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dimanche, 13 avril 2014

Conférence de Serge Latouche

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Conférence de Serge Latouche autour de son ouvrage «L’âge des Limites»

Ex: http://www.cercledesvolontaires.fr

Serge Latouche, jeudi 30 janvier 2014

 

 

Médiathèque de Tarentaize à Saint-Etienne (42000)

Dans le cadre du projet culturel d’éducation populaire « des mots contre les maux », l’association remue-méninges et la Médiathèque de Tarentaize ont organisé jeudi 30 janvier 2014, une rencontre avec l’économiste et objecteur de croissance Serge Latouche, autour de son ouvrage « L’âge des Limites ».

« Une croissance infinie est incompatible avec un monde fini. »

Réalisation : Nicolas Molle

Chi ha voluto la guerra sovietico-polacca del 1920?

Chi ha voluto la guerra sovietico-polacca del 1920? Una questione storiografica ancora aperta

Autore:

Ex: http://www.centrostudilaruna.it

Soldati polacchi a Vilnius nel 1920.

Soldati polacchi a Vilnius nel 1920.

Da sempre gli storici discutono su chi porti la maggiore responsabilità per la scoppio della guerra russo-polacca che, preannunciata da alcuni scontri di frontiera nel 1919 (ma la «frontiera, appunto, non esisteva: era questo il problema), precipitò nella primavera successiva con la repentina irruzione polacca fino a Kiev; vide poi una temibile controffensiva sovietica, che sembrò sul punto di poter “esportare” la rivoluzione nell’Europa centrale; ma essa s’infranse sotto le mura di Varsavia, a metà agosto, per concludersi poi, nel marzo 1921, con la pace di Riga.

Fu una strana guerra, fra il regime sovietico ancora invischiato negli spasimi di una guerra civile che era sembrata portare gli eserciti «bianchi» di Kolčiak, Denikin e Wrangel a un soffio dalla vittoria e il governo della Polonia “resuscitata” fra le nazioni d’Europa, dopo la sua cancellazione dalla carta politica nelle tre spartizioni, avvenute alla fine del XVIII secolo (nel 1772, nel 1793 e nel 1795), fra i suoi potenti vicini: Austria, Prussia e Russia.

Non è questa la sede per rievocare dettagliatamente le complesse vicende che portarono, grazie alla sconfitta dei tre imperi limitrofi – russo, germanico e austro-ungarico, alla fine della prima guerra mondiale – alla ricostituzione dell’antico Stato polacco.

Ci limiteremo a ricordarne, per sommi capi, le tappe principali.

Durante la prima guerra mondiale, i patrioti polacchi si erano divisi: il gruppo facente capo a Pilsudski si era schierato con gli Austriaci; quello capeggiato da Dmowski e Grabski, al contrario, aveva preso posizione per i Russi; ma tutti indistintamente avevano di mira la liberazione della patria, e ciò che cambiava tra essi erano solo le strategie per avvicinarsi a un tale risultato.

Il 14 agosto del 1914 lo zar Nicola II Romanov aveva promesso l’autonomia ai Polacchi nell’ambito dell’Impero russo; ma poi, con l’offensiva austro-tedesca del maresciallo Mackensen, erano stati gli Imperi centrali ad occupare la Polonia russa, nella primavera-estate del 1915. Così, il 5 novembre 1916, si era giunti alla proclamazione di un regno di Polonia da parte degli Imperi centrali, che, ovviamente, non comprendeva né la Galizia (austriaca) né la Posnania (tedesca).

Il socialista Józef Pilsudski, ottenuto un seggio nel nuovo Consiglio Stato, aveva rifiutato di prestare il giuramento di fedeltà il 2 luglio 1917 e aveva perciò subito l’internamento in Germania, nella fortezza di Magdeburgo, sino al novembre 1918.

Intanto, a Parigi, fin dal 15 agosto 1917 Roman Grabski, del partito democratico-nazionale, aveva assunto la presidenza di un Comitato nazionale polacco in esilio riconosciuto dagli Alleati che, fra l’altro, aveva organizzato il nucleo di un esercito nazionale reclutato fra i prigionieri di guerra degli eserciti austro-ungarico e tedesco, di nazionalità polacca.

Intanto, dopo lunghe discussioni fra Austriaci e Tedeschi circa la politica da adottare verso i Polacchi, il 12 settembre 1917 si era insediato un governo polacco sotto il controllo degli Imperi centrali, denominato “Consiglio di reggenza”. Questo debole organismo nazionale aveva il vantaggio, rispetto al Comitato di Parigi, di essere insediato a Varsavia, nel territorio della patria; ma lo svantaggio di vivere all’ombra del governo di Berlino, dopo che quello di Vienna si era deciso a passare la mano nello scacchiere polacco (in cambio di ingrandimenti nei Balcani: in Montenegro, Serbia e Romania), avendo compreso che una annessione austriaca avrebbe implicato una forma di governo trialista nell’Impero danubiano (invisa a Budapest) e avrebbe comportato, inevitabilmente, la perdita della Galizia a favore della nuova entità statale.

Va tenuto presente, per avere un quadro completo (e sia pure molto riassuntivo) della situazione, che il 2 febbraio 1918 gli Imperi centrali avevano sottoscritto una trattato di pace separata con l’Ucraina, la cosiddetta “pace del pane”: ossia pace in cambio della fornitura di grano ai vincitori. Dopo di che i Tedeschi e gli Austriaci, approfittando della debolezza dell’atamano Skoropadskij, avevano proceduto all’occupazione militare dell’Ucraina fino al Don e anche della Crimea; con i Tedeschi che prevalevano nella zona di Kiev e gli Austriaci che prevalevano in quella di Odessa; mentre le forze «bianche» del generale Krasnov, aiutate dai primi, si erano organizzate nella regione fra il Don, il Volga e il Caucaso settentrionale.

Ma poi, nel novembre del 1918, era sopraggiunto il crollo degli Imperi centrali (rispettivamente il giorno 4 per l’Austria-Ungheria e il giorno 11 per la Germania); e i Polacchi, prima ancora di attendere la resa ufficiale dei loro scomodi protettori, avevano proclamato la nascita di una Repubblica polacca indipendente, il 3 novembre.

Qualche giorno dopo, il 14, il Consiglio di reggenza si era dimesso e Pilsudski, liberato dalla prigione militare di Magdeburgo e rientrato a Varsavia, era stato proclamato capo provvisorio dello Stato.

Fin dal suo sorgere, la Repubblica polacca aveva avuto una vita travagliatissima.

Tre erano le maggiori cause di tensione: la questione delle nazionalità; la questione della riforma agraria; e la contesa fra i seguaci di Pilsudski (i “legionari”) e i democratico-nazionali di Dmowski circa la gestione della politica estera.

1) Per quanto riguarda la questione delle nazionalità, la Polonia si era trovata ad inglobare nel suo territorio delle minoranze assai consistenti: 100.000 Lituani, 1.000.000 di Tedeschi, 1.500000 di Bielorussi, 4 milioni di Ucraini; senza contare circa 3.000.000 di Ebrei. Le tensioni fra queste minoranze e il governo polacco erano fortissime, specialmente ad ovest, dove il Consiglio interalleato aveva deciso l’istituzione di plebisciti per decidere il destino di vaste zone di frontiera, specialmente nel bacino industriale dell’Alta Slesia (durante i quali vi furono incidenti sanguinosi che coinvolsero anche i contingenti italiani che, insieme a quelli inglesi e francesi, presidiavano quei territori). Perfino con la neonata Cecoslovacchia esisteva una astiosa disputa territoriale, per il possesso del distretto di Teschen. Ma anche verso est la tensione era altissima, tanto che nel 1922 sarebbe scoppiata una rivolta da parte della popolazione ucraina, che solo nel 1930 avrebbe potuto dirsi pienamente “pacificata”.

2) I progetti di riforma agraria erano duramente osteggiati dall’aristocrazia, attaccatissima ai suoi latifondi e ai suoi antichi privilegi (si ricordi che già nel 1863 la guerra di liberazione nazionale contro i Russi era fallita, dopo i primi, notevoli successi, proprio a causa del rifiuto dei proprietari terrieri di promettere la distribuzione delle terre ai contadini). Tale resistenza fece sì che la riforma, che pure venne varata, non diede i risultati sperati, essendosi svolta in maniera incompleta e nel più lamentevole disordine.

3) In politica estera, dopo che gli Alleati avevano indicato, con la “linea Cuzon” (che ricalcava, sostanzialmente, i confini dell’antico Granducato di Varsavia), i territori da considerarsi incontestabilmente polacchi, mentre restava aperta la questione della delimitazione delle frontiere con la Lituania e soprattutto con la Russia, i democratico-nazionali avevano richiesto addirittura il ristabilimento delle frontiere del 1772, o almeno del 1793, quando la Polonia abbracciava vasti territori che ora, in base al principio di nazionalità, non potevano in alcun modo venire da essa rivendicati. Pilsudski, invece, perseguendo un progetto di tipo “federalista” o neo-jagellonico (Polonia e Lituania erano state unite, dal 1400 al 1600, in una federazione che aveva visto la grandezza di entrambe, sotto la dinastia degli Jagelloni), puntava a creare degli Stati cuscinetto fra la Polonia e la Russia, di cui temeva il ritorno offensivo, allorché la guerra civile vi si fosse conclusa. Lituania, Bielorussia e Ucraina avrebbero dovuto, così, divenire tre Stati semi-indipendenti all’interno di una federazione con la Polonia, capace di fronteggiare qualsiasi rinnovata minaccia espansionista della Russia.

Nell’autunno del 1919 si erano verificati degli scontri fra unità polacche e sovietiche, nel quadro delle campagne finali della guerra civile russa, quando le forze «bianche» di Wrangel e quelle nazionaliste ucraine erano state respinte dall’avanzata dell’Armata Rossa.

Per il governo di Varsavia, naturalmente, il problema orientale non era solo di carattere territoriale, ma anche e soprattutto politico: con l’avvicinarsi dell’Armata Rossa di Trotzkij alle frontiere della Polonia, provvisorie perché non regolate da alcun trattato internazionale, cresceva nei Polacchi (e specialmente nella classe dei grandi proprietari) il timore che l’ideologia comunista si diffondesse nel paese, con esiti imprevedibili.

Józef Pilsudski

Józef Pilsudski

La medesima preoccupazione era condivisa dai comandanti dell’esercito, i quali ben ricordavano – per l’esperienza fatta durante la prima guerra mondiale – come fosse contagiosa l’ideologia rivoluzionaria per dei soldati-contadini i quali, a casa, avevano lasciato delle famiglie affamate e che pensavano con bramosia alle terre dei latifondi, magari incolte.

Ha scritto lo studioso di storia dell’Europa orientale Valerio Perna nel suo saggio Storia della Polonia tra le due guerre (Milano, Xenia Edizioni, 1990, pp. 73-76):

«In quella vasta striscia territoriale che dal baltico giunge fin quasi al Mar Nero includendo le vaste pianure lituane, bielorusse e ucraine, si era creato, a seguito degli eventi bellici [del 1914-18], un temporaneo vuoto di potere. La Russia, già ricacciata verso est per centinaia di chilometri, era stata poi costretta ad uscire dal conflitto; i tedeschi erano in fase di smobilitazione dopo la firma dell’armistizio; l’impero austro-ungarico, infine, si stava dissolvendo sotto la spinta delle aspirazioni nazionali. Quanto alle Potenze vincitrici, esse non procedevano alla definizione dei confini della Polonia in attesa della lotta di potere in Russia: in caso di vittoria dei “bianchi” non intendevano sacrificare il futuro stato democratico russo nel settore occidentale; se invece avessero prevalso i “rossi”, allora sarebbe stato necessario rinforzare le capacità difensive dell’Occidente attraverso un sistema di alleanze teso a contenere il futuro espansionismo bolscevico. Nell’uno o nell’altro caso i confini della Polonia e i destini delle popolazioni locali sarebbero stati decisivi in funzione di queste esigenze strategiche.

Pilsudski non intendeva chinarsi di fronte a questi disegni. Secondo le sue convinzioni la partita per il futuro assetto di quei territori si giocava esclusivamente tra Polonia e Russia. I calcoli degli Occidentali e i giochi diplomatici internazionali dovevano essere quindi ridimensionati.

Józef Pilsudski era un uomo dell’est. La sua nascita lituana, l’educazione ricevuta in famiglia, gli ideali patriottici della gioventù trascorsa tra Vilna, Pietroburgo e Karkow, lo avevano calato profondamente nella questione russo-polacca. Aveva acquisito una perfetta conoscenza dei rapporti fra queste due nazionalità, dell’attitudine nei loro confronti di lituani, bielorussi e ucraini ee era giunto alla conclusione che il rinato Stato polacco doveva realizzare uno stabile equilibrio nei territori ad est della Polonia etnica coinvolgendo, nel comune interesse, le altre nazionalità che occupavano quegli spazi orientali. Insieme a loro doveva essere disposto un sistema difensivo per tutelarsi dalle future velleità espansionistiche del vicino russo, fosse esso stato repubblicano o bolscevico. La sicurezza dei confini orientali era per Pilsudski una questione di vitale importanza nei difficili rapporti russo-polacchi.

Anche se Austria e Germania avevano partecipato al processo di spartizione e avevano tenuta soggiogata per tanto tempo la nazione polacca, da loro si poteva temere la volontà di dominazione, ma non il tentativo di cancellazione. Con i russi la questione era diversa: appartenenti anch’essi al ceppo slavo, rivendicavano il ruolo di grande madre, verso la quale le nazionalità sorelle dovevano guardare e avvicinarsi fino al punto di identificarsi con essa. Era stato così con i baltici, con i bielorussi, con gli ucraini; poteva esserlo anche con i polacchi. Dopo centoventi anni di occupazione diretta, i Russi consideravano già il Regno di Polonia semplicemente come la loro provincia sulla Vistola.

Pilsudski confutava queste aspirazioni russe in forza di una limpida concezione che si fondava su tradizioni e fatti storici: la così detta “idea jagellonica”.

Durante i secoli XV, XVI, XVII, l’Unione polacco-lituana estendeva il proprio dominio sulla Polonia etnica, la Lituania, la Bielorussa, la Galizia e l’Ucraina fin quasi al Mar Nero. Durante questo periodo i polacchi erano stati la guida di una civiltà indipendente, nell’ambito di una cerchia di popoli consanguinei, che si differenziava da quella creata lungo il Volga dai russi. Questa civiltà barbara e chiusa era tutt’altra cosa rispetto a quella polacca e slava. Qui prevalevano già i principi del rispetto della persona, dei popoli con i quali si conviveva e vi erano penetrate profondamente le correnti umanistiche e rinascimentali provenienti dall’Europa Occidentale; al di là di questi confini regnava invece il dispotismo della schiavitù della persona. La lotta che si combatteva lungo questa frontiera divideva l’Europa libera dall’Est schiavo.

La frontiere culturali e geografiche della Polonia erano pertanto chiare (dato che anche ad occidente esisteva un profondo solco che separava l’elemento polacco da quello germanico). “Se dovessimo legarci con i tedeschi o con i bolscevichi significherebbe che la nostra missione civilizzatrice non è stata realizzata fino in fondo” ripeteva Pilsudski in quel tempo.

Così, in quel vasto spazio territoriale dell’Europa centro-orientale compreso tra i fiumi Vistola, Dnieper, Elba e Danubio e quindi tra i mari Baltico, Nero e Adriatico, si erano affermati sistemi culturali e socio-politici assai simili. Gran parte di questi territori erano stati occupati dal Regno jagellonico, dalla sua cultura e tradizione. Dopo la sua decadenza, a partire dal diciassettesimo secolo, in seguito alle spinte germaniche e russe, questo patrimonio era andato disperso, ma ora la rinata Repubblica polacca si proponeva di raccogliere questa eredità del passato (…).

Pilsudski intendeva realizzare questo programma riguardo ai territori ad est della Polonia etnica attraverso un progetto di tipo federalista: lo Stato polacco doveva approfittare dei profondi sconvolgimenti post-bellici per imporsi nuovamente come guida di quei popoli, suoi vicini orientali, che non avendo la forza di costituirsi in Stati indipendenti sarebbero ben presto ricaduti nell’orbita russa; ma non intendeva attuare questi progetti approfittando della guerra civile che là si combatteva. Egli era convinto che nessuno dei due contendenti sarebbe stato, per i polacchi, un interlocutore sincero. I “bianchi” rappresentavano la continuità con il vecchio sistema di potere russo, quello nei confronti del quale erano stati consumati centoventi anni di cospirazioni e insurrezioni, schierarsi quindi a favore di questa parte non era proponibile. Dai bolscevichi, viceversa, si potevano ottenere dei vantaggi temporanei, pur nella consapevolezza che il futuro rapporto con il loro regime si sarebbe basato unicamente sulla forza: il loro atteggiamento conciliante era infatti palesemente dettato dalla stretta necessità di mantenere i polacchi fuori dalle questioni interne russe.

Durante le passeggiate a cavallo, nell’inverno 1919, Pilsudski esprimeva così le sue convinzioni a proposito dei bolscevichi: non è il caso di sopravvalutare Trotzkij; si tratta di un agitatore di professione che crede nel trionfo delle rivoluzioni e delle guerre grazie ai comizi e alla dialettica. Lenin invece è diverso: ha inserito nello Stato Maggiore dei militari esperti; […] ha scelto il terrore come strumento di dominio nei rapporti interni, il mezzo più efficace per le masse russe e, come esecutore, ha scelto Dzierzinski, il più fanatico, privo di scrupoli, ma forse perché questi, essendo polacco, elimina i russi con più “facilità”. […] Lenin è un perfetto opportunista […] accetta ogni accordo, ogni alleanza, ma è pronto a ritirarsi al primo momento per lui favorevole accusando, per di più, il suo partner di averlo perfidamente ingannato.”

Da questo insieme di motivazioni deriva per la Polonia la necessità di tutelarsi attraverso una favorevole sistemazione territoriale che mantenesse i confini dello Stato russo quanto più possibile contenuti verso est. L’idea di Pilsudski era la seguente: Finlandia, Estonia e Lettonia costituiti in Stati indipendenti; Lituania, Bielorussia e Ucraina legati in unione federale con la Polonia. Egli agiva nella speranza che, sostenendo le istanze di indipendenza di ucraini e bielorussi, si potesse guadagnare la loro fiducia così da convincerli a legare le loro sorti con quelle della Repubblica polacca, attraverso il sistema federativo. Alla Lituania guardava poi con maggiore fiducia dati i legami del comune passato: il rapporto con questo popolo doveva essere ancora più stretto di quello previsto dalla federazione. Solo a queste condizioni sarebbe stato possibile accentuare l’influenza polacca verso est, limitando nello stesso tempo quella russa. Ma una simile espansione non poteva avvenire sottoponendo popoli e territori alla sovranità polacca. Sarebbe risultata inaccettabile. La vasta estensione territoriale dell’ex granducato di Lituania poteva essere governata solo con il favore delle popolazioni locali convincendole ad accettare la centralità dell’elemento polacco.

La mancata realizzazione di questo progetto, pur nell’ipotesi migliore che queste nazionalità fossero riuscite a costituire un proprio Stato indipendente, avrebbe assecondato le future aspirazioni della Russia; una serie di piccoli e deboli Stati sarebbe ricaduta immancabilmente sotto la sua influenza».

Valerio Perna rappresenta, nella storiografia di queste vicende, una voce decisamente favorevole alle tesi polacche alla vigilia della guerra del 1920.

Altri studiosi sono meno inclini a valutare con simpatia i progetti federalisti di Pilsudski del 1919-20, e citano le testimonianze di uomini come l’ex ministro degli Esteri polacco, conte Skrzinski, il quale affermava chiaramente che Ucraini, Bielorussi e Lituani non nutrivano allora molta simpatia per i Russi, ma ne avevano ancora di meno nei confronti dei Polacchi.

Fra gli storici poco favorevoli alla posizione polacca si può ricordare l’americano Louis Fischer, autore di una importante opera realizzata sulla base di fonti diplomatiche di prima mano, I Sovieti nella politica mondiale, 1917-1929 (titolo originale: The Soviets in World Affairs; traduzione italiana di Delfino Rogeri di Villanova, Firenze, Vallecchi, 1957, vol. 1, pp. 282-85), il quale, dopo aver descritto minutamente i negoziati avviati segretamente fra Polonia e Unione Sovietica nella seconda metà del 1919, afferma senza mezzi termini che fu la cattiva volontà di Pilsudski a farli fallire, aprendo così la strada alla guerra fra le due nazioni.

«Erano sinceri i Polacchi? Il conte Skrzinski, ex ministro degli Esteri polacco, dice di no.

“Le proposte di pace (sovietiche)”, egli dichiara, “non venero prese in seria considerazione… Dato però che una politica parlamentare e democratica non consentiva di lasciarle senza risposta, la questione del luogo ove i negoziati avrebbero potuto esser tenuti venne prospettata in modo così offensivo, che tutto si arrestò a quel punto”.

Quasi gli stessi termini vengono usati da H. H. Fisher, commentatore neutrale e storico ufficiale dell’Associazione Americana di Soccorso.

“I Polacchi – egli afferma – non vi diedero (alle proposte di pace sovietiche) alcuna seria considerazione e la risposta che alla fine e controvoglia fu presentata dal loro Governo era così offensiva nello spirito e così esagerata nelle richieste da dimostrare che la pace sulla base delle proposte sovietiche, di per se stesse non irragionevoli, non era evidentemente desiderata”.

Patek [il ministro degli Esteri polacco] sapeva che la proposta di Borisov era inaccettabile; ed è perciò che la fece. Dopo essere divenuti ministro di Polonia a Mosca, Patek disse all’autore di questo libro che al momento in cui la proposta di Borisov venne fatta i Polacchi tenevano posizioni militari favorevoli presumibilmente in vista dell’imminente offensiva; una tregua più lunga di ventiquattro ore ed un luogo diverso avrebbero permesso ai Bolscevichi di rafforzare le loro posizioni di difesa.

In un tentativo disperato di salvare la situazione Cicerin propose allora che le discussioni avessero luogo a Varsavia o a Mosca o a Pietrogrado o in una città estone; ma Patek fu irremovibile.

La Polonia, che aveva rigettato la pace perché si preparava alla guerra, era un paese che aveva bisogno di pace non meno della Russia sovietica. La inclusione di molti milioni di allogeni entro il suo territorio aveva reso caotica la sua situazione. La situazione economica sarebbe stata sufficiente a farle desiderare la pace. La A. R. A. di Hoover, su suggerimento della Conferenza della pace di Parigi, distribuì in Polonia fra il febbraio e l’agosto del 1919 viveri per 50.000.000 di dollari, e continuò a dare i suoi soccorsi nel 1920, mentre la Polonia continuava a prepararsi alla guerra. Nel giugno di quell’anno l’A. R. A. nutriva 1.315.000 bambini. A quel tempo le armate di Pilsudski erano penetrate profondamente in Ucraina. I comitati di soccorso stranieri stavano distribuendo vestiario e calzature a centinaia di migliaia di persone. La Polonia, settore principale del cordone sanitario, registrava non meno di 34.000 casi di tifo nel mese di gennaio 1920, una catastrofe che il Governo polacco era impotente ad affrontare. Ma le autorità di Varsavia sognavano di conquistare terre straniere. E i diplomatici di Parigi, che avevano rifiutato di dar da magiare alla Russia sovietica, se questa non si fosse impegnata a non battersi contro i nemici che l’attaccavano, attuavano energicamente i loro programmi di soccorso in Polonia, senza nemmeno cercare di metter un freno ai piani forsennatamente aggressivi dei suoi uomini di Stato.

Il signor Herbert Asquith espose la situazione alla Camera dei Comuni, il 10 agosto, in questi termini succinti: “Ecco qual’era sei mesi fa! – egli disse della Polonia -, una popolazione colpita dalle malattie e dalla carestia, per cui non si esagera dicendo che fosse sull’orlo della rovina nazionale; ed è in questa condizione di cose che essa incominciò la sua campagna. Suo scopo dichiarato -, egli continuò – era di sbarazzarsi delle sue relativamente anguste frontiere, per quanto non fossero disprezzabili… e spingersi oltre di esse fino agli antichi confini della Polonia del 1772… Come ho già detto, fu un’avventura puramente aggressiva… un’impresa scellerata”.

I piani polacchi si potevano sintetizzare in una sola parola: Federalismo.

“Il Federalismo (il cui esponente maggiore era Pilsudski) era un piano audace e romantico per risolvere la questione delle frontiere orientali colla creazione, a spese della Russia, di una serie di Stati indipendenti- la Lituania, la Russia Bianca e l’Ucraina – federate colla e sotto l’egemonia della Polonia”.

È questa un’idea che ha lasciato fino ad oggi la sua impronta sulla politica estera polacca.

La questione delle frontiere della Polonia non era stata regolata. Né la linea Foch di demarcazione della frontiera tra fra la Polonia e la Lituania (27 luglio 1919) né quella Curzon, segretamente tracciata dal Consiglio Supremo l’8 dicembre 1919, erano state accettate come definitive dai dirigenti polacchi. La Polonia aveva sfidato con successo la Conferenza della Pace nella faccenda della Galizia Orientale ed i suoi uomini politici non intendevano accettare dai diplomatici meno di quello che credevano ottenibile colla forza delle armi.

La stampa inglese dell’8 marzo 1920 pubblicò un’intervista data da Patek al corrispondente del “Journal” di Parigi, circa la pace coi Sovieti: era in favore di negoziati, ma “base delle nostre condizioni saranno le frontiere del 1772″.

“La pubblica opinione polacca – dice il professor Fisher – era a quel tempo inebriata dalla dottrina del Federalismo, che non avrebbe potuto esser attuato che con la guerra”. E, strano a dirsi, i fautori più entusiasti dell’idea federativa, che non era altro se non un malcelato imperialismo, erano i socialisti polacchi, guidati da Pilsudski e da Ignatius Daszinski, Vice Primo Ministro di Polonia. Il 4 gennaio 1920, per esempio, l’organo di stampa di Daszinski, il “Naprozd” (“Avanti”), diceva: “Per l’intero avvenire della Polonia sarebbe di enorme importanza se potessimo spostare la frontiera della Russia ad est del Dnieper”.

In apparenza i Polacchi erano interessati a liberare i loro vicini orientali dal “giogo del Bolscevismo”, ma il professor Fisher, fra gli altri, afferma che “quel piano grandioso ignorava disgraziatamente il fatto… che vicini quali gli Ucraini e i Lituani avrebbero gradito quasi ogni altro destino piuttosto che quello di esser governati dalla Polonia, quand’anche sotto mentite spoglie”. Il signor A. L. Kennedy, un inglese estremamente filopolacco ed antibolscevico, non cela il fatto che sotto l’idea cosiddetta federativa covavano piani annessionisti. Riferendosi al programma di Pilsudski di creare due grandi Stati-cuscinetto, la Russia Bianca e l’Ucraina, fra la Polonia e la Russia, Kennedy ammette che “per quanto nominalmente indipendenti, essi erano evidentemente immaturi e sarebbero dipesi dalla Polonia per la loro sicurezza”. E difatti un trattato poi firmato da Petljura in nome di un’Ucraina che non governava, prevedeva la nomina di due ministri polacchi nel gabinetto ucraino proposto da Pilsudski.

Un patriota placco del calibro del conte Skrzinski smaschera l’ipocrisia dell’idea federalista.

“Le nazioni – egli scrive – che, secondo questa teoria, la Polonia voleva liberare dal giogo russo, non avevano desideri particolari in materia e, anche se non amavano molto la Russia, amavano ancor meno la Polonia”.

Per quanto concerne il motivo economico, ne abbiamo un cenno dal signor Kennedy, che si trovava in Polonia in quel momento e godeva la fiducia illimitata degli uomini di Stato polacchi. Secondo lui, “la lotta fra Russia e Polonia fu realmente una lotta per il controllo delle sue abbondanti risorse, che comprendevano all’est il grande bacino del Donetz”, dove la Francia, l’amica della Polonia, aveva enormi impegni finanziari».

Questa, l’interpretazione di Louis Fisher; il quale, pure essendo americano, può essere sospettato di eccessive simpatie nei confronti del punto di vista sovietico.

In effetti, pare che egli ignori completamente i legittimi timori dei vicini occidentali della Russia nel 1919, a cominciare dalla Polonia; timori che erano di duplice natura: nazionale e ideologica. Facendo leva sulle questioni etniche e, ancor più, facendo appello ai contadini e agli operai polacchi in senso rivoluzionario, l’Unione Sovietica poteva realmente costituire un fattore, se non di rischio, quanto meno di turbolenza e di imprevedibilità per la Polonia appena rinata dalle sue ceneri; né si può ignorare la comprensibile preoccupazione dei governanti di Varsavia nei confronti del tradizionale imperialismo russo, che aveva sottomesso il loro Paese per più di un secolo e che non vi era motivo di ritenere esaurito, solo perché era cambiata la forma di governo a Pietrogrado.

Gli storici italiani possiedono la fortuna di avere a disposizione una fonte di primissima mano, ossia la testimonianza dell’ambasciatore Francesco Tommasini che, presente a Varsavia in quel periodo, ebbe frequenti contatti personali con Pilsudski ed altri membri del governo polacco e poté seguire da vicino l’intera vicenda della guerra sovietico-polacca.

risurrezione-poloniaTommasini ha lasciato un libro molto documentato sulla sua esperienza di ambasciatore italiano in Polonia, nel libro La risurrezione della Polonia (Milano, Fratelli Treves Editori, 1925, pp. 113-118), di cui riportiamo alcuni passaggi:

«Nel novembre 1919, Pilsudski, ricevendo la Commissione per gli Affari Esteri della Dieta, aveva espresso l’intenzione di indire prossimamente plebisciti nelle regioni orientali, che le truppe polacche avevano occupato. Si sarebbe trattato della regione di Vilna, che fu poi denominata Lituania centrale, e di gran parte dell’ex Governatorato russo di Minsk, che avrebbe dovuto costituire la Russia Bianca… ma tale proposito, all’infuori di qualsiasi considerazione d’opportunità politica, doveva sollevare obiezioni d’indole giuridica, che io stesso formulai al Capo dello Stato in un colloquio, avuto con lui il 17 novembre. Esso era infatti contrario all’art. 87 del Trattato di Versailles, il quale stabilisce: “Les frontières de la Pologne, qui ne sont pas spécifiées par le présent Traité seront ultérieurement fixées par les Principales Puissances alliées et associèes” (…).

Per quanto riguarda l’Ucraina, la situazione si era considerevolmente modificata dopo l’ottobre 1919. Al principio d dicembre, l’atamano Petruscevic, che in novembre aveva voluto avvicinarsi a Denikin, allora all’apogeo della sua potenza, era stato abbandonato dalle sue truppe, passate in parte ai Bolscevichi ed in parte a Denikin, e si era rifugiato dapprima in Romania, donde era poi passato a Praga ed a Vienna. L’atamano Petljura, un avventuriero, che portava il titolo di capo del “governo dell’Ucraina al di là del Dnieper”, sentendosi in pericolo per un attacco di Denikin e per la defezione di una parte delle sue genti, cominciò una politica a doppio fondo, cercando di intendersi al tempo stesso colla Polonia e col governo dei Soviet. A quest’ultimo egli aveva inviato due socialisti ucraini, non massimalisti, i quali sembra però che siano stati imprigionati a Mosca. Miglior esito ebbero le trattative con Pilsudski, al quale Petljura in data 2 dicembre rilasciò una dichiarazione con cui riconosceva il corso dello Zbrucz come frontiera fra i due paesi, ciò che equivaleva ad una rinunzia alla Galizia orientale. Contro tale dichiarazione, protestò presso le grandi potenze Petruscevic, orami atamano in partibus infidelium.

Battuto poi da Denikin, Petljura si era rifugiato in Polonia e da quel momento si era messo sotto la protezione di Pilsudski, il quale però ne diffidava e non gli lasciava molta libertà. Si stabilì a Varsavia, ricompose il suo governo, che si insediò a Kamieniec di Podolia, occupata nel frattempo dalle truppe polacche, e cominciò anche il riordinamento del suo esercito, le cui unità, verso la fine di febbraio, si trovavano ad oriente del Dnmiester fra Moylow (da non confondere con la città quasi omonima del Dnieper), Balta e Bar, dove ogni tanto anche le truppe bolsceviche facevano qualche apparizione.

Il piano di Pilsudski nell’inverno del 1919 era il seguente: far trascinare fino alla primavera con espedienti dilatori i negoziati di pace coi bolscevichi, che non si potevano evitare dopo la decisione del Consiglio supremo e le esortazioni ripetute delle grandi potenze alleate; in primavera attaccare violentemente l’esercito bolscevico e sbaragliarlo; fare poi la pace costituendo, fra la Russia e la Polonia, uno Stato bianco-russo ed uno stato ucraino al sud.

Il 4 febbraio il Ministro degli Affari Esteri Patek accusò ricevuta a Cicerin della sua comunicazione del 29 gennaio, riservandosi di dare più tardi una risposta in merito. L’elaborazione di tale risposta durò circa un mese e mezzo.

Intanto il 10 marzo Millerand, allora Presidente del Consiglio in Francia, inviava a nome del Consiglio supremo alla delegazione polacca presso la Conferenza della pace una nota, in cui si ribadivano i due punti seguenti:

1. le frontiere orientali della Polonia, a tenero dell’art. 87 del Trattato di Versailles, dovevano essere definite dalle principali potenze e non dalla Polonia.

2. Secondo il principio che ha ispirato il Trattato di Versailles, nessun plebiscito poteva aver luogo in regime d’occupazione militare di una delle parti interessate. (…)

Verso la metà di marzo il governo placco compì l’elaborazione delle condizioni di pace, che furono comunicate confidenzialmente ai rappresentanti delle grandi potenze alleate a Varsavia: alcune indiscrezioni circa esse trapelarono nella stampa e provocarono una vivace discussione nella Commissione della Dieta per gli Affari Esteri. Le basi fondamentali erano:

1. le trattative di pace non dovevano pregiudicare la situazione militare. Quindi, niente armistizio. A tale proposito si allegava che ogni sospensione delle ostilità avrebbe indotto le truppe polacche nell’illusione che la guerra fosse finita e le avrebbe esposte ad una pericolosa azione di propaganda bolscevica;

2. la Polonia doveva sottoporre a revisione tutto ciò che era avvenuto dal 1772 in poi.

Questa pretesa, che veniva giustificata con considerazioni morali e storiche, bastava a rivelare che le trattative non si iniziavano con effettiva buona volontà. Essa era stata approvata da tutti i partiti, perché nessuno aveva il coraggio di mostrarsi meno patriota dell’altro, ma, in realtà, suscitava forti obiezioni tanto a sinistra quanto nel Partito nazionale democratico. Malgrado ciò il ministro Patek, nel concretarla, le diede una espressione particolarmente intransigente, poiché richiese che la Russia rinunziasse puramente e semplicemente ad ogni diritto sui territori appartenenti nel 1772 alla Polonia, la quale ne disporrebbe secondo la volontà delle rispettive popolazioni. Le truppe bolsceviche avrebbero quindi dovuto sgomberare ampie regioni, che comprendevano Vitebsk, arrivavano davanti a Smolensk, contornavano Kiev, si inoltravano a oriente in direzione di Poltava. Sembra che tale formula sia stata redatta all’insaputa dello stesso Consiglio dei Ministri e che financo Patek ne riconoscesse poi l’inopportunità, mostrandosi disposto a lasciarla cadere, fin dall’inizio delle trattative.

In realtà il rimettere in questione tutto ciò che era successo dal momento della prima spartizione in poi non poteva servire che ai disegni di Pilsudski. Il suo principale avversario, il partito nazionale democratico, voleva invece che la Polonia annettesse puramente e semplicemente i territori che la Delegazione polacca aveva chiesto alla Conferenza della pace, la così detta linea Dmowski, e che corrispondevano, all’ingrosso, a queli rimasti dopo la seconda spartizione, comprendendo in più Kamieniec al sud e Minsk al nord. (…)

Il 27 marzo il governo placco annunziò a quello sovietico di esser pronto a iniziare le trattative di pace senza preventivo armistizio: propose di condurle a Borysow, piccola città del governatorato di Minsk, allora occupata dalle truppe polacche, situata sulla Beresina e sulla grande linea ferroviaria Varsavia-Mosca. L’indomani Cicerin rispose chiedendo un armistizio. Il 1 aprile Patek ripose mantenendo il suo punto di vista. Il 2 il governo bolscevico rinnovò la domanda d’armistizio e chiese che i negoziati, anziché a Borysow, avessero luogo in Estonia o a Mosca o a Varsavia. Il 7 la Polonia respinse la proposta di Cicerin il quale, l’indomani, si rivolse alla Polonia ed alle grandi potenze dell’Intesa, con le quali non era ancora in rapporti, chiedendo che le trattative avvenissero a Londra o a Parigi».

Ma ormai non c’era più tempo; Pilsudski aveva deciso: e la parola passò alle armi.

Come si vede, l’ambasciatore Tommasini, pur essendo nel complesso filo-polacco, non esita ad indicare chiaramente la malafede con cui il governo di Varsavia condusse le trattative con quello di Mosca; né tace il fatto che Pilsudski, avendo ormai stabilito di lanciare l’offensiva in primavera, fece in modo di trascinare in lungo i negoziati, al solo scopo di guadagnare tempo e lasciar passare il rigidissimo inverno.

Se, poi, una tale linea politica da parte del governo polacco si possa considerare, almeno in parte, giustificata dalle circostanze assai complesse e potenzialmente pericolose, nelle quali era venuta a trovarsi, sulla frontiera orientale, la neonata Repubblica di Polonia, questa è una cosa sulla quale gli storici possono discutere a lungo.

Pilsudski attaccò per primo; ma non sempre chi attacca per primo porta su di sé l’intera responsabilità dello scoppio d’un conflitto.

Si potrebbero fare molti esempi significativi al riguardo; crediamo che quello della guerra franco-prussiana del 1870, e quello della stessa guerra franco-austriaca del 1859 (da noi chiamata seconda guerra d’indipendenza), siano sufficienti ad illustrare pienamente il concetto.

Dopo essersi alleato con il governo anticomunista ucraino dell’atamano Petljura, il 24 aprile Pilsudski lanciò una fulminea offensiva su Kiev, ove le truppe polacche entrarono, con il massimo ordine e senza colpo ferire, l’8 maggio.
Il maresciallo Tuchacevskij, però, aveva guidato l’Armtata Rossa in una violenta controffensiva, che si era spinta fin nel cuore della Polonia: non solo oltre la frontiera provvisoria, ma oltre la stessa “linea Curzon”.

A Varsavia si viveva aspettando, di ora in ora, l’irreparabile; ma Pilsudski, come Joffre, a Parigi, alla vigilia della battaglia della Marna, conservò il massimo sangue freddo e predispose abilmente le sue contromisure.

Così, sfruttando anche i consigli del generale francese Weygand (peraltro molto sopravvalutati da certi storici, mentre è vero che il piano strategico polacco era stato interamente preparato da Pilsudski), i Polacchi avevano sorpreso il nemico avanzante in disordine e lo avevano duramente battuto sotto le mura di Varsavia, inseguendolo poi fin dentro il territorio sovietico.

Il risultato di questo avanti e indietro dei due eserciti avversari, nelle paludi e nelle foreste fra Varsavia e Smolensk, venne sancito dalla pace di Riga, il 18 marzo 1921, con la quale veniva fissato il confine orientale della Polonia ben 250 km. a est del confine etnico.

In apparenza la Polonia aveva vinto e si era notevolmente ingrandita; in realtà, Pilsudski aveva dovuto ripiegare sulla soluzione del “semplice” ingrandimento allorché vide fallire, per la diffidenza dei suoi interlocutori lituani, ucraini e bielorussi, il suo progetto iniziale di costituire una vasta federazione jagellonica nell’Europa centro-orientale.

Adesso si era creata proprio quella situazione che egli avrebbe voluto in ogni modo evitare: la Germania e l’Unione Sovietica stava ridiventando forti e la Polonia, “gonfiata” dall’annessione di vasti territori ucraini e bielorussi, ma indebolita all’interno da quelle numerose minoranze etniche, non era riuscita a diventare una grande potenza, in modo da poter scongiurare per sempre l’incubo di nuove, future spartizioni da parte dei suoi temibili vicini.

Eppure, i governanti polacchi tra le due guerre continueranno a cullarsi nell’illusione di essere realmente alla guida di una grande potenza, capace di resistere vittoriosamente, se attaccata, sia alla Germania che all’Unione Sovietica, anche contemporaneamente. E la presunzione da grande potenza spinse quei governanti a sognare addirittura di acquisire un impero coloniale: al punto da avviare dei sondaggi presso il governo francese, per sapere che cosa ne pensasse di una eventuale cessione del Madagascar alla Polonia. Manovre che – è inutile sottolinearlo – irritarono profondamente la Francia, che sulla Polonia e sulla «Piccola Intesa» (Cecoslovacchia, Romania, Jugoslavia) aveva costruito, dopo la pace di Versailles, il suo sistema di potere in Europa orientale, per premunirsi contro un ritorno aggressivo della Germania.

Sta di fatto che, nella crisi dell’estate 1939, i governanti polacchi – forti anche della garanzia britannica – si illusero di poter sfidare qualunque minaccia tedesca ed, eventualmente, anche sovietica; al punto da assicurare il governo di Londra che, in caso di guerra, essi prevedevano che la loro cavalleria si sarebbe spinta nei pressi di Berlino entro le prime due settimane dalla mobilitazione…

Una clamorosa sopravvalutazione della propria forza, che non fu certo uno degli ultimi fattori che provocarono lo scoppio della seconda guerra mondiale.

Eppure, l’idea “federalista” di Pilsudski non è stata interamente bocciata dalla storia, visto che sia la Lituania, sia la Bielorussia, sia l’Ucraina sono realmente divenute degli Stati indipendenti, dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Questa era la parte “viva” della sua intuizione. La parte “morta” era il sogno di creare una federazione di questi Stati, sotto l’egida polacca, che riportasse in vita, in qualche modo, il glorioso Stato polacco-lituano di alcuni secoli prima.

Un sogno romantico, senza dubbio; ma, appunto, nient’altro che un sogno.

* * *

Tratto, con il gentile consenso dell’Autore, dal sito Arianna Editrice.

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samedi, 12 avril 2014

Entretien avec Kemi Seba à Bruxelles

Le militant panafricain Kemi Seba était à Bruxelles le 28 février dernier pour une conférence sur l’apport de la diaspora au continent africain.

 

 

La conférence était initialement prévue à l’Université Libre (?) de Bruxelles, mais cette dernière a fini par annuler au dernier moment cet événement. La conférence a donc eu lieu à un autre endroit, une salle dans la commune d’Anderlecht où plus de 400 personnes se sont données rendez-vous.

Kemi Seba revient son parcours, ses idées et ses actions concrètes sur le terrain. Nous avons aussi discuté de la place des blancs d’Afrique Australe et d’Afrique du Nord dans cette construction panafricaine.

Kemi Seba a eu la gentillesse de nous consacrer un peu de son temps et de son hospitalité afin de réaliser cet entretien que nous partageons avec vous.

E.I.Anass & Romarin

Friedrich Georg Jünger: The Titans and the Coming of the Titanic Age

Friedrich Georg Jünger:

 

The Titans and the Coming of the Titanic Age

 

 

Tom Sunic

 Translated from the German and with an Introduction by Tom Sunic

Friedrich Georg Jünger (1898-1977)

Friedrich Georg Jünger (1898-1977)

Introduction: Titans, Gods and Pagans by Tom Sunic

Below is my translation of several passages from the last two chapters from Friedrich Georg Jünger’s little known book, Die Titanen, 1943, 1944 (The Titans). Only the subtitles are mine. F.G. Jünger was the younger brother of Ernst Jünger who wrote extensively about ancient Greek gods and goddesses. His studies on the meaning of Prometheism and Titanism are unavoidable for obtaining a better understanding of the devastating effects of the modern belief in progress and the role of “high-tech” in our postmodern societies. Outside the German-speaking countries, F.G. Jünger’s literary work remains largely unknown, although he had a decisive influence on his renowned brother, the essayist Ernst Jünger. Some parts of F.G Jünger’s other book,Griechische Götter (1943) (Greek Gods), with a similar, if not same topic, and containing also some passages from Die Titanen, were recently translated into French (Les Titans et les dieux, 2013).

In the footsteps of Friedrich Nietzsche and along with hundreds of German philosophers, novelists, poets and scientists, such as M. Heidegger, O. Spengler, C. Schmitt, L. Clauss, Gottfried Benn, etc., whose work became the object of criminalization by cultural Bolsheviks and by the Frankfurt School in the aftermath of WWII, F. G. Jünger can also be tentatively put in the category of “cultural conservative revolutionaries” who characterized the political, spiritual and cultural climate in Europe between the two world wars.

Ancient European myths, legends and folk tales are often derided by some scholars, including some Christian theologians who claim to see in them gross reenactments of European barbarism, superstition and sexual promiscuity. However, if a reader or a researcher immerses himself in the symbolism of the European myths, let alone if he tries to decipher the allegorical meaning of diverse creatures in the myths, such as for instance the scenes from the Orphic rituals, the hellhole of Tartarus, or the carnage in the Nibelungen saga, or the final divine battle in Ragnarök, then those mythical scenes take on an entirely different meaning. After all, in our modern so-called enlightened and freedom-loving liberal societies, citizens are also entangled in a profusion of bizarre infra-political myths, in a myriad of weird hagiographic tales, especially those dealing with World War II vicitmhoods, as well as countless trans-political, multicultural hoaxes enforced under penalty of law. Therefore, understanding the ancient European myths means, first and foremost, reading between the lines and strengthening one’s sense of the metaphor.

There persists a dangerous misunderstanding between White nationalists professing paganism vs. White nationalists professing Christian beliefs. The word “paganism” has acquired a pejorative meaning, often associated with childish behavior of some obscure New Age individuals carrying burning torches or reading the entrails of dead animals. This is a fundamentally false conception of the original meaning of paganism. “Pagans,” or better yet polytheists, included scores of thinkers from antiquity, such as Seneca, Heraclites, Plato, etc. who were not at all like many modern self-styled and self-proclaimed “pagans” worshipping dogs or gazing at the setting sun. Being a “pagan” denotes a method of conceptualizing the world beyond the dualism of “either-or.” The pagan outlook focuses on the rejection of all dogmas and looks instead at the notion of the political or the historical from diverse and conflicting perspectives. Figuratively speaking, the plurality of gods means also the plurality of different beliefs and different truths.  One can be a good Christian but also a good “pagan.”  For that matter even the “pagan” Ernst Jünger, F.G. Jünger’s older brother, had a very Catholic burial in 1998.

When F.G Jünger’s published his books on the Titans and the gods, in 1943 and in 1944, Germany lay in ruins, thus ominously reflecting F.G. Jünger’s earlier premonitions about the imminent clash of the Titans. With gods now having departed from our disenchanted and desacralized White Europe and White America, we might just as well have another look at the slumbering Titans who had once successfully fought against Chaos, only to be later forcefully dislodged by their own divine progeny.

Are the dozing Titans our political option today? F.G. Jünger’s book is important insofar as it offers a reader a handy manual for understanding a likely reawakening of the Titans and for decoding the meaning of the new and fast approaching chaos.

*    *    *

THE TITANS: CUSTODIANS OF LAW AND ORDER

….The Titans are not the Gods even though they generate the Gods and relish divine reverence in the kingdom of Zeus. The world in which the Titans rule is a world without the Gods. Whoever desires to imagine a kosmos atheos, i.e. a godless cosmos, that is, a cosmos not as such as depicted by natural sciences, will find it there. The Titans and the Gods differ, and, given that their differences are visible in their behavior toward man and in view of the fact that man himself experiences on his own as to how they rule, man, by virtue of his own experience, is able to make a distinction between them.

Neither are the Titans unrestrained power hungry beings, nor do they scorn the law; rather, they are the rulers over a legal system whose necessity must never be put in doubt. In an awe-inspiring fashion, it is the flux of primordial elements over which they rule, holding bridle and reins in their hands, as seen inHelios. They are the guardians, custodians, supervisors and the guides of the order. They are the founders unfolding beyond chaos, as pointed out by Homer in his remarks about Atlas who shoulders the long columns holding the heavens and the Earth. Their rule rules out any confusion, any disorderly power performance. Rather, they constitute a powerful deterrent against chaos.

The Titans and the Gods match with each other. Just as Zeus stands in forKronos, so does Poseidon stand in opposition to Oceanus, or for that matterHyperion and his son Helios in opposition to Apollo, or Coeus and Phoebe in opposition to Apollo and Artemis, or Selene in opposition to Artemis.

THE TITANS AGAINST THE GODS

What distinguishes the kingdom of Kronos from the kingdom of Zeus? One thing is for certain; the kingdom of Kronos is not a kingdom of the son. The sons are hidden in Kronos, who devoured those he himself had generated, the sons being now hidden in his dominion, whereas Zeus is kept away from Kronos by Rhea, who hides and raises Zeus in the caverns. And given that Kronos comports himself in such a manner his kingdom will never be a kingdom of the father. Kronos does not want to be a father because fatherhood is equivalent with a constant menace to his rule. To him fatherhood signifies an endeavor and prearrangement aimed at his downfall.

What does Kronos want, anyway? He wants to preserve the cycle of the status quo over which he presides; he wants to keep it unchanged. He wants to toss and turn it within himself from one eon to another eon. Preservation and perseverance were already the hallmark of his father. Although his father Uranusdid not strive toward the Titanic becoming, he did, however, desire to continue his reign in the realm of spaciousness. Uranus was old, unimaginably old, as old as metal and stones. He was of iron-like strength that ran counter to the process of becoming. But Kronos is also old. Why is he so old? Can this fluctuation of the Titanic forces take on at the same time traits of the immovable and unchangeable? Yes, of course it can, if one observes it from the perspective of the return, or from the point of view of the return of the same. If one attempts it, one can uncover the mechanical side in this ceaseless flux of the movement. The movement unveils itself as a rigid and inviolable law.

THE INFINITE SADNESS OF THE TITANS

How can we describe the sufferings of the Titans? How much do they suffer anyway, and what do they suffer from? The sound of grief uttered by the chainedPrometheus induces Hermes to derisive remarks about the same behavior which is unknown to Zeus. In so far as the Titans are in the process of moving, we must therefore also conceive of them as the objects of removal. Their struggle is onerous; it is filled with anxiety of becoming. And their anxiety means suffering. Grandiose things are being accomplished by the Titans, but grandiose things are being imposed on them too. And because the Titans are closer to chaos than Gods are, chaotic elements reveal themselves amidst them more saliently. No necessity appears as yet in chaos because chaos has not yet been measured off by any legal system. The necessity springs up only when it can be gauged by virtue of some lawfulness. This is shown in the case of Uranus and Kronos. The necessary keeps increasing insofar as lawfulness increases; it gets stronger when the lawful movements occur, that is, when the movements start reoccurring over and over again.

Mnemosyne (The Titaness of Memory) (mosaic, 2nd ct. AD)

Mnemosyne (The Titaness of Memory) (mosaic, 2nd century AD)

Among the Titanesses the sadness is most visible in the grief of Rhea whose motherhood was harmed.  Also in the mourning ofMnemosyne who ceaselessly conjures up the past. The suffering of this Titaness carries something of sublime magnificence. In her inaccessible solitude, no solace can be found. Alone, she must muse about herself — a dark image of the sorrow of life. The suffering of the Titans, after their downfall, reveals itself in all its might. The vanquished Titan represents one of the greatest images of suffering. Toppled, thrown down under into the ravines beneath the earth, sentenced to passivity, the Titan knows only how to carry, how to heave and how to struggle with the burden — similar to the burden carried by the Caryatids.

THE SELF-SUFFICIENT GODS

The Olympian Gods, however, do not suffer like the Titans. They are happy with themselves; they are self-sufficient. They do not ignore the pain and sufferings of man. They in fact conjure up these sufferings, but they also heal them. In Epicurean thought, in the Epicurean  world of happiness, we observe the Gods dwelling in-between-the-worlds, divorced from the life of the earth and separated from the life of men, to a degree that nothing can ever reach out to them and nothing can ever come from them. They enjoy themselves in an eternal halcyon bliss that cannot be conveyed by words.

The idea of the Gods being devoid of destiny is brought out here insofar as it goes well beyond all power and all powerlessness; it is as if the Gods had been placed in a deepest sleep, as if they were not there for us. Man, therefore, has no need to think of them. He must only leave them alone in their blissful slumber. But this is a philosophical thought, alien to the myth.

Under Kronos, man is part of the Titanic order. He does not stand yet in the opposition to the order — an opposition founded in the reign of Zeus. He experiences now the forces of the Titans; he lives alongside them. The fisherman and boatman venturing out on the sea are in their Titanic element. The same happens with the shepherd, the farmer, the hunter in their realm. Hyperion, Helios and Eos determine their days, Selene regulates their nights. They observe the running Iris, they see the Horae dancing and spinning around throughout the year. They observe the walk of the nymphs Pleiades and Hyadesin the skies. They recognize the rule of the great Titanic mothers, Gaia, Rhea, Mnemosyne and that of Gaia-Themis. Above all of them rules and reigns the old Kronos, who keeps a record of what happens in the skies, on the earth, and in the waters.

TITANIC NECESSITY VS. DIVINE DESTINY

The course of human life is inextricably linked to the Titanic order. Life makes one whole with it; the course of life cannot be divorced from this order. It is the flow of time, the year’s course, the day’s course. The tides and the stars are on the move. The process resembles a ceaseless flow of the river. Kronos reigns over it and makes sure it keeps returning. Everything returns and everything repeats itself — everything is the same. This is the law of the Titans; this is their necessity. In their motion a strict cyclical order manifests itself. In this order there is a regular cyclical return that no man can escape. Man’s life is a reflection of this cyclic order; it turns around in a Titanic cycle of Kronos.

Man has no destiny here, in contrast to the demigods and the heroes who all have it. The kingdom of Zeus is teeming with life and deeds of heroes, offering an inexhaustible material to the songs, to the epics and to the tragedies. In the kingdom of Kronos, however, there are no heroes; there is no Heroic Age. For man, Kronos, and the Titans have no destiny; they are themselves devoid of destiny. Does Helios, does Selene, does Eos have a destiny? Wherever the Titanic necessity rules, there cannot be a destiny. But the Gods are also deprived of destiny wherever divine necessity prevails, wherever man grasps the Gods in a fashion that is not in opposition to them. But a man whom the Gods confront has a destiny. A man whom the Titans confront perishes; he succumbs to a catastrophe.

We can say, however, that whatever happens to man under the rule of the Titans is a lot easier than under the rule of the Gods. The burden imposed on man is much lighter.

*   *   *

What happens when the Gods turn away from man and when they leave him on his own? Wherever they make themselves unrecognizable to man, wherever their care for man fades away, wherever man’s fate begins and ends without them, there always happens the same thing. The Titanic forces return and they validate their claims to power. Where no Gods are, there are the Titans. This is a relationship of a legal order which no man can escape wherever he may turn to. The Titans are immortal. They are always there. They always strive to reestablish their old dominion of their foregone might. This is the dream of the Titanic race of the lapetos, and all the Iapetides who dream about it. The earth is penetrated and filled up with the Titanic forces. The Titans sit in ambush, on the lookout, ready to break out and break up their chains and restore the empire of Kronos.

TITANIC MAN

What is Titanic about man? The Titanic trait occurs everywhere and it can be described in many ways. Titanic is a man who completely relies only upon himself and has boundless confidence in his own powers. This confidence absolves him, but at the same time it isolates him in a Promethean mode. It gives him a feeling of independence, albeit not devoid of arrogance, violence, and defiance. Titanic is a quest for unfettered freedom and independence. However, wherever this quest is to be seen there appears a regulatory factor, a mechanically operating necessity that emerges as a correction to such a quest. This is the end of all the Promethean striving, which is well known to Zeus only. The new world created by Prometheus is not.

Dr. Tom Sunic is a former political science professor, author and a Board member of the American Freedom Party. He is the author of Against Democracy and Equality; The European New Right.

vendredi, 11 avril 2014

Jacqueline de Romilly: La grandeur de l'homme au siècle de Périclès

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Jacqueline de Romilly, La grandeur de l'homme au siècle de Périclès, Editions de Fallois, 2010.

Ex: http://cerclenonconforme.hautetfort.com

Helléniste française de renom international, membre de l’Académie Française, Jacqueline de Romilly est décédée en 2010. Quelques mois avant sa mort, elle écrivit (ou plutôt dicta) cet essai qui répondait à son triste constat quant à la réalité de notre époque : le niveau culturel baisse inexorablement et les textes antiques ne sont plus lus. Or, pour l’auteure, il est impératif de se ressourcer auprès de ces grands textes afin d’y trouver les réponses sur nous-mêmes et de préparer notre futur car « nous vivons une époque d’inquiétude, de tourments, de crise économique, et –par suite- de crise morale ». Cette louable préoccupation, qu’on retrouvait également chez Dominique Venner, explique pourquoi je me suis intéressé à cet ouvrage dont je vais tenter d’extraire plus bas les aspects qui m’ont le plus marqué.

1. Que signifie, pour les auteurs grecs de l’époque de Périclès (Vème siècle avant JC), cette idée, exprimée pour la première fois sans doute, de grandeur de l’homme ? 

romilly.jpgJacqueline de Romilly se base ici sur Sophocle et surtout Thucydide où elle décèle les éléments d’une sagesse politique tendant à des vérités valables pour le présent mais aussi l’avenir.

La grandeur de l’homme s’entend comme l’agrégat de plusieurs éléments: en plus de l’intelligence et de l’ingéniosité propres aux hellènes, c’est ce sentiment que la nature humaine dans ce qu’elle a de plus « humain » (égoïsme, paresse, passions –au mauvais sens du terme- diverses) se doit d’être dominée. « La grandeur de l’homme, nous dit effectivement J. de Romilly, c’est de s’élever contre sa nature ».

Dans sa Guerre du Péloponnèse, Thucydide faisait justement remarquer que nombre des acteurs politiques de l’époque étaient souvent mus par de bas mais très humains motifs personnels au lieu de rechercher avant tout le bien commun. Il soulignait par ailleurs que Périclès, à la différence de ceux-là, était honnête et incorruptible. Il disait la vérité au peuple et cherchait à le guider pour le bien de la cité. Voilà ce qu’est un dirigeant valable : un homme rempli de qualités morales qui fera rejaillir celles-ci chez le peuple qui a besoin de tels meneurs. Seul, le peuple ne peut en effet ni dominer sa nature ni tendre vers le supérieur car il lui manque des responsables exemplaires, disposant de hautes vertus, et donc, capables de le conduire vers davantage de grandeur. En effet, le peuple est trop marqué par sa nature profonde, sa légèreté et son manque de réflexion (il est ainsi capable de s’enthousiasmer facilement pour le premier démagogue venu), pour évoluer sans guides. Toute réussite politique est donc le fruit de la recherche du bien commun couplé à une morale forte. Elle implique la rencontre d’esprits éclairés et d’une base réceptive.

D’ailleurs, les points principaux de l’idéal politique de Périclès se retrouvent chez Thucydide (dans son oraison funèbre des morts, Livre II) : le respect des gens et de la loi, l’absence de trop de coercition, la participation à la vie publique (tout en ayant une vie privée), la célébration des fêtes, le respect des morts et de leur gloire passée, le courage et le dévouement à la cité. Cet ensemble de rites et de vertus cimentent la communauté dans la recherche du bien pour le plus grand nombre. Les citoyens sont donc fiers, responsables et peuvent mener un mode de vie éclairé par la liberté, ce qui les mène sur les chemins de la grandeur.

On pourrait par ailleurs ajouter à ce tableau idéal les idées que l’auteure n’évoque que trop rapidement : la morale qui perle à cette époque à propos de la solidarité, de l’indulgence et du pardon ou encore ce qu’on retrouve dans Socrate et Platon qui, d’un point de vue religieux, placent le but de l’homme dans son « assimilation à Dieu »…

2. En quoi la figure du héros tragique nous aide à mieux cerner ce qu’est la grandeur de l’homme ?

Se basant également sur les tragédies de la même époque se rapportant aux héros grecs, la grande helléniste nous montre un autre aspect de cette grandeur de l’homme à travers l’étude de leur sort.  Dans les tragédies d’Eschyle ou d’Euripide, les héros et leurs proches sont tous frappés de désastres et souffrent allégrement. Bien sûr, des personnages aussi différents qu’Œdipe ou Médée sont très souvent emportés par leurs passions, la première tue ses enfants pour se venger de Jason et le second (chez Euripide) tue toute sa famille. Pourtant, et ce point est fondamental, ils ne sont que des victimes de la volonté divine. Les dieux, par châtiment ou hostilité, inspirent démesure, folie ou actes insensés aux hommes et aux héros qui subissent cet « égarement » qu’ils craignent au plus haut point tant il est une menace pour leur dignité et leur grandeur. C’est un fait, l’homme (ou le héros qui est une sorte de demi-dieu) est fragile, voire minuscule face aux dieux.

Pourtant, même abattu ou humilié, le héros ne perd pas de sa grandeur. Le malheur le rend encore plus grand à nos yeux car il n’est pas synonyme d’abandon. Il prouve que le héros de la tragédie est prêt à tout pour atteindre son but : il accepte les épreuves et le sacrifice ultime : la mort.

Le spectacle répété des tragédies amenait ainsi le public à accéder à un monde de grandeur où se déroulait ce que Jacqueline de Romilly appelle « la contagion des héroïsmes ». La grandeur des héros pénétrait les habitudes de pensée des Grecs et influait sur leurs esprits et leurs idéaux. Savoir se sacrifier alors qu’on sait n’être que fragilité face aux dieux magnifie d’autant plus, chez l’homme, sa grandeur. D’ailleurs, l’exemple d’Ulysse qui fait face au courroux de Poséidon et à mille autres dangers le montre bien.

Les grecs n’étaient pas des optimistes béats et avaient bien conscience que l’homme mène une vie difficile où les épreuves et les pièges sont légions, avant tout à cause de sa fragilité et de sa nature intrinsèque. Pourtant, ils avaient fait le choix de dominer cela et de se vouer à un idéal supérieur, durable et beau, atteignable seulement par un travail constant sur soi impliquant efforts et triomphe de la volonté. Ils nous montraient un chemin, un élan intérieur, que nous devrions chacun essayer de suivre avec ardeur car tendre vers cette grandeur est un désir que nous nous devons de poursuivre en tant qu’Européens conscients de notre héritage et désireux de construire notre avenir. Car notre premier travail, il est à faire sur nous-mêmes. Et nous sommes notre premier ennemi.

Rüdiger

Note du C.N.C.: Toute reproduction éventuelle de ce contenu doit mentionner la source.

Entrevista con Giorgio Freda

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Entrevista con Giorgio Freda

Esta entrevista fue publicada por el “Comité de Solidaridad con Giorgio Freda”, con sede en Lausana, con el título: “Giorgio Freda, ¿”nazimaoísta o revolucionario inclasificable”?

¿Cual ha sido la contribución política y cultural que pensáis haber conseguido con las “Edizioni di Ar”?

Necesitamos distinguir entre diversos planos. Si se habla de evaluar la eficacia sobre el plano político-cultural creo que la contribución ha sido bastante discreta, visto y considerado que los dos mil suscriptores de las “edizioni di Ar” no representan nada desde este punto de vista. Pero desde el punto de vista de su validación objetiva creo que nuestra iniciativa ha ofrecido a dos mil personas la posibilidad de acceder a determinados instrumentos que anteriormente o estaban prohibidos o eran inencontrables. En 1964, por ejemplo, cuando las “edizioni di Ar” publicaron su primer libro (“Sobre la desigualdad de las razas humanas”, de Gobineau), el medio al cual nos dirigíamos estaba completamente falto de una cierta cultura que no fuese oleográfica, pietista o hagiográfica. Un medio cultural miserable y desolado para el cual nuestros libros -en particular las obras de Evola- significaban una ruptura drástica y provocadora… Entre otras obras significativas que hicieron impacto cabe destacar las de Cornelio Codreanu, capitán de la Guardia de Hierro rumana.

¿La obra de Codreanu puede haber contribuido a orientar de un cierto modo a los militantes políticos de un cierto radicalismo de la derecha?

Para ser sincero, las obras de Codreanu pueden haber dado nacimiento a ciertos equívocos… He notado que muchos, leyendo sus textos, se inflaman, mientras que al leer una obra de Evola se imaginan ser hombres diferentes y se fabrican una serie de alivios para superar su efectiva miseria existencial. Sobre el plano de la intervención política, no creo que las “edizioni di Ar” hayan conseguido sus resultados. Debo insistir más en los valores testimoniales de esta iniciativa editorial, que ha conducido a mucha gente a meditar sobre la falsedad de sus posiciones intelectuales.

“La Desintegración del Sistema” recoge, por una parte, una crítica severa de las posiciones nacional-europeas y por la otra propone la constitución de un frente común del neofascismo y de la ultraizquierda para la destrucción del sistema. ¿Cómo es que esta obra no ha tenido un eco en la ultraizquierda? ¿Es posible este frente? ¿Es qué sentido es evaluada la situación italiana?

Comencemos por la última pregunta. En los últimos años la situación italiana ha sufrido una involución antes que una evolución. Desde mi punto de vista y desde el de los amigos que asumieron junto a mí, en 1969, una misma línea de combate, la ultraizquierda de la Italia de los ´60 aparecía animada por unas tendencias que no eran estúpidas: pensábamos que podrían llegar a superar la fascinación y la seducción de la imaginería del antifascismo. En otros términos, pensábamos que la ultraizquierda podría representar una vanguardia, un vehículo paralelo a otros vehículos que marchaban en la misma dirección: la ruptura del sistema. Un sistema que, desde 1945, hace pesar sobre la vida política italiana una interminable y lúgubre noche. Pero apenas el aparato de la izquierda institucional comenzó con su proyecto contrarrevolucionario, la ultraizquierda respondió eficazmente al milagro sagrado del antifascismo; la ultraizquierda sólo puede ir a remolque de la izquierda oficialista. Desde otras consideraciones, reposa más sobre la experiencia personal que sobre consideraciones abstractas y categóricas. Aún cuando el militante de la ultraizquierda coincida en puntos con el militante de la “destra radicale”, en el momento de avanzar en su diagnostico, de reflejar los valores de convergencia, en el momento de la intervención activa, el hombre de la ultraizquierda se cree poseído, condicionado, manipulado por los radicales de la derecha. Así, manifiesta un miedo, se siente culpable. Es suficiente que un viejo partisano les diga: Hemos luchado treinta años contra el nazi-fascismo, y tú, joven intelectual de izquierdas, tú nos traicionas uniéndote a los que combatimos tantos años. Y entonces se vuelve y grita: Tú, fascista, tú no te acuestas conmigo porque nos animen las mismas exigencias, por una voluntad de abatir al enemigo común, sino para provocarme. Nosotros, los de la izquierda revolucionaria no tenemos nada que hacer con los provocadores fascistas, y es mucho mejor que retornemos a la gran madre de la izquierda democrática burguesa.

Si, pero la ultraizquierda ignora vuestras tesis de unidad antiburguesa y hacen pasar por provocadores a aquellos que, al contrario, partiendo de las posiciones neofascistas, han rechazado la invitación a batirse contra la ultraizquierda (1)

fr351271605.jpgEs verdad. este equívoco es alimentado por los mercenarios del MSI, “Movimento Sionista Italiano”, un conjunto de borregos vendidos a los intereses del partido judío-americano. Así, mientras nosotros intentábamos proponer al radicalismo de izquierda y de derecha un bloque político unitario y homogéneo en la acción y diversificado en sus premisas doctrinarias, los dos partidos a la extrema derecha y a la extrema izquierda (MSI y PCI), que favorecen el equilibrio del sistema político de centro, viendo sus posiciones amenazadas, realizaron una obra de reacción simétrica: desde un lado el PCI arroja fuera a sus viejos parientes (a los que inmediatamente les inunda la nostalgia) y, por el otro, el MSI lanza a sus bandas armadas. De este modo, “los Freda” devienen en nazis para los unos y en maoístas para los otros, sin posibilidad de apelación. La fórmula paradójica del “nazimaoísmo” -no del todo falsa, pero no del todo justificada- permite escindir sus elementos constitutivos, porque los comunistas tienden a relevar el aspecto “nazi” para aterrorizar a sus compañeros, y los neofascistas del MSI evidencian sobre todo el aspecto “maoísta” para detener a sus camaradas… Quisiera aclarar otro punto. Ocurre que yo no soy y no me considero un intelectual, si debo considerarme una cosa, yo soy un soldado político, y no se reconoce a un soldado político por sus bellas palabras, sino por su comportamiento, por el ejemplo que propone. En otras palabras, quien quiera entender que entienda. No creo que por el hecho de haber elaborado ciertos temas tenga que provocar ciertas conversiones. Los mil quinientos ejemplares de la “La Desintegración del Sistema” fueron publicados después de mi arresto y después de que se concentraran sobre mí las sospechas de la organización de la masacre de Piazza Fontana. Para ser sincero, este texto está más prisionero de la ultraizquierda que del neofascismo. Y lo afirmo sobre la base de ciertos hechos que me han hecho reflexionar..

En efecto, hemos oído decir que ciertos grupos de la ultraizquierda han estudiado y tamizado el “programa Freda”.

Este texto no es mi programa. Constituye la representación, sobre el plano ideológico, de algunas exigencias comunes a un determinado “medio”. Una parte de “Joven Europa”, por ejemplo, asume algunas de estas posiciones. Igualmente, el grupo “Lotta di Popolo”, de Roma, ha elaborado tesis similares a las de la “Desintegración”. Por ello insisto en el carácter impersonal de estas tesis.

Tu interpretación de la cuestión judía está perfectamente expuesta en una entrevista con Mutti. ¿Podrías resumirla?

Se puede decir paradójicamente que la cuestión judía no existe porque todo el mundo está hebreizado. El antisemitismo es un concepto general, vulgar y banal. Desde un punto de vista etimológico, este término no corresponde al tipo de polémica que queremos señalar. Decimos, por ello, antijudaísmo o antihebreísmo. Hoy en día hablar de judaísmo o de americanismo, de sionismo o de occidentalismo, es más o menos la misma cosa, y la lucha antijudía se identifica con la lucha contra el occidente americanizado.

¿Es posible actualmente oponer la idea de Europa a la de Occidente? ¿En qué modo la Europa-Nación puede representar un mito, una idea-fuerza?

¿Quién lo ha dicho? No es casualidad que este slogan sea adorado por los chicos del MSI, las tesis que durante años, desde el fin de la guerra, han sido víctimas del histerismo pequeño-nacionalista. Al menos, hombres como Jean Thiriat tienen el mérito de haber alargado los horizontes, de contribuir a arrojar ese provincianismo de muchos militantes de la extrema derecha. Pero la dimensión europea no es suficiente por sí sola para crear una idea-fuerza. Este es el límite de Jean Thiriart…

Precisamente es la ausencia de una orientación tradicionalista la que ha permitido ciertas afirmaciones antiárabes. Por otra parte, ciertos sectores han presentado la lucha de liberación europea como una aspiración a un nuevo imperialismo que sabría ocupar el puesto de los vencedores de Yalta. De aquí deriva una cierta adhesión de Thiriart a un concepto “maquiavélico” de la política que hace que sea vista como el reflejo de las acciones de ciertos personajes como Felipe el Guerrero, Pedro el Grande o Lenin…

Sabemos muy qué es lo que es el alma burguesa del concepto de la nación, un alma que se manifiesta en fenómenos que van de la aparición de la monarquía nacionalista hasta los diversos sentimientos nacionales del presente siglo. Segundo, para mí los árabes han cometido un error tremendo cuando decidieron hacerle el juego a las superpotencias en vez de apoyar en Europa a las fuerzas que se oponían a las mismas superpotencias. Cierto, los árabes han sido víctimas de la propaganda del imperialismo que perseguía presentar a estas fuerzas como los herederos del fascismo de ayer, y no han sabido distinguir entre los nostálgicos del colonialismo y los que se oponían al colonialismo burgués. Así, cuando alguien le dice a un libio, “Freda es nazi”, el libio traduce, “Freda es nazi, luego es fascista, luego es uno de esos que nos explotaron decenios ha”. Así, cuando Freda les propone un diálogo sobre el colonialismo, responden con un “nno-mme-interesa”. En consecuencia, si queremos ser indulgentes con la actual política de los árabes, debemos por lo menos concluir que no disponemos de datos suficientes, a menos que no queramos trabajar con los presupuestos de la “Realpolitik”. Recuerdo que los palestinos, en el Norte, a la hora de organizar una manifestación, se dirigieron a los organizadores comunistas y socialistas, aún sabiendo que entre los segundos se encontraban los mayores propagandistas del sionismo en Italia.

Una pregunta sobre la revolución china. En tus “Dos cartas concordantes” se propone una interpretación original de la revolución china. Esta simpatía política por los regímenes del Tercer Mundo (2), ¿viene determinada por la aversión hacia el mercantilismo y el imperialismo o de aquella convicción de que sería positivo el advenimiento del Cuarto Estado en vistas a una restauración de lo humano absoluto (3)? ¿En qué se distingue de Evola?

Evola ve el advenimiento del Cuarto Estado como la subversión prevaricadora del proletariado. El Cuarto Estado, como yo lo entiendo, si se quiere respetar su eventual autonomía original, no puede ser la clase del proletariado, porque el proletariado no tiene ninguna autonomía, siendo, desde un punto de vista sociológico y no psicológico, el resultado de un desplazamiento burgués…

En efecto, el marxismo ha dicho que “el proletariado sigue a la burguesía como su sombra”…

Si, en esta hipótesis se funda la ecuación Cuarto Estado = proletariado. Por otra parte, yo no veo qué impide aceptarla. Si algo debe seguir a la era burguesa, desde luego no va a ser la sociedad proletaria, pues ¿acaso no forman una sola cosa?

Jünger había anunciado la era del Trabajador…

Es otro que coloca, “sic et sempliciter”, la identidad Cuarto Estado igual a proletariado, y debe rendirse en que su hipótesis no está verificada históricamente, porque los regímenes que han sido considerados como socialistas, proletarios, etc. no son sino prolongaciones de los regímenes burgueses.

Es imposible recoger en un único juicio los regímenes que se dicen socialistas. Los estados burocráticos de la Europa oriental pueden ser prolongaciones burguesas, pero no así los regímenes socialistas de China, Camboya, etc., aunque la China ha cambiado profundamente desde la muerte de Piao…

De acuerdo. Las categorías del pensamiento occidental no pueden ser inmediatamente aplicadas a los medios culturales totalmente diferentes. No es posible que la tradición china, pese a las contaminaciones que Occidente ha tratado de imponerle, pueda disolverse, y por consecuencia un marxismo-leninismo chino es, en realidad, imposible. Es imposible que los exégetas del rabino de Trevi (Marx) puedan ver sus tesis aplicadas indiferentemente a los judíos franceses, los intelectuales italianos y los campesinos chinos. No soy un sinólogo, nunca he visto China, a no ser bajo sus representaciones occidentales.

En un escrito de 1932 René Guènon predecía la destrucción del aspecto externo de la tradición china (el confucionismo), pero afirmaba que su aspecto interno (el taoísmo) sabría sobrevivir. Y, en efecto, se aprecian numerosísimos aspectos taoístas en la doctrina de Mao. Por otra parte, los últimos desarrollos de la realidad china son preocupantes…

Por retomar la cuestión del advenimiento del Cuarto Estado y del inicio de la nueva era, ¿podríamos decir que ha comenzado sin que nos diéramos cuenta? ¿ O se puede decir -por usar una bella imagen de Evola- que el punto más oscuro de nuestra noche todavía no ha pasado? En el segundo caso nos encontramos ante la presencia de formas históricas fosilizadas, cara a un mundo de caracoles, de fósiles abandonados en la riada de la marea cíclica. Frente a estos hechos, ¿qué valor pueden tener los restos escolásticos de los talmudistas del tradicionalismo?

¿Te refieres a los “evolamaníacos”?

Sí, a los sacristanes del evolismo, a aquellos que con la excusa de la inminencia del fin del mundo y del advenimiento del Mesías, dicen que no se puede hacer nada, y se dedican a disertar sobe los valores de los sacro. Pero me consta que no hablan con Dios, sino, todo lo más, con los curas…

Pasemos a otro problema. ¿Existe alguna posibilidad de resistencia a la represión desatada en Italia y de desarrollar un movimiento de oposición al régimen democrático?

Una oposición al régimen en Italia se ejerce indudablemente por algunas de las vanguardias de la ultraizquierda, como las “Brigadas Rojas”. Por parte del radicalismo de la derecha, conozco un solo caso: la ejecución de un magistrado que se distinguía particularmente en su celo represivo (4), pero no se puede decir que esto traiga una producción en cadena, como se dice en las fábricas; es un hecho esporádico. Combatir al régimen quiere decir ajusticiar a sus magistrados, quiere decir golpear de modo ejemplar a sus hombres más representativos…

La represión indiscriminada contra la ultraizquierda y los neofascistas, ¿no podría favorecer la tesis invocada en “La Desintegración del Sistema”, realizar la unidad de acción de los opositores al sistema?

Esto no lo puedo anunciar, pero si así fuera me quedaría la pequeña satisfacción personal de haber anticipado tal fenómeno…

lunes 15 de diciembre de 2008

NOTAS:

1) En Italia, un “radical” suele ser un miembro de la “destra”, y un “ultra” un militante de izquierdas.

2) La simpatía por el Tercer Mundo no es rara entre los intelectuales, así como la confusión que suele crear, veamos dos ejemplos aparentemente contradictorios: “Entre Guevara y Mishima, entre el intelectual suramericano que busca la “bella morte” entre el surco de los “liberadores” (en español, en el original) y entre los “caudillos” de las sendas románticas de la independencia y el escritor nipón que reivindica con su espectacular Harakiri la ética del heroísmo, existe una fidelidad común a los valores tradicionales”

(“Momentos de la experiencia política latinoamericana”, Ludovico Garriccio, Bolonia 1974)

“Castro es un promotor de la liberación. Se ha visto obligado a arrojarse a un imperialismo por la terrible amenaza de la vecindad del otro. Pero el objetivo de los cubanos es la liberación de los pueblos de América Latina. Su intención es la de construir una extensa red de puentes para la liberación de los países continentales. El “Che” es un símbolo de esta liberación. Ha sido grande porque ha servido a una gran causa, la ha encarnado. Es un hombre para un ideal. El espíritu sigue siendo el factor fundamental de la relación entre el hombre y el arma, porque ésta última, por muy moderna que sea, sigue siendo un objeto inerte sin la intervención del hombre”

(entrevista de Jean Thiriart al general Perón, en “La Nation Européene”)

3) Es la tesis de Evola en “Cabalgar el tigre”: la lucha actual consiste en la aceleración de todas las contradicciones del sistema, en vistas a su derrumbe total que permitiría edificar una nueva sociedad. Y la mayor contradicción sería la toma del poder por el “Cuarto Estado”.

4) Vittorio Occorsio, ejecutado por los N.A.R. el 11 de julio de 1976.

jeudi, 10 avril 2014

Oswald Spengler, le théoricien du déclin de l'Occident


Philippe Conrad

Oswald Spengler, le théoricien du déclin de l'Occident

par Cercle Ernest Renan

Giorgio Locchi et le mythe surhumaniste

 

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Giorgio Locchi et le mythe surhumaniste

par Edouard Rix

 

«Es klang so alt, und war doch so neu »

(Cela sonnait si ancien, et était pourtant si nouveau)

Richard Wagner, Les Maîtres-chanteurs de Nuremberg

« J’ai deux inspirateurs principaux : Nietzsche et Giorgio Locchi » confesse Guillaume Faye, pour qui « sans Giorgio Locchi et son oeuvre, qui se mesure à son intensité et non point à sa quantité, et qui reposa aussi sur un patient travail de formation orale, la véritable chaîne de défense de l’identité européenne serait probablement rompue »(1). De même, si dans ses mémoires Alain de Benoist n’accorde qu’une ligne à l’apport de Guillaume Faye et de Robert Steuckers à la Nouvelle droite(2), il admet toutefois : « C’est en grande partie sous l’influence de Locchi que la ND des années 70 a désigné l’égalitarisme comme ennemi principal. La dizaine d’articles de lui que j’ai publiés dans Nouvelle Ecole comptent certainement parmi les meilleurs jamais parus dans cette revue »(3).

C’est au milieu des années 60 que de Benoist rencontre Giorgio Locchi, journaliste italien installé à Paris où il est le correspondant du quotidien romain Il Tempo. Ce docteur en droit de 43 ans impressionne le jeune homme, qui l’invite à écrire dans les Cahiers universitaires. Fin 1966, il publie dans le numéro 29 un article dans lequel il s’interroge sur le possibilité d’une « science historique » à la lumière des récents enseignements de la microphysique. Persuadé que le devenir historique exige une rupture pour réaffirmer « la soumission des masses aux élites, la nécessité d’une société pyramidale », Locchi précise qu’« il n’y aura d’histoire que par la volonté de faire l’histoire »(4).

Parallèlement, sous le pseudonyme de Hans-Jürgen Nigra, il collaborera irrégulièrement à Défense de l’Occident. Les spécialistes autoproclamés de l’extrême-droite Jean-Yves Camus et René Monzat l’identifieront (sic) comme l’un des militants « allemands » qui s’expriment dans la revue de Maurice Bardèche - ce qui aurait fait sourire ce germaniste accompli -.

Il était une fois le GRECE

Entré au comité de rédaction de Nouvelle Ecole en 1969, Giorgio Locchi sera l’un des principaux initiateurs du GRECE. Ce n’est pas un hasard si le numéro 6 de la revue, daté de l’hiver 1968-1969, reproduit l’intégralité de la communication qu’il a envoyée au 1er colloque de l’Institut d’études occidentales. Avec ce texte, d’imprégnation nietzschéenne, qui s’inspire des critiques généalogiques de l’égalitarisme et de l’universalisme - renvoyés à leurs origines judéo-chrétiennes - présentes dans Par delà le bien et le mal et le Crépuscule des idoles, Locchi fournit le cadre philosophico-historique dans lequel s’inscrira le GRECE des années 70. « Le marxisme, écrit-il, a bel et bien poussé jusque dans ses extrêmes conséquences une idée qui, depuis deux mille ans dominait la réflexion européenne (...). Cette idée est l’idée égalitaire, introduite dans le monde romain grâce au christianisme ». Il poursuit : « Ce sera le fait de la Révolution française que de vouloir appliquer le concept égalitaire à un des aspects de la réalité humaine, c’est-à-dire dans la loi ».

 

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Dans une conférence prononcée lors du 5ème séminaire régional du GRECE, qui se tient à Paris le 16 avril 1972 sur le thème « Nietzsche et notre temps », il définit ainsi le projet politique nietzschéen - que l’on peut lui attribuer en propre - : « Combattre l’égalitarisme : tel est le but essentiel que s’est fixé Nietzsche (...) Nietzsche appelle une aristocratie qui puisse tirer son droit de diriger la masse de ses qualités naturelles, de sa valeur. Une aristocratie qui représente un type d’homme supérieur »(5). Fin connaisseur de la Nouvelle droite, Pierre-André Taguieff souligne que Locchi a permis à Alain de Benoist « de lire Nietzsche dans la double perspective d’une généalogie de l’égalitarisme moderne et de la définition d’une “grande politique“ centrée sur l’idée européenne »(6). L’une des premières brochures doctrinales publiées par le GRECE(7) doit d’ailleurs beaucoup au penseur italien...

Taguieff en dresse le portrait suivant : « Doté d’une grande culture germanique (il s’intéressait notamment à Nietzsche, Wagner, aux penseurs de la “révolution conservatrice“ allemande, en particulier à Spengler, et au national-socialisme)», il « ne publie guère, dans Nouvelle Ecole, que des études d’aspect “théorique“ où la dimension historique n’est jamais séparée du souci doctrinal »(8). Chacun de ses articles se révèle être un véritable petit essai : « Linguistique et sciences humaines », « “Le vocabulaire des institutions européennes“ d’Emile Benvéniste », « “L’homme et la technique“ d’Oswald Spengler », « Histoire et sociétés : critique de Lévi-Strauss », « Nietzsche et ses “récupérateurs“ », « Le mythe cosmogonique indo-européen : reconstruction et réalité », « Le règne, l’empire, l’imperium », « Die Konservative Revolution in Deutschland 1918-1932, essai d’Armin Mohler », « Il était une fois l’Amérique », « L’histoire », « Richard Wagner et la régénération de l’histoire » « Ethologie et sciences humaines ». C’est à lui que l’on doit l’épais dossier polémique - auquel Alain de Benoist a apporté des notes complémentaires » que le numéro 27-28 de Nouvelle Ecole a consacré aux Etats-Unis. Rompant radicalement avec l’occidentalisme et l’atlantisme viscéral de l’extrême-droite française, les auteurs affirment que « si l’idéologie américaine est l’un des déchets de la civilisation occidentale, l’Amérique est elle-même le déchet matériel de l’Europe »(9). L’article se termine par une conclusion cinglante : « La menace qui, par le fait des Etats-Unis, pèse sur le monde est celle d’une forme particulièrement pernicieuse d’universalisme et d’égalitarisme »(10). Il sera traduit et publié en Italie(11) et en Allemagne(12).

Le fascisme a un cœur nouveau

L’un des rares textes que Giorgio Locchi a écrit directement en italien est consacré au fascisme. Une première version abrégée est d’abord paru dans Elementi, revue de la Nuova destra italienne, sous le titre « Le fascisme a un cœur antique ». « Voilà qui prouve qu’ils n’ont rien compris à ce que soutient mon texte, qui dit exactement le contraire, à savoir que le fascisme a un cœur nouveau » raillera l’auteur. Effectivement, il insiste, dans ce court essai, sur ce qu’il appelle le « repli-sur-les-origines-projet-d’avenir » du fascisme : « Pour le “fasciste“, la “nation“ finit par être retrouvée, plus que dans le présent, dans un lointain passé “mythique“ et poursuivie ensuite dans l’avenir, terre des enfants, Land der Kinder (Nietzsche) plus que terre des pères ». Une seconde version sera publiée en 1981(13).

Pour Locchi, le fascisme est la première manifestation politique d’un vaste phénomène spirituel et culturel, qu’il nomme le « Surhumanisme », dont l’origine remonte à la deuxième moitié du XIXe siècle, et qui « se configure comme une sorte de champ magnétique en expansion dont les pôles sont Richard Wagner (rarement reconnu) et Friedrich Nietzsche ». Entre Surhumanisme et fascisme, le rapport génétique spirituel est évident. Ce « principe surhumaniste se caractérise par le rejet absolu d’un “principe égalitaire“ opposé qui conforme le monde qui l’entoure ». Or, « si les mouvements fascistes situèrent l’ennemi - spirituel avant même que politique - dans les idéologies démocratiques - libéralisme, parlementarisme, socialisme, communisme, anarcho-communisme - c’est justement parce que dans la perspective historique instituée par le principe surhumaniste, ces idéologies se présentent comme autant de manifestations, apparues successivement dans l’histoire, mais toutes encore présentes, du principe égalitaire opposé, comme tendant toutes en définitive, avec un divers degré de conscience, vers un même but, et comme étant toutes ensemble la cause de la décadence spirituelle et matérielle de l’Europe, de l’“avilissement progressif“ de l’homme européen, de la décadence des sociétés occidentales ».

Arno_Breker_-_Camarades.jpgA l’instar d’Armin Mohler, il estime que « l’image la plus adaptée » pour représenter le temps de l’histoire de la vision surhumaniste est « celle de la Sphère », déjà présente dans Ainsi parlait Zarathoustra de Nietzsche. Il précise que « si dans le temps linéaire, le “moment“ présent et ponctuel en divisant ainsi la ligne du devenir en passé et futur, et si, d’autre part, l’on ne vit donc que dans le présent ponctiforme, dans le temps sphérique de la vision surhumaniste, le présent est tout autre chose : il est la sphère dont les dimensions sont passé, actualité, futur - et l’homme est l’homme, et non pas animal, justement parce que, au moyen de sa conscience, il vit dans ce présent tridimensionnel et qui est passé-actualité-futur-en-même-temps, et qui donc ainsi est aussi toujours fatalité du devenir historique ».

L’on retrouve cette conception surhumaniste dans le fascisme, et c’est pourquoi « les “projets historiques“ des mouvements fascistes se configurent toujours comme un rappel - et un “repli“ - sur une “origine“ et sur un “passé“ plus ou moins éloigné, qui toute fois sont projetés en même temps dans l’avenir comme but à atteindre » : romanité dans le fascisme italien, germanité préchrétienne dans le national-socialisme. Or, « le “passé“ duquel on se réclame et qui peut être vanté dans un but démagogique de propagande comme toujours vivant et actuel (dans le “peuple“ et dans la “race“, entendus presque comme résiduelle), est en réalité considéré de façon pessimiste comme un bien perdu, “sorti de l’histoire“, donc comme devant être ré-inventé et créé ex-novo ».

Dans Wagner, Nietzsche e il Mito Sovrumanista(14), - ouvrage dont trois des six chapitres sont une remise en forme de ses articles wagnériens parus dans les numéros 30 et 31-32 de Nouvelle Ecole -, il insistera encore sur ce qui caractérise en propre la vision du monde surhumaniste formulée par Wagner, Nietzsche et Heidegger, à savoir la substitution au temps linéaire judéo-chrétien de la tridimensionnalité du devenir historique, symbolisé par l’image de la sphère. « Il est difficile, remarque Taguieff de ne pas percevoir un écho de ces conceptions dans la philosophie “nominaliste“ de l’histoire exposée systématiquement par Alain de Benoist dans le numéro 33 de Nouvelle Ecole, daté de juin 1979, “Fondements nominalistes d’une attitude devant la vie“ (p. 22-30), où, en référence à Nietzsche, il est proposé de substituer à la conception cyclique de l’histoire “une conception résolument sphérique“ (p. 24). N’y aurait-il pas dans cette reprise mimétique la véritable raison - ou le facteur décisif - de la rupture entre Giorgio Locchi et Alain de Benoist ? »(15). A ce facteur personnel, il faut ajouter le refus de Locchi de voir le GRECE quitter la métapolitique pour la politique(16).

Comme le disait maître Eckhart, la parole surhumaniste de Giorgio Locchi « n’est destinée à personne qui ne la fasse déjà sienne comme principe de sa propre vie ou ne la possède au moins comme un désir de son cœur ».

Edouard Rix, Réfléchir & Agir, été 2013, n°44, pp. 45-47.

Notes

(1) G. Faye, postface à la deuxième édition de L’essenza del fascismo.

(2) A. de Benoist, Mémoire vive. Entretiens avec François Bousquet, éditions de Fallois, Paris, 2012, p. 142.

(3) Ibid, p.160.

(4) G. Locchi, « Profil de l’histoire », Cahiers universitaires, novembre-décembre 1966, n°29, p. 52.

(5) G. Locchi, « Nietzsche et le mythe européen », Engadine, automne 1972, n°13, p. 2.

(6) P.-A. Taguieff, Sur la Nouvelle droite, Descartes et cie, Paris, 1994, p. 152.

(7) A. de Benoist, Nietzsche : morale et “grande politique“, GRECE, Paris, 1974, 44 p.

(8) P.-A. Taguieff, op. cit., p. 153.

(9) R. de Herte et H.-J. Nigra, « Il était une fois l’Amérique », Nouvelle Ecole, automne-hiver 1975, n°27-28, p. 10.

(10) Ibid, p. 95.

(11) G. Locchi et A. de Benoist, Il male americano, LEDE, Rome, 1978, 190 p.

(12) R. de Herte et H.-J. Nigra, Die USA,Europas missratenes Kind, Herbig, coll. « Herbig Aktuell », München-Berlin, 1979, 197 p.

(13) G. Locchi,L'essenza del fascismo, Edizioni del Tridente, Castelnuovo Magra, 1981.

(14) G. Locchi, Wagner, Nietzsche e il Mito Sovrumanista, Akropolis, Naples,1982.

(15) P.-A. Taguieff, op. cit., p. 156.

(16) Entretien avec Pierluigi Locchi, 18 mars 2012.

 

Le Gallou: Novlangue

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mercredi, 09 avril 2014

Retour sur l’actualité économique et la crise ukrainienne avec Pierre Jovanovic

Au cours de cet entretien du 21 février 2014, Pierre Jovanovic analyse la crise ukrainienne sous l’angle de la finance internationale. Cet éclairage nouveau permet de compléter les analyses géopolitiques qui font état des rapports de force militaires, du contrôle de la route des énergies et de la captation des activités industrielles et agricoles de l’Ukraine.

 

En effet, la question fondamentale d’un défaut de paiement  de plusieurs dizaines de milliards d’euros et ses conséquences  systémiques sur le systèmes financier mondialisé est ici abordée. C’est l’occasion pour le journaliste de revenir sur l’état de l’économie dans le monde et sur les mécanismes monétaires : standard or, planche à billet, crise des assignats post-révolution française, effondrement de l’empire romain, etc. Ce tour d’horizon permet de remettre en perspective des périodes de l’histoire au cours desquelles les mêmes causes ont eu les mêmes effets : l’effondrement du système économique et l’avènement de régimes politiques totalitaires.

Baptiste

Europe-Action, notre grand ancêtre

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Europe-Action, notre grand ancêtre

par Edouard Rix

Ainsi que nous le répétait régulièrement le regretté Jean Mabire, à Réfléchir & Agir nous sommes les héritiers d’Europe-Action.

Si l’on en croit les Dupont et Dupond de l’antifascisme, Camus et Monzat, « l’importance théorique » d’Europe-Action « est fondamentale pour établir la généalogie de l’extrême droite nationale-européenne, néo-paganisante et racialiste » (1). Son fondateur, Dominique Venner, né en 1935, est le fils d’un militant du PPF de Doriot. Engagé volontaire à dix-huit ans, il combat en Algérie entre 1954 et 1956. Cette même année, il rejoint Jeune Nation, imprimant à ce petit groupe néo-pétainiste fondé par les frères Sidos une nette inflexion activiste.

Pour une critique positive

Incarcéré à la prison de la Santé pour son appartenance à l’OAS, Venner profite des vacances forcées offertes par l’Etat gaulliste pour se livrer à une réflexion doctrinale et stratégique approfondie. Pour lui, après le « 1905 » que viennent de subir les nationalistes avec la dissolution de Jeune Nation, puis du Parti nationaliste, et l’échec d’une OAS dépourvue de tout contenu idéologique, il convient de faire du léninisme retourné. C’est ainsi qu’il rédige et publie en 1962 un texte synthétique intitulé Pour une critique positive, qui se veut le Que faire ? du nouveau nationalisme. « Le travail révolutionnaire, écrit-il, est une affaire de longue haleine qui réclame de l’ordre dans les esprits et dans les actes. D’où le besoin d’une théorie positive de combat idéologique. Une révolution spontanée n’existe pas ». Concrètement, il préconise d’en finir avec l’activisme, d’éliminer « les dernières séquelles de l’OAS », de créer « les conditions d’une action nouvelle, populaire et résolument légale » s’appuyant sur une doctrine cohérente.

Dès sa libération de prison, il lance un mouvement et un organe de presse, puisqu’il s’agit désormais pour lui de mener un combat d’idées. Sur le plan militant, il s’appuie sur les éléments les moins pétainistes de l’appareil clandestin de l’ex Jeune Nation, ainsi que sur la Fédération des étudiants nationalistes (FEN), créée en mai 1960 afin de servir de « périscope de légalité » au mouvement interdit, et animée par François d’Orcival. Les étudiants nationalistes partagent avec Venner le souhait de réhabiliter la réflexion théorique dans une mouvance dominée par un profond anti-intellectualisme.

La revue, qui devait d’abord s’appeler Rossel, en référence à l’officier communard incarnant une « gauche patriote », prend finalement pour titre Europe-Action. Le premier numéro, tiré à 10 000 exemplaires, paraît en janvier 1963. Une nouvelle formule, sous le format 21 x 27 cm, style newsmagazine, verra le jour en 1964 avec un tirage atteignant 15 000 à 20 000 exemplaires. Sous la direction de Dominique Venner, la rédaction comprend Jean Mabire, rédacteur en chef à partir de juin 1965, Alain de Benoist, secrétaire de rédaction et rédacteur en chef du supplément hebdomadaire sous le nom de Fabrice Laroche, Alain Lefebvre, François d’Orcival, Jean-Claude Rivière, ou encore Jean-Claude Valla qui signe Jacques Devidal. Des « anciens » comme Saint-Loup ou Saint-Paulien y collaborent régulièrement. Les ouvrages recommandés aux militants de la FEN et aux Volontaires d’Europe-Action sont publiés par les Editions Saint-Just et vendus par la Librairie de l’Amitié à Paris.

Réalisme biologique et défense de l’Occident

Racialisme européen, réalisme biologique, défense des peuples blancs face à la démographie galopante des masses du Tiers Monde, tels sont les principaux thèmes développés dans les colonnes dumensuel.Le premier des Cahiers d’Europe-Action, supplément trimestriel qui paraît en mai 1964, est consacré, sous le titre « Sous-développés, sous-capables », au fardeau représenté par les peuples de couleur et à leur incapacité chronique à maîtriser la technique.

Europe-Action est incontestablement le premier mouvement à dénoncer l’immigration extra-européenne incontrôlée et les risques de métissage en découlant. Car, « le métissage systématique n’est rien d’autre qu’un génocide lent » (2). Inlassablement, tout au long de son existence, il mènera une campagne « Stop à l’invasion algérienne en France », exigeant le rapatriement massif des allogènes, ce qui le rapprochera de François Brigneau, dont les éditoriaux dans Minute évoquent souvent ce problème. « Ils seront bientôt un million» proclame en une le n° 22 d’octobre 1964. « En France, écrira Dominique Venner en 1966, l’immigration importante d’éléments de couleur pose un grave problème (...) Nous savons également l’importance de la population nord-africaine (...) Ce qui est grave pour l’avenir : nous savons que la base du peuplement de l’Europe, qui a permis une expansion civilisatrice, était celle d’une ethnie blanche. La destruction de cet équilibre, qui peut être rapide, entraînera notre disparition et celle de notre civilisation » (3). Visionnaire !

europe_action.jpgPlus généralement, dans le numéro spécial « Qu’est-ce que le nationalisme ? », les rédacteurs font l’apologie de l’Occident « dévoré par le besoin d’agir, de réaliser, de vaincre », citant en exemple Beethoven qui, « sourd à trente ans, empoigne son destin à la gorge et continue de composer », ou « les équipes de chercheurs et d’hommes d’action qui se lancent à la conquête de l’espace, les Vikings traversant au Xè siècle l’Atlantique nord sur leurs coques de noix » (4). Quelques pages plus loin, le « Dictionnaire du militant » définit l’Occident comme une « communauté des peuples blancs », tandis que le peuple est présenté comme « une unité biologique confirmée par l’histoire » (5). Dans cette optique organiciste et völkisch, le nationalisme est vu comme une « doctrine qui exprime en termes politiques la philosophie et les nécessités vitales des peuples blancs (...), doctrine de l’Europe » (6), celle-ci étant entendue comme le « foyer d’une culture en tous points supérieure depuis trois millénaires » (7).

Partisan de l’Europe des ethnies, Europe-Action se prononce pour l’unité continentale : « Le destin des peuples européens est désormais unique, il impose leur unité politique, reposant sur l’originalité de chaque nation et de chaque province » (8). La revue souhaite la compléter par une alliance avec les bastions blancs d’Afrique australe comme l’Afrique du Sud et la Rhodésie, voire même l’Amérique du nord. D’où la formule provocatrice du rédacteur en chef Jean Mabire : « Pour nous, l’Europe est un cœur dont le sang bat à Johannesburg et à Québec, à Sidney et à Budapest » (9).

Son nationalisme européen se veut moderne, de progrès, en rupture avec le vieux nationalisme chauvin et réactionnaire. Il se fonde sur les « lois de la vie », la réalité, le « réalisme biologique » qui exalte une vision social-darwiniste du combat pour la vie, en opposition à l’universalisme, philosophie de l’ « indifférenciation » : « Le nationalisme, écrit maître Jean, s’il ne veut pas être une curiosité historique ou une nostalgie rétrograde, ne saurait être tout d’abord que réaliste et empirique. Il doit s’appuyer non sur des dogmes abstraits mais sur les données mêmes de la vie. Les nationalistes reconnaissent d’abord qu’il font partie d’un monde où tout est lutte. La nature en constante évolution ignore l’uniformité et l’indifférenciation. L’homme soumis aux lois de la vie, déterminé par son hérédité, trouve son accomplissement dans la maîtrise de la nature ». Il ajoute : « Ce réalisme biologique est tout aussi éloigné du matérialisme que de l’irréalisme. Il reconnaît un certain nombre de valeurs, appartenant en propre à notre communauté : le sens du tragique, la notion du réel, le goût de l’effort, la passion de la liberté et le respect de l’individu » (10). Le jeune Alain de Benoist renchérira, enthousiaste : « Le réalisme biologique est le meilleur outil contre les chimères idéalistes » (11).

Socialisme enraciné contre socialisme universaliste

Le nouveau nationalisme d’Europe-Action se veut aussi « socialiste ». Ce socialisme n’a rien à voir avec celui des marxistes ou des sociaux-démocrates, la revue se revendiquant du « socialisme français », celui de Proudhon et de Sorel. Jean Mabire prône un « socialisme enraciné », opposé au « socialisme universaliste » : « Le nationalisme, c’est d’abord reconnaître ce caractère sacré que possède chaque homme et chaque femme de notre pays et de notre sang. Notre amitié doit préfigurer cette unanimité populaire qui reste le but final de notre action, une prise de conscience de notre solidarité héréditaire et inaliénable. C’est cela notre socialisme » (12). Ce socialisme ne doit être ni égalitaire, ni internationaliste, ainsi que le rappelle Dominique Venner : « Ainsi reviennent constamment les idées de sélection, compétition, individualité qui, liées à la préservation du capital génétique, apparaissent bien comme les valeurs propres à l’Europe et nécessaires à son édification politique (...) Elles s’opposent, point par point, aux valeurs de mort de la société actuelle. En cela, elles sont révolutionnaires. Elles s’opposent au chaos universaliste, en cela elles sont nationalistes. Elles édifieront un monde où la qualité fera le prix de l’existence : en cela, elles fondent notre socialisme » (13).

« Les thèmes d’Europe-Action réapparurent (...) de manière de nouveau virulente dans des revues identitaires comme Réfléchir & Agir » (14) s’inquiètent les nouveaux entomologistes de la planète brune. Cette filiation de sang et d’esprit, nous la revendiquons insolemment. Dominique Venner, présent !

Edouard Rix, Réfléchir & Agir, automne 2013, n°45, pp. 48-50.

Notes

(1) J.Y Camus, R. Monzat, Les droites nationales et radicales en France, PUL, 1992, pp. 44-45.

(2) G. Fournier, « La guerre de demain est déclenchée », Europe-Action, avril 1964, n°16, p.21.

(3) Europe-Action, février 1966, n°38, p. 8.

(4) Europe-Action,mai 1963, n°5.

(5) Ibid, pp. 73-74.

(6) Ibid, p. 72.

(7) Ibid, p. 64.

(8) Ibid.

(9) J. Mabire, « Notre nationalisme européen », Europe-Action, juillet-août 1965, n°31-32, p. 13.

(10) J. Mabire, « Le nationalisme », Europe-Action, avril 1966, n°40, p. 14.

(11) Europe-Action, décembre 1965, n°36, p. 9.

(12) J. Mabire, « L’écrivain, la politique et l’espérance», Europe-Action, juin 1965, n°30, pp. 4-5.

(13) D. Venner, « Notre socialisme», Europe-Action, mai 1966, n°41, p. 19.

(14) S. François, N. Lebourg, « Dominique Venner et le renouvellement du racisme », Fragments sur les Temps présents, 30 mai 2013.

La vieille droite contre Europe-Action

Les prises de positions racialistes, nietzschéennes et païennes d’Europe-Action  susciteront la haine rabique de la vieille droite réac, maurrassienne et intégriste. Suite au numéro « Qu’est-ce que le nationalisme ? », Jacques Ploncard d’Assac enverra une lettre de rupture à la rédaction, publiée dans le n°8 d’août 1963 : « Les nationalistes français, même agnostiques comme Maurras, ont toujours reconnu le caractère chrétien de l’ethnie française. Il y a donc incompatibilité entre le matérialisme athée et l’objet même du nationalisme français ». Scandalisé que ceux qu’il appelle élégamment les « venneriens » professent un « racisme théorisant », l’inénarrable Pierre Sidos tiendra à préciser dans L’Echo de la presse et de la publicité du 15 janvier 1964 qu’il n’a « rien de commun avec la société Saint-Just » et émet les « plus expresses réserves (...) quant aux thèses exposées par les publication de cette firme, et notamment la revue Europe-Action ».

mardi, 08 avril 2014

Ukraine: Geopolitics & Identity

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Ukraine: Geopolitics & Identity

The 2014 crisis in Ukraine serves as a reminder that in the quest for strategic advantage, the Western powers will not only exploit popular discontent to carry out regime change, but they also will manipulate currents of nationalism for their globalist agenda. Russian conservative author and publisher Mikhail Smolin shares an in-depth perspective on the origins of Ukrainian nationalism and its relation to the Great Game.

Translation by Mark Hackard.

In 1912 the outstanding Russian jurist, professor and doctor of international law Pyotr Evgenievich Kazansky wrote:

We live in a bewildering time, when artificial states, artificial peoples and artificial languages are founded.

In our own age, old historical fictions are again returning from nothingness. One of the most dangerous is “Ukrainianism,” which attempts to give an ideological and historical-political basis for the dismemberment of the Russian body, separating from it the Little Russians, having self-defined them as “Ukrainians” unknown to history. Such “national formations” have no ethno-historical roots; they are a product of the modern era. Before the Revolution the Russian nation was one, and the terms Velikorus (Great Russian), Malorus (Little Russian) and Belorus (White Russian) were perceived as concepts determining the geographic location of origin of one or another Russian citizen of the Russian Empire. National separatists appropriate ethnographic meanings to these names, at odds with the historical reality of their origin.

The appearance of such concepts as Little Russia, Great Russia, Little Russian, Great Russian, etc., must be related back to the time after the Tatar invasion. A united Rus was dismembered by the enemy into Northern Rus, Vladimir-Suzdal, transformed later into Moscow, and Southwest Rus – Galicia-Volynia – which then entered the Russo-Lithuanian state, and after the union with Poland, into the Rzeczpospolita. Yet under these conditions, political life and the life of the Church among the dismembered parts of the one Rus did not cease. The religious authority of the Patriarchate of Constantinople over the Russian Orthodox Church, which then existed as a bishopric of this patriarchate, was recognized both in Northern Rus and in the Southwest. Political relations between both parts of Rus with the Byzantine Emperor also continued to exist. The necessity of communication with a Rus fragmented in two forced the churchmen and statesmen of Byzantium to differentiate one Rus from the other in their documents, having given each a certain designation. The Byzantines applied ready geographical terms of classical antiquity: the little country and the great country. These geographical terms signify that initial metropole of a given people is called the little land, and the lands colonized by the metropole of this people are named the greater lands.

In Greek pronunciation, u was replaced by o, and therefore the Byzantines called the Russian people Ρώσοι, and our country was known as Ρωσσία. Proceeding from that, Byzantine men of letters termed Galicia-Volynia and Kievan Rus Little, and Northern Rus, Vladimir-Suzdal and Muscovy Great. Through Russian scholars, this terminology penetrated to Rus and became natural both in Little and Great Rus. As such, the historical understandings of Little Russia and Great Russia came to us as the cultural property of the Byzantine Empire.

Now let us cross over to the historical roots of Ukrainian nationalism. Whence appeared “Ukrainians” and “Ukraine” in place of the historical terms Little Russian and Little Russia?

We shall begin from the fact that the word “Ukraine” and “Ukrainian” in Russian chronicles are encountered only in the sense of borderlands, not as a land populated by an unknown “Ukrainian” people. The word Ukraina is only another form of the word okraina (borderland).

Researchers of Ukrainian nationalism relate the appearance of the word Ukraina, in the sense of a proper noun rather than common, to the end of the seventeenth century, when after the Pereyaslavl Rada of 1654 and the “eternal peace” concluded in 1686 between the Russian state and Poland (according to which left-bank Malorussia with Kiev went into the eternal possession of the Russian state), the Poles understood what a real danger the common faith and ethnicity among the residents of the Polish borderlands and the Russian state carried. Aiming to suppress the wish of Russian people living in Poland to reunite with the Russian state, Polish scholars directed all their efforts at proving that there were no Russians in Poland, only a special “Ukrainian” nationality. In historiography, there is a most widespread consensus on the role of Polish influence in divorcing Little Russia from Russia and in the formation of a Ukrainophile movement.

Summing up these opinions, we can repeat along with one of the researchers of this question that the Poles “took upon themselves the role of a midwife during the birth of Ukrainian nationalism and a nanny during its upbringing.”

The Twentieth Century

“Anti-Russian Rus,” founded by the Poles in the nineteenth century under the guise of Ukrainophilism for the national end of struggle against the Russian Empire over their lost sovereignty, changed masters a number of times in the twentieth century. Among them were the Austrians, the Germans and the Americans, but the goal of the movement’s existence was always the same: the dismemberment of the Russian nation.

For its part, Austro-Hungary dreamed of creating an allied Kievan kingdom headed by one or another branch of the Hohenzollerns or Habsburgs. Germany, as the stronger power, outstripped in her designs an Austro-Hungary weakened by internal dysfunction, as the latter empire thought sooner how to preserve what was already in her possession.

Germany’s wish to tear away the entire south of the Russian Empire (the coal of Donetsk, the oil of Baku, etc.) conformed to longtime dreams of a breakthrough to the East – here one can recall the project of a railroad from Berlin to Constantinople to Baghdad, and also the choice of allies for the First World War – Austro-Hungary, Bulgaria and Turkey – again an attempt to create a line from Berlin to Baghdad. Hence the desire to weaken Russia as much as possible before decisive world-scale battles, for which Germany was already preparing over several decades. And so, for example, under the German General Staff long before the First World War, there was organized a section engaged in Ukrainian affairs. This section executed projects and organized disunity inside the Russian nation.

As researcher of Ukrainian nationalism Prince A. M. Volkonsky wrote:

Germany needed to rupture the linguistic ties between the Little Russian and the Great Russian, for having torn away the cultured class of Russia’s south from the Russian literary and academic language, it would be easier to impose her German culture upon the country. The Germans began to support the artificial ‘Ukrainian mova.’ They acted in German fashion, systematically and not losing any time. From the first year of the Great War, Malorussian prisoners were separated into special camps and subjected there to ‘ukrainization’; for the most susceptible, something along the lines of a ‘Ukrainization Academy’ was set up in Koenigsberg. Hundreds of thousands of propagandized prisoners of war returning home to Little Russia in 1918 became the main instrument of spreading the Ukrainian idea in the peasant medium. (Prince A. M. Volkonsky. Historical Truth and Ukrainophile Propaganda. Turin, 1920. Page 129.)

The February Masonic conspiracy of 1917 did not allow Emperor Nicholas II carry out the general spring offensive along the entire front and once and for all break the forces of the exhausted enemy. After several months, Germany was able to bring her protégés to power in Russia – the Leninist Bolsheviks – and Grushevsky’s Mazepites in “independent Ukraine.” Thus Germany received a deferment from unavoidable defeat in the First World War for an entire year.

The south of Russia was vitally important for Germany. Matthias Erzberger, a German minister, said at an institutional gathering:

The Russian question is nothing less than part of a great debate the Germans are conducting with the English over the goal of world domination. We need Lithuania and Ukraine, which should be Germany’s forward positions. Poland should be weakened. And if Poland is in our hands, then we shall close all routes to Russia, and she will belong to us. Is it not clear that only on this path lies Germany’s future?

German statesmen acted completely consciously and systematically on that path, as evidenced by German Chancellor Michaelis in June of 1917:

We should be very careful that the literature by which we hope to strengthen the process of Russia’s collapse does not achieve exactly the opposite end… The Ukrainians still nonetheless reject the idea of total separation from Russia. Open interference from our side in favor of an independent Ukrainian state can doubtless be used by the adversary for the goal of exposing extant nationalist currents as created by Germany.(Zeman, Z. A. Germany and the Revolution in Russia 1915-1918. New York, 1958. P 65-67.)

But all hesitations were cast aside when the question of Germany’s fate became more acute. Hence the notion suggested by the Germans to the ideologues of Ukrainianism about an “independent Ukraine from the Carpathians to the Caucasus without master or servant.” And the Germans considered that from the Caucasus, they themselves could reach the Middle East.

At that time there also appeared ideas of a union from the Black to the Baltic Sea (the restoration of the Rzezcpospolita at a new stage of history?) – the alliance of Finland, Estonia, Latvia, Lithuania, Belorussia, and Malorussia. This possibility is now foreseen in further plans in the struggle with Russia: the separation of “Asiatic” Moscow from “civilized” Europe by a wall of “second-class” Europeans…

Ukrainian separatism in the twentieth century becomes ever more unprincipled – it is ready to reconcile with any regime as long as it was on its side, i.e. in one or another fashion supported the Ukrainian movement. And so many advocates for independence, headed by M. Grushevsky, finally ended up in the camp of the Bolsheviks, who recognized the terms “Ukrainian,” “Ukraine” and the “Ukrainian language.” In 1923, after the Twelfth Congress, the Communists declared a policy of indigenization, the development of all non-Russian nationalities (and those considered non-Russian), a program expressed in the Ukraine through the ukrainization of the population and the introduction of the Ukrainian language beginning with state and party officials. Having come to power, the Bolsheviks generally created all the conditions for the growth and maturation of Ukrainian nationalism, which upon the death of its Communist overseer shredded the unity of the Russian people, threatening in time to become a forward bulwark of anti-Russian forces in the world.

The modern state of Ukraine adopts in all manifestations of its policies a consistently anti-Russian position. As at the beginning of the twentieth century, Ukrainian separatism is tasked with founding a nation of “Ukrainians” through the formation of a Ukrainian ideological elite, which should fashion a single nation from the ethnographic distinctions of the Malorussian population of various provinces and from the myth of a unified Cossack tribe. An artificial willed ethnogenesis is created in the cauldron of the Ukrainian state. M. Grushevsky would write that “Ukrainianism in Russia should go beyond the boundaries of ethnographic nationality to become a political and economic factor and attend to the organization of Ukrainian society as a nation now if it doesn’t wish to be several generations late.”

Russian history has shown that the most terrible enemies of the Russian people have been of an internal nature. Russians in their placidity cannot fully believe that among their own might be traitors. Therefore the Ukrainian question is so important, for it is a matter of internal unity of the nation and a new gathering of lands that awaits our national-political awakening. So wrote the ideologue of discord, Dmitry Dontsov:

As a rule, the Ukrainian question appears like a comet over Europe’s political skies every time that a critical moment ensues for Russia.

The national goals of peoples who have matured to activity on a world scale are always directed toward the full mastery of their natural territory and influence upon vital lands adjoining the nation. Therefore, on the one hand, the task of the nation consists in defining the natural borders of the spread of its dominion and in the establishment of necessary influence upon vital neighboring regions. On the other hand, it follows to be wary of ideas such as the notion of world hegemony, as they inevitably lead to an extreme squandering of the nation’s energies and do not bring about the desired result.

For the achievement of the set objectives, the spiritual health and internal unity of the nation are necessary. The former is reached through support of the belief that is truth for the nation. Russians confess Orthodoxy, the only true and saving faith, and therefore the preservation of the Orthodox faith is the main task both for the Church and the state and for every Russian. The latter is reached by correct organization and support of the sovereign, social and cultural life of the nation, which it is necessary to protect from harmful outside influences, especially if they are aimed at, for example, Ukrainianism, the schism of the Russian nation.

Un nouvel ordre génétique ?

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Un nouvel ordre génétique ?

par Edouard Rix

En quelques années, ce sont quelques-uns des dogmes les plus sacrés de la vulgate scientiste antiraciste et égalitariste qui viennent de voler en éclat. Mauvaise passe pour les tenants du politiquement correct scientifique…

D’abord, le mythe de l’Out of Africa, dont Yves Coppens a signé l’arrêt de mort en affirmant dans Sciences et Avenir de juin 2011 que « l’Afrique n’est pas le seul berceau de l’Homme moderne » (1). Prenant en compte les toutes dernières découvertes scientifiques, le paléoanthropologue réfute définitivement le paradigme diffusionniste au profit de l’hypothèse multirégionale : « Je ne crois pas que les hommes modernes aient surgi d’Afrique il y a 100 000 à 60 000 ans (…) Je pense que les Homo sapiens d’Extrême-Orient sont les descendants des Homo erectus d’Extrême-Orient » (2). De même, les Homos sapiens d’Europe résultent d’une hominisation indépendante de l’hominisation africaine.

Denisova, le troisième homme

Autre dogme littéralement pulvérisé par les progrès d’une science nouvelle, la paléogénétique : la croyance en l’unité du genre humain. Car le séquençage de l’ADN, loin de se limiter aux seuls êtres vivants, s’applique désormais à des individus morts depuis des millénaires, y compris à des espèces aujourd’hui disparues. En effet, l’ADN se conserve près de 100 000 ans dans un environnement ni trop chaud, ni trop humide. En prélevant d’infimes quantité d’ADN résiduel dans les squelettes, les paléogénéticiens arrivent à reconstituer la totalité du génome grâce à une technique d’ampliation qui permet de multiplier les séquences.

Rappelons que, depuis 100 000 ans, plusieurs espèces d’hominidés ont disparu : Néandertal en Europe, Denisova en Sibérie, l’Homme de Florés en Indonésie. Un fossile de ce dernier, datant de 13 000 ans, a été découvert en 2003 dans une grotte de l’île indonésienne de Florés. Le séquençage de cet Homo floresiensis, un individu de faible corpulence possédant un crâne et un cerveau très petits – d’où le surnom de « Hobbit » dont on l’a affublé -, a échoué par deux fois, l’ADN retrouvé ayant été fortement détérioré par le climat tropical régnant dans la zone de la sépulture. Par contre, les généticiens ont réussi à séquencer Néandertal et Denisova, alors que cette dernière espèce ne nous est connue que par un os de la phalange d’un auriculaire et deux molaires.

C’est en 2008 qu’ils ont été retrouvés dans une caverne à Denisova, dans les monts Altaï, au sud de la Sibérie. Des objets présents au même niveau que les fragments osseux ont pu être datés par le carbone 14 entre 30 000 et 40 000 BP (3). En mars 2010, une équipe internationale de phylogénistes moléculaires (4) de l’Institut Max Planck d’anthropologie évolutionnaire de Leipzig, en Allemagne, conduite par le biologiste suédois Svante Pääbo, publie dans Nature une première analyse de l’ADN mitochondrial (ADN mt), d’origine strictement maternelle, prélevé dans ce bout d’os. Grâce au séquençage de cet ADN, les chercheurs affirment avoir découvert une troisième espèce d’hominidé, contemporaine de l’Homo sapiens et appelée Homme de Denisova. « La famille des hommes semblerait donc avoir été beaucoup plus diverse qu’on ne l’avait cru jusqu’à présent » s’étonne Le Figaro (5).

Les mêmes s’attaquent ensuite à l’ADN nucléaire, ADN du noyau cellulaire issu de la fusion du patrimoine génétique des parents. Un seul individu offre ainsi un échantillon statistique de la population qui l’a précédé. Les résultats, annoncés le 23 décembre 2010 dans les colonnes de Nature, confirment que l’Homme de Denisova forme une branche distincte de l’arbre généalogique du genre Homo. Il aurait donc existé deux formes distinctes d’hommes archaïques en Eurasie : à l’Ouest Néandertal, à l’Est Denisova. La branche des Dénisoviens aurait divergé de celle qui mène à l’homme moderne il y a 800 000 ans, et de celle qui conduit à Néandertal il y a 640 000 ans. En comparant l’ADN de Denisova avec celui d’hommes modernes actuels, les scientifiques ont découvert que 5% du génome de certains Mélanésiens, en l’occurrence les Papous de Nouvelle-Guinée et de l’île de Bougainville, provient des Dénisoviens. L’équipe de l’Institut dresse l’hypothèse que ces derniers auraient croisé la route de sapiens, il y a 55 000 ans, vers le Proche-Orient, et que les descendants issus de cette rencontre auraient traversé l’Océan pour s’installer en Mélanésie il y a 45 000 ans.

En août 2012, les chercheurs annoncent dans Science être parvenu à décoder entièrement son génome. Pour cela, ils ont dû inventer une technique leur permettant de déméler la double hélice de l’ADN pour en analyser séparément chacun des brins. Il en résulte que les Dénisoviens étaient porteurs de matériel génétique aujourd’hui associé avec une peau sombre, des cheveux bruns et des yeux marrons.

Il y a du Néandertal en nous !

Dès 2010, la même équipe de paléoanthropologues et de paléogénéticiens avait séquencé 60% du génome nucléaire de Néandertal (6), dont l’apparition remonte à 400 000 ans et qui se sont éteints il y a 30 000 ans. Les résultats contredisaient les études antérieures sur l’ADN mitochondrial qui n’avaient trouvé aucune contribution néandertalienne à notre génome. Il s’avère, finalement, que du fait de croisements entre Homo neanderthalensis et Homo sapiens, des hommes modernes non-africains (les Chinois Han, les Français, les habitants de Papouasie-Nouvelle-Guinée) ont hérité de 1 à 4 % de leurs gènes de Néandertal. Cette découverte conforte l’hypothèse d’une hybridation entre les deux espèces avant que les Néandertaliens ne s’éteignent. Une nouvelle étude, menée par Damian Labuda, professeur au département de pédiatrie de l’Université de Montréal, révèlera qu’une partie du chromosome X de toutes les populations non africaines provient des Néandertaliens (7).

Devant cette véritable révolution anthropologique, Le Monde se devait de sonner l’alarme, à moins que cela ne soit le glas : « L’année 2010 aura donc été très riche pour la paléogénomique. C’est celle de la découverte de la part néandertalienne chez les non-Africains actuels, et de l’héritage dénisovien chez les Papous. Les généticiens savent que ces avancées peuvent ressusciter des thèses racialistes. Aussi prennent-ils soin de préciser que cet ADN en héritage est non codant, c’est-à-dire qu’il n’a pas de fonction connue. Mais “ quand bien même il commanderait des gènes, la différence génétique ne saurait justifier le racisme “ insiste Pascal Picq » du Collège de France (8). Même les pires négationnistes de l’antiracisme ne peuvent plus ignorer que certains groupes raciaux et ethniques vivant aujourd’hui sont issus de croisement, intervenus il y a plusieurs milliers d’années, d’hommes modernes et d’hommes archaïques, et que certains gènes dont ils ont hérité concernent plus particulièrement l’organisation du cerveau et le fonctionnement des synapses neuronales. Différents et inégaux ? « C’est dans la Genèse et l’enseignement des Pères de l’Eglise, rappelle Guillaume Faye, qu’il faut déceler l’origine de ce mythe ethnocidaire de l’unité du genre humain, et de l’archétype d’un homme universel, entité monogénique issue d’une même souche, modèle par lequel les identités sont dévalorisées » (9). L’édifice égalitariste et universaliste bi-millénaire forgé par le judéo-christianisme et perpétué sous une forme laïcisée par les idéologies modernes vient de s’écrouler. Nous ne pouvons que nous en réjouir.

Edouard Rix, Réfléchir & Agir, hiver 2013, n°43, pp. 37-38.

 

 

 

Notes :

 

 

 

(1) Sciences et Avenir, juin 2011, n°772.

(2) Idem.

(3) L’expression Before Present (BP), « avant le présent » est utilisé en archéologie pour désigner les âges exprimés en nombre d’années comptées vers le passé à partir de l’année 1950 du calendrier grégorien. Cette date, fixée arbitrairement comme année de rférence, correspond aux premiers essais de datation au carbone 14.

(4) La phylogénie moléculaire consiste à comparer des gènes dans le but d’établir des classifications d’espèce.

(5) Le Figaro, 25 mars 2010.

(6) Science, 7 mai 2010, vol. 328, n° 5979, pp. 710-722.

(7) Molecular Biology and Evolution, juillet 2011, 28 (7).

(8) Le Monde, 24 décembre 2010.

(9) G. Faye, Les nouveaux enjeux idéologiques, Le Labyrinthe, Paris, 1985, p. 45.

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Milieubeweging is religie zonder feiten

Vermaarde klimaatactivist Lovelock: Milieubeweging is religie zonder feiten

‘Groene energie gaat niet werken, we hebben kernenergie en fracking nodig’

Milieuactivist Adam Weinstein: Klimaatontkenners horen in de gevangenis

Wetenschappelijk team uit o.a. Nederland: Niets ongewoons aan zeespiegelstijging


De wereldwijd bekende klimaatwetenschapper en milieuactivist James Lovelock, bedenker van de ‘Gaia’ hypothese die stelt dat de Aarde een zelfregulerend organisme is, heeft de nodige verbazing gewekt door zich af te keren van groene of ‘duurzame’ energie, en te pleiten voor kernenergie en ‘fracking’. Volgens Lovelock is de milieubeweging een religie geworden, die weinig meer van doen heeft met de feiten.

De 94 jarige Lovelock, vanaf de jaren ’70 milieuactivist, waarschuwde in 2006 in zijn boek ‘Revenge of Gaia’ voor de catastrofale gevolgen van klimaatverandering. Nu geeft hij toe dat hij ‘ietsje te zeker was in mijn boek. Je kunt gewoon niet weten wat er gaat gebeuren.’ Daarom acht hij klimaatgelovigen inmiddels ‘net zo dom’ als klimaatontkenners.

‘Milieureligie geeft niet veel om feiten’

De milieubeweging is in zijn ogen een ‘religie geworden, en religies geven niet veel om de feiten’. Volgens Lovelock is het gevaar dat de gevolgen van klimaatverandering al binnen enkele jaren dramatisch zullen zijn, net zo waarschijnlijk als dat het nog 100 jaar gaat duren.

Lovelocks opmerkingen zijn in strijd met het IPCC van de VN, dat probeert de CO2/Global Warming hoax overeind te houden door opnieuw paniek te zaaien met de waarschuwing dat zelfs een geringe temperatuurstijging al ‘abrupte en onomkeerbare veranderingen’ in natuurlijke systemen zoals de Noordelijke IJszee en koraalriffen teweeg kan brengen.

Kernenergie en fracking

Omdat het volgens de klimaatexpert helemaal niet vaststaat of CO2 nu wel of geen klimaatverandering veroorzaakt, pleit Lovelock ervoor de uitstoot voor de zekerheid zoveel mogelijk te beperken – met kernenergie en ‘fracking’, een in de milieukringen zeer omstreden vorm van het winnen van aardgas.

‘De regering is te bang om kernenergie te gebruiken. Duurzame bronnen (wind- en zonne-energie) gaan niet werken, en we kunnen geen kolen verbranden omdat dit zoveel CO2 produceert. Dan houden we fracking over. Dat produceert slechts een fractie van de hoeveelheid CO2 als kolen, en zal Groot Brittannië heel wat jaren energiezekerheid geven. We hebben niet veel keus.’ (1)

Antihumane milieuactivisten

Eerder dit jaar roerde Patrick Moore, medeoprichter van Greenpeace en een andere klimaatactivist van het eerste uur die zich afkeerde van de milieubeweging, zich opnieuw door voor een comité van de Amerikaanse Senaat te getuigen dat er geen enkel wetenschappelijk bewijs is dat het klimaat opwarmt door menselijke CO2-uitstoot. Volgens Moore bevindt de Aarde zich zelfs in een ongewone koudeperiode, en is de wereld juist gebaat bij veel meer CO2 in de atmosfeer.

Enkele jaren geleden verketterde Moore ‘zijn’ Greenpeace, dat volgens hem is overgenomen door ‘antihumane’ extreemlinkse activisten wier enige doel is de Westerse samenleving te ondermijnen en kapot te maken.

Hoe extreem moderne milieuactivisten kunnen zijn laat klimaatactivist Adam Weinstein zien, die op de bekende Amerikaanse blog Gawker klimaatontkenners ‘criminelen’ noemt die in de gevangenis zouden moeten worden gegooid.

Wetenschappers: Niets ongewoons aan zeespiegelstijging

Naarmate er steeds meer feiten tégen de CO2-Global Warming hypothese komen en bijna alle doemdenkvoorspellingen van de afgelopen 20, 30 jaar niet zijn uitgekomen –zo heeft een team van Westerse wetenschappers uit onder andere Nederland geconcludeerd dat er over de hele periode van door mensen veroorzaakte CO2-uitstoot ‘niets ongewoons of onnatuurlijks’ aan de zeespiegelstijging te zien is (3)-, laten veel aanhangers van de klimaatkerk hun ware, fascistische en misantropische gezicht zien.


Xander

(1) The Guardian
(2) Infowars
(3) CO2 Science

Zie ook o.a.:

26-02: Oprichter Greenpeace: Geen wetenschappelijk bewijs voor opwarming door CO2 (/’Mensheid en bijna alle levensvormen juist gebaat bij veel meer CO2 in atmosfeer’)
26-02: Duitsers kunnen energie niet meer betalen door omschakeling op groen
21-01: Britse wetenschappers waarschuwen voor nieuwe kleine IJstijd
18-01: Gezaghebbende MIT-klimaatprofessor hekelt klimaathysterie politiek (/ 'Extreem weer heeft niets te maken met Global Warming')
06-01: Record kou VS en Al Gore's idiootste Global Warming uitspraken

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lundi, 07 avril 2014

Deepening division in the “Sunni” Arab world

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Deepening division in the “Sunni” Arab world

The incidents preceding and following the Saudi government’s decision to declare the Muslim Brotherhood a “terrorist” organization are symptomatic of the growing division within the “Sunni” Arab world—a ‘world’ that is pitted against the “Shia” world is, ironically, a house divided against itself and suffering from a certain ‘security’ paranoia. Not only does this decision show the Saudi government’s fear of an internal uprising after the fashion of “Arab Spring” against their authoritarian rule, but also reflects a broader geo-political rivalry between two groups within the “Sunni” Arab world, one being led by Saudi Arabia and the other by Qatar, with both trying to establish supremacy in the Arab world. The decision of the Saudi government was, within few days, seconded by UAE—another dictatorial government in the Gulf region. Significantly, the decision was preceded by both governments’ along with Bahrain’s decision to withdraw their ambassadors from Qatar on the basis of the latter’s official support for the Muslim Brotherhood in Egypt.

Saudi Arabia`s decision to brand the Muslim Brotherhood as a terrorist organization should not have come as a surprise to anyone, given the conservative kingdom`s paranoia about not just movements that stand for human rights and democracy, but even the Islamic groups or movements that believe in democracy. The Brotherhood may have its own agenda, and its charter may have aims that sound anachronistic, but of this party, founded by Hassan al-Banna, has been relying on the electoral process and constitutional means to achieve power rather than resorting to ‘violent’ or ‘terror’ related activities as contended by the Saudi authorities. Yet Riyadh welcomed the army coup that ousted the Brotherhood`s elected government headed by Mohammad Morsi. However, Saudi ban should not be seen in isolation from the kingdom`s larger concerns in the Middle East, especially the rise of movements that have an agenda the monarchy has no reason to view with favour. The truth is that Saudi Arabia has been very unhappy with the turn which the Arab Spring has taken and has realized belatedly that its Syria policy has already started to backfire, with serious potential to have a spillover effect within Saudia itself. The ban includes in its sweep four other groups as well. A hitherto unknown Saudi chapter of Hezbollah, a Shia militia in northern Yemen and two `jihadi` groups in Syria: the Al Qaeda-affiliated Nusra Front and the Islamic State of Iraq and Levant. These two groups have been involved in combat not only with the Syrian army but also with various militant factions. Like the US, Saudi Arabia, too, has realized quite late that some of the major groups it had been backing were no more a necessary asset in an anti-Iran front and that they would pose a threat to the kingdom itself if the battle turned inwards. This division between the Saudi backed anti-Assad—anti-Shia groups and the Saudi government is symptomatic of the larger division that has already started to permeate the “Sunni” world.

Aside from officially banning the organization, the Saudi government has also been actively trying to insulate itself from its social and literary effects on its society by banning a number of books from school libraries including works by Sayyid Qutb, an Egyptian writer who was the leading intellectual of the Muslim Brotherhood in the 1950s and 1960s. The decision by the Saudi authorities to ban Qtub’s works undoubtedly reflects tensions in the Kingdom regarding the Muslim Brotherhood which historically has had a strong presence in Saudi Arabia, and is known to have played a critical role in establishing important Saudi religious institutions such as the Muslim World League (MWL) and the World Assembly of Muslim Youth (WAMY), both dedicated to the global expansion of Saudi “Wahabbi” style Islam, and which continue to have close relationships with the global Muslim Brotherhood network—enough for the Saudi government to harbour its negative consequences against the authoritarian power structure that remains intact to the exclusion of people of Saudia. So scared is Saudi Arabia of Qatar’s support for Muslim Brotherhood that last year it passed a law deeming any act that endangers or “undermines” national security as possible terrorism, which potentially could carry the death sentence.

The fear of losing power in the wake of a possible popular eruption is not, however, restricted to Saudia alone. The Saudi decision was immediately seconded by UAE—another dictatorial state. As for Qatar, its strategy of embracing the Muslim Brotherhood and putting itself at the cutting edge of change elsewhere in the region as well as its soft diplomacy contain risks for Saudi government’s geo-strategic interests closely tied to its objective of establishing “Sunni” supremacy in the Middle East under its own unchallenged leadership. The Persian Gulf petro-powers Saudi Arabia and Qatar are engaged in a struggle for ideological and geopolitical supremacy in the Sunni Islamic world. Both nations have been actively involved in the so-called Arab Spring revolutionary movements that have erupted throughout the Middle East since the spring of 2011, but differ in their sociopolitical views of how to manage the inevitable transition that is taking place in the region while maintaining the status quo within their respective monarchies. High on the list of differences between the two countries are, as such, their diametrically opposed views on the Muslim Brotherhood, which has become a flashpoint between the two states.

While the royal families of both Saudi Arabia and Qatar have sought to buffer themselves by lavish social spending, Saudi Arabia has opted for maintenance of the status quo where possible and limited engagement with the Muslim Brotherhood in Egypt and Syria, towards which it does harbour deep-seated distrust. Qatar, which has thrown its full support behind the Muslim Brotherhood, also funds the popular Al-Jazeera media network that is referred to as the mouthpiece of the Brotherhood, in Egypt and, to a lesser extent, in Tunisia; while Al-Arabiya, although based in the UAE, was founded by and is funded by Saudi Arabia. These news channels are also in direct competition with one another and support the policies of their protectors. The stakes are increased because each organization is very popular within the region and can influence the hearts and minds of millions of people across entire MENA.

In Syria both countries have been extensively funding selective groups among the so-called “rebels.” Qatar was, unless its sudden withdrawal from active involvement in Syria after the change of leadership, the leading arms supplier to insurgents Syria, with 85 plane loads of weapons flown – apparently under CIA auspices and with Turkish oversight – from Doha to Ankara and from there, trucked into Syria and distributed among rebel factions. Saudi Arabia was a distant second with only 37 planeloads. However, by 2014, these figures have already started to shuffle with Saudi Arabia agreeing to supply heavy weapons to the “rebels” and also pushing some its allies, such as Pakistan, into the geo-political games in the Middle East. According to a February 2014 report of The Wall Street Journal, Saudi government has agreed to provide the (only selected groups after imposition of an on other) of opposition for the first time the Chinese man-portable air defense systems, or Manpads, and antitank guided missiles as well to achieve two main goals, i.e., countering the army as well as Qatari backed “rebel” groups.

The power tussle in the “Sunni” Arab world has divided that very ‘world’ against itself, what to speak of eliminating the Shia “world.” The point to consider here, which deserves due attention to understand geo-political games in the Middle East, is that there are more than one dimensions of the on-going conflict. It seems to be an oversimplification to simply describe it in terms of Sunni-Shia rivalry; there is also an on-going rivalry between certain Sunni states for gaining geo-political advantages, which is deepening with each passing day. 

Salman Rafi Sheikh, research-analyst of International Relations and Pakistan’s foreign and domestic affairs, exclusively for the online magazine “New Eastern Outlook”.

De Kosovo a Crimea. ¿Por qué lo llaman derecho cuando quieren decir poder?

Por Teresa Aranguren*

amerikosovo.jpgPero de qué se escandalizan cuando dicen que se escandalizan de la intervención rusa en Crimea. A juzgar por las declaraciones del presidente de los EEUU, de los dirigentes europeos y por supuesto también de toda una galería de analistas, expertos y tertulianos de eso que llamamos Occidente, nos enfrentamos a un caso, sin precedentes, de violación del derecho internacional y por tanto merecedor de respuesta adecuada, en forma de sanciones, por parte de La Comunidad Internacional. O sea que se trata de defender la legalidad o por expresarlo más filosóficamente de una especie de imperativo moral que nos obliga a actuar. Y la verdad es que planteado así no quedaría más remedio que suscribirlo.

Pero las leyes o rigen para todos o “no son”. Y por eso mismo hay que preguntarse qué pasa cuando quienes se erigen en principales valedores del derecho son al mismo tiempo quienes más descarada e impunemente lo quebrantan. Y sí, me refiero a EEUU y a sus aliados europeos, evitando conscientemente decir Unión Europea porque en cuestión de política exterior no suele ser Unión y menos aún Europea, sino simples “aliados de EEUU”.

Hay comparaciones que para algunos resultan odiosas no tanto porque no vengan al caso sino porque quizás vienen demasiado al caso. Son demasiado esclarecedoras. Como la de Kósovo y Crimea, en su momento respectivas provincias de Serbia y Ucrania, en las que una gran mayoría de la población que no se identifica con la nación a la que teórica o legalmente pertenece alienta reclamaciones secesionistas. Desde el punto de vista jurídico la situación es muy similar por no decir idéntica. Pero lo que valió para Kósovo no vale para Crimea. O viceversa.

Y sí, hay que recordar Kósovo. Hay que recordar que la OTAN, es decir EE.UU y sus aliados europeos, lanzó una campaña de ataques aéreos sobre lo que entonces aún se denominaba Yugoslavia en flagrante violación del Derecho Internacional.

Por supuesto la justificación del atropello fue muy humanitaria. Había que bombardear a unos para supuestamente salvar a otros: la población albanesa de Kósovo. La vía diplomática se dijo entonces estaba agotada. Pero bastaría recordar lo que ocurrió en las conversaciones de Rambouillet, la supuesta “última oportunidad para la paz”, cuando los ministros de exteriores europeos comparecieron sonrientes ante la prensa anunciando que el gobierno yugoslavo aceptaba las condiciones políticas que se le habían planteado y que por tanto la opción militar podía descartarse. Pero en esa rueda de prensa había una ausencia significativa, la de la secretaria de estado estadounidense, Madelaine Albraigh, que mientras los europeos se felicitaban por el acuerdo, estaba reunida con los representantes albano-kosovares, en concreto los dirigentes del grupo armado UCK ( ejército de liberación de Kósovo), para fijar un pliego de nuevas condiciones –entre ellas, la celebración de un referéndum que abriría la vía a la independencia de Kósovo y la presencia de tropas de la OTAN en todo el territorio de Yugoslavia- que difícilmente el gobierno de Belgrado podría aceptar. “No podemos bombardear a los serbios porque los albaneses no acepten” fue el comentario con el que, según una fuente diplomática, Madelaine Albraigh justificó la necesidad de endurecer las condiciones a la parte yugoslava. Así se agotó la vía diplomática. Yugoslavia no aceptó las nuevas condiciones. Poco después, el 24 de marzo de 1999, cayeron las primeras bombas.

Y durante tres meses los aviones de la OTAN bombardearon puentes, fábricas, barrios residenciales, trenes, coches de línea, hospitales, una embajada, un convoy de refugiados, el edificio de la televisión estatal…el concepto crimen de guerra cuadra bastante bien con muchos de aquellos ataques y la verdad no me hubiera importado acudir como testigo presencial de aquellos crímenes si alguno de ellos hubiera sido alguna vez juzgado. Pero siempre supimos que no lo serían. Que el derecho internacional no rige para EEUU y sus aliados. Que no se trataba de derecho sino de poder.

La campaña de ataques de la OTAN terminó con la firma de los acuerdos de Kumanovo, por los que el gobierno yugoslavo aceptaba retirar sus efectivos militares y policiales de Kósovo, devolver y ampliar el estatuto de autonomía al territorio y permitir el despliego de las tropas de la Otan en lo que aún era una provincia de Serbia; a cambio se ponía fin a los bombardeos y se garantizaba la integridad territorial de Yugoslavia, es decir, el estatus de Kósovo como provincia autónoma no sería alterado.

El final de la historia es sobradamente conocido: Kosovo proclamó su independencia con el activo respaldo de los países que habían bombardeado Yugoslavia y que -con alguna variación de matiz, como España que por razones obvias no ha reconocido la independencia de Kósovo- son los mismos cuyos representantes se llevan ahora las manos a la cabeza ante el supuesto desafío a la legalidad internacional perpetrado por Rusia.

Por cierto en el Kósovo independiente donde apenas queda presencia de las poblaciones- serbios, gitanos, goranos- no albanesas, se ubica Camp Bondsteel, la mayor base militar que EEUU tiene en el exterior y que empezó a construirse en junio de 1999, a los pocos días de la entrada de las tropas de la OTAN en el territorio. Además del valor estratégico de su emplazamiento, Camp Bondsteel ha servido, a partir de 2001, como centro de detención clandestino y alternativo a Guantánamo.

El argumento del derecho internacional en boca de algunos resulta obsceno.

* Periodista. Cubrió desde Belgrado y Prístina la campaña de bombardeos de la OTAN en Yugoslavia.

Fuente: Semanario Serbio

Extraído de El Espía Digital.

Nieuwe wet Saudi Arabië: Alle niet-moslims zijn terroristen

Nieuwe wet Saudi Arabië: Alle niet-moslims zijn terroristen

Twijfelen aan islam als terreurdaad bestempeld


De Saudische koning Abdullah duldt geen enkele tegenspraak.

Saudi Arabië heeft een aantal nieuwe wetten ingevoerd waarmee ‘atheïsten’ - in de islamitische wereld alle niet-moslims- automatisch als terroristen worden beschouwd. Hetzelfde geldt voor alle vormen van politieke tegenstand, inclusief deelnemers aan demonstraties.

De nieuwe wetten werden opgesteld vanwege het groeiende aantal Saudi’s dat terugkeert uit de burgeroorlog in Syrië, en dat de monarchie omver zou willen werpen. Koning Abdullah vaardigde daarom ‘Koninklijk Decreet 44’ uit, waarmee deelname aan ‘vijandelijkheden’ buiten het koninkrijk bestraft kan worden met een gevangenisstraf van 3 tot 20 jaar.

Ook het aantal groepen dat als terreurorganisatie wordt gekenmerkt, werd uitgebreid. Net als in Egypte werd de Moslim Broederschap in deze lijst opgenomen.

Twijfel aan islam = terreurdaad

In artikel 1 van de nieuwe regels wordt terrorisme omschreven als ‘het aanhangen van de atheïstische gedachte in iedere vorm, of het betwijfelen van de fundamenten van de islamitische religie waar het land op is gebaseerd.’ Buiten de islam zijn in Saudi Arabië alle andere religies verboden.

Joe Stork, vicedirecteur van Human Rights Watch afdeling Midden Oosten en Noord Afrika, wees erop dat de Saudische autoriteiten nog nooit kritiek op hun beleid hebben geaccepteerd, maar dat de nieuwe wetten nu bijna iedere vorm van kritiek of onafhankelijk denken als een terreurdaad bestempen.

Human Rights Watch probeert meestal tevergeefs om gevangen zittende Saudiërs vrij te krijgen. Twee mannen verloren onlangs hun beroepzaak, en zullen respectievelijk 3 maanden en 5 jaar de cel in moeten vanwege hun kritiek op de Saudische autoriteiten.

Xander

(1) Independent

La stratégie de l’Anaconda

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  La stratégie de l’Anaconda

par Eduard RIX

Pour le géopoliticien allemand Karl Haushofer les Anglo-saxons pratiquent la politique de l’Anaconda, consistant à enserrer progressivement sa proie et à l’étouffer lentement.

Dans Terre et Mer, Carl Schmitt rappelle que les cabbalistes du Moyen-Age interprétaient l’histoire du monde comme un combat entre un animal marin, une puissante baleine, le Léviathan, et un animal terrien, éléphant ou taureau, le Behemoth (1). Ce dernier essaie de déchirer le Léviathan avec ses défenses ou ses cornes, tandis que la baleine s’efforce de boucher avec ses nageoires la gueule du terrien pour l’affamer ou l’étouffer. Pour Schmitt, derrière cette allégorie mythologique se cache le blocus d’une puissance terrestre par une puissance maritime. Il ajoute : « l’histoire mondiale est l’histoire de la lutte des puissances maritimes contre les puissances continentales et des puissances continentales contre les puissances maritimes » (2), axiome que reprendront les géopoliticiens anglo-saxons.

Le Sea Power de Mahan

Premier d’entre eux, l’amiral Alfred T. Mahan (1840-1914), qui estime que la puissance maritime (Sea Power) s’est révélée déterminante pour la prospérité des nations. Pour lui, la Mer peut agir contre la Terre - alors que l’inverse n’est pas vrai - et finit toujours par l’emporter. Profondément persuadé que la maîtrise des mers assure la domination des terres, il énonce : « L’Empire de la mer est sans nul doute l’Empire du monde » (3).

Dans The problem of Asia (1900), il applique à l’Eurasie son paradigme géopolitique, insistant sur la nécessité d’une coalition des puissances maritimes pour contenir la progression vers la haute mer de la grande puissance terrestre de l’époque, la Russie. En effet, sa position centrale confère un grand avantage stratégique à l’Empire russe car il peut s’étendre dans tous les sens et ses lignes intérieures ne peuvent être coupées. Par contre, et là réside sa faiblesse, ses accès à la mer sont limités, Mahan ne voyant que trois axes d’expansion possibles : en Europe, pour contourner le verrou des détroits turcs, vers le Golfe persique et sur la Mer de Chine. C’est pourquoi il préconise un endiguement de la tellurocratie russe passant par la création d’un vaste front des puissances maritimes, des thalassocraties, qui engloberait les USA, la Grande-Bretagne, l’Allemagne et le Japon.

Heartland contre World Island

L’universitaire britannique Halford John Mackinder (1861-1947) s’inspirera de Mahan. Une idée fondamentale traverse toute son œuvre : la confrontation permanente entre la Terre du Milieu ou Heartland, c’est-à-dire la steppe centre-asiatique, et l’Ile du Monde ou World Island, la masse continentale Asie-Afrique-Europe.

C’est dans sa célèbre communication de 1904, « The geographical pivot of history » (Le pivot géographique de l’histoire), qu’il formule sa théorie, que l’on peut résumer ainsi : 1°) la Russie occupe la zone pivot inaccessible à la puissance maritime, à partir de laquelle elle peut entreprendre de conquérir et contrôler la masse continentale eurasienne; 2°) en face, la puissance maritime, à partir de ses bastions (Grande-Bretagne, Etats-Unis, Afrique du Sud, Australie et Japon) inaccessibles à la puissance terrestre, encercle cette dernière et lui interdit d’accéder librement à la haute mer.

Pour lui, la steppe asiatique, quasi déserte, est la Terre du Milieu (Heartland), entourée de deux croissants fortement peuplés : le croissant intérieur (inner crescent), regroupant l’Inde, la Chine, le Japon et l’Europe, qui jouxte la Terre du Milieu, et le croissant extérieur (outer crescent), constitué d’îles diverses. Le croissant intérieur est soumis régulièrement à la poussée des nomades cavaliers venus des steppes de la Terre du Milieu. L’ère « colombienne » voit l’affrontement de deux mobilités, celle de l’Angleterre qui amorce la conquête des mers, et celle de la Russie qui avance progressivement en Sibérie.

Avec le chemin de fer, la puissance terrestre est désormais capable de déployer ses forces aussi vite que la puissance océanique. Obnubilé par cette révolution des transports, qui permettra à la Russie de développer un espace industrialisé autonome et fermé au commerce des thalassocraties, Mackinder conclut à la supériorité de la puissance tellurique, résumant sa pensée dans un aphorisme saisissant : « Qui tient l’Europe continentale contrôle le Heartland. Qui tient le Heartland contrôle la World Island ». Effectivement, toute autonomisation économique de l’espace centre-asiatique conduit automatiquement à une réorganisation du flux des échanges, le croissant interne ayant alors intérêt à développer ses relations commerciales avec la Terre du Milieu, au détriment des thalassocraties anglo-saxonnes.

Dans Democratic Ideals and Reality (1919), Mackinder rappelle l’importance de la masse continentale russe, que les thalassocraties ne peuvent ni contrôler depuis la mer ni envahir complètement. Concrètement, il faut selon lui impérativement séparer l’Allemagne de la Russie par un « cordon sanitaire », afin d’empêcher l’unité du continent eurasiatique. Politique prophylactique suivie par Lord Curzon, qui nomme l’universitaire Haut commissaire britannique en « Russie du Sud », où une mission militaire assiste les Blancs de Dénikine et obtient qu’ils reconnaissent de facto la nouvelle république d’Ukraine… Pour rendre impossible l’unification de l’Eurasie, Mackinder préconise la balkanisation de l’Europe orientale, l’amputation de la Russie de son glacis baltique et ukrainien, le « containment » des forces russes en Asie.

Le Rimland de Spykman

L’idée fondamentale posée par Mahan et Mackinder, interdire à la Russie l’accès à la haute mer, sera reformulée par Nicholas John Spykman (1893-1943), qui insiste sur l’impérieuse nécessité de contrôler l’anneau maritime ou Rimland, cette zone littorale bordant la Terre du Milieu et qui court de la Norvège à la Corée. Pour lui, « qui maîtrise l’anneau maritime tient l’Eurasie, qui tient l’Eurasie maîtrise la destinée du monde » (4).

Alors que chez Mackinder le croissant intérieur est un espace de civilisation élevé mais fragile, car toujours menacé de tomber sous la coupe des « barbares dynamiques » du Heartland, chez Spykman le Rimland constitue un atout géopolitique majeur, non plus à la périphérie mais au centre de gravité géostratégique. Pour lui, la position des territoires du Rimland « par rapport à l’Equateur, aux océans et aux masses terrestres détermine leur proximité du centre de puissance et des zones de conflit; c’est sur leur territoire que se stabilisent les voies de communication; leur position par rapport à leurs voisins immédiats définit les conditions relatives aux potentialités de l’ennemi, déterminant de ce fait le problème de base de la sécurité nationale » (5). Après 1945, la politique extérieure américaine va suivre exactement la géopolitique de Spykman en cherchant à occuper tout le Rimland et à encercler ainsi le cœur de l’Eurasie représenté désormais par l’URSS et ses satellites. Dès le déclenchement de la Guerre froide, les Etats-Unis tenteront, par une politique de « containment » de l’URSS, de contrôler le Rimland au moyen d’une longue chaîne de pactes régionaux : OTAN, Pacte de Bagdad puis Organisation du traité central du Moyen-Orient, OTASE et ANZUS.

Toutefois, dès 1963, le géopoliticien Saül B. Cohen proposera une politique plus ciblée visant à garder uniquement le contrôle des zones stratégiques vitales et à remplacer le réseau de pactes et de traités allant de la Turquie au Japon par une Maritime Asian Treaty Organization (MATO) (6).

Le Grand Echiquier

La géopolitique classique tenait l’Eurasie pour le pivot du monde. Avec la disparition de l’URSS en 1991, la superpuissance unique que constituent désormais les USA est devenu le pivot géopolitique mondial et l’arbitre du continent eurasiatique. L’on aurait pu s’attendre à un redéploiement stratégique de l’Amérique et à une rupture avec la vulgate mackindérienne. Il n’en a rien été. A tel point qu’aujourd’hui encore, le conseiller officieux de politique étrangère le plus écouté du président Obama se révèle être un disciple zélé de Mackinder. Il s’agit de Zbigniew Brzezinski, ami de David Rockefeller avec qui il cofonda la Commission Trilatérale en 1973, et ex conseiller à la sécurité nationale du président Carter de 1977 à 1980. Son œuvre théorique majeure, Le Grand Echiquier (1997), reprend la doxa géopolitique anglo-saxonne. En prélude, Brzezinski rappelle que « l’Eurasie reste l’échiquier sur lequel se déroule la lutte pour la primauté mondiale » (7). Les chiffres parlent d’eux-mêmes : « On dénombre environ 75% de la population mondiale en eurasie, ainsi que la plus grande partie des ressources physiques, sous forme d’entreprises ou de gisements de matières premières. L’addition des produits nationaux bruts du continent compte pour quelque 60% du total mondial. Les trois quarts des ressources énergétiques connues y sont concentrées » (8).

Pour que la suprématie américaine perdure, il faut éviter qu’un Etat ou un groupe d’Etats ne puisse devenir hégémonique sur la masse eurasiatique. Considérant que la principale menace vient de la Russie, Brzezinski préconise son encerclement - toujours cette stratégie de l’Anaconda - par l’implantation de bases militaires, ou à défaut de régimes amis, dans les ex- républiques soviétiques. Selon Brzezinski, l’effort américain doit porter sur trois régions clés. D’abord l’Ukraine, car écrit-il « Sans l’Ukraine la Russie cesse d’être un empire en Eurasie » (9). Il ajoute : « Pour Moscou, en revanche, rétablir le contrôle sur l’Ukraine – un pays de cinquante-deux millions d’habitants doté de ressources nombreuses et d’un accès à la mer Noire -, c’est s’assurer les moyens de redevenir un Etat impérial puissant » (10). Autre cible, l’Azerbaïdjan qui, « en dépit de ses faibles dimensions et de sa population limitée, recouvre une zone névralgique, car elle contrôle l’accès aux richesses du bassin de la Caspienne et de l’Asie centrale » (11). Brzezinski précise les enjeux : « Un Azerbaïdjan indépendant, relié aux marchés occidentaux par des pipes-lines qui évitent les territoires russes, permet la jonction entre les économies développées, fortes consommatrices d’énergie, et les gisements convoités des républiques d’asie centrale » (12). A ces deux pivots géopolitiques sensibles, il ajoute l’Asie centrale musulmane qu’il s’agit de désenclaver afin de transporter vers l’ouest et vers le sud le gaz et le pétrole du Turkménistan et du Kazakhstan sans passer par la Russie, l’Etat-clé de la région étant l’Ouzbékistan. Ce dernier, « le plus dynamique et le plus peuplé des pays d’Asie centrale serait l’obstacle majeur à une restauration du contrôle russe sur la région. » (13). Il ne s’agit plus pour l’Amérique de pratiquer l’endiguement de la guerre froide mais le refoulement (roll back).

Conclusion de Brzezinski : « Pour la première fois dans l’histoire, la scène principale du monde, l’Eurasie, est dominée par une puissance non eurasienne » (14), l’Amérique. Cependant « un scénario présenterait un grand danger potentiel » pour le Grand Jeu américain, « la naissance d’une grande coalition entre la Chine, la Russie et peut-être l’Iran » (15). N’assiste-t-on pas à la naissance d’une telle coalition « anti-hégémonique » à l’occasion de la crise syrienne ?

Edouard Rix, Réfléchir & Agir, automne 2012, n°42, pp. 45-47.

Notes

(1) Les noms de Léviathan et de Behemoth sont empruntés aux chapitres 40 et 41 du Livre de Job.

(2) C. Schmitt, Terre et Mer, Le Labyrinthe, Paris, 1985, p. 23.

(3) A.T. Mahan, The problem of Asia an its effect upon international policies,, Sampson Low-Marston, London, 1900, p.63.

(4) N. Spykman, The geography of the peace, Harcourt-Brace, New-York, 1944, p. 43.

(5) Ibid, p.5.

(6) Saül B. Cohen, Geography and politics in a World divided, Methuen, Londres, 1963, 2e édition 1973, p.307.

(7) Z. Brzezinski, Le Grand Echiquier, Bayard éditions, Paris, 1997, p. 24.

(8) Ibid, p. 59.

(9) Ibid, p. 74.

(10) Ibid, p. 75.

(11) Ibid.

(12) Ibid.

(13) Ibid, p. 160.

(14) Ibid, p. 253.

(15) Ibid, p. 84.