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lundi, 06 octobre 2014

Engels e Marx omofobi e sessisti

Engels e Marx omofobi e sessisti (e non lo sapevano…)

marx_engelsLa struggente lettera di Lorenzo “Voroshilov”Altobelli, pubblicata su questa testata il 13 agosto 2014 (cfr.  Cronaca di una espulsione annunciata) mi ha fatto fare un piccolo salto indietro nel tempo, quando la sinistra comunista era conformata allo stalinismo e, come in una chiesa, si operava per ghettizzare, processare ed espellere i dissidenti, gli “apostati”, gli “eretici”. Non solo: nell’URSS, dopo l’omicidio di Sergej Kirov, importante dirigente del Partito Comunista a Leningrado, iniziò una vasta operazione di epurazione che con procedimenti giudiziari sommari, colpì anche semplici cittadini, non iscritti al PCUS, considerati ostili al regime e alla linea imperante, imposta attraverso il cosiddetto “centralismo democratico”: dico “cosiddetto” perché nei partiti comunisti in Europa occidentale (il PCI ad esempio), vi era libertà per i membri del partito di discutere e dibattere sulla linea politica e una volta che la decisione del partito era stata presa dal voto della maggioranza, tutti i membri si impegnavano a sostenere in toto quella linea. Quest’ultimo aspetto rappresenta il centralismo, almeno come lo intendeva Lenin.

Invece il nostro caro Lorenzo è stato vittima di una concezione staliniana e – mi si conceda – kafkiana del centralismo, ed espulso dalla federazione giovanile del partito comunista a cui era iscritto. Non faremo il nome, per rispetto nei suoi confronti, del partito a cui era iscritto. Ma il caso è simile: perché nel PCUS stalinista la linea era imposta dal capo, il quale era la fonte unica della Verità Assoluta: chi sgarrava veniva arrestato e obbligato a fare ammenda del crimine ideologico, come essere sionista, trockijsta, socialdemocratico, anarchico, elemento reazionario e piccolo borghese ecc.

Qual è stato il “crimine” ideologico di cui si è macchiato il povero Lorenzo? Ha forse detto che negli Stati Uniti d’America di Obama si sta realizzando, grazie al suo New Deal, il socialismo? Ha elogiato forse la Fondazione Italiani Europei di D’Alema come vera esegesi del socialismo, sostituendo la Repubblica e il Fatto Quotidiano all’ormai defunta Unità (nelle cui feste Togliatti è stato sostituito da De Gasperi)? Ha pubblicato un articolo dove il kibbutz  e l’espropriazione di territorio palestinese sono elogiati come via somma per la sinistra del domani?

Peggio cari miei! Peggio! Gramsci gli ha gettato i Quaderni dal carcere addosso, rinnegandolo! Togliatti si sta rigirando nella tomba per questo “crimine”! Secchia sta oliando il mitra, pronto a risorgere dal sepolcro per giustiziarlo a Dongo! Lorenzo, da marxista, ha semplicemente fatto riflessioni marxiste: ha postato sulla sua bacheca Facebook un video, dove viene mostrato una sorta di corteo del Gay Pride con, nelle prime file, modelli che marciano muovendo «il proprio corpo in un certo modo per fare un certo tipo di passetto», ancheggiando in maniera “provocante” e femminile. [1]

Il commento? L’analisi, marxista fino al midollo spinale – dove non si critica l’omosessualità, ma il piegarsi di certi personaggi alle regole di mercato – è la seguente:

 

 «I modelli che sfilano su quella passerella sono ormai stati ridotti anche loro alla stessa stregua delle modelle e dei modelli, cioè di uomini e donne eterosessuali, oggetto delle ferree leggi di mercato, della pubblicità e della mercificazione, da parte di un capitalismo che tutto mercifica, che tutto deve trasformare in plus-lavoro e quindi in plus-valore. Ma guardali bene! E riporta alla tua mente le sfilate di vari modelli/e! Il loro è solo in parte un modo naturale di sfilare! In che senso? Il/la modello/a sfila in modo elegante, a volte anche spregiudicato, restando però in certi precisi canoni di grazia ed appunto, come già detto, eleganza. In questo caso invece siamo di fronte ad un modo di camminare forzato, estremamente aggressivo, con ancheggiamenti esageratamente pronunciati e giochi gestuali particolarmente aggressivi, veloci e teatrali, soprattutto nella parte finale del video. Per non parlare dei pantaloni, così attillati, fini e di maglio largo, da offrire completamente il senso di nudità completa delle parti intime maschili, che vengono esposte in modo volgare e pornografico». [2]

 

Lorenzo – si noti bene – non contestava né l’orientamento sessuale dei modelli né tanto meno il diritto di questi a battersi per ottenere miglioramenti delle loro condizioni di cittadini e di lavoratori ma la riduzione a spettacolo dell’omosessualità, trasformata in una baracconata, così come avviene anche nei Gay Pride, ridotti a carnevalate peraltro del tutto inutili nella capacità di incidere seriamente sui diritti della comunità LGBT.

I soggetti, in sintesi, concedendosi a tale manifestazione, si stavano riducendo a oggetti mercificati. Mancava solo l’etichetta col prezzo appiccicato sulle magliette! Né più, né meno.

Un crimine? Oggi dire a un uomo che egli sta vendendo la sua forza lavoro ad un capitalismo selvaggio che tutto mercifica, lo stesso capitalismo che rende precarie le vite dei giovani (idem per il sottoscritto), che manda in pensione le persone sempre più in la con l’età dopo averle spremute come agrumi, che cancella le più elementari leggi sul mondo del lavoro, non è più sinonimo di marxismo, comunismo, socialismo, ecc. Vuol dire essere fuori moda, out, “vecchi dentro”, matusa, nonni, ecc.

Questo, però, se rivolgo il mio discorso all’eterosessuale maschio che si automercifica. Ma se le stesse critiche vengono rivolte alla femmina o alla comunità LGBT, apriti cielo!

Si è etichettati come reazionari, fascisti, catto-integralisti, talebani, mostri, satanassi con coda, forcone, corna, baffetti e pizzo e voce satanica alla Ignazio La Russa! E il tutto, anche se non  si ha nessun atteggiamente ostile né contro la comunità LGBT – che non è diversa da nessuno! – né contro le donne.

Ma Lorenzo ha avuto l’ardire di attaccare la fonte stessa dell’“omosessualismo”: il femminismo!

E, fulmini & saette! La Gestapo/Stasi del genderismo femminista ha tuonato contro di lui.

Perché se si attacca il femminismo si attacca una “santa istituzione” della sinistra postsessantottina, ed è come – per il buonismo boldrinesco – sparare sulla Croce Rossa, prendendosela con i “più deboli”, coi “poveretti”, cioè le femmine. Ma è veramente così?

Nulla di più falso!

L’ideologia femminista è – se usassimo una terminologia veteromarxiana – un’ideologia borghese. Se utilizzassimo una terminologia moderna la potremmo definire “arma di distrazione di massa”, un mezzo utilizzato dai poteri forti di allora e di oggi (soprattutto tramite le ex studentesse e contestatrici di un tempo che, conseguite lauree e master, siedono nei CdA delle multinazionali a rafforzare la status quo del vigente ordine costituito) per indebolire un movimento operaio in ascesa creando contraddizioni di genere inesistenti.

Insomma, parlando dell’Italia degli anni ’70, per paradosso il femminismo/fricchettonismo fece al movimento operaio molto più male che non l’offensiva padronale o la “strategia della tensione”.

In base al ragionamento neofemminista, la donna appartenente ai ceti “bassi”, grazie a quel clima teso a creare questa nuova forma di razzismo, molto più subdolo dell’etnopluralismo sbandierato dai neofascisti & neodestristi, fra il compagno lavoratore e la “principessina” Grace Kally o la ricca Miss Kennedy, moglie dell’uomo che iniziò il conflitto in Vietnam, col femminismo inizia a sentirsi più in sintonia con queste due: che diamine, Kennedy non tradiva forse la “first lady” con Marilyn Monroe, anch’essa ridotta a donna-oggetto dal fallocentrismo?

Insomma, al bando la lotta di classe! Trionfi la giustizia di genere e l’interclassismo (ideologia “corporativista” per eccellenza, dato che gli interessi di Marisa, casalinga e lavoratrice a tempo pieno con due marmocchi da accudire e un marito che torna a casa la sera stanco e stressato dal lavoro, non collimano affatto con quelli della moglie dell’imprenditore membro dell’Assolombarda/Confindustria: tutt’al più con Luisella, la cameriera dei ricchi di turno, ma li si va oltre la “lotta di genere” e si rientra forzatamente nell’incipit de Il manifesto del partito comunista: «La storia dell’uomo è storia di lotta di classe»).

E tanti saluti a Miss. Boldrini, che si occupa di questi e altri temi “impellenti” ma dimentica di denunciare inghippi d’altro “genere” che riguardano il mondo del lavoro che il suo premier sta affossando col Jobs Act & Co.! L’articolo 18? Ma va! E’ più attuale il sessismo e il femminicidio! E le “morti bianche”? Ma dove!). Il neofemminismo

 

 «Ha fatto logicamente gli interessi stessi del capitale spaccando il movimento operaio della fine anni degli ’70, tra uomini da una parte, i presunti oppressori, e le donne dall’altra, le presunte vittime. Cosa ci sia di marxista in questa visione del mondo, proprio non riesco a capirlo…»

 

No Lorenzo, il marxismo è tutt’altra cosa! Qui vengono presi singoli casi incresciosi (perchè la violenza, da parte maschile o femminile è sempre sbagliata) utilizzati dalla stampa di turno per distrarre e parlare d’altro, e non di diritti del lavoratore, tanto per cambiare. Quindi, da maschio, rigirando la frittata lanciata dalle femministe, e denunciando come Lorenzo il carattere interclassista e borghese dell’ideologia “di genere” (che inizia col femminismo e si conclude col cosiddetto “genderismo”, la messa in discussione dei due generi in nome della creazione di un “altro” indistinto. Genitore 1 e 2 non vuol dire nulla, è un attentato ad ogni certezza per manipolare l’immaginario collettivo e il bambino: non è certo così che lo si educa a tollerare le differenze, ma lo si plasma a diventare quel “un altro” indistinto che dovrebbe decidere quello che vuole essere, “un altro” totalmente sradicato e privato di ogni identità), denuncio il carattere “sessista” e “anticostituzionale” di queste ideologie, sentendomi discriminato, umiliato e sessualmente molestato!

Parlare di “femminicidio” significa dimenticare l’uguaglianza giuridica delle persone davanti alla legge, per mettere uno dei due generi sul piedistallo, elevandolo al privilegio: un tempo vi erano la nobiltà e il clero, ora il genere femminile per una società femminilizzata.

Con il “femminicidio” si esce dal solco della formula «La legge è uguale per tutti» creando guarentigie particolari per un genere rispetto all’altro: «C’è un codice per il maschio e un codice separato – e privilegiato – per le donne». L’importante è dire che “TUTTI” i maschi sono portatori sani di un gene distruttivo che è… il loro pene!

Si, avete capito bene! Il tutto, spacciando tale ideologia per marxismo.

Se io, maschio, ammazzo un altro maschio avrò una condanna, ma se uccido una donna la condanna sarà peggiore. Insomma, un tale diceva che «dove c’è uguaglianza c’è ingiustizia»… peccato che il tale sia Werner Sombart, economista corporativista appartenente alla “Rivoluzione conservatrice” e autore di un saggio dichiaratamente reazionario ripubblicato nel 1977 dalle Edizioni di Ar di Franco Freda intitolato “L’ordinamento per ceti” (p. 24), che proponeva una comunità organica, olistica e differenziata al suo interno per ordini e ceti, ognuno dotato di appositi diritti e privilegi.

E’ questa la società a cui auspicano le femministe?

Intendono, superato il dominio dei ceti nobiliari “di sangue” e “di spada” (un dominio senz’altro iniquo), e l’affermazione di quello borghese “di censo”, dove l’uomo conta per quello “che ha” (altrettanto iniquo), instaurare un diritto privilegiato per le donne, un “diritto di genere”?

Insomma, cosa rende le femministe tanto diverse dai nobili e dal clero reazionario contro cui si scagliarono giacobini e sanculotti?

Quelle masse ebbero il coraggio di prendere la Bastiglia e di iniziare una nuovo corso, mentre oggi chiunque, come il nostro Lorenzo “Voroshilov” Altobelli, denuncia una mutazione antropologica all’interno della sinistra, viene denunciato dai suoi stessi “compagni” ormai ottenebrati, come reazionario, come potatore sano di violenza maschilistica, omofobico-fallocentrica!

Insomma, oggi Robespierre verrebbe pestato dalle femministe e il re (dopotutto è maschio e “fascio”) condannato, mentre la “povera” regina Maria Antonietta, vittima dello stesso paternalismo “di genere”, verrebbe salvata, in quanto donna, accomunata a Josephine, povera piccola fiammiferaia parigina. Insomma, dal revisionismo si è passati direttamente al “negazionismo” interclassista… di bassa leva.

Il Sessantotto, movimento che ha avuto i suoi aspetti positivi e negativi, si caratterizzò come un fenomeno generazionale capace di mettere in discussione le evidenti contraddizioni della società borghese, produsse una vera e propria rivolta contro le strutture sociali e culturali di allora e le vecchie consuetudini e convinzioni morali e culturali di tutti, giovani e non.

Quella Contestazione introdusse però un elemento allogeno all’interno della sinistra, una nuova cultura modernista e funzionale all’individualismo capitalistico, con forti presupposti di matrice liberal, cresciuta e sviluppatasi nei campus americani, impregnati di ideologie neoradicali, fra cui il neofemminismo.

Aspetti che colse anche Pier Paolo Pasolini, intellettuale “controcorrente”, ostracizzato dai reazionari di allora perché omosessuale ma anche dai “progressisti” e che stalinisticamente fu espulso dal PCI per il suo orientamento sessuale, proprio perché capace di mettere in discussione una modernizzazione in grado di sradicare le molteplici culture presenti nel nostro paese e creare il nuovo “homo consumans”.

Ebbene, tale cultura liberal, contestata da Pasolini, trattato alla stregua di un “comunista reazionario” (ma oggi elevato a “icona gay”: ve lo immaginereste marciare, tutto impellicciato, truccato, con abiti aderenti e pantaloni in pelle, ad un Gay Pride per il matrimonio gay, lui che arrivò a criticare aborto e divorzio da posizioni antimaterialiste e antiindividualiste?)-, mise in discussione anche Marx, “classista”, troppo “morale”, troppo poco interessato ai diritti individuali, e così “grigio”… troppo poco “arcobaleno”.

La Contestazione, come già detto, introdusse nella sinistra e nella società nuovi imput liberal, fra cui il neofemminismo, che in Europa, per fare breccia in una certa intellighenzia “di sinistra”, formatasi magari negli ambienti comunisti, si tinse di rosso: consiglio a riguardo l’illuminante lettura del testo Le filosofie femministe (Milano, Mondadori, 2002, 251 pp., 10,00 euro), scritto dall’attivista femminista Adriana Cavarero e da Franco Restaino (un “femministo”, mi si conceda il neologismo, cioè un maschio schierato armi e bagagli con la causa femminista e genderista, che quasi si vergogna di essere di sesso maschile), docenti rispettivamente di Filosofia politica all’Università di Verona e di Filosofia teoretica all’Università di Roma Tor Vergata; un testo “fazioso” ma utile a illustrare questo processo che trasforma Marx ed Engels in due “femministi” e “omosessualisti” ante litteram. Nel testo è evidente la filiazione fra le due culture sopra citate e la forzatura con cui i due autori cercano di far indossare il fazzoletto rosso al movimento femminista, un movimento che nel mondo anglosassone è anticomunista e antimarxista e per il quale Marx ed Engels e addirittura Freud, sono giudicati “fallocentrici” e “paternalistici”. Peggio: il cambio di contraddizione, dalla classe al genere, funzionale al liberismo, è palese in molte autrici citate. Il neofemminismo – data la sua funzionalità nel favorire l’ideologia ultraindividualista – inizia a cavalcare l’omosessualità, sostenendo addirittura che l’eterosessualità è un’invenzione del “maschilismo paternalista” per sottomettere la donna, e la “penetrazione” (cioè il normale coito!) è un mezzo per opprimerla. Franco Restaino, commentando autori come D. H. Lawrence, Henry Miller, Norman Mailer e il «noto scrittore omosessuale “lanciato” da Sartre, Jean Genet, nota che i loro scritti si caratterizzano per la denuncia dell’atteggiamento «patriarcale e sessista» dei rapporti uomo/donna o all’interno del rapporto omosessuale (???). Il neofemminismo radicale, quindi, ha come referenti soggetti completamente altri rispetto al marxismo:

 

 «Non la classe, non la razza, ma il sesso, quindi, sta all’origine della “politica”, cioè dei rapporti di potere e di dominio nella società e fra gli individui. Gli atti sessuali, quindi, sono innanzitutto non atti di piacere o di procreazione ma atti politici, atti nei quali di perpetua la supremazia maschile sulla donna in tutti i momenti della storia e in tutte le forme istituzionali (la principale è quella della eterosessualità) e con tutti i mezzi (dalle “lusinghe” del “mito” della donna alle “minacce” di violenza sessuale)». [3]

 

Anne Koedt (1941), nel saggio Il mito dell’orgasmo vaginale (1968) va oltre, e contesta sia Marx che Freud e la sua scienza che mette al centro del suo discorso l’arma “inventata” per perpetrare violenza sulla donna: il pene (come se alle donne facesse schifo fare del sesso eterosessuale)! Dalle sue tesi – che da Freud ci conducono direttamente al reparto psichiatrico dell’ex manicomio di Mombello, a Limbiate (Mi), nel settore “camicia di forza” – si arriva a questa conclusione, che sta al marxismo come Adolf Hitler sta all’ARCI. Per l’autrice stabilire che l’orgasmo vaginale è un mito, avrebbe conseguenze per l’uomo (lo destabilizzerebbe), per la donna (la “libererebbe”) e per la società (composta da uomini e donne ormai destabilizzati). Per i primi, li renderà coscienti di essere «sessualmente superflui se la clitoride è sostituita alla vagina come il centro del piacere della donna», mentre la donna – non è una mia invenzione, lo dice la Koedt – potrà affiancare l’eterosessualità, che servirà a mero scopo procreativo per non far estinguere la razza umana, col lesbismo e/o la bisessualità. [4] Anne Koedt scrive che «Lo stabilimento dell’orgasmo clitorideo come fatto minaccerebbe l’istituzione eterosessuale. Esso infatti indicherebbe che il piacere sessuale è ottenibile sia dall’uomo sia da un’altra donna, facendo così dell’eterosessualità non un assoluto ma un opzione». [5] Viva la franchezza! Così, mentre Marx auspica ad una società dove maschi e femmine sono giuridicamente uguali, cittadini/e liberi/e di una comunità dove tutto viene condiviso per il bene comune, dove tutti divengono padroni dei mezzi di produzione e dove nessuno verrebbe mai ghettizzato per il suo orientamento, le “ziette” acide & sessiste alla Boldrini vogliono ridurre il maschio a mero “schiavo/toro da monta” per non far piombare la società – ormai femminilizzata – all’estinzione, mentre la donna, sempre più mascolinizzata e androgina, amministra lo stato e si diverte, divenendo o lesbica o bisessuale o quel che vuole lei. Lei si “libera”, mentre il maschio è sottomesso! Il passo successivo lo si ha nel maggio 1970, quando un sottogruppo del movimento femminista, le femministe lesbiche, fanno irruzione in un teatro in cui si stava rappresentando un testo femminista, occupando il palco. Nascono così le Radicalesbian, le “nonnine” delle Pussy Riot & Femen (le “eroine” stipendiate da Georges Soros), che diffondono un testo intitolato “La donna-identificata donna” che, partendo dalle analisi della Koedt, radicalizza tale messaggio, ci fa arrivare direttamente al “genderismo”, cioè alla relativizzazione delle differenze di genere fra uomo e donna che, guarda caso, parte sempre dalla colpevolizzazione del maschio eterosessuale: «In una società in cui gli uomini non opprimessero le donne e l’espressione sessuale fosse libera di seguire i sentimenti, le categorie di omosessualità e di eterosessualità scomparirebbero». [6] 

La messa in discussione del genere è evidente nel saggio Eterosessualità obbligatoria ed esistenza lesbica (1980), di Adrienne Rich che, con la scusa di difendere il diritti della donna, arriva a sostenere che l’eterosessualità è una forzatura indotta da una società patriarcale, e arriverà a definire le soggettività o identità lesbiche col termine “ambiguo” di “non-donne” e “non-uomini”… insomma, oltre ad una spersonalizzazione assoluta, ecco le origini della messa in discussione del concetto di “mamma” e “papà” che ritroviamo in politiche “genderiste” che hanno creato termini marziani (e non marxiani) tipo “genitore 1” e “genitore 2”, una politica che cerca di corrodere il marxismo, com’è evidente nel saggio del 1974 di Gayle S. Rubin Lo scambio delle donne. Note sulla “economia politica” del sesso, dove Engels è letteralmente preso per la barba e tirato dentro ad un discorso senza capo né coda cercando di forzare il suo famoso saggio scritto del 1884, “L’origine della famiglia, della proprietà e dello Stato”, in chiave lesbo-femminista, mettendo in discussione il concetto di sesso-genere. [7] Insomma, ecco le radici di tutto! Approfondiremo in futuro…

Tornando al “caso Altobelli” – ma gli Altobelli sono tanti nella sinistra radicale italiana, tutti accusati dal politically correct di omofobia e “paternalismo di genere”, processati in quanto maschi dal “neostalinismo femmino-genderista” che non sventola più la bandiera rossa, ma quella arcobaleno, a cui non serve più la gelida durezza dell’acciaio zdanoviano ma usa la femminilizzazione della società che impone nuove mode – notiamo che egli, marxista-leninista doc, oggi non sarebbe il solo ad essere processato dalla neosinistra occidentale. Sì, oggi Altobelli non dovrebbe passare da solo le forche caudine del politicamente corretto e chiedere venia, perdono, cospargendosi il capo di cenere per aver denunciato l’inghippo del genderismo. Al suo fianco vi sarebbero i due padri nobili del socialismo scientifico, due a cui ancora molti si appellano nelle file di Sel e di quella risciacquatura di piatti che è l’odierna sinistra vendola-luxuriana fatta di poeti che inviano i loro amichetti in Russia a denunciare “Il Mostro”, dimenticando che negli States di Obama c’è la pena di morte, differenza etnica, di genere, di ceto, di classe e di tutto, insomma, il darwinismo sociale puro, per dire che “loro” avrebbero detto di “Sì” alla legge Taubira, e anzi, loro avrebbero ufficiato le nozze fra “individuo 1” maschio/femmina e “individuo 2” maschio/femmina, benedicendo senz’altro la loro adozione a distanza e il loro parto eterologo, anch’esso a distanza, magari effettuato con un’indigena (in affitto) del Terzo mondo in nome del cosiddetto progresso.

Di chi sto parlando? Al banco degli imputati, “rei” di omofobia – documentata! – chiamo alla sbarra, ammanettati, il qui presente Karl Marx e l’amico – oh, sono solo amici, niente battute con doppi sensi – Friederich Engels! Cosa?? Sì, avete capito bene!

 Anche Marx ed Engels erano omofobici & sessisti! Dal loro carteggio le prove che inchiodano i filosofi più “odiati” (e citati “ad cavolum”) dalla paladina delle donne… l’amazzone Laura “Wonder Woman” Boldrini

 Marx ed Engels sono per ogni marxista che si rispetti due punti fermi. Nell’iconografia sovietica erano al primo posto, prima addirittura di Lenin, fondatore dello Stato socialista e ideologo del marxismo-leninismo, una variante della dottrina marx-engelsiana. Persino in era stalinista e post-stalinista l’iconografia dell’URSS non variava di una virgola: Stalin era così “umile” da mettersi in fondo alla fila nel pantheon dei padri del socialismo. Primi, però, sono sempre i due tedeschi: Marx ed Engels. Idem per la vecchia socialdemocrazia, che pur contestando a Lenin la sua visione “elitista” e “centralista”, vedeva nei due filosofi i “fari” dell’esegesi di ciò che avveniva nel mondo. Questo è il Novecento. Oggi, però, Marx ed Engels, se qualcuno spulciasse nel carteggio fra i due filosofi, verrebbero severamente espulsi da qualunque partito che anche lontanamente si battesse per la liberazione delle masse. I due filosofi, nelle lettere, si scambiavano salaci battute volgari – Orsù, mica erano radical-chic! Mica indossavano cachemire e andavano a cena con Valeria Marini & Pippo Franco, “sovseggiando” (con erre moscia che fa molto “salotto chic”) champagne & caviale durante la presentazione di un’antologia di poesie scritte da un poeta sconosciuto morto durate un corteo di protesta per difendere i diritti della mosca bianca tze-tze! E non avevano i rasta sulla barba! –, attaccando gli avversari con appellativi che oggi porterebbero Vendola, Ferrero, Diliberto, Ferrando e magari anche lo stalinissimo Rizzo, ad espellere i due dai partiti per “scarsa vigilanza”, “omofobia”, “paternalismo”, “odio di genere” e per non aver appoggiato Vladimir Luxuria.

Paradosso? Giudicate un po’ voi!

Engels, in una lettera inviata all’amico da Manchester il 22 giugno 1869, parlò addirittura dell’esistenza di “lobby gay” (oggi si verrebbe espulsi per direttissima e paragonati ai nazisti runo-muniti di Pravy Sektor che parlano ancora di “complotto ebraico”) scrivendo che

«I pederasti iniziano a contarsi e scoprono di formare una potenza all’interno dello Stato. Mancava solo un’organizzazione, ma secondo questo libro sembra che esista già in segreto. E poiché contano uomini tanto importanti nei vecchi partiti ed anche nei nuovi, da Rösing a Schweitzer, la loro vittoria è inevitabile. D’ora in poi sarà: “Guerre aux cons, paix aux trous de cul”. È solo una fortuna che noi personalmente siamo troppo vecchi per avere timori, se questo partito vincesse, di dover pagare tributo corporale ai vincitori. Ma le giovani generazioni!». [8)

La frase in francese va tradotta con «Guerra alle fi…, pace ai buchi del c…»… ! Il 21 luglio 1868, in una lettera relativa al libro scritto di Carl Boruttau (1837-1873), Gedanken über Gewissens Freiheit (1865), inviato all’amico Engels, in cui si discuteva della libertà sessuale, Marx scriveva: «Chi è questo incalorito Dr. Boruttau, che rivela un organo così sensibile all’amor sessuale?» e l’amico rispondeva (23 luglio 1868) «Del Dr Boruttau dal caloroso membro non so altro se non che “ha commercio” anche con i lassalliani (frazione Schweitzer). La cosa più buffa è il “francese” della sua dedica a un’anima gemella a Mosca». La lettera è il commento a un libro (forse Incubus) che Karl Heinrich Ulrichs, il primo militante omosessuale, aveva inviato a Marx, che l’aveva “girato” a sua volta all’amico Engels. Che ne approfitta per insultare i seguaci di Ferdinand Lassalle, a capo dell’ala nazionalista e corporativista dei socialisti di allora (combattuta da Marx e da Engels), qui insultati come presunti omosessuali. Anche il destinatario moscovita della dedica scritta in cattivo francese è accusato di omosessualità. [9] Il nostro “omofobico/fallocratico” Engels scrive in una lettera inviata a Sorge, dell’11 febbraio 1891, in cui Hasselmann è insultato tranquillamente come Arschficker, cioè “rompiculo”. [10] Proseguiamo. In un’altra lettera del carteggio, oltre a denunciare la “lobby gay”, Engels scrive:

«Incidentalmente, solo in Germania era possibile che un tizio simile apparisse [riferito a Karl Heinrich Ulrichs], trasformasse la sozzura in una teoria e invitasse: “introite” [“entrate”] eccetera. Sfortunatamente non era ancora abbastanza coraggioso da confessare apertamente di esser “lo”, e deve ancora operare coram publico, “dal davanti”, ma non “dal fronte dentro”, come una volta dice per errore. Ma aspetta solo che il nuovo codice penale nord-tedesco riconosca i droits de cul. E sarà tutto diverso. Per le povere persone “del davanti” come noi, con la nostra infantile passione per le donne, le cose si metteranno male». [11]

Ecc. ecc. Insomma, che cattivo ‘sto Engels: si vantava di essere una «persona “del davanti” […], con [una] infantile passione per le donne»… Chissà come verrebbe criminalizzato dall’Asse Vendola-Boldrini-Luxuria, che, con sguardo acido e schifato, gli urlerebbero: «Maschilista! Sessista! Putiniano! Odi le compagne del «Collettivo per l’autocoscienza e la liberazione dal maschio fascista»! Moooostroooo! Gesù – l’ha detto il dott. “teologo” Vip Elton John, “esperto” in materia – sarebbe per le nozze gay e le adozioni “d’altro genere”!»…e via bestemmiando!  

Qui non si vuole attaccare Engels per la sua “omofobia”, dato che era un uomo dell’ ‘800 e quindi tutto va storicizzato. L’omofobia è senz’altro sbagliata e settori consistenti della sinistra – si pensi allo stalinismo – si macchiarono di tale bruttura. [12] Ma volendo ironizzare un po’ – fermo restando che nessuno giudicherebbe mai nessuno per il suo orientamento sessuale – qui vogliamo far riflettere il lettore invitandolo a rileggere gli scritti di Altobelli, perché oggi Lorenzo, per aver criticato il genderismo e non l’omosessualità in quanto tale, è stato espulso dai neostalinisti del politically correct, lo stesso che oggi metterebbe alla gogna il duo Engels-Marx per essere quello che erano, uomini dell’800 o, peggio ancora, che manipola quotidianamente i loro scritti (o che ormai li ha buttati al macero a partire dalla svolta della Bolognina, non per sposare Keynes, ma Obama), trasformandoli in fricchettoni romantici dell’epoca o in liberali illuministi “de sinistra”. Insomma, sono sicuro che i due, se fossero vivi oggi, nel XXI secolo, pur di non dare soddisfazione a tali inquisitori, scapperebbero lontano un miglio, gambe in spalla, dalle sezioni/circoli/club dei partiti cosiddetti “marx-engelsiani” d’oggi o da un qualunque centro sociale o circolo ARCI “de sinistra” presente nel territorio italiano-europeo. I due, il giorno delle elezioni, probabilmente organizzerebbero una bella gita al lago o altro, ma non voterebbero mai Bertinotti, Vendola o Ferrero, l’elogiatore delle “compagne” Pussy Riot! L’odierna sinistra, maestra di anacronismo/revisionismo, travisa il pensiero dei due filosofi, sposandolo con ideologie liberal-individualiste atte a manipolare l’individuo e il suo esser “animale comunitario”. Oggi in sintesi, mi duole ammetterlo, un marxista – pur condannando l’omofobia e ogni violenza/sfruttamento ai danni di donne e uomini, non solo donne – sarebbe distante anni luce dall’odierna sinistra, ormai funzionale al sistema e declassata a stampella dell’odierna eurocrazia liberista.



[3] Franco Restaino, Il pensiero femminista. Una storia possibile, in Adriana Cavarero e Franco Restaino, Le filosofie femministe, Milano, Mondadori, 2002, p. 36.

[4] Ibidem.

[5] Anne Koedt, The Myth of the Vaginal Orgasm, in M. Schneir (a cura di), The Vintage Book of Feminism, Ldon, 1995, pp. 371, 372, cit. in Franco Restaino, Il pensiero femminista. Una storia possibile, in Adriana Cavarero e Franco Restaino, Le filosofie femministe, cit., p. 39.

[6] The Woman – Identified Woman, New York, 1970, in in M. Schneir (a cura di), The Vintage Book of Feminism, London, 1995, p. 163.

[7] Franco Restaino, Il pensiero femminista. Una storia possibile, in Adriana Cavarero e Franco Restaino, Le filosofie femministe, cit., p. 41.

[8] Karl Marx – Friedrich Engels, Opere Complete, vol. 43, Lettere 1868-1870, lett. n. 195, pag.349, Editori Riuniti, Roma, 1975. Johann Baptist von Schweitzer (1833-1875), socialista, fu condannato nel 1862 a due anni di carcere per “proposte omosessuali”. Cfr. Hubert Kennedy, Johann Baptist von Schweitzer: the queer Marx loved to hate, i “Journal of Homosexuality”, a. XXIX, n. 2-3, 1995, pp. 69-96.

[9] Nel testo originale della lettera, in tedesco, c’è un gioco di parole tra schwüle e schwul [finocchio].

[10] Marx-Engels Werke, Band 32, Diet Verlag, Berlin (Pankow) 1965, vol. 38, pp. 30-31, ed. it. Opere, vol. 43, Editori Riuniti, Roma 1972.

[11] Carteggio Marx-Engels, Editori Riuniti, Roma 1972, vol. 5, p. 325.

[12] Fabio Giovannini, Comunisti e diversi. Il Pci e la questione omosessuale, Bari, Dedalo, 1981.

mardi, 30 septembre 2014

Socialisme identitaire

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jeudi, 18 septembre 2014

Yes, nationalisme met een links-economische opstelling kan Schotland bevrijden

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Yes, nationalisme met een links-economische opstelling kan Schotland bevrijden, en niet alleen Schotland

Geschreven door 

Ex: http://www.solidarisme.be

Wat het nationalisme nodig heeft : een linkse economische opstelling , rechts op de waarden

Wat is het verschil tussen een nationalisme dat een groot deel van de bevolking kan overtuigen om voor onafhankelijkheid te gaan -zoals in Schotland vandaag- en een nationalisme dat haar doelstellingen angstvallig ontkend, zelfs verraad ,zoals in Vlaanderen.Dat verschil ligt in de wil om met de bevolking een sociaal contract af te sluiten. Decennia  van  socialistisch   conformisme aan het liberaal kapitalisme hebben in het Verenigd Koninkrijk geleid tot een ongeziene privatisering van overheidsbedrijven en sociale nutsvoorzieningen. Ook in Schotland werden de ‘nationale’ eigendommen geprivatiseerd, net zoals men dat in de rest van het koninkrijk  gedaan heeft.

Zo heeft het liberalisme en de vrije markt ,de samenhang binnen de Europese samenlevingen zo goed als vernietigd, daar is een bijproduct van dat liberalisme, met name immigratie voor een groot stuk mee schuldig aan. Voor de Europese Unie was en is dat echter een goede zaak, zo werden en worden de nationale gemeenschappen losgetrokken uit hun natuurlijk verband, en is de overgang naar een transnationale gemeenschap –de Europese Unie –die zich op een zuiver marktdenken baseert makkelijker te bereiken.Het is in de tegenstelling met deze logica- vrije marktliberalisme versus sociale welvaartstaat die de Schotse elite ( en volk) doet overhellen naar een ‘nationalistische’ koers voor hun land. Of dat zal lukken ,dat zien we deze week, en dan moeten we nog kijken hoe de E.U tegen dit gegeven zal aankijken.

Want dit zal een delicate zaak worden, de Europese Unie wil maar wat graag afgesplitste staten in haar rangen opnemen, maar vanuit geopolitiek standpunt  kan het voor de Unie gevaarlijk worden om de rest van het Verenigd Koninkrijk tegen zich in het harnas te jagen. Het Verenigt Koninkrijk is een van de drie Europese regionale machten, naast Duistland en Frankrijk  in Europa en gebruikt de Unie als een vrij handels-territorium, maar wat gebeurt er wanneer die Unie de ‘nationale’ belangen zo fundamenteel aantast dat er effectief grondgebied verloren gaat bij één van deze regionale machten, zoals dat bij de mogelijke Schotse onafhankelijkheid het geval zal zijn. Who knows , noboby. Wat zou Duitsland doen mocht het Ruhrgebied zich- onafhankelijk van Duitsland -bij de Unie willen aansluiten, denkt iemand echt dat men dat in Duitsland zou tolereren? Dat is trouwens al eens gebeurt in de geschiedenis, met het verdrag van Versailles.Dat gaf achteraf vuurwerk zoals we weten. De overdracht van nationaal grondgebied naar de Unie vinden de regionale grootmachten  dan ook alleen maar fijn als de kleine landen zich ontbinden, niet als het bij hen gebeurt. Europa zou van een vredesproject wel eens tot een regionaal conflictproject kunnen transformeren door Engeland klem te zetten met het opnemen van Schotland als E.U staat.

Voor anti Europese Unie militanten zoals wij dat zijn kunnen de gebeurtenissen in Schotland leerrijk worden, het kan de Unie  –op termijn- verzwakken ,dit omdat men de Engelse economie , Scotland is een energiebron voor het Koninkrijk en politiek ,zeker de geopolitiek, dwars zal zitten met een eventuele erkenning van Schotland als E.U staat.. Dat zal de UKIP en andere anti-E.U partijen in dat land alleen maar versterken .En elke verzwakking van de superstaat moeten we toejuichen.

Het streven naar nationale onafhankelijkheid ,is met het bestaan van de E.U een zeer moeilijke zaak geworden voor regionalisten, want ze moeten zich ook afscheuren van de Europese Unie of zich aan de Unie onderwerpen.Maar wat is daar de meerwaarde van, het juk van de ene Unie ( in het geval van Schotland) het Verenigd Koninkrijk ,afwerpen om zich daarna te onderwerpen aan een nog grotere en meer transnationaal onderdrukkingsmechanisme ,wat de ultra liberale Europese Unie.Het zal menige Schot dan ook- op termijn- ontgoochelen ,mocht het land voor onafhankelijkheid kiezen en zich daarna geconfronteerd zien met een liberaler agenda  van de E.U.die voor een groot stuk geënt is op wat in de U.K vandaag reeds gangbaar is , en waaraan de Schotten juist willen ontsnappen.De Schotten willen hun vrijheid om een sociaal systeem in te voeren met collectieve voorzieningen. De E.U wil juist die collectieve voorzieningen afschaffen en vernietigen.Onafhankelijkheid kan dan alleen maar als men zich ook van de E.U afwent, maar dan zullen de Schotten tegen twee vijanden aankijken, de E.U en het Verenigd Koninkrijk.Europa dwingt nationalisten in een catch 22 positie.

Maar één les kan men nu al trekken, het anti-Europees nationalisme kan maar succes hebben wanneer het een links economische  richting kiest, een sociale en antiliberale koers vaart.Zo kan ,en moet men zich afzetten tegen het Europese regionalisme van de elite dat door partijen zoals de N-VA wordt aangehangen.Zal  een partij zoals het Vlaams Belang radicaal voor deze optie durven kiezen, het is nochtans haar enige uitweg. Elke andere optie zal de partij totaal van de kaart vegen, en het zal haar kritiek op de euroregionalisten van de N-VA onmogelijk maken omdat ze op sociaaleconomisch vlak in dezelfde vijvers zullen vissen. Dan wordt /is deze partij irelevant.

Het  alternatief om de strijd voor onafhankelijkheid te voeren is een nieuw soort partij oprichten ( eventueel na het ontbinden van het VB).Een sociale en nationale partij, links van de economie, rechts op de waarden.

 

 

samedi, 06 septembre 2014

Jean Gorren: un marxiste à redécouvrir

Jean Gorren - Un marxiste à redécouvrir

Jean Gorren: un marxiste à redécouvrir

par Pierre Le Vigan
Ex: http://metamag.fr

Jean Gorren, mathématicien belge, fut aussi un analyste de la pensée de Marx, des années 1930 aux années 1950. On lui doit un Précis de sociologie et un texte intitulé Sociologie et socialisme. Ces deux textes sont de taille à peu près égale. Le premier texte est un cours à l’université ouvrière de Bruxelles. La méthode pas à pas de Gorren est particulièrement didactique. Gorren reprend les fondamentaux de l’analyse marxiste : la distinction forces productives/rapports sociaux de production, mais développe l’étude des superstructures idéologiques, complexes dans la mesure même où les rapports sociaux sont complexes.
 
Jean Gorren reprend l’analyse de Paul Lafargue sur le protestantisme comme « expression religieuse du mode de production capitaliste » dans son Histoire de la propriété. La thèse mériterait un inventaire critique. On s’arrêtera particulièrement sur un autre aspect des thèses de Jean Gorren. Celui-ci explique, à la suite d’Engels dans L’Anti-Dühring  (dans un passage repris dans Socialisme utopique et socialisme scientifique) que le dernier stade (à son époque) du capitalisme est le capitalisme étatique, c’est-à-dire la propriété d’Etat des moyens de production. ( En ce sens, l’Union soviétique n’était-elle pas une forme suprême de capitalisme ? ). En fait, Jean Gorren parle de « collectivisme étatique » à propos de la Russie soviétique, et non de capitalisme étatique.  Pourquoi cette timidité dans la critique de l’URSS du point de vue même de l’émancipation du travail ? 

Reste que Gorren a été un bon diffuseur des thèses les plus justes de Marx. L’analyse historique de l’accumulation capitaliste à ses origines, qui emprunte à Werner Sombart, à Ludwig Gumplowicz et à nouveau à Paul Lafargue, rappelle que le capital ne créé pas de valeur mais « rapporte » de l’argent. Jean Gorren remarque: « La force de travail étant la cause initiale et permanente [de la conscience collective des classes laborieuses] il y a, à toute époque, une éthique du travail en conflit avec l’idéologie dominante. Et c’est cela qui fait l’humanité. »

Jean Gorren, Précis de sociologie marxiste, éditions tribord, 176 pages, 7,50 €. Editions tribord, 4 place des archers 7000 Mons Belgique.
 

dimanche, 27 juillet 2014

Rébellion n°65: spiritualité et engagement

Sortie du numéro 65

de la revue Rébellion :

Spiritualité et engagement

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Au sommaire du numéro 65 de la revue Rébellion :

Edito : Théologie de la décomposition.

Dossier Spiritualité et engagement : 

Seule la Tradition est révolutionnaire !

Enquête par Marie Chancel: Spiritualité et militantisme 

un lien entre le Profane et le Sacré ? 

Entretien avec Arnaud Guyot-Jeannin : Une Révolution spirituelle catholique contre le monde moderne. 

Entretien avec Michel Lhomme : Christ et Révolution, la Théologie de la Libération. 

Réhabiliter la raison ! par David L'Epée. 

Histoire : Harro Schulze-Boysen, un NB dans l'Orchestre Rouge ( suite et fin) 

HP Lovecraft, rêveries contre le monde moderne. 

 

Numéro disponible contre 5 euros

(en chèque, timbres ou liquide) à notre adresse :

Rébellion c/o RSE BP 62124 31020 TOULOUSE cedex 02

Edito 65 : THEOLOGIE DE LA DECOMPOSITION

"Babylon system is the vampire / Sucking the children day by day / Babylon system is the vampire sucking the blood of the sufferers / Building church and university / Deceiving the people continually..." Bob Marley.

Il existe une constante dans l'histoire humaine - mouvante néanmoins dans sa forme et sa substance - qui relève de ce que Marx qualifiait d'idéologie et dont la nature ne saurait se résumer, comme certains l'ont cru, à n'être qu'un habillage superfétatoire de la réalité économique (vision mécaniste de la relation base/superstructure) et qu'il suffirait que la raison analytique éclairât pour qu'elle se dissipât comme un nuage après la pluie. L'illusion est aussi essentielle dans son apparaître que la réalité sensible et en fait partie intégrale. Elle a qualité d'effectivité selon Hegel (l'essence doit apparaître, elle est un moment du phénomène dans son apparition).

Lorsque la réalité est déchirée contradictoirement (sociétés de classes) l'idéologie traduit à sa façon, selon son mode d'être, la nature vécue de la contradiction ; à ce titre elle sert la domination de la classe dominante. Mais pas seulement, à ce niveau d'explicitation et d'expression, elle est l'enjeu d'affrontements contradictoires de la part des classes et des groupes en lutte plus ou moins consciente. Par exemple, elle peut prendre l'aspect de controverses religieuses, théologiques (guerre des paysans au 16° siècle, Thomas Münzer et ses anabaptistes contre Luther et les princes catholiques momentanément unis).

Le système capitaliste "progressiste", "révolutionnaire" crut un instant pouvoir se passer de l'arsenal désuet de la théologie afin de modeler les consciences pour lui substituer le consommatisme (Etats-Unis, début du 20° siècle) tout en laissant les religions vivoter dans la sphère privée des associations civiles. Selon le besoin du moment et du lieu, on le vit ressortir de ses placards idéologiques le "besoin du religieux" (1) associé aux droits de l'homme dans sa lutte contre le communisme soviétique (en particulier lors de la chute du bloc de l'Est (2)) ou la théorie de la "destinée manifeste", sous Bush père, combinée à une offensive anti-islamiste adossée à l'idée de choc des civilisations.

Depuis le djihadisme islamiste a fait florès. Issu d'un islam sunnite en voie de fossilisation (3) depuis des siècles, celui-ci a été dynamisé par les forces impérialistes atlantistes, en particulier, depuis l'époque de l'intervention soviétique en Afghanistan. Son instrumentalisation par l'impérialisme a évolué au gré des besoins de ce dernier, des Balkans au Proche Orient et Moyen Orient en passant par l'Afrique du Nord et sub-saharienne. Nous n'y reviendrons pas dans le détail. Ce qui nous importe à ce jour est de mettre l'accent sur l'ampleur de la décomposition des sociétés humaines par le capital, démultipliée par les enjeux géopolitiques et les interventions guerrières en découlant. L'impérialisme contemporain ne peut plus accoucher de conquêtes débouchant sur une occupation coloniale relativement stable dans le temps comme il le réalisa par le passé en s'aidant de la création et de la collaboration de minorités embourgeoisées locales.

On connaît les mécanismes néo-coloniaux pesant sur les pays déshérités. On insiste moins sur l'anéantissement de nations et de territoires entiers causés par les récentes guerres impérialistes. De l'Irak au Mali, de la Libye à la Centre Afrique, plus rien de stable au niveau social et politique ne subsiste, laissant proliférer les bandes mafieuses djihadistes que le capital international a favorisées (Al QaÏda et Blackwater main dans la main!) afin d'atteindre ses objectifs. Quelques inquiétudes affleurent au sein du discours dominant lorsque celles-ci se trouvent à proximité de Bagdad comme il y a peu de temps (idem pour Bamako). La Libye comme on le sait échappe à tout contrôle et de fait se voit rayer de la carte. Le capital international ne maîtrise pas absolument les monstres qu'il a engendrés! Il lui suffit de pérenniser sa domination par la terreur et le chaos lorsque cela lui est nécessaire. Dans cette aire géostratégique largement islamisée que nous venons d'évoquer subsistaient des clivages tribaux et communautaires que l'impérialisme a exacerbés afin d'éradiquer les pouvoirs ne lui convenant pas. D'autre part, le prolétariat n'y avait que des expériences de luttes fort inégalement développées voire parfois inexistantes étant donné les faibles infrastructures économiques de certains pays. Dans des pays quelque peu modernisés comme l'Irak, on a renvoyé la population à l'âge de pierre après destruction de son potentiel économique. Si la Syrie résiste c'est grâce aux oppositions des puissances non atlantistes (Chine, Russie) et à l'opposition du prolétariat turc (luttes de mai-juin 2013) contre sa propre clique militaro-étatique qui n'a pas les mains libres afin d'accomplir son sale boulot au service de l'OTAN pour déstabiliser la Syrie. Ainsi dans le maelström qu'est devenue l'aire géostratégique traitée ici, surgit à la surface, l'écume idéologico-théologique d'un fumeux Etat islamique contrôlé par des bandes armées faisant régner la terreur sur les populations abasourdies et essayant de leur imposer un modèle délirant de charia. La folie du monothéisme de la marchandise accouche ici d'un monothéisme paranoïaque détruisant ce qui subsiste des communautés humaines : c'est la théologie de la décomposition, complément illusoire et dorénavant sans âme (4) parce que pseudo-spirituel adaptée aux conditions locales et régionales.

Face à la dynamique létale générée par le système capitaliste et dans laquelle tous les peuples sont engloutis ne subsiste que la voie de la lutte de classe prolétarienne pour ses propres intérêts. C'est la victoire de celle-ci qui pourrait mettre fin au calvaire vécu par les exploités sur tous les continents. Déjà cette lutte a atteint un seuil qualitatif important dans des pays où on ne s'y attendait peut-être pas. Par exemple, au Brésil (voir notre éditorial du n°59 été 2013) où le culte rendu au dieu football a été radicalement contesté avec ses 15 milliards de dollars consacrés au Mundial 2014 par la bourgeoisie locale au service de la multinationale FIFA. Les luttes prolétariennes s'y sont intensifiées depuis l'an passé, remettant en cause de manière radicale la domination du capital. Répression violente étatique et désinformation médiatique leur ont été opposées. De tels exemples ne manquent pas désormais dans le monde entier. Si la force du capital peut encore apparaître comme relevant d'une fatalité transcendant la pratique humaine aliénée, la force du prolétariat réside dans sa critique frontale du système lorsque ses conditions d'existence insupportables sont rejetées globalement de la même façon à une échelle internationale. Contre le salariat et l'aliénation des besoins humains, les prolétaires reprendront la perspective de la communauté humaine au-delà de la décomposition du lien social.

NOTES :

1) Nous ne nous prononçons pas ici surle fond de la question portant sur la foi et larévélation ainsi que sur le sens du sacré.

2) A titre d'illustration cocasse, rappelons les reportages médiatiques d'alors sur la fin de l'Albanie socialiste où l'on montrait la réouverture des Eglises (a) dans lesquelles se pressaient des croyants assoiffés de rites catholiques. Plus tard on découvrit des albanais islamistes dont on put apprécier l'engagement dans la guerre des Balkans et la dislocation de l'ex-Yougoslavie, cherchez l'erreur...

(a) L'athéisme officiellement imposé par les autorités albanaises socialistes constituait un exemple de matérialisme mécaniste volontariste absolument improductif pour l'orientation socialiste du pays mais inhérent à un certain marxisme dogmatisé.

3) "Grande religion qui se fonde moins sur l'évidence d'une révélation que sur l'impuissance à nouer des liens au-dehors. En face de la bienveillance universelle du bouddhisme, du désir chrétien de dialogue, l'intolérance musulmane adopte une forme inconsciente chez ceux qui s'en rendent coupables; car s'ils ne cherchent pas toujours, de façon brutale, à amener autrui à partager leur vérité, ils sont pourtant (et c'est plus grave) incapables de supporter l'existence d'autrui comme autrui. Le seul moyen pour eux de se mettre à l'abri du doute et de l'humiliation consiste dans une 'néantisation' d'autrui, considéré comme témoin d'une autre foi et d'une autre conduite. La fraternité islamique est la converse d'une exclusive contre les infidèles qui ne peut pas s'avouer, puisque, en se reconnaissant comme telle, elle équivaudrait à les reconnaître eux-mêmes comme existants."Claude Lévi-Strauss. TristesTropiques. Ed.Plon. P. 484.

4) "La religion est le soupir de la créature accablée, l'âme d'un monde sans cœur, de même qu'elle est l'esprit d'un état de choses où il n'est point d'esprit." [C'est nous qui soulignons] K.Marx. Pour une critique de la philosophie du droit de Hegel. Oeuvres III. Philosophie. Ed Gallimard. Pléiade. P. 383.

 

 

 

mercredi, 18 juin 2014

Une nouvelle campagne d’autocollants

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Une nouvelle campagne d’autocollants est maintenant disponible 

pour la diffusion militante :

3 euros les 25 exemplaires - 6 euros les 50 exemplaires 

12 euros les 100 exemplaires

Commande ( port compris)  : Rébellion  c/o RSE BP 62124 31020 TOULOUSE cedex 02

Les autocollants de Rébellion et de l'OSRE fleurissent sur les murs de différentes villes ; merci à toutes celles et tous ceux qui nous envoyés des photos ; n’hésitez pas à faire de même, nous les publierons avec plaisir.

vendredi, 06 juin 2014

Le hollandisme, maladie infantile du socialisme...

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Le hollandisme, maladie infantile du socialisme...

par Jean-Paul Brighelli

Ex: http://metapoinfo.hautetfort.com

Vous pouvez découvrir ci-dessous un texte décapant, et assez étonnant, de Jean-Paul Brighelli, qui sur le site de Causeur règle violemment son compte au parti socialiste et à son gauchisme culturel.

Professeur en classes préparatoires, défenseur de l'élitisme républicain, Jean-Paul Brighelli est l'auteur, notamment, de nombreux essais sur le système éducatif, comme La fabrique du crétin : la mort programmée de l'école (Jean-Claude Gawsewitch, 2005). Il est également l'auteur de La société pornographique (Bourin, 2012).

La droite est le nouveau véhicule des ambitions révolutionnaires

Jean-Pierre le Goff, dont le petit doigt est à lui seul plus cultivé, politiquement parlant, que l’ensemble du gouvernement, s’est récemment fendu d’une analyse de la politique « sociétale » du gouvernement dont je ne saurais trop recommander la lecture aux gens intelligents qui viennent faire un tour sur Bonnet d’âne. L’auteur de La Barbarie douce (1999 — remarquable analyse de ce qu’une certaine gauche pédago a fait de l’école, sous prétexte de faire réussir tout le monde à l’occasion de la semaine des quatre jeudis) y dissipe avec une grande rigueur le rideau de fumée qu’un parti social-démocrate — le PS et ses alliés —, qui a renoncé à tout vrai principe de gauche, a développé pour camoufler le fait qu’il a renoncé à toute intervention crédible dans le domaine économique — le seul susceptible de faire bouillir la marmite des damnés de la terre — et classes moyennes comprises, cela finit par faire du monde.

Résumons : les lois sur le mariage gay, par exemple, sont des manifestations typiques de ce gauchisme culturel que dénonçait Lénine en 1920 — une déviation qui sous prétexte de « pureté » révolutionnaire, feint d’oublier que le facteur économique est déterminant en dernière instance — et pas l’autorisation de passer ou non devant un maire (et, in fine, devant un juge aux Affaires familiales), ou l’affirmation un peu péremptoire qu’un double cunni peut engendrer des bébés (ou en donne l’autorisation, ce qui revient au même). Ce qui aurait été vraiment révolutionnaire (un terme incompatible avec les libéraux au pouvoir, nous sommes bien d’accord), c’eût été de proclamer la non-nécessité du mariage bourgeois, et l’égalité des droits pour tous : le prolétariat, qui n’avait pas les moyens de s’offrir une dot, a inventé l’union libre de fait bien avant que les pseudo-libertaires ne s’en emparent.

Le Goff ou moi — question de génération — avons expérimenté jusqu’au dégoût les impasses du gauchisme culturel, qui à se vouloir pur et sans compromission avec les « partis bourgeois » (c’est tout le sens de la diatribe de Lénine) a fini par sombrer dans la collaboration de classe la plus honteuse : on évite de s’allier au P«C»F, comme on écrivait à l’époque, on critique le Programme commun, on se croit révolutionnaire parce qu’on lit le Monde et on finit suceur de barreau de chaise à Libé ou publiciste chez… Publicis. Ou prof sur le Net, jusqu’auboutiste des causes les plus variées et les plus avariées qui n’ont jamais qu’un seul objet (et la plupart de leurs thuriféraires ont si peu de conscience politique qu’ils ne s’en aperçoivent pas) : défendre l’état des choses, la répartition actuelle du capital, la « rigueur budgétaire » et l’Europe de Juncker-Schulz.

Quitte à paraître plus léniniste que Vladimir Ilitch, je voudrais le répéter encore et encore : le seul problème, c’est de donner à manger à ceux qui ont faim. Et cela fait du monde, en France même : on s’occupera du reste du monde ultérieurement, l’alter-mondialisme est une déviation majeure qui permet de se préoccuper des « étrangers », des primo-arrivants, des manouches et de ceux qui croient que Yannick Noah est un artiste, au lieu d’imposer une politique qui redonne au moins l’espoir de grignoter un peu de l’immense fortune française — la redistribution oui, les réformes Taubira (la femme qui ne sait pas chanter la Marseillaise, et encore moins l’Internationale) non. Évidemment, il est plus simple d’amuser le peuple, via des journalistes incompétents et / ou complices, avec des écrans de fumée, en espérant que cela vous donnera une chance en 2017, qu’avec une réduction visible des inégalités.

Au passage je préfère être dans ma peau que dans celle de Thomas Piketty, qui s’est décarcassé à prouver à ses anciens amis qu’une autre politique économique est nécessaire (et possible), et qui est le plus grand cocu de l’arrivée de la « Gauche » au pouvoir et qui a bien compris, en allant vendre sa salade aux USA, qu’il est possible de travailler avec des capitalistes intelligents, en attendant de prendre le pouvoir pour de bon, mais pas avec des « socialistes » français obsédés par les sondages, aveuglés d’ambitions minuscules et de mauvaise foi — définitivement disqualifiés.

Mélenchon a raté le coche : à faire du Parti de Gauche le véhicule d’une ambition personnelle, il n’est pas parvenu à présenter ses propositions économiques comme une solution aux difficultés croissantes des Français. La seule qui a capitalisé sur le sentiment intense de frustration, c’est Marine Le Pen. Calcul ou retournement, le FN tient ces temps-ci un discours anticapitaliste très drôle à entendre, pour qui se rappelle ses prises de position ultra-libérales d’il y a quelques années. De même, il (ou le Comité Racine qui théorise pour lui) a sur l’Ecole des positions que 90% des profs approuvent, en le disant ou sans le dire — et les 10% qui restent sont juste les hommes-liges du PS et des Verts, ceux qui ont ou qui espèrent des positions compatibles avec leur petitesse conceptuelle, pas avec le bien public, et certainement pas avec celui des élèves.

Alors soyons tout à fait clair : si demain je pense qu’une alliance tactique avec des partis de droite (un ticket Juppé-Bayrou, mais aussi bien un infléchissement du Bleu-Marine) peut faire avancer la cause de ceux qui souffrent réellement, victimes des dégraissages des grandes entreprises, de la politique de déflation systématique, ou des prétextes démagogico-pédagogiques qui théorisent le succès de tous afin de réaliser la réussite des mêmes, eh bien je m’allierai, et sans un battement de cils. Parce que toute alliance avec le PS est devenue impossible (et depuis plusieurs années, depuis l’ère Jospin en fait), et que persister à se vouloir « de gauche » avec les guignols sanglants qui nous gouvernent est une entreprise illusoire : la Droite est aujourd’hui — parce que les uns sont en crise, et que les autres ont faim de pouvoir — le véhicule le plus commode des ambitions réellement révolutionnaires.

Jean-Paul Brighelli (Causeur, 3 juin 2014)

mardi, 29 avril 2014

Charles Péguy, un hétérodoxe entre socialisme et christianisme

Charles Péguy, un hétérodoxe entre socialisme et christianisme

Méridien Zéro a reçu Rémi Soulié, critique littéraire au Figaro Magazine pour évoquer avec lui la figure de Charles Péguy, poète, écrivain et essayiste.

A la barre, Olivier François assisté de Jean-Louis Roumégace.

A la technique JLR.

Pour écouter:

http://www.meridien-zero.com/archive/2014/02/13/emission-...

charles péguy, poète, 1914, patrie

mardi, 15 avril 2014

Le programme socialiste de CÉLINE

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Le programme socialiste de CÉLINE

par Jacqueline MORAND (1972)

Ex: http://www.lepetitcelinien.com

 
L'analyse faite par Céline de la situation sociale est, nous avons pu le constater, extrêmement sombre, et la critique qui l'accompagne très virulente; A l'ampleur des récriminations devrait logiquement correspondre d'importants projets de réforme. Ce n'est pas le cas. Le « programme » socialiste de Céline est un ensemble assez confus de propositions diverses, qui prennent souvent la forme d'aspirations idéalisées présentées un peu au hasard, et qui ne sont ni appuyées par une démonstration rigoureuse, ni assorties de précisions, ce qu'on ne peut manquer de regretter. Cette disproportion est fréquente chez les pamphlétaires et tout spécialement chez les polémistes des années 30. Deux directions se distinguent dans le programme socialiste de Céline. Elles donnent la réplique aux procès intentés au communisme et au matérialisme. C'est d'une part l'égalitarisme et le communisme « Labiche», d'autre part, le spiritualisme.

L'égalitarisme et le communisme « Labiche »

Dans une interview, accordé en 1941 à Claude Jamet, Céline prononçait cette phrase qui devait servir de titre à un article paru peu après : « L'égalitarisme ou la mort ». Il l'annonçait ainsi, expliquant qu'il s'agissait d'une solution apportée aux maux dénoncés du communisme: 
« Contre le jazz, il n'y a que le jazz hot... On ne renversera le communisme qu'en le dépassant, en en faisant plus... Contre la communisme, je ne vois rien que la Révolution, mais alors là, pardon ! La vraie ! Surcommunisme1 ! » 
Déjà, dans Bagatelles pour un massacre Céline avait affirmé sa vocation égalitariste. Il disait avoir découvert très jeune l'inégalité sociale, constatait qu'il avait toujours eu des besoins matériels modestes, et se tenait prêt au garde à vous, « le plus grand partageux qu'on aura jamais connu ».
 
Tant qu'on a pas tout donné, on n'a rien donné, poursuivait-il, et « Débrouillard » doit être supprimé en même temps que « Crédit »
 
C'est dans Les Beaux draps qu'il précise son égalitarisme. L'avènement de la justice sociale absolue est la première étape de la rénovation de la société. « Tant qu'on a pas ouvert Pognon », rien de sérieux ne peut être entrepris. Ce sera la « Révolution moyenneuse », programme ambitieux et brutale que Céline envisage ainsi : Un salaire national identique pour tous, qui varie entre 50 frs salaire minimum et 100 frs salaire maximum par jour. Un semblable maximum de 100 frs est prévu pour les rentes et les revenus. Le surplus passe à l'Etat. Un aménagement familial complète le système : accroissement progressif du salaire en fonction du nombre d'enfants avec un maximum de 300 frs par jour pour les familles nombreuses. Céline avait ici à l'esprit la crise de natalité qui sévissait en France, Egalité absolue pour tous, dictateur, génie ou terrassier, égalité physiologique, devant la faim et le besoin, telle est la première et necessaire condition à l'avènement de la justice sociale. Un tel programme est brutal et ne manquera pas de soulever des protestations, Céline prévoit celles de l'« Elite », terme vague, englobant ceux qui assuement des responsabilités de direction et commandement. L'élite s'insurge, trouve que les « 100 frs » ne conviennent pas à son nécessaire prestige, qu'il est insensé qu'un Directeur des Chemins de fer soit plus médiocrement salarié que son lampiste lorsque ce dernier est père de famille nombreuse. Mais l'élite c'est l'exemple, et Céline poursuit : 
« C'est là qu'on va voir ce que ça pèse non dans les mots, mais dans les faits l'amour de la France... l'enfiévrante passion du bien général... le culte patriote... le désintéressement sacré... les plus hautes cimes d'abnégation... Ah ! ça va être un bon moment ! » (Les Beaux draps, p. 181) 
Après ce « bon moment », et sur ces bases égalitaristes, Céline établit son communisme « Labiche ».
 
Le communisme « Labiche » c'est un communisme petit bourgeois, c'est-à-dire adapté à l'homme et à ses aspirations fondamentales, telles que les conçoit l'écrivain fondées tout spécialement sur le besoin de sécurité. Dans ce système tout le monde sera petit propriétaire : pavillon et jardin de 500 mètres, transmissibles héréditairement et assurés contre les risques et l'accaparement. Le problème de la sécurité est un des soucis majeurs des Français, dont 90 sur 100 rêvent d'« être et de mourir fonctionnaire ». Céline admet cette préoccupation élémentaire, car constate-t-il ironiquement : 
« C'est toujours des douillets nantis, des fils bien dotés d'archevêques qui vous parlent des beautés de l'angoisse. » (Les Beaux draps, p. 140) 
Sans qu'il développe cette idée Céline paraît souhaiter l'établissement d'un système de Sécurité sociale très poussé, protégeant contre le maximum de risques en particulier ceux de chômage, maladie et vieillesse.
 
Pour assurer la sécurité de l'emploi et le fonctionnement de son régime de salaire national unique, il préconise des mesures d'inspiration communiste : nationalisation des banques, mines, chemins de fer, assurances, grands magasins, industries..., kolkozification de l'agriculture. Il pense supprimer ainsi le chômage et s'intéresse encore aux paresseux qu'il met en prison, aux malades qu'il soigne, et aux poètes, qu'il occupe à faire des dessins animés aptes à relever le niveau des âmes.
 
Dans un chapitre des Beaux draps, Céline pose la question du nombre d'heures de travail à imposer à l'ouvrier. Ironisant sur les « jeunes redresseurs », qui pleins de bonne foi parmi leurs statistiques invoquent le travail salut, le travail fétiche et remède de la France, il leur oppose les « pas abstraits », ceux qui vont « trimer la chose ». L'usine est un mal nécessaire qu'il faut accepter mais sans le dissimuler sous de flatteuses descriptions. 35 heures de travail lui semblent alors le maximum que puisse supporter un homme, ouvrier d'usine ou employé de magasin, qui doit affronter le bavardage des clientes « aussi casse crâne qu'une essoreuse broyeuse à bennes ».
 
Tel se présente le communisme « Labiche » de Céline : répartition égalitaire des biens, aménagement du travail, des loisirs, de l'habitation en vue de satisfaire aux besoins de sécurité et petit confort dont l'écrivain imagine l'homme avide. Comment apprécier un tel programme ? Il est aisé, et la plupart des commentateurs de Céline ont fait ce choix, de sourire avec indulgence aux errances de l'auteur turbulent devenu rêveur naïf et, avec en exergue les poètes occupés à faire des dessins animés, de ranger ce communisme « Labiche » parmi les utopies inoffensives et désuètes. S'il ne convient certes pas d'ôter à ces propositions leur caractère de simples esquisses ou ébauches et si l'on doit regretter le silence de l'écrivain quant aux modalités d'application et aux possibilités de réalisation de son programme, il convient aussi de mettre en valeur un aspect habituellement négligé de ce système : le communisme « Labiche » est révolutionnaire. C'est une coupure nette et brutale avec le système social en vigueur, un bouleversement de l'organisation économique, une mutation profonde des rapports sociaux. Nationalisation, kolkozification, salaire unique, le socialisme de Céline va, sur tous ces problèmes au delà du communisme, l'application d'un tel programme se voulant immédiate, et l'écrivain se disant prêt pour sa part. Sous des apparences anodines, le communisme « Labiche » est en réalité « explosif ». Mis en pratique, il se rapprocherait plus de la révolution permanente chinoise que du communisme soviétique. Mais il s'accompagne de recherches spiritualistes, assorties de propositions qui le transforment très sensiblement.

Le spiritualisme

Le programme, auquel nous avons donné cette qualification très générale de « spiritualisme », consiste en l'ébauche des solutions proposées aux maux dénoncés du matérialisme. Le portrait type d'un Céline rustre, grossier, haineux, avide, acharné destructeur, subit une métamorphose. Le calculateur s'avère naïf, le nihiliste se perd en vastes projets, le haineux devient homme de foi. Il fait sienne la belle maxime de Gaston Bachelard : « Rendre heureuse l'imagination2 ». Ces aspirations idéalistes font de lui à la fois un homme du passé et un visionnaire. Le passé se confond pour lui avec le Moyen Âge, siècle de foi, et cet appel à une tradition ancienne a lui-même une signification révolutionnaire selon la démonstration de Peguy. La vision c'est celle du douloureux prophète de la faillite du matérialisme et de l'homme-robot, qui tente de leur opposer la renaissance spiritualiste des assoiffés d'idéal.
 
Le programme spiritualiste est exposé dans Les Beaux draps. La rénovation spirituelle y est entreprise à partir de deux institutions : la famille et l'école.
 
Céline constate avec amertume la crise de la natalité que traverse la France : « L'entrain à la vie n'existe plus. » Il ironise sur le Code de la famille, que le décret-loi du 29 juillet 1939 venait d'instaurer, le traite d'« éthique et chafoin », « code de ratatinés discutailleux préservatifs ». Il s'emporte contre les « décrets de pudeur », inspirés, dit-il, par la richissime maîtresse d'un président du conseil. Tout ceci n'est que tartufferies, le programme familial de Céline est beaucoup plus ambitieux. Il s'agit en somme de recréer la France à partir de la notion de famille. Toutes les familles de France seront réunies en une seule avec « égalité de ressources, de droit, de fraternité ».
 
Le salaire national unique permettra l'égalité des ressources et l'avènement de la respectabilité dans un pays : 
« où y aura plus du tout de bâtards, de cendrillons, de poil de carotte, de bagnes d'enfants, "d'Assistance", où la soupe serait la même pour tous. » (Les Beaux draps, p. 152) 
Programme noble et généreux, difficile à mettre en pratique, les exigences et les espoirs de Céline ne semblent pas connaître de limites ; le prouvent bien ses propos sur la fraternité et l'altruisme absolu qu'il voudrait voir régner entre les familles. Il faut, précise-t-il, que les enfants des autres vous deviennent presque aussi chers que vos propres enfants. Le grand bouleversement social s'analyse en un avènement de « papas et mamans partout ». L'espérance d'un tel altruisme, d'une telle communion entre les hommes, est réellement surprenante sous le plume de Céline, une telle candeur naïve surprend. Les Beaux draps datent de 1941, et l'introduction du « familialisme » dans la politique était à la mode avec Vichy. Céline sans doute s'en inspirait, le laisserait penser cette phrase, qu'il ne précise d'ailleurs pas :
« une seule famille, un seul papa dictateur et respecté » (Les Beaux draps, p. 152)
Il s'attarde plus longuement sur la question scolaire. Dans Bagatelles pour un massacre il s'était déjà livré à de violentes attaques contre le système d'enseignement, en particulier le lycée, qu'il opposait à l'école communale. Il se laissait entraîner par les mots, le rythme de la phrase et la condition des jeunes lycéens devenait cette fresque quasi dantesque :
« Ils resteront affublés, ravis, pénétrés, solennels encuistrés de toutes leurs membrures... soufflés de vide gréco-romain, de cette "humanité" bouffonne, cette fausse humilité, cette fantastique friperie gratuite, prétentieux roucoulis de formules, abrutissant tambourin d'axiomes, maniée, brandie d'âge en âge, pour l'abrutissment des jeunes, par la pire clique parasiteuse, phrasuleuse, sournoise, retranchée, politicarde, théorique vermoulue, profiteuse, inextirpable, retorse, incompétente, énucoïde, de l'Univers : le Corps stupide enseignant... » (Bagatelles pour un massacre, p. 106)
Ces anathèmes contre le système scolaire en vigueur et contre les professeurs, qui n'auront pas plus de force en mai 1968, avaient déjà été lancés par de nombreux écrivains et en particulier « le fils de la rempailleuse de chaise ». Par ailleurs un rapprochement pourrait être fait entre Céline et J. Vallès, dont les jeunesses sinon les tempéraments présentent beaucoup de points de communs : même enfances non bourgeoises, mêmes souvenirs cruels sur la famille3, même apprentissage de la vie par les petits métiers pittoresques4, même mépris pour le collège et les humanités classiques clamé par ces autodidactes à demi. C'est ainsi que J. Vallès dédiera l'un des ouvrages de sa trilogie, Le Bachelier, « A tous ceux qui, nourris de grec et de latin, sont morts de faim. »
 
Pour Céline une politique de rénovation doit être entreprise à partir de l'enfance, « notre seul salut ». Rejoignant les théories freudiennes, il prétend qu'à l'âge de douze ans un homme est émotivement achevé. Or l'enfance est menacée par le système scolaire en vigueur. « Grande mutilante de la jeunesse », l'école transforme les jeunes enfants poètes et guillerets en, en cancres butés presque parfaits vieillards à l'âge de douze ans. C'est l'interpellation fameuse : « O pions fabricants de déserts ! » Rien ne peut se faire sans ou hors l'école, il convient donc de la rénover, de la recréer entièrement, d'en faire un lieu heureux et fructueux à l'âme : « L'école doit devenir magique ou disparaître, bagne figé. »
 
L'école formera l'enfant aux seules choses « utiles » dans la vie : le goût, l'enthousiasme, la passion. (On connait le mépris affiché par Céline à l'égard du mot « utile », d'où le paradoxe de son emploi ici.) 
 
La formule célinienne pour que soit réalisé un tel programme est la suivante : « Le Salut par les Beaux Arts », salut de l'homme et de la société à qui on fait retrouver gaîté et force créatrice. L'école doit s'efforcer d'épanouir la musique intérieure que chacun porte en soi, écho timide du bonheur. Il faut préserver le rêve de l'enfant, inculquer à l'élève le goût des fables, des légendes, du merveilleux qui le délivrera de l'angoisse, dont le chaos de la civilisation mécanique l'accable. L'école ne s'organisera pas :
« à partir des sciences exactes, du Code civil, où des morales impassibles, mais reprenant tout des Beaux-Arts, de l'enthousiasme, de l'émotion du don vivant de création, du charme de race, toutes les bonnes choses dont on ne veut plus. » (Les Beaux draps, p. 169)
Les programmes scolaires se consacreront aux disciplines traditionnelles, mais donneront la primeur à celles susceptibles d'épanouir l'enfant dans ce qu'il a de plus vital. Ils développeront son goût, sa sensibilité, son sens artistique en faisant une large place à l'enseignment de la musique, de la peinture, de la danse... et à certaines disciplines communautaires : chants en choeur, ballets... Il ne faut pas croire que la qualité d'artiste est exceptionnellement accordée à l'individu, bien au contraire. Tout le monde naît artiste :
 « tout homme ayant un coeur qui bat possède aussi sa chanson, sa petite musique personnelle, son rythme enchanteur au fond de ses 36°8, autrement il vivrait pas. » (Les Beaux draps, p. 171)
Boileau, Goethe ont exprimé cette même idée, et aussi Proudhon écrivant : « Nous avons tous le germe5. » 
 
Les programmes scolaires s'attacheront ensuite à l'épanouissement physique de l'enfant en accordant une large place à la pratique assidue des sports :
« Il faut réapprendre à créer, à deviner humblement, passionnément, aux sources du corps... Que le corps reprenne goût de vivre, retrouve son plaisir, son rythme, sa verve déchue, les enchantements de son essor... L'esprit suivra bien !... L'esprit c'est un corps parfait... » (Les Beaux draps, p. 175)
C'est une confusion de la beauté plastique et morale. L'écrivain qui fréquentait et affectionnait les milieux de la danse paraît s'inspirer ici de certaines théories chorégraphiques. Cet appel au développement de la pratique des sports était un des lieux communs des politiciens de l'époque, hommes du Front populaire ou de la droite.
 
L'école enfin, se consacre à l'épanouissement moral de l'enfant. L'intransigeance et la rigueur des aspirations céliniennes le rangent d'emblée parmi les plus sévères moralistes C'est ainsi qu'il exige la « ferveur pour le gratuit » qui « seul est divin », détachement à la fois des biens matériels et des mesquineries du caractère, morale de la grandeur et de la noblesse de coeur. Il prêche le « culte des grands caractères », l'étude pour l'exemple de la vie des ancêtres éminents. C'est une morale ambitieuse, l'écrivain se laisse même aller à parler du « culte de la perfection ».
 
Un tel programme exige des maîtres de qualité. Quelle plus belle définition donner des « vrais professeurs » :
« Gens au cours du merveilleux, de l'art d'échauffer la vie, non la refroidir, de choyer les enthousiasmes, non les raplatir, l'enthousiasme le "Dieu en nous", aux désirs de la Beauté devancer couleurs et harpes, hommes à recueillir les féeries qui prennent source à l'enfance. » (Les Beaux draps, p. 177)
L'enfant ira à l'école jusqu'à 15, 16 ans ; une telle prolongation de la durée des études est aujourd'hui officiellement admise.
 
Il y a du religieux dans un tel système éducatif, initiation, catéchuménat où l'on compte plus sur la générosité et l'enthousiasme que sur l'énergie et l'ambition des élèves, où le beau se trouve intimement confondu avec le bien, l'artiste avec le moraliste et le mystique. Beaucoup d'écrivains et de sociologues ont fait cette association et se sont dans ce but, attachés à tenter d'introduire l'art dans la politique sociale. On peut encore évoquer Proudhon et ses Principes de l'art. Mais cette rénovation, Céline ne l'envisage que sous l'angle du système d'éducation des enfants et ne se soucie pas de rechercher d'autres encadrements la prolongeant au niveau des adultes. Si l'on devait réaliser son programme socialiste, cette lacune se révélerait grave.
 
La société rénovée idéale telle que le conçut Céline se présenterait donc ainsi. L'enfance est heureuse : une famille que ne tourmentent pas les soucis matériels, une école où sont entretenus la gaîté, l'enthousiasme, les rêves, et épanouie la petite « musique intérieure » de chacun. L'adolescent ne connaît pas les soucis de recherche d'emploi (les nationalisations ont selon Céline supprimé le chômage). L'adulte n'a plus de tourments matériels immédiats ou futurs : petit confort et retraite assurés par le « communisme Labiche ». L'altruisme et la bonne entente règnent entre les individus qui sont préservés au mieux des déviations néfastes du caractère : envie, jalousie, corruption, par l'égalité établie devant l'argent. C'est une société heureuse, formée de sociétaires heureux.
 
Ainsi l'amer inquisiteur des vices de la nature humaine, déterministe quant à la fatalité de ces vils instincts, semble bien verser, quand il aborde les problèmes collectifs, dans l'utopisme le plus complet. L'opposition est totale entre le réalisme cruel et noir, avec lequel le romancier analyse l'individu, et l'idéalisme confiant et naïf qu'il apporte à ses projets de réforme des sociétés, dans Les Beaux draps. Le socialisme de Céline est bien dans la tradition du socialisme français et on ne peut manquer de faire des rapprochements avec certains précurseurs du XIXè siècle (en ne retenant par leur foi envers le progrès et la science) tels Fourrier, « un des plus grands satiriques de tous les temps » selon Engels, Proudhon, L'Egalitaire, Etienne Cabet, Pierre Leroux..., ces solitaires du socialisme, aux conceptions certes très différentes mais marquées du sceau commun de l'utopisme.
 
Un qualificatif conviendrait bien au socialisme de Céline, c'est celui de populiste. On a souvent fait du romancier du Voyage un populiste6, le rapprochant de ce mouvement littéraire, défini dans un manifeste paru en 1930 à l'initiative d'André Thérive et Léon Lemonnier. Ce mouvement prétendait susciter des oeuvres tirant leur inspiration directement du peuple et s'insurgeait contre le naturalisme jugé artificiel. Par une analogie accidentelle (il n'y a pas de rapport entre le mouvement littéraire français et le mouvement politique russe) on pourrait rapprocher le socialisme de Céline du socialisme dit populiste, mouvement qui s'exprima avec le plus de vigueur en Russie au siècle dernier.
 
Ce socialisme est affectif, ses caractères spiritualistes et moraux sont très accentués, il donne à la politique des bases émotionnelles et la confusion signalée par M. J. Touchard, à propos de l'esprit de 487, entre le « peuple-prolétariat » et le « peuple-humanité » apparaît ici totale. Les socialistes populistes affichent une méfiance absolue envers les idéologies, la science et, arguant du primat du social, prétendent mépriser la politique. Ils seront traités d'utopistes par les marxistes qui leur opposent un socialisme scientifique.
 
Les idées socialistes de Céline ont donc à première vue un aspect incontestablement démodé, en ce qu'elles évoquent l'utopisme et l'humanitarisme généreux tout autant que vague de certains précurseurs du XIXè siècle beaucoup plus que les combats menés dans l'entre-deux guerres par les partis et les syndicats représentant les travailleurs, classe organisée et poursuivant des objectifs politiques précis. Pourtant ce socialisme célinien soutenu par un ardent spiritualisme peut aussi faire figure d'avant-garde. Les révoltes de la seconde moitié du XXè siècle ne sont plus seulement économiques et politiques mais aussi métaphysiques. Les sociétés tout aussi désemparés que les hommes paraissent de plus en plus hantées par cette « sensation que la matière prolifère aux dépens de l'esprit... peur en somme que la vie ne devienne mort8 ». Les socialismes de demain pourraient s'inspirer d'une éthique spiritualiste et le témoignage de Céline trouve parfaitement sa place dans cette réponse, encore mal formulée, au désarroi d'une époque.
Jacqueline MORAND, Les idées politiques de Céline, Librairie générale de droit et de jurisprudence, Paris, 1972. (Réédition en 2010 chez Écriture)
 
Disponible sur Amazon.fr.

 

Notes
1- Germinal, n°1, 28 avril 1944.
2- Gaston Bachelard, Le Matérialisme rationnel, PUF, 1953, p. 18.
3- On peut distinguer à cet égard les écrivains déterminés contre leur enfance : Stendhal, J. Vallès, Céline... et ceux qui en gardent la nostalgie : Mauriac, Bernanos...
4- J. Vallès raconte dans Jacques Vingtras, que, demi-nu dans une baignoire, il fut employé à faire de la figuration pour le lancement publicitaire de la revue La Nymphe.
5- P.-J. Proudhon, Correspondance, t. II, p. 49.
6- cf. P. De Boisdeffre, Histoire vivante de la littérature d'aujourd'hui.
7- J. Touchard, Histoire des idées politiques, Coll. Thémis, PUF, 1965, p. 581
8- E. Ionesco, interview dans L'Express, 5-11 octobre 1970, p. 172.

mardi, 25 mars 2014

Rebellion n°63

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Editorial :
La course à la guerre !
Alternative :
Pour un végétarisme de lutte ( 2ème partie) 
Jour de colère, çà va péter ! - A nous de faire que chaque jour devienne un jour de colère ! 
Face à la loi de la finance: Entretien avec P-Y Rougeyron 
Histoire : Harro-Shulze Boysen - un national-Bolchevik dans l'orchestre rouge ( 1er partie) 
La France durcit ses moeurs et enrégimente les idées de Thibault Isabel. 
Culture : Chroniques livres. 
 
Disponible contre 4 euros à notre adresse : 
Rébellion c/o RSE Bp 62124 31020 TOULOUSE cedex 02
http://rebellion.hautetfort.com/
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jeudi, 13 mars 2014

Nihil Obstat, Nº 21

Nihil Obstat, Nº 21

Nihil21

 

«Nihil Obstat, Nº 21»

NOVEDAD

● Revista de historia, metapolítica y filosofía

● Barcelona, verano/otoño 2013

● 21×15 cms., 164 págs.

● Cubierta impresa a todo color, con solapas y plastificada brillo

● PVP: 15 euros

Orientaciones

ENR pone al alcance de sus clientes y amigos, desde 2002, una publicación semestral cuya pretensión primordial es la publicación de textos —tanto de autores españoles como extranjeros— que escapan a la dictadura de lo «políticamente correcto» y, en consecuencia, le confieren una línea que se desmarca abiertamente de los discursos ideológicos dominantes.

 

SUMARIO

Editorial 5

Seis afirmaciones para comprender un poco mejor los problemas del Próximo Oriente Juan de Pinos 7

El hombre multidimencional: el problema de la naturaleza del hombre

Jesús J. Sebastián 13

Guía Fascista de Roma: la tercera Roma

Eduardo Connolly de Pernas 21

América hispánica: la larga marcha hacia la unidad (1810 al presente)

Entrevista de Arnaud Imatz a Alberto Buela 29

La América colonial: algunos aspectos económicos

Alberto Buela 39

Franco Freda: entre el platonismo político y el tradicionalismo evoliano

Ángel Fernández Fernández 43

DOSSIER LA IZQUIERDA. CRISIS E IDENTIDAD

Introducción José Alsina Calves 53

Crisis del sistema e identidad de la izquierda

Ferrán Gallego Margalef 63

Notas para una crítica de la razón política de la Izquierda española

Pablo Huerga Melcón 71

Una discusión (de momento) interminable

Costanzo Prevé 105

Por la construcción de un sindicalismo alternativo

Javier de Francisco Moure 121

El socialismo de Oswald Spengler

Carlos Javier Bianco Martin 127

La vision radical de Roberto Farinacci

Eduardo Basurto 141

Dios no existe. Una conferencia de Benito Mussolini

Juan Antonio Llopart 15

Critica de libros 154

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Pedidos:

enrpedidos@yahoo.es

Tlf. 682 65 33 56

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lundi, 17 février 2014

Le nouveau rêve socialiste

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Le nouveau rêve socialiste

Devenir ''narco''

Michel Lhomme
Ex: http://metamag.fr

La sénatrice écologiste Esther Benbassa a présenté sa proposition de loi pour autoriser un "usage contrôlé" du cannabis, déposée au Sénat. A ce jour on ne sait si cette proposition sera mise à l'ordre du jour. 

Au cours d'une conférence de presse dans une salle de la Haute assemblée, la sénatrice du Val-de-Marne a rappelé que « plus de 60% des jeunes de moins de seize ans ont déjà consommé du cannabis (...) Il y a un danger, et c'est pour cela qu'il faut lever le tabou de la prohibition pour pouvoir le prévenir. Il n'y a pas de bon moment pour aborder les questions de société. On peut en débattre à tout moment ».
 
Il vaut certes mieux pour le système avoir des jeunes « stones » plutôt que des jeunes qui réfléchissent mais surtout la guêpe socialiste n'est pas sans arrière-pensées : la proposition de loi, préconise que "le monopole de la vente au détail du cannabis soit confié à l'administration par l'intermédiaire de débitants désignés comme préposés". Sur le modèle du tabac, l'Etat contrôlerait la distribution de cannabis tout en en interdisant la publicité et la vente aux mineurs. Le texte ne précise pas le montant des taxes qui serait inéluctablement attribué à l'herbe mais stipule une "interdiction de la distribution ou de l'offre à titre gratuit de plantes et produits de cannabis". Comme chez Monsanto, on veut contrôler les semences. L'usage dans les lieux publics, les lieux affectés à un usage collectif et les moyens de transports serait restreint.

La sénatrice se serait faite aidée, pour rédiger sa loi, par des ''experts et des associations''. Elle explique que, se basant sur le modèle américain (le bon modèle forcément !), la vente pourrait atteindre 23g par jour et par personne. A 10 euros le gramme de cannabis et vu le nombre de fumeurs en France, cela pourrait en effet faire rentrer beaucoup d'argent dans les caisses de l'Etat mais le marché parallèle continuerait, n'en doutons pas un seul instant, d'être florissant ! Y aurait-il alors une nouvelle guerre des gangs entre narcos étatiques et narcos groupusculaires ? La sénatrice s’empressa de chiffrer le nombre d'emplois créés : 35 000 emplois nouveaux mais elle oublie délibérément bien sûr la prise en charge médicale des effets secondaires qui ne manqueraient pas alors d'être attribués à l'Etat.
 
En fait, légaliser la possession et la vente du cannabis rapporterait de un à deux milliards d’euros de taxe par an, a estimé Pierre Kopp, professeur d’économie à l’université Panthéon-Sorbonne – Paris I. Mais, l'intervention de la sénatrice est aussi intéressante à plus d'un titre parce qu'elle montre clairement qu'en définitive, le but de la légalisation est envisagé sérieusement comme superbe cadeau électoral de fin de mandat afin de remplir les caisses de l’État. De fait, la mentalité répressive continuerait. A l’évidence, si on libéralisait ou on légalisait le cannabis, il ne devrait pas être vendu aux mineurs (pourtant gros consommateurs), ne devrait pas faire l’objet de publicité ni de consommation publique.
 
Le seul intérêt de la légalisation, c'est de taxer le cannabis et sans doute même de le taxer fortement de telle sorte que le cannabis soit suffisamment cher pour qu'il n'y ait pas un boom de la consommation. Mais le dilemme serait alors total car comment en même temps rendre attractif le produit étatique, le maintenir suffisamment bon marché pour ne pas stimuler le marché noir.
 
Comme on le sait, l'effet premier du cannabis sur les fonctions cognitives du cerveau est de se couper de la réalité. N'est-ce pas le rêve de tout pouvoir, de voir sa population non seulement ignorante mais coupée de toute réalité ? La légalisation est donc bien déjà dans les cartons non seulement comme survie financière du système mais aussi comme support idéologique comportemental du régime. 
 
 

mardi, 04 février 2014

Rébellion n°62

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EDITORIAL
Sur le front de la quatrième guerre mondiale.
Hommage à C. Preve.
POLEMIQUE  
Nouvelle Inquisition, les bûchers se rallument ! 
ACTUALITE  
Affaire Dekhar : Que devient le rêve quand le rêve est fini ? 
INTERNATIONAL  
Lampedusa, l'immoralisme occidental par Claude Karnoouh 
Retour sur les discours de Thomas Sankara. 
DOSSIER :
Face à la barbarie capitaliste proposons l'alternative ! 
La barbarie au coeur du Système 
Pour des communautés politiques, autonomes et offensive ! 
Le végétarisme comme éthique de vie ( première partie) par Marie Chancel.
Orientations politique de l'OSRE.
Chroniques livres . 
Le numéro est disponible pour 4 euros auprès de 
Rébellion C/O RSE BP 62124 31020 TOULOUSE cedex 02
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lundi, 27 janvier 2014

L’infréquentable Pierre-Joseph Proudhon

Pierre-Joseph_Proudhon.jpg

L’infréquentable Pierre-Joseph Proudhon
 
 
par Edward Castleton
 
Ex: http://anti-mythes.blogspot.com
 
Que connaît-on de la pensée de Pierre-Joseph Proudhon, deux cents ans après sa naissance, le 15 janvier 1809 ? Une formule : « La propriété, c’est le vol ! », mais guère plus. Celui que Charles Augustin Sainte-Beuve décrivait comme le plus grand prosateur de son temps, ou Georges Sorel comme le plus éminent philosophe français du XIXe siècle, ne trouve plus asile que dans les librairies libertaires et sur les rayonnages d’érudits. A la différence d’autres penseurs et écrivains de la même époque — Karl Marx, Auguste Comte, Jules Michelet, Victor Hugo ou Alexis de Tocqueville —, les grandes maisons d’édition le dédaignent.

Le centenaire de sa naissance, en 1909, n’était pourtant pas passé inaperçu. Le président de la République, Armand Fallières, s’était rendu à Besançon, lieu de naissance de Proudhon, pour inaugurer une statue en bronze du « père de l’anarchisme ». Les sociologues durkheimiens (1), les juristes, les avocats républicains de la laïcité, des théoriciens du syndicalisme révolutionnaire et même des royalistes antiparlementaires s’intéressaient alors à lui.

Mais la vague anarcho-syndicaliste reflue rapidement. Les intellectuels et ouvriers qui appréciaient Proudhon avant la Grande Guerre tentent après la révolution russe de le transformer en un anti-Marx. Les pacifistes favorables à la création de la Société des Nations invoquent ses idées fédéralistes. De leur côté, des partisans de Vichy récupèrent certains aspects corporatistes de sa pensée afin d’asseoir la légitimité de leur régime. Cela ne suffit pas à sauver la statue de Proudhon, fondue par les nazis durant l’Occupation, mais le crédit du penseur auprès des progressistes s’en trouva durablement affecté.

D’autant que l’après-guerre favorise en France la domination intellectuelle du marxisme à gauche et relègue au second plan d’autres sources, pourtant très riches, de la pensée sociale du XIXe siècle. Exit Proudhon, donc, qui cherchait un moyen terme entre la propriété privée (appropriation exclusive des biens par des particuliers) et le communisme (appropriation et distribution égalitaire des biens des particuliers par l’Etat).

D’où sort ce précurseur d’une « troisième voie » anarchiste ? Né d’un père tonnelier-brasseur et d’une mère cuisinière, Proudhon se montre très doué pour les lettres classiques avant de devoir, en raison des problèmes financiers de sa famille, abandonner ses études pour travailler comme imprimeur. Grâce aux encouragements de certains Francs-Comtois, il obtient une bourse de trois ans de l’Académie de Besançon pour poursuivre des recherches linguistiques et philologiques. Proudhon mesure alors les écarts de classe et d’expérience qui le séparent des membres de cet institut censés suivre ses recherches, à Paris. Il perçoit aussi les limites des tentatives de théoriciens libéraux de la Restauration et de la monarchie de Juillet pour asseoir la souveraineté sur les « capacités » supérieures des possédants.

C’est l’époque du suffrage censitaire : qui possède vote pour élire quelqu’un qui possède encore plus que lui. Face au droit inviolable et sacré de propriété, la réalité de la misère, celle du paupérisme, contredit les espoirs des libéraux lorsqu’ils cherchent, au même moment, à enraciner l’ordre social dans le droit civil des particuliers.

Après les journées de juin 1848, il devient l’homme le plus diabolisé de son temps

Convaincu que la distribution des richesses au sein de la société importe davantage que la représentation politique, Proudhon ne voit pas dans l’élargissement du suffrage prôné par les républicains une solution suffisante au problème des inégalités sociales. Cette constatation l’amène à l’économie politique.

Il estime que la valeur d’une chose doit être évaluée selon son « utilité », c’est-à-dire ses effets sociaux, réels et matériels. Ses contemporains économistes, soucieux de la circulation des richesses à travers les échanges, la définissent indépendamment des besoins de subsistance des producteurs. « Les produits s’échangent contre les produits », dit alors Jean-Baptiste Say (1767-1832). Ce qui revient à dire que la vente des marchandises est favorisée par le commerce d’autres marchandises et que, en dernière instance, les produits valent ce qu’ils coûtent. Assise sur des conventions, la valeur n’a pas de base fixe.

Selon Proudhon, elle s’étalonne par conséquent à l’aune de son utilité. Bien entendu, l’idéal de l’équilibre entre production et consommation reste souhaitable, mais, pour y arriver, le produit vendu et le travail que ce produit incorpore doivent se trouver constamment en adéquation. Or la nature juridique de la propriété fait obstacle à des échanges égalitaires car la richesse reste concentrée entre les mains des propriétaires, rentiers et capitalistes. Il conviendrait donc de lire la loi des débouchés de Say (l’offre crée sa demande) d’une manière beaucoup plus révolutionnaire.

Curieusement, ces thèses attirent des économistes libéraux contemporains, tel Adolphe Blanqui, frère de Louis Auguste, le révolutionnaire. Leur caractère iconoclaste paraît en mesure de jeter un pont entre la critique des socialistes (auxquels Proudhon reproche d’écrire des amphigouris néochrétiens exprimant des sentiments vagues et bien-pensants, comme la fraternité) et celle des économistes, juristes et philosophes de l’ordre établi.

Sur ce terrain, Marx lui-même a apprécié la théorie de la plus-value que Proudhon formulait dans Qu’est-ce que la propriété ? (1840) : « Le capitaliste, dit-on, a payé les journées des ouvriers ; pour être exact, il faut dire que le capitaliste a payé autant de fois une journée qu’il a employé d’ouvriers chaque jour, ce qui n’est point du tout la même chose. Car, cette force immense qui résulte de l’union et de l’harmonie des travailleurs, de la convergence et de la simultanéité de leurs efforts, il ne l’a point payée. Deux cents grenadiers ont en quelques heures dressé l’obélisque de Louqsor sur sa base ; suppose-t-on qu’un seul homme, en deux cents jours, en serait venu à bout ? Cependant, au compte du capitaliste, la somme des salaires eût été la même. Eh bien, un désert à mettre en culture, une maison à bâtir, une manufacture à exploiter, c’est l’obélisque à soulever, c’est une montagne à changer de place. La plus petite fortune, le plus mince établissement, la mise en train de la plus chétive industrie, exige un concours de travaux et de talents si divers, que le même homme n’y suffirait jamais. »

Sans doute Marx partageait-il aussi la critique que Proudhon avait faite de ce que, dans ses manuscrits de 1844, il appellerait le « communisme grossier ». La rupture entre les deux hommes, qui se fréquentaient à Paris, intervint en 1846. Marx ne tarda pas à exprimer ses sarcasmes envers un auteur qui préférait, comme il le lui écrivit dans sa lettre de rupture, brûler la propriété « à petit feu ». Il considérait le désir de Proudhon de réconcilier prolétariat et classe moyenne pour renverser le capitalisme comme l’inclination d’un « petit-bourgeois constamment ballotté entre le capital et le travail, entre l’économie politique et le communisme ».

A la suite de la révolution de 1848 et de l’instauration de la IIe République, Proudhon est élu député et siège à la commission des finances de la Chambre. Il y réclame la création d’une banque nationale, capable de centraliser la finance ; la monnaie, gagée sur la production, n’y aurait qu’une valeur purement fiduciaire (le franc est alors gagé sur l’or). Il réclame aussi la réduction des taux d’intérêt, d’escompte, et celle des loyers et des fermages. Après les journées de Juin (2), ces propositions lui valent le statut d’homme le plus caricaturé et diabolisé de son temps par la presse bourgeoise.

Les projets proudhoniens de réforme se soldant par un échec, leur auteur va mener une réflexion sur les apories de la représentation politique. A ses yeux, l’expérience de la IIe République a représenté l’émergence d’une oligarchie élective au sein de laquelle les députés ne sont pas de réels mandataires, le consentement des citoyens aux lois n’étant qu’indirectement exprimé lors des élections législatives.

La plupart du temps, le peuple demeure donc impuissant face à ses délégués, qu’il ne peut sanctionner qu’en refusant de les réélire. De fait, la coupure entre élus et électeurs se creuse rapidement. Et Proudhon témoigne : « Il faut avoir vécu dans cet isoloir qu’on appelle une Assemblée nationale pour concevoir comment les hommes qui ignorent le plus complètement l’état d’un pays sont presque toujours ceux qui le représentent. » (Les Confessions d’un révolutionnaire, 1849.)

Le prolétariat devrait créer des associations fondées sur le principe de mutualité

Mais son analyse va au-delà de ce simple constat : il estime que la Constitution de 1848 confère trop de pouvoir exécutif au président de la République et que l’évolution vers une dictature est inéluctable. Emprisonné pour avoir dénoncé l’affaiblissement de l’Assemblée et les menées de Louis Napoléon Bonaparte (3), déçu ensuite tant par la couardise de la bourgeoisie face au coup d’Etat du 2 décembre 1851 que par la popularité du régime impérial dans les classes populaires, Proudhon observe avec amertume, de sa cellule, l’installation du Second Empire (lire « [16665] », les extraits de ses carnets inédits).

A sa libération, en 1852, il s’élève contre la concentration des richesses — liée aux concessions des chemins de fer et aux connivences des spéculateurs à la Bourse — entre les mains de quelques-uns. Proudhon doit, en 1858, s’exiler en Belgique afin d’éviter un nouvel emprisonnement après la publication de son ouvrage anticlérical De la justice dans la Révolution et dans l’Eglise. Il ne regagne Paris qu’à la fin de sa vie, plus pessimiste que jamais quant au caractère « démocratique » du suffrage universel.

Dans ses derniers écrits avant sa mort, le 19 janvier 1865, il dénonce même l’inutilité des candidatures ouvrières. Le prolétariat devrait rompre avec les institutions « bourgeoises», créer des associations fondées sur le principe de mutualité et institutionnaliser la réciprocité. Bref, inventer une « démocratie ouvrière ».

Si on laisse de côté certains aspects des conceptions de Proudhon (antiféminisme, misogynie, voire antisémitisme), hélas fréquents chez les socialistes du XIXe siècle, sa pensée demeure d’actualité. Notamment compte tenu du climat de scepticisme face au fonctionnement du système démocratique dans les pays capitalistes avancés. Car il n’est pas certain que les intérêts des classes populaires et travailleuses soient aujourd’hui mieux « représentés » par les partis politiques qu’à l’époque de Proudhon...

Dans toutes les tentatives actuelles visant à « moderniser » le socialisme, existe-t-il une place pour une idéologie prônant une rupture de classe radicale mais pacifique ; exigeant l’organisation de la société en fonction d’une division du travail mutualiste et visant à une moindre différenciation des salaires ; recherchant la justice en se souciant de l’économie ; préférant la représentation socioprofessionnelle à un suffrage universel toujours susceptible de dégénérer en césarisme ; déclarant la guerre aux spéculateurs et aux grandes fortunes ; prêchant un fédéralisme radicalement décentralisateur et non point libre-échangiste ? Ou Proudhon n’est-il surtout destiné qu’à ceux, plus marginaux et moins médiatisés, qui préfèrent les cercles libertaires aux plateaux de télévision ?

En attendant l’improbable venue du président de la République à Besançon pour célébrer, le 15 janvier 2009, le bicentenaire de la naissance de Proudhon, on peut simplement espérer que ce penseur et ce militant retrouve une partie de la renommée qui était la sienne il y a cent ans.
 
 
Edward Castleton
 
Edward Castleton est l’éditeur du livre de P.-J. Proudhon, Carnets inédits : journal du Second Empire, CNRS Editions, Paris, à paraître en février.

mercredi, 25 décembre 2013

L’État PS et la tentation totalitaire

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L’État PS et la tentation totalitaire. Comment empêcher l’alternance ?

par Guillaume Faye

Ex: http://www.gfaye.com

Dans l’effarant rapport sur l’Intégration remis à Matignon et publié sur son site (voir le précédent article), on note la préconisation de mesures coercitives contre l’affirmation de l’identité française et l’instauration d’une police de la pensée et de l’expression. Ce rapport reflète la position de l’État PS. Dans la répression policière disproportionnée (avec incarcérations illégales et rapports de police truqués) de la ”Manif pour tous” et de l’inoffensif mouvement des ”Veilleurs”, l’État PS a montré le bout de son nez et donné un avant-goût de ses tentations totalitaires. En réalité, conformément à la tradition sectaire de l’extrême-gauche (qui domine idéologiquement le PS), la ”droite” n’est  pas légitime car elle représente le Mal (1). Eux, dans leur bonne conscience, illustrent le Bien et la Justice et sont donc seuls légitimes pour exercer le pouvoir. 

Se mêlent, comme toujours, à ces grands sentiments de moralisme fanatique, de bas calculs électoralistes à courte vue. Le personnel politicien de gauche, cohorte d’élus et d’apparatchiks, avec ses auxiliaires – innombrables associations subventionnées et intellectuels rémunérés – veut conserver ses prébendes. Comment empêcher l’alternance à droite et maintenir au pouvoir l’État PS, malgré son échec patent sur tous les fronts ? 

Un coup d’État à la Lénine étant impossible, la seule solution est de transformer le peuple, plus exactement l’électorat. D’où les naturalisations massives et toutes les mesures en faveur des immigrés, de l’islam, de l’accentuation de l’immigration de colonisation (2). Le dernier rapport sur l’Intégration était idéologiquement inspiré par le think tank gauchiste Terra Nova, tête chercheuse de l’État PS, pour envoyer un signal fort aux nouvelles populations. Il ne s’agissait pas d’une gaffe de plus de M. Ayrault. Une opération de communication politique très pensée. Message : l’État PS est le vôtre ; celui  de la ”défrancisation”, de l’islamisation tolérée, de l’arabisation et de l’africanisation en douceur. Les musulmans ont voté à une écrasante majorité pour Hollande ; la leçon a été retenue.

Le souci de la ”France” est très secondaire pour ne pas dire inexistant  dans l’appareil central ou périphérique du dispositif de l’État PS. Il est animé à la fois par une idéologie idéaliste, intolérante, utopique, bétonnée de bonne conscience (3) et par une avidité pour le pouvoir strictement matérialiste. Cette alchimie était présente dans tous les régimes communistes (et dans la révolution bolchévique, inspirée de 1793 et de la Commune), avec cette différence notable que lesdits régimes évitaient de dissoudre leur propre nation en organisant chez eux une colonisation de peuplement.  

 Le plus inquiétant, c’est que cette stratégie de l’État PS peut réussir. Pour des raisons démographiques et migratoires implacables (voir les analyses de Mme Tribalat), l’État PS compte sur un basculement progressif et arithmétique de l’électorat pour se maintenir au pouvoir. C’est pourquoi, avant les prochaines échéances électorales, il multiplie (et va multiplier) les mesures immigrationnistes et islamophiles les plus diverses. Il estime (marketing politique), selon les analyses de Terra Nova, qu’il vaut mieux créer un nouvel électorat allogène que de séduire un électorat populaire de souche en proie à une fuite d’eau. (4)

Le problème, c’est que cette finaude stratégie n’est qu’une tactique. (5) Il y a un risque de guerre civile ethnique au bout de ces mauvais calculs, d’autant plus que l’État PS, s’il réussit à se maintenir au pouvoir dans son projet anti-alternance devra affronter une crise sociale gravissime du fait de sa politique économique qui va dans le mur. Effet démultiplicateur. Il va y avoir du sport. Remarquez, d’un point de vue dialectique, c’est peut-être intéressant. Les prochaines années nous réservent des surprises.

Notes:

(1) C’est la racine même de la mentalité totalitaire : la légitimité contre la légalité.  Relire Robespierre et Lénine.

(2) L’élargissement de l’accès à l’AME (Aide médicale d’État) pour les clandestins (mesure par ailleurs anticonstitutionnelle car créant une légalisation de l’illégalité, cas unique au monde) ; la baisse drastique des expulsions d’illégaux même après décisions de justice ; la poursuite des régularisations et des naturalisations je vous laisse continuer la litanie.

(3) Idéologie à l’emballage libertaire et tolérant mais au contenu autoritariste et intolérant.

(4) Maîtresse à penser du PS, Terra Nova a recommandé de délaisser les Français de souche des classes populaires au profit des immigrés et de la bourgeoisie bobo-gauche. Cynique marketing politique. (cf. à ce propos ma brochure La nouvelle lutte des classes, Éd. du Lore).

(5) La stratégie vise le long terme et un théâtre d’opération global.  La tactique est limitée dans le temps et l’espace. L’État PS confond les deux. Il perdra parce que le rêve est sa loi et qu’il fait entrer le loup dans la bergerie.    

lundi, 16 décembre 2013

Costanzo Preve: un philosophe critique nous a quitté

Costanzo Preve: un philosophe critique nous a quitté

Michel Lhomme
Ex: http://metamag.fr
 
coppreve.jpgLe grand philosophe italien, Costanzo Preve nous a quitté fin novembre. Né à Valence en 1943, il est décédé ce 23 novembre à Turin. C'était sans doute, pour nous,le dernier marxiste vivant, le dernier en tout cas qui mérite fortement cette appellation de par sa rigueur d'analyse et son absence de compromissions, l'exact opposé des marxistes français comme Alain Badiou ou Etienne Balibar totalement asservis aux idéologies du capital et incapables d'avoir saisi en temps réel la manipulation du ''grand remplacement'', l'aliénation de l'immigration et des sans papiers comme armée de réserve du capital, bataillons de la bourgeoisie française, fossoyeurs de l'identité européenne.
 
Heureusement, d'Italie, Costanzo Preve nous réconciliait avec les communistes, les Lukacs et les Gramsci de la grande époque. Costanzo Preve avait été un grand professeur, enseignant d'histoire et de philosophie de 1967 à 2002, toujours proche des jeunes, jusqu'à sa retraite. Il ne fut jamais universitaire. Il avait été membre du Parti Communiste italien de 1973 à 1975 et en 1978, il avait participé à la création du Centre d'Etudes du Matérialisme historique à Pistoia. Costanzo Preve est un auteur prolifique et, depuis quelques années, je ne manquai aucune de ses publications. Je me souviens même avoir travaillé tout un été, en plein Océan indien, sur une traduction de notre auteur. Le style était impeccable. C'est un style qui s'est perdu parce qu'il suppose le matérialisme historique, la dialectique quasi dans les veines ou dans les gènes, c'est le style radical du grand Pasolini des Ecrits Corsaires mais chez Preve, c'était un style beaucoup plus conceptuel, beaucoup moins poétique et lyrique, beaucoup plus cérébral.
 
Il écrivait dans de très nombreuses revues et contrairement aux pseudo-marxistes français sectaires, il avait toujours la noblesse de citer ses sources, fussent-elles à contre-courant. La chute du Mur de Berlin ne le désarma pas, bien au contraire car il était un révolutionnaire critique, n'hésitant pas à dénoncer la conjonction criminelle dans l'histoire contemporaine du sionisme et de l'américanisme. Costanzo Preve était un penseur transversal, transcourant très italien car dans l'hexagone, la transversalité est quasi criminelle. 

A la fin de sa vie, ces dernières années alors qu'il semblait très fatigué et malade, Costanzo Preve, toujours au bureau à écrire ou à lire,  dialoguait avec Alain de Benoist ou Alexandre Douguine, le théoricien de la quatrième théorie et de l'eurasisme. Pour donner, ici-même, un aperçu de Costanzo Preve, j'offre au lecteur de Metamag cette petite traduction d'un entretien de Preve sur Carl Schmitt. Preve y déclare : “La raison pour laquelle j'acceptai pour l'essentiel la dichotomie schmittienne [ami-ennemi] réside dans le fait que celle-ci décrit avec une admirable précision la situation historico-politique qui s'est créée au vingtième siècle et surtout qu'elle permet de nommer l'empire idéocratique américain comme étant l'ennemi principal. En effet, ce dernier est l'ennemi principal non pas parce qu'il demeure le seul empire  capitaliste qui reste (la Russie, la Chine, l'Inde, etc. sont aussi cent pour cent capitalistes), mais parce que son existence brute coordonne, aussi bien sur le plan militaire mais surtout dans le domaine culturel, la reproduction totale d'un capitalisme globalisé mondial, imposant ses règles financières. C'est pour cela qu'il est l'ennemi principal, et non pas parce que ses rivaux seraient par principe “humainement” meilleurs. (…) De plus, Schmitt a été l'unique penseur du vingtième siècle qui a mis en relief de manière claire et paradigmatique le fait que l'immorale légitimation particulière de la puissance maritime américaine s'est édifiée à travers la référence à une prétendue “humanité”. (…) Aujourd'hui, le paradoxe dialectique est celui-ci: l'ennemi principal est présentement celui qui se présente comme le principal ami de l'humanité, celui qui prétend soumettre à “la manière universaliste” sa  structure économique, politique et sociale particulière, et le fait au nom d'un mandat religieux, d'une divinité auto-attribuée, d'un authentique Antéchrist, fruit d'une fusion monstrueuse entre le fondamentalisme judéo vétérotestamentaire et le puritanisme calviniste des “élus”.''

2867909646.jpgEn fait, peu connaissent en dehors du cercle étroit des schmittiens, la profondeur du travail intellectuel de Costanzo Preve, l'importance de son analyse critique. Le philosophe italien n'était pas un sorbonnard ou un agrégatif mais un résistant au pied de la lettre et au chevet de la lutte, un vrai camarade, un authentique compagnon, un dissident. La formation intellectuelle est la condition de toute action. Il ne saurait y avoir de résistance culturelle sans dialectique. Dans une telle formation, le marxisme est aussi une priorité méthodologique. Comme il faut lire Dominique Venner, il faut faire lire Costanzo Preve à tout candidat de l'esprit critique. Bien sûr, la pensée unique universitaire attaquera les idées d'un Costanzo Preve mais c'est parce que de telles idées peuvent la faire descendre de son piédestal et la vaincre de par sa méthode et sa rigueur scientifique. Les idées dissidentes sont larges et il y a en fait une infinité de penseurs oubliés, de syndicalistes inconnus, d'économistes à relire (nous pensons par exemple au protestant Charles Gide). 

En rendant ici même hommage à Costanzo Preve, nous souhaitons dire simplement aux plus jeunes qu'il faut par principe tout lire et dédier tous ses efforts à la diffusion des pages critiques des hommes et des femmes ouverts, libres d'opiner contre leurs propres partis, libres de désirer mourir pour des idées, libres en définitive de mourir en transmettant à leurs enfants les enseignements et les principes de tolérance intellectuelle qui furent toujours la valeur même de l'esprit européen. Malgré la dictature de la pensée unique, Costanzo Preve n'abandonna jamais et ne se tut jamais car on ne peut taire la vérité quand bien même demain, on nous préviendrait subrepticement que nous serons menottés.

N.B: De Costanzo Preve, nous recommandons en français son Histoire critique du marxisme chez Armand Colin, coll. ''U'' et L'éloge du communautarisme: Aristote-Hegel-Marx, Krisis, Paris 2012. Le dernier ouvrage publié en français est La quatrième guerre mondiale, Astrée, Paris 2013.

samedi, 30 novembre 2013

Rebellion n°61

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Au sommaire : 
Editorial : bonnets rouges et rouges bonnets. 
Entretien avec David Bisson - René Guénon. Entre Tradition et Révolution.
International : Le Hezbollah. De la résistance à la révolution. 
Vive le Québec Libre ! Histoire et analyse de la lutte de libération nationale du Québec
par Yves Bataille. 
Le militantisme au féminin : Une enquête. 
Femme et militantisme, l'alliance impossible ?
par Anaïs Vidal. 
Les nuits de Mai par Louise d'Espagnac
Entretien avec Iseul Turan des Antigones :
Ni consommatrices, ni consommées !
 Rencontre avec le groupe Creve Tambour
La théorie du Drone, Rise of the machines. 

Le numéro est disponible pour 4 euros auprès de 
Rébellion C/O RSE BP 62124 31020 TOULOUSE cedex 02
http://rebellion.hautetfort.com/
 
bretagne,bonnets rouges,rené
 guenon,antigones,hezbollah,vive le
 québec libre

mercredi, 06 novembre 2013

Du P.S.

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Du P.S.

par Georges FELTIN-TRACOL

 

Le thème principal du n° 44 (été 2013) de la revue quadrimestrielle Réfléchir et Agir porte sur le socialisme identitaire. À côté de diverses contributions, on peut lire un bref débat sur le mot même de socialisme entre l’ami Eugène Krampon et l’auteur de ces lignes. Eugène soutient la nécessité d’en conserver le terme parce qu’il demeure compréhensible, en dépit de tous les dévoiements imaginables, alors que le solidarisme et le justicialisme restent obscurs pour les populations européennes.

 

La question sémantique garde toute son importance dans la guerre des idées. Si le socialisme devient identitaire ou « européen » comme l’écrivait régulièrement Jean Mabire, il importe néanmoins d’en redéfinir le concept et de lui redonner un sens révolutionnaire, novateur et rebelle, quitte éventuellement à le reformuler à l’aune de la quatrième théorie politique conceptualisée par Alexandre Douguine. Ce travail lexical exige en priorité une claire distinction du Parti socialiste (P.S.) de Flamby, de Jean-Marc (Z)Ayrault et d’Harlem Désir ainsi que de leurs pitoyables homologues sociaux-démocrates.

 

La tâche semble impossible. En réalité, elle est fort simple grâce du fait des reniements successifs des dirigeants du P.S. Lui-même ancien responsable de la formation de Léon Blum, de Guy Mollet et de François Mitterrand, le co-président du Parti de Gauche, Jean-Luc Mélenchon, assène de rudes coups à ses anciens camarades. Favorable à l’« éco-socialisme » dans une perspective développementaliste et industrialiste, Mélenchon s’estime seul véritable héritier de Jean Jaurès et des ténors du socialisme institutionnalisé. Avec la virulence qu’on lui connaît, il ose dénier au P.S. – aujourd’hui au pouvoir – de se qualifier de « socialiste » et préfère le nommer avec un mépris superbe de « solférinien », de la célèbre adresse parisienne de son siège national du P.S., rue de Solférino.

 

Pour une fois, le camarade Mélenchon a raison de contester à son ancien parti l’emploi du mot « socialiste ». Depuis le tournant de la rigueur en 1983, le P.S. s’est plié au Diktat des marchés mondiaux, de la finance planétaire et de l’Oligarchie transnationale. Sa soumission au mondialisme après avoir célébré pendant des décennies un internationalisme éthéré a été récompensée par la nomination à la direction générale de l’O.M.C. et du F.M.I. de Pascal Lamy et de Dominique Strauss-Kahn. Les « solfériniens » ont tué leur socialisme au nom du financiarisme le plus débridé.

 

Cette trahison, en germe dès la naissance de la S.F.I.O. en 1905 avec les possibilistes et les partisans de l’action parlementaire, s’accompagne d’un changement profond de l’électorat « socialiste ». Si les ouvriers, les employés et le gros des catégories populaires et moyennes l’ont délaissé, une compensation s’effectue avec de nouveaux électeurs issus des couches intermédiaires aisées, des catégories sociales à haut revenu et des effets d’une immigration de peuplement massive. Dompté et désormais laquais du fric sans frontières (pléonasme !), le P.S. détourne son désir de révolution en s’attaquant aux normes culturelles traditionnelles européennes.

 

Hantant les coulisses d’un pouvoir légal mais illégitime, les « solfériniens » propagent par différents canaux des thèmes homosexualistes (le mariage inverti), relativistes (réformes judiciaires qui livrent l’Hexagone à la délinquance), libertaires (dépénalisation du cannabis, voire de toutes les drogues) et extrême-féministes (pénalisation des clients de prostituées, interdiction de la fessée et de la gifle adressées aux enfants par leurs parents) qui ne répondent pas aux attentes de la population. Qu’il est loin le temps où les députés socialistes comptaient parmi eux Alfred Gérault-Richard (1860 – 1911) ! D’abord élu du XIIIe arrondissement de Paris entre 1895 et 1898, il sera ensuite le représentant de la Guadeloupe de 1902 jusqu’à sa mort. Cet ami de Jaurès et d’Aristide Briand conviendrait certainement à la fort prude Najat Vallaud-Belkacem, Pasionaria à la petite semaine du néo-puritanisme gauchard. Auteur d’une courte biographie, Bruno Fuligni le qualifie d’« ouvrier tapissier, maquereau, poète, spadassin, maître chanteur, industriel, séparatiste montmartrois… (1) ». Outre qu’on a l’impression qu’il décrit une formation politique particulière, Bruno Fuligni ne cache pas que Alfred Gérault-Richard vécut un temps grâce aux charmes de sa petite amie… On a enfin dénicher la figure tutélaire d’Osez le féminisme et des FemHaine ! Au moins, cet homme-là n’escroquait pas ses électeurs… La volonté effrénée des nouveaux « gardes roses » de sanctionner des comportements ataviques accompagne la mutation anthropologique hyper-individualiste à l’œuvre.

 

En acceptant le « bougisme », le P.S. a récusé le socialisme pour devenir un Parti sociétaliste. Qu’est-ce que le sociétalisme ? C’est une idéologie post-moderniste qui privilégie le sociétal. Expression venue d’outre-Atlantique, « sociétal » se distingue du « social ». Son « emploi correspond à un déplacement des idées au sein de la gauche », indique Chantal Delsol (2). Selon la philosophe libérale-conservatrice, « le social relève de l’organisation et de la distribution de la production. Il est clairement lié à l’économie, aux biens quantifiables et monnayables, et à leur répartition. Tandis que le terme sociétal est employé pour désigner ce qui a trait aux comportements de l’individu et à l’évolution des mœurs – il s’agit des normes et non plus de la redistribution des biens; cela concerne la famille, le couple, la liberté individuelle, la vie privée, le sens de la vie, et non plus le niveau de vie, le confort, la sécurité (3) ». Elle ne saisit toutefois pas que la perception sociétale convient parfaitement à l’essence liquide de l’ultra-modernité libérale.

 

Bénéficiaires de la mondialisation globale, les sociétalistes ont entamé la démolition des dernières résistances à l’indifférenciation mortifère de la vie et du monde. Après avoir rejeté le spirituel, occulté le politique, hypertrophié l’économique et perverti le culturel, les voilà en train de s’affranchir du social afin de privilégier un sociétal compris comme d’une morale universaliste dissolvante. La félonie est donc totale.

 

Face à cette tendance inquiétante, il est temps de redécouvrir le social, cette dimension réelle, concrète, tangible du politique. Contre les métastases du sociétalisme présentes tant chez les « solfériniens » qu’au sein de la fumeuse U.M.P., la nécessité impose de relever un socialisme véritable, de relancer le solidarisme et d’encourager le justicialisme. Les peuples ne vivent pas en société, mais constituent des ensembles complexes de communautés qui perdurent malgré tout sous les gravats individualistes et médiatiques du sociétal délétère.

 

Georges Feltin-Tracol

 

Notes

 

1 : Bruno Fuligni, La Chambre ardente. Aventuriers, utopistes, excentriques du Palais-Bourbon, les Éditions de Paris – Max Chaleil, 2001, p. 213.

 

2 : Chantal Delsol, « La gauche préfère le “ sociétal ” au “ social ” », Le Figaro, 12 août 2013.

 

3 : art. cit.

 


 

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vendredi, 11 octobre 2013

Le communautarisme selon Costanzo Preve

Le communautarisme selon Costanzo Preve

par Georges FELTIN-TRACOL

 

costanzo-preve_mr.jpgNé en Italie en 1943 de parents italo-arméniens, Costanzo Preve est très tôt attiré par la philosophie et l’histoire. Étudiant à Paris, il suit les cours de Louis Althusser et fréquente Gilbert Mury et Roger Garaudy. Le jeune Preve ne cache pas sa sensibilité marxiste. Enseignant la philosophie au lycée de 1967 à 2002, il prend sa carte au P.C.I. en 1973 avant de rejoindre en 1975 la mouvance gauchiste (Lotta Continua, Democrazia Proletaria), puis, ensuite, le Parti de la Refondation communiste. il abandonne tout militantisme à partir de 1991. Les prises de position de certains de ses « camarades » révolutionnaires en faveur de l’intervention occidentale contre l’Irak l’invitent à réfléchir si bien qu’en 2004, il adhère le Camp anti-impérialiste et collabore à des revues d’opinions très variées, de Comunismo e Comunità à Italicum en passant par Krisis, Eurasia, Comunità e Resistenza ou Bandiera rossa

 

Auteur prolifique, Costanzo Preve n’a pour l’heure que deux ouvrages traduits en français dont l’un, effectué par son ami Yves Branca qui en assume aussi la présentation, est un Éloge du communautarisme. Bien que préfacé par Michel Maffesoli, l’observateur attentif des nouvelles tribus, des communautés spontanées du temps de la Toile numérique et de la « post-modernité » exubérante, il ne faut pas se méprendre sur son sens. Homme de « gauche » (les guillemets ont leur importance), Costanzo Preve n’est pas un théoricien communautarien, ni un communautariste comme l’entendent les vierges effarouchées décaties de la République hexagonale outragée (qui le mérite bien d’ailleurs)… Son point de vue ne se confond pas « avec les partisans de ces quatre formes pathologiques de communautarisme, qui sont à rejeter résolument et sans remords (p. 27) », à savoir les communautés locales et provinciales, le « communautarisme organiciste », le nationalisme et le fascisme, et le communautarisme ethnique fossoyeur des États-nations. Cet Éloge se veut principalement une réflexion philosophique et historique sur la notion de communauté à l’heure du triomphe du libéralisme. Sa démarche s’appuie sur de solides références intellectuelles : Aristote, Hegel et Marx. D’après ce dernier, « son affirmation de la “ lutte des classes ” est indéniable, mais à ses yeux, la lutte des classes n’était qu’un moyen pour arriver à une fin : la communauté précisément (p. 28) ».

 

Avec la modernité et la fin de la société holiste, comment l’individu peut-il s’insérer dans des communautés sans que celles-ci ne deviennent pour lui des cadres d’aliénation ? Telle est la problématique que pose l’auteur avec une évidente sincérité. « Tout éloge véritable qui n’est pas une adulation hypocrite ne doit pas dissimuler les défauts de son propre objet; c’est, au contraire, s’il les met en évidence qu’il mérite le titre d’ “ éloge ” (p. 29). »

 

Communautés natales contre communautarisme artificiel

 

Après bien d’autres, Costanzo Preve affirme que « l’homme est par nature un être social et communautaire, ou plus précisément un être naturel générique (p. 212) ». Or, « dans la tradition occidentale, l’idée de communauté (ou plus exactement de communauté politique démocratique) naît avec l’élément potentiellement dissolvant qui lui est conjoint, c’est-à-dire l’individu libre et pensant, lequel pense souvent à l’encontre des membres de sa communauté même (p. 30) ». Il précise même : « Si nous entendons sortir d’un enfermement provincial et voulons adhérer à un processus historique d’universalisation humaine qui soit autre chose que son actuelle parodie, laquelle universalise uniquement la forme-marchandise qui uniformise tous les êtres humains selon le seul modèle du producteur et du consommateur manipulé, nous ne pouvons éviter la question cruciale de ce qui peut être le meilleur point de départ d’un dialogue entre les communautés et les civilisations du monde. Ce ne saurait être l’individu isolé, l’individu – atome, qualifié quelquefois tout simplement de “ multiculturel ”, comme si un atome multiculturel pouvait cesser d’être un atome; mais seulement un individu social, ce qui signifie : un individu dans une communauté. Dès lors, je ne vois pas pourquoi l’on ne pourrait appeler “ communautarisme ” le point de vue de l’individu situé dans une communauté, fût-ce, cela va de soi, d’une manière critique et anticonformiste (p. 29). » En dépit de ses défauts, « la communauté est le seul lieu où l’homme contemporain puisse réaliser conjointement sa double nature rationnelle et sociale (p. 239) », d’où son souhait d’un communautarisme universaliste et progressif, car « la solidarité et la liberté sont l’une et l’autre nécessaires (p. 240) ». L’auteur relève toutefois que le processus de modernité n’arrive pas à éliminer la forme communautaire en tant que donnée permanente. Il peut l’écarter, l’exclure, la contenir, mais pas l’effacer. C’est la raison pour laquelle « le capitalisme tend à détruire et à dissoudre les communautés souveraines, pour créer à la place des communautés factices (p. 225) ». Le Système vomit l’enracinement tout en encensant simultanément une soi-disant culture gay élaborée par d’une nouvelle communauté dont la consistance historique serait tout aussi probante que celles des Bretons, des Basques ou des Corses.

 

Si le Système valorise des communautés nouvelles à l’appartenance subjective incertaine (à quand des quotas légaux aux élections pour les philatélistes, les ramasseurs de champignons ou les porteurs de lunettes ?), il n’hésite pas, le cas échéant, à fomenter « l’ethnicisation et la régionalisation des conflits [qui] forment par conséquent des terrains d’intervention et d’intrusion contre les peuples et les nations (p. 50) ». Contre ce dévoiement pernicieux, Costanzo Preve qui juge vaines les recherches en faveur d’une troisième voie sérieuse, lie son « communautarisme » à l’idéal communiste. « On peut définir le communisme, brièvement, comme une forme radicale et extrême de communautarisme (p. 73). » Mieux, ce communisme s’épanouit au sein d’un ensemble collectif d’ordre civique. « La politique est une propriété indivise de la communauté toute entière (p. 68). » Un marxisme bien compris devient de la sorte un facteur d’épanouissement. Par conséquent, « oubliez tout ce que vous avez cru savoir sur Marx et le marxisme ! (p. 154) », car « Marx s’est trouvé incorporé dans un appareil idéologique qui ne fut d’abord que politique et syndical, mais qui devint ensuite véritablement étatique et géopolitique (p. 154) ». L’auteur réhabilite la conception marxiste de la nation et mentionne Otto Bauer, les austro-marxistes ainsi que Staline. « L’idée de nation faisait partie intégrante de la tradition marxiste et socialiste (p. 198). »

 

Costanzo Preve témoigne son attachement à la nation qui lui paraît la communauté la plus appropriée pour le partage d’un destin commun. Le Système agresse sans cesse l’idée nationale. L’auteur note que « le nouveau cycle de guerres qui s’est ouvert par la honteuse dissolution du communisme historique réel du XXe siècle (qu’il faut appeler ainsi pour le distinguer du communisme utopico-scientifique de Marx – cet oxymore étant évidemment volontaire) a pour logique la formation d’un Nouvel Ordre Mondial (pp. 38 – 39) ». Pis, « le monde actuel, qui se présente sous le mensonge d’une démocratie libérale fondée sur la religion universaliste des droits de l’homme, est en réalité un totalitarisme de l’économie, géré par une oligarchie politique qui se légitime moyennant des référendums périodiques, lesquels supposent la totale impuissance des opposants en fait de projet. La dictature de l’économie ne se présente plus sous la forme de celle, ridiculement faible et instable, de personnages politiques solitaires et charismatiques comme Mussolini, Hitler, Franco, Peron, Staline ou Tito, mais désormais sous la forme infiniment plus puissante de la dictature de forces et de grandeurs rigoureusement anonymes et impersonnelles, et partant invincibles : les “ marchés ”, la “ productivité ”, la “ concurrence internationale ”, le “ vieillissement de la population ”, l’« impossibilité de sauvegarder le système de la sécurité sociale et des retraites », etc. Si la forme personnelle et dilettante des vieilles dictatures politiques charismatiques s’est révélée une espèce fragile d’un point de vue darwiniste, la nouvelle forme “ professionnelle ” de la dictature systémique et impersonnelle de quantités économiques affranchies de tout “ anthropomorphisme ” paraît plus stable (p. 55) ».

 

La démocratie subvertie par le mondialisme

 

copr191462500.jpgL’auteur souligne enfin que « la démocratie ne garantit pas la justesse de la décision; bien au contraire, avalisant de son autorité des choix criminels, elle est pire encore que la tyrannie, parce que celle-ci, en tant qu’origine constante de décisions arbitraires et criminelles, est au moins facile à démasquer, tandis qu’en démocratie, le style “ vertueux ” et légal des décisions prises à la majorité réussit le plus souvent à cacher la nature homicide de certains choix sous le rideau de fumée des formes institutionnellement corrects (p. 67) ». La célébration irréfléchie de la démocratie moderne individuelle, voire individualiste, bouleverse l’agencement géopolitique planétaire. « Le monde précédent, qu’il s’agit de détruire, est celui du droit international des relations entre États souverains, celui de la négociation entre sphères d’intérêts et d’influence, le monde du droit de chaque nation, peuple et civilisation à choisir souverainement ses propres formes de développement économique et civil (p. 39). » Le Nouvel Ordre Mondial prépare désormais « l’inclusion subalterne de tous les peuples et nations du monde dans un unique modèle de capitalisme libéral, où ce qui sera le plus défendu, même et surtout par les armes, sera moins l’entrée que, justement, la sortie (p. 39) ». Il favorise l’éclatement des États en privilégiant les communautarismes subjectifs, volontaires ou par affinité. « Cent ou cent cinquante États souverains dans le monde sont à la fois trop, et trop peu, pour la construction d’un Nouvel Ordre Mondial. Trop, parce qu’il y en a au moins une trentaine qui sont pourvus d’une certaine consistance et autonomie économique et militaire, ce qui complique les manèges pour arriver au contrôle géostratégique de la planète. Mais en même temps peu, parce que si l’on vise un contrôle géopolitique et militaire plus commode, l’idéal n’est pas le nombre actuel des États; ce serait un panorama de mille ou deux mille États plus petits, et donc plus faibles militairement, plus vulnérables au chantage économique, formés par la désagrégation programmée et militairement accélérée des anciens États nationaux divisés comme une mosaïque selon l’autonomie de toutes les prétendues “ ethnies ” qui sont présentes sur leur territoire (pp. 49 – 50). »

 

Dans cette nouvelle configuration pré-totalitaire apparaît la figure utilitaire du terroriste qui « représente un ennemi idéal, parce qu’étant par nature sans territoire propre, il semble avoir été fait exprès pour les forces qui veulent précisément “ déterritorialiser ” le monde entier, en ruinant l’indépendance des peuples et des nations et la souveraineté des États. Pour ces forces, le monde doit être transformé en une sorte d’« espace lisse », sans frontières, adéquat à la rapide fluidité des investissements des capitaux et de la spéculation financière, il faut donc qu’il n’y ait plus de “ territoires ” pourvus d’une souveraineté nationale et économique indépendante (p. 47) ».

 

Il existe bien entendu d’autres formes de pression totalitaires. Par exemple, « l’agitation permanente de la bannière de l’antifascisme en l’absence complète de fascisme, ou de celle de l’anticommunisme sans plus de communisme, doit être interprété comme le symptôme d’un déficit de légitimation idéale de la société contemporaine (p. 91) ». Attention quand même aux contresens éventuels. Costanzo Preve ne se rallie pas à l’« extrême droite ». Il affirme plutôt que « l’antifascisme ne fut pas seulement un phénomène historiquement légitime, ce qui est évidente, mais un moment lumineux de l’histoire européenne et internationale (p. 190) ». Il souligne que « Auschwitz est injustifiable, mais l’extermination technologique de la population d’Hiroshima et de Nagasaki l’est tout autant, tout comme l’anéantissement de Dresde, à quelques semaines de la fin de la guerre, dont les auteurs furent récompensés par des médailles, au lieu d’être enfermés dans des prisons spéciales. Treize millions d’Allemands furent déportés par des décisions prises à froid et sans aucune raison stratégique, la guerre étant terminée, à partir de terres allemandes comme la Prusse et la Silésie. Au cours de leur transfert, il y eut plus de deux millions de morts, auxquels s’ajoutèrent un million sept cent mille Allemands qu’après la fin de la guerre, en pleine reprise de la surproduction alimentaire, on laissera mourir de faim dans les camps de concentration français et américains (pp. 192 – 193) ».

 

Un communautarisme des Lumières ?

 

cop22.jpgSous les coups violents du Nouvel Ordre Mondial, la société européenne se transforme, contrainte et forcée. Dénigrées, contestées, méprisées, les vieilles communautés traditionnelles sont remplacées par des communautés artificielles de production et de consommation marchande. Costanzo Preve décrit avec minutie les ravages planétaires de l’hybris capitaliste. Si « le capitalisme aime habiller les jeunes gens et à leur imposer par là, au travers de nouvelles modes factices, des profils d’identification pseudo-communautaire. Cela se fait surtout par le phénomène du branding, c’est-à-dire du lancement de marques. […] Il est de règle que le capitalisme, non content d’habiller le corps des jeunes déshabille celui des femmes. D’où sa frénésie contre l’islam, dont l’hostilité s’étend jusqu’au foulard le plus discret, mais aussi son irrésistible pulsion vers les minijupes et les showgirls très dévêtues des jeux télévisés (pp. 216 – 217) ». Il perçoit en outre que « le capitalisme ne vise […] pas à faire de vieillards une communauté séparée, mais cherche plutôt à réaliser leur complète ségrégation (p. 219) » parce que « dans l’imaginaire capitaliste, la mort elle-même paraît obscène, parce qu’elle interrompt définitivement la consommation (p. 218) ». Le Système fait assimiler implicitement le vieillissement, la vieillesse avec la disparition physique… Quant à une métastase de ce capitalisme mortifère, le féminisme, ses revendications font que « pour la première fois dans l’histoire de l’humanité, la figure asexuée de l’entrepreneur réalise le rêve (ou plutôt le cauchemar) du pur androgyne (p. 224) ». Le capitalisme illimité dévalue tout, y compris et surtout les valeurs. Favorise-t-il donc un état complet d’anarchie globale ? Nullement ! Le champ de ruines spirituel, moral et sociologique assure le renforcement de la caste dirigeante parmi laquelle le « peuple juif qui de fait est aujourd’hui investi du sacerdoce lévitique globalisé du monde impérial américain, dans lequel la Shoah devra remplacer (ce n’est qu’une question de temps) la Croix comme le Croissant, l’une et l’autre peu adaptés à l’intégrale libéralisation des mœurs que comporte l’absolue souveraineté de la marchandise (p. 194) ».

 

Preve n’est pas négationniste. Il observe cependant que dans le Nouvel Ordre Mondial, « la sacralisation de ce droit absolu à la possession de tous est obtenue par une nouvelle religion, qui se substitue à la Croix comme au Croissant, la religion de la Shoah, dans laquelle Auschwitz, détaché de son contexte historique, est érigé en principe universel abstrait exigeant d’abolir le droit international “ de sorte que cela ne puisse plus jamais arriver dans l’avenir ” – tandis que Hiroshima, et ce n’est pas un hasard, a seulement été “ déploré ”, et non pas criminalisé comme Auschwitz, et continue d’être brandi comme une menace toujours possible contre les “ nouveaux Hitler ”… (pp. 116 – 117) ».

 

Suite à ses propos qu’on peut sciemment mal interpréter, Costanzo Preve pourrait faire l’objet d’attaques perfides alors qu’il se réclame de l’héritage des Lumières. Pour lui, « l’État est en fait l’organe qui réalise le programme de la modernité des Lumières, mais selon une interprétation communautaire et non point individualiste (p. 145) ». L’« idéologie des Lumières » ne forme pas un bloc monolithique. Si, en France, elle est progressiste, on ignore souvent qu’en Allemagne ou en Angleterre, elle présente un important versant conservateur. Preve cherche-t-il soit une nouvelle synthèse post-moderne, soit une réactivation d’un « conservatisme lumineux » ? Il se déclare ainsi « favorable au mariage des prêtes catholiques (dont le mariage des popes orthodoxes et des pasteurs protestants constitueraient des précédents historiques), à l’ordination sacerdotale des femmes dans la confession catholique et à de pleins droits civils pour les gays et lesbiennes (mais dans les formes du P.A.C.S., non dans celle du “ mariage ”, qui est inutilement provocatrice) (p. 124) ». Il approuve dans le même temps la place historique de l’Église catholique même s’il ignore le rôle majeur joué par le christianisme celtique dans la réévangélisation de l’Europe de l’Ouest au Haut – Moyen Âge. Mutatis mutandis, le christianisme celtique, s’il s’était maintenu, fortifié et développé, aurait été probablement le pendant occidental de l’Orthodoxie et permis la constitution à terme d’Églises catholiques européennes autocéphales aptes à résister aux assauts de la modernité. Au contraire, du fait d’une centralisation romaine continue, l’Église catholique a accepté sa sécularisation.

 

Pour preuve irréfragable, Costanzo Preve rappelle que « le théologien Joseph Ratzinger, qui est devenu pape, a du reste posé lui-même d’une manière extrêmement intelligente la question du bilan de la pensée des Lumières dans son débat avec Jürgen Habermas, où il a soutenu que les Lumières n’avaient pas été seulement bonnes, mais providentielles, parce que leur intervention historique avait “ corrigé ” les erreurs et même, dans certains cas, les crimes de l’Église. […] Il […] semble [à Preve] qu’il serait encore plus sot d’être plus traditionaliste et catholique que Joseph Ratzinger (p. 131) ». De pareils propos confirment l’argumentaire sédévacantiste.

 

Son appréciation sur Ratzinger est-elle vraiment sérieuse et fondée ? Catholique, Benoît XVI peut l’être dans l’acception d’« universel ». L’Église romaine a toujours cherché à au moins superviser les pouvoirs temporels. Au XXe siècle, un penseur catholique de renom, Jacques Maritain, défend une supranationalité papiste de dimension européenne, occidentale, voire atlantiste. On retrouve cette influence dans l’encyclique Caritas in veritate du 7 juillet 2009. Se référant à une conception dévoyée de la subsidiarité, le souverain pontife énonce que « le développement intégral des peuples et la collaboration internationale exigent que soit institué un degré supérieur d’organisation à l’échelle internationale de type subsidiaire pour la gouvernance de la mondialisation (paragraphe 67) ». Il ajoute qu’« il est urgent que soit mise en place une véritable Autorité politique mondiale […]. Cette Autorité devra […] être reconnue par tous, jouir d’un pouvoir effectif pour assurer à chacun la sécurité, le respect de la justice et des droits. Elle devra évidemment posséder la faculté de faire respecter ses décisions par les différentes parties, ainsi que les mesures coordonnées adoptées par les divers forums internationaux (paragraphe 67) ». Il apparaît clairement que le Vatican est dorénavant un relais sûr du Nouvel Ordre Mondial. À la décharge de Costanzo Preve, son Éloge a été publié en 2007 et il ne pouvait pas deviner la portée mondialiste de ce texte. Benoît XVI n’est pas traditionaliste. N’oublions jamais que le véritable catholicisme traditionnel, communautaire et sacral qui rayonnait à l’époque médiévale fut assassiné par l’incurie pontificale, la Réforme protestante et sa consœur honteuse, la Contre-Réforme catholique !

 

Nonobstant ces quelques critiques, cet Éloge du communautarisme demeure une belle réflexion sur une question déterminante pour les prochaines décennies : les communautés humaines natives résisteront-elles au XXIe siècle ?

 

Georges Feltin-Tracol

 

• Costanzo Preve, Éloge du communautarisme. Aristote – Hegel – Marx, préface de Michel Maffesoli, Krisis, 2012, 267 p., 23 €.


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mercredi, 03 juillet 2013

Un socialisme identitaire ?...

Un socialisme identitaire ?...

La revue Réfléchir et Agir publie dans son dernier numéro (n°44 - été 2013), disponible en kiosque, un dossier sur le socialisme identitaire...

 

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Au sommaire :

Médias

Mc Luhan, le prophète de la modernité


Dossier : Face à la gauche et à la droite du capital, notre socialisme identitaire

Renouons avec notre socialisme

Notre tradition anticapitaliste et sociale

Le capitalisme, un génocide culturel

Entretien avec Pierre Jovanovic

Entretien avec Roberto Fiorini

Comment la gauche a trahi le monde du travail

Débat : peut-on encore se dire socialiste ?

Autour de quelques axes de travail


Entretien

Gérard de Villiers

 

Hommage

Dominique Venner

 

Réflexion

Giorgio Locchi, le mythe surhumaniste

 

Littérature

Giono, l'expèrience du Contadour

 

Un livre est un fusil

Jean-Yves Le Gallou : la tyrannie médiatique

 

Cinéma

Jess Franco, l'Ed Wood du bis européen

 

Art

Quand Marinetti et les siens écrivaient le futur

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mardi, 07 mai 2013

Relire le Capital au-delà de l’économie

Relire le Capital au-delà de l’économie

Pierre Le Vigan
 
Paul Boccara fut longtemps un des principaux responsables avec Philippe Herzog de la section économique du PCF, des années 1970 aux années 90. Il est resté, contrairement à Philippe Herzog rallié à une vision libérale de l’Europe, attaché à ne pas jeter par-dessus bord l’héritage de la pensée marxiste.
 
Paul Boccara est l’auteur de travaux pertinents à l’époque mais datés sur le capitalisme monopoliste d’Etat (CME). Mais on lui doit aussi des essais regroupés sous le titre Sur la mise en mouvement du ‘’Capital’’ et parus en 1978 (éditions sociales-Terrains). Il y explorait le caractère dynamique et inachevé du Capital de Marx. Il appelait à prolonger Marx dans une réélaboration continue. Il s’attachait aussi à rejeter à la fois l’antihumanisme théorique de Louis Althusser et l’hyper humanisme philosophique de Roger Garaudy (celui des années 70), discutant aussi les conceptions de Maurice Godelier.
 
 
Le dernier essai de Paul Boccara prolonge ces travaux. Ce que l’auteur retient de Marx c’est non pas une doctrine figée mais la tentative de saisir la réalité phénoménale du capitalisme. Paul Boccara retient d’abord le projet fondateur de Marx, celui d’une critique de l’économie politique, autrement dit la volonté d’aller au-delà de l’économie, de reconstruire la société sur d’autres bases que les liens économiques entre les hommes. C’est la veine associationniste de Marx qui est mise en valeur ici. 
 
Avec l’idée d’anthroponomie Boccara reprend l’idée de Marx comme quoi le capitalisme représente une révolution anthropologique 
 
Le point de vue de Marx que Paul Boccara reprend particulièrement est le fait que le capitalisme changerait la nature humaine elle-même, constituant une révolution anthropologique, agissant sur les sphères non économiques de la vie humaine, ce que P. Boccara appelle l’anthroponomie, une idée centrale chez Marx. « En même temps que l’homme agit par ce mouvement de la production sur la nature extérieure  et la modifie, il modifie sa propre nature » (Marx, Le Capital, Livre I). Cette hypothèse de la production de l’homme par lui-même est présente chez Marx dès les Manuscrits de 1844. 

 
En outre, dans la lignée du Livre III du Capital, P. Boccara développe une analyse de la suraccumulation/dévalorisation du capital qui l’amène à mettre en cause avant tout le gaspillage capitaliste des êtres humains. C’est donc moins en fonction (ou pas seulement) de l’objectif d’une efficacité économique supérieure que d’un souci d’aller au-delà de l’économie que l’auteur se réfère à Marx, critique radical de l’économisme. De même, l’auteur développe des points de convergence entre analyses néo-marxistes et analyses néo-keynésiennes, Keynes ayant été pionnier en affirmant que « le développement du capital devient le sous-produit de l’activité d’un casino » (Théorie générale).
 
C’est pourquoi sur de nombreux points, Paul Boccara rejoint les propositions du collectif des « Economistes atterrés ». Très justement, Boccara insiste sur le choix par Marx de formes politiques décentralisées, autogestionnaires, au rebours de ses premières tendances, sous l’influence de la Révolution française, à la reprise des thèmes du centralisme révolutionnaire (Auguste Blanqui) et même de l’invention du concept de dictature du prolétariat. 
 
Marx n’était pas léniniste : il était pour l’autonomie ouvrière !
 
Il y a toutefois 3 points faibles dans les analyses de Paul Boccara. Face au capitalisme mondialisé, il ne comprend pas que la démondialisation est désormais la condition non suffisante mais nécessaire du dépassement du capitalisme et pour le dire plus clairement de la sortie du capitalisme car c’est de cela qu’il doit s’agir. La démondialisation est aussi une conséquence inévitable de la crise écologique. En outre, cette démondialisation ou relocalisation est cohérente par rapport à l’objectif marxiste de désaliénation. 

 
En second lieu, Paul Boccara prône une gouvernance mondiale. Faisant cela, il sous-estime, contrairement à Marx, le rôle nécessaire et persistant du politique. Or, si le politique retentit sur le monde, son lieu privilégié n’est pas le monde au sens de « les terriens » mais les peuples. On habite le monde mais on est citoyen d’un peuple, ou d’une communauté de peuples. 
 
Le libéralisme est anticonservateur au plan sociétal
 
Enfin, P. Boccara semble aveugle, contrairement à Jean-Claude Michéa ou Costanzo Preve - et aussi Francis Cousin -, au fait que le libéralisme est fondamentalement anticonservateur au plan sociétal, et que le capitalisme s’alimente d’une nouvelle culture pseudo-libertaire – le « nouvel esprit du capitalisme » étudié par Luc Boltanski et Eve Chiapello -, une culture qui, au nom de l’autonomie et des « droits » de l’individu aboutit à marchandiser tous les hommes et tout dans l’homme. Une élue du Parti socialiste, Christine Meyer, maire adjointe de Nantes, disait récemment : «En tant que femme de gauche, je fais un lien entre le libéralisme économique qui vise à supprimer toute norme ou règle faisant obstacle à la circulation généralisée des marchandises et la libération infinie des désirs qui elle aussi refuse toute norme ou obstacle.» (Marianne, 27 janvier 2013). On peut imaginer la formidable analyse que Marx aurait fait de ce processus. 
 

mercredi, 24 avril 2013

Sorel y el Sindicalismo Nacional

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Sorel y el Sindicalismo Nacional

 Gustavo Morales

Ex: http://alternativaeuropeaasociasioncultural.wordpress.com/

Si alguien se atreve a levantar su voz contra las ilusiones del racionalismo en el acto es considerado como un enemigo de la democracia

Georges Sorel (1847-1922) era un ingeniero francés, padre del revisionismo revolucionario que supera el carácter materialista del marxismo y llegará a ser básico para la génesis del fascismo. El ambiente intelectual de Sorel se enmarca en el Barrio Latino de París, muy lejos de las frías escuelas teoréticas de Viena.
Marxista confeso, Sorel pretende, originalmente, completar el pensamiento de su maestro. A principios del siglo XX el pensamiento socialista debe enfrentarse a una serie de problemas nuevos, difícilmente explicables mediante el análisis marxista ortodoxo. Sorel se desmarca de las estructuras racionalistas y destaca que el marxismo es la construcción de un mito revolucionario para ilusionar a las masas, negando su valor como explicación racional de la realidad.
Sorel niega el valor del racionalismo, al que acusa de corruptor. Antepone a Pascal y a Bergson frente a Descartes y a Sócrates. Sorel sustituye los fundamentos racionalistas y hegelianos del marxismo por:
1.- La nueva visión de la naturaleza humana que predica Le Bon, quien aconseja que "para vencer a las masas hay que tener previamente en cuenta los sentimientos que las animan, simular que se participa de ellos e intentar luego modificarlos provocando, mediante asociaciones rudimentarias, ciertas imágenes sugestivas; saber rectificar si es necesario y, sobre todo, adivinar en cada instante los sentimientos que se hacen brotar". Resume Le Bon que "la razón crea la ciencia, los sentimientos dirigen la historia".
2.- Por el anticartesianismo de Bergson. Las enseñanzas de Bergson permiten sustituir el contenido racionalista, es decir, utópico, del marxismo por los mitos revolucionarios. Sorel afirma que todo gran movimiento viene motivado por mitos. El método psicológico toma el relevo al enfoque mecanicista tradicional (1899), frente al método científico, el recurso a una teoría de los mitos sociales. Sorel no repudia el marxismo, incluso llega a defenderlo contra algunos socialistas democráticos. Se debe a que considera que no existe ninguna relación entre la verdad de una doctrina y su valor operativo en tanto que instrumento de combate. Sorel desplaza el mito de la esfera del intelecto y lo instala en la de la afectividad y la actividad. Una mentalidad religiosa contra la mentalidad racionalista. Sorel recuerda que Bergson nos ha enseñado que la religión no ocupa en exclusiva la región de la conciencia profunda, la ocupan también, por las mismas razones, los mitos revolucionarios. Con ello, Sorel rechaza el presunto carácter científico del marxismo y niega la posibilidad de la explicación social en términos cuasi matemáticos.
3.- Por la rebelión de Nietzsche.. La única actitud coherente del revolucionario es la negación de los valores imperantes y la afirmación de otros nuevos y rebeldes. En Reflexiones sobre la violencia, Sorel afirma: Los mitos no son descripciones de cosas, sino expresiones de voluntad... conjuntos de imágenes capaces de evocar en bloque y exclusivamente a través de la intuición, previamente a cualquier tipo de análisis reflexivo, la masa de los sentimientos que corresponden a las diversas manifestaciones de la guerra librada por el socialismo en contra de la sociedad moderna. Sorel identifica mito y convicciones, entendiendo éstas en términos de las ideas y creencias de Ortega. Sorel distingue entre la ética del guerrero, que apoya, y la del intelectual, que condena: Ya no hubo soldados ni marinos, sólo hubo tenderos escépticos.

Fases del pensamiento soreliano

Socialismo marxista

En una primera fase, los sorelianos metamorfosean el marxismo, construyen una nueva ideología revolucionaria, desechando las teorías marxistas de plusvalor y de clase. Sorel vacía el marxismo de hedonismo y de materialismo, haciéndolo pasar de ser una máquina intelectual esclerotizada a una fuerza movilizadora en pos de la destrucción de lo que existe, el mundo materialista burgués. La teoría de los mitos se vuelve el motor de la revolución y la violencia su instrumento: La violencia proletaria, no sólo puede garantizar la revolución futura, sino que, además, parece ser el único medio de que disponen las naciones europeas, embrutecidas por el humanismo, para recobrar su antigua energía. Para Sorel, sólo los hombres que viven en estado de tensión permanente pueden alcanzar lo sublime. En esa vía, Sorel reivindica el cristianismo primitivo y el sindicalismo de combate de su tiempo. No nos molestaremos en demostrar que la idea de violencia revolucionaria no se ciñe al derramamiento de sangre ni a la brutalidad, que son inherentes a la explotación del trabajador, camuflada bajo la cortina de humo del sufragio partitocrático. Por esa vía, también la crítica del sociólogo Pareto al marxismo, base de su teoría de las élites, se acerca a la de Sorel.
 

Sindicalismo nacional

En una segunda fase, a partir de que Sorel abandona el socialismo (1909), el mito nacional sustituye al mito exclusivamente proletario, ya desalentado en la lucha contra la decadencia democrática y racionalista. La enseñanza obligatoria, la alfabetización en las zonas rurales, el acceso lento pero continuo de la clase obrera a la cultura, no favorecen la conciencia de clase del proletariado, sino más bien una nueva toma de conciencia de la identidad nacional. Los sorelianos ven la organización de la sociedad en términos sindicalistas. Sorel cree que el sindicalismo, en su lucha contra la dictadura de la burguesía y la dictadura del proletariado, ambas materialistas, posee un alto valor civilizatorio. La influencia de Sorel se refleja en el parlamento de productores defendido por José Antonio, así como en la afirmación: Concebimos a España como un gigantesco sindicato de productores. Ledesma asumirá, además, el término de sindicalismo nacional que se extiende entre los sorelianos franceses e italianos. A la postre, lo nacional vira hacia formas de sindicalismo al igual que los sindicalistas varían hacia diferentes escuelas de nacionalismo. Asumen, también, de Sorel que la disciplina, la autoridad, la solidaridad social, el sentido del deber y del sacrificio, los valores heroicos, son otras tantas condiciones necesarias para la supervivencia de la nación. El mito nacional releva al mito meramente social como motor revolucionario. Para ello, es preciso que la convicción se apodere absolutamente de la conciencia y actúe antes que los cálculos de la reflexión hayan tenido tiempo de aparecer en el espíritu. Es decir, opta por la opción de la nueva civilización que nace de la acción directa antes de la reflexión teórica. Aquí Ledesma recibe una mayor influencia soreliana que José Antonio, que a pesar de su renuncia a la torre de marfil de los intelectuales siente una cierta nostalgia por ella, visible en su Elogio y reproche a Ortega y Gasset.
La vanguardia cultural de la primera década del siglo XX, los futuristas, reciben con entusiasmo las ideas sorelianas prefascistas: Los elementos esenciales de nuestra poesía serán el coraje, la audacia y la rebelión.. Queremos derribar los museos, las bibliotecas, atacar el moralismo (...) Ensalzamos las resacas multicolores y polifónicas de las revoluciones. En pie en la cumbre del mundo, lanzamos una vez más el desafío a las estrellas. (Marinetti, 1909).
Un hecho crucial en la opinión pública occidental está en 1920. Cuando, respaldados por numerosas huelgas parciales y ocupaciones de fábricas en el norte de Italia, los nacionalsindicalistas italianos presenten su propuesta de autogestión de la industria al ministro de Trabajo, Arturo Labriola. El primer ministro Giolitti reconoce el derecho de participación de los trabajadores en las empresas. El nacionalsindicalismo italiano obtiene así una victoria épica.
Con todo ello, los sorelianos abren la tercera vía entre las dos concepciones totales del hombre y la sociedad que son el liberalismo y el marxismo, ideologías presas del racionalismo donde se prescinde de la intuición y del sentimiento en favor de un imposible concepción matemática de las ciencias sociales. El discurso de Sorel se hace transversal, basado fundamentalmente en el poder de los sindicatos pero repudiando el carácter meramente reivindicativo de éstos, es decir, su domesticación en brazos del socialismo parlamentario. Sorel repudia los pactos y acuerdos con la burguesía, así como el sistema de dominio del liberalismo democratizado: el parlamentarismo. Sorel odió tanto a la burguesía y la democracia liberal que recibió con expresiones de júbilo la revolución rusa, a pesar de haber criticado enérgicamente el leninismo de los revolucionarios profesionales. Sorel ve en Lenin la revancha del genio creador del jefe contra la vulgaridad democrática. Aconsejaba a los sindicatos alejarse del mundo corrupto de los políticos y de los intelectuales burgueses, distinguiendo entre conspiración y revolución. Sólo la segunda da vida a una nueva moral. Sólo los trabajadores más militantes -dice Sorel- son sindicalistas: El obrero de la gran industria sustituirá al guerrero de la ciudad heroica. Por tanto, los valores de ambos son comunes y el ascetismo y la eliminación del individualismo suponen características compartidas por el soldado-monje y por el obrero-combatiente. Podemos encontrar coincidencias entre el desarrollo de Sorel y el de Spengler.
 

Fascismo

Sorel no desacreditó el uso que los fascistas hacían de su nombre. De hecho, el fascismo nace de la crítica sindicalista, con un fuerte componente soreliano, al marxismo racionalista ortodoxo. El fascismo se revela contra la deshumanización introducida por la modernización en las relaciones humanas, pero, al contrario que el tradicionalismo, desea conservar celosamente los logros del progreso. La revolución fascista busca transformar la naturaleza de las relaciones entre el individuo y la comunidad sin que por ello sea necesario desbaratar el motor de la actividad económica moderna. Los sorelianos son los primeros revolucionarios surgidos de la izquierda que se niegan a cuestionar la propiedad privada. Consideran que atacarla supone confundir al enemigo real: la concepción burguesa y materialista de la existencia, que también encarnan el jacobino y el socialdemócrata.
 
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Los sorelianos se mantienen fieles a la idea de que todo progreso depende, y dependerá, de una economía de mercado, al igual que hoy defiende el economista joseantoniano Velarde Fuertes, distintas de los planteamientos estatistas de Dionisio Ridruejo. En este punto del debate, los nacionalsindicalistas se escinden, la mayoría pasa a apoyar directamente al fascismo, incluso cuando éste modera su aspecto de transformación económica de la sociedad. Otro pequeño sector, el ala izquierda, rompe con el fascismo y recupera el viejo axioma del sindicalismo revolucionario: la sociedad de trabajadores libres.
El paso de uno a otro es visible en José Antonio en la comparativa del Discurso de la Comedia de 1933 al Discurso de la revolución Española de 1935, en el que enumera cuatro tipos de propiedad: la personal, la familiar, la comunal y la sindical. Están ausentes la estatal y la correspondiente a sociedades anónimas.
En cualquier caso, con la síntesis fascista, la estética revolucionaria y heroica se convierte en parte integrante de la política y de la economía.
 

Conclusión

Sorel, en los artículos reunidos en las Ilusiones del Progreso, denuncia a Descartes, dado que sus ideas lo son de la clase dominante. Desecha el racionalismo que deviene en optimismo al entender el mundo como un inmenso almacén donde todos pueden satisfacer sus necesidades materiales. Sorel pide que el socialismo se transforme en una filosofía de comportamiento moral, donde las relaciones de los trabajadores generen una nueva ética, absolutamente distinta de la moral burguesa, el enemigo real de Sorel.
Sorel abandona el proletarismo cuando comprueba que la violencia obrera, sustentada en las reivindicaciones materiales, no eleva al proletariado al nivel de una fuerza histórica susceptible de engendrar una nueva civilización. Sorel anuncia que el sindicalismo se separa del socialismo racionalista y repudia, finalmente, a Marx y a Hegel. Sorel asume la frase de Croce y afirma: El socialismo ha muerto, cuando descubre, con amargura, que las ideas, preocupaciones, fines y comportamientos del trabajador no difieren de aquellas de los burgueses. El carácter pactista del parlamentarismo liberal ha seducido a los partidos socialistas europeos occidentales y los sindicatos, animados por la acción directa y el mito de la huelga revolucionaria, o se amoldan o se separan radicalmente del socialismo parlamentario.
Sorel se desentiende de las construcciones teóricas que anteceden a la acción. Él es un enamorado del hecho revolucionario, lo que ayuda a comprender su paso del marxismo de combate, que abandona cuando la socialdemocracia se domestica en los parlamentos, y da su posterior adhesión a los procesos de revolución nacional que sacuden Europa.
Cuando el 23 de marzo de 1919, en la plaza San Sepolcro de Milán, Mussolini funda el fascismo italiano, entre los presentes se encuentran muchos sindicalistas sorelianos, hastiados de la connivencia de la burguesía con el Partido Socialista Italiano del que también procede el futuro Duce.
En resumen, el fascismo no nace de la burguesía sino que es una escisión de la izquierda socialista, la fracción de aquellos que abominan del liberalismo parlamentario y consideran que la misión histórica del proletariado no es imponer una dictadura sino crear una civilización.
A la postre el fascismo pierde su empuje revolucionario, es decir, cuando inicia su política de pactos con la burguesía industrial, los partidos nacionales del resto de Europa rompen con él y buscan un nuevo engarce de la revolución nacional con el brío puro y antipolítico de las masas anarcosindicalistas. El mejor ejemplo lo tenemos en Ramiro Ledesma y La Conquista del Estado. Ledesma no opta por el fascismo, a pesar de su viva la Italia de Mussolini o viva la Germania de Hitler, ni por el bolchevismo, también a pesar de su viva la Rusia de Stalin, sino por algo consustancial a todos ellos, el fin de la democracia liberal, ese régimen basado en palabras del soreliano Berth, en el voto secreto...el símbolo perfecto de la democracia. Ved a ese ciudadano, ese miembro de lo soberano, que temblorosamente va a ejercer su soberanía, se esconde, elude las miradas, ninguna papeleta será lo suficientemente opaca para ocultar a las miradas indiscretas su pensamiento....
Ledesma, como Sorel y José Antonio, entienden que el trabajador está llamado a recuperar el sentimiento heroico de la existencia, antaño en manos del guerrero.
Sorel es la superación del mecanicismo marxista.. José Antonio da un paso más, superando el fascismo corporativista y enlazando la cuestión social y la nacional con el compromiso humano y utópico.
En resumen, el fascismo es un revisión del socialismo. El nacionalsindicalismo, al final, supone una superación del carácter material y pactista de ambos, entroncando con el sindicalismo revolucionario y la nacionalización del proletariado, construyendo una sociedad vertebrada sin estatismo.

samedi, 30 mars 2013

Jean-Claude Michéa : « Pourquoi j'ai rompu avec la gauche»...

Jean-Claude Michéa : « Pourquoi j'ai rompu avec la gauche»...

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Nous reproduisons ci-dessous un entretien avec Jean-Claude Michéa, cueilli sur le site de l'hebdomadaire Marianne et consacré à son dernier livre Les mystères de la gauche, publié aux éditions Climats. 

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Jean-Claude Michéa : « Pourquoi j'ai rompu avec la gauche»

Marianne : Vous estimez urgent d'abandonner le nom de «gauche», de changer de signifiant pour désigner les forces politiques qui prendraient à nouveau en compte les intérêts de la classe ouvrière... Un nom ne peut-il pourtant ressusciter par-delà ses blessures historiques, ses échecs, ses encombrements passés ? Le problème est d'ailleurs exactement le même pour le mot «socialisme», qui après avoir qualifié l'entraide ouvrière chez un Pierre Leroux s'est mis, tout à fait a contrario, à désigner dans les années 80 les turlupinades d'un Jack Lang. Ne pourrait-on voir dans ce désir d'abolir un nom de l'histoire comme un écho déplaisant de cet esprit de la table rase que vous dénoncez sans relâche par ailleurs ? 

Jean-Claude Michéa : Si j'en suis venu - à la suite, entre autres, de Cornelius Castoriadis et de Christopher Lasch - à remettre en question le fonctionnement, devenu aujourd'hui mystificateur, du vieux clivage gauche-droite, c'est simplement dans la mesure où le compromis historique forgé, au lendemain de l'affaire Dreyfus, entre le mouvement ouvrier socialiste et la gauche libérale et républicaine (ce «parti du mouvement» dont le parti radical et la franc-maçonnerie voltairienne constituaient, à l'époque, l'aile marchante) me semble désormais avoir épuisé toutes ses vertus positives. A l'origine, en effet, il s'agissait seulement de nouer une alliance défensive contre cet ennemi commun qu'incarnait alors la toute-puissante «réaction». Autrement dit, un ensemble hétéroclite de forces essentiellement précapitalistes qui espéraient encore pouvoir restaurer tout ou partie de l'Ancien Régime et, notamment, la domination sans partage de l'Eglise catholique sur les institutions et les âmes. Or cette droite réactionnaire, cléricale et monarchiste a été définitivement balayée en 1945 et ses derniers vestiges en Mai 68 (ce qu'on appelle de nos jours la «droite» ne désigne généralement plus, en effet, que les partisans du libéralisme économique de Friedrich Hayek et de Milton Friedman). Privé de son ennemi constitutif et des cibles précises qu'il incarnait (comme, la famille patriarcale ou l'«alliance du trône et de l'autel») le «parti du mouvement» se trouvait dès lors condamné, s'il voulait conserver son identité initiale, à prolonger indéfiniment son travail de «modernisation» intégrale du monde d'avant (ce qui explique que, de nos jours, «être de gauche» ne signifie plus que la seule aptitude à devancer fièrement tous les mouvements qui travaillent la société capitaliste moderne, qu'ils soient ou non conformes à l'intérêt du peuple, ou même au simple bon sens). Or, si les premiers socialistes partageaient bien avec cette gauche libérale et républicaine le refus de toutes les institutions oppressives et inégalitaires de l'Ancien Régime, ils n'entendaient nullement abolir l'ensemble des solidarités populaires traditionnelles ni donc s'attaquer aux fondements mêmes du «lien social» (car c'est bien ce qui doit inéluctablement arriver lorsqu'on prétend fonder une «société» moderne - dans l'ignorance de toutes les données de l'anthropologie et de la psychologie - sur la seule base de l'accord privé entre des individus supposés «indépendants par nature»). La critique socialiste des effets atomisants et humainement destructeurs de la croyance libérale selon laquelle le marché et le droit ab-strait pourraient constituer, selon les mots de Jean-Baptiste Say, un «ciment social» suffisant (Engels écrivait, dès 1843, que la conséquence ultime de cette logique serait, un jour, de «dissoudre la famille») devenait dès lors clairement incompatible avec ce culte du «mouvement» comme fin en soi, dont Eduard Bernstein avait formulé le principe dès la fin du XIXe siècle en proclamant que «le but final n'est rien» et que «le mouvement est tout». Pour liquider cette alliance désormais privée d'objet avec les partisans du socialisme et récupérer ainsi son indépendance originelle, il ne manquait donc plus à la «nouvelle» gauche que d'imposer médiatiquement l'idée que toute critique de l'économie de marché ou de l'idéologie des droits de l'homme (ce «pompeux catalogue des droits de l'homme» que Marx opposait, dans le Capital, à l'idée d'une modeste «Magna Carta» susceptible de protéger réellement les seules libertés individuelles et collectives fondamentales) devait nécessairement conduire au «goulag» et au «totalitarisme». Mission accomplie dès la fin des années 70 par cette «nouvelle philosophie» devenue, à présent, la théologie officielle de la société du spectacle. Dans ces conditions, je persiste à penser qu'il est devenu aujourd'hui politiquement inefficace, voire dangereux, de continuer à placer un programme de sortie progressive du capitalisme sous le signe exclusif d'un mouvement idéologique dont la mission émancipatrice a pris fin, pour l'essentiel, le jour où la droite réactionnaire, monarchiste et cléricale a définitivement disparu du paysage politique. Le socialisme est, par définition, incompatible avec l'exploitation capitaliste. La gauche, hélas, non. Et si tant de travailleurs - indépendants ou salariés - votent désormais à droite, ou surtout ne votent plus, c'est bien souvent parce qu'ils ont perçu intuitivement cette triste vérité. 

Vous rappelez très bien dans les Mystères de la gauche les nombreux crimes commis par la gauche libérale contre le peuple, et notamment le fait que les deux répressions ouvrières les plus sanglantes du XIXe siècle sont à mettre à son compte. Mais aujourd'hui, tout de même, depuis que l'inventaire critique de la gauche culturelle mitterrandienne s'est banalisé, ne peut-on admettre que les socialistes ont changé ? Un certain nombre de prises de conscience importantes ont eu lieu. Celle, par exemple, du long abandon de la classe ouvrière est récente, mais elle est réelle. Sur les questions de sécurité également, on ne peut pas davantage dire qu'un Manuel Valls incarne une gauche permissive et angéliste. Or on a parfois l'impression à vous lire que la gauche, par principe, ne pourra jamais se réformer... Est-ce votre sentiment définitif ? 

J.-C.M. : Ce qui me frappe plutôt, c'est que les choses se passent exactement comme je l'avais prévu. Dès lors, en effet, que la gauche et la droite s'accordent pour considérer l'économie capitaliste comme l'horizon indépassable de notre temps (ce n'est pas un hasard si Christine Lagarde a été nommée à la tête du FMI pour y poursuivre la même politique que DSK), il était inévitable que la gauche - une fois revenue au pouvoir dans le cadre soigneusement verrouillé de l'«alternative unique» - cherche à masquer électoralement cette complicité idéologique sous le rideau fumigène des seules questions «sociétales». De là le désolant spectacle actuel. Alors que le système capitaliste mondial se dirige tranquillement vers l'iceberg, nous assistons à une foire d'empoigne surréaliste entre ceux qui ont pour unique mission de défendre toutes les implications anthropologiques et culturelles de ce système et ceux qui doivent faire semblant de s'y opposer (le postulat philosophique commun à tous ces libéraux étant, bien entendu, le droit absolu pour chacun de faire ce qu'il veut de son corps et de son argent). Mais je n'ai là aucun mérite. C'est Guy Debord qui annonçait, il y a vingt ans déjà, que les développements à venir du capitalisme moderne trouveraient nécessairement leur alibi idéologique majeur dans la lutte contre «le racisme, l'antimodernisme et l'homophobie» (d'où, ajoutait-il, ce «néomoralisme indigné que simulent les actuels moutons de l'intelligentsia»). Quant aux postures martiales d'un Manuel Valls, elles ne constituent qu'un effet de communication. La véritable position de gauche sur ces questions reste bien évidemment celle de cette ancienne groupie de Bernard Tapie et d'Edouard Balladur qu'est Christiane Taubira. 

Contrairement à d'autres, ce qui vous tient aujourd'hui encore éloigné de la «gauche de la gauche», des altermondialistes et autres mouvements d'indignés, ce n'est pas l'invocation d'un passé totalitaire dont ces lointains petits cousins des communistes seraient encore comptables... C'est au contraire le fond libéral de ces mouvements : l'individu isolé manifestant pour le droit à rester un individu isolé, c'est ainsi que vous les décrivez. N'y a-t-il cependant aucune de ces luttes, aucun de ces mouvements avec lequel vous vous soyez senti en affinité ces dernières années ? 

J.-C.M. : Si l'on admet que le capitalisme est devenu un fait social total - inséparable, à ce titre, d'une culture et d'un mode de vie spécifiques -, il est clair que les critiques les plus lucides et les plus radicales de cette nouvelle civilisation sont à chercher du côté des partisans de la «décroissance». En entendant par là, naturellement, non pas une «croissance négative» ou une austérité généralisée (comme voudraient le faire croire, par exemple, Laurence Parisot ou Najat Vallaud-Belkacem), mais la nécessaire remise en question d'un mode de vie quotidien aliénant, fondé - disait Marx - sur l'unique nécessité de «produire pour produire et d'accumuler pour accumuler». Mode de vie forcément privé de tout sens humain réel, inégalitaire (puisque la logique de l'accumulation du capital conduit inévitablement à concentrer la richesse à un pôle de la société mondiale et l'austérité, voire la misère, à l'autre pôle) et, de toute façon, impossible à universaliser sans contradiction dans un monde dont les ressources naturelles sont, par définition, limitées (on sait, en effet, qu'il faudrait déjà plusieurs planètes pour étendre à l'humanité tout entière le niveau de vie actuel de l'Américain moyen). J'observe avec intérêt que ces idées de bon sens - bien que toujours présentées de façon mensongère et caricaturale par la propagande médiatique et ses économistes à gages - commencent à être comprises par un public toujours plus large. Souhaitons seulement qu'il ne soit pas déjà trop tard. Rien ne garantit, en effet, que l'effondrement, à terme inéluctable, du nouvel Empire romain mondialisé donnera naissance à une société décente plutôt qu'à un monde barbare, policier et mafieux. 

Vous réaffirmez dans ce livre votre foi en l'idée que le peuple serait dépositaire d'une common decency [«décence ordinaire», l'expression est de George Orwell] avec lesquelles les «élites» libérales auraient toujours davantage rompu. Mais croyez-vous sincèrement que ce soit aujourd'hui l'attachement aux valeurs morales qui définisse «le petit peuple de droite», ainsi que vous l'écrivez ici ? Le désossage des structures sociales traditionnelles, ajouté à la déchristianisation et à l'impact des flux médiatiques dont vous décrivez ici les effets culturellement catastrophiques, a également touché de plein fouet ces classes-là. N'y a-t-il donc pas là quelque illusion - tout à fait noble, mais bel et bien inopérante - à les envisager ainsi comme le seul vivier possible d'un réarmement moral et politique ? 

J.-C.M. : S'il n'y avait pas, parmi les classes populaires qui votent pour les partis de droite, un attachement encore massif à l'idée orwellienne qu'il y a «des choses qui ne se font pas», on ne comprendrait pas pourquoi les dirigeants de ces partis sont en permanence contraints de simuler, voire de surjouer de façon grotesque, leur propre adhésion sans faille aux valeurs de la décence ordinaire. Alors même qu'ils sont intimement convaincus, pour reprendre les propos récents de l'idéologue libéral Philippe Manière, que seul l'«appât du gain» peut soutenir «moralement» la dynamique du capital (sous ce rapport, il est certainement plus dur d'être un politicien de droite qu'un politicien de gauche). C'est d'ailleurs ce qui explique que le petit peuple de droite soit structurellement condamné au désespoir politique (d'où son penchant logique, à partir d'un certain seuil de désillusion, pour le vote d'«extrême droite»). Comme l'écrivait le critique radical américain Thomas Franck, ce petit peuple vote pour le candidat de droite en croyant que lui seul pourra remettre un peu d'ordre et de décence dans cette société sans âme et, au final, il se retrouve toujours avec la seule privatisation de l'électricité ! Cela dit, vous avez raison. La logique de l'individualisme libéral, en sapant continuellement toutes les formes de solidarité populaire encore existantes, détruit forcément du même coup l'ensemble des conditions morales qui rendent possible la révolte anticapitaliste. C'est ce qui explique que le temps joue de plus en plus, à présent, contre la liberté et le bonheur réels des individus et des peuples. Le contraire exact, en somme, de la thèse défendue par les fanatiques de la religion du progrès. 

Jean-Claude Michéa, propos recueillis par Aude Ancelin (Marianne, 12 mars 2013)

mercredi, 27 mars 2013

P. Krebs: l'avènement de l'ethno-socialisme

L'avènement de l'ethno-socialisme

 

Dr. Pierre Krebs

Genève, 20 Janvier, 2013

Ex: http://fierteseuropeennes.hautetfort.com/ 

 

meunierdsc03910.jpgQuand la vérité n’est pas libre, la liberté n’est pas vraie, disait Jacques Prévert. Et il clignait de l’œil. Mais notre peuple à qui on a désappris les valeurs essentielles de la vérité et les règles élémentaires de la liberté ne comprend même plus les clins d’oeil et il se laisse hacher menu, chaque matin, dans la machine-à-mentir du Système quand il ne se couche pas à plat ventre, le visage dans la poussière, devant les idoles en matière plastique de Mammon.

Que faire alors? interroge l’homme révolté.

Et le sage de lui répondre : Traque le mensonge et laisse éclater la vérité sur la place publique! – Fort bien. Seulement, lorsque la vérité a été dite et les mensonges oubliés, il reste encore les menteurs, rétorque l’homme révolté.

Mais l’homme sage se tait. Le rebelle, alors, de lui dire : Écrase l’échine des pleutres de tes bottes et marche droit quand tous se couchent! – Excellente idée. Mais la rébellion d’un desperado ne transforme pas pour autant les lâches en héros, ni une société de cloportes en un peuple brave et fier ni une capitulation en victoire, riposte l’homme révolté!

Mais le rebelle se tait. Le révolutionnaire, alors, prend la parole : Ne perds pas de temps à traquer le mensonge. Laisse les cloportes pourrir dans les poubelles de leur destin. Crée un ordre hiérarchisé de cadres. Délimite les buts. Mets les idées et les valeurs au-dessus des hommes. Pose les jalons de la nouvelle époque!

 

Révolution! Le mot est lâché. Il résonne du cliquetis des armes et de l’entrechoc des idées, les idées qui sont au monde ce que la musique est à l’orchestre. Les révolutions, qui sont les forceps de l’histoire, accouchent, elles, les idées. Leur dénouement n’est jamais que l’aboutissement d’une longue période préparatoire, rebelle par nature au dilettantisme.

De fait : une révolution ne s’improvise pas.

Les révolutionnaires sont des gens sérieux, rigoureux, conséquents et disciplinés. Les charlots finissent vite dans les poubelles! Car une révolution, "il faut la gagner! Une révolution ne se fait qu’une seule fois" prévient Moeller van den Bruck. Le révolutionnaire, préfiguration de l’homme nouveau, a effacé en lui-même tous les stigmates de l’homme ancien.

Il réunit la foi du missionnaire, semeur d’idées et le pragmatisme de l’homme d’action, qui les applique. Son parcours est difficile, laborieux, périlleux. Aucune pression ne peut le faire plier, aucune intrigue le diviser, aucun opportunisme ne peut lui faire changer de cap. Pour l’unique raison qu’il ne cesse, un seul instant, de croire à l’unité incorruptible de sa communauté, à la force rédemptrice de ses idées et à leur accomplissement dans la révolution!

 

Quant à nous, ce n’est ni à Rome, ni à Berlin, et encore moins à Moscou que ce cheminement a commencé, mais sous le soleil torride de l’Algérie enfiévrée et ensanglantée des années 50.

C’est en effet dans le chaudron de la passionaria algérienne, rempli à ras bord d’une mixture explosive s’il en fut, brassage innommable d’espérances trahies et de trahisons décorées, de courage inutile et de lâchetés récompensées, de fidélités trompées et d’injustices impunies que devaient poindre les premiers ébats d’un révolte immature, prise au piège de sa passion, si latine et de sa jactance, si méditerranéenne. L’arbre de l’utopie coloniale lui cachait encore toute la forêt de la logique racialiste que Terre et Peuple a résumée dans un slogan qui claque aux vents de l’évidence sa vérité tellement simple : À chaque peuple, sa terre !

ABC du droit des peuples, ABC du respect envers le peuples, ABC de la paix entre les peuples.  

 

Ces rebelles étaient sans le savoir des révoltés d’arrière-garde qui se battaient pour une cause sans avenir parce qu’il manquait à la revendication du sol la légitimité supérieure : le droit du sang. Et cependant : ces révoltés de l’Algérie française, victorieux sur le terrain mais défaits par la politique, ignoraient encore que ce traumatisme les aiderait à transformer une défaite passagère en victoire intérieure, celle-là capitale pour l’avenir.

Les plus intelligents, rescapés du Front Nationaliste, allaient en effet passer sans transition à une vitesse supérieure de la réflexion. Un manuel de réflexion, Pour une Critique Positive, pose dès 1964 les bases de la théorie et de l’action pré-révolutionnaires. Ce sera le Que faire? Des Nationalistes. Une analyse sévère et précise des causes de l’échec algérien, la mise à nu des tares de l’opposition nationale, la dissection du mécanisme des événements et des rouages de la société métamorphose d’un coup les motifs d’une révolte contre un régime en principes d’action contre un Système. C’est le premier cocon révolutionnaire. 

Dans l’approche qu’elle porte sur les événements, les idées et les hommes, la critique positive applique le paramètre du réalisme biologique entrevu à la dimension du monde blanc, autrement dit de la conscience raciale. Ce nouveau paramètre qui transcende dorénavant toute la démarche critique, bouleverse les frontières nationales arbitraires qu’il replace sur leurs lignes de front naturelles : celles du sang, deuxième cocon révolutionnaire.

Le réalisme biologique détient en effet la clé déterminante qui permet de saisir et de comprendre tous les points d’appui idéologiques du puzzle religieux, culturel et politique du Système, ses tenants et aboutissants. La conscience révolutionnaire identitaire européenne vient d’éclore, troisième cocon révolutionnaire.

La théorie a désormais trouvé ses assises. Merci Dominique Venner!

  

Le sacrifice aura été lourd : une défaite, des victimes et des tragédies par milliers, des condamnations, des remises en question et des revirements doctrinaux radicaux. Mais la métamorphose est un succès : les rebelles désordonnés, parfois burlesques d’une Algérie française désormais incompatible avec les nouveaux axiomes, ont mué en révolutionnaires d’avant-garde, en une élite capable de juger et d’expliquer les événements parce que maître d’une doctrine de la connaissance, c’est-à-dire maître d’une vue-du-monde.

Et c’est cela, désormais, qui comptera.

 

C’est à cette époque que beaucoup parmi nous sont entrés dans le combat révolutionnaire, comme d'autres, il faut bien le dire, entrent dans un ordre. La foi en la révolution, la vision d’un monde nouveau, la certitude d’incarner une idée juste et nécessaire devenaient le moteur de tout ce à quoi, désormais, nous aspirions : abattre dès que possible un Système qui condamne l’idéal européen d’un type humain supérieur qui voue les masses ahuries au culte suicidaire du métissage, qui déclare hors-la-loi les valeurs les plus élémentaires de l’esprit européen classique : le culte des valeurs viriles, le courage, le goût du risque, l’esprit de discipline et de maîtrise de soi, la loyauté, la fidélité au serment, la soumission au devoir, la noblesse du travail, le mépris du lucre.

Rongée par les métastases du Système l’Europe a dégringolé, en un temps record, les marches de l’Olympe et elle n’en finit plus de végéter dans quelques sous-sols Monoprix de la société marchande, tandis que les grands mythes conducteurs de notre culture s’évanouissent dans la mémoire des nouvelles générations à proportion égale des ahurissements multiformes qui les broient, à l’âge judéo-américain qui a troqué Périclès, Faust ou Mozart contre les pitres shootés du show-business, les zombies en matière plastique repeints en blanc à la Michael Jackson. Puis, au fil du temps, la notion de Révolution s’est encore métamorphosée dans une idée enchanteresse, un peu comme si Merlin l’avait enfouie dans quelque tréfonds de notre conscience, aussi insaisissable et aussi mystérieuse qu'un archétype, à cheval sur la prise de conscience intolérable d'une réalité humaine, politique, sociale, culturelle de plus en plus abjecte – et une vision du monde qui nous emplit, comme un empire intérieur, nous guide et nous oriente à travers les déchets biologiques d’une société moribonde effondrée au milieu de ses ruines que l’on évalue à leur pesant de surconsumérisme adipeux, d’individualisme termitophile, de couardise épidermique, de soumission mécanique, de bêtise cultivée, à force de pousser les ténèbres dans les catacombes d'une Europe qui s'éloigne à pas de métis de son sang, de son esprit et de ses dieux.

 

La révolution, ironise Dominique Venner, n’est ni un bal costumé ni un exutoire pour mythomanes. Depuis maintenant un demi-siècle que nous ruminons ce mot, nous avons appris à mesurer l’importance qu’il faut donner aux idées, l’efficacité qu’il faut donner à l’organisation et le sérieux qu’il faut consacrer à la tactique et à la stratégie, toutes choses déjà écrites dans Critique Positive, plus actuelle que jamais depuis que des nationaux de carton à la Poujade ou de plastique à la Le Pen n’ont cessé d’illustrer et de confirmer les tares de ce qu’il faut bien appeler la maladie infantile du nationalisme. Mais Révolution n’est encore que le prénom de la révolution identitaire encore à l’affût de l’étincelle qui fera s’embraser le volcan.

L’Action Européenne veut être précisément la synergie des ateliers révolutionnaires pour nous équiper de concepts et d’idées qui sont à la Résistance ce que les munitions sont aux armes, pour mieux organiser les moyens de la Résistance, pour mieux renforcer l’efficacité de cette Résistance. Elle veut rassembler tous ceux qui savent que si la nation s’est transformée en fonds de boutique ou en bazar d’Anatolie, l’âme du peuple, son histoire, sa conscience, sa pensée, continuent de palpiter, de battre, de vivre dans l’âme, dans la conscience et dans la volonté de celles et de ceux qui en sont devenus les gardiens et les éveilleurs!

 

Nous sommes mes amis les éveilleurs de l’âme de notre race et les gardiens de son sang! A ceux qui l'auraient peut-être oublié, rappelons-le : nous sommes en guerre!

Une guerre à mort, la guerre du globalisme contre les Peuples, la guerre de l’arbitraire contre le droit, la guerre du nomadisme contre l'enracinement, la guerre de l'or et de la marchandise contre le Sang et le Sol, la guerre des planétariens contre les identitaires. La même guerre, deux fois millénaire, qui commença entre Athènes et Jérusalem et qui se poursuit avec des moyens autrement efficaces et décuplés entre une Jerusalem washingtonisée et une Athènes élargie au monde blanc tout entier.

Une guerre de tous les instants, de tous les lieux, de tous les pays qui soumet nos peuples au harcèlement permanent d'un ennemi pluriforme qui parle toutes les langues et porte toutes les peaux, qui colporte tous les mensonges, même les plus invraisemblables, qui s’adonne à toutes les perfidies, même les plus inimaginables, et qui mène, d'un bout à l'autre du globe, la guerre la plus dangereuse, la plus barbare, la plus totale que de mémoire d’homme on n’ait jamais connue.

Une guerre qui laisse abdiquer la raison des plus faibles, fait vaciller leurs consciences, endort leurs instincts, leur fait oublier les racines, empoisonne leurs organismes.

Guerre politique, par le biais des gouvernements au pouvoir et des partis à la laisse du pouvoir ; guerre juridique, par le biais de magistrats métamorphosés en inquisiteurs ; guerre répressive, par le vote de lois de plus en plus arbitraires ; guerre professionnelle, par le biais des dénonciations qui mettent en péril les salaires ; guerre publicitaire généralisée qui fait la promotion du métissage à tous les degrés et à tous les endroits, sur l'affiche du métro comme dans la salle d'attente de la gare, dans le catalogue de la Redoute ou le prospectus du supermarché, le commentaire du musée ou la lettre pastorale du village ; guerre nutritionnelle et énergétique, que mènent des sociétés criminelles à la Monsanto, qui pillent les ressources pour imposer des aliments manipulés ; guerre médiatique de la presse écrite, parlée, télévisée ; guerre culturelle, par le biais du cinéma, du théâtre, de la peinture, de l'architecture ou des arts en général, lesquels ne sont plus valorisés pour leur qualité intrinsèque mais admis ou refusés selon qu'ils sont ou non "politiquement corrects" ; guerre pédagogique, qui soumet les enfants au pilonnage des éducateurs du Système ; je vous ferai grâce du sermon du dimanche auquel, vous avez, j’espère, militants identitaires, le privilège insigne d'échapper!

 

1. La révolution identitaire – son nom l’indique – sera d’abord une révolution du Sang et du Sol. Le Sang est l'alpha de la vie d'un Peuple et de sa culture mais il peut devenu aussi l'omega de sa dégénérescence et de sa mort si le peuple ne respecte plus les lois naturelles de son homogénéité. Le sol est le corps spatial du Sang dont il importe de circonscrire les frontières et d'assurer la protection. L’éthologue de pointe Irenäus Eibl-Eibesfeldt le dit clairement : les ethnies obéissent, pour se développer et pour survivre, à des mécanismes d’auto-protection identitaire et territoriale qui sont le moteur de l’évolution. La révolution identitaire sera une révolution ethnopolitique qui bouleversera les données habituelles de la géopolitique. Car nous sommes conscients d'appartenir au même phylum génétique, quelles que soient ses variantes germaniques, celtiques, grecques, romaines ou slaves. Eibl-Eibesfeldt est là aussi catégorique : la population européenne est encore, aux plan biologique et anthropologique, homogène et parfaitement bien caractérisée.

 

2. La révolution identitaire sera une révolution religieuse, parce que fidèle à la plus longue mémoire indo-européenne, et culturelle, parce que organique et enracinée par opposition à la civilisation planétaire égalitariste américano-occidentale, civilisation cosmopolite du capitalisme apatride et sauvage, de l’économie et du matérialisme érigés en valeur absolue. Une civilisation qui a décrété, ignominie suprême, par un retournement spectaculaire des valeurs européennes, que le destin des hommes, dorénavant, serait assujetti à celui des marchands!

 

3. La révolution identitaire sera une révolution écologique qui mettra fin au mythe mortifère de la croissance continue qui fait courir le monde à la catastrophe et qui est, pour reprendre une phrase de Gustave Thibon le propre des chutes plus que des ascensions. Favorable à la théorie de la décroissance, elle s’emploiera à mettre un frein radical aussi bien à la surconsommation absurde qu’au néo-barbarisme de l’exploitation inconsidérée qui saccagent et polluent l’environnement, épuisent les ressources, menacent la santé. L’environnement n’est pas seulement un espace de vie, l’environnement donne un sens à notre vie. Il est à notre corps, à notre esprit et à notre âme ce que sont les arbres pour la forêt.

 

4. La révolution identitaire sera une révolution économique : nous sommes tous conscients que le capitalisme apatride et marchand est une des têtes du Mal absolu. Il faut trancher impérativement cette tête monstrueuse si l’on veut rendre justice aux hommes et à la terre. Nous déclarons la guerre à l'évangile du Profit et nous condamnons le veau d'Or à l'abattage. Le socialisme "qui est pour nous l'enracinement, la hiérarchie, l'organisation" commence, là où finit le marxisme, constatait Moeller van den Bruck. Pour ajouter qu’il "ne peut être compris qu’en se plaçant à un point de vue juif. Ce n’est pas par hasard que tous les traits de Marx sont mosaïques, macchabéiques, talmudique". Le libéralisme qui "a miné les civilisations, détruit les religions, ruiné des patries" a pris la relève du marxisme. Le cosmopolitisme continue l'internationale, les technocrates ont pris la place des bureaucrates et ce sont, encore et toujours, les mêmes lobbies macchabéiques qui continuent d’exploiter la planète et d’assujettir les peuples. La révolution identitaire saura s’inspirer du socialisme français dans la tradition de Proudhon et de Sorel et du socialisme allemand organique. Ce socialisme identitaire, sera, mes amis, le principe du nouvel Empire européen, fondé sur une définition de l’homme dans laquelle l’éthique de l’honneur, le courage, l’énergie, la loyauté, le civisme retrouveront les rôles naturels qu’ils ont perdus. Le socialisme identitaire, au service exclusif de la Communauté du Peuple, sera consubstantiel de l'économie organique, elle-même conçue comme un organisme vivant et hiérarchisé, soumis à la volonté du Politique. Voilà pourquoi notre révolution sera une révolution ethno-socialiste! C’est à Pierre Vial que nous devons cette définition.

   

Je décèle dans l’immédiat 3 priorités majeures :

 

1. La création d’une Académie Identitaire.

2. La coordination d’actions communes dans tous les pays où notre mouvance a pris pied. Eugène Krampon propose aussi la création d’un Komintern identitaire.

3. Pour être opératifs demain, il est impératif que les Lois du nouvel État soient déjà formulées. Des spécialistes du Droit Constitutionnel peuvent déjà formuler les axiomes et les lois du nouveau Droit identitaire. Y compris les chefs d’accusation qui permettraient d’assigner devant les nouveaux tribunaux les apprentis sorciers du métissage organisé.

 

Sachons être donc la minorité agissante qui a compris, comme le disait Maurice Bardèche, que "cette tâche immense nécessite un vaste outil de travail de préparation et de formation", qui a su forger une conscience révolutionnaire, qui sait que "rien ne sera fait tant que les germes du régime ne seront pas extirpés jusqu’à la dernière racine", tant que l’on n’aura pas expliqué "au peuple combien on l’a trompé", et comment on le mène sur le bûcher de son éradication raciale ; la minorité agissante "pénétrée d’une nouvelle conception du monde", maîtresse d’une doctrine claire qui réussit à convaincre les plus incrédules par "sa mystique, son exemple, sa sincérité", qui enseigne "un ordre politique fondé sur la hiérarchie du mérite et de la valeur et qui apporte une solution universelle aux problèmes posés à l’homme par la révolution technique" (critique positive).

Devenons pour cela les nouveaux corps francs de la Révolution, soyons les éveilleurs de notre peuple, forgé par le même sang, soudé dans la même volonté, uni autour du même destin! Le défi est immense, certes, à la limite de la raison, mais qu’importe, mes amis, car c’est de cette folie que la sagesse accouche, c’est de cette volonté que la vie se garde et c’est de ce désespoir que rejaillit l’espérance!

 

À condition de le savoir, à condition d’y croire, à condition de le vouloir.

 

Aussi : debout mes frères,

il faut agir, aujourd’hui si nous voulons,

demain, la victoire de la Reconquista !

 

>>> http://www.europaeische-aktion.org/Artikel/fr/Lavenement-...

mardi, 26 mars 2013

François Hollande, jusqu'ici tout va bien...

François Hollande, jusqu'ici tout va bien... jusqu'ici tout va bien...jusqu'ici tout va bien...jusqu'a la chute finale

Ex: http://malvox.over-blog.com/

Pour paraphraser la bande annonce du célèbre film la haine(LIEN), ou il est dit qu'un homme se jette d'un immeuble de 50 étage en se répétant pour se rassurer : jusqu'ici tout va bien, jusqu'au moment ou il  s'écrase par terre, l'important n'est pas la chute mais l'atterrissage.

Et bien, il va falloir que les socialistes et particulièrement François hollande et son acolyte Hayrault (portant bien mal un tel nom) préparent leur atterrissage forcé en pleine réalité.

Réalité sociale et réalité face au désastre que les  bisounours de gauche on créer en 40 de pouvoir.

Pouvoir qu'ils ont eu en 81 et qu'ils n'ont jamais réellement lâché. L'important pour comprendre un pays comme la France est de savoir que ceux qui dirigent le pays sont en coulisse et non  les pantins affable "vu a la télé".

Leur idéologie libéral libertaire, néo-soixanthuitarde teinté d'obsessions immigrationnistes et d'obsession sexuel tel la pédophilie et l'unisexualité (dixit j.Attali récemment) (LIEN), mêlé de fariboles sociétale qui éclatent au grand jour  en ce moment, va bien finir par achever ce grand pays qu'a été la France (la grande nation comme on l'appelait autrefois dans toute l'Europe) .

Déjà, le président par hasard, aussi nommé tout mou premier a (peut être) comprit que pour retarder la chute finale il fallait habiller sa présidence d' un camouflage sociétal du plus bel effet.

Avec l'aide des journaleux habituel (a 90% de gauche je vous rappel) chose fut faite, et brillamment réussi.

On ne parle plus des lors dans les gazettes bien pensantes que de mariage gay (je ne suis pas contre, mais je m'en fous) et maintenant de GPA.

Les journalopes traitant de fasciste tous ceux qui osent ne pas penser comme les demi dieux de la modernitude que sont les paroissiens de gauche.

Hérétiques on vous dit!!! sortez les bûchers.

Après La guerre au Mali, la théorie folle-dingue du genre, le cirque du mariage gay, voila la GPA puis la PMA, et plus tard  ils trouveront encore un rideau de fumée, la pédophilie peut  être, puisqu'il existe un lobby pedo au PS et que ça les obsèdent, mais plus vraisemblablement  le vote des immigrés.

Vote des immigrés qui leur permettra d'être élus quasiment indéfiniment (c'est le but ).

Tout cet étalage de bondieuserie de gauche pour faire oublier l'incompétence grave ainsi que les renoncements et  échecs du gouvernement Hollande/Hayrault.

entre autre (et d'autres sont a venir, n'en doutons pas) :

  - l'abandon de la séparation de l'activité finance et banque de détail qui a ravi le secteur bancaire

  - le tour de cochon d'Arcelor Mittal

  - l'arrêt du cumul des mandats, si lucratifs pour nos députés et sénateurs

  - la délinquance qui ravage le pays (dont tous les chiffres officiels sont manipulés), impossible a juguler par des mesures bisounoursiennes et sciemment niée.

  - les entreprises qui ferment pour plaire aux actionnaires et qui partent après avoir empochées les subventions (non remboursables)

  - la France-Afrique (ou a fric) qui ne prendra jamais fin, il faut être naïf pour croire que la guerre au mali est faite par pur humanisme, alors que la pays regorge d'uranium, d'or de diamants, de terres rare, dans des sites non exploités.

(lien)   et (LIEN)

  - La modulation de l'impôt sur les sociétés en fonction de la taille des entreprises, abandonnée comme un chien sur une aire d'autoroute en juillet.

  - le doublement du plafond du livret A, qui ne sera finalement relevé que de 56%, avec une diminution du taux de 2,25 a 1,75!!

  -  une hémorragie d'entreprises qui ferment et font faillite.

  -  l' incapacité chronique de la gauche a juguler les dépenses pharaoniques de l'état et des collectivités.  

  -  l'incapacité a lutter contre le chômage, qui officieusement doit bien atteindre 5ou 6 millions de citoyens et non 3.

etc...etc la liste peut devenir aussi longue qu'une section  d'autoroute.

La chute est longue, l'agonie du gouvernement peut  se prolonger au delà du raisonnable, une euthanasie du gouvernement Hollande devra être pratiquée. Qui osera la faire, le peuple? Non, le peuple français en votant pour tout-mou-premier a montré qu'il était un indéfectible rêveur, stupide naïf et romantique.

Le peuple français s'écrasera au sol comme un étron fumant, main dans la main avec la gauche.

Ou alors peut être que grâce un coup du destin, dont seul un dieu grec a le secret, ou dans un  triste éclair de lucidité, François Hollande démissionnera,  le poids des échecs  faisant ployer ses frêles épaules de calinours.

On peut rêver, on est français.

 hollande chute finale

                        venez admirer la chute d'icare-hollande, l'homme qui voulut atteindre le soleil