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samedi, 23 mars 2013

Quel Vate per tutti e per nessuno

Quel Vate per tutti e per nessuno

Creò la liturgia fascista senza essere fascista e disegnò una nuova estetica politica. Ma in fondo fu fedele solo a se stesso

dannunz.jpgGabriele D'Annunzio fu il più grandioso nocchiero che traghettò l'Italia dall'Ottocento al Novecento, dalla piccola borghesia di provincia alla nazionalizzazione delle masse, dalla Belle Époque alla guerra, dalla galanteria all'eros, dalla morale all'estetica, dal cavallo al velivolo e al sommergibile, dal culto romantico del genio e dell'eroe al culto moderno del superuomo, ardito trascinatore delle folle.

Restano in lui vivi i tratti del secolo in cui nacque, quel 12 marzo di 150 anni fa, e restano le tracce di quell'Italia provinciale che sognava il passaggio dalla piccola borghesia alla nobiltà imperiale di Roma o di Parigi, dal decoro alla gloria. D'Annunzio trasfigura quelle origini borghesi e ottocentesche nella modernità impetuosa e guerriera.
«In Italia ci sono soltanto tre uomini che possono fare la rivoluzione: Mussolini, D'Annunzio e Marinetti», disse il massimo intenditore di rivoluzioni, Vladimir Illich Ulianov, detto Lenin. Era finita da poco la prima guerra mondiale e il leader del comunismo mondiale aveva ricevuto a Mosca una delegazione socialista italiana. Ma nessuno dei tre indicati da Lenin era socialista e tutti e tre potevano definirsi, in varia misura, figli di Nietzsche più che di Marx. Ma gli altri due erano poeti e artisti... Questo spiega perché fu Mussolini a fare quella (mezza) rivoluzione. D'Annunzio fu il più famoso anticipatore del fascismo, il suo «san Giovanni Battista». Ma ne fu anche il più grande dissidente. Non si comprende il fascismo, l'estetizzazione della politica, il rituale fascista, il saluto romano, il culto della bella morte e la retorica militare e cameratesca, senza D'Annunzio. Non si può capire la sintesi tra radicalismo di destra e radicalismo di sinistra, tra sindacalismo rivoluzionario e nazionalismo eroico, senza passare per l'opera, i discorsi e la vita di D'Annunzio (che fu parlamentare di destra, poi passò a sinistra - vado verso la vita - e non fu rieletto).
La fusione tra paganesimo e cristianesimo della liturgia fascista è di stampo dannunziano; l'eja eja alalà, il discorso dal balcone, il superuomo affacciato sulle folle, gli arditi, il mito del duce (che D'Annunzio rilanciò nel 1912 in un saggio su Cola di Rienzo). D'Annunzio crea l'habitat in cui prende corpo la mitologia fascista e da cui attinge la sua maggiore fascinazione rispetto alla rivoluzione socialista. Il mito della guerra attraversa tutta l'epoca e permea le intelligenze più vive del tempo; ma D'Annunzio, tra le varie anime letterarie e militari che alimentano il fascismo, è quello che le incarna di più. Stretto è pure il nesso tra fiumanesimo dannunziano e sansepolcrismo fascista; e tracce di D'Annunzio si ritrovano nell'estremo fascismo di Salò, che risente non solo geograficamente della suggestione estetico-eroico-mortuaria del Vittoriale, ormai disabitato del suo capriccioso signore, morto nel '38. Certo, il fascismo fu anche molto altro, e D'Annunzio fu sicuramente molte altre cose, oltre che precursore del fascismo. Di estetica politica in D'Annunzio parlò Thomas Mann, poi Hofmannsthal che ne rimase incantato; ma sarà Walter Benjamin a cogliere l'estetizzazione della politica poi ereditata dal fascismo. Il suo conterraneo abruzzese Gioacchino Volpe, in un saggio sul D'Annunzio politico e combattente, lo considerò creatore di poesia totale, intesa come «arte eroica al servizio della nazione».

Il rapporto fra D'Annunzio e il fascismo-regime fu controverso, fatto di slanci e prove di amicizia ma anche di netto dissenso, a volte taciuto, a volte filtrato, fino alla tentazione antifascista. Che in alcuni dannunziani prese corpo con l'esperienza breve di Alleanza Nazionale (corsi e ricorsi onomastici). Il rapporto fra D'Annunzio e il regime non fu diverso da quello di un altro esteta e combattente famoso, Ernst Jünger, rispetto al nazismo. Jünger, più di D'Annunzio, non amò gli aspetti volgari e torbidi del nazismo, detestò Hitler e partecipò perfino alla congiura anti-hitleriana; ma la sua fama di precursore e scrittore di guerra, il suo prestigio come eroe di guerra (aveva avuto l'onorificenza militare massima) fermarono Hitler dal proposito di punirlo. O, se vogliamo cambiar tempo, luogo e versante ideologico, lo stesso rapporto di amore e timore tra il Vate e il Duce ci fu tra Castro e Che Guevara, anch'egli come D'Annunzio appellato «il Comandante»: la sua morte prematura fu una salvezza per Castro che diventò amministratore delegato del Mito e si liberò di un ingombrante Compagno scontento. Così accadde con D'Annunzio.

Ma l'ultimo D'Annunzio sostenne il fascismo dopo l'impresa africana e le sanzioni: i copiosi doni alla patria, la retorica della guerra che riaffiorava sulle sue labbra, la missione civilizzatrice italiana in Africa, la polemica con la «perfida Albione», il dono alla Patria della croce militare avuta dalla corona britannica. Nel '37 accettò di presiedere l'Accademia d'Italia. Non fu solo ipocrita il carteggio cameratesco e a tratti pomposamente cordiale con Mussolini. L'ultimo D'Annunzio non condivise l'alleanza con la Germania, non solo perché estraneo al razzismo e al fanatismo hitleriano, ma anche perché vedeva in Parigi la grande sorella latina e nei teutonici i grandi nemici dell'Italia irredenta. E in questo era perfettamente in sintonia con Mussolini, anch'egli di formazione filofrancese e antitedesco fino alle Sanzioni.

D'Annunzio non fu mai fascista e tantomeno antifascista, ma restò sempre dannunziano, egli amava se stesso e la propria opera sopra ogni cosa, non si può irregimentare in nessun regime ma solo farsi adorare, e non si sente intellettuale organico a nessun partito. La sua vera aspirazione fu elevare la vita al rango di opera d'arte. Il suo dissenso dal regime, notò Volpe, nasceva dalla sua riduzione da protagonista a testimone della Nuova Italia. Nutriva il polemico rimpianto che la rivoluzione italiana avrebbe dovuto farla lui. La sua impresa fiumana fu l'antefatto del Sessantotto: vitalismo, trasgressione e immaginazione al potere furono celebrati là, nella prima rivoluzione estetica. Quei ragazzi dai capelli lunghi di mezzo secolo dopo erano gli inconsapevoli nipoti di quelle teste pelate: D'Annunzio, Marinetti, Mussolini (e Lenin). D'Annunzio visse più vite in una sola e più epoche in una vita. Servì nella religione della parola e della vita, della patria e della bellezza, un solo dio: Imago sui, l'immagine di sé.

vendredi, 22 mars 2013

Chypre : braquage à l’européenne

Chypre : braquage à l’européenne

C’est peut être le faux pas européen de trop!

par Jean Bonnevey
Ex: http://metamag.fr/

 
Le gouvernement de Nicosie, sous la pression de l’Europe, a pris la décision de ponctionner les comptes des épargnants pour obtenir un  prêt de 10 milliards d’euros, C’est en contradiction totale avec les promesses de la crise de 2008 pour éviter un retrait massif et une panique bancaire. Devant l’émotion, le gouvernement de l’ile a accepté de ne « raquetter » que les comptes supérieurs à 20.000 euros mais bien au dessous des 100.000 garantis par Bruxelles.
 
 
Cela signifie que plus personne n’est à l’abri et que si nécessité financière s’en fait sentir, l’Europe n’épargnera personne….. Surtout pas les épargnants. C'est d'autant plus surprenant qu'il était à l'origine question de coupes dans les salaires ou dans les pensions, qui font partie des mesures "traditionnelles" appliquées dans les autres pays européens sous assistance financière.
 
Nous sommes en face d’une Europe en qui il n’est plus possible d’avoir confiance du tout. Le scandale de Chypre marque peut-être un tournant. « Ce qui se passe avec Chypre est stupéfiant », a dénoncé le président de l'Udi, Jean-Louis Borloo sur BFMTV. « C'est totalement une violation démocratique ».  Pour le président du Modem, François Bayrou, « il n'y a pas de vie politique européenne accessible aux citoyens, les décisions tombent du ciel et elles sont incompréhensibles ».
 
 
Face aux protestations de la rue et à la menace d'un rejet par le Parlement de Nicosie, l'Eurogroupe a recommandé lundi soir de ne pas taxer les comptes dont le solde est inférieur à 100.000 euros - le seuil de garantie publique des dépôts dans l'Union - et d'alourdir la taxation au-dessus de ce montant afin d'assurer que le produit global du dispositif atteigne les 5,8 milliards prévus initialement. Mais le gouvernement chypriote n'a suivi qu'à moitié ces conseils : le projet de loi révisé, que s'est procuré Reuters, n'exempte que les dépôts inférieurs à 20.000 euros et prévoit de taxer à 6,75% les sommes situées entre 20.000 et 100.000 euros, puis à 9,9% les comptes de plus de 100.000 euros.
 
Peu importe au finish que la taxe soit modifiée ou même annulée…. Ils ont osé. Cela intervient après la décision d’autoriser la bureaucratie européenne à contrôler les budgets des pays membres.
 
On peut se poser quelques questions
 
Que vient faire Chypre en Europe, étant un état divisé, coupé en deux avec le nord occupé par la Turquie. C’est aussi un paradis fiscal pour les fortunes libanaises puis pour les oligarques russes. On ne pleurera pas sur leur argent perdu. Mais ce pays n’a vraiment rien à faire aux cotés de l’Allemagne ou de l’Italie et même de la Grèce. L’élargissement a été une catastrophe et condamne l’euro et les pays qui, ne pouvant dévaluer, trouvent d’autres chemins pour se réaligner sur leur économie réelle et doivent se coucher devant les diktats de Bruxelles.
 
Si l’on  est démocrate, on sait que ce système politique repose sur  le contrôle parlementaire des dépenses de l’état. Si ce contrôle échappe aux parlements nationaux, ces pays perdent une partie capitale et fondamentale de leur souveraineté démocratique. On peut l’approuver, mais certes pas au nom de la démocratie. En deux semaines l’Europe technocratique et financière a révélé son vrai visage, celui du totalitarisme financier qui impose sa logique aux peuples et aux états.
 
Ce qui était une hypothèse aventureuse – le retrait de cette Europe là – risque de devenir une obligation  de salut public pour les peuples des pays membres.

Bobards d'or 2013

Les Bobards d'Or

Le palmarès 2013

Suivie en direct par des milliers d’internautes, la IVe cérémonie des Bobards d’Or a eu lieu mardi 19 mars 2013, en présence de 250 personnes qui ont attribué les prix suivants :

Bobard d’Or : Philippe ManièreBobard d’Or : Philippe Manière (C’ dans l’air, France 3) pour le bobard professoral, pour avoir osé affirmer de manière péremptoire « Nos flux migratoires en France sont extrêmement ténus » alors qu’il entre en France de l’ordre de 200.000 étrangers supplémentaires par an.

Bobard d’Argent : Serge Le Luyer (Ouest France, Le Monde) pour le bobard d’état civil : comment transformer le nom du meurtrier d’un collégien, de Souleymane en Vladimir ? Ou l’art de faire d’une pierre deux coups : on cache l’origine musulmane du meurtrier, on diabolise le prénom du « méchant » président Poutine.

Bobard de Bronze : Jean-Jacques BourdinBobard de Bronze : Jean-Jacques Bourdin (RMC), pour le bobard par immigrophilie : comment faire croire qu’il y avait moins d’immigration en 2012 qu’en 1931 ? En mentant purement et simplement, en donnant des chiffres bidons pour 2012 : 5,8% d’immigrés au lieu de 8,4% (source INSEE) ; en prétendant qu’il y avait deux fois plus d’Italiens en 1931 que d’Algériens en 2012 alors que leur nombre est équivalent et que l’assimilation des uns et des autres n’est pas comparable.

Mouton d'orPrix spécial du jury : un Mouton d’Or attribué à l’ensemble des médias pour le bobard total, à l’occasion de l’affaire du terroriste islamiste d’origine algérienne Mohamed Merah. Présenté avant sa découverte par la police comme « blanc, blond, aux yeux bleus », puis après sa neutralisation comme un « Français de Toulouse, un gentil garçon, au visage d’ange ».

Enfin, hors concours, une muselière d’or a été attribuée à Patrick Cohen, patron de la matinale de France Inter, qui a répondu « non » à la question « on a le droit de penser ce qu’on veut ? » Avant de préciser : « on a le droit de penser ce qu’on veut dans les limites de la loi. » Phrase orwellienne, s’il en est.

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La crise syrienne menace désormais les accords de Sykes-Picot

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La crise syrienne menace désormais les accords de Sykes-Picot et la succession de l’Empire ottoman

 

Ex: http://mediebenews.wordpress.com/

Chercheur à l’IRIS et véritable œil de lynx quand il s’agit de décrypter et de synthétiser quelque conflit mondial ou quelque bouleversement géopolitique que ce soit, notamment au Proche-Orient, Karim Émile Bitar disséque la situation en Syrie deux ans après le démarrage de la révolte populaire.

 

Quel bilan à l’aube de l’an III de la révolution (des révolutions ?) syrienne ?

 

Lorsque la révolution syrienne a débuté le 15 mars 2011, peu nombreux sont ceux qui pensaient que le régime tiendrait aussi longtemps et que le Baas serait en mesure de célébrer, le 8 mars 2013, le 50e anniversaire du coup d’État de 1963 qui l’a porté au pouvoir.

 

Pendant les premiers mois de la révolution, celle-ci était très largement pacifique, civile, spontanée. Bachar el-Assad prétendait être confronté à des « bandes armées salafistes » mais peinait à en apporter la moindre preuve. Il a tout fait pour que cela devienne une prophétie fertile. Les rafles massives des premiers mois ne visaient pas les islamistes, mais au contraire tous ceux susceptibles d’organiser la résistance non violente de la société civile, noyés très vite dans « l’archipel de la torture »… Comme si Assad avait voulu se débarrasser de tous ceux qui étaient susceptibles de représenter une alternative crédible et qu’il voulait se retrouver seul en face à face avec l’épouvantail el-Qaëda. Du coup, la militarisation lui a donné la possibilité de se battre sur le terrain, là où il était le plus à son aise et où il avait une supériorité évidente du fait que le régime est le seul à détenir des armes lourdes, et notamment la force aérienne.

 

La configuration actuelle est donc très différente de celle qui prévalait il y a 18 mois, et on a assisté successivement à plusieurs mutations de la révolution syrienne : une révolution pacifique a muté en guerre civile puis en une guerre par procuration entre puissances régionales et internationales.

 

Pour comprendre la grande complexité de la situation syrienne, il faut se rappeler de ce qu’écrivaient Hussein Agha et Robert Malley dans la New York Review of Books : « Le réveil arabe est l’histoire de trois batailles en une : peuples contre régimes, peuple contre peuple, et régimes contre d’autres régimes. » En Syrie, ces trois dimensions sont présentes simultanément et très fortement. Et de plus en plus imbriquées. Il apparaît désormais clairement que les Syriens, comme les Libanais des années 70-80, ne sont plus les seuls maîtres de leur destin. Le bras de fer américano-russe a pris une telle ampleur qu’il faut désormais parvenir à une solution diplomatique internationale avant de pouvoir régler le conflit interne. Et comme c’est souvent le cas dans les guerres par procuration, il n’y a jamais de concordance parfaite entre les intérêts des forces locales et ceux de leurs parrains étrangers. Les Russes et les Iraniens ont parfois du mal à « gérer » Assad. Et les rebelles syriens ont leurs propres objectifs, qui ne se réduisent pas à ceux du Qatar, de la Turquie et de l’Arabie saoudite.

 

Par ailleurs, la crise syrienne a atteint un tel degré de gravité qu’elle menace aujourd’hui tout l’ordre régional ancien, celui issu de la Première Guerre mondiale, des accords de Sykes-Picot et de la succession de l’Empire ottoman. Jusqu’à aujourd’hui, quelle que soit leur gravité, les conflits demeuraient confinés dans les frontières des États postcoloniaux. Désormais, nous assistons à de puissantes logiques transfrontalières, avec la résurgence de la fitna entre sunnites et chiites, et avec des réseaux de solidarité communautaires, ethniques ou tribaux qui jouent un rôle décisif. L’Irak et le Liban sont directement concernés par la crise syrienne. David Hirst estime que les grands perdants lors du démantèlement de l’Empire ottoman, les Kurdes, pourraient aujourd’hui être les grands gagnants suite aux révolutions en cours.

 

Même si le gruyère du régime syrien est de plus en plus troué par les rebelles, il y a un pourrissement qui (per)dure. Comment Assad peut-il continuer à gérer ?

 

L’impasse est effectivement triple. Militairement, la situation n’évolue plus beaucoup, les rebelles contrôlent une grande partie de l’est du pays et les abords des grandes villes. Le régime tient toujours la capitale, l’essentiel des villes moyennes et les grands axes routiers. Politiquement, on ne voit pas quel dialogue pourrait avoir lieu, tant les parties soient éloignées, la confiance anéantie et la haine à fleur de peau. Diplomatiquement, Lakhdar Ibrahimi a manœuvré plus habilement que Kofi Annan, mais on est encore loin du bout du tunnel, et seul un « grand bargain » américano-russe pourrait débloquer la situation. Cela n’est pas impossible, les négociations sont en bonne voie, mais le problème est que les Iraniens demandent à y être eux aussi associés. Bachar el-Assad a pu tenir jusque-là parce que les quatre piliers sur lesquels s’appuie son régime sont restés solides : l’appareil militaro-sécuritaire, les minorités religieuses que ce régime prétend protéger, les milieux d’affaires sunnites de Damas et d’Alep, et les soutiens extérieurs (dès 1950 pour la Russie, 1980 pour l’Iran). Si l’un de ces piliers s’écroule, le régime s’effondrera tout entier.

 

L’opposition, archiplurielle, n’arrive pas à être constructive, ne serait-ce qu’un minimum. Quelle évolution possible ? Va-t-on vers des mini-îlots rebelles gouvernés chacun par une mouvance différente ?

 

Les lignes de fracture au sein de l’opposition syrienne demeurent en effet très nombreuses. Il y a les fractures géographiques (opposition de l’intérieur vs diaspora), la fracture entre laïcs et religieux, et il y aussi une fracture stratégique, des divergences quant à la stratégie à adopter pour faire tomber Assad. On a d’un côté les machiavelliens, c’est-à-dire ceux qui considèrent que la fin justifie les moyens, qu’il faut absolument se débarrasser d’Assad même si cela implique d’avoir recours à la violence, de demander une intervention militaire extérieure, ou de passer des alliances douteuses avec telle ou telle mouvance de jihadistes radicaux. Il y a de l’autre côté les kantiens, ceux qui pensent que les moyens vont déterminer la fin, que l’usage de la force pour déloger Assad va disloquer pour longtemps la société syrienne et que les alliances contre nature sont à rejeter car il faudra tôt ou tard en payer le prix.

 

Aujourd’hui, sur le terrain, ce sont les forces les plus extrêmes qui sont les plus présentes. Ce sont elles qui ont infligé les plus lourdes défaites à l’armée d’Assad, même si cela a conduit à détourner beaucoup de Syriens de la révolution. Dès le départ, le poids des Frères musulmans dans la société syrienne avait été quelque peu surestimé, et ils ont obtenu une influence au sein du Conseil national syrien puis de la Coalition nationale syrienne, qui est bien au-delà de celle à laquelle ils auraient pu prétendre. Ils ont toutefois des moyens logistiques et financiers importants, ainsi que le soutien du Qatar et de la Turquie. Quant à l’Armée syrienne libre (ASL), ce n’est pas une institution unie avec un organigramme clair. Il y a aujourd’hui de très nombreuses mouvances qui se réclament de l’ASL et qui sont autonomes. Elles bénéficient souvent du soutien des services turcs. Enfin, Jabhat el-Nosra a le vent en poupe, même si ce mouvement reste très minoritaire à l’échelle globale. Ce mouvement sert d’épouvantail mais accomplit des opérations difficiles sur le terrain.

 

Le risque d’affrontements internes entre rebelles et Kurdes ou à l’intérieur du camp des rebelles n’est pas négligeable. Cela pourrait considérablement aider Assad.

 

La Syrie peut-elle se transformer en Afghanistan ? Les mille et un el-Qaëda auraient-ils trouvé un nouveau placenta après la perte de l’Afghanistan et l’avortement de la tentative malienne ?

 

Il faut reconnaître que la Syrie est devenue une sorte de Jeux olympiques du jihadisme international. Plus de 60 pays sont représentés, avec notamment de forts contingents libyens, tunisiens ou jordaniens. Il est à craindre que l’après-guerre soit très difficile, comme en Libye où l’on a aujourd’hui près de 500 milices qui refusent d’être désarmées et cherchent à imposer leurs desiderata économiques ou idéologiques.

 

Il est très important de déconstruire les prétentions du régime syrien à la laïcité et à l’anti-impérialisme. Comme la plupart des régimes de la région, le régime syrien n’a qu’une obsession principale, celle de son maintien au pouvoir. Pour cela, il est prêt à toutes les manipulations et à toutes les contorsions idéologiques. Loin de protéger les minorités, ce régime s’en est servi comme d’un bouclier. Les services de sécurité syriens n’ont jamais rechigné à instrumentaliser les salafistes, au Liban comme en Syrie. Si les mosquées sont devenues si influentes, n’est-ce pas parce que le régime interdisait toute activité politique ? Les origines de Jabhat el-Nosra sont connues. Et les filières salafistes qui fournissaient des candidats au jihad durant la guerre d’Irak ont été longtemps dans les bonnes grâces des services de renseignements syriens.

 

Il faut rappeler que Hafez el-Assad était le chouchou de Kissinger qui lui vouait une admiration sans bornes. Connaissons-nous beaucoup d’anti-impérialistes qui sont les chouchous de Kissinger ?
L’assassinat de Kamal Joumblatt s’inscrivait-il dans le cadre de l’anti-impérialisme ? Et quid du soutien aux États-Unis pendant la guerre du Golfe, où le contingent syrien était le plus grand contingent arabe ? Et les choses n’ont que peu changé avec Bachar. La poursuite des négociations avec Israël durant la guerre de juillet 2006 au Liban s’inscrit-elle aussi dans le cadre de la mumana’a et de l’anti-impérialisme ? Rappelons également que le régime syrien n’a eu aucun scrupule à participer au programme des extraordinary renditions de l’administration Bush-Cheney, un programme de sous-traitance de la torture qui était le nec plus ultra de l’impérialisme ! Et ce même régime syrien, lorsqu’il espérait encore obtenir les bonnes grâces de l’Arabie saoudite, n’a pas hésité en 2011 à légitimer, appuyer et saluer l’écrasement par la monarchie saoudienne de la très légitime révolution du Bahreïn. Cela fait beaucoup sur le CV du baassisme anti-impérialiste…

 

C’est seulement cette menace extrémiste (terroriste ?) qui empêche la communauté internationale d’armer les rebelles et de les organiser ? Ils ne peuvent pas armer à la carte, faire comme avec l’armée régulière malienne ?

 

L’opinion publique occidentale est globalement très rétive à une intervention et très sceptique quant au fait que livrer des armes soit une bonne idée. Beaucoup craignent que cela ne revienne à ajouter de la guerre à la guerre, à prolonger les combats et à augmenter le nombre de victimes. Les pays scandinaves sont les plus hostiles à l’envoi d’armements. Quant à la France et à la Grande Bretagne, elles estiment qu’un rééquilibrage des rapports de force sur le terrain facilitera les négociations diplomatiques et incitera Assad à faire des concessions. Par ailleurs, ils veulent également assurer un rééquilibrage au sein même de l’opposition syrienne, pour éviter que Jabhat el-Nosra ne soit trop en pointe, remettre en selle l’ASL et pouvoir ainsi contrôler un peu plus l’avenir, et éviter que la révolution ne soit entièrement kidnappée par l’islamisme le plus radical.

 

C’est un pari extrêmement risqué. Il n’est pas aisé de distribuer des armes à la carte. C’est un peu ce qu’essaient de faire les Américains depuis quelques mois. Dans le cadre des covertoperations, ils ont des membres de leurs services aux frontières turque et jordanienne en charge du vetting des récipiendaires de l’aide militaire fournie par les alliés sunnites des États-Unis. Mais une fois que les armes sont livrées, il n’y aucune garantie qu’elles ne vont pas finir entre de mauvaises mains. La décision franco-britannique est plutôt symbolique, elle ne va pas changer radicalement la donne.
Il ne faut pas penser que les Américains sont inactifs en Syrie. Obama préfère s’appuyer sur des opérations secrètes, et sur ses alliés régionaux. Il a été élu par les Américains pour mettre fin à deux guerres qui ont été menées à crédit et ont tourné au désastre. Il reste très prudent. Par ailleurs, John Kerry et Chuck Hagel ont en commun d’être tous les deux des spécialistes de la chose militaire, des héros décorés de la guerre du Vietnam. Ils ont vécu l’horreur et savent que la guerre n’est pas une abstraction. Ils seront donc plus mesurés que n’avaient pu l’être les chicken-hawks de l’administration Bush, ces idéologues ayant fui leur service militaire mais n’hésitant pas à envoyer des jeunes Américains mourir à l’autre bout du monde.

 

Entretien réalisé par Ziyad Makhoul pour L’Orient Le Jour

The Mackinder factor: On the inconvenience of being Russia

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The Mackinder factor: On the inconvenience of being Russia

Russia replaces the Mongol empire.
Halford Mackinder (1904)

By Nicolas Bonnal

Well, nothing new under the sun: the fear of Russia in Europe was as we know mainly created by the British imperialists, and then 'refurbished' by the American generous and ubiquitous interventionists. As I already showed, British writer Hobson considered that the British Empire was often established on manipulation, false motives, humanitarian reasons, well, on propaganda, to speak a modern word. There was often no economical rationality in it; this is why the financiers and politicians who armed expeditions necessitated propagandists like Kipling. Think of the motivations of one of his most famous short stories, the man who would be a king: Two hundred and fifty thousand men, ready to cut in on Russia's right flank when she tries for India! Napoleon boasted once that from knowing the geography of a state he could deduce his foreign policies. This is why diplomacy has always been a cabalistic science in Russia, a so great country that it had always more than ten boundaries and an incomparable skill in these matters. Disraeli already greeted in his best conspiracy novel that mysterious Russian Diplomacy which so alarms Western Europe...

Western hostility and geopolitical fear of Russia is nothing new. It was embedded since two centuries on various factors: despotism, modern banking system (which the tsars banned), Orthodox faith and then of course communism. Another main factor has been of course the legendary and overvalued theory of Mackinder about the Heartland.

In 1904 this geographer who had written atlases and books for schoolboys, and had been a principal of college, writes a famous article: the geographical pivot of history. Mackinder seems obsessed with the waves of Mongols and tartars that indeed threatened, murdered and plundered more the Russians and Slavic people than the British and the Americans! And he insists, possessed by his idea, upon the following fact: the Russian pass way is fundamental; the Mongol empire is still there, under another name. Famous French historian Grousset wrote later in his balance of history that the red army was 'the new empire of the steppes, blinded and motorized! Unfortunately it is not only a metaphor.

I quote two passages of this famous text. In the first, Mackinder compares the deeds of the West and Russia. In Russia, he defines his intuition:

While the maritime powers of Western Europe have covered the ocean with their fleet, Russia has organized the Cossacks and policed the steppes by setting her own nomads to meet the Tartar nomads.

Is not the pivot of the world's politics that vast area of Euro-Asia which is inaccessible to ships, but is today covered with a network of railways?

The problem is that Mackinder's discovery has become the main ingredient of American interventionism and adventurism since then. We can read in the grand Chessboard of well-known Mr Brzezinski:

Genghis Khan and his successors, by defeating their regional rivals, established centralized control over the territory that latter-day scholars of geopolitics have identified as the global heartland, or the pivot for world power.

As if he was inspired by Tolkien (one ring to rule them all!), Mr Brzezinski adds with his familiar enthusiastic tone:

He (Mackinder) popularized his heartland concept by the famous dictum:

Who rules East Europe commands the Heartland;

Who rules the Heartland commands the World-Island;

Who rules the World-Island commands the world.

This credo of course justifies the western behaviour toward Russia. And I maintain what I wrote earlier: Mackinder's concept may have been wrong or superficial: it just serves western fantasies and agenda. The Heartland means empty and cold areas, devoid of infrastructures and people; they may be rich in resources, but as are many areas in the world; finally there is a great deal of exaggeration in presenting them as the new nest of Genghis Khan, unless you need a giant enemy to fight with. But of course this presentation did not fall into deaf ears. Adds joyfully Mr Brzezinski:

Geopolitics was also invoked by some leading German political geographers to justify their country's "Drang nach Osten," notably with Karl Haushofer adapting Mackinder's concept to Germany's strategic needs. Its much-vulgarized echo could also be heard in Adolf Hitler's emphasis on the German people's need for "Lebensraum."

It is well known now that Mackinder and Karl Haushofer's doctrines of Macht und Raum (power and space) accompanied Hitler's insane policies ("any extension of territory must be done at the expense of Russia") and proficient armies that produced twenty-six millions dead in Slavic countries. The Mongols did come again but from the West. Nazis and fascist presented themselves as the defenders of western civilization against a barbaric and Mongolic bolshevist Asia. This bleak future did not prevent Prophet Mackinder from writing the following lines:

Russian pressure on Finland, on India, on Persia and on China, replaces the centrifugal raids of the steppe men.

This is comparing barely Russians to the hordes of Mongols! Right, Mr Mackinder except the fact that Russia was not the colonial occupier of India (unless we consider Gandhi a KGB agent), neither among the dominating powers that humiliated China in 1900. And who occupied Persia during WW2? And who now is trying to contain China?

In fact Mackinder initiates the process that defends the Anglo-Saxon right to subjugate the world in any place of the world. Being a democracy or a plutocracy or a messianic state or a maritime power is enough to enunciate or apply any diplomatic barbarity; read Hobson again and his insightful analysis of the British Empire. Mackinder followed the path of Mahan, the first theoretician of modern maritime powers, but went further opening the Russophobe agenda of the century. This is a kind of geopolitical paranoia that easily can be turned into a science: you just have to hire and finance scholars. And the surrounded Russian democracy becomes the menacing power that threats the peace of the... new world! When shall we write a Monroe doctrine for central Asia? Or even for Russia? For as stated Mr Brzezinski,

What is Russia? Where is Russia? What does it mean to be a Russian?

More inspired, Mr Brzezinski recalls that the loss of Ukraine was not only geopolitically pivotal but also geopolitically catalytic. This is what Hitler thought too or the German diplomats who signed the treaty of Brest-Litovsk in March 1918.

They understood that the western factor of the Heartland is of course the most important. Mackinder was wrong but not blind; he added finally that "if Germany were to ally herself with Russia, the empire of the world would be then in sight." This is why England preferred to suddenly ally herself with Russia in 1907, even if this decision precipitates the imprudent war of the Kaiser against Russia. It is clear that a friendly diplomacy between Germany and Russia inducing a new European union would solve our problems. It is clear too that a Russian-Chinese friendship is Washington's nightmare. And clear too that the Mackinder factor must be recalled at any moment to understand the most lunatic steps of western diplomacy against Russia. Let us remember its lemma worthy of the Lord of The Rings:

 
Who rules East Europe commands the Heartland;

Who rules the Heartland commands the World-Island;

Who rules the World-Island commands the world.

Nicolas Bonnal

La lutte pour l’Afrique

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Dr. Bernhard TOMASCHITZ:

La lutte pour l’Afrique

 

Au Mali comme au Soudan, les Etats-Unis tirent les ficelles et veulent chasser les Chinois du continent noir

 

Des troupes françaises ont récemment chassé les islamistes des villes du Nord du Mali. Ainsi, le but officiel des opérations militaires est atteint: le gouvernement dans la capitale Bamako devrait retrouver sa pleine souveraineté sur l’ensemble du territoire malien. Mais le deuxième but de guerre n’est pas atteint: assurer pour le long terme les richesses du sol malien pour le bénéfice exclusif de la “communauté des Etats occidentaux”, surtout des Etats-Unis. On oublie trop souvent que le Mali est le troisième producteur d’or d’Afrique et dispose de grandes réserves d’uranium, de cuivre et de bauxite; de plus, les indices se multiplient qui permettent de supposer qu’il y a également des réserves de pétrole sous le sable du désert. On pense que ce pétrole se trouve dans le bassin de Taoudeni dans le Nord du pays; quatre consortiums étrangers —parmi lesquels la “China National Petroleum Corporation” (CNPC), dépendant entièrement de l’Etat chinois— procèdent à des missions d’exploration.

 

Les rapports sino-africains

 

Déjà en novembre 2011, le premier ministre malien Cisé Mariam Kaïdama Sidibé, alors encore en poste, estimait que l’étude de certaines données sismiques permettait “d’espérer”. Ensuite, cet Etat très pauvre voudrait aussi trouver une vocation de pays de transit pour l’énergie. “Le Mali pourrait offrir une route stratégique de transit pour l’exportation de pétrole et de gaz naturel en provenance de la région du Sud du Sahara en direction du monde occidental, et relier le bassin de Taoudeni au marché européen via l’Algérie”. Pourtant, la Chine pourrait s’interposer et freiner l’élan des Américains et des Européens, surtout si l’on se rappelle que l’Empire du Milieu va chercher en Afrique un tiers de ses besoins énergétiques, ainsi que de grandes quantités de cuivre et de fer.

 

En bout de course, force est de constater que les Chinois disposent de quelques avantages par rapport aux Occidentaux: d’une part, ils ne bassinent pas les oreilles des Africains en leur tenant des discours hypocrites sur les “droits de l’homme” et sur la “démocratie”; d’autre part, il est plus aisé, pour les Chinois, qui détiennent des masses considérables de devises, de faire des “emplettes” en Afrique, en se montrant très généreux. La Chine a renoncé aux dettes de plus de trente pays africains et, au printemps de l’année 2006, pour ne citer qu’un seul exemple, le Président Hu Jintao a signé au Nigéria un accord qui permet à une entreprise chinoise d’exploiter à 45% un champ pétrolifère pour une compensation d’environ 1,8 millard d’euro; la Chine s’est ainsi incrustée dans le pays le plus riche en pétrole du continent noir.

 

Les objectifs américains sur le long terme

 

En tenant compte de cette présence chinoise en Afrique, on peut conclure que le Président français François Hollande n’a donné son feu vert pour l’opération militaire qu’avec l’assentiment des Américains. En effet, les Etats-Unis, comme la France, ancienne puissance coloniale, ont des intérêts stratégiques au Mali, comme l’atteste un rapport publié le 16 août 2012 par le CRS (“Congressional Research Service”), une agence d’études et de recherches du Congrès américain. Dans ce rapport, les auteurs constatent que la crise de longue durée qui affecte le Mali, “défie les objectifs politiques à long terme des Etats-Unis” et donc “l’efficacité des efforts américains déjà présents dans la région”.

 

Il s’agit tout simplement des efforts que fournissent depuis quelques temps déjà les Etats-Unis pour asseoir leur hégémonie en Afrique, efforts auxquels nous n’avons pas prêté toute l’attention voulue en Europe. Boris Volkhonski, de “l’Institut Russe pour les Etudes Stratégiques” rappelle que l’ancien Président des Etats-Unis, George W. Bush, avait déjà concentré le gros de ses efforts à établir une domination américaine sur le “plus grand Moyen Orient”, ce qui avait obligé les Américains à “négliger manifestement” d’autres régions comme l’Afrique. Bush avait pourtant, de son propre chef, tenté en 2007 de rendre caduque cette erreur en créant l’AFRICOM, une structure régionale de commandement englobant tout le continent noir à l’exception de l’Egypte.

 

Entretemps, l’AFRICOM est devenue le fer de lance des efforts hégémoniques américains en Afrique. Les Etats-Unis tentent de lier à eux leurs partenaires africains en leur envoyant des instructeurs militaires, en fournissant des armes ou en organisant des manoeuvres communes: tout cela se passe dans le cadre officiel de la “lutte contre le terrorisme”. Mais dans le fond, les Etats-Unis ont une toute autre idée derrière la tête, comme l’explique Maximilian C. Forte de l’Université Concordia de Montréal: “Les intérêts chinois sont considérés comme rivaux de ceux de l’Occident aux niveaux de l’accès aux ressources et de l’influence politique. L’AFRICOM et une série d’autres initiatives du gouvernement américain doivent être perçus dans la seule optique de cette rivalité”.

 

Même la Commission européenne concluait il y a quelques années dans l’un de ses rapports, que les Etats-Unis déployaient en Afrique “une nouvelle stratégie”, s’orientant sur les directives de la Doctrine Carter. Cette dernière considérait, à la suite de l’entrée des troupes soviétiques en Afghanistan en décembre 1979, que toutes les activités développées par des puissances étrangères dans la zone du Golfe Persique étaient des actions hostiles aux Etats-Unis qui devaient être contrées de manière appropriée. Walter Kansteiner, un ancien sous-secrétaire d’Etat américain, qui avait été naguère un responsable des affaires africaines, justifiait la nécessité d’adapter la Doctrine Carter de la manière suivante: “Le pétrole d’Afrique relève pour nous d’un intérêt national et stratégique croissant et le deviendra toujours davantage”.

 

L’exemple du Soudan

 

Quand il s’agit d’imposer leurs intérêts stratégiques, les Etats-Unis n’hésitent jamais à s’immiscer dans les affaires intérieures d’autres Etats, comme le démontre le cas du Soudan, où, le 9 juillet 2011, le Sud chrétien et animiste s’est détaché du Nord islamique après une consultation populaire. Washington a soutenu massivement le mouvement sécessionniste du Sud-Soudan, non pas par souci humanitaire mais parce qu’il y avait des raisons stratégiques à ce soutien. En effet, les réserves de pétrole de l’ensemble du Soudan avaient été estimées à quelque cinq milliards de barils (= 159 litres), dont environ 85% se trouvaient dans le Sud aujourd’hui indépendant, grâce à la bienveillance de Washington. Qui plus est, le régime islamiste de Khartoum est depuis de nombreuses années un partenaire important de la Chine qui avait pris la place des Etats-Unis dans l’exploitation de l’or noir. Après que le consortium pétrolier américain Chevron se soit retiré du Soudan dans les années 80 à cause de la guerre civile qui ravageait le pays, la CNPC chinoise avait pris sa place et avait fini par détenir 40% des parts de la société pétrolière soudanaise “Greater Nile Petroleum Operating Company”.

 

Khartoum a dû payer le prix fort pour sa coopération avec les Chinois. A ce propos, on trouve ce texte dans le “Washington Post” du 23 décembre 2004: “Les relations sino-soudanaises sont devenues très étroites, ce qui démontre que les liens économiques qu’entretient la Chine dans le monde éveillent des soucis quant aux droits de l’homme et commencent à contrarier les intérêts des Etats-Unis”. En décembre 2005, les instances américaines s’occupant d’aide au développement publiaient un “papier” de teneur stratégique dans lequel on pouvait lire que le Soudan relevait, pour les Etats-Unis, “de la plus haute priorité” vu son importance dans la lutte contre le terrorisme et pour la stabilité régionale. Cette importance, les chiffres sonnants et trébuchants la révèleront aussi.

 

Une attention toute particulière

 

Pour l’année financière 2009, les Etats-Unis ont versé quelque 420 millions de dollars en “aide humanitaire” au Soudan, avec bien entendu une attention toute particulière pour les provinces du Sud du pays. Il ne s’agissait pas vraiment de distribuer des vivres aux affamés, de construire ou de réparer des infrastructures mais surtout de mettre sur pied un appareil d’Etat. L’USAID, l’instance américaine qui s’occupe du développement à l’échelle mondiale, voyait, dans cette aide au Soudan, “une opportunité extraordinaire de travailler avec de nouvelles unités gouvernementales, pour soutenir avec elles un plan de réformes, qui, s’il réussit, consolidera les intérêts américains en politique étrangère dans la région, en contribuant à y asseoir la stabilité, non seulement en Iran mais dans toute la Corne de l’Afrique”.

 

En conséquence de quoi Washington n’a rien omis pour affaiblir le Nord du Soudan et, par ricochet, la Chine. Sur le plan politique, cela s’est traduit par un soutien au “Mouvement de Libération Populaire du Sud-Soudan” (SPLM ou “Sudan People’s Liberation Movement”), la principale force politique dans le Sud du pays. Sur le plan de la propagande, le projet “Enough” a joué un rôle primordial. En théorie, et selon la définition qu’il donne de lui-même, ce projet milite pour “mettre un terme aux génocides et aux crimes contre l’humanité”. Son objectif réel était de créer un état d’esprit favorable à l’accession du Sud-Soudan à l’indépendance dans les médias occidentaux.

 

“Enough” est indissolublement lié à deux noms: ceux de George Clooney et de John Pendergast. Clooney est un acteur connu d’Hollywood, dont on a utilisé la renommée pour garantir le succès de shows médiatiques ad hoc, tandis que Pendergast était un expert ès-questions africaines auprès du “Conseil de sécurité nationale” de l’ex-Président américain Bill Clinton; c’est lui qui avait conçu et mené la campagne médiatique et diplomatique contre le Soudan. Ensuite, les liens entre “Enough” et le “think tank” du parti démocrate “Center for American Progress” sont fort étroits. Ce centre, par ailleurs, bénéficie du soutien du spéculateur en bourse, le milliardaire George Soros.

 

Dr. Bernhard TOMASCHITZ.

(article paru dans “DNZ”, Munich, n°8/2013).

La faillite de la reconstruction irakienne

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Ferdinando CALDA:

La faillite de la reconstruction irakienne

 

60 milliards de dollars de subsides avec des résultats jugés “insuffisants”. Panetta critique le retrait voulu par Obama. Une leçon pour l’Afghanistan!

 

Les Américains ont envahi l’Irak il y a dix ans et ont consacré 60 milliards de dollars pour la reconstruction du pays et le gros de cette somme colossale est parti en fumée. Stuart Bowen vient de le confirmer; il est le chef de l’agence gouvernementale de vigilance sur la reconstruction de l’Irak. Il vient de présenter son rapport final au Congrès américain. Ce rapport contient aussi une critique acerbe du modus operandi du Président Obama, formulée directement par l’ancien secrétaire d’Etat à la défense, Leon Panetta. Selon cet ancien chef du Pentagone, le retrait total des troupes américaines à la fin de l’année 2011 a réduit considérablement le pouvoir d’influence de Washington sur Bagdad. Panetta critique surtout l’incapacité du gouvernement Obama à trouver un accord avec Bagdad sur la présence militaire permanente des Etats-Unis, en particulier sur l’immunité des soldats américains face aux lois irakiennes.

 

Les coûts de la reconstruction, a déclaré Bowen, “ont été beaucoup plus élevés que prévu” et les résultarts obtenus sont “insuffisants, vu les sommes engagées”. En effet, nonobstant le fait que Washington ait déboursé 15 millions par jour, l’Irak demeure encore et toujours un pays pauvre, en grande partie privé d’électricité et d’eau potable. A Bassorah, seconde ville d’Irak, on peut encore voir des égoûts à ciel ouvert. En tout, y compris les frais diplomatiques, militaires et autres, les Etats-Unis ont dépensé près de 767 milliards de dollars depuis l’invasion de l’Irak, selon le “Congressional Budget Office”. Selon les organisations qui contrôlent les dépenses fédérales, les projets encore en cours feront monter la note à quelque 811 milliards!

 

Dans de trop nombreux cas, explique Bowen, les fonctionnaires américains ne se sont pas entretenus avec les autorités irakiennes pour essayer de comprendre comment ils pouvaient rendre service au pays ou pour tenter de savoir dans quels projets il fallait prioritairement investir de l’argent. Le résultat de tout cela, c’est que les Irakiens se sont désintéressés des initiatives américaines, tout en refusant de payer leur part, de terminer les travaux, de mettre en oeuvre les projets au préalable acceptés.

 

Le rapport de Bowen s’intitule “Apprendre de l’Irak” et fait référence à la situation en Afghanistan. Là-bas aussi, en douze années de guerre, les Etats-Unis ont dépensé des dizaines de milliards de dollars (90, dit-on) pour des projets dont l’issue est plus que douteuse. Prochainement, le gouvernement de Kaboul devra décider d’octroyer ou non l’immunité aux soldats américains après le retrait total prévu pour 2014.

 

Ferdinando CALDA.

(articule paru sur le site du quotidien romain “Rinascita”, 8 mars 2013; http://www.rinascita.eu/ ).

UMBERTO GALIMBERTI

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UMBERTO GALIMBERTI

A cura di Simone Tunesi

Ex: http://www.filosofico.net/

Nato a Monza nel 1942, Umberto Galimberti è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario all’università Ca’ Foscari di Venezia, titolare della cattedra di Filosofia della Storia.

Nelle sue opere più importanti come Heidegger, Jaspers e il tramonto dell'Occidente (1975), Psichiatria e Fenomenologia (1979), Il corpo (1983), La terra senza il male. Jung dall'inconscio al simbolo (1984), Gli equivoci dell’anima (1987) e Psiche e techne. L'uomo nell'età della tecnica (1999), Galimberti indaga il rapporto che effettivamente sussiste tra l’uomo e la società della tecnica.

Memore della lezione di Emanuele Severino (di cui è stato allievo) e di Heidegger, Galimberti sostiene che nelle condizioni attuali l’uomo non è più al centro dell’universo come intendeva l’età umanistica: tutti i concetti chiave della filosofia (individuo, identità, libertà, salvezza, verità, senso, scopo, natura, etica, politica, religione, storia) dovranno essere riconsiderati in funzione della società tecnologica attuale.

Al centro del discorso filosofico di Galimberti c’è la tecnica, che secondo il filosofo è il tratto comune e caratteristico dell’occidente. La tecnica è il luogo della razionalità assoluta, in cui non c’è spazio per le passioni o le pulsioni, è quindi il luogo specifico in cui la funzionalità e l’organizzazione guidano l’azione.

Noi continuiamo a pensare la tecnica come uno strumento a nostra disposizione, mentre la tecnica è diventata l’ambiente che ci circonda e ci costituisce secondo quelle regole di razionalità (burocrazia, efficienza, organizzazione) che non esitano a subordinare le esigenze proprie dell’uomo alle esigenze specifiche dell’apparato tecnico. Tuttavia ancora non ci rendiamo conto che il rapporto uomo-tecnica si sia capovolto, e per questo ci comportiamo ancora come l’uomo pre-tecnologico che agiva in vista di scopi iscritti in un orizzonte di senso, con un bagaglio di idee e un corredo di sentimenti in cui si riconosceva. Ma la tecnica non tende a uno scopo, non promuove un senso, non apre scenari di salvezza, non redime, non svela verità: la tecnica funziona e basta.

Il punto cruciale sta nel fatto che tutto ciò che finora ci ha guidato nella storia (sensazioni, percezioni, sentimenti) risulta inadeguato nel nuovo scenario. Come "analfabeti emotivi" assistiamo all'irrazionalità che scaturisce dalla perfetta razionalità dell'organizzazione tecnica, priva ormai di qualunque senso riconoscibile. Non abbiamo i mezzi intellettuali per comprendere la nostra posizione nel cosmo, per questo motivo ci adattiamo sempre di più all’apparato e ci adagiamo sulle comodità che la tecnica ci offre. Ciò di cui necessitiamo è un ampliamento psichico capace di compensare la nostra attuale inadeguatezza.

Inadeguato non è solo il nostro modo di pensare, inadeguata è anche l’etica tradizionale (cristiana e kantiana in particolare): le diverse etiche classiche, infatti, ponevano l’uomo al centro dell’azione, per cui  Kant dice di non trattare l’uomo come mezzo ma sempre come fine. Ma oggi questo è smentito dai fatti dell’apparato, infatti l’uomo (per usare un’espressione di Heidegger) è la materia prima più importante, è ciò di cui la tecnica si serve per funzionare. La scienza , da quando  è al servizio della tecnica e del suo procedere, non è più al servizio dell’uomo, piuttosto è l’uomo al servizio della tecno-scienza e non solo come funzionario dell’apparato tecnico come gli esponenti della Scola di Francoforte andavano segnalando sin dagli anni '50, ma come materia prima. L’etica, di fronte alla tecnica, diventa pat-etica, perché come fa a impedire alla tecnica che può di non fare ciò che può? E l’etica, nell’età della tecnica, celebra tutta la sua impotenza. Infatti, finora abbiamo elaborato delle etiche in grado di regolare esclusivamente i rapporti tra gli uomini. Queste etiche, religiose o laiche che fossero, controllavano solo le intenzioni degli uomini, non gli effetti delle loro azioni, perché i limiti della tecnica a disposizione non lasciava intravedere effetti catastrofici. Anche l’etica della responsabilità che affiancò l’etica dell’intenzione (Kant) ha, oggi i suoi limiti. A formularla fu Max Weber (poi la riprese Jonas nel suo celebre teso Il principio di responsabilità) che però la limitò al controllo degli effetti "quando questi sono prevedibili". Sennonché è proprio della scienza e della tecnica produrre effetti "imprevedibili". E allora anche l’etica della responsabilità è costretta a gettare la spugna. Oggi siamo senza un’etica che sia efficace per controllare lo sviluppo della tecnica che, come è noto, non tende ad altro scopo che non sia il proprio potenziamento. La tecnica, infatti, non ha fini da realizzare, ma solo risultati su cui procedere, risultati che non nascono da scopi che ci si è prefissi, ma che scaturiscono dalle risultanze delle sue procedure.

Per Galimberti viviamo in una società al servizio dell’apparato tecnologico e non abbiamo i mezzi per contrastarlo, soprattutto perché abbiamo la stessa etica di cent’anni fa: cioè un’etica che regola il comportamento dell’uomo tra gli uomini. Tuttavia quello che oggi serve è una morale che tenga conto anche della natura, dell’aria, dell’acqua, degli animali e di tutto ciò che è natura.

Riprendendo importanti autori come Marx, Heidegger, Jaspers, Marcuse, Freud, Severino e Anders e coinvolgendo discipline quali l’antropologia filosofica e la psicologia , Galimberti sostiene che oggi l’uomo occidentale dipende completamente dall’apparato tecnico, è un uomo-protesi come sosteneva già Freud, e questa dipendenza non sembra potersi spezzare. Tutto rientra nel sistema tecnico, qualsiasi azione o gesto quotidiano l’uomo compie ha bisogno del sostegno di questo apparato. Ormai viviamo nel paradosso, infatti se l’uomo vuole salvare se steso e il pineta dalle conseguenze del predominio della tecnica (inquinamento, terrorismo, povertà, etc.) lo può fare solo con l’aiuto della tecnica: progettando depuratori per le fabbriche, cibi confezionati, grattacieli antiaerei e così via. Il circolo è vizioso e uscirne, se non impossibile, sembra improbabile, visto soprattutto la tendenza delle società occidentali. Una speranza sarebbe quella di riuscire a mantenere le differenze tra scienza e tecnica; se riusciamo a salvaguardare una differenza tra il pensare e il fare, la scienza potrebbe diventare l´etica della tecnica. La tecnica procede la sua corsa sulla base del "si fa tutto ciò che si può fare". La scienza, che è il luogo pensante, potrebbe diventare, invece, il luogo etico della tecnica. In questo senso va recuperato il valore umanistico della scienza: la scienza al servizio dell’umanità e non al servizio della tecnica. La scienza potrebbe diventare il luogo eminente del pensiero che pone un limite. Perché la scienza ha un´attenzione umanistica. Promuove un agire in vista di scopi. Mentre la tecnica è un fare senza scopi, è solo un fare prodotti.

Il valore più profondo del pensiero di Galimberti consiste, appunto, nel tentativo di fondare una nuova filosofia dell'azione che ci consenta, se non di dominare la tecnica, almeno di evitare di essere da questa dominati.

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jeudi, 21 mars 2013

Soirée de soutien aux Boers

Pakistan: qu’y a-t-il derrière les affrontements religieux?

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Ferdinando CALDA:

Pakistan: qu’y a-t-il derrière les affrontements religieux?

 

Immobiliers et politiciens locaux ont fomenté les violences contre les chrétiens pour s’approprier leurs habitations

 

Les émotions viennent à peine de se calmer au Pakistan, où, le samedi 9 mars 2013, une foule de musulmans enragés avait mis le feu à plus d’une centaine de maisons chrétiennes à Lahore dans l’est du pays. Cette violence s’est déchaînée suite à une accusation de blasphème. Des manifestations de chrétiens, très dures également, s’en sont suivies en guise de riposte puis les polémiques se sont déchaînées notamment sur le rôle de la police et des autorités locales. Tous ces événements se déroulent sur fond d’un pays en crise économique et politique qui se serait bien passé de cette explosion de violences inter-religieuses, derrière lesquelles se dissimulent des intérêts économiques et politiques qui n’ont finalement pas grand chose à voir avec les religions. Dans la semaine du 4 au 9 mars 2013, par exemple, on a enregistré plusieurs attaques sanglantes contre la communauté chiite pakistanaise. D’après certains observateurs, cette “escalade” doit être interprétée en tenant compte de l’accord récent entre le Pakistan (à majorité sunnite) et l’Iran chiite, un  accord visant la construction d’un gazoduc unissant les deux pays. Ce projet déplait évidemment aux Etats-Unis et aux autres ennemis de la République Islamique d’Iran dans la région (surtout à l’Arabie saoudite).

 

D’après les reconstitutions qui ont été faites suite aux débordements récents de Lahore, il y a, à la base de l’assaut perpétré contre le quartier chrétien de “Joseph Colony”, une banale rixe entre deux poivrots notoires. Le soir du 5 mars dernier, le chrétien Sawan Masih, âgé de 28 ans, qui travaille dans le secteur hospitalier, et son ami coiffeur, le musulman Shahid Imran, auraient eu une altercation dans le salon de ce dernier. Gros mots et insultes s’ensuivirent qui ont finalement débouché dans le domaine religieux. A la suite de quoi, le coiffeur a dénoncé son ami à la police, l’accusant de “blasphème”; les policiers ont en conséquence arrêté Sawan Masih (ou plutôt l’ont pris “en garde à vue”).

 

Aussitôt, le bruit se répand qu’un chrétien “a insulté le prophète Mohamet” et la communauté musulmane de la ville très peuplée de Lahore entre en ébullition. Samedi 9, une foule de quelque trois mille personnes se rue sur le quartier de “Joseph Colony”, auparavant évacué par la police qui, officiellement, craignait des désordres, et met le feu à une centaine d’habitations (d’autres sources parlent d’au moins 150 maisons détruites). Le lendemain, les chrétiens descendent à leur tour dans la rue, bloquent un carrefous important et affrontent la police à coup de pierres, de matraques et de grenades lacrymogènes. D’autres manifestations de protestation éclatent à Multan, toujours dans la province du Penjab, ainsi que dans la ville portuaire de Karachi, la plus grande ville du Pakistan.

 

Lundi 11 mars, les violences s’estompent mais font place aux polémiques. Les écoles chrétiennes du Penjab sont fermées, de même que celles de la province du Sindh, dans le Sud-Est, où se trouve Karachi. Entretemps, le comportement de la police de Lahore est dans le collimateur de la Cour Suprême pakistanaise. Après avoir décidé de s’occuper des causes de la violence survenue dans le quartier de “Joseph Colony” et après avoir pris acte d’un rapport des autorités provinciales du Penjab sur les incidents survenus, les juges ont accusé la police “d’y avoir assisté silencieusement” et de n’avoir rien fait pour prévenir les actes de vandalisme car “ils ont ordonné l’évacuation des familles le jour précédent”.

 

Selon l’ONG “Asian Human Rights Commission” (AHRC), c’est le projet d’un lobby immobilier qui se profile derrière les attaques du samedi 9 mars. Ce projet vise à mettre la main sur les propriétés des chrétiens avec la complicité des autorités locales. “Il y avait déjà quelques années que la mafia de l’immobilier convoitait le quartier de ‘Joseph Colony’ avec l’intention de le transformer en un grand espace commercial”, accuse un communiqué de l’AHRC, dont le siège se trouve à Hong Kong et qui s’occupe des droits des minorités religieuses en Asie. L’AHRC dénonce en outre un autre fait: dans la foule qui incendiait les maisons “se trouvaient quelques membres de l’assemblée législative locale et même un député national”. Tous appartiennent au parti de la “Ligue Musulmane du Pakistan-Nawaz” (Pml-N), qui se trouve dans l’opposition au Parlement national mais détient le pouvoir au Penjab.

 

Ferdinando CALDA.

(article paru sur le site du quotidien romain “Rinascita”, 13 mars 2013, http://www.rinascita.eu/ ).

Il terrorismo in Europa occidentale

Analisi CeSEM, febbraio 2013:

Il terrorismo in Europa occidentale

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Analisi CeSEM – Febbraio 2013

Il terrorismo in Europa occidentale. Dalla “strategia della tensione” al giorno d’oggi


Giacomo Gabellini e intervista a Daniele Ganser

E’ stato ampiamente dimostrato che il fenomeno del terrorismo in Europa occidentale rispondeva a ben precisi obiettivi politici, e che gli esecutori materiali degli attentati che hanno scosso vari Paesi del Patto Atlantico rappresentavano la manovalanza dipendente da specifiche sfere di potere. Nonostante la fine della Guerra Fredda, il terrorismo ha continuato a segnare la storia del Vecchio Continente. Quali sono i nuovi obiettivi.

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Le problème de Chypre et ses conséquences

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Le problème de Chypre et ses conséquences

 

La zone euro et le FMI ont annoncé avoir trouvé le samedi 16 mars matin un accord sur un plan de sauvetage de Chypre. Mais, alors que le gouvernement Chypriote demandait 17 milliards, ce plan ne lui en accorde qu’un maximum de 10 milliards. Il faut alors pour combler la différence mettre en œuvre une taxe exceptionnelle sur les dépôts bancaires qui rapportera, on l’espère à cet instant, 5,8 à 6 milliards comme indiqué samedi par le chef de file de l’Eurogroupe, Jeroen Dijsselbloem. Nicosie devient le cinquième pays de la zone euro à bénéficier d’un programme d’aide européen et international. Le problème vient de ce que le système bancaire chypriote est sans commune mesure avec l’économie du pays.

Le plan du 16 mars

Pour réduire leur participation à 10 milliards, les bailleurs de fonds ont donc demandé à Nicosie d’instaurer une taxe exceptionnelle de 6,75 % sur les dépôts bancaires en deçà de 100 000 euros, et de 9,9 % au-delà. Ce prélèvement, dont le principe n’est en rien scandaleux, le devient par son côté très fortement inégalitaire mais aussi parce qu’il s’accompagne d’une retenue à la source sur les intérêts de ces dépôts. À ces taxes s’ajoutent des privatisations prévues (mais non encore chiffrées) et une hausse de l’impôt sur les sociétés, qui passera de 10 à 12,5 %.

Les bailleurs de fonds de Chypre ont renoncé à un effacement de dette, qui aurait fait subir de lourdes pertes aux créanciers privés (ce qui fut pourtant fait en Grèce au printemps 2012). Il faut ajouter qu’une telle mesure était fermement rejetée par Nicosie en raison de ces implications sur la confiance dans les banques. Mais les mesures proposées ne valent guère mieux. Tous les épargnants seront touchés par ces nouvelles taxes, qu’ils soient chypriotes ou étrangers, en particulier russes mais aussi britanniques. En effet, la Grande-Bretagne entretient deux importantes bases à Chypre, où stationnent plusieurs milliers de militaires et leurs familles. Les autorités ont déjà pris des mesures pour geler les sommes sur les comptes, et une loi devait être adoptée au cours du week-end pour permettre cette opération et empêcher une fuite massive des capitaux. Or, le vote de cette loi a été reporté à lundi (qui est un jour férié) en raison des oppositions au Parlement. Il est probable que cette loi, si elle est votée en définitive, ne le sera pas avant mardi ou mercredi. Les banques devront rester fermées jusque là, et ceci va certainement encourager la panique et le mécontentement, déjà très perceptibles.

Les réactions des créanciers

On ne pénalise pas Chypre“, a déclaré Jeroen Dijsselbloem qui a ajouté : “Nous sommes aux côtés du gouvernement chypriote, c’est ce paquet qui permettra une restructuration du secteur bancaire et rendra la dette durable“. La directrice du FMI, Christine Lagarde, dont l’institution devrait participer au plan d’aide chypriote, a quant à elle, déclaré : “La solution présentée est durable, pérenne et dans l’intérêt de l’économie chypriote“.  Pour l’instant aucun ordre de grandeur n’a été évoqué publiquement, mais la contribution du FMI pourrait avoisiner un milliard d’euros. Les taxes et autres prélèvements seront entièrement compensées par la distribution d’actions, a indiqué le Ministre chypriote des Finances, Michalis Sarris, soulignant que les mesures prises ont permis d’éviter “des coupes dans les salaires et les pensions“. Pourtant, le Président de Chypre a indiqué qu’il avait été confronté à un « fait accompli » de la part de l’UE et du FMI (ici). Il semble donc que ces mesures aient bien été imposées et non négociées. De plus, on ne sait toujours pas à l’heure actuelle si les comptes des entreprises seront concernés par ces mesures, ce qui pourrait provoquer la mort de très nombreuses PME-PMI. En l’état, il est difficile de considérer que les mesures adoptées dans les premières heures du samedi 16 mars soient selon les mots de Mme Lagarde « durable et pérenne ». Tout laisse à penser que l’on est en train d’assister à une crise de confiance massive dans les banques chypriotes.

Neuf mois de retards et d’atermoiements

Chypre avait demandé dès juin 2012 une aide financière à l’UE ainsi qu’au FMI, pour pouvoir renflouer ses deux principales banques, victimes de la crise grecque et de la restructuration imposée aux créditeurs privés. Mais les bailleurs de fonds n’étaient pas prêts à lui accorder 17,5 milliards d’euros, soit l’équivalent de son PIB. La crainte principale était que le pays ne puisse rembourser une somme aussi importante pour lui et que la dette explose à des niveaux insoutenables, une fois l’aide versée, comme ce fut le cas pour la Grèce. La question de la restructuration de ces banques a donc traîné pendant des mois, tandis que la situation devenait toujours plus explosive à Chypre.

Le Premier ministre luxembourgeois, Jean-Claude Juncker, qui fut le patron des ministres des Finances de la zone euro pendant huit ans, avait cependant déclaré : “Je ne peux imaginer que nous laissions passer le week-end sans avoir résolu le problème chypriote” . L’Allemagne, qui s’était montrée réticente sur les possibilités d’un accord ces derniers jours, avait elle fait pression pour que Chypre lutte activement contre le blanchiment d’argent. Nicosie a ainsi dû accepter de se soumettre à un audit dont les premières conclusions sont attendues à la fin du mois de mars 2013.

Une contribution russe

Nicosie doit également se tourner vers la Russie, pays dont elle est proche économiquement et culturellement. On sait que Chypre est devenue une place « off-shore » pour de nombreuses sociétés russes, qui ont exportés dans des conditions souvent douteuses des capitaux dans les années 1990 et le début des années 2000. Chypre est aussi un lieu de villégiature pour certaines couches de la population russe. On estime que 37% des dépôts dans les banques sont le fait de non-chypriotes, ce qui inclut tant les Russes que les Britanniques, mais aussi une partie de la bourgeoisie grecque qui trouvait dans Chypre un lieu pratique pour procéder à l’évasion fiscale.  Si la contribution de Moscou est acquise, il semble en l’état qu’elle devrait être limitée. “Le pays est prêt à prolonger le remboursement d’un prêt et à réduire les taux d’intérêt, mais il n’entend pas aller au-delà“, a prévenu le commissaire européen en charge des Affaires économiques, Olli Rehn. Le prêt en question se monte à 2,5 milliards d’euros et arrive à échéance en 2016.

On a avancé que cette taxe sur les dépôts pouvait s’apparenter à une dévaluation déguisée de Chypre. Il n’en est rien. Cette mesure ne rendra pas les biens et services produits sur place moins chers, ni plus chers les biens et services importés. C’est donc un contre-sens complet. En fait, le problème de Chypre s’apparente à trouver des ressources fiscales exceptionnelles pour pouvoir re-capitaliser ses banques compte tenu de la réduction de 17 à 10 milliards de l’aide européenne. Une taxe sur les dépôts peut s’apparenter à un impôt sur la fortune qui est exceptionnel. Mais l’assiette utilisée en fait en réalité un impôt très inégalitaire. Il est étonnant que l’on n’ait pas pensé à établir une somme minimum (de l’ordre de 30 000 à 50 000 euros) qui serait exemptée de tout prélèvement. Ceci aurait permis de ne pas léser les petits déposants. De même, il aurait fallu dire dès le départ que les comptes des entreprises ne seraient pas touchés par ces prélèvements, car ceci provoquera une ponction sur le capital circulant qui sera intolérable pour de très nombreuses PME-PMI. Pourtant, ceci n’est rien si l’on considère que le problème principal réside dans une crise de confiance majeure vis-à-vis du système bancaire provoqué par cette mesure. Le début de panique bancaire auquel on a assisté le samedi 16 mars le prouve. Cette panique devrait probablement se continuer dans les jours qui suivent. Alors que la confiance des épargnants dans la solidité de leurs banques est relativement faible dans une bonne partie de l’Europe du Sud, cette mesure revient à agiter un chiffon rouge devant leurs yeux. Le risque est donc que l’on assiste à une contagion qui toucherait d’abord la Grèce, puis l’Espagne et enfin l’Italie.

Dernière heure (ajout du 17 mars à 23h30)

Tard, dans la soirée, on apprenait d’une part que le gouvernement chypriote cherchait à renégocier l’accord avec Bruxelles devant l’ampleur des protestations que celui-ci avait provoqué, et que certaines sources, en Allemagne mais aussi à la BCE, envisageaient d’appliquer cette méthode de la confiscations des dépôts à l’Italie et à l’Espagne. La première proposition fait sens, à la condition qu’elle n’entraîne pas un taux de confiscation supérieur à 12% pour les tranches de dépôts les plus élevés. Compte tenu de la structure des dépôts dans les banques chypriotes, il est actuellement difficile de dire si une solution allant dans ce sens pourra être trouvée. La seconde idée est elle une folie pure. Commencer à évoquer la possibilité d’une confiscation fiscale de l’ordre de 15% sur les dépôts en Italie est exactement ce qu’il faut pour provoquer dès demain un bank run massif dans la péninsule. Quels que soient les démentis qui seront apportés, il est à craindre que le mal ne soit déjà fait car l’information circule actuellement très vite sur les réseaux sociaux (Twitter et Facebook). Nous avons ici la preuve de l’inconscience des bureaucrates de Berlin, Francfort et Bruxelles. Audiard faisait dire à un de ses personnage dans le cultissime Les Tontons Flingueurs “Ah, le con, il a osé”. Mais à ce rythme, à Bruxelles, Francfort et ailleurs nous aurons bientôt les tontons flingués!

English translation

The Cyprus Problem and its consequences, 18/03/2013

Citation

Jacques Sapir, “Le problème de Chypre et ses conséquences”, billet publié sur le carnet Russeurope le 17/03/2013, URL: http://russeurope.hypotheses.org/1034

Groenland: un nouveau marché pour les ressources énergétiques

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Andrea PERRONE:

Groenland: un nouveau marché pour les ressources énergétiques

 

Au Groenland, les élections récentes ont été remportées par la sociale-démocrate Aleqa Hammond et elles pourraient fort bien modifier le visage de l’île autonome, sous souveraineté danoise

 

Quelques milliers d’électeurs ont choisi la sociale-démocrate Aleqa Hammond pour diriger le nouveau gouvernement du Groenland, une île de dimensions continentales mais qui n’a que la population d’un gros bourg (plus ou moins 57.000 habitants). L’opposition sociale-démocrate du “Siumut” (ce qui signifie “En Avant!”, comme le journal socialiste italien d’antan, “Avanti”, ou son équivalent allemand “Vorwärts!”) a battu le premier ministre sortant Kuupik Kleist et son parti socialiste “Inuit Ataqatigiit” (“Hommes et Solidarité”). Aleqa Hammond a obtenu 42,8% des voix et Kuupik Kleist, 34,4%. Le parti de Madame Hammond a obtenu quatorze sièges et une majorité relative sur les 31 sièges que compte le Parlement du Groenland. Elle devra former une coalition pour s’assurer une majorité absolue. Elle s’est d’ores et déjà affirmée prête à donner vie à une vaste coalition avec tous ceux qui sont disposés à en faire partie.

 

L’intérêt politique et géographique que suscite aujourd’hui le Groenland est en grande partie dû aux changements climatiques en cours. Le dégel du permafrost en zone arctique a ouvert de nouvelles routes de navigation et a rendu plus facile l’accès aux ressources naturelles, que l’on trouve en abondance sur le “continent blanc” au Nord de l’Europe. Les investisseurs se bousculent pour obtenir une licence et exploiter au maximum les réserves de pétrole, de gaz, de minerais comme le fer, l’aluminium et les terres rares. “Il y a là-bas une quantité énormes de ressources de grande valeur qui attendent d’être exploitées”, a observé Jan Fritz Hansen, vice-directeur de l’association qui regroupe les armateurs danois. L’intérêt que portent les sociétés étrangères coïncide avec les aspirations des Groenlandais à devenir complètement indépendants du Danemark mais pour y arriver, ils doivent disposer de suffisamment de fonds propres; alors seulement, ils pourront satisfaire cette volonté fébrile de s’autonomiser par rapport à Copenhague. “Il sera bien intéressant de voir le résultat des élections”, avait souligné Damien Degeorges, un spécialiste du Groenland, fondateur de l’ “Arctic Policy and Economic Forum”, qui ajoutait que le Groenland avait toujours été jusqu’ici sous-évalué dans les projets de développement futur de la région arctique. Jusqu’à présent, une seule mine fonctionne au Groenland mais les autorités viennent d’augmenter considérablement le nombre de licences octroyées pour exploiter des minerais: le nombre de ces licences atteint désormais le chiffre de 150 unités. Il y a une dizaine d’années, les licences octroyées étaient moins de 10! L’exploitation potentielle des ressources pourrait apporter des richesses considérables aux citoyens du Groenland mais aussi leur faire courir des dangers nouveaux, surtout sur les plans écologique et social: pollutions à grande échelle et bouleversements dans l’ordre social pourraient en résulter.

 

 

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On prévoit l’exploitation d’une mine de fer près d’Issua, à quelques kilomètres seulement de la capitale, où des milliers de tonnes de ce minerais seraient disponibles pour être envoyées chaque année en Chine. Pour sa part, le géant américain ALCOA cherche depuis plusieurs années à installer un complexe de fusion de l’aluminium à Maniitsoq où des milliers de travailleurs chinois seraient embauchés à des prix nettement inférieur aux salaires locaux.

 

Les élections qui viennent de se dérouler au Groenland, province autonome du Danemark, ont donc porté aux affaires le parti social-démocrate de Madame Hammond, favorable à l’exploitation des vastes ressources minérales de l’île, tout comme l’était d’ailleurs son rival politique, le leader socialiste Kleist. Les gisements d’uranium au Groenland, s’ils étaient exploités, pourraient redimensionner le marché mondial de l’énergie nucléaire. L’île, de par sa position géographique, forme également la porte d’accès à l’Arctique où la fonte progressive des glaces permet d’envisager l’ouverture de nouvelles routes de navigation maritime dans cette zone que l’on considère de plus en plus comme économiquement rentable et exploitable. Certains analystes estiment que l’intérêt que porte la Chine au Groenland est de nature plus économique que géopolitique. En effet, les puissances qui ont, au Groenland, des intérêts géostratégiques évidents sont surtout les Etats-Unis, le Canada, l’Union Européenne et les pays d’Europe septentrionale, sans oublier, bien entendu, la Russie. Tous ces Etats se contentent pour l’instant de sonder les fonds marins et de redéfinir le tracé des frontières maritimes dans l’Arctique. Le réchauffement du Groenland a déjà révélé bien des ressources du sous-sol de l’île, notamment les terres rares, c’est-à-dire les métaux utilisés comme ingrédients principaux dans la fabrication de téléphones cellulaires, d’armes et de technologies ultramodernes. C’est aujourd’hui la Chine qui contrôle environ 90% de la production globale de ces terres rares donc l’exploitation des gisements groenlandais pourrait mettre un terme au monopole chinois en ce domaine.

 

Les villages de l’île qui jusqu’ici n’ont vécu que de la pêche s’inquiètent bien entendu des changements climatiques, dont l’effet premier est la fonte des glaces. L’uranium dans ce cas pourrait être l’occasion d’acquérir davantage d’indépendance et d’obtenir un travail plus sûr. Tout cela n’est pas sans danger pour la santé et pour l’environnement. Mais il n’y a pas que cela. Le quotidien danois “Politiken” estime que l’exploitation de ces gisements ne fera qu’augmenter le népotisme et la corruption, déjà solidement implantés dans les milieux politiques de l’île. A ce danger, il convient aussi d’évoquer une possible polarisation sociale déstabilisante pour la société groenlandaise: celle qui opposera les centres urbains proches des mines aux villages isolés. Tous ces éléments doivent nous induire à poser des questions quant à l’avenir du Groenland, victime prédestinée des grands consortiums américains et européens sans oublier ceux des pays émergents comme la Chine, la Russie et la Corée du Sud en toute première ligne.

 

Andrea PERRONE.

(article paru sur le site de la revue romaine “Rinascita”, 15 mars 2013, http://www.rinascita.eu/ ).

The New Propaganda Is Liberal

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The New Propaganda Is Liberal

 
 
What is modern propaganda? For many, it is the lies of a totalitarian state. In the 1970s, I met Leni Riefenstahl and asked her about her epic films that glorified the Nazis. Using revolutionary camera and lighting techniques, she produced a documentary form that mesmerized Germans; her Triumph of the Will cast Hitler’s spell.

She told me that the “messages” of her films were dependent not on “orders from above,” but on the “submissive void” of the German public. Did that include the liberal, educated bourgeoisie? “Everyone,” she said.

Today, we prefer to believe that there is no submissive void. “Choice” is ubiquitous. Phones are “platforms” that launch every half-thought. There is Google from outer space if you need it. Caressed like rosary beads, the precious devices are borne heads-down, relentlessly monitored and prioritised. Their dominant theme is the self. Me. My needs. Riefenstahl’s submissive void is today’s digital slavery.

Edward Said described this wired state in ‘Culture and Imperialism’ as taking imperialism where navies could never reach. It is the ultimate means of social control because it is voluntary, addictive and shrouded in illusions of personal freedom.

Today’s “message” of grotesque inequality, social injustice and war is the propaganda of liberal democracies. By any measure of human behavior, this is extremism. When Hugo Chavez challenged it, he was abused in bad faith; and his successor will be subverted by the same zealots of the American Enterprise Institute, Harvard’s Kennedy School and the “human rights” organisations that have appropriated American liberalism and underpin its propaganda. The historian Norman Pollack calls this “liberal fascism.” He wrote, “All is normality on display. For [Nazi] goose-steppers, substitute the seemingly more innocuous militarization of the total culture. And for the bombastic leader, we have the reformer manque, blithely at work [in the White House], planning and executing assassination, smiling all the while.”

Whereas a generation ago, dissent and biting satire were allowed in the “mainstream,” today their counterfeits are acceptable and a fake moral zeitgeist rules. “Identity” is all, mutating feminism and declaring class obsolete. Just as collateral damage covers for mass murder, “austerity” has become an acceptable lie. Beneath the veneer of consumerism, a quarter of Greater Manchester is reported to be living in “extreme poverty.”

The militarist violence perpetrated against hundreds of thousands of nameless men, women and children by “our” governments is never a crime against humanity. Interviewing Tony Blair 10 years on from his criminal invasion of Iraq, the BBC’s Kirsty Wark gifted him a moment he could only dream of. She allowed Blair to agonise over his “difficult” decision rather than call him to account for the monumental lies and bloodbath he launched. One is reminded of Albert Speer.

Hollywood has returned to its cold war role, led by liberals. Ben Affleck’s Oscar-winning Argo is the first feature film so integrated into the propaganda system that its subliminal warning of Iran’s “threat” is offered as Obama is preparing, yet again, to attack Iran. That Affleck’s “true story” of good-guys-vs-bad-Muslims is as much a fabrication as Obama’s justification for his war plans is lost in PR-managed plaudits. As the independent critic Andrew O’Hehir points out, Argo is “a propaganda movie in the truest sense, one that claims to be innocent of all ideology.” That is, it debases the art of film-making to reflect an image of the power it serves.

The true story is that, for 34 years, the US foreign policy elite have seethed with revenge for the loss of the shah of Iran, their beloved tyrant, and his CIA-designed state of torture. When Iranian students occupied the US embassy in Tehran in 1979, they found a trove of incriminating documents, which revealed that an Israeli spy network was operating inside the US, stealing top scientific and military secrets. Today, the duplicitous Zionist ally – not Iran – is the one and only nuclear threat in the Middle East.

In 1977, Carl Bernstein, famed for his Watergate reporting, disclosed that more than 400 journalists and executives of mostly liberal US media organizations had worked for the CIA in the past 25 years. They included journalists from the New York Times, Time, and the big TV broadcasters. These days, such a formal nefarious workforce is quite unnecessary. In 2010, the New York Times made no secret of its collusion with the White House in censoring the WikiLeaks war logs. The CIA has an “entertainment industry liaison office” that helps producers and directors remake its image from that of a lawless gang that assassinates, overthrows governments and runs drugs. As Obama’s CIA commits multiple murder by drone, Affleck lauds the “clandestine service… that is making sacrifices on behalf of Americans every day… I want to thank them very much.” The 2010 Oscar-winner Kathryn Bigelow’s Zero Dark Thirty, a torture-apology, was all but licensed by the Pentagon.

The US market share of cinema box-office takings in Britain often reaches 80 percent, and the small UK share is mainly for US co-productions. Films from Europe and the rest of the world account for a tiny fraction of those we are allowed to see. In my own film-making career, I have never known a time when dissenting voices in the visual arts are so few and silent.

For all the hand-wringing induced by the Leveson inquiry, the “Murdoch mold” remains intact. Phone-hacking was always a distraction, a misdemeanor compared to the media-wide drumbeat for criminal wars. According to Gallup, 99 percent of Americans believe Iran is a threat to them, just as the majority believed Iraq was responsible for the 9/11 attacks. “Propaganda always wins,” said Leni Riefenstahl, “if you allow it.”

Read more by John Pilger

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mercredi, 20 mars 2013

Bulletin célinien n°350

Le Bulletin célinien n°350

mars 2013

Vient de paraître : Le Bulletin célinien, n° 350.

Au sommaire :

Marc Laudelout : Bloc-notes
Christine Sautermeister : Céline mémorialiste
Bernard Morlino : Jean Luchaire, l'enfant perdu des années sombres
Cédric Meletta : Jean Luchaire à Sigmaringen
Jean-Paul et François Senac : Le choix de Sigmaringen
Eugène Saccomano nous écrit

Abonnement : 55 euros à :

Le Bulletin célinien, Bureau St Lambert, B P 77, BE 1200 Bruxelles.
Courriel : celinebc@skynet.be.

> Consulter le sommaire des anciens numéros ici.

Imposture du RAP

Siria: le ragioni di Damasco

Hongrie: deux poids, deux mesures

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Hongrie: l’UE juge les faits avec deux poids, deux mesures

 

En Autriche aussi, on peut restreindre les prérogatives de la Cour constitutionnelle

 

Quand, en Roumanie, le premier ministre Ponta dépouille la Cour constitutionnelle de tous ses pouvoirs, l’UE garde le silence

 

Dans le dossier “Hongrie”, l’UE, une fois de plus, juge les faits avec deux poids, deux mesures, a déclaré récemment le chef de la délégation de la FPÖ autrichienne, Andreas Mölzer. “Bien entendu, on peut avoir des opinions divergentes face aux récentes modifications constitutionnelles que le gouvernement conservateur de droite du premier ministre Viktor Orban, fort de sa majorité des deux tiers, a décidé d’entreprendre. Mais dire qu’il s’agit d’une entorse aux valeurs de l’UE ou d’une voie ouverte vers la dictature, est exagéré”, ajoute Mölzer.

 

Le mandataire européen de la FPÖ a ensuite souligné que le procédé choisi par le gouvernement Orban, c’est-à-dire hisser les lois suspendues par la Cour Constitutionnelle au rang d’éléments constitutionnels, n’est pas une spécificité hongroise. “En Autriche également, le gouvernement soutenu par une coalition socialiste/démocrate-chrétienne, lorsqu’il bénéficiait encore d’une majorité des deux tiers, n’a cessé de contourner les décisions de la Cour constitutionnelle, dans la mesure où il a fait transformer en lois constitutionnelles les dispositions levées par la Cour Suprême ou les dispositions qu’il s’attendait à voir lever”, a précisé Mölzer.

 

Par ailleurs, il est tout de même étrange, ajoute le député FPÖ, que les porte-paroles de la “démocratie politique” au sein de l’UE tirent une nouvelle fois à boulets rouges sur Orban, tandis que les mêmes voix se taisent en toutes langues lorsqu’au début de cette année le premier ministre socialiste roumain Ponta a voulu dépouiller le Tribunal constitutionnel roumain de toutes ses prérogatives. “Une fois de plus, on s’aperçoit que l’UE lance des campagnes systématiques contre des gouvernements de droite tandis qu’elle étend son manteau protecteur sur tous les post-communistes”, conclut Mölzer.

 

Communiqué affiché sur http://www.andreas-moelzer.at/

Sur la Franche-Comté

Euro-rus :

5de Ronde Tafel - 5-й Круглый Стол

5th Round Table - 5ème Table Ronde

Robert Steuckers:

Sur la Franche-Comté

Soutien aux Boers!

Frontière franco-belge, samedi 30 mars :

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Hermano Boer

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Hermano Boer

Poesia Epica

Juan Pablo Vitali

 

Los otros no saben
Lo que fue poner el piano
En la casa junto al río
Y que en las tierras solitarias
Y despiadadas, sonara Mozart
Por primera vez.
Nosotros sí sabemos.

Los otros no saben
Lo que es quemar las naves
Abandonar la tierra con tus muertos
Y partir.
Nosotros sí sabemos.

Los otros no saben
Lo que es pelear contra todos a la vez
Y mantener la sonrisa por las noches
Para que los niños
Tengan un minuto de paz.

Los otros no saben nada del confín
Del vacío, de la sequía, de la soledad.
Nosotros sí sabemos.
Y también sabemos que fue, nuestra propia madre
Seca de odio y ávida de divisas
La que nos arrojó con el hambre
A los espacios vacíos.

Nosotros, hermano Boer
Somos el vástago terrible
El hijo al que los padres, volvieron la espalda.
En realidad, no sé si pensábamos lo mismo
Ni me importa.

Tuvimos los mismos enemigos:
El inglés amante del exterminio
Y de los campos de concentración,
La hidra oscura de mil cabezas que grita
Homicidio y sangre y bailar embriagados
Alrededor de los cadáveres recién muertos.

Pero nosotros, aún somos
El piano junto al río, el tibio sol
En la pradera, el fuego y las charlas
Sobre libros junto al fuego.
Los caballos que con tanto amor criamos
La tierra que abonamos, con sudor y con sangre
Durante siglos.

Somos, camarada, los últimos pueblos
Del trigo y las canciones.
Tuvimos una vida hermosa
Los dioses lo saben.
Sabíamos que solos, algún día
Esto pasaría. Pero entre nuestro destino
Y el de ellos, prefiero el nuestro.

Descansa en paz, hermano Boer
El destino es extraño y milenario
Y los ríos llevan tu sangre y la de Mozart
Hasta un lugar idílico
Olimpo, Walhalla, paraíso
Donde nunca mueren los guerreros
Donde nuestro pueblo es feliz
Y cultiva soles.

Juan Pablo Vitali.
Ex: http://delasfalto.blogspot.com/

mardi, 19 mars 2013

Soirée Boer

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La Hongrie se donne une constitution taillée pour défendre les valeurs nationales

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Andrea PERRONE:

La Hongrie se donne une constitution taillée pour défendre les valeurs nationales

 

Le président hongrois Janos Ader a signé l’amendement de la Charte Constitutionnelle qui vise à consolider l’unité de la patrie

 

Le président hongrois Janos Ader a annoncé qu’il signera l’amendement modifiant la Constitution en dépit des avertissements lancés par la Commission Européenne, les Etats-Unis et les associations et ONG qui défendent soi-disant les droits de l’homme, qui tous, estiment que cet amendement contient des “risques” pour la démocratie en pays magyar; sans doute, l’UE et les Etats-Unis, flanqués de leurs ONG subversives, préfèrent-ils une Hongrie entièrement dominée par les grands oligopoles, par les banques et les technocrates, à la solde des usuriers internationaux et refusent-ils une Constitution qui soit réellement au service du peuple hongrois. Eurocrates, Américains et ONG ne veulent apparemment pas comprendre qu’une Charte Constitutionnelle de ce type permet de défendre la souveraineté monétaire et les valeurs nationales magyares. Lundi 11 mars 2013, le Parlement, entièrement contrôlé par la majorité parlementaire, démocratiquement élue par le peuple hongrois et surtout représentée par le parti Fidesz du premier ministre Viktor Orban, a approuvé l’amendement contesté 1) qui limite notamment le pouvoir de la Cour Constitutionnelle, en annule toutes les sentences énoncées avant l’entrée en vigueur de la nouvelle Constitution au début de l’année 2012, 2) qui favorise toutes les normes permettant la sauvegarde des institutions d’enseignement supérieur, 3) qui maintient le contrôle des pouvoirs publics sur les personnes sans domicile fixe, ainsi que sur les lois électorales et 4) qui défend la famille traditionnelle.

 

Dans une déclaration affichée sur son site officiel, le Président Ader, proche d’Orban, a expliqué que sa signature relève d’une obligation inscrite dans la Constitution selon laquelle le Président est obligé de signer la Charte et ses modifications endéans les cinq jours, après son dépôt. Et Ader commente: “C’est le seul choix que m’offre la Constitution, en phase avec mon serment, avec les normes actuelles et avec les sentences de la Cour constitutionnelle au cours de ces vingt dernières années”. “Etre démocrate signifie suivre les règles d’un Etat légal en toutes circonstances”, a-t-il encore précisé. “C’est, sans équivoque, mon devoir constitutionnel de signer et de déclarer que cet amendement à la Constitution fait désormais loi”, même après “avoir lu des arguments intelligents dans la presse politique et dans les avis de bon nombre d’experts indignés”, hostiles à la réforme, a ajouté Ader, vu que la question cruciale soulevée par l’amendement concerne “l’unité nationale”, indépendamment du fait que “cela me plaise ou non”. Poursuivant son raisonnement, Ader précise: “le Président de la République ne doit pas simplement agir au-dessus de la politique des partis, il doit toujours se placer aux côtés de la politique nationale, en tous moments et en toutes occasions”.

 

Mais les opposants à cet amendement ne manquent pas, y compris en Hongrie. Le lundi 11 mars 2013, des milliers de personnes ont manifesté devant les bureaux d’Ader, l’exhortant à ne pas signer l’amendement. Les adversaires de cet amendement, dont l’ancien Président Lazslo Solyom, prétendent que le Président peut renvoyer un texte en sa qualité de garant du fonctionnement démocratique de l’Etat. Le gouvernement Orban, pour sa part, observe que son ample mandat parlementaire l’autorise à réformer une Constitution vieillie, vestige du régime communiste du passé, contrôlé par feue l’Union Soviétique.

 

Le Parlement hongrois en 2011 avait approuvé une nouvelle Constitution mais il avait été obligé de la modifier à cause des avertissements que ne cessaient de lancer les technocrates de Bruxelles et à cause des réticences de la Cour Constitutionnelle sur des questions comme l’indépendance de la Banque centrale hongroise, de l’indépendance de la magistrature ou d’autres institutions. Ces affrontements politiques avaient favorisé les attaques des spéculateurs internationaux contre le forin hongrois sur les marchés boursiers. Le gouvernement a été obligé de demander un prêt au FMI qui a certes promis une “aide” mais en échange de toute une kyrielle de contraintes très pesantes pour Budapest. Mardi 19 mars 2013, Olli Rehn, Commissaire européen des affaires économiques et monétaires, sera en Hongrie pour rencontrer le premier ministre Orban et le ministre des affaires économiques Mihaly Varga. On ne connait pas encore l’ordre du jour de la rencontre et on ne sait pas encore si le quatrième amendement à la Constitution hongroise sera évoqué ou non, alors que c’est précisément cet amendement-là qui a déclenché une avalanche de critiques de la part des Etats-Unis, de la Commission Européenne et du Conseil de l’Europe, toutes instances préoccupées de voir que le gouvernement hongrois, lui, défend au moins la souveraineté et l’indépendance nationales face aux potentats politiques et économiques téléguidés par les technocrates européens et internationaux. En somme, nous avons affaire là à des ingérences indues, perpétrées par une puissance d’au-delà de l’Océan et par des technocrates qui se permettent de s’immiscer dans les affaires intérieures d’un Etat souverain.

 

Andrea Perrone.

(article paru sur le site de “Rinascita”, 15 mars 2013; http://www.rinascita.eu/ ).

L’Algérie est clairement la suivante sur la liste

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« L’Algérie est clairement la suivante sur la liste »

par Michel Collon

Ex: http://www.michelcollon.info/

Entretien accordé au quotidien algérien La Nouvelle République à propos de la guerre au Mali, du conflit syrien et des « printemps arabes ». 

Michel Collon est écrivain et journaliste indépendant. Il écrit des livres, collabore à des documentaires et a fondé le Collectif Investig’Action. Celui-ci anime le site Internet michelcollon.info avec une newsletter hebdomadaire diffusée à 100 000 abonnés en trois langues : français, espagnol et anglais. Il est spécialisé dans l’analyse des stratégies de guerre, des relations Nord-Sud et des médiamensonges.

Il a organisé des déploiements d'observateurs civils en Yougoslavie et en Irak, et s'est rendu en Libye en juin et juillet 2011. Il est co-auteur du film documentaire Les Damnés du Kosovo sur la guerre menée par l’Otan en Yougoslavie. Il a produit le documentaire de Vanessa Stojilkovic Bruxelles–Caracas sur l’expérience du Venezuela. Il est membre du Conseil consultatif de la télévision latino-américaine TeleSur. Michel Collon s'est fait connaître du grand public francophone lors de ses passages à l'émission « Ce soir ou jamais » de Frédéric Taddéï (France 3). Ses idées et son argumentation ont suscité l’intérêt des téléspectateurs.

Son livre Bush le cyclone (2006), prenant pour point de départ la catastrophe de La Nouvelle-Orléans et la guerre en Irak, étudie les liens entre l’économie et la guerre, ainsi que le rôle des médias. Son livre Les 7 péchés d’Hugo Chavez, publié en 2009, analyse les raisons de la pauvreté de l’Amérique latine, la politique générale et l’histoire des multinationales pétrolières. Il décrit l’entreprise menée par Hugo Chavez pour libérer son pays de la pauvreté et de la dépendance envers les USA. Son livre Israël, parlons-en ! comporte vingt entretiens avec des spécialistes juifs et arabes, européens et nord-américains : Noam Chomsky, Sand, Alain Gresh, Tariq Ramadan, Mohamed Hassan… Il en a rédigé la synthèse sous le titre Comment parler d’Israël.

Au cœur de tout son travail et du site michelcollon.info, on trouve en effet l’idée que, face à la désinformation, le rôle des citoyens est essentiel pour garantir le droit à, l’info. Son livre Libye, Otan et médiamensonges (septembre 2001), tout en ne cachant pas les fautes de Kadhafi, a exposé les véritables objectifs des Etats-Unis, de la France et de l’Otan par rapport au pétrole, au contrôle du Moyen-Orient et au maintien de l’Afrique en dépendance des multinationales.

Son dernier livre, corédigé avec Grégoire Lalieu et publié en décembre 2011, La Stratégie du Chaos (Impérialisme et islam – Entretiens avec Mohamed Hassan) analyse la nouvelle stratégie mondiale des USA pour le contrôle des richesses et des régions stratégiques du monde musulman (Méditerranée, Moyen-Orient, Corne de l’Afrique, Asie du Sud) en liaison avec la crise économique mondiale.

La Nouvelle République : Vous avez travaillé sur l'intervention militaire en Libye et ses répercussions stratégiques sur la région du Sahel, quelle est votre approche sur la situation au Nord-Mali et son impact régional et international ?

Michel Collon : Je pense que l’intervention de la France contre le Mali, c’est la continuation de la guerre contre la Libye et contre la Syrie. C’est une nouvelle phase dans ce que j’appellerais la recolonisation ou le fait de stabiliser la colonisation de l’Afrique en général, l’Afrique du Nord et l’Afrique de l’Ouest. Je pense que la chose qui n’est jamais traitée dans les médias européens et des Etats-Unis, c’est que le Mali et toute la région est pour la France, je veux dire la France officielle, la France des 1%, une zone de richesses naturelles que les multinationales françaises considèrent leur appartenir et pas aux populations locales.

L’exploitation des mines d’or par des groupes français comme Bouygues, dans des conditions scandaleuses avec de nombreux mineurs qui meurent à cause de l’utilisation du cyanure et de l’arsenic sans prévention et sans soins corrects, est la preuve que ces multinationales sont prêtes à écraser des êtres humains pour maintenir ou augmenter leur profit. Au Mali, on trouve également des gisements d’uranium ; c’est une richesse stratégique pour la multinationale française Areva, numéro un dans l’exportation du nucléaire au niveau mondial et la France a toujours fait en sorte de s’assurer le contrôle des gisements d’uranium et pour cela, elle a commis les pires crimes.

Et, donc, quand on veut voir comment la France considère les richesses naturelles, il suffit de voir l’exemple du Niger, c’est le pays n°174 sur la liste du développement humain, c'est-à-dire le dernier pays, le plus pauvre, les Nigériens ont une espérance de vie de 49 ans et moins de trois enfants sur dix vont à l’école. Et lorsqu’on a demandé à la multinationale Areva de faire un geste pour ces enfants, elle a répondu que ce n’était pas son problème, donc les Nigériens peuvent crever de faim, littéralement, et les Maliens aussi, pendant que des firmes comme Areva et celles qui travaillent avec elle, c'est-à-dire Suez, Bouygues, Alstom, construisent des profits fabuleux et que leurs actionnaires et leurs principaux dirigeants se construisent des châteaux un peu partout dans le monde.

Donc on a l’or, l’uranium, on a bien entendu le gaz et le pétrole, avec des richesses très importantes en Algérie et aussi dans d’autres pays de la région, et on constate qu’il y a une guerre pour les matières premières qui se mène, avec comme acteurs principaux, la France, les Etats-Unis, mais aussi le Qatar qui jour un rôle trouble en coulisses et qui veut devenir le n°1 mondial du gaz en alliance avec les Etats-Unis et contre la Russie, et donc je pense que cette guerre au Mali, c’est une guerre contre les patriotes maliens qui ont essayé de mettre fin à la corruption et de faire en sorte que les richesses naturelles du Mali profitent aux Maliens et permettent de mettre fin à la pauvreté. C’est une guerre contre le Niger, dont l’uranium est absolument stratégique.

C’est une guerre contre l’Algérie, parce que ce pays a lui aussi des ressources naturelles très importantes comme chacun sait. Il n’entend pas les offrir aux multinationales françaises et autres, donc c’est un pays qui conserve un secteur public important. C’est un pays qui résiste à Israël, qui a refusé de s’intégrer dans l’Otan et dans Africom, l’organisation militaire des Etats-Unis pour le contrôle des richesses de l’Afrique. Ses dirigeants militaires ont très clairement expliqué que le but d’Africom, donc le but des interventions militaires que les Etats-Unis préparent dans toute l’Afrique, c’est d’empêcher que l’Afrique ne soit indépendante et n’aie des partenaires comme la Chine, le Brésil, la Russie et d’autres pays.

Leur vision, c’est que l’Afrique doit rester la chasse gardée des puissances coloniales européennes et j’emploie à dessein le terme colonial parce que, selon moi, le colonialisme n’est pas fini, il a seulement changé de forme. Et la question de la Chine et de sa présence en Afrique comme partenaire alternatif est très importante et le meilleur exemple c’est que le jour où au Niger, il y a un président qui a commencé à vouloir rencontrer les Chinois pour discuter des alternatives commerciales, il a été très rapidement destitué par un coup d’Etat organisé par la France.

Que pensez-vous de l'évolution de la situation en Syrie et du rapport de force entre les groupuscules et milices qui composent l'« ASL » et l'armée nationale syrienne, et quel avenir voyez-vous pour une Syrie en proie à une guerre totale ?

La Syrie est l’objet d’une guerre qui est en réalité menée par une coalition : les Etats-Unis, la France, Israël discrètement dans les coulisses, la Turquie, l’Arabie Saoudite et le Qatar. On sait, le New York Times l’a confirmé, que les Etats-Unis fournissent des armes aux rebelles syriens via l’Arabie Saoudite et le Qatar. C’est donc assez ironique, ce serait drôle, si ce n’était tragique, de voir que l’Occident nous dit qu’il va apporter la démocratie en Syrie grâce à l’Arabie Saoudite et le Qatar qui sont deux régimes théocratiques, ce qu’il existe de plus réactionnaire sur le plan politique et social et de plus fanatique sur le plan religieux, et que ce sont des régimes traitant les femmes comme des animaux et traitant les travailleurs comme des esclaves, littéralement l’esclavage règne au Qatar, en Arabie Saoudite, et c’est avec ces gens-là qu’on prétend apporter la démocratie.

Donc, il est certain qu’en Syrie, il y a beaucoup de choses qui devraient changer, et je pense que tous les patriotes syriens, y compris ceux de l’opposition, devraient entamer un dialogue pour voir ce qu’il faut changer et comment le changer, et établir un programme. Mais l’objectif des agents des Etats-Unis, de la France, de l’Arabie Saoudite et du Qatar n’est pas d’amener la démocratie en Syrie, parce que si on amène la démocratie dans le monde arabe d’une manière générale, que vont dire les Arabes : que l’agression et le colonialisme israélien, c’est intolérable, qu’il faut y mettre fin, qu’il faut donner leurs droits aux Palestiniens, que sur le plan économique et social, le vol des ressources naturelles, le pétrole essentiellement, et d’autres par les multinationales avec comme effet de maintenir la pauvreté dramatique dans des pays comme l’Egypte et ailleurs. Je veux dire que le pétrole est une ressource qui devrait servir globalement à la nation arabe, quel que soit l’endroit où il se situe et donc s’il y avait la démocratie, les Arabes diraient que le pétrole doit leur profiter pour mettre fin à la pauvreté, à la dépendance et au colonialisme et qu’il faut cesser de considérer qu’il appartient à Exxon, British Petroleum et Total. Donc, je pense que ce qui se passe en Syrie est très important et j’espère que le peuple syrien va trouver les forces pour s’unir et pour résister à une agression très très grave.

On constate la situation instable et anarchique des pays qui ont connu « le printemps arabe » ; êtes-vous optimiste à l'idée d'une éventuelle sortie de crise ?

Je pense que les Etats-Unis, la France et leurs alliés craignent énormément les peuples arabes, craignent qu’ils soient unis et qu’ils prennent leur sort en main. Je pense donc que les Etats-Unis et compagnie craignent énormément la démocratie dans le monde arabe, la preuve, c’est que leurs meilleurs amis sont les régimes les plus dictatoriaux, Arabie Saoudite, Koweït, Qatar, Emirats, Jordanie, et qu’ils ont essayé de protéger jusqu’à la dernière minute les régimes en Egypte et en Tunisie. Par rapport à ça, il est très important que les peuples arabes s’unissent entre eux pour échapper à ces manœuvres qui sont coloniales et la seule façon de le faire, à mon avis, est de proposer à la nation arabe un programme indépendant des multinationales et des puissances coloniales, un programme dans la lignée de ce que le Mouvement des non-alignés a voulu mettre en place dans les années 60, un programme qui, comme Chavez et Evo Morales en Amérique latine, met au centre la récupération de la souveraineté du pays, l’utilisation des richesses au profit de ce que je vais appeler les 99%, au profit de la grande majorité, au profit de la population, et pas au profit du 1%, et que, aussi, c’est la nation arabe dans ce sens-là qui doit s’unir avec les autres forces de libération qui existent en Afrique noire, en Amérique latine et ailleurs.

Cela me semble très important et je crois que si l’on veut mettre fin à ces agressions, c’est la piste de l’unité d’un programme de souveraineté qui est la clé.

Dans une de vos nombreuses interviews, vous avez déclaré que l'Algérie est la future cible si elle ne plie pas devant les multinationales, pouvez-vous nous éclairer sur cette thèse ?

Je pense que l’Algérie est un pays qui a une longue histoire de résistance au colonialisme. Sa lutte de libération a été une des plus courageuses et exemplaires de toute l’Afrique. Elle a été en pointe avec quelques autres pays dont la Yougoslavie elle aussi attaquée par le colonialisme moderne, un pays détruit d’ailleurs, elle a été en pointe pour établir une solidarité du Tiers-Monde dans la résistance au colonialisme, et je pense qu’elle est la « bête noire » pour cette raison depuis très longtemps. 

Je ne vais pas dire que tout va bien en Algérie et qu’il n’y a pas des problèmes importants et des maux à régler, mais je pense qu’elle est la bête noire parce qu’elle représente une force de résistance à Israël, aux Etats-Unis, au colonialisme en général des multinationales, et on sait que tout comme la Libye, l’Algérie s’est distinguée en finançant des projets de développement économiques et sociaux alternatifs, développement indépendant de pays d’Afrique noire. Et je crois que là, elle heurte les intérêts de la Banque mondiale et du FMI qui sont justement les employés des multinationales dont on a parlé, et la Banque mondiale et le FMI sont les gendarmes financiers des multinationales, ce sont aussi des assassins financiers quand on voit comment ils se comportent en Afrique noire, surtout où vraiment ils détruisent les programmes d’éducation, de santé, d’aide aux petites entreprises, d’aide aux paysans pour transformer les pays en véritables boulevards ouverts aux multinationales. Donc, je crois que c’est pour cette raison qu’on a éliminé Kadhafi et je crois que c’est pour cette raison que l’Algérie est clairement la suivante sur la liste.

Concernant la prise d’otages à In Amenas, dans ce genre d’évènement, évidemment, on doit être prudent dans la mesure où beaucoup de choses se déroulent dans les coulisses dont nous ne sommes pas forcément informés. Les prises d’otages civils sont une méthode de lutte que je réprouve totalement et je pense que cette prise d’otages-là, dont l’Algérie a été victime, avec un nombre important et fort regrettable de victimes civiles, soulève plusieurs questions. Essentiellement, il y a deux choses qui me semblent bizarres dans cet évènement : la France attaque des forces qu’on appelle islamistes au Mali et les forces islamistes ripostent en attaquant l’Algérie, quasiment LE pays qui avait dit qu’il ne fallait pas faire la guerre et qu’il fallait négocier entre les différentes parties, donc ce n’est pas très logique. Et deuxièmement, ils en veulent à la France, et ils attaquent British Petroleum, un concurrent de Total. Ça n’a aucune logique. Sachant que ces forces ont été armées en Libye – c’est archi connu – sachant que la France et les Etats-Unis, et l’Otan en général, ont passé une alliance pour renverser Kadhafi avec le groupe islamique de combat libyen qui est donc la section libyenne d’Al-Qaïda et qu’aussi on a retourné certaines forces qui étaient en Libye en leur faisant des promesses – ça se trouve dans toute une série de revues plus ou moins spécialisées et ce n’est pas du tout un secret – je crois que cette prise d’otages pose beaucoup de questions.

La victoire politique de certains leaders progressistes en Amérique latine aidera-t-elle à l'émergence d'un pôle de résistance à l'impérialisme US et ses alliés et serviteurs à travers le monde ?

Absolument. J’ai mentionné Chavez, Evo Morales, vous avez aussi Correa et d’autres dirigeants, c’est frappant que les latino-américains ont repris espoir depuis 1999 et la victoire de Chavez qui a réussi à mettre en œuvre une politique économique et sociale de récupération des richesses, d’utilisation des richesses au service de la population, tout ça avec un grand développement de la démocratie, des comités de quartier, des débats politiques, des médias libres, et en général, pour moi qui suis allé plusieurs fois au Venezuela, il est très frappant de voir la politisation dans le bon sens du terme et la fertilité du débat politique au Venezuela, y compris parmi les révolutionnaires, donc c’est vraiment l’espoir qui est rendu à l’Amérique latine, et Chavez a toujours inscrit son action dans le sens de construire une unité des forces progressistes et indépendantes d’Amérique latine, d’Afrique, auxquelles il accorde une importance énorme, du monde arabe, de l’Asie également, et je souscris totalement à cette perspective de Chavez.

Nous avons besoin d’un front contre les manœuvres impérialistes et des puissances néocoloniales, nous avons besoin d’un front pour permettre à l’humanité d’échapper à la dictature des multinationales, à la dictature du 1%.

Comment voyez-vous l'avenir de cette planète ? Etes-vous optimiste ?

Je pense que oui. Je viens d’expliquer que nous sommes les 99% contre le 1% et donc le 1% se maintient au pouvoir par la force, bien sûr, par la violence, mais aussi et beaucoup par le mensonge, par la tromperie de l’opinion publique en cachant que toutes ces guerres sont économiques, en cachant les véritables politiques qui affaiblissent le tiers-monde, la majorité de l’humanité, et je pense que si nous arrivons à développer une bataille pour l’information, une bataille contre les médiamensonges, une bataille pour rallier les cœurs et les esprits à l’idée d’une autre conception de l’humanité, c'est-à-dire non pas la guerre d’une minorité contre tous mais la coopération, la solidarité, je pense que oui, l’humanité va pouvoir résoudre les problèmes de la faim, de la pauvreté et de la destruction de la nature également. Donc, à terme, oui, je suis optimiste, à condition que chacun, chaque citoyen, prenne ses responsabilités là où il est et entame le travail pour une information véritable et pour le débat politique sur les vrais enjeux.

Source : La Nouvelle République

Entretien réalisé à Bruxelles (Belgique), Mohsen Abdelmoumen

Mijmeringen over een Eurazische toekomst

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Jörg ASTMANN:

Mijmeringen over een Eurazische toekomst

 

Toen me werd gevraagd om deze bijdrage te schrijven, was ik net terug in België van een trip naar het fabelachtige, en toch o zo vibrerende Moskou, veel meer dan Rome en andere hoofdsteden van het vermoeide en op drift lijkende Europa, de enige stad die vandaag de dag het epitheton “Eeuwige Stad” verdient.

Het “Derde Rome” van vroegere generaties politieke exponenten is vandaag nog steeds een waarlijk imperiale stad, die in elke vezel de ambitie van het herwonnen centrum van de Eurazische ruimte uitstraalt.

Niet dat de overdreven protserigheid van de eindeloze winkeletalages en hun dito bezoekers geen weinig benijdenswaardig kantje van de zaak zijn, maar daar zullen we het in dit essay nu even niet over hebben.

 

Doorheen de discussies over de historische rol van Vladimir Poetin en de ontwikkelingskansen van de Eurazische Unie, kwam tijdens de gesprekken en interviews met aimabele, doch bij de pinken zijnde Russische gesprekspartners uit de universitaire en mediawereld steeds opnieuw de vraag naar de identiteit van Rusland naar boven.

De aloude discussie: Europees of Aziatisch? Eurazische grootruimte of eenzame blanke macht auf verlorenem Posten in Noord-Azië?

Het zijn vraagstellingen die, zoals ik hierboven schreef, niet nieuw zijn en naar mijn bescheiden mening ook nooit voorgoed zullen worden beslecht.

Misschien ligt dat wel aan het hybride karakter van wat in het ontzielde Westen nogal gemakzuchtig-romantiserend “de Russische ziel” wordt genoemd: de ziel van een van oorsprong Oostslavisch-Finoegrisch-Scandinavische staat, die in volle middeleeuwse ontwikkeling krachtig onder de voet wordt gelopen en cultureel wordt doordrenkt door de nazaten van de grote Khan, om zich vanaf de 16de eeuw dan resoluut te wijden aan zijn historische missie, zijnde het integreren van de landen van de Grote Steppe en aangrenzende gebieden tot één aaneengesloten geheel, culminerend in de ambitie om dit Rijk een trapje hoger te tillen naar een wereldmacht met een ongeziene aantrekkingskracht op de rest van de onder het juk van het grove geld gebukt gaande wereldbevolking. Of toch delen daarvan.

 

Op delen die er – politiek, militair, economisch – toe deden en nog steeds, zij het in iets mindere mate dan pakweg een halve eeuw geleden, toe doen, was deze aantrekkingskracht veel minder groot: het zogezegde Westen – lees: de VS en de rest van de anglosphere, aangevuld met de verliezers van beide Wereldoorlogen: Europa en Japan.

U leest het goed: de verliezers van de twee Wereldoorlogen, heus niet enkel Duitsland, Japan en occasionele bondgenoten. Ook de “winnaars” Frankrijk en het Verenigd Koninkrijk, en het dozijn kleinere Europese staten en staatjes.

 

En de Sovjetunie, ja, de Sovjetunie betaalde een heel zware prijs, en ongetwijfeld heeft dit haar steile opgang na de Tweede Wereldoorlog ook enigszins gefnuikt, tot grote, heimelijke genoegdoening van haar concurrenten over de grote plas.

Of was het allemaal zo gepland? Hebben de financiers van Wall Street daadwerkelijk een doorslaggevende rol gespeeld in het doen imploderen en revolutioneren van het Russische Rijk, en van de andere keizerrijken van het Oude Europa?

Samenzweringstheorieën doen het altijd goed bij een daarvoor vatbaar deel van de bevolking, maar nooit bij hen die zichzelf au sérieux nemen. Ahum.

 

Wat er ook van zij, dergelijke slachtingen hebben generaties na het gebeurde nog steeds verstrekkende gevolgen.

 

Plaats dat in het grotere plaatje van de Europese burgeroorlog tussen 1914 en 1945 – sommigen gewagen van de Tweede Dertigjarige Oorlog -, en de menselijke en culturele tol wordt nog verschrikkelijker.

De Russische geschiedenis van dit tijdsgewricht toont een bijzonder jammerlijk beeld: na de slachtingen in de loopgraven van de Eerste Wereldoorlog, met een leger vol pronkerige officieren en soms met slechts stokken bewapende soldaten, volgen de wreedheden van de Burgeroorlog tussen Wit en Rood, pakkend beschreven in de nog steeds beklijvende memoires van de voormalige Duitse krijgsgevangene en latere nationaal-revolutionair Edwin Erich Dwinger, Zwischen Weiß und Rot. Die russische Tragödie 1919-1920.

 

Na een periode van nieuwe moed en revolutionaire experimenten is het de beurt aan Stalin om wat er rest aan oude structuren nog eens grondig overhoop te halen en de veelgeroemde Russische ziel danig op de proef te stellen. Zowat elke familie in de voormalige Sovjetunie kan daarvan meespreken.

Al willen we natuurlijk niet elke daad van de Vader der Volkeren negatief duiden. Zijn mobilisatie van alle krachten in de Sovjetsamenleving na een eerste fase van vertwijfeling na de Duitse inval, dwingt ook vandaag nog respect af. Zijn opbouw van de Sovjetmacht tot een geopolitieke en militaire gigant evenzeer.

Er zijn vele aspecten aan de voormalige Sovjetleider die in het Westen vaak te weinig belicht worden.

 

Maar wat blijkt?

Ondanks de wreedheden, die werden begaan door de troepen van nazi-Duitsland, ondanks de wraak van Sovjetsoldaten op de bevolking van, ondermeer, Oost-Pruisen en Berlijn, ondanks de veelvuldige, diepzittende wonden, blijven de Duitsers het volk dat als enige van de Europese volkeren ten volle in staat is om de Russische ziel te vertalen, te duiden en te her-talen naar de sceptische, individualistische West-Europeaan toe.

 

Ik moet bekennen dat mijn Ruslandbeeld in een eerste fase door het Duitse Ruslandbeeld beïnvloed werd.

Of beter gezegd: het positieve Ruslandbeeld, dat van die vele Duitsers en Oostenrijkers die, al dan niet doorspekt met persoonlijke ervaringen uit oorlogs- en andere tijden, die magische wereld van mystiek en oneindigheid in de meest zoete bewoordingen beschreven.

 

Niet het Ruslandbeeld van die andere Duitsers, de Duitsers uit de atlantische traditie – Hitler voorop -, voor wie de Russische ruimte een despotisch geregeerde buitenaardse planeet is.

Of erger, ranziger.

Dat Duitsland bestaat helaas ook, en ik zou durven stellen dat het zelfs anno 2013, zij het in een “gekuiste”, niet-racistische versie, nog steeds een niet te verwaarlozen deel van de Duitse elite uitmaakt.

Dat officiële Duitsland, van de Atlantik-Brücke tot het journalistieke geweld van de Springerpresse, met slechts enkele uitzonderingen die de spijtige regel bevestigen.

Het Duitsland dat zich liever opwerpt als de beste Europese leerling in dienst van de meesters van het internationale grootkapitaal, dan het hart van een zelfbewust en traditiegericht Europa te zijn.

 

Terug naar ons Ruslandbeeld.

De vraag is wat dat positieve beeld precies beschrijft: een beeld van Rusland als nationale staat der Russen of een beeld van de Eurazische ruimte, grosso modo het vroegere Russische Rijk of de Sovjetunie, dat mysterieuze gebied van steppen, taiga, toendra en woestijnen, dat veelvolkerenrijk, naar de woorden van Andreas Kappeler, dat, méér dan een nationale staat in de (West-)Europese betekenis van het woord, een schoolvoorbeeld was en is van een staatsdragend volk – de Russen, of zie de hierboven summier geschetste genealogie – dat zichzelf, surfend op zijn eigen losbarstende passionariteit – dixit Lev Gumiljov – overstijgt en zich als een veelkleurige vlinder ontpopt tot een rijksvolk, dat zijn samenstellende volkeren door eenheid in verscheidenheid integreert tot een nieuwe identiteitslaag, de Euraziër.

Dit alles zonder zijn eigen nationale, Russische identiteit te verliezen, of dit van de andere samenstellende volkeren te vragen. Of toch min of meer.

 

En meer nog dan de som van zijn samenstellende delen en meer nog dan een sterke geopolitieke realiteit is dit Eurazië, gebaseerd op zijn rijke culturele tradities, een Rijk van de Geest, een rijk van het Land, van de Kwaliteit, dat staat tegenover het Rijk van de Zee, van de vloeibaarheid, de massa, de kwantiteit. Het Rijk van de Orde tegen dat van de chaos. Het Rijk van Sint-Joris tegen het rijk van de draak, van de duivel.

De Russische dubbeladelaar met zijn wapenschild spreekt wat dat betreft boekdelen en het is ongelooflijk veelzeggend dat de Russische staat dit staatsembleem in ere hersteld heeft.

Het vat zijn ambitie ten volle samen.

 

Het is in de Russische ziel, die, doorheen historische ervaringen en interculturele uitwisseling met voornamelijk Turks-Mongoolse volkeren, mens geworden is in de Euraziër, dat wij als West-Europeanen een glimp opvangen van wat de mens in zijn bindingen met de wereld was en nog zou moeten zijn: een mens gebonden in de Traditie, in de Orde.

 

Alleen is een glimp niet genoeg voor de Europeaan: er moet een alternatief voor de huidige toestand voorhanden zijn. Een alternatief dat rekening houdt met het feit dat het civilisatorische subject van de Euraziër niet zomaar getransponeerd kan worden naar het individualistische West- en Centraal-Europa, met zijn eigen cultureel-historische ervaringen.

Het is mooi als voorbeeld, maar de Europeanen moeten hun eigen invulling geven aan de terugkeer naar de Traditie.

Slechts een terugkeer naar die Traditie, en, bijgevolg een afkeer van de materie, van de moderniteit in al haar vormen, van het liberalisme in al zijn uitingen, vermag de fundamenten te leggen voor een politiek en economisch partnerschap met de rest van Eurazië, en met de Russische ruimte in het bijzonder.

 

Een economische, of zelfs politieke aaneensluiting, is slechts het sluitstuk van iets wat veel fundamenteler is dan alledaagse economie of politiek.

Een vrijhandelsruimte van Lissabon tot Vladivostok, en van Reykjavik tot Delhi is slechts het logische gevolg van een mentale, zelfs metafysische aaneensluiting op basis van de afwijzing van de (post-)moderniteit.

 

Deze weg, en dat moge duidelijk zijn, zal niet over rozen verlopen.

Er is namelijk een gigantisch probleem – naast andere, meer alledaagse problemen, zoals het geopolitieke en economische eigenbelang van nationale staten.

 

Om het juiste uitgangspunt te bereiken, moeten de Europeanen nu uitgerekend breken met wat hen rest aan grootsheid uit hun eigen geschiedenis, moeten zij, met andere woorden, een haast rituele zuivering ondergaan.

 

Want, laat ons eerlijk wezen, het is allemaal mooi dat de rest van de wereld het Westen, en Europa in het bijzonder, kastijdt omwille van zijn koloniale verleden en alle mede daaruit voortvloeiende cultuurverschijnselen – niet in het minst de eurocentrische blik op de wetenschappen. Dat neemt niet weg dat dit, in de ogen van de rest van de wereld verachtelijke, verleden mede een onderdeel is van de Europese identiteit en hoe deze beleefd wordt.

 

Met andere woorden, indien Alexander Doegin in zijn Fourth Political Theory pleit voor een alliantie van alle antimoderne krachten ter wereld, dus ook in Europa, dan moet hij beseffen dat hij, afgezien van enkele politieke randgevallen – “identitairen” en andere, door westerse inlichtingendiensten gemanipuleerde politclowns -, nooit aansluiting krijgt bij wat de massa in Europa voelt en hoe ze in deze onzekere tijden verder wenst te evolueren naar iets wat op een mooie toekomst voor de Europeanen lijkt.

Doegins analyse van de moderniteit is correct en lovenswaardig, alleen is deze op maat gesneden van Russen, Chinezen, Latijns-Amerikanen, enzovoort, maar veel minder op maat van de Europeaan zelf, omdat Doegins analyse in het geval van de Europeaan tegelijk een soort diagnose is, waarbij de genezing in veler ogen gelijk staat met euthanasie.

De Europeaan moet dus een daadwerkelijk alternatief krijgen alvorens men een kans heeft hem te overtuigen van de noodzaak om het roer om te gooien en wat er rest van de wereld te behoeden voor de neoliberale ondergang.

 

En dat alternatief moet rekening houden met de culturele eigenheid van de Europeanen, en mag niet de fout maken om gegrondvest te zijn op een cultureel-historische vernedering en ontworteling van de Europeanen. De moderniteit zelf heeft wat dat betreft al meer dan haar “best” gedaan in de Europese samenlevingen.

Dat alternatief moet ook rekening houden met het feit dat de verhouding van een orthodoxe Rus tot een islamitische Tataar anders is gegroeid dan de verhouding tussen een ontwortelde, ontkerkelijkte Europeaan en een ontwortelde, maar islamitisch gebleven Noord-Afrikaan uit de massamigratie. Om maar één voorbeeld te noemen.

 

Laat ons heel eerlijk zijn: allianties met Afrikaanse en Latijns-Amerikaanse partners zijn allemaal zeer wel en lovenswaardig, het raakt niet eens de koude teen van hypermacht Amerika. En deze van de internationale financiële groepen achter uncle sam nog minder. Enkele drones of een paar gerichte aanslagen, en het probleem is van de baan.

 

Het is pas wanneer de Europeanen toetreden tot de globale alliantie tegen de krachten van de moderniteit, dat deze alliantie kans op slagen heeft.

En wie zegt Europa, zegt toch op de eerste plaats – laat ons daar nuchter in blijven – Duitsland.

Het is precies dat land, dat nog niet zo lang geleden door zijn eigen minister van Financiën Schäuble werd omschreven als een land dat sinds de capitulatie van de Wehrmacht in 1945 niet meer soeverein is geweest, dat, meer dan andere Europese landen, bevrijd moet worden van de atlantistische clique die het land en zijn volk opnieuw in de dieperik dreigt te storten, als ze haar weg van Europa-wijde blinde begrotingsdiscipline, 1-euro-jobs en Umvolkung mag voortzetten.

We willen wat dat betreft verwijzen naar de groeiende anti-Duitse stemming, niet enkel in de Europese Unie.

 

Het is ook precies Duitsland, dat de brug kan vormen met de Eurazische ruimte, meer nog dan het Frankrijk met zijn vele nakomelingen van Russische emigranten en zijn russofiel gaullisme, meer nog dan Italië met zijn vele antikapitalistische sympathisanten van de Eurazische zaak, meer nog dan het nuchtere Zweden met zijn geografische en mentale nabijheid, en meer nog dan de Slavische broeders uit het westen, die al te vaak uit kortzichtigheid en onverwerkte historische trauma’s gemene zaak maken met de geopolitieke belangen van de VS.

 

De officier-avonturier Oskar von Niedermayer en zijn ideologische mentor Ernst Niekisch, hoofdfiguur van de Duitse Nationaal-Bolsjevieken, wisten het al: het is het Pruisische aspect in Duitsland – in 1947 in zijn staat geworden vorm afgeschaft door de geallieerden –, de “geest van Tauroggen”, die de ware brugfunctie met de Eurazische ruimte vormt.

Jammer dat de DDR wat dat betreft de verwachtingen tijdens de Koude Oorlog niet of onvoldoende heeft ingelost!

 

Net zoals het Oostenrijkse element voor West-Europa de brug kan vormen naar de Turkse ruimte en het Midden-Oosten.

 

Beide vroegere Germaanse machten – in de woorden van de generaal en geopoliticus Heinrich Jordis von Lohausen ooit de hoekstenen van de Europese ordening, nu nog slechts beperkt overlevend in bepaalde staatstradities van hun opvolgerstaten – zijn essentieel voor de mentale aaneenschakeling waarvan ik hierboven sprak.

Beide elementen zijn essentieel om de rest van Europa de weg te tonen naar een Eurazië, en, bij uitbreiding, een wereld waar de postmoderniteit en het postliberalisme niet verder kunnen uitgroeien tot de enige, niet langer als een ideologie beschouwde, maar als “natuurlijk” aangevoelde condition humaine.

 

Hoe moet die Eurazische toekomst er dan concreet uitzien, na de overwinning op de machten van de moderniteit, die van het Euraziatische continent – niet enkel van Rusland, maar ook van Europa, China en India – één gigantische kolonie van ruwe en menselijke grondstoffen willen maken?

In dit Groot-Eurazië als groothandelsruimte tussen Lissabon en Vladivostok, als völkerrechtliche Großraumordnung mit Interventionsverbot für raumfremde Mächte, om het met de woorden van de legendarische Carl Schmitt te zeggen, komt de centrale plaats zonder twijfel toe aan de Russische Federatie als kern van de voormalige Sovjetruimte – de ruimte van de voormalige Sovjetunie of Eurazië in de zin van de evrazii en als brug tussen Europa en Azië proper -, met aan haar flanken sterke en betrouwbare bondgenoten, zoals Duitsland en Frankrijk in het westen – al dan niet in een hervormde Europese Unie -, en Iran en India in het zuiden. Wat betreft de Turkse wereld en de Chinese wereld, gekristalliseerd rond respectievelijk Turkije en China, daar zal de toekomst moeten van uitwijzen wat hun plaats in dit geheel is.

 

Door de Turkse volkeren in de Russische Federatie en de snelweg van de Grote Steppe is er via de Eurazische ideologie natuurlijk een directe link met Turkije mogelijk – we verwijzen naar het pionierswerk van de hierboven aangehaalde geniale historicus en etnoloog Lev Gumiljov -, maar de geschiedenis leert ons ook dat de (Anatolische) Turken vaak, zoniet altijd geopolitieke vijanden van Europa én Rusland zijn geweest. Bovendien staat Turan altijd in oppositie met Iran, staat de Turks-Mongoolse traditie doorheen de geschiedenis, ondanks interculturele wisselwerking, tegenover de Indo-Europese traditie. Maar het blijft mogelijk om tot een vergelijk te komen.

Vooral als een veelbelovend land als Kazachstan, de parel van de Eurazische Steppe, hierin het voortouw neemt.

 

Hetzelfde geldt voor China. Mij lijkt de Shanghai Cooperation Organisation vooral een bondgenootschap te zijn dat op de eerste plaats de belangen van China dient en het de nodige ademruimte in de op gang komende globale strijd tegen de Amerikaanse hegemonie verschaft.

We zijn benieuwd om te zien in welke mate China zijn bevolkingsoverschot in de toekomst enkel naar de verre landen van het zuiden – Australië op de eerste plaats - zal duwen, en niet het onmetelijke land boven de Amur in bezit zal willen nemen. Me dunkt is dit een gevaar waar de meeste evrazii te licht over gaan, en waar we – misschien voor één keer – in het Westen een nuchterder kijk op hebben?

 

Waar we evenwel met al deze en vele andere actoren uit Azië, Latijns-Amerika en Afrika in moeten overeenstemmen, is in onze afwijzing van de postmoderniteit, van het neoliberalisme, van de clash-of-civilizations-retoriek en van de breuk met de Traditie, en in ons gezamenlijk streven naar een multipolaire wereld, die vertrekt van de complementariteit van culturen die respect hebben voor elkaars eigenheid en voor de Traditie die ons allen verbindt.

 

Jörg Astmann,

Brussel, maart 2013.