittelt, in dem der pakistanischen Armee vorgeworfen wurde, sie vermeide »militärische Einsätze, die sie in direkten Konflikt mit den afghanischen Taliban oder mit al-Qaida-Kämpfern bringen würden«, dies sei eine »politische Entscheidung«. Der Druck, den die USA in den vergangenen Monaten erzeugt haben, um den Krieg in Afghanistan auf das benachbarte Kirgisistan und jetzt auch Pakistan auszuweiten, birgt die Gefahr, dass in der gesamten Region, die ohnehin zu den instabilsten und chaotischsten der ganzen Welt zählt, ein Krieg ausgelöst wird, bei dem zwei Atommächte, nämlich Indien und Pakistan, in eine direkte Konfrontation geraten könnten. Die Politiker in Washington scheinen nicht den geringsten Schimmer von der komplizierten, historisch gewachsenen Kluft zwischen den Stämmen und Ethnien in der Region zu haben. Anscheinend glauben sie, mit Bomben ließe sich alles lösen.
Wenn die Regierung in Pakistan nun verstärkt unter Druck gesetzt wird, so werden dadurch allem Anschein nach die militärischen und politischen Bindungen an Washington nicht etwa gefestigt, wie es noch unter dem Ex-Präsidenten, dem »Starken Mann« Musharraf in gewisser Weise der Fall gewesen war. Vielmehr wird Pakistans jetziger Präsident Asif Zardari China, dem geopolitischen Verbündeten aus der Zeit des Kalten Krieges, in die Arme getrieben.
Laut einem Bericht in Asian News International hat Zardari in Washington bei einem Treffen mit Zalmay Khalilzad, dem ehemaligen US-Botschafter in Pakistan und neokonservativen Kriegsfalken, die US-Regierung beschuldigt, sie »arrangiere« die Angriffe, die den Taliban in Pakistan angelastet werden, um einen Vorwand zu schaffen, unbemannte Drohnen auf pakistanisches Gebiet abzufeuern.* Angeblich habe Zardari gesagt, die CIA habe Verbindungen zu den pakistanischen Taliban, die als Tehrik-e-Taliban-e-Pakistan oder TTP bekannt sind.
Obwohl das Militär in Pakistan von der Unterstützung der USA abhängig ist, herrscht Berichten zufolge im Land eine stark anti-amerikanische Stimmung, die weiter angeheizt wird, wenn Zivilisten bei amerikanischen Drohnenangriffen verletzt oder getötet werden. Auch über die wachsenden militärischen Kontakte Washingtons zu Pakistans Rivalen Indien herrscht große Empörung.
Angesichts der stärkeren Hinwendung Washingtons zu Indien setzt die pakistanische Elite im einflussreichen Sicherheits-Establishment verstärkt auf die Beziehungen zwischen Islamabad und Peking. Pakistan und China verbindet eine, wie oft gesagt wird, »wetterfeste« Freundschaft: eine Allianz aus der Zeit des Kalten Krieges, die aus der geografischen Lage und der beiderseitigen Antipathie gegen Indien erwachsen ist.
Anfang dieses Jahres hat China angekündigt, in Pakistan zwei Atomkraftwerke bauen zu wollen, eine strategische Antwort auf das Nuklearabkommen zwischen Indien und den USA. Dem Vernehmen nach verhandelt der staatliche chinesische Atomkonzern China National Nuclear Corporation zurzeit mit den pakistanischen Behörden über den Bau eines Atomkraftwerks mit einer Leistung von einem Gigawatt.
China hat Pakistan für die Zusammenarbeit bei der Bekämpfung potenzieller muslimischer Aufstände in der Unruheprovinz Xinjiang an der Grenze zu Pakistan und Afghanistan gewonnen. Außerdem baut China Dämme und Anlagen zur Erkundung von Edelmetallen. Von größter strategischer Bedeutung ist der von China betriebene Bau eines Tiefseehafens in Gwadar am Arabischen Meer in der pakistanischen Provinz Belutschistan, von dem aus Öl aus dem Nahen Osten über eine neue Pipeline in die chinesische Provinz Xinjiang transportiert werden soll. Washington betrachtet dies beinahe als kriegerische Handlung gegen die US-Kontrolle über den strategisch lebenswichtigen Ölfluss aus dem Nahen Osten nach China. Die Unruhen ethnischer Uiguren in Xinjiang im Juli 2009 trugen eindeutig die Handschrift amerikanischer NGOs und Washingtoner Geheimdienste, anscheinend sollte damit die wirtschaftliche Tragfähigkeit der Pipeline untergraben werden.
China dringt auch in Süd- und Zentralasien weiter vor, verlegt Pipelines über das Gebiet ehemaliger Sowjetrepubliken und erschließt die Kupferfelder in Afghanistan.
Nach Aussage des pensionierten indischen Diplomaten Gajendra Singh »zeigt Hintergrundmaterial in britischen Archiven, dass London sich ein schwaches Pakistan als Verbündeten im Süden Sowjetrusslands geschaffen hat, um die westlichen Ölfelder im Nahen Osten zu schützen, denn die sind noch immer der Preis, um den der Westen im Irak, im Iran, in Saudi-Arabien und anderen Gebieten am Golf, am Kaspischen Becken und in Zentralasien kämpft«.
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dimanche, 31 octobre 2010
L'UE doit raffermir ses relations avec les pays d'Asie
L’UE doit raffermir ses relations avec les pays d’Asie
L’Asie est une région clef dans le monde qui peut permettre l’émancipation européenne !
Lors du sommet UE/Asie, il n’aurait pas fallu faire silence sur le problème des importations à bon marché en provenance d’Asie !
La rencontre entre pays asiatiques et pays de l’UE (ASEM), qui s’est terminée le 5 octobre à Bruxelles, aurait dû être mise à profit pour constituer des partenariats stratégiques, a affirmé le député européen de la FPÖ autrichienne, Andreas Mölzer. « L’Asie, et surtout la Chine, est une région du monde qui connaît une ascension économique remarquable et dont le poids géopolitique ne cesse de croître. Pour cette raison, il est indispensable d’avoir de bonnes relations, les plus étroites possibles, avec cette Asie en marche, surtout si l’UE cherche à s’émanciper de la tutelle américaine ». , explique Mölzer, membre de la Commission « affaires étrangères » du Parlement Européen.
Mölzer a également souligné que l’UE devait se présenter à ses éventuels partenaires asiatiques en étant pleinement consciente d’elle-même : « Au lieu de bidouiller des déclarations d’intention fumeuses, qui finiront inévitablement au tiroir des dossiers oubliés, il faut aborder les problèmes réels et y apporter des solutions ».
Pour Mölzer, il faut surtout résoudre le problème des importations à bon marché en provenance des pays asiatiques. « Si les relations étroites que nous envisageons avec les pays asiatiques valent la peine que l’on se mobilise pour elles, Bruxelles ne peut pas oublier les intérêts légitimes de l’Europe. Et parmi ces intérêts à ne pas escamoter, il y a la protection des emplois européens face aux salaires extrêmement bas pratiqués en Asie et qui équivalent à du dumping », a conclu Mölzer dans sa déclaration.
(source : http://www.andreas-mölzer.at/ ).
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mardi, 19 octobre 2010
Russie / Inde: projets militaires communs
Russie / Inde : projets militaires communs
L’Inde est prête à acquérir entre 250 et 300 chasseurs de la cinquième génération et à les coproduire avec la Russie. L’armée indienne achètera également 45 avions de transport russes. Cette décision a été prise suite à la visite en Inde du ministre russe de la défense, Anatoly Serdioukov. Dans les dix prochaines années, la coopération militaire russo-indienne visera la réalisation de ces deux projets : réorganiser et moderniser la chasse de l’aviation militaire indienne et doter celle-ci de bons avions de transport.
Le chasseur de cinquième génération ne sera pas une pure et simple copie du Sukhoi T-50 déjà existant, mais visera la création d’un appareil entièrement nouveau, dont le prix unitaire sera d’environ 100 millions de dollars. La valeur totale du marché est donc d’à peu près 30 milliards de dollars. Moscou et New Delhi programment également la construction de chasseurs monoplaces et biplaces pour 2015-2016, dont le coût de recherche et de réalisation sera partagé à parts égales entre les deux pays.
Le ministre indien A. K. Antony, lors d’une conférence de presse tenue avec son collègue russe, a confirmé le marché et les intentions des deux pays en matière de technologies aéronautiques et militaires. Il a déclaré : « L’Inde recevra entre 250 et 300 FGFA (Fifth Generation Fighter Aircraft). Nous avons donc deux projets en commun pour les dix prochaines années, ce qui démontre que la collaboration entre l’Inde et la Russie est optimale ».
New Delhi cherche aussi à acquérir deux appareils A-50, équipés d’un système Falcon de localisation radar, produit en Israël. De son côté, Moscou espère pouvoir convaincre les Indiens d’acheter russe quand ils rénoveront, comme ils le prévoient, leur arsenal d’hélicoptères (197 unités) et d’autres avions (126 unités). Si les Indiens choisissent les MIG-35 et KA-226 russes, l’affaire rapportera une somme supplémentaire de 10,75 milliards de dollars au complexe militaro-industriel russe.
Source : Andrea PERRONE (a.perrone@rinascita.eu ), in : Rinascita, 8 octobre 2010 ; http://www.rinascita.eu ).
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mardi, 12 octobre 2010
Een nieuwe macht Centraal-Azië?
Een nieuwe macht Centraal-Azië?
Een nieuwe macht Centraal-Azië in opbouw? En vooral: wélke macht in opbouw? De jaren 80 en 90 van de vorige eeuw hebben in Europa, maar niet alleen daar, enorme politieke energie vrijgemaakt. Het verdwijnen van de Muur en van het IJzeren Gordijn hebben een aantal oude Europese verwanten bijvoorbeeld dichter tot elkaar gebracht, en hebben bijvoorbeeld wat verdeeld was, terug aaneengesmeed – alhoewel bepaalde voegen nog niet helemaal juist zitten).
Want in de 19de en de 20ste eeuw zou het islamitische, nog Middeleeuws aanvoelende Turkije – de zieke man van Europa – door Mustafa Kemal pardoes, en onder de harde leiding van het Turkse leger, in de moderne en laïcistische wereld zijn binnengebracht. Turkije ging vrij snel de weg op van Frankrijk: een jacobijnse eenheidsstaat, die er alles aan deed om een Turkse eenheidsidentiteit aan alle bewoners van het Turkse grondgebied op te dringen. Daar werd onder andere de kiem gelegd van het nog steeds durende conflict met de Koerdische minderheid, maar ook met andere minderheden werden spanningen voelbaar: de keuze voor het hanafitisch soennisme als staatsreligie zorgde er bijvoorbeeld voor dat de Alevieten zich als tweederangsburgers beschouwden – of bekeken werden. In 1928 bijvoorbeeld wordt godsdienstonderwijs al helemaal afgeschaft, wat pas in 1950 teruggedraaid wordt.
Turkije was in 1949 het eerste islamitische land dat Israël zou erkennen, waarmee we eventjes ook het buitenlandse politiek beleid van Turkije aanraken. Het zou jarenlang doorgaan als een van de trouwste leden van het NAVO-bondgenootschap, een veilige haven voor Amerikaanse vliegtuigen en vloot, en dit tot ver in Eurazië.
Turkije en Rusland: een gespannen verhouding, want buurlanden. De verhouding werd nog moeilijker toen Amerika in de Iraakse oorlog aan Turkije een sleutelrol in de regio verschafte. Of wou verschaffen. Amerika wou volop de Turkse kaart trekken, zette bijvoorbeeld ook de Europese Unie onder druk om Turkije lid van de EU te laten worden, en steunde ook volop andere Turkische volkeren in Rusland en China.
Het weer stond nochtans reeds op fundamentele verandering. In dezelfde jaren 80 en 90 van de vorige eeuw stak het islamitische reveil zowat overal de kop op, ook in Turkije, en daarmee kwam ook de geopolitieke rol, die de VSA voor Turkije hadden uitgeketend, onder druk te staan. Een eerste poging van Erbakan met zijn Refahpartij (met als programma: één grote islamitische gemeenschap van Marokko tot Indonesië) werd in 1997 hardhandig gestopt door het Turkse leger, dat in het verleden ook nooit verlegen zat om een staatscoup meer of minder.
Even later was het de politieke beurt aan de opvolger van Erbakan, Erdogan, en de islamitisch religieuze partij AKP, die in 2001 was opgericht. Ze legden het iets slimmer aan boord. Erdogan wist dat het pleit slechts te winnen was, dat hij slechts aan de macht kon komen, als hij erin slaagde zijn naam nooit te noemen en als hij – in schijn althans – gehecht bleef aan het Westers bondgenootschap. Zo beloofde Erdogan aan de Amerikaanse neoconservatieven de banden met Amerika te zullen versterken.
Nochtans konden de breuken met het verleden niet lang verborgen blijven. In 2003 bijvoorbeeld weigerde de Turkse regering om Amerikaanse vliegtuigen in hun oorlog tegen Irak boven Turks grondgebied te laten vliegen. Een fundamentele rol in de wijziging van het Turks buitenlands beleid speelt de Turkse minister van Buitenlandse Zaken, Achmed Davutoglu. Hij zou eigenlijk volledig willen breken met de politiek van de oude natie-staat om terug aan te knopen met de lijn van het rijk, in casu het Ottomaanse Rijk. Voor Davutoglu is het duidelijk dat Kemal Ataturk er eertijds niet in was geslaagd om het Turkse identiteitsbesef uit te breiden tot de grenzen zelf van de Turkse staat. Daarom wil hij het nieuwe Turkse Rijk opbouwen rond het nieuwe bindmiddel: de islam. Want, zo redeneert hij, zelfs islamitische Koerden hebben massaal voor de AKP gestemd om op die manier de goddeloze marxisten van de PKK van de macht te houden. Als er momenteel één bindmiddel is dat er mogelijkerwijze in kan slagen alle Turkssprekende onder één gezag te brengen, dan misschien wel de islam.
Een tweede breuklijn die zich aan het aftekenen is binnen de grenzen van Turkije, is die van de houding tegenover Israël. Gedurende decennia heeft het Turkse leger – en bij uitbreiding het Turkse establishment – met Israël een zeer goede band opgebouwd. Maar stilaan doet zich een ontdubbeling voor in Turkije: een bepaalde Turkse elite, inbegrepen het leger, een deel van de administratie en de magistratuur, wil de goede relaties met Israël behouden, terwijl de regering van AKP er absoluut geen graten in ziet dat de relaties gaandeweg minder hartelijk worden. Ook dat is een bouwsteentje in het nieuwe neo-Ottomaanse bouwwerk: de Turken krijgen in de Arabische wereld stilaan de naam van “verdedigers van het ware geloof”, en bouwen voor zichzelf veel goodwill op als bemiddelaar tussen allerlei rivaliserende islamitische kampen en strekkingen.Hoeft het gezegd dat dit allemaal niet van aard is om geruststellend te werken in de rest van de wereld? Er is onrust bij de Amerikaanse overheden ontstaan omtrent de betrouwbaarheid van hun trouwste Aziatische bondgenoot. Maar ook in de islamitische wereld zelf groeit de ongerustheid bij deze sterkere rol voor Turkije. Concurrentie is altijd een constante geweest in de islamitische wereld: de soennitische wereld, Egypte, Marokko, Saoudie-Arabië, maar vooral Iran kijkt met onverholen vijandschap naar Turkije. Iran ziet met de dag zijn invloed in de rest van de islamwereld verzwakken ten voordele voor Turkije.
Turkije zit ergens wel in een tang: het wil zijn rol binnen de NAVO behouden (als islamitisch land), maar wil tezelfdertijd zijn invloed binnen de islamitische wereld versterken. Wat als die twee in een vijandig spel terechtkomen, kan men zich afvragen. Maar Turkije gaat nog verder: in de jongste jaren heeft deze Aziatische reus-in-de-kiem een tiental nieuwe ambassades in Afrika en Latijns-Amerika geopend. Op diplomatiek veld heeft het nieuwe gesprekken met Rusland aangevat, want het wil Washington in elk geval duidelijk maken dat het géén loutere pion van Amerika meer wil zijn in het gebied. Turkije wil meespelen met de grote staten. Het is lid van de G-20, op economisch vlak steeg het van de 28ste naar de 17de plaats in de ranglijst van het IMF. Het ligt strategisch zeer goed tussen Amerika, Rusland en China en bevindt zich op een scharnierplaats ten opzichte van het Continentaal Plateau. Het zal, als islamitisch land, zijn rol willen spelen in dit werelddeel.
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mardi, 05 octobre 2010
La place de la Russie dans l'histoire de la diplomatie européenne
Archives de SYNERGIES EUROPEENNES- 1997
La place de la Russie dans l'histoire de la diplomatie européenne
Intervention de Robert Steuckers lors du 1er Colloque de l'Atelier régional d'Ile-de-France de Synergies Européennes, le 8 mars 1997
On ne peut évaluer la place et l'importance de la Russie dans la tradition diplomatique européenne que sur base des textes existants. Les premiers textes valables pour juger l'émergence de la Russie dans la réalité politique européenne datent de l'époque de Pierre le Grand. Ce Tsar a manifesté durant son règne la volonté de faire de la Russie un Etat organisé à l'européenne, participant pleinement au concert des Etats européens. Cette volonté peut se concrétiser dès l'effondrement de la puissance polono-lithuanienne qui conduira aux partages successifs de la Pologne, achevés tout à la fin du XVIIIième siècle.
Cependant, en dépit de la volonté de Pierre le Grand, la Russie ne se laissera jamais appréhender par les mêmes concepts politiques et géographiques que le reste de l'Europe. Cette différence est due à la qualité, aux dimensions et à l'immensité de son territoire, qui fait charnière entre l'Europe et l'Asie. Dès le départ, dès les premiers textes rédigés en Europe sur la Russie et destinés aux chancelleries, on perçoit la dimension eurasienne de la Russie, malgré la volonté de Pierre le Grand de s'aligner exclusivement sur l'Europe.
Aujourd'hui, les cercles politiques et culturels européens, toutes tendances confondues, font désormais face à une Russie complexe, immense, tout à la fois européenne et asiatique, échappant aux règles des idéologies occidentales. Ils ne font plus face à une URSS à l'idéologie monolithique, parfois plus aisée à comprendre, encore que les arcanes peu déchiffrables de la soviétologie ont souvent induit en erreur des soviétologues patentés comme Alain Besançon ou Hélène Carrère d'Encausse... Récemment, pendant l'été 1993, la presse à sensation de Paris a parlé d'une alliance entre “rouges” et “bruns”, de l'émergence inquiétante d'un bloc “national-communiste”, en embrayant sur des phénomènes somme toute superficiels et sans tenir nullement compte de la longue histoire des rapprochements et des ruptures entre la Russie, d'une part, et les autres puissances européennes, d'autre part. La phobie du complot “rouge-brun” a fait long feu car les connaissances historiques lacunaires des quelques journalistes fort prétentieux et très braillards qui ont déclenché le scandale étaient bien maigres. Leur bricolage n'était qu'un jeu médiatique. Quant à ceux qui se sont déclarés “rouges-bruns” dans la foulée, pour entrer dans le jeu des hystéries médiatiques et faire parler de leurs personnes, on décèle aisément chez eux une volonté d'apparaître comme de “grands scandaleux”, de “grands méchants loups”, additionnant toutes les rigueurs des totalitarismes stalinien et hitlérien de ce XXième siècle.
Pour éviter la répétition malheureuse de telles sensations médiatiques, pour échapper aux hypersimplifications de la presse parisienne, il m'apparaît nécessaire de retourner à l'histoire de la diplomatie européenne et de voir comment le rapport Europe/Russie est perçu dans les chanceleries et comment il transcende et chevauche les étiquettes de “gauche” et de “droite”. Il convient d'examiner comment les concepts de la géopolitique sont nés il y a près de 300 ans, au départ de réflexions sur l'immensité du territoire russe, ensuite de voir comment ils ont été articulés dès l'époque napoléonienne. Il convient de déceler quelles polarités ont été mises en exergue dans le contexte tourmenté des guerres de la Révolution et de l'Empire, de voir comment les conflits ont été explicités.
Accusé d'avoir fait partie de ce complot “rouge-brun” pour avoir participé à un débat avec Ziouganov, président du PCFR, et Volodine, son ajoint et conseiller, à Moscou en avril 1992, débat portant sur une alternative éthique au néo-libéralisme (!), sur l'œuvre de François Perroux, sur l'anti-utilitarisme, débat retransmis ensuite dans la presse russe (Dyeïnn) et serbe (Duga), j'étais redevable d'une explication, non pas aux ignares de la presse parisienne mais à mes lecteurs et à mes abonnés. Je m'étais déjà expliqué par bribes dans un interview (cf. NdSE n°2; versions portugaise et néerlandaise également disponibles). J'entends, dans cette allocution qui deviendra très prochainement texte, être plus exhaustif. J'avais le devoir d'approfondir la question pour confondre les piteux, médiocres et minables journalistes parisiens du Monde et d'autres gazettes de bas étage qui se sont donnés en spectacle pendant l'été 1993. J'avais le devoir intellectuel de retourner au réel pour réduire à néant les simplifications esthétisantes des néodroitistes et nationaux-révolutionnaires parisiens, relevant de la même engeance journalistique que leurs adversaires, qui n'ont pas de projets cohérents ni de discours étayés, mais qui aiment à répéter “je suis un grand méchant” ou un “grand-pervers-qui-pense-tout-ce-qui-est-interdit-de-penser”. Afin, bien sûr, de ne plus jamais se laisser embarquer dans un jeu médiatique aussi stérile que celui de l'été 1993.
Les spéculations sur la nature politique et géographique de la Russie commencent dans l'œuvre de Leibniz, qui a cumulé les positions de philosophe, de mathématicien, de conseiller du Prince et de diplomate. Pour la première fois, Leibniz livre à ses lecteurs européens une réflexion politique profonde sur la Russie. Leibniz a forgé des concepts instrumentalisables pour faire face à la nouvelle réalité géographique et politique qui se présentait aux portes de l'Europe. Pierre le Grand venait en effet d'annoncer qu'il ferait de la Russie un Etat européen, participant au concert des nations européennes. En 1669, Leibniz réagit face à la question polonaise. La Pologne, voisine de la Russie, était, avant l'émergence de celle-ci, la puissance la plus “orientale” de l'Europe. Cette Pologne était une “république aristocratique”, tolérante sur le plan religieux, fantaisiste sur le plan culturel et littéraire, brillante dans les arts, fébrile et mobile sur le plan militaire, avec sa cavalerie portée par un “mythe sarmatique”, où l'aristocratie polonaise se décrivait comme la descendante de cavaliers sarmates venus d'Iran, du Caucase et des régions pontiques. La monarchie de cette Pologne était élective. Avant l'élection du nouveau monarque, l'Allemand Leibniz donne son avis: il est alors “russophobe”, se méfie de cet immense pays dont on connaît finalement peu de choses, et espère la défaite du candidat qui a les faveurs de la Moscovie. Sinon, dit-il, le “rempart polonais” qui protège l'Europe va tomber, ce qui amènera les “barbares asiatiques” au centre de notre sous-continent et aux frontières du Reich. Ceci est la première position de Leibniz et elle est anti-russe.
Mais très vite, cette position se juxtaposera à une deuxième: il faut inclure la Russie dans une grande alliance européenne anti-turque («Quid si ergo posset Moscus quoque in anti-turcicum foedus pellici»). En effet, avant sa longue désagrégation, la Pologne était forte. Rappelons l'intervention des troupes de Jan Sobiesky et du Hongrois Janos Hunyadi lors des Croisades anti-ottomanes dans les Balkans et lors de la défense de Vienne aux XVième et XVIième siècles. La Russie de Pierre le Grand devra reprendre à son compte la fonction de cette puissante Pologne de Sobiesky. Telle est la seconde position de Leibniz.
Dans la troisième position qu'il adopte face à la Russie montante, Leibniz jette les bases de ce qu'il est convenu d'appeler l'“eurasisme”. Dans son texte de 1697, Novissima Sinica, Leibniz écrit que la masse continentale euro-asiatique compte deux anciennes civilisations: 1. Rome/Europe (le Reich); 2: La Chine. La Russie, poursuit-il, doit faire le lien entre ces deux civilisations en organisant son propre territoire. L'Europe acquerra un avantage si c'est elle qui communique à la Russie les recettes de la “bonne” organisation politique, territoriale, administrative, etc.
Dans sa quatrième position, Leibniz parle de la Russie comme d'une tabula rasa, comme d'un espace vierge, où l'on pourra tester toutes sortes d'expériences. La Russie est un pays qui offre des milliers de possibilités (comme on le dira plus tard des Etats-Unis). Il permettra d'absorber une immigration paysanne allemande.
Dans sa cinquième position, prise en 1712 lors de la guerre entre la Suède et la Russie pour la maîtrise de l'axe fluvial “gothique”, joignant la Baltique à la Mer Noire, afin d'assurer la translation de l'héritage polono-lithuanien. Leibniz, Allemand, s'oppose à toute expansion de la Russie vers le Nord, mais favorise toute expansion vers le Sud. Cette position allemande est une constante: on l'a vu se manifester lors de l'indépendance des Pays Baltes (en 1919 comme en 1991), de la Finlande, dans les intentions lisibles en filigrane dans les clauses du Pacte germano-soviétique de 1939, dans les concessions accordées en théorie par Jirinovski aux Suédois et aux Allemands dans son projet de “grande avancée vers le Sud”. Symptomatique est le fait que Jirinovski insiste si fortement en Allemagne et en Suède sur l'orientation méridionale des hypothétiques efforts de “sa” future Russie.
Dans sa sixième position, Leibniz approfondit sa réflexion sur la qualité de tabula rasa du territoire russe. La Russie est vierge, dit-il, on peut y importer tant les vices que les vertus de l'Europe. Mais Leibniz est pessimiste, conservateur. Pour lui, l'Europe décadente est travaillée et minée par ses vices. Il raisonne binairement en opposant une Europe décadente à une Russie pure. Adepte de l'idéologie des Lumières à ses débuts, Leibniz poursuit un objectif pédagogique: si la Russie est pure, vierge et “mineure”, elle peut devenir l'objet d'une pédagogie vertueuse et éviter ainsi d'entrer directement en décadence à cause de ses nouveaux contacts avec l'Europe malade.
En résumé: l'Europe, par la voix de Leibniz, est favorable à la Russie quand elle avance ses pions vers le Sud contre les Turcs, vers la Mer Noire, mais pas encore vers les Balkans, territoire réservé à l'époque aux Hongrois et aux Autrichiens, protecteurs des Serbes, après la libération de Belgrade en 1717/18. En revanche, l'Europe se montre hostile à la Russie quand elle avance ses pions vers le Nord. Comme Leibniz, elle se montre pro-suédoise, pro-polonaise (puis pro-ukrainienne), car, pour elle, l'axe gothique est un espace intermédiaire entre la Russie et l'Europe, qui a une logique propre qu'il convient de conserver, tandis que l'espace balte est un indispensable espace de transition entre Russes, Suédois et Allemands
Herder précisera cette vision d'un espace balte d'échange culturel. Herder est le père des nationalismes germaniques et slaves, le théoricien de la relativité culturelle, des différences, de la valorisation des origines de toute culture au détriment des époques plus tardives, jugées déclinantes. En 1769, dans le journal qu'il a écrit au cours de son voyage de la Livonie (en Lettonie actuelle) à Nantes, Herder écrit que l'Europe est vieillie, décadente, qu'elle a épuisé ses potentialités. Face à elle, la Russie possède encore des atouts, des potentialités. Il faut travailler la Russie, dit Herder, pour en faire un modèle pour le reste de l'humanité. La pensée de Herder est à la fois liée aux Lumières car elle est pédagogique, elle veut étendre au monde entier des idées européennes qui ne sont ni le rationalisme occidental ni le césaro-papisme catholique. Mais si cette pensée de Herder est liée aux Lumières, elle est en même temps critique à leur égard. La critique de Herder s'articule surtout autour de l'optimisme et de la prétendue unicité du modèle des Lumières. Pour Herder, théologien protestant, toute culture est une manifestation voulue par Dieu et celui-ci se manifeste de multiples façons, donc seule la pluralité des cultures est légitime, est œuvre de Dieu. L'histoire d'un peuple particulier est simultanément l'histoire d'un possible humain, universellement valable.
Sur base de ces principes, Herder énonce des projets pour l'Europe orientale et la Russie. Il privilégie les Pays Baltes, dont il est issu, comme espace d'échanges entre l'Europe germanique et la Russie. Mais il concocte également des projets séduisants pour l'Ukraine, la Crimée et la rive septentrionale de la Mer Noire. La mission de la Russie, à ses yeux, est de recréer un nouvel hellénisme sur le pourtour de la Mer Noire et de faire de la Crimée sa capitale. En énonçant ce grand projet, il reprend l'idée allemande d'un “Drang nach Süden” russe et souligne l'importance capitale de la Crimée sur le plan géopolitique (pendant la guerre civile entre Blancs et Rouges, la Crimée, sous le Général Wrangel, a été un enjeu majeur du conflit; le IIIième Reich concoctait également des plans germanisants/hellénisants pour la Crimée et le conflit russo-ukrainien d'aujourd'hui rappelle l'importance géopolitique de cette presqu'île). Le “Projet grec” de Herder sera repris par Catherine II et instrumentalisé contre l'Empire ottoman que la fougueuse Tsarine chassera des rives septentrionales de la Mer Noire.
Le jugement que porte Herder sur l'œuvre de Pierre le Grand est également fort intéressant. Herder reproche au Tsar Pierre d'avoir négligé la culture “naturelle” de la Russie, de ne pas avoir tablé sur ses atouts nationaux et surtout d'avoir fait de la Russie une “pyramide inversée” qui risque de s'effondrer tôt ou tard dans la catastrophe. Herder prédit ainsi pour la première fois la révolution russe de 1917.
De 1789 à 1820, c'est-à-dire de la Révolution française à l'avènement de la Monarchie de Juillet, la réflexion sur la Russie va s'articuler autour de trois oppositions:
1. L'opposition entre liberté et despotisme, où l'Ouest est la liberté et la Russie, le despotisme (Marx reprendra cette dichotomie russophobe, et, dans le marxisme, on parlera parfois de “despotisme oriental”).
2. L'opposition entre légitimité et révolution, où la Russie est le bastion de la contre-révolution. Nous avons là ante litteram une dialectique Est-Ouest, où la droite légitimiste est pro-orientale et anti-occidentale, contrairement à ce que nous avons connu pendant la guerre froide. Dans l'Allemagne de la “révolution conservatrice”, Moeller van den Bruck, traducteur de Dostoïevski, réfléchit sur l'itinéraire de ce dernier: révolutionnaire dékabriste, il deviendra légitimiste, en percevant l'insuffisance des idées occidentales. Moeller et, à sa suite, les diplomates allemands conserveront l'espoir légitimiste-conservateur en la Russie, en dépit de la révolution bolchevique.
3. L'opposition Terre/Mer ou Russie/Angleterre. Ces réflexions ont annoncé la géopolitique de McKinder et de Haushofer, ainsi que l'œuvre de Carl Schmitt. Face à cette dualité Terre/Mer, notons la position intermédiaire prise par la France. La France est une “civilisation équilibrée” entre Terre et Mer, elle s'oppose également au “navalisme anglais” et au “despotisme exclusivement tellurique” de la Russie. Quand, sous Napoléon, la France s'identifie à l'Europe, comme l'Allemagne s'y identifiera pendant les deux guerres mondiales, les Continentaux percevront l'Europe comme le centre du monde et de l'histoire mondiale.
La période qui s'étend de 1789 à 1830 est une période de grande effervescence. Pour reprendre la terminologie de Carl Schmitt, c'est la fin du jus publicum europæum. L'idée révolutionnaire veut se planétariser, ne connaît ni repos ni mesure. Au cours de cette période, les diplomates écrivent une quantité impressionnante de rapports dont la teneur est proprement géopolitique. Nous allons examiner ceux qui concernent notre propos d'aujourd'hui: la Russie.
En 1791, un rapport anglais anonyme, intitulé Russian Armament, jette les bases de l'hostilité anglo-saxonne à l'encontre de la Russie. La Russie est désignée clairement comme l'ennemi car elle vise l'élimination de la présence ottomane en Mer Noire et dans les Balkans. Nous avons là le premier indice de l'alliance réelle et tacite entre Londres et la Turquie, entre la thalassocratie anglo-saxonne et la Sublime Porte. Le rapport poursuit: l'avancée de la Russie vers Constantinople menace 1) l'Egypte (on prévoit déjà en Angleterre le percement du Canal de Suez) et 2) le commerce du Levant. Donc, pour les diplomates anglais, l'existence de l'Empire Ottoman, y compris sa présence dans les Balkans, garantit l'équilibre européen (l'argument sera repris lors de la Guerre de Crimée); l'Empire Ottoman est un barrage contre la Russie qu'on soupçonne vouloir s'emparer des Indes (en 1800-1801, effectivement, le Tsar Paul I, allié de Napoléon, projette l'invasion des Indes). Dans d'autres manifestes anonymes parus entre 1792 et 1793, des observateurs anglais envisagent une alliance entre la France, l'Angleterre et la Turquie, pôle de la liberté, contre l'Autriche, la Prusse et la Russie, pôle du despotisme.
Cette tentative de rapprochement, en pleine guerre, de l'Angleterre avec la France révolutionnaire peut s'expliquer clairement si l'on a lu le livre de l'historien français Olivier Blanc, Les hommes de Londres. Histoire secrète de la Terreur (Albin Michel, 1989). Blanc nous y démontre les mécanismes d'organisation de la guerre civile en France, mis en œuvre depuis Londres, afin de venger la bataille de Yorktown (1781) qui avait donné la victoire aux insurgés américains avec l'appui de troupes et de vaisseaux français. Par ailleurs, l'Angleterre visait à détruire les ressorts de la politique navale de Louis XVI, qui avait connu quelques succès militaires. Les manifestes anonymes réclamant une alliance avec la France demandent implicitement l'arrêt de cette politique secrète d'organisation de la guerre civile en France, d'autant plus que les troupes autrichiennes et prussiennes avancent dans le Nord et en Lorraine, risquant d'affaiblir définitivement la France et de souder au Nord et au centre de l'Europe un bloc germanique et impérial solide. L'Angleterre, au nom de l'équilibre continental, cherche à changer d'alliés et à se ranger du côté du plus faible. Mais, coup de théâtre, la France est victorieuse à la bataille de Fleurus en 1793: elle devient la plus forte puissance européenne, s'installe en Brabant et à Anvers, ce qui, pour Londres, est intolérable. L'Angleterre, pour respecter sa politique d'équilibre, doit lui faire la guerre, de concert avec les Prussiens et les Autrichiens. Quand l'Allemagne, après Bismarck, sous Guillaume II et avec la politique navale de von Tirpitz, deviendra la plus forte des puissances européennes, l'Angleterre fera la guerre contre elle, en utilisant les ressources humaines de la France.
C'est sur cet arrière-plan que Wilhelm von Byern en 1794 propose une alliance germano-russe contre la France révolutionnaire et E. von Zimmermann une alliance germano-franco-anglo-russe contre le challengeur qui pointe à l'horizon, l'Amérique. Mais le théoricien le plus pointu qui a esquissé les grandes lignes d'une politique générale pour vertébrer l'Europe, pendant cette époque de troubles et de désorientements, reste le Français Bertrand Barère de Vieuzac. En 1798, il rédige un manifeste intitulé La liberté des mers ou le gouvernement anglais dévoilé; ce texte fondamental annonce et anticipe véritablement le noyau central des doctrines géopolitiques allemandes de ce siècle (Haushofer) et les positions telluriques et anti-thalassacratiques de Carl Schmitt. Pour Barère de Vieuzac, le véritable principe dissolvant n'est pas tant la révolution que le “principe industriel”, générateur de flux incontrôlables. L'industrie anglaise, dit Barère de Vieuzac, découle de la navigation, dès lors les flots générés par la production de marchandises correspondent aux flots océaniques, sur lesquelles rien ne peut se construire. L'industrie induit une démonie de la technique, qui abolit toutes les barrières, frontières, etc. Elle abolit le principe traditionnel de la famille avec son ancrage dans la Terre. C'est au départ de ce texte de Barère de Vieuzac que le poète Rudolf Pannwitz (cf. NdSE n°19) chantera son apologie de la Terre et de l'Imperium Europæum et que le Carl Schmitt d'après 1945 élaborera son anti-thalassocratisme fondamental (cf. Terre et Mer & Glossarium). Pour Barère de Vieuzac, l'Europe est une terre de civilisation et d'enracinement qui s'oppose tout naturellement à l'Angleterre, qui domine l'espace fluide de la mer sur lequel aucune civilisation ne peut éclore, et à la Russie, qui domine un espace mouvant de terres non travaillées. Son disciple Eschasserieux propose dès lors une alliance franco-prussienne contre l'Angleterre et la Russie. C'est dans les travaux de Barère de Vieuzac et d'Eschasserieux qu'on trouve l'origine des rapprochements franco-allemands, depuis le napoléo-gaullisme de Pannwitz jusqu'à la réconcialisation préconisée par Adenauer et De Gaulle en 1963 et à la présence d'un Ernst Jünger lors de la visite de Kohl et Mitterand à Verdun.
Chez les nationalistes allemands de la première génération, nous trouvons d'autres approches, qui, elles aussi, ont connu une postérité. Pour Ernst Moritz Arndt, auteur de Deutsche Volkswerdung, l'analyse est plus subtile: l'opposition fondamentale, pour Arndt, n'est pas tant la révolution ouest-européenne contre la contre-révolution russe, ou la civilisation française, allemande et européenne contre la barbarie russe (comme le voulaient les russophobes napoléoniens), mais l'opposition entre pays fermés non organisés et pays ouverts à la mer (sans pour autant être thalassocratiques). Arndt préfigure là la géopolitique de Ratzel.
Quant au poète Jean-Paul en 1810, il se moque de la russophobie qui décrit les Russes comme des “barbares”, mais reste attaché à l'idée pédagogique de l'Aufklärung (que l'on a repérée de Leibniz à Herder). Selon cette idée laïque et missionnaire, la Russie est certes encore “barbare” mais elle se civilisera sous l'influence européenne. Remarquons que la russophilie de Jean-Paul n'est pas encore celle des narodniki russes: il ne rejette pas l'intellectualisme de l'Aufklärung mais ne parie pas sur les ressorts naturels du peuple russe, qu'il juge encore “inférieurs” et “mineurs”.
Heinrich von Kleist, dans son essai Über das Marionettentheater (1810) décrit un monde futur totalement technicisé et rationalisé, mais, dans ce monde figé, tout à coup, un ours déboule sur la scène; il est le symbole de l'Est, de la Russie; il représente la force de l'instinct qui domine toute technique. Contre l'instinct, inutile de se battre, il ne faut attendre aucune victoire. L'Ouest, c'est Napoléon, l'ours, c'est la Russie. Cette argumentation sera reprise par Niekisch dans ses articles “nationaux-bolcheviques” de la revue Widerstand.
En France, c'est le traditionalisme anti-révolutionnaire qui développera des réflexions intéressantes sur la Russie. Pour Louis de Bonald (1754-1840), dans ses Discours politiques sur l'état actuel de l'Europe (1802), la Russie est, depuis la chute de l'Empire romain, la plus grande force d'expansion à l'œuvre en Europe. Mais, ajoute-t-il, son christianisme est “byzantin”, donc, du point de vue catholique de Bonald, il est un mélange de “superstitions” d'“idolâtrie” et de “morceaux de christianisme”. Dans les droites catholiques et françaises, Bonald introduit un ferment russophobe d'anti-byzantinisme, contre lequel s'insurgera le Russe Leontiev (cf. Vouloir n°6/1996). A cet anti-byzantinisme, Bonald ajoute un jugement sur l'œuvre de Pierre le Grand: il estime qu'avoir voulu l'européanisation de la Russie est une bonne initiative, mais, déplore Bonald, “il a introduit la corruption avant de former la raison”. Bonald veut dire par là que Pierre le Grand a d'abord favorisé le commerce et l'industrie avant d'établir des lois. Il aurait dû favoriser les classes rurales, puis assurer le primat de la chose militaire, de la souveraineté et de la paysannerie sur les fonctions de négoce. Bonald développe une critique conservatrice de l'idéologie marchande, vectrice de corruption, mais souhaite la conversion de la Russie au catholicisme. Il introduit ainsi un motif de russophobie récurrent dans la pensée politique conservatrice en France.
Joseph de Maistre (1753-1821) critique à son tour l'œuvre de Pierre le Grand, qui s'est laissé entraîner par “l'esprit de fabrication”. Comme cet esprit de “fabrication” (on dirait aujourd'hui: ce “constructivisme”) s'est insinué dans la vie politique russe dès l'origine de son européanisation, il est appelé à s'accentuer en dépit des barrières traditionnelles et provoquera une révolution (avec la critique de Herder qui voit dans la Russie de Pierre le Grand une “pyramide inversée” prête à basculer, la critique de J. de Maistre est la seconde prédiction de la révolution russe, un siècle avant les faits).
La fin de l'aventure napoléonienne se déroule sous le règne du Tsar Alexandre I. Celui-ci fournit le gros des troupes de la coalition anti-napoléonienne, si bien qu'il acquiert le titre de “Libérateur de l'Europe”. Il est forcément peu perçu comme tel en France mais bien en Allemagne ou en Belgique (où le souvenir de “Pietje le Cosaque”, à Gand, au moment des premières manifestations flamingantes, reste dans les mémoires). L'idée motrice d'Alexandre I était de constituer une “Sainte-Alliance” en Europe. La mission de la Russie est de donner corps à cette initiative, visant à terme la “monarchie universelle”, que ses adversaires déclareront bien vite “despotique”. Cette idée du Tsar Alexandre I provient de deux sources:
1) La “pansophie” de Louis-Claude de Saint-Martin, qui visait à transcender les clivages religieux en Europe entre orthodoxes, protestants et catholiques.
2) Le “Mouvement du Réveil” de l'Allemand Jung-Stilling.
Jung-Stilling (1740-1817) veut fusionner le piétisme et la mystique protestante. Il élabore le concept de “nostalgie” (Heimweh, également titre d'un roman). La nostalgie est toujours nostalgie de la patrie céleste, de l'Empire de Dieu à construire. Pour Jung-Stilling, cet empire commencera à l'Est. Le christianisme s'est développé d'Est en Ouest et a décliné. Il faut faire le chemin inverse. Son disciple Johann Albrecht Bengel voit dans la Russie l'instrument de Dieu pour punir les nations: Napoléon est l'Antéchrist, Alexandre I, l'Ange de l'Apocalypse. En 1817, quand une famine éclate en Allemagne du Sud, les paysans adeptes du “Mouvement du Réveil” (catholiques et protestants confondus) émigrent vers la Russie, afin de s'installer dans l'antichambre du futur paradis et de fuir l'Europe qui allait subir une punition méritée.
Franz von Baader (1765-1841) recueille l'héritage de la mystique allemande de Jakob Boehme, de Louis-Claude de Saint-Martin, de Jung-Stilling et de Görres. Son objectif se confond avec celui d'Alexandre I: réconcilier catholiques et protestants dans l'orthodoxie, raviver la dimension religieuse eschatologique et mystique, faire de la Russie le site de la synthèse de ce renouveau religieux et de son armée l'instrument destiné à sauver l'Europe de la dissolution révolutionnaire.
Les idées traditionalistes, la coalition anti-napoléonienne, le “Mouvement du Réveil” poursuivaient un même objectif. D'où la théocratie chrétienne et pansophique, l'utopie tirée du “Mouvement du Réveil”, l'“entremission organique” (organische Vermittlung) participent du “Principe d'Etat” qui s'oppose à l'Etat mécanique des révolutionnaires (procédant de l'“esprit de fabrication”) et au “Dieu mécanique” des philosophes. Mais la grande différence entre, d'une part, Baader et les catholiques pansophiques et pro-orthodoxes et, d'autre part, et Bonald, de Maistre et les catholiques stricto sensu, c'est que Baader est moniste (il veut façonner le futur et affirme que la bonne politique organique adviendra) tandis que Bonald et de Maistre sont dualistes et prétendent que la bonne politique est une chose définitivement passée. Face à la position pro-orthodoxe de Baader, de Maistre avance que l'orthodoxie est figée. Baader lui répond que cela la rend imperméable aux idées révolutionnaires. Pour Baader en revanche, c'est le “papisme” qui est figé car il jette le soupçon sur l'intelligence et le savoir (selon l'adage: “point trop de science”). Le protestantisme selon Baader laisse libre cours au savoir et l'accumulation de “science” désoriente les hommes, incapables de maîtriser les flux de la connaissance. Pour Baader, science et foi ne doivent pas être distinctes: telle est la mission d'Alexandre I, de la Sainte-Alliance, du “Mouvement du Réveil”, de la Russie et de l'orthodoxie, face à l'“Ouest pourri” (gniloï zapad). Mais les forces les plus conservatrices de l'Eglise orthodoxe russe refusent la démarche d'Alexandre, jugé trop ouvert aux Catholiques et aux Protestants, les “Réveillés” sont expulsés de Russie, de même que Baader, qui ne peut plus s'y rendre et tire les conclusions de sa tentative avortée: «Le retour à une politique ecclésiale conservatrice va provoquer l'expansion du matérialisme en Russie et, sous le manteau d'une Eglise d'Etat, les tendances anti-chrétiennes pourront agir plus secrètement, donc plus destructivement». Troisième prévision de la révolution bolchevique...
Autre figure-clef de l'époque, l'Abbé Dufour de Pradt (1759-1837), archevêque et confesseur de Napoléon. Pour Dufour de Pradt, le monde contient “deux zones de principes et de langage”, la zone de l'“ordre absolu” et la zone de l'“ordre constitutionnel à des degrés divers”. Ces deux zones se livreront une lutte à mort. Dufour de Pradt annonce au fond la bipolarité de la guerre froide... L'Europe n'a plus le choix qu'entre devenir un protectorat anglais et devenir un protectorat russe. En 1819, Dufour de Pradt prévoit que l'Amérique remplacera l'Angleterre sur mer, avant même que le Président Monroe ne proclame sa célèbre “doctrine” en 1823. Pourquoi? Parce que tant la Russie que l'Amérique disposent d'espace. Dufour du Pradt écrit: «La Russie jouit de tous les avantages dont sont privés les anciens Etats de l'Europe, dans lesquels les espaces sont occupés par la population et par les cultures destinées à la subsistance. On a calculé l'époque à laquelle les Etats-Unis d'Amérique possèderaient une population de cent vingt millions d'habitants, la progression a même dépassé les prévisions. Pourquoi, dans un temps donné, la Russie ne s'élèverait-elle pas au même degré, car elle possède des éléments parfaitement semblables et égaux à ceux qui promettent aux Etats-Unis ce rapide accroissement? La faculté de nourrir sa famille est la limite de la population; c'est elle qui, dans les Etats peuplés, réduit les mariages à un si petit nombre. Mais il faut un long cours de siècles pour que cette limite sera atteinte en Russie, comme en Amérique; elle se peuplera donc à l'infini...».
Aux Etats-Unis, le diplomate Alexander H. Everett (1790-1847) constate que tous les mouvements politiques de son époque sont les conséquences de la Révolution, cherchent à poursuivre la Révolution. L'Europe, dit-il, doit s'unir sinon elle subira le sort des cités grecques, face à la puissante machine militaire et administrative romaine. Mais pour que cette unification ait lieu dans l'équilibre des forces, il faut en exclure la Russie, parce qu'elle a beaucoup d'espace et rompt cet équilibre. Néanmoins, elle va sauver l'Europe en l'unifiant de force: c'est alors que prendra fin l'ère révolutionnaire.
En Allemagne le Baron von Haxthausen (1792-1866) écrit que l'atout slave/russe majeur dans le concert politique européen de l'époque est le sens intact de la communauté (mir/obchtchina). Haxthausen influencera directement la pensée populiste russe, tant dans l'expression qu'elle s'est donnée chez Alexander Hertzen que dans celle des narodniki (les slavophiles) ou des marxistes russes. Entre les uns et les autres, face à cette revendication de la “communauté”, il y tout de même des différences d'approche: les “progressistes” voient dans le mir une condition sociale favorisant l'avènement du socialisme, tandis que les narodniki y voient une suprématie morale. Pour Haxthausen, les “communautés” russes sont le fondement de l'ordre social car elles empêchent l'émergence d'un prolétariat. Haxthausen était conscient de la différence entre démocrarie organique et démocratie atomisée.
Vu d'Europe, voici donc un vaste éventail de réflexions sur la Russie qui inspirent toujours les chanceleries. Elles apparaissent limpides dans leur simplicité et continuent à structurer toute la pensée géopolitique, même si les noms de leurs auteurs sont aujourd'hui tombés dans un oubli non mérité.
Il nous reste à dire quelques mots sur l'Eurasisme. Les Anglais ont un mot pour désigner la lutte planétaire pour le contrôle de l'Asie Centrale et himalayenne: “The Great Game”, “le Grand Jeu”. ce “Grand Jeu” consiste à contrôler les espaces vides entre les grands pôles civilisationnels de l'Inde, de la Chine et de l'Europe. Car la maîtrise de ces espaces assure la domination de la planète. Leibniz s'en était déjà confusément aperçu en rédigeant sa Novissima Sinica en 1697. Dès la fin du XVIIIième siècle, en 1796-97, les Anglais devinent que l'Europe (allemande ou française) et la Russie vont un jour ou l'autre contester ses positions en Inde. Pour les Anglais, il y avait des signes avant-coureurs, comme la conquête de Sébastopol par les troupes de Catherine II en 1783, qui devient port russe en 1784, prélude à l'annexion complète de la côte pontique entre le Dniester et le Boug à la suite de la Paix de Jassy en 1792. La Mer Noire devient un lac russe, tandis que les Pays-Bas méridionaux tombent aux mains des hordes révolutionnaires.
Napoléon, lui, se rend compte du désastre que constitue pour la France la perte de ses comptoirs indiens. D'où son plan de couper la route des Indes en s'installant en Egypte. Avant de se lancer dans cette entreprise, il dévore tous les livres sur l'Egypte: «J'étais plein de rêves. Je me voyais fondateur d'une nouvelle religion, marchant à l'intérieur de l'Asie monté sur un éléphant, avec un turban sur la tête et à la main le nouveau Coran que j'aurais écrit pour répondre à mes besoins». Le 19 mai 1798 une armada française, avec 40.000 hommes, quitte Toulon et Marseille pour se diriger vers l'Egypte. Aussitôt les Anglais envoient tous leurs navires du Cap et de Calcutta pour bloquer la Mer Rouge. Nelson détruit la flotte française en mouillage à Aboukir (1 août 1798).
En 1801, le Tsar Paul I suggère à Napoléon d'envahir l'Inde par la terre et met 35.000 cosaques à la disposition de ce projet. Pour les appuyer, il demande à Napoléon de lui envoyer une armée française par le Danube, la Mer Noire et la Caspienne. Napoléon juge le projet irréalisable. Le 24 janvier 1801, 22.000 cosaques et 44.000 chevaux quittent le sud de la Russie pour se diriger vers l'Asie centrale. Mais le 23 mars 1801, Paul I est assassiné et Alexandre I monte sur le trône. Les Anglais réagissent en envoyant au Moyen-Orient le jeune John Malcolm, un orientaliste, spécialiste de la Perse, nommé officier dès l'âge de 13 ans. Malcolm a pour mission de forger une alliance avec l'Iran, pour bloquer sur le “rimland” toute avancée française (ou russe ou européenne ou, plus tard, allemande) dans la zone s'étendant de la Syrie au Béloutchistan. La réaction russe est immédiate: le Tsar annexe la Géorgie en septembre 1801. En juin 1804, les Russes sont en Arménie, mettent le siège devant Erivan et engagent la guerre contre la Perse pour forcer le passage vers les Indes.
En 1804, les Perses appellent les Anglais au secours. Mais 1804 est également l'année où Napoléon devient “empereur”, provoquant un renversement des alliances et un rapprochement entre Russes et Anglais. Les Anglais ne font plus pression sur le Tsar pour qu'il rende à la Perse la Géorgie et l'Arménie. Le Shah n'a plus d'autre alternative que de se tourner vers la France. De 1804 à 1807, les tractations entre le Shah et Napoléon sont ininterrompues, la Perse devant servir de tremplin pour une reconquête française des Indes. L'armée persane est entraînée par des instructeurs français. En 1807, à Friedland, Alexandre se rapproche à nouveau de Napoléon et participe au blocus continental; Français et Russes sont à nouveau alliés contre les Anglais. A Tilsit, la France et la Russie envisagent de bouter les Ottomans hors d'Europe, de s'allier avec la Perse pour marcher de concert sur les Indes, mais la France ne peut plus demander aux Russes de rendre la Géorgie et l'Arménie, poussant les Perses dans une nouvelle alliance anglaise!
Tels ont été les préludes du “Grand Jeu”. L'affrontement Terre/Mer entre la Russie et l'Angleterre se poursuivra pendant tout le XIXième siècle, véritable épopée avec, de part et d'autre, des héros sublimes et des aventuriers extraordinaires. Parmi les autres facettes du “Grand Jeu”, il y a eu la volonté de contrôler le Tibet (et surtout les sources des grands fleuves chinois, indochinois et birmans), de maîtriser la “Route de la Soie” et surtout le Turkestan chinois (ou Sinkiang). Des missions allemandes tenteront de forger une “alliance diagonale” entre le Reich, l'Empire Ottoman, la Perse, l'Inde et l'Indonésie. Le pantouranisme sera instrumentalisé par les Allemands en 1914, par les Britanniques après 1918. Pendant la guerre civile russe, les Anglais ont tenté de détacher le Caucase de la Russie, en incitant au massacre des commissaires communistes arméniens. Le Japon y participera en soutenant Koltchak et Unger-Sternberg en Asie. Aujourd'hui, avec la tentative de souder à la Turquie, alliée des Etats-Unis, toutes les républiques musulmanes de l'ex-Union Soviétique, le “Grand Jeu” est loin d'être terminé. Pour nous, il s'agit d'en étudier tous les mécanismes, d'en connaître l'histoire jusqu'en ses moindres détails.
Robert STEUCKERS
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samedi, 25 septembre 2010
Hambourg, porte de l'Eurasie et terminus du Transibérien?
Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1986
Hambourg, porte de l'Eurasie et terminus du Transibérien?
Un nouveau destin pour le port et la ville de Hambourg? La métropole allemande deviendra-t-elle l'avant-poste de l'Extrême-Orient en Europe? Une "nouvelle Hanse" est-elle en gestation? Comment cela se réalisera-t-il? Un groupe d'architectes, rassemblés autour des époux VOLKENBORN, projettent, avec l'aide officielle du Sénat de la ville, de construire sur les rives de l'Elbe, dans le faubourg d'Altona, un nouveau port qui sera simultanément gare terminale du Transsibérien.
Le port de Hambourg connaît de sérieuses difficultés économiques: sur une longueur de 6 km, site envisagé pour la gare terminale du Transsibérien, les grues rouillent et les quais s'effritent. Les forces vives doivent émigrer et le chômage guette ceux qui restent. Hambourg est en cela une sorte de microcosme de l'Europe industrielle. Deux projets existent à l'heure actuelle pour effacer du paysage nord-allemand ce site déshérité: le premier envisage d'y installer un gigantesque lunapark; le second, nous venons de le révéler, c'est d'y construire une installation portuaire et ferroviaire telle, qu'elle révolutionnera le trafic international comme jadis le creusement des canaux de Suez et de Panama.
Le Groupe des VOLKENBORN envisage de construire une île artificielle face au vieux port désaffecté, d'où partiraient des voies larges de chemin de fer (identiques à celles du Transsib') qui conduiraient à Lübeck, le port baltique. De là, un ferry transporterait les trains jusqu'à Klaipeda (Memel) en Lituanie soviétique. Dès leur débarquement à Klaipeda, les trains retrouveraient la voie la plus longue du monde, le Transsibérien, qui pourra les conduire jusqu'au rives du Pacifique, en face du Japon.
Hambourg deviendrait ainsi la plaque tour-nante d'un circuit d'échanges eurasiens: les marchandises d'Extrême-Orient y seraient débarquées à destination de l'Europe et de l'Afrique tandis que les marchandises européennes et africaines y seraient embarquées à destination des marchés soviétique, chinois et japonais. A plus grande échelle, Hambourg et Lübeck retrouveraient leur rôle du temps de la Hanse: échanger des fourrures russes contre du drap anglais ou flamand.
De leur côté, les Soviétiques, qui ont en-tamé des négociations avec les Allemands, veillent à terminer le BAM (Baïkal-Amour-Magistral), une ligne de chemin de fer ultra-moderne, tracée au nord du Transsibérien terminé en 1902 et raccourcissant de 500 à 600 km le trajet Klaipeda-Vladivostock. Ces trains rouleront à 250 km/h et diminueront de manière conséquente la durée et la lon-gueur du trajet maritime usuel. Tandis que les navires à conteneurs les plus modernes mettent, via Suez, trente jours pour arriver en Extrême-Orient et parcourir les 22.000 km qui nous en séparent, le BAM mettra 16 jours pour relier Londres à Yokohama (13.000 km). En outre les coûts de transport seront de 10 à 15% inférieurs à ceux que demandent aujourd'hui les armateurs. La quantité transportable de marchandises sera, quant à elle, multipliée par quatre.
Ce projet est appuyé par le bourgmestre de Hambourg, Klaus von DOHNANYI, grand spécialiste du commerce avec l'Extrême-Orient. En 1969 déjà, il avait rédigé un ou-vrage sur les stratégies économiques japo-naises. Entretemps, plus de 150 firmes nippones ont installé leur siège à Hambourg, même si la majorité d'entre elles préfèrent toujours Düsseldorf. Depuis peu, ce sont les Chinois qui se mettent à considérer la cité hanséatique comme la ville d'Europe la plus importante. Les Chinois veulent importer une brasserie complète et prévoient la construction d'un mini-Airbus germano-chinois. Les nouvelles relations commericales sino-germaniques contribuent, indirectement, à apaiser le contentieux sino-soviétique. En ef-fet, les Chinois, pour le transport de leurs marchandises, préfèrent de loin le fer à la mer et conçoivent l'importance du Transsib' et du BAM. Leur intérêt premier sera donc de négocier avec les Soviétiques une utili-sation commune de ces voies ferrées.
Autre problème politique qui se verrait ré-glé: les Soviétiques et les Allemands pour-raient éviter, grâce au ferry baltique, de passer par la Pologne, perpétuellement en crise et dangereusement manipulée par les forces rétrogrades de l'Eglise de Rome. Mais, ces forces calamiteuses ne sévissent pas qu'en Pologne: en Allemagne Fédérale, tous les politiciens n'ont pas la clairvoyance de von DOHNANYI et de ses architectes. A Bonn, les armateurs (qui se verraient ruinés), les clowns militaires otanesques, les profes-sionnels de l'anti-communisme à la Fola-mour, ont tout entrepris pour saboter le projet et pour retarder les négociations (Cf. VOULOIR no.14). A Moscou, les dirigeants soviétiques, las de toutes ces tergiversations puériles, n'insistent plus et les autorités est-allemandes entreprennent la construction de ports de ferries à Mukran (Ile de Rügen) et à Wismar.
Le projet hambourgeois est-il définitivement mort? Les réalisations est-allemandes à Rügen et à Wismar parviendront-elles à remplacer la fenêtre sur la Mer du Nord qu'est Hambourg? On en doute... Ce projet représente finalement le plus grand défi géopolitique du siècle. S'il se réalise, nos maîtres à penser Karl HAUSHOFER et Hallford John MACKINDER auront eu raison à titre post-hume. La grande unité eurasienne, avec collaboration étroite entre Allemands, Russes, Chinois et Japonais se réalisera. Les mar-chandises africaines pourront atteindre aisément les profondeurs continentales de Sibérie et d'Asie Centrale. La qualité de vie en bénéficiera et les immensités sibériennes pourront s'avérer plus attrayantes. Dans la lutte entre le Léviathan et Béhémoth (Carl SCHMITT), la Terre aura enfin vaincu...
En revanche, la non-réalisation du projet, à cause des pressions atlantistes et des intérêts sectoriels des armateurs, condamnera Hambourg à devenir un lunapark ou une cité touristique balnéaire. Où est l'utopie? Certes pas dans le cerveau des époux VOLKENBORN. Le choix entre Orient et Occident, entre le réalisme et les chimères trahit ici un choix de civilisation: ou bien le bon sens de la survie économique à très long terme ou bien les attractions du Cirque Gros-Occidental... Au fond, nous pourrions envoyer pas mal d'"artistes" à Hambourg, si le projet VOLKENBORN est expédié à la poubelle au profit du lunapark: les parlementaires belges, le gouvernement Martens, les Jeunesses Atlantistes, le Général Close Badaboum, les Moonistes et les disciples de LaRouche, les Le Pen Boys, la fine équipe du PTB, Marchais, le couple de pitres paléo-communistes "Rosine Lewine et Louis Van Geyt", l'ex-gouvernement Mitterand, Yves Montand, BHL, une masse impressionnante de prêtres et de pasteurs privés de paroissiens,...
Vincent GOETHALS.
Source: "Der Spiegel" 1986/No.29 (14-VII); article intitulé "Für China die wichtigste Stadt Europas" (pp. 60 à 67).
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mardi, 14 septembre 2010
Marc Rousset: la nouvelle Europe Paris-Berlin-Moscou
Marc Rousset:
"La Nouvelle Europe Paris-Berlin-Moscou"
Ed. Godefroy de Bouillon
Présentation de l'éditeur
Biographie de l'auteur
D’abord sur la nécessité d’une entité européenne, indépendante des Etats-Unis d’Amérique et plus proche de la Russie.
Pour Marc Rousset, s’il ne se constitue pas un « noyau carolingien » de 160 millions d’hommes, les nations européennes disparaîtront dans un monde où l’Amérique atteindra 500 millions d’hommes et la Chine 1,3 milliard d’habitants. Cette entité a à la fois vocation et intérêt à se rapprocher de la Russie, pour être en quelque sorte l’hinterland européen de ce pays qui lutte pour sa survie alors qu’il demeure le plus solide rempart de la civilisation européenne.
Sans doute l’auteur ne confond-il pas, dans son analyse, et je me dois de le signaler, ce rapprochement avec une soumission du genre de celle que l’Europe actuelle témoigne aux Etats-Unis. Mais plutôt y voit-il une alliance fondée sur la continentalité, la culture commune, les intérêts convergents.
De même, certains regrettent que ne soit pas détaillée plus avant la thèse de Marc Rousset sur la nécessité d’une langue commune, pour contrer l’anglo-américain actuellement dominant. Pour l’auteur, elle a toujours été nécessaire depuis l’origine des grandes entités et il rappelle avec justesse qu’en Europe ce fut, un moment, le français. Si les Européens n’adoptent pas un langage commun, leurs Etats, dont par exemple la France, ne pourront se défendre contre la contagion actuelle et deviendront à terme des « Louisiane » : l’espéranto devrait, à défaut du français, jouer ce rôle.
Je fais donc ces mises au point par souci d’objectivité.
Mais je persiste et signe : Avons-nous besoin de grands ensembles, constitués de pays qui ont de grandes différences de mœurs et de cultures lesquels sont façonnés par l’Histoire de chacun d’eux et nos intérêts économiques sont-ils toujours convergents ? De solides alliances militaires entre nations libres et souveraines, par exemple sur le modèle du traité de Washington pour l’Otan (quand elle servait à quelque chose), de bons accords commerciaux et de libre-échange ne suffisent-ils pas à assurer la paix et la prospérité aux citoyens de ces nations qui devraient rester indépendantes et n’épouser aucune querelle étrangère ?
Certes, la Russie n’est plus l’Union soviétique et Marc Rousset à raison de le dire. Certes, le bon sens devrait suffire à comprendre que nous avons plus d’affinités avec ce pays chrétien continental dont l’histoire est longue et riche. Mais la réalité est souvent cruelle et la prudence demeure de mise lorsqu’il s’agit de la liberté fondamentale des nations.
Mais le débat est ouvert, grâce à cet ouvrage qui est un vrai pavé dans la mare de la pensée politiquement conforme".
Pierre Millan
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vendredi, 10 septembre 2010
Sur la situation actuelle de la Russie (2005)
Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2005
Sur la situation actuelle de la Russie
Extrait d’une allocution de Robert Steuckers à la Tribune de “Terre & Peuple-Lorraine”, à Nancy, le 26 novembre 2005
La situation actuelle de la Russie est assez aisément définissable: cette superpuissance européenne en recul dramatique fait face, depuis la fin de l’ère Gorbatchev, à trois offensives de guerre indirecte; 1) elle subit une stratégie d’encerclement; 2) elle subit une deuxième stratégie, qui vise son morcellement; 3) elle subit un processus de subversion intérieure qui mine ses capacités de résister aux défis du monde extérieur.
◊1. La stratégie d’encerclement est clairement perceptible: à la périphérie du territoire de l’actuelle Fédération de Russie, sur des zones qui firent partie de l’empire des Tsars et de l’ex-URSS ou qui en furent des glacis, nous voyons, depuis la fin de l’ère Gorbatchev, se constituer une zone de turbulences permanentes. Cette zone comprend le Caucase, l’Asie centrale, l’Ukraine et, potentiellement, dans une éventuelle offensive ennemie ultérieure, le bassin de la Kama, avec une agitation programmée à l’extérieur des Tatars et des Bachkirs, regroupés dans des “républiques” autonomes de la Fédération (les investissements étrangers dans ces régions sont d’ores et déjà bien plus élevés que dans le reste de la Fédération). Après les glacis conquis depuis Pierre le Grand, on programme, à Washington, l’émergence d’un islam très septentrional, sur le site même des khanats tatars terrassés jadis par Ivan le Terrible. Après l’encerclement de l’ancien empire russe et soviétique, viendra peut-être l’encerclement du tremplin moscovite, du noyau premier de cet empire. Cette stratégie d’encerclement prend le relais de la stratégie d’endiguement, qui fut celle préconisée par Mackinder et ses successeurs, dont Lord Curzon, contre la Russie de Nicolas II et contre l’Union Soviétique de Lénine à Gorbatchev.
◊2. La stratégie du morcellement de l’espace russe, dont nous parlait Alexandre Douguine lors de ses récentes interventions à Anvers (11 nov. 2005) et à Bruxelles (12 nov. 2005) découle très logiquement de la stratégie d’encerclement , qui, notamment, vise à agiter les peuples ou les ethnies ou les communautés religieuses ou mafieuses de la “zone des turbulences permanentes” de façon à les détacher de l’espace impérial russe défunt et de l’espace spirituel de la “civilisation russe” (Douguine), concept dynamique que l’on comparera utilement à la notion de “civilisation iranienne” qu’évoquait le dernier Shah d’Iran dans le plaidoyer pro domo qu’il adressait à l’histoire (cf. Mohammad Reza Pahlavi, Réponse à l’histoire, Albin Michel, 1979). L’espace de la “civilisation russe” a connu son extension maximale avec l’URSS de Brejnev, avec, en prime, une “Wachstumspitze” (une “pointe avancée”) en Afghanistan. Malheureusement, la période de cette extension maximale n’était pas marquée par une grandeur traditionnelle, comme sous certains tsars ou comparable à ce que le Shah entendait par “civilisation iranienne”, mais par une idéologie froide, mécaniciste et guindée, peu susceptible de susciter les adhésions, de gagner la bataille planétaire au niveau de ce que les Américains, avec Joseph Nye, appellent aujourd’hui le “soft power”, soit le pouvoir culturel.
◊3. La stratégie de subversion vise plusieurs objectifs, déjà implicites dans les deux stratégies que nous venons d’évoquer: 1) imposer à la Russie un idéal démocratique importé, fabriqué de toutes pièces, comparable à celui que véhiculait la “révolution orange” en Ukraine l’an dernier. 2) contrôler les médias russes et suggérer un “way of life” de type américano-occidental, irréalisable pour la grande masse du peuple russe. 3) gagner en Russie une bataille métapolitique en faisant jouer le prestige du “soft power” occidental. Cette stratégie de subversion est portée par diverses officines téléguidées depuis les Etats-Unis et financées par des réseaux capitalistes internationaux. Nous avons là, pêle-mêle, la Freedom House, l’International Republican Institute, le National Endownment for Democracy, la Fondation Soros, le National Democratic Institute, l’Open Society Institute (dont bon nombre de subdivisions et de départementssont consacrés aux Balkans, à l’Ukraine et à la Biélorussie), etc. Le concours de toutes ces fondations, avec l’aide des grandes agences médiatiques internationales, a contribué à mettre sur pied des mouvements comme Otpor en Serbie (pour renverser Milosevic), comme Pora en Ukraine (avec la révolution orange de la belle Ioulia), comme Kmara en Géorgie pour faire triompher un candidat qui accepterait l’inféodation complète du pays à l’OTAN, ou comme la révolution des tulipes au Kirghizistan et, enfin, comme une révolution qui, elle, contrairement aux autres, a du mal à démarrer, parce que la leçon a été apprise: je veux parler ici de l’agitation, timide et jugulée, du mouvement “Subr” (= “Bison”) en Biélorussie. L’hebdomadaire allemand Der Spiegel, dans un article de longue haleine publié en deux volets, explicitait le mode de fonctionnement de cette vaste entreprise de subversion, à têtes multiples telle l’hydre de la mythologie grecque. Les enquêteurs de cet hebdomadaire de Hambourg nous apprenaient comment se déroulait effectivement la formation des personnages principaux de cette vaste entreprise. Le Spiegel nous rappelle, fort utilement, que l’essentiel de cette formation se trouve consigné dans un film de Peter Ackerman, intitulé “Bringing Down a Dictator” (= Faire tomber un dictateur). Le titre dévoile clairement les intentions des auteurs: faire tomber, non pas véritablement des dictateurs, mais des leaders politiques qui déplaisent à l’Amérique ou qui ne veulent pas s’aligner sur les diktats du néo-libéralisme. En juin 2005, les jeunes recrutés dans les pays à subvertir et engagés dans ces entreprises de subversion destinées à de larges franges de la zone des turbulences, se sont réunis en Albanie pour mettre au point les nouveaux aspects de la stratégie et planifier l’avenir de leurs activités.
Pour résumer, l’objectif des Etats-Unis, héritiers de la stratégie anglo-saxonne mise au point par Mahan, Mackinder et Lea dans la première décennie du 20ième siècle, est 1) d’encercler la Russie selon les thèses géopolitiques et géostratégiques des géopolitologues Lea et Mackinder; 2) de morceler et satelliser la zone de tubulences et, ensuite, dans une phase ultérieure, le reste de la Fédération russe selon la stratégie de balkanisation mise au point par Lord Curzon à partir du Traité de Versailles de 1919; effectivement, après la révolution bolchevique et la guerre civile entre Rouges et Blancs, Lord Curzon souhaitait créer ou faire émerger un maximum d’Etats tampons, dépendants et économiquement précaires, entre l’Allemagne de Weimar et la nouvelle URSS. Cette stratégie visait à appuyer la Pologne, avec le concours de la France, sans que cette Pologne instrumentalisée ne puisse développer une industrie autonome et viable, tout en étant obligée de consacrer 39% de son budget à l’entretien d’une armée. Selon le Colonel russe Morozov, ce stratagème a été ressorti du placard dans les années 90, dans la mesure où l’armée polonaise a augmenté ses effectifs dans l’OTAN tandis que la Bundeswehr allemande a été réduite (aux mêmes effectifs que la nouvelle armée polonaise) et que l’armée russe connaît un ressac épouvantable, faute de budgets substantiels. Aujourd’hui, la réactualisation des projets de morcellement à la Curzon, est perceptible dans le Caucase et en Asie centrale, non seulement contre la Russie mais aussi contre l’Iran. Enfin, 3) de subvertir la Russie par tous les moyens que peut fournir un “soft power” dominant. En gros, il s’agit de provoquer en Russie un soulèvement orchestré par les médias contre Poutine sur le modèle de ce qui s’est passé en Ukraine fin 2004.
Double pari: sur le pantouranisme, sur l’islamisme saoudien
C’est dans ce cadre qu’il faut analyser le double pari des stratèges américains de ces trois dernières décennies : le pari sur le monde turc/turcophone et le pari sur la carte musulmane wahhabite saoudienne. Le pari sur le monde turc était bien clairement exprimé sous Clinton, un Président sous lequel les trois stratégies énumérées dans la première partir de cet exposé ont été mises en oeuvre. De surcroît, pour injecter dans la région un soft power puissant mais inféodé aux agences américaines, on prévoyait le lancement d’un satellite de télécommunication afin de créer une chaîne unique turcophone, dans une langue turque unifiée et standardisée, capable de diffuser un message bien orchestré en Asie centrale jusqu’aux confins de la Chine.
Le pari sur les réseaux wahhabites saoudiens remonte à l’époque où il fallait recruter des hommes de main contre les troupes soviétiques présentes en Afghanistan. Des combattants de la foi musulmane, les mudjahiddins, s’engageaient dans des formations militaires bien entraînées pour appuyer les Pachtouns hostiles à la présence russe. Parmi eux, un certain Oussama Ben Laden, qui financera et appuyera les “talibans”.
Le pari sur le monde turc était un pari plus homogène et plus cohérent, en fin de compte, plus “impérial” que “nomade”, dans la mesure où l’empire ottoman, héritier de bon nombre d’institutions impériales de la Perse sassanide et de la romanité greco-byzantine, possédait les structures organisées d’un empire tandis que l’islam wahhabite garde toutes les caractéristiques des tribus de la péninsule arabique, qui ont eu l’enthousiasme de bousculer les empires byzantin et perse moribonds mais non l’endurance de gérer ces territoires civilisés et urbanisés sur le long terme. Mais le pari sur le monde turc, du temps de Clinton, n’était pas un néo-byzantinisme ou un néo-ottomanisme. Il pariait bien plutôt sur une idéologie nouvelle, datant du 20ième siècle, qui posait la Turquie comme l’avant-garde des peuples mobiles, pasteurs, nomades et cavaliers du Touran, d’Asie centrale. Cette idéologie est le panturquisme ou le pantouranisme. Elle a servi un objectif anti-communiste et anti-soviétique, depuis le temps de l’Allemagne nazie jusqu’aux Etats-Unis de Clinton, où la Turquie était posée tout à la fois comme cette avant-garde pantouranienne en direction de l’Ouest et comme l’avant-garde de l’OTAN dans la zone sensible de la Mer Noire.
Pantouranisme: un lien millénaire avec les peuples turcs d’Asie centrale
Le pantouranisme est une idéologie diffuse, grandiloquente, qui ne peut trouver aucune concrétisation sans un appui extérieur, sans l’aide d’une puissance étrangère dominant les mers et possédant une solide infrastructure industrielle. L’idéologie pantouranienne a toujours été latente dans l’histoire turque, mais elle n’a été théorisée, de façon complète, que dans les années 20 du 20ième siècle, à la suite et sur le modèle des idéologies pangermanistes et panslavistes. Elle est portée par un argument historique valable du point de vue turc: c’est en effet toujours un apport turc (turkmène, tatar ou ouzbek) venu d’Asie centrale qui a permis à l’Empire ottoman de renforcer ses armées et de mener des opérations en Europe et au Moyen-Orient, contre la Sainte-Ligue, l’Autriche-Hongrie ou l’Empire perse. Quelques exemples: le calife de Bagdad fait appel aux troupes turques de Toghrul Bey venues du fonds de la steppe pour rétablir l’ordre dans le califat arabe en déliquescence; les Seldjouks, qui arrivent au 11ième siècle et battent les Byzantins à Manzikert en 1071, viennent eux aussi d’Asie centrale; les derniers Grecs de Trébizonde doivent finir par céder face aux masses rurales de l’arrière-pays, entièrement composées de pasteurs turkmènes, alliés des Ottomans; à Vienne en 1683, l’armée ottomane est appuyée par des colonnes volantes de cavaliers-raiders tatars et turkmènes qui rançonnent, pillent et saccagent la Hongrie, la Slovaquie et de vastes régions d’Autriche. Les peuples turcs d’Asie centrale ont constitué la réserve démographique et militaire de l’empire ottoman.
Dans les années 20 et 30 du 20ième siècle, le pantouranisme est l’idéologie de quelques savants turcologues; elle ne connait pas de traduction politique; elle est à ce titre désincarnée mais d’autant plus virulente sur le plan intellectuel. En 1942, quand le sort des armes paraît favorable au Troisième Reich et que les services de celui-ci encouragent les peuples non russes à déserter le service de Staline, le pantouranisme, qui veut profiter de cette aubaine, gagne des adeptes et sort de la discrétion. Un certain Turkes, qui deviendra le leader des “Loups Gris” nationalistes, fait partie de ceux qui réclament une alliance rapide avec l’Allemagne pour participer au démantèlement de l’Union Soviétique jugée trop vite moribonde, parce qu’elle n’a pas encore reçu, via l’Iran occupé, un matériel moderne venu des Etats-Unis. Le mouvement des “Loups Gris”, intéressant à plus d’un titre et bien structuré, s’alignera sur des positions panturques pures et laïques jusqu’en 1965, année où il fera une sorte d’aggiornamento et admettra un “islamisme” offensif, à condition qu’il soit dirigé par des éléments turcs. Aujourd’hui, ce mouvement, qui a connu la répression du régime, est partagé: ainsi, il ne veut pas d’une adhésion turque à l’Europe, car, prétend-il, une immersion de l’Etat turc dans l’UE conduirait à lui faire perdre toute “turcicité”. Il me paraît dès lors important de ne pas confondre trois strates idéologiques présente en Turquie actuellement: le kémalisme, l’idéologie nationaliste des Loups Gris et le pantouranisme, dans son orientation libérale et pro-occidentale.
Diverses idéologies turques
En effet, le kémalisme voulait et veut encore (dans la mesure où il domine) aligner la Turquie sur l’Europe, l’européaniser sur les plans intellectuels et spirituels sans pour autant la christianiser. Dans ce but, Kemal Ataturk développe un mythe “hittite”. Pour lui, la Turquie est l’héritière de l’empire hittite, peuple indo-européen venu de l’espace danubien pour s’élancer vers le Proche-Orient et se heurter à l’Egypte. C’est la raison pour laquelle il crée un musée hittite à Ankara et encourage les fouilles pour redécouvrir cette civilisation à la charnière de la proto-histoire et de l’histoire. L’idéologie des Loups Gris, qui se dénomment eux-mêmes les “idéalistes”, est panturquiste mais ses avatars ont parfois admis l’islamisation et ont refusé, récemment, l’adhésion à l’UE, que préconiserait tout néo-kémalisme fidèle à ses options de base. Les libéraux et les sociaux-démocrates turcs (pour autant que ces labels idéologiques aient une signification en dehors de l’Europe occidentale) sont souvent à la fois panturcs et pro-américains, anti-arabes, anti-russes et pro-UE.
Après la défaite électorale des démocrates américains et l’avènement de Bush à la présidence, la stratégie américaine s’est quelque peu modifiée. L’alliance qui domine est surtout wahhabite-puritaine; elle mise sur un islamisme simplifié et offensif plus exportable et, en théorie, détaché des appartenances ethniques. L’objectif est de fabriquer une idéologie mobilisatrice d’éléments agressifs pour réaliser le projet d’un “Grand Moyen Orient” intégré, servant de débouché pour une industrie américaine toujours en quête de clients. Ce “Grand Moyen Orient” a l’atout d’avoir une démographie en hausse, ce qui permet de prévoir d’importantes plus-values (l’iranologue français Bernard Hourcade, dans une étude très fouillée, constate toutefois le ressac démographique de l’Iran, en dépit de l’idéologie natalisme du pouvoir islamique; cf. B. Hourcade, Iran. Nouvelles identités d’une république, Ed. Belin/Documentation Française, 2002).
L’alliance wahhabite-puritaine recouvre aussi —c’est l’évidence même— une alliance économique axée sur le pétrole (saoudien et texan). Avec Bush, c’est une stratégie plus pétrolière que historico-politique qui s’installe, et qui bouleverse certaines traditions diplomatiques américaines, notamment celles qu’avaient déployées les démocrates et les conservateurs classiques (que l’on ne confondra pas avec les néo-conservateurs actuels). Cette nouvelle stratégie pétrolière ne satisfait pas les rêves turcs. Qui, eux, visent essentiellement à récupérer le pétrole de Mossoul. En effet, la Turquie, de Mustafa Kemal à aujourd’hui, est un Etat aux ressources énergétiques rares, insuffisantes pour satisfaire les besoins toujours plus pressants d’une population en croissance rapide. Les nappes pétrolifères de l’Est du pays, dans le Kurdistan montagnard en ébullition, à proximité de la frontière irakienne, sont insuffisantes mais nécessaires, ce qui explique aussi la hantise et la phobie du régime turc pour toute idée d’une émancipation nationale kurde pouvant aboutir à une sécession. Les départements autour de ces quelques puits de pétrole sont tous sous le statut d’état d’exception, notamment la région de Batman où se situe la principale raffinerie de pétrole turc. Pour Ankara, la fidélité à l’alliance américaine devait à terme trouver une récompense: recevoir une certaine indépendance énergétique, par le biais de revendications territoriales issues d’une idéologie panturquiste ou néo-ottomane, soit en annexant le Kurdistan irakien, soit en forgeant une alliance avec l’Azerbaïdjan, Etat turcophone mais iranisé, soit en recevant toutes sortes d’avantages dans l’exploitation du pétrole de la région caspienne, du moins dans ses parties turcophones. La stratégie pétrolière de Bush vise, elle, à concentrer un maximum de ressources en hydrocarbures entre les mains de ceux qui, au Texas comme dans la péninsule arabique, en possèdent déjà beaucoup. La Turquie, comme personne d’autre, n’est invitée au partage. Dans de telles conditions, la Turquie ne peut espérer récupérer Mossoul.
“Hürriyet” et la question kurde
Récemment, le principal quotidien turc, “Hürriyet”, suggère indirectement une paix aux Kurdes, dans la mesure où il dit ne plus craindre ouvertement la création d’un Kurdistan indépendant dans le nord de l’Irak. Pour “Hürriyet”, désormais, le Kurdistan indépendant du nord de l’Irak pourrait parfaitement cohabiter avec un Kurdistan autonome sur le territoire de la république turque, à condition que s’instaure une sorte de marché commun turco-kurde, dont la principale source d’énergie serait ce pétrole tant convoité de Mossoul. C’est la première fois qu’un quotidien turc, de l’importance de “Hürriyet”, ose évoquer l’idée d’un Kurdistan autonome. L’objectif de ce nouvel engouement kurde est à l’évidence de récupérer le pétrole de Mossoul, cédé à contre-coeur par la Turquie en 1923, et d’empêcher les Chiites irakiens, alliés des Etats-Unis, de faire main base sur l’ensemble des ressources en hydrocarbures de l’Irak dépecé. Le vent est en train de tourner en Turquie et Bush, contrairement à Clinton, n’a pas carressé son allié turc dans le sens du poil. Une négligence qui pourrait être lourde de conséquence.
L’alliance entre Washington et les Wahhabites est un fait, malgré les rideaux de fumée médiatiques, évoquant une guerre des civilisations entre un Occident dominé par l’Amérique et un monde arabo-musulman travaillé par l’idéologie de Ben Laden. Posé comme l’ennemi public n°1 sur la planète entière après les attentats de New York en septembre 2001, Oussama Ben Laden reste curieusement introuvable, ce qui permet de faire de sa personne le croquemitaine universel, se profilant derrière tous les attentats sordides qui ensanglantent la planète. Ben Laden est sans doute le modèle tout trouvé pour des musulmans déboussolés dans les grandes banlieues sinistres où l’on parque les immigrés en Occident, mais il est loin de représenter tout l’islam. Son islam n’est pas celui de l’Iran, qui choisit d’autres alliances stratégiques, avec la Chine ou avec la Russie. Son islam n’est pas non plus celui de l’islam russophile d’Asie centrale, qui, même s’il est fortement battu en brèche depuis l’effondrement du soviétisme, ne souhaite pas se voir inféodé à un “Grand Moyen Orient”, entièrement sous la tutelle des trusts américains. Il existe non pas un islam mais des islams comme le disait très justement le géopolitologue français Yves Lacoste. Les islamismes radicaux, qui se proclament bruyamment anti-américains, font souvent le jeu de Washington et peuvent, le cas échéant, être considérés comme des créations des services spéciaux, servant de leviers à des opérations de guerre indirecte.
L’islamisme : un levier de déstabilisation permanente
Bon nombre de ces islams radicaux sont effectivement des leviers pour créer du désordre partout. C’est le cas en France pour briser et affaiblir l’une des principales puissances de l’axe potentiel unissant Paris, Berlin et Moscou. C’est le cas dans le sud de la Thaïlande, déstabilisé par sa minorité musulmane. Ce sera demain le cas en Inde, un pays qui se développe plus lentement et plus sûrement que la Chine, déjà dans le collimateur de Washington.
Pour ce qui concerne la Russie, l’alliance Washington-Ankara permettait aux Etats-Unis d’occuper l’Anatolie, base de départ de la conquête ottomane des Balkans, dont la façade orientale, avec la Bulgarie et la Roumanie, était inféodée, à partir de 1945, à la puissance soviétique; de se trouver proche du Caucase que les Allemands n’avaient pas pu conquérir en 1941-42 et de tenir en échec les puissances arabes du Proche-Orient et l’Egypte, alors alliées de l’URSS. Aujourd’hui, la Turquie sert de base arrière aux terroristes tchétchènes et d’alliée des Azeris. Seule la question de Mossoul a jeté un froid sur les relations turco-américaines et permis un rapprochement avec la Russie. L’alliance entre Washington et les wahhabites permet d’instrumentaliser des islamistes dans le conflit tchétchène et ailleurs en Asie centrale, voire de trouver des sources de financement pour remettre l’Albanie anti-serbe sur les rails.
Le panturquisme et l’islamisme wahhabite sont des leviers, tout comme la Fondation Soros, et toutes les fondations de même nature, pour parfaire ce que les géopolitologues anglo-saxons ont nommé le “Grand Jeu”, qui est, hier comme aujourd’hui, la volonté de contenir ou de détruire la puissance impériale russe.
Robert STEUCKERS,
Forest-Flotzenberg/Nancy, 26 novembre 2005.
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jeudi, 05 août 2010
L'Allemagne et la Chine renforcent leur partenariat stratégique
Andrea PERRONE :
L’Allemagne et la Chine renforcent leur partenariat stratégique
Berlin et Beijing relancent leurs rapports commerciaux, économiques et politiques
Jiabao heureux des nouveaux rapports avec l’UE
La Chancelière allemande Angela Merkel est arrivée à Beijing vers la mi-juillet 2010, après avoir rencontré le Président russe Dmitri Medvedev à Yekaterinenbourg, pour une visite qui pourrait contribuer à la naissance d’un vaste partenariat stratégique entre les deux pays : la Chine, en effet, est le premier partenaire commercial de l’Allemagne en Asie et l’Allemagne est le principal partenaire commercial européen pour la Chine ; le volume des échanges se chiffre à quelque 105,73 milliards de dollars en 2009, pour 2010, le chiffre pourrait être beaucoup plus élevé. L’Allemagne et la Chine vont donc relancer leurs relations bilatérales, qui reposeront sur « de nouvelles bases », comme l’a déclaré Mme Merkel, à la fin des entretiens qu’elle a eus à Beijing avec le premier ministre chinois Wen Jiabao. Pour résumer le parcours entrepris depuis quelque temps par les deux puissances économiques, un communiqué de vingt-huit points a été distribué, illustrant le travail fait en commun dans les secteurs de l’économie, des sciences et de la culture. Nous avons donc affaire à une véritable syntonie et à un grand pas en avant dans les relations germano-chinoises, qui envisagent notamment une coopération élargie dans la lutte contre les changements climatiques. Ce projet a été confirmé par une déclaration de Wen Jiabao qui, en s’adressant à ses interlocuteurs allemands, a rappelé : « Nous sommes embarqués sur le même navire ». Le ministre allemand de l’environnement, Norbert Roettgen, vient de signer un accord pour renforcer le travail commun entrepris par la Chine et l’Allemagne dans les secteurs de la politique énergétique et écologique. Pour l’automne, Allemands et Chinois ont prévu une réunion d’experts des deux pays pour discuter de la lutte contre les effets négatifs du changement climatique.
Les différends qui avaient opposé les deux pays semblent avoir été surmontés: ils étaient survenus en 2007 lorsque la Chancellerie allemande avait reçu le Dalaï Lama, chef spirituel des Tibétains. Le premier ministre Jiabao a tenu à préciser que l’Europe constitue la destination préférée des investissements chinois à l’extérieur. “Il est de bonne notoriété que la Chine possède d’abondantes réserves de devises étrangères”, a poursuivi le premier ministre chinois lors d’une conférence de presse, tenue après les entretiens qu’il avait eus pendant deux heures avec Mme Merkel. “En qualité de responsable et d’investisseur sur le long terme, la Chine adhère au principe de toujours détenir un portefeuille diversifié. Le marché européen est et restera l’un des marchés clefs pour les investissements chinois”, a-t-il ajouté. Le premier ministre chinois a rappelé que la Chine a offert une aide quand certains pays européens ont été frappés par une crise de la dette publique, ce qui a renforcé les relations amicales entre la Chine et l’Europe.
Les accords commerciaux qui ont été conclus entre les deux pays sont très importants. La firme Daimler, géant automobile allemand qui possède la marque Mercedes-Benz, et le producteur de camions chinois Beiqi Foton Motor ont signé un projet commun pour constituer une « joint venture » dans le secteur des poids lourds. La « joint venture » Daimler/Foton, où chacun des signataires détient une quantité égale de parts, produira des autocars et des autobus dont la technologie aura été développée chez Daimler (surtout en ce qui concerne les moteurs Diesel). Les véhicules seront vendus soit en Chine soit à l’étranger, en particulier en Asie. Le groupe allemand n’a pas donné jusqu’ici de détails sur son engagement dans cette initiative mais des sources gouvernementales à Berlin ont révélé que les deux entreprises associées ont consenti un investissement total de 800 millions d’euros.
Toujours au cours de la conférence de presse tenue conjointement avec Mme Merkel, Jiabao a précisé que « la Chine poursuivra sa politique de rapprochement économique et continue à avoir confiance en l’Europe, malgré la crise financière qui l’a frappée » ; il faut souligner que ces paroles du premier ministre chinois constituent « un signal important de confiance en l’euro de la part de la Chine ». Pour ce qui concerne l’économie du géant asiatique, Jiabao a dit bien clairement que le gouvernement chinois « maintiendra une continuité dans sa politique et mettra en acte une politique fiscale active et une politique monétaire permissive à bon escient ». Sur la crise des dettes publiques en Europe, Jiabao semble pourtant trop optimiste, en rappelant que la Chine « a toujours tendu la main » dans les moments difficiles et s’est déclaré « convaincu qu’avec un dur labeur en commun au sein de la communauté internationale, l’Europe surmontera certainement ses difficultés ». Jiabao a ensuite répété sa satisfaction de voir l’Allemagne intercéder pour la Chine au sein de l’UE et reconnaître la valeur de l’économie de marché en Chine, se félicitant, par la même occasion, que l’Allemagne, moteur de l’économie européenne, joue un rôle actif dans le renforcement des relations entre la Chine et l’UE.
Andrea PERRONE ( a.perrone@rinascita.eu ).
(texte paru dans « Rinascita », Rome, 17 juillet 2010 ; http://www.rinascita.eu/ ).
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mercredi, 28 juillet 2010
Stecken von der NATO gedeckte Drogenkriege hinter der jüngsten Instabilität in Kirgisistan?
11:34 Publié dans Actualité | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : afghanistan, géopolitique, asie, affaires asiatiques, eurasie, moyen orient, drogues, narco-trafic, etats=unis, otan, politique internationale | | del.icio.us | | Digg | Facebook
jeudi, 15 juillet 2010
Foundations of Russian Nationalism
Foundations of Russian Nationalism
Translated by Greg Johnson
Throughout its history, Russia has been estranged from European dynamics. Its nationalism and national ideology are marked by a double game of attraction and revulsion towards Europe in particular and the West in general.
The famous Italian Slavist Aldo Ferrari points out that from the 10th to the 13th centuries, the Russia of Kiev was well-integrated into the medieval economic system. The Tartar invasion tore Russia away from the West. Later, when the Principality of Moscow reorganized itself and rolled back the residues of the Tartar Empire, Russia came to see itself as a new Orthodox Byzantium, different from the Catholic and Protestant West. The victory of Moscow began the Russian drive towards the Siberian vastness.
The rise of Peter the Great, the reign of Catherine the Great, and the 19th century brought a tentative rapprochement with the West.
To many observers, the Communist revolution inaugurated a new phase of autarkic isolation and de-Westernization, in spite of the Western European origin of its ideology, Marxism.
But the Westernization of the 19th century had not been unanimously accepted. At the beginning of the century, a fundamentalist, romantic, nationalist current appeared with vehemence all over Russia: against the “Occidentalists” rose the “Slavophiles.” The major cleavage between the left and the right was born in Russia, in the wake of German romanticism. It is still alive today in Moscow, where the debate is increasingly lively.
The leader of the Occidentalists in the 19th century was Piotr Chaadaev. The most outstanding figures of the “Slavophile” camp were Ivan Kireevski, Aleksei Khomiakov, and Ivan Axakov. Russian Occidentalism developed in several directions: liberal, anarchist, socialist. The Slavophiles developed an ideological current resting on two systems of values: Orthodox Christendom and peasant community. In non-propagandistic terms, that meant the autonomy of the national churches and a savage anti-individualism that regarded Western liberalism, especially the Anglo-Saxon variety, as a true abomination.
Over the decades, this division became increasingly complex. Certain leftists evolved towards a Russian particularism, an anti-capitalist, anarchist-peasant socialism. The Slavophile right mutated into “panslavism” manipulated to further Russian expansion in the Balkans (supporting the Romanians, Serbs, Bulgarians, and Greeks against the Ottomans).
Among these “panslavists” was the philosopher Nikolay Danilevsky, author of an audacious historical panorama depicting Europe as a community of old people drained of their historical energies, and the Slavs as a phalange of young people destined to govern the world. Under the direction of Russia, the Slavs must seize Constantinople, re-assume the role of Byzantium, and build an imperishable empire.
Against the Danilevsky’s program, the philosopher Konstantin Leontiev wanted an alliance between Islam and Orthodoxy against the liberal ferment of dissolution from the West. He opposed all conflict between Russians and Ottomans in the Balkans. The enemy was above all Anglo-Saxon. Leontiev’s vision still appeals to many Russians today.
Lastly, in the Diary of Writer, Dostoevsky developed similar ideas (the youthfulness of the Slavic peoples, the perversion of the liberal West) to which he added a radical anti-Catholicism. Dostoevsky came to inspire in particular the German “national-Bolsheviks” of the Weimar Republic (Niekisch, Paetel, Moeller van den Bruck, who was his translator).
Following the construction of the Trans-Siberian railroad under the energetic direction of the minister Witte, a pragmatic and autarkical ideology of “Eurasianism” emerged that aimed to put the region under Russian control, whether directed by a Tsar or a Soviet Vojd (“Chief”).
The “Eurasian” ideologists are Troubetzkoy, Savitski, and Vernadsky. For them, Russia is not an Eastern part of Europe but a continent in itself, which occupies the center of the “World Island” that the British geopolitician Halford John Mackinder called the “Heartland.” For Mackinder, the power that managed to control “Heartland” was automatically master of the planet.
Indeed, this “Heartland,” namely the area extending from Moscow to the Urals and the Urals to the Transbaikal, was inaccessible to the maritime powers like England and the United States. It could thus hold them in check.
Soviet policy, especially during the Cold War, always tried to realize Mackinder’s worst fears, i.e., to make the Russo-Siberian center of the USSR impregnable. Even in the era of nuclear power, aviation, and transcontinental missiles. This “sanctuarization” of the Soviet “Heartland” constituted the semi-official ideology of the Red Army from Stalin to Brezhnev.
The imperial neo-nationalists, the national-Communists, and the patriots opposed Gorbachev and Yeltsin because they dismantled the Eastern-European, Ukrainian, Baltic, and central-Asian glacis of this “Heartland.”
These are the premises of Russian nationalism, whose multiple currents today oscillate between a populist-Slavophile pole (“narodniki,” from “narod,” people), a panslavist pole, and an Eurasian pole. For Aldo Ferrari, today’s Russian nationalism is subdivided between four currents: (a) neo-Slavophiles, (b) eurasianists, (c) national-Communists, and (d) ethnic nationalists.
The neo-Slavophiles are primarily those who advocate the theses of Solzhenitsyn. In How to Restore Our Russia?, the writer exiled in the United States preached putting Russia on a diet: She must give up all imperial inclinations and fully recognize the right to self-determination of the peoples on her periphery. Solzhenitsyn then recommended a federation of the three great Slavic nations of the ex-USSR (Russia, Belarus, and Ukraine). To maximize the development of Siberia, he suggested a democracy based on small communities, a bit like the Swiss model. The other neo-nationalists reproach him for mutilating the imperial motherland and for propagating a ruralist utopianism, unrealizable in the hyper-modern world in which we live.
The Eurasianists are everywhere in the current Russian political arena. The philosopher to whom they refer is Lev Goumilev, a kind of Russian Spengler who analyzes the events of history according to the degree of passion that animates a people. When the people are impassioned, they create great things. When inner passion dims, the people decline and die. Such is the fate of the West.
For Goumilev, the Soviet borders are intangible but new Russia must adhere to the principle of ethnic pluralism. It is thus not a question of Russianizing the people of the periphery but of making of them definitive allies of the “imperial people.”
Goumilev, who died in June 1992, interpreted the ideas of Leontiev in a secular direction: the Russians and the Turkish-speaking peoples of Central Asia were to make common cause, setting aside their religious differences.
Today, the heritage of Goumilev is found in the columns of Elementy, the review of the Russian “New Right” of Alexandre Dugin, and Dyeïnn (which became Zavtra, after the prohibition of October 1993), the newspaper of Alexander Prokhanov, the leading national-patriotic writers and journalists. But one also finds it among certain Moslems of the “Party of Islamic Rebirth,” in particular Djemal Haydar. More curiously, two members of Yeltsin’s staff, Rahr and Tolz, were followers of Eurasianism. Their advice was hardly followed.
According to Aldo Ferrari, the national-Communists assert the continuity of the Soviet State as an historical entity and autonomous geopolitical space. But they understand that Marxism is no longer valid. Today, they advocate a “third way” in which the concept of national solidarity is cardinal. This is particularly the case of the chief of the Communist Party of the Russuan Federation, Gennady Zyuganov.
The ethnic nationalists are inspired more by the pre-1914 Russian extreme right that wished to preserve the “ethnic purity” of the people. In a certain sense, they are xenophobic and populist. They want people from the Caucasus to return to their homelands and are sometimes strident anti-Semites, in the Russian tradition.
Indeed, Russian neo-nationalism is rooted in the tradition of 19th century nationalism. In the 1960s, the neo-ruralists (Valentine Raspoutin, Vassili Belov, Soloukhine, Fiodor Abramov, etc.) came to completely reject “Western liberalism,” based on a veritable “conservative revolution”—all with the blessing of the Soviet power structure!
The literary review Nache Sovremenik was made the vehicle of this ideology: neo-Orthodox, ruralist, conservative, concerned with ethical values, ecological. Communism, they said, extirpated the “mythical consciousness” and created a “humanity of amoral monsters” completely “depraved,” ready to accept Western mirages.
Ultimately, this “conservative revolution” was quietly imposed in Russia while in the West the “masquerade” of 1968 (De Gaulle) caused the cultural catastrophe we are still suffering.
The Russian conservatives also put an end to the Communist phantasm of the “progressive interpretation of history.” The Communists, indeed, from the Russian past whatever presaged the Revolution and rejected the rest. To the “progressivist and selective interpretation,” the conservatives opposed the “unique flow”: they simultaneously valorized all Russian historical traditions and mortally relativized the linear conception of Marxism.
Bibliography
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Robert STEUCKERS (éd.), Dossier «National-communisme», in Vouloir, n°105/108, juillet-septembre 1993 (textes sur les variantes du nationalisme russe d’aujourd’hui, sur le “national-bolchévisme” russe des années 20 et 30, sur le fascisme russe, sur V. Raspoutine, sur la polémique parisienne de l’été 93).
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Walter LAQUEUR, Der Schoß ist fruchtbar noch. Der militante Nationalismus der russischen Rechten, Kindler, München, 1993.
Mikhaïl AGURSKI, La Terza Roma. Il nazionalbolscevismo in Unione Sovietico, Il Mulino, Bologne, 1989.
Alexandre SOLJENITSYNE, Comment réaménager notre Russie?, Fayard, Paris, 1990.
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Alexandre DOUGUINE, «La révolution conservatrice russe», manuscrit, texte à paraître dans Vouloir.
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Michael PAULWITZ, Gott, Zar, Muttererde: Solschenizyn und die Neo-Slawophilen im heutigen Rußland, Burschenschaft Danubia, München, 1990.
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http://euro-synergies.hautetfort.com/archive/2010/06/14/fondements-du-nationalisme-russe.html
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dimanche, 04 juillet 2010
Le élites di Washington sono molto préoccupate per i nuovi blocchi anti-egemonici
di Pepe Escobar - Salvador Lopez Arnal
Fonte: Come Don Chisciotte [scheda fonte]
Lentamente ma energicamente il popolo del Sud si organizza e si prepara politicamente non solo per frenare l'imperialismo militarista e bellicista degli Stati Uniti ma anche per mettere fine all'ipocrisia dell'abuso di dominazione neo-coloniale da parte delle potenze industriali europee, con le loro addormentate società civili. Frenare le ingiustizie a cui sono sottomessi numerosi popoli in pieno ventunesimo secolo, rispetto e mutua reciprocità sono i nuovi dogmi. In questa intervista, il nostro collega Pepe Escobar analizza il modo in cui alcuni paesi emergenti, come il Brasile, la Turchia o l'India, stanno organizzando una nuova era di relazioni armoniche e rispettose fra i popoli.
Domanda: in un recente articolo pubblicato da Asia Times Online [1], tradotto da Sinfo Fernández di Rebelión, lei parlava della dominatrice. Mi permetta di complimentarmi per la sua trovata terminologica. Perché lei crede che la Segreteria di Stato statunitense (Hillary Clinton) si adatti bene a questo termine? Non sono migliorate le forme di politica estera degli Stati Uniti nell'amministrazione Obama?
Pepe Escobar: Hillary è una dominatrice nel senso che è capace di soggiogare tutto il Consiglio di Sicurezza dell'ONU invece di ammettere il fallimento della sua diplomazia. Forse lo ha imparato con Bill... O forse sono tutti masochisti.
No, non è così. La ragione principale è che la Cina e la Russia si lasciarono dominare. Cina e Russia decisero che era meglio lasciare la stridula Hillary dominare il palco per qualche giorno, e lavorare in silenzio per raggiungere il loro obiettivo: porre sanzioni con il massimo sentore “light” su Teherán. Per ciò che riguarda l'Iran, gli Stati Uniti sono ciechi, lo vedono tutto rosso. Lo stesso può dirsi in relazione a Israele, lo vedono tutto bianco celestiale.
Domanda: il nodo centrale del suo recente articolo – «Irán, Sun Tzu y la dominatrix» [2] [Traduzione Comedonchisciotte N.d.r] – è l'accordo fra le diplomazie di Brasile, Turchia e Iran sul tema dello sviluppo nucleare di quest'ultimo Paese. In cosa consiste questo accordo?
Pepe Escobar: è essenzialmente lo stesso accordo proposto dagli stessi statunitensi nell'ottobre del 2009. La differenza sta nel fatto che, secondo la proposta del 2009, l'arricchimento dell'uranio si realizzava in Francia e in Russia e ora, attraverso l'accordo, si effettuerà in Turchia.
La differenza fondamentale è nel metodo. Turchia e Brasile si sono comportate con diplomazia, senza polemiche e rispettando le ragioni iraniane. Altro dettaglio fondamentale: tutto quello che hanno fatto era già stato discusso in dettaglio a Washington. Quando è stato presentato un risultato concreto, quando è stato raggiunto l'accordo con l'Iran, Washington, mi permetta la metafora bellica, ha sparato loro un colpo nelle costole.
Domanda: non è una novità nella diplomazia internazionale che Brasile e Turchia, due paesi non contrapposti agli Stati Uniti, si mettano in gioco in questa faccenda? Perché lei crede che abbiano scommesso su questa strategia autonoma? Cosa vincerebbero? L'Iran non è forse lontano, molto lontano, dal Brasile?
Pepe Escobar: ogni Paese ha i suoi motivi per espandere la propria mappa geopolitica. La Turchia si vuole proiettare come attore eccezionale, che conta davvero in Medio Oriente. Ne consegue una politica diciamo post-Ottomana, organizzata dal Ministro delle Relazioni Estere, il professor Ahmet Davutoglu.
Anche il Brasile, con una politica molto intelligente di Lula e del suo ministro Celso Amorim, vuole posizionarsi come mediatore onesto nel Medio Oriente. Il Brasile fa parte della BRIC (Brasile, Russia, India, Cina) che secondo me è attualmente il vero contro-potere all'egemonia unilaterale degli Stati Uniti. Se circa due settimane fa ha discusso formalmente a Brasilia la sua adesione, la Turchia sarebbe parte del gruppo, il quale sarebbe quindi chiamato BRICT. Questa è la nuova realtà nella geopolitica globale. E, senza dubbio, le vecchie élites di Washington sono diventate livide.
Domanda: non sembra, come lei stesso segnalava, che l'accordo abbia suscitato entusiasmo nella Segreteria di Stato né nei governi europei. Perché? Vorrebbero che la strada diplomatica fallisca per proseguire con le loro sanzioni e condurci ad uno scenario bellico? Se è così, cosa guadagnerebbero con esso? Non ci sarebbero troppi fronti aperti allo stesso tempo?
Pepe Escobar: dalla prospettiva della politica interna degli Stati Uniti, quello che interessa a Washington è cambiare il regime. Ci sono almeno tre tendenze in lizza. I “realisti” e la sinistra del Partito Democratico che sono a favore del dialogo; l'ala del Pentagono e dei servizi di intelligence vogliono almeno delle sanzioni, e i repubblicani, i neocolonialisti, le lobby di Israele e la sezione Full Spectrum Dominance del Pentagono vogliono un cambio di regime sia come sia, inclusa la strada militare, se fosse necessario.
I governi europei sono cagnolini da compagnia di Bush o di Obama. Non servono a niente. Ci sono voci autorevoli in alcune capitali europee e a Bruxelles. Sanno che l'Europa ha bisogno del petrolio e del gas iraniano per non essere ostaggi di Gazprom. Ma sono una minoranza.
Domanda: lei crede che il Governo iraniano aspiri, oltre le sue dichiarazioni, a possedere un armamento nucleare? Per farsi rispettare? Per piegare Israele? Per attaccarla? Pakistan nucleare, India nucleare, Israele nucleare, Iran nucleare. Tutta questa zona non diventerebbe un'autentica polveriera?
Pepe Escobar: sono stato molte volte in Iran e mi sono convinto di quanto segue: il regime iraniano può causare rabbia ma non è un sistema suicida. Il leader supremo, in diverse occasioni, ha annunciato una fatwa affermando che l'arma nucleare è “non-islamica”. Le Guardie Rivoluzionarie supervisionano il programma nucleare iraniano, senza dubbio, ma sanno molto bene che le ispezioni e il controllo della IAEA, Agenzia Internazionale dell'Energia Atomica, sono molto seri. Se punteranno a sviluppare una bomba atomica rudimentale, saranno scoperti e denunciati immediatamente.
Di fatto, l'Iran non ha bisogno di alcuna bomba atomica come elemento di dissuasione. Gli basta un arsenale militare high-tech, di tecnologia sempre più avanzata. L'unica soluzione giusta sarebbe una denuclearizzazione totale del Medio Oriente che Israele, ovviamente, con i suoi più di duecento missili nucleari, non accetterà e mai rispetterà.
Domanda: che ruolo gioca la Russia in questa situazione? Lei ricordava che l'impianto nucleare di Bushehr fu costruito dalla Russia, che lì si stanno si stanno svolgendo le ultime prove e che probabilmente si inaugurerà quest'estate.
Pepe Escobar: Bushehr deve essere inaugurata in agosto, dopo molti ritardi. Per la Russia l'Iran è un cliente privilegiato in termini nucleari e degli armamenti. Ai russi interessa che l'Iran continui in questo modo, che la situazione non cambi. Non vogliono l'Iran come potere nucleare militare. È una relazione con molti nodi, ma soprattutto commerciale.
Domanda: nel suo articolo lei cita il vecchio generale e stratega Sun Tzu. Ricorda un aforisma del filosofo cinese: “lascia che il tuo nemico commetta i suoi errori e non correggerli”. Lei afferma che Cina e Russia, maestri strateghi quali sono, stanno applicando questa massima rispetto agli Stati Uniti. Che errori stanno commettendo gli USA? Sono tanto goffi i suoi strateghi? Non hanno per caso letto Sun Tzu?
Pepe Escobar: tutti gli statunitensi ben educati nelle università hanno letto Sun Tzu. Altra cosa è saperlo applicare. Cina e Russia, in una strategia comune ai BRIC, si accordarono per lasciare gli Stati Uniti con l'illusione di condurre le sanzioni, nello stesso tempo in cui lavorarono e lavorano per minarle al massimo e approvare in ultima istanza un pacchetto di sanzioni molto “light”. Russia e Cina vogliono stabilità in Iran con il beneficio delle loro importanti relazioni commerciali. Nel caso della Cina, tenga in conto che l'Iran è un grande fornitore di gas e questo riguarda la massima sicurezza nazionale.
Domanda: siamo, lei riassume, in una situazione in cui sul tavolo dell'Agenzia Internazionale dell'Energia Atomica c'è un accordo di interscambio approvato dall'Iran, mentre nelle Nazioni Unite è in marcia un'offensiva di sanzioni contro l'Iran. Lei si domanda di chi si dovrebbe fidare la “comunità internazionale”. Io le domando: di chi si dovrebbe fidare la “comunità internazionale”?
Pepe Escobar: la vera “comunità internazionale”, i BRIC, i paesi del G-20, le 118 nazioni in sviluppo del Movimento dei non-allineati, insomma, tutto il mondo in sviluppo, sta con Brasile, Turchia e la loro diplomazia di non-opposizione. Solo gli Stati Uniti vogliono sanzioni e i suoi patetici, ideologici cani da compagnia europei.
Domanda: lei afferma anche che l'architettura della sicurezza globale, “vigilata da un pugno di temibili guardiani occidentali auto-nominati”, è in coma. L'Occidente “atlantista” affonda come il Titanic. Non esagera? Non confonde i suoi desideri con la realtà? Non c'è il pericolo reale che l'affondamento distrugga quasi tutto prima di affondare definitivamente?
Pepe Escobar: io ero già di fronte, con l'orrore di tutto il mondo, come per ora poter almeno credere nella possibilità di un nuovo ordine, delineato soprattutto dal G-20 e dai paesi del BRICT. Inclusa la T finale.
Il futuro economico è dell'Asia e il futuro politico è dell'Asia e delle grandi nazioni in via di sviluppo. È chiaro che le élites atlantiste rinunciano al loro potere solo dopo aver visto i propri cadaveri distesi per terra. Il Pentagono continuerà con la sua dottrina di guerra infinita. Però prima o poi non avrà come pagarla. Non nego che sia una possibilità che gli USA, in un futuro prossimo, sotto l'amministrazione di un pazzo repubblicano di estrema destra, entri in un periodo di guerra allucinata, sconvolta. Se così fosse, sarà senza dubbio la sua caduta, la caduta del nuovo Impero Romano.
Domanda: quale forte lobby degli USA è a favore della guerra infinita a cui si è appena riferito? Chi sostenta e finanzia questa lobby?
Pepe Escobar: La guerra infinita è la logica della Full Spectrum Dominance, la dottrina ufficiale del Pentagono, che include “l’encirclement” di Cina e Russia, la convinzione che questi paesi non possano emergere come ficcanaso e competitori degli USA, e inoltre fare tutti gli sforzi per controllare o almeno vigilare Eurasia. È la dottrina del Dr. Strangelove [3], però è anche la mentalità dei dirigenti militari statunitensi e della maggioranza del suo establishment. Il complesso industrial-militare non ha bisogno dell'economia civile per sostentarsi. Ha in elenco un'enorme quantità di politici e tutte le grandi corporazioni.
Domanda: lei parla della dottrina del Dr. Zbigniew “conquisteremo l'Eurasia”. Un'altra trovata, mi permetta un altro complimento. Il vecchio assessore alla sicurezza nazionale, lei segnala, sottolineò che “per la prima volta in tutta la storia umana, l'umanità si è svegliata politicamente -questa è una nuova e totale realtà- , una cosa mai successa prima”. Secondo lei è così? Che parte dell'umanità addormentata si è svegliata?
Pepe Escobar: per le élites statunitensi il dato essenziale è che Asia, America Latina e Africa stanno intervenendo politicamente nel mondo in un modo impensabile durante il colonialismo e che la decolonizzazione è, per loro, un incubo senza fine. Come dominare chi ora sa come comportarsi per non essere dominato di nuovo? È una domanda basilare.
Domanda: Washington, profondamente unilaterale, lei segnala, non esita a puntare l'indice fino al più vicino dei suoi amici. Perché? Sono per caso l'incarnazione dell'Asse del Male? Può essere raggiunta l'egemonia con procedimenti così poco gentili? Fino a quando?
Pepe Escobar: Non si può sottovalutare la crisi statunitense. È totale: economica, morale, culturale e politica. Ed anche militare perché furono distrutti in Iraq e sono al limite di un’umiliante sconfitta totale in Afganistan. Il nuovo secolo americano morì già nel 2001. L'11 settembre, oggi, si può interpretare come un messaggio apocalittico di fine.
Domanda: ma qual è uno degli attori principali della politica statunitense nel Vicino Oriente? Israele è addormentato? Quali sono i piani dei bulli di Gaza? [4]
Pepe Escobar: Israele si è convertito in quello che io chiamo “briccone” [birbante, o stato villano]. Sparta paranoica, etno-razzista, che ha la responsabilità della macchia profonda dell'apartheid. Israele sarà ogni volta più isolata dal mondo reale, protetta solo dagli USA, di cui è uno Stato-cliente. E il suo incubo, come se si trattasse di un film horror hollywoodiano, sarà il ritorno di ciò che è stato represso: la storia gli farà pagare per tutto l'orrore che ha perpetrato e continua a perpetrare contro i palestinesi.
Domanda: che opinione ha dell'azione di Israele dello scorso 30 maggio? Che senso può avere un attacco a dei pacifisti solidali con Gaza?
Pepe Escobar: fa parte della stessa logica di sempre. Abbiamo sempre ragione; quelli che sono contro le nostre politiche sono terroristi o antisemiti. Ora Israele è nella fase di difendere l'indifendibile: il blocco di Gaza.
È chiaro che ora tutto il mondo lo sa e non lo potrà più ingannare con le sue bugie, la Palestina sarà l'eterno Vietnam di Israele. Ma dubito, come nel caso degli Stati Uniti, che questa volta siano capaci di imparare la lezione.
Pepe Escobar [foto accanto al titolo N.d.r.], analista geopolitico. È autore di «Globalistan: How the Gbalizad World is Dissolving into Liquid War» (Nimble Books, 2007) e di «Red Zone Blues: a shapshot of Baghdad during the surge». Recentemente ha pubblicato «Obama does Globalistan» (Nimble Books, 2009), un libro che merita di essere tradotto (in spagnolo) con urgenza.
NOTE
[1] Fonte: http://www.atimes.com/atimes/Middle...
[2] http://www.rebelion.org/noticia.php..., 27 maggio 2010.
[3] Il film di S. Kubrick il cui titolo in italiano è “il Dottor Stranamore”, uno dei film preferiti di Manuel Sacristán.
[4] La domanda è stata formulata prima dell'attacco alla Flotilla della libertà e solidarietà. L'intervista termina con una domanda sull'attacco. “La Palestina sarà l'eterno Vietnam di Israele”, afferma Escobar.
Titolo originale: ""LA GUERRA INFINITA ES LA LÓGICA DE LA DOCTRINA OFICIAL DEL PENTÁGONO”"
Fonte: www.rebelion.org
Link: http://www.rebelion.org/noticia.php?id=107156
04.05.2010
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di GABRIELLA REHO
Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it
[Truppe statunitensi sparse per il mondo nel tentativo di ottenere una dominazione militare, oltre che economica. Il caso iracheno è esemplare. Si tratta di un’invasione per il petrolio, con il pretesto di difendersi da possibili armi nucleari che non sono mai state trovate.]
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lundi, 21 juin 2010
Fondements du nationalisme russe
Archives de SYNERGIES EUROPEENNES & du CRAPOUILLOT - 1994
Fondements du nationalisme russe
La Russie, dans son histoire, a toujours été étrangère aux dynamiques européennes. Son nationalisme, son idéologie nationale, sont marquées par un double jeu d'attraction et de répulsion envers l'Europe en particulier et l'Occident en général. Le célèbre slaviste italien Aldo Ferrari nous le rappelle: du 10ème au 13ème siècles, la Russie de Kiev est bien inserée dans le système économique médiéval. L'invasion tatare l'arrache à l'Occident, puis la Principauté de Moscou, en se réorganisant et en combattant les résidus de l'Empire Tatar, se veut une nouvelle Byzance orthodoxe, différente de l'Occident romain ou protestant. La victoire de Moscou amorce l'élan de la Russie vers les immensités sibériennes. De l'avènement de Pierre le Grand au règne de Catherine II et au 19° siècle, s'opère un timide rapprochement avec l'Ouest. Pour bon nombre d'observateurs, la révolution communiste inaugure une nouvelle phase de fermeture autarcique, de désoccidentalisation, en dépit de l'origine ouest-européenne de son idéologie, le marxisme.
Mais l'occidentalisation du 19° siècle n'a pas été unanimement acceptée. Dès le début du siècle, un courant fondamentaliste, romantique, nationaliste, se manifeste avec véhémence dans toute la Russie: contre les “occidentalistes”, il se veut “slavophile”. Le clivage majeur opposant la gauche et la droite venait de naître en Russie, dans le sillage du romantisme allemand. Il est toujours vivant aujourd'hui, où le débat est de plus en plus vif à Moscou. Le chef de file des occidentalistes du 19° était Piotr Tchaadaïev. Les figures les plus marquantes du camp “slavophile” étaient Kiréïevski, Khomiakhov et Axakov. L'occidentalisme russe s'est éparpillé en plusieurs directions: libéraux, anarchistes, socialistes. Les slavophiles développèrent un courant idéologique reposant sur deux systèmes de valeurs: la chrétienté orthodoxe et la communauté paysanne. En termes moins propagandistes, cela signifie l'autonomie des églises nationales (“autocéphales”) et un anti-individualisme farouche qui considèrent le libéralisme occidental, surtout l'anglo-saxon, comme une véritable abomination.
Au fil des décennies, ce dualisme va se complexifier. La gauche va, dans certaines de ses composantes, évoluer vers un particularisme russe, vers un socialisme anarcho-paysan anti-capitaliste. La droite slavophile va se muer en un “panslavisme” manipulé par le pouvoir pour assurer l'expansion russe en direction des Balkans (appui aux Roumains, aux Serbes, aux Bulgares et aux Grecs contre les Ottomans). Parmi ces “panslavistes”, le philosophe Nikolaï Danilevski, auteur d'une fresque historique audacieuse où l'Europe est considérée comme une communauté de peuples vieux, vidés de leurs énergies historiques, et les Slaves comme une phalange de peuples jeunes, appelés à régir le monde. Sous la direction de la Russie, les Slaves doivent s'emparer de Constantinople, reprendre le rôle de Byzance et construire un empire impérissable.
Face à ce programme de Danilevski, le philosophe Konstantin Leontiev, lui, veut une alliance entre l'Islam et l'Orthodoxie contre les ferments de dissolution libérale que véhicule l'Occident. Il s'oppose à toute guerre entre Russes et Ottomans dans les Balkans. L'ennemi est surtout anglo-saxon. La perspective de Leontiev séduit encore beaucoup de Russes aujourd'hui. Enfin, dans le Journal d'un écrivain, Dostoïevski développe des idées similaires (jeunesse des peuples slaves, perversion de l'Occident libéral) auxquelles il ajoute un anti-catholicisme radical qui inspirera notamment les “nationaux-bolchéviques” allemands du temps de Weimar (Niekisch, Paetel, Moeller van den Bruck qui fut son traducteur).
A la suite de la construction du chemin de fer transsibérien sous l'énergique impulsion du Ministre Witte, émerge une idéologie pragmatique et autarcique, l'“eurasisme” qui veut se mettre au service de l'espace russe, que celui-ci soit dirigé par un Tsar ou par un Vojd (un “Chef”) soviétique. Les idéologues “eurasiens” sont Troubetzkoï, Savitski et Vernadsky. Pour eux, la Russie n'est pas un élément oriental de l'Europe mais un continent en soi, qui occupe le centre des terres émergées que le géopoliticien britannique Halford John Mackinder appelait la “Terre du Milieu”. Pour Mackinder, la puissance qui parvenait à contrôler la “Terre du Milieu” se rendait automatiquement maîtresse de la planète. En effet, cette “Terre du Milieu”, en l'occurrence la zone s'étendant de Moscou à l'Oural et de l'Oural à la Transbaïkalie, était inaccessible aux puissances maritimes comme l'Angleterre et les Etats-Unis. Elle pouvait donc les tenir en échec. La politique soviétique, surtout à l'heure de la guerre froide, a toujours tenté de réaliser dans les faits les craintes du géopoliticien Mackinder, c'est-à-dire à rendre le centre russo-sibérien de l'URSS inexpugnable. Même à l'ère du nucléaire, de l'aviation et des missiles transcontinentaux. Cette “sanctuarisation” de la “Terre du Milieu” soviétique a constitué l'idéologie officieuse de l'Armée Rouge, de Staline à Brejnev. Les néo-nationalistes impériaux, les nationaux-communistes, les patriotes actuels s'opposent à Gorbatchev et à Eltsine parce qu'ils les accusent d'avoir dégarni les glacis est-européens, ukrainiens, baltes et centre-asiatiques de cette “Terre du Milieu”.
Voilà pour les prémisses du nationalisme russe, dont les multiples variantes actuelles oscillent entre un pôle populiste-slavophile (“narodniki”, de “narod”, peuple), un pôle panslaviste et un pôle eurasien. Pour Aldo Ferrari, le nationalisme russe actuel se subdivise entre quatre courants: a) les néoslavophiles; b) les eurasistes; c) les nationaux-communistes; d) les nationalistes ethniques.
Les néoslavophiles sont essentiellement ceux qui épousent les thèses de Soljénitsyne. Dans Comment réaménager notre Russie?, l'écrivain exilé aux Etats-Unis prône une cure d'amaigrissement pour la Russie: elle doit abandonner toutes ses velléités impériales et reconnaître pleinement le droit à l'auto-détermination des peuples de sa périphérie. Soljénitsyne préconise ensuite une fédération des trois grandes nations slaves de l'ex-URSS (Russie, Biélorussie et Ukraine). Il vise ensuite la rentabilisation maximale de la Sibérie et suggère une démocratie basée sur de petites communautés, un peu sur le modèle helvétique. Les autres néo-nationalistes lui reprochent de mutiler la patrie impériale et de propager un utopisme ruraliste, irréalisable dans le monde hyper-moderne où nous vivons.
Les eurasistes sont partout dans l'arène politique russe actuelle. Le philosophe auquel ils se réfèrent est Lev Goumilev, une sorte de Spengler russe qui analyse les événements de l'histoire d'après le degré de passion qui anime les peuples. Quand les peuples sont passionnés, ils créent de grandes choses. Quand la passion intérieure s'estompe, les peuples déclinent et meurent. Tel est le sort de l'Occident. Pour Goumilev, les frontières soviétiques sont intangibles mais la Russie nouvelle doit respecter le principe du pluriethnisme. Pas question donc de russifier les peuples de la périphérie mais d'en faire des alliés définitifs du “peuple impérial”. Goumilev, décédé en juin 1992, interprétait dans un sens laïc les idées de Leontiev: peuples turcophones d'Asie centrale et Russes devaient faire cause commune, sans tenir compte de leurs différences religieuses. Aujourd'hui, l'héritage de Goumilev se retrouve dans les colonnes d'Elementy, la revue de la “nouvelle droite” russe d'Alexandre Douguine, et de Dyeïnn (devenu Zavtra, après l'interdiction d'octobre 1993), le journal d'Alexandre Prokhanov, chef de file des écrivains et journalistes nationaux-patriotiques. Mais on le retrouve aussi chez certains musulmans du “Parti de la Renaissance Islamique”, notamment Djemal Haïdar. Plus curieux, deux membres du staff d'Eltsine, Rahr et Tolz, sont des adeptes de l'eurasisme. Leurs conseils n'ont guère été suivis d'effet jusqu'ici.
Les nationaux-communistes revendiquent la continuité de l'Etat soviétique en tant qu'entité historique et espace géopolitique autonome, précise Aldo Ferrari. Mais ils ont compris que les recettes marxistes n'étaient plus valables. Ils se revendiquent aujourd'hui d'une “troisième voie” où la notion de solidarité nationale est cardinale. C'est notamment le cas du chef du PC de la Fédération de Russie, Guennadi Zouganov.
Les nationalistes ethniques s'inspirent davantage de l'extrême-droite russe d'avant 1914, qui entend préserver la “pureté ethnique” du peuple. En un certain sens, ils sont xénophobes et populistes. Ils souhaitent le retour des Caucasiens dans leur pays et manifestent parfois un antisémitisme virulent, selon la tradition russe.
Le néo-nationalisme russe s'inscrit bel et bien dans la tradition nationale et s'enracine dans des corpus doctrinaux du 19° siècle. En littérature, dans les années 60, les néo-ruralistes (Valentin Raspoutine, Vassili Belov, Soloükhine, Fiodor Abramov, etc.) parviennent à évincer totalement les “libéraux occidentalistes”, amorçant de la sorte une véritable “révolution conservatrice”, avec la bénédiction du pouvoir soviétique! La revue littéraire Nache Sovremenik s'est faite le véhicule de cette idéologie néo-orthodoxe, paysanne, conservatrice, soucieuse des valeurs éthiques, écologiste. Le communisme, disent-ils, a extirpé la “conscience mythique” et créé une “humanité de monstres amoraux”, totalement “dépravés”, prêts à accepter les mirages occidentaux. Enfin, cette “révolution conservatrice” s'imposait tranquillement en Russie tandis qu'en Occident la “chienlit” soixante-huitarde (De Gaulle) provoquait la catastrophe culturelle que nous subissons encore. Les conservateurs russes mettaient aussi un terme au fantasme communiste du “filon progressiste de l'histoire”. Les communistes, en effet, sélectionnaient dans le passé russe ce qui annonçait la révolution et rejetaient tout le reste. Au “filon progressiste et sélectif”, les conservateurs opposaient le “flux unique”: ils valorisaient du même coup toutes les traditions historiques russes et relativisaient mortellement la conception linéaire du marxisme.
Robert STEUCKERS.
Bibliographie:
- Aldo FERRARI, «Radici e prospettive del nazionalismo russe», in Relazioni internazionali, janvier 1994.
- Robert STEUCKERS (éd.), Dossier «National-communisme», in Vouloir, n°105/108, juillet-septembre 1993 (textes sur les variantes du nationalisme russe d'aujourd'hui, sur le “national-bolchévisme” russe des années 20 et 30, sur le fascisme russe, sur V. Raspoutine, sur la polémique parisienne de l'été 93).
- Gerd KOENEN/Karla HIELSCHER, Die schwarze Front, Rowohlt, Reinbeck, 1991.
- Walter LAQUEUR, Der Schoß ist fruchtbar noch. Der militante Nationalismus der russischen Rechten, Kindler, München, 1993.
- Mikhaïl AGURSKI, La Terza Roma. Il nazionalbolscevismo in Unione Sovietico, Il Mulino, Bologne, 1989.
- Alexandre SOLJENITSYNE, Comment réaménager notre Russie?, Fayard, Paris, 1990.
- Alexandre DOUGUINE (DUGHIN), Continente Russia, Ed. all'insegna del Veltro, Parme, 1991. Extrait dans Vouloir n°76/79, 1991, «L'inconscient de l'Eurasie. Réflexions sur la pensée “eurasiatique” en Russie». Prix de ce numéro 50 FF (chèques à l'ordre de R. Steuckers).
- Alexandre DOUGUINE, «La révolution conservatrice russe», manuscrit, texte à paraître dans Vouloir.
- Konstantin LEONTIEV, Bizantinismo e Mondo Slavo, Ed. all'insegna del Veltro, Parme, 1987 (trad. d'Aldo FERRARI).
- N.I. DANILEVSKY, Rußland und Europa, Otto Zeller Verlag, 1965.
- Michael PAULWITZ, Gott, Zar, Muttererde: Solschenizyn und die Neo-Slawophilen im heutigen Rußland, Burschenschaft Danubia, München, 1990.
- Hans KOHN, Le panslavisme. Son histoire et son idéologie, Payot, Paris, 1963.
- Walter SCHUBART, Russia and Western Man, F. Ungar, New York, 1950.
- Walter SCHUBART, Europa und die Seele des Ostens, G. Neske, Pfullingen, 1951.
- Johan DEVRIENDT, Op zoek naar de verloren harmonie - mens, natuur, gemeenschap en spiritualiteit bij Valentin Raspoetin, Mémoire, Rijksuniversiteit Gent/Université d'Etat de Gand, 1992 (non publié).
- Koenraad LOGGHE, «Valentin Grigorjevitsj Raspoetin en de Russische traditie», in Teksten, Kommentaren en Studies, n°71, 1993.
- Alexander YANOV, The Russian New Right. Right-Wing Ideologies in the Contemporary USSR, IIS/University of California, Berkeley, 1978.
- Wolfgang STRAUSS, Rußland, was nun?, Österreichische Landmannschaft/Eckart-Schriften 124, Vienne, 1993.
- Pierre PASCAL, Strömungen russischen Denkens 1850-1950, Age d'Homme/Karolinger Verlag, Vienne (Autriche), 1981.
- Raymond BEAZLEY, Nevill FORBES & G.A. BIRKETT, Russia from the Varangians to the Bolsheviks, Clarendon Press, Oxford, 1918.
- Jean LOTHE, Gleb Ivanovitch Uspenskij et le populisme russe, E.J. Brill, Leiden, 1963.
- Richard MOELLER, Russland. Wesen und Werden, Goldmann, Leipzig, 1939.
- Viatcheslav OGRYZKO, Entretien avec Lev GOUMILEV, in Lettres Soviétiques, n°376, 1990.
- Thierry MASURE, «De cultuurmorfologie van Nikolaj Danilevski», in Dietsland Europa, n°3 et n°4, 1984 (version française à paraître dans Vouloir).
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