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vendredi, 12 octobre 2012

Guillaume Faye: “Al capitalismo restano due giri di roulette, poi torna il medioevo”

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Guillaume Faye: “Al capitalismo restano due giri di roulette, poi torna il medioevo”

Ma chi è questo apocalittico che con chiaroveggenza quasi oracolare aveva stabilito che il decennio 2010-2020 sarà quello della convergenza di catastrofi che rischia di mettere fine alla civiltà globalizzata? E’ un inquieto, un eccentrico, un irregolare, che da un cursus honorum di tutto rispetto – iniziato con un dottorato a Sciences Po – è precipitato nella deriva situazionista di una carriera da giornalista sul Figaro Magazine, Paris Match eVSD, più qualche performance come sceneggiatore e attore porno, e una breve stagione di animatore-vedette su Skyrock, stazione radio seguitissima da punk ed emarginati consapevoli. E’ un antimoderno lucido e sferzante, che appartiene alla schiera dei grandi insofferenti al progresso, dei refrattari ai luoghi comuni, come lo erano a loro tempo Joseph de Maistre, Baudelaire, Flaubert, Céline, e tutti i grandi intellettuali atrabiliari di tradizione francese.

“La globalizzazione è come la carne avariata”


Allineato sul fronte sulfureo della Nouvelle droite antiamericana, filosoficamente pagana e antimonoteista, Faye però è ormai un isolato della destra identitaria, dacché ha abbandonato il maestro storico e fondatore del movimento Alain de Benoist, che l’ha accusato di estremismo razzista, per poi scomunicarlo come revisionista. E infatti, tra una pausa e l’altra dei suoi pellegrinaggi negli gli Stati Uniti, per la conferenza di American Renaissance sulla minaccia demografica delle minoranze non bianche, o a Mosca, per un convegno sull’avvenire del mondo bianco, preludio alla creazione del Consiglio dei popoli di origine europea, Faye è riuscito a smarcarsi dalla destra radicale nazionalista e rivoluzionaria, accusando i suoi esponenti di aver mostrato “l’atavico spirito femmineo del collaborazionista” nei confronti dell’islam e dell’immigrazione islamica.

Così, l’ultimo denunciatore della modernità e delle sue illusioni, guarda oggi con raccapriccio alla crisi dei mercati finanziari. “La civiltà globalizzata è un po’ come la carne avariata, dove basta solo un pezzo del 10 per cento per contaminare l’insieme”, dice infatti Faye usando una metafora assai cruda. Ma le conseguenze, in realtà, sono ancora più sanguinolente: “La crisi di oggi è più grave di quella del ’29. Data l’interdipendenza del sistema finanziario globale, basta infatti una crisi dei crediti a tasso variabile, come quella dei subprime americani, che le banche rifilano a clienti non in grado di rimborsare, per provocare un effetto domino su scala planetaria. Quando le banche cominciano a crollare una dopo l’altra, è tutto il sistema mondiale che rischia di non essere più in grado di prestare soldi, dunque di investire nell’economia. Assisteremo a una recessione gigantesca, non subito, ma tra un paio d’anni, perché viviamo in un’economia globalizzata, dove non ci sono più barriere tra persone e capitali, e il virus si propaga in modo incontrollabile. Oggi, infatti, il capitalista non è più un individuo isolato, o un gruppo di speculatori invisibili, ma alberga in ognuno di noi, se è vero che un fondo pensione americano raccoglie i piccoli risparmi di milioni di persone che aspirano a una redditività del 4 per cento l’anno”.


E’ questo il dramma del mondo contemporaneo, secondo l’apocalittico Faye, che si avvicina all’analisi del nostro Giulio Tremonti ma senza condividerne gli effetti virtuosi, visto che non spetta a un cane sciolto come lui stabilire in modo solidale come innescare un’autocorrezione del sistema dominante: “L’unico modo per evitare il contagio sarebbe quello di ripristinare un sistema relativamente autarchico. Gli stati cercano di intervenire: davanti al fallimento delle banche, gli americani nazionalizzano società di credito e di assicurazioni. Ma l’economia finanziaria somiglia sempre di più a un’economia da casinò, dove chiunque ha un po’ di soldi, entra, si siede al tavolo verde e comincia a giocare alla roulette un gioco puramente speculativo ed estremamente pericoloso. Il libero scambismo mondiale è una follia. Il liberismo senza frontiere è assurdo. Provoca delocalizzazione e disoccupazione, alimentando la spirale astratta dell’economia virtuale. Bisognerebbe tornare alla terra e alla ricchezza prodotta dal lavoro, entro uno spazio chiuso. Se non si producono oggetti e nemmeno servizi, siamo in un’economia virtuale, che peraltro in Francia e in Italia si regge oramai su un debito pubblico esorbitante, che graverà sulle nuove generazioni.”

Una convergenza di catastrofi

E’ per questo che agli occhi di Faye il capitalismo potrà anche superare la crisi a breve termine, ma a lungo termine è condannato, perché è lo stesso sistema a essere degenerescente. La crisi, infatti, si ripeterà ogni quattro-cinque anni, ma finirà per diventare inesorabile a causa della “convergenza di catastrofi” che si profila all’orizzonte: “Crisi mondiale delle materie prime, dell’energia petrolifera, della domanda troppo sostenuta di India e Cina, della mancanza di acqua nell’intero pianeta”. Che fare allora davanti al prevedibile cataclisma? La risposta degli Stati Uniti per Faye, che in fondo resta un ostinato antiamericano, sembra inadeguata: “Gli Stati Uniti non sono una nazione, ma un’impresa fondata sul complesso militare industriale e per questo hanno bisogno di fare la guerra. La Cina è troppo potente, perciò adesso hanno trovato il modo di provocare la Russia”. Vista dalla Georgia, però, la provocazione sembra venire da Mosca. “In effetti anche la Russia, come l’America, ha bisogno della guerra fredda – insiste Faye – mentre l’Europa non ha i mezzi per entrare in gioco. Per questo io avevo lanciato l’idea di un’Eurosiberia, ma i russi non hanno fiducia nell’Europa atlantista. E’ comprensibile, mettiamoci al posto loro…”. Anche in fatto di libertà Faye sembra avere idee autarchiche: “Putin non offre molte garanzie sul piano delle libertà individuali, è vero, ma ai russi non interessa: pensano solo alla ricchezza, alla prosperità economica, e del resto anche in occidente se non sei ricco non puoi pubblicare grandi giornali, perciò non possiamo chiedere con innocenza alla Russia di essere democratica”.


Il problema vero per Faye è uno solo, la civiltà globalizzata, uniforme, senza frontiere. “Il rischio di conflitto aumenta, le crisi si propagano a tutta velocità, come i flussi immigratori, portatori di guerre di religione”. E’ la tesi dell’“Archeofuturismo”, il saggio del 1998, che prevedeva la catastrofe dell’inizio del XXI secolo. “Un tempo la terra era separata in grandi civiltà a compartimenti stagni. Ognuna viveva le sue crisi, senza rischio di contagio. Oggi purtroppo non è così. Per questo – spiega Faye – io difendo la teoria dell’autarchia dei grandi spazi, Eurosiberia, Africa, Asia, America del nord, America del sud, con un’economia locale sana, pulita”.


L’utopia archeofuturista proietta nel futuro il passato remoto, ma serve a correggere la fiducia nel progresso costante e ininterrotto che alberga nel cuore del contemporaneo. “Noi crediamo ai miracoli se immaginiamo che per nove miliardi di persone sarà possibile avere un livello di vita paragonabile a quello occidentale. E’ semplicemente impossibile”, spiega Faye e, per dimostrarlo, non esita a utilizzare un argomento pudicamente definito “la variabile di aggiustamento umano” che tuttavia risulta scabroso per il politicamente corretto. “La popolazione del globo terrestre tornerà a un miliardo di persone. Ci saranno stermini di massa, effetto della fame e delle carestie. E’ impossibile immaginare un tasso di crescita del sei per cento l’anno, come se avessimo sei ‘pianeta Terra’ a disposizione. Alla fine del XXI secolo, la terra avrà due velocità: una piccola minoranza vivrà come oggi, un’altra vivrà un nuovo medioevo, senza tecnologia, senza risorse”.

Nel 2100 mancherà l’energia per telefonare


Non disarma Faye nemmeno se uno insiste sul progresso che l’economia globale ha rappresentato per un miliardo di persone che ora sono in grado di mangiare. “Sono molto pessimista, è vero, ma come il medico che scopre un tumore e non dice che è un’influenza. Noi siamo ancora in balia dell’ideologia del progresso, pensiamo che sia una curva ascendente e lineare. Nel 1960 si diceva che per il 2000 saremmo andati a ballare sulla luna. Errore. Quando nacque il Concorde si disse che nel 2000 avremmo avuto tutti aerei supersonici. Altra illusione. Nel 2100 non potremo nemmeno telefonare da Parigi a Roma, perché non ci sarà energia a sufficienza. I francesi si sono accorti che c’è stato un calo del 15 per cento nel consumo di energia. Continuiamo a pensare che saremo sempre più ricchi, più felici, ma intanto non sappiamo ancora come sostituire il petrolio, mentre le fonti alternative non basteranno al fabbisogno industriale. Del resto basta leggere la storia di Roma antica di Lucien Gerphagnion, per rendersi conto come non sia la prima volta che succede nella storia dell’umanità. L’impero romano regredì enormemente con le invasioni barbariche, se pensiamo che il livello di vita dell’élite romana nel primo secolo dopo Cristo, vale a dire cent’anni dopo Cicerone, era già come quello dell’élite europea nel XIX secolo: acqua corrente, strade pavimentate. Mancava la luce elettrica, ovviamente”.


Marina Valensise
© Il Foglio, 21 settembre 2008

Fonte: http://politicainrete.it/forum/movimenti-e-cultura-politica/destra-radicale/454-guillaume-faye-e-la-crisi.html

00:05 Publié dans Nouvelle Droite | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : libéralisme, nouvelle droite, guillaume faye | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

lundi, 08 octobre 2012

L’histoire est écrite par les vainqueurs, jusqu’au jour où…

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L’histoire est écrite par les vainqueurs, jusqu’au jour où…

Dominique Venner

Ex: http://www.zentropa.info/

Plus que les grandes victoires, les grandes défaites font les grandes épopées, l’Iliade pour la guerre de Troie, les Thermopyles pour les Spartiates, Numance pour les Ibères, Alésia pour Vercingétorix. Le procès et la mort de Jeanne d’Arc plus que sa victoire d’Orléans. Waterloo plus qu’Austerlitz, sans compter Camerone, Sidi Brahim, Dien Bien Phu… Charlemagne a remporté d’innombrables victoires, mais ce qui reste de lui, c’est la Chanson de Roland qui magnifie l’une de ses rares défaites.


Je pensais à ce paradoxe bien européen en regardant récemment le DVD de Braveheart de Mel Gibson. Accompagnant les images somptueuses des Highlands survolées par un aigle, des mots ouvrent le film en voix off. On les entend peu souvent : « L’histoire est écrite par ceux qui pendent les héros… » Ces mots sont une réponse à ceux qui m’interrogent sur la signification de certains de mes livres, l’histoire des Sudistes (Le blanc soleil des vaincus), celle du Baltikum, celle aussi de la sombre saga des gardes blancs pendant la guerre civile russe (Les Blancs et les Rouges). Ces livres avouent un attrait pour les vaincus courageux. Mais, courage ou pas, l’histoire des vaincus est toujours occultée, dénaturée, ou même criminalisée par les vainqueurs. Elle constitue l’enjeu posthume de conflits qui ne cesseront jamais. Après les guerres idéologiques et religieuses, les vainqueurs veulent vaincre jusqu’à la mémoire de leurs adversaires. Après dix-sept siècles, le jeune empereur Julien, très fidèle à sa propre religion, est toujours qualifié d’ « apostat », épithète infâmante imposée par l’Église devenue triomphante après son OPA réussie sur l’Empire romain à la fin du IVe siècle. Quand les vainqueurs sont habiles et puissants, les instruments de la parole publique, l’État, l’Université et l’Ecole participent à l’entreprise. Pour l’historien indépendant, tout est donc à découvrir à ses risques et périls derrière le discours officiel. Il n’y a rien de plus stimulant, mais rien de plus dangereux.


Les conflits idéologiques et quasi religieux du XXe siècle ont été annoncés par la guerre de Sécession américaine (1861-1865). Ils ont peu d’équivalent dans le passé, sinon lors du triomphe imprévu du christianisme sur le paganisme romain au IVe siècle. Les guerres de religion au XVIe et XVIIe siècle n’eurent pas le même caractère absolu puisqu’elles se terminèrent par un partage du monde entre protestants et catholiques. Il n’y eut donc pas de vrais vaincus, sauf en France avec les huguenots. Deux puissances hostiles campaient chacune sur leurs positions, affichant leur propre interprétation du passé. La nouveauté du XXe siècle tient au caractère écrasant de la défaite des uns et de la victoire des autres. Du jamais vu avec cette ampleur et cette brutalité, sinon pour les hérésies au sein des monothéismes, écrasées par les massacres, le feu et l’oubli.

Dans ma génération et les suivantes, celles qui n’étaient pas encore nées à l’époque du conflit mondial puis de la décolonisation, un certain nombre de jeunes Européens arrivant à l’âge adulte, éprouvèrent une conscience aiguë et douloureuse d’être les héritiers de défaites presque cosmiques. J’ai vécu cela au temps de la guerre d’Algérie. Pour les Français et les Européens, ce fut une défaite (politique et nullement militaire), ne pouvant que renforcer la conscience d’une catastrophe fatale. Si l’un de mes premiers livres a été consacré à l’histoire des Sudistes c’est parce que je ressentais intuitivement la défaite du « Vieux Sud » comme le premier acte de ce qui fut accompli chez nous dans la seconde moitié du XXe siècle. Jadis, j’ai lu l’Invaincu (The Unvanquished) de William Faulkner avec le sentiment exaltant et douloureux d’être immergé dans ma propre histoire. J’étais séduit par des vaincus courageux qui jamais ne se renient. Je le suis toujours.


Parfois, de façon imprévue, il arrive pourtant que les vaincus prennent leur revanche dans l’imaginaire des vivants. Il en fut ainsi pour les Sudistes avec Autant en emporte le vent, le roman et le film. Il en a été de même lorsque le président Poutine décida la réhabilitation des armées blanches et de leur chef, le général Denikine, ainsi que leur réintégration dans la mémoire russe.

Dominique Venner

dimanche, 07 octobre 2012

Interview with Alexander Dugin

 

Interview with Alexander Dugin http://www.wermodandwermod.com/

Introduction

In February 2012, Professor Alexander Dugin traveled to New Delhi, India to attend the 40th World Congress of the International Institute of Sociology, the theme of which was “After Western Hegemony: Social Science and its Publics.” Professor Dugin was kind enough to take some time away from the conference to answer a few questions by representatives of Arktos who attended the event. 

In this interview, we attempted to have Professor Dugin clarify some of his basic beliefs in order to dispel the confusion and misrepresentations that exist about him and his movement, the Eurasian Movement, and its offshoot, the Global Revolutionary Alliance, in the English-speaking world. The interview was conducted by Daniel Friberg, CEO of Arktos, and John B. Morgan, Editor-in-Chief.

This interview is being released in conjunction with Prof. Dugin’s appearance at Identitarian Ideas 2012, being held by the Swedish organization Motpol in Stockholm on July 28, 2012, and the simultaneous release of Prof. Dugin’s book The Fourth Political Theory by Arktos (http://www.arktos.com/alexander-dugin-the-fourth-political-theory.html). This is the first book by Prof. Dugin to appear in the English language.

There is a perception in the West that you are a Russian nationalist. Do you identify with that description?

The concept of the nation is a capitalist, Western one. On the other hand, Eurasianism appeals to cultural and ethnic differences, and not unification on the basis of the individual, as nationalism presumes. Ours differs from nationalism because we defend a pluralism of values. We are defending ideas, not our community; ideas, not our society. We are challenging postmodernity, but not on behalf of the Russian nation alone. Postmodernity is a yawning abyss. Russia is only one part of this global struggle. It is certainly an important part, but not the ultimate goal. For those of us in Russia, we can’t save it without saving the world at the same time. And likewise, we can’t save the world without saving Russia.

It is not only a struggle against Western universalism. It is a struggle against all universalisms, even Islamic ones. We cannot accept any desire to impose any universalism upon others – neither Western, Islamic, socialist, liberal, or Russian. We defend not Russian imperialism or revanchism, but rather a global vision and multipolarity based on the dialectic of civilization. Those we oppose say that the multiplicity of civilizations necessarily implies a clash. This is a false assertion. Globalization and American hegemony bring about a bloody intrusion and trigger violence between civilizations where there could be peace, dialogue, or conflict, depending on historical circumstances. But imposing a hidden hegemony implies conflict and, inevitably, worse in the future. So they say peace but they make war. We defend justice – not peace or war, but justice and dialogue and the natural right of any culture to maintain its identity and to pursue what it wants to be. Not only historically, as in multiculturalism, but also in the future. We must free ourselves from these pretend universalisms.

What do you think Russia’s role will be in organizing the anti-modern forces?

There are different levels involved in the creation of anti-globalist, or rather anti-Western, movements and currents around the world. The basic idea is to unite the people who are fighting against the status quo. So, what is the status quo? It is a series of connected phenomena bringing about an important shift from modernity to post-modernity. It is shaped by a shift from the unipolar world, represented primarily by the influence of the United States and Western Europe, to so-called non-polarity as exemplified by today’s implicit hegemony and those revolutions that have been orchestrated by it through proxy, as for example the various Orange revolutions. The basic intent behind this strategy is for the West to eventually control the planet, not only through direct intervention, but also via the universalization of its set of values, norms, and ethics.

The status quo of the West’s liberal hegemony has become global. It is a Westernization of all of humanity. This means that its norms, such as the free market, free trade, liberalism, parliamentarian democracy, human rights, and absolute individualism have become universal. This set of norms is interpreted differently in the various regions of the world, but the West regards its specific interpretation as being both self-evident and its universalization as inevitable. This is nothing less than a colonization of the spirit and of the mind. It is a new kind of colonialism, a new kind of power, and a new kind of control that is put into effect through a network. Everyone who is connected to the global network becomes subjected to its code. It is part of the postmodern West, and is rapidly becoming global. The price a nation or a people has to pay to become connected to the West’s globalization network is acceptance of these norms. It is the West’s new hegemony. It is a migration from the open hegemony of the West, as represented by the colonialism and outright imperialism of the past, to an implicit, more subtle version.

To fight this global threat to humanity, it is important to unite all the various forces that would, in earlier times, have been called anti-imperialist. In this age, we should better understand our enemy. The enemy of today is hidden. It acts by exploiting the norms and values of the Western path of development and ignoring the plurality represented by other cultures and civilizations. Today, we invite all who insist on the worth of the specific values of non-Western civilizations, and where there other forms of values exist, to challenge this attempt at a global universalization and hidden hegemony.

This is a cultural, philosophical, ontological, and eschatological struggle, because in the status quo we identify the essence of the Dark Age, or the great paradigm. But we should also move from a purely theoretical stance to a practical, geopolitical level. And at this geopolitical level, Russia preserves the potential, resources and inclination to confront this challenge, because Russian history has long been intuitively oriented against the same horizon. Russia is a great power where there is an acute awareness of what is going on in the world, historically speaking, and a deep consciousness of its own eschatological mission. Therefore it is only natural that Russia should play a central part in this anti-status quo coalition. Russia defended its identity against Catholicism, Protestantism and the modern West during Tsarist times, and then against liberal capitalism during Soviet times. Now there is a third wave of this struggle – the struggle against postmodernity, ultra-liberalism, and globalization. But this time, Russia is no longer able to rely on its own resources. It cannot fight solely under the banner of Orthodox Christianity. Nor is reintroducing or relying on Marxist doctrine a viable option, since Marxism is in itself a major root of the destructive ideas constituting postmodernity.

Russia is now one of many participants in this global struggle, and cannot fight this fight alone. We need to unite all the forces that are opposed to Western norms and its economic system. So we need to make alliances with all the Leftist social and political movements that challenge the status quo of liberal capitalism. We should likewise ally ourselves with all identitarian forces in any culture that refuse globalism for cultural reasons. From this perspective, Islamic movements, Hindu movements, or nationalist movements from all over the world should also be regarded as allies. Hindus, Buddhists, Christians, and pagan identitarians in Europe, America, or Latin America, or other types of cultures, should all form a common front. The idea is to unite all of them, against the single enemy and the singular evil for a multiplicity of concepts of what is good.

What we are against will unite us, while what we are for divides us. Therefore, we should emphasize what we oppose. The common enemy unites us, while the positive values each of us are defending actually divides us.  Therefore, we must create strategic alliances to overthrow the present order of things, of which the core could be described as human rights, anti-hierarchy, and political correctness – everything that is the face of the Beast, the anti-Christ or, in other terms, Kali-Yuga.

Where does traditionalist spirituality fit into the Eurasian agenda?

There are secularized cultures, but at the core of all of them, the spirit of Tradition remains, religious or otherwise. By defending the multiplicity, plurality, and polycentrism of cultures, we are making an appeal to the principles of their essences, which we can only find in the spiritual traditions. But we try to link this attitude to the necessity for social justice and the freedom of differing societies in the hope for better political regimes. The idea is to join the spirit of Tradition with the desire for social justice. And we don’t want to oppose them, because that is the main strategy of hegemonic power: to divide Left and Right, to divide cultures, to divide ethnic groups, East and West, Muslims and Christians. We invite Right and Left to unite, and not to oppose traditionalism and spirituality, social justice, and social dynamism. So we are not on the Right or on the Left. We are against liberal postmodernity. Our idea is to join all the fronts and not let them divide us. When we stay divided, they can rule us safely. If we are united, their rule will immediately end. That is our global strategy. And when we try to join the spiritual tradition with social justice, there is an immediate panic among liberals. They fear this very much.

Which spiritual tradition should someone who wishes to participate in the Eurasianist struggle adopt, and is this a necessary component?

One should seek to become a concrete part of the society in which one lives, and follow the tradition that prevails there. For example, I am Russian Orthodox. This is my tradition. Under different conditions, however, some individuals might choose a different spiritual path. What is important is to have roots. There is no universal answer. If someone neglects this spiritual basis, but is willing to take part in our struggle, during the struggle he may well find some deeper spiritual meaning. Our idea is that our enemy is deeper than the merely human. Evil is deeper than humanity, greed, or exploitation. Those who fight on behalf of evil are those who have no spiritual faith. Those who oppose it may encounter it.  Or, perhaps not. It is an open question – it is not obligatory. It is advisable, but not necessary.

What do you think of the European New Right and Julius Evola? And in particular, their respective opposition to Christianity?

It is up to the Europeans to decide which kind of spirituality to revive. For us Russians, it is Orthodox Christianity. We regard our tradition as being authentic.  We see our tradition as being a continuation of the earlier, pre-Christian traditions of Russia, as is reflected in our veneration of the saints and icons, among other aspects. Therefore, there is no opposition between our earlier and later traditions. Evola opposes the Christian tradition of the West. What is interesting is his critique of the desacralization of Western Christianity. This fits well with the Orthodox critique of Western Christianity. It is easy to see that the secularization of Western Christianity gives us liberalism. The secularization of the Orthodox religion gives us Communism. It is individualism versus collectivism. For us, the problem is not with Christianity itself, as it is in the West. Evola made an attempt to restore Tradition. The New Right also tries to restore the Western tradition, which is very good. But being Russian Orthodox, I cannot decide which is the right path for Europe to take, since we have a different set of values. We don’t want to tell the Europeans what to do, nor do we want to be told what to do by the Europeans. As Eurasianists, we’ll accept any solution. Since Evola was European, he could discuss and propose the proper solution for Europe. Each of us can only state our personal opinion. But I have found that we have more in common with the New Right than with the Catholics. I share many of the same views as Alain de Benoist. I consider him to be the foremost intellectual in Europe today. That it is not the case with modern Catholics. They wish to convert Russia, and that is not compatible with our plans. The New Right does not want to impose European paganism upon others. I also consider Evola to be a master and a symbolic figure of the final revolt and the great revival, as well as Guénon. For me, these two individuals are the essence of the Western tradition in this dark age.

In our earlier conversation, you mentioned that Eurasianists should work with some jihadist groups. However, they tend to be universalist, and their stated goal is the imposition of Islamic rule over the entire world. What are the prospects for making such a coalition work?

Jihadis are universalists, just as secular Westerners who seek globalization are. But they are not the same, because the Western project seeks to dominate all the others and impose its hegemony everywhere. It attacks us directly every day through the global media, fashions, by setting examples for youth, and so on. We are submerged in this global cultural hegemony. Salafist universalism is a kind of marginal alternative. They should not be thought of in the same way as those who seek globalization. They also fight against our enemy. We don’t like any universalists, but there are universalists who attack us today and win, and there are also non-conformist universalists who are fighting against the hegemony of the Western, liberal universalists, and therefore they are tactical friends for the time being. Before their project of a global Islamic state can be realized, we will have many battles and conflicts. And global liberal domination is a fact. We therefore invite everybody to fight alongside us against this hegemony, this status quo. I prefer to discuss what is the reality at present, rather than what may exist in the future. All those who oppose liberal hegemony are our friends for the moment. This is not morality, it is strategy. Carl Schmitt said that politics begins by distinguishing between friends and enemies. There are no eternal friends and no eternal enemies. We are struggling against the existing universal hegemony. Everyone fights against it for their own particular set of values.

For the sake of coherence we should also prolong, widen, and create a broader alliance. I don’t like Salafists. It would be much better to align with traditionalist Sufis, for example. But I prefer working with the Salafists against the common enemy than to waste energy in fighting against them while ignoring the greater threat.

If you are in favor of global liberal hegemony, you are the enemy. If you are against it, you are a friend. The first is inclined to accept this hegemony; the other is in revolt.

In light of recent events in Libya, what are your personal views on Gaddafi?

President Medvedev committed a real crime against Gaddafi and helped to initiate a chain of interventions in the Arab world. It was a real crime committed by our President. His hands are bloodied. He is a collaborator with the West. The crime of murdering Gaddafi was partly his responsibility. We Eurasianists defended Gaddafi, not because we were fans or supporters of him or his Green Book, but because it was a matter of principles. Behind the insurgency in Libya was Western hegemony, and it imposed bloody chaos. When Gaddafi fell, Western hegemony grew stronger. It was our defeat. But not the final one. This war has many episodes. We lost the battle, but not the war. And perhaps something different will emerge in Libya, because the situation is quite unstable. For example, the Iraq War actually strengthened Iran’s influence in the region, contrary to the designs of the Western hegemonists.

Given the situation in Syria at present, the scenario is repeating itself. However, the situation, with Putin returning to power, is much better. At least he is consistent in his support for President al-Assad. Perhaps this will not be enough to stop Western intervention in Syria. I suggest that Russia assist our ally more effectively by supplying weapons, financing, and so forth. The fall of Libya was a defeat for Russia. The fall of Syria will be yet another failure.

What is your opinion of, and relationship to Vladimir Putin?

He was much better than Yeltsin. He saved Russia from a complete crash in the 1990s. Russia was on the verge of disaster. Before Putin, Western-style liberals were in a position to dictate politics in Russia. Putin restored the sovereignty of the Russian state. That is the reason why I became his supporter. However, after 2003, Putin stopped his patriotic, Eurasianist reforms, putting aside the development of a genuine national strategy, and began to accommodate the economic liberals who wanted Russia to become a part of the project of globalization. As a result, he began to lose legitimacy, and so I became more and more critical of him. In some circumstances I worked with people around him to support him in some of his policies, while I opposed him in others. When Medvedev was chosen as his heir, it was a catastrophe, since the people positioned around him were all liberals. I was against Medvedev. I opposed him, in part, from the Eurasianist point-of-view. Now Putin will return. All the liberals are against him, and all the pro-Western forces are against him. But he himself has not yet made his attitude toward this clear. However, he is obliged to win the support of the Russian people anew. It is impossible to continue otherwise. He is in a critical situation, although he doesn’t seem to understand this. He is hesitating to choose the patriotic side. He thinks he can find support among some of the liberals, which is completely false. Nowadays, I am not so critical of him as I was before, but I think he is in a critical situation. If he continues to hesitate, he will fail. I recently published a book, Putin Versus Putin, because his greatest enemy is himself. Because he is hesitating, he is losing more and more popular support. The Russian people feel deceived by him. He may be a kind of authoritarian leader without authoritarian charisma. I’ve cooperated with him in some cases, and opposed him on others. I am in contact with him. But there are so many forces around him. The liberals and the Russian patriots around him are not so brilliant, intellectually speaking. Therefore, he is obliged to rely only upon himself and his intuition. But intuition cannot be the only source of political decision-making and strategy. When he returns to power, he will be pushed to return to his earlier anti-Western policies, because our society is anti-Western in nature. Russia has a long tradition of rebellion against foreign invaders, and of helping others who resist injustice, and the Russian people view the world through this lens. They will not be satisfied with a ruler who does not govern in keeping with this tradition.

jeudi, 04 octobre 2012

IMPERIO: ORDEN ESPACIAL Y ESPIRITUAL

ELEMENTOS Nº 32.

IMPERIO: ORDEN ESPACIAL Y ESPIRITUAL

 

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SUMARIO.-

Translatio Imperii: del Imperio a la Unión,
por Peter Sloterdijk

¿Hacia un modelo neoimperialista?
Gran espacio e Imperio en Carl Schmitt, 
por Alessandro Campi

¿Europa imperial?, 
por Rodrigo Agulló

Imperialismo pagano, 
por Julius Evola

El concepto de Imperio en el Derecho internacional,
por Carl Schmitt

Nación e Imperio, 
por Giorgio Locchi

El Imperium a la luz de la Tradición, 
por Eduard Alcántara

Imperio sin Imperator, 
por Celso Sánchez Capdequí

Imperio: Constitución y Autoridad imperial, por Michael Hardt y Antonio Negri

La teoría posmoderna del Imperio, 
por Alan Rush

El Imperium espiritual de Europa: de Ortega a Sloterdijk, 
por Sebastian J. Lorenz
 
 

mercredi, 03 octobre 2012

XVIIe Table ronde de Terre et peuple

RAPPEL :

dimanche 7 octobre, XVIIe Table ronde de Terre et peuple à Rungis (94)

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samedi, 29 septembre 2012

LOUIS DUMONT: HOLISMO HIERÁRQUICO

ELEMENTOS Nº 33.

LOUIS DUMONT: HOLISMO HIERÁRQUICO

 
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SUMARIO.-

Louis Dumont: estructuralismo, jerarquía e individualismo, 
por Robert Parkin

La influencia de Louis Dumont: Evolución teórica de Alain de Benoist,
por Diego L. Sanromán

Gloria o maldición del individualismo moderno según Louis Dumont, 
por Verena Stolcke

La historia entre antropólogos: Dumont y Salhins, por Gladis Lizama Silva

Las formas del holismo: Mauss y Dumont,
por Ángel Díaz de Rada

La racionalidad de la cultura occidental: Weber y Dumont, 
por Aparecido Francisco dos Reis

Individualismo y modernidad, 
por Julio Mejía Navarrete

Los errores y confusiones de Louis Dumont. A propósito de “la autonomía” o "emancipación” de la Economía, 
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Guillaume Faye à Nantes

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jeudi, 20 septembre 2012

Unthinking Liberalism: A. Dugin’s The Fourth Political Theory

Unthinking Liberalism:
Alexander Dugin’s The Fourth Political Theory

by Alex KURTAGIC

Ex: http://www.counter-currents.com/

Alexander Dugin
The Fourth Political Theory, London: Arktos, 2012

Arktos recently published what we can only hope will be the first of many more English translations of Alexander Dugin’s work. Head of the sociology department in Moscow State University, and a leading Eurasianist with ties to the Russian military, this man is, today, influencing official Kremlin policy.

The Fourth Political Theory is a thoroughly refreshing monograph, combining clarity of analysis, philosophical rigor, and intellectual creativity. It is Dugin’s attempt to sort through the confusion of modern political theory and establish the foundations for a political philosophy that will decisively challenge the dominant liberal paradigm. It is not, however, a new complete political theory, but rather the beginning of a project. The name is provisional, the theory under construction. Dugin sees this not as the work of one man, but, because difficult, a collective heroic effort.

The book first sets out the historical topology of modern political theories. In Dugin’s account, liberalism, the oldest and most stable ideology, was in modernity the first political theory. Marxism, a critique of liberalism via capitalism, was the second. Fascism/National Socialism, a critique of both liberalism and Marxism, was the third. Dugin says that Fascism/National Socialism was defeated by Marxism (1945), that Marxism was defeated by liberalism (1989), leaving liberalism triumphant and therefore free to expand around the globe.

According to Dugin, the triumph of liberalism has been so definitive, in fact, that in the West it has ceased to be political, or ideological, and become a taken-for-granted practice. Westerners think in liberal terms by default, assuming that no sane, rational, educated person could think differently, accusing dissenters of being ideological, without realizing that their own assumptions have ideological origins.

The definitive triumph of liberalism has also meant that it is now so fully identified with modernity that it is difficult to separate the two, whereas control of modernity was once contested by political theory number one against political theories two and three. The advent of postmodernity, however, has marked the complete exhaustion of liberalism. It has nothing new to say, so it is reduced endlessly to recycle and reiterate itself.

Looking to identify what may be useful to salvage, Dugin proceeds to break down each of the three ideologies into its component parts. In the process of doing so, he detoxifies the two discredited critiques of liberalism, which is necessary to be able to cannibalize them. His analysis of liberalism follows Alain de Benoist. Because it is crucial, I will avail myself of de Benoist’s insights and infuse some of my own in Dugin’s explication of liberalism.

Dugin says that liberalism’s historical subject is the individual. The idea behind liberalism was to “liberate” the individual from everything that was external to him (faith, tradition, authority). Out of this springs the rest: when you get rid of the transcendent, you end up with a world that is entirely rational and material. Happiness then becomes a question of material increase. This leads to productivism and economism, which, when the individual is paramount, demands capitalism. When you get rid of the transcendent, you also eliminate hierarchy: all men become equal. If all men are equal, then what applies to one must apply to all, which means universalism. Similarly, if all men are equal, then all deserve an equal slice of the pie, so full democracy, with universal suffrage, becomes the ideal form of government. Liberalism has since developed flavors, and the idea of liberation acquires two competing meanings: “freedom from,” which in America is embodied by libertarians and the Tea Party; and “freedom to,” embodied by Democrats.

Marxism’s historical subject is class. Marxism is concerned chiefly with critiquing the inequities arising from capitalism. Otherwise, it shares with liberalism an ethos of liberation, a materialist worldview, and an egalitarian morality.

Fascism’s historical subject is the state, and National Socialism’s race. Both critique Marxism’s and liberalism’s materialist worldview and egalitarian morality. Hence, the simultaneous application of hierarchy and socialism.

With all the parts laid out on the table, Dugin then selects what he finds useful and discards the rest. Unsurprisingly, Dugin finds nothing useful in liberalism. The idea is to unthink it, after all.

Spread out across several chapters, Dugin provides a typology of the different factions in the modern political landscape—e.g., fundamental conservatism (traditionalism), Left-wing conservatism (Strasserism, National Bolshevism, Niekisch), conservative revolution (Spengler, Jünger, Schmitt, Niekisch), New Left, National Communism, etc. It is essential that readers understand these so that they may easily recognize them, because doing so will clarify much and help them avoid the errors arising from opaque, confused, contradictory, or misleading labels.

Liberal conservatism is a key category in this typology. It may sound contradictory on the surface, because in colloquial discourse mainstream politics is about the opposition of liberals vs. conservatives. Yet, and as I have repeatedly stated, when one examines their fundamentals, so-called “conservatives” (a misleading label), even palaeoconservatives (another misleading label), are all ideologically liberals, only they wish to conserve liberalism, or go a little slower, or take a few steps back. Hence, the alternative designation for this type: “status-quo conservative.”

Another key category is National Communism. This is, according to Dugin, a unique phenomenon, and enjoys a healthy life in Latin America, suggesting it will be around for some time to come. Evo Morales and Hugo Chavez are contemporary practitioners of National Communism.

Setting out the suggested foundations of a fourth political ideology takes up the rest of Dugin’s book. Besides elements salvaged from earlier critiques of liberalism, Dugin also looks at the debris that in the philosophical contest for modernity was left in the periphery. These are the ideas for which none of the ideologies of modernity have had any use. For Dugin this is essential to an outsider, counter-propositional political theory. He does not state this in as many words, but it should be obvious that if we are to unthink liberalism, then liberalism should find its nemesis unthinkable.

But the process of construction begins, of course, with ontology. Dugin refers to Heidegger’s Dasein. Working from this concept he would like the fourth political theory to conceptualize the world as a pluriverse, with different peoples who have different moralities and even different conceptions of time. In other words, in the fourth political theory the idea of a universal history would be absurd, because time is conceived differently in different cultures—nothing is ahistorical or universal; everything is bound and specific. This would imply a morality of difference, something I have proposed as counter-propositional to the liberal morality of equality. In the last consequence, for Dugin there needs to be also a peculiar ontology of the future. The parts of The Fourth Political Theory dealing with these topics are the most challenging, requiring some grounding in philosophy, but, unsurprisingly, they are also where the pioneering work is being done.

Also pioneering, and presumably more difficult still, is Dugin’s call to “attack the individual.” By this he means, obviously, destabilizing the taken-for-granted construct that comprises the minimum social unit in liberalism—the discrete social atom that acts on the basis of rational self-interest, a construct that should be distinguished from “a man” or “a woman” or “a human.” Dugin makes some suggestions, but these seem nebulous and not very persuasive at this stage. Also, this seems quite a logical necessity within the framework of this project, but Dugin’s seeds will find barren soil in the West, where the individual is almost sacrosanct and where individualism results from what is possibly an evolved bias in Northern European societies, where this trait may have been more adaptive than elsewhere. A cataclysmic event may be required to open up the way for a redefinition of what it is to be a person. Evidently the idea is that the fourth political theory conceptualizes a man not as an “individual” but as something else, presumably as part of a collectivity. This is probably a very Russian way of looking at things.

The foregoing may all seem highly abstract, and I suspect practically minded readers will not take to it. It is hard to see how the abstract theorizing will satisfy the pragmatic Anglo-Saxon, who is suspicious of philosophy generally. (Jonathan Bowden was an oddity in this regard.) Yet there are real-world implications to the theory, and in Dugin’s work the geopolitical dimension must never be kept out of sight.

For Dugin, triumphant liberalism is embodied by Americanism; the United States, through its origins as an Enlightenment project, and through its superpower status in the twentieth and twenty-first century, is the global driver of liberal practice. As such, with the defeat of Marxism, it has created, and sought to perpetuate, a unipolar world defined by American, or Atlanticist, liberal hegemony. Russia has a long anti-Western, anti-liberal tradition, and for Dugin this planetary liberal hegemony is the enemy. Dugin would like the world to be multipolar, with Atlanticism counterbalanced by Eurasianism, and maybe other “isms.” In geopolitics, the need for a fourth political theory arises from a need to keep liberalism permanently challenged, confined to its native hemisphere, and, in a word, out of Russia.

While this dimension exists, and while there may be a certain anti-Americanism in Dugin’s work, Americans should not dismiss this book out of hand, because it is not anti-America. As Michael O’Meara has pointed out in relation to Yockey’s anti-Americanism, Americanism and America, or Americans, are different things and stand often in opposition. Engaging with this kind of oppositional thinking is, then, necessary for Americans. And the reason is this: liberalism served America well for two hundred years, but ideologies have a life-cycle like everything else, and liberalism has by now become hypertrophic and hypertelic; it is, in other words, killing America and, in particular, the European-descended presence in America.

If European-descended Americans are to save themselves, and to continue having a presence in the North American continent, rather than being subsumed by liberal egalitarianism and the consequent economic bankruptcy, Hispanization, and Africanization, the American identity, so tied up with liberalism because of the philosophical bases of its founding documents, would need to be re-imagined. Though admittedly difficult, the modern American identity must be understood as one that is possible out of many. Sources for a re-imagined identity may be found in the archaic substratum permeating the parts of American heritage that preceded systematic liberalism (the early colonial period) as well as in the parts that were, at least for a time, beyond it (the frontier and the Wild West). In other words, the most mystical and also the least “civilized” parts of American history. Yet even this may be problematic, since they were products of late “Faustian” civilization. A descent into barbarism may be in the cards. Only time will tell.

For Westerners in general, Dugin’s project may well prove too radical, even at this late stage in the game—contemplating it would seem first to necessitate a decisive rupture. Unless/until that happens, conservative prescriptions calling for a return to a previous state of affairs (in the West), or a closer reading of the founding documents (in America), will remain a feature of Western dissidence. In other words, even the dissidents will remain conservative restorationists of the classical ideas of the center, or the ideas that led to the center. Truly revolutionary thinking—the re-imagining and reinvention of ourselves—will, however, ultimately come from the periphery rather than the center.

 


Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

URL to article: http://www.counter-currents.com/2012/09/unthinking-liberalism/

mercredi, 19 septembre 2012

G. Faye: The Transitional Program

The Transitional Program

By Michael O'Meara

Ex: http://www.counter-currents.com/

A propos of . . .

Guillaume Faye
Mon Programme: Un programme révolutionnaire ne vise pas à changer les règles du jeu mais à changer de jeu,
Chevaigné: Les Éditions du Lore, 2012

Following quickly on the heels of Sexe et dévoiement [3] (2011), which examined the social-sexual roots of the present European demographic crisis, Faye’s latest is a much different kind of work, addressing quite another, though not entirely unrelated problem.

Theory and Practice

When dealing with political ideas in the largest sense (i.e., as they bear on the life or death of the polis), there comes a time, he argues, when critical and analytical thought, with its commentaries and opinions, has to pass from the abstract to the concrete. The most brilliant medical diagnosis, to give an analogy, is worth little if it does not eventually lead to a curative therapy.

In this vein, his Programme represents an effort to pass from the theoretical to the practical, as it proposes certain concrete policies (political therapies) to treat the ills presently afflicting the French state – and by extension, other European states. The details of this program make little reference to the American situation, but its general principles speak to the malignancy infecting all states of the Americanosphere.

Reform and Revolution

Faye’s program is not, ostensibly, about reforming the existing state. That would only “improve” a political system, whose corruptions, vices, and totalitarian powers are increasing immune to correction. The state’s lack of authority and democratic legitimacy, combined with the entrenchment of the New Class interests controlling it, means that such a system cannot actually be changed in any significant way. Hence the claim of Faye’s subtitle: A revolutionary program (i.e., one that attacks the existing disorder at its roots) “does not aim at changing the rules of the game but at changing the game itself.” The “game” here is the existing political system, which has become an obvious catastrophe for European peoples. For every patriot, this system needs not to be changed, but to be razed and rebuilt – from the ground up and according to an entirely different paradigm.

There is, though, a certain terminological confusion in the way Faye describes his program. He realizes it is something of a pipe dream. No state or party is likely to embrace it — though, of course, this does not lessen the value of its exercise nor does it mean it will not fertilize future projects of a similar sort. We also do not know what is coming and perhaps there will be a moment of breakdown — Joseph Tainter’s “Collapse” — making possible a revolutionary transition. If “we” should ever, then, have the occasion to assume power and restructure the state: how would we go about it?

Faye’s Programme is an effort to start thinking about such an alternative in a situation where a regime-threatening crisis of one sort or another brings a “new majority” to power. He doesn’t specifically spell out what such a crisis might entail, but it is easily imaginable. In 2017, for example, if the present society-destroying problems of unemployment, deindustrialization, massive indebtedness, uncontrolled Third World immigration, etc., are not fixed, and nothing suggests that they will, an anti-system party, like the National Front, could conceivably be voted into power. (Think of what is happening in Greece today.) In such a situation a new majority might submit something like his Programme to a referendum, calling on the “people” to authorize a radical re-structurization of the political system.

I can think of at least two national revolutions that came to power in a similar institutional (legal) way: the Sinn Féin MPs of December 1918 who refused to sit at Westminster and the NSDAP coalition that got a chance to form a government in January 1933.

The Programme anticipates a less catastrophic situation than foreseen in his Convergence des castastrophes (2004) or implied in Avant-Guerre (2002). Perhaps he is suggesting that this scenario is more realistic or likely now; I’m not certain. But it is strange to see so little of his convergence theory — what Tainter calls the ever mounting costliness of complexity — in his program, especially while positing a crisis as the program’s premise.

In any case, his Programme assumes its political remediation is to be administered before the present system collapses, at a moment when a new majority gets a chance to form a government from the debris of the old. For this reason, I think it is better characterized as “transitional” (in the Trotskyist sense).

Unlike a revolutionary program that outlines a strategy for overturning the existing order and seizing state power, a transitional program addresses a crisis in terms of the existing institutional parameters, but does so in ways that reach beyond their limits and are unacceptable to the ruling powers — challenging the system’s logic and thus posing a threat to its “order.” (See Leon Trotsky, The Death Agony of Capitalism and the Tasks of the Fourth International [1938].)

The State

In The Politics, Aristotle conceives of the state almost organically: the head of a body (the polis) — the political system that rules the City and ensures order within its measured boundaries.

In his self-consciously Aristotelian approach — which favors individual liberty, responsibility, hierarchy, and ethno-cultural homogeneity — Faye’s program aims at lessening the state’s costly, inefficient administrative functions, enhancing its sovereign powers, and abandoning its appropriation of functions that properly belong to the family and society.

This entails freeing the French state from the present European Union (whose Orwellian stranglehold on continental life is objectively anti-European). He does not actually advocate withdrawing from it, but rather refusing to cooperate with it until its rules are redesigned and national sovereignty is restored. Given that France is the most politically significant of the European states and is pivotal the EU’s existence, it has the power to force a major revamping of its policies and restore the European Idea that inspired the Treaty of Rome (1958).

If achieved, this restoration of national sovereignty would give the French state the freedom to remodel its institutions — not for the sake of undermining the primacy of the state, as our libertarians would have it, but of excising its cancers and enhancing its “regalian” will to “re-establish, preserve, and develop the identity, the prosperity, the security, and the power of France and Europe.”

Faye is not a traditional French nationalist, but a Europeanist favoring continental unity (an imperial family of nations rather than a global marketplace). He believes both the French state and the EU have a liberal-socialist concept of the political, which makes them unable to distinguish between their friends and enemies — given that the individualist, universalistic, and pluralist postulates of their ideology views the world in market and moralist terms, holding that only individualistic matters of ethics and economics are primary. (In traditional, organic civilizations it is the Holy that is primary.)

A restoration of sovereignty would give the French state the freedom to restructure and rebuild itself.

Globally, he proposes measures that would control the nation’s borders, re-vitalize its national economy, improve its efficiency, reduce its costs, amputate its nomenclature, streamline its functions, and concentrate on the national interest, and not, like now, on the special interests. But there is nothing in the Programme that would mobilize the French themselves for the transition. It is strictly a top-down project that ignores what Patrick Pearse called “the sovereign people,” who are vital to the success of every revolutionary movement.

The state, in any case, is too large — which is true almost everywhere. At its top and bottom: its functions and personnel need to be greatly reduced — cabinet positions should fall to six (Defense, Justice, Foreign Affairs, Interior, Economy, and Instruction/Patrimony) and the number of state functionaries cut by at least 50 percent. Faye’s proposals would remove cumbersome, over-regulating, and counter-productive state agencies for the sake of freeing up funds for more worthwhile investments in the private economy.

Toward these ends, he proposes overturning the anti-democratic role of judges, who in the name of the Constitution thwart the popular will (constitutional questions would be left to the Senate); introducing referendums that give the electorate a greater say in major policy decisions; restoring popular liberties, like the right to free speech; introducing “positive” law that judges the crime and not the criminal; abolishing the privileges of higher state functionaries (now greater than those of the 18th-century aristocracy); and eliminating the present confusion of state powers.

The Economy

In the modern world, the power (in a material sense) of a nation-state is in its economy. (The health and longevity of the nation — in the spiritual sense — is another thing, dependent on its demography, the preservation of it genetic heritage, the quality of its culture, and the culture’s transmission.)

Though conscious of the dangers posed by economism, Faye believes “prosperity” is necessary (though not sufficient) for social harmony and national defense. State and economy for him are different realms, operating according to different logics. But he rejects both the Marxist contention that the state’s political economy can do anything it wishes in the market and the liberal-conservative position that it can do nothing. Straddling the two, he advocates a political economy whose guiding principles are non-ideological and pragmatic. “What counts is what works — not what conforms to a dogma.” Sound economic practice is based on experience, not theory.

The great financial crisis of 2008, whose ravages are still evident, was not, he claims, a crisis of capitalism, but a crisis of the welfare-state — and thus a crisis of “statism” (étatisme). The crippling state debt allegedly at the root of this crisis stems, he argues, from the state’s profligate spending, its ever-growing number of functionaries, its bureaucratic mismanagement and cronyism, and its unsupportable social charges, like the Afro-Arab hordes occupying its banlieues. Left-wing talk of ultra-liberalism is delusional in economic systems as regulated as those of Europe. In living beyond its means, the state has acquired debts it cannot afford and now blames it on others.

Faye dismisses those who claim the crisis was created by a conspiracy of banksters and vampire capitalists. Targeting solely the failures of the present political system, he does not see or think it is important that there is something of a revolving door (perhaps greater in the US than France) between the state and the corporations, that the crimes of the money powers are intricately linked to state policies, and thus that the economic interests have a corrupting and distorting effect on the state.

In his anti-Marxism, Faye is wont to stress the primacy of the “superstructure,” rather than the economic “base” (which, most of the time, is probably a reliable rule of thumb). Similarly, he does not relate the current crisis to globalization, which has everywhere undermined the existing models of governance, nor does he consider the often nefarious role played by the IMF, the WTO, and the new global oligarchs.

He blames the crisis solely on the state’s incompetent and spendthrift policies, leaving blameless the money-lenders and criminals, whose bail-out caused the national debt to escalate beyond any imaginable repayment. The state may be primary to a people’s existence, but in the neo-liberal regimes of the West, it is clearly attentive, if not subordinated to the dominant economic interests. The two (state and economy) seem hardly understandable today except in relation to one another — though he wants us to believe the cause of the crisis was purely political. (In my mind, it is civilizational.)

In any case, the French state is over-administrated, “socialist” in effect; it has too many workers (almost 25 percent of the workforce); it pursues social-engineering domestically and economy-destroying free-trade policies internationally, the most self-destroying policies conceivable. Given capitalism’s quantitative logic, its globalist free-trade policies are also destroying Europe’s ability to compete with low-wage Third World economies, like China, and are thus devastating the productive capacity of its economies.

France and Europe, Faye argues, need to protect themselves from the ravages of global free trade by creating a Eurasian autarkic economic zone, from Galway to Vladivostok (what he once called “Eurosiberia,” though there’s no mention of it), and at the same time by liberalizing the domestic economy, throwing off excessive regulations and social charges for the sake of unleashing European initiative and enterprise. He calls thus for changes in the EU that focus on stimulating the European market rather than allowing it to succumb to America’s global market, which is turning the continent’s advanced economies into financialized and tertiarized economies, unable to provide decent paying jobs. The emphasis of his program is thus on national economic growth.

The present policy of budget austerity, he argues, is compounding the crisis, causing state revenues to decline and forcing the economy into depression. Growth alone will generate the wealth needed to get out of debt. To this end, the state needs to radically cut costs, but do so without imposing austerity measures. This entails not just simplifying and rationalizing public functions, but changing the paradigm. The state should not, therefore, indiscriminately reduce public expenses, but rather suppress useless, unproductive charges, while augmenting wealth-creating ones.

Basically, he wants the state to withdraw from the economy, but without abandoning its role in protecting the public and national interests. For those key sectors vital to the nation’s economy and security — energy, armaments, aerospace, and high tech — the state should exercise a certain strategic control over them, but without interfering in their management.

He also calls for a tax revolution that will unburden the middle class, while expanding the tax base. Similarly, he wants the state to encourage enterprise by relieving business of costly social charges, especially on small and middle-size enterprises that create employment; he wants the French to work more — increasing the workweek from 35 hours to 40, and decreasing annual vacations from five weeks to four; he wants a liberalization of the labor market, with a system of national preferences favoring French workers over immigrants; he wants a different system of unemployment benefits that encourages work and rationalizes job placements; he wants a cap on executive salaries and an end to golden parachutes; and he wants state subventions of public worker unions discontinued, along with their right to strike.

As a general principle, he claims the state should not grant rights it cannot afford, that those who can work should, that foreigners have no right to public services (including education), that quotas imposing artificial forms of sexual and racial equality are intolerable, and that only natives unable to work should be entitled to assistance. Social justice, he observes, is not a matter of socialist redistribution, but of a system whose pragmatic efficiencies and competitive industries are able to provide for the nation’s needs. There are, however, no proposals in his program for re-industrialization, state economic planning, or an alternative form of economy based on something other than capitalism’s incessant need to grow and consume.

Closely related to the country’s economic problems is that of the state’s failed politique familiale. The state needs to adopt measures to offset the social problems created by explosive divorce rates and non-reproducing birthrates. The aging of the population is also going to require increased medical services, which need to be expanded and improved.

As for the rising generation, he calls for a revamping of the national education system, which has become a “cretin-producing factory.” France’s Third Republic had one of the finest educational systems in the world, that of the Fifth Republic has been an utter disaster, due largely to Left-wing egalitarian policies catering to the lowest common denominator (the Barbarians at the Gates). The state, moreover, has no right to ‘educate’ youth — that is the role of the family (and, I would add, the Church). The state should instead provide schools that instruct — that convey knowledge and its methods — not inculcate the reigning Left ideologies. Discipline must also be restored; all violence and disorder in schools must be severely punished. Immigrants and non-natives ought to be excluded. Obligatory schooling should end at age 14, and a system of apprenticeship (like in Germany) should be made available to those who do not pursue academic degrees.

The universities also need to be revamped, with more rigorous forms of instruction, dress codes, tracking, and the elimination of such frivolous disciplines as psychology, sociology, communications, business, etc.

There are, though, no proposed measures in his program to strengthen the nation’s ethno-cultural identity, resist the audio-visual imperialism of America’s entertainment industry, or outlaw the NGOs funded by the CIA.

Immigration

The present soft-totalitarian ideology of the French state, like states throughout the Americanosphere, portrays immigration as an “enrichment,” though obviously it is everywhere and in all ways a disaster, threatening the nation’s ethnic fundament, its way of life, and its cultural integrity. Immigration is also code for Third World colonization and Islamization.

Against those claiming it is impossible to stem the immigrant tide, Faye contends that what is needed is a will to do so — a will to eliminate the “pull” factors (like welfare) that attract the immigrant invaders. He proposes zero immigration, the deportation of illegals, the expulsion of unemployed legal ones, the end to family regroupments, the strict policing of student and tourist visas, the abolition of exile rights, visa controls on international transportation links, the elimination of state-funded social assistance to foreigners, national preference in employment, and the replacement of jus soli by jus sanguinis.

Given that Muslims are a special threat, Faye proposes abolishing all state-supported Muslim associations, prohibiting mosque building and halal practices, imposing heavy fines on veiled women, eliminating Muslim chaplains from the military and the prison system, and implementing a general policy of restrictive legislation toward Islam. Surprisingly, he proposes no measures to break up the non-European ghettos presently sponging off French tax-payers and constituting a highly destabilizing factor within the body politic (perhaps because the above measures would prevent these ghettos from continuing to exist).

Even these relatively moderate measures, he realizes, are likely to stir up trouble, for every positive action inevitably comes with its negative effects. But unless measures aimed at stopping the “pull” factors promoting the immigrant invasion are taken, Faye warns, it may be too late for France, in which case more drastic measures will have to be taken later — and Plan B will have no pity.

The World

The state’s defense of the nation and its relationship with other states are two of its defining functions.

To those familiar with Faye’s earlier thoughts on these subjects, they will find the same general orientation — a rejection of Atlanticism, a realignment with Russia, neutrality to the US, withdrawal from the Third World, and an armed vigilance toward Islam. His stance on NATO, the US, and Russia, though, is more “moderate” than those taken in the past.

The Programme depicts the present EU as objectively anti-European, but does not call for an outright withdrawal from it. It similarly recognizes that NATO subordinates Europe to America’s destructive crusades and alliances (impinging on the basic principle of sovereignty: the right to declare war) and again does not call for a withdrawal, only a strategy to diminish its significance. And, finally, though he thinks Russia should be the axis of French policy (which is indeed her only viable geopolitical option), there is little in his program that would advance the prospects of such a realignment or re-align France against the surreptitious war of encirclement presently being waged by the US against Russia. There is also nothing on the present “unipolar-to-multipolar phase” of international politics, brought on by America’s imperial decline — as it goes about threatening war and international havoc, all the while supremely indifferent to the collapse of its own economic fundamentals. On these key policies related to France’s position in the world, he stands to the “right” of Marine Le Pen.

Faye’s program aims at restoring French sovereignty, but, as suggested, on issues relevant to its restoration, his position would greatly modify France’s submission to the anti-sovereign powers, not break with them. At the root of this apparent irresolution, I suspect, is his understanding of Islam. Faye has long designated it as Europe’s principal enemy. And there is no question that Islam, as a civilization, is objectively and threateningly anti-European, and that Muslim immigrants pose a dire threat to France’s future.

But his half-right position has taken him down a wayward path: to an alliance with Islam’s great enemy, Israel, and to an accommodation with Israel’s Guardian Angel, the United States, the world’s foremost anti-white power. For it is the American system (in arming and abetting jihadists to destabilize regimes it seeks to control) that has made Islam such a world threat and it is the American system (in the blight of its leveling commercialism and the poisonous vapors of its human rights ideology) that poses the greatest, most profound threat to European existence.

Faye’s questionable position on these issues seems, more generally, to come from ignoring the nature of the post-1945 nomos imposed by New York-Washington on defeated Europe and the rest of the non-Communist world after the Second World War. America has always had an ambivalent relationship to Europe — being both an offshoot of European Christian civilization and a Puritan (in effect, Bolshevik) opponent of it. Since the end of the last world war — when it formally threw off the Christian moral foundations of the last thousand years of European civilization by morally sanctioning “the destruction of residential areas and the mass killing of civilians as a routine method of warfare” — a new counter-civilization, an empire of liberty and chaos, has come to rule the world (even if during the 45 years of the Cold War the US encouraged the illusion that it was a bastion of Western values and Christianity). (See Desmond Fennell, The Postwestern Condition: Between Chaos and Civilization [1999]; Carl Schmitt, The Nomos of the Earth [1950/2003].)

Not just the devastated Germans and Italians, but all Europeans were subsequently integrated into the predatory empire of this counter-civilization — and subjected to its transvaluation of values (consumerism, permissiveness, abortion, the elimination of sex differences, the death of God, the end of art, anti-racism, and the “newspeak” whose inversions hold that “war is peace,” “dictatorship is democracy,” “ignorance is culture,” etc.). European elites have since become not just a comprador bourgeoisie, but home-grown exemplars of the moral and cultural void (the Thanatos principles) animating the American system. It is this system and its poisons that have made Europeans indifferent to their survival as a people and accounts for the increasing dysfunctionality of their established institutions — not the mass influx of Third World immigrants, who are a (prominent and very unpleasant) symptom, though not the source, of the reigning inversions.

Without acknowledging this, Faye can argue that America is only an adversary of Europe — a power that might exploit Europeans, but not one posing a life and death threat to their existence, like a true enemy. He forgets, accordingly, that America and America’s special friend, Britain, rather consciously destroyed historic Europe — that civilization born from the “medieval” alliance of Charlemagne and the Papacy. In the course of its anti-fascist crusade, the imperial leviathan headquartered in New York-Washington threw off the values and forms of Europe’s ancient and venerable Christian civilization for ones based on the sanctioning of mass murder.

Such premises have since inspired on-going campaigns “to abolish and demolish and derange” the world. It is this system that endangers white people today — for it wars on everything refusing to bend to its “liberal democratic” (i.e., money-driven) colonization, standardization, and demeaning of private and social life — as it breaks up traditional communities, isolates the individual within an increasingly indifferent “global world” dismissive of history, culture, and nature, rejects historically and religiously established sources of meaning, and leaves in their stead innumerable worthless consumer items and a whorl of fabricated electronic simulacra that situate all life within its hyperreal bubble. Even in an indirect or transitional way, Faye does not address this most eminent of the anti-European forces, offering no real alternative to the US/EU consumer paradise, whose present breakdown will be recuperated only by a resistance whose political vision transcends the underlying tenets of the existing one.

Conclusion

As an exercise, Faye’s Programme displays much of its author’s characteristic intelligence and creativity, and it stands as a respectable complement to the numerous interpretative and analytical works he has written on various aspects of European life over the last decade and a half — works written with verve and an imagination rich in imagery, lucidity, and urgency. As a brief programmatic redefinition of the French state system, his program is, admittedly, impressive. It is not, however, revolutionary. In some respects, it is not transitional. Above all, it does not get at the roots of the existing disorder: the satanic system that is presently destroying both Europe and the remnants of European civilization in America.

If Faye continues to speak for the rising forces of European identitarianism and populism, he will need to invent a better “game” than his program — for what seems most needed in this period of transition is a worldview premised on the overthrow of the existing nomos.

 


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dimanche, 16 septembre 2012

R. Steuckers: Entretien accordé à Thorsten Thomsen

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Entretien accordé à Thorsten Thomsen

Sur l’Europe, la Belgique, les cantons d’Eupen-Malmédy, Ernst Jünger, Carl Schmitt et... la “nouvelle droite”...

 

Monsieur Steuckers, c’est désormais un secret de polichinelle: l’eurocratie bruxelloise planifie, via une union monétaire centrée autour de l’euro et pratiquant le transfert systématique, l’avènement d’un  gigantesque Etat unitaire de la Méditerranée à l’Arctique, dans lequel les différents peuples d’Europe finiront par être dissous. Or c’est justement votre pays, la Belgique, qui sert aujourd’hui  d’exemple, pour dénoncer l’impossibilité de tout assemblage de peuples divers au sein d’un Etat unitaire artificiel. Malgré l’apparent apaisement de la longue crise politique belge, qui ne saurait être que passager, voyez-vous encore un avenir pour l’Etat belge?

 

Le problème majeur, c’est justement que ces maudits eurocrates veulent nous fabriquer un “Etat unitaire”; je dirais plutôt qu’ils vont nous mitonner une panade insipide, où l’on mélangera tous les ingrédients possibles et imaginables, la rendant totalement immangeable; tous les ingrédients seront finalement détruits lors de ce processus de mixage, comme on peut déjà l’observer aujourd’hui. Mais je reste “européiste”: l’Europe a surtout besoin d’une unité spirituelle, de devenir un “grand espace” le plus autarcique possible, indépendant sur le plan alimentaire (ce qui s’avèrera une tâche bien difficile); l’Europe, comme toute autre entité politique, ne peut être déterminée par l’économie seule (par l’ “illusion économique” dirait Emmanuel Todd), car l’économie, conçue chez les libéraux comme chez les socialistes non pas comme une pratique nécessaire, comme une pratique d’intendance, mais comme une idéologie universaliste, est appelée à gérer sur des modes préconçus (a priori) et homogènes un ensemble bigarré de différences désordonnées et irréconciliables dans leurs altérités: dans cette optique, même si j’étais, par exemple, le producteur agricole idéal selon l’eurocratisme, je ne pourrais pas faire pousser les mêmes denrées végétales en Finlande et en Sicile, je ne pourrais pas élever des rennes en Grèce et faire croître une oliveraie en Laponie. L’eurocratisme abscons et caricatural se heurte là à une impossibilité physique, géographique et naturelle. Cette lapalissade, que je viens d’énoncer, les eurocrates ne semblent pas la comprendre. Toutes les zones agricoles qui composent l’Europe devraient dès lors pouvoir conserver leurs propres rythmes.

 

Les peuples d’Europe se liquéfient, s’évaporent dans le néant, basculent dans l’impolitisme, c’est certain, mais ce n’est pas uniquement parce qu’il existe une UE; d’autres facteurs sont depuis longtemps déjà entrés en jeu: la circulation accélérée des biens et des personnes (qui n’est pas un mal en soi mais qui exige des  régulations rigoureuses), le tourisme de masse, l’abêtissement généralisé et l’exotisme des “informations” (on devrait dire: des “dés-informations”) diffusées par les ondes ont contribué à dissoudre la notion de peuple, telle qu’on la concevait jusqu’à la moitié du 20ème siècle. C’est une raison pour lire et relire le discours qu’avait tenu Martin Heidegger sur la généralisation de la télévision au début des années 60, discours que lui avaient réclamé ses concitoyens et ses amis d’enfance de Messkirch en 1961. La “proximité”’ (die Nähe), que Heidegger a pensée à fond, est une force qui disparaît, en même temps que le nécessaire ancrage local, territorial et “vernaculaire” (E. Goldschmidt, L. Ozon) de toute activité humaine (cf. Emil Kettering, Nähe – Das Denken Martin Heideggers, Neske, Pfullingen, 1987). Finalement, au bout de ce processus de disparition de la “proximité”, nous voyons apparaître ou, pire, s’amplifier, les nouvelles “maladies de civilisation”, dont on escamote symptômes, effets et ampleur depuis quelques décennies. Aujourdhui, des auteurs comme Tony Anatrella en Italie ou Nicole Aubert en France les ont dénoncées avec justesse et vigueur, du moins celles qui génèrent des pathologies neurologiques ou mentales. Lorsque le “lointain” (die Ferne) déboule sans aucune forme de régulation dans notre propre “proximité” (Nähe), un chaos difficilement maîtrisable s’installe, celui dans lequel nous vivons aujourd’hui: Julius Evola aurait très justement nommé une telle époque “Kali Yuga”. L’immigration n’est ici sans doute qu’un phénomène connexe.

 

L’Europe aurait pu et dû devenir une “Union douanière” (Zollunion) rationnelle, visant une forme d’autarcie bien équilibrée. Les principes de Friedrich List auraient dû servir d’orientation et non pas une idée d’unité impossible à réaliser parce que dépourvue de toute concrétude, a fortiori quand, depuis une trentaine d’année, on se vautre dans l’idéologie et la pratique néolibérales et planétaristes, impliquant d’ouvrir toute grandes les frontières à des produits provenant de pays extérieurs au “grand espace” européen. A tout cela s’ajoute la calamité des délocalisations. L’idée d’unité aurait dû signifier simultanément “unité spirituelle” et “autarcie économique”, avec zones agricoles différenciées, gérées de manière autonome, et avec la possibilité, pour les pays moins développés, d’une protection de la production intérieure, surtout celle des PME  (“Petites et Moyennes Entreprises”), de manière à ne pas miter et disloquer le tissu social. Il faut encore dire que l’Europe est aussi totalement dépendante des Etats-Unis sur le plan militaire, tout en étant continuellement espionnée par un système satellitaire comme Echelon. L’Europe demeure entièrement dépendante de certaines matières premières qui ne se trouvent pas sur son sol et ne bénéficie pas d’une indépendance alimentaire suffisamment solide malgré les milliards que gaspille l’eurocratie dans une “politique agricole commune”, dont on ne perçoit pas très bien le sens et la rationalité. L’idéologie pacifiste, cultivée par l’eurocratisme, est un pacifisme mal conçu dans la mesure où il a toujours empêché les décideurs européens d’apporter les bonnes réponses à ces problèmes de défense et d’indépendance alimentaire. Au lieu de croire aveuglément aux “bonnes intentions” proclamées par les Américains, l’Europe aurait dû chercher des solutions adéquates.

 

La Belgique? C’est une autre histoire. D’abord, je dois vous dire, comme à tous mes lecteurs non belges, que la production de bons livres pertinents et que l’organisation de séminaires et de colloques de grande qualité sur les questions belges ou sur l’identité des peuples, régions ou sous-régions du pays, connaissent dans le royaume une floraison inédite: on commence enfin à penser de manière différenciée et fondée, sans tenir compte de toutes les apologies de ce statu quo, que le système entend pérenniser jusqu’à la consommation des siècles. J’espère pouvoir vous en dire plus dans d’autres textes ou entretiens. Je me contenterai d’apporter une réponse simple et directe à votre question: depuis le début de la crise belge actuelle, c’est-à-dire depuis les élections législatives pour le Parlement fédéral en 2007, je me suis mis, comme beaucoup d’autres, à potasser grimoires anciens et ouvrages récents sur des thèmes dits de “Belgicana”. A l’étranger, toute cette littérature n’est jamais lue ni a fortiori citée, si bien qu’on se contente de répéter les poncifs habituels, qu’ils soient “belges” (belgicains), flamands ou wallons. La façon dont votre question est formulée le prouve déjà. D’abord, lorsque vous parlez d’un “assemblage hétéroclite” de peuples, parqués dans une zone donnée, il faut savoir que cet “assemblage” date déjà d’il y a 500 ans, depuis que l’Empereur Charles-Quint a créé le fameux “Cercle de Bourgogne” (Burgundischer Kreis) dans le cadre du Saint Empire et depuis que les provinces méridionales de cet ensemble ont opté pour la contre-réforme catholique. La division qui traverse la Belgique n’est donc pas déterminée par un facteur religieux comme dans l’ancienne Yougoslavie. C’est pourquoi, contrairement à mon ami Tomislav Sunic, je ne parle jamais de “Belgoslavie”. Le penseur russe Alexandre Douguine avait très bien vu et analysé la situation yougoslave, au moment où l’enfer se déchaînait dans les Balkans au début de la décennie 90, dans le sens où, là-bas, trois forces métaphysiques planétaires, disait Douguine, se télescopaient frontalement, surtout en Bosnie. Ici, dans l’espace belge, les clivages, générateurs d’antagonismes, sont plus récents et donc moins profonds.

 





 

L’histoire intellectuelle du mouvement flamand nous enseigne que la querelle a certes une dimension linguistique (ethno-linguistique) mais que la révolte flamande est aussi, politiquement parlant, une révolte populaire diffuse et largement inconsciente contre les avatars évidents ou déguisés des idées de la révolution française, une révolte plus prononcée côté flamand parce que les productions idéologiques françaises n’y détiennent aucun monopole. En Wallonie, alors que certains régions rurales se sont aussi rebellées contre les idées de la révolution française, l’influence actuelle (depuis une soixantaine d’années) des productions politico-intellectuelles parisiennes et surtout des médias audiovisuels vicient considérablement la situation et impriment dans les cerveaux une vulgate de gauche, favorable aux idées de la révolution française et du bonapartisme même à ses aspects libéraux et anti-populaires, une vulgate reprise par le parti socialiste dominant. La révolte contre la francophonie en Flandre est une révolte contre les “idées révolutionnaires institutionalisées” de Paris tandis qu’en Wallonie la dominante est une acceptation de fait de ces discours. Le fait que la Wallonie accepte ces discours, et renonce à certains accents de ses propres productions non révolutionnaires et souvent catholiques, fait que la Flandre ne veut plus avoir à faire avec le Sud du pays. La révolte sourde et permanente que connaissent les pays flamands contre les discours révolutionnaires institutionalisés venus de France, ou contre les nouvelles moutures libérales ou gauchistes, panmixistes ou mondialistes, de ce discours, n’est pas pour autant une attitude qualifiable de réactionnaire: le pays aurait pu forger un socialisme vernaculaire, plus conforme aux stratifications sociales et idéologiques qui ont existé depuis la fin du régime autrichien au 18ème siècle, stratifications sociales et idéologiques qui étaient d’ailleurs bien différentes de celles qui régnaient en France à la même époque.

 

La crise belge durera tant qu’il y aura trace, dans le pays, d’idéaux ou de discours “républicains” importés de France par les médias français (presse, télévision), tant que des esprits en seront influencés, tout comme par ailleurs la France elle-même ne se redonnera pas de destin si elle persiste à aduler les “nuissances idéologiques” modernes que les périodes troubles de son histoire ont générées. Et, en Belgique, cette crise touchera aussi les entités qui pourraient naître d’une éventuelle dissolution du pays car l’influence trop prononcée des médias parisiens fait que plus personne ne pense en terme d’identité (il y a irruption constante d’idées “lointaines”, et abstraites, dans ma proximité concrète), en termes politiques locaux, hérités de notre histoire et non pas importés d’ailleurs. Ce n’est pas là une idée qui m’est personnelle: c’est bien la volonté de recentrer les discours politiques sur ce qu’ont produit les identités de l’espace belge au cours des siècles (et surtout du 19ème siècle si fécond en érudition historique) qui explique pourquoi, au cours de ces dernières décennies, et surtout depuis la crise de 2007, de très nombreux universitaires se sont penchés en profondeur sur les “identités” (au pluriel!), en commençant par réhabiliter la littérature belge complètement éclipsée des programmes scolaires, universitaires et médiatiques dans les années 50, 60 et 70 (parce qu’elle était assez souvent “politiquement incorrecte” au regard des médiacrates parisiens et de leurs nombreux “collabos” locaux). Dans l’entre-deux-guerres, on était très conscient de l’enjeu des lettres et du danger français: c’est ce qui explique l’engouement pour l’ “idée bourguignonne” dans tous les cercles culturels francophones, y compris les plus officiels, et pas seulement chez les rexistes de Léon Degrelle. Après 1945, tout cela a été “oublié” et la francisation de la culture francophone belge et wallonne a pu battre son plein, accélérée par la télévision (confirmant cette idée heidegerrienne de la perversité intrinsèque que constitue l’irruption du “lointain” dans notre “proximité”, exprimé dans un discours à Messkirch en 1961). Cela ne veut pas dire que la Flandre était mieux lotie: si les Wallons et les francophones étaient décervelés par les médias parisiens, les Flamands, eux, subissaient une américanisation galopante, comme partout ailleurs en Europe. Cette américanisation entraînait aussi la “dégermanisation” de la Flandre, qui perdait tous ses liens culturels avec l’Allemagne, a fortiori quand l’enseignement de l’allemand n’était guère mieux organisé qu’en Wallonie, au profit du “tout-anglais”. Ces deux processus d’aliénation, la francisation des francophones wallons et bruxellois et l’américanisation des Flamands, entrainent une incompréhension mutuelle qui explique le caractère durable de la crise belge actuelle. Bien sûr, cette crise a aussi des motifs purement politiciens.

 

Quelle sont les clivages conflictuels majeurs qui provoqueront à votre avis l’échec définitif de la Belgique?

 

Si en fin de compte la Belgique échouera, éclatera, ou si elle se maintiendra, personne ne peut le dire à l’avance. Mais il est une chose certaine: nous assisterons, nous assistons déjà, à l’émergence d’une zone “neutralisée” (au sens où l’entendaient Carl Schmitt et Christoph Steding) au Nord-Ouest de l’Europe. L’écrivain flamand Rik Van Walleghem a publié récemment une livre remarquable, et en même temps très drôle, sur la mentalité belge actuelle: l’individualisme forcené, perceptible dans toute la population (en Flandre comme en Wallonie), est devenu si fort que plus aucune politique de “Bien commun” n’est possible. Cela signifie que le pays est de facto “neutralisé” dans la mesure où toute politique véritablement “politique” (Julien Freund) n’y est désormais déployable, parce que plus aucune “position” claire ne peut encore s’y manifester, l’espace belge, dans ces conditions, ne pouvant plus demeurer un “sujet politique” même de modestes dimensions. Le refus du “Bien commun”, ou l’impossibilité de le servir, et la disparition de la “subjectivité politique” relèvent bel et bien de cette attitude anti-impériale et anti-politique que dénonçait un auteur allemand de la “révolution conservatrice”, aujourd’hui largement méconnu et oublié, Christoph Steding. Peu avant sa mort en 1934, Steding ne comptait pas la Belgique parmi les nations “impolitiques” d’Europe, comme la Suisse, les Pays-Bas et la Scandinavie. Aujourd’hui, s’il pouvait lire le livre de Van Walleghem, il la compterait sûrement parmi les pays “impolitiques”!

 

Le problème linguistique belge n’est pas bloqué en Flandre ou en Wallonie, mais à Bruxelles et dans les six communes flamandes autour de la capitale où se sont installés des francophones ou des Flamands devenus francophones dans les années 60, 70 et 80: c’est là que réside le contentieux territorial et politique; les Flamands estiment que le principe de territorialité doit primer (une seule langue pour un territoire délimité et défini par le législateur lors de la fixation de la frontière linguistique); les Francophones estiment, pour leur part, que l’emploi d’une langue par une personne lui donne automatiquement le droit à être servie dans cette langue par l’administration de la commune ou de la région; le nombre de locuteurs d’une langue déterminant de la sorte le statut linguistique du territoire, en dépit de toute décision antérieure du législateur. On le voit: les deux positions sont antagonistes, sans la moindre possibilité de négociation fructueuse ou de compromission féconde. L’immigration à Bruxelles pose un problème supplémentaire: en Flandre, tous sont plus ou moins en faveur d’une réduction drastique des flux migratoires mais, chez les francophones, qui “in petto” veulent la même chose, on est trop influencé par l’idée d’une panade “panmixiste” prêchée depuis Paris. On n’ose pas prendre de position plus radicale parce que cela déclencherait immédiatement une campagne de haine et de diffamation dans les médias français. Si des socialistes ou des démocrates-chrétiens wallons se mettaient à voter des mesures limitant les flux migratoires, des journaux parisiens comme “Libération” ou “Le Monde”, lus par les francophones belges, déclencheraient automatiquement des campagnes de presse contre le pays, stigmatisant, une fois de plus, un racisme ou un fascisme imaginaires, comme ce fut le cas avec Haider, Berlusconi ou Orban.

 

 

Autre problème récurrent de la Belgique: l’état de son système judiciaire, qui fonctionne très mal surtout à Bruxelles. L’ancien recteur des Facultés universitaires Saint Louis de Bruxelles, le Prof. François Ost, laisse sous-entendre, dans un ouvrage remarquable, que les problèmes de la justice, surtout en Belgique mais aussi ailleurs en Europe ou dans le monde, ont commencé lorsque la plupart des juristes (juges, procureurs et avocats) n’ont plus reçu une formation philosophique et littéraire solide et adéquate, surtout à partir du moment où l’on n’exigeait plus d’eux, comme auparavant, d’avoir bénéficié d’une formation classique, impliquant l’étude, à l’école secondaire, des racines grecques et latines de notre civilisation. Le Prof. Ost plaidait pour un formation générale et classique plus étoffée du personnel de la justice, faute de quoi les jugements posés deviendraient “mécaniques” et donc, souvent, “kafkaïens”. A côté de ce déclin culturel général, qui frappe aussi magistrature et barreau, règne un laxisme qu’a révélé la fameuse “affaire Dutroux” dans les années 90 du 20ème siècle. Les délinquants juvéniles, nombreux dans les grandes villes, s’en tirent trop souvent à bon compte: on ne leur inflige que quelques vagues réprimandes, dans un français ou un néerlandais qu’ils ne comprennent généralement pas. La confiance dans les professions juridiques en est profondément ébranlée: les avocats sont perçus comme des “raboulistes” aux yeux des simples citoyens; quand ce sont plutôt les règles qui jouent au détriment des faits dans les procès, le bon peuple ne comprend pas pourquoi les délinquants sont acquittés pour des “vices de procédure” sans qu’il ne soit tenu compte des faits répréhensibles qu’ils ont commis, fussent-ils des crimes effroyables. Les colonnes des journaux, notamment le plus lu du royaume, “Het Laatste Nieuws”, fourmillent de lettres de lecteurs dépités qui n’usent généralement pas d’un vocabulaire amène à l’égard des juristes, avocats comme magistrats.

 

L’implosion de la société belge n’est donc pas seulement politique, avec la crise permanente que vit le royaume, ou sociologique, avec le repli sur l’égoïté de chacun comme le démontre l’ouvrage de Rik Van Walleghem, elle se niche également dans la perte de confiance totale dans l’appareil judiciaire. Pour la Belgique, il faudrait plutôt parler d’implosion que d’explosion ou d’éclatement. Tout phénomène d’implosion politique est un phénomène plus lent que l’explosion, brutale et soudaine. Dans les cas d’implosion politique, les institutions semblent encore fonctionner mais seulement vaille que vaille sans l’adhésion de la population qui devient de plus en plus sceptique, méfiante et hostile. Un fatalisme, tissé d’indifférence et de sombre mélancolie, s’installe dans une sorte de Château de Kafka postmoderne. Tout Etat affligé de tels maux survit misérablement mais cette simple survie ne recèle aucune valeur constructive sur les plans spirituel, intellectuel, politique ou historique.

 

Reste à évoquer le problème du coût exorbitant de l’énergie, aux mains de grands consortiums français, tels Suez-GDF. L’énergie (gaz + électricité) est bien plus chère en Belgique que partout ailleurs en Europe. La ponction mensuelle effectuée par le secteur de l’énergie sur le budget des ménages entraîne un amoindrissement dramatique de l’épargne populaire, surtout quand les loyers augmentent terriblement, comme à Bruxelles et y absorbent souvent plus du tiers du salaire, et que la fiscalité ne s’allège pas. Un peuple ne peut pas faire confiance à un pouvoir politique qui laisse un secteur privé, et étranger de surcroît, comme celui de l’énergie, pomper déraisonnablement le budget des ménages, appauvrissant ainsi la population toute entière. Quand le pouvoir politique, tout au début du gouvernement di Rupo, a élevé faiblement la voix pour dénoncer le scandale, le secteur énergétique a superbement ignoré ce reproche et a encore augmenté les prix une semaine plus tard, signifiant ainsi au monde politique qu’il comptait pour du beurre. Ajoutons aussi que ce secteur énergétique ne paie que des impôts dérisoires et renâcle quand le pouvoir tente vaille que vaille de remédier à cette situation. A quoi peut donc bien servir un tel pouvoir politique, s’il se montre incapable de protéger la population contre des abus manifestes? Ni les partis traditionnels ni les partis challengeurs (Ecolo, Groen, NVA et Vlaams Belang) n’ont formulé un programme visant à mettre au pas le secteur énergétique étranger: une grave, très grave, lacune, surtout dans le cas de l’opposition marginalisée par le nouveau “super-cordon sanitaire”.

 

Le “Vlaams Belang” est sans nul doute le fer de lance politique du mouvement indépendantiste flamand. Pourtant, les cercles et partis nationalistes en Europe critiquent, parfois sévèrement, certaines lignes adoptées par ce parti. Partagez-vous cette critique et, question connexe, comment jugez-vous, dans le contexte flamand  actuel, l’avènement du nouveau parti qui concurrence ce “Vlaams Belang”, soit la NVA  (“Nieuwe Vlaamse Alliantie”) de Bart De Wever?

 

Je n’ai jamais été membre d’un parti, tout simplement parce que je n’ai jamais cru à l’utilité de partis nouveaux et à leur éventuelle efficacité sur le long terme dans le cadre belge. Le journaliste flamand Paul Belien, qui est très actif dans les pays anglo-saxons et écrit beaucoup en anglais, a pu très justement observer que la Belgique officielle suit un modèle, un “patron”, fixé une fois pour toutes. Ce modèle a été conçu en 1919, immédiatement après la Première Guerre Mondiale et a été sanctionné par des accords pris dans le Château de Loppem (près de Bruges) par le Roi, les chefs des trois principaux partis politiques, le patronat et les syndicats. A l’époque, on craignait surtout une révolution communiste/spartakiste car bon nombre d’ouvriers belges avaient sympathisé avec les “conseils d’ouvriers et de soldats” que les troupes allemandes, en rébellion ouverte contre leur hiérarchie, avaient proclamés dans les villes belges qu’elles occupaient. C’est pourquoi, le Roi, les syndicats, les associations patronales et les directions des trois partis dits “traditionnels” (catholiques, socialistes et libéraux) ont décidé que seuls ces partis signataires des accords de Loppem avaient droit à une représentation politique et parlementaire normale. Les innovations politiques et les nouveaux partis, qui se présenteraient éventuellement sur la scène électorale, devaient dès lors être secrètement combattus et tenus éloignés du pouvoir réel. La “Troïka de Loppem” devait, dans l’optique de ses protagonistes, devenir un bastion inébranlable contre toute innovation partisane qui surviendrait sur la scène politique belge. A l’époque, on visait surtout les communistes et les nationalistes flamands. Pour le journaliste Belien, les accords de Loppem sont toujours valides, surtout quand il s’agit de barrer la route à de la nouveauté, sauf peut-être aux “Ecolos”, et, pour Belien, ces mécanismes de fermeture fonctionnent surtout face à de la nouveauté flamande. Je partage son opinion même si je rejette sa volonté de faire d’une Flandre éventuellement devenue indépendante la féale alliée des Etats-Unis et de la Grande-Bretagne contre une UE trop déterminée par le binôme franco-allemand à ses yeux. La Flandre, tout comme les Pays-Bas, est la façade sur la Mer du Nord de l’Europe centrale, de la Mitteleuropa, tout en étant le prolongement occidental de la plaine nord-allemande. Elle ne saurait se satisfaire d’un statut de simple comptoir des thalassocraties anglo-saxonnes, comme le sont actuellement, du moins  dans une certaine mesure, les Pays-Bas.

 

La critique, que certains cercles nationaux ou nationalistes ont émise, que ce soit en Flandre même, notamment avec les néo-solidaristes, ou chez certains francophones de diverses obédiences partisanes ou associatives, s’adresse essentiellement aux prises de position ouvertement pro-américaines ou pro-israéliennes de quelques pontes du parti, comme ce soutien enthousiaste et irrationnel à George W. Bush, lors d’une de ses visites au quartier général de l’OTAN à Bruxelles, qui s’est exprimé naguère dans les colonnes du quotidien “Het Laatste Nieuws”. J’ai personnellement trouvé ce soutien puéril, particulièrement stupide et niais. Par ailleurs, l’idée de créer sur le modèle de l’alliance Berlusconi/Fini/Bossi une “Forza Flandria” qui devrait advenir avec les libéraux du VLD est considérée comme absurde par bon nombre d’observateurs, surtout parce que les libéraux ne veulent absolument pas en entendre parler! Une telle alliance, qui serait automatiquement dominée par les idées libérales et néo-libérales, ne reçoit pas, c’est sûr, l’aval de la majorité des électeurs. Le peuple veut un nouveau parti populaire, aux assises rénovées et “nettoyées” (une opération “mains propres”) qui proposerait un programme socio-économique solide que l’on retrouve aussi chez les socialistes et les démocrates-chrétiens historiques, mais que l’on épurerait de ses innombrables corruptions, de tous les oripeaux de festivisme soixante-huitard et de toutes les dérives abracadabrantes de la “nouvelle élite intellectuelle” (celle que dénonce Christopher Lash), une fausse élite “catamorphique” qui se pique, elle, de permissivité et de gauchisme utopique. Le peuple veut donc un Etat social plutôt flamand que belge en Flandre, comme l’était jadis l’Etat belge jusque dans les années 60 et 70, mais un Etat social efficace et non inutilement dispendieux, basé sur le sérieux politique, sans le carnaval permanent des gauches molles en folie. Les électeurs ne veulent surtout pas que le système belge des allocations familiales soit détricoté ou battu en brèche par des mesures néolibérales.

 

Les succès de la NVA s’expliquent parce que ce parti a commencé sa véritable ascension en 2007 comme partenaire mineur du parti démocrate-chrétien CD&V, encore très puissant à l’époque. Avec lui, la NVA a formé un “cartel” pour les élections législatives de juin 2007. Yves Leterme, qui était alors le chef du CD&V, a laissé tomber la NVA entre 2007 et 2010, afin de pouvoir gouverner le pays (avec les libéraux et les socialistes, obsession “lopemienne” oblige...), après que la presse francophone ait mené une campagne de haine et de dénigrement contre lui, accusé d’être le Cheval de Troie des méchants dissidents (contre-lopemistes) de la NVA. Ensuite, après les élections législatives anticipées de 2010, les rôles se sont inversés: la NVA de Bart De Wever a absorbé complètement les électeurs de la CD&V: si le “cartel” avait encore existé, le partenaire mineur serait devenu le partenaire majeur! Mais cette victoire électorale de la NVA a fragilisé le schéma voulu par les fameux accords de Loppem de 1919, qui doivent encore et toujours servir de modèle pour l’éternité. Le système belge fonctionne sur base de cette illusion d’avoir fabriqué, un jour, il y a près de cent ans, un “modèle”, établi une fois pour toutes; or l’histoire, en aucun cas, en aucun lieu, ne retient de tels modèles pour l’éternité. La NVA, comme avant elle, le “Vlaams Belang” ou d’autres partis wallons ou francophones, doit donc être adroitement, machiaveliquement, écartée des centrales du pouvoir. Ceci dit, le message politique de la NVA demeure très flou, très “fuzzy” pour reprendre un vocable anglo-saxon à la mode, si bien que tout esprit politiquement rationnel ne peut ni développer une critique de son contenu idéologique ou programmatique ni y adhérer en toute connaissance de cause. Reste à constater que le “cordon sanitaire” se perpétue et s’amplifie, en tant qu’expédient pour maintenir inamovible, sans changement aucun, la teneur des accords de Loppem envers et contre tout changement de donne et toute rationalité; ce “cordon”, que l’on avait mis en place pour barrer la route au “Vlaams Blok/Vlaams Belang”, s’installe dorénavant, de manière tacite, sans bruit, pour contrer toute participation de la NVA à la gestion de l’Etat, du moins au niveau fédéral; cette extension du “cordon sanitaire” fait que près de 45% des électeurs flamands (NVA + Vlaams Belang) n’ont plus aucune représentation au sein du Parlement fédéral belge! Bonjour la démocratie!

 

 

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Aux questions de la revue des corporations étudiantes autrichiennes, “Die Aula”, le chef de fraction du “Vlaams Belang” au parlement flamand, Filip De Winter, répondait que l’annexion d’Eupen-Malmédy au Land de Rhénanie du Nord/Westphalie était parfaitement envisageable en cas de dissolution de la Belgique. Estimez-vous que cette solution est réaliste? Côté allemand, personne ne semble intéressé à la question, exactement comme en l’année 1990, lorsque Moscou offrait de redonner la Prusse orientale à l’Allemagne...

 

L’histoire des deux cercles autour des petites villes germanophones pittoresques, que sont Eupen et Saint-Vith (Malmédy a toujours été wallonne, y compris sous le IIème Reich de Bismarck, où la langue wallonne avait un statut officiel, ce qu’elle n’a par ailleurs jamais eu sous aucun autre régime politique) est une histoire complexe. Pour y voir clair, il faut relire attentivement une thèse de doctorat, celle du Dr. Klaus Pabst (Eupen-Malmédy in der belgischen Regierungs- und Parteienpolitik 1914-1940, Sonderdruck des Aachener Geschichtsvereins, Band 76, Aachen, 1964). Nous ne le répéterons jamais assez: l’imbroglio est très complexe. Ces deux cercles ne sont pas les seuls cercles germanophones de la région: les communes de Plombières (Bleiberg), Henri-Chapelle (Heinrichkappelle), Welkenraedt et Baelen au Nord et de Bocholz, Urth, Lamerschen et Steinbach au Sud sont également germanophones mais ne firent jamais partie du Royaume de Prusse. Malmédy appartenait, sous l’Ancien Régime, à un tout petit Etat ecclésiastique, celui de l’Abbaye de Stavelot (Stablo)/Malmédy. Les habitants de Malmédy, bien que non germanophones, ont toujours été considérés comme des sujets prussiens plus fidèles que ceux d’Eupen, qui, en 1848, avaient sympathisé avec les révolutionnaires berlinois. Par ailleurs, en 1919, la Belgique annexe également des portions de la commune allemande de Monschau (Montjoie). Les communes germanophones de la “Wallonie de l’Est”, qui n’ont jamais été prussiennes, sont appelées, dans le langage du peuple, “altbelsch” (vieilles-belges) tandis que les cercles devenus belges en 1919 sont appelés “neubelsch” (nouveaux-belges). Pour rendre encore les choses plus compliquées, les Allemands (les Prussiens) ont négocié en 1919-1920 sur base du fait “linguistique” et voulaient que la frontière linguistique, séparant l’allemand de Rhénanie du wallon, devienne frontière d’Etat, mais forcément sans revendiquer les communes “altbelsch” et sans Malmédy, tandis que les négociateurs belges voulaient obtenir les frontières d’Ancien Régime, celle d’avant le Traité de Campo Formio de 1795 (où l’Autriche cédait les Pays-Bas méridionaux à la République française victorieuse), parce qu’à leurs yeux, les frontières des principautés et duchés du Saint-Empire étaient idéales et seules légitimes! Un tracé de la frontière belgo-allemande selon le découpage territorial de l’ancien régime aurait eu une configuration différente: certains territoires de l’ensemble Eupen-Malmédy seraient restés allemands tandis que plusieurs communes allemandes seraient revenues à la Belgique, héritière des anciens duchés de Limbourg et de Luxembourg, jadis inclus dans les résidus du Cercle de Bourgogne qu’étaient les Pays-Bas espagnols puis autrichiens; héritière aussi, depuis 1815, de la Principauté ecclésiastique de Liège et du territoire impérial de l’Abbaye de Stavelot-Malmédy. Tous les territoires ayant appartenu à ces entités d’ancien régime auraient dû revenir selon les négociateurs belges à la Belgique, posée comme héritière de l’Autriche et du Saint Empire dans la région, tandis que les négociateurs prussiens souhaitaient conserver tous les territoires germanophones des cantons d’Eupen, Malmédy et Saint-Vith et ne laisser que les communes wallones à la Belgique.

 





 

 

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Dans le cas d’un éclatement de la Belgique, les cercles d’Eupen et de Saint-Vith pourraient tout naturellement redevenir allemands. Ce serait certes une solution raisonnable car la géographie locale lie ces communes à leurs consoeurs allemandes comme Aix-la-Chapelle, Düren, Prüm et Bitburg. Il y a quelques années, un sondage a été effectué dans toute la Wallonie et aussi dans la région germanophone; les citoyens devaient répondre à une question: que voulez-vous devenir si la Belgique cesse d’exister? Les habitants des cercles d’Eupen, Saint Vith et Malmédy, de même que les habitants des arrondissements purement wallons de Verviers (province de Liège) et de toute la province du Luxembourg belge (wallon), de même que bon nombre d’arrondissements de la province de Namur ont dit souhaiter l’annexion au Grand-Duché du Luxembourg, plutôt que de devenir français. De Winter et beaucoup d’hommes politiques flamands et wallons oublient trop souvent, comme je l’avais d’ailleurs oublié moi-même, que les oeuvres littéraires des écrivains wallons évoquaient souvent avec anxiété les liens brisés avec l’Allemagne du fait des deux guerres mondiales du 20ème siècle. Pour l’un des meilleurs écrivains wallons contemporains, décédé depuis quelques années, Gaston Compère, c’est presque un leitmotiv récurrent de son oeuvre. Et même celui qui a bruyamment milité entre 1918 et 1920 pour faire annexer ces cantons des Fagnes et de l’Eifel à la Belgique, je veux parler de Pierre Nothomb, le grand-père de l’écrivain belge contemporain Amélie Nothomb, n’a plus cessé, après la seconde guerre mondiale de parler de ses chères Ardennes et de son non moins cher Eifel, devenant dans la foulée un des meilleurs avocats de la réconciliation. Voilà comment tourne la roue de l’histoire dans l’est de la Wallonie... Tout cela nous explique pourquoi, dans le sondage que je viens de mentionner, le Grand-Duché du Luxembourg est préféré à la France jacobine, avec laquelle pourtant ces Wallons partagent la langue. N’oublions pas non plus que lors d’une conférence de presse officielle pendant la longue crise politique de 2007-2011, un ministre wallon, Magnette, a évoqué, sous forme de boutade, l’Anschluss de toute la Wallonie à l’Allemagne, tout simplement, argumentait-il, parce que les liens économiques entre la région belge et l’Allemagne sont très forts, bien plus forts qu’avec la France, à l’exception de quelques zones frontalières en Hainaut (et en Flandre...). De plus, les systèmes sociaux belges et allemands sont similaires et méritent d’être conservés. C’était évidemment du temps de Sarközy, que les socialistes wallons n’appréciaient guère...

 

On évoque parfois la possibilité d’inclure tout le Land allemand de Rhénanie du Nord/Westphalie dans le Benelux, sous prétexte que les liens économiques sont tellement étroits que ce Land en fait partie de facto. Les cercles nationaux en Allemagne craignent qu’une telle démarche, qu’une adhésion au Benelux de la RNW déclencherait un processus de dissolution de l’Etat allemand, justement dans le but de faire advenir cette panade panmixiste d’indifférenciation que les eurocrates veulent imposer à tous, notamment sous l’impulsion de certains professeurs de la “London School of Economics”. Dans le cas qui nous préoccupe, je pense qu’il ne faut pas dramatiser: le Benelux n’est pas une instance qui fonctionne très bien; ses composantes gardent farouchement leur identité et les Néerlandais ne souhaitent certainement pas être entraînés dans les dysfonctionnements patents et récurrents de l’Etat belge, au cas où le Benelux s’avèrerait subitement plus “intégrateur” qu’auparavant. Je pense plutôt que cette idée de “bénéluxer” la RNW, certes un peu loufoque car on pourrait tout aussi bien réclamer la fusion des Etats du Benelux et de la RFA tout entière (et pourquoi pas de l’Autriche?), montre fianlement, mais par l’absurde, que ces pays de langues germaniques ou de parler roman (comme la Wallonie et, au Sud des Ardennes, la Lorraine romane), ont été déterminés, qu’ils le veuillent ou non par l’histoire germanique et impériale jusqu’en 1914; ils (re)trouvent inévitablement, dans l’Europe d’aujourd’hui, une sorte de destin commun, mieux des affinités et des “affinités électives” évidentes, tout simplement parce qu’au cours de l’histoire, ils ont toujours été étroitement liés et parce que leur folklore, leurs légendes et leurs traditions sont très souvent les mêmes. Seules les deux guerres mondiales —brève parenthèse dans l’histoire millénaire de la chose impériale, bien que parenthèse effroyablement tragique et surtout disloquante—  ont créé une césure que l’on est seulement aujourd’hui en train de surmonter. Il existe également une “Euro-Regio” comprenant la province flamande du Limbourg (Hasselt, Tongres, Saint-Trond), la province néerlandaise du Limbourg (Maastricht, Venlo), la province wallonne de Liège, le territoire de la Communauté germanophone de Belgique et les cercles d’Aix-la-Chapelle et Düren. Cette “Euro-Regio” fonctionne surtout dans le domaine du tourisme sans que les trois langues utilisées lors des diètes officielles ne posent problème. Les Allemands d’aujourd’hui doivent savoir que de telles initiatives, qui partent de sentiments positifs, ne nous préparent pas une “panade eurocratique”, tout simplement parce qu’elles sont étroitement ancrées dans une région frontalière spécifique, découpée par des frontières récentes, qu’elles sont conscientes de leur identité commune “rhénane-mosane” et qu’elles partagent, dans leur folklore, les mêmes éléments de base mythiques et liturgiques (notamment dans les carnavals); on songera ensuite, dans le domaine de la musique et du chant, à un ténor sympathique et populaire comme André Rieu, natif de Maastricht, chanteur populaire en Allemagne, au patronyme d’origine wallonne! Ces initiatives, de surcroît, ont l’avantage non négligeable, de déconstruire la germanophobie née des deux guerres mondiales du 20ème siècle, ce qui, dans l’Ouest du continent est une nécessité impérieuse, surtout qu’en France, le nouveau “culte de la mémoire (courte)” revient sans cesse sur les événements tragiques de la seconde guerre mondiale, génèrant en sourdine une nouvelle germanophobie, et ruinant, par la même occasion, les efforts de réconciliation entrepris depuis l’entrevue De Gaulle/Adenauer en 1963. La RFA ne songe évidemment pas à une récupération des cantons d’Eupen et de Saint Vith, dans les circonstances actuelles, parce qu’il n’existe plus aucune forme d’hostilité dans la région et que les pouvoirs publics, de part et d’autre des frontières belges, allemandes et néerlandaises, coopèrent étroitement et amicalement, comme avant 1914, où la commune de Moresnet, par exemple, était gérée conjointement par les trois puissances, dans la bonne humeur et la convivialité. On imagine douaniers et gendarmes, tous uniformes confondus, chantant à pleins poumons autour de bons hanaps de bière, lors des kermesses, carnavals et autres fêtes paroissiales!

 

 

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La Prusse orientale est, dans le contexte actuel, une zone de bien plus grande importance stratégique parce que c’est par elle que transitent les gazoducs de la Baltique.

 

Dans un article nécrologique à l’occasion de la mort de l’écrivain Ernst Jünger en 1998, vous expliquiez que vous le lisiez et l’admiriez depuis l’âge de dix-huit ans. Pourquoi cette admiration pour sa biographie et son oeuvre littéraire?

 

Oui, j’ai commencé très tôt à lire les écrits d’Ernst Jünger. Je prépare pour l’instant un long entretien sur son oeuvre et suis en train de lire les formidables biographies et monographies qui lui ont été consacrées récemment, notamment par des germanistes comme Meyer, Kiesel, Wimbauer, Ipema, Blok, Schwilk ou Weber. C’est exact: je suis admiratif de tous les aspects de l’oeuvre de Jünger. La clarté de ses articles et essais nationaux-révolutionnaires demeure exemplaire et le Dr. Armin Mohler en a adapté le contenu pour présenter, dans feue la revue “Criticon” sa vision d’un conservatisme rénové, même si Ernst Jünger n’était guère satisfait de voir ainsi réactualisés ses écrits politiques de jeunesse, dans le contexte totalement différent des années 50 et 60.

 

 

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L’attitude, face à la vie, du Jünger devenu homme mûr, qui se retire de la politique et part à la recherche de paysages inviolés par la modernité, m’interpelle tout aussi profondément, même si, pour nous, hommes jeunes ou matures du début du 21ème siècle, une telle quête s’avère de moins en moins possible: les paysages jusqu’au fin fond de la Pampa (n’en déplaise à Jean Raspail!) ou jusqu’aux recoins les plus réculés du Sahara ou du Désert de Gobi, portent tous, maintenant, quelque part, des traces et des souillures de modernité. Au-delà de toutes prises de position politiques ou métapolitiques, cette attitude, cette volonté de trouver des paysages silencieux ou bruisant de milles bruits prémodernes exerce sur moi une véritable fascination. Je recommande tout particulièrement aux jüngeriens en herbe de lire et de relire les pages du journal de Jünger relatives à son voyage au Brésil en 1936 (et, effectivement, trouvera-t-on encore ce Brésil indemne aujourd’hui?), à son séjour en Angola et à son excursion en Islande dans les années 60. Beaucoup de choses vues par Jünger et ses compagnons de voyage (dont son frère en Islande) ont été irrémédiablement détruites par la modernité. Personnellement, j’essaie encore de trouver des paysages indemnes ou d’en redécouvrir, mais je ne le puis que sur des espaces réduits à des distances de cinq ou dix kilomètres: partout, on trouve les blessures indélébiles infligées par les “temps de l’accélération” (die Beschleunigung), blessures qui n’avaient pas encore été infligées dans les années 60, quand j’étais un enfant et quand la “connexion totale”, crainte par Friedrich-Georg Jünger dans son ouvrage Die Perfektion der Technik, n’avait pas encore l’ampleur étouffante qu’elle détient de nos jours. Aujourd’hui, objets et villages, villes et paysages, en sont affectés. Le germaniste Weber, qui a sorti récemment chez Matthes & Seitz à Berlin, une monographie remarquable sur l’oeuvre de Jünger, démontre que l’idée fondamentale de cet auteur est justement l’idée de “décélération”, d’Entschleunigung. Il a raison. J’aimerais bien, comme le souhaite aussi un autre écrivain allemand, Martin Mosebach, appartenir dorénavant au cercle insigne des “retirés” et des “décélérants” (Entschleuniger), car le monde misérable des alignés et des conformistes de la modernité accélératrice, fébrile et frénétique, m’indispose et me déplait. Martin Meyer, dans son ouvrage sur Ernst Jünger, rappelle que notre auteur, au-delà des formes totalitaires ou non totalitaires du Léviathan moderne aux racines idéologiques “bourgeoises”, voit avec anxiété et réprobation se multiplier les “structures” qui étouffent les “ordres vitaux”, seuls réceptacles de véritable liberté, et les remplacent par des “Funktionsbeziehungen”, de purs et froids “rapports de fonctionnement”, totalement abstraits, inorganiques et insensibles à toutes nuances et circonstances. Aucune spontanéité vitale, donc aucune liberté vraie, ne peut plus se déployer sous le joug de telles abstractions: telle est aussi la grande leçon de l’anarque Jünger, qui nous incite à vivre le plus possible détaché de ces structures oblitérantes. Ensuite, ce mélange de sérénité (Gelassenheit), de cynisme désabusé et de quiétude souveraine chez notre auteur, je le trouve admirable. J’aime souvent citer cette anecdote que Schwilk, je crois, met en exergue dans sa monographie, au ton si vivant et chaleureux: devenu centenaire, Jünger est hospitalisé quelque part en pays souabe. Le “Bild-Zeitung”, journal de boulevard ne visant que le sensationnel, titre: “Un grand Allemand s’est couché pour mourir”. La femme de Jünger, qu’il surnommait “Mon petit Taureau”, lui apporte le journal. Jünger ricane et dit: “Ce plaisir-là, je ne vais pas encore le leur faire!”. Le reste de mes cogitations jüngeriennes, je le laisse pour l’entretien que je prépare depuis au moins six bons mois. Si vous le souhaitez, je vous en traduirai quelques extraits...

 

Cet article nécrologique de votre plume était paru dans “Junge Freiheit”. Pourquoi ne lit-on plus rien de vous dans les pages de ce journal?

 

Pour la direction de “Junge Freiheit”, il n’existe qu’une seule et unique personne en Europe de l’Ouest (et pas seulement en France) qui peut fonctionner comme correspondant: Alain de Benoist. Mais comme celui-ci s’est chamaillé avec tout le monde (ou se chamaillera si ce n’est pas encore le cas...) et comme ce solitaire grognon croit dur et ferme qu’il incarne tout seul sa fantômatique nouvelle droite (canal historique) et comme il croit aussi, tel un spectre errant, qu’il est le seul autorisé à représenter sa nouvelle droite dans le vaste monde ou même au niveau intergalactique, il met tout en oeuvre pour empêcher d’autres de s’exprimer à la tribune qu’offrent les journaux ou les revues bienveillantes à l’égard de ce vaste courant de pensée, à têtes multiples, que représente, partout dans le monde, la mouvance “nouvelle droite”. C’est ainsi, on n’y peut rien et l’on n’y changera rien! Je me souviens toutefois que jadis, il y a bien des années, “Junge Freiheit” avait un autre correspondant à Paris. Un homme solide, bon vivant et rigolard, avec une barbe de ténor wagnérien, originaire d’Alsace, bilingue, qui avait appartenu fidèlement à la ND (canal historique) aux temps héroïques du mouvement. Il régalait les lecteurs de JF d’articles bien tapés sur les affaires françaises. Au bout de quelques mois, sa signature a malheureusement disparu des colonnes de “Junge Freiheit” et de toutes les autres initiatives qualifiables, en France, de ND, fort probablement parce qu’il a été “purgé” à la suite de l’une ou de l’autre révolution de Politburo (de sotie) à Paris. L’attitude de la direction de “Junge Freiheit” en ce domaine est navrante: elle relève d’un pauvre travers, celui qui consiste à idolâtrer des gourous, au lieu de penser et d’agir objectivement et rationnellement. J’avais proposé de traduire les entretiens que prenait avec brio Xavier Cheneseau, un journaliste de la revue des chasseurs français, “Le Saint-Hubert”, d’accord en toute courtoisie pour que l’hebdomadaire berlinois les reprennent, et cela, gratuitement. J’avais traduit un premier entretien avec Brigitte Bardot: sitôt celui-ci paru, nous avons appris que quelqu’un, à Paris, avait chuchoté à l’oreille de la direction berlinoise de JF, que ces entretiens étaient “faux”, comme si une revue aussi diffusée que “Le Saint-Hubert” se permettrait de publier de faux entretiens! Exit Cheneseau! Et, du coup, exit tous les auteurs ou hommes politiques interviewés par cet infatigable garçon! Une coopération avec Cheneseau se serait avérée bien fructueuse et aurait donné à la rédaction berlinoise un succulent zeste d’originalité dans la presse allemande. On a, à Berlin, choisi de ne pas faire mariner ce zeste de bon fruit gaulois dans la tisane “néo-conservatrice”, offerte aux lecteurs allemands. Dommage. Navrant.

 

eierkorb.jpgEn ce qui me concerne, si je ne ne puis écrire dans telle ou telle revue à cause des intrigues parisiennes de la ND, je ne m’en soucie guère: le monde est vaste, j’écris pour d’autres, je me promène, j’arpente mes “Holzwege”, je travaille (car je ne suis pas un marginal, moi, qui vit des cotises de quelques naïfs dont j’abuserais de la générosité) et je médite en rigolant l’adage qu’aimait à répéter ma grand-mère maternelle ouest-flamande, originaire de Zonnebeke: “Qui ne veut point de mes oeufs, les laissera dans mon panier” (“Wie van mijn eieren niet wil hebben, die laat ze maar in mijn mand”).

 

Vous vous êtes également intéressé à un autre grand format de la pensée allemande: Carl Schmitt. Bon nombre d’observateursestiment que sa pensée reviendra bien vite à la surface vu la crise financière et économique qui dure et persiste, et vu les conflits d’ordre géopolitique qui secount l’échiquier planétaire. Comment voyez-vous les choses?

 

J’ai découvert Schmitt assez tôt et ai entamé la lecture de ses oeuvres, surtout parce que je suis tout simplement un compatriote de ce cher professeur d’université que fut Piet Tommissen, malheureusement décédé en août 2011. Il nous a carrément donné l’ordre de lire Schmitt. Il venait régulièrement, fin des années 70, prononcer quelques allocutions à la tribune des cercles Evola en Flandre, créés à l’initiative du surréaliste historique, le peintre Marc. Eemans. Ensuite, j’ai connu Günter Maschke à la Foire du Livre de Francfort en 1984 et depuis lors, quand nous sommes assis autour d’une table, avec un bon verre de vin de Hesse à la main, nous parlons immanquablement de thèmes relevant des “Schmittiana” et devisons sur la théorie du “grand espace” que Carl Schmitt avait commencé à théoriser dans les années 30. Pour être exact, mon intérêt pour Schmitt dérive d’un intérêt pour la géopolitique car je suis, en fait, un disciple du Général von Lohausen. J’ai toujours été d’avis qu’il fallait lire Schmitt en même temps qu’Haushofer et que d’autres auteurs de sa “Zeitschrift für Geopolitik” ou de la collection géopolitique (intitulée “Zeitgeschehen”) des éditions Goldmann de Leipzig dans les années 30 et 40. Nous avons là un filon quasi inépuisable d’auteurs très pertinents, malheureusement oubliés aujourd’hui mais qu’il vaudrait la peine de redécouvrir: il y a du pain sur la planche car ce sont des rayons entiers de bibliothèque que ces hommes ont remplis. Maschke et moi avons d’ailleurs un faible pour l’un d’eux: le journaliste Colin Ross, mort foudroyé sur la rive d’un fleuve russe en 1943. Allez donc chez un bouquiniste, pour rechercher ses livres et lisez-les! Malgré les bons travaux du Prof. Jacobsen et du politologue Hans Ebeling, de même ceux des Prof. Klein et Korinman en France, un travail systématique reste à faire sur la “Zeitschrift für Geopolitik”, qui mérite franchement d’être lue avec toute l’acribie voulue et d’être complétée d’un appareil de notes comme l’a fait Maschke pour les “Positionen und Begriffe” de Carl Schmitt, ainsi que Tommissen pour toute l’oeuvre et la correspondance de Schmitt pendant de longues décennies. Question simple: pourquoi faut-il relire Schmitt (et Haushofer) aujourd’hui? Quelques critiques de Schmitt dans les cercles nationaux disent qu’il a été un “Etatiste” trop rigide. Je rejette cette objection et je dis qu’il a été, au contraire, l’un des critiques les plus avisés de l’impérialisme britannique et américain. Tout comme Haushofer d’ailleurs. Plutôt que de fabriquer une Europe libérale et de la maintenir vaille que vaille en vie, les Européens devraient plutôt songer à recréer un “grand espace” autarcique ou semi-autarcique.

 

quarit.gifLa meilleure esquisse de cette notion schmittienne de “grand espace” se trouve dans le volume “Coincidentia Oppositorum” (édité chez Duncker u. Humblot, Berlin) et dû à la plume d’un ami que j’ai connu jadis, Maître Jean-Louis Feuerbach de Strasbourg, perdu de vue, hélas, depuis de nombreuses années. Ce texte a sans doute échappé à bon nombre de lecteurs allemands parce qu’il a été rédigé et publié en français, l’éditeur, Helmut Quaritsch (photo), hélas aussi décédé en 2011, étant le premier énarque allemand, sorti de la fameuse “Ecole Nationale d’Administration” de Paris et donc parfait bilingue. Un homme dont je garde un souvenir ému, depuis un séminaire de la DESG à Sababurg, le long de la “Märchenstrasse”. Cela me force à terminer cette réponse à votre question par une note toute empreinte de tristesse: pour les sciences politiques, telles que nous les entendons, l’année 2011 a été vraiment catastrophique, avec la double disparition de Quaritsch, ancien éditeur de la revue “Der Staat”, et de Tommissen. Deux hommes irremplaçables....

 

Pour terminer, une question sur la “nouvelle droite”, à laquelle, paraît-il, vous appartiendriez... Les anciens protagonistes de ce mouvement se sont disputés entre eux, ont opté pour des voies différentes voire divergentes. La “nouvelle droite” a-t-elle échoué sur toute la ligne ou, selon vous, ses idées sont-elles encore, quelque part, ancrées dans le réel?

 

En fait, j’en ai plein les bottes de la “nouvelle droite” et je préférerais ne pas répondre à votre question. Mais vous êtes un honnête homme et vos lecteurs méritent de recevoir quelques explications. Cela fait plus de vingt ans maintenant que je n’ai plus vu ce monsieur de Benoist ou seulement furtivement, lors de la Foire du Livre de Francfort en octobre 1999 mais il s’est enfui quand il m’a aperçu ou, la deuxième fois que nos chemins et nos regards se sont croisés, il s’est dissimulé derrière un exemplaire largement déployé de “Junge Freiheit” dans le stand loué par cet hebdomadaire. Voilà pourquoi je ne peux plus rien vous dire de fort précis sur les aléas qui ont ponctué la vie vivotante de ce mouvement parisien au cours de ces dernières années. Pour les terribles simplificateurs et pour bon nombre de clochards mentaux installés dans un anti-fascisme autoproclamé et souvent alimentaire, j’appartiendrais à la ND (française!) seulement parce que j’ai été, pendant neuf mois en 1981, secrétaire de rédaction de “Nouvelle école”, la revue d’Alain de Benoist, et parce que j’ai participé à deux ou trois universités d’été en Provence (où j’avoue d’ailleurs m’être bien amusé, ce qui est l’essentiel, Carpe diem!). Plus tard, mon propre mouvement, “Synergon” ou “Synergies européennes”, a puisé à d’autres sources (Haushofer, Wittfogel, Pernerstorfer, de Jouvenel, Jean de Pange, Willms, etc.). De plus, au sein de la “nouvelle droite” française, j’ai toujours été une voix critique. J’ai surtout été profondément choqué et meurtri par le sort cruel que la direction parisienne et faisandée de ce mouvement a infligé au malheureux Guillaume Faye, non seulement dans les années 80, mais aussi en l’an 2000, lorsque l’Etat lui faisait un procès pour le contenu de son ouvrage “La colonisation de l’Europe”. Benoist et son satellite de l’époque, Charles Champetier (entretemps ce féal d’entre les féaux a également été “purgé”...), n’ont rien trouvé de mieux, dans ce contexte, alors que le jugement n’avait pas encore été prononcé, de traiter Faye de “dangereux raciste” dans les colonnes du journal italien “Lo Stato”. Faye a par la suite été condamné pour “racisme”. La ND parisienne avait promis à tous ses adhérents de leur offrir une “communauté” d’amis et de camarades. Et voilà comment les bons camarades sont devenus parjures, voilà comment ils ont traité Faye, un garçon qui leur avait donné le meilleur de lui-même, jusqu’à accepter une vie de misère et de privations...

 

Je ne dirais pas que la ND a échoué, parce que de Benoist s’est comporté en égocentrique voire en égomane: la ND a vu passer une quantité de personnes dans ses rangs, qui ont fait beaucoup ou peu pour elle, mais qui, après l’avoir quittée pour trente-six raisons, valables ou non, ou après en avoir été évincées pour satisfaire les caprices d’un philosophe auto-proclamé et sans bacchalauréat qui se veut “figure de proue”, demeurent actives dans une quantité impressionnante de clubs, d’associations ou de formations plus ou moins politiques, qui ont souvent un ancrage local. Lorsque je traverse la France en tant que touriste, pour me rendre en Suisse, en Italie ou en Espagne, j’ai toujours le plaisir de retrouver des camarades actifs quelque part, militant au sein de structures diverses ou produisant des oeuvres ou des publications intéressantes. La ND française n’a jamais eu qu’une tête parisienne pourrie, ce qui correspond au dicton français, “le poisson pourrit toujours par la tête”. Les cercles demeurés actifs dans les provinces françaises sont généralement restés sains et continuent à oeuvrer dans la discrétion et avec efficacité. Dommage, qu’à cause de certains blocages, dus aux manigances sordides de la “caboche putréfiée”, le public allemand (et bénéluxien et italien et espagnol et américain, etc.) n’en sache rien, n’en soit jamais informé. Ensuite, il faut dire, pour paraphraser Max Weber, que les valeurs ne meurent jamais. Nous vivons dans une époque très triviale de l’histoire, où les valeurs sont refoulées, foulées aux pieds ou moquées, mais les périodes triviales de l’histoire (comme les périodes sublimes d’ailleurs, que Sorokin qualifiait d’“ideational”) ne sont jamais éternelles, que ce soit dans l’histoire européenne ou dans l’histoire de la ND.

 

Monsieur Steuckers, nous vous remercions d’avoir bien voulu répondre à nos questions.

 

Réponses rédigées à Forest-Flotzenberg, juillet 2012.

 

Alexander Dugin on Obama's Visit to Russia

Alexander Dugin on Obama's Visit to Russia

(English subtitles)

samedi, 15 septembre 2012

Aleksandr Dugin: Liberalism, Communism, Fascism, and the Fourth Political Theory

Aleksandr Dugin: Liberalism, Communism, Fascism, and the Fourth Political Theory

dimanche, 22 juillet 2012

Sex & Derailment

Sex & Derailment

By Michael O'Meara

Guillaume Faye
Sexe et dévoiement
[Sex and Perversion — Ed.]

Éditions du Lore , 2011Four years after Guillaume Faye’s La Nouvelle question juive [3] (The New Jewish Question, 2007) alienated many of his admirers and apparently caused him to retreat from identitarian and Euro-nationalist arenas, his latest work signals a definite return, reminding us of why he remains one of the most creative thinkers opposing the system threatening the white race.

In this 400-page book, which is an essay and not a work of scholarship, Monsieur Faye’s main concern is the family, and the catastrophic impact the rising number of divorces and broken households is having on white demographic renewal. In linking family decline to its demographic (and civilizational) consequences, he situates his subject in terms of the larger social pathologies associated with the ‘inverted’ sexuality now disfiguring European life. These pathologies include the de-virilization and feminization of white men, the normalization of homosexuality, feminist androgyny, Third World colonization, spreading miscegenation, the loss of bio-anthropological norms (like the blond Jesus) – and all that comes with the denial of biological realities.

At the core of Faye’s argument is the contention that sexuality constitutes a people’s fundament – by conditioning its reproduction and ensuring its longevity. It is key, as such, to any analysis of contemporary society.

As the ethologist Konrad Lorenz and the physical anthropologist/social theorist Arnold Gehlen (both of whom have influenced Faye) have demonstrated, there is nothing automatic or spontaneous in human sexuality, as it is in other animals. Man’s body may be like those of the higher mammals, but it is also a cultural, plastic one with few governing instincts. Socioeconomic, ideological, and emotional imperatives accordingly play a major role in shaping human behavior, especially in the higher civilizations.

Given, moreover, that humanity is an abstraction, there can be no universal form of sexual behavior, and thus the sexuality, like everything else, of Europeans differs from that of non-Europeans. In the United States and Brazil, for example, the Negro’s sexual practices and family forms are still very unlike those of whites, despite ten generations in these European-founded countries. Every form of sexuality, Faye argues, stems from a specific bioculture (a historically-defined ‘stock’), which varies according to time and place. Human behavior is thus for him always the result of a native, in-born ethno-psychology, historically embodied (or, like now, distorted) in the cultural, religious, and ideological superstructures representing it.

The higher, more creative the culture the more sexuality also tends to depend on fragile, individual factors (desire, libido, self-interest), in contrast to less developed cultures, whose reproduction relies more on collective and instinctive factors. High cultures consequently reproduce less and low cultures more — though the latter suffers far greater infant mortality (an equilibrium upset only in the Twentieth century, when intervening high cultures reduced the infant mortality of the lower cultures, thereby setting off today’s explosive Third World birthrate).

Yet despite all these significant differences and despite the world’s great variety of family forms and sexual customs, the overwhelming majority of peoples and races nevertheless prohibit incest, pedophilia, racially mixed marriages, homosexual unions, and ‘unparented’ children.

By contravening many of these traditional prohibitions in recent decades, Western civilization has embarked on a process of ‘derailment’, evident in the profound social and mental pathologies that follow the inversion of ‘natural’ (i.e., historic or ancient) norms – inversions, not incidentally, that have been legitimized in the name of morality, freedom, equality, etc.

Sexe et dévoiement is an essay, then, about the practices and ideologies currently affecting European sexuality and about how these practices and ideologies are leading Europeans into a self-defeating struggle against nature – against their nature, upon which their biocivilization rests.

I. The Death of the Family

Since the Cultural Revolution of the 1960s, numerous forces, expressive of a nihilistic individualism and egalitarianism, have helped undermine the family, bringing it to the critical stage it’s reached today. Of these, the most destructive for Faye has been the ideology of libidinal love (championed by the so-called ‘sexual liberation’ movement of the period), which confused recreational sexuality with freedom, disconnected sex from reproduction, and treated traditional social/cultural norms as forms of oppression.

The Sixties’ ‘liberationists’, the first generation raised on TV, were linked to the New Left, which saw all restraint as oppressive and all individuals as equivalent. Sexual pleasure in this optic was good and natural and traditional sexual self-control bad and unnatural. Convinced that all things were possible, they sought to free desire from the ‘oppressive’ mores of what Faye calls the ‘bourgeois family’.

‘Sexual liberation’, he notes, was ‘Anglo-Saxon’ (i.e., American) in origin, motivated by a puritanism (in the Nineteenth-century Victorian sense of a prudery hostile to eroticism) that had shifted from one extreme to another. Originally, this middle-class, Protestant prudery favored a sexuality whose appetites were formally confined to the ‘bourgeois’ (i.e., the monogamous nuclear) family, which represented a compromise — between individual desire and familial interests — made for the sake of preserving the ‘line’ and rearing children to carry it on.

In the 1960s, when the Boomers came of age, the puritans passed to the other extreme, jettisoning their sexual ‘squeamishness’ and joining the movement to liberate the libido – which, in practice, meant abolishing conjugal fidelity, heterosexual dominance, ‘patriarchy’, and whatever taboos opposed the ‘rationally’ inspired, feel-good ‘philosophy’ of the liberationists. As the Sorbonne’s walls in ’68 proclaimed: ‘It’s prohibited to prohibit’. The ‘rights’ of individual desire and happiness would henceforth come at the expense of all the prohibitions that had formerly made the family viable. (Faye doesn’t mention it, but at the same time American-style consumerism was beginning to take hold in Western Europe, promoting a self-indulgent materialism that favored an egoistic pursuit of pleasure. It can even be argued, though again Faye does not, that the state, in league with the media and the corporate/financial powers, encouraged the permissive consumption of goods, as well as sex, for the sake of promoting the market’s expansion).

If Americans pioneered the ideology of sexual liberation, along with Gay Pride and the porn industry, and continue (at least through their Washingtonian Leviathan) to use these ideologies and practices to subvert non-liberal societies (which is why the Russians have rebuffed ‘international opinion’ to suppress Gay Pride Parades), a significant number of ‘ordinary’ white Americans nevertheless lack their elites’ anti-traditional sexual ideology. (Salt Lake City here prevails over Las Vegas).

Europeans, by contrast, have been qualitatively more influenced by the ‘libertine revolutionaries’, and Faye’s work speaks more to them than to Americans (though it seems likely that what Europeans are experiencing will sooner or later be experienced in the United States).

Against the backdrop, then, of Sixties-style sexual liberation, which sought to uproot the deepest traditions and authorities for the sake of certain permissive behaviors, personal sexual relations were reconceived as a strictly individualistic and libidinal ‘love’ – based on the belief that this highly inflated emotional state was too important to limit to conjugal monogamy. Marriages based on such impulsive sexual attractions and the passionate ‘hormonal tempests’ they set off have since, though, become the tomb not just of stable families, but increasingly of Europe herself.

For with this permissive cult of sexualized love that elevates the desires of the solitary individual above his communal and familial attachments (thereby lowering all standards), there comes another kind of short-sighted, feel-good liberal ideology that wars on social, national, and collective imperatives: the cult of human rights, whose flood of discourses and laws promoting brotherhood, anti-racism, and the love of the Other are synonymous with de-virilizition, ethnomaschoism, and the destruction of Europe’s historic identity.

Premised on the primacy of romantic love (impulsive on principle), sexual liberation has since destroyed any possibility of sustaining stable families. (Think of Tristan and Iseult). For its sexualization of love (this ‘casino of pleasure’) may be passionate, but it is also transient, ephemeral, and compelled by a good deal of egoism. Indeed, almost all sentiments grouped under the rubric of love, Faye contends, are egoistic and self-interested. Love in this sense is an investment from which one expects a return – one loves to be loved. A family of this kind is thus one inclined to allow superficial or immediate considerations to prevail over established, time-tested ones. Similarly, the rupture of such conjugal unions seems almost unavoidable, for once the pact of love is broken – and a strictly libidinal love always fades – the union dissolves.

The subsequent death of the ‘oppressive’ bourgeois family at the hands of the Sixties’ emancipation movements has since given rise to such civilizational achievements as unstable stepfamilies, no-fault divorce, teenage mothers, single-parent homes, abandoned children, a dissembling and atavistic ‘cult of the child’ (which esteems the child as a ‘noble savage’ rather than as a being in need of formation), parity with same-sex, unisex ideology, a variety of new sexual categories, and an increasingly isolated and frustrated individual delivered over almost entirely to his own caprices.

The egoism governing such love-based families produces few children and, to the degree even that married couples today want children, it seems to Faye less for the sake of sons and daughters to continue the ‘line’ and more for the sake of a baby to pamper – a sort of adjunct to their consumerism – something like a living toy. Given that the infant is idolized in this way, parents feel little responsibility for disciplining (or ‘parenting’) him.

Lacking self-control and an ethic of obedience, the child’s development is consequently compromised and his socialization neglected. These post-Sixties’ families also tend to be short lived, which means children are frequently traumatized by their broken homes, raised by single parents or in stepfamilies, where their intellectual development is stunted and their blood ties confused. However, without stable families and a sense of lineage, all sense of ethnic or national consciousness — or any understanding of why miscegenation and immigration ought to be opposed – are lost. The destruction of stable families, Faye surmises, bears directly on the present social-sexual chaos, the prevailing sense of meaninglessness, and the impending destruction of Europe’s racial stock.

Against the sexual liberationists, Faye upholds the model of the bourgeois family, which achieved a workable compromise between individual desire and social/familial preservation (despite the fact that it was, ultimately, the individualism of bourgeois society, in the form of sexual liberation, that eventually terminated this sort of family).

Though, perhaps, no longer sustainable, the stable couples the old bourgeois family structure supported succeeded in privileging familial and communal interests over amorous ones, doing so in ways that favored the long-term welfare of both the couple and the children. Conjugal love came, as a result, to be impressed with friendship, partnership, and habitual attachments, for the couple was defined not as a self-contained amorous symbiosis, but as the pillar of a larger family architecture. This made conjugal love moderate and balanced rather than passionate — sustained by habit, tenderness, interest, care of the children, and la douceur du foyer. Sexual desire remained, but in most cases declined in intensity or dissipated in time.

This family structure was also extraordinarily stable. It assured the lineage, raised properly-socialized children, respected women, and won the support of law and custom. There were, of course, compromises and even hypocrisies (as men, for instance, satisfied certain of their libidinal urgings in brothels), but in any case the family, the basic cell of society, was protected – even privileged.

The great irony of sexual liberation and its ensuing destruction of the bourgeois family is that it has obviously not brought greater happiness or freedom, but rather greater alienation and misery. In this spirit, the media now routinely (almost obsessively) sexualizes the universe, but sex has become more virtual than real: there’s more pornography, but fewer children. It seems hardly coincidental, then, that once the ‘rights’ of desire were emancipated, sex took on a different meaning, the family collapsed, sexual identity got increasingly confused, perversions and transgressions became greater and more serious. As everyone set off in pursuit of an illusive libidinal fulfillment, the population became correspondently more atomized, uprooted, and miscegenated. In France today, 30 percent of all adults are single and there are even reports of a new ‘asexuality’ – in reaction to the sexualization of everything.

There’s a civilization-destroying tragedy here: for once Europeans are deprived of their family lineage, they cease to transmit their cultural and genetic heritage and thus lose all sense of who they are. This is critical to everything else. As the historians Michael Mitterauer and Reinhard Sieder write: ‘The family is one of the most archaic forms of social community, and at all times men have used their family as a model for the formation of human societies’. The loss of family stability, and thus the family’s loss as society’s basic cell, Faye emphasizes, not only dissolves social relations, it brings disorder and makes all tyrannies possible, for once sexual emancipation helps turn society into a highly individualized, Balkanized mass, totalitarianism (not Soviet or Fascist, but US Progressive) becomes increasingly likely.

II. The Idolization of Homosexuality

Homophilia and feminism are the most important children of the cultural revolution. They share, as such, much of the same ideological baggage that denies biological realities and wars on the family, conforming in this way to the consumerist and homogenizing dictates of the post-Rooseveltian international order that’s dominated North America and Western Europe for the last half century or so.

In the late 1960s, when homosexuals began demanding legal equality, Faye claims they were fully within their rights. Homosexuality in his view is a genetic abnormality (affecting less than 5 percent of males) and thus an existential affliction; he thus doesn’t object to homosexuals practicing their sexuality within the privacy of their bedroom. What he finds objectionable is the confusion of private and public realms and the assertion of homophilia as a social norm. Worse, he claims that in much elite discourse, homosexuals have quickly gone from being pariahs to privileged beings, who now flaunt their alleged ‘superiority’ over heterosexuals, seen as old-fashion, outmoded, ridiculous – like the woman who centers her life on the home and the care of her children rather than on a career – and thus as something bizarre and implicitly opposed to liberal-style ‘emancipation’.

Faye, by no means a prude, contends that female homosexuality is considerably different from and less dysgenic than male homosexuality. Most lesbians, in his view, are bisexual, rather than purely homosexual, and for whatever reason have turned against men. This he sees as a reflection on men. Lesbianism also lacks the same negative civilizational consequence as male homosexuality. It rarely shocked traditional societies because women engaging in homosexual relations retained their femininity. Male homosexuality, by contrast, was considered socially abhorrent, for it violated the nature of masculinity, making men no longer ‘properly’ male and thus something mutant. (To those who invoke the ancient glories of Athens as a counter-argument, Faye, long-time Graeco-Latinist, says that in the period when a certain form of pederasty was tolerated, no adult Greek ever achieved respectability or standing in his community, if not married, devoted to the interests of his family and clan, and, above all, not ‘made of woman’ – i.e., penetrated).

Like feminism, homophilia holds that humans are bisexual at birth and (willfully or not) choose their individual sexual orientation – as if anatomical differences are insignificant and all humans are basically alike, a tabula rasa upon which they are to inscribe their self-chosen ‘destiny’. This view lacks any scientific credibility, to be sure (even if it is professed in our elite universities), and, like anti-racism, it resembles Lysenkoism in denying those biological realities incompatible with the reigning dogmas. (Facts, though, have rarely stood in the way of faith or ideology – or, in the secular Twentieth century, ideologies that have become religious faiths).

Even when assuming the mantle of its allegedly progressive and emancipatory pretensions, homophilia, like sexual liberation in general, is entirely self-centered and present-minded, promoting ‘lifestyles’ hostile to family formation and thus to white reproduction. Homophilia marches here hand in hand with anti-racism, denying the significance of biological differences and the imperatives of white reproduction.

This subversive ideology now even aspires to re-invent homosexuals as the flower of society — liberators preparing the way to joy, liberty, fraternity, tolerance, social well-being, good taste, etc. As vice is transformed into virtue, homosexuality allegedly introduces a new sense of play and gaiety to the one-dimensional society of sad, heterosexual males. Only, Faye insists, there’s nothing genuinely gay about the gays, for theirs is a condition of stress and disequilibrium. At odds with their own nature, homosexual sexuality is often a Calvary – and not because of social oppression, but because of those endogenous reasons (particularly their attraction to their own sex) that condemn them to dysgenic behaviors.

In its public display as Gay Pride, homophilia accordingly defines itself as narcissistic, exhibitionist, and infantile – revealing in these characteristics those traits that are perhaps specific to its condition. In any case, a community worthy of itself, Faye tells us, is founded on shared values, on achievements, on origins – but not a dysgenic sexual orientation.

III. Schizophrenic Feminism

The reigning egalitarianism is always extending itself, trying to force the real – in the realms of sexuality, individuality, demography (race), etc. — to conform to its tenets. The demand that women have the same legal rights and opportunities as men, Faye thinks, was entirely just – especially for Europeans  (and especially Celtic, Scandinavian, and Germanic Europeans), for their cultures have long respected the humanity of their women. Indeed, he considers legal equality the single great accomplishment of feminism. But once achieved, feminism has since been transformed into a utopian and delirious neo-egalitarianism that makes sexes, like races, equivalent and interchangeable. There is accordingly no such thing as ‘men’s work’ or ‘women’s work’. Human dignity and fullfilment is possible only in doing something that makes money. Faye, though, refuses to equate legal equality with natural equality, for such an ideological muddling denies obvious biological differences, offending both science and common sense.

The dogma that differences between men and women are simply cultural derives from a feminist behaviorism in which women are seen as potential men and femininity is treated as a social distortion. In Simone de Beauvoir’s formulation: One is not born a woman, one becomes one. Feminists, as such, affirm the equality and interchangeability of men and women, yet at the same time they reject femininity, which they consider something inferior and imposed. The feminist model is thus the man, and feminism’s New Woman is simply his ‘photocopy’. In endeavoring to suppress the specifically feminine in this way, feminism aims to masculinize women and feminize men in the image of its androgynous ideal – analogous to the anti-racist ideal of the métis (the mixed race or half-caste). This unisex ideology, in its extremism, characterizes the mother as a slave and the devoted wife as a fool. In practice, it even rejects the biological functions of the female body, aspiring to a masculinism that imitates men and seeks to emulate them socially, politically, and otherwise. Feminism in a word is anti-feminine – anti-mother and anti-family – and ultimately anti-reproduction.

Anatomical differences, however, have consequences. Male humans, like males of other species, always differ from females – given that their biological specification dictates specific behaviors. These human sexual differences may be influenced by culture and other factors. But they nevertheless exist, which means they inevitably affect mind and behavior – despite what the Correctorate wants us to believe.

Male superiority in worldly achievement – conceptual, mathematical, artistic, political, and otherwise — is often explained by female oppression, a notion Faye rejects, though he acknowledges that in many areas of contemporary life, for just or unjust reasons, women do suffer disadvantages – and in many non-white situations outright subjugation. Male physical strength may also enable men to dominate women. But generally, Faye sees a rough equality of intelligence between men and women. Their main differences, he contends, are psychological and characterological, for men tend to be more outwardly oriented than women. As such, they use their intelligence more in competition, innovation, and discovery, linked to the fact that they are usually more aggressive, more competitive, more vain and narcissistic than women — who, by contrast, are more inclined to be emotionally loyal, submissive, prudent, temperate, and far-sighted.

Men and women, though, are better viewed as organic complements, rather than as inferior or superior. From Homer to Cervantes to Mme. de Stäel, the image of women, their realms and their work, however diverse and complicated, have differed from that of men. Women may be able to handle most masculine tasks, but at the same time their disposition differs from men, especially in the realm of creativity.

This is critical for Faye. In all sectors of practical intelligence women perform as well as men – but not in their capacity for imaginative projection, which detaches and abstracts one’s self from contingent reality for the sake of imagining another. This holds in practically all areas: epic poetry, science, invention, religion, cuisine or design. It is not from female brains, he notes, that there have emerged submarines, space flight, philosophical systems, great political and economic theories, and the major scientific discoveries (Mme. Curie being the exception). Most of the great breakthroughs have in fact been made by men and it has had nothing to do with women being oppressed or repressed. Feminine dreams are simply not the same as masculine ones — which search the impossible, the risky, the unreal.

Akin, then, in spirit to homophilia, anti-racism, and Sixties-style sexual liberation, feminism’s rejection of biological realities and its effort to masculinize women end up not just distorting what it supposedly champions – women – it reveals the totally egoistic and present-oriented nature of its ideology, for it rejects women as mothers and thus rejects the reproduction of the race.

IV. Conclusion

Sexe et dévoiement treats a variety of other issues: Christian and Islamic views of sexuality; immigration and the different sexual practices it brings (some of which are extremely primitive and brutal); the necessary role of prostitution in society; and the effect the new bio-technologies are going to have on sexuality.

From the above discussion — of the family, homophilia, and feminism — the reader should already sense the direction Faye’s argument takes, as he relates individual sexuality to certain macro-changes now forcing European civilization off its rails. Because this is an especially illuminating perspective on the decline of the white race (linking demography, civilization, and sex) and one of which there seem too few – I think this lends special pertinence to his essay.

There are not a few historical and methodological criticisms, however, that could be made of Sexe et dévoiement, two of which I find especially dissatisfying. Like the European New Right as a whole, he tends to be overly simplistic in attributing to the secularization of certain Christian notions, like equality and love, the origins of the maladies he depicts. Similarly, he refuses to link cultural/ideological influences to social/economic developments (seeing their causal relationship as essentially one-way instead of dialectical), just as he fails to consider the negative effects that America’s imperial supremacy, with its post-European rules of behavior and its anti-Christian policies, have had on Europe in the last half century.

But after having said that — and after having reviewed [4] many of Guillaume Faye’s works over the last ten years, as well as having read a great many other books in the meantime that have made me more critical of aspects of his thought — I think whatever his ‘failings’, they pale in comparison to the light he sheds on the ethnocidal forces now bearing down on the white race.

American Renaissance, June 29, 2012, http://amren.com/features/2012/06/sex-and-derailment/ [5], revised July 6th

 


Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

URL to article: http://www.counter-currents.com/2012/07/sex-and-derailment/

mardi, 17 juillet 2012

Letter to My Friends on Identity & Sovereignty

Letter to My Friends on Identity & Sovereignty

 

By Dominique Venner 

Ex: http://counter-currents.com

[1]

Charlemagne by Albrecht Dürer, circa 1512

Translated by Greg Johnson

When you belong to a nation associated with St. Louis, Philip the Fair, Richelieu, Louis XIV, or Napoleon, a country which in the late 17th century, was called the “great nation” (the most populated and most dangerous), it is cruel to recount the history of repeated setbacks: the aftermath of Waterloo, 1870, 1940, and again in 1962, the ignominious end of French rule in Algeria. A certain pride necessarily suffers.

By the 1930s, many among the boldest French minds had imagined a united Europe as a way to an understanding with Germany and as a solution to the constant decline of France. After the disaster that was World War II (which amplified that of 1914–1918), a project was born that is in itself legitimate. New bloodlettings between the French and Germans should be outlawed forever. The idea was to tie together the two great sister nations of the former Carolingian Empire. First by an economic association (the European Coal and Steel Community), then by a political association. General de Gaulle wanted to make this happen with the Elysée Treaty (January 22, 1963), but the United States, in their hostility, forestalled it by putting pressure on West Germany.

Then came the technocratic globalists who gave us the gas works called the “European Union.” In practice, this is the absolute negation of its name. The fake “European Union” has become the biggest obstacle to a genuine political settlement that respects the particularities of the European peoples of the former Carolingian Empire. Europe, it must be remembered, is primarily a unitary multi-millennial civilization going back to Homer, but it is also a potential power zone and the aspiration for a future that remains to be built.

Why an aspiration to power? Because no European nations today, neither France nor Germany nor Italy, despite brave fronts, are sovereign states any longer.

There are three main attributes of sovereignty:

First attribute: the ability to make war and conclude peace. The US, Russia, Israel, or China can. Not France. That was over after the end of the war in Algeria (1962), despite the efforts of General de Gaulle and our nuclear deterrent, which will never be used by France on its own (unless the United States has disappeared, which is unpredictable). Another way to pose the question: for whom are the French soldiers dying in Afghanistan? Certainly not for France, which has no business there, but for the United States. We are the auxiliaries of the USA. Like Germany and Italy, France is a vassal state of the great Atlantic suzerain power. It is best to face this to recover our former pride.

Second attribute of sovereignty: control of territory and population. Ability to distinguish between one’s own people and others . . .  We know the reality is that the French state, by its policy, laws, courts, has organized the “great replacement” of populations, we impose a preference for immigrants and Muslims,  with 8 million Arab-Muslims (and more waiting), bearers of another history, another civilization, and another future (Sharia).

Third attribute of sovereignty: one’s own currency. We know what that is.

The agonizing conclusion: France, as a state, is no longer sovereign and no longer has its own destiny. This is a consequence of the disasters of the century of 1914 (the 20th century) and the general decline of Europe and Europeans.

But there is a “but”: if France does not exist as a sovereign state, the French people and nation still exist, despite all efforts to dissolve them into rootless individuals! This is the great destabilizing paradox of the French mind. We were always taught to confuse identity with sovereignty by being taught that the nation is a creation of the state, which, for the French, is historically false.

It is for me a very old topic of discussion that I had previously summarized in an opinion column published in Le Figaro on February 1, 1999 under the title: “Sovereignty is not Identity.” I’ll put it online one day soon for reference.

No, the sovereignty of the state is not to be confused with national identity. France’s universalist tradition and centralist state were for centuries the enemy of the carnal nation and its constituent communities. The state has always acted relentlessly to uproot the French and transform them into the interchangeable inhabitants of a geographic zone. It has always acted to rupture the national tradition. Look at the July 14 celebrations: it celebrates a repugnant uprising, not a great memory of unity. Look at the ridiculous emblem of the French Republic: a plaster Marianne wearing a revolutionary cap. Look at the hideous logos that have been imposed to replace the arms of the traditional regions. Remember that in 1962 the state used all its strength against the French in Algeria, abandoned to their misery. Similarly, today, it is not difficult to see that the state gives preference to immigrants (construction of mosques, legalizing halal slaughter) at the expense of the natives.

There is nothing new in this state of war against the living nation. The Jacobin Republic merely followed the example of the Bourbons, which Tocqueville has demonstrated in The Old Regime and the French Revolution before Taine and other historians. Our textbooks have taught blind admiration for the way the Bourbons crushed “feudalism,” that is to say, the nobility and the communities they represented. What a brilliant policy! By strangling the nobility and rooted communities, this dynasty destroyed the foundation of the old monarchy. Thus, in the late 18th century, the individualistic (human rights) Revolution triumphed in France but failed everywhere else in Europe thanks to the persistence of the feudal system and strong communities. Reread what Renan says in hisIntellectual and Moral Reform in France. The reality is that in France the state is not the defender of the nation. It is a machine of power that has its own logic, willingly lent to the service of the enemies of the nation, having become one of the main agents of the deconstruction of identity.

Source: http://fr.novopress.info/115104/tribune-libre-lettre-sur-lidentite-a-mes-amis-souverainistes-par-dominique-venner/ [2]

 


Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

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dimanche, 15 juillet 2012

Guillaume Faye on Nietzsche

Guillaume Faye on Nietzsche

Translated by Greg Johnson

Ex: http://www.counter-currents.com

Translator’s Note:

The following interview of Guillaume Faye is from the Nietzsche Académie [2] blog. 

How important is Nietzsche for you?

Reading Nietzsche has been the departure point for all values ​​and ideas I developed later. In 1967, when I was a pupil of the Jesuits in Paris, something incredible happened in philosophy class. In that citadel of Catholicism, the philosophy teacher decided to do a year-long course on Nietzsche! Exeunt Descartes, Kant, Hegel, Marx, and others. The good fathers did not dare say anything, despite the upheaval in the program.

It marked me, believe me. Nietzsche, or the hermeneutics of suspicion. . . . Thus, very young, I distanced myself from the Christian, or rather “Christianomorphic,” view of the world. And of course, at the same time, from egalitarianism and humanism. All the analyses that I developed later were inspired by the insights of Nietzsche. But it was also in my nature.

Later, much later, just recently, I understood the need to complete the principles of Nietzsche with those of Aristotle, the good old Apollonian Greek, a pupil of Plato, whom he respected as well as criticized. There is for me an obvious philosophical affinity between Aristotle and Nietzsche: the refusal of metaphysics and idealism, and, crucially, the challenge to the idea of ​​divinity. Nietzsche’s “God is dead” is the counterpoint to Aristotle’s motionless and unconscious god, which is akin to a mathematical principle governing the universe.

Only Aristotle and Nietzsche, separated by many centuries, denied the presence of a self-conscious god without rejecting the sacred, but the latter is akin to a purely human exaltation based on politics or art.

Nevertheless, Christian theologians have never been bothered by Aristotle, but were very much so by Nietzsche. Why? Because Aristotle was pre-Christian and could not know Revelation. While Nietzsche, by attacking Christianity, knew exactly what he was doing.

Nevertheless, the Christian response to this atheism is irrefutable and deserves a good philosophical debate: faith is a different domain than the reflections of philosophers and remains a mystery. I remember, when I was with the Jesuits, passionate debates between my Nietzschean atheist philosophy teacher and the good fathers (his employers) sly and tolerant, sure of themselves.

What book by Nietzsche would you recommend?

The first one I read was The Gay Science. It was a shock. Then Beyond Good and Evil, where Nietzsche overturns the Manichean moral rules that come from Socrates and Christianity. The Antichrist, it must be said, inspired the whole anti-Christian discourse of the neo-pagan Right, in which I was obviously heavily involved.

But it should be noted that Nietzsche, who was raised Lutheran, had rebelled against Christian morality in its purest form represented by German Protestantism, but he never really understood the religiosity and the faith of traditional Catholics and Orthodox Christians, which is quite unconnected to secularized Christian morality.

Oddly, I was never excited by Thus Spoke Zarathustra. For me, it is a rather confused work, in which Nietzsche tried to be a prophet and a poet but failed. A bit like Voltaire, who believed himself clever in imitating the tragedies of Corneille. Voltaire, an author who, moreover, has spawned ideas quite contrary to this “philosophy of the Enlightenment” that Nietzsche (alone) had pulverized.

Being Nietzschean, what does this mean?

Nietzsche would not have liked this kind of question, for he did not want disciples, though . . .  (his character, very complex, was not devoid of vanity and frustration, just like you and me). Ask instead: What does it mean to follow Nietzschean principles?

This means breaking with Socratic, Stoic, and Christian principles and modern human egalitarianism, anthropocentrism, universal compassion, and universalist utopian harmony. It means accepting the possible reversal of all values ​​(Umwertung) to the detriment of humanistic ethics. The whole philosophy of Nietzsche is based on the logic of life: selection of the fittest, recognition of vital power (conservation of bloodlines at all costs) as the supreme value, abolition of dogmatic standards, the quest for historical grandeur, thinking of politics as aesthetics, radical inegalitarianism, etc.

That’s why all the thinkers and philosophers — self-appointed, and handsomely maintained by the system — who proclaim themselves more or less Nietzschean, are impostors. This was well understood by the writer Pierre Chassard who on good authority denounced the “scavengers of Nietzsche.” Indeed, it is very fashionable to be “Nietzschean.” Very curious on the part of publicists whose ideology — political correctness and right-thinking — is absolutely contrary to the philosophy of Friedrich Nietzsche.

In fact, the pseudo-Nietzscheans have committed a grave philosophical confusion: they held that Nietzsche was a protest against the established order, but they pretended not to understand that it was their own order: egalitarianism based on a secularized interpretation of Christianity. “Christianomorphic” on the inside and outside. But they believed (or pretended to believe) that Nietzsche was a sort of anarchist, while advocating a ruthless new order. Nietzsche was not, like his scavengers, a rebel in slippers, a phony rebel, but a revolutionary visionary.

Is Nietzsche on the Right or Left?

Fools and shallow thinkers (especially on the Right) have always claimed that the notions of Left and Right made no sense. What a sinister error. Although the practical positions of the Left and Right may vary, the values ​​of Right and Left do exist. Nietzscheanism is obviously on the Right. The socialist mentality, the morality of the herd, made Nietzsche vomit. But that does not mean that thepeople of the extreme Right are Nietzscheans, far from it. For example, they are generally anti-Jewish, a position that Nietzsche castigated and considered stupid in many of his writings, and in his correspondence he singled out anti-Semitic admirers who completely misunderstood him.

Nietzscheanism, obviously, is on the Right, and the Left, always in a position of intellectual prostitution, attempted to neutralize Nietzsche because it could not censor him. To be brief, I would say that an honest interpretation of Nietzsche places him on the side of the revolutionary Right in Europe, using the concept of the Right for lack of  anything better (like any word, it describes things imperfectly).

Nietzsche, like Aristotle (and, indeed, like Plato, Kant, Hegel, and Marx, of course — but not at all Spinoza) deeply integrated politics in his thinking. For example, by a fantastic premonition, he was for a union of European nations, like Kant, but from a very different perspective. Kant the pacifist, universalist, and incorrigible utopian moralist, wanted the European Union as it exists today: a great flabby body without a sovereign head with the Rights of Man as its highest principle. Nietzsche, on the contrary, spoke of Great Politics, a grand design for a united Europe. For the moment, it is the Kantian view that has unfortunately been imposed.

On the other hand, the least we can say is that Nietzsche was not a Pan-German, a German nationalist, but rather a nationalistic — and patriotic — European. This was remarkable for a man who lived in his time, the second part of the 19th century (“This stupid 19th century,” said Léon Daudet), which exacerbated as a fatal poison the shabby petty intra-European nationalism that would result in the terrible fratricidal tragedy of 1914 to 1918, when young Europeans from 18 to 25 years, massacred one another without knowing exactly why. Nietzsche the European wanted anything but such a scenario.

That is why those who instrumentalized Nietzsche (in the 1930s) as an ideologue of Germanism are as wrong as those who, today, present him as a proto-Leftist. Nietzsche was a European patriot, and he put the genius of the German soul in the service of European power whose decline, as a visionary, he already sensed.

What authors do you see as Nietzschean?

Not necessarily those who claim Nietzsche. In reality, there are no actual “Nietzschean” authors. Simply, Nietzsche and others are part of a highly fluid and complex current that could be described as a “rebellion against the accepted principles.” On this point, I agree with the view of the Italian philosopher Giorgio Locchi, who was one of my teachers: Nietzsche inaugurated “superhumanism,” that is to say the surpassing of humanism. I’ll stop there, because I will not repeat what I have developed in some of my books, including Why We Fight and Sex and Perversion. One could say that a large number of authors and filmmakers are “Nietzschean,” but this kind of talk is very superficial.

On the other hand, I believe there is a strong link between the philosophy of Nietzsche and Aristotle, despite the centuries that separate them. To say that Aristotle is Nietzschean is obviously an anachronistic absurdity. But to say that Nietzsche’s philosophy continues Aristotle, the errant student of Plato, is a claim I will hazard. This is why I am both Aristotelian and Nietzschean: Because these two philosophers defend the fundamental idea that the supernatural deity must be examined in substance. Nietzsche looks at divinity with a critical perspective like Aristotle’s.

Most writers who call themselves admirers of Nietzsche are impostors. Paradoxically, I link Darwinism and Nietzsche. Those who actually interpret Nietzsche are accused by ideological manipulators of not being real “philosophers.” Even those who want Nietzsche to say the opposite of what he so inconveniently actually said. We must condemn this appropriation of philosophy by a caste of mandarins who proceed to distort the texts of the philosophers, or even censor them. Aristotle has also been a victim. One can read Nietzsche and other philosophers only through a scholarly grid, inaccessible to the common man. But no. Nietzsche is quite readable by any educated man. But our time can read only through the grid of censorship by omission.

Could you give a definition of the Superman?

Nietzsche intentionally gave a vague definition of the Superman. This is an open-ended yet clear concept. Obviously, the pseudo-Nietzschean intellectuals were quick to blur and empty this concept by making the Superman a sort of airy intellectual: detached, haughty, meditative, quasi-Buddhist—the conceited image they have of themselves. In short, the precise opposite of what Nietzsche intended. I am a partisan not of interpreting writers but of reading them, if possible, with the highest degree of respect.

Nietzsche obviously linked the Superman to the notion of Will to Power (which, too, has been manipulated and distorted). The Superman is the model of the man who fulfills the Will to Power, that is to say, who rises above herd morality (and Nietzsche thought socialism was a herd doctrine) to selflessly impose a new order, with two dimensions, warlike and sovereign, aiming at dominion, endowed with a power project. The interpretation of the Superman as a supreme “sage,” a non-violent, ethereal, proto-Gandhi of sorts is a deconstruction of Nietzsche’s thought in order to neutralize and blur it. The Parisian intelligentsia, whose hallmark is a spirit of falsehood, has a sophisticated but evil genius in distorting the thought of annoying but unavoidable great authors (including Aristotle and Voltaire) but also wrongly appropriating or truncating their thought.

There are two possible definitions of the Superman: the mental and the moral Superman (by evolution and education, surpassing his ancestors) and the biological superman. It’s very difficult to decide, since Nietzsche himself has used this expression as a sort of mytheme, a literary trope, without ever truly conceptualizing it. A sort of premonitory phrase, which was inspired by Darwinian evolutionism.

But your question is very interesting. The key is not having an answer “about Nietzsche,” but to know which path Nietzsche wanted to open over a hundred years ago. Because he was anti-Christian and anti-humanist, Nietzsche did not think that man was a fixed being, but that he is subject to evolution, even self-evolution (that is the sense of the metaphor of the “bridge between the beast and the Superman”).

For my part — but then I differ with Nietzsche, and my opinion does not possess immense value — I interpreted superhumanism as a challenge, for reasons partly biological, to the very notion of a human species. Briefly. This concept of the Superman is certainly much more than Will to Power, one of those mysterious traps Nietzsche set, one of the questions he posed to future humanity: Yes, what is the Superman? The very word makes us dreamy and delirious.

Nietzsche may have had the intuition that the human species, at least some of its higher components (not necessarily “humanity”), could accelerate and direct biological evolution. One thing is certain, that crushes the thoughts of monotheistic, anthropocentric “fixists”: man is not an essence that is beyond evolution. And then, to the concept of Übermensch, never forget to add that ofHerrenvolk . . . prescient. Also, we should not forget Nietzsche’s reflections on the question of race and anthropological inequality.

The capture of Nietzsche’s work by pseudo-scientists and pseudo-philosophical schools (comparable to the capture of the works of Aristotle) ​​is explained by the following simple fact: Nietzsche is too big a fish to be eliminated, but far too subversive not to be censored and distorted.

Your favorite quote from Nietzsche?

“We must now cease all forms of joking around.” This means, presciently, that the values ​​on which Western civilization are based are no longer acceptable. And that survival depends on a reversal or restoration of vital values. And all this assumes the end of festivisme (as coined by Philippe Muray and developed by Robert Steuckers) and a return to serious matters.

Source: http://nietzscheacademie.over-blog.com/article-nietzsche-vu-par-guillaume-faye-106329446.html [3]

 


Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

URL to article: http://www.counter-currents.com/2012/07/guillaume-faye-on-nietzsche/

jeudi, 12 juillet 2012

The Fourth Political Theory

 
Het boek wordt voorgesteld op 28 juli 2012 in Stockholm (voor Europa) en in Brazilië (voor het Amerikaanse continent).
 
 
Table of Contents:

A Note from the Editor
Foreword by Alain Soral
Introduction: To Be or Not to Be?

1. The Birth of the Concept
2. Dasein as an Actor
3. The Critique of Monotonic Processes
4. The Reversibility of Time
5. Global Transition and its Enemies
6. Conservatism and Postmodernity
7. ‘Civilisation’ as an Ideological Concept
8. The Transformation of the Left in the Twenty-first Century
9. Liberalism and Its Metamorphoses
10. The Ontology of the Future
11. The New Political Anthropology
12. Fourth Political Practice
13. Gender in the Fourth Political Theory
14. Against the Postmodern World
Appendix I: Political Post-Anthropology
Appendix II: The Metaphysics of Chaos

vendredi, 06 juillet 2012

Lettre sur l’identité à mes amis souverainistes, par Dominique Venner

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Lettre sur l’identité à mes amis souverainistes,

par Dominique Venner

Ex: http://fr.novopress.info/

Quand on appartient à une nation associée à Saint Louis, Philippe le Bel, Richelieu, Louis XIV ou Napoléon, un pays qui, à la fin du XVIIe siècle, était appelé « la grande nation » (la plus peuplée et la plus redoutable), il est cruel d’encaisser les reculs historiques répétés depuis les lendemains de Waterloo, 1870, 1940 et encore 1962, fin ignominieuse de la souveraineté française en Algérie. Une certaine fierté souffre nécessairement.

Dès les années 1930, beaucoup d’esprits français parmi les plus audacieux avaient imaginé trouver dans une Europe à venir en entente avec l’Allemagne, un substitut à cet affaiblissement constant de la France. Après la catastrophe que fut la Seconde Guerre mondiale (qui amplifiait celle de 14-18), naquit un projet légitime en soi. Il fallait interdire à tout jamais une nouvelle saignée mortelle entre Français et Allemands. L’idée était de lier ensemble les deux grands peuples frères de l’ancien Empire carolingien. D’abord par une association économique (la Communauté Européenne du Charbon et de l’Acier), puis par une association politique. Le général de Gaulle voulut concrétiser ce projet par le Traité de l’Elysée (22 janvier 1963), que les Etats-Unis, dans leur hostilité, firent capoter en exerçant des pressions sur la République fédérale allemande.

Ensuite, on est entré dans les dérives technocratiques et mondialistes qui ont conduit à l’usine à gaz appelée “Union européenne”. En pratique, celle-ci est la négation absolue de son appellation. La pseudo “Union européenne” est devenue le pire obstacle à une véritable entente politique européenne respectueuse des particularités des peuples de l’ancien Empire carolingien. L’Europe, il faut le rappeler, c’est d’abord une unité de civilisation multimillénaire depuis Homère, mais c’est aussi un espace potentiel de puissance  et une espérance pour un avenir qui reste à édifier.

Pourquoi une espérance de puissance ? Parce qu’aucune des nations européennes d’aujourd’hui, ni la France, ni l’Allemagne, ni l’Italie, malgré des apparences bravaches, ne sont plus des États souverains.

Il y a trois attributs principaux de la souveraineté :

1er attribut : la capacité de faire la guerre et de conclure la paix. Les USA, la Russie, Israël ou la Chine le peuvent. Pas la France. C’est fini pour elle depuis la fin de la guerre d’Algérie (1962), en dépit des efforts du général de Gaulle et de la force de frappe qui ne sera jamais utilisée par la France de son propre chef (sauf si les Etats-Unis ont disparu, ce qui est peu prévisible). Autre façon de poser la question : pour qui donc meurent les soldats français tués en Afghanistan ? Certainement pas pour la France qui n’a rien à faire là-bas, mais pour les Etats-Unis. Nous sommes les supplétifs des USA. Comme l’Allemagne et l’Italie, la France n’est qu’un État vassal de la grande puissance suzeraine atlantique. Il vaut mieux le savoir pour retrouver notre fierté autrement.

2ème attribut de la souveraineté : la maîtrise du territoire et de la population. Pouvoir distinguer entre les vrais nationaux et les autres… On connaît la réalité : c’est l’État français qui, par sa politique, ses lois, ses tribunaux, a organisé le « grand remplacement » des populations, nous imposant la préférence immigrée et islamique avec 8 millions d’Arabo-musulmans (en attendant les autres) porteurs d’une autre histoire, d’une autre civilisation et d’un autre avenir (la charia).

3ème attribut de la souveraineté : la monnaie. On sait ce qu’il en est.

Conclusion déchirante : la France, comme État, n’est plus souveraine et n’a plus de destin propre. C’est la conséquence des catastrophes du siècle de 1914 (le XXe siècle) et du grand recul de toute l’Europe et des Européens.

Mais il y a un « mais » : si la France n’existe plus comme État souverain, le peuple français et la nation existent encore, malgré tous les efforts destinés à les dissoudre en individus déracinés ! C’est le grand paradoxe déstabilisateur pour un esprit français. On nous a toujours appris à confondre l’identité et la souveraineté en enseignant que la nation est une création de l’État, ce qui, pour les Français, est historiquement faux.

C’est pour moi un très ancien sujet de réflexion que j’avais résumé naguère dans une tribune libre publiée dans Le Figaro du 1er février 1999 sous le titre : « La souveraineté n’est pas l’identité ». Je le mettrai en ligne un jour prochain à titre documentaire.

Non, la souveraineté de l’État ne se confond pas avec l’identité nationale. En France, de par sa tradition universaliste et centraliste, l’Etat fut depuis plusieurs siècles l’ennemi de la nation charnelle et de ses communautés constitutives. L’État a toujours été l’acteur acharné du déracinement des Français et de leur transformation en Hexagonaux interchangeables. Il a toujours été l’acteur des ruptures dans la tradition nationale. Voyez la fête du 14 juillet : elle célèbre une répugnante émeute et non un souvenir grandiose d’unité. Voyez le ridicule emblème de la République française : une Marianne de plâtre coiffée d’un bonnet révolutionnaire. Voyez les affreux logos qui ont été imposés pour remplacer les armoiries des régions traditionnelles. Souvenez-vous qu’en 1962, l’État a utilisé toute sa force contre les Français d’Algérie abandonnés à leur malheur. De même, aujourd’hui, il n’est pas difficile de voir que l’État pratique la préférence immigrée (constructions de mosquées, légalisation de la viande hallal) au détriment des indigènes.

Il n’y a rien de nouveau dans cette hargne de l’État contre la nation vivante. La République jacobine n’a fait que suivre l’exemple des Bourbons, ce que Tocqueville a bien montré dans L’Ancien Régime et la Révolution avant Taine et d’autres historiens. Nos manuels scolaires nous ont inculqué une admiration béate pour la façon dont les Bourbons ont écrasé la « féodalité », c’est-à-dire la noblesse et les communautés qu’elle représentait. Politique vraiment géniale ! En étranglant la noblesse et les communautés enracinées, cette dynastie détruisait le fondement de l’ancienne monarchie. Ainsi, à la fin du XVIIIe siècle, la Révolution individualiste (droits de l’homme) triomphait en France alors qu’elle échouait partout ailleurs en Europe grâce à une féodalité et à des communautés restées vigoureuses. Relisez ce qu’en dit Renan dans sa Réforme intellectuelle et morale de la France (disponible en poche et sur Kindle). La réalité, c’est qu’en France l’État n’est pas le défenseur de la nation. C’est une machine de pouvoir qui a sa logique propre, passant volontiers au service des ennemis de la nation et devenant l’un des principaux agents de déconstruction identitaire.

[cc] Novopress.info, 2012, Dépêches libres de copie et diffusion sous réserve de mention de la source d'origine [http://fr.novopress.info/]

mercredi, 27 juin 2012

Tekos - nr. 146

 

 

Tekos - nr. 146

INHOUDSOPGAVE

Editoriaal

François Brigneau (1919-2012)
door Peter Van Windekens

CasaPound Italia te Antwerpen
door Peter Van Windekens

CasaPound (CP), opgericht op 26 december 2003, is een Italiaanse rechtsradicale politieke en sociale beweging die haar naam ontleent aan de Noord-Amerikaanse dichter, criticus, uitgever en sympathisant van het (Italiaanse) fascisme, Ezra Pound (1885-1972). CP wil een alternatief bieden voor de lopende globaliseringsprocessen en tegen de overheersing van het markt- en consumptiedenken, om aldus een ethiek van volkssoevereiniteit tot stand te brengen. Terzelfdertijd wenst CP plaats te bieden aan collectieve weerstand, uitwerking en actie, waarbij het voor elke persoon mogelijk blijft uitdrukking te geven aan zijn / haar eigen ambities en persoonlijkheid.

Het ontstaan van CP ging gepaard met de bezetting – of noem het “kraken” - van een leegstaand gebouw te Rome, via Napoleone III nr.8, in de multiculturele Esquilinowijk, grenzend aan het Piazza met dezelfde naam, vlakbij het Termini treinstation. Vandaag wonen er 23 families, in totaal 70 personen waarvan 12 kinderen. Aan de hand van meerdere gelijkaardige acties in de hoofdstad alsook in andere Italiaanse steden, door mobilisaties en verschillende initiatieven, heeft CP haar naam kunnen verankeren binnen heel het territorium van het Apennijns Schiereiland.

Derhalve is CP zichtbaar aanwezig in vele Italiaanse steden en kleinere centra van zowat elke regio, van Aosta tot Palermo. In het noorden van Rome palmde men het verlaten treinstation Farneto in om het dra om te dopen tot “Area 19”. Vooral concerten en grote manifestaties vinden er nu hun weg. In het oosten van Rome, meerbepaald in de Alberone wijk, heeft CP het Circolo Futurista uit de grond gestampt, een ideale plek voor theateropvoeringen en tentoonstellingen. In functie hiervan heeft de organisatie, naast een ‘club voor artiesten’, een theaterschool in het leven geroepen. Ook gitaar-, basgitaar- en drumlessen zijn aan CP besteed. De vereniging is zelfs de ‘uitvinder’ van een artistieke trend, het “Turbodinamismo” .....

Afghanistan: een niet te winnen oorlog
door Francis Van den Eynde


Eugene Terre’blanche en de
Afrikaner Weerstandsbeweging (deel 8)
Door Peter Van Windekens

Deel 7 van de reeks over Eugene Terre’blanche en de Afrikaner Weerstandsbeweging (zie TeKoS nr.145, p.18-25) omvatte twee thema’s. Het eerste, tevens de minst uitgebreide topic, toonde aan hoe de media in de persoon van de Britse regisseur Nick Broomfield Terre’blanche en zijn aanhangers over de hekel haalden. Ten overstaan van de hele wereld werden zij voor schut gezet als een bende randdebielen. Het tweede thema, dat overigens het merendeel van het artikel uitmaakte, toonde een heel ander aspect van de nationalistische Afrikaner beweging: het extreme militantisme onder de vorm van enerzijds een goed voorbereide wapenroof en anderzijds, maar tevens veel erger: het treffen van doelwitten met bomaanslagen en (vooral) het ombrengen van mensen. Deze keer was het niet de ‘Volksleier’ die alle aandacht voor zich opeiste, dan wel een van zijn naaste medewerkers, de ook reeds vernoemde Piet Rudolph. Deze laatste vormde bovendien de spil van een terroristische organisatie, de ‘Orde Boerevolk’, die niet weinig schade berokkende en/of slachtoffers maakte. Opvallend in dit gedeelte was echter ook dat de meeste betichten, na weliswaar een uitzonderlijk lange voorhechtenis, dienden te worden vrijgelaten bij gebrek aan concrete bewijzen. De rol van Eugene Terre’blanche in deze bijdrage bleef beperkt tot de herhaaldelijke formele ontkenning dat zijn organisatie ook maar iets met de zaak te maken had .....


De groene hoek
door Guy de Maertelaere


Begrafenis van Emil Cioran in Parijs
door Hendrik Carette


Schrijvers en Lezers
door Peter Logghe en Peter Van Windekens


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vendredi, 22 juin 2012

E&R Bretagne rencontre Guillaume Faye


E&R Bretagne rencontre Guillaume Faye

dimanche, 10 juin 2012

Terre & Peuple n°51 - "Fuir la ville?"

 

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Le numéro 51 de Terre & Peuple Magazine est centré autour du thème ‘Fuir la ville ?

Dans son éditorial, Pierre Vial, qui relève l’intérêt et l’importance des résultats électoraux des populistes, rappelle toutefois que ce n’est pas là notre préoccupation première, laquelle est de maintenir le cap sur Thulé, pour préserver la continuité plurimillénaire de notre sang.

Xavier Eeman esquisse le portrait du mouvement politique et social Casa Pound, très actif d’abord à Rome et à présent dans toute l’Italie. Il mène une action permanente (occupation d’immeubles, logements et restaurants sociaux, clubs sportifs, concerts, etc) qui entend inventer l’avenir tout en assumant un passé dans lequel il ne se laisse pas enfermer.

Y fait pendant les confidences d’un cadre de la police judiciaire, notamment sur les règles de procédure rendues absurdes au point qu’il est persuadé que les élus qui les ont pondues pressentaient le risque de se trouver eux-même un jour en garde à vue ! Le même précise qu’il porte toujours un marteau de Thor sous son gilet pare-balles.

Robert Dragan dénonce la prestation désopilante et révélatrice, sur France Culture, de trois historiens du système qui, dans un français aussi approximatif que progressiste, ont prétendu défendre (soutenir) les lois mémorielles qui prétendent défendre (interdire) la contestation de génocides.

Pierre Vial ouvre le dossier central sur le film ‘Une hirondelle fait le printemps’, qui pose les bonnes questions quant à la décision de rompre avec le genre de vie qu’impose le système.

Jean Haudry décline, avec l’inventaire des noms de la ville chez les Indo-Européens, l’histoire de l’évolution de leur habitat, rural à l’origine et ensuite urbain.

Balmat, un ami identitaire qui a fait retour à la terre, se laisse interviewer sur les obstacles à la rupture avec la ville et sur sa faisabilité, notamment en se faisant éventuellement un devoir d’émarger tant que possible à la providence de l’Etat.

Arnaud de Robert, du MAS (Mouvement d’Action Sociale) pousse le cri de la fourmi : l’électoralisme n’est qu’une de nos armes. C’est en lui opposant l’Organique que nous avons à attaquer l’ennemi à sa racine, dans ses valeurs relatives (peurs, individualisme, consumérisme, désinformation, soumission, et). C’est par une organisation en réseau, dans laquelle Terre & Peuple incarne le pôle culturel, que nous avons à développer en synergies parallèles des actions sociales, économiques alternatives, sportives, artistiques, dans la discipline, la joie et la détermination. Il cite l’article 35 de la Déclaration des Droits de l’Homme : ‘Quand le gouvernement viole les droits du peuple, l’insurrection est le plus sacré des droits et le plus indispensable des devoirs.’

Pour Yvan Lajeanne, la ville constitue, en cas d ‘effondrement économique, un piège à rats. Il remarque qu’il y a en France mille communes de moins de cinquante habitants.

Robert Dragan note que 90% des Français vivent en EDU (espaces à dominante urbaine), lieux d’échanges des ‘aires de polarisation rurales’.  L’agriculture représente moins de 3% de la population active. Les Français moyens s’évadent vers les grandes banlieues, mais un cadre supérieur ne peut pas survivre loin d’une métropole. Une opération de répartition spatiale des allogènes vise à les essaimer dans les campagnes. On doit relever une ‘diagonale du vide’, des Ardennes au Massif central.

Claude Perrin décortique, dans le sillage de Gustave Le Bon (‘La psychologie des foules’) et de Konrad Lorenz (‘L’agression’), les lois de l’unité mentale des foules et les risques de leur brutalité. Dans les observations du phénomène, il avertit contre la manipulation des statistiques.

Pierre Vial retrace l’histoire, depuis les temps préhistoriques, de la ville, lieu sacré de regroupement privilégié où se retrouver périodiquement, dont les hameaux néolithiques ne sont que la préfiguration. Dans l’Egypte antique, le même hiéroglyphe désigne la mère, la maison ou la ville. Toutefois, si le village invitait à perpétuer la tradition, la cité incite à l’innovation. Redoute défensive et agglutination de réserves humaines mobilisables, la cité se doit d’être un lieu d’ordre juridique souverain. Dans l’orient antique, cette nécessité débouchera sur le schéma totalitaire et l’obsession monothéiste. La cité grecque, au contraire, peuplée de citoyens et non de sujets, est toute autre. Le Grec a inventé la liberté : l’ordre n’est pour lui qu’une application du Beau et du Bien, par la conciliation des forces dionysiaques et apolliniennes. Cet ordre ne peut se fonder durablement que sur l’homogénéité ethnique, Aristote le souligne : l’hétérogénéité est facteur de sédition. Rome, qui en est un bon exemple, ne sera plus dans Rome dès lors que l’édit de Caracalla fera de n’importe qui un Romain. Les villes du moyen âge, sièges d’abord de l’autorité (de l’évêque et du comte) vont s’enrichir et s’affranchir (édifier des beffrois), voire s’associer (la Hanse), s’ériger en républiques, attirer les surplus démographiques des campagnes. Le XIXe siècle industriel va accentuer l’exode rural et l’exploitation capitaliste va rendre la ville révolutionnaire (la Commune).

Yvan Lajeannne, sans prophétiser la ‘Pétrocalypse’, note que l’agriculture industrielle utilise dix calories énergétiques pour fabriquer une calorie alimentaire. Au niveau actuel, il nous reste 40 années de pétrole (à consommation constante). Le sevrage va être douloureux et les tensions ont déjà commencé.

Alain Cagnat épingle, à propos de la Hongrie et de son premier ministre Viktor Orban, l’hostilité agressive de l’Union européenne à l’égard des peuples européens. Ont eu à la subir les Danois, les Français, les Néerlandais, les Irlandais, les Autrichiens. Hystériques, les bonnes âmes démocratiques réclament à présent des sanctions contre la Hongrie, coupable d’avoir abandonné sa dénomination ‘République de Hongrie’ et d’inscrire dans sa constitution « Dieu bénisse le peuple hongrois. » Et d’étendre aux crimes communistes l’imprescriptibilité d’application aux crimes nazis. Et de considérer l’embryon comme un être humain. Et de réserver le mariage aux couples mixtes. Et de reconnaître le droit de vote aux Hongrois de l’étranger (des minorités dans certains pays limitrophes). Enfin, bouquet final, de déprivatiser la banque centrale et d’imposer une taxe de crise aux banques (à 80% étrangères). Si l’Union européenne n’aime pas Orban, les Hongrois l’aiment : ils étaient plus de cent mille à lui manifester leur soutien.

Le même Alain Cagnat dénonce la pratique déloyale des puritains anglo-saxons, qui diabolisent leurs concurrents pour se justifier moralement, au nom d’une prétendue mission messianique, de les anéantir ensuite par les armes.  La première guerre mondiale a ainsi permis aux puissances libérales de liquider les empires centraux réactionnaires, au moment où ceux-ci étaient en passe de devenir des challengers économiques et navals encombrants. Bien plus qu’à éradiquer la peste brune, la deuxième guerre mondiale a servi à empêcher la constitution d’un bloc continental. En trente ans, l’alliance a assujetti l’Europe et n’a plus qu’un adversaire : l’URSS. Au nom de la liberté, celle-ci sera mise à mort par épuisement dans une course aux armements et à l’espace. Dans le monde unipolaire qui fait suite, le Mal qui requiert le feu du ciel a d’abord été l’Irak et sa menace de destructions massives, avant d’être le terrorisme global de l’islamisme incarné par le spectre fantastique de Ben Laden. Dans l’apparente stratégie du chaos qui nous place à la veille de la troisième guerre mondiale, la modération est clairement le fait de l’Iran, de la Russie et de la Chine.

Ce numéro 51 se referme sur le large éventail des recensions des livres et périodiques qu’a lus Pierre Vial durant ce trimestre : une moisson de très riches heures.

 

vendredi, 08 juin 2012

Nietzsche vu par Guillaume Faye

Réponses de Guillaume Faye au questionnaire de la Nietzsche académie. Guillaume Faye, ecrivain engagé, ancien membre du GRECE, ancienne figure de la Nouvelle droite, est l'auteur dernièrement de Mon programme aux éditions du Lore.

Ex: http://nietzscheacademie.over-blog.com/

 

- Quelle importance a Nietzsche pour vous ?

- La lecture de Nietzsche a constitué la base de lancement de toutes les valeurs et idées que j’ai développées par la suite. Quand j’étais élève des Jésuites, à Paris, en classe de philosophie (1967), il se produisit quelque chose d’incroyable. Dans ce haut lieu du catholicisme, le prof de philo avait décidé de ne faire, durant toute l’année, son cours, que sur Nietzsche ! Exeunt Descartes, Kant, Hegel, Marx et les autres. Les bons pères n’osèrent rien dire, en dépit de ce bouleversement du programme. Ça m’a marqué, croyez-moi. Nietzsche, ou l’herméneutique du soupçon... C’est ainsi que, très jeune, j’ai pris mes distances avec la vision chrétienne, ou plutôt christianomorphe du monde. Et bien entendu, par la même occasion, avec l’égalitarisme et l’humanisme. Toutes les analyses que j’ai développées par la suite ont été inspirées par les intuitions de Nietzsche. Mais c’était aussi dans ma nature. Plus tard, beaucoup plus tard, récemment même, j’ai compris, qu’il fallait compléter les principes de Nietzsche par ceux d’Aristote, ce bon vieux Grec au regard apollinien, élève d’un Platon qu’il respecta mais renia. Il existe pour moi un phylum philosophique évident entre Aristote et Nietzsche : le refus de la métaphysique et de l’idéalisme ainsi que, point capital, la contestation de l’idée de divinité. Le « Dieu est mort » de Nietzsche n’est que le contrepoint de la position aristotélicienne du dieu immobile et inconscient, qui s’apparente à un principe mathématique régissant l’univers. Aristote et Nietzsche, à de très longs siècles de distance, ont été les seuls à affirmer l’absence d’un divin conscient de lui-même sans rejeter pour autant le sacré, mais ce dernier s’apparentant alors à une exaltation purement humaine reposant sur le politique ou l’art. Néanmoins, les théologiens chrétiens n’ont jamais été gênés par Aristote mais beaucoup plus par Nietzsche. Pourquoi ? Parce qu’Aristote était pré-chrétien et ne pouvait connaître la Révélation. Tandis que Nietzsche, en s’attaquant au christianisme, savait parfaitement ce qu’il faisait. Néanmoins, l’argument du christianisme contre cet athéisme de fait est imparable et mériterait un bon débat philosophique : la foi relève d’un autre domaine que les réflexions des philosophes et demeure un mystère. Je me souviens, quand j’étais chez les Jésuites, de débats passionnants entre mon prof de philo athée, nietzschéen, et les bons Père (ses employeurs) narquois et tolérants, sûrs d’eux-mêmes.

     

- Quel livre de Nietzsche recommanderiez-vous ?

- Le premier que j’ai lu fut Le Gai Savoir. Ce fut un choc. Et puis, tous après, évidemment, notamment Par-delà le bien et le mal où Nietzsche bouleverse les règles morales manichéennes issues du socratisme et du christianisme. L’Antéchrist, quant à lui, il faut le savoir, a inspiré tout le discours anti-chrétien du néo-paganisme de droite, dont j’ai évidemment largement participé. Mais on doit noter que Nietzsche, d’éducation luthérienne, s’est révolté contre la morale chrétienne à l’état pur que représente le protestantisme allemand, mais il n’a jamais vraiment creusé la question de la religiosité et de la foi catholique et orthodoxe traditionnelles qui sont assez déconnectées de la morale chrétienne laïcisée. Curieusement le Ainsi parlait Zarathoustra ne m’a jamais enthousiasmé. Pour moi, c’est une œuvre assez confuse où Nietzsche se prend pour un prophète et un poète qu’il n’est pas. Un peu comme Voltaire qui se croyait malin en imitant les tragédies de Corneille. Voltaire, un auteur qui, par ailleurs, a pondu des idées tout à fait contraires à cette « philosophie des Lumières » que Nietzsche (trop seul) a pulvérisée.

 

- Etre nietzschéen, qu'est-ce que cela veut dire ?

- Nietzsche n’aurait pas aimé ce genre de question, lui qui ne voulait pas de disciples, encore que… (le personnage, très complexe, n’était pas exempt de vanité et de frustrations, tout comme vous et moi). Demandons plutôt : que signifie suivre les principes nietzschéens ? Cela signifie rompre avec les principes socratiques, stoïciens et chrétiens, puis modernes d’égalitarisme humain, d’anthropocentrisme, de compassion universelle, d’harmonie utopique universaliste. Cela signifie accepter le renversement possible de toutes les valeurs (Umwertung) en défaveur de l’éthique humaniste. Toute la philosophie de Nietzsche est fondée sur la logique du vivant : sélection des plus forts, reconnaissance de la puissance vitale (conservation de la lignée à tout prix) comme valeur suprême, abolition des normes dogmatiques, recherche de la grandeur historique, pensée de la politique comme esthétique, inégalitarisme radical, etc. C’est pourquoi tous les penseurs et philosophes auto-proclamés, grassement entretenus par le système, qui se proclament plus ou moins nietzschéens, sont des imposteurs. Ce qu’a bien compris l’écrivain Pierre Chassard, qui, en bon connaisseur, a dénoncé les « récupérateurs de Nietzsche ». En effet, c’est très à la mode de se dire « nietzschéen ». Très curieux de la part de publicistes dont l’idéologie, politiquement correcte et bien pensante, est parfaitement contraire à la philosophie de Friedrich Nietzsche. En réalité, les pseudo-nietzschéens ont commis une grave confusion philosophique : ils ont retenu que Nietzsche était un contestataire de l’ordre établi mais ils ont fait semblant de ne pas comprendre qu’il s’agissait de leur propre ordre : l’égalitarisme issu d’une interprétation laïcisée du christianisme. Christianomorphe de l’intérieur et de l’extérieur. Mais ils ont cru (ou fait semblant de croire) que Nietzsche était une sorte d’anarchiste, alors qu’il prônait un nouvel ordre implacable, Nietzsche n’était pas, comme ses récupérateurs, un rebelle en pantoufles, un révolté factice, mais un visionnaire révolutionnaire.

 

- Le nietzschéisme est-il de droite ou de gauche ?

- Les imbéciles et les penseurs d’occasion (surtout à droite) ont toujours prétendu que les notions de droite et de gauche n’avaient aucun sens. Quelle sinistre erreur. Même si les positions pratiques de la droite et de la gauche peuvent varier, les valeurs de droite et de gauche existent bel et bien. Le nietzschéisme est à droite évidemment. Nietzsche vomissait la mentalité socialiste, la morale du troupeau. Mais ce qui ne veut pas dire que les gens d’extrême-droite soient nietzschéens, loin s’en faut. Par exemple, ils sont globalement anti-juifs, une position que Nietzsche a fustigée et jugée stupide dans nombre de ses textes et dans sa correspondance, où il se démarquait d’admirateurs antisémites qui ne l’avaient absolument pas compris. Le nietzschéisme est de droite, évidemment, et la gauche, toujours en position de prostitution intellectuelle, a tenté de neutraliser Nietzsche parce qu’elle ne pouvait pas le censurer. Pour faire bref, je dirais qu’une interprétation honnête de Nietzsche se situe du côté de la droite révolutionnaire en Europe, en prenant ce concept de droite faute de mieux (comme tout mot, il décrit imparfaitement la chose). Nietzsche, tout comme Aristote (et d’ailleurs aussi comme Platon, Kant, Hegel et bien entendu Marx – mais pas du tout Spinoza) intégrait profondément le politique dans sa pensée. Il était par exemple, par une fantastique prémonition, pour une union des nations européennes, tout comme Kant, mais dans une perspective très différente. Kant, pacifiste et universaliste, incorrigible moralisateur utopiste, voulait l’union européenne telle qu’elle existe aujourd’hui : un grand corps mou sans tête souveraine avec les droits de l’Homme pour principe supérieur. Nietzsche au contraire parlait de Grande Politique, de grand dessein pour une Europe unie. Pour l’instant, c’est la vision kantienne qui s’impose, pour notre malheur. D’autre part, le moins qu’on puisse dire, c’est que Nietzsche n’était pas un pangermaniste, un nationaliste allemand, mais plutôt un nationaliste – et patriote – européen. Ce qui était remarquable pour un homme qui vivait à une époque, la deuxième partie du XIXe siècle (« Ce stupide XIXe siècle » disait Léon Daudet) où s’exacerbaient comme un poison fatal les petits nationalismes minables intra-européens fratricides qui allaient déboucher sur cette abominable tragédie que fut 14-18 où de jeunes Européens, de 18 à 25 ans, se massacrèrent entre eux, sans savoir exactement pourquoi. Nietzsche, l’Européen, voulait tout, sauf un tel scénario. C’est pourquoi ceux qui instrumentalisèrent Nietzsche (dans les années 30) comme un idéologue du germanisme sont autant dans l’erreur que ceux qui, aujourd’hui, le présentent comme un gauchiste avant l’heure. Nietzsche était un patriote européen et il mettait le génie propre de l’âme allemande au service de cette puissance européenne dont il sentait déjà, en visionnaire, le déclin.

     

- Quels auteurs sont à vos yeux nietzschéens ?

- Pas nécessairement ceux qui se réclament de Nietzsche. En réalité, il n’existe pas d’auteurs proprement “nietzschéens”. Simplement, Nietzsche et d’autres s’inscrivent dans un courant très mouvant et complexe que l’on pourrait qualifier de “rébellion contre les principes admis”.Sur ce point, j’en reste à la thèse du penseur italien Giorgio Locchi, qui fut un de mes maîtres : Nietzsche a inauguré le surhumanisme, c’est-à-dire le dépassement de l’humanisme. Je m’en tiendrai là, car je ne vais pas répéter ici ce que j’ai développé dans certains de mes livres, notamment dans Pourquoi nous combattons et dans Sexe et Dévoiement. On pourrait dire qu’il y a du ”nietzschéisme” chez un grand nombre d’auteurs ou de cinéastes, mais ce genre de propos est très superficiel. En revanche, je crois qu’il existe un lien très fort entre la philosophie de Nietzsche et celle d’Aristote, en dépit des siècles qui les séparent. Dire qu’Aristote était nietzschéen serait évidemment un gag uchronique. Mais dire que la philosophie de Nietzsche poursuit celle d’Aristote, le mauvais élève de Platon, c’est l’hypothèse que je risque. C’est la raison pour laquelle je suis à la fois aristotélicien et nietzschéen : parce que ces deux philosophes défendent l’idée fondamentale que la divinité supranaturelle doit être examinée dans sa substance. Nietzsche jette sur la divinité un regard critique de type aristotélicien. La plupart des auteurs qui se disent admirateurs de Nietzsche sont des imposteurs. Paradoxal : je fais un lien entre le darwinisme et le nietzschéisme. Ceux qui interprètent Nietzsche réellement sont accusés par les manipulateurs idéologiques de n’être pas de vrais « philosophes ». Ceux-là même qui veulent faire dire à Nietzsche, très gênant, l’inverse de ce qu’il a dit. Il faut dénoncer cette appropriation de la philosophie par une caste de mandarins, qui procèdent à une distorsion des textes des philosophes, voire à une censure. Aristote en a aussi été victime. On ne pourrait lire Nietzsche et d’autres philosophes qu’à travers une grille savante, inaccessible au commun. Mais non. Nietzsche est fort lisible, par tout homme cultivé et censé. Mais notre époque ne peut le lire qu’à travers la grille d’une censure par omission.

 

- Pourriez-vous donner une définition du Surhomme ?

- Nietzsche a volontairement donné une définition floue du Surhomme. C’est un concept ouvert, mais néanmoins explicite. Évidemment, les intellectuels pseudo-nietzschéens se sont empressés d’affadir et de déminer ce concept, en faisant du Surhomme une sorte d’intellectuel nuageux et détaché, supérieur, méditatif, quasi-bouddhique, à l’image infatuée qu’ils veulent donner d’eux-mêmes. Bref l’inverse même de ce qu’entendait Nietzsche. Je suis partisan de ne pas interpréter les auteurs mais de les lire et, si possible, par respect, au premier degré. Nietzsche reliait évidemment le Surhomme à la notion de Volonté de Puissance (qui, elle aussi, a été manipulée et déformée). Le Surhomme est le modèle de celui qui accomplit la Volonté de Puissance, c’est-à-dire qui s’élève au dessus de la morale du troupeau (et Nietzsche visait le socialisme, doctrine grégaire) pour, avec désintéressement, imposer un nouvel ordre, avec une double dimension guerrière et souveraine, dans une visée dominatrice, douée d’un projet de puissance. L’interprétation du Surhomme comme un ”sage” suprême, un non-violent éthéré, un pré-Gandhi en sorte, est une déconstruction de la pensée de Nietzsche, de manière à la neutraliser et à l’affadir. L’intelligentsia parisienne, dont l’esprit faux est la marque de fabrique, a ce génie pervers et sophistique, soit de déformer la pensée de grands auteurs incontournables mais gênants (y compris Aristote ou Voltaire) mais aussi de s’en réclamer indument en tronquant leur pensée. Il y a deux définitions possibles du Surhomme : le surhomme mental et moral (par évolution et éducation, dépassant ses ancêtres) et le surhomme biologique. C’est très difficile de trancher puisque Nietzsche lui-même n’a utilisé cette expression que comme sorte de mythème, de flash littéraire, sans jamais la conceptualiser vraiment. Une sorte d’expression prémonitoire, qui était inspirée de l’évolutionnisme darwinien. Mais, votre question est très intéressante. L’essentiel n’est pas d’avoir une réponse “ à propos de Nietzsche ”, mais de savoir quelle voie Nietzsche, voici plus de cent ans, voulait ouvrir. Nietzsche ne pensait pas, puisqu’il était anti-humaniste et a-chrétien, que l’homme était un être fixe, mais qu’il était soumis à l’évolution, voire à l’auto-évolution (c’est le sens de la métaphore du « pont entre la Bête et le Surhomme »). En ce qui me concerne, (mais là, je m’écarte de Nietzsche et mon opinion ne possède pas une valeur immense ) j’ai interprété le surhumanisme comme une remise en question, pour des raisons en partie biologiques, de la notion même d’espèce humaine. Bref. Cette notion de Surhomme est certainement, beaucoup plus que celle de volonté de puissance, un de ces pièges mystérieux que nous a tendu Nietzsche, une des questions qu’il a posée à l’humanité future Oui, qu’est-ce que le Surhomme ? Rien que ce mot nous fait rêver et délirer. Le Surhomme n’a pas de définition puisqu’il n’est pas encore défini. Le Surhomme, c’est l’homme lui-même. Nietzsche a peut-être eu l’intuition que l’espèce humaine, du moins certaines de ses composantes supérieures (pas nécessairement l’”humanité”), pourraient accélérer et orienter l’évolution biologique. Une chose est sûre, qui écrase les pensées monothéistes fixistes en anthropocentrée : l’Homme n’est pas une essence qui échappe à l’évolution. Et puis, au concept d’Ubermensch, n’oublions jamais d’adjoindre celui de Herrenvolk... prémonitoire. D’autre part, il ne faut pas oublier les réflexions de Nietzsche sur la question des races et des inégalités anthropologiques. La captation de l’œuvre de Nietzsche par les pseudo-savants et les pseudo-collèges de philosophie (comparable à celle de la captation de l’œuvre d’Aristote) s’explique par le fait très simple suivant : Nietzsche est un trop gros poisson pour être évacué, mais beaucoup trop subversif pour ne pas être déformé et censuré.

     

- Votre citation favorite de Nietzsche ?

- « Il faut maintenant que cesse toute forme de plaisanterie ». Cela signifie, de manière prémonitoire, que les valeurs sur lesquelles sont fondées la civilisation occidentale, ne sont plus acceptables. Et que la survie repose sur un renversement ou rétablissement des valeurs vitales. Et que tout cela suppose la fin du festivisme (concept inventé par Phillipe Muray et développé par Robert Steuckers) et le retour aux choses sérieuses.

 

lundi, 04 juin 2012

Globalistische Kulturszene

Claus WOLFSCHLAG:

Globalistische Kulturszene

Ex: http://www.jungefreiheit.de/

Die „Neue Weltordnung“ führt zu neuen globalen Menschentypen. Menschentypen, die von der Verbindung zu einer Heimat, zu Nation, Religion, überlieferten Traditionen und Werten weitgehend abgeschnitten sind. Eine Gliederung dieser angestrebten Weltgesellschaft erfolgt demnach nicht mehr auf der Ebene verschiedener Völkerschaften, sondern nur noch durch kurzlebige Subkulturen oder Hobby-Gemeinschaften und die soziale Schichtung.

Der stumpfe Discounter-Konsument gehört somit ebenso zum Spiel wie der global austauschbare Bürohengst, der dauerflugreisende Manager oder eine sich im Globalismus sonnende Kulturszene. Will man der Seele der „Neuen Weltordnung“, des westlichen Kapitalismus und der globalistischen Ideologie auf die Spur kommen, dann blättere man einfach ein bißchen im Zentralorgan der spezifischen Kreativszene: Der Zeitschrift Vice.

Das kostenlose Blatt liegt in Musikläden und Szene-Boutiquen aus, kann aber auch abonniert werden. Gegründet wurde das Magazin 1994 von drei arbeitslosen Freunden in Montreal, wechselte dann nach Entzug der staatlichen Förderung nach New York, um dort zur beliebten Lektüre der städtischen Subkultur zu werden. Der Habitus eines skurrilen Kunststudenten-Magazins soll nicht täuschen, denn hinter Vice versteckt sich mittlerweile ein weltweit agierendes Medienunternehmen mit 3000, großenteils freien, Mitarbeitern und festen Niederlassungen in vier Ländern.

Vermeintlich gebildete Großstädter als Zielgruppe

Das Magazin erscheint entsprechend seiner globalistischen Ausrichtung in 26 Staaten mit einer Gesamtauflage von 1,2 Millionen Exemplaren. Angeschlossen sind Musiklabel, Buchverlag, Werbeagentur, Filmproduktionen und eine Bekleidungsreihe. Für die zugehörige Fernsehfirma vbs.tv wurde der Anspruch formuliert, das MTV des 21. Jahrhunderts zu werden. Vice ist somit die konsequente Weiterentwicklung einstiger Szene-Magazine der 90er Jahre, beispielsweise „Tempo“. Es ist nahe liegend, daß die deutsche Redaktion in Berlin, Prenzlauer Berg, untergebracht ist.

Die Zielgruppe sind junge, vermeintlich gebildete Großstädter. Viele haben wohl ihre Wurzeln im Punk und der Skateboardkultur. Die meisten Mitarbeiter kommen aus dem Bereich der bis 25-jährigen Jungkreativen und Dauerpraktikanten, deren Motiv der Stolz ist, zum Geringverdienst für ein globales Szenemagazin arbeiten zu dürfen.

Mit-Gründer Suroosh Alvi klassifizierte den Lesertypus folgendermaßen: „Uns überraschte, daß sich unsere Leser überall auf der Welt sehr ähneln. Ganz gleich, ob in Rio, Moskau oder Sydney: Unsere Fans hören die gleichen Bands und tragen die gleichen Jeans.“ Lars Jensen ergänzte in der FAZ: „Sie kennen sich mit Turnschuhen aus, tragen originell bedruckte T-Shirts, halten Porno für eine Kunstform, und in einem Magazin sehen sie gerne kraß ausgeleuchtete Fotos von kotzenden Mädchen.“

Kokain, AIDS und Wohlstandskinder

Nachdem sich das Magazin anfangs um den eigenen Kosmos drehte, um Kokain und Trainingsjacken mit asymmetrischen Reißverschlüssen, begann man sich zunehmend auch für Auslandsreportagen zu interessieren. Dabei geht es vor allem um spektakuläre Bilder, die dem Nervenkitzel gesättigter Wohlstandskinder dienen, zum Beispiel um Kinder tötende afrikanische Warlords, in Abwasserkanälen hausende kolumbianische Obdachlose, nordkoreanische Soldatinnen oder die größte Puffsiedlung des Kongo mit einer AIDS-Rate von 100 Prozent.

Irakische Derwische werden als „echte Stecher“ präsentiert, denn sie „feiern Gott, indem sie sich selbst durchbohren“. Ein afrikanisches Flüchtlingslager wird als „die heißeste Scheiße der Welt“ betitelt. Die Artikel dienen meist nicht wirklicher tiefer Erkenntnis durch die Begegnung mit dem Fremden, sondern nur der Vorführung von vermeintlicher Skurrilität. Das Fremde ist hier das kauzige Überbleibsel einer langsam verschwindenden Welt. Der Zug fährt schließlich in eine Richtung, und der „kosmopolitische Trendsetter“ ist der Leitstern.

Das Rezept der teils durchaus unterhaltsamen Berichte ist, daß diese möglichst spektakulär oder irre sein müssen. Am besten beides zusammen. Nun ist insofern dagegen nichts zu sagen, als Boulevard-Medien oftmals nach dieser inhaltlichen Devise verfahren. Das Spezifikum von „Vice“ aber ist, daß sich Macher und Leser meilenweit über Medien wie der Bild-Zeitung, The Sun oder dem Kölner Express stehend wähnen.

Die Faszination des Abstoßenden

Sie bedienen somit das trügerische Selbstbild scheinbarer geistiger Überlegenheit. Zweitens aber, und das ist das fatalere, präsentieren sie ihren Boulevard-Journalismus bewußt im Gewand der Verhäßlichung. Sie richten sich also an eine satte, gelangweilte urbane Jugendszene, deren letzter Nervenkitzel es ist, möglichst wackelige Fotos von möglichst häßlichen Objekten zu erstellen oder sich daran zu ergötzen.

Die Faszination des Abstoßenden ist es, die viele Leser zu Vice lockt. Das ist natürlich auch der Zielgruppe angepaßt, bedient das „Anti“ gegen die schöne Welt der Tradition (auf der einen Seite) und der Hochglanzmagazine (auf der anderen Seite) doch oft nur die intellektuelle Selbstüberschätzung weiter Teile des kreativen Milieus.

Über die 14-tägige Feier der Insassen des psychiatrischen Klinikums Wahrendorff wird als „Klapsen-Disco“ berichtet. Eine brasilianische Dragqueen erklärt, „wie Mann sich eine Pussy macht“. Ein Bericht über Karatschi wird als „Reportage aus Pakistans verrücktester Stadt“ angekündigt. Man begegnet tätowierten Rockers, skurrilen NPD-Politikern, drogensüchtigen Russen in Abbruchhäusern. Man kann eine Fotostrecke von „Hunden mit Perücken“ betrachten. „Gibt es etwas Amüsanteres als verkleidete Hunde?

Der globalistische Menschentyp

Wir glauben kaum“, heißt es dazu im typischen Vice-Jargon. Auf Fotos sieht man aufgeplatzte Jeans, einen halbnackten Weihnachtsmann mit grünem Bart, dicke Frauen in engen bunten Leggins, Models mit angekauten Pizzastücken auf der Zunge, mit Lackfarbe bemalte Finger, einen entblößten Hintern mit Zigarette zwischen den Backen, einen körperbehaarten Gewichtheber, ein halb gegessenes Sandwich auf einer Mauerbrüstung, debil blickende Zwillinge, eine alte Frau mit blauem Auge in der U-Bahn. Comicfiguren übergeben sich in kleinen Strips, erledigen ihr kleines und großes Geschäft oder werden brutal verstümmelt.

Der globalistische Menschentypus, der von Vice als Zielgruppe angesprochen werden soll, wird als der „kosmopolitische Trendsetter“ klassifiziert. Hier kann man exemplarisch sehen zu welch geistiger Armseligkeit die Globalisierung und ihre schleichende Gleichschaltung der weltweiten Lebensstile als Endprodukt führt. Die FAZ schrieb über sie: „Von den etablierten Medien haben sie sich längst abgewendet, wie die ihre Weltsicht nicht abbilden.“ Doch das stimmt nicht wirklich. Vice treibt die Weltsicht des westlichen Linksliberalismus nur bis zur konsequenten Spitze. Alles andere ist Attitüde einer sich überlegen wähnenden Lifestyle-Avantgarde.

Ungezügelter Kapitalismus

Es ist ähnlich wie einst beim alten Punk, der oft die gleichen Dreßcodes und hedonistischen Lebensvorstellungen vertrat wie der verhaßte Yuppie. Nur die äußerlichen Merkmale unterschieden sich. Wo hier die Bierflasche gehoben wurde, war es dort das Sektglas.

Das Zusammenspiel von avantgardistischer Rebellenpose und finanzstarker Werbeindustrie läuft dabei wie geschmiert. Werbekunden sind unter anderem Nike, Adidas, Calvin Klein, Sony und Diesel. Auch hierin zeigt sich, daß der Inhalt der global agierenden Konzerne allein der Profitmaximierung dient. Wenn sich mit Kot und Kotze Geld machen läßt, stehen Geldgeber jederzeit bereit, auch fragwürdigste Projekte zu stützen. Bei Vice darf der Kapitalismus eben ungeniert seine häßliche Seite zeigen.

 

Dr. Claus Wolfschlag wurde 1966 in Nordhessen geboren. Er ist seit vielen Jahren als Journalist, Kultur- und Geisteswissenschaftler für diverse Magazine, Wochen- und Tageszeitungen tätig. Zudem veröffentlichte er mehrere Bücher zu den Themenbereichen Geschichte, Politik und Kunst. 2007 erschien sein Buch „Traumstadt und Armageddon“ über die Geschichte des Science-Fiction-Films.

samedi, 02 juin 2012

Démythifier Mai 68

Archives - 2001

Werner OLLES:
Démythifier Mai 68 ou comment l’idéologie soixante-huitarde est devenue un instrument de domination

Werner Olles, ancien activiste du 68 allemand, a été membre du SDS de Francfort-sur-le-Main puis de divers groupes de la “nouvelle gauche” avant de rejoindre les cercles nationaux-révolutionnaires et néo-droitistes allemands; Dans cet article, rédigé en 2001, il explique les raisons qui l’ont poussé à abandonner l’univers politico-intellectuel des gauches extrêmes allemandes. On notera qu’il cite Pier Paolo Pasolini et déplore que l’arrivée aux postes du pouvoir des premiers anciens activistes, avec un Joschka Fischer devenu ministre des affaires  étrangères, n’a rien changé à la donne: l’Allemagne est toujours dépendante des Etats-Unis, sinon davantage, et le débat intellectuel est toujours bétonné...

Marx, en se référant à Hegel, avait dit, à propos du 18 brumaire de Napoléon, que les événements historiques importants, touchant le monde entier, se déroulaient toujours deux fois: la première fois comme tragédie, la seconde fois comme farce. Cette remarque est également pertinente quand s’échaffaudent les mythes politiques. Mais tandis que les mythologies qui évoquent les fondations d’une nation articulent toujours les actions collectives d’un peuple, qui se hisse d’un état de nature à un degré plus élevé de civilisation, l’histoire du mouvement soixante-huitard ressemble plus à une parodie de ce passage qu’à une véritable transition “anamorphique”. Mais cette histoire du soixante-huitardisme a tout de même un point commun avec la formation des mythes nationaux: “Le mensonge du mythe héroïque culmine dans l’idolâtrie du héros”, comme l’écrit Freud dans sa “Psychologie des masses”. En ce sens, le mythe de mai 68 n’est rien de plus, aujourd’hui, qu’un instrument servant à asseoir la domination d’une nouvelle classe politique.

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Pier Paolo Pasolini, le célèbre écrivain, poète, journaliste et metteur en scène italien, nous a laissé un poème, écrit justement en 1968: “Le PCI aux jeunes!”. Pasolini, observateur très précis de l’aliénation généralisée qui frappait toutes les couches de la population et tous les domaines de l’existence, était communiste et homme de gauche, une équatioin qui n’est pas toujours évidente, mais qui l’était dans son cas. Dans ce fameux poème, il prend ses distances expressis verbis et en termes clairs avec les étudiants radicaux de gauche, qui avaient pourtant réussi à faire battre la police en retraite, lors des premières grandes batailles de rue, à Rome, au printemps de l’année 1968. Il désignait ces étudiants comme des “bourgeois, fils à la mamma” et se solidarisait avec les policiers rossés, parce qu’ils étaient “les fils de pauvres gens nés dans les zones déshéritées des campagnes ou des grandes villes”.

En tant que marxiste, Pasolini ne rejettait pas la violence en général mais s’insurgeait contre celle que pratiquaient les “Brigades rouges” des années 70 qui commettaient des attentats et des enlèvements, tout en menant une guérilla urbaine assez efficace dans toute l’Italie. La gauche lui a en voulu. Et quand il s’est opposé à la libéralisation de l’avortement et s’est insurgé avec véhémence contre la permissivité sexuelle dans la société nouvelle, la mesure était comble pour les gauches conventionnelles: en effet, pour Pasolini, la libéralisation des moeurs et de la sexualité ne voulait qu’en apparence le bonheur des gens; en réalité, il s’agissait d’introduire les ferments d’un dressage des corps pour qu’ils soient le support d’homoncules destinés à une seule chose: accroître démesurément la consommation et ce qui en découle logiquement, la croissance exponentielle des marchés. Du coup l’hérétique et dissident Pasolini a subi un cordon sanitaire: on ne le reconnaissait plus comme un clerc de la religion marxiste.

Pasolini a donc reconnu la montée du nouveau totalitarisme introduit par le mouvement soixante-huitard, quand les plupart des conservateurs et des droitiers dormaient encore du sommeil du juste. Pasolini désignait la tolérance pour ce nouveau système de domination et son “idéologie hédoniste incontournable” comme “la pire de toutes les formes de répression de l’histoire de l’humanité”, parce qu’elle niait les anciens schémes culturels. Malheureusement, son message n’est pas passé en République fédérale allemande dès la fin des années 60 et le début des années 70. Pasolini était animé d’un courage désespéré quand il s’est opposé au libéralisme débordant mis en selle par le carnaval de 68, un libéralisme qui n’avait qu’un seul objectif: dilater démesurément la sphère de l’économie marchande. En Allemagne, personne n’a posé d’analyse aussi pertinente, certainement pas les “intellectuels”.

Ce sont surtout les ouvriers des usines qui ont compris; nous, les intellectuels soixante-huitards, ricanions avec méchanceté et affichions un net complexe de supériorité: nous les traitions de “masses dépendantes du salariat”, trahissant du même coup que nous ne voulions pas leur émancipation. Pour eux, nous ne prévoyions pas “l’auto-réalisation de l’individu”. Les ouvriers comprenaient que le démontage systématique des valeurs traditionnelles par l’esprit de 68 ouvrait la voie à un capitalisme débridé, consumériste et utilitariste, cynique et détaché de tout impératif éthique ou social. Sans jamais avoir entendu parler de “Diamat”, de “matérialisme dialectique”, sans jamais avoir lu Marx —qui considérait la persistance des sociétés traditionnelles comme le plus grand obstacle à la percée du socialisme et, qui, logique avec lui-même, saluait la destruction des vieilles cultures d’Inde par les impérialistes britanniques— les ouvriers allemands de la fin des années 60 comprenaient instinctivement que les schèmes, les structures et les valeurs traditionnelles du monde traditionnel leur offraient encore une protection, certes limitée et fragile, contre le déferlement d’un capitalisme sans plus aucun garde-fou: ils barraient la route à nos équipes subversives devant la porte des usines, généralement sans y aller par quatre chemins.

La classe qui aurait dû incarner ces valeurs traditionnelles, c’est-à-dire la bourgeoisie d’après-guerre, très vite, s’est retrouvée la queue entre les pattes, a exprimé toute sa lâcheté et n’a pas forgé une alliance avec la classe ouvrière contre les “soixante-huitards” et leurs épigones. De plus, elle a tout fait pour interdire à l’Etat, détenteur du monopole de la violence, d’intervenir efficacement contre ses propres gamins et gamines, tourneboulés par les “idées nouvelles”. Alors, forcément, la dynamique de cette lutte des classes exemplaire a pu se déployer sans entraves venues de haut. Après la lecture d’Herbert Marcuse, notamment sa “Critique de la tolérance pure”, ouvrage-culte et vulgarisation extrême du néo-marxisme de l’époque, et surtout le chapitre intitulé “La tolérance répressive”, on s’est senti autorisé à commettre les pires violences irrationnelles. A cela s’est ajouté le refus net, dans l’Allemagne d’alors, de prendre en compte les contradictions entre la rhétorique catastrophiste du SDS (l’opposition extra-parlementaire étudiante) et de ses épouvantables successeurs, d’une part, et, d’aute part, la réalité socio-économiques e l’Allemagne de l’Ouest des années 60, réalité encore acceptable, potable, contrairement à ce qui se passait dans les pays du Tiers Monde.

Dans le processus politique et historique qu’elle inaugurait, la mentalité de 1968 anticipait tout ce que nous déplorons à juste titre aujourd’hui: une société désormais totalement massifiée, l’omnipotence des médias, la destruction de traditions culturelles aux racines pourtant profondes, le processus ubiquitaire de nivellement, par lequel tout ce qui est authentique et particulier se voit détruit et qui, finalement, ne tolère que la seule idéologie du consumérisme, flanquée d’une industrie des loisirs, des variétés et de la comédie qui se déploie jusqu’à la folie. Le processus de destruction de toute forme de culture et la perte de tout socle identitaire, qui est allée en s’accélérant depuis les années 70, ne cessent de s’amplifier et d’atteindre tous les domaines de nos existences.

Certes, les valeurs traditionnelles, dites “bourgeoises” par leurs adversaires, n’étaient déjà plus assez fortes, avant 1968, pour constituer un contre-poinds à la “révolution culturelle”. Quasiment personne, à l’époque, n’a eu le courage de s’opposer aux bandes violentes qui déferlaient sur les universités et les hautes écoles, personne, sauf le professeur social-démocrate Carlo Schmid, n’a osé dire: “l’autorité ne cèdera pas!”. Personne n’a eu le courage de dire, sauf sans doute, le bourgmestre de Francfort, le chrétien-démocrate Wilhelm Fay, que la violence et le fanatisme du SDS et de l’APO constituaient un retour à l’exigence, par la coercition, d’un nouveau conformisme, d’une nouvelle fidélité forcée à des idéaux minoritaires, d’une obligation à suivre les impératifs idéologiques d’une caste réduite en nombre, comme ce fut le cas sous le national-socialisme.

Après que le mouvement et sa mythologie aient littéralement remplacé la réalité, tout en refusant avec entêtement la sanction du réel, une forme imprévue jusqu’alors d’hystérie de masse s’est libérée, alors qu’on imaginait qu’une telle hystérie n’était le fait que des seules sectes religieuses. On peut affirmer que les groupuscules nés de la dissolution du SDS, comme les partis “ML” (marxistes-léninistes), n’ont pas été autre chose qu’un mélange d’aveuglement politique, qu’un cocktail perfide de “scientologie” et d’“Hell’s Angels”, où les phénomènes psychopathologiques donnaient le ton, avec tout le cortège voulu de dérives emblématiques: lavage de cerveau, apologie du pire kitsch révolutionnaire, et surtout les fameuses “discussions” sans fin, épouvantablement emmerdantes, crispées et sans épaisseur. Le sommet de la bêtise a été atteint quand ces associations staliniennes de “sports de combat”, avec leurs jeunes bourgeois se complaisant dans une culture fabriquée sur le mode “sous-prolétarien”, se vantaient d’être des analphabètes politiques et culturels complets, tout en voulant imiter dans les rues les bagarres qui avaient opposé, dans les années 20 et 30, les nationaux-socialistes aux communistes. Pendant que ces bourgeois de souche se donnaient des airs de révolutionnaires prolétariens d’antan, les jeunes ouvriers, eux, roulaient vers le soleil de l’Espagne (franquiste!) au volant de leurs Ford Taunus flambant neuves.

Quand on lit aujourd’hui les textes de ces activistes, tentant de justifier et d’expliquer leurs revendications ou leurs actes —et on les lira avec profit— on perd le souffle. Jamais, ils ne se montrent honteux de leurs simplismes. Jamais ils ne s’excusent d’avoir commis des dépradations ou des dérapages. Jamais un regret. On dirait que la table de bistrot, autour de laquelle ils refaisaient le monde ou jouaient à préparer l’hypothétique révolution finale, en usant d’un jargon intellectuel de gauche, est toujours la même: les discours sont toujours impavides, inflexibles, relèvent toujours d’une bande qui n’a rien appris, ne veut rien apprendre. Ce n’est peut-être pas évident chez tous les protagonistes du 68 allemand, ou ce n’est pas immédiatement perceptible, comme chez un Gerd Koenen, un K. D. Wolff ou un Christian Semmler. Mais ce l’est assurément chez un Joseph Fischer ou un Joscha Schmierer. On nage là dans le “radical chic” et toutes les idées avancées ne sont rien d’autre que des déductions ultérieures des vieilles et fausses visions de la fin des années 60 et du début des années 70.

La République Fédérale en est sortie ébranlée et ce n’est finalement qu’une maigre consolation de savoir qu’Ulrike Meinhof n’est pas devenue Chancelière, que Joscha Schmierer n’est pas devenu ministre de la justice, que Jürgen Trittin n’est pas devenu un nouveau “ministre de la propagande”, bref, que la République Fédérale n’est pas devenue une “République Ouest-Allemande des Conseils” (“Westdeutsche Räterrepublik”). Mais si c’est une consolation, ce n’est pas pour autant matière à réjouissance. Dans le gouvernement Schröder/Fischer, finalement, nous avons vu surgir l’accomplissement du mouvement soixante-huitard: nous avons une démocratie très teintée à gauche (la gauche de 68 et non plus la vieille social-démocratie), sans personnalité d’envergure, avec une médiocrité très nettement perceptible, où l’on se bornera à l’avenir de changer les pions: tous auront les mêmes réflexes, les mêmes tares, répéteront les mêmes schèmes mentaux. Car il n’est pas resté davantage de 68. Et aussi longtemps que les intérêts des “Global Players” sont plus ou moins identiques à ceux de cette gauche allemande aux assises branlantes, on peut s’attendre au retour récurrent de ces schèmes mentaux dans les allées du pouvoir en Allemagne.

Werner OLLES.
(article paru dans “Junge Freiheit”, Berlin, n°9/2001; trad. franç.: avril 2012; http://www.jungefreiheit.de/ ).

vendredi, 01 juin 2012

Entretien avec Alexandre Douguine

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Entretien avec Alexandre Douguine

Propos  recueillis  par le magazine allemand “Zuerst”

( http://www.zuerst.de )

Q.: Monsieur Douguine, la Russie subit un feu roulant de critiques occidentales, surtout depuis  la  réélection de Vladimir Poutine à la présidence  de la fédération de Russie. Les politiciens etl es médias prétendent que les élections ont été truquées, que Poutine n’est pas un démocrate et qu’il bafoue les “droits de l’Homme”...

AD: Vladimir Poutine, qu’on le veuille ou non, apprtient aux vrais grands sur la scène politique internationale. Pourtant, il faut dire que la  politique qu’il préconise est très spéciale, ce que bon nombre de politiciens et de médiacrates occidentaux ne sont apparemment pas capables de comprendre. D’une part, Poutine est un libéral, un homme politique résolument tourné vers l’Occident; d’autre part, il est un défenseur acharné de laa  souveraineté et de l’indépendance russes. C’est pourquoi il s’oppose de front aux Etats-Unis et à  leurs intérêts géopolitiques. Poutine est donc simultanément libéral-démocrate et souverainiste. Il est ensuite un réaliste politique absolu, une personnalité politique non fantasque. Poutine serait par voie de  conséquence  le partenaire idéal de tout pays occidental qui accorderait à la  souveraineté une valeur identitque et aussi élevée. Mais les pays  d’Occident ont abandonné depuis longtemps les valeurs du réalisme politique...

Q.: Que voulez-vous dire par là?

AD: Voyez-vous, ce que croit l’Occident aujourd’hui, c’est qu’un jour toutes  les démocraties libérales abandonneront leur souveraineté et se fonderont dans une sorte de “super-nation” sous l’hégémonie américaine. Telle est bien l’idée  centrale de la globalisation à l’oeuvre aujourd’hui. Ce projet est irréalisable avec un Vladimir Poutine car il s’y oppose et défend la souveraineté russe. Ensuite, il ne reconnaît pas la  prétention américaine à exercer cette hégémonie en toute exclusivité. C’est là qu’il faut chercher la vraie raison des attaques acharnées que commet l’Occident contre lui et de sa diabolisation. C’est aussi la  raison pour laquelle l’Occident soutient de manière aussi spectaculaire l’opposition russe: il s’agit d’acquérir de l’influence et de consolider l’hégémonie occidentale.

Q.: D’après vous donc, Poutine fait tout ce qu’il faut faire...

AD: Bien sûr que non. Il a commis  des erreurs, notamment lors des dernières élections pour le Parlement. Elles n’ont pas été aussi transparentes qu’elles auraient dû l’être.

Q.: La critique occidentale s’adresse surtout aux élections présidentielles...

AD: Pourtant, lors de ces élections-là, c’était le contraire: elles ont été parfaitement transparentes. La  grande  majorité des électeurs  soutient Poutine, voilà tout, même si l’Occident ne peut ni ne veut le comprendre. L’étranger ne soutient qu’une minorité pro-américaine, ultra-libérale et hostile à toute souveraineté russe, pour qu’elle s’attaque à Poutine. Tel est l’enjeu. Voyez-vous, Poutine peut être bon ou mauvais en politique intérieure, cela n’a pas d’importance pour l’Occident. La mobilisation de ses efforts pour maintenir l’idée de souveraineté  —et pas seulement la souveraineté russe—  et l’existence d’un monde  multipolaire fait qu’il est la cible de toutes les attaques occidentales.

Q.: L’Ukraine aussi subit désormais de lourdes attaques médiatiques en provenance de l’Occident. C’est surtout la détention de Ioulia Timochenko  que critiquent les médias. Est-ce que l’enjeu en Ukraine est le même qu’en Russie?

AD: La situation en Ukraine est complètement différente, même si les critiques occidentales visent également la souveraineté du pays.

Q.: Le président ukrainien Viktor Ianoukovitch est considéré par les agences médiatiques occidentales comme “pro-russe”...

AD: C’est pourtant faux. Ianoukovitch tente de maintenir un équilibre politique entre la  Russie et l’Union Européenne. Bien sûr, il n’estp as aussi pro-occidental que ne l’était Mme Timochenko. Ce qui dérange l’Occident, c’est que Ianoukovitch s’est à nouveau rapproché de la Russie. C’est contraire aux intérêts atlantistes. Ioulia Timochenko est aujourd’hui le symbole de ce que l’on a appelé  la “révolution orange”  —que l’Occident a soutenu matériellement et idéologiquement en Ukraine. C’est pour cette raison  que les forces atlantistes la considèrent comme une héroïne.

Q.: Ce que l’on critique surtout, ce sont les conditions de  détention de Ioulia Timochenko. On dit que ces conditions bafouent lourdement les règles convenues quant aux droits de l’Homme...

AD: L’Occident utilise les droits de l’Homme à tour de bras pour pouvoir exercer influence et chantage sur les gouvernements qui lui déplaisent. Si l’on parle vrai et que l’on dévoile sans détours ses plans hégémoniques et ses véritables intérêts politiques, on obtient moins de succès que si l’on adopte un langage indirect et que l’on évoque sans cesse les droits de l’Homme. Voilà ce qu’il faut toujours avoir en tête.

Q.: Vous venez d’évoquer la “révolution orange” qui a secoué l’Ukraine en 2004. Les protestations et manifestations contre Poutine à Moscou, il y a quelques mois et quelques semaines, ont-elles, elles aussi, été une nouvelle tentative de “révolution colorée”?

AD: Absolument.

Q.: Pourquoi ces manifestations se déroulent-elles  maintnenant et pourquoi cela ne s’est-il pas passé auparavant?

AD: Il me paraît très intéressant d’observer le “timing”. Il y a une explication très simple. Le Président Dmitri Medvedev est considéré en Occident comme une sorte de nouveau Gorbatchev. L’Occident avait espéré que Medvedev aurait introduit des réformes de nature ultra-libérales lors de son éventuel second mandat présidentiel et se serait rapproché des Etats-Unis et de l’UE. Mais quand Medvedev a déclaré qu’il laisserait sa place de président à Poutine et qu’il redeviendrait chef du gouvernement, la “révolution” a aussitôt commencé en Russie.

Q.: Les protestations et manifestations visaient cependant les fraudes supposées dans le scrutin et le manque de transparence lors des présidentielles...

AD: Non, ça, c’est une “dérivation”. Il s’agissait uniquement d’empêcher tout retour de Poutine à la présidence. Une fois de plus, bon nombre d’ONG et de groupes influencés par l’Occident sont entrés  dans la danse. Cela a permis d’accroître l’ampleur des manifestations, d’autant plus que certains déboires el a politique de Poutine ont pu être exploités. La politique de Poutine n’a pas vraiment connu le succès sur le plan social et il restait encore quelques sérieux problèmes de corruption dans son système. C’était concrètement les points faibles de sa politique. Mais répétons-le: la révolte contre Poutine a été et demeure inspirée et soutenue par l’étranger et n’a finalement pas grand chose à voir avec ces faiblesses politique: il s’agissait uniquement de barrer la  route au souverainisme qu’incarne Poutine.

Q.: D’après vous, Medvedev serait pro-occidental...

AD: La politique russe est plus compliquée qu’on ne l’imagine en Occident. Laissez-moi vous donner une explication simple: d’une  part, nous avons le souverainiste et le Realpolitiker Poutine, d’autre part, nous avons les “révolutionnaires (colorés)” et les atlantistes ultra-libéraux soutenus par l’Occident. Medvedev se situe entre les deux. Ensuite, les oligarques comme, par exemple, Boris Abramovitch Beresovski qui vit à Londres, jouent un rôle important aux côtés des révolutionnaires ultra-libéraux.

Q.: A ce propos, on ne fait qu’évoquer la figure de Mikhail Khodorkovski, sans cesse arrêté et emprisonné. Dans les médias occidentaux, il passe pour un martyr du libéralisme et de la démocratie. Comment jugez-vous cela?

AD: Il représente surtout le crime organisé en Russie. Dans un pays occidental, on n’imagine pas qu’un individu comme Khodorkovski ne se retrouverait pas aussi en prison. Il est tout aussi criminel que les autres oligarques qui ont amassé beaucoup d’argent en très peu de temps.

Q.: Et pourquoi les autres ne sont-ils pas en prison?

AD: C’est là que je critiquerai Poutine: les oligarques qui se montrent loyaux à son égard sont en liberté.

Q.: Quelle a été la faute de Khodorkovski?

AD: Khodorkovski n’a fait que soutenir les positions pro-occidentales, notamment quand il a plaidé pour un désarmement de grande envergure de l’armée russe. Il a soutenu les forces libérales et pro-occidentales en Russie. Pour Khodorkovski, le “désarmement” de la  Russie constituait une étape importante dans l’ouverture du pays au libéralisme et à l’occidentalisation. Il fallait troquer l’indépendance et la souveraineté contre un alignement sur les positions atlantistes. Alors qu’il était l’homme le plus riche de Russie, Khodorkovski a annoncé qu’il était en mesure d’acheter non seulement les parlements mais aussi les électeurs. Il est même allé plus  loin: il a fait pression sur Poutine pour faire vendre aux Américains la plus grosse entreprise pétrolière russe, “Ioukos”.

Q.: Khodorkovski était donc opposé à Poutine en bien des domaines?

AD: Effectivement. Khodorkovski a ouvertement déclaré la guerre à Poutine. Et Poutine a réagi, fait traduire l’oligarque en justice, où il a été condamné, non pas pour ses vues politiques mais pour les délits qu’il a commis. Pour l’Occident, Khodorkovski est bien entendu un héros. Parce qu’il s’est opposé à Poutine et parce qu’il voulait faire de la Russie une part du “Gros Occident”. Voilà pourquoi de nombreux gouvernements occidentaux, les agences médiatiques et les ONG prétendent que Khodorkovski est un “prisonnier politique”. C’est absurde et ridicule. Ce qui mérite la critique, en revanche, c’est que dans notre pays un grand nombre d’oligarques sont en liberté alors qu’ils ont commis les mêmes délits que Khodorkovski. Ils sont libres parce qu’ils n’ont pas agi contre Poutine. Voilà la véritable injustice et non pas l’emprisonnement que subit Khodorkovski.

Q.: Peut-on dire que, dans le cas de Khodorkovski, Poutine a, en quelque sorte, usé du “frein de secours”?

AD: Oui, on peut le dire. Avant que Khodorkovski ait eu la possibilité de livrer à l’étranger le contrôle des principales ressources de la Russie, Poutine l’a arrêté.

Q.: Vous  parlez de groupes et d’ONG pro-occidentaux qui soutiennent en Russie les adversaires de Poutine et qui, en Ukraine et aussi en Géorgie, ont soutenu les “révolutions colorées”. Qui se profile derrière ces organisations?

AD: Celui qui joue un rôle fort important dans toute cette agitation est le milliardaire américain Georges Soros qui, par l’intermédiaire de ses fondations, soutient à grande échelle les groupements pro-occidentaux en Russie; A Soros s’ajoutent d’autres fondations américaines comme par exemple “Freedom House” dont les activités sont financées à concurrence de 80% par des fonds provenant du gouvernement américain. “Freedom House” finance par exemple la diffusion de l’ouvrage de Gene Sharp, politologue américain auteur de “The Politics of non violent Action”, auquel se réfèrent directement les “révolutionnaires colorés” d’Ukraine. Beaucoup d’autres groupements et organisations sont partiellement financés par le gouvernement américain ou par des gouvernements européens en Russie ou dans des pays qui firent jadis partie de l’Union Soviétique. Nous avons affaire à un véritable réseau. Toutes les composantes de ce réseau sont unies autour d’un seul objectif: déstabiliser la Russie pour qu’à terme le pays deviennent une composante de la sphère occidentale.

Q.: Est-ce là une nouvelle forme de guerre?

AD: On peut parfaitement le penser. Les révolutions colorées représentent en effet une nouvelle forme des guerre contre les Etats souverains. Les attaques produisent des effets à tous les niveaux de la société. Dans cette nouvelle forme de guerre, on ne se pas pas en alignant et avançant des chars ou de l’artillerie mais en utilisant toutes les ressources des agences de propagande, en actionnant la pompe à finances et en manipulant des réseaux avec lesquels on tente de paralyser les centres de  décision de l’adversaire. Et l’une des armes les plus importantes dans le nouvel arsenal de  cette nouvelle forme de guerre, c’est la notion des “droits de l’Homme”.

Q.: Monsieur Douguine, nous vous remercions de nous avoir accordé cet entretien.

Guillaume Faye’s Why We Fight

The Rectification of Names:
Guillaume Faye’s Why We Fight

By F. Roger Devlin

Ex: http://www.counter-currents.com/

Guillaume Faye
Why We Fight: Manifesto of the European Resistance
London: Arktos Media, 2011

Available from Counter-Currents [2] and from Amazon.com [3]

Guillaume Faye’s newly translated Kampfschrift aims to rally Europe, “our great fatherland, that family of kindred spirits, however politically fragmented, which is united on essentials, favoring thus the defense of our civilization.” He sees even nationalism as a kind of sectarianism which European man cannot afford at present: “when the house is on fire domestic disputes are put on hold.” For this reason, Faye has never belonged to the Front National, but has more recently lent support to the French Euronationalist organization Nationality-Citizenship-Identity (see www.nationalite-citoyennete-identite.com [4]).

Over three-quarters of the present volume is devoted to what a Confucian philosopher would call “the rectification of names [5].” It is interesting to observe how revolutionary ideologies are never able to express themselves in ordinary language. Being based upon a partial and distorted view of reality, they necessarily create a jargon all their own. Once they succeed in imposing it upon a subject population, they have won half their battle. Who exactly decided that loyalty to one’s people, known since time immemorial as patriotism and considered as one of the most essential virtues, would henceforth become the crime of racism? Faye’s “metapolitical dictionary” is a blow directed against such semantic distortion.

Here follows a brief sample:

Aristocracy: those who defend their people before their own interests. An aristocracy has a sense of history and blood lineage, seeing itself as the representative of the people it serves, rather than as members of a caste or club. Not equivalent to an economic elite, it can never become entirely hereditary without becoming sclerotic.

Biopolitics: a political project oriented to a people’s biological and demographic imperatives. It includes family and population policy, restricts the influx of aliens, and addressed issues of public health and eugenics.

Devirilisation: declining values of courage and virility for the sake of feminist, xenophile, homophile and humanitarian values.

Discipline: the regulation and positive adaptation of behavior through sanction, reward and exercise. Egalitarian ideology associates discipline and order with their excesses, i.e., with arbitrary dictatorship. But just the contrary is the case, for freedom and justice are founded on rigorous social discipline. Every society refusing to uphold law and order, i.e., collective discipline, is ripe for tyranny and the loss of public freedoms.

Germen: a people’s or civilization’s biological root. In Latin, germen means ‘germ’, ‘seed.’ If a culture is lost, recovery is possible. When the biological germen is destroyed, nothing is possible. The germen is comparable to a tree’s roots. If the trunk is damaged or the foliage cut down, the tree can recover—but not if the roots are lost. That’s why the struggle against race-mixing, depopulation and the alien colonization of Europe is even more important than mobilizing for one’s cultural identity and political sovereignty.

Identity: etymologically, ‘that which makes singular’. A people’s identity is what makes it incomparable and irreplaceable.

Involution: the regression of a civilization or species to maladaptive forms that lead to the diminishing of its vital forces. Cultural involution has been stimulated by the decline of National Education (40% of adolescents are now partially or completely illiterate), the regression of knowledge, the collapse of social norms, the immersion of youth in a world of audio/visual play [and] the Africanization of European culture.

Mental AIDS: the collapse of a people’s immune system in the face of its decadence and its enemies. Louis Pauwels coined the term in the 1980s and it set off a media scandal. In general, the more the neo-totalitarian system is scandalized by an idea and demonizes it, the more likely it’s true.

With biological AIDS, T4 lymphocytes, which are supposed to defend the organism, fail to react to the HIV virus as a threat, and instead treat it as a ‘friend’, helping it to reproduce. European societies today are [similarly] menaced by the collapse of their immunological defenses. As civil violence, delinquency and insecurity explode everywhere, police and judicial measures that might curb them are being undermined. The more Third World colonization damages European peoples, the more measures are taken to continue it. Just as Europe is threatened with demographic collapse, policies which might increase the birth rate are denounced and homosexuality idealized. Catholic prelates argue with great conviction that ‘Islam is an enrichment’, even as it clearly threatens to destroy them.

Museologicalization: the transformation of a living tradition into a museum piece, which deprives it of an active meaning or significance. A patrimony is constructed every day and can’t, thus, be conserved in a museum. Modern society is paradoxically ultra-conservative and museological, on the one hand, and at the same time hostile to the living traditions of identity.

Populism: the position which defends the people’s interests before that of the political class—and advocates direct democracy. This presently pejorative term must be made positive. The prevailing aversion to populism expresses a covert contempt for authentic democracy. For the intellectual-media class, ‘people’ means petits blancs—the mass of economically modest, non-privileged French Whites—who form that social category which is expected to pay its taxes and keep quiet. On the subjects of immigration, the death penalty, school discipline, fiscal policies—on numerous other subjects—it’s well known that the people’s deepest wishes as revealed in referenda and elsewhere never, despite incessant media propaganda, correspond to those of the government. Anti-populism marks the final triumph of the isolated, pseudo-humanist, and privileged political-media class—which have confiscated the democratic tradition for their own profit.

Resistance and Reconquest: faced with their colonization by peoples from the south and by Islam, Europeans, objectively speaking, are in a situation of resistance. Like Christian Spain between the Eighth and Fifteenth centuries, their project is one of reconquest. Resistance today is called ‘racism or ‘xenophobia’, just as native resisters to colonial oppression were formerly called ‘terrorists.’ A semantic reversal is in order here: those who favor the immigrant replacement population ought, henceforward, to be called ‘collaborators.’

Many of our false sages claim that it’s already too late, that the aliens will never leave, that the best that can be expected is a more reasonable form of ethnic cohabitation. [They] do so on the basis not of reasoned analysis, but simply from their lack of ethnic consciousness.

Revolution: a violent reversal of the political situation, following the advent of a crisis and the intervention of an active minority.

For Europeans, revolution represents a radical abolition, a reversal, of the present system and the construction of a new political reality based on the following principles: 1) an ethnocentric Eurosiberia, free of Islam and the Third World’s colonizing masses; 2) continental autarky, breaking with globalism’s free-trade doctrines; 3) a definitive break with the present organization of the European Union; and 4) a general recourse to an inegalitarian society that is disciplined, authentically democratic, aristocratic and inspired by Greek humanism. (Faye has previously written of the need for Euronationalists to reclaim the idea of revolution from the poseurs of the left.)

In a brief closing chapter, Faye answers the question posed by his book’s title:

We fight for Europe. We fight for a Europe infused with ideas of identity and continuity, of independence and power—this Europe that is an ensemble of ethnically related peoples. We fight for a vision of the world that is both traditional and Faustian, for passionate creativity and critical reason, for an unshakable loyalty and an adventurous curiosity, for social justice and free inquiry. We fight nor just for the Europeans of today, but for the heritage of our ancestors and the future of our descendents.

Faye’s writing has a bracing quality which never lapses into elegy or pessimism:

Nothing is lost. It’s completely inappropriate to see ourselves in the nostalgia of despair, as a rearguard, a last outpost, that struggles with panache for a lost cause. World events give us cause to believe that the situation is heading toward a great crisis—toward a chaos from which history will be reborn.

Two years after Why We Fight (2001), Faye published his analysis of the coming crisis under the title The Convergence of Catastrophes. This will be the next of Faye’s works to be brought out in English translation by Arktos.

 


Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

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