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lundi, 01 avril 2013

Le témoignage du neveu d'Hergé

Le témoignage du neveu d'Hergé

Herge16-171.jpgLe témoignage de George Rémi JUNIOR, le neveu d'Hergé, fils de son frère cadet, un militaire haut en couleur, cavalier insigne, auteur d'un manuel du parfait cavalier, est poignant, non seulement parce qu'il nous révèle un Hergé "privé", différent de celui vendu par "Moulinsart", mais aussi parce qu'il révèle bien des aspects d'une Belgique totalement révolue: sévérité de l'enseignement, difficulté pour un jeune original de se faire valoir dans son milieu parental, sauf s'il persévère dans sa volonté d'originalité (comme ce fut le cas...).

Sait-on notamment que le père de George Rémi junior avait été chargé d'entraîner les troupes belges à la veille de l'indépendance congolaise? Et qu'il a flanqué des officiers américains et onusiens, manu militari, à la porte de son camp qui devait être rendu aux Congolais au nom des grands principes de la décolonisation?

Le témoignage du fils rebelle, opposé à son père, se mue en une tendresse magnifique quand la mort rôde et va emporter la vie du fringant officier de cavalerie, assagi par l'âge et heureux que son fiston soit devenu un peintre de marines reconnus et apprécié. George Rémi Junior n'est pas tendre pour son oncle, certes, mais il avoue toute de même, à demi mot, qu'il en a fait voir des vertes et des pas mûres au créateur de Tintin.

Mais l'homme qui en prend plein son grade, dans ce témoignagne, n'est pas tant Hergé: c'est plutôt l'héritier du formidable empire hergéen, l'époux de la seconde épouse d'Hergé. George Rémi Junior entre dans de véritables fureurs de Capitaine Haddock quand il évoque cette figure qui, quoi qu'on en pense, gère toute de même bien certains aspects de l'héritage hergéen, avec malheureusement, une propension à froisser cruellement des amis sincères de l'oeuvre de George Rémi Senior comme le sculpteur Aroutcheff, Stéphane Steeman (qui a couché ses griefs sur le papier...), les Amis d'Hergé et leur sympathique revue semestrielle. Dommage et navrant: une gestion collégiale de l'héritage par tous ceux qui ne veulent en rien altérer la ligne claire et surtout le message moral qui se profile derrière le héros de papier aurait été bien plus profitable à tous...

George Rémi Junior rend aussi justice à Germaine Kiekens, la première épouse, l'ancienne secrétaire de l'Abbé Wallez, directeur du quotidien catholique "Le Vingtième Siècle", là tout avait commencé...

(RS)

George Rémi Jr, Un oncle nommé Hergé, Ed. Archipel, Paris, 2013 (Préface de Stéphane Steeman).

vendredi, 29 mars 2013

IMF viseert België

 
 
De logica van het IMF
 

IMF viseert België

Geschreven door Theo Van Boom

Ex: http://www.solidarisme.be/ 

In haar jaarlijks rapport heeft het Internationaal Monetair Fonds (IMF) woensdag de Belgische overheid aangespoord tot meer inspanningen voor de begroting.

De financiële sector is door de crisis flink gekrompen en heeft aan belang moeten inboeten ("getransformeerd" noemt men dat) en is nog steeds niet gestabiliseerd. Combineer dat met de publieke financiële situatie en de "macro-economische stabiliteit" komt aardig in het gedrang, aldus het IMF.

Wat export betreft hinkt ons land steeds verder achter op Nederland, Duitsland en Frankrijk. Een probleem dat het IMF natuurlijk wijt aan de arbeidskost, die sneller is gestegen dan in de buurlanden. Grote schuldige is natuurlijk (wat er nog overblijft van) de indexering, die "op de groei weegt".

U leest het, onze trubbels vallen te wijten aan een financiële sector, die jaren door IMF en EU aangespoord werd tot internationale expansie. Tot het misliep natuurlijk, waarna Fortis door Frankrijk werd overgenomen en Belfius moest genationaliseerd worden. Shame on us!

En verder zijn er onze sociale verworvenheden die "op de groei wegen". In Spanje en Griekenland zien we heel goed wat het IMF bedoelt: de industrie heeft daar recentelijk een immens herstel meegemaakt, waardoor ook de export terug goed boert. Dat kon omdat de lonen - en daarmee de binnenlandse consumptie - een vlucht naar beneden hebben genomen. Dat nemen we dan maar voor lief?

Als onderdeel van de befaamde Trojka, heeft het IMF haar modus operandi inmiddels wel duidelijk gemaakt. Begrotingsdiscipline en, als dat niet werkt, dan geven ze je pas een lening van zodra je het eigen land uitverkoopt en de eigen bevolking de rekening toeschuift.

Het IMF-rapport is nog maar een eerste stap. Maar als we onszelf geen besparingentsunami opleggen, dan zullen er ongetwijfeld meer concrete eisen volgen van mevrouw Lagarde en consoorten.

vendredi, 15 février 2013

L’IDEOLOGIA GIUSTIZIALISTA CONTRO LA VERA GIUSTIZIA

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L’IDEOLOGIA GIUSTIZIALISTA CONTRO LA VERA GIUSTIZIA

LA LEZIONE DI MARCEL DE CORTE

di Piero Vassallo

  Ex: http://www.riscossacristiana.it/

Dal gorgo oscuro, in cui Armando Plebe e i suoi ectoplasmi neodestri avevano immerso l'ingente e preziosa eredità del Novecento antimoderno, il sagace e instancabile Rodolfo Gordini ha salvato la memoria del filosofo belga Marcel de Corte (1905-1994) geniale interprete dell'aristotelismo cristiano.

 

Durante gli anni di piombo, De Corte, insieme con Ettore Paratore, Marino Gentile, Nicola Petruzzellis, Thomas Molnar, Vintila Horia, Alexandr Maximov, Maurice Bardèche, Francesco Pallottino, Ugo Spirito, Giano Accame, Giuseppe Sermonti Augusto Del Noce, Fausto Gianfranceschi, Mario Attilio Levi, Francesco Grisi, Marco Tangheroni, Roberto De Mattei, Cristina D'Ancona fu impavido protagonista degli Incontri romani della cultura refrattaria, splendidamente organizzati, da Giovanni Volpe, in un assediato e silenziato margine.

Risultato del salvataggio compiuto da Gordini è la splendida riflessione decorteiana sulla giustizia, un'opera idealmente dedicata agli orfani della cultura di destra, pubblicata da Cantagalli editore anticonformista di lungo corso in Siena.

Con scelta felice, Gordini ha affidato a un insigne filosofo del diritto, Danilo Castellano, il compito di selezionare e commentare i saggi controcorrente dell'insigne studioso belga.

Castellano, che negli anni  settanta si laureò discutendo, con Augusto Del Noce, una tesi sulla filosofia di De Corte (tesi che fu immediatamente pubblicata da Pucci Cipriani, editore controrivoluzionario in Firenze) è, infatti, l'esponente di punta della scuola di pensiero, costituita da cattolici intransigenti per la difesa e la restaurazione del diritto naturale, oggi tenuto sotto schiaffo dai testimoni cadaverici dei sogni mummificati dalla chiacchiera laica intorno alla giustizia democratica e progressiva.

Castellano rammenta, infatti, che "La polemica di De Corte è costruttiva sua perché ha per presupposto la metafisica della realtà sia perché è propriamente una denuncia delle assurdità della Modernità". E puntualmente cita i più vistosi controsensi: "La storia non ha, infatti, una direzione obbligata (la libertà dell'uomo sarebbe, in questo caso, un flatus vocis) l'evoluzionismo è una credenza ingenua (l'uomo, per esempio, continua ad essere uomo perché nato dall'uomo), la scienza non può avere per oggetto il proprio metodo anche se proposto e usato con rigore (la logica, infatti, non è fondativa ma dimostrativa) la filosofia non è un esercizio intellettuale ma apprensione di ciò che è in conformità alla sua essenza e al suo fine".

Castellano osa aggredire il feticcio della sovranità popolare, un prodotto della elucubrazione irrealistica, che capovolge le verità stabilite dal senso comune e impone leggi conformi all'assolutismo democratico: "L'elaborazione inflazionata di teorie sulla e della giustizia nel nostro tempo rappresenta la prova della riduzione della giustizia a strumento usato contro la vera giustizia. Spesso, infatti la giustizia ai nostri tempi è usata contro la giustizia, perché anziché essere cercata e individuata viene invocata ed elaborata sulla base e per l'applicazione di una teoria".

In anni avvelenati dalle ideologia a trazione soggettivistica, De Corte ha osato rivendicare i principi del realismo filosofico. Ha stabilito, infatti, che "la società reale non si fonda sulle decisioni di chi ne fa parte, ma su realtà oggettive e fisiche che sono loro comuni, anteriori alle loro rispettive volontà che, volenti o nolenti, devono regolarsi su queste realtà".

Di qui la puntuale e drastica confutazione delle ideologie che fondano il diritto sulla volontà e sulle passioni dei singoli: "La giustizia istituisce tra uomo e uomo una relazione sociale caratterizzata da una realtà per se stessa indipendente dalle passioni, sempre soggettive".

Fonte della legge non è il desiderio del soggetto fantasticante ma la società naturale, la famiglia, da cui il singolo dipende: "La società reale non si fonda sulle decisioni di chi ne fa parte, ma su realtà oggettive e fisiche che sono loro comuni, anteriori alle loro rispettive volontà che, volenti o nolenti, devono regolarsi su queste realtà".

Separate dal loro naturale fondamento, le società ispirate alle ideologie sono pseudo-comunità, "entità prive di esistenza reale i cui spettri dissimulano, per coloro che le immaginano, l'esistenza terribilmente reale, ma inavvertita delle loro vittime, di protesi più vive in apparenza, ma più costrittive quanto alle relazioni naturali con gli altri nelle varie società cui apparteniamo".

La società fondata dall'ideologia promuove la guerra contro la legge naturale ossia l'eversione e la dissoluzione della famiglia, onde l'imposizione di leggi infami e grottesche a vantaggio dell'infedeltà coniugale, della sterilità, della rivolta dei figli.

De Corte annuncia il destino di una società fondata da utopisti e demagoghi sul rifiuto di obbedire alla legge naturale: "la rivoluzione distruttrice di tutte le assise sociali naturali arriva rapidamente al suo apogeo, la dissocietà lascia il posto ad una ricostruzione della vita secondo lo schema ideologico; questa società nuova, privata dei suoi fondamenti di giustizia, può stare in equilibrio solo grazie a ciò che Nietzsche i ganci d'acciaio di uno Stato senza società".

Il fantasma della sovranità popolare abolisce la famiglia per istituire una società dominata da deformi controfigure dei genitori.

Generata dalla dissocietà moderna, la democrazia assoluta si rovescia in oligarchia e mette in scena i promotori dell'infelicità generale: il banchiere vampiresco, il parassita politicante, topo nel formaggio, il gabelliere sadico, il ministro sproloquiante, il pubblico ministero fustigante, il giornalista comiziante arroventato, la meretrice filosofante,  l'assistente sociale dissociante, la levatrice mortuaria, lo psichiatra sfrenante, il pederasta etico, il teologo ateo.

Il rito del suffragio universale uguale per tutti è una parentesi: "Non c'è uguaglianza tra il popolo e i suoi rappresentanti e ministri. Non c'è uguaglianza tra la maggioranza e la minoranza. La democrazia è in realtà una aristocrazia camuffata. ... Sotto il presunto regno del Numero e della Massa si nasconde il potere di un'oligarchia in cui si combinano, in misura variabile, la potenza del Denaro e quella del Sofisma, che hanno per scopo di far prendere ai cittadini imbrogliati lucciole per lanterne".

De Corte sostiene appunto che la democrazia moderna prospera su un ordine sociale alterato dalla falsa giustizia: "La rivoluzione conserva come una mummia la pseudo-società da essa generata".

In ultima analisi, si dimostra la vanità e la sterilità della politica nutrita dall'illusione di restaurare l'ordine usando gli strumenti consegnati dal potere democratico e rinunciando all'azione intesa alla bonifica del pensiero moderno.

L'ordine sociale, infatti, può essere restaurato solo dalla politica al seguito dell'azione propriamente missionaria svolta da una società di pensiero cristianamente ispirata e culturalmente attrezzata e perciò capace di contrastare efficacemente il Sofisma.

Già esistente ma divisa da infantili gelosie, tale società dovrebbe aderire alle ragioni dell'unità ed agire, per quanto oggi possibile, imitando l'esempio dei missionari che hanno convertito l'Europa pagana.

Le cocenti delusioni procurate dai reiterati e umilianti fallimenti della destra italiana dimostrano, ad ogni modo, l'illusorietà della politica pura, cioè priva del sostegno di un adeguato pensiero.

La lettura del testo decorteiani è pertanto suggerita al vasto popolo dei delusi in sosta dolente nel deserto prodotto dai discepoli politicanti di Plebe e dai successori di Gaucci. Un vuoto desolante, che solo la fedeltà al diritto naturale e alla sua fonte religiosa potrebbe finalmente colmare.

mardi, 05 février 2013

Le député indépendant Laurent Louis demande à la Belgique d'imiter l'exemple islandais!

Le député indépendant Laurent Louis demande à la Belgique d'imiter l'exemple islandais!

jeudi, 31 janvier 2013

Onwetende aspirant-leraren

Onwetende aspirant-leraren

Hoe zou dat komen?

door Freddy De Pauw

Ex: http://www.uitpers.be/

imagesCA3XD8SYAls we een enquête onder leerkrachten in opleiding mogen geloven, is het erg droevig gesteld met de algemene kennis in die groep. We geloven het, het was zelfs voorspelbaar. Ze is een gevolg van veel processen, waaronder de inhoud van het onderwijs zelf en de evolutie van de media. Men oogst wat men zaait. Maar vinden onze overheden dat wel erg?

Valt er iets aan te doen? De cijfers spreken voor zich. Ze zijn laag op bijna alle vlakken. Geografische kennis van zowel eigen land als de wereld, 30 % heeft blijkbaar geen idee dat de VS in Noord-Amerika liggen. Geschiedenis, de helft heeft geen idee wanneer ongeveer de slag van Waterloo plaats had. Bijna 30 % heeft geen flauw idee wanneer Colombus in Amerika terechtkwam. Recente geschiedenis? Voor 58 % kan de oorlog in Vietnam om het even wanneer geweest zijn. Mao Zedong? Twee derde weet niet dat die iets met China te maken had. Dagelijkse economie? De helft heeft blijkbaar geen idee wat de index van levensduurte is, bijna de helft weet niet wat inflatie betekent. Dat 85 % niet weet dat Herman Van Rompuy voorzitter van de EU-Raad is, wekt bijna leedvermaak op.

“Vakidioten”

Hoe is het zo ver kunnen komen dat er onder degenen die de komende generaties kennis en begrip moeten bijbrengen, zoveel zijn die daar zelf niet over beschikken? In de jaren 1960 ging de contestatie onder meer over de toen op stapel staande plannen voor hervormingen van het onderwijs. De contestatie ging tegen wat we “de vakidiotie” noemden, de tendens om de opleidingen steeds gespecialiseerder en zwaarder te maken, met minder oog voor “algemene vakken”. Om afgestudeerden te krijgen die zeer vakkundig zijn, maar die alleen buiten hun vakterrein kijken als ze door van buitenuit toe gestimuleerd zijn.

We kregen hoe dan ook een onderwijs waarin de plaats van vakken als aardrijkskunde en geschiedenis gemarginaliseerd werden. Of anders werden ingevuld, vaak met goede bedoelingen, bij voorbeeld om rond projecten te werken. Eén voorbeeld uit de vele waarin scholieren van 17-18 me vroegen voor bijstand: een groepje maakt een jaarwerk rond Silvio Berlusconi. Tijdens het gesprek heb ik het over Mussolini en het fascisme. Volslagen onbekend voor die scholieren. Met andere woorden: het elementaire historisch referentiekader ontbreekt. En dan hebben we het hier nog over een van de “elitescholen”.

Sinds de jaren 1990 zijn er al talrijke oproepen van wetenschapslui en onderwijsexperten geweest om geschiedenis en aardrijkskunde een betere plaats te geven. Enige kennis van die vakken is en blijft onontbeerlijk om een bruikbaar referentiekader te hebben, om de actualiteit van vandaag enigszins te kunnen plaatsen.

 Google

Daar wordt tegen opgeworpen dat dit voorbijgestreefd is gezien men om het even waar om op het even welk ogenblik een beroep kan doen op Google. Inderdaad, de mogelijkheden voor informatie en communicatie zijn zonder voorgaande. En toch is de enquête onder de toekomstige leerkrachten zeer symptomatisch voor de onwetendheid over wat er in de samenleving zowel dichtbij als ver gebeurt.

Google, Wikipedia enz. zijn bijzonder nuttige hulpmiddelen, geen vervangmiddelen. Als er geen referentiekader is, is er ook geen inzicht, elke context ontbreekt. Het leidt zeker niet tot beter begrip voor actuele toestanden.

Blinde vlekken

Nooit eerder verschaften technische middelen zoveel mogelijkheden om geïnformeerd te worden over wat er rondom ons en in de rest van de wereld gebeurt. We kunnen al meer dan twintig jaar oorlogen, rampen, trouwfeesten, sportgebeurtenissen rechtstreeks volgen. En toch helpt dit op zichzelf duidelijk niet. Informatie is immers koopwaar geworden, ze moet doen “verkopen”. Normen als accuraat, geduid, volledig… werden steeds meer ondergeschikt aan de hoofdnorm: winst maken. Uitgevers zijn geen mecenassen.

Controleren en in zijn context plaatsen, zijn niet zo lonend en dus niet nuttig in de concurrentiestrijd. Komen daar vaak duidelijke ideologische motieven bij: Mega-uitgever Rupert Murdoch legt zijn tientallen media (gedrukt, beeldmedia…) een strakke (zeer conservatieve) politieke lijn op. Gevolg is dat de lezer, luisteraar, kijker overspoeld wordt met “informatie” die aan de winstnorm moet beantwoorden. Dus zo weinig mogelijk duiding, laat staan analyse. Korte items, de klant niet vervelen met uitleg, “people” op alle vlakken. Inspelen op emoties, op voyeurisme eerder dan inspelen op zucht naar kennis en begrip.

Vooral bij sommige openbare omroepen zijn er pogingen om tegen de stroom op te roeien (bij de VRT en RTBF bijv.), maar ook zij moeten geloven aan de trend: Toen we in de jaren 1970 met Panorama begonnen, was het motto “De wereld ons dorp”, dat is verworden tot “Ons dorp de wereld”, zei journalist Walter Zinzen bij de begrafenis in 2002 van Julien Peeters, de journalist die met Panorama startte. (Tekst toespraak in archief van Uitpers).

Mondialisering

De betrekkelijke onwetendheid van de aspirant-leerkrachten in Vlaanderen is jammer genoeg niet uitzonderlijk. Decennia geleden was de toestand bij voorbeeld in de Verenigde Staten al veel erger. Een gevolg van de volledig op winst ingestelde media die al lang het principe huldigden van “ons dorp de wereld”, wat commercieel voordelig was. Maar ook van een onderwijs waarin bijzonder weinig aandacht was (en is) voor wat er buiten de eigen regio, laat staan buiten de VS aan de hand is.

Dat bleek telkens pijnlijk bij elk conflict waarbij de VS waren betrokken. Steevast had de overgrote meerderheid van de studenten geen enkel idee waar dat conflict ergens plaats had. Telkens weer stuurt Washington militairen naar landen waar de VS niets van afweten, een onwetendheid die doordringt tot de inlichtingendiensten.

Om dat tij te doen keren, is er meer nodig dan wat bijschaven. Het valt niet te keren met een mediawereld die vooral op winst uit is en, op lovenswaardige uitzonderingen na, de heersende neoliberale ideologie verspreidt. Aan het onderwijs kan wel worden gesleuteld, weliswaar in een ongunstige context van media en googleïsering.

Voorlopig tegen de stroom op roeien, zoals de vele initiatieven op het net: De Wereld Morgen en andere alternatieve bronnen zoals Uitpers.

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mardi, 08 janvier 2013

Une approche des surréalismes de Belgique

 

Une approche des surréalismes de Belgique

par Marc. Eemans 

Café Het Goudblommeke (55 rue des Alexiens 1000 Brussel) maart 1953. Van links naar rechts: Marcel Mariën, Camille Goemans, Gérard Van Bruaene, Irène Hamoir, Georgette Magritte, E.L.T. Mesens, Louis Scutenaire, René Magritte en Paul Colinet.

Tout comme l'histoire de la peinture et de la sculpture symbolistes belges doit encore être écrite, cela en dépit de nombreux et parfois remarquables travaux d'approche tels des catalogues d'expositions et de savantes monographies de détail ou d'ensemble, l'histoire de l'art surréaliste de Belgique reste encore à écrire. Certes, il existe déjà pas mal de publications à ce sujet, ne serait-ce que les innombrables livres parus à la louange de la peinture de René Magritte ou de Paul Delvaux. Il y a eu de même des esquisses de travaux d'ensemble qui pèchent, hélas, par manque d'objectivité ou d'information. Le travail le plus complet jusqu'ici est le beau livre de Madame José Vovelle, actuellement professeur en Sorbonne. Ce livre, édité en 1972 aux Editions André De Rache à Bruxelles, n'est toutefois qu'une thèse de doctorat de troisième cycle soutenue en 1968 à Paris.

Comme le dit un modeste "avertissement" en tête de ce très remarquable travail, "Depuis des documents inédits ont été divulgués et des études particulières ont précisé tel ou tel point de la matière envisagée". Et en effet, de nombreuses perspectives nouvelles se sont ouvertes, tandis que des faits tout aussi nouveaux ont tenté de brouiller celles-ci depuis la rédaction de l'ouvrage de Madame Vovelle.

Puisse le catalogue pour la présente exposition des oeuvres qui ont fait l'objet du legs Hamoir-Scutenaire rectifier quelque peu ces perspectives, et d'abord en précisant que ce que l'on présente généralement comme le surréalisme en Belgique n'est le plus souvent que le surréalisme de la "Société du mystère" (selon l'expression de Patrick Waldberg) de l'entourage de Magritte, et encore ... Bien souvent on oublie d'y ajouter le surréalisme du "Groupe surréaliste du Hainaut", en ignorant à peu près complètement l'éphémère effloraison du surréalisme liégeois avec Auguste Mambour, qui fut un remarquable surréaliste durant environ trois ans, et le couple Delbrouck-Defize qui exposa même un jour à Paris sous l'égide d'André Breton.

Deux femmes surréalistes wallonnes, qui relèvent plutôt du groupe surréaliste parisien, sont la Namuroise Marianne Van Hirtum et la Liégeoise Alika Lindberg, fille du poète Hubert Dubois, l'inspirateur du surréalisme de Mambour. Cette dernière figure toutefois dans les annales du surréalisme parisien sous le nom de Monique Watteau. Toutes deux semblent des inconnues pour les historiens du surréalisme belge, tout comme la Gantoise Suzanne Van Damme, l'épouse du surréaliste italien Bruno Capacci et l'amie des surréalistes bruxellois Paul Colinet et Marcel Lecomte. ·

C'est par ailleurs un lieu commun d'affirmer que si l'expressionnisme belge est flamand, le surréalisme belge serait wallon. Rien n'est moins vrai, car le maître à penser du surréalisme bruxellois, Paul Nougé, bien que d'origine française, avait une mère flamande, tout comme l'historiographe officiel du surréalisme belge, Marcel Mariën est anversois. Il en est de même pour son homonyme (également un oublié quoique surréaliste depuis 1926-1927), le collagiste Georges Mariën, chef de file de plusieurs collagisles surréalistes anversois.

N'oublions pas que Camille Goemans est le fils du Secrétaire perpétuel de l'Académie royale de Langue et de Littérature flamandes de Belgique et que E.L.T. Mesens se proclamait volontiers, ne serait-ce que par bravade ou provocation, "le flamingant de Londres". Fait est qu'en sa jeunesse présurréaliste celui-ci avait été un intime des poètes expressionnistes flamands Wies Moens et Paul Van Ostaijen ainsi que du futur chef fasciste flamand Joris Van Severen dont une grande amie de Magritte, la Flamande, quoique francophone Rachel Baes a été la fidèle égérie au point de se faire enterrer à ses côtés au cimetière d'Abbeville en France.

On néglige également l'apport pourtant important au surréalisme belge des Flamands Fritz Van den Berghe, tout au moins en son ultime période (1927-1939), de Maxime Van de Woestijne (il est le seul à représenter le surréalisme belge dans une petite monographie allemamle consacrée à l'ar1 surréaliste) et de nous-même, auteur d'un album contenant "dix formes linéaires influencées par dix formes verbales" (1930), le seul recueil vraiment surréaliste paru en langue néerlandaise, tout au moins en Flandre.

Comme on a bien voulu conférer à un dessinateur quelque peu naïf et sans le moindre talent le statut de surréaliste à part entière pour la seule raison qu'il est le neveu de Paul Colinet, pourquoi ne nous permettrions-nous pas de joindre également aux surréalistes belges un Jules Lempereur qui inspira par certains de ses dessins le livre de Marcel Lecomte intitulé "Connaissance des degrés", paru toutefois sans les arts dessins. Même dans les milieux officiels (Administration des Beaux-Arts et Musées) le surréalisme belge est devenu ûn vrai fourre-tout. C'est ainsi, par exemple, qu'à l'exposition "Werkelijkheid en verbeelding - Belgische Surrealisten" (Réalité et imagination - Surréalistes belges), qui s'est tenue à Arnhem du 12 juillet au 6 septembre 1964, nous retrouvons parmi les exposants James Ensor, Léon Spilliaert, Victor Servranckx , Jan Burssens, Marcel Delmotte et Octave Landuyt, sans oublier plusieurs peintres qur fréquentaient la taverne bruxelloise "Le Petit Rouge", promus surréalistes par E.L.T. Mesens du fait qu'il y avait ses habitudes lors de ses séjours, après guerre, dans sa ville natale...

***

Si l'on veut vraiment écrire une histoire objective des "surréalismes de Belgique", il conviendrait d'y reconnaître trois courants dont les prodromes sont un courant dadaïste ("Oesophage", "Marie"), un courant rationaliste , très valéryen ("Correspondance") et un courant métaphysique, proche des vues sur la poésie du poète flamand Paul Van Ostaijen ("Hermès").

Des trois courants seuls les deux premiers ont requis l'attention des historiens du surréalisme belge (voir e.a. le livre de José Vovelle et le catalogue de l'exposition "René Magritte et le Surréalisme en Belgique" (Musées royaux des Beaux-Arts de Belgrque, Bruxelles 24 septembre - 5 décembre 1982). Quant au troisième courant, fort proche du surréalisme de l'André Breton du "Second manifeste du Surréalisme", 1929, il ne prit vraiment corps qu'en 1930, lorsque Camille Goemans et Marc. Eemans eurent pris congé", du surréalisme à la Nougé-Magritte et Scutenaire, en fondant les Editions "Hermès".

La vraie soudure entre les surréalistes bruxellois se fit à l'occasion de ce qu'il est convenu d'appeler la "bataille du Casino de Saint Josse" (novembre 1926): Les futurs membres du groupe vinrent à cette manifestation en char à bancs (une initiative de Geert van Bruaene) accompagnés d'un "chevalier" mercenaire en armure, car les acteurs du "Groupe Libre" avaient averti leurs adversaires qu'ils seraient reçus sans ménagement. Il y eut en effet non seulement chahut, mais aussi bataille avec quelques blessés légers de part et d'autre, dont Camille Goemans.

Parmi les amis des futurs surréalistes il y avait outre Van Bruaene , trors Flamands, les poètes Gaston Burssens et Paul Van Ostaijen (à cette époque un associé de van Bruaene) ainsi que l'auteur de ces lignes qui fut le seul de ceux-ci à rejoindre le groupe.

Marc. Eemans entraîna dans son sillage son amie Irène Hamoir laquelle il venait d'apprendre les rudiments du surréalisme selon les préceptes du premier "Manifeste du surréalisme" de Breton, d'où la "Lettre à Irène sur l'automatisme". Hélas, pour Eernans ! l'"automatisme" n'était pas tout à fait à l'ordre du jour de surréalistes bruxellois loin de là ! Il avait oublié que ceux-ci étaient surtout férus d'insolite et de spéculations diverses sur les apparences des choses et de leur réalité la plus banale possible tout en les rangeant dans un ordre peu habituel. Seconde bévue d'Eemans au sein du groupe, fut sa traduction d'une "Vision" d'une mystique médiévale brabançonne, Soeur Hadewych. Selon lui, le déroulement de cette vision rejoignait la quête du mervetlleux des surréalistes. Il suivait en cela une des thèses de son ami Van Ostaijen selon laquelle, tout en n'accordant que peu de crédit à l'écriture automatique à la Breton, celui-ci prônait en poésie une exploitation consciente du subconscient, en faisant une distinction nette entre la poésie subconsciemment inspirée et la poésie consciemment construite. Selon Van Ostaijen, la première de ces deux poésies procéderait d'un état extatique et, si l'on n'est pas un mystique, cette poésie pourrait procéder d'un fonds de mythes et d'archétypes selon une psychologie des profondeurs comme l'a formulée un Carl Gustav Jung.

A l'époque, Eemans et Van Ostaijen étaient encore ignorants de la psychologie jungienne, mais en bon surréaliste Eemans se croyait autorisé à se référer au freudisme et à ses vues sur l'inconscient. Toutefois, sans connaître Jung, Van Ostaijen et Eemans s'étaient déjà convertis aux vertus de tout ce qui relèverait de l'irrationnel, du métaphysique el de l'hermétique : aussi bien la mystique, orthodoxe ou non, que l'occultisme, l'alchimie, la parapsychologie, le romantisme, surtout allemand, et le symbolisme, sans oublier l'art des fous et ce que l'on appellerait plus tard l'"art brut", bref tout ce qui. s'insère dans l'imaginaire, le féerique du "hasard objectif', le fantastique et le merveilleux visionnaire.

Que nous sommes loin d'un surréalisme à la Nougé - Magritte et surtout de la gratuité du dadaïsme à la Mariën ! mais proche du surréalisme du Breton qui croit à ce fameux "point suprême d'où la vie et la mort, le réel et l'imaginaire, le passé et le futur, le communicable et l'incommunicable cessent d'être perçus contradictoirement".

Et aussi que nous sommes encore loin de ce futur surréalisme "non-dit" de la revue "Hermès", celle-ci consacrée à l'étude comparée de la poésie, de la mystique el de la philosophie.

Marc. Eemans en devint un des deux directeurs et Camille Goemans y fut l'auteur des "Notes des Editeurs" ainsi que des "Notes sur la poésie et l'expérience" rédig ées en collaboration avec l'essayiste Joseph Capuano. Henri Michaux, ami de collège de Goemans, devint le secrétaire de rédaction de la revue et André Rolland de Renéville, l'auteur de "Rimbaud le Voyant", ainsi que Bernard Groethuysen et quelques autres spécialistes en la matière y entrèrent au comité de rédaction. La revue compta parmi ses collaborateurs Marcel Lecomte qui entretint ainsi certains contacts avec le groupe Nougé, Magritte et Scutenalre. Que de sérieux peu "surréaliste" dans tout cela dira-t-on ! Aussi le ludique E.L.T. Mesens fut-il, "très fâché" en traitant ses anciens amis de "petits curés"... Plus tard tout rentra toutefois dans l'ordre surréaliste et Camille Goemans re devint à la grande joie de celui-ci un riche acheteur d'oeuvres de Magritte. Quant à Eemans, il redevint l'ami intime de Mesens et l'on sait que le couple Scutenaire-Hamoir, ainsi que le brave et gentil Colinet, cessèrent de bouder le vieux complice de leur "Bande Bonnot".

Seul le caractériel Marcel Mariën (en raison d'une jalousie d'ordre sentimental!) et ses jeunes séides d'après-guerre ne cessèrent de harceler Eemans de leur hargne, bien que Tom Gutt lui ait toul récemment adressé quelques lettres fort courtoises...

Mais arrêtons ici ces trop brèves el peul-être trop subjectives notes sur les "surréalismes de Belgique". N'empêche qu'en dépit de récentes lois en matière de révisionnisme politique, il conviendrait de pratiquer pas mal de révisionnisme surréaliste en réagissant contre certaines déviations el dérives vers la facilité pseudo- ou néo-dadaïste et la grossièreté pure et simple sous prétexte de faire de l'anti-esthétique el de l'antifascisme.

Et souvenons-nous du fameux pamphlet de Salvador Dali à l'adresse des "cocus du vieil art moderne". Quoique l'on puisse en penser, il ne s'agit pas que d'humour "paranoïa-critique"…

Marc. Eemans

Mai 1995

Uit: Eemans, M. (1995), Une approche des surréalismes de Belgique. Bruxelles: Fondation Marc. Eemans : archives de l’art idéaliste et symboliste.

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lundi, 24 décembre 2012

Lode Claes en de Vlaamse Volkspartij

Lode Claes en de Vlaamse Volkspartij
 
Ex: Deltastichting - Nieuwsbrief Nr. 66 - December 2012
 
Onder deze titel werd kort geleden een “masterproef” ingediend bij de faculteit Letteren en Wijsbegeerte van de UGent. Auteur was Kristof Van de vijver, die daarmee grote onderscheiding behaalde. In zijn inleiding stelt de auteur dat hij nogal wat moeilijkheden moest overwinnen om zijn studie af te ronden: op Claes’ archief rust een embargo opgelegd door zijn weduwe Agnes Caers, die ook in persoonlijke contacten met Van de vijver weinig toeschietelijk was.

Hij moest dus wel beroep doen om “mondelinge geschiedenis”, via vraaggesprekken met toenmalige medestanders van Claes, onder andere met Luc Pauwels (die dan nog in de Provence woont) en met Wido Bourel, Els Grootaert, Roeland Raes en Francis Van den Eynde. Er is een uitgebreide bibliografie maar het ontbreken van ‘inside’ informatie laat zich voelen: over de mens Claes vernemen we té weinig, wat voor wie hem persoonlijk kende, echt té mager aanvoelt. Tot een echte schets van de persoonlijkheid komt Van de vijver amper en zijn studie schreeuwt echt om verder onderzoek, wat helaas maar na voormeld embargo zal kunnen gebeuren…

Levensschets

Lode Claes“Non-conformist en cavalier seul”, zo kan men Lode Claes best typeren. Hij was afkomstig van Borgerhout (17 juli 1913) uit een vlaamsgezinde familie. Hij was actief in het Algemeen Vlaams Studentenverbond, studeerde rechten in Leuven en was daar betrokken bij het A.K.V.S., het K.V.H.V. en het Verdinaso. In 1936 advocaat in Antwerpen, waarna hij in 1939 in München cursus ging volgen bij Karl Haushofer. In 1940 werkte hij voor de Nationale Landbouw- en Voedingscorporatie en werd onder burgemeester Jan Grauls schepen voor Groot-Brussel. Hij kreeg daarvoor 10 jaar hechtenis, waarvan hij 57 maanden zou vastzitten! Na zijn vrijlating werkte hij bij de Vlaamse Linie en later bij De Standaard. Na een moeilijke periode werd hij secretaris van de Economische Raad voor Vlaanderen, later beheerder bij de bankgroep Lambert. In 1968 kwam hij bij de Volksunie binnen, waar hij senator werd. Uit onvrede met het Egmontpact en evenzeer omdat hij zich niet meer thuis voelde bij softlinkse elementen en het compromisgerichte partijdeel trok hij zich in de zomer van 1977 terug en richtte hij in het najaar de Vlaamse Volkspartij op, tot eind 1979. Dan trok hij zich helemaal uit de partijpolitiek terug, werd directeur van Trends en schreef drie boeken: Het verdrongen verleden (in 1983), De afwezige meerderheid (in 1985) en De afwendbare nederlaag (in 1986). Hij bleef als publicist bedrijvig tot zijn overlijden in Cadzand op 16 februari 1997.

De Vlaamse Volkspartij

Lode Claes was een persoonlijkheid: hij stond moreel sterk en was ruim onderlegd en enorm belezen.  Hij was optimistisch wat betreft de toekomst van de Vlamingen in Brussel: eenmaal senator pleitte hij voor V.U.-regeringsdeelname en hij had nogal wat PVV-contacten. Toen hij zijn vertrek uit de V.U. aankondigde, werd er blijkbaar door de partij niet veel moeite gedaan om hem tegen te houden.

Vanaf juli 1977 kondigde hij de vorming van een eigen partij aan, en in een eerste korte fase was er druk contact met nationalisten als Karel Dillen en Leo Wouters, die al langer in onmin met de partij leefden. Op 19 november 1977 werd in Dilbeek de Vlaamse Volkspartij gesticht, van bij de aanvang een formatie die vooral intellectuelen en mensen uit de burgerij groepeerde, vooral uit Vlaams-Brabant.

Deze Vlaamse Volkspartij heeft in haar korte bestaan – met twee verkiezingen op twee jaar tijd – niet de kans gehad een uitgewerkt programma op te stellen. Een degelijk functionerende partijraad was er niet. Om dan toch een poging tot het opstellen van de politieke filosofie van de partij te schetsen, doe de auteur beroep op de “Verklaring van Dilbeek”, opgesteld op het eerste congres. Hij vermeldt 5 beginselen: 
  • Valorisatie van de Vlaamse meerderheid, aangevuld met (nogal vaag) Heelnederlands gedachtengoed
  • Herstel van de democratische instellingen van de rechtsstaat, met o.a. kiesrecht in plaats van kiesplicht
  • Ethische waarden: het gezin als hoeksteen, eerbied voro het leven, waarbij over abortus een open debat mogelijk moest zijn
  • Natuurlijke en nationale solidariteit
  • Verdediging van de vrije markteconomie.
In de praktijk profileerde de Vlaamse Volkspartij zich vooral als anti-Egmontpartij, onder andere door een massameeting in de Brusselse Magdalenazaal op 16 februari 1978. Eind 1977 had de Vlaamse Volkspartij net geen 1.000 leden en ontstonden voorzichtige gesprekken met Dillen’s V.N.P., die in de aanloop naar de vervroegde parlementsverkiezingen van december 1978 zouden leiden tot een kartel, het Vlaams Blok dat voor de Kamer 75.635 stemmen wist te sprokkelen. Dat leverde weliswaar één kamerzetel op, maar niet in Brussel met Lode Claes, maar wel in Antwerpen met Karel Dillen. Meteen werd het kartel stopgezet en volgde een leegloop van sympathisanten. Het werd voor Claes steeds dringender om zijn partij een nieuw elan te bezorgen, maar tegelijk kondigden veel kaderleden aan dat er definitief toenadering tot de V.N.P. moest worden gezocht. Dat leidde op het tweede partijcongres te Antwerpen – op 31 maart 1979 – tot een breuk: ongeveer 1/3de van de aanwezigen stemde voor besprekingen met Karel Dillen. Een afvaardiging nam meteen contact op. Lode Claes zette door met wat restte bij de V.V.P. en bereidde de Europese verkiezingen van 10 juli 1979 voor. Het werd een fiasco: slechts 34.706 stemmen, of 1,4%. Dat betekende meteen het einde van de partij: ze werd in de herfst in alle stilte ontbonden…

Besluit

De V.V.P was en bleef zo goed als een eenmanspartij. Na het mislukte congres en zeker na de Europese verkiezingen was de fut er bij Claes  wel helemaal uit. Zijn droom, zijn politieke ideeën ook met een partij uit te dragen, was voorbij. Zijn gebrek aan praktische ervaring met een politieke partij speelde hem al in een vroeg stadium parten: hij hechtte – terecht! – veel belang aan ideeën en achtergronden, maar al te weinig aan de vorming van militanten en kaderleden. Dat bracht mee, toen Claes geen perspectief  zag, en ook partijsecretaris Luc Pauwels zich terugtrok, dat de hele partij als het ware in rook opging. Tekenend is ook dat er niet écht gedacht werd aan het opstarten van een partijblad, wat de V.N.P. wel meteen deed…

De Vlaamse Volkspartij blijft een politieke eendagsvlieg, maar was tevens een boeiend fenomeen enerzijds door de persoonlijkheid van haar “stichter-voorzitter” Claes, anderzijds door haar opzet Vlaams-nationale en vrij-denkende ideeën bijeen te brengen en veelal politiek-ongebonden persoonlijkheden samen te laten werken.  De thesis van Van de vijver is, ondanks de hiervoor beschreven handicap, een verdienstelijk werkstuk, dat aanzet tot verder onderzoek!

(Karel Van Vaernewijck)

lundi, 26 novembre 2012

Marc. Eemans: Artikelen/Articles

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Marc. Eemans: Artikelen/Articles

sur: http://marceemans.wordpress.com/

vendredi, 09 novembre 2012

La légende d’Ulenspiegel

Les classiques de la culture européenne

La légende d’Ulenspiegel

par Jean-Joël BREGEON

Ex: http://fr.novopress.info/

MEMORABLES 2 – Les classiques de la culture européenne – La légende d’Ulenspiegel
 
Ce qui est mémorable est « digne d’être conservé dans les mémoires des hommes » dit Le Robert. Celle des Français, en ce début de siècle, semble de plus en plus courte. Dans le seul domaine littéraire, des auteurs tenus pour majeurs par des générations de lecteurs sont tout simplement tombés aux oubliettes. Pas seulement des écrivains anciens, de l’Antiquité, du Moyen Age, de la Renaissance ou des Temps modernes mais aussi des auteurs proches de nous, disparus au cours du XXème siècle.

Cette suite de recensions se propose de remettre en lumière des textes dont tout « honnête homme » ne peut se dispenser. Ces choix sont subjectifs et je les justifie par le seul fait d’avoir lu et souvent relu ces livres et d’en être sorti enthousiaste. Ils seront proposés dans le désordre, aussi bien chronologique que spatial, de manière délibérée. A vous de réagir, d’aller voir et d’être conquis ou critique. En tout cas, bonne lecture !

Charles de Coster. La légende d’Ulenspiegel au pays de Flandre et ailleurs.

Coster.jpgL’auteur d’abord : Charles de Coster. Il naît en 1827, d’un père yprois (Ypres) et d’une mère liégeoise. Des parents catholiques et tout fraîchement belges (le royaume vient d’être fondé, en 1830). De Coster va mener une vie contrariée, dans ses amours comme dans sa vie professionnelle. Formé par les jésuites, étudiant en droit et en lettres, contraint de travailler dans la banque puis d’enseigner à l’Ecole militaire de Bruxelles, il passe trop de temps à l’écart de ses passions, l’histoire, les lettres anciennes. Bel homme, altier, il n’est pas pris au sérieux sauf auprès d’une bande de bruxellois non-conformistes et bons vivants,la Société des Joyeux, fondée en 1847. Beaucoup de tintamarre chez ces étudiants prolongés qui ont en commun la détestation du parisianisme et du conformisme sulpicien, ultramontain, de la classe dirigeante belge.

De Coster a des peines de cœur – une muse qu’il ne peut séduire – et il s’épanche dans des poèmes plutôt mièvres. Puis il se met à adapter des légendes flamandes et des contes brabançons, dans une écriture un peu trop chantournée, très « troubadour ». La bonne inspiration lui vient tard lorsqu’il se trouve attelé à un travail d’archiviste qui le met en contact direct avec l’histoire dela Flandre. Il s’empare alors d’une légende un peu oubliée qui circule en plusieurs versions imprimées et traduite en français sous le titre : Histoire joyeuse et récréative de Till Ulespiegel (1559). La légende a déambulé dans toute l’Europe du Nord. Elle part d’un personnage réel, un paysan du Schleswig-Holstein qui vivait au début du XIVème siècle. Il se serait fait connaître par ses plaisanteries, ses farces touchant les bourgeois et les modes de vie citadins. Compilées, adaptées, déformées, rendues plus littéraires, les soties de Thyl Ulenspiegel (en néerlandais) parviennent jusqu’à De Coster qui les transfigure littéralement.

Il les recompose dans un français qui puise dans le terreau de la langue, du côté de Rabelais et de Montaigne. Au-delà de cette recréation langagière, truculente mais aussi savante et raffinée (la même démarche que celle de Louis-Ferdinand Céline), qui porte son récit, De Coster créé une épopée nationale, alliance de l’Iliade et de l’Odyssée, à la gloire d’une Flandre, frondeuse et joyeuse même dans les pires tourments. Son Thyl Ulenspiegel est  comme un lutin, un peu donquichottesque mais aussi homme libre, de fidélité, vrai paladin des libertés flamandes. Son compagnon, Lamme Goedzak est plutôt un Sancho Panca, mais sans la charge du personnage de Cervantès, moins niais, moins couard, porteur  de  la sagesse populaire.

Le nom du héros est « la conjonction de « Uyl », hibou, et de « Spiegel », miroir, qui désigne autant l’œil rond, toujours en éveil, de l’oiseau de nuit qui voit tout, que le miroir interne où se reflètent la turbulence et le fracas du monde extérieur » (P. Roegiers). Il est bien Thyl l’Espiègle et le mot français vient tout droit de lui, bouffon, badin, un peu fripon, toujours malin.

MEMORABLES 2 – Les classiques de la culture européenne

MEMORABLES 2 – Les classiques de la culture européenne – La légende d’Ulenspiegel

La légende d’Ulenspiegel est articulée en cinq livres. Tout part de Damme, l’avant port de Bruges :« A Damme, en Flandre, quand Mai ouvrait leurs fleurs aux aubépines, naquit Ulenspiegel, fils de Claers. » L’atmosphère de kermesse, directement inspirée des peintures bruegéliennes tourne court avec l’irruption des Espagnols décidés à maintenirla Flandre dans le giron de l’Eglise catholique et romaine et donc à extirper l’hérésie. Thyl perd son père, brûlé vif sous l’accusation de propos hérétiques. C’est en sa mémoire qu’il parcourtla Flandre et le Brabant, traqué par les « happe-chair » du terrible duc d’Albe. Il soulève les villes, accomplit des missions secrètes, entre dans des « bandes » pour faire la guerre aux Espagnols :

« Partant de Quesnoy-le-Comte pour aller vers le Cambrésis, il rencontra dix compagnies d’Allemands, huit enseignes d’Espagnols et trois cornettes de chevau-légers, commandées par don Ruffele Henricis, fils du duc, qui était au milieu de la bataille et criait en espagnol :

- Tue ! tue ! Pas de quartier ! Vive le Pape !… Ulenspiegel dit au sergent de bande :
- Je vais couper la langue à ce bourreau.
- Coupe, dit le sergent.
- Et Ulenspiegel, d’une balle bien tirée, mit en morceaux la langue et la mâchoire de don Ruffele  Henricis, fils du duc.
»

Philippe II, roi d’Espagne, est montré enfermé dans son palais-monastère de l’Escorial, ranci de bigoteries, jouissant de ses bas instincts. Le portrait est charge tout comme celui du clergé qui se nourrit de la superstition des humbles et les maintient dans la terreur de l’Enfer. Thyl veut vivre libre et jouir des plaisirs de la vie. Mais il a aussi la fidélité dans le sang. Son astuce lui donne mille idées pour venger veuves et orphelins et démasquer les traitres. Il est Achille mais aussi Ulysse car, à Damme, l’attend la tendre Nele, une autre Pénélope.

Mais la chair est faible et Ulenspiegel succombe lorsqu’il croise des filles bien délurées. A cette « fille rougissante » qui veut bien mais se méfie un peu : « Pourquoi m’aimes-tu si vite ? Quel métier fais-tu ? Es-tu gueux, es-tu riche ? »

Il lui répond sans détour : « Je suis Gueux, je veux voir morts et mangés des vers les oppresseurs des Pays-Bas. Tu me regardes ahurie. Ce feu d’amour qui brûle pour toi, mignonne, est feu de jeunesse. Dieu l’alluma, il flambe comme luit le soleil, jusqu’à ce qu’il s’éteigne. Mais le feu de vengeance qui couve en mon cœur, Dieu l’alluma pareillement. Il sera le glaive, le feu, la corde, l’incendie, la dévastation, la guerre et la ruine des bourreaux. »

Au cabaret, il mène le chœur, c’est la chanson des Gueux :

« Que le duc soit enfermé vivant avec les cadavres des victimes ! Que dans la puanteur, Il meure de la peste des morts !
Battez le tambour de guerre. Vive le Gueux !Et tous de boire et de crier : – Vive le Gueux !
Et Ulenspiegel, buvant dans le hanap doré d’un moine regardait avec fierté les faces vaillantes des Gueux Sauvages.
»

Pour Charles de Coster, la réception de son épopée par le milieu littéraire fut un désastre. A Paris et à Bruxelles on parla de récit sans queue ni tête, d’un « ingénieux rapiéçage d’anecdotes » et on réclama une traduction en « vrai français ». De Coster ne s’en remit pas. Il mourut à 52 ans, couvert de dettes, dans une mansarde, au 114 rue de l’Arbre Bénit à Bruxelles où allait naître 19 ans plus tard un autre iconoclaste des lettres belges : Michel de Ghelderode.

La gloire fut posthume, au début du XXème siècle et universelle. Grâce notamment à Verhaeren, on découvrit que De Coster avait écrit la « Bible flamande », un chef-d’œuvre traduit dans une dizaine de langues. En 1956, Gérard Philippe produisit le film Till l’espiègle qu’il tourna dans les studios de Berlin-Est, dans le plus pur réalisme socialiste. Ce fut un échec. L’œuvre de Charles De Coster avait été mieux servie par Richard Strauss qui en avait tiré un poème symphonique (Opus 28, 1894).

Devenue l’épopée nationale flamande,La Légended’Ulenspiegel prend aujourd’hui une singulière saveur. N’est-elle pas écrite par un Belge francophone, à la gloire de la partie néerlandophone de cette Belgique inventée par les cours d’Europe, il y a 182 ans ? Tout cela laisse augurer d’une partition à l’amiable, en bon voisinage, des deux entités belges. Au grand dam des eurocrates et pour la plus grande joie de Charles De Coster, l’Espiègle.

Jean-Joël Bregeon pour NOVOpress Breizh

* Charles de Coster – La Légende et les aventures héroïques, joyeuses et glorieuses d’Ulenspiegel et de Lamme Goedzak au pays de Flandres et ailleurs, Minos/La Différence, Paris, 2003.

dimanche, 04 novembre 2012

Tableau de Constantin Meunier

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Les femmes au tabac

Tableau de Constantin Meunier

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mardi, 30 octobre 2012

"Esquisses d'une Europe nouvelle" de Geneviève Duchenne

"Esquisses d'une Europe nouvelle" de Geneviève Duchenne

"Esquisses d'une Europe nouvelle. L'européisme dans la Belgique de l'entre-deux-guerres (1919-1939)" vient de paraître dans la collection Euroclio, aux éditions P.I.E. - Peter Lang.
Alors que ce n'est qu'à partir des années 1950 que le projet européen se traduit dans les institutions et dans les politiques, l'idée européenne, suscite déjà, et ce, dès l'entre-deux-guerres, de multiples initiatives.
Cet ouvrage issu d'une thèse de doctorat, souhaite apporter une contribution originale à la connaissance des courants européistes qui fleurirent dans la Belgique des années 1920 et 1930.
Fondé sur l'exploitation de sources multiples et inédites, il révèle la richesse insoupçonnée des projets et des mouvements engendrés dans le contexte de l'Europe de Versailles. Invitant à découvrir l'Europe telle que la conçurent la génération de la guerre et celle de la crise à travers leurs cadres mentaux, chronologiques et géographiques, cette étude met en lumière le rôle des cercles, des milieux ainsi que des moments-clés.
Elle place enfin l'accent sur les lieux qui de Genève à Vienne et Paris, puis de Bruxelles à Berlin, incarnent l'européisme de l'époque.

Présentation de l'éditeur (fichier .pdf)

En savoir plus sur l'auteur

Ce qu'on en dit...

«Le livre de Geneviève Duchenne, inspiré de sa thèse de doctorat, propose ainsi un « retour aux sources » de l’engagement européen belge et fait le point sur les projets européistes qui ont traversé la Belgique de l’entre-deux-guerres. C’est en fin de compte un travail pionnier que nous livre l’auteur». Matthieu Boisdron sur Histobiblio.com (Lire l'intégralité du compte-rendu)

Dans L'Écho:

«Dans la thèse de doctorat qu’elle vient de publier, l’historienne belge Geneviève Duchenne fait le point sur les courants européistes qui ont fleuri dans la Belgique des années 1920 et 1930. Elle révèle la richesse insoupçonnée des projets et des mouvements engendrés dans le contexte de l’Europe de Versailles. [...] L’intérêt de cet ouvrage est de voir comment une conception idéalisée de l’Europe (au milieu des nationalismes féroces de l’époque) a progressivement laissé la place à une approche plus pragmatique qui débouchera finalement sur les trois traités fondateurs d’après-guerre». (Bombaerts, J.-P., "L'idée européenne en Belgique avant le Traité de Rome", L'Écho, 11 mars 2008, p. 16)

Dans La Libre Belgique:

«Depuis sa création en 1831, la Belgique, "terre d'entre-deux", a entretenu une relation forte à l'Europe dont dépendait son existence. La guerre de 1914-18 lui conféra une intensité nouvelle dans le double souci de contrer le déclin du Vieux Continent, auguré par Oswald Spengler, et d'assurer sa paix par sa réunification. L'entre-deux guerres a dès lors vu fermenter plans, projets, débats, cercles d'étude, associations, publications. Cette période fut véritablement la matrice de la construction européenne après 1945.
Cette ébullition "européiste" en Belgique, avec ses espoirs et ses déboires, vient de faire l'objet d'un ouvrage magistral de Geneviève Duchenne, docteur en histoire de l'Université de Louvain, diplomée en "Taal en Kultuur" de la K.U.L., professeur invitée aux Facultés Saint-Louis de Bruxelles.» (Franck, J., "L'idée européenne 1919-39", La Libre Belgique, 21 mars 2008, article accessible via le site de La Libre)

Lire aussi Martin, P., "À bout portant : « La Belgique de l’entre-deux-guerres avait déjà un sens pratique de la future Europe »", Le Soir, 4 avril 2008

Cette publication a été le sujet des émissions Mémo (Jacques Olivier, La Première - RTBF-radio) des 19 et 26 avril 2008.

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vendredi, 26 octobre 2012

Hommage à Henry Bauchau

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Robert Steuckers:

Hommage à Henry Bauchau

 

Version abrégée de: http://robertsteuckers.blogspot.be/2012/10/henry-bauchau-un-temoin-sen-est-alle.html/ ).

 
Né à Malines en 1913, issu d’une vieille famille du Namurois, l’écrivain et poète belge Henry Bauchau vient de décéder, le 21 septembre dernier, à l’âge respectable de 99 ans. Qui a-t-il été? Dans les années 30, Henry Bauchau a milité dans tous les cercles intellectuels non conformistes catholiques de Belgique romane, qui entendaient répondre aux défis du communisme et des autres totalitairsmes tout en embrayant sur les désirs de justice sociale des jeunes générations. Cet ensemble de cercles cherchait à actualiser le discours de la “Jeune Droite” de Henry Carton de Wiart, née, comme le mouvement “daensiste” d’Alost, dans le sillage de l’encyclique papale “Rerum Novarum”. Cette “Jeune Droite” d’avant 1914 avait le souci traditionnel de l’éthique –le catholique doit demeurer inébranlable face au mal et au péché— mais n’était nullement anti-sociale, à l’instar des catholiques libéraux autour de Charles Woeste, car l’injustice est tout à la fois manifestation du mal et du péché; cette “Jeune Droite” n’est donc pas détachée des souffrances du menu peuple, également défendu par le Père Daens.
 

 

Dès le début des années 30, en août 1931 pour être exact, l’épiscopat et la direction cléricale de l’Université de Louvain, décident d’organiser un colloque où Léopold Levaux (disciple et exégète de Léon Bloy), le Recteur Magnifique Monseigneur Ladeuze, l’Abbé Jacques Leclercq (dont l’itinéraire intellectuel était parti des rénovateurs-modernisateurs du catholicisme, tels Jacques Maritain et Emmanuel Mounier, pour aboutir à une sorte de catho-communisme après 1945, avec l’apparition sur le théâtre de la politique belge d’un mouvement comme l’UDB qui restera éphémère) et... Léon Degrelle. On le voit: dès août 1931, le catholicisme belge va osciller entre diverses interprétations de son message éthique et social, entre “gauche” et “droite”, selon le principe de la “coïncidentia oppositorum” (chère à un Carl Schmitt en Allemagne). Dans le cadre de ces activités multiples, Bauchau se liera d’amitié à Raymond De Becker, celui que l’on nomme aujourd’hui, en le tirant de l’oubli, l’ “électron libre”, l’homme-orchestre qui, bouillonnant, va tenter de concilier toutes les innovations idéologiques, réclamant la justice sociale, qui émergeront dans les années 30. Quand De Man lance son idée planiste et critique le matérialisme outrancier des sociales-démocraties belge et allemande, De Becker, lié à Maritain et au mouvement “Esprit” de Mounier, cherchera à faire vivre une synthèse entre néo-socialisme (demaniste) et tradition catholique rénovée, où l’accent sera mis sur la mystique et l’ascèce plutôt que sur les bondieuseries superficielles et l’obéissance perinde ac cadaver du cléricalisme disciplinaire. Cet humaniste personnaliste, que fut De Becker, a cru que le bonheur arrivait enfin dans le royaume quand les catholiques ont formé une coalition avec les socialistes (où De Man était la figure de proue intellectuelle). Pour De Becker, et pour Bauchau dans son sillage, les éléments jeunes, qui cherchaient cette synthèse et voulaient jeter aux orties les scories du régime vieilli, aspiraient à un “ordre nouveau” (titre d’une brochure de De Becker dont la couverture a été illustrée par Hergé), un ordre qui ne serait pas une nouveauté radicale, respect des traditions morales oblige, mais une synthèse innovante qui unirait ce qu’il y a de meilleur dans les partis établis, débarrassés de leurs tares, héritage du “vieux monde” libéral, du “stupide 19ème siècle” selon Léon Daudet. Mais l’émergence du mouvement Rex de Degrelle déforce les catholiques dans le nouveau binôme politique formé avec les socialistes de Spaak et de De Man. L’Etat organique des forces jeunes, catholiques et néo-socialistes, n’advient donc pas. La guerre, plus que l’aventure rexiste, va briser la cohésion que ces milieux bouillonnants où De Becker jouait un rôle prépondérant. Disons-le une bonne fois pour toutes: c’est cette “déchirure” au sein des mouvements catholiques personnalistes et droitistes qui a envenimé définitivement la “question belge”, jusqu’à la crise de 2007-2011. Dans l’espace culturel flamand, la crise éthico-identitaire s’est déployée selon un autre rythme (plutôt plus lent) mais, inexorablement, avec les boulevedrsements dans les mentalités qu’a apporté mai 68, une mutation quasi anthropologique qui a notamment suscité les admonestations du nationaliste ex-expressionniste Wies Moens, alors professeur à Geelen dans le Limbourg néerlandais, le déclin éthique n’a pas pu être enrayé par un mouvement conservateur, “katéchonique”. Ni en Flandre ni a fortiori en Wallonie.

 

Avec la défaite de 1940, ce mouvement à facettes multiples va se disperser et, surtout, va être tiraillé entre l’“option belge” (la “politique de présence”), la collaboration, la résistance (royaliste) et l’engouement, dès les déboires de l’Axe en Afrique et en Russie, de certains anciens personnalistes (De Becker excepté) qui vireront au catho-communisme dès la fin de l’occupation allemande. Bauchau oscillera de l’option belge à la résistance royaliste (Armée Secrète). De Becker voudra une collaboration dans le cadre strict de la “politique de présence”. Degrelle jouera la carte collaborationniste à fond. Les adeptes de l’Abbé Leclercq opteront pour l’orientation personnaliste de Maritain et Mounier et chercheront un modus vivendi avec les forces de gauches, communistes compris.

 

Bauchau, dès le début de l’occupation, tentera de mettre sur pied un “Service du Travail Volontaire pour la Wallonie”, qui avait aussi un équivalent flamand. Ce Service devait aider à effacer du pays les traces de toutes les destructions laissées par la campagne des Dix-Huit Jours. Les Volontaires wallons aideront les populations sinistrées, notamment lors de l’explosion d’une usine chimique à Tessenderloo ou suite au bombardement américain du quartier de l’Avenue de la Couronne à Etterbeek. Il avait aussi pour ambition tacite de soustraire des jeunes gens au travail obligatoire en Allemagne. Les tiraillements d’avant juin 1940, entre catholiques personnalistes d’orientations diverses, favorables soit à Rex soit à un “Ordre Nouveau” à construire avec les jeunes catholiques et socialistes (demanistes), vont se répercuter dans la collaboration, première phase. De Becker refusera toute hégémonie rexiste sur la partie romane du pays. Il oeuvrera à l’émergence d’un “parti unique des provinces romanes”, qui ne recevra pas l’approbation de l’occupant et essuiera les moqueries (et les menaces) de Degrelle. La situation tendue de cette année 1942 nous est fort bien expliquée par l’historien britannique Martin Conway (in: Collaboration in Belgium, Léon Degrelle and the Rexist Movement, Yale University Press, 1993). La fin de non recevoir essuyée par De Becker et ses alliés de la collaboration à option belge et le blanc-seing accordé par l’occupant aux rexistes va provoquer la rupture. Bauchau avait certes marqué son adhésion à la constitution du “parti unique des provinces romanes”, mais le remplacement rapide des cadres de son SVTW par des militants rexistes entraîne sa démission et son glissement progressif vers la résistance royaliste. De Becker lui-même finira par démissionner, y compris de son poste de rédacteur en chef du “Soir”, arguant que les chances de l’Axe étaient désormais nulles depuis l’éviction de Mussolini par le Grand Conseil Fasciste pendant l’été 1943.

 

bauchauEnfBleu.gifBauchau participe aux combats de la résistance dans la région de Brumagne (près de Namur), y est blessé. Mais, malgré cet engagement, il doit rendre des comptes à l’auditorat militaire, pour sa participation au SVTW et surtout, probablement, pour avoir signé le manifeste de fondation du “parti unique (avorté) des provinces romanes”. Il échappe à tout jugement mais est rétrogradé: de Lieutenant, il passe sergeant. Il en est terriblement meurtri. Sa patrie, qu’il a toujours voulu servir, le dégoûte. Il s’installe à Paris dès 1946. Mais cet exil, bien que captivant sur le plan intellectuel puisque Bauchau est éditeur dans la capitale française, est néanmoins marqué par le désarroi: c’est une déchirure, un sentiment inaccepté de culpabilité, un tiraillement constant entre les sentiments paradoxaux (l’oxymore dit-on aujourd’hui) d’avoir fait son devoir en toute loyauté et d’avoir, malgré cela, été considéré comme un “traître”, voire, au mieux, comme un “demi-traître”, dont on se passera dorénavant des services, que l’on réduira au silence et à ne plus être qu’une sorte de citoyen de seconde zone, dont on ne reconnaîtra pas la valeur intrinsèque. A ce malaise tenace, Bauchau échappera en suivant un traitement psychanalytique chez Blanche Reverchon-Jouve. Celle-ci, d’inspiration jungienne, lui fera prendre conscience de sa personnalité vraie: sa vocation n’était pas de faire de la politique, de devenir un chef au sens où on l’entendait dans les années 30, mais d’écrire. Seules l’écriture et la poésie lui feront surmonter cette “déchirure”, qu’il lui faudra accepter et en laquelle, disait la psychanalyste française, il devra en permanence se situer pour produire son oeuvre: ce sont les sentiments de “déchirure” qui font l’excellence de l’écrivain et non pas les “certitudes” impavides de l’homme politisé.

 

En 1951, après avoir oeuvré sans relâche à la libération de son ami Raymond De Becker, qu’il n’abandonnera jamais, Bauchau s’installe en Suisse à Gstaad où il crée un Institut, l’Institut Montesano, un collège pour jeunes filles (surtout américaines). Il y enseignera la littérature et l’histoire de l’art, comme il l’avait fait, avant-guerre, dans une “université” parallèle qui dispensait ses cours dans les locaux de l’Institut Saint-Louis de Bruxelles ou dans un local de la rue des Deux-Eglises à Saint-Josse et à laquelle participait également le philosophe liégeois Marcel De Corte. Son oeuvre littéraire ne démarrera qu’en 1958, avec la publication d’un premier recueil de poésie, intitulé Géologie. En 1972, sort un roman qui obtiendra le “Prix Franz Hellens” à Bruxelles et le “Prix d’honneur” à Paris. Ce roman a pour toile de fond la Guerre de Sécession aux Etats-Unis, période de l’histoire qui avait toujours fasciné son père, décédé en 1951. Dans son roman, Bauchau fait de son père un volontaire dans le camp nordiste qui prend la tête d’un régiment composé d’Afro-Américains cherchant l’émancipation.

 

Bauchau-Henry-Mao-Zedon.jpgEn 1973, l’Institut Montesano ferme ses portes: la crise du dollar ne permettant plus aux familles américaines fortunées d’envoyer en Suisse des jeunes filles désirant s’immerger dans la culture européenne traditionnelle. A cette même époque, comme beaucoup d’anciennes figures de la droite à connotations personnalistes, Bauchau subit une tentation maoïste, une sorte de tropisme chinois (comme Hergé!) qui va bien au-delà des travestissements marxistes que prenait la Chine des années 50, 60 et 70. Notre auteur s’attèle alors à la rédaction d’une biographie du leader révolutionnaire chinois, Mao Tse-Toung, qu’il n’achèvera qu’en 1980, quand les engouements pour le “Grand Timonnier” n’étaient déjà plus qu’un souvenir (voire un objet de moquerie, comme dans les caricatures d’un humoriste flamboyant comme Lauzier).

 

Bauchau quitte la Suisse en 1975 et s’installe à Paris, comme psychothérapeute dans un hôpital pour adolescents en difficulté. Il enseigne à l’Université de Paris VII sur les rapports art/psychanalyse. En 1990, il publie Oedipe sur la route, roman situé dans l’antiquité grecque, axé sur la mythologie et donc aussi sur l’inconscient que les mythes recouvrent et que la psychanalyse jungienne cherche à percer. La publication de ce roman lui vaut une réhabilitation définitive en Belgique: il est élu à l’Académie Royale de Langue et de Littérature Française du royaume. Plus tard, son roman Antigone lui permet de s’immerger encore davantage dans notre héritage mythologique grec, source de notre psychè profonde, explication imagée de nos tourments ataviques.

 

bauchauBoulPéri.jpgBauchau est également un mémorialiste de premier plan, que nous pourrions comparer à Ernst Jünger (qu’il cite assez souvent). Les journaux de Bauchau permettent effectivement de suivre à la trace le cheminement mental et intellectuel de l’auteur: en les lisant, on perçoit de plus en plus une immersion dans les mystiques médiévales —et il cite alors fort souvent Maître Eckart— et dans les sagesses de l’Orient, surtout chinois. On perçoit également en filigrane une lecture attentive de l’oeuvre de Martin Heidegger. Ce passage, à l’âge mûr, de la frénésie politique (politicienne?) à l’approfondissement mystique est un parallèle de plus à signaler entre le Wallon belge Bauchau et l’Allemand Jünger.

 

L’an passé, Bauchau, à 98 ans, a sorti un recueil poignant de souvenirs, intitulé L’enfant rieur. Dans cet ouvrage, il nous replonge dans les années 30, avec l’histoire de son service militaire dans la cavalerie, avec les tribulations de son premier mariage (qui échouera) et surtout les souvenirs de “Raymond” qu’il n’abandonnera pas, sans oublier les mésaventures du mobilisé Bauchau lors de la campagne des Dix-Huit Jours. Bauchau promettait une suite à ces souvenirs de jeunesse, si la vie lui permettait encore de voir une seule fois tomber les feuilles... Il est mort le jour de l’équinoxe d’automne 2012. Il n’a pas vu les feuilles tomber, comme il le souhaitait, mais le manuscrit, même inachevé, sera sûrement confié à son éditeur, “Actes Sud”.

 

Bauchau n’est plus un “réprouvé”, comme il l’a longtemps pensé avec grande amertume. Un institut s’occupe de gérer son oeuvre à Louvain-la-Neuve. Les “Archives & Musée de la Littérature” de la Bibliothèque Royale recueille , sous la houlette de son exégète et traductrice allemande Anne Neuschäfer (université d’Aix-la-Chapelle), tous les documents qui le concerne (http://aml.cfwb.be/bauchau/html/ ). A Louvain-la-Neuve, Myriam Watthée-Delmotte se décarcasse sans arrêt pour faire connaître l’oeuvre dans son intégralité, sans occulter les années 30 ni l’effervescence intellecutelle et politique de ces années décisives.

 

Et en effet, il faudra immanquablement se replonger dans les vicissitudes de cette époque; le Prof. Jean Vanwelkenhuizen avait déjà sorti un livre admirable sur l’année 1936, montrant que les jugements à l’emporte-pièce sur la politique de neutralité, sur l’émergence du rexisme, sur la guerre d’Espagne et sur le Front Populaire français, n’étaient plus de mise. Cécile Vanderpelen-Diagre, dans Ecrire en Belgique sous le regard de Dieu, avait, à l’ULB, dressé un panorama général de l’univers intellectuel catholique de 1890 à 1945. Jean-François Fuëg (ULB), pour sa part, nous narre l’histoire du mouvement anarchisant autour de la revue et du cercle “Le Rouge et Noir” de Bruxelles, où l’on s’aperçoit que l’enthousiasme pour la politique de neutralité de Léopold III n’a pas été la marque d’une certaine droite conservatrice (autour de Robert Poulet) mais a eu des partisans à gauche. Enfin, Eva Schandevyl (VUB) nous dresse un portrait des gauches belges de 1918 à 1956, où elle ne fait nullement l’impasse sur le formidable espoir que les idées de De Man avait suscité dans les années 30. Mieux: les Facultés Universitaires Saint-Louis ont consacré en avril dernier un colloque à la mémoire de Raymond De Becker, initiative en rupture avec les poncifs dominants qui avait fait hurler de fureur un plumitif lié aux “rattachistes wallingants”.

 

Le chantier est ouvert. Comprendre l’oeuvre de Bauchau, mais aussi la trajectoire post bellum de De Becker et d’Hergé, est impossible sans revenir aux sources, donc aux années 30. Mais un retour qui doit s’opérer sans les oeillères habituelles, sans les schématismes nés des hyper-simplifications staliniennes et libérales, pour lesquelles les actions etl es pensées du “zoon politikon” doivent se réduire à quelques slogans simplistes que Big Brother manipule et transforme au gré des circonstances.

 

Robert Steuckers.

(Forest-Flotzenberg, 26 octobre 2012).

samedi, 20 octobre 2012

VRAAGGESPREK MET YVES PERNET

VRAAGGESPREK MET YVES PERNET OVER ZIJN VISIE OP EEN AANTAL ECONOMISCHE VRAAGSTUKKEN

http://vrijdietschland.blogspot.be/

Een tijdje geleden mocht ik enkele vragen stellen aan Yves Pernet (onafhankelijk politiek en economisch analist en overtuigd solidarist) over zijn visie op een aantal economische vraagstukken. Vragen én antwoorden vindt u hieronder.

- Madoc van Waas: Yves, hoe een autarkie (een 'gesloten' economisch systeem) tot stand brengen in een wereld waar de globalistische en kapitalistische logica alles domineert en de NAVO en andere supermachten (voornl. de VSA) (met kernwapens) klaar staan om ieder niet-kapitalistisch land te bedreigen en aan te vallen manu militari?

Yves Pernet: Wanneer men spreekt over een autarkie is het nodig om met bepaalde zaken rekening te houden. In de eerste plaats moet je bepalen over welk gebied je een autarkie wilt installeren. Bij mijn weten is er maar één land ter wereld dat ik in staat zie om een autarkie in te voeren en dat is Rusland. Zelfs wanneer men Europa als een geheel neemt, is de autarkie niet mogelijk vanwege de noodzaak aan fossiele brandstoffen. Discussiëren over de wenselijkheid en mogelijkheid van autarkie zijn mijn inziens leuke denkspelletjes, maar niet relevant in de wereld van vandaag de dag.

- MvW: En hoe zelfvoorziening tot stand brengen?

YP: Dat hangt er van af wat je onder zelfvoorziening verstaat. Bedoel je de autarkie, zoals hierboven reeds besproken, dan is het zo goed als onmogelijk. Wanneer je echter spreekt over de zelfvoorziening in basisbenodigdheden, dan is het een andere zaak. Door een herwaardering van de boerenarbeid in de eigen gemeenschap, door bijvoorbeeld het zoveel mogelijk afsluiten van voedselimport en de subsidiëring van de eigen landbouwproducten, kan men reeds in bepaalde mate zelfvoorzienend worden. Men mag echter ook de demografische realiteit niet vergeten en het historisch perspectief. Onze bevolkingsaantallen eisen nu eenmaal grote hoeveelheden voedselimport, een fenomeen dat reeds in onze streken gekend is sinds de late middeleeuwen. Reeds in de 15de eeuw was bijvoorbeeld het hertogdom Brabant voor meer dan 20% van zijn voedsel afhankelijk van import (toen vooral uit de Baltische staten).

- MvWHoe kunnen we de globalisering zo snel mogelijk een halt toeroepen?

YP: Twee woorden: koop lokaal. Zo simpel is het werkelijk. Negeer de grote multinationals zoveel je kan en ga inkopen doen in buurtwinkels. Dat is niet gemakkelijk, de kostprijs is vaak hoger en door de inflatie voel je dat veel sneller, maar dat is het snelste alternatief voor het globalisme. Voor de rest zal het globalisme zichzelf een halt toeroepen door gewoon in te storten. Het overleeft nu al door gigantische kapitaalinjecties in de economie.

- MvWHoe kunnen we de delokalisatie (wegtrekken van voornamelijk grote multinationale en industriële bedrijven) verhinderen en hoe kunnen we verankering tot stand brengen?

YP: Stoppen met het voortrekken van de grote multinationals en een ronduit vijandig beleid tegenover hen voeren. Daaraan een campagne koppelen om de eigen keuken te promoten en voor te trekken. Laat de vettaks maar komen en belast fastfood met een belastingsniveau van minstens 40%, terwijl je vitaminenrijk voedsel van eigen bodem een belastingsniveau van maximaal 5% toekent. De BTW-tarieven zijn een machtig wapen in het bepalen van consumptiegedrag. Dit zal in de eerste plaats zorgen voor banenverlies in de sectoren waar de multinationals aanwezig waren, maar men moet dit koppelen aan lagere kosten voor startende bedrijven (en lagere kosten voor kleine en middelgrote bedrijven tout court) om zo familiebedrijven en KMO's te ondersteunen om die gaten in de markt te vullen.

 
- Wat met ons monetair systeem (specifiek Europees maar ook globaal en internationaal)? Wat met de goudstandaard en hoe deze herinvoeren?

De  goudstandaard morgen hier invoeren heeft één gigantisch voordeel en één gigantisch nadeel. Het voordeel is dat we een gigantische toename aan rijkdom gaan kennen doordat miljarden en miljarden aan geld naar ons gaat vloeien. Het nadeel is dat andere staten met zoiets niet kunnen lachen, de kapitaalsvlucht zou hen fataal worden, en dat zij niet zullen aarzelen om manu militair dat beleid ongedaan te maken.

- Klassenstrijd of klassenverzoening?

Klassenverzoening, in de mate dat we binnenkort nog gaan kunnen spreken van de traditionele klassen.

- Leidt arbeid volgens jou tot zelfverwezenlijking? (En zo ja, maak je je dan niet schuldig aan dezelfde punten waar het liberalisme en het marxisme zich schuldig aan maken?)

Uiteraard leidt arbeid tot zelfverwezenlijking, dat is net wat de Derde Weg onderscheidt van de Verlichtingsideologieën. Marxisme ziet arbeid als een proces waarin de arbeider grondstoffen omvormt tot een product met meerwaarde, een liberaal ziet arbeid als een gegeven binnenin een groot productieproces dat moet leiden tot winst. Voor de Derde Weg is arbeid bijna een doel op zich, aangezien het net de mens aanzet tot zelfontplooiing. Uiteraard mag je arbeid niet verengen tot de dagelijkse beroepsbezigheden, maar moet je dit doortrekken naar alle vormen van menselijke activiteit waarbij men het ene goed omzet naar een ander, liefst met als doel een verrijking.

- Wat zijn je punten van kritiek op het marxisme?

Daar kan ik een halve bibliotheek over volschrijven. Mijn inziens is de kern van de marxistische filosofie, dan ben ik nog niet bezig over de praktische uitwerking, al ronduit ketters, wegens gebrek aan een ander woord. Het is een ketterij op het vlak van religieuze beleving, marxisme verkondigt immers een ronduit messianistisch beeld waarbij het Paradijs hier op Aarde gebouwd kan worden zolang we ons maar onderwerpen aan de marxistische dogmatische richtlijnen. Marxisten zullen verkondigen dat zij, in tegenstelling tot religie, zich niet onderwerpen aan dogma's, maar dat is niet waar. Zij zien het inderdaad niet als dogma's, maar als een onbediscussieerbare waarheid. Tenslotte komt het altijd op enkele dingen neer; de mens is alleen (geen God), de mens dient vrij te zijn van dogma's of religieuze axioma's, alle menselijke historische feiten zijn terug te brengen tot socio-economische factoren en de mens wordt momenteel onderdrukt doordat hij de vruchten van zijn arbeid niet krijgt. Ook is de mens een onbeschreven blad dat enkel slecht wordt door negatieve impulsen die hij krijgt door de conformering aan maatschappelijk gezag (normen, waarden en tradities). Een compleet fout mensbeeld, zo uit de waanbeelden van Rousseau geplukt. Niet dat ik dit metafysisch verwerp, aangezien de realiteit me gelijk geeft. Het voorste deel van onze hersenen bevatten onze remmingen. Zelfs extreme schade daaraan kunnen wij overleven, maar dan wordt de mens teruggebracht naar zijn primitieve gedragingsfase, namelijk zonder sociale conventies en normen en waarden. Resultaat? Een egoïstisch wezen dat enkel aan zijn eigen direct belang denkt. Biologie 1 – 0 marxisme dus. Het marxisme gelooft ook in de blinde Terreur in naam van de waarheid (cfr. Rousseau met de volonté générale, uitgevoerd door Robbespierre en de jacobijnen en vandaag de dag nog altijd verdedigd door mensen als Zizek).

Maar het marxisme trekt ook de mens los uit zijn historische, organische context en probeert de mens te ontdoen van zijn mythisch tijdsbesef en van de historische context. Mythisch tijdsbesef houdt in dat de mens zijn afkomst niet enkel historisch factueel ervaart (ik ben het kind van mijn ouders die kinderen waren van hun ouders die kinderen waren van hun ouders etc...), maar ook zich zal identificiëren met de mythische geschiedenis van zijn afkomst (ik ben deel van religieuze gemeenschap X, gesticht door religieus figuur X die mirakels Y en Z deed). Tevens rukt het de mens los uit z'n historische context doordat het de geschiedenis terugbrengt naar een optelsom van egoïstische daden of het smoren van vrijheid. Die twee dingen zijn uiteraard in grote mate aanwezig in de geschiedenis, maar zijn niet altijd de bepalende factor geweest.

Voor mijn kritiek op de praktische uitwerking van het marxisme moet ik enkel maar verwijzen naar succesverhalen van het marxisme. Voorbeelden zijn legio: Noord-Korea, Cambodja, de Sovjetunie, het Oostblok. Voor een regime als dat van Castro, en zelfs dat van Vietnam, kan ik nog wat sympathie opbrengen (veel meer voor eerstgenoemde dan voor laatstgenoemde), maar die regimes verschillen ook in de mate dat zij een nationalistische opstand waren waarbij de nationale en sociale breuklijnen gelijkvielen.

- Klopt de stelling van Marx dat er een wisselwerking is tussen economie en cultuur en is economie echt wel de onderbouw van de samenleving?

Kort gezegd: ja. Maar dat is niet enkel de visie van Marx, maar de visie van zowat elke serieuze persoon en organisatie die zich bezig houdt met politiek of economie. Ook de Kerk bijvoorbeeld erkent dat economie direct verbonden is aan maatschappelijke tendensen en heeft, onder andere, daarom een duidelijke sociaal-economische leer afgebakend. Het is echter niet allesbepalend.

- Ben jij een aanhanger van de vooruitgangsideologie?

Nee. Wanneer het aankomt op de strijd tussen “vooruitgang”, zoals geponeerd door de Verlichtingsdenkers, ben ik te plaatsen tussen de conservatieven en reactionairen.

- ...En moeten we niet naar een versobering (om gelukkiger te worden; dit is taboe en komt moeilijk aan de man, maar is het geen waardevolle gedachte)?

Dat klopt. Maar vertel tegen de gemiddelde man dat ons systeem er voor zorgt dat zijn brood en pint goedkoper wordt, dan zal die al snel bijdraaien.

- Distributisme is het verdelen van de productiemiddelen (arbeid, kapitaal, enz.) over de bevolking. Hoe werkt dit in de praktijk?

Dit boek http://www.amazon.co.uk/Toward-Truly-Free-Market-Distributist/dp/161017027X/ref=sr_1_1?ie=UTF8&qid=1327548333&sr=8-1 legt het veel beter uit dan dat ik ooit zou kunnen. Warm aanbevolen!

- Zijn investeringen van het grootkapitaal niet noodzakelijk om een economie draaiende te houden? 

Uiteraard. Maar men moet het grootkapitaal ook niet als een groot monoliet blok zien. Het grootkapitaal valt uiteen in grofweg twee sectoren. Enerzijds heb je de financiële sector die de grote geldstromen beheerst (niet zoals in een planeconomie, maar eerder zoals men met rivierdammen en sluizen een rivier probeert te beheersen) en zorgt voor het kapitaal van de tweede sector: de harde industriële sector die producten produceert en verspreidt. Investeringen zijn uiteraard nodig, maar de grote geldstromen en opbrengsten zijn heus niet gericht op de KMO's: die mogen de kruimels oprapen van de grote bedrijven. Het is fout om te spreken van de terreur  van vrije markt, aangezien we die niet hebben momenteel. Correcter is om te spreken van een globale oligarchie waarbij de kleintjes tevreden waren omdat de kruimels die groten lieten vallen groot genoeg waren. Helaas voor hen is de taart veel kleiner en valt er véél minder van tafel.

- KMO's zijn van enorm groot belang, maar kan je echt een hele economie draaiende houden met enkel KMO's? 

Het globalisme, zoals we dat vandaag de dag kennen, kan je daar niet mee draaiende houden. Je kan daar echter wel een mooi niveau van welvaart mee verzekeren en vooral inflatie mee onder controle houden (de geldcreatie en -stromen zullen afnemen). Vergeet trouwens niet dat het merendeel van de grote wereldrijken voor de opkomst van het kapitalisme gewone landbouwsamenlevingen waren.

- Hoe armoede het best bestrijden? 

Om te beginnen: activering van werklozen en achter de veren zitten. Een tijd ben ik meegestapt in het verhaal van “armen willen de werkloosheid heus niet”. Dat is een feit voor het merendeel van de armen, laat daar geen twijfel over bestaan. Maar ik weet ondertussen ook uit ervaring dat er effectief zijn die ronduit parasiteren op het systeem en niet de minste moeite doen. Liever de aandacht trekken met arm zijn dan er effectief iets aan te doen. Hoe cliché het mag klinken: de eerste stap uit de armoede is werk.

Maar vervolgens moet je die mensen ook opvolgen dat zij hun geld niet op gaan zuipen op café. Als er subsidies moeten zijn, laat die dan naar het middenveld gaan die, om het cru te zeggen, die mensen bezig houdt. Laat ze voor een goed doel werken, alles is beter dan niets doen en dan maar uit verveling zichzelf lam gaan zuipen.

- Wat met ontwikkelingshulp

In beperkte mate en doelsgericht kan dit van nut zijn. Nu dient het enkel om bestaande armoede te laten bestaan en in vele gevallen zelfs te vergroten. Het versmacht de lokale markten en verhindert elke opbouw van een eigen economie (door producten zoals voedsel in enorme massa's te dumpen en zo geen productiefactoren op te bouwen).

- Madoc van WaasWat vind je van de begroting 2012 van de regering-Di Rupo I ? En wat moet - conform het solidarisme - de verhouding belastingen/besparingen zijn in een begroting? 

Yves Pernet: Momenteel moet er voor 100% naar besparingen gekeken worden. Meer belastingen in tijden van crisis is verdedigbaar als je niet reeds onder zo'n gigantische belastingsdruk leeft als in België. Stroomlijn de administratie van de ambtenarij maar eens. Een voorbeeld: in de Knack van deze week staat een interview met iemand van Straten Generaal die vertelde hoe hij een e-post kreeg van een Vlaams minister met de vraag om een kopie van een document dat Straten Generaal een tijd daarvoor had opgevraagd. Waarom? Omdat Straten Generaal zo'n documenten sneller kon bovenhalen dan de Vlaamse administratie zelf. Veelzeggend. Maar ook in de cultuursector mag het grote mes. Cultuur is voor het overgrote merendeel altijd een private gelegenheid geweest m.b.t. financiëring. Openbare financiëring van kunst was in uitzonderlijke gevallen: bijvoorbeeld de financiëring van een standbeeld om iets te herdenken.

- Madoc van Waas: Bedankt voor dit vraaggesprek, Yves!

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lundi, 15 octobre 2012

Henry Bauchau: un témoin s’en est allé...

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Robert STEUCKERS:

Henry Bauchau: un témoin s’en est allé...

 

La disparition récente d’Henry Bauchau, en ce mois de septembre 2012, atteste surtout, dans les circonstances présentes, de la disparition d’un des derniers témoins importants de la vie politique et intellectuelle de nos années 30 et du “non-conformisme” idéologique de Belgique francophone, un non-conformisme que l’on mettra en parallèle avec celui de ses homologues français, décrits par Jean-Louis Loubet-del Bayle ou par Paul Sérant.

 

Pour Henry Bauchau, et son ancien compagnon Raymond De Becker, comme pour bien d’autres acteurs contemporains issus du monde catholique belge, l’engagement des années 30 est un engagement qui revendique la survie d’abord, la consolidation et la victoire ensuite, d’une rigueur éthique (traditionnelle) qui ployait alors sous les coups des diverses idéologies modernes, libérales, socialistes ou totalitaires, qui toutes voulaient s’en débarrasser comme d’une “vieille lune”; cette rigueur éthique avait tendance à s’estomper sous les effets du doute induit par ce que d’aucuns nommaient “les pensées ou les idéologies du soupçon”, notamment Monseigneur Van Camp, ancien Recteur des Facultés Universitaires Saint Louis, un ecclésiastique philosophe et professeur jusqu’à la fin de sa vie. Cette exigence d’éthique, formulée par Bauchau et De Becker sur fond de crise des années 30, sera bien entendu vilipendée comme “fasciste”, ou au moins comme “fascisante”, par quelques terribles simplificateurs du journalisme écrit et télévisé actuel. Formuler de telles accusations revient à énoncer des tirades à bon marché, bien évidemment hors de tout contexte. Quel fut ce contexte? D’abord, la crise sociale de 1932 et la crise financière de 1934 (où des banques font faillite, plument ceux qui leur ont fait confiance et réclament ensuite l’aide de l’Etat...) amènent au pouvoir des cabinets mixtes, catholiques et socialistes. L’historien et journaliste flamand Rolf Falter, dans “België, een geschiedenis zonder land” (2012) montre bien que c’était là, dans le cadre belge d’alors, une nouveauté politique inédite, auparavant impensable car personne n’imaginait qu’aurait été possible, un jour, une alliance entre le pôle clérical, bien ancré dans la vie associative des paroisses, et le parti socialiste, athée et censé débarrasser le peuple de l’opium religieux.

 

Un bloc catholiques/socialistes?

 

Les premiers gouvernements catholiques/socialistes ont fait lever l’espoir, dans toute la génération née entre 1905 et 1920, de voir se constituer un bloc uni du peuple derrière un projet de société généreux, alliant éthique rigoureuse, sens du travail (et de l’ascèse) et justice sociale. Face à un tel bloc, les libéraux, posés comme l’incarnation politique des égoïsmes délétères de la bourgeoisie, allaient être définitivement marginalisés. Catholiques et socialistes venaient cependant d’horizons bien différents, de mondes spécifiques et bien cloisonnés: la foi des uns et le matérialisme doctrinaire des autres étaient alors comme l’eau et le feu, antagonistes et inconciliables. La génération de Bauchau et de De Becker, surtout la fraction de celle-ci qui suit l’itinéraire de l’Abbé Jacques Leclerq, va vouloir résoudre cette sorte de quadrature du cercle, oeuvrer pour que la soudure s’opère et amène les nouvelles et les futures générations vers une Cité harmonieuse, reflet dans l’en-deça de la Cité céleste d’augustinienne mémoire, où la vie politique serait entièrement déterminée par le bloc uni, appellé à devenir rapidement majoritaire, par la force des choses, par la loi des urnes, pour le rester toujours, ou du moins fort longtemps. Henri De Man, leader des socialistes et intellectuel de grande prestance, avait fustigé le matérialisme étroit des socialistes allemands et belges, d’une sociale-démocratie germanique qui avait abandonné, dès la première décennie du siècle, ses aspects ludiques, nietzschéo-révolutionnaires, néo-religieux, pour les abandonner d’abord aux marges de la “droite” sociologique ou du mouvement de jeunesse ou des cénacles d’artistes “Art Nouveau”, “Jugendstil”. De Man avait introduit dans le corpus doctrinal socialiste l’idée de dignité (Würde) de l’ouvrier (et du travail), avait réclamé une justice sociale axée sur une bonne prise en compte de la psychologie ouvrière et populaire. Les paramètres rigides du matérialisme marxiste s’étaient estompés dans la pensée de De Man: bon nombre de catholiques, dont Bauchau et De Becker, chercheront à s’engouffrer dans cette brèche, qui, à leurs yeux, rendait le socialisme fréquentable, et à servir un régime belge entièrement rénové par le nouveau binôme socialistes/catholiques. Sur le très long terme, ce régime “jeune et nouveau” reposerait sur ces deux piliers idéologiques, cette fois ravalés de fond en comble, et partageant des postulats idéologiques ou religieux non individualistes, en attendant peut-être la fusion en un parti unique, apte à effacer les tares de la partitocratie parlementaire, à l’époque fustigées dans toute l’Europe. Pour De Becker, la réponse aux dysfonctionnements du passé résidait en la promotion d’une éthique “communautaire”, inspirée par le réseau “Esprit” d’Emmanuel Mounier et par certaines traditions ouvrières, notamment proudhoniennes; c’est cette éthique-là qui devait structurer le nouvel envol socialo-catholique de la Belgique.

 

Les jeunes esprits recherchaient donc une philosophie, et surtout une éthique, qui aurait fusionné, d’une part, l’attitude morale irréprochable qu’une certaine pensée catholique, bien inspirée par Léon Bloy, prétendait, à tort ou à raison, être la sienne et, d’autre part, un socialisme sans corsets étouffants, ouvert à la notion immatérielle de dignité. Les “daensistes” démocrates-chrétiens et les résidus de la “Jeune Droite” de Carton de Wiart, qui avaient réclamé des mesures pragmatiques de justice sociale, auraient peut-être servi de passerelles voire de ciment. Toute l’action politique de Bauchau et de De Becker dans des revues comme “La Cité chrétienne” (du Chanoine Jacques Leclercq) ou “L’Esprit nouveau” (de De Becker lui-même) viseront à créer un “régime nouveau” qu’on ne saurait confondre avec ce que d’aucuns, plus tard, et voulant aussi oeuvrer à une régénération de la Cité, ont appelé l’“ordre nouveau”. Cette attitude explique la proximité du tandem Bauchau/De Becker avec les socialistes De Man, jouant son rôle de théoricien, et Spaak, représentant le nouvel espoir juvénile et populaire du POB (“Parti Ouvrier Belge”). Et elle explique aussi que le courant n’est jamais passé entre ce milieu, qui souhaitait asseoir la régénération de la Cité sur un bloc catholiques/socialistes, inspiré par des auteurs aussi divers que Bloy, Maritain, Maurras, Péguy, De Man, Mounier, etc., et les rexistes de Léon Degrelle, non pas parce que l’attitude morale des rexistes était jugée négative, mais parce que la naissance de leur parti empêchait l’envol d’un binôme catholiques/socialistes, appelé à devenir le bloc uni, soudé et organique du peuple tout entier. Selon les termes mêmes employés par De Becker: “un nouveau sentiment national sur base organique”.

 

Guerre civile espagnole et rexisme

 

Pour Léo Moulin, venu du laïcisme le plus caricatural d’Arlon, il fallait jeter les bases “d’une révolution spirituelle”, basée sur le regroupement national de toutes les forces démocratiques mais “en dehors des partis existants” (Moulin veut donc la création d’un nouveau parti dont les membres seraient issus des piliers catholiques et socialistes mais ne seraient plus les vieux briscards du parlement), en dehors des gouvernements dits “d’union nationale” (c’est-à-dire des trois principaux partis belges, y compris les libéraux) et sans se référer au modèle des “fronts populaires” (c’est-à-dire avec les marxistes dogmatiques, les communistes ou les bellicistes anti-fascistes). L’option choisie fin 1936 par Emmanuel Mounier de soutenir le front populaire français, puis son homologue espagnol jeté dans la guerre civile suite à l’alzamiento militaire, consacrera la rupture entre les personnalistes belges autour de De Becker et Bauchau et les personnalistes français, remorques lamentables des intrigues communistes et staliniennes. Les pôles personnalistes belges ont fait davantage preuve de lucidité et de caractère que leurs tristes homologues parisiens; dans “L’enfant rieur”, dernier ouvrage autobiographique de Bauchau (2011), ce dernier narre le désarroi qui règnait parmi les jeunes plumes de la “Cité chrétienne” et du groupe “Communauté” lorsque l’épiscopat prend fait et cause pour Franco, suite aux persécutions religieuses du “frente popular”. Contrairement à Mounier (ou, de manière moins retorse, à Bernanos), il ne sera pas question, pour les disciples du Chanoine Leclercq, de soutenir, de quelque façon que ce soit, les républicains espagnols.

 

La naissance du parti rexiste dès l’automne 1935 et sa victoire électorale de mai 1936, qui sera toutefois sans lendemain vu les ressacs ultérieurs, freinent provisoirement l’avènement de cette fusion entre catholiques/socialistes d’”esprit nouveau”, ardemment espérée par la nouvelle génération. Le bloc socialistes/catholiques ne parvient pas à se débarrasser des vieux exposants de la social-démocratie: De Man déçoit parce qu’il doit composer. Avec le départ des rexistes hors de la vieille “maison commune” des catholiques, ceux-ci sont déforcés et risquent de ne pas garder la majorité au sein du binôme... De Becker avait aussi entraîné dans son sillage quelques communistes originaux et “non dogmatiques” comme War Van Overstraeten (artiste-peintre qui réalisara un superbe portrait de Bauchau), qui considérait que l’anti-fascisme des “comités”, nés dans l’émigration socialiste et communiste allemande (autour de Willy Münzenberg) et suite à la guerre civile espagnole, était lardé de “discours creux”, qui, ajoutait le communiste-artiste flamand, faisaient le jeu des “puissances impérialistes” (France + Angleterre) et empêchaient les dialogues sereins entre les autres peuples (dont le peuple allemand d’Allemagne et non de l’émigration); De Becker entraîne également des anarchistes sympathiques comme le libertaire Ernestan (alias Ernest Tanrez), qui s’activait dans le réseau de la revue et des meetings du “Rouge et Noir”, dont on commence seulement à étudier l’histoire, pourtant emblématique des débats d’idées qui animaient Bruxelles à l’époque.

 

On le voit, l’effervescence des années de jeunesse de Bauchau est époustouflante: elle dépasse même la simple volonté de créer une “troisième voie” comme on a pu l’écrire par ailleurs; elle exprime plutôt la volonté d’unir ce qui existe déjà, en ordre dispersé dans les formations existantes, pour aboutir à une unité nationale, organique, spirituelle et non totalitaire. L’espoir d’une nouvelle union nationale autour de De Man, Spaak et Van Zeeland aurait pu, s’il s’était réalisé, créer une alternative au “vieux monde”, soustraite aux tentations totalitaires de gauche ou de droite et à toute influence libérale. Si l’espoir de fusionner catholiques et socialistes sincères dans une nouvelle Cité —où “croyants” et “incroyants” dialogueraient, où les catholiques intransigeants sur le plan éthique quitteraient les “ghettos catholiques” confis dans leurs bondieuseries et leurs pharisaïsmes— interdisait d’opter pour le rexisme degrellien, il n’interdisait cependant pas l’espoir, clairement formulé par De Becker, de ramener des rexistes, dont Pierre Daye (issu de la “Jeune Droite” d’Henry Carton de Wiart), dans le giron de la Cité nouvelle si ardemment espérée, justement parce que ces rexistes alliaient en eux l’âpre vigueur anti-bourgeoise de Bloy et la profondeur de Péguy, défenseur des “petites et honnêtes gens”. C’est cet espoir de ramener les rexistes égarés hors du bercail catholique qui explique les contacts gardés avec José Streel, idéologue rexiste, jusqu’en 1943. Streel, rappelons-le, était l’auteur de deux thèses universitaires: l’une sur Bergson, l’autre sur Péguy, deux penseurs fondamentaux pour dépasser effectivement ce monde vermoulu que la nouvelle Cité spiritualisée devait mettre définitivement au rencart.

 

bau9782871064756.jpgLes tâtonnements de cette génération “non-conformiste” des années 30 ont parfois débouché sur le rexisme, sur un socialisme pragmatique (celui d’Achille Van Acker après 1945), sur une sorte de catho-communisme à la belge (auquel adhérera le Chanoine Leclercq, appliquant avec une dizaine d’années de retard l’ouverture de Maritain et Mounier aux forces socialo-marxistes), sur une option belge, partagée par Bauchau, dans le cadre d’une Europe tombée, bon gré mal gré, sous la férule de l’Axe Rome/Berlin, etc. Après les espoirs d’unité, nous avons eu la dispersion... et le désespoir de ceux qui voulaient porter remède à la déchéance du royaume et de sa sphère politique. Logique: toute politicaillerie, même honnête, finit par déboucher dans le vaudeville, dans un “monde de lémuriens” (dixit Ernst Jünger). Mais c’est faire bien basse injure à ces merveilleux animaux malgaches que sont les lémuriens, en osant les comparer au personnel politique belge d’après-guerre (où émergeaient encore quelques nobles figures comme Pierre Harmel, lié d’amitié à Bauchau) pour ne pas parler du cortège de pitres, de médiocres et de veules qui se présenteront aux prochaines élections... Plutôt que le terme “lémurien”, prisé par Jünger, il aurait mieux valu user du vocable de “bandarlog”, forgé par Kipling dans son “Livre de la Jungle”.

 

De la défaite aux “Volontaires du Travail”

 

Après l’effondrement belge et français de mai-juin 1940, Bauchau voudra créer le “Service des Volontaires du Travail de Wallonie” et le maintenir dans l’option belge, “fidelles au Roy jusques à porter la besace”. Cette fidélité à Léopold III, dans l’adversité, dans la défaite, est l’indice que les hommes d’”esprit nouveau”, dont Bauchau, conservaient l’espoir de faire revivre la monarchie et l’entité belges, toutefois débarrassée de ses corruptions partisanes, dans le cadre territorial inaltéré qui avait été le sien depuis 1831, sans partition aucune du royaume et en respectant leurs serments d’officier (Léopold III avait déclaré après la défaite: “Demain nous nous mettrons au travail avec la ferme volonté de relever la patrie de ses ruines”). Animés par la volonté de concrétiser cette injonction royale, les “Volontaires du travail” (VT) portaient un uniforme belge et un béret de chasseur ardennais et avaient adopté les traditions festives, les veillées chantées, du scoutisme catholique belge, dont beaucoup étaient issus. Les VT accompliront des actions nécessaires dans le pays, des actions humbles, des opérations de déblaiement dans la zone fortifiée entre Namur et Louvain dont les ouvrages défensifs étaient devenus inutiles, des actions de secours aux sinistrés suite à l’explosion d’une usine chimique à Tessenderloo, suite aussi au violent bombardement américain du quartier de l’Avenue de la Couronne à Etterbeek (dont on perçoit encore les traces dans le tissu urbain). Le “Front du Travail” allemand ne tolèrait pourtant aucune “déviance” par rapport à ses propres options nationales-socialistes dans les parties de l’Europe occupée, surtout celles qui sont géographiquement si proches du Reich. Les autorités allemandes comptaient donc bien intervenir dans l’espace belge en dictant leur propre politique, marquée par les impératifs ingrats de la guerre. Par l’intermédiaire de l’officier rexiste Léon Closset, qui reçoit “carte blanche” des Allemands, l’institution fondée par Bauchau et Teddy d’Oultremont est très rapidement “absorbée” par le tandem germano-rexiste. Bauchau démissionne, rejoint les mouvements de résistance royalistes, tandis que De Becker, un peu plus tard, abandonne volontairement son poste de rédacteur en chef du “Soir” de Bruxelles, puis est aussitôt relégué dans un village bavarois, où il attendra la fin de la guerre, avec l’arrivée des troupes africaines de Leclerc. L’option “belge” a échoué (Bauchau: “si cela [= les VT] fut une erreur, ce fut une erreur généreuse”). La belle Cité éthique, tant espérée, n’est pas advenue: des intellectuels inégalés comme Leclercq ou Marcel de Corte tenteront d’organiser l’UDB catho-communisante puis d’en sortir pour jeter les bases du futur PSC. En dépit de son engagement dans la résistance, où il avait tout simplement rejoint les cadres de l’armée, de l’AS (“Armée Secrète”) de la région de Brumagne, Bauchau est convoqué par l’auditorat militaire qui, imperméable à toutes nuances, ose lui demander des comptes pour sa présence active au sein du directorat des “Volontaires”. Il n’est pas jugé mais, en bout de course, à la fin d’un parcours kafkaïen, il est rétrogradé —de lieutenant, il redevient sergent— car, apparemment, on ne veut pas garder des officiers trop farouchement léopoldistes. Dégoûté, Bauchau s’exile. Une nouvelle vie commence. C’est la “déchirure”.

 

Comme De Becker, croupissant en prison, comme Hergé, comme d’autres parmi les “Volontaires”, dont un juriste à cheval entre l’option Bauchau et l’option rexiste, dont curieusement aucune source ne parle, notre écrivain en devenir, notre ancien animateur de la “Cité chrétienne”, notre ancien maritainiste qui avait fait le pèlerinage à Meudon chez le couple Raïssa et Jacques Maritain, va abandonner l’aire intellectuelle catholique, littéralement “explosée” après la seconde guerre mondiale et vautrée depuis dans des compromissions et des tripotages sordides. Cela vaut pour la frange politique, totalement “lémurisée” (“bandarloguisée”!), comme pour la direction “théologienne”, cherchant absolument l’adéquation aux turpitudes des temps modernes, sous le fallacieux prétexte qu’il faut sans cesse procéder à des “aggiornamenti” ou, pour faire amerloque, à des “updatings”. L’éparpillement et les ruines qui résultaient de cette explosion interdisait à tous les rigoureux de revenir dans l’un ou l’autre de ces “aréopages”: d’où la déchristianisation post bellum de ceux qui avaient été de fougueux mousquetaires d’une foi sans conformismes ni conventions étouffantes.

 

De la “déchirure” à la thérapie jungienne

 

L’itinéraire du Bauchau progressivement auto-déchristianisé est difficile à cerner, exige une exégèse constante de son oeuvre poétique et romanesque à laquelle s’emploient Myriam Watthée-Delmotte à Louvain-la-Neuve et Anne Neuschäfer auprès des chaires de philologie romane à Aix-la-Chapelle. Le décryptage de cet itinéraire exige aussi de plonger dans les méandres, parfois fort complexes, de la psychanalyse jungienne des années 50 et 60. Les deux philologues analysent l’oeuvre sans escamoter le passé politique de l’auteur, sans quoi son rejet de la politique, de toute politique (à l’exception d’une sorte de retour bref et éphémère par le biais d’un certain maoïsme plus littéraire que militant) ne pourrait se comprendre: c’est la “déchirure”, qu’il partage assurément, mutatis mutandis, avec De Becker et Hergé, “meurtrissure” profonde et déstabilisante qu’ils chercheront tous trois à guérir via une certaine interprétation et une praxis psychanalytiques jungiennes, une “déchirure” qui fait démarrer l’oeuvre romanesque de Bauchau, d’abord timidement, dès la fin des années 40, sur un terreau suisse d’abord, où une figure comme Gonzague de Reynold, non épurée et non démonisée vu la neutralité helvétique pendant la seconde guerre mondiale, n’est pas sans liens intellectuels avec le duo De Becker/Bauchau et, surtout, évolue dans un milieu non hostile, mais dont la réceptivité, sous les coups de bélier du Zeitgeist, s’amoindrira sans cesse.

 

Bauchau va donc rompre, mais difficilement, avec son milieu d’origine, celui d’une certaine bourgeoisie catholique, où l’on forçait les garçons à refouler leurs aspirations artistiques ou poétiques: ce n’était pas “viril” d’écrire des poèmes ou de devenir “artiste-peintre”. Bauchau constate donc, en s’analysant, avec l’aide des thérapeutes jungiens, qu’il s’est joué une comédie, qu’il a été en somme un “autre que lui-même”. Ce n’était pas le cas d’Hergé; celui-ci a bel et bien été lui-même dans la confection de ses bandes dessinées —tâche quotidienne, modeste et harassante— mais sa première épouse, Germaine Kiekens, ne prenait pas le métier de son mari au sérieux car, d’après elle, il manquait de panache: selon Philippe Goddin, le biographe le plus autorisé d’Hergé, elle préférait les hommes d’action au verbe haut, tranché et gouailleur, comme l’Abbé Wallez ou même Léon Degrelle, à son “manneken” de dessinateur, timide et discret. Ce n’est effectivement pas “viril”, dans la logique viriliste du bourgeoisisme (catholique comme libéral), de dessiner des personnages pour enfants.

 

L’exil, volontaire chez Bauchau, se résume par une parole d’Oedipe dans son roman “Oedipe sur la route”: “N’importe où, hors de Thèbes!”, explique la philologue louvaniste Myriam Watthée-Delmotte. La Belgique était devenue pour Bauchau ce que Thèbes était pour Oedipe. Myriam Watthée-Delmotte: “Il choisit donc de s’éloigner de ses cadres d’origine, qui ne lui ont valu que le malheur”. Le monde transparent qu’il a voulu avant-guerre, tout de propreté, ou de “blancheur” dira l’analyste jungien d’Hergé, n’existe pas: il n’y a dans la Cité que traîtrises, lâchetés, veuleries, hypocrisies ... Les postures héroïsantes, mâles, altières, religieuses, servantes, de ceux qui veulent y remédier envers et contre tout, et qu’il a voulu prendre lui-même parce qu’il était dans l’air de son temps, ne se diffusent plus dans une société gangrénée: elles sont vues comme un scandale, comme ennemies, comme liées à un ennemi haï et vaincu, même si l’attitude ultime de Bauchau a été de combattre cet ennemi. En d’autres termes, l’idéal d’un engagement de type scout, au nom d’un christianisme modernisé par Maritain et Mounier (que l’ennemi voulait pourtant combattre et abolir), est considéré dans la “Thèbes nouvelle” comme consubstantiel à l’ennemi, parce que non réductible aux postures officielles, imposées par les vainqueurs américains et soviétiques: le scout pense clair et marche droit, ne mâche pas de gomme aromatisée, ne fume pas de clopes made in USA, ne s’engage pas pour satisfaire ses intérêts matériels, n’est pas animé par la rage stérile de vouloir, en tous lieux, faire “table rase” du passé. “Thèbes”, une fois débarrassée de ces scouts, entre dans le processus fatidique où l’idéal ne sera plus Tintin mais où le modèle à suivre et à imiter, sera celui de Séraphin Lampion. La vulgarité et la médiocrité triomphent dans une Cité qui ne veut plus d’élites mais des égaux à l’américaine ou à la soviétique (Séraphin Lampion: “La musique, c’est bien... mais moi, dans la journée, je préfère un bon demi!”).

 

L’“enfant rieur” souffre toujours...

 

Dans les années d’immédiat après-guerre, Bauchau se débat contre l’adversité, encaisse mal le fait d’être rétrogradé sergent mais reste fidèle à ses amis d’avant 1940, surtout à celui qui l’avait amené, un jour, à Paris, voir le couple Maritain: il accueille la mère de Raymond De Becker, embastillé et voué aux gémonies, d’abord condamné à mort puis à la détention perpétuelle. Il ne laisse pas à l’abandon la vieille maman désemparée, qui avait accueilli chez elle, à Louvain, les amis de son fils dans le cadre du groupe “Communauté” (dont le futur Félicien Marceau). En 1950, il écrit une lettre bien balancée et poignante à Jacques Maritain pour lui demander de signer une pétition en faveur de la libération anticipée de De Becker. La souffrance d’avoir été littéralement “lourdé” par la Belgique officielle ne s’est jamais éteinte; Jean Dubois, ancien des VT, le rappelle dans un entretien accordé à Myriam Watthée-Delmotte, en évoquant un courrier personnel adressé à Bauchau en 1999: “Cela me fait mal de savoir que tu souffres toujours. Il faut se débarrasser de ce sentiment”. Une fois de plus, c’est par l’écriture que Bauchau tentera d’en sortir, en publiant d’abord “Le boulevard périphérique” (2008), où l’officier SS Shadow (L’ombre) est une sorte de “Grand Inquisiteur” à la Dostoïevski, pour qui le mal est inhérent à la condition humaine et qui se sert sans vergogne des forces de ce mal pour arriver à ses fins. Mieux: c’est en combattant ce mal, même s’il est indéracinable, que l’on s’accomplit comme le héros Stéphane, mort noyé alors que Shadow le poursuivait lors d’une opération commando. Et Shadow de ricaner: “c’est moi qui en a fait un héros, tout en poursuivant mes fins, qui ne sont point naïves”. Dans “L’Enfant rieur” (2011), les personnages des années 30 reviennent à la surface: “Raymond” n’est autre que De Becker, l’“Abbé Leclair” est bien sûr l’Abbé Leclercq et “André Moly” n’est sans doute nul autre qu’André Molitor.

 

Dans la littérature d’exégèse de l’oeuvre de Bauchau, on n’explicite pas suffisamment la nature de la thérapie qu’il a suivie chez Blanche Reverchon-Jouve, puis chez Conrad Stein. Quelle était cette thérapie dans le cadre général de la psychanalyse en Suisse (avec la double influence de Freud et de Jung)? Quelle méthode (jungienne ou autre) a-t-on employé pour faire revenir Bauchau à ce qu’il était vraiment au fond de lui-même? Quelle est la pensée psychanalytique de ce Babinski qui fut le maître de Blanche la “Sybille”, fille d’un condisciple français de Freud quand celui-ci étudait auprès de Charcot? Le résultat est effectivement que Bauchau, guéri pour une part de ses tourments, va désormais vivre ce qu’il a toujours voulu vivre au fond de soi, comme De Becker va accepter, grâce à ses lectures de prison, son homosexualité qu’il avait été obligé d’occulter dans les milieux qu’il avait fréquentés. Hergé, pour sa part, va refouler le “blanc” qui le structurait, qui envahissait son intériorité, au point, justement, de ne pas voir ou de ne pas accepter comme faits de monde, les travers infects de l’espèce humaine. Hergé, toutefois, va extraire de lui-même le “diamant pur” (dixit De Becker) et chanter l’indéfectible amitié entre les hommes, entre son Tintin et le personnage de Tchang, au-delà des césures et déchirures qu’imposent les vicissitudes politiques qui ravagent la planète et empêchent les hommes d’être eux-mêmes, de se compléter via leurs affinités électives, comme Tchang l’artiste-sculpteur, disciple chinois de Rodin, avait communiqué à Hergé quelques brillantes techniques de dessin. Bauchau constatera que la trahison, inscrite dans l’âme noire de l’humanité, domine les événements et qu’il est donc impossible de vivre l’éthique pure, “blanche” (l’âme pure, symbolisée par le cheval blanc de Platon), car elle se heurtera toujours à cet esprit malin tissé de trahisons, de méchancetés, de calculs sordides, à l’axiomatique (libérale) des intérêts bassement personnels (axiomatique que l’on considère désormais comme la seule assise possible de la démocratie, comme la seule anti-éthique autorisée, sous peine de basculer dans le “politiquement incorrect” et de subir les foudres des inquisiteurs). Tous les discours sur l’éthique, comme il en a été tenus dans les milieux fréquentés par Bauchau et De Becker avant-guerre, sont condamnés à n’être plus que des discours de façade, tenus par des professeurs hypocrites, des discours entachés de tous les miasmes générés par les mésinterprétations des “droits de l’homme”: ceux qui refusent les abjections de l’âme noire n’ont alors plus qu’une chose à faire, se tourner vers les arts, la poésie, les belles-lettres. Et ne doivent donc plus suivre l’Abbé Leclercq et ses avatars politiciens ou les clercs “aggiornamentisés”, qui déçoivent Bauchau et d’autres de ses anciens adeptes en tentant d’articuler un catho-communisme maritaino-mouniériste dans les années 45-50 puis en montant un PSC social-chrétien, appelé à gouverner de préférence avec les socialistes, quitte à perdre, au fil du temps et au fur et à mesure que les églises se vidaient, son aile droite, qui rejoindra en bonne partie les libéraux, quitte à sacrifier à tous les pragmatismes de piètre envergure pour terminer dans la “plomberie” d’un De Haene ou dans le festivisme délirant d’une Joëlle Milquet.

 

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Après son analyse sous la houlette thérapeutique de Blanche Reverchon-Jouve, de 1947 à 1949, après ses débuts en poésie, après ses premiers romans, Bauchau se révèle, comme Ernst Jünger, à qui il adresse de temps en temps un salut amical, un mémorialiste de très bonne compagnie littéraire: ses “Journaux” sont captivants, on y glane, sereinement, calmement, une belle quantité de “vertus” qui renforcent l’âme. Personnellement, j’ai beaucoup apprécié “La Grande Muraille – Journal de la Déchirure (1960-1965)” et “Passage de la Bonne-Graine – Journal (1997-2001)”. Dans “La Grande Muraille”, en date du 18 novembre 1961, on peut lire: “Dans mon horizon jusqu’ici la mort, si elle existe, n’a pas eu tant de place. Pourquoi? Peut-être parce que j’ai vécu autrement la guerre, qui, à côté de l’horreur, a été pour moi une époque d’espérance. J’étais soutenu par une force vitale puissante qui ne me permettait pas de croire vraiment à ma mort. Après la guerre c’est le désir de réussite, puis l’échec, qui ont été mes sentiments dominants. L’échec m’a paru pire que la mort”. Résumé poignant, sans explications inutiles, du destin de Bauchau. Le 23 novembre de la même année, on lit cette phrase de Lao-Tseu: “Celui qui connaît sa clarté se voile en son obscur”. Puis celle de Heidegger: “Ce qui ne veut que luire n’éclaire pas”. Toute la démarche post bellum de Bauchau s’y trouve: l’attitude altière du chef des VT est toute de clarté mais ignore sa part obscure (celle aussi de Shadow et du dictateur tudesque que ce personnage du “Boulevard périphérique” servait), une part obscure que l’analyse révèlera. En 1962, Bauchau fait la découverte d’Alain (une découverte qu’il partageait d’ailleurs avec Henri Fenet, sans connaître ce dernier, bien évidemment). Pour notre ancien des VT, Alain est le philosophe qui ne démontre pas, qui ne réfute pas ses homologues, mais “qui les suit, les croit sur parole, apprend d’eux jusque dans leurs erreurs” (6 janvier 1962). Alain incite Bauchau à abandonner toute posture expliquante, toute volonté de démontrer quoi que ce soit. Bauchau: “Alain me montre que je me suis trop occupé de moi, et pas assez du monde” (27 février 1962). Et le même jour: “La définition que donne Alain du bourgeois, l’homme qui doit convaincre, et du prolétaire, l’homme qui produit et qui a la sagesse et les limites de l’outil, est saisissante”. Bauchau dit adieu à sa classe bourgeoise qui, dans le Namurois de ses origines, dans le Bruxelles qui deviendra la “tache grise” de son existence, avait opté pour des postures catholiques, non républicaines au sens français du terme, toutes postures étrangères au réel concret, tissées qu’elles étaient de dérives donquichottesques ou matamoresques. “Le goût de l’explication est le grand obstacle. Se rapprocher de la nudité, de l’image et du fait intérieur, lui laisser son abrupt” (4 mars 1962). “... de dix-huit à trente-quatre ans j’ai vécu ma vie comme une grande aventure. Je juge aujourd’hui qu’elle fut mal fondée et sans issue. N’empêche qu’il y avait une vérité dans ce flux qui me soulevait et que parfois je retrouve dans les moments de création. J’étais aveugle, ligoté par le milieu et mes propres erreurs, mais j’ai vécu une aventure dont je dois retrouver le sens obscur pour accomplir ce que je suis. Il y a une justice que je ne puis encore me rendre car ma vue est encore offusquée par mes erreurs et leurs suites” (9 mars 1962).

 

Le 11 septembre 2001 et Francis Fukuyama

 

On le voit, la lecture des journaux de Bauchau est le complément idéal, et, pour les Wallons ou les Belges francophones, “national”, de la lecture des “Strahlungen” et des volumes intitulés “Siebzig verweht” d’Ernst Jünger. Il y a d’ailleurs un parallèle évident dans la démarche des deux hommes, l’un plongé dans les polémiques politiques de la République de Weimar, l’autre dans celles de la Belgique des années 30; ensuite, tous deux opèrent un repli sur les profondeurs de l’âme ou de la spiritualité, sur fond d’exil, avec les voyages de l’Allemand (au Brésil, en Méditerranée...) et l’éloignement volontaire de “Thèbes” du Wallon, en Suisse puis à Paris. Dans “Passage de la Bonne-Graine”, Bauchau, à la date du 11 septembre 2001, écrit, à chaud, quelques instants après avoir appris les attentats contre les tours jumelles de Manhattan: “L’état du monde sera sans doute changé par cette catastrophe. La guerre ne sera plus faite par des soldats mais par n’importe qui, maniant sans vraie direction politique des armes toujours plus puissantes. Ce ne sera plus l’armée adverse mais les fragiles structures des grandes villes mal protégées qui deviendront les objectifs des terroristes ou résistants. Comme Ernst Jünger l’a prévu, nous risquons d’aller vers la guerre de tous contre tous, dans un nihilisme croissant que cherchent à nous masquer le progrès foudroyant mais immaîtrisé des techniques et la dictature de la Bourse sur des chimères de chiffres, de peurs et d’engouements”. Le 19 septembre 2001, Bauchau note: “... la tristesse des événements d’Amérique et des redoutables lendemains qui s’annoncent si les dirigeants américains s’engagent dans le cycle fatal des vengeances”.

 

Le 4 octobre 2001: “Dans le dangereux glissement du monde vers l’assouvissement des désirs, la consommation, la technique, je puis à ma petite place rester fidèle à la vie intérieure et à la vérité artisanale de l’art vécu comme un chemin”. Puis, le 19 octobre, ce message politique que nous pouvons faire nôtre et qui renoue paisiblement, subrepticement, avec l’engagement non-conformiste des années 30: “Dans le ‘Monde’ du 18, un article de Francis Fukijama (sic) qui a annoncé il y a quelque années dans un livre la fin de l’histoire. Il soutient malgré les événements la même thèse, pour lui ‘le progrès de l’humanité au cours des siècles va vers la modernité que caractérisent des institutions telles que la démocratie libérale et le capitalisme (...). Car au-delà de la démocratie libérale et des marchés, il n’existe rien d’autre vers quoi aspirer, évoluer, d’où la fin de l’histoire’. La confusion entre la démocratie et le capitalisme est pour lui totale, alors qu’on peut se demander s’ils ne sont pas en réalité opposés. Considérer qu’il n’y a pas d’autre espérance que l’économie libérale et le marché me semble précisément tuer l’espérance, ce qui caractérise bien notre monde. Ce dont nous avons besoin, c’est d’une ou plusieurs nouvelles espérances, mais pas de celles qu’on tente —en excitant nos désirs— de nous vendre”. En dépit de son constat, fin des années 40, de l’impossibilité d’articuler un quelconque espoir par une revendication tout à la fois politique et éthique, Bauchau, à 88 ans, garde finalement un certain espoir, l’espoir en un retour d’une éventuelle nouvelle vague éthique, en un retour du sacré (bien que non chrétien désormais), en l’avènement d’une synthèse alliant peut-être Confucius, Bouddha et Maître Eckhart, une synthèse portant sur ses ailes un projet politique non démocrato-capitaliste. En formulant furtivement cet espoir, Bauchau cesse-t-il de penser dans la “déchirure”, cesse-t-il, fût-ce pour un très bref instant, fût-ce pour l’instant fugace d’un souvenir, fût-ce pour quelques secondes de nostalgie, de placer ses efforts d’écrivains dans l’espace béant de la “déchirure” permanente, comme le lui avait demandé Blanche Reverchon-Jouve, et renoue-t-il ainsi, pendant quelques minuscules fragments de temps, avec l’idéal de la “réconciliation”, entre catholiques et socialistes, entre “croyants” et “incroyants”? Retour à la case départ? Indice d’un non reniement? Assurément, mais cette fois dans la quiétude.

 

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Programme du colloque  

 

Mission accomplie!

 

Reste à inciter un chacun à lire le dernier beau recueil de poèmes de Bauchau, “Tentatives de louange” (octobre 2011). La boucle est désormais bouclée: le dernier grand personnage de notre non-conformisme des années 30 vient de franchir la ligne entre notre en-deça et un hypothétique au-delà. Il a réussi sa vie, malgré ses hésitations, malgré ses doutes et, mieux, ceux-ci l’ont aidé à accéder à l’immortalité du poète et de l’écrivain: l’université le célèbre, on l’étudie, il s’est taillé, comme Jünger, une niche dans notre espace culturel. Mieux, il est resté admirablement fidèle à son ami maudit, à Raymond De Becker, qu’il n’a jamais laché, comme il le lui avait promis avant-guerre, lors d’une retraite à Tamié en Savoie. L’Université a organisé enfin un colloque, en avril dernier, sur les multiples facettes de ce personnage hors du commun que fut De Becker, ce “passeur”, cet homme qui s’ingéniait à créer des “passerelles” pour faire advenir une meilleure politique et sortir de la cacocratie, ce proscrit mort dans la solitude et le dénuement en 1969. Le Lieutenant Bauchau a accompli sa principale mission, celle d’être fidèle à son serment de Tamié. Nous ne le dégraderons donc pas, pour notre part, car, sur ce chapitre, court et modeste mais intense et poignant, il n’a pas démérité. Il a sûrement appris la tenue de ce colloque sur De Becker aux Facultés universitaires Saint-Louis à Bruxelles, il a donc su, dans les quatre ou cinq derniers mois de sa vie, que son ami avait été quelque peu “réhabilité”: Henry Bauchau peut dormir en paix et les deux amis, jadis en retraite à Tamié, ne seront pas oubliés car ils auront planté l’arbre de leur espoirs (éthico-politiques) et de leurs aspirations à la quiétude, à une certaine harmonie taoïste, dans le jardin de l’avenir, celui auquel les forces catamorphiques du présentisme t du “bougisme” (Taguieff) n’ont pas accès, ne veulent avoir accès, tant elles mettent l’accent sur les frénésies activistes ou acquisitives. Pour l’avenir, nous nous mettrons humblement à la remorque du Lieutenant Bauchau car la politicaillerie a aussi laissé en nous des traces d’amertume sinon des “déchirures”, certes bien moins tragiques et qui ont suscité plutôt notre verve caustique ou notre morgue hautaine que notre désespoir, zwanze bruxelloise et souvenir d’ “Alidor” obligent. Passons à l’écriture. Passons à la méditation, notamment par le biais de ses “journaux” comme nous le faisons depuis tant d’années en lisant et relisant ceux d’Ernst Jünger.

 

Robert STEUCKERS.

(Forest-Flotzenberg, septembre/octobre 2012).

 

Bibliographie:

 

Oeuvres d’Henry Bauchau:

 

-          Tentatives de louange, Actes Sud, Paris, 2011.

-          Le Boulevard périphérique, Actes Sud, Paris, 2008.

-          La Grande Muraille – Journal de la ‘Déchirure’ (1960-1965), Actes Sud, 2005.

-          Oedipe sur la route, Actes Sud, Paris, 1990.

-          Passage de la Bonne-Graine – Journal (1997-2001), Actes Sud, Paris, 2002.

-          Diotime et les lions, Actes Sud, Paris, 1991.

-          Antigone, Actes Sud, Paris, 1997.

-          Poésie, Actes Sud, Paris, 1986.

-          L’enfant rieur, Actes Sud, Paris, 2011.

 

Sur Henry Bauchau:

 

-          Myriam WATTHEE-DELMOTTE, Bauchau avant Bauchau – En amont de l’oeuvre littéraire, Academia/Bruylant, Louvain-la-Neuve, 2002.

-          Geneviève DUCHENNE, Vincent DUJARDIN, Myriam WATTHEE-DELMOTTE, Henry Bauchau dans la tourmente du XX° siècle – Configurations historiques et imaginaires, Le Cri, Bruxelles, 2008.

-          Marc QUAGHEBEUR (éd.), Les constellations impérieuses d’Henry Bauchau, Actes du Colloque de Cerisy (21-31 juillet 2001), AML-Editions/Editions Labor, Bruxelles, 2003. Dans ces actes lire surtout:

-          A) Anne NEUSCHÄFER, “De la ‘Cité chrétienne’ au ‘Journal d’un mobilisé’”, p. 47-77.

-          B) Marc QUAGHEBEUR, “Le tournant de la ‘Déchirure’”, pp. 86-141.

 

Sur le contexte politique:

 

-          Eva SCHANDEVYL, Tussen revolutie en conformisme – Het engagement en de netwerken van linkse intellectuelen in België – 1918-1956, ASP, Brussel, 2011.

 

 

 

lundi, 08 octobre 2012

Gemeenteraadsverkiezingen als volksverlakkerij

Gemeenteraadsverkiezingen als volksverlakkerij

Edi CLIJSTERS

Ex: http://www.uitpers.be/  

 
Gemeenteraadsverkiezingen als volksverlakkerij
 

Fanny Wille & Kris Deschouwer, Over mensen en macht. Coalitievorming in de Belgische gemeenten, Brussel, ASP, 2012; 192 pp.

Je kan natuurlijk, een oud anarchistisch motto indachtig, van oordeel zijn dat verkiezingen in een burgerlijke democratie eigenlijk altijd en hoe dan ook volksverlakkerij zijn, want “als verkiezingen écht iets zouden veranderen, waren ze al lang afgeschaft”.

Je kan ook geloven dat die burgerlijke democratie vooralsnog het minst slechte van de reëel bestaande systemen is om het volk enige inspraak  te geven in de beleidsvorming. En dat in gemeenten – bakermat bij uitstek van democratische rechten en vrijheden – verkiezingen de mensen meer aanspreken, juist omdat ze nauwer aansluiten bij wat die mensen dag-in, dag-uit rond zich zien.

Helaas: zoals dat wel vaker het geval is, houdt dit beate wensdenken geen stand wanneer het aan ernstig onderzoek wordt onderworpen. Wat betreft de motivatie van de kiezer, spreken de cijfers voor zich : ondanks de (theoretische) opkomstplicht, laten ook bij verkiezingen voor gemeente- of provincieraden ongeveer enkele honderdduizenden kiesgerechtigde burgers het afweten (dat is zo'n 5 à 7 procent, ongeveer hetzelfde percentage als bij regionale of nationale verkiezingen).
De grotere nabijheid van kandidaten en thema's blijkt dus niet van aard om kiezers sterker te motiveren. Je kan dus met recht en reden de vraag stellen wat er zou gebeuren indien de opkomstplicht werd afgeschaft. Met name dan op gemeentelijk vlak. Want een recent boek van twee VUB-politologen heeft wel verrassende dingen – en zelfs een ronduit schokkend feit - aan het licht gebracht over het allesbehalve democratische karakter van die verkiezingen-onder-de-kerktoren.

Nu ja ...aan het licht gebracht ? Het onderzoek bevestigt een dubieus verschijnsel dat op lokaal vlak vaak werd vermoed of zelfs aangetoond, maar toch een bijzondere relevantie krijgt nu blijkt dat het schering en inslag is. In tal van gemeenten wordt namelijk al (lang) voor de gemeenteraadsverkiezingen via geheime voor-akkoorden uitgemaakt hoe de toekomstige bestuurscoalitie er zal uitzien. Het kiezerspubliek in het algemeen en de eigen achterban in het bijzonder wordt daarover geheel in het ongewisse gelaten. En tenzij de kiezers een (lokale...) politieke aardverschuiving teweegbrengen, tellen ze dus alleen maar mee “voor spek en bonen”.
Verrassend ? Schokkend ? Leerrijk in elk geval. En daarom een element in het boek dat helaas te weinig in de verf wordt gezet door de auteurs zelf, én – driewerf helaas – ook door de commentatoren die de praktijken (zouden moeten) kennen.

Maar eerst iets meer over het boek. Dat is gebaseerd op het onderzoek waarop Wille aan de VUB promoveerde, en wil zo diep mogelijk “doordringen in de zwarte doos” van de coalitievorming op lokaal niveau. Daartoe worden diverse theorieën m.b.t. coalitievorming besproken en getoetst aan de lokale realiteit – die er doorgaans heel anders uitziet. Vervolgens worden systematisch de opeenvolgende stappen ontleed die leiden tot de vorming van deze of gene coalitie, en uitvoerig aandacht besteed aan de onderlinge krachtverhoudingen, onderscheiden spelers, uiteenlopende dan wel convergerende beleidsopties, en omgevingsfactoren. Dat is een mondvol, en zelfs meer dan dat.

Want het boek lijdt aan wat ik beleefd zal omschrijven als “didactische overkill”. U herinnert zich misschien wel die prehistorische stelregel die voorschreef hoe een goede les of redevoering moest worden opgebouwd: eerst zeg je wat je gaat vertellen, dan vertel je dat, en vervolgens besluit je door samen te vatten wat je verteld hebt. De regel mag dan uit het pre-electronische steentijdperk dateren, in dit boek wordt hij grondig, zéér grondig toegepast. Kortom: als er pakweg 30 van de 180 bladzijden tekst waren geschrapt, had dit de duidelijkheid niet geschaad, en de lezer toenemende ergernis bespaard. De bekommernis om dingen duidelijk uit te leggen kan ik alleen maar toejuichen; maar je mag de lezer die een boek als dit überhaupt ter hand neemt ook niet behandelen als een nitwit aan wie je vijf keer hetzelfde moet uitleggen.

Daarmee heb ik meteen het eerste aspect aangeduid dat mij heeft geërgerd, en kan ik terugkeren tot wat dit boek wél leerrijk en vaak zelfs boeiend maakt.

Een goed overzicht van de diverse theorieën over coalitievorming, om te beginnen. Daar is niets mis mee; alleen dienen de auteurs er – zeer terecht – herhaaldelijk op te wijzen dat die theorieën vooral slaan op 'echte' regeringsvorming, maar nauwelijks een rol spelen wanneer op lokaal vlak coalities moeten worden gesloten. Wat daar telt is: in de bestuursmeerderheid geraken, tot ongeveer elke prijs. Macht dus.

Maar ook : mensen. Ook in dat opzicht verschilt kleinschalige coalitievorming duidelijk van die op een hoger niveau. In de gemeente telt, veel meer dan in regionale of nationale regeringen, of individuen “met elkaar kunnen” of niet.

Dat zijn alvast twee betekenisvolle verschillen, en ze worden uitvoerig uit de doeken gedaan.
Er is nog een derde verschil : in België is het op nationaal of zelfs regionaal niveau zo goed als ondenkbaar dat één enkele partij een absolute meerderheid verovert en dus alleen zou kunnen regeren. Terwijl in Vlaanderen in ruim een derde van de gemeenten - en in Wallonië zelfs in meer dan de helft ! - één enkele partij alleen 'regeert'.Omgekeerd kan het spel van de coalitievorming er toe leiden dat de grootste partij uit de boot valt; dat blijkt in ongeveer 10 procent van de gemeenten het geval, en dat is dan weer een verschijnsel dat men op een hoger bestuursniveau evengoed aantreft.

Het boek ontleedt minutieus alle stappen in het onderhandelingsproces dat moet uitmonden in een nieuw college van burgemeester en schepenen; ook de waarde van belangrijke posities in OCMW en intercommunales worden niet uit het oog verloren. Zo krijgt de lezer een gedetailleerd beeld van wat zich zo al allemaal afspeelt voor, tijdens en na de verkiezingsslag, voor en achter de schermen.
Veel daarvan is voor de geïnteresseerde waaarnemer niet echt nieuw, en in die zin vormt het boek een zoveelste illustratie van de vaak gehoorde misprijzende bedenking dat nogal wat sociaal- of politiek-wetenschappelijk onderzoek weinig méér doet dan bevestigen “wat iedereen al wist”.

Alleen wordt dat dan nu als 'bewezen' beschouwd...
Tegenover dit soort goedkope kritiek is het bijzonder jammer dat de écht nieuwe, ophefmakende onthulling van dit onderzoek niet duidelijker in de verf wordt gezet: dat er namelijk al zoveel wordt beslist, lang vóór de verkiezingen en ver àchter de schermen. Dat voor-akkoorden om in dezelfde of in een nieuwe coalitie samen te besturen al zijn afgesloten (en soms zelfs bij een notaris gedeponeerd) lang vóór de kiezer zijn zeg heeft gehad.

Dàt zoiets gebeurt is al kras. Nog krasser is de vaststelling dat die praktijk schering en inslag is. Want daarover laten de auteurs geen twijfel: “waar men gaat langs Vlaamse of Waalse wegen komt men voorakkoorden tegen” !

Hier situeert zich dan ook mijn tweede essentiële kritiek. Er valt zeker iets te zeggen voor de stelling dat een wetenschappelijk onderzoek zich moet of mag beperken tot het aan het licht brengen van bepaalde mechanismen, maar zich dient te onthouden van een waarde-oordeel daarover. Maar wanneer je achteraf op basis van dat onderzoek een boek op de markt brengt dat toch duidelijk bedoeld is voor een breder publiek … moet je wellicht wél je nek uitsteken en duidelijk een standpunt innemen tegenover een uitgesproken ondemocratisch verschijnsel. Dat mag zeker worden verwacht van wetenschappers die er doorgaans niét voor terugschrikken het politieke wereldje de les te lezen...

Zo'n duidelijk standpunt ontbreekt in dit boek. Met een “iedereen doet het” is de kous m.i. niet af, wanneer je vaststelt dat de wil van de kiezer op zo'n flagrante manier buiten spel wordt gezet – zelfs al is dat dan slechts op lokaal niveau. En dat verkiezingen de politiek nu eenmaal tot een “hoogst onzekere omgeving” maken, tja … dat geldt tenslotte niet alleen voor het gemeentelijke niveau. Het is precies een wezenskenmerk van democratie dat machthebbers die macht ook kunnen verliezen. Dat zij zich aan die onzekerheid willen onttrekken is ongetwijfeld begrijpelijk vanuit hùn standpunt, maar niet vanuit dat van iemand die begaan is met de kwaliteit van onze democratie.

Dat een partij nog voor de verkiezingen een bondgenootschap aangaat met een of meer andere partij(en) kan alleen maar worden gerechtvaardigd indien dat ook open en eerlijk gebeurt, zodat de kiezers weten waar ze aan toe zijn. Dan kunnen ze nog altijd soeverein uitmaken of ze dat spel meespelen of niet.

Het zou dus bijvoorbeeld leerrijk zijn geweest enkele gevallen – of tenminste één geval – nader te onderzoeken waarin een bestaand voor-akkoord niet kon worden uitgevoerd omdat uiteindelijk de kiezer de kaarten beduidend anders deelde dan verwacht. Want misschien gebeurde dat juist omdat men een of andere afspraak vermoedde, en die wou doorkruisen. Wie wil, mag dat als een suggestie voor een volgend proefschrift beschouwen.

Méér dan een suggestie is mijn laatste punt van kritiek: over het feit dat allerlei belangrijke posities in intercommunales helemààl niet aan het oordeel van de kiezer worden onderworpen, wordt in dit boek ook ergerlijk licht heengegaan. Je kan natuurlijk aanvoeren dat dit tenslotte de 'prijs' is die de winnaars in de wacht slepen. Maar recente gebeurtenissen hebben, dacht ik, toch voldoende aangetoond dat ook – of zelfs met name – op dat niveau wat meer democratische controle en inspraak zeker geen kwaad kan. Kortom: ook hier schieten de kritische wetenschappers tekort.

Slotsom: een leerrijk en zelfs onthullend, maar uiteindelijk onbevredigend boek, omdat het te braaf blijft.

mercredi, 26 septembre 2012

De integratie-strategie is mislukt!

Citaat Mark Elchardus

De integratie-strategie is mislukt!

elchardus_jpg_275.jpg"Een hoog opgeleide elite heeft ervoor geijverd om mensen snel en zonder veel voorwaarden toe te laten tot de nationaliteit, tot stemrecht en sociale voorzieningen. Die strategie is mislukt – in de eerste plaats voor de betrokkenen zelf. De kinderen, kleinkinderen en in sommige gevallen al de achterkleinkinderen van migranten doen het bij ons in het onderwijs en op de arbeidsmarkt verschrikkelijk slecht. Dat heeft er waarschijnlijk mee te maken dat het ze te gemakkelijk is gemaakt. [...] Wat mij [...] treft, is dat degenen die gemakkelijk pleiten voor immigratie nooit een vinger hebben uitgestoken om integratie te bervorden. Zo'n beetje van: laat er nog maar eens driehonderdduizend komen, want dan hebben we goedkope arbeidskrachten en dan zien we wel weer wat er gebeurt. Ze doen me meer denken aan vleesmarchands dan aan mensen die een serieus beleid bepleiten."

Socioloog Mark Elchardus

lundi, 24 septembre 2012

Henry Bauchau a pris la route des rêves

L’écrivain belge Henry Bauchau a pris la route des rêves

Poète, dramaturge, romancier, Henry Bauchau tenait aussi des journaux intimes. Le dernier, paru en 2011 chez Actes Sud, s’intitule «Dialogue avec les montagnes. Journal du Régiment noir (1968-1971)». Paris, 1972 (AFP)

Poète, dramaturge, romancier, Henry Bauchau
 tenait aussi des journaux intimes. Le dernier, paru en 2011 chez Actes Sud, s’intitule «Dialogue avec les montagnes. Journal du Régiment noir (1968-1971)». Paris, 1972 (AFP)

L’auteur d’«Œdipe sur la route» et de «L’Enfant bleu» s’est éteint à 99 ans. Il laisse une œuvre marquée par les mythes, l’humain et la psychanalyse

On s’apprêtait à fêter son centenaire et le voilà qui s’en va, à 99 ans, dans son sommeil, quelques mois avant son anniversaire. Henry Bauchau était né le 22 janvier 1913 à Malines. Il s’est éteint dans la nuit de jeudi à vendredi à Paris. Il a vécu en Belgique, en Suisse et en France. «Henry Bauchau a écrit jusqu’à son dernier jour. Il voulait, disait-il «mourir la plume à la main», note Myriam Watthee-Delmotte de l’Université de Louvain, l’une des meilleures spécialistes de Bauchau*.

Il laisse derrière lui une œuvre lumineuse, imperméable aux modes, marquée par son histoire personnelle, par les guerres, par la psychanalyse, impressionnée par la beauté du monde, traversée par les grands textes classiques. Les écrits d’Henry Bauchau portent l’écho des grands mythes, mais ne s’éloignent pas de l’homme d’aujourd’hui.

La reconnaissance sera tardive même si son premier recueil de poèmes, Géologie, publié en 1958 (réédité en 2009 par Gallimard) obtient le Prix Max Jacob. Il faudra attendre 2008 et un septième roman pour qu’il reçoive, en France, le Prix du livre Inter. En Belgique, il patiente jusqu’en 1991, lorsqu’il entre à l’Académie royale de langue et de littérature françaises – l’équivalent de l’Académie française. En 1997, son Antigone (Actes Sud), un succès de librairie, lui vaudra le Prix Rossel, le «Goncourt belge».

Toute sa vie, Henry Bauchau a travaillé. Comme avocat dans les années 1930, il a fait des études de droit en Belgique, tout en militant au sein de la jeunesse catholique. Après la guerre – il sera résistant – il s’installe à Paris. Il entreprend deux psychanalyses. La première, qui dure jusqu’en 1950 sous l’égide de la femme du poète Pierre Jean Jouve, Blanche Reverchon, qu’il dénomme la «Sybille», lui indique la voie de l’écriture. La seconde, de 1965 à 1968, auprès de Conrad Stein, fera de lui un thérapeute.

Mais il faut vivre. La poésie, la peinture et le dessin, qu’il pratique également, ne nourrissent pas. En 1951, il déménage en Suisse et ouvre à Gstaad l’Institut Montesano qui accueille notamment de riches et jeunes Américaines. Il enseigne la littérature et l’histoire de l’art. Il tisse des liens. Rencontre Philippe Jaccottet. Publie des livres aux Editions de l’Aire (La Pierre sans chagrin. Poèmes du Thoronet en 1966 ou Célébration en 1972), chez Pierre Castella (La Dogana. Poèmes vénitiens avec la photographe Henriette Grindat, 1967); il écrit dans la revue Ecriture.

En 1973, l’Institut Montesano ferme. C’est le retour à Paris et le début de ses activités de thérapeute. Il utilise l’expression artistique dans les cures qu’il mène auprès d’adolescents en rupture, puis comme psychanalyste. Il rencontre Lionel Douillet, «l’enfant bleu», un jeune aliéné avec lequel il expérimente les vertus de l’art comme thérapie. Il l’encourage à dessiner, le suit pendant une quinzaine d’années et le mène vers une forme d’épanouissement.

Les romans d’Henry Bauchau portent, tout au long de sa vie, la trace de ses interrogations existentielles. La Déchirure (Gallimard, 1966) rejoue ses relations avec sa mère; Le Régiment noir (1972) explore la vie rêvée de son père. Il puise dans les mythes tout en s’ouvrant sur la poésie, le monde et le trajet personnel de chacun: Œdipe sur la route (1990 chez Actes Sud qui l’édite depuis lors) ouvre un cycle œdipien dont fait partie son Antigone de 1997.

Les années 2000 seront marquées par ses souvenirs de jeunesse et ses expériences thérapeutiques: L’Enfant bleu (2004) retrace les relations d’une thérapeute et de son jeune patient; Le Boulevard périphérique (2008) est un trajet vers la mort où surgissent des souvenirs de guerre; Déluge (2010) raconte une libération par la peinture sur fond d’Arche de Noé; L’Enfant rieur (2011) est le récit d’une jeunesse rêvée. «Je pense, disait-il au site Remue.net à propos de ses textes, que c’est le fait de mon attention à la vie courante et en même temps la préoccupation spirituelle qui fait la qualité de mon œuvre, si jamais elle en a.»

* L’hommage de Myriam Watthee-Delmotte et une foule d’informations sur l’écrivain: bauchau.flter.uclac.be

La Lumière Antigone, livret d’Henry Bauchau, musique de Pierre Bartholomée, est donné ce week-end au Temple allemand à La Chaux-de-Fonds. Rens. www.abc-culture.ch

jeudi, 20 septembre 2012

Marc. EEMANS: La Vision de Tondalus

Marc. EEMANS:

La Vision de Tondalus et la littérature visionnaire au moyen âge

 

simon-marmion-ca-1475-tondalus-ziet-de-gevreesde-koningen-conchober-en-donatus.gifLa vision est un des genres mystico-littéraires des plus goûtés au moyen âge. Innombrables sont, en effet, les textes visionnaires parvenus jusqu'à nous et, sans parler de ces sommets que sont les visions de Sainte Hildegarde et de Hadewych, l'on peut dire que la vision a fleuri dans tous les pays de l'Europe occidentale. La plupart des textes conservés semblent d'abord avoir été écrits en langue latine, pour être traduits par la suite en langue vulgaire et se répandre ainsi dans toutes les couches de la société.

A en juger d'après le grand nombre de visions d'origine irlandaise, l'on peut affirmer que c'est avant tout un genre propre au monde celtique (1) où il se confondrait avec la tradition païenne de l'imram (2) ou voyage maritime à la Terre des Ombres, île lointaine et inaccessible où tout n'est que félicité.

Par la suite, se rencontrant avec d'autres récits de tradition strictement chrétienne, ce voyage se serait confondu avec les « ravissements dans l'esprit », au cours desquels les visionnaires visitent l'au-delà.

L'une des premières visions chrétiennes dont le texte nous soit parvenu est la Vision de Salvius qui nous apporte, d'emblée deux éléments propres au style visionnaire: la mort apparente du visionnaire et l'apparition du guide qui Je conduit sain et sauf à travers les embûches de l'au-delà.

Dans tous les textes visionnaires du quatrième au sixième siècle, le paradis des élus se rapproche encore beaucoup de l’Élisée des Grecs ou du Hel des anciens Germains: c'est une espèce de pays de cocagne ou tout n'est que joie et allégresse, et qui se confond volontiers avec le paradis terrestre dont Adam en Eve furent chassés après la faute.

Dans un des Dialogues du Pape Grégoire le Grand, nous trouvons également la description classique d'une mort apparente accompagnée d'un voyage dans l'autre monde, tandis que des considérations eschatologiques viennent utilement nous renseigner sur notre vie future. Maïs l'originalité de cette vision réside dans le fait que nous y rencontrons pour la première fois le thème du pont étroit qui est une des épreuves les plus redoutables pour les âmes damnées.

Le texte de Grégoire le Grand semble avoir donné un essor définitif au genre et dès le huitième siècle les visions se multiplient, en étant toutes construites sur le même schéma.

L'Historia Ecclesiastica de Beda Venarabilis (3) nous rapporte à elle seule la relation de trois morts apparentes accompagnées de visions à tendances eschatologiques. La plus remarquable d'entre elles est la Vision de Drithelm qui s'apparente de très près à la Vision de Tondalus, aussi la considère ton comme une de ses sources.

Sous le règne de Charles Magne, nombreuses sont les visions qui s 'inspirent des thèmes de Grégoire le Grand, mais sous l'influence de certains facteurs extérieurs, elles perdent petit à petit leur sens religieux pour revêtir un aspect politique. La plus célèbre des visions de ce genre est certainement la Vision d'une Pauvresse. Elle nous conte l'histoire d'une pauvre femme, du district de Laon, tombée en extase en l'année 819, et dont les visions auraient inspiré directement la politique carolovingienne.

Faisant exception dans la série des visions politiques de l'époque, les Visions d'Anscarius (4) sont de la plus pure inspiration eschatologique. Dès sa prime jeunesse, Anscarius connut les visions et les ravissements, aussi vécut-il de la manière la plus sainte, loin des rumeurs du vaste monde. Puis, certain jour, une vision lui ayant montré les beautés de l'apostolat, il alla convertir les hommes du Nord à la foi chrétienne. Les Visions d'Anscarius s'apparentent de fort près à la Vision de Salvius, tout en s'inspirant des principaux thèmes eschatologiques de l'Apocalypse. Jusqu'ici, le style visionnaire était encore tout entaché de matérialité, voire même de vulgarité. Chez Anscarius, au contraire, le récit se spiritualise et l'âme qui s'échappe du corps endormi se pare d'une essence vraiment impondérable, tout comme Je Ciel se colore d'une indicible fluidité. Anscarius reconnaît cependant son incapacité à traduire l'ineffable et il avoue que ses descriptions ne sont que des approximations qui se trouvent bien en-dessous du réel.

Pendant les deux siècles qui suivent, la littérature visionnaire connaît une certaine régression. Hormis la Vision de Vauquelin, qui date de 1091, il n'y a aucun texte marquant à signaler.

Dès le début du 12° siècle, les textes visionnaires se suivent de très près, nous y relèverons surtout des visions d' origine irlandaise dont la Vision d'Adamman semble être la plus ancienne. Tout en relevant d'un certain conventionnel, le genre se traduit en récits d'une très grande beauté de style. Ces visions nous révèlent, en effet, le merveilleux chrétien dans toute sa diversité, depuis la description des plus misérables scènes du monde des damnés, jusqu'à l'épanouissement béatifique des âmes au sein de Dieu. Les thèmes traditionnels se développent et s'amplifient d'un récit à l'autre. Des réminiscences orientales, dues aux Croisades, s'y révèlent, tandis que des rappels des auteurs anciens viennent témoigner des premières influences du monde antique.

Cette littérature visionnaire à tendance eschatologique connaîtra bientôt son apogée dans la Divine Comédie (5) du Dante, tandis que les visions d'inspiration plus mystique aboutiront aux plus sublimes révélations de Sainte Hildegarde et de Hadewych (6). Tant par leur popularité ,que par la beauté de leur style, la Vision de Tondalus et le Purgatoire de St-Patrice occupent une place d'exception dans la littérature eschatologique du moyen âge.

La Vision du Chevalier Ovin relatée dans le Purgatoire de St-Patrice se rattache à l’antique tradition celtique des Imrama, aussi n ' est-ce point en état de léthargie que le Chevalier Ovin s'aventure dans le monde des ténèbres, mais en y pénétrant volontairement par une grotte qui communique avec les entrailles de la terre. Sur le plan chrétien il refera le voyage déjà entrepris avant lui par Orphée, Ulysse et Enée. Tout comme eux il pénètrera de son plein gré dans le monde de l'au-delà, mais son voyage est un véritable pélerinage: c'est, en effet, pour se purifier qu'il veut contempler les peines infligées aux âmes damnées. Il est ainsi porteur de cette foi essentiellement chrétienne et médiévale en la Rédemption de l'homme.

6758028-M.jpgLe Chevalier Ovin n'a point le bonheur d'avoir un guide dans son voyage, mais là ou les dangers seront par trop menaçants, il lui suffira de prononcer le nom de Jésus pour se sentir aussitôt à l'abri. Il ira ainsi de supplice en supplice, en se purifiant chaque fois davantage, pour arriver enfin aux partes du Paradis.

Par les nombreuses recommandations à l'adresse du lecteur qui entrecoupent le récit, cette vision se révèle avant tout comme une œuvre d'édification et une exhortation à la pénitence.

Ce récit, qui se rattache au fameux Pélerinage de St-Patrice, en Irlande, a rencontré un succès sans précédent dans les annales de la littérature médiévale. Ecrit en latin par un moine irlandais du nom d'Henry de Saltrey vers 1189, il fut bientôt traduit dans toutes les langues de l'Europe occidentale. De nombreux auteurs célèbres s'en inspirèrent, notamment Calderon qui en tira son El Purgataria de San Patricio. Jusqu'au milieu du 19° siècle il a servi de trame à un mystère fort populaire dans toute la Bretagne.

Quant à la Vision de Tondalus, due vers le milieu du 12° siècle à la plume du moine Marcus, son succès dura plus de trois siècles. Plus de 60 versions latines, toutes du 12° ou du 13° siècle en ont été conservées jusqu'à nos jours. Sa traduction en langue vulgaire se répandit dans tous les pays de l'Europe occidentale. Vincentius Bellavacensis recopia intégralement cette vision dans son Speculum Ristoriale (vers 1244) , tandis que Denys le Chartreux en donna un résumé fort circonstancié dans deux de ses ouvrages Quatuor Novissima et De Particulari Judicia Dei. C'est grâce à ces deux auteurs, particulièrement populaires à l'époque, que la Vision de Tondalus pénétra dans tous les milieux.

Cette vision nous conte les mésaventures du Chevalier Tondal qui, étant tombé certain jour en état de léthargie, eut le privilège de descendre en Enfer et d'en rapporter le récit que le frère Marcus (7) a trancrit pour l'édification des pécheurs.

Dès le seuil de l'autre monde, Tondal est accueilli par son ange gardien et ensemble ils traverseront l'Enfer pour visiter ensuite le Paradis et y contempler les âmes bienheureuses.

La délimitation de l'au-delà en trois zônes bien définies- Enfer, Purgatoire, Paradis - telle que nous la trouvons dans la Divine Comédie n' est pas encore bien fixée dans le récit du frère Marcus, aussi a-t-on pu soulever une controverse quant à la définition des lieux visités par Tondalus Selon certains, seul le supplice infligé par Lucifer, relèverait des peines de l'Enfer, toutes les autres étant encore celles du Purgatoire.

Quoi qu'il en soit, nous constatons que dans la Vision de Tondalus onze supplices s'étagent jusqu'aux partes du Paradis et que même à l'intérieur de celui-ci, certaines âmes doivent encore souffrir des supplices temporaires, tels les deux rois ennemis Concober et Donacus, qui avaient cependant déjà fait pénitence sur terre, maïs qui ne furent pas « entièrement bons » ... Quant au roi Cornacus, il y doit également expier certains crimes et y subit ainsi chaque jour, durant trois heures, la peine du feu jusqu'au nombril, tandis que la partie supérieure de son corps se recouvre entièrement de poils. Comme on le voit, dans le Paradis de Tondal, la première joie connaît encore ses heures de détresse, mais les cinq joies suivantes, elles, sont toute félicité. Elles sont réservées aux âmes nobles qui vécurent d'une vie exemplaire ici-bas.

Tondal serait volontiers resté en ces lieux, mais son ange gardien lui fait comprendre qu'il n'en est pas encore digne. S'il persévère dans ses bonnes résolutions, il reviendra certainement en ces lieux pour y prendre part aux chœurs des bienheureux. Maïs avant d'en arriver là Tondal devra vivre, pendant le temps qui lui reste à demeurer sur terre, une vie de mortification et de charité. C'est à ce moment que l’âme de Tondal va rejoindre son corps pour s'adonner à l’œuvre de la gräce.

La Vision de Tondalus a laissé des traces profancles dans toute la littérature de moyen âge. Son iconographie est des plus abondantes, car des artistes de la qualité d'un Pol de Limbourg ou d'un Jéröme Bosch y ont trouvé de fécondes sources d'inspiration. Nombreux sont également les incunables qui ont reproduit cette vision. La première édition typographique de ce livre serait celle d'Anvers « gheprent bi mi Mathijs van der goes », portant le millésime 1472.

Les bibliographes sont toutefois unanimes pour affirmer que cette édition a été antidatée par van der goes qui voulait ainsi s'attribuer la gloire d'avoir imprimé le premier livre paru dans les Pays-Bas.

Presque toutes les éditions de la Vision de Tondalus datent du 16° siècle et dès le 17°, cet ouvrage qui avait connu tant de vogue ne reparut plus au catalogue des éditeurs. Au 19° siècle il sortit de l'ombre grâce à la curiosité des philologues romantiques et dès 1837 Octave Delepierre, archiviste de la Flandre Occidentale en présenta une nouvelle version française d'après le texte la tin de Vincentius Bellavacensis, à laquelle nous empruntons les fragments publiés dans le présent cahier.

Dans plusieurs pays d'Europe les philologues se sont depuis lors occupés fort longuement des innombrables manuscrits de l’œuvre. Certains d'entre eux nous ont dotés ainsi de la présentation critique de quelques-uns d’entre-eux, notamment MM. R. Verdeyen et J. Endepols qui publièrent une version moyen-néerlandaise de la Vision de Tondalus et du Purgatoire de St. Patrice. Nous devons la plupart des données historiques réunies dans cette étude aux patientes recherches de ces deux savants.

Une étude détaillée du sujet, que nous venons d'esquisser ici et qui relève autant de l'histoire de la littérature comparée que de l'histoire de la dévotion occidentale au moyen âge, reste encore à écrire.

Marc. EEMANS.

(1) Rappelons cependant que le monde antique tout comme le monde oriental connurent ce genre et bien souvent nos visions médiévales en sont des démarcations plus ou moins conscientes.
(2) Le plus célèbre Imram connu à ce jour est celui du Voyage de Bran ou de Saint Brandan.
(3) Moine et historien anglais, né à Wearmouth (675-735).
(4) Saint Anschaire, évèque de Hambourg (801-865) .
(5) Les constantes allusions du Dante à des personnages politiques contemporains rattachent également la Divine Comédie à la tradition carolovingienne des visions politiques.
(6) Parmi les grandes femmes visionnaires citons également: Elisabeth de Schönau, Marie d'Oignies, Christine de St-Trond, Lutgarde de Tongres, Beatrice de Nazareth, Mechtild de Magdebourg, etc.
(7) L'auteur de la Vision de Tondalus, probablement un moine Irlandais du XIIe siècle, n'est connu que sous ce prénom. C'est ainsi qu'il se présente lui-même au debut de son récit.

Hermès, n° 3, mars 1937.

lundi, 17 septembre 2012

Piet Tommissen: Inleiding tot de idee Marc. Eemans

Marc. Eemans

 

Piet Tommissen:

 

Inleiding tot de idee Marc. Eemans

 

Piet Tommissen en Marc. Eemans, 1972.

Toen ik aanvaardde een essay te wijden aan het werk en het denken van de schilder, dichter en kunsthistoricus Marc. Eemans, heb ik me afgevraagd of het in mijn geval geoorloofd was te spreken van een zekere continuïteit in zijn geestelijke ontwikkeling. Langzaam maar zeker kwamen elementen en argumenten aan het licht om mijn overtuiging te staven dat die vraag positief macht beantwoord worden. Aldus is deze geschiedenis van de intellectuele en creatieve levensweg van Marc. Eemans ontstaan. Daarbij werd de klemtoon vooral op zijn denken en op zijn poëtisch oeuvre gelegd, vermits het illustratiemateriaal dat deze uitgave verrijkt, als een soort picturaal complement van mijn stelling kan beschouwd worden. Overigens bleven om voor de hand liggende redenen, biografische en andere gegevens buiten beschouwing.

Hopelijk vergeeft de lezer het me dat ik met hem wegen ga verkennen, die men normaliter in essays van het onderhavige genre links laat liggen. Maar op de eerste plaats is het zo dat ik geen kunsthistoricus ben en het derhalve als een punt van elementaire intellectuele eerlijkheid beschouw me onbevoegd te verklaren om een verantwoord waardeoordeel over het schilderkunstig werk van Marc. Eemans uit te spreken. En voorts is er het oude adagium « de gustibus et coloribus non disputandum », dat in de loop der tijden zijn geldigheid heeft behouden. Waarom de lezer dan ook willen beïnvloeden met een onvermijdelijk subjectieve analyse van de boodschap die de schilderijen van Marc. Eemans brengen?

Toch weze het me toegelaten de aandacht te vestigen op een soort sleutel-schilderij die « De pelgrim van het absolute » heet en in 1937 ontstond. De kijker wordt als het ware gebiologeerd door dat monumentaal gelaat met die ogen die hem aankijken zonder dat men precies weet of het nu een nieuw werd en dan wel de dood is die er uit spreekt. Dit werk resumeert op voortreffelijke wijze wat ik hier getracht heb te formuleren bij wijze van aan loop tot de thans volgende inleiding tot de idee Marc. Eemans. Want hebben we laatstgenoemde niet leren kennen als een man die steeds onvoldaan is krachtens zijn faustische natuur, als iemand die voortdurend datgene nastreeft wat hij zelf ooit « de liefde, overal en altijd » (1) heeft genoemd? In « De pelgrim van het absolute » moet men in zekere zin het jeugdportret zien van hem die thans in de derde leeftijd is getreden, die « ergens in Vlaanderen geboren » werd en thans leeft boven de mensen in « het land der inwendige mythen » (2) waarover hij niet ophoudt te spreken (3).

Mijn grote Meester, de Duitse geleerde Carl Schmitt spreekt ergens van « jene geheimnisvolle Hand, die unsem Grill nach Büchem lenkt" (4), over de geheimzinnige hand die er over waakt dat ons telkens de boeken in handen komen, die onontbeerlijk zijn voor onze geestelijke vorming. Meestal gaan er jaren overheen alvorens men zich rekenschap geeft van de occulte maar duurzame invloed die een bepaald boek op de levensloop van een mens uitoefende. In het geval dat we thans behandelen liggen de zaken enigszins anders, want Eemans werd van in zijn prille jeugd door de grondige lectuur van bepaalde boeken derwijze beïnvloed, dat het m.i. onmogelijk is zijn evolutie te volgen en zijn latere opties te verstaan zonder terdege rekening te houden met deze én rechtstreekse én diepgaande invloed.

Keren we dus even terug naar de tijd dat de nauwelijks tienjarige Eemans zijn vader regelmatig vergezelde bij diens bezoek aan kunsttentoonstellingen, en dat hij via een verre verwante, de beeldhouwer Emiel De Bisschop, talrijke kunstenaars en schrijvers uit de kunstkring « Doe stil voort », waarin schilders lijk Felix De Boeck, Prosper De Troyer en Victor Servranckx debuteerden, persoonlijk leerde kennen. Op het Koninklijk Atheneum van Brussel had Eemans een merkwaardige leraar Nederlands, een zekere Maurits Brants. Deze hing aan de muren van zijn klaslokaal reproducties op van taferelen uit de Germaanse mythologie en meer bepaald uit het Nibelungenlied en uit de Edda, iets wat de verbeelding van de ontvankelijke leerlingen naar het verre verleden van het sagenrijk Thule deed afdwalen. Ook dient dier de invloed vermeld van Eemans' oudere broeder Nestor, die een groot kenner van Richard Wagner was. In zijn bibliotheek trof de jonge Marc. alles aan wat nodig was om zijn initiatie in de wereld der eeuwige mythen te vervolledigen: Tannhauser, Parsifal, Tristan en Isolde, zander de Ring der Nibelungen te vergeten en de ontroerende Senta uit de Vliegende Hollander, deze fantastische heldin van de « trouw tot in de dood » …

Vanaf zijn veertiende levensjaar begon de « Benjamin der eerste Belgische abstracte schilders » de werken van Plato en de Ethica van Spinoza te lezen, en verslond hij de meesterwerken van de grote Hollandse symbolisten: « Mei » van Herman Gorter, « Psyche » en « Fidessa » van Louis Couperus en de « Sonnetten » van Willem Klaas. Deze dichters brachten de jonge Eemans op hun beurt op het spoor van de Engelse romantiekers, vooral van Shelley, waarvan precies in 1922 de honderdste verjaardag herdacht werd van zijn al even tragisch als mysterieus verscheiden. Ook de door Frederik Van Eeden bezorgde vertaling van het oeuvre van Rabindranath Tagore bekoorde de jonge man zeer.

De jaren 1922, 1923, 1924 en 1925 moeten in Eemans' intellectuele ontwikkeling als beslissende jaren beschouwd worden, vermits het in deze periode was dat de latere auteur van « Vergeten te worden » de vier jaar oudere jonge dichter René Baert ontmoette. Dit gebeurde in een door studenten en kunstenaars bezochte herberg, « Le Diable au corps » geheten en gevestigd in de Koolstraat in Brussel; de onvergetelijke Père Gaspard was er wat men schipper na God pleegt te noemen. Dank zij Baert ontdekte de jonge Eemans Novalis in de voortreffelijke Franse vertaling van Maurice Maeterlinck (4). De weerslag was andermaal biezonder groot. Rond hetzelfde tijdstip bezocht Eemans ook vrij regelmatig het fameuse « Cabinet Maldoror », in 1923 door de pittoreske Geert Van Bruaene in het Hotel Ravenstein ingericht. Eemans had Van Bruaene reeds als kind leren kennen, toen deze nog tijdens de eerste Duitse bezetting meespeelde in de op dat ogenblik Nederlandstalige schouwburg Alhambra, waarvan Paul Gustave Van Hecke, de latere uitgever van het tijdschrift « Variétés » en mecenas van de Vlaamse expressionisten en van de surrealisten Magritte en Mesens, toen één der directeurs was.

Geert Van Bruaene maakte van zijn jonge bezoeker een enthousiaste bewonderaar van de « Chants de Maldoror » van de betoverende Isidore Ducasse, bijgenaamd comte de Lautréamont (5), Van kapitaal belang is anderzijds Eemans' ontmoeting geweest met Paul Van Ostaijen, de grootste Vlaamse expressionistische dichter, die namelijk de vennoot van Geert Van Bruaene werd toen deze een andere kunstgalerij, « La Vierge poupine », één van de belangrijkste cenakels van het surrealisme in België, in de Naamse straat in Brussel oprichtte (6). In 1925 hield Paul Van Ostaijen hier een lezing tijdens een door de studentenvereniging « La lanterne sourde » georganiseerde poëzieavond. Deze in het Frans gehouden lezing mag beschouwd worden als het poëtisch credo van Van Ostaijen; hij maakte een streng onderscheid tussen de « vanuit het onderbewuste geïnspireerde poëzie » en de « bewust gemaakte poëzie », en verkondigde dat de echte literatuur van een natie steeds met de mystieke schrijvers begint (7).

Niet minder vruchtbaar vaar de geestelijke vorming van de jonge Eemans was de lectuur van hel boek van Amance: « Divinité de Frédéric Nietzsche» (8). Maar een zo mogelijk nog grotere aantrekkingskracht oefenden het tijdschrift « L'Esprit » en de in de reeks « Philosophie » uitgegeven werken uit, twee initiatieven van de zogenaamde « Philosophes » (9). Ik citeer in het hieronder de « Philosophische Untersuchungen über das Wesen der menschlichen Freiheit » (1809) van Friedrich Schelling in de vertaling van Georges Politzer (10), de zwaar-op-de-handse studie van Jean Wahl over de « Parmerudes » van Plato (11), en vooral de twee delen « Livres prophétiques » van William Blake (12) en de « Critique des fondements de la psychologie » van Georges Politzer (13).

Met deze voor een jonge kerel van zijn leeftijd ongewone intellectuele bagage gewapend, evolueerde Marc. Eemans naar het surrealisme. Maar alvorens deze beslissende stap te wagen deed hij een tijdje - net lijk René Magritte - aan abstracte kunst, die men toen, althans in België, « zuivere beelding » noemde. Op dit terrein was bij de jonge volgeling van Victor Servranckx, Jozef Peeters, Pierre-Louis Flouquet, Karel Maes en Felix De Boeck (14). Ook is bekend dat Marc. Eemans en zijn vriend René Baert op het einde van 1926 en het begin van 1927 met het plan rondliepen een « Humanistische groep » op te richten ; Eemans schreef er zelfs een « Manifest » voor dat ik onlangs uit de vergeetboek kon opdelven, waarbij ik me verplicht zag te onderlijnen dat Marc. Eemans zich aanvankelijk niet meer herinnerde die tekst te hebben geschreven (15). Er kan geen twijfel over bestaan dat hij op dat ogenblik onder sterke Iinkse en meer bepaald trotzkystische invloed stond. Dat jonge intellectuelen zich toendertijd door de Ille Internationale aangetrokken voelden is algemeen geweten en het is bijgevolg slechts normaal dat ook de jonge Eemans in die zin reageerde. Het waren de Franse surrealisten en ook de jonge « Philosophes » van het tijdschrift « L'Esprit » die hem voor deze denkontwikkeling sensibiliseerden en hel verwondert derhalve geenszins te vernemen dat hij met Pierre Naville correspondeerde (deze briefwisseling ging helaas verloren), die toch één der sterfiguren van het tijdschrift « La Révolution Surréaliste » was, terwijl René Baert contact opnam met Pierre Morhange, gelijktijdig directeur van het tijdschrift « L'Esprit » en uitgever van de reeks « Philosophie ».

Intussen was het Eerste Surrealistisch Manifest van André Breton verschenen (1924), dat onmiddellijk de aandacht van de jonge Eemans trok en zijn in stemming wegdroeg. Voortaan zouden zijn verzuchtingen naar dat absolute, dat hij nooit nagelaten heeft na te streven, via de door Breton gewezen weg verlopen. Als outsider doch meteen als « medestrijder » nam hij deel aan de zijde van de latere Belgische surrealisten aan de memorabele « veldslag van het Casino van Sint-Joost-ten-Node » in october 1926: de politie kwam er bij te pas om de vechters te scheiden en enkele belhamels naar het dichtst bijgelegen politiecommissariaat te transporteren. Van toen dateert alleszins zijn vriendschap met Camille Goemans en met Edouard Léon Théodore Mesens, vriendschap die nooit zou vertroebeld worden (16).

Hoe zonderling het ook moge lijken, toch is het een feit dat de jonge Eemans, alhoewel eens te meer de Benjamin van de groep zijnde, zich uitzonderlijk actief heeft betoond in de schoot van wat men sinds het boek van Patrick Waldberg over Magritte a posteriori de « Société du Mystère » is gaan noemen (17). Het is mij bekend dat zij die de « gouden legende » van het Belgische surrealisme schreven en schrijven doen alsof ben de naam van één der mede-ondertekenaars van een « Préface à une exposition de Magritte » (Brussel 1928) en medewerker aan het door Camille Goemans vanuit Parijs gelanceerde efemeer tijdschriftje « Distances » niet eens bekend is. Desniettemin staat buiten kijf dat Marc. Eemans gedurende minstens drie volle jaren aan alle zittingen van de groep deelnam en dat hij zijn eigen weg is gegaan op grond van persoonlijke overwegingen die verband hou den met wat hij zelf de « histoire sordide du groupe surréaliste belge » (18) heet. Ik ga hier niet nader op in, temeer daar het niet lang heeft geduurd of ideologische redenen gingen de kloof nog verbreden tussen hem en de groep waarin de autoriteit van Paul Nougé zwaar doorwoog. Vermeldenswaard is echter dat Mesens in 1928 in de galerij « L'époque » de eerste tentoonstelling van Eemans organiseerde en dat de te dier gelegenheid uitgegeven catalogus een gedicht bevatte van Jean (later Louis) Scutenaire, die op dat moment een intieme vriend van Marc. Eemans was. De publiciteit van deze galerij werd toen gevoerd met de namen van hen die middelerwijl wereldfaam verwierven: Marc Chagall, Max Ernst, Giorgio de Chirico, Hans (later Jean) Arp, Paul Klee e.a., en de naam van Marc. Eemans figureerde tussen deze pIejade van beroemde schilders!

Toen het Stedelijk Museum van Amsterdam in 1930 een tentoonstelling wijdde aan de Nederlandse « Onafhankelijken », werden Marc. Eemans en zijn vrienden Magritte en Mambour aIs Belgische surrealistische gasten uitgenodigd. Afgaande op de in de catalogus van deze tentoonstelling geciteerde prijzen gold het werk van Eemans op dat ogenblik meer dan dat van zijn beide oudere vrienden. In 1970 beleefde ik trouwens in Straatsburg de aangename verrassing in het kader van een door de Raad van Europa ingerichte en aan « Europa 1925 » gewijde retrospectieve een werk aan te treffen van Marc. Eemans, getiteld « L'attitude des apparences» en gedateerd 1928. Dit werk stamde uit de oude verzameling van E.L.T. Mesens uit Landen en behoorde aan de Heer Calixte Veulemans in Brussel toe. Het volstond de catalogus in te kijken om vast te stellen dat het de enige schilderij was van een nog levende Belgische schilder... Terwijl de bevoegde overheid in Straatsburg Marc. Eemans dus voldoende representatief achtte om één zijner werken in een internationaal opgevatte expositie op te nemen, schijnen de Belgische specialisten niet eens zij naam te kennen, wat blijkt uit de onlangs in Parijs ingerichte tentoonstelling « Peintres de l'imaginaire. - Symbolistes et surréalistes belges » (4-2 t/m 8-4-1972). Nochtans nam Eemans aIs « surrealistisch schilder » reeds aan twee of drie officiële Belgische exposities deel en fungeerde zijn jeugdportret (ongeveer 20 jaar oud) samen met werk van Magritte destijds in de schouwramen van het voorlopig Museum voor Moderne Kunst op het Koningsplein in Brussel. Begrijpe wie kan...

De eerlijkheid verplicht ons anderzijds in te zien dat de naam van Marc. Eemans reeds in de eerste jaren van het officieel Belgisch surrealisme in de kring der ingewijden ietwat taboe was. Toch werkte hij mee en dit zelfs vrij regelmatig aan « Variétés » (hij ontwierp de titelvoorstelling van dit tijdschrift), de belangrijke publicatie van Paul Gustave Van Hecke waarin veel aandacht besteed werd aan het surrealisme. Twee of drie pentekeningen van Marc. Eemans hebben het omslag van bepaalde nummers georneerd ; andere pentekeningen vindt men in de tekst van meerdere afleveringen. Ook treft men er de reproductie van twee schilderijen aan : « Twee klimopbladen brengen lof aan een reliëf van Hans Arp » en « voetbalmatch » (19). De laatstgenoemde schilderij heeft zelfs een eigen geschiedenis : het onderwerp van het doek (voetbalspelers die het hoofd van één onder hen als bal gebruiken) viel samen met een groteske van zijn vriend Van Ostaijen, « Waarachtige voetbalkamp » (20), zonder dat de twee kunstenaars dit wisten. Het is een zonderlinge samenloop van omstandigheden die door Marc. Eemans terstond aan Van Ostaijen gesignaleerd werd. Helaas heeft de mededeling laatstgenoemde nooit bereikt, aangezien hij net in een rusthuis in Miavoye-Anthée bij Dinant overleden was (21). Bij zijn surrealistisch debuut, rond 1927 dus, was Marc. Eemans tevens één der eersten - ja zelfs meer dan tien jaar vóór Delvaux - om de deugden van de poëtische vervreemding van de vrouwenmode van het einde der vorige en het begin dezer eeuw te herkennen, wat duidelijk blijkt uit enkele zijner in « Variétés » afgedrukte pentekeningen.

Reeds in die activiteitsfaze begonnen enkele vrienden van de latere « Société du Mystère » hun jonge collega de rug toe te keren, maar Victor Servranckx, de Vlaamse constructivist, die net bezig was naar het surrealisme over te hevelen (hij kocht nota bene het zonet vermelde doek « Voetbalmatch »), liet in « Variétés » een eigenaardige nota afdrukken, waarin hij poogde te begrijpen waarom die jonge man (sc. Marc. Eemans) haatgevoelens kon opwekken, en tot de flatteuse slotsom kwam : « Eemans élargit le domaine de l'inquiétude humaine, sans tirer ses conclusions, sans tâcher de résoudre quoi que ce soit. C'est son droit et - l'opposant aux trop hâtifs théoriciens – je dirai même: c'est ce qui me plaît en lui » (22). Twee jaar later gebeurde echter het onvermijdelijke : Marc. Eemans en Camille Goemans verlieten de groep om redenen die deze laatste niet tot eer strekten. Het toeval dat in het leven en in de geschiedenis zo vaak ingrijpt heeft gewild dat Eemans in de loop van datzelfde jaar - 1930 - bij de door hem samen met Goemans opgerichte uitgeverij Hermes de bundel « Vergeten te worden » liet verschijnen: tien hermetische woordvormen waaraan een gelijk aantal tekeningen van de kunstenaar beantwoordden. Het is overigens vermoedelijk de enige waarachtige surrealistische dichtbundel die Vlaanderen heeft voortgebracht (23).

Ja, hoe de vervreemding van de vrienden Eemans en Goemans van de surrealistische groep verklaard? André Blavier analyseerde onlangs het complex probleem van het tot-stand-komen van de groep rond 1926 en schreef wat volgt: «Diverses démarches, rencontres, chassés-croisés et convergences ont précédé, dont l'enchevêtrement n'est encore qu'imparfaitement démêlé» (24). Persoonlijk wil het me voorkomen dat het vrijwel onmogelijk zal blijken de ware geschiedenis van de groep tijdens de twintiger en dertiger jaren te achterhalen, dat het moeilijk zal vallen de juiste motieven aan te wijzen die sommigen in deze, de anderen in de tegenovergestelde richting stuwden, dat het een zware opgave zal betekenen netjes uit te maken welke affiniteiten en welke instinctieve gevoelens van afkeer in talrijke gevallen de uiteindelijke opties hebben bepaald. Wat het geval Eemans betreft bestond er toch van meetaf een fundamenteel verschilpunt: terwijl de meeste leden van de groep een min of meer «dadaïstisch» verleden achter zich hadden (25) en anderen zich op zekere affiniteiten met een Paul Valéry of een Jean Paulhan beriep (25) en er een erg cartesiaanse denktrant op nahielden, kwam Eemans in de groep terecht met een diametraal tegenovergestelde intellectuele bagage, die hem desniettemin ontvankelijk moest maken voor het surrealisme à la Breton, dat irrationeel en anti-cartesiaans was getint. In de gedachtengang van Eemans, agnostisch en scherp anti-christelijk ingesteld, bezaten de werken der mystiekers en meer bepaald hun visioenen een transcendente waarde die verenigbaar was met de surrealistische aanpak der dingen. Na uit het Middel-Nederlands het eerste visioen van de Vlaamse mystieke Zuster Hadewijch te hebben vertaald, beging bij de onvoorzichtigheid - het woord onvoorzichtigheid stamt in dit geval van mij - de tekst aan zijn vrienden voor te lezen tijdens een bijeenkomst in het ouderlijk huis van Marcel Lecomte, de Merodestraat 226 in Brussel. De reactie was veeleer koel, want noch een Nougé, noch een Magritte, noch een Scutenaire waren er op voorbereid dergelijke boodschap van numineuse aard op te vangen. De enige die hiertoe eventueel in staat bleek, was misschien Marcel Lecomte...

In ieder geval, de kloof was er. Maar hoe thans nog alle aspecten van het drama achterhalen? De specialisten ter zake - en ik bedoel uiteraard niet de hagiografen van het Belgisch surrealisme - zijn het er volmondig over eens dat de studie van het surrealisme in België nog steeds in de kinderschoenen steekt. Tijdens de aan het surrealisme gewijde decade van Cérisy-Ia-Salle (1966) lokte een uiteenzetting van André Souris (die een omstreden en zelfs in staat van beschuldiging gesteld lid van de groep is geweest) in dit verband een vinnige discussie uit : Ferdinand Alquié, die de debatten leidde, begon met zich af te vragen of men moest spreken van een Belgisch surrealisme dan wel van het surrealisme in België? Hij besloot zijn tussenkomst als volgt: « le groupe belge a non seulement nié J'esthétique et la beauté où Breton les nie, mais encore en plusieurs autres où Breton les accepte » (26). In de flink gestoffeerde studie die André Blavier aan het Belgisch surrealisme komt te wijden schrijft deze kenner ijskoud : « Le surréalisme fut, en Belgique, un fait wallon et plus strictement hennuyer » (27), daarbij uit het oog verliezend dat André Souris zelf uitdrukkelijk heeft bevestigd dat de groep van La Louvière, met Achille Chavée en zijn vrienden, wat tien jaar na de Brusselse groep tot stand kwam en reeds tot de tweede surrealistische generatie behoorde (28). Wat mij betreft wil ik er toch op wijzen dat, ongeacht het feit dat het surrealisme in België hoofdzakelijk door franssprekende of tweetalige jonge intellectuelen gedragen werd, verschillende onder hen – net Iijk dit reeds voor de Belgische symbolisten het geval was geweest – van Vlaamse afstamming waren: Camille Goemans, in Leuven geboren , was de zoon van de bestendige secretaris van de Koninklijke Vlaamse Academie voor taal en letterkunde -; Marc. Eemans, in Dendermonde ter wereld gekomen, publiceerde verschillende dichtbundels in het Nederlands; E.L.T. Mesens, Brusselaar van geboorte, debuteerde in de flamingantische groep « Ter waarheid » waartoe intellectuelen als Joris Van Severen behoorden, en hield niet op, zij het ook wellicht uit provocatie, zich de flamingant van Londen te noemen. En vergeten we niet dat de grote Vlaamse expressionistische schilder Frits Van den Berghe een « surrealistische » periode heeft gekend, terwijl een Rachel Baes zich graag beroept op haar voorouders uit het Waasland en het geschikte klimaat voor haar onbetwijfelbaar surrealistisch werk in het Middeleeuwse Brugge heeft gevonden. Tenslotte verdient het feit vermelding - noblesse oblige - dat Marcel Mariën in Antwerpen het levenslicht aanschouwde.

Wat nu Marc. Eemans betreft, onlangs heeft hij zelf het probleem van zijn toegehorigheid tot het surrealisme gesteld, en verklaard dat hij zonder het surrealisme nooit zou geworden zijn wat hij tenslotte geworden is (29). Volstaat dergelijke verklaring evenwel om in hem een waarachtige surrealist te begroeten? Het probleem lijkt me ingewikkeld, maar toch meen ik die vraag bevestigend te moeten beantwoorden, alhoewel Eemans beslist een speciaal type van surrealist blijkt te wezen. Het ligt in de bedoeling deze stelling in de volgende paragrafen te verdedigen. Alvorens van wal te steken wens ik toch te onderlijnen dat men enkele recente publicaties beslist buiten beschouwing moet laten: het speciaal nummer van het « Journal des Poètes », omdat hier de kaarten vervalst worden door weliswaar op twintig pagina’s negentien auteurs te presenteren maar gelijktijdig verschillende andere belanghebbenden hetzij te verwaarlozen, hetzij te verzwijgen; ook de repliek van Marc. Eemans, die weliswaar enkele nuttige gegevens bevat i.v.m. een met de officiële geschiedenis « parallel » lopende visie, maar die desniettemin bij definitie partijdig moet genoemd worden (30).

Een geldig vertrekpunt zijn m.i. daarentegen bepaalde opmerkingen die José Pierre in Cérisy-Ia-Salle geformuleerd heeft n.a.v. de uiteenzetting van André Souris. Volgens hem is het zo dat het Belgisch surrealisme « s'est développé dans un salon » (in een achterkeuken zou Marc. Eemans zeggen) en beging het de vergissing het stalinistisch verschijnsel te verwaarlozen (31). Zijnerzijds onderstreepte Paul Bénichou enkele thema's « que les Belges n'ont pas vécus, c'est-à-dire l'écriture automatique, le rêve, l'inconscient, le merveilleux » (32). Met andere woorden : de leden van de « Société du Mystère » hebben de inhoud van het Tweede Surrealistisch Manifest van André Breton, waarin zekere theoriën van Leo Trotzky onderduims nawerken, onderschat of onjuist geïnterpreteerd, meer bepaald dan de werkelijke toestand van het communisme in de Sovjet-Unie onder het bewind van Jozef Stalin. Anderzijds is het zo dat in het Eerste Surrealistisch Manifest de Duitse romantiekers buiten beschouwing werden gelaten, terwijl André Breton er in zijn Tweede Manifest expressis verbis naar verwijst, inzonderheid naar Novalis, en bovendien plots een « occultation » van het surrealisme aanbeveelt. Marc. Eemans was bijgevolg zowat de enige in de groep der Belgische surrealisten om, gezien zijn voorafgaandelijke kennisname van en affiniteiten met de auteur van « Die Lehrlinge zu Sais » , de nieuwe denkontwikkeling van André Breton te verstaan en te begroeten. In tegenstelling met wat Bénichou beweerde had hij ten andere al in 1927 in de vorm van een brief aan Irène Hamoir, de latere echtgenote van Jean Seutenaire, een tekst aan het automatisme gewijd.

In de voorgaande bladzijden heb ik gepoogd aan de hand van de feiten aan te tonen dat Marc. Eemans reeds vóór zijn twintigste levensjaar ontstellend veel gelezen had en door sommige vrienden beschouwd werd als een vroegrijp «genie ». Daarom weze het me toegestaan even in te gaan op de esthetische categorie (33) van de vroegrijpheid, de precociteit, waarbij ik onmiddellijk duidelijk wens te stellen dat vroegrijpheid uiteraard gedetermineerd wordt door de aanwezigheid op het geschikte ogenblik van één of meer exogene variabelen, alsook zo nodig van de interventie van een catalysator vanaf het moment dat de creatieve voorwaarden ter beschikking staan. Welnu, de precociteit van Marc. Eemans lijkt me een uitgemaakte zaak, temeer daar ze gepaard ging met een ander verschijnsel: zijn autodidactisme. De oude Grieken onderscheidden de « adidact » (hij die nooit scholing kreeg) en de « heterodidact » (hij die door een leermeester onderwezen werd) van de « autodidact » (hij die zichzelf vormde), en koppelden de creatieve zin aan het autodidactisme, zoals ons een aandachtige lectuur van Homeros leer!. Ofschoon het autodidactisme momenteel in de essentieel « heterodidactische » wetenschappelijke middens een slechte pers heeft, handhaaft het literair en artistiek autodidactisme daarentegen zijn adeltitels: men denke even aan de gevallen Rimbaud en Lautréamont. Terwijl Rimbaud een catalysator vond in de persoon van Verlaine, vond Marc. Eemans de zijne in de André Breton van het Tweede Surrealistisch Manifest. Het was deze Breton die hem zijn statuut van autodidact leerde valoriseren. Nochtans mag uit deze vaststelling niet worden afgeleid dat Eemans een slaafse volgeling van Breton zou geworden zijn. Neen, Eemans heeft Breton ·hoogstens tweemaal ontmoet en dan nog veeleer toevallig ; wèl heeft hij steeds de ontdekte affiniteiten naar waarde geschat en op zijn manier te pas gebracht. In dit verband lijkt het me toch nodig er op te wijzen dat Eemans' affiniteiten met André Breton's denkwereld slechts tot het poëtische en het occulte beperkt bleven, daar Eemans in de loop der jaren, op politiek gebied, totaal andere wegen ging dan Breton. Voor hem blijven de marxistisch getinte bekommernissen van het surrealisme tegennatuurlijke geesteshoudingen, aangezien het dialectisch materialisme, zoals het door de marxisten wordt voorgestaan, hem dialectisch onverzoenbaar lijkt met de surrealistische stellingen, althans met deze van Breton. Deze laatste liggen in de lijn van Novalis' « magisch idealisme » (33). Consequent tenslotte met zichzelf en zijn « onderwerping aan de wereld van de mythen » is Eemans in de buurt van Alfred Rosenberg's « Mythus des 20. Jahrhunderts » beland. Dit werd hem natuurlijk in orthodox-surrealistische middens biezonder kwalijk genomen en kost hem tot op de dag van heden vanwege bepaalde salon-communistische belhamels uit bedoelde middens verguizing, lastercampagnes en zelfs uitgesproken haat.

Wat er verder ook van zij, in het elfde onderhoud dat André Breton in 1952 aan André Parinaud toestond, onderstreepte de grote surrealistische voorman de rol die Friedrich Hegel in zijn denken gespeeld heeft en wees hij er op dat het Tweede Manifest een uitnodiging bevatte « à confronter dans son devenir le message surréaliste avec le message ésotérique » (34). Is het niet merkwaardig dat de vrienden Eemans en Goemans precies in 1930, het verschijningsjaar van het Tweede Manifest, hun uitgeverij Hermes hebben opgericht? Volgens mijn bescheiden oordeel hebben we hier te doen met een expliciete echo van bedoeld manifest en vooral van de kapitale· zin eruit: « Je demande l'occultation profonde, véritable du surréalisme » (35). In·een lange verklarende nota bij deze zin beveelt Breton de studie aan van een aantal wetenschappen met slechte reputatie en geeft hij een verklaring van de liefde die onbetwijfelbaar moet beschouwd worden als een verlengstuk van de hoofse liefde van de middeleeuwse troebadoers (36) : « le renoncement à l'amour, qu'il s'entoure ou non d'un prétexte idéologique, est un des rares crimes inexpiables qu'un homme doué de quelque intelligence puisse commettre au cours de sa déjà bien assez sombre vie» (37). Marc. Eemans zal niet nalaten deze oproep op te zuigen, temeer daar de lectuur van boeken die zijn latere ontwikkeling bepaalden, in casu de « Vita Nuova » van Dante, hem reeds voor deze kijk op de dingen hadden gevoelig gemaakt. En had hij niet de twee verzen onthouden waarmee de Tweede Faust van Goethe eindigt:

« Das Ewig-Weibliche
Zieht uns hinan » (38),

zodat hij wel ontvankelijk moest zijn voor Breton', boodschap van « l'amour fou » ? De problemen van « l'amour fou » en van « l'amour sublime » zullen zijn belangstelling ten andere blijven gaande houden, wat verder zal blijken, zodra sprake is van een door Eemans in 1965 in Knokke gedane mededeling. Er is zelfs meer: in Cérisy-la-Salle heeft René Passeron een belangrijke voordracht gehouden over « Le surréalisme des peintres », waarin hij o.m. laat verstaan dat het surrealisme geen « peinture d'amour » zou hebben voortgebracht, doch hoogstens een variante van het picturaal expressionisme. Welnu, in de veronderstelling dat deze stelling juist is, moet toch Marc. Eemans als de uitzondering worden beschouwd die de algemene regel bevestigt; men denke slechts aan schilderkunstige werken lijk « Tempel van de vrouw », « Flora’s rijk » of de assemblage « Het rijk der strelingen » (38a).

Het is hier het ogenblik om even te verwijlen bij de belangrijke « Lettre sur l'automatisme », hoger reeds geciteerd n.a.v. een door Paul Bénichou in Cérisy-Ia-Salle aan de Belgische surrealisten gericht verwijt. Het betreft een in 1927 geschreven tekst waarin Marc. Eemans, zich beroepend op de theorieën van Freud en van Ivan Pavlov; de psychologie van de droom beschrijft. Onder de onuitgegeven teksten van onze auteur bevinden zich overigens talrijke optekeningen van dromen, onmiddellijk na het ontwaken genoteerd. Volgens de kwestieuze « Lettre » is het onjuist de droomactiviteit te interpreteren als een zuiver psychisch gebeuren, doch moet men er eer een gedachtenassociatie in zien die de menselijke psyche onophoudelijk verwart. De idee dringt slechts in beeldvorm tot het droomnet door, maar zodra de mens in wakende toestand is wordt het psychisch automatisme door de agressiviteit van de praktische rede verdrongen. Aan deze tekst ligt de overtuiging ten grondslag dat het nodig is het Westers denken te revolutioneren, omdat dit den ken vooralsnog té uitgesproken rationalistisch is en opdat de Westerse mens eindelijk zou ontdekken dat de taal meer is dan een conventioneel iets tussen levende wezens, het woord geheel iets anders dan de blote abstractie van een begrip, namelijk de gangsteen die alle creatieve mogelijkheden bevat, een magische draagkracht heeft en invloed uitoefent (39).

Langs zijn beroepsbezigheden om heeft Marc. Eemans inderdaad ook het probleem van de taal aangesneden, en wel via een enkwest over de radiotaal dat bij voor rekening van het weekblad « Radio Belgique » van zijn vriend Florent Gaes (wiens redactiesecretaris hij was) gehouden heeft. Volledigheidshalve meen ik er goed aan te doen de in dat verband aan bekende persoonlijkheden voorgelegde vragenlijst integraal af te drukken:

1. Gelooft U in de wording van een zuivere radiofonische stijl: a) op muzikaal; b) op literair gebied?
2. Op literair vlak zal de radiofonische stijl uiteraard een gesproken stijl zijn, maar kunt U zeggen in welk opzicht deze gesproken stijl zal verschillen van de geschreven en van de gewone gesproken stijl?
3. Gelooft U in de mogelijkheid van een bepaalde ritmische stijl, eigen aan de gesproken taal en toch vergelijkbaar aan de prosodische stijl van de geschreven poëzie?
4. Is U vertrouwd met de wetenschappelijke theorieën die momenteel in de linguïstiek actueel zijn? In bevestigend geval, meent U dat ze op het ontstaan van een zuivere radiofonische stijl invloed kunnen uitoefenen? (40).

Dit enkwest bracht er Eemans toe zich te verdiepen in de problemen van het verbaal automatisme en van de glossolalie. Daarom maakte hij zich vertrouwd met de nieuwe taal-psychologische stromingen en meer bepaald met het mechanisme van de gesproken poëzie, dat sterke verwantschap vertoont met de oerbronnen van de lyrische ontboezeming, zoals pater Marcel Jousse (41) net kwam aan te tonen. In dit verband moet ik ten andere ook de aandacht vestigen op een tekst van Félix Wagner, die een persoonlijke vriend van Marc. Eemans was en in het tijdschrift « Hermès » over de oude noordse poëzie schreef (42) : hier is sprake van de « Kenningar » en van de magische kracht der runen. Vandaar dus de belangstelling van Eemans voor de poëzie als heilige taal en als afstraling van het transcendente. Alle in het tijdschrift « Hermès » verschenen studies convergeren ten andere naar dit centraal probleem, namelijk het geheim van de poëzie als weerkaatsing van het onuitsprekelijke en als supra-rationeel kenmiddel.

In het licht van deze enkele gegevens springt het belang van het tijdschrift « Hermès » reeds in het oog. Het eerste nummer verscheen in juni 1933 en het elfde en laatste is december 1939 gedateerd. Het eerste nummer begint met een « Note des éditeurs » (deze en alle latere inleidende nota's zijn, zoals bekend, van de hand van Camille Goemans), waarin sprake is van een duistere vloed die mystiek en poëzie scheidt en waarin als doelstelling van het tijdschrift de verkenning van dit niemandsland aangegeven wordt teneinde uit te maken of het uiteindelijk om een radicale tegenstelling of om een mysterieuze convergentie gaat. Vanaf het eerste nummer herkent men reeds de diverse aantrekkingspolen die de betekenis van het ganse initiatief hebben bepaald. Eerst en vooral is er een door René Baert en Marc. Eemans gemaakte vertaling van het Eerste Visioen van Zuster Hadewych (hoger reeds vernoemd). Dan volgt een tekst van Jean Wahl over Kierkegaard en het mysticisme. Vervolgens is er een essay van Friedrich Gundolf over zijn meester Stefan George, vertaald door Sacha Goernans - Chigirinsky. Tenslotte zijn er nog een studie van Georges Méautis over de mysteriën van Eleusis, en een artikel van Jacques Masui over yoga en mystiek. Afgezien van het visioen van Zuster Hadewych lijken me de studie over Stefan George en deze over de mysteriën van Eleusis betekenisvol voor de doorslaggevende rol die Marc. Eemans van bij de aanvang qua oriëntering van het tijdschrift gespeeld heeft. Inderdaad is het mogelijk te bewijzen dat enerzijds de Kreis-idee van Stefan George zijn verbeelding steeds parten heeft gespeeld, doch dat anderzijds de aantrekkingskracht van het eeuwige Griekenland - het artikel van Georges Méautis herinnert er ons aan - hem nooit losliet.

Marc. Eemans droomde namelijk ook van een Kreis, zoals Stefan George deze gestalte had gegeven, en op een gegeven ogenblik tijdens de tweede Wereldoorlog heeft hij zelfs gemeend er met zijn vrienden René Baert en Franz Briel de kern te hebben van gevormd. Het was alleszins bij George dat bij zich bewust werd van dat « innere Reich » waarvan de integriteit diende gevrijwaard. En het was aan het magistraal Nietzsche-boek van de George-leerling Ernst Bertram (43) dat hij het beeld van « Ritter, Tod und Teufel », naar de ets van Dürer, als symbool ontleende voor al wat in de menselijke houding zonder vrees moet zijn, en in deze van de dichter gekant tegen de valstrikken van het leven . Andere boeken van Bertram, vooral « Das Nomenbuch », hebben stellig de « noordse » blikrichting van Eemans' denken medebepaald, alhoewel er langs de andere kant steeds Griekenland blijft dat in de geest van de kunstenaar noordelijke nuanceringen aanneemt en dit via de poëzie van Hölderlin en de bespiegelingen van Nietzsche over de oorsprong van de Griekse wijsbegeerte en het Griekse treurspel. Erwin Rhode's « Psyché » had Eernans' denken trouwens al naar een esoterische interpretatie van de Griekse wereld gedraineerd. De « permanence de la Grèce » is voor hem geen droombeeld en zijn surrealistische vriend Paul Colinet noemde hem niet zonder reden « Marc le Grec ». Men bekijke ten andere de landschappen die de aehtergrond vonnen van zijn schilderkunstig werk: het zijn zuiderse streken. En vergeten we evenmin dat Eemans gecorrespondeerd heeft met de Griekse dichter Angelos Sikelianos over de delfische spelen die deze laatste nieuw leven wilde inblazen: jammer dat deze briefwisseling verdwenen is (44).

Maar middelerwijl zijn we van het tijdschrift « Hèrmes » afgedwaald. Onder de medewerkers citeer ik lukraak de wijsgeer Jean Wahl, André Rolland de Renéville die het boek « Rimbaud le Voyant » schreef (45), Denis de Rougemont (cfr. voetnota 36), de oriëntalisten Emile Dermenghem en Henry Corbin, alsook de denker Bernard Groethuysen. Voorts was er nog de dichter Henri Michaux die gedurende ettelijke jaren als hoofdredacteur fungeerde ; René Baert en Marc. Eemans waren de directeurs van de ganse onderneming. « Hermès » wijdde speciale nummers aan de mystiek in de Nederlanden (een realisatie van Marc. Eemans), aan Meester Ekkehard (hoofdzakelijk te danken aan de vlijt van Groethuysen), aan Ruusbroec, aan de mystiek van de Islam (samengesteld door Henry Corbin). Dankzij de competentie van Henry Corbin maakte « Hermès » het Franstalig publiek ook voor het eerst met de Duitse existentialisten Martin Heidegger en Karl Jaspers bekend. Deze introductie van het Duits existentialistisch denken en meer bepaald van de wijsbegeerte van Heidegger opende ook voor Eemans zelf nieuwe perspectieven, want Heidegger is immers niet alleenlijk de auteur van « Sein und Zeit », doch ook de schrijver van geleerde bespiegelingen over de poëzie van Hölderlin en van de voordracht « Wozu Dichter? », uitgesproken in gesloten kring n.a.v. de twintigste herdenkingsdag van Rilke's overlijden op 29 december 1926 (46).

Rond 1938 kwam Marc. Eemans klaar met zijn dichtbundel « Het bestendig verbond » waarvan een fragment onder de titel « Wola’s visioen » terstond gepubliceerd werd (47). De naam van Wola de Zienster werd ontleend aan de Edda waarvan Eemans benevens twee Franse vertalingen - o.m. deze van zijn reeds vermelde vriend Félix Wagner - ook de uitstekende Nederlandse versie bezat van de Nederlandse germanist Jan De Vries, hoogleraar aan de Universiteit van Leiden, die hij later tijdens een door « Ahnenerbe » georganiseerd colloquium persoonlijk leerde kennen. Maar terwijl de verzen van de IJslandse dichter op de godendeemstering betrekking hebben, wil Eemans' gedicht de essentiële eenheid onderstrepen die volgens hem bestaat tussen mystiek en poëzie dank zij « de minne » of de bovenvleselijke liefde (48), of nog dank zij de « orewoet » of het mystiek orgasme. De bundel « Het bestendig verbond » verscheen in 1941 bij de Brusselse uitgever Julien Bernaerts, beter gekend onder de naam Henry Fagne. De tekst werd voorafgegaan van een geleerde inleiding over het thema « Marc. Eemans en de metaphysische dichtkunst » (49), geschreven door de Vlaamse essayist Urbain Van de Voorde. In deze inleiding worden mystiek, wijsbegeerte en poëzie als een soort trias voorgesteld met het mythe-begrip als centrale kern. In vroegere tijden waren inderdaad de priester, de magiër en de dichter meestal één en dezelfde persoon, terwijl in het presocratische Griekenland de wijsgeren doorgaans ook dichters waren. Sindsdien overwoekerde het discursief steeds meer en meer het sacraal denken, dat in voortdurende verbinding staat met het numineuze. De wereld geraakte voortdurend meer gerationaliseerd, het heilige en het numineuze werden steeds vlugger tot de rol van esoterische godsdienstigheid gereduceerd en zelfs de wijsbegeerte ontaardde allengs tot een geheel van min of meer schijnbare speculaties, een toestand waartegen Nietzsche en Heidegger vinnig gereageerd hebben. Slechts de poëzie, ten minste zij die deze naam waardig is, is nog draagster van een stukje van het sacrale, en deze poëzie neemt dan metafysische allures aan door beeld en idee tot een synthese te versmelten.

In agnostische middens maakt men zich meestal een verkeerde voorstelling van het begrip sacraal en à fortiori ook van het wezen van de mystiek. In deze kringen denkt men daarbij welhaast automatisch aan superstitie en aan de bekende uitspraak van Marx: « opium voor het volk ». Toch is het onjuist godsdienst, kwezelarij en de zin voor het heilige door elkaar te haspelen. In 1917 verrastte Rudolf Otto de wereld der deskundigen met zijn boek « Das Heilige » waarin hij voor het eerst de notie « numineus » omschreef (50). Omwille van zijn stelling de weerden « God » en « godsdienst » vermijdend, was het er hem om te doen de vormen van de bij definitie niet-rationele religieuse ervaring te analyseren. Geplaatst tegenover het heilige kent de mens twee divergerende gevoelens: een gevoel van angst t.o.v. het « mysterium tremendum », de mysterieuse majesteit van al wat zijn begrip te boven gaat en ·het Onkenbare uitmaakt; en een gevoel van nederigheid t.o.v. het « mysterium fascinans », de aantrekkingskracht die het bovenaardse op hem uitoefent. Deze twee gevoelens zijn « numineus », d.i. hun oorsprong berust in het gans Andere en zij herinneren er de mens aan dat hij slechts een bijkomstig iets is in de oneindigheid van ruimte en tijd . Tijdens bepaalde bevoorrechte ogen blikken slaagt er de mens evenwel in zijn menselijke begrenzing te doorbreken, buiten zichzelf te treden, verrukking te leren kennen , een toestand die intreedt onmiddellijk na wat men in de mystieke literatuur de « duistere nacht » noemt, de nacht van de ziel. Het is geenszins nodig in God te geloven, maar abstractie maken van zijn inauthentisch leven volstaat om dat te ervaren, lijk Heidegger zegt.

Meer dan één volstrekt areligieus auteur heeft ons bericht over ervaringen die gelijkenis vertonen met deze der mystiekers. Aldus Pierre Drieu la Rochelle die bekent in 1914, tijdens twee gevechten met het blanke wapen, een extase te hebben gekend « que tranquillement je prétends égale à celles de sainte Thérèse et de n'importe qui s'est élancé à la pointe mystique de la vie » (51). Ernst Jünger, een andere oudstrijder 1914-18, heeft uitvoerig gehandeld over verschillende aspecten van de oorlog als inwendige ervaring (52). De auteur van « Das Wäldchen 125 » en van « In Stahlgewittern » gebruikt herhaalde malen het woord « Rausch », roes, mystieke dronkenschap, om een staat of toestand aan te duiden die plots intreedt na het stellen van een daad die nochtans niets ritueels of magisch heeft. Men denke ook aan de extatische gevoelens die de drugs kunnen opwekken (53) en men herinnere zich de onbetwistbaar « mystieke » ervaring van de bekende « nuit de Gênes » die Paul Valéry tijdens een verblijf in de ligurische hoofdstad heeft gekend. Als curiosum signaleer ik nog terloops dat de mystieke geschriften van Meester Ekkehard destijds heruitgegeven werden door de marxist Gustav Landauer, één der sleutelfiguren van de Beierse « Räterepublik » van 1919 (54) !

Alhoewel de « mystieke » ervaring die Eemans in zo hoge mate interesseerde zowat de antipode vormde van de bekommernissen van de leden van de « Société du Mystère », was zij nochtans helemaal niet vreemd aan het surrealisme zoals het door Breton werd opgevat. Victor Crastre, groot kenner van het werk en van de denkontwikkeling van Breton, handelt in één zijner studies over « surréalisme et ésotérisme ». Vanzelfsprekend onderlijnt hij dat een streng onderscheid dient gemaakt tussen de religieuse geest die niet noodzakelijk mystiek hoeft te zijn, en de mystiek die niet noodzakelijk religieus dient te wezen doch verschillende gestalten aannemen kan: de erotische, de poëtische em. In dit verband ben ik zo vrij te verwijzen naar de stellingen van Lucien Lévy-Bruhl, die door Marc. Eemans gekend waren en terugslaan op het « prelogisch » denken der primitieve samenlevingen en dat de socioloog zelfs « mystique » noemde (55) . Crastre is getroffen door die zin in het Tweede Surrealistisch Manifest waarin Breton spreekt over dat opperste punt « où la vie et la mort, le réel et l'imaginaire, le passé et le futur, le communicable et l'incommunicable cessent d'être perçus contradictoirement » (56). Betekenisvol is derhalve zijn opmerking nopens een quasi-gelijkenis tussen het denken van Breton en dat van de wijsgeren en mystiekers uit de Middeleeuwen (57). De aandachtige lezer zal op zijn beurt een quasi-gelijkenis vaststellen tussen de ideeën van André Breton en deze van Marc. Eemans. Vermits ik hoger reeds de interventie van Paul Bénichou op het colloquium van Cérisy-la-Salle vermeldde, meen ik deze interventie thans in zoverre te mogen vervolledigen dat, behoudens Marcel Lecomte, Marc. Eemans de enige Belgische surrealist was die de boodschap van het Tweede Manifest werkelijk heeft gehoord en voortaan op zijn manier een surrealisme heeft geleefd dat parallel loopt aan datgene wat officieel voor Belgisch surrealisme doorgaat. André Blavier heeft het ook wel zo gezien waar hij schrijft: « A l'exception de Lecomte, en effet, les surréalistes en Belgique ne manifesteront, à l'inverse aussi de Marc. Eemans, collaborateur d' « Hermès » et plus tard un des participants à «Fantasmagie » qu'un intérêt limité et critique pour les arcanes et les ésotérismes constitués » (58).

Het loont nochtans de moeite even te zien hoe E.L.T. Mesens, een der trouwe vrienden van Eemans, gereageerd heeft op diens « surréalisme parallèle ». Hij verwijt Eemans een evidente geestesverwarring - zelfs op politiek vlak - die hem naar een « culte mystico-panthéiste dont l'expression est symboliste et ne peut rien avoir en commun avec la réduction des antinomies que le surréalisme s'est toujours proposé » (59) leidde. Ik kan die aanval slechts ontzenuwen door beroep te doen op de autoriteit van Serge Hutin, die namelijk getuigt wat volgt: « Pour qui connaît le sens profond de la démarche d'un Marc. Eemans, il ne sera guère difficile de faire justice de semblables reproches, même si certaines de ses oeuvres, voire même si toute l'allure de sa démarche, semblent «l'incliner, en dépit d'un athéisme foncier et essentiellement irréductible, vers un "culte mystico-panthéiste" dont l'expression peut paraître "symboqu'il existe un certain point de l'esprit d'où la vie et la mort, le réel et l'imaginaire, le passé et le futur, le communicable et l'incommunicable, cessent d'être perçus contradictoirement" (Manifestes, p. 92) ne pourrait-elle avoir quoi que ce soit de commun avec cette réduction des antinomies qui serait le but de toutes les démarches liste" . Et d'ailleurs, en quoi cette démarche, qui procède en ligne droite de cette affirmation d'André Breton : « Tout porte à croire surréalistes? » (60).

Het ware wenselijk alles te citeren wat Hutin over dit onderwerp schrijft, maar ik beperk er me toe hem even te volgen waar hij Eemans' « prométhéisme » beklemtoont en daarbij herinnert aan het feit dat laatstgenoemde in de puberteitsjaren diep getroffen werd door het beroemde vers van de Hollandse symbolist Willem Kloos: « Ik ben een God in het diepst van mijn gedachten ». Hutin knoopt hier de volgende uitspraak van André Breton aan vast: « Il ne s'agit que de rendre à l'homme toute la puissance qu'il a été capable de mettre sur le nom de Dieu» (61). Wil men Eemans een zeker confusionisme (juister ware: syncretisme) in de schoenen schuiven, dan vraagt men zich af waarom men dergelijk verwijt niet aan het adres van André Breton richt, aan het adres van hem die de indruk geeft voortdurend in zijn eigen denkproces verloren te lopen en niet de uiterste consekwenties te durven trekken, terwijl toch Eemans, volkomen consekwent met zichzelf, bereid er zelfs de meest nadelige gevolgen van te verdragen, « au bout de la nuit » is gegaan, want waar hij slechts een chiliastische « verrukking » bespeurde, zagen zijn vijanden geheel iets anders dan een geestelijk peilen...

Op het ogenblik dat hij zijn bundel « Het bestendig verbond » drukklaar maakte leerde Eemans - dank zij zijn vriend, de Vlaamse dichter Wies Moens - het boek « Der Geist des Ganzen » van Julius Langbehn (62) kennen. Dit boek is in werkelijkheid een verzameling van artikels die tussen 1902 en 1906 geschreven werden door hem die men in Duitsland de « Rembrandt-Deutsche » pleegt te noemen. Het boek verscheen ten andere posthuum dank zij het toedoen van Langbehn's intieme vriend Benedikt Momme Nissen. Langbehn onderzoekt het totaliteitsconcept vanuit de betekenis van het Griekse woord « katholon ». Volgens hem werkt het « geheel » in functie van de ondergeschikte delen en manifesteert het zich in deze laatste; ieder ouderdeel werkt anderzijds binnen het kader van bet « geheel » en kan slechts bestaan in functie ervan. Het « kwaad » is afwijking, negatie of baat van de organische totaliteit in de mens en in de tijdelijke ordening der dingen; het « kwaad » brengt tweedracht en wanorde teweeg, zodat al wat zich tegen de geest van het « geheel » verzet, spanning schept en in strijd ontaard!. Opdat de geest van totaliteit heerse is nodig dat de intellectuele halfslachtigheid verdwijne, want zij is het resultaat van mensen zonder ruggegraat noch karakter, van mensen zonder binding met de bron van alle scheppingsdrang die toch het authentisch leven is van hem die de totaliteit van zijn menselijk bestaan aanvaardt. Langbehn herinnert er aan dat de Latijnse woorden « vis », « vir » en « virtus », hetzij kracht, man en deugd dezelfde woordstam hebben. De werkelijk echte mens is gelijktijdig kracht en deugd, en streeft er naar « Uebermensch » te worden via een terugkeer naar de bronnen, lijk het ons de mythe van Antaios leert. « Het bestendig verbond » is het verbond tussen de mens en de elementen: de lucht, de aarde, het water en het vuur. Maar het is vooral het verbond met zijn diepste essentie, wat het motto van de bundel verklaart, een woord van Sint Augustinus namelijk: « Quaere super nos », motto dat de Vlaamse dichter Cyriel Verschaeve graag had vervangen gezien door een « videntem videre », lijk hij Eemans persoonlijk schreef.

Aangekomen op de plaats die Dante in het begin van zijn Inferno de « mezzo del cammin di nostra vita » (63) noemt, moest ook Eemans doorheen « una selva oscura » (64) maar instede van aan wanhoop ten prooi te vallen maakte hij er een nieuwe bestaansreden van, een reden om intens in het diepst van zijn « empire intérieur » te leven. Het is een periode van bezinning en meditatie, maar ook van onverdroten intellectueel labeur, vermits hij in deze jaren een dichtbundel in prozavorm « Hymnode » (65) voltooide en in het Frans zowel een essay van de Nederlandse dichter P.N. Van Eyck « Over leven en dood in de poëzie » (66) als de « Beginselen der chemie », dit merkwaardig werk van de Vlaamse dichter Karel Van de Woestijne, vertaalde (66). Ook was het dan dat hij een « Dagboek » hield, waarin hij een vijftigtal dromen optekende, dromen die niet zo zeer nachtmerries dan wel verlengstukken van zijn intellectuele bezigheden waren. Ik denk o.m. aan een door zekere paragrafen uit Ernst Jünger's boek « Das abenteuerliche Herz » geïnspireerde droom (68), of aan die andere droom die uitgesproken antisartriaans getint was. Maar er bestaat bovendien - steeds uit diezelfde periode - een geestelijk dagboek: elf schriften met zowat 265 paragrafen van ongelijke lengte. Eemans noteerde dag-in dag-uit wat hem interesseerde op grond van intense lectuur: nota's, diverse opmerkingen. Het geheel draagt de titel « Perpetuum mobile » en moest eigenlijk een soort « poesophia perennis » worden. Het vertrekpunt zijn telkens gedachten van zijn lievelingsauteurs van weleer: Ruusbroec, Spinoza, Herman Gorter, Jakob Boehme, Friedrich Nietzsche, Jean Wahl, Martin Heidegger, waar nu nieuwe namen bijkwamen: Vladimir Soloviev, Nikolai Berdjajev, Gustave Thibon, J.C. Jung enz. Het hoofdthema van deze « poesophia » is het zoeken naar de « deus absconditus », het numineus beginsel. N.a.v. één zijner bedenkingen bekent Eemans ootmoedig dat de beschrijving van de hel volgens Dante en zijn illustrator Botticelli hem steeds zodanig fascineerde dat hij er rillingen van kreeg. Boehme bracht hem het onderscheid bij tussen de voor de mens onkenbare God, zelfs wanneer hij zich tot op de hoogste top pen der mystieke extase verheft, en de « deus sive natura naturans », kenbaar voor de mens via de schepping en geïncarneerd in dat « empire intérieur » van de mens waarin deze laatste zichzelf ontdekt aIs « een God in het diepst van zijn eigen wezen » Is dat geen echo van het « ella provede, giudica, e persegne / suc regno come il loro gli altri Dei » (69)?

Deze onsamenhangende notities bevatten bovendien waardevolle indicaties nopens Eemans' conceptie van de liefde. Volgens de kunstenaar overtreft het erotische ver de louter sexuele daad (par. 72) en is de « homo eroticus » heel wat anders dan een pervers iemand, bezeten door vleselijke begeerten: « voyant » in plaats van « voyeur » (par. 73). Na in de "Signatura Rerum » van Jacob Boehme de fundamentele notie « lubet" te hebben gevonden, die hij vrijelijk ais gesublimeerde libido (par. 74) interpreteerde, beschrijft Eemans de « homo eroticus » ais zijnde gedreven door zijn « lubet » om zich van de liefde-ascese te bedienen teneinde aan zichzelf ten onder te gaan (par. 75). Rémy de Gourmont spande zich in zijn brochure « Dante, Béatrice et la Poésie amoureuse » in om aan te tonen dat Dante's Beatrice slechts een na te streven ideale voorstelling was. Ik geloof niet dat Eemans het daar helemaal mee eens is en de vleselijke koppeling wil bannen. Ik ben er integendeel van overtuigd dat hij eer bereid ware de visie van John Donne, die dichter van de echtelijke liefde, te onderschrijven. Het betreft de volgende beschrijving in het gedicht « Extase » :

« When love, with one another so
lnteranimates two soules,
That abler soule, which thence doth flow,
Defects of loneliness controules » (70).

Terwijl het « eroccultisme » van een Strindberg sterk beinvloed werd door Swedenborg (71), geldt voor Eemans dat zijn ideeën qua erotiek, culminerende daarenboven in een veredeld vitalisme, rechtstreeks uit de wereld der mystieken en heel speciaal uit deze van Boehme stammen.

Boehme leerde Eemans tevens dat, lang vóór het « panta rhei » der presocratici, er al het subliem Punt was dat reeds bestond voor de verschijning van God (par. 168). Is het niet eigenaardig onder de pen van onze eenzame kunstenaar dit « gierig » geloof in een mysterieus Punt terug te vinden , een Punt waaraan Breton in zijn Tweede Manifest zo vasthield en dat we bij een Teilhard de Chardin terugvinden? Ook moet hier het Leitmotiv liefde en dood, of in de freudiaanse terminologie eros en thanatos, vermeld worden, dat in Eemans' werk constant aanwezig is. Wat er verder ook van zij, de nota's van « Perpetuum mobile » bevatten voorts nog reflexies over de metafysische verhouding tussen het zuiver denken en het wezen van de poëzie. Volgens Eemans zou iedere ware poëzie oorspronkelijk een geheime theologie moeten zijn, een intuïtieve theologie die de theogenetische eigenschap van de mens - zichzelf als een « heilig mysterie » beschouwen - ophemelt. Reeds Boccaccio beweerde in zijn commentaar bij de « Divina Commedia » dat poëzie theologie is. In den beginne was het Woord en het Woord is via de poëzie vlees geworden (par. 174). Eemans ontleent aan Jean Wahl twee neologismen van groot belang: « métaphète » en « ontophilie ». Dan noemt hij de poëzie een « métaphétie ontophilique » om aldus de sleet te ontlopen die zich heeft meester gemaakt van de poëzie in het algemeen en van het woord in het biezonder. Met één slag geeft onze kunstenaar dus aan de poëzie haar originele functie van geestelijke oefening teug (par. 248). Het woord « numineus » komt in deze nota's slechts incidenteel voor (cfr. par. 150 en 152), maar men voelt dat het alom tegenwoordig is van zodra het er op aankomt de diepere zin van de poëzie - die ook liefde is - te definiëren.

Ofschoon Marc. Eemans in zijn nota's « Perpetuum mobile » reeds de hoofdtrekken van zijn « poesophia perennis » schetste, vinden we deze ongeveer twintig jaar later terug in een mededeling die hij deed op de in Knokke in september 1965 gehouden 7e Internationale Biënnale van de Poëzie. Deze mededeling handelde over « La poésie et le monde des sentiments » en is niet enkel interessant op zichzelf, maar ook en vooral omdat ze de mogelijkheid biedt na te gaan hoe Eemans, ongeacht de beproevingen die hij doorstond, zichzelf trouw bleef, overeenkomstig het devies van de laatste ridderorde waarop hij al zijn hoop had gevestigd : « Meine Ehre heisst Treue ». Trouw aan de liefde in zoverre ze een opening naar alle mogelijkheden toelaat (72). En de poëzie, zo betoogt Eemans, is de plaats van alle liefde en sluit ipso facto al uit wat laag-bij-de-gronds en onderduims is. Ingaande op de haat en de woede verklaart hij onmiddellijk dat deze twee neigingen niet tot de wereld van de poëzie kunnen behoren: « La haine et la colère n'appartiennent en fait qu'aux réalités néantissantes et vont à la l'encontre de celles qui tendent vers l'absolu, c'est-à-dire vers le dépassement même de l'homme en direction du mystère absolu que nous avons coutume d'appeler Dieu, mais qui n'est en vérité que le mystère de notre plus profond nous-même» (73).

Na een korte verwijzing naar het door Jules Monnerot aan « La poésie moderne et le sacré » (74) gewijd essay, en na Benjamin Péret tot tweemaal toe te hebben geciteerd, riep Eemans vervolgens uit: « L'Amour et rien que l'amour, voilà bien l'origine et l'essence de toute poésie, -non pas l'amour sordide, mais l'amour total, corps et âme, l'amour dévastateur, celui qui, par delà le sexe, conduit au tout amour, à l'amour au-delà de l'amour » (75). En de toespraak eindigde met een hernieuwde bevestiging van het geloof van de kunstenaar in het magisch idealisme van een Novalis. In 1959 publiceerden Serge Hutin en Friedrich Markus Huebner ten andere een brochure over de kunst en het denken van Eemans waarin de schilder en dichter uitdrukkelijk als « gnostisch » wordt betiteld (76). Om dit kwalificatief begrip naar waarde te schatten is het nuttig te verwijzen naar een in april 1966 in Messina gehouden colloquim over de oorsprong van het gnosticisme. De specialisten ter zake kwamen o.m. tot de bevinding dat het beter is het woord « gnosis » te gebruiken wanneer het gaat over de aan een elite gereserveerde kennis van goddelijke mysteries, onafhankelijk van tijd en ruimte, en van « gnosticisme » te spreken wanneer men het heeft over een geheel van coherente denksystemen uit de tweede eeuw onzer tijdrekening (77). In antieke godsdiensten bestonden enkel mysteries voor de niet-ingewijden, zodat het arcanum automatisch in gnosis veranderde zodra het bij de ingewijden of de wijzen terechtkwam. Maar er is ook de « docta ignorantia » van een Nikolaus van Kues waarover paragraaf 133 van « Perpetuum mobile» handelt: Eemans analyseert de begrippen « apophatisch» en « kataphatisch » om te belanden bij de twijfel, deze voor hem zo karakteristieke aporie: bestaan we werkelijk, zijn we niet slechts schijn en « representatie », om schopenhaueriaanse termen te bezigen?

Ja, die « docta ignorantia » ... Maar is het een voldoende reden om zich aan de onwetendheid over te geven en te doen als-of? Eemans schijnt ons veeleer te zeggen: laat ons liever een nieuwe gnosis opbouwen, een gnosis die iets ontleent aan alle gnostische tradities die de én mystieke én mythische verbeelding van de mens hebben onledig gehouden en die hem telkens aanwakkerden om opnieuw te geloven in de almacht der ideeën. Ben gnostische proeve in die zin is ongetwijfeld Marc. Eemans' « Boek van Bloemardinne », het resultaat van een uitdaging van de vrouwelijke kunsthistoricus en neuroloog Juliane Gabriëls en handelend over de Brusselse ketterin uit de 14e eeuw Bloemardinne die de venusiaanse liefde onderwees vanop een zilveren spreekgestoelte. Men zou niet eens haar bestaan hebben vermoed, ware het niet dat Pomerius deze heterodoxe mystieke vrouw in zijn Ruusbroec·biografie in enkele regels veroordeeld had (78). Maar deze weinige regels volstonden voor Eemans om één der meest originele en meest diepzinnige werken van de moderne Nederlandse literatuur te schrijven (79). Het betreft geen proeve van reconstructie van het denken van Bloemardinne, maar veeleer zijn het contrapunctische variaties op mystiek-esoterische thema's, bij zoverre dat Bloemardinne zowel commentaar levert op deze of gene uitspraak van Ekkehard als zekere beweringen van Nietzsche verwerpt. Er komen zinspelingen op Tanchelin, die andere Middelnederlandse ketter, in voor en men vangt echo's op van Hermes Trismegistos en uit de « Divina Commedia » van Dante. Toch is het alles behalve een zuiver cerebrale uiteenzetting, ja in werkelijkheid een levendig geschrift vol poëtische nuances binnen een welomlijnd decor : de middeleeuwse hoofdstad van het graafschap Brabant met het woud in de onmiddellijke omgeving, waar Ruusbroec zijn « Die Chierheit der gheesteleker Brulocht » en andere bewonderenswaardige werken schreef.

In « Het Boek van Bloemardinne » komen ook visioenen en beschrijvingen van zuivere magie voor en dat alles is geschreven in een taal die Friedrich-Markus Huebner van Eemans deed getuigen dat hij de « sprachmächtige Dolmetscher zeitloser Erkenntnisse » is. Aan dezelfde bron ontsproot in 1956 « Hymnode ». (80), een ander werk vol bliksemschichten, dat voorafgegaan wordt van een « psychomachia » en gevolgd door een « Na-wereldse minnezang ». Deze laatste eindigt met het fatalistisch « en Eros Thanatos... », waarover hoger reeds sprake was; er mag trouwens in dit verband gewezen worden op de slotzin van een andere publicatie van Eemans: « Ah que la mort soit nôtre, et qu'elle est douce... » (80a). Hoe en waar dergelijke werken onderbrengen of catalogeren? Zijn het uitingen van die « culte mystico- panthéiste dont l'expression est symboliste » die Mesens aan Eemans verweet? Op het eerste zicht zou men geneigd zijn ·bevestigend te antwoorden, maar bij nader toekijken merkt men dat het « poëtische collages » zijn zonder het minste symbolistisch achterplan, want opdat er van symbool sprake kan zijn moet voorafgaandelijk « une signification conventionnelle » bestaan en is tevens nodig dat de verwoorde zaak in de plaats staat van een verborgen zaak die men tracht te sensibiliseren bij middel van een metafoor of een allegorie, zodat de ingewijden haar kunnen interpreteren en begrijpen. Niets van dat alles bij Eemans: er is slechts zijn persoonlijk denkklimaat, een klimaat dat gelijktijdig mythisch en metafysisch is, maar vooral poëtisch en dus magisch; om dat klimaat tot uitdrukking te brengen bedient hij zich van beelden en woorden die geen plaatsvervangende functie vervullen doch er enkel staan voor zichzelf met al het « gewicht » dat hen kenmerkt. Voor Eemans is een hond b.v. geen symbool van trouw of aanhankelijkheid, maar «een viervoeter die behoort tot de soort der op tenen lopende vleesetende zoogdieren », en is er een hond in één zijner werken aanwezig, dan is het niet iets alledaags, doch een aanwezigheid omringd met een soort lichtkring om die hond beter te plaatsen in een transcenderend klimaat dat niets gemeen heeft met welkdanige symboliserende bekommernis dan ook. Eemans' poëtische en mythische, alias mystische bronnen zijn van diverse aard en om het in feite uiterst « simplistisch » mecanisme van zijn poëzie te leren kennen volstaat het na te gaan hoe hij zonder enig vooroordeel zijn schijnbaar « diepzinnig » schilderwerk componeert : de lichaamsvormen van een vrouwelijk naakt verleiden hem b.v. wegens de zuiverheid van de lijnen, een andere vorm zal hem evenzeer bekoren en zo komt hij er toe een harmonieus amalgaam te smeden zonder te hebben moeten beroep doen op de platgelopen schablone van de toevallige ontmoeting... Iedereen weet wat Lautréamont bedoelde. De « fantasmagische » schilderes Elisabeth Geurden, een zijner vriendinnen, verwijt trouwens aan Eemans dat hij zijn inspiratie zoekt bij de naakte dametjes uit « Playboy » en « Lui » !

Neen, Eemans doet geen beroep op het fantastische of het monstrueuse, maar wel op het poëtische van wat Novalis het « magisch idealisme » noemde, d.i. het wonderbare, dat « merveilleux » dat André Breton zo graag tegenover het « mystère » plaatste (81). Toch sluit één en ander niet uit dat Eemans ook aan humor doet en Magritte soms op eigen terrein verslaat, zoals kunstcriticus Georges Fabry deed opmerken (82). Dan stoot men op zo iets lijk wijsgerige persiflage: in « De stelten van de wijsgeer » (sc. Bergson) b.v. of nog in « Cette pipe est bien une pipe » (een assemblage bij middel van een echte pijp). Hetzelfde klimaat van humor vinden we terug in « Paul Delvaux schildert de therapeut van Magritte » : één der duiven van Magritte werd vervangen door een vrouwtje van Delvaux, terwijl Magritte poseert, zijn hoed stevig op het hoofd... Het is een waarachtig werk van durf en uitdaging. - Maar om naar de Marc. Eemans van het « magisch idealisme » terug te keren, heeft dat idealisme iets gemeens met de surrealistische orthodoxie? Welnu, hier kan worden verwezen naar het oordeel van Gérard Legrand, de jonge medewerker van André Breton toen die zijn boek « L'art magique » samenstelde. Legrand zegt woordelijk dat twintig eeuwen vroeger, in de Syrische woestijn en aan de boorden van de Nijl « vécurent des hommes dont le mouvement de pensée présente avec le nôtre de si frappantes affinités que plusieurs d'entre nous n'ont pas manqué, tout étrangers qu'ils soient aux études spécialisées généralement requises en pareil cas, s'intéresser à eux » (83). Waarom dan verbaasd opkijken bij het vernemen dat Eemans zich voor esoterische en mystieke literatuur interesseert, en waarom zich opwinden wanneer men vaststelt dat zijn intellectuele ontwikkeling, zijn geestelijke queste volkomen in de lijn van het zuiverste surrealisme liggen?

Laat ons een moment de tekst van André Breton over de magische kunst bekijken. Die tekst is uiteindelijk niets anders dan een verlengstuk van het magisch idealisme van Novalis, van het idealisme dat aan de oorsprong ligt van Eemans' geestelijke evolutie. In Breton's tekst komen talrijke zinnen en opties voor die Eemans even goed , zou kunnen geschreven hebben. Ik vestig evenwel zeer speciaal de aandacht op de volgende passus: « La conception de l'oeuvre d'art comme objectivation sur le plan matériel d'un dynamisme de même nature que celui qui a préside à la création du monde s'éclaire d'une lumière particulièrement vive chez les Gnostiques» (84). Men heeft als het ware de indruk een zin te lezen uit het « Perpetuum mobile » van Eemans...

In het licht van wat vooraf gaat kan men zich rekenschap geven van de wereld die het denken van André Breton en Eemans scheidde van dat van de leden van de « Société du Mystère ». Marcel Mariën heeft zelf in een interview dat hij enkele jaren geleden toestond aan Christian Bussy n.a.v. een reeks uitzendingen van de R.T.B. over het surrealisme, in weinige woorden bevestigd dat er verschillen « et même des différences fondamentales » bestaan hebben tussen de Belgische surrealisten en het door Breton verdedigde surrealisme (85). Het betrof vooral de doeltreffendheid van het poëtisch experiment. En Mariën, na gesproken te hebben over het verschil in opvatting tussen Breton en Eluard over de essentie van de poëzie, onderlijnde dat de « Belgische » conceptie nauw verwant was aan deze van Eduard, volgens wie « le poète .est celui qui inspire bien plus que celui qui est inspiré » (86). Vandaar dat Mariën besloot: « Pour Nougé, pour Magritte, jamais il n'a été question de concevoir autrement l'activité poétique que sous l'angle de la préméditation, c'est-a-dire de l'invention d'un objet (poème ou image peinte) susceptible de toucher, de bouleverser le lecteur, le spectateur. Une telle démarche, il va sans dire, exclut le hasard en tant que facteur primontial. Elle réclame une attention soutenue, la méditation prolongée, des précautions, des ratures, des reprises, une hésitation, une prudence infinies » (87).

Mariën ging dan verder als volgt: « Or Breton, à partir de l'expérience de l'écriture automatique, a construit une théorie, un véritable système philosophique qui élève l'inspiration naïve au rang de vérité, ce qui l'englue à mon sens dans la mystique » (88). Kortom, net lijk Eemans, is ook Breton in de mystiek « vastgelopen » ... Vanzelfsprekend zijn de leden van de « Société du Mystère » nooit op die manier «vastgelopen» want in hun geval - Marcel Lecomte en Camille Goemans niet te na gesproken - was het qua inspiratie altijd erg mager gesteld. Men mag zelfs beweren dat iedere vorm van metafysica hen a priori verdacht voorkwam. Men moet slechts enkele hunner werken lezen om te merken dat ze dichter bij de scherts dan bij de « geestelijke bruiloften » staan. Overigens waren de afleveringen van « Fantômas » van Marcel Allain en Pierre Souvestre, alsmede de « Série noire » van Gallimard één der meest geliefde « nourrituresterrestres » van René Magritte. Niet de minste belangstelling voor shi-itisch Iran b.v. zoals het ons Henry Corbin schildert in « Terre céleste et corps de résurrection » (89) ; evenmin trouwens voor de « Cantos » van Ezra Pound (90).

Bepaalde iconografische documenten spreken boekdelen over de geestesgesteldheid van de leden van de « Société du Mystère » ; zo de foto « Le rendez-vous de chasse » waarop men van links naar rechts Mesens, Magritte, Scutenaire, Souris en Nougé herkent en, in zittende houding, drie hunner dames: Irène Hamoir, Marthe Nougé en Georgette Magritte. Het is de banaliteit, de mediocriteit van kleine provinciemensen die tot de rang van ideaal verheven werden, terwijl Marc. Eemans er prat op kan gaan - of kan gaan - zich door Paul Colinet « Marc le Grec » te laten noemen, of « Marc l'Echanteur » door de Franse dichteres Anne-Marie De Backer. In de ogen van de kunstcriticus Stéphane Rey lijkt hij « un peu comme un prince germanique, sorti de l'ombre ou du tombeau, porteur d'un message de l'autre monde. Mage et prophète, sorte de revenant chargé de sortilèges » (91). Wat kan ik nog toevoegen aan dit magisch portret van hem waarvan ik gepoogd heb de denkontwikkeling te schetsen tot aan de einders van de wereld die de onze is? Zijn leven lang bleef hij trouw aan zich zelf: dergelijke continuïteit kan verrassen in een periode die op de gemakzucht is afgestemd, maar Eemans zoekt de moeilijkheid op « te zijn » en denkt enkel aan zelfanalyse volgens het voorschrift van André Breton, en dit op zulkdanige wijze zelfs dat zijn trouwste vrienden hem steeds opnieuw een ietsje moeten ontdekken. Ik heb getracht hem te ontdekken maar beken ootmoedig dat talrijke facetten van zijn complexe persoonlijkheid niet tot hun recht zijn gekomen. Anderen zijn mogelijk handiger in dit soort dingen en ook scherpzinniger wellicht: dat ze hun talent van bronzoeker op Eemans beproeven en ontdekken wat mij verborgen bleef en wat ik niet met de gewenste duidelijkheid kan verwoorden.

Grimbergen, 12 mei 1972.

Dr. Piet Tommissen, Marc Eemans, Brussel: Henry Fagne, 1972.

dimanche, 16 septembre 2012

R. Steuckers: Entretien accordé à Thorsten Thomsen

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Entretien accordé à Thorsten Thomsen

Sur l’Europe, la Belgique, les cantons d’Eupen-Malmédy, Ernst Jünger, Carl Schmitt et... la “nouvelle droite”...

 

Monsieur Steuckers, c’est désormais un secret de polichinelle: l’eurocratie bruxelloise planifie, via une union monétaire centrée autour de l’euro et pratiquant le transfert systématique, l’avènement d’un  gigantesque Etat unitaire de la Méditerranée à l’Arctique, dans lequel les différents peuples d’Europe finiront par être dissous. Or c’est justement votre pays, la Belgique, qui sert aujourd’hui  d’exemple, pour dénoncer l’impossibilité de tout assemblage de peuples divers au sein d’un Etat unitaire artificiel. Malgré l’apparent apaisement de la longue crise politique belge, qui ne saurait être que passager, voyez-vous encore un avenir pour l’Etat belge?

 

Le problème majeur, c’est justement que ces maudits eurocrates veulent nous fabriquer un “Etat unitaire”; je dirais plutôt qu’ils vont nous mitonner une panade insipide, où l’on mélangera tous les ingrédients possibles et imaginables, la rendant totalement immangeable; tous les ingrédients seront finalement détruits lors de ce processus de mixage, comme on peut déjà l’observer aujourd’hui. Mais je reste “européiste”: l’Europe a surtout besoin d’une unité spirituelle, de devenir un “grand espace” le plus autarcique possible, indépendant sur le plan alimentaire (ce qui s’avèrera une tâche bien difficile); l’Europe, comme toute autre entité politique, ne peut être déterminée par l’économie seule (par l’ “illusion économique” dirait Emmanuel Todd), car l’économie, conçue chez les libéraux comme chez les socialistes non pas comme une pratique nécessaire, comme une pratique d’intendance, mais comme une idéologie universaliste, est appelée à gérer sur des modes préconçus (a priori) et homogènes un ensemble bigarré de différences désordonnées et irréconciliables dans leurs altérités: dans cette optique, même si j’étais, par exemple, le producteur agricole idéal selon l’eurocratisme, je ne pourrais pas faire pousser les mêmes denrées végétales en Finlande et en Sicile, je ne pourrais pas élever des rennes en Grèce et faire croître une oliveraie en Laponie. L’eurocratisme abscons et caricatural se heurte là à une impossibilité physique, géographique et naturelle. Cette lapalissade, que je viens d’énoncer, les eurocrates ne semblent pas la comprendre. Toutes les zones agricoles qui composent l’Europe devraient dès lors pouvoir conserver leurs propres rythmes.

 

Les peuples d’Europe se liquéfient, s’évaporent dans le néant, basculent dans l’impolitisme, c’est certain, mais ce n’est pas uniquement parce qu’il existe une UE; d’autres facteurs sont depuis longtemps déjà entrés en jeu: la circulation accélérée des biens et des personnes (qui n’est pas un mal en soi mais qui exige des  régulations rigoureuses), le tourisme de masse, l’abêtissement généralisé et l’exotisme des “informations” (on devrait dire: des “dés-informations”) diffusées par les ondes ont contribué à dissoudre la notion de peuple, telle qu’on la concevait jusqu’à la moitié du 20ème siècle. C’est une raison pour lire et relire le discours qu’avait tenu Martin Heidegger sur la généralisation de la télévision au début des années 60, discours que lui avaient réclamé ses concitoyens et ses amis d’enfance de Messkirch en 1961. La “proximité”’ (die Nähe), que Heidegger a pensée à fond, est une force qui disparaît, en même temps que le nécessaire ancrage local, territorial et “vernaculaire” (E. Goldschmidt, L. Ozon) de toute activité humaine (cf. Emil Kettering, Nähe – Das Denken Martin Heideggers, Neske, Pfullingen, 1987). Finalement, au bout de ce processus de disparition de la “proximité”, nous voyons apparaître ou, pire, s’amplifier, les nouvelles “maladies de civilisation”, dont on escamote symptômes, effets et ampleur depuis quelques décennies. Aujourdhui, des auteurs comme Tony Anatrella en Italie ou Nicole Aubert en France les ont dénoncées avec justesse et vigueur, du moins celles qui génèrent des pathologies neurologiques ou mentales. Lorsque le “lointain” (die Ferne) déboule sans aucune forme de régulation dans notre propre “proximité” (Nähe), un chaos difficilement maîtrisable s’installe, celui dans lequel nous vivons aujourd’hui: Julius Evola aurait très justement nommé une telle époque “Kali Yuga”. L’immigration n’est ici sans doute qu’un phénomène connexe.

 

L’Europe aurait pu et dû devenir une “Union douanière” (Zollunion) rationnelle, visant une forme d’autarcie bien équilibrée. Les principes de Friedrich List auraient dû servir d’orientation et non pas une idée d’unité impossible à réaliser parce que dépourvue de toute concrétude, a fortiori quand, depuis une trentaine d’année, on se vautre dans l’idéologie et la pratique néolibérales et planétaristes, impliquant d’ouvrir toute grandes les frontières à des produits provenant de pays extérieurs au “grand espace” européen. A tout cela s’ajoute la calamité des délocalisations. L’idée d’unité aurait dû signifier simultanément “unité spirituelle” et “autarcie économique”, avec zones agricoles différenciées, gérées de manière autonome, et avec la possibilité, pour les pays moins développés, d’une protection de la production intérieure, surtout celle des PME  (“Petites et Moyennes Entreprises”), de manière à ne pas miter et disloquer le tissu social. Il faut encore dire que l’Europe est aussi totalement dépendante des Etats-Unis sur le plan militaire, tout en étant continuellement espionnée par un système satellitaire comme Echelon. L’Europe demeure entièrement dépendante de certaines matières premières qui ne se trouvent pas sur son sol et ne bénéficie pas d’une indépendance alimentaire suffisamment solide malgré les milliards que gaspille l’eurocratie dans une “politique agricole commune”, dont on ne perçoit pas très bien le sens et la rationalité. L’idéologie pacifiste, cultivée par l’eurocratisme, est un pacifisme mal conçu dans la mesure où il a toujours empêché les décideurs européens d’apporter les bonnes réponses à ces problèmes de défense et d’indépendance alimentaire. Au lieu de croire aveuglément aux “bonnes intentions” proclamées par les Américains, l’Europe aurait dû chercher des solutions adéquates.

 

La Belgique? C’est une autre histoire. D’abord, je dois vous dire, comme à tous mes lecteurs non belges, que la production de bons livres pertinents et que l’organisation de séminaires et de colloques de grande qualité sur les questions belges ou sur l’identité des peuples, régions ou sous-régions du pays, connaissent dans le royaume une floraison inédite: on commence enfin à penser de manière différenciée et fondée, sans tenir compte de toutes les apologies de ce statu quo, que le système entend pérenniser jusqu’à la consommation des siècles. J’espère pouvoir vous en dire plus dans d’autres textes ou entretiens. Je me contenterai d’apporter une réponse simple et directe à votre question: depuis le début de la crise belge actuelle, c’est-à-dire depuis les élections législatives pour le Parlement fédéral en 2007, je me suis mis, comme beaucoup d’autres, à potasser grimoires anciens et ouvrages récents sur des thèmes dits de “Belgicana”. A l’étranger, toute cette littérature n’est jamais lue ni a fortiori citée, si bien qu’on se contente de répéter les poncifs habituels, qu’ils soient “belges” (belgicains), flamands ou wallons. La façon dont votre question est formulée le prouve déjà. D’abord, lorsque vous parlez d’un “assemblage hétéroclite” de peuples, parqués dans une zone donnée, il faut savoir que cet “assemblage” date déjà d’il y a 500 ans, depuis que l’Empereur Charles-Quint a créé le fameux “Cercle de Bourgogne” (Burgundischer Kreis) dans le cadre du Saint Empire et depuis que les provinces méridionales de cet ensemble ont opté pour la contre-réforme catholique. La division qui traverse la Belgique n’est donc pas déterminée par un facteur religieux comme dans l’ancienne Yougoslavie. C’est pourquoi, contrairement à mon ami Tomislav Sunic, je ne parle jamais de “Belgoslavie”. Le penseur russe Alexandre Douguine avait très bien vu et analysé la situation yougoslave, au moment où l’enfer se déchaînait dans les Balkans au début de la décennie 90, dans le sens où, là-bas, trois forces métaphysiques planétaires, disait Douguine, se télescopaient frontalement, surtout en Bosnie. Ici, dans l’espace belge, les clivages, générateurs d’antagonismes, sont plus récents et donc moins profonds.

 





 

L’histoire intellectuelle du mouvement flamand nous enseigne que la querelle a certes une dimension linguistique (ethno-linguistique) mais que la révolte flamande est aussi, politiquement parlant, une révolte populaire diffuse et largement inconsciente contre les avatars évidents ou déguisés des idées de la révolution française, une révolte plus prononcée côté flamand parce que les productions idéologiques françaises n’y détiennent aucun monopole. En Wallonie, alors que certains régions rurales se sont aussi rebellées contre les idées de la révolution française, l’influence actuelle (depuis une soixantaine d’années) des productions politico-intellectuelles parisiennes et surtout des médias audiovisuels vicient considérablement la situation et impriment dans les cerveaux une vulgate de gauche, favorable aux idées de la révolution française et du bonapartisme même à ses aspects libéraux et anti-populaires, une vulgate reprise par le parti socialiste dominant. La révolte contre la francophonie en Flandre est une révolte contre les “idées révolutionnaires institutionalisées” de Paris tandis qu’en Wallonie la dominante est une acceptation de fait de ces discours. Le fait que la Wallonie accepte ces discours, et renonce à certains accents de ses propres productions non révolutionnaires et souvent catholiques, fait que la Flandre ne veut plus avoir à faire avec le Sud du pays. La révolte sourde et permanente que connaissent les pays flamands contre les discours révolutionnaires institutionalisés venus de France, ou contre les nouvelles moutures libérales ou gauchistes, panmixistes ou mondialistes, de ce discours, n’est pas pour autant une attitude qualifiable de réactionnaire: le pays aurait pu forger un socialisme vernaculaire, plus conforme aux stratifications sociales et idéologiques qui ont existé depuis la fin du régime autrichien au 18ème siècle, stratifications sociales et idéologiques qui étaient d’ailleurs bien différentes de celles qui régnaient en France à la même époque.

 

La crise belge durera tant qu’il y aura trace, dans le pays, d’idéaux ou de discours “républicains” importés de France par les médias français (presse, télévision), tant que des esprits en seront influencés, tout comme par ailleurs la France elle-même ne se redonnera pas de destin si elle persiste à aduler les “nuissances idéologiques” modernes que les périodes troubles de son histoire ont générées. Et, en Belgique, cette crise touchera aussi les entités qui pourraient naître d’une éventuelle dissolution du pays car l’influence trop prononcée des médias parisiens fait que plus personne ne pense en terme d’identité (il y a irruption constante d’idées “lointaines”, et abstraites, dans ma proximité concrète), en termes politiques locaux, hérités de notre histoire et non pas importés d’ailleurs. Ce n’est pas là une idée qui m’est personnelle: c’est bien la volonté de recentrer les discours politiques sur ce qu’ont produit les identités de l’espace belge au cours des siècles (et surtout du 19ème siècle si fécond en érudition historique) qui explique pourquoi, au cours de ces dernières décennies, et surtout depuis la crise de 2007, de très nombreux universitaires se sont penchés en profondeur sur les “identités” (au pluriel!), en commençant par réhabiliter la littérature belge complètement éclipsée des programmes scolaires, universitaires et médiatiques dans les années 50, 60 et 70 (parce qu’elle était assez souvent “politiquement incorrecte” au regard des médiacrates parisiens et de leurs nombreux “collabos” locaux). Dans l’entre-deux-guerres, on était très conscient de l’enjeu des lettres et du danger français: c’est ce qui explique l’engouement pour l’ “idée bourguignonne” dans tous les cercles culturels francophones, y compris les plus officiels, et pas seulement chez les rexistes de Léon Degrelle. Après 1945, tout cela a été “oublié” et la francisation de la culture francophone belge et wallonne a pu battre son plein, accélérée par la télévision (confirmant cette idée heidegerrienne de la perversité intrinsèque que constitue l’irruption du “lointain” dans notre “proximité”, exprimé dans un discours à Messkirch en 1961). Cela ne veut pas dire que la Flandre était mieux lotie: si les Wallons et les francophones étaient décervelés par les médias parisiens, les Flamands, eux, subissaient une américanisation galopante, comme partout ailleurs en Europe. Cette américanisation entraînait aussi la “dégermanisation” de la Flandre, qui perdait tous ses liens culturels avec l’Allemagne, a fortiori quand l’enseignement de l’allemand n’était guère mieux organisé qu’en Wallonie, au profit du “tout-anglais”. Ces deux processus d’aliénation, la francisation des francophones wallons et bruxellois et l’américanisation des Flamands, entrainent une incompréhension mutuelle qui explique le caractère durable de la crise belge actuelle. Bien sûr, cette crise a aussi des motifs purement politiciens.

 

Quelle sont les clivages conflictuels majeurs qui provoqueront à votre avis l’échec définitif de la Belgique?

 

Si en fin de compte la Belgique échouera, éclatera, ou si elle se maintiendra, personne ne peut le dire à l’avance. Mais il est une chose certaine: nous assisterons, nous assistons déjà, à l’émergence d’une zone “neutralisée” (au sens où l’entendaient Carl Schmitt et Christoph Steding) au Nord-Ouest de l’Europe. L’écrivain flamand Rik Van Walleghem a publié récemment une livre remarquable, et en même temps très drôle, sur la mentalité belge actuelle: l’individualisme forcené, perceptible dans toute la population (en Flandre comme en Wallonie), est devenu si fort que plus aucune politique de “Bien commun” n’est possible. Cela signifie que le pays est de facto “neutralisé” dans la mesure où toute politique véritablement “politique” (Julien Freund) n’y est désormais déployable, parce que plus aucune “position” claire ne peut encore s’y manifester, l’espace belge, dans ces conditions, ne pouvant plus demeurer un “sujet politique” même de modestes dimensions. Le refus du “Bien commun”, ou l’impossibilité de le servir, et la disparition de la “subjectivité politique” relèvent bel et bien de cette attitude anti-impériale et anti-politique que dénonçait un auteur allemand de la “révolution conservatrice”, aujourd’hui largement méconnu et oublié, Christoph Steding. Peu avant sa mort en 1934, Steding ne comptait pas la Belgique parmi les nations “impolitiques” d’Europe, comme la Suisse, les Pays-Bas et la Scandinavie. Aujourd’hui, s’il pouvait lire le livre de Van Walleghem, il la compterait sûrement parmi les pays “impolitiques”!

 

Le problème linguistique belge n’est pas bloqué en Flandre ou en Wallonie, mais à Bruxelles et dans les six communes flamandes autour de la capitale où se sont installés des francophones ou des Flamands devenus francophones dans les années 60, 70 et 80: c’est là que réside le contentieux territorial et politique; les Flamands estiment que le principe de territorialité doit primer (une seule langue pour un territoire délimité et défini par le législateur lors de la fixation de la frontière linguistique); les Francophones estiment, pour leur part, que l’emploi d’une langue par une personne lui donne automatiquement le droit à être servie dans cette langue par l’administration de la commune ou de la région; le nombre de locuteurs d’une langue déterminant de la sorte le statut linguistique du territoire, en dépit de toute décision antérieure du législateur. On le voit: les deux positions sont antagonistes, sans la moindre possibilité de négociation fructueuse ou de compromission féconde. L’immigration à Bruxelles pose un problème supplémentaire: en Flandre, tous sont plus ou moins en faveur d’une réduction drastique des flux migratoires mais, chez les francophones, qui “in petto” veulent la même chose, on est trop influencé par l’idée d’une panade “panmixiste” prêchée depuis Paris. On n’ose pas prendre de position plus radicale parce que cela déclencherait immédiatement une campagne de haine et de diffamation dans les médias français. Si des socialistes ou des démocrates-chrétiens wallons se mettaient à voter des mesures limitant les flux migratoires, des journaux parisiens comme “Libération” ou “Le Monde”, lus par les francophones belges, déclencheraient automatiquement des campagnes de presse contre le pays, stigmatisant, une fois de plus, un racisme ou un fascisme imaginaires, comme ce fut le cas avec Haider, Berlusconi ou Orban.

 

 

Autre problème récurrent de la Belgique: l’état de son système judiciaire, qui fonctionne très mal surtout à Bruxelles. L’ancien recteur des Facultés universitaires Saint Louis de Bruxelles, le Prof. François Ost, laisse sous-entendre, dans un ouvrage remarquable, que les problèmes de la justice, surtout en Belgique mais aussi ailleurs en Europe ou dans le monde, ont commencé lorsque la plupart des juristes (juges, procureurs et avocats) n’ont plus reçu une formation philosophique et littéraire solide et adéquate, surtout à partir du moment où l’on n’exigeait plus d’eux, comme auparavant, d’avoir bénéficié d’une formation classique, impliquant l’étude, à l’école secondaire, des racines grecques et latines de notre civilisation. Le Prof. Ost plaidait pour un formation générale et classique plus étoffée du personnel de la justice, faute de quoi les jugements posés deviendraient “mécaniques” et donc, souvent, “kafkaïens”. A côté de ce déclin culturel général, qui frappe aussi magistrature et barreau, règne un laxisme qu’a révélé la fameuse “affaire Dutroux” dans les années 90 du 20ème siècle. Les délinquants juvéniles, nombreux dans les grandes villes, s’en tirent trop souvent à bon compte: on ne leur inflige que quelques vagues réprimandes, dans un français ou un néerlandais qu’ils ne comprennent généralement pas. La confiance dans les professions juridiques en est profondément ébranlée: les avocats sont perçus comme des “raboulistes” aux yeux des simples citoyens; quand ce sont plutôt les règles qui jouent au détriment des faits dans les procès, le bon peuple ne comprend pas pourquoi les délinquants sont acquittés pour des “vices de procédure” sans qu’il ne soit tenu compte des faits répréhensibles qu’ils ont commis, fussent-ils des crimes effroyables. Les colonnes des journaux, notamment le plus lu du royaume, “Het Laatste Nieuws”, fourmillent de lettres de lecteurs dépités qui n’usent généralement pas d’un vocabulaire amène à l’égard des juristes, avocats comme magistrats.

 

L’implosion de la société belge n’est donc pas seulement politique, avec la crise permanente que vit le royaume, ou sociologique, avec le repli sur l’égoïté de chacun comme le démontre l’ouvrage de Rik Van Walleghem, elle se niche également dans la perte de confiance totale dans l’appareil judiciaire. Pour la Belgique, il faudrait plutôt parler d’implosion que d’explosion ou d’éclatement. Tout phénomène d’implosion politique est un phénomène plus lent que l’explosion, brutale et soudaine. Dans les cas d’implosion politique, les institutions semblent encore fonctionner mais seulement vaille que vaille sans l’adhésion de la population qui devient de plus en plus sceptique, méfiante et hostile. Un fatalisme, tissé d’indifférence et de sombre mélancolie, s’installe dans une sorte de Château de Kafka postmoderne. Tout Etat affligé de tels maux survit misérablement mais cette simple survie ne recèle aucune valeur constructive sur les plans spirituel, intellectuel, politique ou historique.

 

Reste à évoquer le problème du coût exorbitant de l’énergie, aux mains de grands consortiums français, tels Suez-GDF. L’énergie (gaz + électricité) est bien plus chère en Belgique que partout ailleurs en Europe. La ponction mensuelle effectuée par le secteur de l’énergie sur le budget des ménages entraîne un amoindrissement dramatique de l’épargne populaire, surtout quand les loyers augmentent terriblement, comme à Bruxelles et y absorbent souvent plus du tiers du salaire, et que la fiscalité ne s’allège pas. Un peuple ne peut pas faire confiance à un pouvoir politique qui laisse un secteur privé, et étranger de surcroît, comme celui de l’énergie, pomper déraisonnablement le budget des ménages, appauvrissant ainsi la population toute entière. Quand le pouvoir politique, tout au début du gouvernement di Rupo, a élevé faiblement la voix pour dénoncer le scandale, le secteur énergétique a superbement ignoré ce reproche et a encore augmenté les prix une semaine plus tard, signifiant ainsi au monde politique qu’il comptait pour du beurre. Ajoutons aussi que ce secteur énergétique ne paie que des impôts dérisoires et renâcle quand le pouvoir tente vaille que vaille de remédier à cette situation. A quoi peut donc bien servir un tel pouvoir politique, s’il se montre incapable de protéger la population contre des abus manifestes? Ni les partis traditionnels ni les partis challengeurs (Ecolo, Groen, NVA et Vlaams Belang) n’ont formulé un programme visant à mettre au pas le secteur énergétique étranger: une grave, très grave, lacune, surtout dans le cas de l’opposition marginalisée par le nouveau “super-cordon sanitaire”.

 

Le “Vlaams Belang” est sans nul doute le fer de lance politique du mouvement indépendantiste flamand. Pourtant, les cercles et partis nationalistes en Europe critiquent, parfois sévèrement, certaines lignes adoptées par ce parti. Partagez-vous cette critique et, question connexe, comment jugez-vous, dans le contexte flamand  actuel, l’avènement du nouveau parti qui concurrence ce “Vlaams Belang”, soit la NVA  (“Nieuwe Vlaamse Alliantie”) de Bart De Wever?

 

Je n’ai jamais été membre d’un parti, tout simplement parce que je n’ai jamais cru à l’utilité de partis nouveaux et à leur éventuelle efficacité sur le long terme dans le cadre belge. Le journaliste flamand Paul Belien, qui est très actif dans les pays anglo-saxons et écrit beaucoup en anglais, a pu très justement observer que la Belgique officielle suit un modèle, un “patron”, fixé une fois pour toutes. Ce modèle a été conçu en 1919, immédiatement après la Première Guerre Mondiale et a été sanctionné par des accords pris dans le Château de Loppem (près de Bruges) par le Roi, les chefs des trois principaux partis politiques, le patronat et les syndicats. A l’époque, on craignait surtout une révolution communiste/spartakiste car bon nombre d’ouvriers belges avaient sympathisé avec les “conseils d’ouvriers et de soldats” que les troupes allemandes, en rébellion ouverte contre leur hiérarchie, avaient proclamés dans les villes belges qu’elles occupaient. C’est pourquoi, le Roi, les syndicats, les associations patronales et les directions des trois partis dits “traditionnels” (catholiques, socialistes et libéraux) ont décidé que seuls ces partis signataires des accords de Loppem avaient droit à une représentation politique et parlementaire normale. Les innovations politiques et les nouveaux partis, qui se présenteraient éventuellement sur la scène électorale, devaient dès lors être secrètement combattus et tenus éloignés du pouvoir réel. La “Troïka de Loppem” devait, dans l’optique de ses protagonistes, devenir un bastion inébranlable contre toute innovation partisane qui surviendrait sur la scène politique belge. A l’époque, on visait surtout les communistes et les nationalistes flamands. Pour le journaliste Belien, les accords de Loppem sont toujours valides, surtout quand il s’agit de barrer la route à de la nouveauté, sauf peut-être aux “Ecolos”, et, pour Belien, ces mécanismes de fermeture fonctionnent surtout face à de la nouveauté flamande. Je partage son opinion même si je rejette sa volonté de faire d’une Flandre éventuellement devenue indépendante la féale alliée des Etats-Unis et de la Grande-Bretagne contre une UE trop déterminée par le binôme franco-allemand à ses yeux. La Flandre, tout comme les Pays-Bas, est la façade sur la Mer du Nord de l’Europe centrale, de la Mitteleuropa, tout en étant le prolongement occidental de la plaine nord-allemande. Elle ne saurait se satisfaire d’un statut de simple comptoir des thalassocraties anglo-saxonnes, comme le sont actuellement, du moins  dans une certaine mesure, les Pays-Bas.

 

La critique, que certains cercles nationaux ou nationalistes ont émise, que ce soit en Flandre même, notamment avec les néo-solidaristes, ou chez certains francophones de diverses obédiences partisanes ou associatives, s’adresse essentiellement aux prises de position ouvertement pro-américaines ou pro-israéliennes de quelques pontes du parti, comme ce soutien enthousiaste et irrationnel à George W. Bush, lors d’une de ses visites au quartier général de l’OTAN à Bruxelles, qui s’est exprimé naguère dans les colonnes du quotidien “Het Laatste Nieuws”. J’ai personnellement trouvé ce soutien puéril, particulièrement stupide et niais. Par ailleurs, l’idée de créer sur le modèle de l’alliance Berlusconi/Fini/Bossi une “Forza Flandria” qui devrait advenir avec les libéraux du VLD est considérée comme absurde par bon nombre d’observateurs, surtout parce que les libéraux ne veulent absolument pas en entendre parler! Une telle alliance, qui serait automatiquement dominée par les idées libérales et néo-libérales, ne reçoit pas, c’est sûr, l’aval de la majorité des électeurs. Le peuple veut un nouveau parti populaire, aux assises rénovées et “nettoyées” (une opération “mains propres”) qui proposerait un programme socio-économique solide que l’on retrouve aussi chez les socialistes et les démocrates-chrétiens historiques, mais que l’on épurerait de ses innombrables corruptions, de tous les oripeaux de festivisme soixante-huitard et de toutes les dérives abracadabrantes de la “nouvelle élite intellectuelle” (celle que dénonce Christopher Lash), une fausse élite “catamorphique” qui se pique, elle, de permissivité et de gauchisme utopique. Le peuple veut donc un Etat social plutôt flamand que belge en Flandre, comme l’était jadis l’Etat belge jusque dans les années 60 et 70, mais un Etat social efficace et non inutilement dispendieux, basé sur le sérieux politique, sans le carnaval permanent des gauches molles en folie. Les électeurs ne veulent surtout pas que le système belge des allocations familiales soit détricoté ou battu en brèche par des mesures néolibérales.

 

Les succès de la NVA s’expliquent parce que ce parti a commencé sa véritable ascension en 2007 comme partenaire mineur du parti démocrate-chrétien CD&V, encore très puissant à l’époque. Avec lui, la NVA a formé un “cartel” pour les élections législatives de juin 2007. Yves Leterme, qui était alors le chef du CD&V, a laissé tomber la NVA entre 2007 et 2010, afin de pouvoir gouverner le pays (avec les libéraux et les socialistes, obsession “lopemienne” oblige...), après que la presse francophone ait mené une campagne de haine et de dénigrement contre lui, accusé d’être le Cheval de Troie des méchants dissidents (contre-lopemistes) de la NVA. Ensuite, après les élections législatives anticipées de 2010, les rôles se sont inversés: la NVA de Bart De Wever a absorbé complètement les électeurs de la CD&V: si le “cartel” avait encore existé, le partenaire mineur serait devenu le partenaire majeur! Mais cette victoire électorale de la NVA a fragilisé le schéma voulu par les fameux accords de Loppem de 1919, qui doivent encore et toujours servir de modèle pour l’éternité. Le système belge fonctionne sur base de cette illusion d’avoir fabriqué, un jour, il y a près de cent ans, un “modèle”, établi une fois pour toutes; or l’histoire, en aucun cas, en aucun lieu, ne retient de tels modèles pour l’éternité. La NVA, comme avant elle, le “Vlaams Belang” ou d’autres partis wallons ou francophones, doit donc être adroitement, machiaveliquement, écartée des centrales du pouvoir. Ceci dit, le message politique de la NVA demeure très flou, très “fuzzy” pour reprendre un vocable anglo-saxon à la mode, si bien que tout esprit politiquement rationnel ne peut ni développer une critique de son contenu idéologique ou programmatique ni y adhérer en toute connaissance de cause. Reste à constater que le “cordon sanitaire” se perpétue et s’amplifie, en tant qu’expédient pour maintenir inamovible, sans changement aucun, la teneur des accords de Loppem envers et contre tout changement de donne et toute rationalité; ce “cordon”, que l’on avait mis en place pour barrer la route au “Vlaams Blok/Vlaams Belang”, s’installe dorénavant, de manière tacite, sans bruit, pour contrer toute participation de la NVA à la gestion de l’Etat, du moins au niveau fédéral; cette extension du “cordon sanitaire” fait que près de 45% des électeurs flamands (NVA + Vlaams Belang) n’ont plus aucune représentation au sein du Parlement fédéral belge! Bonjour la démocratie!

 

 

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Aux questions de la revue des corporations étudiantes autrichiennes, “Die Aula”, le chef de fraction du “Vlaams Belang” au parlement flamand, Filip De Winter, répondait que l’annexion d’Eupen-Malmédy au Land de Rhénanie du Nord/Westphalie était parfaitement envisageable en cas de dissolution de la Belgique. Estimez-vous que cette solution est réaliste? Côté allemand, personne ne semble intéressé à la question, exactement comme en l’année 1990, lorsque Moscou offrait de redonner la Prusse orientale à l’Allemagne...

 

L’histoire des deux cercles autour des petites villes germanophones pittoresques, que sont Eupen et Saint-Vith (Malmédy a toujours été wallonne, y compris sous le IIème Reich de Bismarck, où la langue wallonne avait un statut officiel, ce qu’elle n’a par ailleurs jamais eu sous aucun autre régime politique) est une histoire complexe. Pour y voir clair, il faut relire attentivement une thèse de doctorat, celle du Dr. Klaus Pabst (Eupen-Malmédy in der belgischen Regierungs- und Parteienpolitik 1914-1940, Sonderdruck des Aachener Geschichtsvereins, Band 76, Aachen, 1964). Nous ne le répéterons jamais assez: l’imbroglio est très complexe. Ces deux cercles ne sont pas les seuls cercles germanophones de la région: les communes de Plombières (Bleiberg), Henri-Chapelle (Heinrichkappelle), Welkenraedt et Baelen au Nord et de Bocholz, Urth, Lamerschen et Steinbach au Sud sont également germanophones mais ne firent jamais partie du Royaume de Prusse. Malmédy appartenait, sous l’Ancien Régime, à un tout petit Etat ecclésiastique, celui de l’Abbaye de Stavelot (Stablo)/Malmédy. Les habitants de Malmédy, bien que non germanophones, ont toujours été considérés comme des sujets prussiens plus fidèles que ceux d’Eupen, qui, en 1848, avaient sympathisé avec les révolutionnaires berlinois. Par ailleurs, en 1919, la Belgique annexe également des portions de la commune allemande de Monschau (Montjoie). Les communes germanophones de la “Wallonie de l’Est”, qui n’ont jamais été prussiennes, sont appelées, dans le langage du peuple, “altbelsch” (vieilles-belges) tandis que les cercles devenus belges en 1919 sont appelés “neubelsch” (nouveaux-belges). Pour rendre encore les choses plus compliquées, les Allemands (les Prussiens) ont négocié en 1919-1920 sur base du fait “linguistique” et voulaient que la frontière linguistique, séparant l’allemand de Rhénanie du wallon, devienne frontière d’Etat, mais forcément sans revendiquer les communes “altbelsch” et sans Malmédy, tandis que les négociateurs belges voulaient obtenir les frontières d’Ancien Régime, celle d’avant le Traité de Campo Formio de 1795 (où l’Autriche cédait les Pays-Bas méridionaux à la République française victorieuse), parce qu’à leurs yeux, les frontières des principautés et duchés du Saint-Empire étaient idéales et seules légitimes! Un tracé de la frontière belgo-allemande selon le découpage territorial de l’ancien régime aurait eu une configuration différente: certains territoires de l’ensemble Eupen-Malmédy seraient restés allemands tandis que plusieurs communes allemandes seraient revenues à la Belgique, héritière des anciens duchés de Limbourg et de Luxembourg, jadis inclus dans les résidus du Cercle de Bourgogne qu’étaient les Pays-Bas espagnols puis autrichiens; héritière aussi, depuis 1815, de la Principauté ecclésiastique de Liège et du territoire impérial de l’Abbaye de Stavelot-Malmédy. Tous les territoires ayant appartenu à ces entités d’ancien régime auraient dû revenir selon les négociateurs belges à la Belgique, posée comme héritière de l’Autriche et du Saint Empire dans la région, tandis que les négociateurs prussiens souhaitaient conserver tous les territoires germanophones des cantons d’Eupen, Malmédy et Saint-Vith et ne laisser que les communes wallones à la Belgique.

 





 

 

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Dans le cas d’un éclatement de la Belgique, les cercles d’Eupen et de Saint-Vith pourraient tout naturellement redevenir allemands. Ce serait certes une solution raisonnable car la géographie locale lie ces communes à leurs consoeurs allemandes comme Aix-la-Chapelle, Düren, Prüm et Bitburg. Il y a quelques années, un sondage a été effectué dans toute la Wallonie et aussi dans la région germanophone; les citoyens devaient répondre à une question: que voulez-vous devenir si la Belgique cesse d’exister? Les habitants des cercles d’Eupen, Saint Vith et Malmédy, de même que les habitants des arrondissements purement wallons de Verviers (province de Liège) et de toute la province du Luxembourg belge (wallon), de même que bon nombre d’arrondissements de la province de Namur ont dit souhaiter l’annexion au Grand-Duché du Luxembourg, plutôt que de devenir français. De Winter et beaucoup d’hommes politiques flamands et wallons oublient trop souvent, comme je l’avais d’ailleurs oublié moi-même, que les oeuvres littéraires des écrivains wallons évoquaient souvent avec anxiété les liens brisés avec l’Allemagne du fait des deux guerres mondiales du 20ème siècle. Pour l’un des meilleurs écrivains wallons contemporains, décédé depuis quelques années, Gaston Compère, c’est presque un leitmotiv récurrent de son oeuvre. Et même celui qui a bruyamment milité entre 1918 et 1920 pour faire annexer ces cantons des Fagnes et de l’Eifel à la Belgique, je veux parler de Pierre Nothomb, le grand-père de l’écrivain belge contemporain Amélie Nothomb, n’a plus cessé, après la seconde guerre mondiale de parler de ses chères Ardennes et de son non moins cher Eifel, devenant dans la foulée un des meilleurs avocats de la réconciliation. Voilà comment tourne la roue de l’histoire dans l’est de la Wallonie... Tout cela nous explique pourquoi, dans le sondage que je viens de mentionner, le Grand-Duché du Luxembourg est préféré à la France jacobine, avec laquelle pourtant ces Wallons partagent la langue. N’oublions pas non plus que lors d’une conférence de presse officielle pendant la longue crise politique de 2007-2011, un ministre wallon, Magnette, a évoqué, sous forme de boutade, l’Anschluss de toute la Wallonie à l’Allemagne, tout simplement, argumentait-il, parce que les liens économiques entre la région belge et l’Allemagne sont très forts, bien plus forts qu’avec la France, à l’exception de quelques zones frontalières en Hainaut (et en Flandre...). De plus, les systèmes sociaux belges et allemands sont similaires et méritent d’être conservés. C’était évidemment du temps de Sarközy, que les socialistes wallons n’appréciaient guère...

 

On évoque parfois la possibilité d’inclure tout le Land allemand de Rhénanie du Nord/Westphalie dans le Benelux, sous prétexte que les liens économiques sont tellement étroits que ce Land en fait partie de facto. Les cercles nationaux en Allemagne craignent qu’une telle démarche, qu’une adhésion au Benelux de la RNW déclencherait un processus de dissolution de l’Etat allemand, justement dans le but de faire advenir cette panade panmixiste d’indifférenciation que les eurocrates veulent imposer à tous, notamment sous l’impulsion de certains professeurs de la “London School of Economics”. Dans le cas qui nous préoccupe, je pense qu’il ne faut pas dramatiser: le Benelux n’est pas une instance qui fonctionne très bien; ses composantes gardent farouchement leur identité et les Néerlandais ne souhaitent certainement pas être entraînés dans les dysfonctionnements patents et récurrents de l’Etat belge, au cas où le Benelux s’avèrerait subitement plus “intégrateur” qu’auparavant. Je pense plutôt que cette idée de “bénéluxer” la RNW, certes un peu loufoque car on pourrait tout aussi bien réclamer la fusion des Etats du Benelux et de la RFA tout entière (et pourquoi pas de l’Autriche?), montre fianlement, mais par l’absurde, que ces pays de langues germaniques ou de parler roman (comme la Wallonie et, au Sud des Ardennes, la Lorraine romane), ont été déterminés, qu’ils le veuillent ou non par l’histoire germanique et impériale jusqu’en 1914; ils (re)trouvent inévitablement, dans l’Europe d’aujourd’hui, une sorte de destin commun, mieux des affinités et des “affinités électives” évidentes, tout simplement parce qu’au cours de l’histoire, ils ont toujours été étroitement liés et parce que leur folklore, leurs légendes et leurs traditions sont très souvent les mêmes. Seules les deux guerres mondiales —brève parenthèse dans l’histoire millénaire de la chose impériale, bien que parenthèse effroyablement tragique et surtout disloquante—  ont créé une césure que l’on est seulement aujourd’hui en train de surmonter. Il existe également une “Euro-Regio” comprenant la province flamande du Limbourg (Hasselt, Tongres, Saint-Trond), la province néerlandaise du Limbourg (Maastricht, Venlo), la province wallonne de Liège, le territoire de la Communauté germanophone de Belgique et les cercles d’Aix-la-Chapelle et Düren. Cette “Euro-Regio” fonctionne surtout dans le domaine du tourisme sans que les trois langues utilisées lors des diètes officielles ne posent problème. Les Allemands d’aujourd’hui doivent savoir que de telles initiatives, qui partent de sentiments positifs, ne nous préparent pas une “panade eurocratique”, tout simplement parce qu’elles sont étroitement ancrées dans une région frontalière spécifique, découpée par des frontières récentes, qu’elles sont conscientes de leur identité commune “rhénane-mosane” et qu’elles partagent, dans leur folklore, les mêmes éléments de base mythiques et liturgiques (notamment dans les carnavals); on songera ensuite, dans le domaine de la musique et du chant, à un ténor sympathique et populaire comme André Rieu, natif de Maastricht, chanteur populaire en Allemagne, au patronyme d’origine wallonne! Ces initiatives, de surcroît, ont l’avantage non négligeable, de déconstruire la germanophobie née des deux guerres mondiales du 20ème siècle, ce qui, dans l’Ouest du continent est une nécessité impérieuse, surtout qu’en France, le nouveau “culte de la mémoire (courte)” revient sans cesse sur les événements tragiques de la seconde guerre mondiale, génèrant en sourdine une nouvelle germanophobie, et ruinant, par la même occasion, les efforts de réconciliation entrepris depuis l’entrevue De Gaulle/Adenauer en 1963. La RFA ne songe évidemment pas à une récupération des cantons d’Eupen et de Saint Vith, dans les circonstances actuelles, parce qu’il n’existe plus aucune forme d’hostilité dans la région et que les pouvoirs publics, de part et d’autre des frontières belges, allemandes et néerlandaises, coopèrent étroitement et amicalement, comme avant 1914, où la commune de Moresnet, par exemple, était gérée conjointement par les trois puissances, dans la bonne humeur et la convivialité. On imagine douaniers et gendarmes, tous uniformes confondus, chantant à pleins poumons autour de bons hanaps de bière, lors des kermesses, carnavals et autres fêtes paroissiales!

 

 

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La Prusse orientale est, dans le contexte actuel, une zone de bien plus grande importance stratégique parce que c’est par elle que transitent les gazoducs de la Baltique.

 

Dans un article nécrologique à l’occasion de la mort de l’écrivain Ernst Jünger en 1998, vous expliquiez que vous le lisiez et l’admiriez depuis l’âge de dix-huit ans. Pourquoi cette admiration pour sa biographie et son oeuvre littéraire?

 

Oui, j’ai commencé très tôt à lire les écrits d’Ernst Jünger. Je prépare pour l’instant un long entretien sur son oeuvre et suis en train de lire les formidables biographies et monographies qui lui ont été consacrées récemment, notamment par des germanistes comme Meyer, Kiesel, Wimbauer, Ipema, Blok, Schwilk ou Weber. C’est exact: je suis admiratif de tous les aspects de l’oeuvre de Jünger. La clarté de ses articles et essais nationaux-révolutionnaires demeure exemplaire et le Dr. Armin Mohler en a adapté le contenu pour présenter, dans feue la revue “Criticon” sa vision d’un conservatisme rénové, même si Ernst Jünger n’était guère satisfait de voir ainsi réactualisés ses écrits politiques de jeunesse, dans le contexte totalement différent des années 50 et 60.

 

 

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L’attitude, face à la vie, du Jünger devenu homme mûr, qui se retire de la politique et part à la recherche de paysages inviolés par la modernité, m’interpelle tout aussi profondément, même si, pour nous, hommes jeunes ou matures du début du 21ème siècle, une telle quête s’avère de moins en moins possible: les paysages jusqu’au fin fond de la Pampa (n’en déplaise à Jean Raspail!) ou jusqu’aux recoins les plus réculés du Sahara ou du Désert de Gobi, portent tous, maintenant, quelque part, des traces et des souillures de modernité. Au-delà de toutes prises de position politiques ou métapolitiques, cette attitude, cette volonté de trouver des paysages silencieux ou bruisant de milles bruits prémodernes exerce sur moi une véritable fascination. Je recommande tout particulièrement aux jüngeriens en herbe de lire et de relire les pages du journal de Jünger relatives à son voyage au Brésil en 1936 (et, effectivement, trouvera-t-on encore ce Brésil indemne aujourd’hui?), à son séjour en Angola et à son excursion en Islande dans les années 60. Beaucoup de choses vues par Jünger et ses compagnons de voyage (dont son frère en Islande) ont été irrémédiablement détruites par la modernité. Personnellement, j’essaie encore de trouver des paysages indemnes ou d’en redécouvrir, mais je ne le puis que sur des espaces réduits à des distances de cinq ou dix kilomètres: partout, on trouve les blessures indélébiles infligées par les “temps de l’accélération” (die Beschleunigung), blessures qui n’avaient pas encore été infligées dans les années 60, quand j’étais un enfant et quand la “connexion totale”, crainte par Friedrich-Georg Jünger dans son ouvrage Die Perfektion der Technik, n’avait pas encore l’ampleur étouffante qu’elle détient de nos jours. Aujourd’hui, objets et villages, villes et paysages, en sont affectés. Le germaniste Weber, qui a sorti récemment chez Matthes & Seitz à Berlin, une monographie remarquable sur l’oeuvre de Jünger, démontre que l’idée fondamentale de cet auteur est justement l’idée de “décélération”, d’Entschleunigung. Il a raison. J’aimerais bien, comme le souhaite aussi un autre écrivain allemand, Martin Mosebach, appartenir dorénavant au cercle insigne des “retirés” et des “décélérants” (Entschleuniger), car le monde misérable des alignés et des conformistes de la modernité accélératrice, fébrile et frénétique, m’indispose et me déplait. Martin Meyer, dans son ouvrage sur Ernst Jünger, rappelle que notre auteur, au-delà des formes totalitaires ou non totalitaires du Léviathan moderne aux racines idéologiques “bourgeoises”, voit avec anxiété et réprobation se multiplier les “structures” qui étouffent les “ordres vitaux”, seuls réceptacles de véritable liberté, et les remplacent par des “Funktionsbeziehungen”, de purs et froids “rapports de fonctionnement”, totalement abstraits, inorganiques et insensibles à toutes nuances et circonstances. Aucune spontanéité vitale, donc aucune liberté vraie, ne peut plus se déployer sous le joug de telles abstractions: telle est aussi la grande leçon de l’anarque Jünger, qui nous incite à vivre le plus possible détaché de ces structures oblitérantes. Ensuite, ce mélange de sérénité (Gelassenheit), de cynisme désabusé et de quiétude souveraine chez notre auteur, je le trouve admirable. J’aime souvent citer cette anecdote que Schwilk, je crois, met en exergue dans sa monographie, au ton si vivant et chaleureux: devenu centenaire, Jünger est hospitalisé quelque part en pays souabe. Le “Bild-Zeitung”, journal de boulevard ne visant que le sensationnel, titre: “Un grand Allemand s’est couché pour mourir”. La femme de Jünger, qu’il surnommait “Mon petit Taureau”, lui apporte le journal. Jünger ricane et dit: “Ce plaisir-là, je ne vais pas encore le leur faire!”. Le reste de mes cogitations jüngeriennes, je le laisse pour l’entretien que je prépare depuis au moins six bons mois. Si vous le souhaitez, je vous en traduirai quelques extraits...

 

Cet article nécrologique de votre plume était paru dans “Junge Freiheit”. Pourquoi ne lit-on plus rien de vous dans les pages de ce journal?

 

Pour la direction de “Junge Freiheit”, il n’existe qu’une seule et unique personne en Europe de l’Ouest (et pas seulement en France) qui peut fonctionner comme correspondant: Alain de Benoist. Mais comme celui-ci s’est chamaillé avec tout le monde (ou se chamaillera si ce n’est pas encore le cas...) et comme ce solitaire grognon croit dur et ferme qu’il incarne tout seul sa fantômatique nouvelle droite (canal historique) et comme il croit aussi, tel un spectre errant, qu’il est le seul autorisé à représenter sa nouvelle droite dans le vaste monde ou même au niveau intergalactique, il met tout en oeuvre pour empêcher d’autres de s’exprimer à la tribune qu’offrent les journaux ou les revues bienveillantes à l’égard de ce vaste courant de pensée, à têtes multiples, que représente, partout dans le monde, la mouvance “nouvelle droite”. C’est ainsi, on n’y peut rien et l’on n’y changera rien! Je me souviens toutefois que jadis, il y a bien des années, “Junge Freiheit” avait un autre correspondant à Paris. Un homme solide, bon vivant et rigolard, avec une barbe de ténor wagnérien, originaire d’Alsace, bilingue, qui avait appartenu fidèlement à la ND (canal historique) aux temps héroïques du mouvement. Il régalait les lecteurs de JF d’articles bien tapés sur les affaires françaises. Au bout de quelques mois, sa signature a malheureusement disparu des colonnes de “Junge Freiheit” et de toutes les autres initiatives qualifiables, en France, de ND, fort probablement parce qu’il a été “purgé” à la suite de l’une ou de l’autre révolution de Politburo (de sotie) à Paris. L’attitude de la direction de “Junge Freiheit” en ce domaine est navrante: elle relève d’un pauvre travers, celui qui consiste à idolâtrer des gourous, au lieu de penser et d’agir objectivement et rationnellement. J’avais proposé de traduire les entretiens que prenait avec brio Xavier Cheneseau, un journaliste de la revue des chasseurs français, “Le Saint-Hubert”, d’accord en toute courtoisie pour que l’hebdomadaire berlinois les reprennent, et cela, gratuitement. J’avais traduit un premier entretien avec Brigitte Bardot: sitôt celui-ci paru, nous avons appris que quelqu’un, à Paris, avait chuchoté à l’oreille de la direction berlinoise de JF, que ces entretiens étaient “faux”, comme si une revue aussi diffusée que “Le Saint-Hubert” se permettrait de publier de faux entretiens! Exit Cheneseau! Et, du coup, exit tous les auteurs ou hommes politiques interviewés par cet infatigable garçon! Une coopération avec Cheneseau se serait avérée bien fructueuse et aurait donné à la rédaction berlinoise un succulent zeste d’originalité dans la presse allemande. On a, à Berlin, choisi de ne pas faire mariner ce zeste de bon fruit gaulois dans la tisane “néo-conservatrice”, offerte aux lecteurs allemands. Dommage. Navrant.

 

eierkorb.jpgEn ce qui me concerne, si je ne ne puis écrire dans telle ou telle revue à cause des intrigues parisiennes de la ND, je ne m’en soucie guère: le monde est vaste, j’écris pour d’autres, je me promène, j’arpente mes “Holzwege”, je travaille (car je ne suis pas un marginal, moi, qui vit des cotises de quelques naïfs dont j’abuserais de la générosité) et je médite en rigolant l’adage qu’aimait à répéter ma grand-mère maternelle ouest-flamande, originaire de Zonnebeke: “Qui ne veut point de mes oeufs, les laissera dans mon panier” (“Wie van mijn eieren niet wil hebben, die laat ze maar in mijn mand”).

 

Vous vous êtes également intéressé à un autre grand format de la pensée allemande: Carl Schmitt. Bon nombre d’observateursestiment que sa pensée reviendra bien vite à la surface vu la crise financière et économique qui dure et persiste, et vu les conflits d’ordre géopolitique qui secount l’échiquier planétaire. Comment voyez-vous les choses?

 

J’ai découvert Schmitt assez tôt et ai entamé la lecture de ses oeuvres, surtout parce que je suis tout simplement un compatriote de ce cher professeur d’université que fut Piet Tommissen, malheureusement décédé en août 2011. Il nous a carrément donné l’ordre de lire Schmitt. Il venait régulièrement, fin des années 70, prononcer quelques allocutions à la tribune des cercles Evola en Flandre, créés à l’initiative du surréaliste historique, le peintre Marc. Eemans. Ensuite, j’ai connu Günter Maschke à la Foire du Livre de Francfort en 1984 et depuis lors, quand nous sommes assis autour d’une table, avec un bon verre de vin de Hesse à la main, nous parlons immanquablement de thèmes relevant des “Schmittiana” et devisons sur la théorie du “grand espace” que Carl Schmitt avait commencé à théoriser dans les années 30. Pour être exact, mon intérêt pour Schmitt dérive d’un intérêt pour la géopolitique car je suis, en fait, un disciple du Général von Lohausen. J’ai toujours été d’avis qu’il fallait lire Schmitt en même temps qu’Haushofer et que d’autres auteurs de sa “Zeitschrift für Geopolitik” ou de la collection géopolitique (intitulée “Zeitgeschehen”) des éditions Goldmann de Leipzig dans les années 30 et 40. Nous avons là un filon quasi inépuisable d’auteurs très pertinents, malheureusement oubliés aujourd’hui mais qu’il vaudrait la peine de redécouvrir: il y a du pain sur la planche car ce sont des rayons entiers de bibliothèque que ces hommes ont remplis. Maschke et moi avons d’ailleurs un faible pour l’un d’eux: le journaliste Colin Ross, mort foudroyé sur la rive d’un fleuve russe en 1943. Allez donc chez un bouquiniste, pour rechercher ses livres et lisez-les! Malgré les bons travaux du Prof. Jacobsen et du politologue Hans Ebeling, de même ceux des Prof. Klein et Korinman en France, un travail systématique reste à faire sur la “Zeitschrift für Geopolitik”, qui mérite franchement d’être lue avec toute l’acribie voulue et d’être complétée d’un appareil de notes comme l’a fait Maschke pour les “Positionen und Begriffe” de Carl Schmitt, ainsi que Tommissen pour toute l’oeuvre et la correspondance de Schmitt pendant de longues décennies. Question simple: pourquoi faut-il relire Schmitt (et Haushofer) aujourd’hui? Quelques critiques de Schmitt dans les cercles nationaux disent qu’il a été un “Etatiste” trop rigide. Je rejette cette objection et je dis qu’il a été, au contraire, l’un des critiques les plus avisés de l’impérialisme britannique et américain. Tout comme Haushofer d’ailleurs. Plutôt que de fabriquer une Europe libérale et de la maintenir vaille que vaille en vie, les Européens devraient plutôt songer à recréer un “grand espace” autarcique ou semi-autarcique.

 

quarit.gifLa meilleure esquisse de cette notion schmittienne de “grand espace” se trouve dans le volume “Coincidentia Oppositorum” (édité chez Duncker u. Humblot, Berlin) et dû à la plume d’un ami que j’ai connu jadis, Maître Jean-Louis Feuerbach de Strasbourg, perdu de vue, hélas, depuis de nombreuses années. Ce texte a sans doute échappé à bon nombre de lecteurs allemands parce qu’il a été rédigé et publié en français, l’éditeur, Helmut Quaritsch (photo), hélas aussi décédé en 2011, étant le premier énarque allemand, sorti de la fameuse “Ecole Nationale d’Administration” de Paris et donc parfait bilingue. Un homme dont je garde un souvenir ému, depuis un séminaire de la DESG à Sababurg, le long de la “Märchenstrasse”. Cela me force à terminer cette réponse à votre question par une note toute empreinte de tristesse: pour les sciences politiques, telles que nous les entendons, l’année 2011 a été vraiment catastrophique, avec la double disparition de Quaritsch, ancien éditeur de la revue “Der Staat”, et de Tommissen. Deux hommes irremplaçables....

 

Pour terminer, une question sur la “nouvelle droite”, à laquelle, paraît-il, vous appartiendriez... Les anciens protagonistes de ce mouvement se sont disputés entre eux, ont opté pour des voies différentes voire divergentes. La “nouvelle droite” a-t-elle échoué sur toute la ligne ou, selon vous, ses idées sont-elles encore, quelque part, ancrées dans le réel?

 

En fait, j’en ai plein les bottes de la “nouvelle droite” et je préférerais ne pas répondre à votre question. Mais vous êtes un honnête homme et vos lecteurs méritent de recevoir quelques explications. Cela fait plus de vingt ans maintenant que je n’ai plus vu ce monsieur de Benoist ou seulement furtivement, lors de la Foire du Livre de Francfort en octobre 1999 mais il s’est enfui quand il m’a aperçu ou, la deuxième fois que nos chemins et nos regards se sont croisés, il s’est dissimulé derrière un exemplaire largement déployé de “Junge Freiheit” dans le stand loué par cet hebdomadaire. Voilà pourquoi je ne peux plus rien vous dire de fort précis sur les aléas qui ont ponctué la vie vivotante de ce mouvement parisien au cours de ces dernières années. Pour les terribles simplificateurs et pour bon nombre de clochards mentaux installés dans un anti-fascisme autoproclamé et souvent alimentaire, j’appartiendrais à la ND (française!) seulement parce que j’ai été, pendant neuf mois en 1981, secrétaire de rédaction de “Nouvelle école”, la revue d’Alain de Benoist, et parce que j’ai participé à deux ou trois universités d’été en Provence (où j’avoue d’ailleurs m’être bien amusé, ce qui est l’essentiel, Carpe diem!). Plus tard, mon propre mouvement, “Synergon” ou “Synergies européennes”, a puisé à d’autres sources (Haushofer, Wittfogel, Pernerstorfer, de Jouvenel, Jean de Pange, Willms, etc.). De plus, au sein de la “nouvelle droite” française, j’ai toujours été une voix critique. J’ai surtout été profondément choqué et meurtri par le sort cruel que la direction parisienne et faisandée de ce mouvement a infligé au malheureux Guillaume Faye, non seulement dans les années 80, mais aussi en l’an 2000, lorsque l’Etat lui faisait un procès pour le contenu de son ouvrage “La colonisation de l’Europe”. Benoist et son satellite de l’époque, Charles Champetier (entretemps ce féal d’entre les féaux a également été “purgé”...), n’ont rien trouvé de mieux, dans ce contexte, alors que le jugement n’avait pas encore été prononcé, de traiter Faye de “dangereux raciste” dans les colonnes du journal italien “Lo Stato”. Faye a par la suite été condamné pour “racisme”. La ND parisienne avait promis à tous ses adhérents de leur offrir une “communauté” d’amis et de camarades. Et voilà comment les bons camarades sont devenus parjures, voilà comment ils ont traité Faye, un garçon qui leur avait donné le meilleur de lui-même, jusqu’à accepter une vie de misère et de privations...

 

Je ne dirais pas que la ND a échoué, parce que de Benoist s’est comporté en égocentrique voire en égomane: la ND a vu passer une quantité de personnes dans ses rangs, qui ont fait beaucoup ou peu pour elle, mais qui, après l’avoir quittée pour trente-six raisons, valables ou non, ou après en avoir été évincées pour satisfaire les caprices d’un philosophe auto-proclamé et sans bacchalauréat qui se veut “figure de proue”, demeurent actives dans une quantité impressionnante de clubs, d’associations ou de formations plus ou moins politiques, qui ont souvent un ancrage local. Lorsque je traverse la France en tant que touriste, pour me rendre en Suisse, en Italie ou en Espagne, j’ai toujours le plaisir de retrouver des camarades actifs quelque part, militant au sein de structures diverses ou produisant des oeuvres ou des publications intéressantes. La ND française n’a jamais eu qu’une tête parisienne pourrie, ce qui correspond au dicton français, “le poisson pourrit toujours par la tête”. Les cercles demeurés actifs dans les provinces françaises sont généralement restés sains et continuent à oeuvrer dans la discrétion et avec efficacité. Dommage, qu’à cause de certains blocages, dus aux manigances sordides de la “caboche putréfiée”, le public allemand (et bénéluxien et italien et espagnol et américain, etc.) n’en sache rien, n’en soit jamais informé. Ensuite, il faut dire, pour paraphraser Max Weber, que les valeurs ne meurent jamais. Nous vivons dans une époque très triviale de l’histoire, où les valeurs sont refoulées, foulées aux pieds ou moquées, mais les périodes triviales de l’histoire (comme les périodes sublimes d’ailleurs, que Sorokin qualifiait d’“ideational”) ne sont jamais éternelles, que ce soit dans l’histoire européenne ou dans l’histoire de la ND.

 

Monsieur Steuckers, nous vous remercions d’avoir bien voulu répondre à nos questions.

 

Réponses rédigées à Forest-Flotzenberg, juillet 2012.

 

mardi, 12 juin 2012

Recension: le livre de cécile Vanderpelen-Diagre sur la littérature catholique belge dans l’entre-deux-guerres

Recension: le livre de cécile Vanderpelen-Diagre sur la littérature catholique belge dans l’entre-deux-guerres

Script du présentation de l’ouvrage dans les Cercles de Bruxelles, Liège, Louvain, Metz, Lille et Genève

Recension : Cécile Vanderpelen-Diagre, Écrire en Belgique sous le regard de Dieu, éd. Complexe / CEGES, Bruxelles, 2004.

89714410.jpgDans son ouvrage majeur, qui dévoile à la communauté scientifique les thèmes principaux de la littérature catholique belge de l’entre-deux-guerres, Cécile Vanderpelen-Diagre aborde un continent jusqu’ici ignoré des historiens, plutôt refoulé depuis l’immédiat après-guerre, quand le monde catholique n’aimait plus se souvenir de son exigence d’éthique, dans le sillage du Cardinal Mercier ni surtout de ses liens, forts ou ténus, avec le rexisme qui avait choisi le camp des vaincus pendant la Seconde Guerre mondiale.

Pendant plusieurs décennies, la Belgique a vécu dans l’ignorance de ses propres productions littéraires et idéologiques, n’en a plus réactivé le contenu sous des formes actualisées et a, dès lors, sombré dans l’anomie totale et dans la déchéance politique : celle que nous vivons aujourd’hui. Plus aucune éthique ne structure l’action dans la Cité.

Le travail de C. Vanderpelen-Diagre pourrait s’envisager comme l’amorce d’une renaissance, comme une tentative de faire le tri, de rappeler des traditions culturelles oubliées ou refoulées, mais il nous semble qu’aucun optimisme ne soit de mise : le ressort est cassé, le peuple est avachi dans toutes ses composantes (à commencer par la tête...). Son travail risque bien de s’apparenter à celui de Schliemann : n’être qu’une belle œuvre d’archéologue. L’avenir nous dira si son livre réactivera la “virtù” politique, au sens que lui donnaient les Romains de l’antiquité ou celui qui entendait la réactiver, Nicolas Machiavel.

“Une littérature qui a déserté la mémoire collective”

Dès les premiers paragraphes de son livre, C. Vanderpelen-Diagre soulève le problème majeur : si la littérature catholique, qui exigeait un sens élevé de l’éthique entre 1890 et 1945, a cessé de mobiliser les volontés, c’est que ses thèmes “ont déserté la mémoire collective”. Le monde catholique belge (et surtout francophone) d’aujourd’hui s’est réduit comme une peau de chagrin et ce qu’il en reste se vautre dans la fange innommable d’un avatar lointain et dévoyé du maritainisme, d’un festivisme abject et d’un soixante-huitardisme d’une veulerie époustouflante. Aucun citoyen honnête, possédant un “trognon” éthique solide, ne peut se reconnaître dans ce pandémonium. Nous n’échappons pas à la règle : né au sein du pilier catholique parce que nos racines paysannes ne sont pas très loin et plongent, d’une part, dans le sol hesbignon-limbourgeois, et, d’autre part, dans ce bourg d’Aalter à cheval sur la Flandre occidentale et orientale et dans la région d’Ypres, comme d’autres naissent en Belgique dans le pilier socialiste, nous n’avons pas pu adhérer (un vrai “non possumus”), à l’adolescence, aux formes résiduaires et dévoyées du catholicisme des années 70 : c’est sans nul doute pourquoi, en quelque sorte orphelins, nous avons préféré le filon, alors en gestation, de la “nouvelle droite”.

L’époque de gloire du catholicisme belge (francophone) est oubliée, totalement oubliée, au profit du bric-à-brac gauchiste et pseudo-contestataire ou de parisianismes de diverses moutures (dont la “nouvelle droite” procédait, elle aussi, de son côté, nous devons bien en convenir, surtout quand elle a fini par se réduire à son seul gourou parisien et depuis que ses antennes intéressantes en dehors de la capitale française ont été normalisées, ignorées, marginalisées ou exclues). Cet oubli frappe essentiellement une “éthique” solide, reposant certes sur le thomisme, mais un thomisme ouvert à des innovations comme la doctrine de l’action de Maurice Blondel, le personnalisme dans ses aspects les plus positifs (avant les aggiornamenti de Maritain et Mounier), l’idéal de communauté. Cette “éthique” n’a plus pu ressusciter, malgré les efforts d’un Marcel De Corte, dans l’ambiance matérialiste, moderniste et américanisée des années 50, sous les assauts délétères du soixante-huitardisme des années 60 et 70 et, a fortiori, sous les coups du relativisme postmoderne et du néolibéralisme.

L’exigence éthique, pierre angulaire du pilier catholique de 1884 à 1945, n’a donc connu aucune résurgence. On ne la trouvait plus qu’en filigrane dans l’œuvre de Hergé, dans ses graphic novels, dans ses “romans graphiques” comme disent aujourd’hui les Anglais. Ce qui explique sans doute la rage des dévoyés sans éthique — viscéralement hostiles à toute forme d’exigence éthique — pour extirper les idéaux discrètement véhiculés par Tintin.

Les imitations serviles de modèles parisiens (ou anglo-saxons) ne sont finalement d’aucune utilité pour remodeler notre société malade. C. Vanderpelen-Diagre, qui fait œuvre d’historienne et non pas de guide spirituelle, a amorcé un véritable travail de bénédictin. Que nous allons immanquablement devoir poursuivre dans notre créneau, non pour jouer aux historiens mais pour appeler à la restauration d’une éthique, fût-elle inspirée d’autres sources (Mircea Eliade, Seyyed Hossein Nasr, Walter Otto, Karl Kerenyi, etc.). Il s’agit désormais d’analyser le contenu intellectuel des revues parues en nos provinces entre 1884 et 1945 au sein de toutes les familles politiques, de décortiquer la complexité idéologique qu’elles recèlent, de trouver en elles les joyaux, aussi modestes fussent-ils, qui relèvent de l’immortalité, de l’impassable, avec lesquels une “reconstruction” lente et tâtonnante sera possible au beau milieu des ruines (dirait Evola), en plein désert axiologique, où qui conforteront l’homme différencié (Evola) ou l’anarque (Jünger) pour (sur)vivre au milieu de l’horreur, dans le Château de Kafka, ou dans labyrinthe de son Procès.

Les travaux de Zeev Sternhell sur la France, surtout son Ni gauche, ni droite, nous induisaient à ne pas juger la complexité idéologique de cette période selon un schéma gauche/droite trop rigide et par là même inopérant. Dans le cadre de la Belgique, et à la suite de C. Vanderpelen-Diagre et de son homologue flamande Eva Schandervyl (cf. infra), c’est un mode de travail à appliquer : il donnera de bons résultats et contribuera à remettre en lumière ce qui, dans ce pays, a été refoulé pendant de trop nombreuses décennies.

La “Jeune Droite” d’Henry Carton de Wiart

de_wia10.jpgPour C. Vanderpelen-Diagre, les origines de la “révolution conservatrice” belge-francophone, essentiellement catholique, plus catholique que ses homologues dans la France républicaine, plus catholique que l’Action Française trop classiciste et pas assez baroque, se trouvent dans la Jeune Droite d’Henry Carton de Wiart (1869-1951), assisté de Paul Renkin et de l’historien arlonnais germanophile Godefroid Kurth, animateur du Deutscher Verein avant 1914 (le déclenchement de la Première Guerre mondiale et le viol de la neutralité belge l’ont forcé, dira-t-il, de « brûler ce qu’il a adoré » ; pour un historien qui s’est penché sur la figure de Clovis, cette parole a du poids...). La date de fondation de la Jeune Droite est 1891, 2 ans avant l’encyclique Rerum Novarum. La Jeune Droite n’est nullement un mouvement réactionnaire sur le plan social : il fait partie intégrante de la Ligue démocratique chrétienne. Il publie 2 revues : L’Avenir social et La Justice sociale. Les 2 publications s’opposent à la politique libéraliste extrême, prélude au néo-libéralisme actuel, préconisée par le ministre catholique Charles Woeste. Elles soutiennent aussi les revendications de l’Abbé Adolf Daens, héros d’un film belge homonyme qui a obtenu de nombreux prix et où l’Abbé, défenseur des pauvres, est incarné par le célèbre acteur flamand Jan Decleir.

Henry Carton de Wiart, alors jeune avocat, réclame une amélioration des conditions de travail, le repos dominical pour les ouvriers, s’insurge contre le travail des enfants, entend imposer une législation contre les accidents de travail. Il préconise également d’imiter les programmes sociaux post-bismarckiens, en versant des allocations familiales et défend l’existence des unions professionnelles. Très social, son programme n’est pourtant pas assimilable à celui des socialistes qui lui sont contemporains : Carton de Wiart ne réclame pas le suffrage universel pur et simple, et lui substitue la notion d’un suffrage proportionnel à partir de 25 ans, dans un système de représentation également proportionnelle.

En parallèle, Henry Carton de Wiart s’associe à d’autres figures oubliées de notre patrimoine littéraire et idéologique, Firmin Van den Bosch (1864-1949) et Maurice Dullaert (1865-1940). Le trio s’intéresse aux avant-gardes et réclame l’avènement, en Belgique, d’une littérature ouverte à la modernité. Deux autres revues serviront pour promouvoir cette politique littéraire : d’abord, en 1884, la jeune équipe tente de coloniser Le Magasin littéraire et artistique, ensuite, en 1894, 3 ans après la fondation de la Jeune Droite et un an après la proclamation de l’encyclique Rerum Novarum, nos 3 hommes fondent la revue Durandal qui paraîtra pendant 20 ans (jusqu’en 1914). Comme nous le verrons, le nom même de la revue fera date dans l’histoire du “mouvement éthique” (appellons-le ainsi...). Parmi les animateurs de cette nouvelle publication, citons, outre Henry Carton de Wiart lui-même, Pol Demade, médecin spécialisé en médecine sociale, et l’Abbé Henri Moeller (1852-1918). Ils seront vite rejoints par une solide équipe de talents : Firmin Van den Bosch, Pierre Nothomb (stagiaire auprès du cabinet d’avocat de Carton de Wiart), Victor Kinon (1873-1953), Maurice Dullaert, Georges Virrès (1869-1946), Arnold Goffin (1863-1934), Franz Ansel (1874-1937), Thomas Braun (1876-1961) et Adolphe Hardy (1868-1954).

Spiritualité et justice sociale

Leur but est de créer un “art pour Dieu” et leurs sources d’inspiration sont les auteurs et les artistes s’inspirant du “symbolisme wagnérien”, à l’instar des Français Léon Bloy, Villiers de l’Isle-Adam, Francis Jammes et Joris Karl Huysmans. Pour cette équipe, comme aussi pour Bloy, les catholiques sont une “minorité souffrante”, surtout en France à l’époque où sont édictées et appliquées les lois du “petit Père Combes”. Autres références françaises : les œuvres d’Ernest Psichari et de Paul Claudel. Le wagnérisme et le catholicisme doivent, en fusionnant dans les œuvres, générer une spiritualité offensive qui s’opposera au “matérialisme bourgeois” (dont celui de Woeste). La spiritualité et l’idée de justice sociale doivent donc marcher de concert. Le contexte belge est toutefois différent de celui de la France : les catholiques belges avaient gagné la bataille métapolitique, ils avaient engrangé une victoire électorale en 1884, à l’époque où Firmin Van den Bosch tentait de noyauter Le Magasin littéraire et artistique. Dans la guerre scolaire, les catholiques enregistrent également des victoires partielles : face aux libéraux, aux libéraux de gauche (alliés implicites des socialistes) et aux socialistes, il s’agit, pour la jeune équipe autour de Carton de Wiart et pour la rédaction de Durandal, de « gagner la bataille de la modernité ». À l’avant-garde socialiste (prestigieuse avec un architecte “Art Nouveau” comme Horta), il faut opposer une avant-garde catholique. La modernité ne doit pas être un apanage exclusif des libéraux et des socialistes. La différence entre ces catholiques qui se veulent modernistes (sûrement avec l’appui du Cardinal) et leurs homologues laïques, c’est qu’ils soutiennent la politique coloniale lancée par Léopold II en Afrique centrale. Le Congo est une terre de mission, une aire géographique où l’héroïsme pionnier ou missionnaire pourra donner le meilleur de lui-même.

Quelles valeurs va dès lors défendre Durandal ? Elle va essentiellement défendre ce que ses rédacteurs nommeront le “sentiment patrial”, présent au sein du peuple, toutes classes confondues. On retrouve cette idée dans le principal roman d’Henry Carton de Wiart, La Cité ardente, œuvre épique consacrée à la ville de Liège. La notion de “sentiment patrial”, nous la retrouvons surtout dans les textes annonciateurs de la “révolution conservatrice” dus à la plume de Hugo von Hofmannsthal, où l’écrivain allemand déplore la disparition des “liens” humains sous les assauts de la modernité et du libéralisme, qui brisent les communautés, forcent à l’exode rural, laissent l’individu totalement esseulé dans les nouveaux quartiers et faubourgs des grandes villes industrielles et engendrent des réflexes individualistes délétères dans la société, où les plaisirs hédonistes, furtifs ou constants selon la fortune matérielle, tiennent lieu d’Ersätze à la spiritualité et à la charité. Cette déchéance sociale appelle une “restauration créatrice”. Le sentiment d’Hofmannsthal sera partagé, mutatis mutandis, par des hommes comme Arthur Moeller van den Bruck et Max Hildebert Boehm.

L’idée “patriale” s’inscrit dans le projet du Chanoine Halflants, issu d’une famille tirlemontoise qui avait assuré le recrutement en Hesbaye de nombreux zouaves pontificaux, pour la guerre entre les États du Pape et l’Italie unitaire en gestation sous l’impulsion de Garibaldi. Avant 1910, le Chanoine Halflants préconisera tolérance et ouverture aux innovations littéraires. Après 1918, il prendra des positions plus “réactionnaires”, plus en phase avec la “bien-pensance” de l’époque et plus liées à l’idéal classique. Qu’est ce que cela veut dire ? Que le Chanoine entendait, dans un premier temps, faire figurer les œuvres littéraires modernes dans les anthologies scolaires, ainsi que la littérature belge (catholique qui adoptait de nouveaux canons stylistiques et des thématiques romanesques profanes). Il s’opposait dans ce combat aux Jésuites, qui n’entendaient faire étudier que des auteurs grecs et latins antiques. Halflants gagnera son combat : les Jésuites finiront par accepter l’introduction de nouveaux écrivains dans les curricula scolaires. De ces efforts naîtra une “anthologie des auteurs belges”. L’objectif, une fois de plus, est de ne pas abandonner les formes modernes d’art et de littérature aux forces libérales et socialistes qui, en épousant les formes multiples d’ “Art Nouveau” apparaissaient comme les pionniers d’une culture nouvelle et libératrice.

Bourgeoisie ethétisante et prêtres maurrassiens

Cette agitation de la Jeune Droite et de Durandal repose, mutatis mutandis, sur un clivage bien net, opposant une bourgeoisie industrielle et matérialiste à une bourgeoisie cultivée et esthétique, qui a le sens du Bien et du Beau que transmettent bien évidemment les humanités gréco-latines. La bourgeoisie matérialiste et industrielle est incarnée non seulement par les libéraux sans principes éthiques solides mais aussi par des catholiques qui se laissent séduire par cet esprit mercantile, contraire au “sentiment patrial”. Cette idée d’un clivage entre matérialistes et esthètes, on la retrouve déjà dans l’œuvre laïque et irreligieuse de Camille Lemonnier (édité en Allemagne, dans des éditions superbes, par Eugen Diederichs). La bourgeoisie affairiste provoque une décadence des mœurs que l’esthétisme de ceux de ses enfants, qui sont pieux et contestataires, doit endiguer. Pour enrayer les progrès de la décadence, il faut, selon les directives données antérieurement par Louis de Bonald en France, lutter contre le libéralisme politique.

C’est à partir du moment où certains jeunes catholiques belges, soucieux des questions sociales, entendent suivre les injonctions de Bonald, que la Jeune Droite et Durandal vont s’inspirer de Charles Maurras, en lui empruntant son vocabulaire combatif et opérant. Les catholiques belges de la Jeune Droite et les Français de l’Action française s’opposent donc de concert au libéralisme politique, en le fustigeant allègrement. Dans ce contexte émerge le phénomène des “prêtres maurrassiens”, avec, à Liège, Louis Humblet (1874-1949), à Mons, Valère Honnay (1883-1949) et, à Bruxelles, Ch. De Smet (1833-1911) et J. Deharveng (1867-1929). Ce maurrasisme est seulement stylistique dans une Belgique assez germanophile avant 1914. Les visions géopolitiques et anti-allemandes du filon maurrassien ne s’imposeront en Belgique qu’à partir de 1914. D’autres auteurs français influencent l’idéologie de Durandal, les 4 “B” : Barrès, Bourget, Bordeaux et Bazin.

C’est Bourget qui exerce l’influence la plus importante : il veut, en des termes finalement très peu révolutionnaires, une “humanité non dégradée”, reposant sur la famille, l’honneur conjugal et les fortes convictions (religieuses). Le poids de Bourget sera de longue durée : on verra que cette éthique très pieuse et très conventionnelle influencera le groupe de la “Capelle-aux-Champs” que fréquentera Hergé, le créateur de Tintin, et Franz Weyergans, le père de François Weyergans (qui répondra par un livre aux idéaux paternels, inspirés de Paul Bourget, livre qui lui a valu le “Grand Prix de la langue française” en 1997, ce qui l’amena plus tard à occuper un siège à l’Académie Française ; cf. : Franz et François, Grasset, 1997 ; pour comprendre l’apport de Bourget, tout à la fois à la modernisation du sentiment littéraire des catholiques et à la critique des œuvres contemporaines de Baudelaire, Stendhal, Taine, Renan et Flaubert, lire : Paul Bourget, Essais de psychologie contemporaine, Plon, Paris, 1937).

La Première Guerre mondiale va bouleverser la scène politique et métapolitique d’une Belgique qui, de germanophile, virera à la francophilie, surtout dans les milieux catholiques. La Grande Guerre génère d’abord une littérature inspirée par les souffrances des soldats. Parmi les morts au combat : le jeune Louis Boumal, lecteur puis collaborateur belge de L’Action française. Autour de ce personnage se créera le “mythe de la jeunesse pure sacrifiée”, que Léon Degrelle, plus tard, reprendra à son compte. Mais c’est surtout son camarade de combat Lucien Christophe (1891-1975), qui a perdu son frère Léon pendant la guerre, qui défendra et illustrera la mémoire de Louis Boumal. Celui-ci, tout comme Christophe, était un disciple d’Ernest Psichari, chantre catholique de l’héroïsme et du dévouement guerriers. Les anciens combattants de l’Yser, Christophe en tête, déploreront l’ingratitude du pays à partir de 1918, l’absence de solidarité nationale une fois les hostilités terminées. Christophe et les autres combattants estiment dès lors que les journalistes et les écrivains doivent s’engager dans la Cité. Un écrivain ne peut pas rester dans sa tour d’ivoire. C’est ainsi que les anciens combattants rejettent l’idée d’un art pour l’art et ajoutent à l’idée d’un art pour Dieu, présent dans les rangs de la Jeune Droite avant 1914, celle d’un art social. Le catholicisme militant, social dans le sillage de Daens et de Rerum Novarum, national au nom du sacrifice de Louis Boumal et Léon Christophe, réclame, à l’instar d’autres idéologies, d’autres milieux sociaux ou habitus politiques, l’engagement.

ACJB et Cercle Rerum novarum

Lucien Christophe va donner l’éveil à une génération nouvelle, qui comptera de jeunes plumes dans ses rangs : Luc Hommel (1896-1960), Carlo de Mey (1895-1962), Camille Melloy (de son vrai nom Camille De Paepe, 1891-1941) et Léopold Levaux (1892-1956). C’est au départ de ce groupe, inspiré par Christophe plutôt que par Carton de Wiart, que se forme l’ACJB (Association Catholique de la Jeunesse Belge). Pierre Nothomb, qui entend préserver l’unité du bloc catholique, œuvrera pour que le groupe rassemblé au sein de la revue Durandal fusionne avec l’ACJB. Quant à la Jeune Droite de Carton de Wiart, avec ses aspirations à la justice sociale, elle fusionnera avec le Cercle Rerum Novarum, animé, entre autres personnalités, par Pierre Daye, futur sénateur rexiste en 1936. Daye a des liens avec les Français Marc Sangnier et l’Abbé Lugan, fondateurs d’une Action Catholique, hostile à l’Action française de Maurras et Pujo.

Le Cercle Rerum Novarum poursuivait les mêmes objectifs que ceux de la Jeune Droite de Carton de Wiart, dans la mesure où il s’opposait à toute politique économique libérale outrancière, comme celle d’un Charles Woeste pourtant ponte du parti catholique, entendait ensuite remobiliser les idéaux de l’Abbé Daens. Il n’était pas sur la même longueur d’onde que l’Action française, plus nationaliste que catholique et plus préoccupée de justifier la guerre contre l’Allemagne (même celle de la république laïcarde) que de réaliser en France, et pour les Français, des idéaux de justice sociale. En Belgique, nous constatons donc, avec C. Vanderpelen-Diagre, que les idéaux nationaux (surtout incarnés par Pierre Nothomb) sont intimement liés aux idéaux de justice sociale et que cette fusion demeurera intacte dans toutes les expressions du catholicisme idéologique belge jusqu’en 1945 (même dans des factions hostiles les unes aux autres, surtout après l’émergence du rexisme).

En 1918, Pierre Nothomb et Gaston Barbanson plaident tous deux pour une “Grande Belgique”, en préconisant l’annexion du Grand-Duché du Luxembourg, du Limbourg néerlandais et de la Flandre zélandaise. Ils prennent des positions radicalement anti-allemandes, rompant ainsi définitivement avec la traditionnelle germanophilie belge du XIXe siècle. Ces positions les rapprochent de l’Action française de Maurras et du maurrassisme implicite du Cardinal Mercier, hostile à l’Allemagne prussianisée et protestante comme il est hostile à l’éthique kantienne, pour lui trop subjectiviste, et, par voie de conséquence, hostile au mouvement flamand et à la flamandisation de l’enseignement supérieur, car ce serait là offrir un véhicule à la germanisation rampante de toute la Belgique, provinces romanes comprises.

Les annexionnistes sont en faveur d’une alliance militaire franco-belge, qui sera fait acquis dès 1920 mais que contesteront rapidement et l’aile gauche du parti socialiste et le mouvement flamand (cf. Dr. Guido Provoost, Vlaanderen en het militair-politiek beleid in België tussen de twee wereldoorlogen – Het Frans-Belgisch militair akkoord van 1920, Davidsfonds, Leuven, 1977). En adoptant cette démarche, les adeptes de la “Grande Belgique” quittent l’orbite du “démocratisme chrétien” qui avait été le leur et celui de leurs amis pour fonder une association nationaliste, le Comité de Politique Nationale (CPN), où se retrouvent Pierre Daye (qui n’est plus alors à proprement parler un “rerum-novarumiste” ou un “daensiste”), l’historien Jacques Pirenne (qui renie ses dettes intellectuelles à l’historiographie allemande), Léon Hennebicq, le leader socialiste et interventionniste Jules Destrée, ami des interventionnistes italiens regroupés autour de Mussolini et d’Annunzio, et un autre socialiste, Louis Piérard.

Les annexionnistes germanophobes et hostiles aux Pays-Bas réclament une occupation de l’Allemagne, son morcellement à l’instar de ce que venait de subir la grande masse territoriale de l’Empire austro-hongrois défunt ou l’Empire ottoman au Levant. Ils réclament également l’autonomisation de la Rhénanie et le renforcement de ses liens économiques (qui ont toujours été forts) avec la Belgique. Enfin, ils veulent récupérer le Limbourg devenu officiellement néerlandais en 1839 et la Flandre zélandaise afin de contrôler tout le cours de l’Escaut en aval d’Anvers. Ils veulent les cantons d’Eupen-Malmédy (qu’ils obtiendront) mais aussi 8 autres cantons rhénans qui resteront allemands. Le Roi Albert Ier refuse cette politique pour ne pas se mettre définitivement les Pays-Bas et le Luxembourg à dos et pour ne pas créer l’irréparable avec l’Allemagne. Les annexionnistes du CPN se trouveront ainsi en porte-à-faux par rapport à la personne royale, que leur option autoritariste cherchait à valoriser.

Le ressourcement italien de Pierre Nothomb

nothom10.jpgLe passage du démocratisme de la Jeune Droite au nationalisme du CPN s’accompagne d’un véritable engouement pour l’œuvre de Maurice Barrès. Plus tard, quand l’Action française, et, partant, toutes les formes de nationalisme français hostiles aux anciens empires d’Europe centrale, se retrouvera dans le collimateur du Vatican, le nouveau nationalisme belge de Nothomb et la frange du parti socialiste regroupée autour de Jules Destrée va plaider pour un “ressourcement italien”, suite au succès de la Marche sur Rome de Mussolini, que Destrée avait rencontré en Italie quand il allait, là-bas, soutenir les efforts des interventionnistes italiens avant 1915. Nothomb   [ci-contre] traduira ce nouvel engouement italophile, post-barrèsien et post-maurrassien, en un roman, Le Lion ailé, paru en 1926, la même année où la condamnation de l’Action française est proclamée à Rome. Le Lion ailé, écrit C. Vanderpelen-Diagre, est une ode à la nouvelle Italie fasciste. Celle-ci est posée comme un modèle à imiter : il faut, pense Nothomb, favoriser une “contagion romaine”, ce qui conduira inévitablement à un “rajeunissement national”, par l’émergence d’un “ordre vivant”. Jules Destrée, le leader socialiste séduit par l’Italie, celle de l’interventionnisme et celle de Mussolini, salue la parution de ce roman et en encourage la lecture. La réception d’éléments idéologiques fascistes n’est donc pas le propre d’une droite catholique et nationale : elle a animé également le pilier socialiste dans le chef d’un de ses animateurs les plus emblématiques.

Nothomb avait créé, comme pendant à son CPN, les Jeunesses nationales en 1924. Ce mouvement appelle à un renforcement de l’exécutif, à une organisation corporative de l’État, à l’émergence d’un racisme défensif et d’un anti-maçonnisme, tout en prônant un catholicisme intransigeant (ce qui n’était pas du tout le cas dans l’Italie de l’époque, les Accords du Latran n’ayant pas encore été signés). Le CPN et les Jeunesses nationales entendant, de concert, poser un “compromis entre la raison et l’aventure”. Ce message apparaît trop pauvre pour d’autres groupes en gestation, dont la Jeunesse nouvelle et le groupe royaliste Pour l’autorité. Ces 2 groupes, fidèles en ce sens à la volonté du Roi, refusent le programme de politique étrangère du CPN et des Jeunesses nationales : ils veulent maintenir des rapports normaux avec les Pays-Bas, le Luxembourg et l’Allemagne. Ils insistent aussi sur la nécessité d’imposer une “direction de l’âme et de l’esprit”. En réclamant une telle “direction”, ils enclenchent ce que l’on pourrait appeler, en un langage gramscien, une “bataille métapolitique”, qu’ils qualifiaient, en reprenant certaines paroles du Cardinal Mercier, d’“apostolat par la plume”. Ils s’alignent ainsi sur la volonté de Pie XI de promouvoir un “catholicisme plus intransigeant”, en dépit de l’hostilité du Pontife romain à l’endroit de la francophilie maurrassienne du Primat de Belgique. Enfin, les 2 nouveaux groupes sur l’échiquier politico-métapolitique belge entendent suivre les injonctions de l’encyclique Quas Primas de 1925, proclamant la « royauté du Christ », du « Christus Rex », induisant ainsi le vocable “Rex” dans le vocabulaire politique du pilier catholique, ce qui conduira, après de nombreux avatars, à l’émergence du mouvement rexiste de Léon Degrelle, quand celui-ci rompra les ponts avec ses anciens associés du parti catholique. Le « catholicisme plus intransigeant », réclamé par Pie XI, doit s’imposer aux sociétés par des moyens modernes, par des technologies de communication comme la “TSF” et l’édition de masse (ce à quoi s’emploiera Degrelle, sur ordre de la hiérarchie catholique la plus officielle, au début des années 30).

Beauté, intelligence, moralité

L’appareil de cette offensive métapolitique s’est mis en place, par la volonté du Cardinal Mercier, au moins dès 1921. Celui-ci préside à la fondation de La Revue catholique des idées et des faits (RCIF), revue plus philosophique que théologique, Mercier n’étant pas théologien mais philosophe. Le Cardinal confie la direction de cette publication à l’Abbé René-Gabriel Van den Hout (1886-1969), professeur à l’Institut Saint Louis de Bruxelles et animateur du futur quotidien La Libre Belgique dans la clandestinité pendant la Première Guerre mondiale. L’Abbé Van den Hout avait également servi d’intermédiaire entre Mercier et Maurras. Volontairement le Primat de Belgique et l’Abbé Van den Hout vont user d’un ton et d’une verve polémiques pour fustiger les adversaires de ce renouveau à la fois catholique et national (ton que Degrelle et son caricaturiste Jam pousseront plus tard jusqu’au paroxysme). En 1924, avant la condamnation de Maurras et de l’Action française par le Vatican, les Abbés Van den Hout et Norbert Wallez, flanqués du franciscain Omer Englebert, envisagent de fonder une Action belge (AB), pendant de ses homologues française et espagnole (sur l’Accion Española, cf. Raùl Morodo, Los origenes ideologicos del franquismo : Accion Española, Alianza Editorial, Madrid, 1985). On a pu parler ainsi du “maurrassisme des trois abbés”. Le programme intellectuel de la RCIF et de l’AB (qui restera finalement en jachère) est de lutter contre les formes de romantisme, mouvement littéraire accusé de véhiculer un “subjectivisme relativiste” (donc un individualisme), ou, comme le décrira Carl Schmitt en Allemagne, un “occasionalisme”. Les abbés et leurs journalistes plaideront pour le classicisme, reposant, lui, à leurs yeux, sur 3 critères : la beauté, l’intelligence et la moralité (le livre de référence pour ce “classicisme” demeure celui d’Adrien de Meeüs, Le coup de force de 1660, Nouvelle Société d’Édition, Bruxelles, 1935 ; à ce propos, voir plus bas notre article « Années 20 et 30 : la droite de l’établissement francophone en Belgique, la littérature flamande et le ‘nationalisme de complémentarité’ »).

Revenons maintenant à l’ACJB. En 1921 également, les abbés Brohée et Picard (celui-là même qui mettra Degrelle en selle 10 ans plus tard) entament, eux aussi, un combat métapolitique. Leur objectif ? “Guider les lectures” par le truchement d’un organe intitulé Revue des auteurs et des livres. Au départ, cet organe se veut avant-gardiste mais proposera finalement des lectures figées, déduites d’une littérature bien-pensante. L’ACJB a donc des objectifs culturels et non pas politiques. C’est cette option métapolitique qui provoque une rupture qui se concrétise par la fondation de la Jeunesse nouvelle, parallèle à l’éparpillement de l’équipe de Durandal, dont les membres ont tous été appelés à de hautes fonctions administratives ou politiques. La Jeunesse nouvelle se donne pour but de “régénérer la Cité”, en y introduisant des ferments d’ordre et d’autorité. Elle vise l’instauration d’une monarchie antiparlementaire et nationaliste. Elle réagit à l’instauration du “suffrage universel pur et simple”, imposé par les socialistes, car celui-ci exprimerait la “déchéance morale et politique” d’une société (sa fragmentation et son émiettement en autant de petites républiques individuelles – la “verkaveling” dit-on en néerlandais ; cf. l’ouvrage humoristique mais intellectuellement fort bien charpenté de Rik Vanwalleghem, België Absurdistan – Op zoek naar de bizarre kant van België, Lannoo, Tielt, 2006, livre qui met en exergue l’effet final et contemporain de l’individualisme et de la disparition de toute éthique). La Jeunesse nouvelle s’oppose aussi au nouveau système belge né des “accords de Lophem” de 1919 où les acteurs sociaux et les partis étaient convenus d’un “deal”, que l’on entendait pérenniser jusqu’à la fin des temps en excluant systématiquement tout challengeur survenu sur la piste par le biais d’élections. Ce “deal” repose sur un canevas politique donné une fois pour toutes, posé comme définitif et indépassable, avec des forces seules autorisées à agir sur l’échiquier politico-parlementaire.

L’organe de la Jeunesse nouvelle, soit La Revue de littérature et d’action devient La Revue d’action dès que l’option purement métapolitique cède à un désir de s’immiscer dans le fonctionnement de la Cité. La revue d’Action devient ainsi, de 1924 à 1934, la porte-paroles du mouvement Pour l’autorité, dont la cheville ouvrière sera un jeune historien en vue de la matière de Bourgogne, Luc Hommel. Pour celui-ci, la revue est un “laboratoire d’idées” visant une réforme de l’État, qui reposera sur un renforcement de l’exécutif, sur le corporatisme et le nationalisme (à références “bourguignonnes”) et sur le suffrage familial, appelé à corriger les effets jugés pervers du “suffrage universel pur et simple”, imposé par les socialistes dès le lendemain de la Première Guerre mondiale. Hommel et ses amis préconisent de rester au sein du Parti Catholique, d’y être un foyer jeune et rénovateur. Les adeptes des thèses de la La Revue d’action ne rejoindront pas Rex. Parmi eux : Etienne de la Vallée-Poussin (qui dirigera un moment Le Vingtième siècle fondé par l’Abbé Wallez), Daniel Ryelandt (qui témoignera contre Léon Degrelle dans le fameux film que lui consacrera Charlier et qui était destiné à l’ORTF mais qui ne passera pas sur antenne après pression diplomatique belge sur les autorités de tutelle françaises), Gaëtan Furquim d’Almeida, Charles d’Aspremont-Lynden, Paul Struye, Charles du Bus de Warnaffe. La revue et le groupe Pour l’autorité cesseront d’exister en 1935, quand Hommel deviendra chef de cabinet de Paul van Zeeland. Plusieurs protagonistes de Pour l’autorité œuvreront ensuite au Centre d’Études pour la Réforme de l’État (CERE), dont Hommel, de la Vallée-Poussin et Ryelandt. Ils s’opposeront farouchement Rex en dépit d’une volonté commune de renforcer l’exécutif autour de la personne du Roi. L’idéal d’un renforcement de l’exécutif est donc partagé entre adeptes et adversaires de Rex.

La “Troisième voie” de Raymond De Becker

raymon10.jpgLa période qui va de 1927 à 1939 est aussi celle d’une recherche fébrile de la “troisième voie”. C’est dans ce contexte qu’émergera une figure que l’on commence seulement à redécouvrir en Belgique, en ce début de deuxième décennie du XXIe siècle : Raymond De Becker. Contrairement à tous les mouvements que nous venons de citer, qui veulent demeurer au sein du pilier catholique, les hommes partis en quête d’une “troisième voie” cherchent à élargir l’horizon de leur engagement à toutes les forces sociales agissant dans la société. Ils ont pour point commun de rejeter le libéralisme (assimilé au “vieux monde”) et entendent valoriser toutes les doctrines exigeant une adhésion qu’ils apparentent à la foi : le catholicisme, le communisme, le fascisme, considérés comme seules forces d’avenir. C’est la démarche de ceux que Jean-Louis Loubet del Bayle nommera, dans son ouvrage de référence, les “non-conformistes des années 30”. Loubet del Bayle n’aborde que le paysage intellectuel français de l’époque. Qu’en est-il en Belgique ? Le cocktail que constituera la “troisième voie” ardemment espérée contiendra, francophonie oblige, bon nombre d’ingrédients français : Blondel (vu ses relations et son influence sur le Cardinal Mercier, sans oublier sa “doctrine de l’action”), Archambault, Mounier (le personnalisme), Gabriel Marcel (la distinction entre l’Être et l’Avoir), Maritain et Daniel-Rops. Après la condamnation de Maurras et de l’Action française par le Vatican, Jacques Maritain, que Paul Sérant classe comme un “dissident de l’Action française”, remplace, dès 1926, Maurras comme gourou de la jeunesse catholique et autoritaire en Belgique. R. de Becker et Henry Bauchau (toujours actif aujourd’hui, et qui nous livre un regard sur cette époque dans son tout récent récit autobiographique, L’enfant rieur, Actes Sud, 2011 ; R. De Becker y apparaît sous le prénom de “Raymond” ; voir surtout les pp. 157 à 166) sont les 2 hommes qui entretiendront une correspondance avec Maritain et participeront aux rencontres de Meudon. Du “nationalisme intégral de Maurras”, que voulait importer Nothomb, on passe à l’“humanisme intégral” de Maritain.

Le passage du maurrassisme au maritainisme implique une acceptation de la démocratie et de ses modes de fonctionnement, ainsi que du pluralisme qui en découle, et constate l’impossibilité de retrouver le pouvoir supratemporel du Saint Empire (vu de France, on peut effectivement affirmer que le Saint Empire, assassiné par Napoléon, ou l’Empire austro-hongrois, assassiné par Poincaré et Clemenceau, est une “forme morte” ; ailleurs, notamment en Autriche et en Hongrie, c’est moins évident... Il suffit d’évoquer les propositions très récentes du ministre hongrois Orban pour “resacraliser” l’État, notamment en le dépouillant du label de “république”). Par voie de conséquence, les maritainistes ne réclameront pas l’avènement d’une “Cité chrétienne”. En ce sens, ils vont plus loin que le Chanoine Jacques Leclercq (cf. infra) en Belgique, dont le souci, tout au long de son itinéraire, sera de maintenir une dose de divin et, subrepticement, un certain contrôle clérical sur la Cité, même aux temps d’après-guerre où le maritainisme débouchera partiellement sur la création et l’animation d’un parti politique “catho-communisant”, l’UDB (auquel adhèrera un William Ugeux, ancien journaliste au Vingtième Siècle et responsable de la “Sûreté de l’État” pour le compte du gouvernement Pierlot revenu de son exil londonien).

La Cité, rêvée par les adeptes d’une “troisième voie” d’inspiration maritainiste, est un “contrat entre fidèles et infidèles”, visant l’unité de la Cité, une unité minimale, certes, mais animée par l’amitié et la fraternité entre les hommes. Cette vision repose évidemment sur la définition “ouverte” que Maritain donne de l’humanisme. D’où la question que lui poseront finalement R. de Becker et Léon Degrelle : “Où sont les points d’appui ?”. En effet, l’idée d’une “humanité ouverte” ne permet pas de construire une Cité, qui, toujours, par la force des choses, aura des limites et/ou des frontières. Le maritainisme ne fera pas l’unité des anciens maurrassiens, des chercheurs de “troisièmes voies” voire des thomistes recyclés, modernisant leur discours, ou des “demanistes” socialistes non hostiles à la religion : le monde catholique se divisera en chapelles antagonistes qui le conduiront à l’implosion, à une sorte de guerre civile entre catholiques (surtout à partir de l’émergence de Rex) et à une sorte d’aggiornamento technocratique (qui, parti du technocratisme à l’américaine de Van Zeeland, donnera à terme la “plomberie” de Dehaene et son basculement dans les fiascos financiers postérieurs à l’automne 2008) ou à un discours assez hystérique et filandreux, évoquant justement le thème de l’humanisme maritainien, avec Joëlle Milquet qui abandonne l’appelation de Parti Social-Chrétien pour prendre celle de CdH (Centre Démocrate et Humaniste).

Marcel De Corte

mdecor10.jpg[En septembre 1975, Marcel De Corte accorde une entretien au Front de la jeunesse publié dans la rubrique "Europe-Jeunesse" du Nouvel Europe magazine (NEM)]

Quelles seront les expressions de l’humanisme intégral de Maritain en Belgique ? Il y aura notamment la Nouvelle équipe d’Yvan Lenain (1907-1965). Lenain est un philosophe thomiste de formation, qui veut “une Cité régénérée par la spiritualité”. Si, au départ, Lenain s’inscrit dans le sillage de Maritain, les évolutions et les aggiornamenti de ce dernier le contraindront à adopter une position thomiste plus traditionnelle. Par ailleurs, l’ouverture aux gens de gauche, les “infidèles” avec lesquels on aurait pu, le cas échéant, conclure un contrat, s’est avérée un échec. Le repli sur un thomisme plus classique est sans doute dû à l’influence d’une figure aujourd’hui oubliée, Marcel De Corte (1905-1994), professeur de philosophie à l’Université de Liège. De Corte, actif partout, notamment dans une revue peu suspecte de “catholicisme”, comme Hermès de Marc. Eemans et René Baert, est beaucoup plus ancré dans le catholicisme traditionnel (et aristotélo-thomiste) que ne l’était Lenain au départ : il rompra d’ailleurs avec Maritain en 1937, comme beaucoup d’autres auteurs belges, qui ne supportaient pas le soutien que l’humaniste intégral français apportait aux républicains espagnols (en Belgique, l’hostilité, y compris à gauche, à la République espagnole vient du fait que l’ambassadeur de Belgique, qui avait fait des locaux de l’ambassade du royaume un centre de la Croix Rouge, fut abattu par la police madrilène en 1936, laquelle vida ensuite le bâtiment de la légation de tous les réfugiés et éclopés qui s’y trouvaient et massacra les blessés dans la foulée). La pensée de De Corte, consignée dans 2 gros volumes parus dans les années 50, reste d’actualité : la notion de “dissociété”, qu’il a contribué à forger, est reprise aujourd’hui, même à gauche de l’échiquier politique français, notamment par le biais de l’ouvrage de Jacques Généreux, intitulé La dissociété (Seuil, 2006 ; pour se référer à De Corte directement, lire : Marcel De Corte, De la dissociété, éd. Remi Perrin, 2002).

Raymond De Becker : électron libre

Entre toutes les chapelles politico-littéraires de la Belgique francophone des années 30, R. De Becker va jouer le rôle d’intermédiaire, tout en demeurant un “électron libre”, comme le qualifie C. Vanderpelen-Diagre. De Becker, bien que catholique à l’époque (après la guerre, il ne le sera plus, lorsqu’il œuvrera, avec Louis Pauwels, dans le réseau Planète), ne plaide jamais pour une orthodoxie catholique : il incarne en effet un mysticisme très personnel, rétif à tout encadrement clérical. Dans ses efforts, il aura toujours l’appui de Maritain (avant la rupture suite aux événements d’Espagne) et du Chanoine Jacques Leclercq, qui fut d’abord un maritainiste plus ou mois conservateur avant de devenir, via les revues et associations qu’il animait, le fondateur du nouveau démocratisme chrétien, à tentations marxistes, de l’après-1945. De Becker va jouer aussi le rôle du relais entre les “non-conformistes” français et leurs homologues belges. En 1935, il se rend ainsi à la fameuse abbaye de Pontigny en Bourgogne, véritable laboratoire d’idées nouvelles où se rencontraient des hommes d’horizons différents soucieux de dépasser les clivages politiques en place. C’est à l’invitation de Paul Desjardins (2), qui organise en 1935 une rencontre sur le thème de l’ascétisme, que De Becker rencontre à Pontigny Nicolas Berdiaev, André Gide et Martin Buber.

Le reproche d’antisémitisme qu’on lui lancera à la tête, surtout dans le milieu assez abject des “tintinophobes” parisiens, ne tient pas, ne fût-ce qu’au regard de cette rencontre ; par ailleurs, les séminaires de Pontigny doivent être mis en parallèle avec leurs équivalents allemands organisés par le groupe de jeunesse Köngener Bund, auxquelles Buber participait également, aux côtés d’exposants communistes et nationaux-socialistes. En étudiant parallèlement de telles initiatives, on apprendra véritablement ce que fut le “non-conformisme” des années 30, dans le sillage de l’esprit de Locarno (sur l’impact intellectuel de Locarno : lire les 2 volumes publiés par le CNRS sous la direction de Hans Manfred Bock, Reinhart Meyer-Kalkus et Michel Trebitsch, Entre Locarno et Vichy – les relations culturelles franco-allemandes dans les années 30, CNRS éditions, 1993 ; cet ouvrage explore dans le détail les idéaux pacifistes, liés à l’idée européenne et au désir de sauvegarder le patrimoine de la civilisation européenne, dans le sillage d’Aristide Briand, du paneuropéisme à connnotations catholiques, de Friedrich Sieburg, des personnalistes de la revue L’Ordre nouveau, de Jean de Pange, des germanistes allemands Ernst Robert Curtius et Leo Spitzer, de la revue Europe, où officiera un Paul Colin, etc.).

De Becker, toujours soucieux de traduire dans les réalités politiques et culturelles belges les idées d’humanisme intégral de Maritain, accepte le constat de son maître-à-penser français : il n’est plus possible de rétablir l’harmonie du corporatisme médiéval dans les sociétés modernes ; il faut donc de nouvelles solutions et pour les promouvoir dans la société, il faut créer des organes : ce sera , d’une part, la Centrale politique de la jeunesse, présidée par André Mussche, dont le secrétaire sera De Becker, et, d’autre part, la revue L’esprit nouveau, où l’on retrouve l’ami de toujours, celui qui ne trahira jamais De Becker et refusera de le vouer aux gémonies, Henry Bauchau. Les objectifs que se fixent Mussche, De Becker et Bauchau sont simples : il faut traduire dans les faits la teneur des encycliques pontificales, en instaurant dans le pays une économie dirigée, anti-capitaliste, ou plus exactement anti-trust, qui garantira la justice sociale. Toujours dans l’esprit de Maritain, De Becker se fait le chantre d’une “nouvelle culture”, personnaliste, populaire et attrayante pour les non-croyants (comme on disait à l’époque). Il appellera cette culture nouvelle, la “culture communautaire”. Lors du Congrès de Malines de 1936, Bauchau se profile comme le théoricien et la cheville ouvrière de ce mouvement “communautaire” ; il est rédacteur depuis 1934 à La Cité chrétienne du Chanoine Leclercq, qui essaie de réimbriquer le christianisme (et, partant, le catholicisme) dans les soubresauts de la vie politique, animée par les totalitarismes souvent victorieux à l’époque, toujours challengeurs. Cette volonté de “ré-imbriquer” passe par des compromissions (qu’on espère passagères) avec l’esprit du temps (ouverture au socialisme voire au communisme).

“Communauté” et “Capelle-aux-Champs”

evany_pv182030.jpgEn 1937, les “communautaires” maritainiens créent l’École supérieure d’humanisme, établie au n°21 de la Rue des Deux Églises à Bruxelles. Cette école prodigue des cours de “formation de la personnalité”, comprenant des leçons de philosophie, d’esthétique et d’histoire de l’art et de la culture. Le corps académique de cette école est prestigieux : on y retrouve notamment le Professeur De Corte. Cette école dispose également de relais, dont l’auberge “Au Bon Larron” de Pepinghem, où l’Abbé Leclercq reçoit ses étudiants et disciples, le cercle “Communauté” à Louvain chez la mère de De Becker, où se rend régulièrement Louis Carette, le futur Félicien Marceau. Enfin, dernier relais à signaler : le groupe de la “Capelle-aux-Champs”, sous la houlette bienveillante du Père Bonaventure Feuillien et du peintre Evany [Eugène van Nijverseel] (ami d’Hergé). Le créateur de Tintin fréquentera ce groupe, qui est nettement moins politisé que les autres et où l’on ne pratique pas la haute voltige philosophique. Quelles autres figures ont-elles fréquenté le groupe de la “Capelle-aux-Champs” ? La “Capelle-aux-Champs” ou Kapelleveld se situe exactement à l’endroit du campus de Louvain-en-Woluwé et de l’hôpital universitaire Saint Luc. C’était avant guerre un lieu idyllique, comme en témoigne la fresque ornant la station de métro “Vandervelde” qui y donne accès aujourd’hui.

C’est donc là, au beau milieu de ce sable et de ces bouleaux, que se retrouvaient Marcel Dehaye (qui écrira dans la presse collaborationniste sous le pseudonyme plaisant de “Jean de la Lune”), Jean Libert (qui sera épuré), Franz Weyergans (le père de François Weyergans) et Jacques Biebuyck. L’idéal qui y règne est l’idéal scout (ce qui attire justement Hergé) ; on n’y cause pas politique, on vise simplement à donner à ses contemporains “un cœur simple et bon”. L’initiative a l’appui de Jacques Leclercq. En dépit de ses connotations catholiques, le groupe se reconnaît dans un refus général de l’esprit clérical et bondieusard (voilà sans doute pourquoi Tintin, héros créé par la presse catholique, n’exprime aucune religion dans ses aventures. Comme bon nombre d’avatars du maritainisme, les amis de la “Capelle-aux-Champs” manifestent une volonté d’ouverture sur l’“ailleurs”. Mais leurs recherches implicites ne sont pas tournées vers une réforme en profondeur de la Cité. Les thèmes sont plutôt moraux, au sens de la bienséance de l’époque : on y réfléchit sur le péché, l’adultère, un peu comme dans l’œuvre de François Mauriac, qui avait appelé à jeter « un regard franc sur un monde dénaturé ».

L’esprit de “Capelle-aux-Champs” est également, dans une certaine mesure, un avatar lointain et original de l’impact de Bourget sur la littérature catholique du début du siècle (pour saisir l’esprit de ce groupe, lire entre autres ouvrages : J. Libert, Capelle aux Champs, Les écrits, Bruxelles, 1941 [5°éd.] et Plénitude, Les écrits, 1941 ; J. Biebuyck, Le rire du cœur, Durandal, Bruxelles, [s. d., probablement après guerre] et Le serpent innocent, Casterman, Tournai, 1971 [préf. de F. Weyergans] ; Franz Weyergans, Enfants de ma patience, éd. Universitaires, Paris, 1964 et Raisons de vivre, Les écrits, 1944 ; cet ouvrage est un hommage de F. Weyergans à son propre père, exactement comme son fils François lui dédiera Franz et François en 1997).

Notons enfin que les éditions “Les Écrits” ont également publié de nombreuses traductions de romans scandinaves, finnois et allemands, comme le firent par ailleurs les fameuses éditions de “La Toison d’Or”, elles carrément collaborationnistes pendant la Seconde Guerre mondiale, dans le but de dégager l’opinion publique belge de toutes les formes de parisianismes et de l’ouvrir à d’autres mondes. Le traducteur des éditions “Les Écrits” fut-il le même que celui des éditions “La Toison d’Or”, soit l’Israélite estonien Sulev J. Kaja (alias Jacques Baruch, 1919-2002), condamné sévèrement par les tribunaux incultes de l’épuration et sauvé de la misère et de l’oubli par Hergé lors du lancement de l’hebdomadaire Tintin dès 1946 ? Le pays aurait bien besoin de quelques modestes traducteurs performants de la trempe d’un Sulev J. Kaja...) (2).

Revenons aux animateurs du groupe de la Capelle-aux-Champs. Il y a d’abord Marcel Dehaye (1907-1990) qui explore le monde de l’enfance, exalte la pureté et l’innocence et, avec son personnage Bob ou l’enfant nouveau campe un garçonnet « qui ne sera ni banquier ni docteur ni soldat ni député ». Pendant la Deuxième Guerre mondiale, Dehaye collabora au Soir et au Nouveau Journal sous le pseudonyme de “Jean de la Lune”, ce qui le sauvera sans nul doute des griffes de l’épuration : il aurait été en effet du plus haut grotesque de lire une manchette dans la presse signalant que « l’auditorat militaire a condamné Jean de la Lune à X années de prison et à l’indignité nationale ».

Jacques Biebuyck (1909-1993) est issu, lui, d’une famille riche, ruinée en 1929. Il a fait un séjour de 3 mois à la Trappe. Il a d’abord été fonctionnaire au ministère de l’intérieur puis journaliste. C’est un ami de Raymond De Becker. Il professe un anti-intellectualisme et prône de se fier à l’instinct. Pour lui, la jeunesse doit demeurer “vierge de toute corruption politique”. Biebuyck rejette la politique, qui se déploie dans un “monde de malhonnêtes”. Il renoue là avec un certain esprit de l’ACJB à ses débuts, où le souci culturel primait l’engagement proprement politique. L’illustrateur des œuvres de Biebuyck, et d’autres protagonistes de la Capelle-aux-Champs fut Pierre Ickx, ami d’Hergé et spécialisé dans les dessins de scouts idéalisés.

Jean Libert (1913-1981), lui, provient d’une famille qui s’était éloignée de la religion, parce qu’elle estimait que celle-ci avait basculé dans le “mercantilisme”. À 16 ans, Libert découvre le mouvement scout (comme Hergé auparavant). Ses options spirituelles partent d’une volonté de suivre les enseignements de Saint François d’Assise, comme le préconisait aussi le Père Bonaventure Feuillien. “Nono”, le héros de J. Libert dans son livre justement intitulé Capelle-aux-Champs (cf. supra), va incarner cette volonté. Il s’agit, pour l’auteur et son héros, de conduire l’homme vers une vie joyeuse et digne, héroïque et féconde. Libert se fait le chantre de l’innocence, de la spontanéité, de la pureté (des sentiments) et de l’instinct.

Jean Libert et la “mystique belge”

En 1938, avec Antoine Allard, Jean Libert opte pour l’attitude pacifiste et neutraliste, induite par le rejet des accords militaires franco-belges et la déclaration subséquente de neutralité qu’avait proclamée le Roi Léopold III en octobre 1936, tout en arguant qu’une conflagration qui embraserait toute l’Europe entraînerait le déclin irrémédiable du Vieux Continent (cf. les idées pacifistes de Maurice Blondel, à la fin de sa vie, consignée dans son ouvrage, Lutte pour la civilisation et philosopohie de la paix, Flammarion, 1939 ; cet ouvrage est rédigé dans le même esprit que le “manifeste neutraliste” et inspire, fort probablement, le discours royal aux belligérants dès septembre 1939). J. Libert signe donc ce fameux manifeste neutraliste des intellectuels, notamment patronné par Robert Poulet.

Parallèlement à cet engagement neutraliste, dépourvu de toute ambigüité, Libert plaide pour l’éclosion d’une “mystique belge” que d’autres, à la suite de l’engouement de Maeterlinck pour Ruusbroec l’Admirable au début du siècle, voudront à leur tour raviver. On pense ici à Marc. Eemans et René Baert, qui, outre Ruusbroec (non considéré comme hérétique par les catholiques sourcilleux car il refusera toujours de dédaigner les “œuvres”), réhabiliteront Sœur Hadewijch, Harphius, Denys le Chartreux et bien d’autres figures médiévales (cf. Marc. Eemans, Anthologie de la Mystique des Pays-Bas, éd. de la Phalange / J. Beernaerts, Bruxelles, s. d. ; il s’agit des textes sur les mystiques des Pays-Bas publiés dans les années 30 dans la revue Hermès). R. De Becker se penchera également sur la figure de Ruusbroec, notamment dans un article du Soir, le 11 mars 1943 (« Quand Ruysbroeck l’Admirable devenait prieur à Groenendael »). Comme dans le cas du mythe bourguignon, inauguré par Luc Hommel (cf. supra) et Paul Colin, le recours à la veine mystique médiévale participe d’une volonté de revenir à des valeurs nées du sol entre Somme et Rhin, pour échapper à toutes les folies idéologiques qui secouaient l’Europe, à commencer par le laïcisme républicain français, dont la nuisance n’a pas encore cessé d’être virulente, notamment par le filtre de la “nouvelle philosophie” d’un marchand de “prêt-à-penser” brutal et sans nuances comme Bernard-Henri Lévy (classé récemment par Pascal Boniface comme « l’intellectuel faussaire », le plus emblématique).

Fidèle à son double engagement neutraliste et mystique, Jean Libert voudra œuvrer au relèvement moral et physique de la jeunesse, en prolongeant l’effet bienfaisant qu’avait le scoutisme sur les adolescents. Au lendemain de la défaite de mai 1940, J. Libert rejoint les Volontaires du Travail, regroupés autour de Henry Bauchau, Théodore d’Oultremont et Conrad van der Bruggen. Ces Volontaires du travail devaient prester des travaux d’utilité publique, de terrassement et de déblaiement, dans tout le pays pour effacer les destructions dues à la campagne des 18 jours de mai 1940. C’était également une manière de soustraire des jeunes aux réquisitions de l’occupant allemand et de maintenir sous bonne influence “nationale” des équipes de jeunes appelés à redresser le pays, une fois la paix revenue. Pendant la guerre, J. Libert collaborera au Nouveau Journal de Robert Poulet, ce qui lui vaudra d’être épuré, au grand scandale d’Hergé qui estimait, à juste titre, que la répression tuait dans l’œuf les idéaux positifs d’innocence, de spontanéité et de pureté (le “cœur pur” de Tintin au Tibet). Jamais le pays n’a pu se redresser moralement, à cause de cette violence “officielle” qui effaçait les ressorts de tout sursaut éthique, à coup de décisions féroces prises par des juristes dépourvus de “Sittlichkeit” et de culture. On voit les résultats après plus de 6 décennies...

Franz Weyergans

Parmi les adeptes du groupe de la “Capelle-aux-Champs”, signalons encore Franz Weyergans (1912-1974), père de François Weyergans. Lui aussi s’inspire de Saint François d’Assise. Il sera d’abord journaliste radiophonique comme Biebuyck. La littérature, pour autant qu’elle ait retenu son nom, se rappellera de lui comme d’un défenseur doux mais intransigeant de la famille nombreuse et du mariage. Weyergans plaide pour une sexualité pure, en des termes qui apparaissent bien désuets aujourd’hui. Il fustige notamment, sans doute dans le cadre d’une campagne de l’Église, l’onanisme.

Franz Weyergans est revenu sous les feux de la rampe lorsque son fils François, publie chez Grasset Franz et François une sorte de dialogue post mortem avec son père. Le livre recevra un prix littéraire, le Grand Prix de la Langue Française (1997). Il constitue un très beau dialogue entre un père vertueux, au sens où l’entendait l’Église avant-guerre dans ses recommandations les plus cagotes à l’usage des tartufes les plus assomants, et un fils qui s’était joyeusement vautré dans une sexualité picaresque et truculente dès les années 50 qui annonçaient déjà la libération sexuelle de la décennie suivante (avec Françoise Sagan not.). Deux époques, deux rapports à la sexualité se télescopent dans Franz et François mais si François règle bien ses comptes avec Franz — et on imagine bien que l’affrontement entre le paternel et le fiston a dû être haut en couleurs dans les décennies passées — le livre est finalement un immense témoignage de tendresse du fils à l’égard de son père défunt.

L’angoisse profonde et terrible qui se saisit d’Hergé dès le moment où il rencontre celle qui deviendra sa seconde épouse, Fanny Vleminck, et lâche progressivement sa première femme Germain Kieckens, l’ancienne secrétaire de l’Abbé Wallez au journal Le Vingtième siècle, ne s’explique que si l’on se souvient du contexte très prude de la “Capelle-aux-Champs” ; de même, son recours à un psychanalyste disciple de Carl Gustav Jung à Zürich ne s’explique que par le tournant jungien qu’opèreront R. De Becker, futur collaborateur de la revue Planète de Louis Pauwels, et Henry Bauchau dès les années 50.

Biebuyck et Weyergans, même si nos contemporains trouveront leurs œuvres surannées, demeurent des écrivains, peut-être mineurs au regard des critères actuels, qui auront voulu, et parfois su, conférer une “dignité à l’ordinaire”, comme le rappelle C. Vanderpelen-Diagre. Jacques Biebuyck et Franz Weyergans, sans doute contrairement à Tintin (du moins dans une certaine mesure), ne visent ni le sublime ni l’épique : ils estiment que “la vie quotidienne est un pèlérinage ascétique”.

De l’ACJB à Rex

Mais dans toute cette effervescence, inégalée depuis lors, quelle a été la genèse de Rex, du mouvement rexiste de Léon Degrelle ? Les 29, 30 et 31 août 1931 se tient le congrès de l’ACJB, présidé par Léopold Levaux, auteur d’un ouvrage apologétique sur Léon Bloy (Léon Bloy, éd. Rex, Louvain, 1931). À la tribune : Monseigneur Ladeuze, Recteur magnifique de l’Université Catholique de Louvain, l’Abbé Jacques Leclercq et Léon Degrelle, alors directeur des Éditions Rex, fondées le 15 janvier 1931. Le futur fondateur du parti rexiste se trouvait donc à la fin de l’été 1931 aux côtés des plus hautes autorités ecclésiastiques du pays et du futur mentor de la démocratie chrétienne, qui finira par se situer très à gauche, très proche des communistes et du résistancialisme qu’ils promouvaient à la fin des années 40. L’organisation de ce congrès visait le couronnement d’une série d’activités apostoliques dans les milieux catholiques et, plus précisément, dans le monde de la presse et de l’édition, ordonnées très tôt, sans doute dès le lendemain de la Première Guerre mondiale, par le cardinal Mercier lui-même. L’année de sa mort, qui est aussi celle de la condamnation de l’Action française par le Vatican (1926), est suivie rapidement par la fameuse “substitution de gourou” dans les milieux catholiques belges : on passe de Maurras à Maritain, du nationalisme intégral à l’humanisme intégral. En cette fin des années 20 et ce début des années 30, Maritain n’a pas encore une connotation de gauche : il ne l’acquiert qu’après son option en faveur de la République espagnole.

C’est une époque où le futur Monseigneur Picard s’active, notamment dans le groupe La nouvelle équipe et dans les Cahiers de la jeunesse catholique. En août 1931, à la veille de la rentrée académique de Louvain, il s’agit de promouvoir les éditions Rex, sous la houlette de Degrelle (c’est pour cela qu’il est hissé sur le podium à côté du Recteur), de Robert du Bois de Vroylande (1907-1944) et de Pierre Nothomb. En 1932, l’équipe, dynamisée par Degrelle, lance l’hebdomadaire Soirées qui parle de littérature, de théâtre, de radio et de cinéma. Les catholiques, auparavant rétifs à toutes les formes de modernité même pratiques, arraisonnent pour la première fois, avec Degrelle, le secteur des loisirs. La forme, elle aussi, est moderne : elle fait usage des procédés typographiques américains, utilise en abondance la photographie, etc. La parution de Soirées, hebdomadaire en apparence profane, apporte une véritable innovation graphique dans le monde de la presse belge. Les éditions Rex ont été fondées “pour que les catholiques lisent”. L’objectif avait donc clairement pour but de lancer une offensive “métapolitique”.

L’équipe s’étoffe : autour de Léon Degrelle et de Robert du Bois de Vroylande, de nouvelles plumes s’ajoutent, dont celle d’Aman Géradin (1910-2000) et de José Streel (1911-1946), auteur de 2 thèses, l’une sur Péguy, l’autre sur Bergson. Plus tard, Pierre Daye, Joseph Mignolet et Henri-Pierre Faffin rejoignent les équipes des éditions Rex. Celles-ci doivent offrir aux masses catholiques des livres à prix réduit, par le truchement d’un système d’abonnement. C’est le pendant francophone du Davidsfonds catholique flamand (qui existe toujours et est devenu une maison d’édition prestigieuse). Cependant, l’épiscopat, autour des ecclésiastiques Picard et Ladeuze, n’a pas mis tous ses œufs dans le même panier. À côté de Rex, il patronne également les Éditions Durandal, sous la direction d’Edouard Ned (1873-1949). Celui-ci bénéficie de la collaboration du Chanoine Halflants, de Firmin Van den Bosch, de Georges Vaxelaire, de Thomas Braun, de Léopold Levaux et de Camille Melloy. L’épiscopat a donc créé une concurrence entre Rex et Durandal, entre Degrelle et Ned. C’était sans doute, de son point de vue, de bonne guerre. Les éditions Durandal, offrant des ouvrages pour la jeunesse, dont nous disposions à la bibliothèque de notre école primaire (vers 1964-67), continueront à publier, après la mort de Ned, jusqu’au début des années 60.

Degrelle rompt l’unité du parti catholique

rex-0410.jpgLéon Degrelle veut faire triompher son équipe jeune (celle de Ned est plus âgée et a fait ses premières armes du temps de la Jeune Droite de Carton de Wiart). Il multiplie les initiatives, ce qui donne une gestion hasardeuse. Les stocks d’invendus sont faramineux et les productions de Rex contiennent déjà, avant même la formation du parti du même nom, des polémiques trop politiques, ce qui, ne l’oublions pas, n’est pas l’objectif de l’ACJB, organisation plus culturelle et métapolitique que proprement politique et à laquelle les éditions Rex sont théoriquement inféodées. Degrelle est désavoué et Robert du Bois de Vroylande quitte le navire, en dénonçant vertement son ancien associé. Meurtri, accusé de malversations, Degrelle se venge par le fameux coup de Courtrai, où, en plein milieu d’un congrès du parti catholique, il fustige les “banksters”, c’est-à-dire les hommes politiques qui ont créé des caisses d’épargne et ont joué avec l’argent que leur avaient confié des petits épargnants pieux qui avaient cru en leurs promesses (comme aujourd’hui pour la BNP et Dexia, sauf que la disparition de toute éthique vivante au sein de la population n’a suscité aucune réaction musclée, comme en Islande ou en Grèce par ex.).

Degrelle, en déboulant avec ses “jeunes plumes” dans le congrès des “vieilles barbes”, a commis l’irréparable aux yeux de tous ceux qui voulaient maintenir l’unité du parti catholique, même si, parfois, ils entendaient l’infléchir vers une “voie italienne” (comme Nothomb avec son “Lion ailé”) ou vers un maritainisme plus à gauche sur l’échiquier politique, ouvert aux socialistes (notamment aux idées planistes de Henri De Man et pour mettre en selle des coalitions catholiques / socialistes) voire carrément aux idées marxistes (pour absorber une éventuelle contestation communiste). De l’équipe des éditions Rex, seuls Daye, Streel, Mignolet et Géradin resteront aux côtés de Degrelle : ils forment un parti concurrent, le parti rexiste qui remporte un formidable succès électoral en 1936, fragilisant du même coup l’épine dorsale de la Belgique d’après 1918, forgée lors des fameux accords de Lophem. Ceux-ci prévoyaient une démocratie réduite à une sorte de circuit fermé sur 3 formations politiques seulement : les catholiques, les libéraux et les socialistes, avec la bénédiction des “acteurs sociaux”, les syndicats et le patronat. Les Accords de Lophem ne prévoyaient aucune mutation politique, aucune irruption de nouveautés organisées dans l’enceinte des Chambres. Et voilà qu’en 1936, 3 partis, non prévus au programme de Lophem, entrent dans l’hémicycle du parlement : les nationalistes flamands du VNV, les rexistes et les communistes.

Toute innovation est assimilée à Rex et à la Collaboration

Les rexistes (en même temps que les nationalistes flamands et les communistes), en gagnant de nombreux sièges lors des élections de 1936, relativisent ipso facto les fameux accords de Lophem et fragilisent l’édifice étatique belge, dont les critères de fonctionnement avaient été définis à Lophem. Depuis lors, toute nouveauté, non prévue par les accords de Lophem, est assimilée à Rex ou au mouvement flamand. Fin des années 60 et lors des élections de 1970, des affiches anonymes, placardées dans tout Bruxelles, ne portaient qu’une seule mention : “FDF = REX”, alors que les préoccupations du parti de Lagasse n’avaient rien de commun avec celles du parti de Degrelle. Ce n’est pas le contenu idéologique qui compte, c’est le fait d’être simplement challengeur des accords de Lophem. Même scénario avec la Volksunie de Schiltz (qui, pour sauver son parti, fera son aggiornamento belgicain, lui permettant de se créer une niche nouvelle dans un scénario de Lophem à peine rénové). Et surtout même scénario dès 1991 avec le Vlaams Blok, assimilé non seulement à Rex mais à la collaboration et, partant, aux pires dérives prêtées au nazisme et au néo-nazisme, surtout par le cinéma américain et les élucubrations des intellectuels en chambre de la place de Paris.

Le choc provoqué par le rexisme entraîne également l’implosion du pilier catholique belge, jadis très puissant. Le voilà disloqué à jamais : une recomposition sur la double base de l’idéal d’action de Blondel (avec exigence éthique rigoureuse) et de l’idéal de justice sociale de Carton de Wiart et de l’Abbé Daens, s’est avérée impossible, en dépit des discours inlassablement répétés sur l’humanisme, le christianisme, les valeurs occidentales, la notion de justice sociale, la volonté d’être au “centre” (entre la gauche socialiste et la droite libérale), etc. Une telle recomposition, s’il elle avait été faite sur base de véritables valeurs et non sur des bricolages idéologiques à base de convictions plus sulpiciennes que chrétiennes, plus pharisiennes que mystiques, aurait permit de souder un bloc contre le libéralisme et contre toutes les formes, plus ou moins édulcorées ou plus ou moins radicales, de marxisme, un bloc qui aurait véritablement constitué un modèle européen et praticable de “Troisième Voie” dès le déclenchement de la guerre froide après le coup de Prague de 1948.

Cet idéal de “Troisième Voie”, avec des ingrédients plus aristotéliciens, grecs et romains, aurait pu épauler avec efficacité les tentatives ultérieures de Pierre Harmel, un ancien de l’ACJB, de rapprocher les petites puissances du Pacte de Varsovie et leurs homologues inféodées à l’OTAN (sur Harmel, lire : Vincent Dujardin, Pierre Harmel, Le Cri, Bruxelles, 2004). L’absence d’un pôle véritablement personnaliste (mais un personnalisme sans les aggiornamenti de Maritain et des personnalistes parisiens affectés d’un tropisme pro-communiste et craignant de subir les foudres du tandem Sartre-De Beauvoir) n’a pas permis de réaliser cette vision harmélienne d’une “Europe Totale” (probablement inspirée de Blondel, cf. supra), qui aurait parfaitement pu anticiper de 20 ans la “perestroïka” et la “glasnost” de Gorbatchev.

Une véritable implosion du bloc catholique

Le pilier catholique de l’après-guerre n’ose plus revendiquer expressis verbis un personnalisme éthique exigeant. Fragmenté, il erre entre plusieurs môles idéologiques contradictoires : celui d’un personnalisme devenu communisant avec l’UDB (où se retrouve un William Ugeux, ex-journaliste du Vingtième Siècle de l’Abbé Wallez, l’admirateur sans faille de Maurras et de Mussolini !), qui, après sa dissolution dans le désintérêt général, va générer toutes les variantes éphémères du “christianisme de gauche”, avec le MOC et en marge du MOC (Mouvement Ouvrier Chrétien) ; celui du technocratisme qui, comme toutes les autres formes de technocratisme, exclut la question des valeurs et de l’éthique de l’orbite politique et laisse libre cours à toutes les dérives du capitalisme et du libéralisme, provoquant à terme le passage de bon nombre d’anciens démocrates chrétiens du PSC, ceux qui confondent erronément “droite” et “libéralisme”, dans les rangs des PLP, PRL et MR libéraux ; le technocratisme fut d’abord importé en Belgique par Paul Van Zeeland, immédiatement dans la foulée de sa victoire contre Rex, lors des élections de 1937, provoquées par Degrelle qui espérait déclencher un nouveau raz-de-marée en faveur de son parti.

Van Zeeland avait besoin d’un justificatif idéologique en apparence neutre pour pouvoir diriger une coalition regroupant l’extrême-gauche communiste, les socialistes, les libéraux et les catholiques. Les avatars multiples du premier technocratisme zeelandien déboucheront, dans les années 90, sur la “plomberie” de Jean-Luc Dehaene, c’est-à-dire sur les bricolages politiciens et institutionnels, sur les expédiants de pure fabrication, menant d’abord à une Belgique sans personnalité aucune (et à une Flandre et à une Wallonie sans personnalité séduisante) puis sur une “absurdie”, un “Absurdistan”, tel que l’a décrit l’écrivain flamand Rik Vanwalleghem (cf. supra). Enfin, on a eu des formes populistes vulgaires dans les années 60 avec les “listes VDB” de Paul Van den Boeynants qui ont débouché au fil du temps dans le vaudeville, le stupre et la corruption. Autre résultat de la mise entre parenthèse des questions axiologiques ou éthiques...

De l’UDB au PSC et du PSC au CdH, l’évacuation de toutes les “valeurs” structurantes a été perpétrée parce que Degrelle avait justifié son “Coup de Courtrai”, son “Opération Balais” et ses éditoriaux au vitriol au nom de l’éthique, une éthique qu’il avait d’abord partagée avec bon nombre d’hommes politiques ou d’écrivains catholiques (qui ne deviendront ni rexistes ni collaborateurs). Toute référence à une éthique (catholique ou maritainiste au sens du premier Maritain) pourrait autoriser, chez les amateurs de théories du complot et les maniaques de l’amalgame, un rapprochement avec Rex, donc avec la collaboration, ce que l’on voulait éviter à tout prix, en même temps que les campagnes de presse diffamatoires, où l’adversaire est toujours, quoi qu’il fasse ou dise, un “fasciste”. Cette éthique pouvait certes indiquer une “proximité” avec Rex, sur le plan philosophique, mais non une identité, vu les différences notoires entre Rex et ses adversaires (catholiques) sur les réformes à promouvoir aux plans politique et institutionnel. Le fait que Degrelle ait justifié ses actions perturbantes de l’ordre établi à Lophem au nom d’une certaine éthique catholique, théorisée notamment par José Streel, qui lui ajoute des connotations populistes tirées de Péguy (“les petites et honnêtes gens”), n’exclut pas qu’un pays doit être structuré par une éthique née de son histoire, comme des auteurs aussi différents que Colin, Hommel, Streel, Libert, De Becker ou Bauchau l’ont réclamé dans les années 30.

En changeant de nom, le PSC devenu CdH (Centre démocrate et humaniste) optait pour un retour à l’universalisme gauchisant du dernier Maritain, s’ôtant par là même tout socle éthique et concret sous prétexte qu’on ne peut exiger de la rigueur au risque de froiser d’autres croyants ou des “incroyants” ; on se privait volontairement d’une éthique capable de redonner vigueur à la vie politique du royaume. L’idéologie vague du CdH, sans plus beaucoup de volonté affichée d’ancrage local en Wallonie et même sans plus aucun ancrage catholique visibilisé, laisse un pan (certes de plus en plus ténu en Wallonie mais qui se fortifie à Bruxelles grâce aux voix des immigrants subsahariens) de l’électorat ouvert à toutes les dérives du festivisme contemporain ou d’un utilitarisme libéral, néo-libéral et sans profondeur : la société marchande, la dictature des banquiers et des financiers, ne rencontre plus aucun obstacle dans l’intériorité même des citoyens. Cette fraction de l’électorat, que l’on juge, à tort, susceptible d’opposer un refus éthique, puisque “religieux” ou “humaniste”, à la dicature médiatique, festiviste et utilitariste dominante, est alors “neutralisé” et ne peut plus contribuer à redonner vigueur à la virtù de machiavélienne mémoire. De cette façon, on navigue de Charybde en Scylla. La spirale du déclin moral, physique et politique est en phase descendante et “catamorphique” sans remède apparent.

La théorie de Pitirim Sorokin pour théoriser la situation

Quel outil théorique pourrait-on utiliser pour saisir toute la problématique du catholicisme belge, où il y a eu d’abord exigence d’éthique dans le sillage du Cardinal Mercier, sous l’impulsion directe de celui-ci, puis déconstruction progressive de cette exigence éthique, après le paroxysme du début des années 30 (avec l’ouvrage de Monseigneur Picard, Le Christ-Roi, éd. Rex, Louvain, 1929). La condamnation de l’Action française par Rome en 1926, le remplacement de l’engouement pour l’Action Française par l’universalisme catholique de Maritain, qui deviendra vite vague et dépourvu de socle, la tentation personnaliste théorisée par Mounier, le choc du rexisme qui fait imploser le bloc catholique sont autant d’étapes dans cette recherche fébrile de nouveauté au cours des années 30 et 40.

Le sociologue russe blanc Pitirim Sorokin (1889-1968), émigré aux États-Unis après la révolution bolchevique, nous offre sans doute, à nos yeux, la meilleure clef interprétative pour comprendre ce double phénomène contradictoire d’exigence éthique, parfois véhémente, et de deconstruction frénétique de toute assise éthique, qui a travaillé le monde politico-culturel catholique de la Belgique entre 1884 et 1945 et même au-delà. P. Sorokin définit 3 types de mentalité à l’œuvre dans le monde, quand il s’agit de façonner les sociétés. Il y a la mentalité “ideational”, la mentalité “sensate” et la mentalité intermédiaire entre “ideational” et “sensate”, l’”idealistic”. Pour Sorokin, les hommes animés par la mentalité “ideational” sont mus par la foi, la mystique et/ou l’intuition. Ils créent les valeurs artistiques, esthétiques, suscitent le Beau par leurs actions. Certains sont ascètes. Ceux qui, en revanche, sont animés par la mentalité “sensate”, entendent dominer le monde matériel en usant d’artifices rationnels. Les “idealistic” détiennent des traits de caractère communs aux 2 types. La dynamique sociale repose sur la confrontation ou la coopération entre ces 3 types d’hommes, sur la disparition et le retour de ces types, selon des fluctuations que l’historien des idées ou de l’art doit repérer.

La civilisation grecque connaît ainsi une première phase “ideational” (quand émerge la “période axiale” selon Karl Jaspers ou Karen Armstrong), suivie d’une phase “idealistic” puis d’une phase de décadence “sensate”. De même, le Moyen Âge ouest-européen commence par une phase “ideational”, qui dure jusqu’au XIIe siècle, suivie d’une phase hybride de type “idealistic” et du commencement d’une nouvelle phase “sensate”, à partir de la fin du XVe siècle. Sorokin estimait que le début du XXe siècle était la phase terminale de la période “sensate” commencée fin du XVe siècle et qu’une nouvelle phase “ideational” était sur le point de faire irruption sur la scène mondiale. La vision du temps selon Sorokin n’est donc pas linéaire ; elle n’est pas davantage cyclique : elle est fluctuante et véhicule des valeurs toujours immortelles, toujours susceptibles de revenir à l’avant-plan, en dépit des retraits provisoires (le “withdrawal-and-return” de Toynbee), qui font croire à leur disparition. Une volonté bien présente dans un groupe d’hommes à la mentalité “ideational” peut faire revenir des valeurs non matérielles à la surface et amorcer ainsi une nouvelle période féconde dans l’histoire d’une civilisation (cf. Prof. Dr. S. Hofstra, « Pitirim Sorokin », in : Hoofdfiguren uit de sociologie, deel 1, Het Spectrum, coll. “Aula”, nr. 527, Utrecht / Antwerpen, 1974, pp. 202-220).

De l’”ideational” au “sensate”

La phase “ideational” est celle qui recèle encore la virtus politique romaine, ou la virtù selon Machiavel. Elle correspond au sentiment religieux de nos auteurs catholiques (rexisants ou non) et à leur volonté d’œuvrer au Beau et au Bien. Face à ceux-ci, les détenteurs de la mentalité “sensate” qui, dans une première phase, sont matérialistes ou technocratistes ; ils ne jugent pas la recherche du profit comme moralement indéfendable ; ils seront suivis par des “sensate” encore plus radicaux dans le sillage de mai 68 et du festivisme qui en découle puis dans la vague néo-libérale qui a conduit l’Europe à la ruine, surtout depuis l’automne 2008. Le bloc catholique en liquéfaction dans le paysage politique belge a d’abord été animé par une frange jeune, nettement perceptible comme “ideational”, une frange au sein de laquelle émergera un conflit virulent, celui qui opposera les adeptes et les adversaires de Rex.

Au départ, ces 2 factions “ideational” partageaient les mêmes aspirations éthiques et les mêmes vues politiques (renforcement de l’exécutif, etc.) : les uns feront des compromis avec les tenants des idéologies “sensate” pour ne pas être marginalisés ; les autres refuseront tout compromis et seront effectivement marginalisés. Les premiers se forceront à oublier leur passé “ideational” pour ne pas être confondus avec les seconds. Ces derniers seront mis au ban de la société après la défaite de l’Allemagne en 1945 et des mesures d’ordre judiciaire les empêcheront de s’exprimer aux tribunes habituelles d’une société démocratique (journalisme, enseignement, etc.). Toute forme d’expression politique de nature “ideational” sera réellement ou potentiellement assimilée à Rex (et à la collaboration). C’est ce que C. Vanderpelen-Diagre veut dire quand elle dit que les valeurs véhiculées par ces auteurs catholiques, les scriptores catholici, « ont déserté la mémoire collective ». On les a plutôt exilé de la mémoire collective...

Sa collègue de l’ULB, Bibiane Fréché, évoque, elle, l’émergence dans l’immédiat après-guerre d’une « littérature sous surveillance », bien encadrée par les institutions étatiques qui procurent subsides (souvent chiches) et sinécures à ceux qui veulent bien s’aligner en « ignorant le présent », « en se détachant des choses qui passent », bref en ne prenant jamais parti pour un mouvement social ou politique. On préconise la naissance d’une nouvelle littérature post-rexiste ou post-collaborationniste, et aussi post-communiste, qui serait détachée des réalités socio-politiques concrètes, des engagements tels qu’ils sont exaltés par les existentialistes français : bref, la littérature ne doit pas aider à créer les conditions d’une contestation des accords de Lophem. Il y a donc bien eu une tentative d’aligner la littérature sur des canons “gérables”, dès la fin de la Seconde Guerre mondiale (Bibiane Fréché, Littérature et société en Belgique francophone (1944-1960), Le Cri / CIEL-ULB-Ulg, Bruxelles, 2009). L’implosion du bloc catholique suite à la victoire de Rex en 1936 et la volonté de “normaliser” la littérature après 1945 créent une situation particulière, un blocage, qui empêche la restauration du politique au départ de toute initiative métapolitique. Les verrous ont été mis.

Quand un homme comme le Sénateur MR de Bruxelles, Alain Destexhe, entend, dans plusieurs de ses livres, “restaurer le politique” contre la déliquescence politicienne, il exprime un vœu impossible dans le climat actuel, héritier de cet envahissement du “sensate”, de cette inquisition répressive des auditorats militaires de l’après-guerre et de la volonté permanente et vigilante de “normalisation” voulue par les nouveaux pouvoirs : on ne peut restaurer ni le politique (au sens où l’entendaient Carl Schmitt et Julien Freund) ni la force dynamisante de la virtù selon Machiavel, sans recours à l’ “ideational” fondateur de valeurs qui puise ses forces dans le plus lointain passé, celui des périodes axiales de l’histoire (Jaspers, Armstrong). Pour revenir à Sorokin, la transition subie par la Belgique au cours du XXe siècle est celle qui l’a fait passer brutalement d’une période pétrie de valeurs “ideational” à une période entièrement dominée par les non valeurs “sensate”.

La réhabilitation tardive de Raymond De Becker

La récente réhabilitation de R. De Becker par les universités belges, exprimée par un long colloque de 3 jours au début avril 2012 dans les locaux des Facultés Universitaires Saint Louis de Bruxelles, est une chose dont il faut se féliciter car De Becker a d’abord été totalement ostracisé depuis sa condamnation à mort en 1946 suivie de sa grâce, sa longue détention sur la paille humide des cachots et le procès qu’il a intenté à l’État belge en 1954 et qu’il a gagné. Il est incontestablement l’homme qu’il ne fallait plus ni évoquer ni citer pour “chasser de la mémoire collective” une époque dont beaucoup refusaient de se souvenir. La fidélité que lui a conservée Bauchau a sans doute été fort précieuse pour décider le monde académique à réouvrir le dossier de cet homme-orchestre unique en son genre. L’intérêt intellectuel qu’il y avait à réhabiliter complètement De Becker vient justement de sa nature d’”électron libre” et de “passeur” qui allait et venait d’un cénacle à l’autre, correspondait avec d’innombrables homologues et surtout avec Jacques Maritain.

Cécile Vanderpelen-Diagre, dans un ouvrage rédigé avec le Professeur Paul Aron (Vérités et mensonges de la collaboration, éd. Labor, Loverval, 2006 ; sur De Becker, lire les pp. 13-36) souligne bien cette qualité d’homme-orchestre de De Becker et surtout l’importance de son ouvrage Le livre des vivants et des morts, où il retrace son itinéraire intellectuel (jusqu’en 1941). Elle reproche à De Becker, qui n’avait jamais été germanophile avant 1940-41, de s’octroyer dans cet ouvrage une certaine germanophilie dans l’air du temps. Ce reproche est sans nul doute fondé. Mais l’historienne des idées semble oublier que la conversion, somme toute assez superficielle, de De Becker à un certain germanisme (organique et charnel) vient de l’écrivain catholique Gustave Thibon, inspirateur de Jean Giono, qui avait rédigé sa thèse sur le philosophe païen et vitaliste Ludwig Klages, animateur en vue de la Bohème munichoise de Schwabing au début du siècle puis exilé en Suisse sous le national-socialisme mais inspirateur de certains protagonistes du mouvement anti-intellectualiste völkisch (folciste), dont certains s’étaient ralliés au nouveau régime.

Ubiquité de De Becker : personnalisme, socialisme demaniste + “Le Rouge et le Noir”

Vu l’ubiquité de De Becker dans le paysage intellectuel des années 30 en Belgique comme en France, et vu ses sympathies pour le socialisme éthique de Henri De Man, il est impossible de ne pas inclure, dans nos réflexions sur le devenir de notre espace politique, l’histoire des idées socialistes, notamment après analyse de l’ouvrage récent d’Eva Schandevyl, professeur à la VUB, qui vient de consacrer un volume particulièrement dense et bien charpenté sur l’histoire des gauches belges : Tussen revolutie en conformisme – Het engagement en de netwerken van linkse intellectuelen in België, 1918-1956 (ASP, Bruxelles, 2011). Sans omettre non plus l’histoire du mouvement et de la revue Le Rouge et le Noir, organe et tribune anarchiste-humaniste avant-guerre, dont l’un des protagonistes, Gabriel Figeys (alias Mil Zankin), se retrouvera sous l’occupation aux côtés de Louis Carette (le futur Félicien Marceau) à l’Institut National de Radiodiffusion (INR) et dont l’animateur principal, Pierre Fontaine, se retrouvera à la tête du seul hebdomadaire de droite anti-communiste après la guerre, l’Europe-Magazine (avant la reprise de ce titre par Émile Lecerf).

Les aléas du Rouge et Noir sont très bien décrits dans l’ouvrage de Jean-François Füeg (Le Rouge et le Noir : La tribune bruxelloise non-conformiste des années 30, Quorum, Ottignies / Louvain-la-Neuve, 1995). Füeg, professeur à l’ULB, montre très bien comment l’anti-communisme des libertaires non-conformistes, né comme celui d’Orwell dans le sillage de l’affontement entre anarcho-syndicalistes ibériques et communistes à Barcelone pendant la guerre civile espagnole, comment le neutralisme pacifiste des animateurs du Rouge et Noir a fini par accepter la politique royale de rupture de l’alliance privilégiée avec une France posée comme indécrottablement belliciste et première responsable des éventuelles guerres futures (Koestler mentionne cette attitude pour la critiquer dans ses mémoires), ce qui conduira, très logiquement, après l’effondrement de la structure que constituait “le rouge et le noir”, à redessiner, pendant la guerre et dans les années qui l’ont immédiatement suivie, un paysage intellectuel politisé très différent de celui des pays voisins. La lecture de ces itinéraires interdit toute lecture binaire de notre paysage intellectuel tel qu’il s’est déployé au cours du XXe siècle. Ce que nous avions toujours préconisé depuis la toute première conférence de l’EROE sur Henri De Man en septembre 1983, en présence de témoins directs, aujourd’hui tous décédés, tels Léo Moulin, Jean Vermeire (du Vingtième Siècle et puis du Pays Réel) et Edgard Delvo (sur Delvo, lire : Frans Van Campenhout, Edgard Delvo – Van marxist en demanist naar Vlaams-nationalist, chez l’auteur, Dilbeek, 2003 ; l’auteur est un spécialiste du mouvement “daensiste”).

Au-delà du clivage gauche/droite

Nos initiatives ont toujours voulu transcender le clivage gauche/droite, notamment en incluant dans nos réflexions les critiques précoces du néo-libéralisme par les auteurs des éditions “La Découverte” qui préconisaient le “régulationnisme”. C’était Ange Sampieru qui se faisait à l’époque le relais entre notre rédaction et l’éditeur parisien de gauche, tout en essuyant les critiques ineptes et les sabotages irrationnels d’un personnage tout à la fois bouffon et malfaisant, l’inénarrable et narcissique Alain de Benoist, qui s’empressera de se placer, 2 ou 3 ans plus tard, dans le sillage de Sampieru, qu’il ignorera par haine jalouse et complexe d’infériorité et qu’il évincera avant de l’imiter. Le “Pape de la ‘nouvelle droite’” ira flatter de manière ridiculemernt obséquieuse les animateurs du MAUSS (Mouvement Anti-Utilitariste dans les Sciences Sociales), qui publiaient chez “la Découverte”, pour essuyer finalement, sur un ton goguenard, une fin de non recevoir et glâner une “lettre ouverte” moqueuse et bien tournée... Notre lecture de Nietzsche était également tributaire de ce refus, dans la mesure où nous n’avons jamais voulu le lire du seul point de vue de “droite” et que nous avons toujours inclu dans nos réflexions l’histoire de sa réception à gauche des échiquiers politiques, surtout en Allemagne.

Quant au catholicisme politique belge, il s’est suicidé et perpétue son suicide en basculant toujours davantage dans les fanges les plus écœurantes du festivisme (Milquet) ou de la corruption banksterienne (Dehaene), au nom d’une très hypothétique “efficacité politique” ou par veulerie électoraliste. Il est évident qu’il ne nous attirera plus, comme il ne nous a d’ailleurs jamais attiré. Il n’empêche que la Belgique, de même qu’une Flandre éventuellement indépendante et que la Wallonie, est le produit de la reconquête des Pays-Bas par les armées de Farnèse et de la Contre-Réforme, comme le disait déjà avant guerre le Professeur louvaniste Léon van der Essen et que cette reconquête est celle des iconodules pré-baroques qui reprennent le contrôle du pays après les exactions des iconoclastes, qui avaient ravagé le pays en 1566 (3) : un Martin Mosebach, étoile de la littérature allemande contemporaine, dirait qu’il s’agit d’une victoire de la forme sur la “Formlosigkeit”, tout comme l’installation des “sensate” dans les rouages de la politique et de l’État est, au contraire, une victoire de la “Formlosigkeit” sur les formes qu’avaient voulu sauver les “ideational” ou gentiment maintenir les “idealistic”.

Même si la foi a disparu sous les assauts du relativisme postmoderne ou par épuisement, 2 choses demeurent : le territoire sur lequel nous vivons est une part détachée de l’ancien Saint-Empire, dont la référence était catholique, et la philosophie qui doit nous animer est surtout, même chez les adversaires de Philippe II ralliés au Prince d’Orange ou à Marnix de Sainte-Aldegonde, celle d’Érasme, très liée à l’antiquité et très marquée par le meilleur des humanismes renaissancistes. Érasme n’a pas rejoint le camp de la Réforme non pas pour des raisons religieuses, mais parce qu’un retour au biblisme le plus littéral, hostile au recours de la Renaissance à l’Antiquité, le révulsait et suscitait ses moqueries : autre volonté sereine de maintenir les formes antiques, née à la période axiale de l’histoire et ravivée sous Auguste, contre la “Formlosigkeit” que constitue les autres formes, importées ou non. Nous devons donc rester, devant cet héritage du XXe siècle et devant les ruines qu’il a laissés, des érasmiens impériaux, bien conscients de la folie des hommes.

► Robert Steuckers (Forest-Flotzenberg, mai 2012).

Notes :

(1) Paul Desjardins inaugure un filon de la pensée qui apaise et fortifie les esprits tout à la fois. Dreyfusard au moment de l’”affaire”, il achète en 1906 l’Abbaye de Pontigny confisquée et vendue suite aux mesures du “P’tit Père Combes”. Dans cette vénérable bâtisse, il crée les Décades de Pontigny, périodes de chaque fois 10 jours de séminaires sur un thème donné. Elles commencent avant la Première Guerre mondiale et reprennent en 1922. Parallèlement à ces activités qui se tenaient dans le département de l’Yonne, P. Desjardins suit les Cours universitaires de Davos, en Suisse, où, de 1928 à 1931, des intellectuels français et allemands, flanqués d’homologues venus d’autres pays, se rencontreront en terrain neutre. En 1929, Heidegger, Gonzague de Reynold, Ernst Cassirer et le théologien catholique et folciste (völkisch) Erich Przywara y participent en tant que conférenciers. Parmi les étudiants invités, il y avait Norbert Elias, Karl Mannheim, Emmanuel Lévinas, Léo Strauss et Rudolf Carnap. L’axe des réflexions des congressistes est l’anti-totalitarisme. En 1930, on y trouve Henri De Man et Alfred Weber (le frère trop peu connu en dehors d’Allemagne de Max Weber, décédé en 1920). En 1931, on y retrouve l’Italien Guido Bartolotto, théoricien de la notion de “peuple jeune”, Marcel Déat, Hans Freyer et Ernst Michel (disciple de Carl Schmitt). On peut comparer mutatis mutandis ces activités intellectuelles de très haut niveau au projet lancé à l’époque par Karl Jaspers, visant à établir l’état intellectuel de la nation (allemande) dans une perspective pluraliste et constructive, initiative que Jürgen Habermas tentera, à sa façon, d’imiter à l’aube des années 80 du XXe siècle. P. Desjardins collabore également à la Revue politique et littéraire, plus connue sous le nom de Revue Bleue, vu la couleur de sa couverture. Sa fille Anne Desjardins, épouse Heurgon, poursuit l’œuvre de son père mais vend l’Abbaye de Pontigny pour acheter des locaux à Cerisy-la-Salle, où se tiendront de nombreux colloques philosophico-politiques.

Plus tard, surgit sur la scène française un auteur, apparemment sans lien de parenté avec P. Desjardins, qui porte le même patronyme, Arnaud Desjardins (1925-2011). Ce disciple de Gurdjieff, comme le sera aussi Louis Pauwels qui s’assurera pour Planète le concours de Raymond De Becker, influence également De Becker (et par le truchement de De Becker, Hergé) et infléchit les réflexions de ses lecteurs en direction du yoga et de la spiritualité indienne, dans le sillage de Swâmi Prâjnanpad. Son ouvrage Chemins de la sagesse influencera un grand nombre d’Occidentaux friands d’un “ailleurs” parce que leur civilisation, sombrant dans le matérialisme et la frénésie acquisitive, ne les satisfaisait plus. A. Desjardins participera à plusieurs expéditions, en minibus Volkswagen, en Afghanistan, dont il rapportera, à l’époque, des reportages cinématographiques époustouflants. Signalons également qu’A. Desjardins fut un animateur en vue du mouvement scout, auquel il voulait insuffler une vigueur nouvelle, plus aventureuse et plus friande de grands voyages, à la façon des Nerother allemands. Le scoutisme d’A. Desjardins participera à la résistance, notamment en facilitant l’évasion de personnes cherchant à fuir l’Europe contrôlée par l’Axe.

Le fils d’Arnaud, Emmanuel Desjardins, prend le relais, œuvre actuellement, et a notamment publié Prendre soin du monde – Survivre à l’effondrement des illusions (éd. Alphée / Jean-Paul Bernard, Monaco, 2009), où il dresse le bilan de la « crise du paradigme du progrès » inaugurant le « règne de l’illusion » suite au « déni du réel » et de la « dénégation du tragique ». Il analyse de manière critique l’”intransigeance idéaliste” (à laquelle un De Becker, par ex., avoue avoir succombé). E. Desjardins tente d’esquisser l’émergence d’un nouveau paradigme, où il faudra avoir le « sens du long terme » et « agir dans la complexité ». Il place ses espoirs dans une écologie politique bien comprise et dans la capacité des êtres de qualité à « se changer eux-mêmes » (par une certaine ascèse). Enfin, E. Desjardins appelle les hommes à « retrouver du sens au cœur du tragique » (donc du réel) en « renonçant au confort idéologique » et en « prenant de la hauteur ».

La trajectoire cohérente des 3 générations Desjardins est peut-être le véritable filon idéologique que cherchaient en tâtonnant, et dans une fébrilité “pré-zen”, ceux de nos rêveurs qui cherchaient une “troisième voie” spiritualisée et politique (qui devait spiritualiser la politique), surtout De Becker et Bauchau, dont les dernières parties du journal, édité par “Actes Sud”, recèlent d’innombrables questionnements mystiques, autour de Maître Eckart notamment. Hergé, très influencé par De Becker en toutes questions spirituelles, surtout le De Becker d’après-guerre, avait reconnu sa dette à l’endroit d’Arnaud Desjardins dans un article intitulé « Mes lectures » et reproduit 23 ans après sa mort dans un numéro spécial du Vif-L’Express et de Lire – Hors-Série, 12 déc. 2006. Hergé insiste surtout sur l’œuvre de Carl Gustav Jung et sur les travaux d’Alan Wilson Watts (1915-1973), ami d’A. Desjardins. Alan Watts est considéré comme le père d’une certaine “contre-culture” des années 50, 60 et 70, qui puise son inspiration dans les philosophies orientales.

(2) Sur Sulev J. Kaja, lire : Michel Fincœur, Sulev J. Kaja, un Estonien de cœur.

(3) Lire : Solange Deyon et Alain Lottin, Les casseurs de l’été 1566 : l’iconoclasme dans le Nord de la France, Hachette, 1981.

dimanche, 22 avril 2012

België, kolonie van Frankrijk

België, kolonie van Frankrijk

door Dirk Barrez

Ex: http://www.uitpers.be/

vlaanderen-een-franse-kolonie.jpgNiet zo lang geleden zie ik hoe een kwade man in hartje Brussel tegen een ober roept: "Vous Belges, vous êtes les esclaves des français." Weinigen die het zo spits zouden formuleren. Maar vooral, we weten al veel langer dat hij gelijk heeft, de rijkdommen van deze kolonie worden op onrechtmatige wijze geplunderd.

Is het wel opportuun om vandaag termen als kolonie of zelfs slavernij boven te halen? Past dat wel in tijden van mondialisering, en van een Europa dat zich moeizaam verenigt? En toch, bij nader toezien is het misschien wel meest accuraat.

Natuurlijk is België formeel een onafhankelijke staat, zelfs met meer dan één regering. Zo bekeken kan dit land hoogstens een vazalstaat of satellietstaat zijn.

Essentiëler echter om te spreken van een kolonie is de vraag of de opbrengsten en rijkdommen van een samenleving of land niet onterecht wegvloeien naar een ander land. En of het ene land over de macht beschikt om zijn wil op te dringen en het andere land een voortdurende aderlating op te leggen… en dus te exploiteren als een kolonie.

Laten we de relatie tussen de Belgische en de Franse samenleving eens van dichterbij bekijken. En laten we dat doen voor sectoren die werkelijk van het meest cruciale belang zijn.

Daar gaat het Belgische geld

Elke samenleving en elke economie moet kunnen steunen op een goed functionerend spaar- en kredietwezen. België is het enige welvarende land dat in de financiële crisis van 2008 zijn grootste bank – Fortis - niet in eigen handen hield maar verkocht aan een ander land, namelijk aan het Franse BNP Paribas. Dat dit gebeurde voor een veel te lage prijs maakt het alleen maar erger; ook erg is dat daarmee een nog grotere en risicovollere bank werd gemaakt; en nog erger dat er sindsdien ontzettend grote netto geldstromen van tientallen miljarden euro op gang zijn gebracht van dochter BNP Paribas Fortis richting Frans moederhuis, 30 miljard euro wist Le Soir eind oktober vorig jaar. BNP probeerde te ontkennen maar op basis van al te oude cijfergegevens.

Bijna 350 miljard euro bedraagt het bruto nationaal product van België, dat is de waarde van alle in één jaar door alle inwoners van dit land voortgebrachte goederen en diensten. Wie dit weet, ziet makkelijk dat het bij de BNP Paribas geldstromen niet om kleingeld draait. De 30 miljard euro die in Frankrijk belandde, is met andere woorden het volledige maandinkomen van alle Belgen.

Het is niet de enige bancaire geldstroom. In de Frans-Belgische financiële constructie Dexia stonden velen verbaasd toe te kijken op de 44 miljard euro Belgisch geld die richting Frankrijk vertrok– een bedrag ter grootte van anderhalf maandinkomen van alle Belgen samen.

Het was bijna zeker die onterecht verworven machtspositie waarmee Frankrijk België kon dwingen om de risico’s bij de instortende Dexia holding af te dekken … voor maar liefst 54 miljard euro. Terwijl die risico’s meest van al aan de Franse Dexia kant zijn opgebouwd, staat Frankrijk maximaal garant voor minder dan 33 miljard euro. Een dergelijk oneerlijk evenwicht kenmerkt een wel heel ongelijke machtsrelatie.

Intussen is, gelukkig maar, Dexia Bank België een Belgische overheidsbank geworden met de nieuwe naam Belfius. Maar daar is wellicht al te veel geld voor betaald, zeker als men de kleine tien miljard euro aan risicovolle obligaties van Griekenland, Portugal, Ierland, Spanje en Italië in acht neemt die alweer in deze deal ‘gesmokkeld’ zitten. Zo draagt de Belgische ‘kolonie’ nog veel meer van de Franse lasten.

Zoveel is wel duidelijk, de Belgen, nochtans heel grote spaarders, zijn geen meester over hun vele geld. Hun geldsysteem dient in grote mate de belangen van een ander land dat de opbrengsten ervan exploiteert. Dat is net wat de relatie tussen een kolonie en haar moederland kenmerkt.

Een gepeperde energierekening

Al even essentieel voor elke samenleving is hoe ze aan haar energie geraakt, en wat ze daarvoor moet betalen. Want zowat alle welvaart die ons land weet voort te brengen, steunt in grote of in heel grote mate op de inzet van energie. Belangrijke vraag dus, wie heeft het voor het zeggen als het om onze energie draait?

De omzet van elektriciteits- en gasbedrijf Electrabel is ongeveer 15 miljard euro per jaar, goed voor ruim vier procent van het nationaal inkomen van dit land. Belangrijker nog is dat dit bedrijf veruit het dominante zwaargewicht is in de Belgische energiesector, zeg maar ronduit een quasi monopolist. Al even belangrijk is dat Belgische politici er ook in dit geval in zijn geslaagd om een zo cruciale activiteit die het energiesysteem van een land is, in de handen van het buitenland te doen belanden… en opnieuw is dat land Frankrijk, in de vorm van het energiebedrijf GDF Suez, dat voor meer dan een derde zelfs rechtstreeks in handen is van de Franse staat.

Het resultaat is dat zowel de Belgische consumenten als de Belgische vooral kleine en middelgrote bedrijven hun energie veel duurder betalen dan in Frankrijk.
Het resultaat is ook dat de Belgische klanten die de kerncentrales van Electrabel hebben afbetaald niets zien van de enorme financiële opbrengsten die de verlengde levensduur oplevert.
Het resultaat is zelfs dat de Belgische staat het amper aandurft om die meerwaarden zelfs maar een beetje te belasten.

Het algemene resultaat is dus dat er elk jaar een netto financiële inkomensstroom ter waarde van zowat 2 miljard euro richting het Franse GDF Suez vloeit, elk jaar opnieuw. Dat is dus een dik half procent van ons BNP - ons gezamenlijke inkomen – dat we structureel verliezen. En de fundamentele reden is dat de controle en exploitatie van ons energiesysteem in handen is van een ander land dat dit alles aanwendt in het eigen belang.

Hoe komt dit toch?

Zeg nu nog dat België geen Franse kolonie is, of dat het er – in een globaliserende wereld - niet zou toe doen waar de beslissingscentra van grote bedrijven en sectoren zouden liggen.

Een politieke elite van een samenleving die een dusdanige afroming van rijkdom organiseert ten nadele van haar eigen burgers, gedraagt zich dus feitelijk als de uitvoerend gouverneur in dienst van het ‘moederland’. België wordt beheerst door een elite die haar eigen belangen najaagt door zich in te schrijven in deze koloniale relatie.

Deze elite bestrijden blijkt aartsmoeilijk. In elk geval organiseert de weerstand zich heel slecht in ons land. Neem werkgevers en werknemers die zeker de jongste jaren maar moeilijk overeenkomen. Maar over Electrabel en de al te dure elektriciteitsprijzen zei Karel Van Eetvelt van Unizo tegen een vakbondsvertegenwoordigster op een recent LinksRechts debat van DeWereldMorgen.be: "Wij vechten daar dezelfde strijd, maar blijkbaar hebben we te weinig te zeggen". Die vaststelling is illustratief voor de onmacht in dit land om werkelijk het eigen lot in handen te kunnen nemen: zelfs de verzamelde KMO-werkgevers en werknemers krijgen niets fundamenteel gedaan.

Het Belgische machtskluwen

Het is interessant om, al was het maar heel even, het machtskluwen dat dit land in zijn greep houdt onder de schijnwerpers te houden.

Dan zou het misschien opvallen dat Sophie Dutordoir niet alleen de CEO is van Electrabel - of juister van de Divisie Energie Benelux-Duitsland van GDF Suez - maar tegelijkertijd ook in de raad van bestuur zit van BNP Paribas Fortis.

Altijd zit er ook wel iemand van Suez-Electrabel in de regentenraad van de Nationale Bank. Tot 30 september 2008 was Pierre Wunsch zowel directeur van Electrabel als regent, om daarna kabinetschef bij toenmalig minister van Financiën Didier Reynders te worden.

Wie gelooft in toeval als zijn opvolger Gérald Frère is, bestuurder van Suez-Tractebel en zoon van Albert Frère, grootste privé aandeelhouder van Suez? Die Albert Frère is de Belg die eigenlijk in de grootste mate de uitverkoop van de Belgische economie heeft georganiseerd, in grote mate aan Franse belangen. Dat was zo met Electrabel en Tractebel, dat was ook zo met Petrofina dat uiteindelijk bij het Franse Total belandde. En ook de uittocht van zowat de volledige staalindustrie en van de BBL bank was zijn werk. Oh ja, verbaast het dat Gérald Frère ook ereconsul is van Frankrijk?

Sinds eind 2008 is de bij Electrabel net uitgewuifde Wunsch – je houdt het niet voor mogelijk – vertegenwoordiger voor de regering in de raad van bestuur van KBC.

Het is deze elite er blijkbaar heel veel aan gelegen om de touwtjes van zowel de financiële als de energiesystemen overal mee in handen te hebben.

En nog eentje, om het niet af te leren, nieuws van deze week. Wie is de nieuwe voorzitter van NMBS Logistics? Dat is Jean-Pierre Hansen, de vroegere baas van Electrabel dat altijd al veel te dure prijzen aanrekende aan NMBS voor elektriciteit.

Je kan er om lachen, om deze aanhoudende Belgenmoppen, maar het is vooral zuur lachen. Want dit machtskluwen verhindert dat onze samenleving van onderop de duurzame economie en de economische democratie uitbouwt die ze morgen nodig heeft.

Veel moeilijker dan elders komt er bijvoorbeeld ruimte voor andere energiebedrijven en sterke energiecoöperaties, vergeet zelfs dat dit land en zijn politici – tegen GDF Suez in - echt zou werken aan een energiebeleid dat komaf maakt met kernenergie en de toekomst kiest van hernieuwbare energie. En ook bijvoorbeeld een initiatief voor een nieuwe coöperatieve bank kan zich al maar best voorbereiden op stevige tegenwind.

Intussen is het deze week zover gekomen dat bij Electrabel alle belangrijke functies ingenomen worden door Fransen. De invloed die de Belgische overheid en samenleving dus niet hebben - namelijk om de Belgische financieel-economische elite te verplichten om de gerechtvaardigde rechten en belangen van haar burgers na te streven - die invloed heeft Suez wel, maar dan om de Belgische dochter volledig naar haar pijpen te laten dansen… en hetzelfde te proberen met de Belgische politiek. Het valt te vrezen dat de kans op slagen groot is.

Pas op voor de valstrik

Opnieuw naar de sterk geïnternationaliseerde wereld die onze economie, samenleving en politiek intussen toch zijn geworden. Dreigt deze analyse niet het risico van een aftands nationalistisch perspectief te hanteren?

Wel, niet echt. Want het is goed en noodzakelijk om Europees en zelfs mondiaal te denken. Natuurlijk moeten we een Europese ruimte nastreven die ons allemaal helpt om onze economische, sociale, culturele en democratische ambities na te streven.

Maar dit veegt de diversiteit van samenlevingen niet weg, noch hun eigen verantwoordelijkheid voor de beste organisatie van hun huishouden. We kunnen er echt niet op rekenen dat de duurzame huizen, scholen, industrie, landbouw, openbaar vervoer en andere voorzieningen die we in de nabije toekomst hard nodig hebben, zomaar uit de lucht zullen vallen.

Nog minder kan het een vrijbrief zijn voor nationalistisch machtsmisbruik dat oude koloniale machtsverhoudingen reproduceert in de 21ste eeuw. Want zo naïef wil niemand toch zijn: dit op koloniale wijze ingepikte geld is allemaal geld dat niet langer ter beschikking is voor de noden van de Belgen en voor de dringende ombouw naar een veel duurzamer economie dan de huidige. Zulke echte sociaalecologische ontwikkeling zal en moet ook morgen in de eerste plaats steunen op de inzet van overheden, bedrijven en organisaties in elke samenleving. En, hoe beter samenlevingen daar in slagen, hoe makkelijker ze ook andere kunnen ondersteunen en de middelen hebben om solidair te kunnen zijn met wie het minder goed gaat.

Autonomie en onafhankelijkheid heroveren

Onze eerste en meest dringende opdracht is dan om opnieuw onze autonomie en onafhankelijkheid te heroveren en niet langer een Franse kolonie te zijn. Want, zeg nu zelf, het kan gebeuren dat landen tegen hun zin tot kolonie worden gemaakt, maar welk land blijft voortdoen met een elite die de belangen van haar burgers voortdurend uitverkoopt en zichzelf tot kolonie maakt?

(Uitpers nr. 141, 13de jg., april 2012)

Bron: dewereldmorgen.be

mercredi, 11 avril 2012

Journée d'étude "Autour de Raymond De Becker"

Journée d'étude "Autour de Raymond De Becker"

Note de SYNERGIES EUROPEENNES: Enfin! Quelques instances officielles enBelgique rendent hommage à Raymond De Becker, peut-être grâce à la fidélité inébranlable que lui témoigne le doyen des lettres francophones du royaume, Henry Bauchau. Ce colloque, dont le programme complet figure en pdf en queue de présentation, fait véritablement le tourde laquestion. Puisse ce colloque être l'amorce d'une renaissance spirituelle et d'une nouvelle irruption d'éthique dans un royaume voué depuis près de six décennies à la veulerie.


La journée d'étude "Autour de Raymond De Becker" a eu lieu les 5 et 6 avril 2012 aux Facultés universitaires Saint Louis.
Raymond de Becker

Étrangement, la figure de Raymond De Becker (Schaerbeek, 30 janvier 1912 – Versailles, 1969), souvent évoquée dans les travaux des historiens, n’a encore fait l’objet d’aucun travail biographique. « Quant à Raymond De Becker », écrivait fort opportunément un « ami » d’André Gide, son histoire reste à écrire, car il semble que son passage du christianisme prophétique au fascisme virulent ait fait de lui un personnage non seulement sulfureux mais tabou » .


Après des études secondaires inachevées à l’Institut Sainte-Marie à Bruxelles, Raymond De Becker trouve à s’employer au sein d’une entreprise d’import-export américaine. Il quitte ce poste après un an pour entrer au secrétariat de l’ACJB à Louvain en tant que secrétaire général de la JIC (Jeunesse indépendante catholique – cercle de jeunesse des classes moyennes) qu’il a créée en mars 1928 avec sept autres jeunes industriels et commerçants. Il entre en contact avec des étudiants de Saint-Louis via Conrad van der Bruggen à l’été 1931 et participe à la fondation de l’Esprit nouveau et des Équipes Universitaires. Il interrompt ses activités fin décembre 1932 après le Congrès de la Centrale Politique de Jeunesse pour entreprendre une retraite mystique en France à Tamié où il a déjà effectué une reconnaisse au mois de septembre précédent de retour d’un voyage à Rome. Il met au point les premiers statuts du mouvement Communauté et revient en Belgique en novembre 1933 après un passage à Paris où il a rencontré André Gide. Ayant fait la connaissance d’Emmanuel Mounier à Bruxelles début 1934, il contribue à la pénétration des groupes Esprit en Belgique. De 1936 à 1938, il est associé au comité de rédaction de La Cité chrétienne puis passe à L’Indépendance belge d’où il est renvoyé en 1939. Il participe alors à la fondation du périodique neutraliste L’Ouest dirigé par Jean de Villers. Durant l’Occupation, il deviendra directeur éditorial des Éditions de la Toison d’Or et rédacteur en chef du « Soir volé ». Il rompra cependant avec la Collaboration en septembre 1943, justifiant sa rupture par l’incertitude manifestée par Léon Degrelle et les rexistes de s’attacher à défendre une structure étatique propre en Belgique. Il sera alors placé en résidence surveillée, d’abord près de Genappe puis à l’hôtel d’Ifen à Hirschegg dans les Alpes bavaroises en Autriche où il côtoie notamment André François-Poncet. Raymond De Becker sera condamné à mort le 24 juillet 1946 par le Conseil de guerre de Bruxelles. Il lui est alors essentiellement reproché d’avoir valorisé la Légion « Wallonie » et d’avoir soutenu en mars 1942 la mise en place du Service du Travail Obligatoire. Il sera cependant libéré en février 1951 mais contraint à l’exil. Il se réfugie en France où il poursuit une activité de publiciste principalement tournée vers la psychanalyse.

Ce colloque ambitionne donc d’aborder sans tabous cette figure capable de se mêler à tout ce qui compte dans les cénacles intellectuels belges et européens de l’entre-deux-guerres. A travers quatre sessions, qui rassembleront des universitaires belges et étrangers, il s’agira de revenir non seulement sur le parcours et les engagements du jeune publiciste dans les années 30 et 40, mais aussi de tenter de mesurer l’influence qu’il a pu exercer sur les nouvelles relèves belges et européennes. Cette démarche, essentielle, est compliquée par le fait que s’étant fourvoyé au nom de l’idée d’Europe unie dans la collaboration avec les nazis, le publiciste est devenu, dans la foulée de l’épuration, un « ami encombrant ».


En ce sens, les contributions devraient aussi permettre d’appréhender l’angle-mort qui apparaît immanquablement dans le parcours de nombreux personnages-clés de l’histoire intellectuelle, politique et artistique (Spaak, mais aussi Hergé, Paul De Man, Bauchau) avant et après la Deuxième Guerre mondiale.


A cet égard, il est encore à espérer que cette rencontre permettra aussi de retrouver la piste de papiers et d’archives « oubliées » ou en déshérence de/sur Raymond De Becker…


Les différentes interventions feront l’objet d’une publication à laquelle sera adjointe la correspondance conservée entre Raymond De Becker et Jacques Maritain conservée au Centre Maritain de Kolbsheim.


Programme du colloque

vendredi, 06 avril 2012

La Wallonie et l’Allemagne

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“Picard” / “’t Pallieterke” (Anvers):
La Wallonie et l’Allemagne

Dans un très beau livre, intitulé “Une histoire culturelle de la Wallonie” et édité par Bruno Demoulin, nous avons trouvé une contribution très intéressante due à la plume de l’historien liégeois Francis Balace sur les relations entre la Wallonie et l’Allemagne. Cette analyse historique mérite bien plus d’attention qu’une simple évocation.

Dans l’historiographie conventionnelle, on met trop souvent l’accent sur les “bonnes” relations qu’entretiendrait la Wallonie avec la “mère patrie” française, alors que les liens économiques, politiques et culturels avec le grand voisin de l’Est sont tout aussi importants. C’est surtout dû à la proximité géographique entre Liège et l’Allemagne. La “Cité ardente” (= Liège) prend une place dominante dans l’histoire culturelle wallonne au sens le plus large du terme. Il ne faut pas négliger ni sous-estimer le fait que la principauté épiscopale de Liège et aussi les régions romanes du Luxembourg et même du Hainaut ont pendant de nombreux siècles fait partie intégrante du Saint-Empire Romain de la Nation Germanique. Pendant cette longue période, les relations économiques avec les régions germanophones de l’Empire étaient très étroites.

L’analyse de Balace met surtout l’accent sur les deux derniers siècles. Elle prend pour point de départ l’occupation de Liège par les troupes prussiennes après l’effondrement de l’empire napoléonien. Après le Congrès de Vienne, la principauté de Liège est incluse dans le Royaume-Uni des Pays-Bas. Les territoires que l’on appelle aujourd’hui les “cantons de l’Est”, eux, sont réunis à la Prusse rhénane, y compris les communes wallonnes (donc romanophones) autour de Malmédy. Pendant longtemps, on a craint à Liège une annexion prussienne mais, au fil des années, une certaine germanophilie émerge. Cette germanophilie nait en fait à l’Université d’Etat de Liège, créée en 1817 par le Roi Guillaume des Pays-Bas. Ce dernier souhaitait limiter l’influence française dans le monde universitaire; il décide dès lors d’inviter un certain nombre de professeur allemands à dispenser des cours dans cette nouvelle université destinée aux provinces romanes. Après 1830, année de l’indépendance de la Belgique, l’intérêt pour la culture et les sciences allemandes ne cesse de croître.

Lorsqu’éclate la guerre franco-allemande de 1870, la société wallonne est partagée: la presse catholique est unanime pour soutenir la France contre la Prusse, puissance protestante et anti-cléricale, tandis que les libéraux optent pour une position contraire, pro-allemande. Pour ces derniers, la nation prussienne est plus développée sur le plan technique et plus moderne dans son administration; de plus, elle est hostile au catholicisme. Mais cette dichotomie dans l’opinion wallonne change au cours des décennies suivantes; au début du 20ème siècle, les libéraux se montrent de plus en plus critiques à l’endroit du militarisme allemand, poussé en avant par le nouvel empereur Guillaume II. La Wallonie catholique, elle, se méfie profondément de la Troisième République athée et prend des positions de plus en plus pro-allemandes. En règle générale toutefois, et en dépit de ce clivage entre catholiques et libéraux, l’admiration pour le grand voisin allemand est grande avant 1914. Lors de l’exposition universelle de Liège en 1905, tous sont subjugués par l’Allemagne, nation moderne et industrielle, qui a le vent en poupe. Les sujets allemands qui travaillent dans la région liégeoise y fondent leurs propres écoles et l’élite wallonne y envoie ses enfants. A cette époque, l’allemand était la deuxième langue enseignée dans les écoles de Wallonie. Face à cette germanophilie généralisée, un mouvement wallingant pro-français se développe dès les premières années du 20ème siècle, afin de faire contrepoids à la germanophilie ambiante dans les milieux économiques et culturels. A Liège surtout, où l’on repère à coup sûr un mouvement intellectuel francophile, les deux groupes s’affrontent. C’est l’époque où le grand historien et médiéviste wallon Godefroid Kurth fonde le “Deutscher Verein”, une organisation culturelle pro-allemande qui recrute de nombreux membres dans les régions où l’on parle encore un dialecte germanique (notamment dans l’arrondissement de Verviers).

La première guerre mondiale provoque une rupture avec l’Allemagne. Durant l’été 1914, Godefroid Kurth écrit: “Je me vois contraint de brûler ce que j’admire”. Depuis lors, le sentiment germanophobe domine en Wallonie. Après la guerre, on regarde de travers les germanophones disséminés en Wallonie. La France devient le grand modèle de l’entre-deux-guerres. La politique de neutralité en Belgique renforce ce sentiment francophile car bon nombre de wallingants du pays liégeois craignent que la “Cité ardente” ne soit abandonnée par les armées belges en cas de conflit, tandis qu’une alliance militaire franco-belge, telle qu’elle existait avant le retour à la politique de neutralité, pourrait barrer la route à une nouvelle invasion.

Sur les plans culturel et historique, les liens sont également rompus. On se met à critiquer sévèrement toutes les études scientifiques sur les racines germaniques de la langue et du folklore en Wallonie. La fameuse étude du Prof. Franz Petri, “Germanisches Volkserbe in Wallonien und Nordfrankreich” de 1937 (= “Héritage ethnique germanique en Wallonie et dans le Nord de la France”), qui prouve que l’influence germanique en Wallonie a été très importante, suscite d’âpres débats en milieux académiques.

Pendant la seconde guerre mondiale, le sentiment anti-allemand se renforce encore en Wallonie. Léon Degrelle et ses adeptes ne forment qu’une minorité, que l’on a certes sous-estimée jusqu’ici. Liège devient une ville ultra-francophile. Tant en 1950, lors de la “Question royale”, qu’en 1960, avec les grèves contre la “Loi unique”, on a parlé ouvertement à Liège d’une annexion à la France. En 1955, l’Allemagne s’oppose à ce que le siège principal de la CECA s’installe à Liège, parce que la ville cultive “une tradition anti-allemande”. Mais les relations ont fini par se normaliser entre Liège et sa grande voisine. Aujourd’hui, les diverses structures économiques de coopération transfrontalière ont à nouveau rapproché, fort étroitement, la Wallonie de l’Allemagne.

“Picard” / “’t Pallieterke”.
(article paru dans “ ’t Pallieterke”, Anvers, 28 mars 2012).

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Histoire culturelle de la Wallonie

Sous la direction de Bruno Demoulin, Histoire culturelle de la Wallonie présente au lecteur une vision complète à la fois historique et thématique de la culture en Wallonie.

Elle explore notamment la question brûlante de l’identité culturelle de la Wallonie au fil des siècles, à travers les nombreuses expressions artistiques, musicales, littéraires et autres d’un sentiment wallon.


L'ouvrage, richement illustré, a bénéficié d'une iconographie issue, entre autres, des collections des Archives et Musée de la Littérature.


Dossier de presse


Histoire culturelle de la Wallonie
Sous la direction de Benoît Demoulin
Bruxelles, Fonds Mercator, 2012
400 p., 400 illustrations en couleurs, 29,5 x 25 cm
ISBN 978-90-6153-660-4
49,95€
Ouvrage également disponible en néerlandais et en anglais.

 

jeudi, 05 avril 2012

Belgique: les sinistres collabos du secteur énergétique

Angélique VANDERSTRAETEN:
Belgique: les sinistres collabos du secteur énergétique

tous_plumes_electrabel_grenpeace-050ec.jpgL’histoire commence par un petit coup de téléphone venu de Paris pour atteindre un poste à Bruxelles: au bout du fil, Constance Giscard d’Estaing, fille de l’ancien président français Valéry Giscard d’Estaing; elle est la directrice d’un bureau de communication réputé et elle demande à un journaliste de “L’Echo”, le quotidien francophone de la bourse de Bruxelles, s’il n’est pas prêt à interviewer Jean-François Cirelli, numéro deux du géant énergétique français GDF/Suez. Cirelli va en outre être nommé administrateur délégué de la filiale Electrabel. La rédaction du quotidien de la bourse de Bruxelles tire immédiatement les conclusions implicites,  qu’il convient de tirer après ce coup de fil: Sophie Dutordoir, la principale responsable flamande auprès d’Electrabel et l’administrateur délégué Dirk Beeuwsaert se voient déjà tous deux flanqués d’un “beau-père” qui ne fera que renforcer la main-mise française sur Electrabel. L’inquiétude est à son maximum en Belgique car Electrabel n’est quasiment plus une entreprise ancrée dans le pays. La main de la France pèse de plus en plus lourd sur notre secteur énergétique.

Aussitôt la guerre des communiqués éclate. Le numéro un de GDF/Suez, le Français Gérard Mestrallet, déclare que Cirelli ne deviendra pas le directeur d’Electrabel. Mestrallet et Cirelli sont à couteaux tirés, ce sont des ennemis irréductibles. Mestrallet ne veut surtout pas donner l’impression que GDF/Suez va s’emparer d’Electrabel. C’est bien sûr une question de “perception”, car Electrabel est depuis longtemps déjà la “vache à lait” de la maison-mère française. Grâce au quasi monopole dont bénéficie Electrabel sur le marché énergétique belge (une part du marché équivalant à 60%), le géant énergétique peut maintenir élevés les prix de l’énergie. Les bénéfices sont immédiatement détournés vers la France pour y combler toutes sortes de déficits ou de tonneaux des Danaïdes. Sur le plan de l’énergie, la Belgique toute entière est depuis longtemps une colonie d’exploitation de la France. Mestrallet essaie par tous les moyens de nuancer cette vision. Donc, pour lui, aucun Français ne peut aller se placer à la tête d’Electrabel. Le directeur de GDF/Suez espère ainsi ne pas trop vicier ses rapports avec le gouvernement belge car celui-ci viserait à créer la concurrence sur le marché de l’énergie afin d’affaiblir la position d’Electrabel et de faire ainsi chuter les prix. En effet, aujourd’hui, la pression se fait forte sur le gouvernement Di Rupo I pour faire effectivement baisser le prix de l’énergie.

Dans son dernier rapport sur la Belgique, le FMI souligne que le manque de concurrence sur le marché de l’électricité constitue un sérieux problème. Le gouvernement veut-il vraiment agir sur ce plan? Officiellement, Di Rupo dit “oui”. En attendant que des mesures importantes soient prises pour libéraliser le marché de l’énergie, les prix sont gelés.

electrabel.jpgMais les milieux politiques belges sont-ils satisfaits de cette timide mesure? Le monde politicien profite bien de la situation. Via GDF/Suez, Electrabel est dans une large mesure une entreprise d’Etat. Pour le PS, ce n’est pas un problème sur le plan idéologique. Pour le MR, qui est un parti libéral francophile, ce n’est pas gênant de voir le marché de l’électricité en des mains françaises. Les partis flamands sont amorphes, se cachent derrière des allumettes, ne réagissent pas. Les liens solides entre Electrabel et le monde politicien saute aux yeux quand on regarde les faits sans lorgnons déformants: la directrice générale Sophie Dutordoir a été la porte-paroles de l’ancien premier ministre Wilfried Martens et la chefesse des communications, Florence Coppenolle, est une féale servante d’Elio Di Rupo.

Deuxième élément important: le gouvernement tire profit de la situation financière qui règne actuellement sur le marché de l’énergie. Un part importante de la facture énergétique des ménages est constituée d’impôts. Seuls 40% de la facture d’électricité constituent le prix réel du courant réellement consommé. Si les prix sont gelés, cela signifie moins de taxes énergétiques pour les pouvoirs publics. Les communes et les intercommunales picorent également quelques graines (ou tout un sac de graines?) dans ce pactole; elles ne sont donc pas heureuses de ce gel des prix. En fait, toutes ces instances préfèreraient que les prix, et les taxes y afférentes, demeurent élevés. C’est ainsi que les intérêts du gros monopole de l’énergie et du monde politicien concordent. Les personnalités qui nous fabriquent notre politique boiteuse et le consortium Electrabel/GDF/Suez sont donc complices. Et vu que le marché monopoliste de l’énergie draine à grande échelle l’argent de nos concitoyens et de nos entreprises vers la France, nous pouvons bel et bien parler de “sinistres collabos du secteur énergétique”.

Ce terme n’est nullement une exagération. Nous ne rappelerons jamais assez que la soi-disant “libéralisation” du marché de l’électricité a échoué à cause de la gestion aberrante des gouvernements belges successifs. Personne ne s’étonnera que ce sont surtout les gouvernements socialistes/libéraux, les majorités violettes, qui ont aggravé la situation. Didier Reynders y a joué un rôle particulièrement perfide en tant “qu’homme de la France à Bruxelles”. Le socialiste flamand Johan vande Lanotte a, lui aussi, joué un bien mauvais rôle dans les accords forgés avec Electrabel. Le monde des politiciens a bel et bien vendu le secteur énergétique belge à la France, sans que cela ne lui ait posé un véritable problème. Nous avons affaires à des “collabos” du secteur énergétique. Des “collabos” qui persistent et signent. Le gouvernement pourrait parfaitement agir pour faire baisser le prix de l’électricité en permettant davantage de concurrence, en diminuant les frais de distribution et en limitant la pression fiscale. Mais rien ne se passe. De concert, Electrabel et les pouvoirs publics continuent à traire la vache à lait qu’est pour eux notre peuple.

Angélique VANDERSTRAETEN.
(article paru dans “’t Pallieterke”, Anvers, 28 mars 2012).

NOTE DE LA REDACTION:
Pour tous ceux qui en ont marre de payer trop cher leurs factures énergétiques: consultez les site flamand: www.dewakkerevlaming.be .

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