lundi, 11 janvier 2010
Der absolute Krieg
Der absolute Krieg
Da man den unabhängigen Willen des Gegners sich gegenüber hat, so gilt es, diesen Willen zu brechen. Dies geschieht mit Hilfe der eigenen Machtmittel und der eigenen Willenskraft. Wenn sich die eigenen Machtmittel als unzureichend erweisen oder die eigene Willenskraft der des Gegners nachsteht, müssen daraus gewissen Gegengewichte erwachsen. Diese beiden Faktoren sind daher von geradezu entscheidender Bedeutung. Jeder Kriegführende wird folgerichtig bestrebt sein, sie zu möglichst grosser Wirkung zu bringen, d. h. die "äusserste Anstrengung der Kräfte" vorzubereiten und in die Tat umzusetzen.
Theoretisch betrachtet, müsste man nun zu einem Maximum an personeller, materieller, wirtschaftlicher und willensmässiger Anstrengung gelangen können, aus dem sich ein völlig ungehemmter Krieg ergeben würde, den Clausewitz mit dem Begriff "Absoluter Krieg" umfasst. Aber das ist nur höchst selten der Fall. Vielmehr ist "die Gestalt, die der Krieg gewinnt, abhängig von allem Fremdartigen, was sich darin einmischt und daran ansetzt..., von aller natürlichen Schwere und Reibung der Teile, der ganzen Inkonsequenz, Unklarheit und Verzagtheit des menschlichen Geistes".
Der "absolute" oder, wie ihn Clausewitz gelegentlich auch nennt, der "abstrakte" Krieg hat also mit dem Krieg, wie er sich in der Wirklichkeit abspielt, nur wenig zu tun. Wenn auch gerade in neuester Zeit seit dem Zeitalter Napoleons das offensichtliche Bestreben zutage tritt, dem Kriege auch in der Wirklichkeit eine absolute Gestalt zu verleihen, so wurde dies doch noch nie in der letzten Vollkommenheit erreicht. Selbst die glänzendsten Feldzüge weisen hier und da, wenn auch kleinere, Lücken auf, die z. B. durch unvermeidliche Fehler von Unterführerm hervorgerufen worden sind.
Friedrich von Cochenhausen, Der Wille zum Sieg. Clausewitz´ Lehre von den dem Kriege innewohnenden Gegengewichten und ihrer Überwindung, erläutert am Feldzug 1814 in Frankreich, Berlin 1943.
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vendredi, 08 janvier 2010
La Russia sbarra il passo allo scudo antimissile USA
La Russia sbarra il passo allo scudo antimissile Usa
Gli stati canaglia-terroristi e i nemici della globalizzazione
di Federico Dal Cortivo / Ex: http://www.italiasociale.org/
La Russia è decisa a creare le misure adatte per contrastare il tentativo neppure tanto nascosto degli Stati uniti di accerchiarla, mediante stati “vassalli” e uno scudo antimissile, che nelle intenzioni di Washington, dovrebbe essere costituito in funzione anti-terrorismo. Se il primo motivo è quello più temuto dai Russi, il secondo ,sia pur non più così in voga come ai tempi di Bush , resta pur tuttavia una reale possibilità.
Ma per la politica globale Usa, vi sono anche altri obiettivi, i cosiddetti” terroristi”, che sono tutti coloro che si oppongono alla politica egemone della globalizzazione, dal Venezuela di Hugo Chavez, alla Corea del Nord, dall’Iran alla Russia. Nel recente passato vi erano inclusi anche la Serbia di Milosevic, rea di interpretare una via autonoma in politica interna ed estera, e l’Iraq di Saddam, vecchio alleato degli Stati Uniti ai tempi della guerra contro l’Iran di Khomeini, trasferito poi nella lista dei cattivi quando c’era da impossessarsi delle immense riserve petrolifere di cui abbonda il sottosuolo iracheno.
E di queste giorni la notizia proveniente da Vladivostok ,nell’Estremo Oriente, per bocca del Primo Ministro Putin, che la Russia svilupperà nuove armi offensive per contrastare le batterie antimissile statunitensi, questo a salvaguardia dell’equilibrio internazionale che si regge sulla reciproca dissuasione. Nulla di nuovo quindi da parte della Russia, che negli ultimi anni ha ripreso in mano il proprio destino grazie all’accorta politica di Putin e di Medvedev. Russia che ha già dato prova della propria fermezza durante le operazioni militari condotte in Georgia, sbaragliando in poco tempo le forze locali appoggiate dai consiglieri israeliani e dell’Us Army.Ma non è solo la Russia ad impensierire la politica estera di Washington, proprio nel cosiddetto cortile di casa si stanno materializzando “nuovi nemici” . L’America Latina sembra aver imboccato una strada a senso unico che va a cozzare contro gli equilibri che gli Stati Uniti avevano sapientemente costruito per meglio depredare il continente delle sue immense ricchezze naturali, fondamentali per l’industria statunitense,per non dire vitali. La Bolivia di Evo Morales, l’Ecuador di Rafael Correa e il Venezuela di Chavez stanno creando un fronte unico incentrato sull’alleanza politica Alba, che a fatto proprie le idee rivoluzionarie di Simon Bolivar e del migliore socialismo nazionale. E se il Brasile di Lula ancora indugia su dove posizionarsi apertamente e l’Argentina della presidente Kirckner potrebbe fare la differenza in un prossimo futuro tra chi ha scelto la via nazionale e socialista e chi è ancora vassallo Nord Americano come Cile ,Perù e Colombia ; qualcosa sta finalmente cambiando negli equilibri di questa parte del mondo. Un nuovo asse di speranza sta nascendo e ha gettato le proprie basi , lo si potrebbe chiamare Sud-Sud oppure America Latina - Eurasia, sta di fatto che il recentissimo viaggio del presidente iraniano Ahmadinejad che ha toccato Brasile, Venezuela e Bolivia, è doppiamente significativo: sotto il profilo geopolitico è volto a creare quell’alleanza che permetterà all’Iran di uscire da una sorta d’isolamento in cui l’Occidente lo vorrebbe relegare( la Russia al momento è troppo impegnata nel delicato scacchiere dei rapporti con Washington e si è per il momento defilata dal prendere una posizione più netta nei confronti di Teheran)e al tempo stesso darà la possibilità alle nazioni Latino Americane di avere un alternativa all’Occidente con cui relazionarsi, da affiancare ai buoni rapporti con Russia , Cina e India. Sul versante economico invece gli accordi bilaterali che sono stati stipulati durante la visita del presidente iraniano, rappresentano un qualcosa di assolutamente nuovo perché non sono più basati sul rapporto sfruttatore e sfruttato, con tutto quello che ne consegue in termini di intromissione negli affari interni del continente Sud Americano, ma su base paritaria, volta al reciproco sviluppo.
Tutto ciò non poteva non provocare apprensione al Dipartimento di Stato, che come al solito ha scatenato la ben oliata macchina mediatica tesa a criminalizzare tutti coloro che si oppongono alla globalizzazione o al cosiddetto “ volere di Washington”. E così come da copione non passa giorno che dalle colonne del Financial Times, New York Times, fino ad arrivare agli allineati Le Monde e Corriere della Sera, non si faccia l’esame di democrazia agli Stati canaglia, non si enfatizzi marginali episodi di piazza, come di recente in Iran, che riguardano sparuti gruppi di protesta, su una popolazione che sfiora i settanta milioni di persone. Inflazionato è poi l’uso del termine “regime”, per designare tutti gli Stati sulla lista nera Usa,così come dare del dittatore anche a chi come Chavez o lo stesso Ahmadinejad sono stati regolarmente eletti in libere elezioni. Ma questi sono dettagli e fanno parte del copione recitato da oltre un secolo dalle plutocrazie occidentali ogni qualvolta volevano scatenare una guerra d’aggressione,oggi anche affiancate dal “cane da guarda sionista”, che per sopravvivere in un mondo sempre più arabo, e dopo essersi macchiato ripetutamente di “crimini di guerra”, ha l’estrema necessità delle inarrestabili forniture di armi a fondo perduto che la potenza Nord Americana elargisce a piene mani.
E proprio l’entità sionista, dotata di armi nucleari, rappresenta il pericolo più grave per la pace del Vicino Oriente e non certamente la Repubblica Islamica dell’Iran, che cerca solamente di dotarsi di centrali nucleari in prospettiva futura, quando anche l’abbondante petrolio della regione comincerà a scarseggiare.
Israele ha manifestato più volta la precisa volontà di un attacco preventivo volto a distruggere gli impianti nucleari iraniani, la sua aviazione avrebbe già pronti i piani operativi, ma su tutto necessita sempre il disco verde degli Usa e la collaborazione dell’intelligence statunitense ed eventualmente delle sue aereo cisterne strategiche, le sole che possano garantire la riuscita di un attacco ad una distanza maggiore di quello già effettuato dalla Israeli Air Force nel 1981 contro il reattore nucleare di Tammuz in Iraq.
Per funzionare il piano israeliano deve essere pressoché perfetto ed anche per l’allenata macchina bellica sionista la cosa potrebbe presentare qualche problema di troppo, sempre che non ci metta lo zampino il potente alleato di sempre che ha tutt’oggi un interesse primario nel vedere scomparire l’attuale governo iraniano . “Dopo aver distrutto i centri nevralgici della sua economia, ecco pronto qualche doppiogiochista alla Karzai, che consegnerebbe il Paese alle grandi Corporation statunitensi, libere di mettere le mani sulle grandi riserve petrolifere iraniane”. Ma il grande incubo degli Stati Uniti è la possibilità neppure tanto remota, che le future transazioni del petrolio possano essere fatte non più in dollari ma in euro,e la costruenda borsa di Kish potrebbe segnare la svolta.
In questo progetto monetario,l’Iran ha incontrato il favorevole appoggio di Caracas e un domani vicino potrebbe trovare l’assenso della Russia e della Cina, trascinandosi dietro l’India ed altri Stati Latino Americani.” Nel 2003 Giampaolo Caselli esperto di economia politica scriveva:Tutti i contratti petroliferi sono fatturati in dollari, qualora alcuni Stati produttori dovessero preferire l’euro, il tasso di cambio fra le due valute sarebbe sottoposto a ulteriore tensione, e si comincerebbe ad assistere alla sostituzione del dollaro con l’euro come moneta di riserva di molti Paesi produttori di petrolio, ed eventualmente da parte della Cina ,che ha già annunciato un tale movimento di fronte alla perdita di valore del dollaro.”(1)
Nel 2000 fu proprio la decisione di Saddam Hussein di adottare l’euro come moneta per i pagamenti delle forniture del piano Oil for food ad innescare il processo che portò poi alla guerra del 2003. Ora gran parte degli scambi di idrocarburi avviene sulle borse di Londra e New York, in pratica gli angloamericani controllano le maggiori transazioni a livello mondiale, la borsa di Kish, sarebbe un’azione ostile verso gli interessi vitali degli Stati Uniti e il fatto che il dollaro sia l’unica moneta finora utilizzata permette alla sofferente economia Usa di finanziare gran parte del proprio enorme passivo. Nel vertice degli Stati dell’Opec nel 2007 affiorò una linea di pensiero che sinteticamente così recitava:L’Impero del dollaro deve finire”, dissero all’unisono Chavez e Ahmadinejad .
La sfida per i futuri assetti economici non è mai cessata, ma ora stanno entrando in campo diverse variabili a livello geopolitico che potrebbero riservare non poche sorprese nei prossimi anni, con un mondo che potrebbe non essere più unipolare, con la potenza egemone attuale costretta sulla difensiva su vari teatri, anche se i rischi di pericolosi colpi di coda ed annesse guerre di aggressione sono sempre possibili…Ma intanto Mosca ha deciso di giocare da subito la carta del riarmo. Come dicevano i Romani,che di queste cose se ne intendevano “Si vis pacem para bellum”.
Federico Dal Cortivo
1)”I predatori dell’oro nero e della finanza globale”.
Benito Livigni
SISTEMA DI DIFESA ANTIMISSILE IN EUROPA
Il Progetto dell’Amministrazione Bush
L’Amministrazione Bush e la MDA (Missile Defense Agency, Agenzia per la Difesa Antimissile) presentano il sistema di difesa antimissile americano, inclusa la sua componente da basare in Europa, come uno strumento urgente ed essenziale per garantire la protezione del territorio statunitense ed europeo da un attacco missilistico da parte di quelli che essi chiamano “stati canaglia”, quali la Corea del Nord e l’Iran ( eventualità alquanto improbabile).
Il sistema europeo di difesa antimissile, GMD (Ground-based Midcourse Defense, Difesa basata a terra contro i missili in fase intermedia di volo), sarebbe uno degli elementi del più vasto BMDS (Ballistic Missile Defense System, Sistema di difesa contro i missili balistici), analogo alla componente già basata in Alaska e in California. Quest’ultima è costituita, oggi, da una ventina di missili intercettori a tre stadi (diventeranno più di quaranta entro tempi brevi) per proteggere il territorio statunitense da un attacco missilistico da parte di stati come la Corea del Nord.
02/01/2010
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mercredi, 06 janvier 2010
Next Stop: Yemen - The panty-bomber and US foreign policy
Next Stop: Yemen
The panty-bomber and US foreign policy
The abortive efforts of the "panty-bomber" have inspired the War Party to focus on a new front in our ongoing and seemingly permanent "war on terrorism": Yemen, a godforsaken outpost of medievalism and sun-scorched desert on the northern shores of the Red Sea, is now taking center stage as al-Qaeda’s latest purported stronghold. Taking advantage of the outcry following the panty-bomber’s near-deadly escapade, the Yemeni government is calling on the US for yet more aid and assistance – in addition to the tens of millions already being pumped into that country – to fight "terrorism," and specifically al-Qaeda, which is said to have around 300 fighters hiding somewhere in Yemen’s isolated and virtually inaccessible outback.
Senator Joe Lieberman is calling for "preemptive" military action, averring:
"Somebody in our government said to me in Sana’a, the capital of Yemen, ‘Iraq was yesterday’s war, Afghanistan is today’s war. If we don’t act preemptively, Yemen will be tomorrow’s war.’ That’s the danger we face."
Lieberman never met an Islamic nation that he didn’t want to invade and subjugate, but in the case of Yemen, the misdirection such "preemption" would represent for US policy in the region couldn’t be more deceptive. For the real source of irritation to the US, and its Saudi Arabian ally, isn’t al-Qaeda, but Iran.
Yemen has been embroiled in a civil war since the mid-1990s, one that has little to do with al-Qaeda and everything to do with the historical and religious currents that have swept over this poverty-stricken nation of some 20 million since the end of World War I. The Ottoman empire once claimed suzerainty over the region, but never succeeded in subduing the northern tribes who maintained their independence through all the days of British domination of the south, and then the imposition of Marxist one-party rule in the name of the southern-dominated "Democratic Republic of Yemen," which was a Soviet ally during the cold war era.
The ferociously independent northerners are religiously and ethnically distinct from their fellow countrymen, adhering to a version of Shi’ite Islam, unlike the Sunni majority in the more settled southern provinces. For years the northerners have waged a battle against the central government, under the general rubric of the "Houthi," named after their former leader, Hussein Badreddin al-Houthi, killed by the regime in 2004. For its part, the central government has been dominated by a central figure, Field Marshal Ali Abdullah Saleh, who has ruled since 1978, when the President of the Yemeni Arab Republic (YAR) was assassinated (some say at the instigation of Saleh). Since that time, Saleh has systematically jailed, killed, or otherwise eliminated any who would oppose him.
The Yemeni central government has been none too subtle in its tactics, launching what they themselves called "Operation Scorched Earth" in an effort to defeat the northern rebels. This campaign provoked a refugee exodus from the battlefield in which tens of thousands of displaced persons fled to the south, where they were housed in sprawling camps. Meanwhile, the Saudis were drawn into the conflict, using their air force to bomb and strafe rebel villages, and sending their troops into direct skirmishes with the Houthi. Fearful that the spreading influence of the Houthi Shi’ites would infect their own minority Shi’ite population, particularly in al-Hasa and other oil-producing provinces of the Kingdom, the Saudis are determined to crush the Yemeni insurgency, and have doubtless encouraged their American patrons to get more directly involved.
The Saudis and the Yemeni central government have portrayed the Houthis as Iranian pawns, and the conflict has been defined as a proxy war between Tehran and Riyadh – yet the real roots of the civil war are buried in Yemen’s storied past, where the religious and political divisions that currently bedevil the regime in Sana’a, the capital city, have their origin.
In addition to the Houthi rebellion in the north, the central government faces a secessionist movement in the south, which has, up until now, largely confined its activities to peaceful protests and demonstrations. Yet the government has treated them in the same way it has confronted the Houthis: with violent repression. Recent demonstrations held by the separatists were met with brute force: eight newspapers were closed by the government for daring to report on the secessionists’ activities.
Naturally, the Yemeni government has every interest in portraying the southern secessionists as a conspiracy hatched by al-Qaeda, and the northern rebels as proxies for Iran – and the US is buying into it, big time, with $70 million in US military and "development" aid this year alone, and much more in the pipeline. Now that President Obama has pledged to "use every element of our national power to disrupt, to dismantle and defeat the violent extremists who threaten us, whether they are from Afghanistan or Pakistan, Yemen or Somalia, or anywhere where they are plotting attacks against the U.S. homeland," the road is opened to a deepening US presence in that war-torn country, up to and including the large-scale presence of American troops.
Change? Far from reversing the policies of the Bush era, President Obama – swept into office by war-weary voters who mistook his opposition to the Iraq war as a general tendency towards non-interventionism – is not only continuing but expanding the American offensive, which is now engulfing Pakistan and spilling over into the Arabian peninsula. As for "al-Qaeda on the Arabian peninsula," this fits right into their plans for a general conflagration in the region, which will set Sunni against Shia, Saudis against Yemenis, and everyone against the United States.
Iraq, Afghanistan, Pakistan, Yemen, Somalia – nothing is beyond the scope of American ambitions to dominate the region, and apparently nothing short of a voter rebellion at home will deter Obama from this suicidal course. The war begun by Bush, and continued by Obama, is widening. As the showdown over Iran’s nonexistent nuclear weapons program proceeds – from draconian sanctions and American sponsorship of terrorist groups in Iranian Balochistan, to a proxy war in Yemen – the stage is being set for a new world war. Al Qaeda is the pretext – but Iran is the target.
NOTES IN THE MARGIN
I was going to write a New Year’s summing-up column, but the rush of events – the brouhaha surrounding the panty-bomber, and the sudden prominence of Yemen in the administration’s war plans – forced a change of plans. Stuff keeps happening, and I have the distinct – and sinking – feeling that this augurs yet another spate of "interesting times," as the old Chinese proverb would have it. We are saddled with a President who feels compelled to prove that he isn’t "weak" on national security – and a Congress that essentially acts as a chorus to his war cries, echoing and ramping up the bombastic belligerence that has characterized the "national style" since 9/11. Yes, we’re still trapped on Bizarro World, where up is down, war is peace, and this year’s Nobel winner is launching what may very well turn out to be the third world war.
As we hurtle, however unwillingly and fearfully, into 2010, I can say without exaggerating in the least that Antiwar.com is more essential than ever – and now is your last chance to make a contribution that you can deduct from your 2009 tax bill. And what better way to register your protest at a world that, each and every day, seems more irrational and inclined to self-destruction? We may yet prevent the worst from happening: but remember, we can’t do it without your help.
Also: Don’t forget to check out my continuing contributions to The Hill, where my (brief) commentary appears online five days a week. And while you’re at it, check out Chronicles magazine, where I’m writing a monthly column. Last, but very far from least, I continue to contribute to The American Conservative: my latest piece is an essay-review of a book by the conservative philosopher Russell Kirk on the life and career of Robert A. Taft.
Happy New Year!
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jeudi, 24 décembre 2009
Obama accepte le Prix Nobel de la Paix et plaide pour la guerre permanente
Obama accepte le prix Nobel de la paix et plaide pour la guerre permanente
Dans le discours de réception du prix Nobel de la paix le plus belliqueux jamais entendu, le président américain Barak Obama argumenta le 10 décembre à Oslo en faveur d’une extension permanente de la guerre et de l’occupation coloniale, faisant savoir au monde que l’élite dirigeante américaine avait bien l’intention de poursuivre sa campagne de domination du globe.
Obama défendit l’envoi de dizaines de milliers de soldats supplémentaires en Afghanistan et évoqua de façon menaçante l’Iran, la Corée du Nord, la Somalie, le Darfour, le Congo, le Zimbabwe et la Birmanie, chacun de ces pays pouvant devenir la cible d’une prochaine intervention militaire américaine.
Cette cérémonie de remise de prix Nobel tenait de la farce sinistre, Obama admettant qu’il était « commandant en chef de l’armée d’une nation plongée dans deux guerres ». Il présenta la guerre comme un moyen légitime de poursuivre des intérêts nationaux.
Dans un langage orwélien il déclara que « les instruments de la guerre [avaient] un rôle à jouer dans la préservation de la paix » que « toutes les nations responsables [devaient] approuver le rôle que des armées munies d’un clair mandat [pouvaient] jouer pour maintenir la paix » et qu’il fallait honorer des troupes impérialistes « non pas comme ceux qui font la guerre, mais comme ceux qui font la paix ».
Recevant un prix sensé, prétendument, promouvoir la paix mondiale, Obama parla en faveur d’actions militaires passées, présentes et futures. Le président américain communiqua cette « dure vérité » à son auditoire que « nous n’éradiquerons pas les conflits violents de notre vivant ». Il promit que les nations continueraient de « trouver que l’usage de la force est non seulement nécessaire, mais aussi moralement justifié » et il souligna le fait que des populations douillettes allaient devoir vaincre leur « profonde ambivalence quant à l’action militaire » et leur « réflexe soupçonneux vis-à-vis de l’Amérique, la seule superpuissance militaire du monde ».
Il admit que des masses de gens dans le monde entier étaient hostiles à la guerre impérialiste, remarquant avec regret que « dans de nombreux pays, il existe un hiatus entre les efforts de ceux qui servent et les sentiments ambivalents du grand public ». Mais au diable volonté populaire et démocratie ! « la croyance que la paix est désirable est rarement suffisante pour parvenir à la réaliser. La paix requiert de la responsabilité. La paix implique le sacrifice ».
Obama articula avec arrogance la croyance de Washington qu’elle peut intervenir en défense des intérêts américains où et quand elle veut, peu importe le coût humain.
Le tout était enrobé, de façon peu convaincante, dans le langage de l’élévation morale, de la « loi de l’amour » et, inévitablement, de « l’étincelle divine ». Il indiqua, bien que le discours et son mode de présentation ne l’indiquent en rien, qu’il avait un « sens aigu du coût d’un conflit armé ». Obama fit au contraire ses remarques sur la guerre et la paix avec la profondeur de sentiment mis par un administrateur d’université à informer d’un règlement de parking.
Obama fut encore plus direct lorsqu’il répondit aux questions posées par des journalistes norvégiens avant la cérémonie. Parlant des onze premiers mois de son administration, il expliqua : « Le but n’a pas été de gagner un concours de popularité ou de recevoir un prix, même prestigieux comme le prix Nobel. Le but a été de faire avancer les intérêts de l’Amérique. »
Il gratifia son auditoire – qui comprenait la famille royale et des hommes politiques norvégiens ainsi que des célébrités d’Hollywood — d’un historique sommaire et misanthropique de la civilisation humaine (« La guerre … est arrivée avec le premier être humain… le Mal existe dans le monde ») avant de se lancer dans une défense emphatique et mensongère du rôle international de l’Amérique.
Il présenta la période de l’après-guerre comme une période de paix et de prospérité octroyée par des Etats-Unis bienveillants. « L’Amérique a conduit le monde dans la construction d’une architecture destinée à maintenir la paix… les Etats-Unis d’Amérique ont aidé à garantir la sécurité planétaire pendant plus de six décennies avec le sang de nos concitoyens et la force de nos bras… Nous n’avons pas porté ce fardeau parce que nous essayons d’imposer notre volonté ». L’hypocrisie et la falsification atteignent ici un degré époustouflant.
Plus tard, Obama fit cette assertion extraordinaire que « l’Amérique n’a jamais mené de guerre contre une démocratie, et nos plus proches amis sont des gouvernements qui protègent les droits de leurs citoyens ». Mis à part le fait historique que les Etats-Unis on mené des guerres avec l’Angleterre, l’Allemagne et l’Autriche-Hongrie, alors que tous ces pays avaient des systèmes parlementaires, Obama a délibérément escamoté la longue et sordide histoire des interventions américaines contre les peuples de pays opprimés allant du Mexique, de l’Amérique centrale et des Caraïbes dans la première moitié du 20e siècle, au Vietnam, à l’Iran, au Guatemala, au Congo, à l’Indonésie, au Chili, et au Nicaragua dans la période d’après-guerre.
Quant aux « très proches amis de Washington », leur liste comprend actuellement des régimes brutaux et corrompus comme, entre autres, ceux d’Arabie saoudite, du Pakistan, d’Israël, d’Egypte, du Maroc, et d’Ouzbékistan (sans parler des gouvernements fantoches d’Irak et d’Afghanistan), tous régimes pratiquant la torture et une répression généralisée.
Après avoir évoqué le concept de la « guerre juste », associé à une nation qui agit pour se défendre, et affirmé, ce qui est faux, que l’invasion américaine de l’Afghanistan à la suite du 11 septembre 2001 était fondée sur ce principe, Obama dit nettement que Washington n’avait pas besoin d’une telle légitimité.
Il parla en faveur d’une action militaire dont le but « [allait] au-delà de l’autodéfense ou de la défense d’une nation vis-à-vis d’un agresseur ». « Les raisons humanitaires », définies bien sûr par Washington, étaient suffisantes pour justifier « la force » qui pouvait être utilisée contre une bonne partie de l’Afrique, de l’Asie, de l’Amérique latine et de l’Europe de l’Est. Cela n’est rien d’autre que du colonialisme recouvert du manteau de la « guerre juste ».
Obama défendit une version de la doctrine de la guerre préventive de Bush teintée de multilatéralisme et s’efforçant d’affermir le soutien des puissances européennes aux guerres conduites par les Etats-Unis au Moyen-Orient et en Asie centrale. « L’Amérique ne peut pas y arriver seule » dit le président américain.
Les élites dirigeantes européennes, dont les intérêts trouvent une expression dans les décisions du comité Nobel, étaient contentes de rendre service à Obama en lui donnant une tribune qui lui permette de défendre ces guerres et de présenter l’agression impérialiste comme un acte humanitaire. Elles espèrent qu’Obama, contrairement à Bush et Cheney, offrira à l’Europe un rôle (et un partage du butin) dans l’imposition de la « sécurité globale » dans des « régions instables pour de nombreuses années à venir ».
Obama mentionna le discours de prix Nobel prononcé il y a 45 ans par Martin Luther King, afin de répudier son contenu oppositionnel. King, contrairement à Obama, avait prononcé un bref discours attirant l’attention sur la répression continue des noirs et des opposants au racisme dans le sud des Etats-Unis. Il avait insisté pour dire que « la civilisation et la violence sont des concepts antithétiques ».
Avant son assassinat, King était devenu un adversaire déclaré de la guerre du Vietnam. C’est l’assimilation par King du militarisme à l’oppression et à la barbarie qu’Obama et l’ensemble de l’establishment américain trouvent dangereux et tentent de discréditer.
Le discours de réception du prix Nobel d’Obama est une nouvelle étape dans un processus au cours duquel celui-ci perd son masque. Le candidat du « changement » s’avère non seulement être le continuateur, dans tous ses aspects importants, de la politique de Bush et Cheney, mais encore un personnage profondément réactionnaire et répugnant en soi. Son enthousiasme évident pour l’armée et pour la guerre n’est pas feint, il est le résultat de ce qu’Obama est devenu au cours de sa carrière politique.
Jabir Aftab, un ingénieur de 27 ans de Peshawar au Pakistan dit à l’Agence France-Presse le jour de la remise du prix, « Le prix Nobel est pour ceux qui ont accompli quelque chose, Obama lui, est un tueur ». La pensée d’un grand nombre de gens dans la période à venir sera pénétrée de cette compréhension.
David Walsh, Mondialisation.ca
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samedi, 12 décembre 2009
Les principes élémentaires de la propagande de guerre
SYNERGIES EUROPEENNES - Ecole des cadres/Wallonie
Section de Liège
Rapport de réunion mensuel : Dimanche 17.11.2002.
Objet : MORELLI (Anne), Principes élémentaires de propagande de guerre.- Bruxelles, Editions Labor, 2001.
Les principes élémentaires de la propagande de guerre
Intérêt de l’ouvrage ?
Une nouvelle fois, c’est un ouvrage rédigé par un auteur d’extrême gauche qui monopolise notre attention. Anne Morelli est professeur à l’Université Libre de Bruxelles où elle est notamment à la tête de la chaire de critique historique ; elle est également spécialiste en histoire des religions. Elle est proche du P.T.B. (Parti des Travailleurs de Belgique) à l’idéologie communiste et « immigrophile » ouvertement revendiquée. Anne Morelli est ainsi l’auteur de toute une série d’ouvrages historiques louant les bienfaits de l’immigration en Belgique. Nous connaissions déjà au sein de cette mouvance les ouvrages (Monopoly, Poker Menteur…) du journaliste Michel Collon critiquant avec virulence la superpuissance américaine, ouvrages dans lesquels cette autre figure de proue du P.T.B. dénonce avec brio la désinformation opérée par les médias occidentaux inféodés aux agences de presse américaines lors de la guerre du Golfe ou du Kosovo. Principes élémentaires de propagande de guerre appartient indéniablement à la même veine et constitue un ouvrage didactique intéressant pour se familiariser avec les techniques de propagande utilisées « en cas de guerre froide, chaude ou tiède » comme le suggère le sous-titre en page de couverture. Anne Morelli utilise des exemples historiques bien connus pour illustrer chacun de ces principes et laisse la porte ouverte pour l’avenir ; car en effet tout l’intérêt de l’ouvrage réside dans le fait que, désormais, le lecteur averti pourra reconnaître au cours des guerres futures, les mécanismes de désinformation utilisés par les Etats pour manipuler l’opinion publique. Nous invitons d’ailleurs nos cadres à procéder au petit jeu consistant à détecter ces grands principes dans nos informations quotidiennes. Une fois entraînés, vous verrez, vous citerez le numéro du principe sans même avoir besoin de l’expliquer. Tiens, Bush a encore utilisé le principe n°8… Une bonne manière à notre sens de filtrer l’information !
Genèse de l’ouvrage.
En réalité, Anne Morelli ne revendique pas la paternité de la dénonciation des dix principes évoqués dans son livre. L’essentiel de sa réflexion, elle le doit à l’ouvrage du pacifiste anglais Arthur Ponsonby publié à Londres en 1928 et intitulé Falsehood in Wartime. L’ouvrage a été traduit en français sous le titre Les faussaires à l’œuvre en temps de guerre. Comme il dénonçait principalement les fausses informations produites par les alliés durant la guerre 14-18, le livre n’était pas pour déplaire aux Allemands et la traduction française est parue à Bruxelles en 1941, ce qui a longtemps conféré à l’œuvre une réputation d’ouvrage de collaboration. Ce livre contestataire par rapport à la version officielle de la guerre 14-18 s’inscrit en réalité dans un mouvement pacifiste qui a gagné toute l’Europe durant l’entre-deux-guerres. Nous sommes effectivement à l’époque de la Société des Nations ou encore du Pacte Briand-Kellog condamnant le recours à la force en cas de conflit. Ainsi, quelques auteurs se risquent à remettre en question le récit mythologique construit autour de la Première guerre mondiale par les Alliés. Lord Ponsonby fait partie de ces auteurs contestataires mais signalons également l’ouvrage célèbre de Jean Norton Cru analysant de manière très critique les témoignages des poilus de la Grande Guerre[1] et le livre de Georges Demartial édité en 1922, intitulé La guerre de 1914. Comment on mobilisa les consciences.
Principales idées dégagées par Anne Morelli.
L’ouvrage d’Anne Morelli est divisé en dix parties, chacune développant un principe de propagande de guerre. Notre réunion s’est organisée autour de cette structure. Xavier a reformulé chacun des principes en les ponctuant d’exemples. Chaque personne participant à la réunion a été invitée à donner son avis ou des exemples personnels de manipulation médiatique.
1. Nous ne voulons pas la guerre.
Il est évident que dans notre société aux valeurs pacifistes, il n’est pas très populaire de se déclarer ouvertement en faveur de la guerre. Anne Morelli remarque avec raison qu’à la veille de chaque conflit, tous les dirigeants se prononcent en faveur de la paix pour rassurer leur opinion publique ; si par malheur ces derniers décident quand même de faire la guerre, ils déclarent généralement qu’ils la feront « contraints et forcés » par les circonstances. De plus, il est important de noter qu’au sein de l’historiographie postérieure à chaque conflit, c’est toujours le vainqueur qui impose sa propre vision de la guerre au vaincu. La production historique du vainqueur devient alors dominante et colle une étiquette belliciste sur le camp du vaincu. Les deux guerres mondiales ont à ce titre toujours été présentées dans notre historiographie comme ayant été désirées ardemment par le Reich, les Alliés n’ayant fait que se défendre face au « bellicisme allemand ». Ainsi, dans le récit de la Première guerre mondiale, on insiste par exemple rarement sur le fait que la mobilisation allemande était en partie provoquée par la mobilisation russe et l’étau géopolitique que constituaient alors les puissances de l’Entente. De même, lorsqu’on évoque la Guerre 40-45, il n’est pas si inutile de rappeler au néophyte que c’est la France qui, la première, a déclaré la guerre à l’Allemagne en 1939 et non l’inverse, tant l’image populaire de la terrifiante Allemagne nazie la rend à priori totalement responsable du second conflit mondial ! Ce principe est aisément transposable à l’actualité la plus récente. Lorsque les Etats-Unis désignent des pays tels l’Irak ou la Corée du Nord comme faisant partie de l’ « Axe du Mal », ils justifient à l’avance que les futures guerres projetées par le Pentagone se feront à l’encontre de pays bellicistes menaçant la paix mondiale : les Etats-Unis ne veulent donc pas la guerre mais se battront s’il le faut pour « imposer la paix »… cherchez le paradoxe !
2. Le camp adverse est seul responsable de la guerre.
Ce principe est évidemment lié au premier. Si nous ne voulons pas ou n’avons pas voulu la guerre, c’est qu’il faut imputer à l’ennemi la responsabilité entière de toutes les atrocités qui caractérisent un conflit. Anne Morelli cite à ce titre toute la propagande faite en 14-18 autour de la violation de la neutralité de la Poor little Belgium par l’ « Ogre Allemand ». La violation du traité des XXIV articles de 1839 par l’Allemagne l’a condamné à être désignée par les Alliés comme la nation parjure par excellence, responsable du conflit car non respectueuse des traités internationaux. Par opposition, l’Angleterre a été présentée à l’opinion publique des pays alliés comme une nation fidèle et honorable volant au secours de la Belgique. Cette basse propagande constituant à responsabiliser l’Allemagne et son « plan Schlieffen » est facilement démontable lorsqu’on sait que le « plan XVII » du Général Joffre avait prévu une pénétration des troupes françaises sur le territoire belge en violation flagrante du Traité de 1839 qui importait peu à l’époque aux puissances belligérantes, plus soucieuses d’un côté comme de l’autre de s’assurer un avantage stratégique sur l’armée ennemie au début de la guerre de mouvement. Les Anglais eux-mêmes avaient cherché à se concilier les faveurs de la Belgique avant le déclenchement du conflit pour obtenir l’autorisation d’un « débarquement préventif » sur notre territoire en cas de mouvement des troupes allemandes. Aux yeux des Anglais, le respect de la parole donnée comptait finalement fort peu et c’est surtout la nécessité de conserver la Belgique, « pistolet pointé vers l’Angleterre », et plus particulièrement le port d’Anvers hors d’atteinte de l’armée allemande qui a justifié l’entrée en guerre des troupes de Sa Majesté. Anne Morelli rappelle aussi que rien n’obligeait la France à soutenir la Tchécoslovaquie en 1939 : le pacte franco-tchécoslovaque ne prévoyait pas forcément d’engagement militaire français en cas d’invasion du territoire tchécoslovaque ; ce pacte était d’ailleurs lié à celui de Locarno de 1925 rendu caduc depuis qu’il avait été dénoncé par plusieurs des puissances signataires. Le soutien nécessaire de la France à la Tchécoslovaquie a pourtant servi de prétexte (à postériori) à l’époque pour justifier auprès de l’opinion publique française l’entrée en guerre de l’Hexagone.
A nouveau il est intéressant de faire un parallèle avec les événements les plus récents. Lors de la guerre du Kosovo, lorsque la France et l’Allemagne, de concert avec les Etats-Unis, « ont négocié » avec Milosevic le traité de Rambouillet, sensé être un plan de « conciliation », les médias occidentaux ont sauté sur le refus du dirigeant serbe pour justifier les frappes de l’OTAN. Peu de journalistes ont pris la peine de noter que ce fameux plan de « conciliation » réclamait, en vue d’un soi-disant règlement pacifique du conflit, la présence sur le sol serbe des forces de l’Alliance Atlantique (et non des Nations Unies), ce qui aurait constitué pour la Serbie une atteinte grave à sa souveraineté. Mais l’occasion était trop belle dans le « camp de la paix » de faire passer Milosevic pour le « seul responsable » des bombardements de l’OTAN.
3. L’ennemi a le visage du diable (ou « L’affreux de service »).
Il est généralement assez difficile de haïr un peuple dans sa globalité. Quoique la nation allemande ait eu à souffrir au cours du XXe siècle des pires adjectifs de la part de l’opinion publique française, belge, anglaise ou américaine (Boches, Vandales, Huns, Barbares, etc.), les esprits les plus lucides étaient cependant obligés d’admettre que la démarche intellectuelle consistant à identifier l’ensemble d’une population à de simples stéréotypes était parfaitement idiote. C’est pourquoi la propagande de guerre a trouvé un subterfuge pour mobiliser la haine des plus récalcitrants. Elle canalise généralement toute l’attention de l’opinion publique sur l’élite dirigeante de l’ennemi. Celle-ci est présentée d’une telle façon que l’on ne peut éprouver à son égard que le mépris le plus profond. La presse à sensation n’hésite d’ailleurs pas à rentrer dans l’intimité des dirigeants, usant parfois de théories psychanalytiques fumeuses. Lors de la guerre du Kosovo, certains médias ont ainsi affirmer que si Milosevic était un va-t-en-guerre invétéré, c’est parce qu’il avait été battu par son père durant sa prime enfance. La plupart du temps, les dirigeants ennemis sont jugés parfaitement fréquentables avant le déclenchement des hostilités puis ils deviennent subitement des brutes, des fous, des monstres sanguinaires assoiffés de sang dès que le premier coup de fusil a éclaté. Avant que la Première Guerre mondiale n’éclate, Guillaume II et l’Empereur François-Joseph entretenaient des relations régulières avec la famille royale belge ; à partir d’août 1914, la presse belge n’a cessé de les décrire comme des fous sanguinaires tout en se gardant bien de rappeler leurs anciens contacts avec nos souverains .
Mais Hitler est sans nul doute le personnage qui aura le plus abondamment subi l’ire et l’acharnement de l’historiographie contemporaine. Il ne se passe pas un mois sans qu’une nouvelle biographie sur Hitler ne soit exposée sur les rayons « les plus sérieux » de nos libraires. Chacune a de nouvelles révélations à faire sur « le plus grand monstre de l’histoire », révélations toujours plus débiles les unes que les autres : le führer aurait eu des relations incestueuses avec sa mère à moins qu’il n’ait été homosexuel, juif, impuissant… ou même frustré de n’avoir pu réussir une carrière d’artiste peintre. Vous n’y êtes pas du tout, Hitler était un extraterrestre !
Il est d’ailleurs significatif que depuis la guerre 40-45, de nombreux « dictateurs » aient été présentés par la presse sous les traits de tonton Adolphe. Anne Morelli met bien en évidence cette « reductio ad Hitlerum » et cite notamment le cas de Saddam Hussein dont les moustaches ont été remodelées durant la guerre du Golfe par quelques ignobles feuilles de chou anglo-saxonnes. Rappelons nous aussi le nom de Milosevic « subtilement » transformé en « Hitlerosevic ». La méthode de personnalisation est à ce point ancrée que les manifestants anti-guerre du Golfe attaquent la politique américaine sous les traits de son seul président Georges W. Bush et n’ont pas hésité à l’affubler d’une certaine petite moustache sur leurs calicots ou ont remplacé les étoiles du drapeau américain par la croix gammée. Ce processus de personnification de l’ennemi sous les traits du démon et la canalisation de la haine publique ne sont pas sans rappeler la « minute de la haine » décrite par G. Orwell dans son roman 1984.[2]
4. C’est une cause noble que nous défendons et non des intérêts particuliers.
L’histoire est là pour nous montrer que toute guerre répond à des intérêts politiques bien précis : gain de territoire, affaiblissement du potentiel militaire, économique ou démographique de l’ennemi, contrôle d’une région stratégique-clef, etc. Considérer la guerre en ses termes constitue d’ailleurs un principe sain d’analyse des conflits. Au contraire, entacher la guerre de slogans idéologiques revient à dénaturer l’essence première des guerres. Un des arguments récurrents de la propagande de guerre à notre époque est la défense des droits de l’homme et de la démocratie, véritable religion laïque justifiant à elle seule tous les conflits. Ainsi, alors que le prétexte premier de la deuxième guerre du Golfe était la menace représentée par les soi-disant armes de destruction massive iraquiennes. Ne découvrant malheureusement pas la moindre trace de ces armes sur le territoire iraquien, les responsables de la coalition, relayés docilement par les médias, ont subitement transformé leurs objectifs en « rétablissement de la démocratie » en Irak. Comme on avait invoqué les noms saints de « démocratie », de « liberté » et de « droits de l’homme », la critique s’est tue car qui pourrait-être contre ?
5. L’ennemi provoque sciemment des atrocités ; si nous commettons des bavures, c’est involontairement.
L’histoire du XXe siècle est riche en faits propres à illustrer cette maxime. Durant la Première Guerre mondiale, selon la propagande alliée, ce sont surtout les Allemands qui ont provoqué le plus grand nombre d’atrocités. On accusait par exemple de nombreux soldats de l’armée allemande de couper les mains des jeunes enfants belges, d’utiliser la graisse des cadavres alliés pour fabriquer du savon ou encore de rudoyer et de violer systématiquement les jeunes femmes des pays occupés. Par contre cette même propagande passe fatalement sous silence le blocus alimentaire meurtrier de l’Allemagne pendant et après la guerre 14-18[3], elle passe sous silence les bombardements de terreur des anglo-saxons sur les villes allemandes et japonaises en 40-45. La terreur vis-à-vis des civils était d’ailleurs un des moyens clairement revendiqués et assumés par le Haut Etat Major allié ; en témoigne ce tract lancé sur les villes japonaises par les bombardiers américains en août 45 : « Ces tracts sont lancés pour vous notifier que votre ville fait partie d’une liste de villes qui seront détruites par notre puissante armée de l’air. Le bombardement débutera dans 72 heures. (…) Nous notifions ceci à la clique militaire [diabolisation de l’ennemi] parce que nous savons qu’elle ne peut rien faire pour arrêter notre puissance considérable ni notre détermination inébranlable. Nous voulons que vous constatiez combien vos militaires sont impuissants à vous protéger. Nous détruirons systématiquement vos villes, les unes après les autres, tant que vous suivrez aveuglément vos dirigeants militaires… »[4] Si la légende des mains coupées trouvait un écho certain durant l’entre-deux-guerres, elle a perdu à l’heure actuelle tout son crédit, tant elle était dénuée de fondements. Cependant, plus insidieuses sont les idées patiemment distillées à la population consistant à assimiler le soldat « au casque à pointe » à une brute épaisse où à criminaliser les armes allemandes « non conformes » aux lois de la guerre, tels les sous-marins, les V.1 et les V.2. Ces idées restent très solidement ancrées dans la mémoire populaire et il faudrait une propagande tout aussi acharnée que celle qui a contribué à les installer, pour pouvoir les supprimer.
6. L’ennemi utilise des armes non autorisées.
« De la massue à la bombe atomique, en passant par le canon et le fusil automatique, toutes les armes ont été successivement considérées par les perdants comme indignes d’une guerre vraiment chevaleresque, parce que leur usage unilatéral condamnait automatiquement leur camp à la défaite. »[5] Anne Morelli signale la propagande faite autour de l’emploi des gaz asphyxiants par l’armée allemande et l’utilisation des armes citées ci-dessus. A l’heure actuelle, on se focalise surtout sur la détention des armes de destruction massive dont il n’est même plus nécessaire de faire usage pour être un criminel de guerre et un ennemi de l’humanité. La seconde guerre du Golfe a montré qu’il s’agissait d’un prétexte rêvé pour justifier l’impérialisme américain. Il est d’ailleurs piquant de constater que, si nos souvenirs sont exacts, la seule puissance qui ait fait usage, et d’ailleurs contre des civils, de telles armes est celle qui les dénonce avec le plus de virulence aujourd’hui. Certains rétorqueront qu’une puissance belliqueuse telle l’Irak est une menace bien plus sérieuse que des régimes aussi pacifiques que ceux des Etats-Unis d’Amérique et d’Israël, ce qui ne manque pas de prêter à sourire.
7. Nous subissons très peu de pertes, les pertes de l’ennemi sont énormes.
Il n’est pas nécessaire d’expliquer en quoi il est utile d’affirmer que les pertes de l’ennemi sont énormes tandis que les nôtres sont négligeables. Si les pertes de l’ennemi sont énormes, sa défaite est certaine et comme nos pertes à nous sont faibles, cela justifie auprès de la population et des troupes, un dernier effort de guerre pour remporter une victoire définitive. « La guerre de 1914-1918 a -déjà- été une guerre de communiqués ou parfois d’absence de communiqués. Ainsi, un mois après le début des opérations, les pertes françaises s’élevaient déjà à 313.000 tués environ. Mais l’Etat-Major français n’a jamais avoué la perte d’un cheval et ne publiait pas (au contraire des Anglais et des Allemands) la liste nominative des morts. Sans doute pour ne pas saper le moral des troupes et de l’arrière que l’annonce de cette hécatombe aurait peut-être induit à réclamer une paix honorable plutôt que la poursuite de la guerre. »[6] Plus près de nous, lors de la guerre du Kosovo, les pertes que les Américains se targuaient d’avoir infligé aux Yougoslaves, fondirent comme neige au soleil après le conflit. Dans la récente guerre en Irak, même s’il faut reconnaître à la supériorité technologique américaine le fait que la superpuissance ne compte pas énormément de morts dans ses rangs, les chiffres annoncés officiellement sont tellement peu élevés qu’ils en deviennent suspects.
8. Les artistes et les intellectuels soutiennent notre cause.
Dans l’histoire du second conflit mondial, on nous présente toujours la classe intellectuelle comme ralliée à la cause des Alliés. D’ailleurs, il est de notoriété publique[7] qu’il n’y avait pas d’intellectuels nazis ou fascistes et que ceux qui se présentaient comme tels n’étaient que des médiocres et des imposteurs achetés ou vendus au pouvoir. Cette vision de l’ennemi justifie la victoire morale et intellectuelle de « La Civilisation » contre ce camp de barbares incultes et primitifs. Le plus grave avec ces procédés est que la culture de l’ennemi est diabolisée. Dans le cas allemand, nombreux sont les intellectuels bien pensant d’après guerre qui ont démontré « savamment » que le nazisme était consubstantiel à la culture allemande et que Nietzsche, Wagner et bien d’autres étaient responsables de la barbarie nazie qu’ils avaient préfigurée. Cette vision justifie à l’égard de l’Allemagne toutes les atrocités puisqu’en regard du droit international, elle n’est plus un justus hostis mais un injustus hostis. Anne Morelli montre que les intellectuels font des pétitions en faveur de leur camp ou contre l’ennemi, que les artistes participent à la propagande en caricaturant ou stéréotypant l’adversaire. Ceux qui ne participeraient pas à ces pétitions verraient leur notoriété médiatiquement mise à mal et pour éviter ce sort pénible, ils s’alignent sur la position dominante. Car, il faut le remarquer, les « intellectuels » font souvent preuve d’une lâcheté à la hauteur de leur orgueil et inversement proportionnelle à leur courage physique légendaire. Anne Morelli se garde bien de mettre en lumière à quel point le rôle des intellectuels dépasse ce simple aspect pétitionnaire et mobilisateur pour investir le champ de la justification intellectuelle, morale et philosophique de la guerre en cours ou de celles à venir. Ainsi Bernard Henri Lévy et consorts ont tricoté le cache-sexe humanitaire de l’impérialisme le plus abject sous la forme du droit d’ingérence.
9. Notre cause a un caractère sacré.
Anne Morelli dénonce dans son ouvrage les liens de la propagande de guerre avec la religion. Si nous sommes d’accord pour la suivre dans sa condamnation de l’instrumentalisation de la religion par les propagandistes des Etats belligérants, nous nous garderons bien toutefois de jeter le bébé, c’est-à-dire la religion, avec l’eau du bain. Si dans les démocraties de marché, il n’y a guère plus que les Etats-Unis pour encore invoquer la religion dans leur propagande guerrière, les autres Etats ont trouvé dans les droits de l’homme, la démocratie et leur sainte trinité « liberté, égalité, fraternité », la nouvelle religion bien terrestre permettant de sacraliser toutes les manœuvres perfides de leur politique extérieure.
10. Ceux qui mettent en doute la propagande sont des traîtres.
Un article de l’Evenement (29 avril-5 mai 1999) paru durant la guerre du Kosovo, illustre à merveille ce principe. Nous pouvons y lire en gros titre : Soljenitsyne, Marie-France Garaud, Max Gallo, Peter Handke : ils ont choisi de brandir l’étendard grand-serbe. LES COMPLICES DE MILOSEVIC. L’hebdomadaire a classé tous les « partisans de Milosevic », entendez ceux qui ont choisi de critiquer plus ou moins ouvertement la propagande anti-serbe, en six grandes familles : La famille « anti-américaine » (Pierre Bourdieu), la famille « pacifiste intégriste » (Renaud), la famille « souverainiste » (Charles Pasqua), la famille « serbophile » (Peter Handke), la famille « rouge-brun » (Le journal La Grosse Bertha) et la famille « croisade orthodoxe » (Alexandre Soljenitsyne). Tous les intellectuels qui se sont positionnés au sein d’une de ses grandes familles ou derrière un de leurs patriarches sont par conséquent considérés comme des traîtres et des imbéciles parce qu’ils n’ont pas compris le caractère hautement humanitaire de l’intervention otanienne.[8] On remarquera au passage l’orgueil démesuré de ce genre d’article brandissant la bannière du « politiquement correct » pour mieux mépriser ses contradicteurs. Anne Morelli met bien lumière ce dixième principe ; elle ne se limite pas aux guerres passées mais n’hésite pas à rentrer dans le vif du sujet en dénonçant la propagande durant la guerre du Kosovo ou durant la Première guerre du Golfe. Anne Morelli reconnaît ouvertement que la propagande n’est pas le propre des régimes nazis ou fascistes mais qu’elle affecte aussi nos régimes démocratiques. Dans une de ses notes, elle fustige d’ailleurs l’historienne de l’U.C.L., Laurence Van Ypersele, pour ses propos tenus dans la revue de Louvain n° 107 (avril 2000) affirmant que ce sont « les régimes totalitaires qui sont passés maîtres dans la falsification de l’histoire par l’image (…) L’avantage des démocraties est de n’avoir jamais eu le monopole absolu sur la production et la diffusion des images (…) Cette production (…) émanait de plusieurs centres parfois contradictoires, laissant la place à des contre-discours possibles. » Selon Anne Morelli, ces propositions sont « fausses au moins en temps de guerre. »[9]
Cette dernière remarque de Anne Morelli montre une certaine forme d’indépendance d’esprit, se complaisant toutefois dans les carcans idéologiques imposés par le système. Madame Morelli peut se permettre de critiquer la propagande présente dans les régimes démocratiques en se référant à des auteurs de gauche ou d’extrême gauche, elle n’en risque pas pour autant sa place à l’Université Libre de Bruxelles en tant que titulaire de la chaire de critique historique. Mais, si elle allait plus en avant dans sa critique, le recteur de cette université « libre » ne manquerait pas de la rappeler à l’ordre et sans doute sentirait-elle alors peser sur ses épaules tout le poids du totalitarisme démocratique. Il est finalement très facile et peu risqué de dénoncer les carences de la démocratie en temps de guerre, il est par contre très dangereux et interdit d’affirmer à quel point la démocratie est en réalité, autant en temps de guerre qu’en temps de paix, un système totalitaire à la fois plus subtil et plus achevé que ceux habituellement cités. Un système plus subtil et plus achevé car il diffuse son idéologie dans l’esprit des gens sans que ceux-ci en aient conscience. Alors que dans un régime totalitaire comme l’U.R.S.S. l’ensemble du peuple n’ignorait pas les moyens mis en œuvre par l’Etat pour le manipuler : un parti unique, une presse unique… la démocratie sous couvert du multipartisme et de la liberté de la presse n’en fonctionne pas moins selon les mêmes principes. La prétendue pluralité des partis n’est qu’un vernis superficiel recouvrant une même foi en la « sainte démocratie » qu’il serait vain de vouloir remettre en question. Quant à la diversité de l’information tant vantée pour distinguer nos régimes des régimes totalitaires, il devient patent aux yeux d’un nombre sans cesse croissant d’analystes médiatiques qu’il s’agit tout au plus d’un slogan destiné à maintenir les gens dans l’illusion de la liberté de pensée. Le système est à ce point fermé que la seule critique possible à l’égard des principes gouvernementaux qui nous dirigent est en réalité une critique « guimauve » du type : nos gouvernements nous manipulent et ne respectent pas assez les règles de la démocratie. Entendez : vous avez le droit de critiquer le système mais pas en dehors des règles imposées par celui-ci, vous pouvez sermonner la démocratie mais vous ne pouvez le faire qu’au nom des principes démocratiques, il est permis de contester la démocratie pour l’améliorer mais non pour en critiquer l’essence. Nous sommes sûrs qu’un Staline n’aurait finalement pas trop dédaigné un pareil système. Il aurait créé à côté du Parti communiste et de la Pravda quelques autres partis et journaux. Les lecteurs russes auraient ainsi eu le choix entre l’idéologie marxiste, marxiste-léniniste, stalinienne, trotskiste ou encore plus tard maoïste. Ces différences idéologiques minimes permettant au peuple russe de s’illusionner sur sa liberté de penser. Sans doute Staline aurait-il d’ailleurs préféré le totalitarisme mou incarné par nos démocraties modernes au totalitarisme trop fermé qu’il a choisi de soutenir à l’époque. Un tel choix lui aurait ainsi évité de dépenser inutilement l’argent de l’Etat dans la répression idéologique et les déportations en Sibérie.
C’est pourquoi, dans le contexte des régimes démocratiques, ce dixième principe devrait à notre sens être complété. Les intellectuels qui critiquent la propagande officielle, pendant la guerre mais aussi en dehors, sont non seulement des traîtres mais aussi des fous, des égarés à la pensée irrationnelle, des idiots…bref ce ne sont pas des intellectuels ! La démocratie se présentant comme un régime où la pensée s’exerce librement, ceux qui s’égarent de la ligne officielle ne pensent pas vraiment !
Conclusion.
Nous considérons ce livre comme un ouvrage pratique, distrayant, un classique du genre qui a sa place dans toute bonne bibliothèque s’intéressant à la propagande. Toutefois cette analyse sommaire de la propagande est selon nous elle-même vérolée par le virus démocratique. Anne Morelli a effectivement passé sous silence une des questions les plus élémentaires concernant la propagande de guerre : « Quelle est l’origine, la cause rendant nécessaire un tel phénomène ? » D’aucuns affirmeront que la propagande de guerre a existé de tout temps. Certes, nous leur répondrons toutefois : jamais avec une telle ampleur qu’au cours de ces deux derniers siècles. Avant 1789, un noble, un guerrier, un mercenaire n’avait pas spécifiquement besoin de véritables « raisons » pour se battre, il le faisait soit par allégeance, soit par intérêt calculé, mais rarement par passion ou sentimentalisme. Par contre, le peuple, lorsqu’il combat, a besoin de moteurs beaucoup plus puissants. Pourquoi ? Parce que le peuple répugne à la fois à s’exposer à la mort et à user de la violence. Il lui faut donc une raison personnelle : la haine ; alors que les guerriers, élevés dans l’esprit du combat, non nullement besoin de personnifier ainsi la guerre. Pour lever les réticences de la population, il faut agir sur ses sentiments et provoquer en elle une pulsion de meurtre qui justifie son engagement sous les drapeaux. L’ennemi devient par conséquent un ennemi absolu, l’incarnation du mal avec laquelle nulle trêve, négociation ou paix n’est désormais possible. Parmi les moteurs puissants mettant le peuple en mouvement, citons la religion[10] et surtout les idéologies ; ces dernières ont été le moteur réel des guerres et des massacres au cours de « la soi-disant période de progrès que l’humanité a connue depuis qu’elle a été libérée du joug des monarques absolus » : nationalisme français (« Aux armes citoyens ! »[11] ), communisme (« Prolétaires de tous les pays, unissez vous ! »), fascisme (« Tout pour l’Etat, tout par l’Etat »), etc. Tout chef de guerre sait à quel point le patriotisme et le nationalisme sont des moteurs importants pour maintenir la cohésion des troupes et chacun des grands conflits de ces deux derniers siècles nous donne des renseignements précieux sur la manière dont les dirigeants ont procédé pour « mouvoir le peuple ». Anne Morelli est passé à notre sens à côté de cet élément essentiel : la propagande de guerre est étroitement liée à l’émergence des nationalismes au dix-neuvième siècle[12] et plus spécifiquement des régimes démocratiques. La propagande de guerre est donc bien à notre sens un phénomène historique visant essentiellement à toucher le peuple dans la mesure où celui-ci est désormais (théoriquement) associé au pouvoir ! Et la propagande de guerre est orientée de telle manière que le peuple continue à soutenir ses dirigeants dans les crises les plus graves. C’est ce qui fait à la fois la force et la faiblesse d’un pouvoir politique qui s’appuie sur le peuple. Les victoires napoléoniennes étaient ainsi dues non seulement aux qualités exceptionnelles de stratège de l’illustre officier corse mais surtout à l’étonnante capacité que la France possédait depuis la Révolution de lever des troupes « au nom de la nation en péril ». Le peuple confère indéniablement une puissance importante en terme quantitatif ! Toutefois, les dirigeants de semblables régimes se trouvent dans une position délicate une fois qu’ils ont utilisé leur botte secrète. Le peuple, la « nation en arme », la « masse » sont par définition des éléments instables[13] qu’il faut sans cesse rassurer, entendez par-là manipuler. Dans ces conditions une guerre trop longue, trop coûteuse en vies humaines a tôt fait de retirer aux dirigeants la confiance qu’ils détenaient de la base. L’avènement des « guerres totales » (c’est-à-dire réclamant la participation de l’ensemble de la nation à la guerre, y compris la population civile - d’où le concept d’économie de guerre) et l’essor des télécommunications ont encore accru cette faiblesse du système démocratique. Lors de la guerre du Vietnam, beaucoup d’observateurs ont déclaré que c’était le choc des images télévisuelles montrant des cadavres américains rapatriés en avion dans des « sacs plastiques » qui avait provoqué la défaite des Etats-Unis pourtant largement supérieurs en matière de technologie militaire. Semblable constat implique forcément la nécessité pour tout « pouvoir démocratique » de contrôler la presse en cas de crise aiguë au risque de perdre toute légitimité auprès de son opinion publique. La propagande de guerre est donc bien un phénomène ayant pour origine directe l’avènement de régimes politiques s’appuyant sur le peuple, obligés de contrôler le quatrième pouvoir. Osons l’affirmer, les régimes démocratiques constituent la cause première de la manipulation médiatique dont nous faisons aujourd’hui les frais.
La propagande est d’ailleurs passée à notre époque à un stade supérieur. Nous avons dit au début de notre conclusion qu’elle s’est adressée primitivement au classes populaires. Un tel phénomène étant cyniquement légitimé par la nécessité d’ « éduquer les masses ». Il est toujours piquant de rappeler ainsi que « l’école pour tous », tant vantée par les révolutionnaires français, ne répond pas seulement à des objectifs philanthropiques mais surtout à des nécessités économiques et politiques. Il convient de donner à « l’enfant du peuple » des connaissances techniques suffisantes afin qu’il puisse faire tourner plus efficacement nos industries, il convient de lui donner une éducation politique orientée afin qu’il participe (et donc souscrive) aux règles de la nouvelle gouvernance qui a été mise sur pied. Et si nos démocraties montrent particulièrement pendant les conflits armés des défauts monstrueux, au point que des intellectuelles comme Anne Morelli puissent s’émouvoir, c’est parce que les nécessités du danger qui les menacent leur font battre pour un court instant le masque recouvrant leurs vrais visages, le visage du plus cynique des totalitarismes, ce que Madame Morelli s’est bien gardée de conclure !
« La propagande est à la société démocratique ce que la matraque est à l’Etat totalitaire ».[14]
[1] Le livre a connu deux versions. La première forte de 727 pages (Témoins. Essais d’analyse et de critique des combattants édités en français de 1915 à 1928, Paris, 1929) a déclenché de très virulentes réactions (positives ou négatives) lors de sa parution. La deuxième s’intitule Du Témoignage. Il s’agit d’une édition abrégée parue en 1930 et reprenant l’essentiel des idées développées dans la première édition. L’ouvrage de Norton Cru a fait l’objet d’un colloque au Musée de l’Armée de Bruxelles à la fin de l’année 1999.
[2] Ce roman a fait jadis l’objet d’une des réunions mensuelles de notre école des cadres.
[3] La stratégie du blocus est particulièrement prisée par les puissances thalassocratiques. Elle permet un minimum d’engagement et un maximum d’effet puisque les morts tués de façon violente lors d’opérations militaires sont beaucoup plus voyants et traumatisants que les morts « doux » dispersés dans l’espace et le temps au fur et à mesure que l’embargo produit son effet. L’exemple iraquien de la dernière décennie est de ce point de vue exemplaire et témoigne de la cruauté des « droits de l’hommistes internationalistes » qui l’appliquent.
[4] MERARI (Ariel), Du terrorisme comme stratégie d’insurrection, dans CHALIAND (Gérard) (dir.), Les stratégies du terrorisme.- Paris, Desclée de Brouwer, 1999, pp. 76-77.
[5] MORELLI (Anne), Principes élémentaires de propagande de guerre.- Bruxelles, Editions Labor, 2001, p. 49.
[6] Idem, p. 54.
[7] Les cours d’histoire du secondaire présentent le plus souvent l’Allemagne nazie comme une terre dépourvue de penseurs et d’intellectuels puisque ceux qui y étaient avaient fui le régime. Einstein constitue le choux gras dont se délectent nos professeurs d’histoire « à la page ».
[8] Cité dans HALIMI (Serge) et VIDAL (Dominique), L’opinion ça se travaille.- Marseille, Agone, Comeau & Nadeau, 2000, p. 102-103.
[9] MORELLI (Anne), Principes élémentaires de propagande de guerre.- Bruxelles, Editions Labor, 2001, p. 92.
[10] A nos yeux, il s’agit toutefois du meilleur des motifs pour faire la guerre. Mais le rôle de la religion dans la guerre devrait faire l’objet d’une étude ultérieure.
[11] Les paroles de la Marseillaise « Abreuvons du sang impur nos sillons » montrent bien jusqu’à quel point conduit l’idéal démocratique.
[12] Le principe de la « nation en arme » apparaît lors de la révolution française et va bouleverser la manière de faire la guerre.
[13] Voir à ce sujet le classique de Gustave LEBON, Psychologie des Foules.
[14] CHOMSKY (Noam), Propaganda.- France, Editions du Félin, 2002, p.20.
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lundi, 30 novembre 2009
Chaliand: le nouvel art de la guerre
Le nouvel art de la guerre
Via ONG [1]
« Si tu ne connais ni ton adversaire ni toi-même, à chaque bataille tu seras vaincu» , écrivait Sun Tzu, voici vingt-cinq siècles, dans L’Art de la guerre. On ne peut dire que les guerres d’Irak et d’Afghanistan aient été engagées avec une vraie connaissance culturelle de l’adversaire. Aussi grave, mais plus paradoxal: les sociétés occidentales, croyant bien se connaître, mesurent mal leurs propres transformations et les conséquences militaires qui en découlent. Ainsi, depuis plusieurs décennies, l’hémisphère Nord accuse un recul démographique, tandis que l’épicentre des conflits paraît de plus en plus se situer dans les opinions publiques, qui les veulent brefs et victorieux. La sensibilité d’une population vieillissante supporte mal les pertes militaires. Or, les guerres dites asymétriques sont, par nature, des guerres d’usure. Des troupes occidentales peuvent-elles, aujourd’hui, gagner des guerres irrégulières? Ont-elles encore intérêt à intervenir massivement? De nouvelles stratégies prévaudront-elles demain ? Autant de questions que pose cet essai pour repenser l’art éternel de la guerre Gérard Chaliand est spécialiste des conflits et ses enquêtes de terrain lui ont fait partager, durant plusieurs années, l’expérience de luttes armées en Asie, en Afrique et en Amérique latine, comme, tout récemment, en Irak et en Afghanistan. Il a enseigné à l’ENA et au Collège Interarmées de Défense, à Harvard, à Berkeley, ainsi que dans nombre d’autres universités étrangères. Il a contribué, par ses Atlas (avec J.-P. Rageau), au regain d’intérêt pour la géopolitique. Ses ouvrages militaires (L’Amérique en guerre, Le Rocher, 2007; Histoire du terrorisme, Bayard, 2004) illustrent une approche nouvelle des questions de stratégie et des guerres irrégulières.
Disponible sur Libre-diffusion [2]
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dimanche, 29 novembre 2009
Our Chief Industry: War
Our Chief Industry: War
By Justin Raimondo / From: http://original.antiwar.com/
We often hear the complaint that America doesn’t make anything anymore: that is, our economy seems driven not by producing actual things, but utterly intangible creations such as credit default swaps and securitized sub-prime mortgages. Our once-bustling factories are rusted relics. Entire industries have collapsed. Ghost towns have sprung up where cities once thrived, like mushrooms sprouting in a cemetery. Baffled Americans, who – mistaking debt for wealth – thought they lived in the wealthiest country in the world, struggle to define what is happening. Old words like "correction," contraction," and "recession" give way to talk of a second Great Depression, and, in this context, the question "What does America make anymore?" is raised with renewed vigor.
While our factories have long since moved abroad, where wages are lower and regulation is lax, and our crippled industries are in Dr. Obama’s economic intensive care unit, on life support and awaiting last rites, America’s number-one export – representing, by far, our single largest capital investment – is our overseas military presence. What Chalmers Johnson referred to as our "empire of bases" is the framework of an international economic system in which the division of labor is roughly as follows: while Asia is the factory of the world, South America the farmland, and Europe increasingly a theme park/museum, the U.S. role is that of world gendarme.
What do you mean we don’t make anything? What about wars? We make plenty of those: Iraq, Afghanistan, and now Pakistan and perhaps Iran – the Globo-Cop business is booming.
Before the big crash of 2008, you’ll recall, in the glory days of the bubble years, our elites were all atwitter with a vague, glowing vision of the new economic reality, which touted the alleged benefits of "globalization." More than just the traditional free-market prescription of free trade, this concept envisioned extending the reach and influence of Western finance capital over the entire globe. At the end of this road – at "the end of history," as Francis Fukuyama famously put it – we would fall into the all-encompassing embrace of the emerging world state and live happily ever after.
This ever-upward-and-onward Panglossian view, which identified growing Western domination of the global economy with the march of progress itself, was the underlying rationale of an increasingly aggressive policy of U.S. military and political intervention worldwide. We said we were fighting for civilization as we bombed some of the oldest cities in Balkans, and when" humanitarian" interventionism gave way to a more Roman concept of America’s role in the world – the dividing line being, roughly, 9/11/01 – still we invoked the defense of universal values as the ultimate justification for occupation and mass murder. We unhesitatingly identified ourselves and our interests with the advent of modernity and took up the old Kiplingesque burden of empire with alacrity.
This kind of hubris, however, has since gone out of fashion. The trauma of Iraq and an economic downturn have tamped down our crusading fever; a new appeal is needed in order to buttress the global economic and political order our ruling elites once thought they had in their grasp. At a time when the whole rationale for our endless "war on terrorism" is being challenged, a more pragmatic course is called for.
As Republicans resist the extensive new social programs advanced by the Obama administration, including healthcare as yet another entitlement, and popular awareness of the national debt reaches new heights of anxiety, there is one way out: more spending on the military. Here is a measure the thoroughly neoconized Republicans can support wholeheartedly – especially if the money is being spent in their districts. This satisfies White House strategists, who seek a way out of a growing political impasse, and also the economic gurus at Obama’s ear, who believe government spending can create new jobs and kick-start the economy.
These economic geniuses are the latter-day followers of John Maynard Keynes, an economist who believed we could end unemployment and fight our way out of economic malaise by having the government hire workers to dig ditches and then fill them back up again. They didn’t necessarily have to produce anything of value, as long as they went through the motions. All government has to do is "prime the pump," and this will set in motion a process ending in full employment. You can build hospitals or pyramids, it doesn’t matter; military spending will do. In this scenario, we are back to when James Baker was asked to justify the first Gulf war, and he replied, "Jobs, jobs, jobs."
Anything to rev the "economic engine" and otherwise conflate an overused metaphor with a rather more complex reality.
The Obama administration, the Federal Reserve, and the titans of Big Business and Big Labor all face a common problem: how to re-inflate the economic bubble that burst with such a loud bang last year. So far, nothing has worked. The more they pump the economy full of air – i.e., rapidly depreciating dollars – the faster it seems to deflate. The various "stimuli" applied to the patient seem to wear off quickly. The one politically feasible "solution" to this problem is bipartisan support for greatly increased military operations worldwide. What better stimulus than a foreign policy of perpetual war?
In the heyday of the American Imperium, the deal with our vassals was this: we provided a market for their cheap imports and agreed to keep trade barriers down – as long as they took our side and, in many cases, allowed a substantial U.S. military presence on their soil. Yet this system was unsustainable. The problem with having a worldwide empire, as Garet Garrett, the mid-20th-century conservative critic of globalism, put it, is that "everything goes out and nothing comes in."
What the American empire, at its height, aspired to was the creation of a de facto world state [.pdf], with Washington as its capital. What this nascent global government lacked, however, were the two essential items in any government’s toolbox:
(1) The power to levy taxes. Earlier empires exacted tribute from their vassals, but in the American empire the exact opposite principle holds sway: our vassals exact tribute from us, in the form of "foreign aid," including massive military aid.
(2) A central bank, in this case a world central bank, with the power to monetize government debt and re-inflate the economic bubble on a world scale, regulating and "fine-tuning" a fully globalized economy.
As it is, the whole system rests on massive U.S. government debt. In exchange for policing the globe and keeping the "peace," our rulers depend on foreigners buying U.S. debt securities. This is the Achilles heel of the American giant.
As we await Obama’s decision on how many fresh troops to send to the Afghan front, a grand compromise is in the making. Its terms will be as follows: the GOP, for ideological reasons, gives critical support to Obama’s foreign policy initiatives, particularly when it comes to Afghanistan and Pakistan, while the Democratic majority pushes through successive economic stimuli, including generous handouts to their various constituencies: Wall Street, the unions, and the growing underclass. The twin engines of the Keynesian perpetual motion machine will thus be kept whirring – until the bill comes due.
NOTES IN THE MARGIN
I’ve been contributing regularly to The Hill in the form of brief comments on "The Big Question" of the day. Yesterday’s topic: "Which issue will be more important to voters in 2010 – the deficit or jobs?" Here is my answer.
Read more by Justin Raimondo
- The Democrats’ War Tax – November 22nd, 2009
- The Gitmo Trial: Why Now? – November 19th, 2009
- The Trial of the Century and the Long Shadow of 9/11 – November 15th, 2009
- The Winds of Change Die Down – November 12th, 2009
- Stop, Look, Listen – November 10th, 2009
Article printed from Antiwar.com Original: http://original.antiwar.com
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dimanche, 22 novembre 2009
Und morgen ganz Eurasien - der Ausbau der US-Brückenköpfe
Und morgen ganz Eurasien – der Ausbau der US-Brückenköpfe
Bereits eine Woche vor dem Besuch von US-Präsident Barack Obama in Japan demonstrierten über 20.000 Japaner in Ginowan gegen den weiteren Ausbau der US-Militärstützpunkte auf der Insel Okinawa und verlangten die Schließung der in der Nähe ihrer Stadt gelegenen amerikanischen Marine-Corps-Futenma-Air-Base. Unter dem Beifall der Demonstranten rief der Bürgermeister von Ginowan, Yoichi Iha, dem japanischen Premierminister Yukio Hatoyama zu, Präsident Obama zu sagen, »dass Okinawa keine US-Basen mehr braucht«. Abschießend forderte der Bürgermeister vom Premier »eine tapfere Entscheidung zu treffen und mit der Last und Qual von Okinawa Schluss zu machen« (1).
Schon früher hatte die Opposition gegen die Anwesenheit einer strategisch bedeutenden US-Militärbasis in Japan Stellung bezogen. Sind doch von diesem »unsinkbaren Flugzeugträger der Vereinigten Staaten« China, Taiwan und Nordkorea leicht zu erreichen. Japan als östliches Einfallstor nach Eurasien.
Eine ähnlich bedeutende Rolle spielt die Bundesrepublik Deutschland im Westen Eurasiens. Obwohl die Bundesrepublik als Brückenkopf der USA deren Operationen in Nahen und Mittleren Osten sowie in Zentralasien erst ermöglicht, sind Vorgänge wie in Japan heute kaum vorstellbar.
Bald 65 Jahre nach dem Zweiten Weltkrieg betteln mit lukrativen Angeboten bundesdeutsche Landes- und Kommunalpolitiker darum, möglichst viele US-Garnisonen in unserem Land zu erhalten. So freut sich Wiesbadens Oberbürgermeister Helmut Müller (CDU) über eine bedeutende Neuansiedlung in der Landeshauptstadt. Völlig unspektakulär war in der US-Armeezeitung Stars & Stripes am 20. Oktober 2009 vom Umzug des Hauptquartiers der US Army/Europa (USAREUR) von Heidelberg nach Wiesbaden zu lesen. (2) Auf dem dortigen US-Airfield Erbenheim soll bis 2013 das neue Europa-Hauptquartier der US Army entstehen. 68 Jahre nach Ende des Zweiten Weltkrieges und nach elf US-Präsidenten seit Harry Truman (1945–1953) sollen in einem amphitheaterähnlichen Einsatz- und Kampfführungszentrum die militärischen Geschicke Europas gesteuert werden. Das 84 Millionen teure dreistöckige Zentrum wird auf ca. 26.500 Quadratmetern mit den neusten Kommunikations- und Planungsgeräten ausgestattet und zur modernsten US-Militäreinrichtung in Europa ausgebaut. Den Grund für den Neubau erläuterte der Operationschef der USAREUR, Brigadegeneral David G. Perkins: »Bisher ist das Hauptquartier der USAREUR weder dazu ausgelegt, noch technisch oder personell so ausgestattet, dass es als Kriegsführungs-Hauptquartier dienen könnte.«
In dieser Transformation sieht Perkins »etwas Bedeutsames, etwas Historisches«. Zur Vorbereitung nahm bereits im Sommer 2008 das USAREUR-Hauptquartier an einer Kommandoübung teil, die unter dem vielsagenden Namen Austere Challenge (Äußerste Herausforderung) lief. Zur Übung gehörte die Errichtung einer vorgeschobenen Kommandozentrale in Grafenwöhr. Das soll den Stäben der USAREUR und des V. US-Corps die Möglichkeit geben, ein simuliertes Kriegsszenario aus der Perspektive eines Hauptquartiers zu erleben. Ebenfalls beteiligte sich das Oberkommando der US-Streitkräfte in Europa – EUCOM in Stuttgart – sowie das Hauptquartier der US-Marine in Europa. Dieses ist identisch ist mit dem der 6. US-Flotte (CNE-C6F in Neapel). Alljährliche Übungen sind geplant.
Neben der Ausbildung zählte Perkins weitere Aufgaben von USAEUR auf: die US Army »schickt Einheiten an die Front, holt sie von dort wieder zurück und sichert die Lebensqualität für die Soldaten und ihre Familien [an ihren europäischen Standorten]« (3). So folgt zwingend der weitere Ausbau der Garnison: eine Army-Unterkunft für 32 Millionen Dollar, ein Unterhaltungszentrum für 8,8 Millionen Dollar und eine Wohnanlage für 133 Millionen Dollar mit bis zu 324 Reihenhäusern, Doppelhäusern und Einfamilienhäusern. Obwohl der Umzug nach Wiesbaden unmittelbar nach Fertigstellung des neuen Kampfführungszentrums vorgesehen ist, hänge nach USAREUR das genaue Umzugsdatum noch von der Zustimmung des Kongresses zu den Baumaßnahmen, von operativen Gegebenheiten sowie von weiteren Bescheiden der Gastgebernation ab. Jedoch haben deutsche Behörden auf den US-Vorgang nur marginalen Einfluss. Das Einsatzzentrum wird innerhalb der US-Liegenschaft in Wiesbaden/Erbenheim gebaut. Die totale Nutzungsüberlassung der deutschen Behörden laut Stationierungsvertrag erlaubt der US- Militärverwaltung freies Spiel der »Notwendigkeiten«. Nach dem Umzug wird die US-Militärgemeinde Wiesbaden um 4.000 Soldaten, Zivilangestellte und Familienmitglieder auf 17.000 Personen anwachsen.
Zugleich sollen die US-Fallschirmjäger der 173rd Airborne Brigade als »Südeuropäische Schnelleingreiftruppe« eine neue Heimat auf dem Flugplatz Dal Molin/Vicenza erhalten. Hier hat das italienische Verteidigungsministerium trotz einiger Widerstände die Baupläne nach einigen Änderungen grundsätzlich gebilligt.
Schon Mitte Dezember 2007 fand in Vicenza eine internationale Kundgebung gegen den geplanten Stützpunkt Dal Molin statt. Neben Aviano – derzeit größte US-Basis Italiens und dem toskanischen Camp Derby – hat die bei Vicenza bereits bestehende US-Großbasis Caserma Ederle eine zentrale Funktion bei den Kriegen gegen Jugoslawien, den Irak und Afghanistan gespielt. Mit der Errichtung des neuen Stützpunktes Dal Molin wird, wie es die Bewegung in Vicenza formuliert, ganz Vicenza zu einer einzigen US-Basis. Dem harten Kern des Widerstandes geht es um mehr als nur um Ederle oder den künftigen Stützpunkt Dal Molin. Sie wollen europaweit US-Basen bekämpfen.
Die Bedeutung des Kosovo für die USA unterstrich US-Vizepräsident Biden bei seinem Besuch am 21. Juni 2009. Obwohl der Internationale Gerichtshof in Den Haag seit dem 17. April 2009 die Rechtmäßigkeit der einseitigen Kosovo-Unabhängigkeit prüft, unterstrich Biden die Unabhängigkeit des Landes als »unumkehrbar«. Ein skandalöses Beispiel für die inzwischen zur Bedeutungslosigkeit degradierten UN. Die USA benötigen ein »unabhängiges« Kosovo, um dort ihren mit viel Geld aufgebauten Stützpunkt Camp Bondsteel langfristig zu nutzen. Nach Rückzug der serbischen Truppen wurde das US-Camp im südlich von Pristina gelegenen Urosevac zum größten Militärstützpunkt seit Vietnam als Außenposten der USA für Operationen im Nahen Osten ausgebaut. Auf dem 3,86 Quadratkilometer großen Stützpunkt können bis zu 7.000 Armeeangehörige aufgenommen werden. (4) Camp Bondsteel soll zum Außenposten der USA für Operationen im Nahen Osten ausgebaut werden und Landebahnen für Kriegsflugzeuge bis hin zu B-52-Bombern erhalten. Ein konkretes Datum für den Abzug der US-Truppen gibt es nicht, vielmehr wird ein Pachtvertrag für 99 Jahre angestrebt. Da ergibt eine endgültige Loslösung von Serbien aus souveränitätsrechtlichen Gründen durchaus einen Sinn. Im Sommer 2001 hob US-Präsident Bush anlässlich eines Besuches im Camp Bondsteel dessen Aufgabe hervor: (5)
»Wir streben eine Welt der Toleranz und der Freiheit an. Von Kosovo nach Kaschmir, vom Mittleren Osten nach Nordirland, ist Freiheit und Toleranz das definierte Ziel für unsere Welt. Und Ihr Dienst setzt hierfür ein Beispiel für die ganze Welt.« (6)
Mit derartig anspruchsvollen ethischen Zielen lassen sich leicht die wirklichen Absichten verdecken. Diese werden parteiübergreifend im elitären Machtzirkel des Council on Foreign Relations (CFR) geschmiedet. Dort finden vor allem Deutungsmuster und Weltbilder regen Zuspruch, die vor über einem Jahrhundert Sir Halford Mackinder, Alfred Thayer Mahan und Nicolas J. Spykman für den angelsächsischen Raum entworfen haben. (7) Rechtzeitig zum US-Präsidentschaftswahlkampf erschien vom vorgestrigen Großmeister der Geostrategie Zbigniew Brzezinski das aus seiner Feder stammende Buch Second Chance (8). Darin unterzieht die graue Eminenz der demokratischen Präsidenten seit Carter und nunmehriger außenpolitischer Berater Barack Obamas die Regierungen Bush I, Clinton und Bush II einer fundamentalen Kritik. Ihnen sei es nach dem Zusammenbruch der Sowjetunion nicht gelungen, ein System dauerhafter amerikanischer Vorherrschaft zu errichten. Nun sei es an der Zeit, verstärkt auf Kooperationen und Absprachen mit Europa und China zu setzen. Dagegen solle Rußland isoliert und möglicherweise auch destabilisiert werden. Das Scheitern der von Brzezinski 1997 formulierten Pläne einer US-Vorherrschaft in Eurasien soll nun durch eine von Europa ausgehende Osterweiterung der NATO kompensiert werden. Die NATO-Mitgliedschaft der Ukraine wird befürwortet und dagegen das russische Bemühen, Einfluss in der Ukraine zu bewahren, als Imperialismus gebrandmarkt. (9)
Die bereits vorhandenen Einrichtungen des US-Militär in den Baltenstaaten sollen durch weitere US-Basen an der Küste des Schwarzen Meeres in Rumänien und Bulgarien ergänzt werden. (10) Auf den beiden Basen sollen über 4.000 US-Soldaten sowie die »Gemeinsame Eingreiftruppe Ost« (Joint Task Force East) stationiert werden. Die Regierungen der beiden Staaten erwarten, dass sich das US-Militär dort für lange Zeit niederlassen wird. (11) Unter anderem dürften diese Basen dazu dienen, um den Transport des Öls und des Gases aus dem Kaspischen Becken zu sichern.
Nicht zu unterschätzen sind auch die politischen Motive, um auch kleinere Truppenkontingente in neuen NATO-Mitgliedsstaaten zu stationieren. Mittels solcher Stationierungsmaßnahmen kann sich Washington eine politisch-wirtschaftliche Einflussmöglichkeit auf die Politik dieser Länder sichern und seine Rüstungsexportinteressen wirksamer wahrnehmen. Dazu braucht man nicht unbedingt Standorte mit guter Infrastruktur und größeren Verbänden, sondern kleinere Standorte, die in Krise und Krieg schnell aufwachsen und zur Unterstützung auch länger anhaltender Kampfhandlungen genutzt werden können. (12)
Trotz des weiteren uneingeschränkten militärischen »Engagements« im Irak, in Afghanistan und nun auch in Pakistan wird das Interesse der bankrotten Vereinigten Staaten deutlich, die eigene militärische Präsenz über Europa hinaus auszudehnen. Schwerpunkte dieses Interesses sind derzeit der Mittlere Osten, der Schwarzmeerraum, der Transkaukasus und Zentralasien sowie Afrika.
Hier sieht der ehemalige US-Botschafter in Nigeria, Princeton Lyman, für Afrika eine neue Bedeutung hinsichtlich »Amerikas relevanten Fragen wie Energie, Terrorismus und Handel« (13). Dieser Erkenntnis wurde 2007 mit der Aufstellung des AFRICA Command (AFRICOM) Rechnung getragen. Dieses Einsatzführungskommando für den afrikanischen Kontinent wurde von EUCOM abgetrennt und ist nun die sechste US-Kommandozentrale für eine bestimmte Region. (14) Zu den Aufgaben dieses Regionalkommandos erklärte US-Präsident George Bush: »Das AFRICA Command wird unsere Bemühungen verstärken, den Menschen in Afrika Frieden und Sicherheit zu bringen und unsere gemeinsamen Ziele von Entwicklung, Gesundheit, Bildung, Demokratie und wirtschaftlichen Fortschritt in Afrika voranzutreiben.« (15)
Mit Blick auf das Terrornetzwerk Al Kaida soll nach US-Verteidigungsminister Robert Gates die neue Befehlsstelle auch zum »Schutz nichtmilitärischer Missionen und, sofern es nötig ist, auch für militärische Operationen zur Verfügung stehen« (16). Diese Operationen werden im Hauptquartier von AFRICOM in Stuttgart-Möhringen geplant, während EUCOM im nachbarlichen Stuttgart-Vaihingen die Strategien vom Baltikum bis zum Schwarzen Meer umsetzt.
Neben den Befehlszentren in Stuttgart und nun auch bald Wiesbaden ist noch das Luftwaffenhauptquartier der US Air Force Europe in Ramstein – dem größten Stützpunkt der US-Luftwaffe außerhalb der USA – von Bedeutung. Hier wurde und wird die Luftversorgung der Soldaten für die Kriege auf dem Balkan und im Mittleren Osten organisiert. Von der US-Airbase Spangdahlem in der Eifel können die gefürchteten Tarnkappenbomber F-117-A starten, während die Rhein-Main-Airbase in Frankfurt neben Ramstein als die zweite große Drehscheibe der US Air Force agiert. Dort können die riesigen amerikanischen Militärtransporter Galaxy und Globemaster einen Zwischenstopp einlegen. Auch sind hier die mächtigen Tankflugzeuge KC-135 Stratotanker stationiert.
3.500 Kilometer von Bagdad und 5.200 Kilometer von Kabul entfernt liegt im pfälzischen Landstuhl das US-Regional Medical Center (LRMC) mit über 2.000 Mitarbeitern. Landstuhl – die gefühlte deutsche Front in diesem Krieg. Nur acht Kilometer entfernt vom größten Krankenhaus der US Army außerhalb der Vereinigten Staaten landen die mattgrauen C-17-Frachtmaschinen mit ihrer traurigen Fracht. Schwerverletzte werden für ihre weitere Verlegung in die Heimat versorgt, während Leichtverletzte für die Rückkehr in den »Krieg gegen den Terrorismus« behandelt werden. Dieser »Krieg gegen den Terrorismus« wurde nach dem 11. September 2001 nicht als Verbrechensbekämpfung definiert, sondern scheint vielmehr dem Ziel der strategischen Vorherrschaft in dem »Korridor entlang der Seidenstraße« (17) zu dienen. Nach Afghanistan und dem Irak ist der Iran in das Visier der Pentagon-Strategen geraten. Ein Blick in die Landkarte mit dem Verantwortungsbereich des Zentralen US-Kommandos (CENTCOM/Area of Responsibility) genügt.
Erst am 9. November 2009 beendeten das U.S. European Command ( EUCOM/ Stuttgart) und die Israel Defense Forces ( IDF) das Luftabwehr-Manöver Juniper-Cobra 2010/JC10. (18) In der zweieinhalbwöchigen Übung wurde in Israel die Einsatzbereitschaft zwischen israelischen und amerikanischen Luftabwehreinheiten trainiert – und abschließend mit scharfen Raketen getestet. Durch seine Teilnahme an diesem Manöver unterstrich US-Admiral Stavridis – in Personalunion Chef aller US-Streitkräfte in Europa und Oberkommandierender sämtlicher NATO-Streitkräfte - die Bedeutung dieses Kriegsspiels. Sollte es vielleicht auch den Iran einschüchtern?
Der Stellenwert der Bundesrepublik Deutschland für die strategischen Absichten der USA lässt sich aus den Angaben in der Base Structure Review 2008 des US-Verteidigungsministeriums ablesen: Von den 761 größeren US-Liegenschaften jenseits der US-Grenzen befinden sich 268 in Deutschland.
Mit weitem Abstand folgen Japan (124) und Südkorea (87). Von den etwa 150.454 dauerhaft in Übersee stationierten US-Soldaten findet sich das größte Kontingent mit 55.147 Soldaten (19) in der Bundesrepublik.
Ohne bereitwillige deutsche Unterstützung der amerikanischen Aktivitäten könnten die USA ihre Kriege im Irak oder in »AF-PAK« nicht führen. In Grafenwöhr werden die US-Truppen für ihren Einsatz im Irak ausgebildet und von hier aus in den Krieg geflogen. Zurück kommen sie häufig nur noch als Fleischklumpen oder dürfen in Deutschland genesen, um dann wieder zurück in den Krieg geschickt zu werden. Vor diesem Hintergrund mutet die in Deutschland an den Tag gelegte Teilnahmslosigkeit schon sehr zynisch.
Auch weitere Kriege in Eurasien werden nur dank deutscher Hilfe möglich sein. Bisher konnte die US-Armee und ihre Dienstleistungsunternehmen zivile deutsche Flughäfen für den Transport in ihre Kriegsgebiete unkontrolliert nutzen. Obwohl die deutsche Bundesregierung frühzeitig Kenntnis von Verschleppungen mutmaßlicher Terroristen und sogenannter »Gefangenen-Flüge« (Rendition-Flights) hatte, wurden derartige Menschentransporte im deutschen Luftraum nicht unterbunden. (20)
Hier steht die Bundesregierung in der Verantwortung.
Werden eines Tages die Bürger der Bundesrepublik für die absehbaren Konsequenzen amerikanischer Machtpolitik gerade stehen müssen?
Zum Auftakt seiner Fernostreise unterstrich Barack Obama in Tokio am 14. November 2009 den Anspruch auf die globale Führungsrolle der USA. In seiner Grundsatzrede kündigte er eine Ausweitung der US-Aktivitäten im asiatischen Raum an – soll hier die unter Clinton geborene »Seidenstraßenstrategie« weiter verfolgt werden? Mit dieser Strategie zielt die US-Politik darauf, ihre Wettbewerber im Ölgeschäft, darunter Russland, den Iran und China, zu schwächen und schließlich zu destabilisieren. Das wird im US-Kongressbericht auch ganz offen zugegeben:
»Zu den erklärten Zielen der US-Politik im Hinblick auf die Energieressourcen in dieser Region gehört es, [...] Russlands Monopol über die Öl- und Gastransportrouten zu brechen (21) [...] den Bau von Ost-West-Pipelines zu ermutigen, die nicht durch den Iran verlaufen, sowie zu verhindern, dass der Iran gefährlichen Einfluss auf die Wirtschaften Zentralasiens gewinnt (22)
Hinzu kommend würde ein Krieg gegen den Iran den USA eine viel solidere Militärbasis im Mittleren Osten als bisher verschaffen und den Einfluss auf Saudi-Arabien und andere Staaten des Mittleren Ostens verstärken. Die USA könnten damit dem gesamten Mittleren Osten ihre Bedingungen aufzwingen. Das werden aber Russland, China und Pakistan sowie auch Indien nicht zulassen.
Als weitere zentrale Themen sprach Obama die US-Stützpunkte in Japan sowie den Kampf gegen den Terrorismus an. Mit seiner Asientour scheint Obama zeigen zu wollen, dass die USA immer noch eine Führungsrolle in der Region innehaben. Angesichts der Finanzkrise, einer maroden Infrastruktur und eines bankrotten Haushaltes scheint das jedoch zunehmend illusorisch sein. Inzwischen sind die Vereinigten Staaten auf dem Finanz und Devisenmarkt von China und Japan abhängig, die gigantische Dollarreserven angehäuft haben. Sollte sich China vom US-Dollar als Leitwährung verabschieden oder gar einen Teil der Dollarreserven verkaufen, so würde das die USA vor große Probleme stellen.
Abkürzungen:
AOR: Area of Responsibility/Verantwortungsbereiche der US-Kommandos
AF-PAK: Afghanistan-Pakistan
AFRICOM: US-Kommandobereich Afrika
CENTCOM: Zentrale US-Kommandobereich
CNE-C6F: Combined Staff of U.S. Naval Forces Europe and Sixth Fleet
EUCOM: US-Kommandobereich Europa
IDF: Israel Defense Forces
NATO: North Atlantic Treaty Organization
USAREUR: US Army/Europa
Quellen:
(1) Zitiert aus »Japanese protest US base before Obama visit« in yahoo news unter: http://news.yahoo.com/s/afp/20091108/wl_asia_afp/japanusdiplomacymilitarydemonstration
(2) Patton, Mark: »Contract awarded for Wiesbaden USAREUR center«, in: Stars and Stripes, European edition, Tuesday, October 20, 2009, aufgerufen unter http://www.stripes.com/article.asp?section=104&article=65500
(3) Dougherty, Kevin: »An der USAREUR-Zukunft wird noch gebaut«, in: Stars and Stripes, 28.02.2008,
http://www.stripes.com/article.asp?section=104&article=60285&archive=true
(4) Camp Bondsteel ist modern ausgestattet und bietet zahlreiche Annehmlichkeiten und Einrichtungen des sozialen Lebens: ein Kino, Fitness-Studios, Sportplätze, zwei Kapellen, Bars, einen Supermarkt, mehrere Fastfood-Restaurants, Computer mit Internetanschluss und Videospiele. Im angeschlossenen Laura-Bush-Bildungszentrum können Kurse der University of Maryland und der University of Chicago belegt werden.
(5) Camp Bondsteel ist für Halliburton eine Goldgrube. Von 1995 bis 2000 zahlte die US-Regierung an Kellogg, Brown & Root 2,2 Milliarden US-Dollar für logistische Unterstützung im Kosovo, was der teuerste Vertrag der US-Geschichte ist. Die Kosten für Kellogg, Brown & Root machen fast ein Sechstel der auf dem Balkan für Operationen ausgegebenen Gesamtkosten aus.
(6) US-Präsident George am 24. Juli 2001 im Camp Bondsteel, unter: http://www.whitehouse.gov/news/releases/2001/07/20010724-1.html vom 23. Juli 2008
(7) Ähnliche Ideen hatten einst Friedrich Ratzel, Karl Haushofer und Carl Schmitt für den kontinentalen Raum entworfen.
(8) Brzezinski, Zbigniew: Second Chance. Three Presidents and the Crisis of American Superpower. New York 2007
(9) Vgl. Brzezinski 2007, S. 189
(10) Schon während des Irak-Krieges nutzten in Bulgarien die US-Streitkräfte einen Flugplatz und den Hafen Burgas, in Rumänien den Flugplatz Michail Kogalniceanu und den Hafen von Konstanza. Von diesem Zeitpunkt an wurde über eine Nutzung von Hafenanlagen bzw. Flugplätzen als Logistikstützpunkte in der Nähe der Schwarzmeerküste weiter diskutiert. Vgl. Ward Sanderson: »Laying the groundwork for new positioning«, European Stars and Stripes, 22.08.2004
(11) Balmasov, Sergey: »USA Prepares to Attack Russia in 3 or 4 Years?«, in: Pravda.Ru vom 23. Oktober 2009, abzurufen unter: http://english.pravda.ru/print/world/europe/110090-usa_russia-0
(12) Künftig untergliedern sich die US-Auslandsbasen in drei Kategorien: a) Main Operating Bases (große, ständig genutzte und mit größeren Einheiten und Verbänden belegte Standorte); b) Foward Operating (ständige Standorte, die in Krise und Krieg schnell aufwachsen können) sowie c) Cooperative Security Locations (auf dem Territorium der Gastgebernationen werden Standorte mit wenig US-Personal für bestimmte Operationen zur Verfügung gestellt). Hier können sich vornedisloziierte Waffen oder logistische Einrichtungen zur Unterstützung von Operationen im Einsatzland befinden. So trainieren britische und US-Truppen beispielsweise gelegentlich auf den polnischen Übungsplätzen Drawsko Pomorskij und Wedrzyn.
(13) »Africa is rising on US foreign policy horizon«, in: Alexander’s Oil and Gas Connections, News & Trends: North America, 23/2003
(14) Neben AFRICOM (der größte Teil Afrikas) bestehen fünf weitere US-Kommandozentralen: NORTHCOM (Nordamerika), SOUTHCOM (Mittel- und Südamerika), EUCOM (Europa, Russland), CENTCOM (Naher und Mittlerer Osten einschließlich Afghanistan und der zentralasiatischen ehemaligen Sowjetrepubliken sowie Nordostafrika) und PACOM (Pazifik, einschließlich China).
(15) Stout, David: »Bush Creates New Military Command in Africa« vom 6. Februar 2007 unter: http://nykrindc.blogspot.com/2007/02/president-bush-announces-creation-of.html (aufgerufen am 14. November 2009)
(16) Zitiert aus Mitsch, Thomas: »AFRICOM: Stuttgart wichtigste US-Basis im Wettlauf um Afrikas Öl«, in: AUSDRUCK – Das IMI-Magazin (April 2007).
(17) Mit dem nur fünf Tage vor dem Jugoslawienkrieg verabschiedeten sogenannten »Seidenstraßen-Strategiegesetz« (»Silk Road Strategy Act«) definierten die USA ihre umfassenden wirtschaftlichen und strategischen Interessen in einem militärisch abgesicherten breiten Korridor, der sich vom Mittelmeer bis nach Zentralasien erstreckt.
(18) »IDF and EUCOM Complete Joint Training Exercise For 20 days the two forces trained their cooperation in various defense exercises throughout Israel«, in: Jewish News Today vom 11. November 2009 unter http://www.jewishnews2day.com/jnt/cont.asp?code=8858&cat=uplinks
(19) Weiter aufgezählt sind 8.920 Zivilisten und 33.468 andere Personen (?)
(20) Schäfer, Paul: »Die US-Streitkräfte in Deutschland«, in Freitag, Nr. 15, vom 11. April 2008
(21) Diesem Denken entspringt der Plan, die Gaspipeline Nabucco südlich an Russland vorbeizuführen.
(22) Seidenstraßen-Strategiegesetz: »Silk Road Strategy Act of 1999« (H.R. 1152 – 106th Congress) Offizieller Titel: »Ta arnend the Foreign Assistance Act of 1961 to target assistance to support the econornic and political independence ofthe countries ofthe South Caucasus and Central Asia«. Im Mai 2006 modifiziert: »Silk Road Strategy Act of 2006 (S. 2749 – 109th Congress)«. Offizieller Titel: »A bill to update the Silk Road Strategy Act of 1999 to modify targeting of assistance in order to support the economic and political independence ofthe countries of Central Asia and the South Caucasus in recognition of political and economic changes in these regions since enactment of the original legislation.«
Mittwoch, 18.11.2009
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vendredi, 20 novembre 2009
Les Etats-Unis: la "puissance intelligente" au service de la guerre
Les États-Unis : la «puissance intelligente » au service de la guerre
Les derniers événements entourant le déroulement des guerres d’invasion en Asie centrale nous permettent de saisir quelques-uns des éléments de la stratégie des États-Unis et les différentes manœuvres diplomatiques et médiatiques visant à faire basculer l’opinion des Étatsuniens en faveur d’une poursuite de leurs opérations guerrières dans cette région.
La « réintronisation » orchestrée de Hamid Karzaï et l’envoi de renforts de troupes
La « réintronisation » de Hamid Karzaï à la tête du gouvernement fantoche de Kaboul a été orchestrée pour que le climat politique qui a prévalu depuis 2001 se maintienne avec la présence d’un allié acquis aux intérêts des conquérants. Les mots sont difficiles à trouver pour qualifier le caractère légitime de la «victoire» de H. Karzaï. On s’évertue à essayer de rendre maintenant son élection valide alors que la plupart des intervenants, depuis le 20 août dernier, ont discrédité le processus électoral et mis en doute ses résultats.
En même temps, l’administration Obama et les stratèges du Pentagone ont fait semblant de tergiverser concernant l’envoi ou non de renforts alors que cette manœuvre avait vraisemblablement un double objectif. Le premier celui de jauger le potentiel de troupes additionnelles pouvant être offert par les membres de la coalition et le second, celui de disposer du temps nécessaire pour mesurer le degré de résistance des insurgés et des Talibans au Pakistan. Ainsi, elle a ordonné à l’armée nationale pakistanaise de livrer une guerre sans merci contre les Talibans et les insurgés dans le territoire du Sud-Waziristan. Ce faisant, les États-Unis pourraient peu à peu faire valoir que les efforts de guerre du Pakistan devraient être confortés par des forces militaires additionnelles en Afghanistan afin de faire face à la résistance pouvant éventuellement trouver refuge dans ce territoire. L’administration Obama serait ainsi en mesure de justifier les renforts qu’elle se propose de déployer.
Il est primordial pour cette administration qu’elle donne suite aux pressions exercées par la droite américaine qui réclame une intensification de l’effort de guerre en Afghanistan tout en emmenant l’opinion publique à accepter la décision d’ajouter un contingent important de soldats (on a mentionné des chiffres allant de 40 000 à 60 000). Peu à peu les guerres de l’Afghanistan et du Pakistan pourraient se fondre en un seul et même conflit et il serait alors plus facile de démontrer qu’il est crucial d’augmenter globalement les forces militaires dans cet ensemble, étant donné les menaces grandissantes posées par la résistance tant en Afghanistan qu’au Pakistan. Les États-Unis feront valoir qu’après huit années de guerre un «petit» effort supplémentaire serait nécessaire afin de ne pas revivre un autre Viêtnam.
Obama, une diplomatie de ralliement pour la conquête du monde par la guerre ?
Depuis leur arrivée à la Maison-Blanche le président Obama et sa secrétaire d’État, Hillary Clinton, ont parcouru le monde pour faire entendre le message renouvelé de l’Empire américain. Une rhétorique nouvelle faisant la promotion du modèle bien connu de domination et d’intervention sur tous les continents, modèle basé sur le plan du commandement unifié des États-Unis (voir l’image illustrant l’article NDLR). Ce plan de commandement «a été mis à jour par le Département de la Défense et s’avère un document stratégique clé qui définit les missions, les responsabilités et les aires géographiques de responsabilité pour les commandants en charge des commandements de combattants» étatsuniens et alliés à travers le monde. La totalité de la surface terrestre est encore, dans les faits, le champ de bataille des Étatsuniens et, sous la nouvelle administration, aucune modification substantielle n’a été apportée à ce plan en vue d’en réduire la portée sur l’ensemble des pays du monde.
Les itinéraires suivis par les responsables de la diplomatie étatsusienne leur ont permis de vérifier sur le terrain le taux de solidité de leurs alliances et le degré de fidélité de leurs partenaires et alliés traditionnels et aussi d’identifier et circonscrire les éléments discordants et hostiles. Ainsi, il leur est permis ensuite d’ajuster les orientations de même que l’intensité des opérations qui s’imposent.
La secrétaire d’État s’est même permis de se faire la protectrice des droits humains lors de son séjour à Moscou : «Toutes ces questions - emprisonnements, détentions, coups, meurtres - sont douloureuses à regarder de l'extérieur", a déclaré Mme Clinton, au deuxième jour de sa visite en Russie, sur la radio Echo de Moscou ». Il est difficile de croire que de tels propos puissent être tenus par la responsable de la diplomatie américaine quand on se rappelle les menaces d’oblitération totale qu’elle a proférées contre l’Iran au cours de la campagne présidentielle . Il importe aussi de rappeler que son pays détenait en 2005 la population carcérale la plus élevée au monde avec 2 186 230 prisonniers (25% du total mondial) et que le taux de détention par 100 000 habitants était également le plus élevé avec 737.6 résidents. De plus, «la Peine de mort aux États-Unis est appliquée au niveau fédéral et dans trente-cinq États fédérés sur cinquante que comptent les États-Unis. Aujourd'hui les États-Unis font partie du cercle restreint des démocraties libérales qui appliquent la peine de mort» (Wikipedia). Il est à espérer que la secrétaire d’État trouve aussi douloureuse cette situation qui prévaut dans son pays.
Mes intentions profondes sont les mêmes
Enfin, il convient d’ajouter que les guerres de l’Asie centrale se poursuivent dans la plus grande impunité et que la torture continue d’être pratiquée dans les prisons «secrètes». S’il s’agit là des manifestations des nouveaux concepts proposés en janvier dernier de la «puissance intelligente» et de la «responsabilité» il y a lieu de s’interroger, car il nous semble plutôt que les propos de la diplomatie étatusienne viennent tout simplement voiler le visage de l’impérialisme. Je suis un acteur qui pense maintenant autrement, mais mes intentions profondes sont les mêmes. En réalité, le concept de la «guerre permanente» reste le guide suprême de mon approche diplomatique qui se veut à géométrie variable en fonction des intérêts qu’il me faut sauvegarder. (Les deux pilliers de la nouvelle diplomatie américaine).
Conclusion
Pour la diplomatie étatsunienne il importe de conserver l’appui des plus puissants malgré certains irritants majeurs, car elle pourrait avoir besoin d’eux quand se produira l’effondrement annoncé de l’économie et l’implosion sociale qui en sera la résultante inéluctable. Faire la guerre pourrait devenir trop lourd pour la société et des mandataires capables de le faire seront alors invités à «donner» davantage pour permettre à l’Empire de survivre encore un certain temps. Cette consigne est sans doute celle qui a été transmise aux pays alliés. Ceux-ci, cependant, bien malgré eux, pourraient être entraînés éventuellement avec lui dans sa chute.
Jules Dufour
Mondialisation.ca,
04/11/ 2009
http://www.mondialisation.ca/index.php?context=va&aid=15926
Références
AFP. 2009. Hillary Clinton avocate des droits de l'Homme à Moscou. RTBF Info. Le 14 octobre 2009. En ligne :
http://www.rtbf.be/info/economie/hillary-clinton-avocate-des-droits-de-lhomme-a-moscou-150876
AFP. 2009. L'OTAN adopte une nouvelle stratégie en Afghanistan. Cyberpresse. Le 23 octobre 2009. En ligne :
http://www.cyberpresse.ca/international/moyen-orient/200910/23/01-914285-lotan-adopte-une-nouvelle-strategie-en-afghanistan.php
BEAUCHEMIN, Malorie. 2009. Obama lance un ultimatum à l'Iran. La Presse. Le 25 septembre 2009. En ligne :
http://www.cyberpresse.ca/international/etats-unis/200909/25/01-905686-obama-lance-un-ultimatum-a-liran.php
COURMONT, Barthélémy et contre-feux.com. 2009. Les deux piliers de la nouvelle diplomatie américaine. ilovepolitics. Le 19 mars 2009. En ligne :
http://www.ilovepolitics.info/Les-deux-piliers-de-la-nouvelle-diplomatie-americaine_a1371.html
DUFOUR, Jules. 2007. Le réseau mondial des bases militaires américaines. Les fondements de la terreur des peuples ou les maillons d'un filet qui emprisonne l'humanité. Centre de recherche sur la mondialisation (CRM). Le 10 avril 2007.
En ligne:
http://www.mondialisation.ca/index.php?context=viewArticle&code=DUF20070409&articleId=5314
DUFOUR, Jules. 2009. Le grand réarmement planétaire. Montréal, Centre de recherche sur la mondialisation (CRM). Le 5 mai 2009. En ligne:
http://www.mondialisation.ca/index.php?context=va&aid=13162
DUFOUR, Jules. 2009. Pakistan: un territoire stratégique pour les guerres de l’Occident en Asie Centrale. Montréal, Centre de recherche sur la mondialisation (CRM). Le 10 août 2009. En ligne:
http://www.mondialisation.ca/index.php?context=va&aid=14719
DUFOUR, Jules. 2009. Afghanistan: des élections pour l'imposition de la «démocratie»? Montréal, Centre de recherche sur la mondialisation (CRM). Le 21 août 2009. En ligne:
http://www.mondialisation.ca/index.php?context=va&aid=14871
KAY, Joe. 2008. Hillary Clinton menace d’ ‘effacer' l'Iran de la carte! Alter Info. Le 24 avril 2008. En ligne :
http://www.alterinfo.net/Hillary-Clinton-menace-d-effacer-l-Iran-de-la-carte!_a19103.html
Nombre de prisonniers dans le monde, par pays. PopulationData.net:
http://www.populationdata.net/chiffres/monde-prisonniers-2006.php
Peine de mort aux Etats-Unis :
http://fr.wikipedia.org/wiki/Peine_de_mort_aux_%C3%89tats-Unis
Jules Dufour, Ph.D., est président de l'Association canadienne pour les Nations Unies (ACNU) /Section Saguenay-Lac-Saint-Jean, professeur émérite à l'Université du Québec à Chicoutimi, membre du cercle universel des Ambassadeurs de la Paix, membre chevalier de l'Ordre national du Québec.
Correspondance Polémia
08/11/2009
Image : Le Plan du commandement unifié des États-Unis
Jules Dufour
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jeudi, 19 novembre 2009
La geopolitica nascosta dietro la guerra bidone degli Stati Uniti in Afghanistan
La geopolitica nascosta dietro la guerra bidone degli Stati Uniti in Afghanistan
di F.William Engdahl
da mondialisation.ca / http://www.italiasociale.org/
Traduzione a cura di Stella Bianchi - italiasociale.org
Uno degli aspetti più rilevanti e diffusi del programma presidenziale di Obama negli Stati Uniti è che poche persone nei media o altrove mettono in discussione la ragione dell’impegno del Pentagono nell’occupazione dell’Afghanistan.
Esistono due ragioni fondamentali e nessuna delle due può essere apertamente svelata al grande pubblico.
Dietro ogni ingannevole dibattito ufficiale sul numero delle truppe necessarie per “vincere” la guerra in Afghanistan, se 30.000 soldati siano più che sufficienti o se ce ne vorrebbero almeno 200.000, viene celato lo scopo reale della presenza militare statunitense nel paese perno dell’Asia centrale
Durante la sua campagna presidenziale del 2008, il candidato Obama ha anche affermato che era l’Afghanistan, e non l’Irak, il luogo in cui gli Stati Uniti dovevano fare la guerra.
Qual’era la ragione?Secondo lui era l’organizzazione Al Qaeda da eliminare ed era quella la vera minaccia per la sicurezza nazionale.Le ragioni del coinvolgimento statunitense in Afghanistan comunque sono completamente differenti.
L’esercito Usa occupa l’Afghanistan per due ragioni: prima di tutto lo fa per ristabilire il controllo della più grande fornitura mondiale di oppio nei mercati internazionali dell’eroina e in secondo luogo lo fa per utilizzare la droga come arma contro i suoi avversari sul piano geopolitico, in particolare contro la Russia.
Il controllo del mercato della droga afghana è fondamentale per la liquidità della mafia finanziaria insolvente e depravata di Wall Street.
La geopolitica dell’oppio afghano.
Secondo un rapporto ufficiale dell’Onu, la produzione dell’oppio afghano è aumentata in maniera spettacolare dalla caduta del regime talebano nel 2001.
I dati dell’Ufficio delle droghe e dei crimini presso le Nazioni Unite dimostrano che c’è stato un aumento di coltivazioni di papavero durante ognuna delle ultime quattro stagioni di crescita(2004-2007) rispetto ad un intero anno passato sotto il regime talebano.
Attualmente molti più terreni sono adibiti alla coltura dell’oppio in Afghanistan rispetto a quelli dedicati alla coltura della coca in America Latina.
Nel 2007 il 93% degli oppiacei del mercato mondiale provenivano dall’Afghanistan.E questo dato non è casuale.
E’ stato dimostrato che Washington ha accuratamente scelto il controverso Hamid Garzai che era un comandante guerriero pashtun della tribù Popalzai il quale è stato per molto tempo al servizio della Cia e che, una volta rientrato dal suo esilio dagli Stati Uniti è stato costruito come una mitologia holliwoodiana, autore della sua”coraggiosa autorità sul suo popolo”.
Secondo fonti afghane,Hamid Garzai è attualmente il “padrino” dell’oppio afghano.
Non è affatto un caso che è stato ed è ancora a tutt’oggi l’uomo preferito da Washington per restare a Kabul.
Tuttavia , anche con l’acquisto massiccio dei voti,la frode e l’intimidazione, i giorni di Garzai come presidente potrebbero finire.
A lungo , dopo che il mondo ha dimenticato chi fosse il misterioso Osama Bin Laden e ciò che Al Quaeda, rappresentasse-ci si chiede ancora se questi esistano veramente- e il secondo motivo dello stanziamento dell’esercito Usa in Afghanistan appare come un pretesto per creare una forza d’urto militare statunitense permanente con una serie di basi aeree fissate in Afghanistan.
L’obiettivo di queste basi non è quello di far sparire le cellule di Al Qaeda che potrebbero esser sopravvissute nelle grotte di Tora Bora o di estirpare un “talebano”mitico, che, secondo relazioni di testimoni oculari è attualmente composto per la maggior parte da normali abitanti afgHani in lotta ancora una volta per liberare le loro terre dagli eserciti occupanti, come hanno già fatto negli anni
80 contro i Sovietici.
Per gli Stati Uniti, il motivo di avere delle basi afghane è quello di tener sotto tiro e di essere capaci di colpire le due nazioni al mondo che messe insieme, costituiscono ancora oggi l’unica minaccia al loro potere supremo internazionale e all’America’s Full Spectrum Dominance (Dominio Usa sotto tutti i punti di vista) così come lo definisce il Pentagono.
La perdita del “Mandato Celeste”.
Il problema per le élites al potere (Élite è un eufemismo sempre più usato per designare individui privi di scupoli pronti a qualsiasi cosa pur di realizzare le proprie ambizioni..quasi un sinonimo di psicopatologia) a Wall Street e a Washington,è il fatto che questi siano sempre più impantanati nella più profonda crisi finanziaria della loro storia.
Questa crisi è fuor di dubbio per tutti e il mondo agisce a favore della propria sopravvivenza.
L’élite statunitense ha perso ciò che nella storia imperiale cinese è conosciuto come Mandato Celeste.
Questo mandato è conferito ad un sovrano o ad una ristretta cerchia regnante a condizione che questa diriga il suo popolo con giustizia ed equità.
Quando però questa cerchia regna esercitando la tirannia e il dispotismo, opprimendo il proprio popolo abusandone,a questo punto essa perde il Mandato Celeste.
Se le potenti élites, ricche del privato che hanno controllato le politiche fondamentali (finanziaria e straniera) almeno per la maggior parte del secolo scorso ,hanno ricevuto il mandato celeste, è evidente che allo stato attuale lo hanno perso.
L’evoluzione interna verso la creazione di uno stato poliziesco ingiusto, con cittadini privati dei loro diritti costituzionali, l’esercizio arbitrario del potere da parte di cittadini non eletti, come il ministro delle Finanze Henry Paulson e attualmente Tim Geithner , che rubano milioni di dollari del contribuente senza il suo consenso per far regredire la bancarotta delle più grandi banche di Wall Street, banche ritenute”troppo grosse per colare a picco” tutto ciò dimostra al mondo che esse hanno perduto il mandato.
In questa situazione, le élite al potere sono sempre più disperate nel mantenere il proprio controllo sotto un impero mondiale parassitario, falsamente denominato”mondializzazione” dalla loro macchina mediatica.
Per mantenere la loro influenza è essenziale che gli Stati Uniti siano capaci di interrompere ogni collaborazione nascente nel settore economico , energetico o militare tra le due grandi potenze dell’Eurasia le quali, teoricamente potrebbero rappresentare una futura minaccia nel controllo dell’unica super potenza :la Cina associata alla Russia.
Ogni potenza eurasiatica completa il quadro dei contributi essenziali.
La Cina è l’economia più solida al mondo, costituita da una immensa manodopera giovane e dinamica e da una classe media ben educata.
La Russia, la cui economia non si è ripresa dalla fine distruttrice dell’era sovietica e dagli ingenti saccheggi avvenuti nell’era di Eltsin, possiede sempre i vantaggi essenziali per l’associazione.
La forza d’urto nucleare della Russia e il suo esercito rappresentano l’unica minaccia nel mondo attuale per il dominio militare degli Stati Uniti anche se sono in gran parte dei residui della Guerra Fredda.Le élite dell’esercito russo non hanno mai rinunciato a questo potenziale.
La Russia possiede anche il più grande tesoro al mondo che è il gas naturale e le sue immense riserve di petrolio di cui la Cina ha imperiosamente bisogno.
Queste due potenze convergono sempre più tramite una nuova organizzazione creata da loro nel 2001, conosciuta sotto il nome di Organizzazione di Cooperazione di Shanghai (Ocs).
Oltre alla Cina e alla Russia ,l’Ocs comprende anche i più grandi paesi dell’Asia Centrale, il Kazakistan, il Kirghizistan,il Tagikistan e l’Uzbekistan.
Il motivo addotto dagli Stati Uniti nella guerra contro i Talebani e allo stesso tempo contro Al Qaeda consiste in realtà nell’insediare la loro forza d’urto militare direttamente nell’Asia Centrale,in mezzo allo spazio geografico della crescente Ocs.
L’Iran rappresenta una diversione,una distrazione.Il bersaglio principale sono la Russia e la Cina.
Ufficialmente Washington afferma con certezza di aver stabilito la sua presenza militare in Afghanistan dal 2002 per proteggere la”fragile”democrazia afghana.
Questo è un bizzarro argomento, quando si và a considerare la sua presenza militare laggiù.
Nel dicembre 2004, durante una visita a Kabul, il ministro della Guerra Donald Rumsfeld ha finalizzato i suoi progetti di costruzione di nove nuove basi in Afghanistan, nelle province di Helmand,Herat,Nimrouz,Balkh,Khost e Paktia.
Le nove si aggiungeranno alle tre principali basi militari già installate in seguito all’occupazione dell’Afghanistan durante l’inverno 2001-2002 pretestualmente per isolare e delimitare la minaccia terroristica di Osama Bin Laden.
Il Pentagono ha costruito le sue tre prime basi su gli aerodromi di Bagram, a nord di Kabul, il suo principale centro logistico militare; a Kandar nel sud dell’Afghanistan; e a Shindand nella provincia occidentale di Herat.
Shindand è la sua più grande base afghana ed è costruita a soli 100 kilometri dalla frontiera iraniana a portata di tiro dalla Russia e dalla Cina.
L’Afghanistan è storicamente in seno al grande gioco anglo-russo, e rappresenta la lotta per il controllo dell’Asia Centrale a cavallo tra il diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo.
A quel tempo la strategia britannica era quella di impedire ad ogni costo alla Russia di controllare l’Afghanistan,perché ciò avrebbe costituito una minaccia per la perla della corona imperiale britannica, l’India.
L’Afghanistan è considerato come altamente strategico dai pianificatori del Pentagono.
Esso costituisce una piattaforma da cui la potenza militare statunitense potrebbe minacciare direttamente la Russia e la Cina così come l’Iran e gli altri ricchi paesi petroliferi del Medio Oriente.
Poche cose sono cambiate sul piano geopolitico in oltre un secolo di guerre.
L’Afghanistan è situato in una posizione estremamente vitale, tra l’Asia del Sud , l’Asia Centrale ed il Medio Oriente.
L’Afghanistan è anche ubicato lungo l’itinerario esaminato per l’oleodotto che và dalle zone petrolifere del mar Caspio fino all’Oceano Indiano luogo in cui la società petrolifera statunitense Unocal,insieme ad Eron e Halliburton de Cheney avevano avuto trattative per i diritti esclusivi del gasdotto che invia gas naturale dal Turkmenistan attraverso l’Afghanistan e il Pakistan, per convogliarlo nell’immensa centrale elettrica( a gas naturale) della Enron a Dabhol, vicino a Mumbai(Bombay).
Prima di diventare il presidente fantoccio mandato degli Stati Uniti,Garzai era stato un lobbista della Unocal.
Al Qaeda esiste solo come minaccia.
La verità attinente tutto questo imbroglio che gira intorno al vero scopo che ha spinto gli Stati Uniti in Afghanistran ,diventa evidente se si esamina da vicino la pretesa minaccia di “Al Qaeda” laggiù.
Secondo l’autore Eric Margolis, prima degli attentati dell’ 11 settembre 2001 i Servizi Segreti statunitensi accordavano assistenza e sostegno sia ai talebani che ad Al Qaeda.
Margolis afferma che la”Cia progettava di utilizzare Al Qaeda di Osama Bib Laden per incitare alla rivolta gli Ouigours mussulmani (popolo turco dell’Asia Centrale ndt) contro la dominazione cinese di Pekino nel luglio scorso e di sollevare i talebani contro gli alleati della Russia in Asia Centrale”.
Gli Stati Uniti hanno manifestamente trovato altri mezzi per sobillare gli Ouigours usando come intermediario il proprio sostegno al Congresso mondiale Ouigour.
Ma la “minaccia” di Al Qaeda rimane il punto chiave di Obama per giustificare l’intensificazione della sua guerra in Afghanistan.
Ma per il momento ,James Jones, consigliere per la sicurezza nazionale del Presidente Obama, ex generale della Marina, ha rilasciato una dichiarazione opportunamente insabbiata dagli amabili media statunitensi , sulla valutazione dell’importanza del pericolo rappresentato attualmente da Al Qaeda in Afghanistan.
Jones ha dichiarato al Congresso che”La presenza di Al Qaeda si è molto ridotta.La valutazione massimale è inferiore a 100 addetti nel paese, nessuna base, nessuna capacità nel lanciare attacchi contro di noi o contro gli alleati”.
Ad ogni buon conto, tutto ciò significa che Al Qaeda non esiste in Afghanistan…accidenti…
Anche nel Pakistan vicino, i resti di Al Qaeda non sono stati quasi più riscontrati.
Il Wall Street Journal segnala :”Cacciati dai droni statunitensi, angosciati da problemi di denaro e in preda a gravi difficoltà nel reclutare giovani arabi tra le cupe montagne del Pakistan,Al Qaeda vede rimpicciolire di molto il suo ruolo laggiù in Afghanistan, “ questo secondo informazioni dei Servizi Segreti e dei responsabili pakistani e statunitensi.
Per i giovani arabi che sono i principali reclutati da Al Qaeda, “ non esiste un’utopica esaltazione nell’ aver freddo e fame e nel nascondersi” –ha dichiarato un alto responsabile statunitense nell’Asia del Sud.”.
Se capiamo le conseguenze logiche di questa dichiarazione, dobbiamo dunque concludere che il fatto per cui giovani soldati tedeschi e altri della Nato muoiono nelle montagne afghane, non ha nulla a che vedere con lo scopo di “vincere una guerra contro il terrorismo”.
Opportunamente, la maggior parte dei media scieglie di dimenticare il fatto che Al Qaeda, nella misura in cui questa organizzazione è esistita, era una creazione della Cia negli anni 80.
Questa reclutava e addestrava alla guerra mussulmani radicali pescati dalla totalità del mondo islamico contro le truppe russe in Afghanistan. nel quadro di una strategia elaborata da Bill Casey, capo della Cia sotto Reagan , per creare un “nuovo Viet-nam” per l’’Unione Sovietica che sarebbe poi sfociato nell’umiliante disfatta dell’Armata Rossa e nel fallimento finale dell’Unione Sovietica.
James Jones, gestore del National Security Council riconosce attualmente che non esiste praticamente più nessun membro di Al Qaeda in Afghanistan.
Forse sarebbe ora e tempo di chiedere una spiegazione più onesta ai nostri dirigenti politici sulla vera ragione dell’invio di altri giovani in Afghanistan,solo per mandarli a morire per proteggere le coltivazioni di oppio.
F.William Endhal è l’autore di diverse opere come:
Ogm:Semi di distruzione:l’arma della fame ; e Petrolio, la guerra di un secolo:l’Ordine mondiale anglo-americano
Per contattare l’autore: www.engdhal.oilgeopolitics.net
07/11/2009
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mercredi, 11 novembre 2009
Nueva 'Guerra Fria' por petroleo del Artico
Nueva ‘Guerra Fría’ por petróleo del Ártico
El experto norteamericano Roger Howard, autor de ‘Fiebre del oro en el Ártico’ y ‘Cazadores de petróleo’, pronostica una nueva ‘Guerra Fría’ entre EEUU y Rusia por recursos no explorados del Ártico, cuya extracción hacen posible el calentamiento global y nuevas tecnologías.
“Los hielos se derriten, lo que pemite desarrollar yacimientos de hidrocarburos en zonas árticas que, según expertos, encierran hasta el 13% de recursos mundiales no prospectados de petróleo y hasta el 30% de gas natural”, dijo Howard en una entrevista a RIA Novosti.
Según el experto, el “quinteto ártico” (EEUU, Rusia, Noruega, Canadá y Dinamarca) ya trata de legitimar sus derechos a la plataforma continental lo que intensificará la lucha política, ante todo, entre Rusia y EEUU.
“La explotación del Ártico dejó de ser un proyecto de un futuro lejano. Según algunos expertos, los hielos del Océano Glacial Ártico se derretirán por completo para 2030. Washington y Moscú no desaprovecharán esta ocasión”, indicó Howard.
El experto afirma que, debido al cambio climático, la frontera norte de Rusia será más vulnerable y se expondrán a una amenaza militar las bases de la Armada rusa y yacimientos importantes en la costa norte del país.
A su vez, EEUU también tendría que considerar las amenazas militares frente a la costa de Alaska, a los yacimientos petroleros en la bahía Prudhoe y a las estaciones de radar que vigilan rutas marítimas transatlánticas.
“No creo que será inevitable la confrontación entre EEUU y Rusia, pero la situación política en la región se agravará”, constató Horward y agregó que fracasarán los intentos del “quinteto ártico” de repartirse las zonas de influencia con ayuda de la Organización de las Naciones Unidas (ONU),
Según el experto, la mejor vía para la regulación política del problema son las negociaciones bilaterales.
“Para evitar la confrontación vale la pena recordar el caso de China y Japón que en 2008 acordaron a dividir en partes iguales todo lo proveniente de los yacimientos que se descubrirán en el Mar de China Oriental”, concluyó Howard.
Extraído de RIA Novosti.
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dimanche, 01 novembre 2009
Der Deutsch-Französische Krieg 1870/71
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samedi, 10 octobre 2009
Francia y Espana al rescate del imperialismo yanqui
Francia y España al rescate del imperialismo yanqui
Volverán a la base aérea en Kirguistán
Kirguistán dio pasos el lunes para permitir que soldados franceses y españoles vuelvan a su base área de Manas, un puesto de paso para las operaciones militares encabezadas por Estados Unidos en Afganistán.
Kirguistán canceló los acuerdos con Francia y España en marzo, cuando rechazó un pacto similar con Estados Unidos para el uso de la base. El personal de Francia y España tenía que salir del país para el 13 de octubre.
“Se ha decidido aprobar los acuerdos (con Francia y España) y enviarlos al Ministerio de Exteriores”, dijo Erik Arsaliyev, responsable del comité parlamentario para asuntos internacionales, a los periodistas.
La base, que sirve como punto de repostaje para aviones usados en Afganistán, es importante para Washington y sus aliados de la OTAN porque sustituye a rutas que atraviesan Pakistán y que han sido atacadas por los integristas.
El viceministro de Exteriores, Ruslan Kazakbayev, dijo que el Parlamento revisaría los acuerdos tras la aprobación gubernamental.
El Parlamento está dominado por los leales al presidente Kurmanbek Bakiyev, lo que deja poca duda de que los acuerdos se aprobarán.
Bakiyev anunció la cancelación del acuerdo con el Ejército de EEUU en una visita a Moscú, donde Rusia dijo que ofrecería 2.000 millones de dólares en ayuda para el empobrecido país, en lo que los analistas consideraron una batalla entre Moscú y Washington para ganar influencia en el Asia Central.
Washington renegoció después una renta mayor y continuará usando la base para sus operaciones en Afganistán.
Según los borradores a los que tuvo acceso Reuters, Francia podrá tener 40 efectivos y un avión de repostaje en Manas. El acuerdo no da detalles sobre el número de personas o equipamiento que se permitirán a España.
Extraído de SwissInfo.
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mardi, 06 octobre 2009
Les cinq guerres d'Ernst Jünger
Les cinq guerres d'Ernst Jünger
Jean-Jacques LANGENDORF
“Qui de plus beau, et de plus nécessaire, qu'une armée qui avance?”
En évoquant un fait essentiel de la première guerre mondiale, une page de Feuer und Blut (publié en 1925) d'Ernst Jünger semble sceller, on serait tenter de dire d'une manière accablante, un vieux débat d'idées militaire: «Je me souviens encore très bien du visage subitement émacié et pâli du Lieutenant Vogel, lorsqu'en septembre 1916, près de la Ferme du Gouvernement, nous sommes descendus des camions automobiles et que nous avons vu la rouge incandescence, pareille à un océan qui serait en flammes, et dont la lueur montait dans le ciel nocturne, jusqu'aux étoiles. Le fracas, que nous avions perçu depuis longtemps, très loin derrière les lignes, comme s'il s'agissait du fonctionnement d'une immense machine, croissait démesurément, devenait semblable au hurlement d'un fauve carnassier et qui était prêt, en apparence, à dévorer l'espace d'une province tout entière. C'est comme si l'haleine brûlante de la mort mécanique passait au-dessus de nous et Vogel me hurla, en bégayant, dans l'oreille, sa voix résonnait comme celle d'un enfant désorienté: “Devons aller là-dedans? Nous n'en reviendrons jamais!”» (I, 463-464).
La toute-puissance du feu
Ces lignes, qui décrivent la toute-puissance du feu, son triomphe absolu, son apothéose d'acier, mettent fin en apparence à une vieille querelle qui s'ouvre dès le premier tiers du XVIIIième siècle et qui oppose les contempteurs et les adorateurs du feu. Les premiers, de Folard à Mesnil-Durand, s'en vont répétant que le feu ne tue pas et que le fusil et le canon, celui-là surtout, sont armes anodines. Par conséquent, une armée qui parviendrait à accroître sa rapidité en adoptant un ordre convenable —en l'occurence la colonne— devrait aisément se soustraire aux effets du feu. Pour les seconds —Guibert, Mauvillon, un peu plus tard Berenhorst— le feu, mais à leurs yeux essentiellement le feu de l'infanterie, est bel et bien mortel. Il faudra un Duteil pour lui adjoindre le feu de l'artillerie.
L'histoire militaire atteste de l'efficacité toujours croissante du feu, obtenue par des moyens techniques de plus en plus perfectionnés. Mais, curieusement, alors que sa réalité dévastatrice dicte sa loi sur le terrain, les tacticiens, dès que les hostilités cessent, ont tendance à en minimiser systématiquement les effets. Cette amnésie partielle s'explique facilement: dans la mesure où l'on postule la manœuvre classique, c'est-à-dire rapide et décisive, on est bien obligé de gommer par l'imagination la portée de ce feu, qui est le facteur essentiel du ralentissement, voire de l'enlissement de cette manœuvre. A Wagram, en 1809, le feu est jugé presque intolérable, et carrément insupportable à Borodino en 1812. Mais, la paix revenue, on recommence à le sous-estimer et à chaque fois, à chaque nouvelle guerre, il réapparaît avec une force nouvelle, à Sébastopol, à Solférino, à Sadowa où le Général prussien von Fransecky, qui défend la lisière de la forêt de Benateke, relève qui se trouve “dans un enfer”. Le commentateur semi-officiel français de la guerre de 1870/71 décrit, à propos de la bataille de Saint-Privat et de l'attaque du village de Roncourt, le feu de l'artillerie comme “véritablement infernal”. Au matin du 18 août, le Général von Alvensleben, qui commande le 3ième Corps d'Armée, explique au Général von Pape, qui commande la 1ière Division de la Garde à Pied, que les Prussiens, qui ont sous-estimé le feu du Chassepot et des mitrailleuses (une nouvelle et redoutable source de feu), vont être dorénavant contraints de se couvrir en utilisant les ressources du terrain et de l'artillerie systématiquement. A Plewna, au Transvaal, en Mandchourie, dans les Balkans et même en Tripolitaine, on s'enterre de plus en plus. En même temps, un élément nouveau, grand paralysateur de mouvement, fait son apparition, le fil de fer barbelé. «Devant la tranchée, s'étend, sur la longueur, souvent en plusieurs lignes, la barrière de barbelés, un tissu dense et sinueux de fils de fer à picots, qui doit arrêter l'attaquant, de façon à ce qu'il puisse tranquillement être pris sous le feu depuis les postes de tir» (Orages d'acier, I, 48).
Théories sur le feu en 1914
A la veille de 1914, tous les éléments matériels permettant d'assumer la suprématie du feu —fusils à tir relativement rapide, mitrailleuses, artillerie à longue portée utilisant des poudres sans fumée— et bloquer le mouvement offensif, sont à la disposition du commandement. Mais en dépit de cet arsenal —et des exemples historiques récents que l'on s'obstine toutefois à considérer comme marginaux ou exotiques— les deux grands belligérants potentiels demeurent fidèles à l'idéal de manœuvre rapide et décisive. En Allemagne, le Général von Bernhardi met au compte de l'incapacité des Boers et des Japonais l'utilisation de la tranchée et souligne que dans la guerre européenne de l'avenir, le mouvement l'emportera sur la pelle, la fortification de campagne n'étant utilisée qu'exceptionnellement. En France, on ne pense pas autrement. Ceux qui pressentent les effets dévastateurs du feu, et qui souvent sont ceux qui n'ont pas oublié les leçons de 1870/71, se comptent sur les doigts des deux mains, et souvent c'est chez les neutres qu'il faut aller les chercher. Dès 1902, le Colonel suisse Feyler donne une description véritablement prophétique de ce que sera la bataille défensive de l'avenir et de la guerre dans laquelle elle s'inscrira; il est rejoint dans ses conclusions par un Belge, le Général-Baron de Heusch. Au niveau stratégique, un militaire français démissionnaire, Emile Meyer, et un chevalier d'industrie russe, Jean de Bloch, annoncent un conflit de type nouveau, dans lequel le feu et la durée, et sur ce dernier point un Kitchener a également développé une pensée particulièrement précise, occuperont une place centrale. Mais parfois même ceux qui croient avec le plus de conviction aux possibilités de la manœuvre napoléonienne sont, à l'instar des Maud'huy ou Lanzerac, saisis par le doute. En tout état de cause, depuis l'expérience mandchoue, le choc ne leur apparaît plus comme la panacée universelle. Même un Colonel de Grandmaison, le théoricien de l'«élan vital», appliqué à l'offensive à outrance, l'adepte du “bergsonisme en acte”, parvient, lorsqu'il émerge de son rêve, à postuler, pour couvrir l'avance de l'infanterie en terrain découvert, un feu intense d'artillerie, “ce bouclier de l'infanterie” (comme il dit) qui lui fraye le chemin. Ce ne sont toutefois que des exceptions et même en Allemagne, où la doctrine d'engagement est infiniment plus positive et dégagée de trop criants errements, on continue à se bercer d'illusions en ce qui concerne la manœuvre et la neutralisation du feu adverse. Pour s'en convaincre, il suffit de consulter par exemple les croquis des pages 194 à 196 de la seconde édition de Der Infanterie-Leutnant im Felde (Berlin, 1912) de Nicolai et Hein pour voir quels moyens de protection, jugés alors totalement idoines, allaient, deux ans plus tard, apparaître comme parfaitement dérisoires. «Le capital d'expériences de guerre que l'Allemagne avait à sa disposition avant la guerre mondiale, lui venait essentiellement de la guerre franco-allemande. L'esprit de cette tradition victorieuse conduisait à une grande confiance, du reste justifiée, en la force de frappe, qui s'exprimait dans diverses conceptions telles le combat ouverte entre tirailleurs, la mobilité de l'artillerie, la puissance de la cavalerie et dans l'idéal stratégique d'une bataille globale d'anéantissement» (Feuer und Bewegung, V, 112-113).
Paroxysme de l’artillerie
La réalité du feu atteindra, en 1914-1918, un paroxysme que nulle hypothèse d'école, même dans ses moments les plus délirants, n'avait pu prévoir. Un seul chiffre pour matérialiser la chose: l'offensive française sur l'Aisne est déclenchée le 16 avril 1917 après une préparation d'artillerie de neuf jours effectuée par 4000 pièces de calibres divers pour un front de 40 km, suscitant un formidable orage d'acier qui s'abat sur les lignes allemandes, avec un effet analogue à celui que nous décrit Jünger: «Maintenant, l'artillerie française s'éveille à son tour; d'abord, un groupe de batteries légères qui martèlent nos tranchées de slaves rapides pareilles à des coups de poing d'acier, composés de petits obus de shrapnells foudroyants qui s'abattent sur nos têtes comme si on nous vidait le contenu d'un broc. Ensuite suivent les calibres lourds qui nous tombent dessus de très haut en feulant atrocement, à la manière d'un fauve monstrueux, et qui plongent de longues portions de nos tranchées dans le feu et une fumée noire. Une grêle incessante de mottes de terres, de débris de bois et de roches fragmentées s'abat sur nos casques, qui, lorsqu'ils sont les uns à côté des autres, reflètent la danse sans repos des éclairs. Des mines lourdes détruisent tout, fracassent et écrasent nos positions d'autant de coups de mortier; des mines-bouteilles qui traversent la fumée et la pénombre comme des saucisses tournoyantes plongent en rangs serrés dans le feu provoqués par les précédentes. Des tirs d'obus éclairants foncent sur nous, en chaîne d'étincelles brûlantes, s'éparpillent en mille miettes dans les airs pour intimider un pilote matinal qui voulait reconnaître les positions du barrage d'artillerie» (Der Kampf als inneres Erlebnis, V, 78-79).
Voilà pour la réalité vécue directement, du feu subi, à laquelle vient s'ajouter celle du feu infligé. «Enfin, l'aiguille de l'horloge est sur 5.05 h. L'ouragan se déchaîne. Un rideau de flammes monte haut dans le ciel, suivi d'un hurlement sourd, inouï. Un tonnerre ininterropmpu, englobant dans son grondement le tir de nos plus gros obus, fait trembler la terre. Le hurlement gigantesque des innombrables batteries placées sur nos arrières était si terrifiant que les pires batailles auxquelles nous avions survécu nous paraissaient des jeux d'enfants. Ce que nous n'avions pas oser espérer, se produisait sous nos yeux: l'artillerie ennemie restait muette; d'un seul coup de géant, elle avait été envoyée au tapis» (Stahlgewitter, I, 246-247).
C'est dire que c'est le feu qui constitue l'élément central de l'œuvre militaire de Jünger (dans la mesure où elle se rapporte à la première guerre mondiale), que c'est lui qui la modèle, qui lui confère sa dynamique et son caractère propre, et que c'est sa nature quasi absolue et négative qui finira par engendrer la problématique de son dépassement. C'est le feu d'abord qui, en imposant sa loi au combattant, détermine ses comportements, provoquant la peur, l'effroi, l'exaltation ou le courage, toute cette alchimie psychologique que nous trouvons analysée dans Der Kampf als inneres Erlebnis, publié en 1922.
Mais en même temps, créateur d'une physionomie inédite de la bataille, avec ses nouvelles implications techniques, il façonne un nouveau type de combattant, le “poilu” des Français, le Frontkämpfer des Allemands. Dans l'absolu, le problème premier est d'échapper à ce feu protéiforme et omniprésent qui provient de l'horizon (artillerie, infanterie), du ciel (aviation) et même des profondeurs du sol: le 7 juin 1917, 500.000 kg d'explosifs placés par des mineurs anglais détonnent sous les tranchées allemandes. Dans cet environnement assassin, le soldat n'est plus qu'un matériau «comme par exemple le charbon, que l'on fourre sous le chaudron incandescent de la guerre, de façon à faire durer le travail. “La troupe est brûlée, transformée en escarbilles sous le feu”, comme le formule, avec une certaine élégance, les manuels d'art militaire» (Kampf als inneres Erlebnis, V, 81). On va toutefois chercher à faire perdurer ce matériau humain, car sa disparition immédiate créerait un vide dans le dispositif défensif dont l'adversaire profiterait aussitôt, une position n'ayant de valeur qu'occupée. Les atomes militaires vont donc chercher à se couvrir, à se protéger, en remuant toujours plus de terre, et toujours plus profondément, en utilisant le bois, le béton, l'acier pour tenter d'atténuer les effets du feu, en perfectionnant sans cesse le dispositif qui doit remplir une double fonction: permettre le combat et assurer un abri. Chez Jünger, la description minutieuse des tranchées et des abris acquière la valeur d'une “paléo-histoire de l'anti-feu”. Ce système de protection est le premier et le plus relatif dont dispose le combattant. Mais il demeure fondamentalement défectueux puisqu'il interdit le mouvement et condamne à la passivité. Or dans un nouveau stade de la guerre —grosso modo à partir du milieu de 1915— les esprits censés de tous les camps, des officiers d'état-major au Lieutenant Jünger, ou Durand, ou Lewis, se demanderont comment “sortir de là” et comment rétablir le primat du mouvement en dépit du feu. Cette réflexion acquerra d'autant plus d'intensité qu'un produit nouveau, qui ne peut plus être classé dans la rubrique “feu”, commence à être utilisé afin de remplacer les obus là où ils s'avèrent impuissants. «Par l'utilisation des gaz, l'épaisseur du feu est encore accrue, car le gaz pénètre même dans les angles morts et dans les abris souterrains, inaccessibles aux tirs d'obus métalliques» (Feuer und Bewegung, V, 116).
Démesure des machines, des mécanisations
L'existence du feu dans sa dimension démesurée implique un système de production du feu, une “fabrique à feu”, aux dimensions également démesurées. C'est ce que Jünger nomme “un combat de machines”. A une extrémité de la chaîne, il y a la machine productrice de feu, aux formes diverses, qui travaille jour et nuit: revolver, grenade, fusil, mitrailleuse, lance-flammes, mortier, obusier, lance-mines, avions-bombardiers, etc. A l'autre, on découvre l'usine avec ses ingénieurs, ses fondeurs, ses tourneurs, ses ajusteurs, ses mécaniciens, ses pyrotechniciens, puis tous les échelons intermédiaires, dont chacun d'entre eux a pour mission de “nourir” la tranchée, d'une manière ou d'une autre. «Nos excursions fréquentes et nos visites dans les installations sorties de terre dans les arrières, nous ont donné, à nous qui avions l'habitude de regarder cela distrairement par-dessus notre épaule, une vision du travail démesuré que était effectué à l'arrière des troupes combattantes. C'est ainsi que nous avons eu l'occasion de visiter les abattoirs, les dépôts de vivres et les postes de réparations des canons et obusiers à Boyelles, la scierie et le parc du génie dans la Forêt de Bourlon, la laiterie, les élevages de porcs et le poste de traitement des cadavres à Inchy, le parc volant et la boulangerie à Quéant» (Stahlgewitter, I, 76).
Nous nous trouvons maintenant au cœur du problème. Etant donné que chacun des deux camps s'avère capable de lancer sur le marché le même produit fini, on en arrive à ce qu'un Feyler ou un Meyer avaient entrevenu, non sans effroi, avant la guerre: le figement d'un certain nombre de lignes parallèles n'offrant aucune possibilité d'enveloppement, car appuyées d'un côté à la Mer du Nord, de l'autre au Jura suisse. Dans un premier temps on s'efforcera donc, pour sortir de cette situation bloquée, d'obtenir, momentanément, la supériorité du feu sur un point donné, en l'alliant à un effet de surprise. Mais ce sont là des exigences quasiment contradictoires. L'acquisition de la supériorité momentanée du feu exige, en effet, une concentration formidable de moyens, qui ne peut échapper à l'observation de l'adversaire et lui laisse en général le temps de prendre toute une série de contre-mesures. Mais même en admettant que cette mise en place ait échappé à la vigilance ennemie (ce fut parfois le cas), un nouveau problème se pose, celui de la durée du feu destiné à préparer l'offensive. Durant toute la guerre, deux écoles de pensée s'affronteront à ce propos. La première est partisane d'une préparation brève et massive de quelques heures; la seconde défend la préparation longue, pouvant atteindre une dizaine de jours. La première présente l'avantage de ne pas laisser le temps à l'adversaire de se ressaisir; son désavantage réside toutefois dans sa brièveté même qui ne suffit pas pour détruire totalement les objectifs visés et de neutraliser les sources de feu. Lors de l'offensive française en Artois (9 mai-18 juin 1915), la préparation brève permet de réaliser la surprise. Par contre, l'infanterie se heurte à une première ligne insuffisamment “labourée” par le feu, qui offre encore de trop nombreux points de résistance. Lors de l'offensive alliée d'avril 1917 sur l'Aisne, c'est l'inverse qui se produit, mais qui, en définitive, entraîne les mêmes résultats. Le terrain, transformé en véritable paysage lunaire, ralentit tellement la progression de l'infanterie que les Allemands ont le temps de se ressaisir et d'utiliser des positions échelonnées en profondeur. D'ailleurs à chacune de ces offensives on s'aperçoit que le feu profite plus aux défenseurs qu'à l'attaquant. «Ainsi, un petit nombre de mitrailleuses, dans un zone pratiquement vidée de sa défense, peut briser les attaques qui ont été préparées par des milliers de canons» (Feuer und Bewegung, V, 117).
Fin des valeurs
Aussi longtemps que le feu, même s'il provient d'armes légères, n'est pas largement neutralisé, l'offensive est condamnée à l'échec, quels que soient le courage et la volonté de l'attaquant. Dans Der Arbeiter (1932), qui traite la question dans une perspective symbolique, Jünger voit dans cet échec des forces morales face à la puissance du feu, le triomphe de la matière sur les “porteurs de l'idée”. «Qu'on me permette, ici, de me souvenir du célèbre assaut lancé par les régiments de volontaires de guerre près de Langemarck. Cet événement, qui recèle une importance moins militaire que idéelle, est très significative quant à savoir quelle est l'attitude encore possible à notre époque et dans notre espace. Nous voyons ici un assaut classique qui se brise, sans tenir le moindre compte ni de la force de la volonté de puissance qui anime les individus, ni des valeurs morales et spirituelles qui les distinguent. La libre volonté, la culture, l'enthousiasme, l'ivresse que procure le mépris de la mort ne suffisent plus à vaincre la pesanteur des quelques centaines de mètres sur lesquelles règne la magie de la mort mécanique» (VI, 116).
Pour parvenir à la percée —qui devient l'idée obsessionnelle de tous les états-majors et qui, réalisée, devrait permettre de rétablir les prérogatives du mouvement et de la manœuvre— il faudra mettre en œuvre de nouveaux procédés, dont la subtilité et la sophistication leur permettra d'échapper au feu massif et brutal. «Trois grands chapitres [dans l'histoire de la guerre mondiale] se placent en exergue. Dans le premier, on cherche en vain à emporter la décision en tablant sur le mouvement d'ancien style. Le deuxième se caractérise par la domination absolue du feu. Dans le troisième, on voit poindre des efforts de remettre le mouvement en selle par de nouvelles méthodes» (Feuer und Bewegung, V, 113-114).
Il aura toutefois fallu beaucoup de temps, de tâtonnements —et de sang— pour forger ces méthodes nouvelles. L'imagination a travaillé en hésitant, courbée sur des modèles acquis, peinant sur ce problème, à la vérité d'une difficulté accablante, que Jünger résume ainsi: comment s'y prendre pour que l'infanterie ne soit plus “un organe exécutif de l'artillerie?”. On saurait mieux dire! Orages d'acier nous expose à satiété les difficultés rencontrées par le fantassin dans sa progression sous les feux de l'artillerie et de l'infanterie. Au modeste niveau tactique, qui est celui de son horizon de “travail” quotidien, Jünger propose des solutions: «Le soir suivant, je reçus l'ordre de réoccuper les postes de garde. Comme l'ennemi aurait pu s'y être niché et incrusté, j'ai fait encercler, par deux détachements, en exécutant une manœuvre en tenaille, le boqueteau; Kius commandait le premier de ces détachements, et moi, l'autre. J'ai appliqué pour la première fois une façon particulière d'approcher l'ennemi en un point dangereux; elle consistait à le contourner en faisant avancer les hommes l'un derrière l'autre en formant un vaste arce de cercle. Si la position s'avérait occupée, il suffisait d'opérer un retournement à droite ou à gauche pour obtenir un front de feu sur les flancs. Cet ordre, je l'ai appelé, après la guerre, “Schützenreihe”, “tirailleurs en rang”» (Stahlgewitter, I, 67).
Sturm- und Stosstruppen
A un niveau tactique supérieur, c'est une double idée qui finira de s'imposer. Dès le milieu de 1915, les Allemands mettront sur pied des Sturmtruppen, dont la mission est décrite de la manière suivante dans l'ouvrage classique du Général Balck: «Nous avons approfondi l'idée suivante: à la place de lignes fixes de fusiliers, qui demeuraient trop facilement clouées dans leurs positions fortifiées, il fallait utiliser des rangées de fusiliers constitués en détachements d'assaut de petites dimensions, où la personnalité du chef, dont tout dépendait, pouvait être exploitée. Après la sortie hors de nos positions, ces détachements pénétraient profondément à l'intérieur du dispositif ennemi, tandis que d'autres détachements, spécialement désignés, submergeaient les positions ennemies en empruntant des chemins préscrits d'avance» (Entwicklung der Taktik im Weltkrieg, Berlin, 1922, p. 99).
La seconde idée sera de transformer cette “force pénétrante”, qui a retrouvé une certaine mobilité, en “force foudroyante”, capable de porter la dévastation au cœur du dispositif ennemi. «[Cette force], elle aussi, peut déployer des effets d'artillerie en quantité croissante; les grenades à main, les obusiers d'infanterie, les lance-mines, les lance-grandes, les mortiers de tranchée font leur apparition. L'effet de feu, propre à l'infanterie, et rien qu'à elle, se voit renforcer, non seulement par l'augmentation en nombre des compagnies de mitrailleurs, mais aussi par l'armement même des groupes de fantassins, qui reçurent dorénavant des fusils-mitrailleurs et, plus tard, des pistolets-mitrailleurs» (Feuer und Bewegung, V, 116).
La physionomie du combat va être bien entendu profondément modifiée par cette transformation. «Dès maintenant la composition des régiments d'infanterie n'est plus la même qu'auparavant: les lignes d'unités placées les unes derrière les autres sont désormais interrompues par des compagnies de mitrailleuses et de lance-mines, et, au milieu du front, on voit apparaître des groupes très particuliers, qui sont armés de pistolets-mitrailleurs ou de fusils-mitrailleurs légers. A petite échelle, il me paraît intéressant d'observer, ici, comment un esprit ancien lutte contre une évolution des formes qui passe littéralement au-dessus de lui (...)» (Das Wäldchen 125, Berlin, 1925, p. 149). Et à nouveau combat, nouveau combattant. Le guerrier-technicien de 1918 n'a plus rien de commun avec le soldat de 1914. «Au début de la guerre, à l'époque des grands mouvements, du gaspillage extérieur et intérieur, on ne percevait pas encore entièrement la différence avec le passé; cette perception n'a eu lieu que lorsque l'esprit de la machine s'est également emparé des champs de bataille d'Europe centrale, et que sont apparus les grands pilotes, les tankistes et le chef des Stoßtruppen ayant reçu une formation de technicien. Là, on est entré dans un temps nouveau, un nouveau type d'homme est apparu en nous saluant d'un hurlement; le sang a coulé à grands flots et cent villes se sont englouties dans la fumée» (Ibid., 3).
La physionomie d’un “homme nouveau”
Dans des pages remarquables, Jünger esquisse la physionomie de cet homme nouveau, qui constitue l'ossature du Stoßtrupp et le sel de l'armée, et dont le jeune visage, à l'ombre du casque d'acier, exprime intelligence et hardiesse. Avec ses grenades, son revolver, sa lampe de poche, son masque à gaz, son porte-cartes et ses jumelles, entouré de ses “fidèles”, qui détiennent entre leurs mains une extraordinaire puissance de feu, ce lieutenant-là, admirablement adapté à sa mission, est devenu un homme dangereux pour l'adversaire, ne serait-ce que parce qu'il est capable d'entrer à nouveau physiquement en contact avec lui. Le cercle vicieux est brisé. Plus personne n'aurait l'idée d'appliquer à ces soldats l'épithète de “chair à canon”. «Lorsque j'observe comment ils parviennent, sans bruit, à se frayer des trouées dans les barbelés, à creuser des paliers d'assaut, à comparer la luminosité des différentes heures de la journée, à trouver le nord en observant les étoiles, alors j'acquiert une connaissance nouvelle: voilà l'homme nouveau, l'homme du génie d'assaut, la meilleure sélection d'hommes d'Europe centrale. C'est une toute nouvelle race, intelligente, forte et animé d'une terrible volonté» (Kampf als inneres Erlebnis, V, 76).
Cependant Jünger ne peut se défendre du sentiment que ce magnifique soldat ne fait pas la guerre qui devrait être la sienne et que les formes surannées qui oblitèrent encore ce conflit l'empêchent de donner sa pleine mesure. «Il nous semble absurde aujourd'hui que la volonté guerrière utilise presque exclusivement le gigantesque appareil technique dont elle dispose pour accroître le feu, tandis que le mouvement dans le combat est dû essentiellement à l'énergie primitive, à la force musculaire de l'homme et du cheval» (Feuer und Bewegung, V, 118). Le moteur doit partir à la conquête de l'avant, il doit préparer, accompagner, soutenir l'effort du Stoßtrupp. «Voilà pourquoi le moment où les premières voitures blindées mues par moteur ont fait leur apparition devant les positions allemandes sur le front de la Somme, est un moment très important dans l'histoire des techniques de guerre» (Ibid., 119).
Aux yeux de Jünger, les dernières années de la première guerre mondiale ne représentent toutefois qu'un stade hybride et intermédiaire de l'évolution qui doit conduire aux nouvelles formes tactiques d'une guerre régénérée. «Vu sous cet angle, la guerre mondiale apparaît comme un gigantesque fragment, auquel chacun des nouveaux Etats industrialisés a apporté sa contribution. Son caractère fragmentaire réside en ceci, que la technique pouvait bel et bien détruire les formes traditionnelles de la guerre, mais qu'elle ne pouvait par elle-même que susciter une nouvelle vision de la guerre, sans pour autant pouvoir la concrétiser» (Ibid., 120-121).
Lors de leur offensive de Picardie, qui débute le 21 mars 1918 et à laquelle Jünger prend part, les Allemands mettent en œuvre des moyens formidables, tant en artillerie qu'en hommes, et parviennent à percer sur le front anglais. Mais les stratèges n'ont pas prévu que l'avance initiale pourrait être, dans certains secteurs, aussi rapide, entraînant une conséquence fatale. «Peu avant la lisière du village, notre propre artillerie nous a canardés, car, têtue et figée, elle continuait à pilonner le même point. Un gros obus tomba au beau milieu du chemin et déchiqueta quatre des nôtres. Les autres s'enfuirent. Comme je l'ai entendu plus tard, l'artillerie avait reçu l'ordre de continuer à tirer en règlant la hausse au maximum. Cet ordre incompréhensible nous a privé des fruits de la victoire. En serrant les dents, nous avons dû nous arrêter devant le mur de feu» (Stahlgewitter, I, 261).
Si les Allemands avaient pu continuer sur la même lancée, et amener rapidement suffisamment de renforts, ils auraient alors pu exploiter leur percée. «Si, à ce moment, une masse de cavalerie avait été lancée en terrain libre, il est probable que la bataille aurait pris une toute autre tournure», écrit le Colonel Lucas dans son Evolution des idées tactiques en France et en Allemagne pendant la guerre de 1914-1918 (Paris, 1932, p. 236).
Bien entendu, raisonner encore en termes de cavalerie dans ce stade ultime de la guerre peut paraître anachronique, alors que le tank existe déjà et est techniquement capable de remplacer, potentiellement, le cheval. Mais entre la possession d'un moyen technique, d'ailleurs encore dans les limbes chez les Allemands, et son utilisation rationnelle sur le terrain, il existe un véritable fossé. Si la nouvelle image de la guerre se superpose parfois à l'ancienne, elle est loin toutefois de l'avoir effacée. Dans ce stade intermédiaire, la guerre a pris une accélération qui lui est propre et trop souvent les états-majors, au lieu de modeler l'événement, doivent se contenter de l'avaliser, les “instructions” qu'ils publient (cela est particulièrement frappant du côté français) étant souvent dépassées lorsqu'elles parviennent aux échelons d'exécution. Les esprits ont mis des années pour esquisser une solution technique originale qui permette le rétablissement du mouvement et la possibilité d'échapper au feu.
Le “tank”: mobilité, protection, feu
Dans un livre brillant, qui pourrait bien avoir exercé une certaine influence sur Jünger, Kritik des Weltkrieges. Das Erbe Moltkes und Schlieffens im großen Kriege (Leipzig, 1920), H. Ritter écrit, p. 64: «Par ailleurs, la construction de ce moyen de combat moderne et technique qu'est le tank ou voiture blindée, constitue un point sombre dans la question des armements de l'armée allemande de terre. Ce n'est pas l'industrie allemande qui en est responsable, je préfère le dire tout de suite. D'abord, le tank a été trop longtemps considéré par l'OHL comme une sorte de jouet technique, comme un instrument destiné à n'effrayer que les benets, qui, une fois dépouillé des effets moraux qu'il provoque, n'est plus qu'un monstre inoffensif, que le soldat allemand, aux nerfs solides, mate comme ses ancêtres les Germains avaient maté les lions que les Romains lachaient sur eux en les tuant à coups de gourdin. Tout les succès remporté par cette arme (...) ont été minimisés par une explication stéréotypée: “Frayeur provoquée par les blindés”. Même encore pendant l'été 1918. Ce n'était ni plus ni moins qu'une calamiteuse rechute dans le rejet de la technique, typique de l'avant-guerre».
Formé sur le terrain et par le feu, à la dure école du feu, Jünger n'a que faire d'une tradition d'école. Résolument moderne, il a compris que le combattant livré à la technique, plus exactement au feu engendré par la technique, n'échapperait à ce dernier également que par la technique. Il imagine alors quel emploi on pourrait faire de la machine polyvalente capable de s'imposer sur le terrain, et dont l'appui permettra à l'infanterie de retrouver sa liberté de manœuvre. «Malgré tout, l'idée du tank est l'idée la plus importance qui ait germé au cours de cette guerre pourtant si riche en inventions, même si cette arme n'a pas été pleinement exploitée au cours de ce conflit-là. Avec lui, c'est une grande question qui a préoccupé tous les peuples belligérants depuis la plus haute antiquité qui trouve sa solution, d'une manière simple et moderne. Le mouvement, l'efficacité et la couverture sont unis en lui (...), voilà pourquoi il, ou plutôt une meilleure concrétisation du concept qu'il représente, doit devenir l'instrument décisif de la bataille de demain, dont toutes les autres armes ne seront plus que les accompagnatrices (...). C'est pourquoi on peut admettre avec certitude que la prochaine guerre déjà se déroulera dans une forme abrégée et furieuse, correspondant au rythme de la machine. Il ne nous restera même plus assez de temps pour nous barricader à long terme et pour amasser de grandes quantités de matériels, ce qui sera un bien pour les deux parties» (Wäldchen 125, op. cit., 119).
Au “char rampant” viendra s'ajouter le “char volant” —le chasseur-bombardier qui interviendra directement dans la bataille comme soutien de l'infanterie et des chars. Alors seulement, avec la restauration du mouvement introduite grâce à ces moyens mécaniques, on éliminera “la surestimation maladive de l'artillerie” et la guerre retrouvera sa respiration. A grands traits, clairs et précis, dans une perspective exacte, Jünger esquisse les formes d'une guerre nouvelle qui ne va pas tarder à éclater. Il a su en discerner les éléments constitutifs: le char, l'avion, une nouvelle attribution au rôle de l'infanterie et de l'artillerie, l'importance des transmissions, le poids de la bataille décisive. ce qui frappe dans cette vision de 1918 (mais certainement corrigée et amplifiée après la guerre), livrée dans Wäldchen 125, c'est qu'elle se détache nettement, ne serait-ce que par la clarté du dessin, de la plupart des travaux (si l'on excepte ceux de Guderian), publiés alors en Allemagne. Par son propos, Jünger se rapproche de ses anciens adversaires britanniques, ceux-là même pour lesquels il avait, durant toute la guerre, nourri la plus haute estime et qui devaient, dans la sphère de la pensée militaire, produire des Swinton, Martel, Fuller et Lidell Hart.
1940: “Jardins et routes”
Paradoxalement, il ne sera pas donné à Jünger d'assister directement, lors de la campagne de France de 1940, à la mise en application du binôme char-avion et à vérifier, en première ligne, les effets de leur intervention. C'est dire qu'une lecture tactique de Routes et jardins, comme on a pu la faire pour Orages d'acier, Le Boqueteau 125 et, bien entendu, Feu et mouvement, n'est pas possible. Car la guerre que livre désormais Jünger est une autre guerre, assez loin du feu, celle de l'«infanterie en marche» dont seuls les éléments avancés sont en contact avec l'ennemi. Par une ironie du sort, le partisan inconditionnel du moteur, cheminera sur les routes de France, à chevel ou à pied et il ne percevra de la bataille que ce qu'elle rejette: blessés, réfugiés, prisonniers, barricades détruites, chars calcinés à l'odeur de cadavre. Rien peut-être n'évoque mieux la différence de la situation vécue par Jünger entre la première guerre mondiale et ce début de la seconde que cette notation évoquant la décoration qui lui a été décernée pour avoir sauvé un soldat: «A l'époque, on m'octroyait les plus hautes décorations pour avoir tué des ennemis, aujourd'hui on m'octroie un petit ruban pour un sauvetage» (Gärten und Straßen, II, 196).
Cantonné à la lisière de la mêlée, il s'adonne non sans volupté à ce qu'il appelle “une promenade tactique”. La voie est libre, le rêve est réalisé, à droite et à gauche les jardins, devant, la route: sur terre et dans le ciel la marchine a frayé le chemin à l'infanterie: «Ce matin, nouvelle chevauchée dans les champs magnifiques, pour aller discuter de nos nouvelles expériences dans les combats offensifs. Nous pouvons désormais progresser comme l'avions rêvé en 1918» (Ibid., 160). Dans cet espace vide d'ennemis, dans lequel il est si facile de progresser, de sombres pressentiments l'assaillent toutefois. En octobre 1943, il note: «(...) tout comme lors de notre avance à travers la France en 1940, ce sont moins les visions du présent qui m'effrayent que la préscience des anéantissements futurs, que l'on devine dans ces espaces vides de toute présence humaine» (2. Pariser Tagebuch, III, 186).
C'est certainement pour une bonne part ce sentiment de liberté tactique retrouvé qui confère son caractère exaltant à Jardins et Routes. Quoi de plus fascinanten effet que les récits ou journaux de guerre relatant l'avance d'une armée, alors que devant elle l'adversaire à cédé ou est en train de le faire. 1800, 1805, 1809, la littérature guerrière de l'époque napoléonienne nous offre une vaste gamme d'œuvres qui font passer dans leurs pages ce que l'on pourrait nommer “la griserie de l'avance”. Plus tard, cette griserie se retrouve dans les ouvrages des combattants prussiens de 1866 et, a fortiori, des soldats allemands de 1870/71. Et ce n'est pas tout à fait un hasard si la campagne de France évoquée par Jünger nous renvoie, par ses images mêmes, à celle d'août-septembre 1870. Même soleil éclatant, même nature généreuse dans l'épanouissement de l'été, mêmes lieux traversés, même climat euphorique engendré par le sentiment d'une victoire qui ne peut plus échapper. Sur la route de Douchy, Jünger retrouve les fameux peupliers qui sont inséparables du paysage de la bataille de Sedan, et il avance sur la route où Bismarck attendit Napoléon III. A peu près au même endroit, son officier de ravitaillement évoque son grand-père qui a combattu ici. A Laon, dans un souterrain de la citadelle, il découvre la plaque commémorant le sous-officier qui fit sauter la poudrière et dans le village de Tallons, où il passe la nuit, le tiroir est encore tapissé avec un journal de 1875. Sans cesse les lieux le ramènent à ces anciens champs de bataille, et pas seulement les lieux, les gens aussi qui, en regardant passer l'infanterie allemande, ont le sentiment de revivre quelque chose de connu et d'ancien. Un paysan à Traimont, un vieillard à Toulis, lui racontent que c'est la troisième fois qu'ils voient déferler les Allemands. Mais à aucun instant le lecteur ne songe à la première guerre mondiale (ou alors tout au plus à l'été 1914) en raison du rythmr qui est propre à cette guerre. A chaque fois que je lis Jardins et Routes, j'ai le sentiment de suivre un protagoniste qui fait, en même temps que celle de 1940, une autre guerre. La plupart des scènes décrites par Jünger pourraient s'insérer, sans qu'on décèle la moindre rupture, dans les journaux, lettres et souvenirs que nous ont laissés les hommes de 1870, du moins jusqu'à l'investissement de Paris. Par exemple le rituel du logement, avec ses notables qui reçoivent au mieux l'officier qu'ils sont contraints d'héberger, la bonne bouteille que l'on débouche, les propos que l'on échange, l'estime mutuelle qui s'établit entre vainqueur et vaincu, si ce n'est, parfois, une haine coriace. Tout cela est à proprement parler d'un autre temps. Cette population française, ces prisonniers français, tels que Jünger les voit et les éprouve, tenteraient à démontrer que la France n'a guère changé en 70 ans, que c'est le même pays qui sombre dans la même défaite. Lorsque Jünger tente d'expliquer à des officiers capturés le triomphe de l'Allemagne par la victoire du “Travailleur”, il a le sentiment qu'ils ne le comprennent pas. Et pour cause! La France profonde est encore ce qu'elle était en 1870, peuplée de paysans, de notaires et de bistroquets qui continuent à confondre le chassepot et le Panzerkampfwagen II.
“Notes caucasiennes”
Progressivement, la guerre évolue vers d'autres dimensions, et si elle se transforme, c'est peut-être aussi parce que le protagoniste Jünger, comme il le laisse entendre, se transforme lui-même. Lorsque, dans le Caucase (1942), un ricochet le contraint de s'abriter, il relève: «Dans de telles situations, ce qui me frappe c'est le côté mi-comique, mi-fâcheux. L'âge et, bien plus encore, la situation, dans laquelle on trouve que de telles choses sont stimulantes, pour ensuite s'efforcer d'en remettre, est bien derrière moi» (Notes caucasiennes, II, 472). Quinze jours plus tard, le soir de Sylvestre, il prend congé de cette guerre et des méthodes politico-militaires qu'elle implique. «Un dégoût me prend, devant les uniformes, les épaulettes, les décorations, les armes, dont j'ai tant aimé l'éclat. La vieille chevalerie est morte; les guerres sont désormais menées par des techniciens» (Ibid., 493). En effet, tout a changé, à commencer par la situation personnelle de Jünger. Il n'est plus le Lieutenant des Stoßtruppen modelé par l'enfer du feu, ni le Capitaine qui, sur les routes, et entre les jardins, participe à la seconde représentation d'une guerre qui a connu sa première au 19ième siècle. Luzi, le penseur de la technique appliquée à la guerre, se sent abandonné par elle et lui, le théoricien de la machine, de cette machine destinée à produire mouvement et feu, il s'aperçoit que, transplanté dans un événement insolite, elle sert désormais à des fins insoupçonnées. Alors qu'en 1919, il concevait une machine qui tenait son efficacité de l'homme, il s'aperçoit maintenant qu'elle le domine et l'engloutit totalement, moralement et physiquement. «On s'aperçoit clairement désormais combien la technique a pénétré dans le domaine de la morale. L'homme se sent imbriqué dans une immense machine, à laquelle il n'y a aucun échappatoire» (Ibid., 496). En lisant ces pages, on a le sentiment d'assister à la fin d'une passion. Jünger se détourne de la machine, reine du champ de bataille, dont il s'était fait le thuriféraire. C'est comme si une cassure s'était produite, quelque part en France, dans la guerre mélancolique, et désuète, au niveau où il l'a vécue, de Jardins et routes.
Les procédés militaires mis en œuvre en Russie désorientent visiblement Jünger qui ne parvient plus à tirer une quelconque leçon tactique de cette guerre-là. Il a l'impression d'assister à un jeu incongru, dont les règles lui échappent. Lorsqu'il dirige ses jumelles sur des Russes qui se déplacent dans la neige, il se ressent comme un astronome contemplant une surface lunaire. «L'idée qui me vient: pendant la première guerre mondiale on aurait encore ordonner de tirer sur eux» (Ibid., 478). A ce moment-là, Jünger aura vécu trois guerres, à chaque fois dans des conditions différentes. Il aura été au cœur de la première, qu'il fera avec l'énorme potentiel d'énergie morale et physique qui est sien, passionnément, et sur laquelle il méditera en psychologue et technicien. C'est cette guerre-là qui a été absolument la sienne et c'est pourquoi il est essentiel pour lui de la penser et d'esquisser les rudiments d'une doctrine tactique qui pourra être appliquée dans un nouveau conflit. Toutefois, lorsque celui-ci surviendra, mettant en œuvre les procédés qu'il a pressentis, Jünger demeurera à la lisière de la grande bataille. Quant à “sa ” dernière guerre, celle de 1942 en Russie, il n'en est plus que l'observateur distant, avec un statut qui évoque d'ailleurs plus le “promeneur du champ de bataille” (une “tournée des popotes” comme aurait dit De Gaulle, mais une “tournée des popotes” tragique) que l'officier combattant.
Observateur de la démesure
Dorénavant, il a atteint ce statut d'observateur qu'il a décrit ultérieurement dans Sgraffiti: «Par exemple, la liberté de l'individue ne peut empêcher que l'Etat l'envoie sur ses champs de bataille. Mais cette liberté peut l'amener à prendre le statut de l'observateur et, ainsi, il met l'Etat à son service, notamment comme organisateur de scènes démesurées» (VII, 427 ss.). De cette dernière guerre, il émane quelque chose d'inquiétant et d'interminé qui engendre, «(...) une situation d'ensemble (...) que l'on ne connaissait pas dans les guerres précédentes de notre histoire, une expérience qui correspond à une approche du point zéro absolu» (504). Partout des signes anormaux s'accumulent. C'est d'abord la steppe qui “attaque l'esprit”, c'est la “pesanteur du grand espace” qui paralyse les énergies, ce sont des rumeurs de massacres qui sourdent, c'est, dans un abri, un Premier Lieutenant qui, sans raison apparente, fond en larmes. Toutes les délimitations classiques sont brouillées, voire effacées. Un Russe, qui a marché sur une mine, a les deux jambes sectionnées. On trouve sur lui quelques détonateurs. Il est aussitôt fusillé. Bestialité? Humanité? Partout un désordre subtil s'est instauré. La perspective classique est distordue. Au sommet, des gens qui n'entendent rien à la conduite de la guerre, dilapident les forces de l'armée dans des attaques simultanées, condamnées d'avance car trop nombreuses: Caucase, Léningrad, Stalingrad, Egypte. «(...) Clausewitz se retournerait dans sa tombe». Quant aux généraux, ils sont devenus ce que cette guerre les a faits. «Comme Tchitchikoff dans Les âmes mortes, chez les propriétaires terriens, je circule ici parmi les généraux et j'observe aussi leur transformation en “travailleurs”. L'espoir de voir cette caste se transformer en un phénomène d'ordre syllanique voire napoléonien, il faut l'abandonner. Ils sont devenus des spécialistes dans le domaine de la technique du commandement et, comme le premier venu que l'on installe devant une machine, ils sont remplaçables et interchangeables» (477).
De l'avion qui le ramène à Kiev, le 9 janvier 1943, Jünger observe le paysage. «Sur les routes, on voyait de fortes colonnes qui refluaient». A mille pieds d'altitude, il prend congé de cette guerre lourde déjà de la défaite et qu'il a traversée comme un étranger, Tchitchikoff certes, maus aussi Pierre Bezhoukov. Un univers le sépare déjà de celle qu'il a faite sur les routes de France et des années-lumières des combats de Picardie qui lui valurent l'Ordre suprême “Pour le Mérite” qui, à cet instant-là, dans l'aube sale de l'hiver russe, paraît lui avoir été décerné par des hommes d'une espèce définitivement éteinte, pour des actes devenus incompréhensibles, parce que, précisément engendrés par une guerre qui permettait encore l'héroïsme.
Paris
Mais Jünger va vivre encore un autre type de guerre, non plus celle —active— du Frontkämpfer ou celle de l'observateur en première ligne, mais celle du vainqueur mué en occupant, dans une métropole étrangère et qui goûte au breuvage amer des “servitudes et grandeurs militaires”. A Paris, sur l'Avenue Wagram, il exerce une compagnie au maniement d'armes; il assiste comme témoin à l'exécution d'un déserteur; officier de service, il veille à l'incarcération de soldats ivres et de prostituées ou supervise le service de censure. Ce sont là en effet des tâches quotidiennes d'un Capitaine. Mais Jünger n'est pas un capitaine banal. Le haut ordre dont il est porteur ou la signification de son œuvre (pour certains plutôt le premier, pour d'autres plutôt la seconde), ou plus simplement sa séduction intellectuelle lui donnent accès aux sphères supérieures du commandement en France, lui permettant de jeter un regard sur “le système des coordonnées de l'emploi de la violence”.
Puis, soldat démobilisé, il subira dans sa propre patrie une guerre au rythme imposé par l'ennemi dont il assistera à l'approche et à l'arrivée, sans d'ailleurs que ce nouveau statut marque une différence avec l'ancien. «Comme la guerre est devenue désormais omniprésente, cela signifie à peine un changement» relève-t-il le 27 octobre 1944, le jour où il quitte l'armée. A partir de l'hiver 1942, un nouveau type de production de feu, un nouveau phénomène de destruction va faire irruption dans la vie de Jünger dont les Journaux relatent minutieusement les manifestations et enregistrent l'ampleur sans cesse croissante.
Le “feu céleste”
La première guerre mondiale avait consacré l'apothéose d'un feu linéaire et statique d'une formidable densité mais dont la profondeur était nécessairement réduite car elle correspondait à la portée, relativement limitée, des pièces. En 1940, le feu, porté ou tracté par des moyens mécaniques, se déplace, se concentre sur des points à détruire puis poursuit son avance. Mais, parallèlement, se développe une autre technique, celle du “feu céleste”, du feu transporté par des moyens aériens loin sur les arrières de l'ennemi, pour pilonner ses centres industriels, ses voies de communication et, dans une escalade tragique, annihiler ses villes et ses populations.
Lorsque Jünger percevra pour la première fois ce nouveau péhnomène, il ne parviendra pas à l'interpréter correctement, tant il est vrai que même l'esprit le plus attentif aux mutations de la technique peut parfois se laisser surprendre lorsque, soudain, elles deviennent réalité. «Ce soir avec Abt, qui était Fahnenjunker (= aspirant) avec Fridrich Georg, près de Ramponneau. Après le repas, nous avons entendu un bruit qui me rappelait celui d'une explosion; (...) Lorsque nous avons entendu encore d'autres grondements, nous avons cru qu'il s'agissait d'un de ces orages de printemps, qui ne sont pas rares en cette saison. Lorsqu'Abt demanda au serveur s'il pleuvait déjà, il lui répondit par un sourire discret: Messieurs les convives, vous prener cela pour un orage, mais je serais plutôt tenter de croire qu'il s'agit de bombes» (I, 327). Le fait que ce soit un garçon de café parisien qui, en cette soirée du 3 mars 1942, explique à un guerrier allemand, à l'auteur précisément de Feu et mouvement, que le bruit qu'il entend n'est pas celui d'un orage, mais d'un bombardement aérien, n'est pas dépourvu d'ironie.
«Le feu était décor de l'époque», note Jünger qui, rentré chez lui, perçoit longtemps encore le feu de la défense anti-aérienne. Toutefois bientôt ces attaques, bien qu'appartenant encore à l'ordre du spectacle, se feront encore de plus en plus massives. «Dans l'avant-midi, la ville a été survolée par trois cents appareils: j'ai vu le feu de la DCA sur la plate-forme du Majestic. Ces survols nous offrent un très grand spectacle: on ressent dans le lointain une puissance titanesque» (II, 129). En France, puis en Allemagne, Jünger aura tout loisir d'observer le fonctionnement de la redoutable machine, de ce “char de guerre titanesque” qui produit sur lui (et dès lors il sera de moins en moins question de spectacle) une impression de puissance démesurée, issue de sphères démoniaques. «Malgré que [les canonniers de la DCA] aient quelques fois fait mouche, les essaims [de bombardiers] ont poursuivi leur course, sans dévier ni vers la droite ni vers la gauche, et c'est justement cette ligne droite de leur mouvement qui éveillait l'impression d'une force effrayante (...). Le spectacle portait sur lui les deux grands traits majeurs de notre vie et de notre monde: l'ordre discipliné, rigoureux et constant, d'une part, et le déchaînement de l'élémentaire, d'autre part» (III, 159-160). Et ailleurs: «Ces escadres suscitent aussi l'impression, en poursuivant leur chemin sans se laisser distraire, même quand au beau milieu de cet essaim des appareils explosent ou s'enflamment, d'être plus puissants dans le simple fait de leur progression que dans le lancement des bombes elles-mêmes. On y voit parfaitement la volonté de détruire, même au prix de leur propre anéantissement. C'est là un trait démoniaque» (III, 329).
Avec l'utilisation de ce nouveau moyen technique, les règles élémentaires de la destruction se trouvent changées et c'est une nouvelle mappemonde de la mort qui s'offre à l'observateur. «L'attaque sur Hambourg constitue en cette matière un événement premier en Europe, événement qui se soustrait aux statistiques démographiques. Les offices de l'état civil sont désormais incapables de faire connaître le nombre exact de personnes qui ont péri. Les victimes sont mortes commes des poissons ou des sauterelles, en dehors de l'histoire, dans la zone de l'élémentaire, dans cette zone qui, précisément, ne connaît pas de registre» (III, 129).
Dans la mesure où désormais le feu a acquis un caractère universel et peut surgir n'importe où et n'importe quand, la situation du combattant et du civil s'en trouve profondément modifiée. La distinction faite durant la première guerre mondiale entre “ceux de l'avant” et “ceux de l'arrière” perd son sens. C'est ainsi que depuis une terrasse de restaurant, un verre de bourgogne à la main, un officier observera le cheminement d'une armada aérienne ennemie qui, dans quelques secondes, déversera des tonnes d'explosifs sur son objectif ou qu'une ménagère pourra en suspendant sa lessive dans son jardin, contempler l'anéantissement d'une ville située à une dizaine de kilomètres. Mais il suffit qu'une bombe soit jetée une seconde trop tôt pour que le restaurant prenne l'aspect d'un abri détruit de la première guerre ou que le jardin de la ménagère soit transformé en un cratère fumant. Dorénavant la mort —comme le spectacle qui la précède— est devenue un bien commun à tous. «Après le vide connu des champs de bataille, nous entrons dans un théâtre de guerre avec beaucoup plus de scènes visibles. Ainsi, aux grandes batailles aériennes, des centaines de milliers voire même des millions de spectateurs prennent part» (III, 257).
Ce que Jünger a pressenti en Russie se confirme chaque jour à ses yeux. Le triomphe de la technique instaure un «carnage sans intérêt, un carnage automatique» —dont il fait remonter les débuts à la Guerre de Crimée— scellant en même temps la faillite et l'extinction de toute une caste militaire. A partir de Moltke l'Ancien, la texture morale de l'état-major prussien qui «s'est toujours plus tourné vers le culte pur de l'énergie», se modifie et un nouveau type d'officier remplace l'ancien. «De tels esprits ne connaissent que “convertir” et “organiser”, alors qu'il a toujours quelque chose d'autre qui en est la condition première, quelque chose d'organique» (III, 71). Les généraux qui ont tenté de s'opposer à l'évolution de la technique, souvent d'ailleurs en dépit du bon sens, pour demeurer fidèles aux procédés et aux valeurs d'une guerre “classique”, ont été balayés. «La situation se décrit au départ d'un paradoxe: la caste des guerriers souhaite certes conserver la guerre, mais dans une forme archaïque. Aujourd'hui, ce sont des techniciens qui la gèrent» (III, 252).
La stupidité des “généraux-techniciens”
Les conditions de la guerre moderne ont eu pour effet de détruire, en dissociant ce qui ne devait pas l'être, un certain type “organique” de général. «Les généraux sont pour la plupart énergiques et stupides, c'est-à-dépourvus de cette intelligence active et disponible que l'on trouve chez les bons téléphonistes; les masses quant à elles les admirent stupidement. Ou bien ces généraux sont cultivés, ce qui est aux dépens de la brutalité inhérente à leur métier. C'est pourquoi il y a toujours quelque part un défaut, soit un manque de volonté soit un manque de discernement. Très rarement on trouve l'union de la force active et de la culture, comme chez César ou Sylla ou, à l'époque contemporaine, chez Scharnhorst ou le Prince Eugène. C'est pour ces raisons que les généraux sont le plus souvent de simples hommes de main, dont on se sert» (III, 283).
Alors que le général cultivé (et l'on songe au beau livre d'Erich Weniger) est condamné au silence et à l'impuissance, ce sont les techniciens-exécutants qui s'affirment partout, leur manque de courage, compris dans un sens large, étant inversément proportionnel à leur brutalité. Ecoutant à la radio l'adresse de loyauté que les maréchaux de l'armée adressent à Hitler le 23 mai 1944, Jünger songe au mot de Gambetta: « Avez-vous jamais vu un général courageux?», ajoutant aussitôt, avec une sorte de rage intérieure: «Le moindre petit journaliste, la moindre femme d'ouvrier produit plus de courage. La sélection s'opère par la capacité à se taire et à exécuter des ordres; à cela s'ajoute ensuite la sénilité» (III, 278).
A mesure que la guerre s'intensifie, et que par conséquent sa technicisation s'amplifie, les signes inquiétants, qui attestent d'une dérèglement général, s'accumulent. Par les récits qu'on lui fait, par les photos qu'on lui soumet, l'image des “dépiauteurs” se précise pour Jünger. Toujours plus nombreux lui parviennent les récits d'exécutions sommaires de déserteurs de la Wehrmacht, qui ont lieu dans des conditions dégradantes, et le problème de l'exécution des otages français se situe au centre de ses préoccupations. Quant à l'armée elle-même, elle subit des mutations inattendues, à l'image du temps. Un jour, à Sissonne, Jünger se retrouve au milieu de soldats étrangers vêtus d'uniformes allemandes, «sur leur manche, bien en exergue, l'insigne indiquant leur origine: c'est une mosquée avec deux minarets avec, en dessous, l'inscription “Biz Allah Bilen. Turkistan”». Dans ce terrain mouvant, truffé de chausse-trappes, il finit par développer un sixième sens pour détecter les officiers qui sont “du bon côté” et ceux qui, au contraire, ne sont que les exécutants (ou les thuriféraires) de l'inhumaine tactique. «Savoir si celui que l'on rencontre est un homme ou une machine, cela se dévoile dès la première phrase de sa réponse» (III, 260).
C'est pourtant dans cette atmosphère de déliquescence, alors que Jünger n'a plus que quelques mois à passer sous l'uniforme, que l'armée, par l'effet d'une rencontre du hasard, lui envoie comme un dernier salut —auquel il répond au plus profond de lui-même— un salut qui semble venir de très loin, de l'époque de sa première montée au front, avec le Régiment de Fusiliers n°73, du côté d'Orainville en Champagne. Le 7 juin 1944, au lendemain du débarquement, il contemple dans une rue de Paris des chars lourds au repos qui se préparent à monter au front. Il lui est alors encore donné d'entrevoir fugitivement le visage à la fois héroïque, mystique et mélancolique de la guerre qui, depuis 1940, ne s'était plus montré à lui. «Sur le Boulevard de l'Amiral Bruix, des chars lours fonçaient en ordre de marche vers le front. Les jeunes équipages étaient assis sur les colosses d'acier; il régnait une atmosphère de soirée d'adolescents, avec une joie teintée de tristesse, dont je me souviens très bien. Il y avait comme ce rayonnement qui est toujours très proche de la mort, qui anticipe la mort dans les flammes de la bataille, le rayonnement qui émane de cœurs préparés à cette fin. Quand les machines s'effaçaient à l'horizon, quand disparaissait leur agencement compliqué, elles devenaient tout à coup plus simples, plus sensées, comme le bouclier et la lance sur lesquels s'appuie le hoplite. La manière dont ces garçons étaient assis sur ces blindés, la manière dont ils mangeaient et buvaient, prévenants les uns avec les autres comme des fiancés avant une fête en leur honneur, comme s'il s'agissait d'une repas rituel» (III, 287-288). Pour un bref instant —dans cette sorte de transfiguration vécue par Jünger— le soldat asservi à la technique est redevenu le guerrier authentique qui a renoué avec le long lignage de ses ancêtres.
Le “Volkssturm”
C'est de chez lui, sur sa terre, à Kirchhorst, que Jünger prendra, à la tête d'une unité du Volkssturm, définitivement congé de la guerre, le matin du 11 avril 1945. «Dans ce bout de campagne, comme souvent dans la vie, je suis le dernier à posséder encore un pouvoir de commandement. J'ai donné hier le seul ordre possible dans de telles circonstances: occuper les barrages anti-chars et puis les ouvrir dès que les premiers éléments ennemis se pointent» (Kirchhorster Blätter, II, 414). Cet instant est d'ailleurs parfaitement insolite. Le dernier ordre que cet homme, qui dans sa vie a défendu tant de tranchées et en a pris tant d'autres, est un ordre d'abandon, que lui dicte le bon sens. Tout en observant le déferlement mécanique de l'adversaire, il songe qu'il vaut mieux que son fils, que la guerre lui a pris, ne puisse assister à ce spectacle de défaite, qui lui aurait fait trop mal.
A travers sa douleur, il lui apparaît qu'une page décisive pour son destin, comme pour celui de l'Allemagne, est en voie d'être tournée. «D'une telle défaite, on ne se guérira pas, comme jadis, après Iena ou après Sedan. Elle signifie un tournant dans la vie des peuples, et non seulement innombrables sont ceux qui devront mourir, mais beaucoup de forces qui nous animaient de l'intérieur périront au cours de ce passage» (II, 415). A ce moment-là, Jünger est devenu aussi un observateur “distancié” qui regarde l'avance de l'ennemi non plus depuis une position de combat mais depuis la fenêtre de sa maison. Ce qui maintenant défile devant ses yeux, n'est plus qu'une “parade de poupées” dotées de “jouets dangereux”, qu'un jeu de soldats-marionnettes, “tirés par des fils” ou même, comme l'indiquent les longues antennes qui se balancent sur les chars et les véhicules blindés, une partie de pêche magique, destinée à capturer le Léviathan.
Un ultime avatar dans les guerres d'Ernst Jünger.
Jean-Jacques LANGENDORF.
(texte publié pour la première fois en 1990 dans Der Pfahl, IV, Munich; sauf indication contraire, nous citons d'après Ernst Jünger, Werke, vol. I-IX, Stuttgart, s.d.).
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dimanche, 04 octobre 2009
La guerre en Irak est-elle finie?
La guerre en Irak est-elle finie ? |
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Depuis que le nouveau président américain, Barak Obama, a promis que les forces américaines allaient quitter l’Irak, la couverture médiatique sur ce pays a beaucoup diminué. Tout va-t-il donc pour le mieux dans chez les Irakiens ? En 2009, les efforts américains paraissent se focaliser sur la pacification de l’Afghanistan, et bien que cette tâche semble perdue, c’est sur cette affaire que les médias se concentrent pour le moment. Pour celles et ceux qui suivent l’information hors des médias traditionnels – notamment sur les divers sites d’information dont l’excellent Antiwar – il apparaît que la violence en Irak, un peu à la baisse en 2007, s’est de nouveau élevée à un niveau terrifiant. Attentats, voitures piégées, kamikazes, tirs de mortiers, faisant des centaines de morts par semaine… Si les soldats américains, retranchés dans leurs immenses bases et ambassades, semblent ne pas trop subir de pertes, et que le nombre de morts et blessés mercenaires reste aussi flou que jamais, ce sont les civils irakiens de toutes confessions, âge et sexe, qui sont le plus touchés. Il est légitime de se demander si la guerre en Irak est finie, si les forces américaines vont quitter (officiellement, sinon officieusement) le pays, et quels sont les enjeux politiques et géostratégiques locaux et régionaux qui pourraient aider à répondre à ces questions. C’est afin de répondre à ces questions que l’historien français Denis Gorteau a écrit un livre, La Guerre en Irak Est-elle Finie ?, édité aux éditions Yvelines en juin 2009, qui résume fort bien les tenants et les aboutissants de cette guerre déclenchée par George W. Bush en 2003. Je recommande ce livre a toute personne ne connaissant que peu de choses sur cette région-là du monde, car en 273 pages, c’est toute l’histoire du Moyen-Orient (et des Etats-Unis) qui est résumée de manière concise et intelligente. Même l’historien amateur ou passionné de géostratégie dont je suis peut trouver dans ce livre, au-delà de l’exposé des faits, un bon nombre d’idées judicieuses sur la manière dont pétrole, Israël, l’Iran, la Russie, la Chine, les Etats-Unis, le nationalisme arabe et l’Islam s’emboîtent en alliances, parfois contre-nature, conflits – larvés ou ouverts – pour façonner, souvent de manière tragique, une région stratégiquement vitale pour le monde moderne. Même le lecteur d’excellents livres sur le sujet, comme Cobra II de Michael R. Gordon, Fiasco de Thomas E. Ricks, Hubris de Michael Isikoff, ou la trilogie de Bob Woodward (Plan of Attack, Bush at War, State of Denial) pourra trouver dans La Guerre en Irak Est-elle Finie ? des idées pertinentes et novatrices, malgré – ou justement parce que – l’approche très factuelle, mais dans laquelle on sent un vrai attachement de l’auteur pour les peuples de la région qui subissent depuis fort longtemps un cycle d’injustices et de violences inouïes. Denis Gorteau, qui sera d’ailleurs en conférence prochainement à Genève sur ce thème (date à préciser), explique notamment très bien les différentes facettes historiques de cette guerre et touche très rapidement aux sujets qui ont rendu la situation si cruelle pour les Irakiens et si inextricable pour l’ensemble des acteurs du conflit.
pour Unité Populaire, Piero Falotti |
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samedi, 03 octobre 2009
Hiroshima: la décision fatale
Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1996
Hiroshima: la décision fatale selon Gar Alperovitz
Si on examine attentivement l'abondante littérature actuelle sur l'affrontement entre le Japon et les Etats-Unis au cours de la seconde guerre mondiale, on ne s'étonnera pas des thèses que vient d'émettre Gar Alperovitz, un historien américain. Son livre vaut vraiment la peine d'être lu dans sa nouvelle version allemande (ISBN 3-930908-21-2), surtout parce que la thématique de Hiroshima n'avait jamais encore été abordée de façon aussi détaillée. Alperovitz nous révèle une quantité de sources inexplorées, ce qui lui permet d'ouvrir des perspectives nouvelles.
Il est évidemment facile de dire, aujourd'hui, que le lancement de la première bombe atomique sur Hiroshima le 6 août 1945 a été inutile. Mais les contemporains de l'événements pouvaient-ils voir les choses aussi clairement? Qu'en pensaient les responsables de l'époque? Que savait plus particulièrement le Président Truman qui a fini par donner l'ordre de la lancer? Alperovitz nous démontre, en s'appuyant sur de nombreuses sources, que les décideurs de l'époque savaient que le Japon était sur le point de capituler et que le lancement de la bombe n'aurait rien changé. Après la fin des hostilités en Europe, les Américains avaient parfaitement pu réorganiser leurs armées et Staline avait accepté d'entrer en guerre avec le Japon, trois mois après la capitulation de la Wehrmacht. Le prolongement de la guerre en Asie, comme cela avait été le cas en Europe, avait conduit les alliés occidentaux à exiger la “capitulation inconditionnelle”, plus difficilement acceptable encore au Japon car ce n'était pas le chef charismatique d'un parti qui était au pouvoir là-bas, mais un Tenno, officiellement incarnation d'une divinité qui gérait le destin de l'Etat et de la nation.
Alperovitz nous démontre clairement que la promesse de ne pas attenter à la personne physique du Tenno et la déclaration de guerre soviétique auraient suffi à faire fléchir les militaires japonais les plus entêtés et à leur faire accepter l'inéluctabilité de la défaite. Surtout à partir du moment où les premières attaques russes contre l'Armée de Kuang-Toung en Mandchourie enregistrent des succès considérables, alors que cette armée japonaise était considérée à l'unanimité comme la meilleure de l'Empire du Soleil Levant.
Pourquoi alors les Américains ont-ils décidé de lancer leur bombe atomique? Alperovitz cherche à prouver que le lancement de la bombe ne visait pas tant le Japon mais l'Union Soviétique. L'Amérique, après avoir vaincu l'Allemagne, devait montrer au monde entier qu'elle était la plus forte, afin de faire valoir sans concessions les points de vue les plus exigeants de Washington autour de la table de négociations et de tenir en échec les ambitions soviétiques.
Le physicien atomique Leo Szilard a conté ses souvenirs dans un livre paru en 1949, A Personal History of the Atomic Bomb; il se rappelle d'une visite de Byrnes, le Ministre américain des affaires étrangères de l'époque: «Monsieur Byrnes n'a avancé aucun argument pour dire qu'il était nécessaire de lancer la bombe atomique sur des villes japonaises afin de gagner la guerre... Monsieur Byrnes... était d'avis que les faits de posséder la bombe et de l'avoir utilisé auraient rendu les Russes et les Européens plus conciliants».
Quand on lui pose la question de savoir pourquoi il a fallu autant de temps pour que l'opinion publique américaine (ou du moins une partie de celle-ci) commence à s'intéresser à ce problème, Alperovitz répond que les premières approches critiques de certains journalistes du Washington Post ont été noyées dans les remous de la Guerre Froide. «Finalement», dit Alperovitz, «nous les Américains, nous n'aimons pas entendre dire que nous ne valons moralement pas mieux que les autres. Poser des questions sur Hiroshima, c'est, pour beaucoup d'Américains, remettre en question l'intégrité morale du pays et de ses dirigeants».
Le livre d'Alperovitz compte quelques 800 pages. Un résumé de ce travail est paru dans les Blätter für deutsche und internationale Politik (n°7/1995). Les points essentiels de la question y sont explicités clairement.
(note parue dans Mensch und Maß, n°7/1996; adresse: Verlag Hohe Warte, Tutzinger Straße 46, D-82.396 Pähl).
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vendredi, 02 octobre 2009
Guerre civile entre histoire et mémoire
Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1996
Guerre civile entre histoire et mémoire
Ouest-Editions a publié les actes du colloque La guerre civile entre histoire et mémoire organisé par le “Centre de recherches sur l'Histoire du Monde Atlantique” de l'université de Nantes. Dans son introduction, Jean-Clément Martin écrit à propos de la dénomination “guerre civile”: «Ce que les Américains ont qualifié de “Civil War”, à savoir les événements qui ont déchiré leur pays au XIXième siècle, nous l'appelons “guerre de Sécession”, en reprenant une version “nordiste” qui se serait sans doute transformée en “guerre de Libération” si les Sudistes avaient gagné. Nous prenons usuellement le soulèvement du général Franco comme départ de la guerre civile espagnole, nonobstant les multiples affrontements meurtriers qui avaient émaillé les années précédentes. En revanche, nous parlons, en France, de “la Commune”, de “la révolution de Juillet”, voire de “la Révolution Française” ou de “la Résistance”, pour évoquer des étapes dramatiques de notre passé, hors du recours à la catégorie “guerre civile”». Nous citerons encore un court extrait: «Car la notion de guerre civile permet aussi de comprendre la fascination que celle-ci possède. Elle représente —encore aujourd'hui!— une forme de conflits dans laquelle, à l'opposé des conflits “déshumanisés” par les machines et surtout par l'atome, les individus trouvent des responsabilités véritables, des opportunités personnelles et des engagements réels, sans compter la possibilité de se confronter à la mort, dans une perspective romantique —ce qui, au-delà de tout jugement politique, semblait ne pas déplaire à Malraux— ou désespérée. La guerre civile devient la chance des aventuriers et des paumés, la revanche des exclus et des déclassés, la seule voie des plus démunis et des intellectuels radicaux. Sous cet aspect, elle ne se confine pas aux seules confrontations militaires, armées, mais elle s'exerce aussi bien dans les rivalités familiales que dans les querelles intellectuelles. L'Espoir de Malraux et Gilles de Drieu La Rochelle, indépendamment des liens entre les deux auteurs, constituent des exemples de cette façon de continuer la guerre sous, apparemment, d'autres formes» (Pierre MONTHÉLIE).
C.R.H.M.A., La guerre civile entre histoire et mémoire, Ouest Editions (1, rue de la Noë, F-44.071 Nantes Cedex 03), 1995, 250 p., 150 FF. La dernière publication du C.R.H.M.A. intitulée Le Maroc et l'Europe présente les communications faites lors d'une table ronde qui s'est tenue au «Centre d'études stratégiques de Rabat», 143 p., 120 FF.
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mercredi, 30 septembre 2009
L'expédition de Werner Otto von Hentig en Afghanistan (1915-1916)
Walter RIX:
L’Expédition de Werner von Hentig en Afghanistan (1915-1916)
En mars 1915, le Sous-Lieutenant Werner von Hentig, qui combat sur le front russe, reçoit l’ordre de se rendre le plus rapidement possible à Berlin pour se présenter auprès du Département 3b de l’état-major général. Ce Département est un département politico-militaire. Comme il l’écrira plus tard dans ses souvenirs (“Mein Leben – eine Dienstreise” / “Ma vie – un voyage en service commandé”), il s’était distingué, au sein de son unité, en peu de temps, comme un “spécialiste des patrouilles stratégiques, pour la plupart derrière les lignes ennemies”. Cette audace le prédisposait, aux yeux de ses supérieurs hiérarchiques, à l’aventure qu’ils allaient lui suggérer.
Werner Otto von Hentig était le fils d’un juriste bien connu à l’époque de Bismarck, qui avait occupé le poste de ministre d’Etat dans l’entité de Saxe-Cobourg-Gotha. En fait, Werner Otto von Hentig était diplomate de formation. Sa promotion était toutefois récente et il n’était encore qu’aux échelons inférieurs de la carrière. Mais, malgré cette position subalterne, il incarnait déjà, avant 1914, une sorte de rupture et surtout il personnifiait une attitude différente face au monde, celle de sa jeune génération. Celle-ci ne considérait plus que le service diplomatique était une sinécure agréable pour l’aristocratie. Déjà lors de sa période de probation, comme attaché à la légation d’Allemagne à Pékin, il avait pu sauver beaucoup de vies lors des troubles de la guerre civile chinoise, grâce à ses interventions, répondant à une logique du coeur. Dans les postes qu’il occupa après la Chine, notamment à Constantinople et à Téhéran, il se distingua par ses compétences. Ce n’est pas sans raison que l’ambassadeur d’Espagne à Paris, Léon y Castillo, Marquis de Muni, porte-paroles de tous les diplomates accrédités dans la capitale française, avait évoqué, dès le 3 janvier 1910, dans les salons de l’Elysée, une “ère nouvelle de la diplomatie”.
En 1915, on avait donc choisi Hentig pour une mission tout-à-fait spéciale. Comme tous les experts ès-questions orientales, y compris le futur célèbre indologue Helmuth von Glasenapp, avaient déjà reçu une mission, c’était lui que l’on avait sélectionné pour mener une expédition politique en Afghanistan. Les sources disponibles ne nous rendent pas la tâche facile: sur base de celles qui sont encore disponibles, nous ne pouvons guère décrire avec précision le but exact de cette mission ni définir quelle fut la part dévolue aux Turcs. Hentig écrit dans ses mémoires: “Après que le front occidental se fût figé, on songea à nouveau à frapper l’Angleterre par une opération politique au coeur de son Empire, l’Inde. Ce fut la visite du Kumar d’Hatras et de Mursan Mahendra Pratap au ministère allemand des affaires étrangères, puis au quartier général impérial, qui constitua le déclic initial”. De plus, l’idée avait reçu l’appui d’un docte juriste musulman, Molwi Barakatullah.
Au départ de Kaboul, les Allemands voulaient soulever contre l’Angleterre toute la région instable (et qui reste instable aujourd’hui) entre l’Afghanistan et l’Inde de l’époque. De Kaboul également, ils voulaient introduire l’idée d’indépendance nationale dans le sous-continent indien. Les alliés indiens dans l’affaire étaient deux personnalités vraiment inhabituelles, décrites de manières fort différenciées selon les rapports que l’on a à leur sujet. Mursan Mahendra Pratap, quoi qu’on ait pu dire de lui, était un patriote cultivé; il appartenait à l’aristocratie indienne et avait consacré toute sa fortune à soulager les pauvres. Il voulait créer une Inde indépendante qui aurait dépassé l’esprit de caste. Barakatullah s’était rendu à Berlin en passant par New York, Tokyo et la Suisse. Au départ de la capitale prussienne, il voulait amorcer le combat contre la domination impérialiste anglaise.
Hentig posa une condition pour accepter la mission: il voulait que celle-ci soit menée comme une opération purement diplomatique et non pas comme une action militaire. Pour attirer le moins possible l’attention, le groupe devait rester petit. Outre les deux amis indiens, Hentig choisit encore deux “hodjas”, des dignitaires islamiques, et, parmi les 100.000 prisonniers de guerre musulmans de l’Allemagne, dont la plupart avaient d’ailleurs déserté, il sélectionna cinq combattants afridis très motivés, originaires de la région frontalière entre l’Afghanistan et le Pakistan actuel. Ces hommes se portèrent volontaires et ne posèrent qu’une seule condition: être équipés d’un fusil allemand des plus précis. A l’expédition s’ajoutèrent le médecin militaire Karl Becker, que Hentig avait connu à Téhéran, et un négociant, Walter Röhr, qui connaissait bien la Perse. L’officier de liaison de l’armée ottomane était Kasim Bey, qui avait le grade de capitaine. Le groupe partit avec quatorze hommes et quarante bêtes de somme. A Bagdad, ils rencontrèrent un autre groupe d’Allemands, dirigé, lui, par un officier d’artillerie bavarois, Oskar von Niedermayer. Ces hommes-là, aussi, devaient atteindre Kaboul, mais leur mission était militaire (cf. “Junge Freiheit”, n°15, 2003).
En théorie, l’Iran était neutre mais sa partie septentrionale était sous contrôle russe tandis que le Sud, lui, se trouvait sous domination anglaise. Hentig, pour autant que cela s’avérait possible, devait progresser en direction de l’Afghanistan en évitant les zones contrôlées par les Alliés de l’Entente. Cette mesure de prudence l’obligea à traverser les déserts salés d’Iran, que l’on considérait généralement comme infranchissables. Les souffrances endurées par la petite colonne dépassèrent les prévisions les plus pessimistes. Elle a dû se frayer un chemin dans des régions que Sven Hedin, en tant que premier Européen, avait explorées dix ans auparavant. Il faudra encore attendre quelques décennies pour que d’autres Européens osent s’y aventurer. Même si les Russes et les Britanniques mirent tout en oeuvre pour empêcher la colonne allemande d’accomplir sa mission, celle-ci parvint malgré tout à franchir la frontière afghane le 21 août 1915. Dès ce moment, les autorités afghanes agirent à leur tour pour empêcher tout contact entre Hentig et ses hommes, d’une part, et la population des zones montagneuses du Nord du pays, d’autre part. Hentig constata bien vite l’absence de toute structure de type étatique en Afghanistan et remarqua, avec étonnement, que les tribus du Nord, qui ne pensaient rien de bon du pouvoir de Kaboul, voyaient en lui le représentant de leurs aspirations. En tout, le pays comptait à l’époque au moins trente-deux ethnies différentes et quatre grands groupes linguistiques.
Hentig ne disposait que d’une faible marge de manoeuvre sur le plan diplomatique. Les Anglais, pourtant, en dépit de pertes considérables, ne s’étaient jamais rendu maîtres du pays, ni en 1839 ni en 1879 mais ils avaient appliqués en Afghanistan le principe du “indirect rule”, de la “domination indirecte”, et avaient transformé le roi en vassal de la couronne britannique en lui accordant des subsides: l’Emir Habibullah recevait chaque année des sommes impressionnantes de la part des Anglais. En même temps, le vice-roi et gouverneur général des Indes, Lord Hardinge of Penthurst, veillait à ce que le roi afghan n’abandonne pas la ligne de conduite pro-anglaise qu’on lui avait suggérée. Enfin, les services secrets britanniques, que Rudyard Kipling a si bien décrits dans son roman “Kim”, étaient omniprésents. Dans un tel contexte, le roi ne songeait évidemment pas à pratiquer une politique d’équilibre entre les puissances, a fortiori parce que l’Italie avait quitté la Triplice, parce que la Russie avait lancé une offensive dans le Caucase et parce que les succès de l’armée ottomane se faisaient attendre.
Hentig décida alors d’appliquer le principe qu’utilisaient les Britanniques pour asseoir leur domination: obtenir l’influence politique en conquérant les esprits de la classe sociale qui donne le ton. L’Allemagne n’était pas entièrement dépourvue d’influence en Afghanistan à l’époque. A Kaboul, dans le parc des pièces d’artillerie de l’armée afghane, Hentig découvre de nombreux canons de montagne fabriqués par Krupp, avec, en prime, un contre-maître de cette grande firme allemande, un certain Gottlieb Fleischer. Celui-ci aurait été tué par des agents britanniques tandis qu’il quittait le pays, selon la légende.
Systématique et habile, Hentig parvint à obtenir l’oreille des décideurs afghans, en jouant le rôle du conseiller bienveillant. Il fut aider dans sa tâche par un groupe d’hommes de l’entourage d’une sorte de chancelier , Nasrullah Khan, un frère de l’Emir. Ce groupe entendait promouvoir l’idée d’une indépendance nationale. En très peu de temps, Hentig a donc réussi à exercer une influence considérable sur ce groupe nationaliste ainsi que sur le jeune prince Habibullah. Finalement, l’Emir lui accorda à son tour toute son attention. Celui-ci, selon une perspective qualifiable de “féodale”, considérait que le pays était sa propriété privée. Hentig tenta de lui faire comprendre les principes d’un Etat moderne. Sans s’en rendre compte, il jeta les bases du combat afghan pour l’indépendance nationale. L’Emir s’intéressa essentiellement au principe d’un budget d’Etat bien ordonné car cela lui rapporterait davantage en impôts que tous les subsides que lui donnaient les Anglais.
Le roi trouvait particulièrement intéressante la recommandation de dissimuler tous ses comptes au regard des Anglais, de soustraire sa fortune à la sphère d’influence britannique. Rétrospectivement, Hentig notait dans ses mémoires: “Nous ne subissions plus aucune entrave de la part de l’Emir, bien au contraire, il nous favorisait et, dès lors, notre influence s’accroissait dans tous les domaines sociaux, politiques et économiques de la vie afghane”. En esquissant les grandes lignes d’un système fiscal, en insistant sur la nécessité d’un service de renseignement et en procurant aux Afghans une formation militaire, Hentig parvint à induire une volonté de réforme dans le pays. Les connaissances qu’il a glanées restent pertinentes encore aujourd’hui. Ainsi, sur le plan militaire, il notait: “Nous considérions également qu’une réforme de l’armée s’avérait nécessaire. Dans un pays comme l’Afghanistan (...), on ne peut pas adopter une structure à l’européenne, avec des corps d’armée et des divisions, mais il faut, si possible, constituer de petites unités autonomes en puisant dans toutes les armes; de telles unités sont les seules à pouvoir être utilisées dans ces zones montagneuses sans voies praticables. L’Afghanistan doit également envisager des mesures préventives contre les bombardements aériens, qui ont déjà obtenu quelques succès dans les régions frontalières”.
La pression croissante de l’Angleterre obligea Hentig à se retirer le 21 mai 1916. Une nouvelle marche à travers la Perse lui semblait trop dangereuse. Il choisit la route qui passait à travers l’Hindou Kouch, le Pamir, la Mongolie et la Chine. Sur cet itinéraire, il fut une fois de plus soumis à de très rudes épreuves, où il faillit mourir d’épuisement. A la première station télégraphique, il reçut des directives insensées de la légation allemande de Pékin, qui n’avaient même pas été codées! Hentig s’insurgea ce qui le précipita dans une querelle de longue durée avec le ministère des affaires étrangères.
En février 1919, l’Emir Habibullah fut tué de nuit dans son sommeil, dans sa résidence d’hiver de Djalalabad. Son frère, Nasrullah Khan, fut problablement l’instigateur de cet assassinat. Le Prince Amanullah, qui avait été très lié à Hentig, pris la direction des affaires. En mai 1919 éclate la troisième guerre d’Afghanistan qui se termina en novembre 1920 par la Paix de Rawalpindi, qui sanctionna l’indépendance du pays. Dès 1921, Allemands et Afghans signent un traité commercial et un traité d’amitié germano-afghan.
En février 1928, Amanullah, devenu roi, est en visite officielle à Berlin. Le ministère des affaires étrangères en veut toujours à Hentig et tente par tous les moyens d’empêcher une rencontre entre le souverain afghan et le diplomate allemand. Pour contourner cette caballe, la firme AEG suggère à Hentig de participer à une visite par le roi des usines berlinoises du consortium. Pendant sa visite, le roi découvre tout à coup son ancien hôte et conseiller, quitte le cortège officiel, se précipite vers lui et le serre dans ses bras devant tout le monde. Le roi insiste pour que Hentig reçoive une place d’honneur dans le protocole. Le Président du Reich, Paul von Hindenburg, exige du ministère des affaires étrangères qu’il explique son comportement étrange.
En 1969, lorsque Hentig avait quatre-vingt-trois ans, il fut invité d’honneur du roi Zaher Shah à l’occasion des fêtes de l’indépendance. Hentig profita de l’occasion pour compulser les archives des services secrets de l’ancienne administration coloniale britannique, qui étaient restées au Pakistan. Ce fut pour lui un plaisir évident car les Américains s’étaient emparé de ses propres archives après la défaite allemande de 1945 et ne les ont d’ailleurs toujours pas rendues. Dans les dossiers secrets de l’ancienne puissance coloniale britannique, Hentig découvrit bon nombre de mentions de sa mission; toutes confirment ce qui suit: l’expédition allemande a créé les prémisses du mouvement indépendantiste afghan et donné une impulsion non négligeable aux aspirations indiennes à l’indépendance.
Walter RIX.
(article paru dans “Junge Freiheit”, Berlin, n°39/2009; trad. française: Robert Steuckers).
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vendredi, 25 septembre 2009
Quand bouddhisme rimait avec impérialisme
QUAND BOUDDHISME RIMAIT AVEC IMPERIALISME
par Laurent Schang
Avec le dernier tiers du XIXe siècle, l’archipel nippon connaît ses ultimes années d’isolationnisme. A rebours de la xénophobie ambiante, savamment cultivée par les conseillers shogunaux d’Edo (l’ancienne Tôkyô), la jeunesse samouraï se passionne pour l’Occident moderne et souhaite voir rapidement le Japon s’ouvrir au changement et au progrès tant vantés par ces drôles d’Occidentaux. Le 3 janvier 1868, le régime féodal est renversé et l’Empereur Mutsu-Hito, âgé de quinze ans, est officiellement proclamé seul détenteur du pouvoir. Le jour même, le Japon entre dans l’ère Meiji.
Jeunes et intrépides, volontaires et éclairés, les hommes qui s’emparent du pouvoir se veulent aussi ultranationalistes, conséquence d’une éducation isolationniste et du sentiment d’appartenance à une caste supérieure.
Mélange de théocratie, d’autoritarisme et de démocratie, la nouvelle Constitution, résolument conservatrice, s’attache plus à définir les devoirs du sujet que ses droits. Conscient de l’infériorité technique du Japon sur l’étranger, le nouveau gouvernement, malgré son inexpérience, bénéficie des deux atouts majeurs que sont un peuple sévère, religieux et travailleur, et l’appui du Tennô («l’Empereur ») en tant qu’agent fédérateur et ferment du renouveau national. Faisant preuve d’une remarquable adaptation intellectuelle et pourvues d’un solide aplomb, de nombreuses délégations d’émissaires et d’étudiants sont envoyées en Europe et en Amérique où, jouant de leur exotique affabilité, ils observent, étudient et enregistrent avec application les technologies occidentales.
Plus soucieux de réformes que de révolution, le Japon se modernise à grands pas et axe sa priorité immédiate sur ses besoins militaires et navals. D’origine largement rurale, l’armée nouvelle, calquée sur le modèle prussien, devient le centre de gravité de la nation. En l’espace de vingt ans, le monde assiste, d’abord incrédule puis inquiet, à l’émergence d’un Japon vindicatif qui organise sa révolution industrielle en préservant tout à la fois et son indépendance politique et les caractéristiques essentielles de sa civilisation.
Réussite incontestable, la restauration Meiji a su catalyser les énergies en sommeil de tout un peuple, transformant l’humeur belliqueuse de la noblesse, autrefois source de discorde et de faiblesse, en un argument précieux dans la lutte acharnée que le Japon s’apprête à livrer à l’homme blanc.
Bien sûr, pareille métamorphose ne va pas sans provoquer des conflits. La culture religieuse traditionnelle est ainsi profondément remaniée dans une finalité impérialiste. Le nouveau régime instaure un culte patriotique dont l’Empereur est la divinité vivante. Le Bushidô (littéralement « voie du guerrier »), auparavant réservé à la caste des samouraïs, est étendu à l’ensemble de la société. Le peuple entier adopte l’idéal martial pour code de vie.
On assiste également au retour en force d’une orthodoxie shintoïste revivifiée, sacralisant sol, sang et ancêtres en un même élan mystique, par opposition au bouddhisme d’importation plus récente, à vocation universaliste et relativiste. Religion étrangère, introduite au VIe siècle, le bouddhisme, après avoir frôlé l’interdiction pure et simple en raison de sa doctrine de la compassion et de la non-violence, est sommé de se conformer aux aspirations du Japon moderne. Les sectes bouddhiques choisissent de coopérer. Le « nouveau bouddhisme » sera donc loyaliste et nationaliste. La colombe s’est transformée en faucon. Le résultat : le Yamato damashii (« l’esprit du Japon »), religion d’Etat, syncrétisme de bouddhisme, de shintoïsme et de confucianisme.
Après une entrée fracassante dans l’âge industriel, le Japon se voit bientôt contraint par les nécessités économiques et démographiques de suivre les exhortations des Zaïbatsu, cartels industriels qui en appellent au colonialisme pour résoudre les difficultés de la nation. Le bouddhisme va fournir la justification morale à ses ambitions territoriales. D’agression militaire qu’elle était au départ, la guerre devient aux yeux des Japonais une mission mondiale d’émancipation des peuples opprimés, une « Sainte guerre pour la construction d’un ordre nouveau en Asie de l’Est ».
D.T. Suzuki, maître zen de nos jours encore vénéré, s’en fait le propagandiste zélé. Un précepte zen ne dit-il pas : « Si tu deviens maître de chaque endroit où tu te trouves, alors où que tu sois sera la vérité… » (1) Toutes les guerres que mènera le Japon au XXe siècle procéderont de la même politique de l’escalade. Du premier conflit sino-japonais en 1894-95 au fatal bombardement de Pearl Harbor le 7 décembre 1941, en passant par l’invasion de la Mandchourie en 1931 et les trois attaques répétées contre l’URSS en 1938 et 1939.
Quant à l’implication du clergé bouddhique, on sait désormais grâce au livre de Brian Victoria (2) qu’il ne s’agissait pas d’un dérapage mais bien d’un processus logique inscrit dans l’évolution du bouddhisme nippon.
(1) cf. Aventures d’un espion japonais au Tibet de Hisao Kimura et Scott Berry, Editions Le Serpent de Mer.
(2) Le zen en guerre 1868-1945, Brian Victoria, traduction de Luc Boussard, Editions du Seuil, 21,04€.
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vendredi, 11 septembre 2009
Ecole des Cadres: revues à lire
SYNERGIES EUROPEENNES - Ecole des Cadres
Bruxelles/Liège/Namur - Septembre 2009
Revues d’histoire, de géopolitique et de stratégie à lire impérativement pour étoffer nos séminaires et conférences pour l’année académique 2009-2010. Toutes ces revues se trouvent en kiosque.
“Champs de bataille”
n°29 (septembre-octobre 2009)
Au sommaire:
Gautier LAMY
Histoire géostratégique de la Crimée
Pierre-Edouard COTE
La guerre d’Orient: la campagne de Crimée 1854-1856
Jean-Philippe LIARDET
Sébastopol et la Crimée pendant la Seconde Guerre Mondiale
Raphaël SCHNEIDER
La guerre italo-turque de 1911-1912: la conquête de la Libye
Etc.
“Ligne de Front”
n°19 (septembre-octobre 2009)
Au sommaire:
1939: la campagne de Pologne – Les débuts de la Blitzkrieg
DOSSIER PETROLE
Yann MAHE
Pétrole 1939-1945: le nerf de la guerre
Roumanie: la chasse gardée du III° Reich
1941: le Golfe s’embrase ! La rébellion irakienne
1941: l’Iran passe sous la coupe des Alliés
1941-1942: la campagne des Indes néerlandaises – Le pétrole, l’un des enjeux de la guerre du Pacifique
1942: Objectif Bakou – Coups de main dans le Caucase
1944: Red Ball Express Highway – Artère du ravitaillement allié
etc.
“Diplomatie”
n°40 (septembre-octobre 2009)
Géopolitique de l’Océan Indien
Alain GASCON
Les damnés de la mer: les pirates somaliens en Mer Rouge et dans l’Océan Indien
Houmi AHAMED-MIKIDACHE
Comores: microcosme de l’Afrique
André ORAISON
A propos du différend franco-comorien sur Mayotte au lendemain de la consultation populaire du 29 mars 2009 relative à la départementalisation de l’ “île hippocampe”
Hors dossier:
Entretien avec Richard STALLMAN: Logiciels libres: vers la fin de la colonisation numérique?
Ketevan GIORGOBIANI
Russie-Géorgie: un an après la guerre
Benoit de TREGLODE
Viêt Nam-Chine: nouvelle crise ou tournant géopolitique?
Etc.
“Diplomatie”
Hors-Série n°9 – août-septembre 2009
Géopolitique et géostratégie de l’espace
Xavier PASCO
Les transformations du milieu spatial
Jacques VILLAIN
Une brève histoire de la conquête spatiale
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La conquête de la Lune (1968-1969): le dénouement
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La “Guerre des étoiles”: un tournant décisif de la guerre froide
Entretien avec Mazlan OTHMAN
Les Nations Unies et l’espace
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La France et l’espace
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Le statut juridique de la Lune
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Espaces civil et militaire – Le jeu des puissances
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Vers une politique spatiale européenne ambitieuse pour répondre aux défis du XXI° siècle
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GRAVES: le Grand Réseau Adapté à la Veille Spatiale
Etc.
“Moyen-Orient”
n°1 (août-septembre 2009)
Entretien avec Olivier ROY sur le Moyen-Orient
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L’Iran face au défi de l’ouverture internationale
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L’Iran aux urnes: quels enjeux?
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La nouvelle politique iranienne de Washington: révolution ou simple changement de ton?
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Iran nucléaire: le jeu des erreurs ou comment s’en sortir?
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La couverture médiatique de la guerre de Gaza
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Le conflit israélo-palestinien après la guerre de Gaza
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La rente pétrolière en Algérie: de Boumédiène à Bouteflika
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La finance islamique, une croissance mondiale?
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Londres, centre européen de la finance islamique
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La France et la finance islamique
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La mise en place de mandats au Moyen-Orient: une “malheureuse innovation de la paix”?
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lundi, 07 septembre 2009
Le capitalisme en crise a besoin d'un conflit militaire majeur
Le capitalisme en crise a besoin d'un conflit militaire majeur
Pour Jean-Loup Izambert, journaliste indépendant et écrivain, qui publie son septième ouvrage (1) sous le titre de Pourquoi la crise ? aux éditions Amalthée, la crise du capitalisme est devenue totale. Contrairement aux déclarations de certains économistes et politiciens, il affirme qu'il n'y aura pas de sortie de crise. Pour l'auteur de la seule investigation journalistique sur les origines de la crise(2), le système capitaliste ne peut survivre que par la guerre. Quelle alternative pour les peuples ? Entretien.
Geostrategie : Vous démontrez dans votre livre Pourquoi la crise ? que le capitalisme ne peut plus supporter la démocratie parlementaire avec laquelle il s'est développé. Sommes-nous à un point de rupture avec ce système et les valeurs de liberté, d'égalité, de fraternité ?
Jean-Loup Izambert : C'est évident. Pourquoi et quelles données changent par rapport aux dernières décennies ? Dans ce système les grands propriétaires privés de l'économie contrôlent l'économie et tentent de l'imposer par tous les moyens comme régime aux peuples de la planète, y compris par la guerre. C'est ce qu'ils ont toujours fait avec la seule préoccupation de s'enrichir et de faire main basse sur les richesses des peuples au seul profit des sociétés transnationales qu'ils dirigent. Mais parvenu au stade de l'impérialisme, période actuelle du développement du capitalisme, les grands possédants ont besoin d'un pouvoir politique qui leur soit totalement dévoué pour protéger et accroître encore la concentration des richesses qu'ils cumulent. Il faut bien comprendre qu'il s'agit pour eux d'une question de survie, de rester maîtres du pouvoir et bien sûr de leur privilèges. L'une des contradictions qu'ils doivent gérer vient justement du fait que l'accumulation du Capital et la concentration des richesses qu'ils sont contraints de perpétuer sous peine de perdre pouvoir et privilèges implique aujourd'hui des centres de décisions de plus en plus fermés, dans l'entreprise comme dans la société. Or, cette tendance à la centralisation va à l'inverse de mouvement des sociétés qui pousse vers plus d'ouverture, de démocratie, de participation, de culture notamment avec le développement des sciences et des techniques.
Geostrategie : Quels faits caractérisent aujourd'hui cette concentration des richesses ?
J-L.I. : Aujourd'hui 200 sociétés transnationales contrôlent plus de 23% du commerce mondial et 1% des plus riches détient plus de 57% des richesses produites. L'augmentation des richesses conduit-elle à l'enrichissement des peuples ? Non. Au niveau mondial 103 200 personnes, pour la plupart propriétaires privés de l'économie, détiennent un patrimoine financier de plus de 30 millions de dollars, hors résidence principale et biens de consommation. Mais, si l'on se réfère aux statistiques de l'Organisation des Nations Unies, plus de 80 pays ont aujourd'hui un revenu par habitant plus bas qu'il y a dix ans. D'une part les peuples prennent de plus en plus conscience qu'ils ne profitent pas de l'augmentation des richesses produites, que plus les richesses se concentrent entre quelques mains plus la misère s'accroît dans les sociétés mais également que ce phénomène touche aujourd'hui le cour même de l'Occident capitaliste qui s'en croyait à l'abri. Selon les chiffres du fisc étasunien, à la veille de l'aggravation de la crise 60 millions de personnes « vivaient » aux Etats-Unis avec moins de sept dollars par jour. Bien que dissimulée par les médias qui appartiennent aux milliardaires, la situation est analogue dans la petite Europe de Maastricht de 20 millions de chômeurs où 80 millions de citoyens - soit quand même 16% de ses 495 millions d'habitants - courent un risque de pauvreté, 17 millions sont répertoriées comme « très pauvres » et 70 millions d'autres n'ont pas accès à un logement décent selon les propres statistiques publiées par la Commission européenne et d'autres organismes « européens ». Dans ce contexte, les grands possédants de l'économie ont besoin de faire courber la tête aux peuples pour maintenir leur système d'exploitation.
Les dirigeants bourgeois organisent le déficit des nations
Geostrategie : Comment le pouvoir politique favorise-t-il ces grands propriétaires privés de l'économie ?
J-L.I.: De différentes manières. Cela va du vote de lois en faveur de la grande bourgeoisie, à une complicité évidente avec le système d'évitement fiscal qui appauvrit la collectivité jusqu'au vote de crédit pour des guerres régionales dans lesquelles vous voyez apparaître et se développer des Sociétés Militaires Privées (SMP) liées aux armées et services occidentaux et financées par les Etats et leurs transnationales. Les provocations répétées à coups de campagnes médiatiques contre la Fédération de Russie, la République Populaire de Chine, la République Islamique d'Iran ou d'autres mais aussi le soutien à des dictatures comme en Irak après avoir ravagé le pays par la guerre, dans plusieurs pays d'Afrique ou l'invasion et l'occupation de l'Afghanistan sont des illustrations de la tentation totalitaire du capitalisme. L'actuelle présidence française, son Premier ministre et son gouvernement sont au diapason de ce qui se passe dans tous les pays capitalistes sans exception : atteintes répétées aux libertés, vote de lois en faveur des grands possédants, réduction du rôle des assemblées élues - par exemple, avec la volonté de tenter de supprimer les communes ou les départements en France ou en réduisant le rôle du Parlement -, « dépénalisation du droit des affaires » qui a pour conséquence de laisser faire le pillage de la nation par les grands propriétaires privés de l'économie, retrait du rôle de l'Etat dans ses fonctions essentielles de la santé, de l'éducation, du logement, du développement économique et de l'emploi, engagement dans des guerres et occupations de pays contre l'intérêt des peuples.
Geostrategie : La dégradation de la situation économique ne dépend donc pas seulement de la crise comme les médias de masse tentent d'en accréditer l'idée ?
J-L.I. : Comme je l'ai dit, la crise est liée à la nature même du capitalisme. Elle prend une ampleur que n'a jamais connue le système alors que le pouvoir politique n'a cessé de border son lit. Par exemple l'actuel président français s'était engagé lors de sa campagne électorale à mettre en oeuvre une politique de plein emploi. Mais l'explosion du chômage et de la misère que nous connaissons aujourd'hui n'est pas le fait de la seule crise. Bien avant que celle-ci ne se manifeste brutalement, le gouvernement français UMP, à peine installé, procédait déjà à la suppression de dizaines de milliers d'emplois dans la fonction publique sur plusieurs années tandis que les dirigeants de grandes sociétés privées en programmaient la liquidation de centaines de milliers d'autres dans tous les secteurs d'activité. Cette politique au service de la concentration du Capital n'est que la continuité des précédentes politiques menées par les gouvernements de droite comme de gauche. En fait le rôle de l'Etat bourgeois se borne à protéger les intérêts des grands possédants contre l'intérêt général avec pour conséquence l'aggravation du déficit budgétaire, l'endettement de l'Etat et une misère grandissante pour le plus grand nombre. Un exemple : les sociétés transnationales qui auraient dû payer plus de 33 milliards d'euros d'impôts pour la seule année 2006 en ont réglé 6,1 milliards avec la bénédiction de l'Etat ! Dans le même temps, ces entreprises qui ne créent pratiquement pas d'emplois, organisent des plans de licenciements, exportent une partie de leurs bénéfices pour échapper à l'impôt ont reçu de l'Etat 65 milliards d'euros d'aides de toutes sortes et bénéficié de milliards d'euros d'exonérations fiscales. Pour vous donner une idée, sur deux années, cela représente environ 130 milliards d'euros soit pratiquement l'équivalent du budget annuel européen pour la période 2007-2013 ou le montant du déficit record du budget de la France fin 2009 contre 56,3 milliards en 2008. La dette publique de la France atteint aujourd'hui des sommets en se situant, selon l'INSEE, à 1413,6 milliards d'euros pour le premier trimestre 2009 soit 72,9% du Produit Intérieur Brut (montant des richesses créées dans un pays sur une année entière). De même, l'Etat et les dirigeants des grandes sociétés privées doivent des milliards d'euros à la Sécurité Sociale qui ont déjà été payés par les salariés aux entreprises et les consommateurs mais ne sont toujours pas reversés à l'organisation de solidarité nationale par le grand patronat. Voilà comment le gouvernement organise les déficits. Quand le Président de la République et les ministres de l'Intérieur qui se succèdent affirment « qu'il n'y a pas de zone de non droit » en ciblant la jeunesse amputée d'avenir qui se révolte, ils se moquent ouvertement du monde. Les premières zones de non droit se situent au sein même de structures de l'Etat et elles sont le fait de leur politique qui conduit le pays à la ruine ! Ce n'est qu'un aspect qui explique aussi la violence du système vis-à-vis de toutes les résistances qu'il rencontre et de celles qui en découlent de manière plus générale dans les rapports sociaux.
Geopolitique : La violence est donc liée à la fin du système ?
J-L.I. : Oui, un peu comme les derniers sursauts d'une bête blessée à mort. Elle se manifeste par le rejet brutal de millions d'hommes et de femmes du système de production, leur mise à l'écart de la vie sociale, du logement, de la santé, de la culture. Elle se manifeste également par la destruction de pans entiers de l'économie, de régions et de pays comme en Yougoslavie, en Irak, en Palestine, en Amérique centrale ou en Afrique où les derniers « rois-nègres » ne doivent leur trône qu'à la corruption débridée de transnationales et, parmi d'autres, au pouvoir élyséen. Le capitalisme est un système criminel qui a fait la prospérité d'une caste de milliardaires sur la mort de centaines de millions d'êtres humains, sur les souffrances les plus atroces des peuples sur tous les continents par la famine, la surexploitation, le colonialisme, la guerre. Et cela continue. Au moment où nous parlons, selon les chiffres de l'Organisation des Nations Unies, une personne meurt de faim - « seulement » de faim, épidémies et guerres non comprises - toutes les quatre secondes. Dans le même temps les dirigeants occidentaux en sont à faire payer les paysans par les contribuables à coups de primes pour mettre leurs terres en friches, à détruire des pêches entières par des règlements imbéciles décidés par les bureaucrates de Bruxelles. Et au moment où nous parlons ce sont plus de 350 millions d'enfants de 6 à 17 ans qui sont surexploités par les transnationales capitalistes sur tous les continents dans presque tous les types d'industrie, de l'Asie aux Etats-Unis(3). Si ce n'est de la violence et de l'égoïsme, qu'est-ce donc le capitalisme ?!
Une exigence de destruction
Geostrategie : Dans votre livre vous rapportez le témoignage de plusieurs intervenants de différents milieux et pays dont certains évoquent une crise totale contrairement aux précédentes. Quels changements avec les crises précédentes ?
J-L.I. : Effectivement la crise est presque mondiale par le fait qu'elle touche tout le système capitaliste. Des pays comme la Fédération de Russie, la République Populaire de Chine, Cuba, le Venezuela révolutionnaire du président Hugo Chavez, le Brésil, la République démocratique du Vietnam ou d'autres comme la République Islamique d'Iran sont moins touchés car ils sont, pour des raisons diverses - historiques, politiques, culturelles, économiques - moins imbriqués dans le système capitaliste, ses réseaux commerciaux, bancaires et financiers. Jusqu'à présent nous devions faire face à des crises conjoncturelles du capitalisme, des périodes où la concentration du Capital s'accélérait brusquement en mettant en difficulté momentanée des monnaies, des économies, des pays. Face à cette situation inédite il était important que je donne la parole à des intervenants de différents milieux tous concernés par la banque, la finance, l'organisation d'entreprise et de la société. Quelques français comme le Président du groupe Crédit Agricole Société Anonyme, un commissaire aux comptes ou un important cabinet d'avocats d'affaires parisien ont refusé de débattre de la situation et de répondre à des questions portant sur l'évolution de l'activité de leur secteur professionnel dans le contexte actuel. La plupart ont joué le jeu et apportent, comme vous avez pu le lire, une contribution importante à mon travail par leur vécu mais également par leur propre réflexion et leurs travaux. C'est le cas du président Etienne Pflimlin du groupe bancaire mutualiste Crédit Mutuel-CIC, de Pierre-Henry Leroy, fondateur et dirigeant de Proxinvest, l'une des plus importantes sociétés de conseil aux actionnaires, du président Alban d'Amours du Mouvement des Caisses Desjardins, l'un des plus importants instituts financiers du Canada de forme coopérative, d'Hervé Sérieyx, haut fonctionnaire, dirigeant de société, chercheur et conseil en organisation d'entreprise, de Mark Schacter au Canada qui est conseil international en organisation d'entreprise, de l'Institut Canadien des Comptables Agréés faute de trouver un européen qui daigne répondre à de simples questions de droit sur la transparence de gestion et la validité des comptes des transnationales, du réseau SWIFT spécialisé dans les transactions internationales, d'un syndicaliste de la CGT fin connaisseur du monde bancaire ou encore de magistrats comme Jean de Maillard, spécialisé dans les nouvelles formes de criminalité financière, des avocats d'affaires et bien entendu des responsables du mouvement Coopératif international. La rencontre de tous ces acteurs de l'entreprise, de la finance, de la banque, du droit au sein d'un même lieu - un livre -, la transmission aux lecteurs de leur expérience comme de leurs idées et de leurs propres travaux permet de dresser un tableau aussi précis que possible de la situation actuelle pour mieux comprendre les origines et mettre en exergue les responsables de la crise. De même cette démarche permet de mon point de vue de tenter d'esquisser les possibles d'un nouveau mode d'organisation et de gestion économique et social. Ainsi que l'explique Sherron Watkins, l'ancienne vice-présidente de la société étasunienne Enron, transnationale de l'énergie faillie en décembre 2001, la crise du capitalisme est désormais totale. Elle touche tout le système : économie, finance, groupes de surveillance du monde des affaires et institutions internationales, politique, morale et idéologie. La continuité de ce système s'accompagne aujourd'hui d'une exigence de destruction de tout ce qui entrave la concentration des richesses par les grands possédants. Ils appellent cela « déréglementation », « privatisation », « libéralisation » ou « mondialisation » et couvrent la répression, l'esclavage, le colonialisme et la dépendance des mots de « sécurité », « liberté », « droits de l'Homme » n'ayant plus que le mensonge, la tromperie et la falsification pour camoufler la fin de leur système.
Geostrategie : Mais ces pouvoirs sont l'émanation du suffrage universel, du vote des peuples. Si l'on pousse le raisonnement à son terme doit-on en conclure que les peuples occidentaux souhaitent le capitalisme ?
J-L.I. : Effectivement, les peuples occidentaux se sont prononcés jusqu'à aujourd'hui en faveur de représentants du capitalisme, pratiquement sans rien connaître du reste de la nature de celui-ci ni même envisager où ce système les conduit à l'heure actuelle. Prenons l'exemple de la France. En 1981, lors des élections présidentielles puis des élections législatives qui ont suivi, le peuple français a eu l'occasion de choisir entre la continuité du système symbolisée par les partis conservateurs et la rupture que proposait à l'époque le Parti Communiste Français avec le Programme commun de gouvernement des forces de gauche auquel était associé le Parti Socialiste et les radicaux de gauche. Ce Programme commun de gouvernement était lui-même l'aboutissement d'années d'engagement des communistes français pour ouvrir une voie nouvelle dans la construction d'une démocratie avancée. Ce programme venait en effet après plusieurs grandes campagnes nationales du PCF et l'élaboration et la diffusion du propre programme du PCF à des millions d'exemplaires sous le titre de « Changer de cap », programme pour un gouvernement démocratique d'union populaire. Pour la préparation de celui-ci les militants communistes ont mené à l'époque de grandes campagnes d'information, de débats, collecté sur plusieurs mois avec « les cahiers de la misère » le vécu et les espoirs du peuple dans les campagnes, les quartiers, les usines, les universités. Tout cela a permis d'aider les gens dans leurs problèmes quotidiens - par exemple en s'opposant aux licenciements dans des entreprises qui réalisaient des profits ou à empêcher des saisies-expulsions - tout en débattant avec eux des changements à mettre en ouvre pour une nouvelle politique nationale. Au moment du vote, lors des élections présidentielles et des législatives qui ont suivi, une majorité de votants a cédé aux campagnes médiatiques anticommunistes et s'est réfugiée dans le giron du Parti Socialiste. Une fois au pouvoir, celui-ci s'est empressé d'abandonner ses engagements sous la pression de la bourgeoisie et du gouvernement étasunien qui s'opposait à la présence de ministres communistes dans le gouvernement français. Toutes les transformations radicales contenues dans le programme commun de gouvernement, tout particulièrement les nationalisations des secteurs clés de l'économie, le développement de la démocratie et toute mesure qui permettait de rompre avec le système ont ainsi été abandonnées par la « génération Mitterrand ». Démonstration a été faite une nouvelle fois que sans parti révolutionnaire, sans mobilisation et soutien à des propositions de rupture avec le système, il ne peut y avoir de réel changement. Si les mesures préconisées par le PCF avaient reçu à l'époque un large soutien populaire, le cours des choses aurait été bien différent, y compris la question européenne. Du reste, si vous relisez aujourd'hui « Changer de cap », le programme du PCF, ou même le Programme commun de gouvernement de 1972, vous constaterez avec le recul du temps et en regard de la situation actuelle le bien fondé des propositions de l'époque dont certaines ne demandent qu'à être actualisées. Chacun doit donc assumer ses responsabilités face à l'Histoire. Le passage à la construction d'une société socialiste ne peut se faire que sur la base d'un rapport des forces sociales et politiques favorables au peuple et ne peut être que le résultat de sa volonté et de sa lutte. Une trentaine d'années plus tard le peuple français, sans tirer les leçons de ses expériences, continue de voter tantôt à gauche, tantôt à droite sans avoir encore conscience qu'il confie en réalité son pouvoir aux mêmes maîtres de la finance et de l'économie. La politique qu'il vit au quotidien reste par conséquent la même et rien ne change dans l'entreprise, dans la vie économique à laquelle il consacre l'essentiel de son existence. Bien entendu, la situation s'est aggravée au fil des trois décennies qui se sont écoulées depuis 1981 et il commence à payer chèrement sa marche « droite-gauche-droite-gauche » à coups de chômage, d'impôts, de taxes, d'exclusions, de restrictions, de lois liberticides et de guerres. Mais il ne peut s'en prendre qu'à lui-même car c'est en dernier ressort lui qui décide, par ses luttes et ses votes. Souvenons-nous toutefois que l'Histoire a montré que les révolutions ne sont pas prévues dans les calendriers électoraux de la bourgeoisie.
La priorité est à l'action sur des propositions révolutionnaires
Geostrategie : La responsabilité serait-elle uniquement le fait d'un peuple ignorant de la chose politique et de sa propre histoire ou plus préoccupé par ses « petits problèmes » que du devenir de la société et de la planète ?
J-L.I. : Non, bien évidemment. La crise n'incite pas à la réflexion et à l'action. Les médias qui sont la propriété privée des milliardaires par banques et sociétés de communication interposées jouent un rôle important dans la désinformation et l'abrutissement des masses. Le fait qu'un navet comme le film « Bienvenue chez les Chtis » soit élevé au rang de succès cinématographique ou que des foules honorent comme un dieu la mort d'un pantin médiatique comme Michael Jackson qui, en dehors du fait qu'il n'a rien apporté d'essentiel à la musique, se droguait, couchait avec des petits enfants et s'était fait tirer et blanchir la peau pour ne plus être noir en dit assez long sur le niveau culturel d'une frange des sociétés occidentales. Nous sommes bien loin des grands musiciens et chanteurs comme King Oliver, Sindey Bechet, Count Basie, Louis Armstrong, Ray Charles, Otis Redding ou d'autres dont les musiques populaires traversent les générations ! Ce n'est qu'un aspect des conséquences des batailles que se livrent les transnationales étasuniennes, européennes et japonaises pour le contrôle des grands moyens de communication, des groupes de presse aux satellites en passant par les majors du cinéma. Sans doute le peuple sortira-t-il de son hibernation politique lorsque nous passerons de « Qui veut gagner des millions ? » à « Qui va partir à la guerre ? ». Depuis les années quatre-vingt, les dirigeants du PCF ont commis de lourdes erreurs stratégiques. Comme s'ils n'avaient pas compris les leçons du passé, ils continuent de rechercher des alliances électorales avec d'autres partis réformistes au lieu de privilégier des propositions pour éveiller les consciences, organiser de grands débats nationaux sur les questions essentielles et rassembler dans l'action avec audace. Lorsqu'un parti ou un mouvement posera des questions comme « Comment contrôler le système bancaire et financier ? », « Quelle organisation bancaire et financière pour l'économie ? », « Quelles mesures pour la gestion démocratique des entreprises ? » ou « Comment rendre à l'assemblée du peuple sa représentation nationale ? », questions dont les réponses sont essentielles pour s'engager dans une rupture avec le système, alors la société commencera à s'éveiller. Et dans l'immédiat, il ne faut pas compter sur les états-majors syndicaux qui sont surtout préoccupés de canaliser le mécontentement afin d'éviter les grandes colères qui commencent à gronder. Il est particulièrement lamentable de voir des représentants syndicaux négocier la diminution du nombre de licenciés dans des entreprises en pleine santé financière quand ceux-ci devraient non seulement appeler à la lutte pour le maintien et le développement de l'emploi, exiger des licencieurs l'ouverture des comptes de l'entreprise et se battre pour des droits nouveaux afin de participer à leur gestion. Dites-moi un peu à quoi servent les comités d'entreprises quand des salariés découvrent du jour au lendemain des plans de licenciements prévus de longue date ?! Avez-vous remarqué comment le mouvement radical de séquestration de responsables de ces plans de licenciements né à la base a été enrayé ? Ce type d'action très intéressant a pratiquement disparu des journaux télévisés et autres du jour au le demain. Dans l'immédiat, entre des partis dits progressistes sans propositions révolutionnaires et des syndicats au minimum compatissants, le pouvoir des « compteurs de petits pois », pour reprendre la formule d'Hervé Sérieyx, ne pouvait pas mieux espérer.
Geostrategie : Est-ce à dire que la situation est politiquement bloquée et qu'il sera difficile de sortir de la crise ?
J-L.I. : L'idée selon laquelle il pourrait y avoir sortie de crise sans sortie du système qui l'engendre est une hérésie. Autant vouloir soigner une grippe sans tuer son virus. Cette chimère ne vise, une nouvelle fois, qu'à berner le peuple en lui faisant croire que l'avenir sera meilleur s'il accepte de nouvelles mesures antisociales comme par exemple le report de l'âge de la retraite à 65 ans. Ce n'est que la suite logique du « travailler plus pour gagner plus » développé par l'UMP. Il n'y aura pas de sortie de crise pour la simple raison que le capitalisme ne peut plus être aménagé. Vous avez pu remarquer combien les médias des puissances financières se font silencieux tant sur l'origine de la crise, ses conséquences générales et son extension dans d'autres pays. Il faut surtout éviter que les masses prennent conscience de l'ampleur des dégâts comme des responsables de la situation pour mieux les enfermer dans la fatalité et le renoncement à la lutte.
Nous ne sommes plus en démocratie
Geostrategie : Cela signifie-t-il que l'appauvrissement continu de la société va se poursuivre de manière plus brutale au détriment de l'intérêt général et au seul profit des grands propriétaires privés de l'économie ?
J-L.I. : Oui. Nous entrons dans une nouvelle période où le chômage s'accroît de manière considérable et où des millions de citoyens supplémentaires sont écartés du droit de vivre dignement de leur travail, où la collectivité humaine déjà menacée va encore s'appauvrir tandis que le clan des grands propriétaires privés de l'économie va continuer de s'enrichir. Selon le World Wealth Report publié par la banque d'affaires étasunienne Merrill Lynch et Cap Gemini « la croissance de la richesse des grands fortunes financières privées devrait être de 7,7% par an pour atteindre 59100 milliards de dollars à l'horizon 2012 ». Voilà des gens qui sont, eux, dispensés de l'allongement de la durée du travail comme de l'effort national que les gouvernements occidentaux tentent d'imposer aux peuples pour leur faire payer une crise dont ils ne sont pas responsables. Deux options se présentent : la continuité du système et la guerre ou la révolution. La première hypothèse va se traduire par un renforcement du caractère autoritaire du pouvoir politique, dernier stade de l'impérialisme avant la dictature et la guerre, la guerre économique conduisant toujours à la guerre totale. C'est ce à quoi nous assistons en France comme dans la plupart des pays capitalistes. Le pouvoir politique devient plus autoritaire, toutes les libertés sont graduellement réduites sous prétexte de prévention, de sécurité et d'ordre, les assemblées élues sont amoindries dans leur pouvoir de décision et d'intervention, qu'il s'agisse des collectivités, des comités d'entreprise et autres. A ce stade, la bourgeoisie dispose encore des moyens de diviser le peuple en favorisant des « faux-nez » d'opposition comme le Parti Socialiste en France et en introduisant dans la vie politique des courants rétrogrades dont elle sait qu'ils contribueront à jeter le trouble dans la bataille d'idées. C'est le cas du mouvement Vert ou prétendument écologiste qui a germé sur une conséquence du capitalisme - la détérioration de l'environnement humain par les transnationales - et grandit sur son fumier sans remettre en cause le système, les causes profondes de cette détérioration.
Geostrategie : Pourtant le mouvement écologiste dénonce la destruction de l'environnement ?
J-L.I. : Bien sûr et le Parti Socialiste dit vouloir s'opposer à la politique du Premier ministre de Nicolas Sarközy de Nagy-Bocsa. Mais vous pouvez dénoncer tout ce que vous voulez, cela ne gêne nullement la bourgeoisie du moment que vous ne vous en prenez pas à l'essentiel, à la cause, à l'origine de cette destruction : son pouvoir politique et celui des puissances financières, son système et son mode de gestion des entreprises et des sociétés humaines. Le discours de ces écologistes opposés, par exemple, à la maîtrise et au développement de l'énergie nucléaire rappelle ces mentalités arriérées qui accusaient dans les années 1830 les premiers trains à vapeur de répandre la tuberculose dans les campagnes. Quant à la LCR-NPA, quelle que soit ses changements de nom, cette organisation a toujours contribué à diviser et affaiblir le mouvement populaire avec une phraséologie pseudo-révolutionnaire et elle doit être combattue comme telle. Elle est du reste complètement absente des mobilisations ouvrières contre la crise.
La question du Front National
Geostrategie : Et le Front National ?
J-L.I. : Il en va un peu de même pour le Front National qui dénonce les puissances financières mais dont le programme politique n'envisage aucune mesure économique radicale pour mettre un terme à leur domination et contraindre les maîtres de l'économie à rendre gorge. Contrairement aux campagnes de ce parti, ce ne sont pas les immigrés qui sont responsables du chômage. Je parle bien entendu de l'immigration qui vient travailler en France avec une qualification, s'y former dans le cadre de contrats avec des entreprises ou des universités ou y est présente depuis plusieurs génération et non de l'immigration clandestine issue de l'aggravation de la misère qui déserte son combat national pour changer l'ordre des choses. Cette dernière, la plupart du temps inculte, sans formation, analphabète, parfois trafiquante au-lieu d'être parquée dans des camps de rétention aux frais des contribuables devrait être reconduite aux frontières sans atermoiements. Essayez donc comme français de vous rendre clandestinement, « sans papiers », dans un pays d'Afrique ou même en Albanie pour juger de l'hospitalité qui vous sera réservée.Ce qui coûte cher à la France c'est le grand patronat qui attire et utilise cette main d'ouvre bon marché et inculte pour briser le tissu social et les avancées démocratiques qui sont autant d'obstacles à son enrichissement. Et quand cela lui est insuffisant, il délocalise les entreprises, comme le groupe Michelin, pour faire du chômage en France et produire à moindre coût et bien souvent à qualité inférieure dans des pays à la main d'ouvre corvéable à merci. Je le rappelle : 350 millions d'enfants sont actuellement surexploités par les transnationales à travers le monde ! Je rappelle également, puisque personne n'en parle, que le grand patronat français a reçu près de 65 milliards d'euros de subventions de l'Etat tout en bénéficiant de 8,5 milliards d'euros d'exonérations fiscales, de 25 milliards d'euros au titre d'une ribambelle de prêts bonifiés et de la baisse du coût du travail, etc. (4) Dans le même temps l'Etat ne budgétisait que 6 milliards d'euros pour le logement et 5 pour une justice qui se situe déjà parmi les derniers pays d'Europe par son budget !. Ce qui coûte cher à la France, c'est le grand patronat, le chômage qu'il fabrique et son organisation corrompue, le Medef. Le Front National ne reconnaît pas la lutte des classes, condition essentielle du combat pour l'émancipation humaine, raison pour laquelle il ne pourra pas mener jusqu'au bout le combat qu'il prétend mener, ce qui ne veut pas dire qu'il n'aurait pas un rôle à jouer. Mais pour prétendre être « front » et « national » sans doute faudrait-il qu'il se réfère plus à l'avenir qu'au passé dans son discours et ses propositions et que ses militants n'hésitent pas à se trouver aux côtés des travailleurs en lutte pour la défense de leur avenir au lieu de pratiquer un discours antisyndical d'un autre âge. Quand le Front National désignera pour cible le clan des milliardaires qui pille la France au lieu des immigrés qui contribuent à l'enrichir par leur travail, quand ce parti proposera et appellera à la lutte pour nationaliser la haute finance, rendre à la nation ce qui lui appartient, développer la démocratie directe, alors celui-ci commencera à être crédible comme « front national ». Cette logique s'inscrirait d'ailleurs dans la lignée de ses propositions pour une «Europe des peuples » par opposition à « l'Europe des banques ». Pour l'heure il reste enfermé dans un discours anticommuniste, antisyndical, anti-fonctionnaire et s'accroche aux oripeaux du système comme l'église catholique - je parle bien entendu de l'institution et non de la croyance, même si je suis athée - et s'oppose ainsi à tout grand rassemblement national sur des propositions de rupture. Imaginez la force que représenteraient le rassemblement et la mobilisation des organisations - partis politiques, syndicats, associations, etc. - agissant de concert sur des objectifs communs de rupture, chacun conservant, bien évidemment, son identité. Un Front National ouvert, démocratique, aux propositions novatrices, en prise avec la société en lutte pourrait jouer ce rôle de rassembleur. Après chacun prendra ses responsabilités de l'accompagner ou non sur les objectifs en question mais la clarté serait faite dans la société sur qui défend réellement l'intérêt général des français. Pourquoi le Front National ne soutient-il pas les travailleurs qui séquestrent les licencieurs dans des entreprises en bonne santé pour exiger des droits nouveaux dans les entreprises ? Visiblement, les propositions de changement font défaut et se limitent plutôt aux périodes électorales qu'au vécu quotidien des français. Bien entendu le rejet du Front National par la classe politique est injustifiable. Mais pour une part, il porte la responsabilité de cette situation en ne désignant pas les vrais responsables de la crise et en restant enfermé dans un carcan droitier et populiste qui l'empêche, pour partie, de prétendre à devenir national et populaire. Des dirigeants trop souvent issus de partis bourgeois ou à « l'idéologie de reclus » s'identifient par leur propos et leur image plus aux forces du passé qu'à une force porteuse d'avenir et de changement radical. Même si aucune perspective de changement réelle n'existe à l'heure actuelle, la grande bourgeoisie est très préoccupée par la réduction de son assise populaire. Plusieurs faits en attestent comme ses tentatives répétées de faire voter plusieurs fois les peuples ou de remplacer un vote populaire sur des questions qui engagent toute la nation par celui du Parlement lorsque leurs votes ne lui conviennent pas, la tentative de se fabriquer des circonscriptions sur mesure, etc. Nous ne sommes plus en démocratie.
Les forces vives de la nation absentes du Parlement
Geostrategie : .Parlement dont les membres sont pourtant élus par le peuple ?
J-L.I. : Oui, mais les Parlements ne représentent plus vraiment les peuples dans les pays occidentaux et leurs élus nationaux sont de plus en plus coupés des citoyens. Je n'évoque même pas le cas du Sénat français qui est une assemblée inutile et coûteuse qui devra être supprimée afin de renforcer les moyens et l'efficacité de l'assemblée des représentants de la nation. Si vous vous intéressez à la composition de l'Assemblée Nationale française, vous constaterez que sur les 577 députés, ne figure qu'un seul député issu de la classe ouvrière, le député communiste Maxime Gremetz, et un seul salarié agricole, le député des Pyrénées-Atlantiques Jean Lassalle qui est technicien agricole. Quant aux artisans, la « première entreprise de France », selon leur slogan, ne compte que deux élus ! Par contre vous trouvez vingt-deux « sans profession déclarée » parmi lesquels dix-neuf UMP, la plupart fils et filles de petits bourgeois, quinze permanents politiques, tous de l'UMP et du PS, qui faute de faire métier ont fait carrière dans la fonction d'élu et n'ont jamais participé aux forces vives de la nation, trente-huit avocats et, toutes catégories confondues, 184 fonctionnaires dont l'essentiel n'est pas représentatif de la fonction publique, exception faite des enseignants qui forme le gros de cette troupe avec les hauts fonctionnaires. Dans les faits, ce Parlement français n'est pas représentatif de la société française dans sa composition socioprofessionnelle. Les forces vives, classe ouvrière en tête, celles qui font le pays et connaissent les problèmes du quotidien, les drames de la vie sont quasiment absentes du lieu où se décident les lois ! Où sont les ouvriers, les marins-pêcheurs, les paysans, les ingénieurs, cadres et techniciens ? Ceux qui font vivre la France dans ce qu'elle a d'essentiel, de généreux, de génie créateur délèguent en masse leur voix et leur pouvoir à de petits bourgeois et à des politiciens carriéristes qui, une fois élus, ont tôt fait de les oublier ! De plus, le mode de scrutin ne permet pas une véritable représentation du peuple. L'Assemblée Nationale française est bien moins démocratique dans sa composition et son fonctionnement que la Douma en Fédération de Russie dans laquelle tous les partis ayant obtenus un minimum de suffrages sont représentés. En France, lors du premier tour des élections législatives de juin 2007, l'UMP s'est attribué 98 députés avec 10,28 millions de suffrages alors qu'il en a fallu 6,43 millions au Parti Socialiste pour en obtenir un seul ! Quant au PCF et au Front National ils n'en obtenaient aucun avec un peu plus de 1,11 millions chacun ! Le propos n'est pas de savoir si l'on est d'accord ou pas avec la politique proposée par ces partis mais de constater que le mode de scrutin ne permet pas une représentation équitable des courants de pensée de notre société. Le second tour de scrutin avec ses alliances opportunistes et politiciennes ne fait qu'aggraver la situation en excluant des millions d'électeurs de leurs choix et de la représentation nationale. Faute de proportionnelle intégrale, un français sur trois n'est pas représenté au Parlement.
Geostrategie : S'il n'y a pas grand-chose à attendre des partis politiques et des assemblées élues, comment les citoyens peuvent-ils modifier le cours des choses ?
J-L.I. : La démocratie est d'abord ce que les citoyens en font. Ils peuvent intervenir auprès des maires des communes, généralement plus accessibles pour changer la donne sur des problèmes locaux mais également auprès des députés pour des questions qui relèvent de la politique nationale. Les citoyens peuvent très bien se grouper et agir sur des objectifs de rupture avec le système - par exemple, refuser tout licenciement dans les entreprises qui font des profits, s'opposer aux délocalisations, exiger la construction de nouveaux logements, l'embauche de professeurs pour les écoles, de personnels pour les hôpitaux, les services postaux, etc. - et obliger leurs élus à s'engager sur leurs revendications, à leur rendre des comptes sur leurs votes dans les assemblées, ce qui ne sa fait pratiquement plus. Mais les questions fondamentales du passage à une démocratie politique avancée et du contrôle des grands moyens de production, de financement et d'échange reste toujours à conquérir. D'une manière générale, de mon point de vue, les luttes sociales demeurent encore bien en retrait dans leur contenu et leur combativité pour faire front aux attaques dont le monde du travail est l'objet. Mais l'entreprise reste le cour des batailles à venir : c'est là que les salariés doivent agir pour obtenir de nouveaux droits leur permettant de participer à la gestion et de bénéficier des bons résultats auxquels ils contribuent. Dans les faits comme l'explique Hervé Sérieyx dans mon livre, « il s'agit de passer du « personnel-instrument » au service de l'organisation à « l'organisation-instrument » au service des personnes. » Il s'agit de cheminer d'une organisation d'entreprise destinée à gérer la docilité à une organisation qui suscite chez chacun de ses membres le désir d'y devenir un acteur engagé. La route est difficile mais les partis politiques classés habituellement comme « progressistes » ont failli à leur tâche. Il ne suffit pas que le monde capitaliste s'écroule pour qu'une nouvelle société prenne le relais. L'émancipation du peuple sera l'ouvre du peuple lui-même et à ce jour l'absence d'un courant révolutionnaire important fait défaut pour éclairer les citoyens sur des propositions de rupture avec le système finissant. C'est l'outil qui manque pour favoriser cette transformation politique et sociale. Le peuple est égaré, ce qui ne veut pas dire qu'il n'est pas en attente ou demandeur de solutions pour changer la vie.
Des premières mesures d'un gouvernement révolutionnaire
Geostrategie : Quelle seraient les premières mesures que devrait prendre un gouvernement révolutionnaire ?
J-L.I. : Le pouvoir devra immédiatement stopper toutes transactions financières internationales le temps de procéder immédiatement à la nationalisation de la Banque de France et du secteur bancaire et financier, exception faite des sociétés coopératives de banque qui présentent dans leurs principes de critères de gestion démocratiques. L'un des premiers objectifs du nouveau pouvoir devrait également consister à donner de nouveaux droits aux sociétés coopératives, tout particulièrement afin que leurs sociétaires disposent des moyens réels de faire respecter les principes de gestion par les dirigeants quand ce n'est pas le cas. La banque et la finance sont le cour de l'activité économique et c'est d'abord là que des mesures nationales et radicales doivent être prises avant d'envisager par la suite une action de proposition plus importante au niveau européen et international, à l'ONU par exemple ou par d'autres organisations internationales. De même, il devra formuler dans un second temps des propositions pour changer ces vieux outils du capitalisme (Fonds Monétaire International, Banque Mondiale, Organisation Mondiale du Commerce, etc.) Sur ces points, le gouvernement de Vladimir Poutine de la Fédération de Russie peut permettre d'avancer rapidement puisqu'il est déjà prêt à agir, à proposer et à soumettre au débat des solutions. Il ne faut pas perdre de vue que les mesures qui permettraient d'envisager un avenir meilleur sont également valables pour tous les peuples. Parler de la « réglementation de la vie économique » ou de « réguler les marchés financiers » comme le président français et ses homologues occidentaux en passant sous silence la nationalisation du secteur bancaire et financier ou la gestion démocratique des entreprises, en ne s'attaquant pas aux puissances financières c'est tromper les gens en discourant sur des promesses que l'on est décidé à l'avance à ne pas tenir. Comment peut-on prétendre contrôler et réglementer l'économie sans contrôler et réglementer les banques, le cour de la vie économique, sans unifier la « comptabilité financière » de l'Etat ?!
Geostrategie : Mais la nationalisation démocratique des banques est une opération difficile qui prendra du temps ?
J-L.I. : C'est l'idée que distillent dans l'opinion les milliardaires avec leurs médias qui ont pardessus tout peur de perdre ainsi la maîtrise de l'économie et leurs privilèges. Dans les faits cette opération qui ne présente pas de grande difficulté sur le plan technique peut aller très vite. L'individu qui aura 1500 euros sur son livret d'épargne comme celui qui possédera 15 millions d'euros sous forme d'actions, d'obligations ou autre garderont chacun ce qu'ils possèdent après la nationalisation. Ceux qui propagent l'idée inverse sont uniquement motivés par le fait d'entretenir la confusion entre nationalisation et confiscation des biens privés pour protéger leurs privilèges. Dans un premier temps, le nouveau pouvoir devra surtout voter des lois favorisant la démocratie dans les entreprises par de nouveaux droits pour la gestion et l'élection des dirigeants sur la base de leur formation, de leur compétence et de leur expérience. Les sociétés coopératives seront des outils précieux pour insuffler la démocratie dans l'économie. Comme vous avez pu le lire, je mets en valeur dans mon livre la contribution importante des sociétés coopératives au mouvement pour la gestion démocratique des entreprises en comparant leurs principes de gestion et leur vécu avec les critères des sociétés classiques ou capitalistes si vous préférez. C'est un chantier immense, ardu et passionnant.
Geostrategie : Qu'est-ce qui changerait si une telle mesure était mise en ouvre ?
J-L.I. : Disons que nous ouvririons la porte de la rupture avec le capitalisme en donnant aux acteurs de l'économie, et en premier lieu à la classe ouvrière et à ses alliés qui font fructifier le Capital par leur travail, des ouvriers des chantiers aux analystes financiers, les moyens de définir et contrôler la marche des entreprises auxquelles ils sont associés, la possibilité de s'intéresser à leur organisation, d'intervenir pour participer à leur transformation. Ce serait le début d'un long mouvement d'émancipation, d'appel aux intelligences, d'appropriation de l'économie par tous ses acteurs au profit de l'intérêt général. Par exemple, concernant les banques, comme j'en fais la démonstration dans mon livre avec l'intervention de spécialistes de la comptabilité des grandes entreprises, aucun contrôle effectif de ces établissement n'est actuellement réellement possible tant les capitalistes jouent sur des procédés extrêmement complexes et subtils pour en établir les bilans, les faire « contrôler », fonder des structures dans des places off shore, éviter l'impôt, spéculer à hauts risques avec des produits financiers ultrasophistiqués. Pourquoi avoir tant de banques qui offrent les mêmes produits financiers quand leur réunion en une seule - exception faite des banques coopératives où se trouvent en germe les principes d'une gestion authentiquement démocratique -, laissant à chacun ce qu'il possède, permettrait le contrôle réel du mouvement des capitaux au profit de l'intérêt général ? Cette nationalisation démocratique accompagnée de la démocratisation des coopératives permettrait à l'Etat de savoir où et comment circulent les capitaux, au profit de qui et de les faire revenir à l'économie réelle sous contrôle populaire. Ce serait un véritable poumon d'oxygène pour la société toute entière quand on sait qu'un niveau mondial les pertes annuelles de recettes fiscales par les gouvernements du monde provenant du seul évitement fiscal - fraude et blanchiment non compris - sont estimées à plus de 255 milliards de dollars.
Geostrategie : Les banques ont déjà été nationalisées ainsi que des sociétés transnationales. Pourtant rien n'a vraiment beaucoup changé à l'époque ?
J-L.I. : C'est exact et c'est la raison pour laquelle j'insiste sur l'aspect démocratique que devront avoir les nationalisations. Il ne s'agit pas de remplacer des dirigeants de droite par des dirigeants de gauche à la tête de ces entreprises pour que ceux-ci les gèrent de manière identique, comme des « compteurs de petits pois », sur la base de seuls critères financiers de profit maximum immédiat avec des hiérarchies bardées de pré carré, des atteintes répétées aux libertés démocratiques, une opacité de gestion et de trucage des comptes incompatibles avec la démocratie. Les dirigeants auront à mettre en ouvre immédiatement les décrets et lois du pouvoir révolutionnaire donnant de nouveaux droits aux salariés pour qu'ils puissent intervenir complètement dans la gestion, mettre un terme au détournement d'une partie des bénéfices par les dirigeants actuels des entreprises des secteurs clés de l'économie, démocratiser toutes les fonctions jusqu'à changer l'entreprise, faire que l'entreprise soit un outil au service de ses acteurs et de son environnement et non l'inverse comme aujourd'hui. C'est une étape décisive qui implique une élévation quantitative et qualitative de la conscience de ses acteurs mais également de l'environnement des professionnels qui l'accompagnent dans sa création et son développement : commissaires aux comptes, auditeurs, experts comptables, etc. Sans cela les nationalisations resteront lettre morte et deviendront, comme nous l'avons connu, des « étatisations ». C'est la raison pour laquelle ces grandes orientations du pouvoir pour aller vers une démocratie avancée doivent s'accompagner de ce que Pierrre-Henry Leroy, fondateur et dirigeant de Proxinvest, la principale société de conseil aux actionnaires, appelle « les petits pas ». Ainsi qu'il l'explique, il faudra initier des réformes plus modestes et locales qui vont dans le bon sens.
Geostrategie : Par exemple ?
J-L.I. : Par exemple d'abord décourager le grégaire et encourager la diversité d'opinion dans les marchés en mettant fin aux conflits d'intérêts des établissements financiers des groupes lors des opérations de marché. Comme le souligne Pierre-Henry Leroy, « ceci impose de recourir à des experts vraiment indépendants et non pas, comme aujourd'hui, payés et nommés par les intéressés. Une définition précise des conflits d'intérêts, des interdictions et des sanctions s'imposent. » Ou encore abolir les règlements qui alourdissent l'épanouissement de l'économie au profit de l'intérêt général, ce qui est d'autant plus facilement envisageable à partir du moment où ses acteurs disposent des moyens légaux et culturels favorisant leur intervention.
La seule issue pacifique à la crise : une révolution nationale et radicale
Geostrategie : Mais les économies étant aujourd'hui très liées d'un pays à l'autre avec la mondialisation capitaliste, pensez-vous qu'il soit possible de tenir tête aux dispositions européennes, aux règlements internationaux et aux pressions qui ne manqueraient pas de s'exercer sur une seule nation qui s'engagerait dans cette voie de rupture ?
J-L.I. : Votre question porte sur un point essentiel : le soutien du peuple à des réformes radicales. Un changement social de cette ampleur ne peut être le fait d'une seule avant-garde, aussi éclairée soit-elle. Si celle-ci est nécessaire pour formuler des propositions, porter le niveau de conscience à la hauteur des mesures indispensables, ouvrir le débat sur les questions essentielles, seul un grand soutien populaire à celles-ci peut permettre de rompre avec la situation actuelle, quelle que soit la voie de transition choisie par le peuple, électorale ou non. Le passage de la République du Venezuela d'un Etat sous domination étasunienne à un Etat démocratique, indépendant et progressiste est l'un des exemples les plus intéressants à étudier de notre époque. Toutes les attaques menées contre le gouvernement révolutionnaire du Venezuela, de l'intérieur par le grand patronat et les éléments conservateurs de l'église catholique et de l'extérieur par les Etats-Unis et d'autres pays avec certaines associations plus ou moins liées aux services étasuniens n'ont pu empêcher le processus de rupture de suivre son cours. Aujourd'hui le pays s'engage sur la construction d'une société socialiste en faisant l'apprentissage d'une authentique démocratie directe. Les secteurs clés de l'économie ont été nationalisés, les capitaux qui s'exportaient dans la poche de gros actionnaires étasuniens sont aujourd'hui injectés dans la modernisation des entreprises et des régions, des dizaines de milliers de coopératives se sont créées dans tous les domaines de l'activité économique et le pays se modernise au profit de ses citoyens. Ce qui paraissait impensable à une grande majorité du peuple se réalise aujourd'hui avec son soutien actif. Pourquoi cela a-t-il été possible malgré les accords régionaux, les règlements internationaux et les pressions de toutes sortes, jusqu'à des tentatives de coup d'Etat orchestrées par les Etats-Unis ? Parce que le peuple a su se constituer une avant-garde révolutionnaire exemplaire en bien des domaines, se rassembler, se mobiliser et le rester sur ses objectifs principaux de transformation politique et sociale radicale. Vos comprenez face à ces succès pourquoi le Venezuela révolutionnaire n'existe pratiquement pas dans les médias occidentaux. Le gouvernement français devrait se souvenir qu'il a plus besoin du Venezuela que le Venezuela n'a besoin de la France.
Geostrategie : Est-il possible de faire une telle révolution nationale et radicale en France ?
J-L.I. : Bien évidemment et c'est même la seule issue pacifique pour sortir de la crise et rompre avec le système actuel. Il est envisageable d'organiser en France le contrôle de toute la vie économique, d'opérer sa « réglementation » en la « débureaucratisant », de faire retourner à l'économie les capitaux que les capitalistes évitent de l'impôt et du développement des entreprises sans qu'il leur soit possible de dissimuler des biens et des revenus. Il n'y a nul besoin d'un appareil spécial de l'Etat puisque les salariés et les directeurs pourraient réaliser eux-mêmes la fusion immédiate de toutes les banques capitalistes en quelques semaines, par exemple sous l'autorité du ministère des Finances avec des congrès de travail réunissant les professionnels, cadres-dirigeants, représentants des propriétaires du Capital, salariés, syndicats, associations de consommateurs, etc. par banque, par région et nationalement. Il est évident que ceux qui s'y opposeraient ou feraient traîner les choses en longueur pour se livrer à des opérations malhonnêtes de dernière minute et entraver le processus de rupture en seraient exclus. Les avantages de la nationalisation du secteur bancaire seraient décisifs pour les PME, les collectivités et le peuple entier qui pourrait ainsi s'approprier les richesses qu'il crée et lui échappent. Un gouvernement qui arriverait au pouvoir avec la volonté de rompre avec le capitalisme ne peut être que nationaliste et radical. Etre nationaliste, cela veut dire donner la priorité à l'intérêt général de la communauté de territoire, de langue et de culture à laquelle on appartient. Concernant les accords régionaux ou internationaux que vous évoquiez, la petite Europe de Maastricht n'est pas un problème puisque pour ceux qui en doutaient l'expérience montre, à moins d'être complètement aveugle, qu'elle n'est qu'une organisation au service des grandes banques et des gros propriétaires privés de l'économie. Elle ne pouvait par conséquent résoudre aucun problème, quel qu'il soit, dans les sociétés qui la composent, qu'il s'agisse d'économie, de social, de culture, de liberté, de démocratie ou de droits de l'Homme. Vous remarquerez du reste que les promesses faite sur cette construction européenne par les dirigeants bourgeois et socialistes sur la fin du chômage, l'ouverture des marchés, le développement des entreprises, la solidarité entre les peuples, les libertés n'ont jamais vu le jour et que c'est même le contraire qui s'est produit. Je dresse dans mon livre un descriptif de la situation de cette petite Europe en m'appuyant sur des documents de synthèse de ses propres organismes peu connus du public. Il apparaît que celle-ci, dont les dirigeants sont si prompts à donner des leçons à d'autres peuples, est en recul sur tous les fronts. Il faut se préparer dès maintenant à construire l'Europe des peuples de Dublin à Vladivostock qui donnera la priorité aux qualités et à l'identité de chaque peuple par la recherche de coopérations mutuellement avantageuses, mettra un terme à la bureaucratie de Bruxelles engendrée par les puissances financières. Cela veut dire rompre avec l'actuelle « construction européenne », avec le traité de Maastricht et ceux qui ont suivi. Etre radical c'est avoir conscience que la classe dominante - la grande bourgeoisie - s'accrochera au pouvoir et à ses privilèges par tous les moyens et que seules des mesures radicales bénéficiant d'un fort soutien populaire permettront de la contraindre à respecter les lois nouvelles, de la renvoyer dans ses foyers et de rompre avec son système.
Le capitalisme a besoin de la guerre pour survivre
Geostrategie : La démocratie est-elle possible dans l'entreprise et tout particulièrement dans des sociétés transnationales à l'organisation complexe ?
J-L.I. : Je montre dans mon livre comment la gestion des sociétés coopératives se distingue - du moins dans celles dont les principes de gestion sont respectés - des entreprises classiques. Les entreprises coopératives sont des exemples de gestion à partir du moment où ses acteurs font respecter leurs critères de gestion par les dirigeants qu'ils élisent. Cela fonctionne dans de grandes banques comme le Crédit Mutuel en France ou le Mouvement des caisses Desjardins au Canada et peut donc très bien se mettre en place dans des PME. Chacun doit avoir conscience de la gravité de la situation car le système a aujourd'hui besoin de la guerre pour subsister. Le général russe Leonid Ivashov a mis en garde à plusieurs reprises contre la volonté des Etats-Unis de déclencher un conflit militaire majeur.
Geostrategie : .Vous voulez dire une troisième guerre mondiale ?
J-L.I. : Je dis « conflit militaire majeur » c'est-à-dire pouvant entraîner rapidement plusieurs pays dans des conflits bien plus graves que la guerre contre l'Irak ou contre la République fédérative de Yougoslavie. C'est du reste ce qu'ont tenté les Etats-Unis en foulant le droit international et en tentant de constituer une alliance de guerre contre l'Irak en passant outre l'ONU. Les Etats-Unis sont en pleine faillite, leur dette financière n'est plus remboursable et ne peut plus qu'être remise. Comme le rappelle le général Ivashov dans mon livre, tout se qui se trouve aux Etats-Unis - industries, immeubles, technologies de pointe, etc. - a été hypothéqué plus de dix fois partout dans le monde et nous sommes au bord d'un krach du système financier international sur le dollar étasunien. Le général Ivashov, qui est vice-président de l'Académie russe des problèmes géopolitiques, estime que « les banquiers mondiaux » en faillite ont besoin d'un événement de force majeure de proportions mondiales pour s'en sortir ». Selon son analyse, « l'importance des événements à venir est réellement épique. (.) Les conflits régionaux comme ceux déclenchés contre la Yougoslavie, l'Irak et l'Afghanistan ne donnent que des effets à court terme. Ils ont besoin de quelque chose de beaucoup plus important et ce besoin est urgent ». Les Etats-Unis et leurs sujets anglo-saxons n'ont pas réussi à entraîner les pays occidentaux dans leur croisade contre l'Irak. Ils tentent aujourd'hui de renouveler leur opération contre l'Afghanistan et la République Islamique d'Iran avec l'OTAN et vont de provocation en provocation pour tenter de renverser le régime légitime du peuple Iranien.
Au nom de quoi l'Occident serait-il à l'abri des guerres qu'il provoque ?
Geostrategie : Est-ce à dire que les conflits régionaux actuels peuvent gagner en ampleur ?
J-L.I. : Malheureusement l'heure est à la guerre et les dirigeants occidentaux en portent la responsabilité. Ils font régulièrement la démonstration de leur recherche d'un conflit majeur, pour sauver leur système en faillite. Ils multiplient les provocations médiatiques, économiques et armées de manière répétée contre plusieurs Etats depuis quelques années. Par exemple, les dirigeants Français mènent des opérations militaires hors frontières contre des peuples (Comores, Afrique, Albanie, Kosovo, Bosnie, Afghanistan, etc.) avec une structure militaire, le Commandement des Opérations Spéciales dont le siège est basé à Villacoublay (Yvelines) en région parisienne, la plupart du temps sans consultation du Parlement. L'armée n'est plus au service de la défense du pays tous azimuts mais des besoins des sociétés transnationales et des guerres étasuniennes. Il semble que le président Sarközy de Nagy-Bocsa n'ait pas compris que le retour en puissance sur la scène internationale de la Fédération de Russie, de la République Populaire de Chine, de l'Inde et de l'Amérique latine et centrale mette un terme aux schémas idéologiques et aux alliances des années soixante-dix. Les français peuvent du reste interpeller leurs députés sur ces opérations militaires en se servant de mon livre puisque celles-ci vont leur coûter en 2009 plus d'un milliard d'euros avec l'invasion et l'occupation de l'Afghanistan. Aujourd'hui, le mot d'ordre des militants nationalistes et révolutionnaires doit être « Troupes françaises hors d'Afrique ! », « Troupes françaises hors d'Afghanistan ! » L'action doit se développer afin d'entraver par tous les moyens le fonctionnement des troupes d'invasion et les centres nerveux des Etats qui participent à ces opérations militaires meurtrières dans lesquelles périssent de nombreux civils. Le temps de la guerre qui se déroule à plusieurs heures d'avion des capitales occidentales sans répercussions pour l'agresseur est révolu.
Geostrategie : Selon vous ces conflits sont donc susceptibles aujourd'hui d'avoir des répercussions en Occident même ?
J-L.I. : Les occidentaux doivent comprendre que les bombes qu'ils lâchent sur les autres peuples, que l'uranium appauvri que les armées étasuniennes, françaises et anglaises n'ont pas hésité à utiliser en 1991 lors de la guerre du Golfe, puis en Bosnie en 1995, puis encore contre la Serbie en 1999, puis à nouveau contre l'Irak en 2003 avec les conséquences dramatiques pour les êtres humains et l'environnement peut aussi se répandre au cour de leurs propres villes, de leurs repaires économiques, financiers et militaires. Comme le rapporte le contre-amiral Claude Gaucherand, à l'hôpital pour enfants de Bassorah, en Irak, l'une des plus modernes maternité du monde arabo-musulman avant la guerre, où naissaient 12000 enfants par an, les femmes qui accouchent ne disent plus « fille ou garçon » mais « monstre ou être humain ? » Les cas de leucémie ont été multipliés par 13 et les cancers par 6 en douze ans et ces chiffres ne font qu'augmenter. Il faut également savoir que le plus moderne institut de production de vaccins du Proche-Orient qui fût créé dans les années 1980 par une coopération de l'Irak avec les établissements Mérieux a été détruit par l'ONU et ses envoyés de l'UNISCOM avec des conséquences dramatiques pour les populations et les animaux bien au-delà de l'Irak et de sa région. L'utilisation de telles armes comme le déclenchement des guerres sans consultation du Parlement fait des dirigeants de l'époque des criminels de guerre. Donnez-moi une seule raison qui justifierait que les populations occidentales soient à l'abri des guerres offensives qu'elles laissent financer avec leurs deniers par leurs dirigeants et leurs représentants sans sourciller ? Les bombes ne seraient-elles bonnes que pour les enfants Serbes, Palestiniens, Irakiens, Africains ou Afghans ? Ce temps là est bien fini.
Les fraudeurs ne sont pas à Téhéran mais à l'UMP
Geostrategie : Les politiciens et médias occidentaux parlent de « dictature » et de « révolution manquée » contre le régime de Téhéran, menaçant d'intervenir pour la protection des droits de l'Homme. Quel est votre avis sur l'évolution de la situation en Iran ?
J-L.I. : Premièrement, le peuple Iranien a réélu le président Ahmadinedjad avec une écrasante majorité, bien plus large que celle que le peuple français a donnée au président français lors de l'élection présidentielle de 2006. Permettez-moi de souligner au passage que l'élection du président français ne respecte même pas la loi qui prévoit qu'aucun citoyen ne peut porter de nom autre que celui exprimé dans son acte de naissance, à savoir pour ce fils d'émigrés juifs hongrois, Nicolas Sarközy de Nagy-Bocsa. Visiblement, « de Nagy-Bocsa » est resté de l'autre côté de la frontière du bulletin de vote. Ensuite, je ne pense pas que le président français et son parti, l'UMP, dont une ribambelle d'élus ont vu leur élection annulée dans différents scrutins parce qu'ils avaient triché - Serge Dassault le « jeune » sénateur-maire UMP de 84 ans de Corbeil-Essonne, fabricant d'armes, a été déclaré inéligible pour un an par le Conseil d'Etat et accusé d'avoir acheté des voix ! - soient en mesure de donner des leçons de démocratie électorale à l'Iran. Ils le sont d'autant moins que d'autres élus de l'UMP ont été également déboutés de leur tentative de remettre en cause plusieurs résultats de scrutin au prétexte que ceux-ci ne leur étaient pas favorables. Le parti des fraudeurs n'est pas à Téhéran mais bien en France. L'UMP est d'ailleurs coutumier de «putsch » contre le peuple et la démocratie.
Geostrategie : « Putsch » contre la démocratie, c'est-à-dire ?
J-L.I. : Je rappelle que le 23 mars 1999, les représentants des dix-neuf pays de l'OTAN ont déclenché les frappes aériennes contre la République Fédérative de Yougoslavie sans consultation des parlements. Puis, ils ont violé une nouvelle fois la Constitution française en 2001 quand le Premier ministre « socialiste » Lionel Jospin a, d'un commun accord avec le président UMP Jacques Chirac, décidé de participer à l'invasion et à l'occupation de l'Afghanistan. Depuis les choses n'ont fait que s'aggraver et les opérations militaires extérieures pèsent de plus en plus lourdement dans le budget de l'Etat. J'ajoute que la France participe au soutien de dictatures sur le continent Africain où elle n'a rien à faire et dont elle ne conteste du reste pas les élections de dirigeants, réellement truquées celles-ci. Et voilà qu'aujourd'hui, avec leurs homologues de la petite Europe de Maastricht, ils s'entendent pour faire revoter les Irlandais qui se sont prononcés majoritairement contre le traité de Lisbonne et dont le vote ne leur convient pas ! Et ce sont ces dirigeants français qui ont la prétention de donner des leçons de démocratie à l'Iran ? Ce n'est pas sérieux. Cette réalité n'est que celle d'une classe sociale, la grande bourgeoisie, qui s'accroche au pouvoir par tous les moyens, jusqu'à la guerre, pour sauvegarder ses privilèges
Un fait dont personne ne parle
Geostrategie : Les reproches formulés au gouvernement iranien par les dirigeants occidentaux procèdent-ils de la volonté de chercher un conflit majeur ? S'agit-il d'une opération concertée ?
J-L.I. : Oui. Plusieurs éléments prouvent que nous assistons à une tentative de déstabilisation du gouvernement Iranien réparée de longue date par les services étasuniens avec la collaboration de membres de services occidentaux et sionistes. La stratégie est la même que celle employée pour la prétendue « révolution orange » en Ukraine ou dans d'autres pays comme la Géorgie avec d'autres couleurs et d'autres valets. Vous retrouvez derrière ces « candidats de la liberté » les mêmes associations financées par des annexes des services étasuniens, les mêmes bailleurs de fonds, les mêmes campagnes médiatiques spontanées avec manifestations, pancartes, mots d'ordre en anglais, provocations, etc. Malheureusement les occidentaux, tous particulièrement les étasuniens, les anglais et les français, devront se faire à l'idée que le président Ahmadinejad jouit d'un fort soutien populaire et de la confiance des forces révolutionnaires d'Iran. J'attire du reste votre attention sur un fait dont personne ne parle : ces conservateurs petits bourgeois qui se présentent comme des défenseurs de la « liberté », de la « démocratie » et des « droits de l'Homme » ont tous le même programme politique : « libérer » l'économie. Cela signifie privatiser avec les conséquences qui s'en suivraient pour le peuple, tout particulièrement dans le domaine de l'énergie puisque l'Iran est un grand pays producteur de pétrole. Avez-vous remarqué le silence entretenu par les médias occidentaux sur le programme politique de cette opposition ? Je ferai le reproche aux dirigeants iraniens de ne pas suffisamment mettre en avant les acquis de la Révolution islamique qui a libéré le pays du joug de l'étranger et a permis de consacrer au développement économique et social des capitaux qui partaient auparavant dans la poche des gros actionnaires des sociétés occidentales. La République Islamique d'Iran se modernise, y compris par la maîtrise de l'énergie nucléaire, et contrôle son activité économique au profit de toute la société : voilà ce que ne supportent pas les occidentaux, français compris, dont les milliardaires dirigeants des sociétés transnationales convoitent les richesses et la place stratégique. Il est évident qu'un Hossein Moussavi comme tout autre dirigeant soutenu par les occidentaux permettrait à Israël de poursuivre tranquillement le génocide du peuple Palestinien sans que cette entité ait à répondre régionalement et internationalement de ses crimes. La politique de paix développée par l'Iran s'accompagne forcément d'une dénonciation de la réalité de la politique raciste et belliciste de l'entité sioniste, que cela plaise ou non. Il ne peut y avoir d'aboutissement à plus de soixante années de conflit sans que la réalité des faits soit posée sur la table.
Il est temps d'en finir avec « l'Etat » raciste israélien
Geostrategie : La communauté internationale peut-elle encore jouer un rôle dans le règlement de la question juive au Proche Orient ?
J-L.I. : La communauté internationale n'existe plus depuis longtemps Pour qu'elle existe encore faudrait-il qu'il y ait une volonté politique commune de régler les conflits dans l'intérêt des peuples, ce qui n'est plus le cas, tout particulièrement avec ce que l'on appelle « l'Etat » d'Israël. Le président Ahmadinejad a souligné avec raison, lors de son intervention à la tribune des Nations Unies à Genève le 11 avril dernier qu' « après la deuxième guerre mondiale, sous prétexte « des souffrances des juifs », un groupe de pays puissants a eu recours à l'agression militaire pour faire d'une nation entière une population sans abri. Ces pays ont envoyé des migrants d'Europe, des Etats-Unis et d'ailleurs pour établir un gouvernement totalement raciste en Palestine occupée. Il est tout à fait regrettable qu'un certain nombre de gouvernements occidentaux ainsi que les Etats-Unis aient entrepris de défendre ces racistes auteurs de génocide. Ils ont toujours soutenu les actes odieux du régime sioniste ou sont resté silencieux face à ces actes ». Tout cela n'est que la triste vérité et nous sommes aujourd'hui confrontés à une peste sioniste qui se répand comme un poison de manière analogue à celles des nazis : pureté de la « race » qui place le juif , « peuple élu », au-dessus de tout autre être humain - et je vous renvoie sur ce point à La question juive écrit par le juif allemand Karl Marx -, implantation de colonies qui répond au besoin d'espace vital à l'image de l'ancien Reich allemand, populations chassées à coups d'interventions militaires, villages rasés, terres spoliées, torture, etc. L'ouvrage de Serge Thion, Le terrorisme sioniste,(5) est sur ce point révélateur de la terreur qui accompagne l'occupation de la Palestine par l'entité sioniste depuis 1947. Israël n'est pas un Etat mais une entité raciste sans frontières définies et sans constitution. C'est l'amie assassine du président Sarközy de Nagy-Bocsa dont l'historien Paul-Eric Blanrue décrit fort bien l'introduction dans l'appareil d'Etat français dans son ouvrage Sarkozy, Israël et les juifs.(6)
Geostrategie : Vous êtes l'un des rares journalistes français à soutenir l'intervention du président Ahmadinejad. Selon vous, le président Iranien n'a fait que rapporter la réalité des faits à la tribune de l'ONU ?
J-L.I. : L'un des rares à le soutenir ? Je ne pense pas. Sans doute dans les salons dorés des capitales occidentales et de l'ONU à Genève - et encore car il y fût applaudi par la grande majorité des participants à la déception des représentants occidentaux. Je renvoie ceux qui doutent de la triste réalité de la Palestine occupée et du racisme de l'entité sioniste à se rendre dans les pays arabes. Je ne parle pas de descendre dans les hôtels cinq étoiles pour l'interview d'une personnalité et de partager le reste de son temps entre le bar et la piscine de l'hôtel comme le font certains journalistes occidentaux. Je parle de vivre avec le peuple, d'aller à sa rencontre, de l'écouter, d'essayer de le comprendre. Ils verront alors que le président iranien jouit d'une grande popularité dans le monde arabo-musulman. Par ailleurs, un rapport de la Fédération Internationale des Droits de l'Homme qui fait suite à une importante mission d'enquête en Israël rapporte, je cite, « les nombreuses discriminations raciales (.) tant légalisées qu'empiriques, sans aucun fondement de quelque nature que ce soit » qui constituent « une violation à la Déclaration universelle des droits de l'homme, au Pacte international relatif aux droits civiques et politiques, au Pacte international relatif aux droits économiques, sociaux et culturels et à la Convention internationale pour l'élimination de toutes les formes de discrimination raciale ». Il est évident que si les occidentaux continuent de soutenir une telle entité raciste, ils devront finir par assumer également la responsabilité du génocide du peuple Palestinien et de la guerre qui se prépare. Depuis 62 ans cette entité viole toutes les lois internationales, procède à une véritable épuration ethnique de la Palestine, refuse d'appliquer les résolutions de l'ONU et poursuit sa guerre d'occupation et d'expansion à l'abri du discours trompeur de ses dirigeants. Vous seriez enfant Palestinien et vous auriez vu votre famille décimée sous les bombes sionistes ou chassée de sa terre, pensez-vous que vous continueriez d'applaudir aux rencontres diplomatiques sans lendemain avec un occupant qui piétine la diplomatie et les pactes internationaux jusqu'au sein de l'ONU ? Quant aux dirigeants des pays arabes au pouvoir qui ne sont, exception faite de la Syrie, que des modérés corrompus agenouillés devant les occidentaux, ils portent une lourde responsabilité dans l'extermination du peuple Palestinien et la présence coloniale dans cette région du monde.
Geopolitique : Dans de telles conditions, pensez-vous qu'après tant d'années une solution diplomatique puisse encore être trouvée ?
J-L.I. : En refusant toute véritable négociation pour que la Palestine retrouve l'intégralité de sa terre et ses droits, l'entité sioniste empoisonne la vie politique internationale et diplomatique depuis plus d'un demi-siècle. Ce racisme religieux que les occidentaux et l'ONU refusent de combattre oblige à considérer que la seule alternative qui reste désormais pour en finir avec Israël est la guerre. Que voulez-vous qu'il reste quand des dirigeants refusent de voir la réalité des choses, d'entendre la voie de la diplomatie et donc de la sagesse ? Ainsi que je le rapporte dans mon livre, une mission d'enquête de la Fédération Internationale des Droits de l'Homme conclut que « le projet politique fondateur de l'Etat d'Israël, l'instauration d'un « Etat juif » est porteur d'une discrimination à l'égard de la population non juive ». Si « l'Etat d'Israël est « l'Etat des juifs » comme le stipule l'article 7 de la loi fondamentale sur la Knesset, alors tout juif qui se trouve en dehors de cet Etat doit être considéré comme immigré. Une liste noire des Etats et sociétés qui commercent avec Israël, fournissent à cette entité du gaz, du pétrole - comme la Fédération de Russie, la Turquie, la Géorgie et quelques autres -, des armes et autres bien de consommation doit être dressée afin de dénoncer publiquement leur participation au massacre du peuple Palestinien et d'organiser un boycott progressif et massif de leur commerce. Il faut ainsi s'opposer comme le font une centaine d'organisations, de partis politiques, d'associations, y compris juives, à l'implantation de la société israélienne Agrexco à Sète et ailleurs en France. Ce n'est qu'un aspect du combat qu'il faut aujourd'hui mener contre cette entité raciste jusqu'à la contraindre à la raison car chaque jour elle vole la vie et la terre des Palestiniens.
Renforcer l'action commune des peuples contre l'impérialisme
Geostrategie : Revenons à l'Iran. Pensez-vous que la République Islamique d'Iran puisse affronter la crise provoquée par les occidentaux ?
J-L.I. : Crise est un bien grand mot. Je parlerai plutôt de nouvelle provocation occidentale et d'ingérence dans les affaires du peuple iranien. Non seulement elle le peut mais elle en sortira renforcée. Il faut savoir qu' au-delà d'un appareil d'Etat en pleine modernisation, la République Islamique d'Iran dispose de militants révolutionnaires aguerris à la lutte contre les provocations occidentales, d'une jeunesse formée dans les écoles et Universités ouvertes à toutes les couches de la population qui soutient majoritairement le régime contrairement à ce que diffusent les médias occidentaux, de penseurs et d'intellectuels riches de la culture perse, d'une religion avec laquelle la corruption et l'enrichissement personnel contre l'intérêt général ne sont pas compatibles. Il ne faut pas oublier qu'en août 1953 les occidentaux ont eux-mêmes préparé le coup d'Etat pour renverser le régime démocratique de Mohammad Mossadegh afin d'installer au pouvoir la dictature des Pahlavi qui a plongé l'Iran dans un bain de sang. Quelques mois après son installation au pouvoir par les occidentaux, en 1954, un consortium composé de compagnies étasuniennes, anglaises, françaises et hollandaises se mettait en place pour gérer l'exploitation pétrolière de l'Iran au profit des actionnaires des grandes compagnies occidentales. Un véritable pillage de l'Iran s'est ainsi opéré pendant près de vingt-six années de dictature jusqu'à la Révolution islamique en 1978 et 1979. Il est évident que les dirigeants occidentaux entendent aujourd'hui dicter de nouveau à l'Iran sa politique économique tantôt en lui interdisant d'utiliser l'énergie nucléaire, tantôt en le menaçant, tantôt en exerçant des pressions économiques ou en essayant de déstabiliser son régime démocratiquement élu pour imposer une marionnette à leur solde afin de s'approprier ses richesses.
Geostrategie : Mais vous êtes vous-même athée et vous soutenez le pouvoir religieux de Téhéran ?
J-L.I. : Où est le problème ? Notre foi n'est pas la même mais je constate que le régime de Téhéran défend l'indépendance économique du pays, les nationalisations - même si celles-ci doivent aujourd'hui passer à un niveau qualitatif supérieur - et donc la possibilité pour le peuple Iranien d'améliorer ses conditions d'existence en participant plus fortement à la vie économique. On ne peut en dire de même du Vatican ou de l'entité sioniste qui sont deux des principales destinations du blanchiment de l'argent du crime organisé et du commerce des armes, ni des Etats-Unis avec leurs 60 millions de pauvres où la misère, contrairement à la République Islamique d'Iran, est en pleine expansion ! Quant à l'Union Européenne, donneuse de leçon de droits de l'Homme elle devrait commencer par s'occuper de ses 20 millions de chômeurs, de ses 70 millions de citoyens mal logés, de ses 80 millions d'autres qui courent un risque de pauvreté dont « la moitié d'entre eux est dans une situation de pauvreté durable » si j'en crois le Rapport conjoint 2008 sur la protection sociale et l'inclusion sociale de la Commission européenne ! Où sont les droits de l'homme pour ces habitants de la petite Europe ? Par ailleurs, la France a fait le choix de servir de refuge à une organisation armée logée à Auvers-sur-Oise, en région parisienne, qui était, voici peu de temps, classé sur la liste noire des mouvements terroristes du Département d'Etat étasunien et de l'Union Européenne. Elle vient d'en être retirée car les dirigeants anglo-saxons ont réalisé qu'ils avaient besoin de l'instrumentaliser pour développer une grande campagne contre la République Islamique d'Iran. Tout ce qui peut leur servir contre l'Iran révolutionnaire est bon. Il serait du reste intéressant de savoir de qui cette organisation reçoit des fonds et des armes en quantité impressionnante. Le gouvernement français devrait prendre garde. Que n'entendrait-on si l'Iran abritait sur son sol une organisation dont le but avoué serait de renverser le gouvernement français ?! Sans intervenir dans les affaires intérieures iraniennes, je pense que les dirigeants iraniens devraient revoir les conditions des échanges avec les pays de l'Union Européenne, tout particulièrement la France, et choisir des partenaires commerciaux plus fiables et respectueux de l'indépendance des peuples. Cela vaut pour l'Iran comme pour tous les peuples qui se lèvent sur tous les continents et qui doivent, au-delà de leurs croyances différentes, se rapprocher pour agir en commun contre l'impérialisme.
Geostrategie : Le conflit majeur dont vous parlez pourrait prendre des formes nouvelles ?
J-L.I. : Je le pense car les occidentaux semblent oublier qu'il ne peut y avoir de second Hiroshima puisque cela signifierait la fin de l'Humanité. Le président étasunien Obama qui a pris un ton aux relents de guerre froide vis-à-vis de la Fédération de Russie devrait bien réfléchir à changer d'attitude contre le cour de l'Eurasie. De même, son implication et celle de son administration - CIA, Institut de l'hémisphère occidental pour la sécurité et la coopération(7) et Commandement Sud des Etats-Unis (Southcom) - dans le coup d'Etat en juin dernier contre Manuel Zelaya, président démocratiquement élu du Honduras, ne fait que confirmer la poursuite de la politique belliciste et agressive de ses prédécesseurs. Vous constaterez au passage la disproportion du traitement dans les médias français entre le coup d'Etat étasunien au Honduras avec des centaines de morts et des milliers d'arrestations qui n'ont eu droit qu'à quelques toutes petites minutes d'antenne et le coup d'Etat manqué des occidentaux en Iran qui a fait chaque jour l'objet de commentaires aussi faux qu'abondants. Les Etats-Unis ne sont plus en état de dicter leur volonté au monde et leur président va devoir faire front sur le plan intérieur aux déceptions qui vont naître des promesses qu'il a faites pour être élu et qu'il ne pourra tenir. Sur le plan extérieur les guerres qu'il entretient et les nouvelles qu'il cherche à provoquer vont accroître l'endettement et contribuer au processus d'affaiblissement majeur des Etats-Unis et du capitalisme en faillite. Imaginez ce qu'il adviendrait de la société étasunienne dans un tel contexte politique, économique et social si son président noir était victime d'un odieux attentat raciste perpétré par un groupe sioniste ou des miliciens extrémistes blancs ?!. Imaginez ce qu'il adviendrait demain si les images captées par satellite et caméras sur le prétendu attentat contre le Pentagone en septembre 2001 étaient publiées ? Certains responsables du Federal Bureau of Investigation en ont une idée pour avoir fait saisir aux Etats-Unis certaines de ces bandes vidéos.Il est étrange, ne trouvez-vous pas, que cette manipulation et mise en scène hollywoodienne ait échappé aux « yeux du ciel » pour l'un des bâtiments les plus surveillés de la planète ? Sans doute faut-il encore laisser du temps au temps. Les occidentaux ne sont plus les seuls à maîtriser les nouvelles technologies et les peuples à qui ils ont pris leurs familles, leurs terres, leurs richesses, leur espoir, leur avenir n'ont plus rien à perdre. Ces « terroristes » là seront les libérateurs d'aujourd'hui comme l'étaient hier communistes et sans partis dans la Résistance contre le nazisme. A mains nues ou en costume cravate nous devons être à leurs côtés car pour eux comme pour nous, l'avenir c'est aujourd'hui la révolution ou la guerre.
Notes :
(1) Diplômé de l'Ecole des Hautes Sociales, de l'Ecole des Hautes Etudes Internationales et de l'ESJ, Jean-Loup Izambert est un journaliste indépendant qui a également exercé comme conseil en communication politique et communication de crise. Spécialisé depuis les années quatre-vingt cinq dans l'investigation économique, politique et financière, il est notamment l'auteur de plusieurs ouvrages : Le krach des 40 banques (Ed. du Félin, 1998), Le Crédit Agricole hors la loi ? (Ed. Carnot, 2001), Crédit Lyonnais, la mascarade (Ed. Carnot, 2003), ONU, violations humaines (Ed. Carnot, 2003), Faut-il brûler l'ONU ? (Ed. du Rocher, 2004), Les Démons du Crédit Agricole (Ed. L'Arganier, 2005), Pourquoi la crise ? (Ed. Amalthée, 2009)
(2) Lire Résistance, n°56, juin 2009 et le site Internet voxnr.com
(3) Source : Organisation Internationale du Travail.
(4) Source : Rapport sur les aides publiques aux entreprises, Inspection générale des Finances, des Affaires sociales et de l'Administration, janvier 2007.
(5) Le terrorisme sioniste, par Serge Thion, Ed. Akribeia, Paris (disponible ici).
(6) Sarkozy, Israël et les juifs, par Paul-Eric Blanrue, Ed. Oser dire (disponible ici).
(7) L'institut de l'hémisphère occidental pour la sécurité et la coopération, aussi appelé « Ecole américaine » est un centre d'entraînement et de formation étasunien destiné à former des militaires et commandos pour contrer les forces progressistes et révolutionnaires du continent d'Amérique centrale et latine. Plusieurs chef militaires des dernières dictatures de ce continent soutenues par Washington en sont issus.
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mercredi, 02 septembre 2009
Partout l'état d'urgence! Les nouveaux visages de la guerre au 21ème siècle
Michael WIESBERG:
Partout l’état d’urgence: les nouveaux visages de la guerre au 21ème siècle
Il n’y a pas de guerre ! Voilà le message que le ministre allemand de la défense Franz Josef Jung (CDU) veut faire passer ces jours-ci, lorsqu’on évoque l’engagement de l’armée allemande en Afghanistan. Depuis la mort de trois soldats de la Bundeswehr dans un combat à l’arme à feu et depuis la participation de la Bundeswehr à une offensive militaire qui vient de s’achever, où l’on a utilisé des blindés et des armes lourdes, Jung est désormais bien le seul à défendre son point de vue. Partout où des soldats sont amenés à ouvrir le feu ou à essuyer des tirs, il y a la guerre, du moins pour ceux qui conservent le sens commun. Et même si de tels combats sont baptisés “mission de paix” dans le nouveau langage euphémisant de la communication. Jung ne parle pas de guerre pour des raisons qui touchent au droit des gens: en effet, s’il s’agissait d’une “guerre”, on devrait accorder aux talibans le “statut de combattant”. Leurs activités deviendraient ipso facto des actes belliqueux légitimes.
Wolfgang Schneiderhan, le plus haut gradé des forces armées allemandes, parle, lui, un langage plus clair: il nous explique que nous trouvons impliqués dans un “conflit asymétrique” et qu’il entend dès lors parier pour un “effet de dissuasion”. Cependant Schneiderhan doit tout de même savoir qu’un “conflit asymétrique” possède toutes les caractéristiques d’une guerre, mais s’il s’agit d’une forme de guerre qui a peu de chose à voir avec ce que l’on entendait par “guerre” en Europe jusqu’à la fin du conflit Est/Ouest.
Notamment par l’impact des travaux du politologue berlinois Herfried Münkler, on commence de plus en plus souvent à définir ces guerres comme de “nouvelles guerres”; et Münkler entend par “nouvelles guerres” celles qui ont pour objet la maîtrise des ressources, celles qui cherchent à imposer une pacification ainsi que les guerres de destruction à motivation terroriste. Les deux premiers types de guerre ont pour exemples la guerre contre l’Irak de 2003 et la guerre du Kosovo de 1999. On pourrait aussi les nommer “guerres pour le Nouvel Ordre Mondial”: elles serviraient alors à consolider les “grands espaces” émergeants. Vu le coût exorbitant de ces guerres, elles ne pourraient plus être menées que par les Etats-Unis seuls ou uniquement dans des cas exceptionnels (par exemple une frappe militaire contre le programme atomique iranien?). La même règle vaudrait aussi pour les puissances régionales ou les autres puissances mondiales comme l’Inde, la Chine ou la Russie.
Si l’on compare ces guerres actuelles aux guerres d’antan, une chose saute aux yeux: à la place d’armées régulières, nous voyons désormais se manifester sur le terrain des acteurs très différents les uns des autres: cela va des forces d’intervention dûment dotées d’un mandat délivré par une organisation internationale aux terroristes, en passant par les firmes militaires privées comme la “Blackwater Security Consulting” ou par les “Warlords” (les seigneurs de la guerre), équipant et dirigeant leurs armées personnelles. Les meilleurs exemples que nous pourrions citer se trouvent aujourd’hui en Afrique: les guerres y sont menées généralement par des “guerriers” recrutés au hasard, dont bon nombre sont des “enfants-soldats”. Tous les experts sont d’accord pour dire que les guerres de ce type réduisent considérablement les difficultés pour accéder à l’état de parti belligérant, ce qui entraîne des conséquences de grande ampleur pour les Etats concernés: les armées privées échappent non seulement au contrôle de l’Etat, seule instance autorisée à user de violence, mais accélèrent le déclin de l’Etat et favorisent l’éclosion de la corruption et de la criminalité organisée. Conséquence: sur la carte du monde, on voit apparaître de plus en plus de zones “incontrôlées”.
Le mode même des “conflits asymétriques”, tels que les pratiquent les seigneurs de la guerre et les terroristes, frappent directement la population civile qui est consciemment impliquée dans les combats, en étant soit la cible d’attentats soit acteur dans les opérations logistiques. Dans une telle situation, un acquis du droit des gens en cas de guerre vient à disparaître: la distinction entre combattants et non combattants.
Mais il n’y a pas qu’à ce niveau-là que s’estompent les distinctions. L’envoi de forces internationales, qui ont pour mission de pacifier une région donnée, conduit à estomper la distinction entre “guerre” et “action de police”, entre le rôle d’une police et celui d’une armée, dans les régions en crise; d’un côté, la police est contrainte de garantir la sécurité intérieure avec des moyens de plus en plus militarisés et, de l’autre, les forces armées mènent des guerres que les médias internationaux définissent par euphémisme comme des “missions de police”. Les Etats-Unis surtout font appel à des armées privées, composées de mercenaires, pour soutenir leur armée officielle; ces mercenaires, selon les critères du droit des gens, sont certes considérés comme des “combattants illégaux”, mais ils s’avèrent indispensables pour toute superpuissance interventionniste comme les Etats-Unis, vu la rapidité avec laquelle ils peuvent être envoyés sur le terrain.
La volonté d’intervention globale des Etats-Unis laisse augurer que les conflits contre les terroristes resteront longtemps encore à l’ordre du jour de la politique occidentale. Dans l’avenir, pour parler comme Carl Schmitt, la lutte anti-terroristes deviendra un “état d’exception permanent” à l’échelle du globe tout entier. En d’autres mots: nulle part dans le monde nous n’aurons ni véritable paix ni véritable guerre.
La situation se révèle encore plus grave parce que quasiment personne ne comprend les objectifs pour lesquels luttent les terroristes; dans le cas des talibans, c’est pour réétablir un Etat théocratique islamique. Ces objectifs apparaissent aux yeux de l’Occident irréalisables et c’est pourquoi le courage face à la mort de ces “criminels” (dixit Jung) irrite. D’après Münkler, c’est là qu’il faut percevoir une lacune dans “l’auto-affirmation politique de l’Occident”: les Etat de facture moderne, qui, de plus, présentent des taux de natalité insuffisants, sont des “sociétés post-héroïques” auquel se heurte le “potentiel d’héroïsme” de sociétés jeunes, héroïsme qui se justifie par des religiosités sotériologiques ou par le nationalisme. C’est la raison qui explique pourquoi, dans de tels conflits, les terroristes ou les insurgés gagnent la bataille, malgré l’utilisation par leurs adversaires des technologies militaires les plus avancées.
L’historien militaire israélien Martin van Creveld ne voit que deux pistes pour s’en sortir avec succès: le “massacre” délibéré, perpétré sans le moindre état d’âme, comme le perpétra le régime d’Assad à Hama contre les frères musulmans ou le renoncement aux armes lourdes, tout en acceptant la longue durée, comme l’avaient pratiqué les Britanniques en Irlande du Nord. Aucune de ces pistes n’est plus empruntable en Afghanistan aujourd’hui, si bien qu’il pourrait bien arriver ce que van Creveld annonce depuis longtemps: une guerre d’usure, qui broie le moral des soldats, même les plus endurants. Ce serait là un avertissement bien fatidique pour tous les conflits à venir.
Michael WIESBERG.
(article paru dans “Junge Freiheit”, Berlin, n°34/2009; trad. franç.: Robert Steuckers).
00:25 Publié dans Actualité | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : guerre, polémologie, afghanistan, allemagne, moyen orient, histoire | | del.icio.us | | Digg | Facebook
samedi, 08 août 2009
1979: Guerres secrètes au Moyent Orient
1979: Guerres secrètes au Moyen Orient
L’incroyable année 1979 a vu se succéder des événements qui ont changé le cours de notre histoire : révolution iranienne, accords de Camp David, prise d’otages de La Mecque et de l’ambassade américaine à Téhéran, et enfin, invasion soviétique de l’Afghanistan… Voici comment, pendant cette période, la France a cru pouvoir manipuler l’ayatollah Khomeiny et prendre en Iran la place des Américains, comment le Mossad a organisé, en pleine révolution islamique, l’exode clandestin de dizaines de milliers de Juifs iraniens, et comment le royaume saoudien a fait appel au GIGN français pour libérer les lieux saints de l’islam occupés par des terroristes avec, à la clé, une récompense inattendue. On lève ici le voile sur les complicités occidentales qui ont permis au Pakistan, bien avant l’Iran, de mettre sur pied le premier programme nucléaire islamique et l’on découvre de quelle manière les services de renseignement saoudiens et pakistanais ont organisé les réseaux de financement et d’armement d’intégristes prêts à se retourner contre l’Occident. Les services secrets de tous bords – CIA, Sdece, Mossad… – et les présidents Carter et Giscard d’Estaing ont joué dans cette époque agitée un rôle crucial et parfois trouble, entraînant une série de réactions en chaîne. En quelques mois, le Moyen-Orient a basculé, et le monde entier avec lui, favorisant l’avènement d’un islamisme radical aujourd’hui florissant.
Yvonnick Denoël est éditeur et historien. Il a notamment publié Le livre noir de la CIA (Nouveau Monde éditions, 2007).
Disponible sur Amazon
14:32 Publié dans Histoire | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : histoire, années 70, géopolitique, moyen orient, guerre, iran | | del.icio.us | | Digg | Facebook
mardi, 28 juillet 2009
Le débarquement à Dieppe fut-il un fiasco?
Erich KÖRNER-LAKATOS:
Le débarquement à Dieppe fut-il un fiasco?
19 août 1942: dans le courant de l’après-midi la “radio grande-allemande” annonce une nouvelle depuis le quartier général du Führer, le Werwolf, situé alors près de Vinnitza en Ukraine. Après l’habituel morceau de musique, les auditeurs apprennent par leur poste qu’une “invasion” vient d’échouer à l’Ouest.
“Le Commandement suprême de la Wehrmacht fait savoir qu’un débarquement de grande ampleur de troupes anglaises, américaines, canadiennes et gaullistes, dont les effectifs s’élèvent à une division pour la première vague, a eu lieu dans les premières heures de la matinée près de Dieppe sur la côte française de la Manche; cette tentative de débarquement a bénéficié de l’appui de forces navales et aériennes importantes et a été soutenue par des blindés; les forces allemandes chargées de défendre la côte ont brisé l’élan de l’ennemi qui avait essuyé des pertes élevées et sanglantes (...)”.
Un mois plus tôt, le 22 juillet 1942, Staline avait exigé, sur le ton de l’ultimatum, que ses alliés occidentaux ouvrissent un second front. En effet, le dictateur soviétique venait d’encaisser l’offensive estivale du groupe d’armées allemandes “Süd”: ses défenses étaient profondément ébranlées et il demandait qu’une offensive à l’Ouest soulage ses propres troupes. Ce sera surtout son représentant à Washington, son ancien ministre des affaires étrangères, Maxime Litvinov, qui insistera pour que les Occidentaux prennent des mesures concrètes. Winston Churchill temporise, promet aux Russes qu’il agira dans un an, car un débarquement exige des préparations de grande ampleur. La première tentative de s’incruster sur le sol français sera donc ce débarquement offensif, tenté sur les côtes normandes de la Manche, près de Dieppe.
Cette petite ville se situe dans le département de Seine-Maritime, à environ cent kilomètres au nord-est du Havre. Dès le départ, la tentative de débarquement des Alliés, dont le nom de code était “Jubilee”, connut la malchance. Une partie des trois à quatre cents navires de débarquement rencontra, quand la nuit était encore noire, un convoi de la marine allemande, chargé de surveiller le littoral. Elle perdit ainsi d’emblée tout effet de surprise.
A six heures du matin, le débarquement commence en trois endroits. 6100 hommes mettent pied à terre, pour la plupart appartenant à la 2ème Division canadienne du Général Roberts. Des unités de commandos de la Royal Navy les assistent.
L’ensemble de l’opération s’effectue sous un parapluie aérien de centaines de Spitfires et Hurricanes. Mais les attaquants se heurtent à une forte résistance, à laquelle ils ne s’attendaient pas: celle des hommes du 71ème Régiment d’infanterie du Lieutenant-Colonel allemand Bartel. L’artillerie côtière allemande est bien placée et les chasseurs Focke-Wulf procurent un appui-feu appréciable.
Les Canadiens sont plus nombreux mais inexpérimentés: ils ne font pas le poids devant les soldats éprouvés de la Wehrmacht dans les combats rapprochés le long des plages. Dans le ciel, toutefois, aucun des deux camps n’a le dessus: les Anglais, les Polonais exilés et les Américains perdent 98 avions, tandis que les Allemands en perdent 91. Vers midi, les Canadiens doivent déjà se replier; leurs chefs décident que le réembarquement aura lieu vers 15 h. Peu parmi les soldats débarqués retourneront ce jour-là en Angleterre, seulement un petit tiers. 1179 attaquants (dont près de 900 Canadiens) tomberont au combat; 2190 seront prisonniers, dont 60 officiers canadiens. Six cents prisonniers sont blessés et soignés sur place. Les Alliés perdent 28 chars et de nombreux navires de débarquement, ainsi que quatre destroyers et sept navires de transport. La Wehrmacht annonce 311 morts ou disparus et 280 blessés.
Officiellement, Londres tente de minimiser l’échec de Dieppe comme étant “un exercice armé de reconnaissance”. Pour les Allemands, en revanche, ce 19 août est la journée qui a prouvé que le Mur de l’Atlantique pouvait tenir, sans qu’il ne faille, insistait le haut commandement de la Wehrmacht, engager des réserves supplémentaires, constituées de troupes aguerries.
Mais cette propagande allemande cachait la vérité: l’aventure de Dieppe n’est nullement l’échec allié qu’elle a décrit pour les besoins de la cause. L’objectif de l’Opération “Jubilee” n’était pas d’ouvrir un second front à l’Ouest comme le réclamait Staline (pour le faire, il aurait fallu des effectifs bien supérieurs à ceux d’une simple division); ce n’était pas davantage un exercice général en prévision du débarquement de 1944, car on aurait pu le faire à bien moindre prix en Angleterre sous la forme de manoeuvres. Non: l’objectif de “Jubilee” n’était ni plus ni moins “Freya”, la plus moderne des stations radar allemandes, installée près de Dieppe. Son rayon d’action dépassait les 200 km et couvrait une bonne partie de l’Angleterre, ce qui permettait aux Allemands de détecter le décollage des escadres de bombardiers alliés immédiatement après leur envol.
C’est pour mener à bien ce coup de main contre “Freya” que les Britanniques ont déployé cette opération commando surdimensionnée. Le personnage-clef de l’opération est un Canadien de 28 ans, d’origine juive-polonaise, Jack Nissenthal. Il était un expert en radar particulièrement doué. Il s’est retrouvé à la pointe des opérations, tout à l’avant, où cela “pétait” le plus. Il était l’un des rares savants qui connaissaient en tous ses détails la technologie alliée des radars. Lors du débarquement de Dieppe, il était flanqué de dix soldats d’élite, non seulement pour sa protection mais pour celle du savoir-faire allié en matières de radar, car ces hommes ont reçu aussi pour mission complémentaire —et comme ordre strict— de ne pas laisser Nissenthal tomber vivant aux mains des Allemands. Nissenthal avait d’ailleurs reçu à cette fin une capsule de cyanure.
Nissenthal, homme de beaucoup d’allant, athlétique et impétueux, est parvenu, sous une pluie de balles allemandes, en perdant sept de ses gardes-du-corps, à approcher par deux fois l’appareil “Freya” et d’en démonter d’importantes composantes qui ont fourni aux Alliés des connaissances précieuses sur les techniques radar allemandes.
Grâce à Dieppe et à Nissenthal, les attaques à grande échelle des bombardiers anglo-saxons sur l’Allemagne ont été rendues possible car les savants alliés avaient constaté qu’il suffisait de tromper les radars allemands en lançant de simple bandes de feuilles d’aluminium. L’effroyable attaque contre Hambourg, qui dura trois jours en 1943 et fut baptisée l’“Opération Gomorrhe”, eut lieu sans que les Allemands n’aient pu organisé la moindre défense sérieuse de la ville hanséatique.
Vu dans cette optique, le fiasco apparent de Dieppe est en réalité un succès préparé avec audace et obtenu au prix fort. C’est une entreprise de type “troupe d’assaut” qui a obligé par la suite les Allemands à garnir davantage le Mur de l’Atlantique, avec des forces qui leur ont cruellement manqué ailleurs.
Bien entendu, dans le contexte de l’époque, la propagande allemande ne pouvait voir l’affaire sous un tel angle. Dans les actualités allemandes, la “bataille victorieuse” de Dieppe a pris une ampleur considérable: on la passait et la repassait inlassablement au cinéma avant le film de fiction. En plus, les producteurs de reportages de guerre, issus des “PK” (les “compagnies de propagande”),ont publié une sorte de recueil, intitulé “Dieppe – die Bewährung des Küstenwestwalles” (= “Dieppe – Comment le Mur de la côte occidentale a tenu”).
Erich KÖRNER-LAKATOS.
(article paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°49/2005, trad. franç. : Robert Steuckers).
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mercredi, 24 juin 2009
Un attacco della Russia contro gli USA potrebbe iniziare dalle banche principali
UN ATTACCO DELLA RUSSIA CONTRO GLI USA POTREBBE INIZIARE DALLE BANCHE PRINCIPALI
A CURA DI ONE'S MAN THOUGHT
Ex: http://www.comedonchisciotte.org/
Mentre gli scienziati USA presentano la nuova dottrina della Deterrenza Nucleare Minima (puntando i missili contro le 12 imprese chiave della Russia), il sito web Bigness.ru ha deciso di delineare la mappa di un attacco limitato che potrebbe paralizzare l’economia degli USA. Ne risulta che gli Stati Uniti sono molto più vulnerabili della Russia a questo stadio. Un attacco su appena cinque bersagli negli USA riporterebbe l’economia americana all’età della pietra.
Gli scienziati americani hanno proposto l’idea di concentrare i bersagli su 12 elementi chiave dell’economia russa: le imprese della Gazprom, della Rosneft, della Rusal, della Nornikel, della Surgutneftegaz, della Evraz e della Severstal. Il suggerimento è divenuto un approccio del tutto nuovo per la dottrina della deterrenza. Attualmente gli USA hanno la Dottrina di Demolizione Assicurata Reciproca,che prevede un attacco su circa 200 bersagli sul suolo russo.
Secondo varie stime, la dottrina della Russia prevede attacchi contro circa 100 bersagli sul territorio degli Stati Uniti. La distruzione di tali bersagli causerà danni critici per gli USA.
Non c’è motivo di distruggere l’intero pianeta per paralizzare uno stato e riportarlo all’età della pietra. A questo punto il FMI può tornare utile da esempio: un’organizzazione che ha spinto svariati paesi nell’abisso economico senza l’uso della forza militare.
Leonid Ivashov, vice presidente dell’Accademia di Scienze Geopolitiche, crede che la Russia dovrebbe innanzitutto attaccare le principali banche degli USA. Se l’attacco riuscisse, paralizzerebbe l’intera economia che dipende dal dollaro. “Questo è l’obiettivo numero uno nel caso di un conflitto. Dovremmo distruggere anche grandi banche a Londra,” ha detto il colonnello generale.
Inga Foksha, analista della IK Aton non ha esitato a citare cinque bersagli, la cui distruzione metterebbe a repentaglio l’esistenza degli USA.
Il primo attacco dovrebbe essere effettuato contro gli uffici della Compagnia Federale di Assicurazione sui Depositi [Federal Deposit Insurance Corporation] di Washington, Dallas e Chicago. “Questa azienda gestisce i fondi dei depositanti. Se scomparisse e le banche non avessero più garanzie, la gente entrerebbe nel panico e si affretterebbe ad incassare i depositi”, ha detto Foksha.
Un’azienda del settore reale dell’economia con interessi diversificati, la General Electric ad esempio, potrebbe diventare oggetto di un secondo attacco. La fine dell’azienda che sta al crocevia di svariati settori economici paralizzerà le attività di migliaia di aziende adiacenti e milioni di persone perderanno il lavoro.
Il terzo attacco nucleare sarà contro la Freddie Mac e la Fannie Mae. “Queste due agenzie divorano attualmente grandi quantità di fondi statali”, ha detto Inga Foksha.
L’analista crede anche che il Ministero del Tesoro USA e il sistema della Federal Reserve sarebbero bersagli importanti da colpire.
Fonte: onemansthoughts.wordpress.com
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22.04.2009
Traduzione a cura di MICAELA MARRI per www.comedonchisciotte.org
00:20 Publié dans Géopolitique | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : stratégie, géostratégie, finances, russie, etats-unis, guerre, europe affaires européennes, politique internationale | | del.icio.us | | Digg | Facebook