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vendredi, 15 octobre 2010

Come l'Occidente ha devastato l'Afghanistan

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Come l'Occidente ha devastato l'Afghanistan

Ex: http://www.massimofini.it/

Testo integrale dell'articolo pubblicato sul Fatto il 12 ottobre 2010 e ridotto per ragioni di spazio:

Ogni volta che muore un soldato italiano in Afghanistan ci chiediamo «Che cosa ci stiamo a fare lì?». Ma c'è un'altra domanda da farsi: cosa abbiamo fatto in Afghanistan e all'Afghanistan?

1) Dismesse le pelose giustificazioni che siamo in Afghanistan per regalare le caramelle ai bambini, per "ricostruire quel disgaziato Paese", per imporre alle donne di liberarsi del burqua, perché, con tutta evidenza, quella in Afghanistan, dopo dieci anni di occupazione violenta, non può essere gabellata per un'operazione di "peace keeping", ma è una guerra agli afgani, l'unica motivazione rimasta agli Stati Uniti e ai loro alleati occidentali, per legittimare il massacro agli occhi delle proprie opinioni pubbliche e anche a quelli dei propri soldati, demotivati perché a loro volta non capiscono «che cosa ci stiamo a fare quì», è che noi in Afghanistan ci battiamo "per la nostra sicurezza" per contrastare il "terrorismo internazionale".

È una menzogna colossale. Gli afgani, e quindi anche i talebani, non sono mai stati terroristi. Non c'era un solo afgano nei commando che abbatterono le Torri gemelle. Non un solo afgano è stato trovato nelle cellule, vere o presunte, di Al Quaeda. Nei dieci, durissimi, anni di conflitto contro gli invasori sovietici non c'è stato un solo atto di terrorismo, tantomeno kamikaze, né dentro né fuori il Paese. E se dal 2006, dopo cinque anni di occupazione si sono decisi ad adottare contro gli invasori anche metodi terroristici (dopo un aspro dibattito al loro interno: il leader, il Mullah Omar, era contrario perché questi atti hanno delle inevitabili ricaute sui civili e nulla può convenire meno ai Talebani che alienarsi la simpatia e la collaborazione della popolaione sul cui appoggio si sostengono) è perché mentre i sovietici avevano almeno la decenza di stare sul campo, gli occidentali combattono quasi esclusivamente con i bombardieri, spesso Dardo e Predator senza equipaggio, ma armati di missili micidiali e comandati da Nells nel Nevada o da un'area "top secret" della Gran Bretagna. Contro un nemico invisibile che cosa resta a una resistenza? Nei rari casi in cui il nemico si fa visibile i Talebani, nonostante l'incomparabile inferiorità negli armamenti, lo affrontano con classiche azioni di guerriglia com'è stata quella che è costata la vita ai quattro soldati italiani. Azione definita "vigliacca" dal ministro La Russa. Chi è vigliacco? Chi ci mette il proprio corpo e il proprio coraggio o chi stando fuori portata schiaccia un bottone e lancia un missile e uccide donne, vecchi, bambini, com'è avvenuto mille volte in questi anni ad opera soprattutto degli americani ma anche, quando è il caso, degli altri contingenti?

Nel 2001 in Afghanistan c'era Bin Laden che, con l'appoggio degli americani, si era introdotto nel Paese anni prima in funzione antisovietica. Ma Bin Laden cotituiva un problema anche per il governo talebano, tanto è vero che quando ne 1990 Bill Clinton propose ai Talebani di farlo fuori, il Mullah Omar, attraverso il suo numero due Waatki inviato appositamente a Washington dove incontrò due volte il presidente americano, si disse d'accordo purchè la responsabilità dell'assassinio del Califfo saudita se la prendessero gli americani perché Osama godeva di una vasta popolarità nel Paese avendo fatto costruire con i suoi soldi, ospedali, strade, ponti, infrastrutture, avendo fatto cioè quello che noi abbiamo detto che volevamo fare e non abbiamo fatto.

Ma Clinton, nonostante fosse stato il promotore dell'iniziativa, all'ultimo momento si tirò indietro. Tutto ciò risulta da un documento del Dipartimento di Stato americano dell'agosto 2005.

Comunque sia oggi Bin Laden non c'è più e in Afghanistan non ci sono più nemmeno i suoi uomini. La Cia, circa un anno fa, ha calcolato che su 50 mila guerriglieri solo 359 sono stranieri. Ma sono ubzechi, ceceni, turchi, cioè non arabi, non waabiti, non appartenenti a quella Jihan internazionale che odia gli americani, gli occidentali, gli "infedeli" e vuole vederli scomparire dalla faccia della terra. Agli afgani, e quindi ai Talebani, interessa solo il loro Paese. Il Mullah Omar, come scrive Jonathan Steel, inviato ed editorialista del Guardian nella sua approfondita inchiesta "La terra dei taliban" più che un leader religioso è un leader politico e militare. A lui (come ai suoi uomini) interessa solo liberare la propria terra dagli occupanti stranieri così come aveva già fatto combattendo, giovanissimo, contro i sovietici, rimediando la perdita di un occhio e quattro gravi ferite. E sarà pur lecito a un popolo o a una parte di esso esercitare il legittimo diritto di resistere ad un'occupazione straniera, comunque motivata. L'Afghanistan, nella sua storia, non ha mai aggredito nessuno (caso mai è stato aggredito: dagli inglesi, dai sovietici e oggi dagli occidentali) e armato rudimentalmente com'è non può costituire un pericolo per nessuno.

2) Per avere un'idea delle devastazioni di cui siamo responsabili in Afghanistan bisogna capire perché i Talebani vi si sono affermati agli inizi degli anni Novanta. Sconfitti i sovietici i leggendari comandanti militari che li avevano combattuti (i "signori della guerra"); gli Ismail Khan, i Pacha Khan, gli Heckmatjar, i Dostum, i Massud, diedero vita a una feroce guerra civile e, per armare le loro milizie, si trasformarono con i loro uomini in bande di taglieggiatori, di borseggiatori, di assassini, di stupratori che agivano nel più pieno arbitrio e vessavano in ogni modo la popolazione (un camionista, per fare un esempio, per attraversare l'Afghanistan doveva subire almeno venti taglieggiamenti). I Talebani furono la reazione a questo stato di cose. Con l'appoggio della popolazione che non ne poteva più, sconfissero i "signori della guerra", li cacciarono dal Paese e riportarono l'ordine e la legge nel Paese. Sia pur un duro ordine e una dura legge, quella coranica, che comunque non è estranea alla cultura e alla tradizione di quella gente come invece lo  per noi. In ogni caso la popolazione afgana dimostrò di preferire quell'ordine e quella legge al disordine e agli arbitri di prima.

a) Nell'Afghanistan talebano c'era sicurezza. Vi si poteva viaggiare tranquillamente anche di notte come mi ha raccontato Gino Strada che vi ha vissuto e vi ha potuto operare con i suoi ospedali anche se doveva continuamente contrattare con la sessuofobia dei dirigenti talebani che pretendevano una rigida separazione dei reparti a volte impossibile (medici e infermieri donne per i reparti femminili). Gli occidentali gli ospedali li chiudono come è avvenuto a Laskar Gah.

b) In quell'Afghanistan non c'era corruzione. per la semplice ragione che la spiccia ma efficace giustizia talebana tagliava le mani ai corrotti e, nei casi più gravi, anche un piede. Per la stessa ragione non c'erano stupratori. La carriera di leader del Mullah Omar comincia proprio da qui. Una banda aveva rapito due ragazze nel suo piccolo villaggio, Zadeh, a una ventina di chilometri da Kandahar, e le aveva portate in un posto sicuro per farne carne di porco. Omar, a capo di altri "enfants de pays", raggiunse il luogo, liberò le ragaze, sconfisse i banditi e ne fece impiccare il boss all'albero della piazza del Paese). Ancora oggi, nella vastissima realtà rurale dell'Afghanistan, la gente, per avere giustizia, preferisce rivolgersi ai Talebani piuttosto che alla corrotta magistratura del Quisling Karzai dove basta pagare per avere una sentenza favorevole.

c) Nel 1998 e nel 1999 il Mullah Omar aveva proposto alle Nazioni Unite il blocco della coltivazione del papavero, da cui si ricava l'oppio, in campio del riconoscimento internazionale del suo governo. Nonostante quella di boicottare la coltivazione del papavero fosse un'annosa richiesta dell'Agenzia contro il narcotraffico dell'Onu la risposta, sotto la pressione degli Stati Uniti, fu negativa. All'inizio del 2001 il Mullah Omar prese autonomamente la decisione di bloccare la coltivazione del papavero. Decisione difficilissima non solo perché su questa coltivazione vivevano moltissimi contadini afgani, a cui andava peraltro un misero 1% del ricavato totale, ma perché il traffico di stupefacenti serviva anche al governo talebano per comprare grano dal Pakistan. Ma per Omar il Corano, che vieta la produzione e il consumo di stupefacenti, era più importante dell'economia. Aveva l'autorità e il prestigio per prendere una decisione del genere. Una decisione così efficace che la produzione dell'oppio crollò quasi a zero (si veda il prospetto del Corriere della Sera 17/6/2006). Insomma il talebanismo era la soluzione che gli afgani avevano trovato per i propri problemi. Se poi, alla lunga, non gli fosse andata più bene vrebber rovesciato il governo del Mullah Omar perchè in Afghanistan non c'è uomo che non posssieda un kalashnikov. Noi abbiamo preteso, con un totalitarismo culturale che fa venire i brividi (per non parlare degli interessi economici) di sostituire a una storia afgana la storia, i costumi, i valori, le istituzioni occidentali. Con i seguenti risultati.

Sono incalcolabili le vittime civili provocate, direttamente o indirettamente dalla presenza delle truppe occidentali. Le stime dell'Onu non sono credibili perchè una recente inchiesta ha rilevato che in almeno 143 casi i comandi alleati hanno nascosto gli "effetti collaterali" provocati dai bombardamenti indiscriminati sui villaggi. Vorrei anche rammentare, in queste ore di pianto per i nostri caduti, che anche gli afgani e persino i guerriglieri talebani hanno madri, padri, mogli e figli che non sono diversi dai nostri. Inoltre in Afghanistan sono tornati a spadroneggiare i "signori della guerra" alcuni dei quali, i peggiori come Dostum, un vero pendaglio da forca, sono nel governo del Quisling Karzai.

La corruzione, nel governo, nell'esercito, nella polizia, nelle autorità amministrative è endemica. Ha detto Ashrae Ghani, un medico, terzo candidato alle elezioni farsa di agosto, il più occidentale di tutti e quindi al di sopra di ongi sospetto: «Nel 2001 eravamo poveri ma avevamo una nostro moralità. Questo profluvio di dollari che si è riversato sull'Afghanistan ha distrutto la nostra integrità e ci ha reso diffidenti gli uni verso gli altri».

Infine oggi l'Afghanistan "liberato" produce il 93% dell'oppio mondiale.

Ma c'è di peggio. Armando e addetrando l'esercito e la polizia del governo fantoccio di Karzai noi abbiamo posto le premesse, quando le truppe occidentali se ne saranno andate, per una nuova guerra civile, per "una afganizzazione del conflitto" come si dice mascherando, con suprema ipocrisia, la realtà dietro le parole. La sola speranza è che il buon senso degli afgani prevalga. Qualche segnale c'è. Ha detto Shukri Barakazai, una parlamentare che si batte per i diritti delle donne afgane: «I talebani sono nostri connazionali. Hanno idee diverse dalle nostre, ma se siamo democratici dobbiamo accettarle». Da un anno, in Arabia Saudita sotto il patrocinio del principe Abdullah, sono in corso colloqui non poi tanto segreti fra emissari del Mullah Omar e del governo Karzai. Ma prima di iniziare una seria trattativa ufficiale Omar, di fatto vincitore sul campo, pretende che tutte le truppe straniere sloggino. Non ha impiegato trenta dei suoi 48 anni di vita a combattere per vedersi imporre una "soluzione americana". E, come ha detto giustamente il comandante delle truppe sovietiche che occuparono l'Afghanistan: «Bisogna lasciare che gli afgani sbaglino da soli». Bisogna cioè rispettare il principio, solennemente sancito a Helsinki nel 1975 e sottoscritto da quasi tutti gli Stati del mondo, dell'autodeterminazione dei popoli.

E allora perché rimaniamo in Afghanistan e anzi il ministro della Difesa Ignazio La Russa, un ripugnante prototipo dell' "armiamoci e partite", vuole dotare i nostri aerei di bombe? Lo ha spiegato, senza vergognarsi, Sergio Romano sul Corriere del 10 ottobre: perché la lealtà all' "amico americano" ci darà un prestigio che potremo sfruttare nei confronti degli altri Paesi occidentali. Gli olandesi e i canadesi se ne sono già andati, stufi di farsi ammazzare e di ammazzare, per questioni di pretigio. Gli spagnoli, che hanno affermato che nulla gli interessa di meno, che portare la democrazia in Afghanistan, se ne andranno fra poco. Rimaniamo noi, sleali, perché fino a poco tempo fa abbiamo pagato i Talebani perché ci lasciassero in pace, ma fedeli come solo i cani lo sono. Gli Stati Uniti spendono 100 miliardi di dollari l'anno per qusta guerra insensata, ingiusta e vigliacchissima (robot contro uomini). L'Italia spende 68 milioni di euro al mese, circa 800 milioni l'anno. Denaro che potrebbe essere utilizzato per risolvere molte situzioni, fra cui quelle di disoccupazione o di sottoccupazione di alcune regioni da cui partono molti dei nostri ragazzi per guadagnare qualche dollaro in più e farsi ammazzare e ammazzare senza sapere nemmeno perché.

Massimo Fini

La rigueur budgétaire doit commencer par la rigueur identitaire!

La rigueur budgétaire doit commencer par la rigueur identitaire !

par Marc ROUSSET

MetsijsQuinten.jpgLe Premier ministre François Fillon a annoncé un gel en valeur des dépenses de l’État sur trois ans, une baisse de 10 % des dépenses de fonctionnement (entre 800 million et 900 millions d’euros) et 5 milliards d’économies sur les niches fiscales. Le non-remplacement d’un fonctionnaire sur deux est en outre confirmé. L’objectif est de ramener le déficit de 8 % du P.I.B. en 2010, à 6 % en 2011, 4,6 % en 2012, et 3 % en 2013, soit 95 milliards d’économies en trois ans. Or l’immigration extra-européenne coûte à elle seule 36 milliards d’euros par an à la France !

En France, selon Yves-Marie Laulan, il ressort, pour l’immigration et l’intégration, toutes catégories de dépenses confondues : scolarité, logement, lutte contre la délinquance juvénile et maintien de la sécurité, chômage et santé, aides sociales, etc. Un coût net (différence dépenses moins recettes) de 24 milliards d’euros pour ce qui concerne l’immigration et de 12 milliards d’euros pour l’intégration. Loin d’être une chance pour la France, cette immigration est une immigration de chômage et de précarité. 40 % des étrangers qui arrivent en France s’inscrivent à l’A.N.P.E.

Immigration de chômage

Selon le ministre Brice Hortefeux : « Sur cinq étrangers qui sont en France, il n’y en a que deux qui travaillent : une femme sur trois, un homme sur deux. C’est pourquoi il faut limiter l’immigration ». Les clandestins bénéficiaires de l’A.M.E. (Aide médicale de l’État) coûtent plus chers, 2 500 euros par an, selon une enquête lancée par l’Inspection générale des finances et celle des affaires sociales, qu’un assuré normal de la Sécurité sociale, 1 500 euros par an, en raison d’une « sur-représentation » de maladies telles que tuberculose, hépatite virale et S.I.D.A., soit un gouffre de 800 millions d’euros par an payé par la solidarité nationale pour 190 000 personnes représentant à elles seules huit fois le nombre des expulsions annuelles. Un système social excessivement généreux garantit un niveau de vie minimal à tout un chacun, même sans travail, sans compter l’aide médicale gratuite, l’aide au logement, la scolarité gratuite, les allocations familiales, même en faveur des ménages polygames. Selon le Président Sarkozy, « 7 % seulement de l’immigration en France aujourd’hui, est une immigration de travail ». La France régresse parce qu’elle accueille une immigration d’« allocations » et non pas de travailleurs qualifiés, de cadres éduqués ou d’entrepreneurs. Il y a le risque d’implosion budgétaire et sociale.

Les Français doivent donc payer pour la santé de populations d’origine extra-européenne clandestines ou non qui représentent à terme un danger pour leur identité et leur sécurité alors qu’ils n’arrivent même pas à boucler le budget de la sécurité sociale, en raison du vieillissement de la population et de la prise en charge des longues maladies à 100 % que l’on commence à vouloir remettre en question. L’hébergement d’urgence coûte un million d’euros par jour à l’État. Les quarante-deux milliards d’euros devant être déversés par l’État français de 2003 à 2013 sur les 751 quartiers sensibles (Plan Borloo) relèvent d’un gaspillage à l’efficacité incertaine et décevante, selon un rapport 2007 de la Cour des comptes; cela fait dix sept ans que dix ministres de la Ville se sont succédés au chevet des quartiers, chacun avec leur plan miracle de la dernière chance; en 2006, l’État, les collectivités territoriales, la Caisse des dépôts et consignations et l’Union européenne ont consacré 7,2 milliards d’euros pour les quartiers sensibles (médiations familiales, maintien de la sécurité, aides à l’emploi, prévention de la délinquance et rénovation urbaine); le taux de chômage des jeunes reste élevé jusqu’à 40 % dans les quartiers et l’argent de la ville n’a pas résolu les problèmes de niveau scolaire, de discrimination, ou de sécurité. Force est de reconnaître que le caractère extra-européen de ces populations donne à un grand nombre de Français le sentiment de financer à fonds perdus une partie du Tiers Monde. Et pourquoi pas toutes les populations de l’Afrique, de l’Asie et des pays émergents, tant qu’on n’y est, au nom des droits humanitaires et des droits de l’homme ? Le chiffre minimum de trente-six milliards d’euros du coût annuel de l’immigration extra-européenne en France pourrait même être, selon d’autres estimations, beaucoup plus important ! Ce chiffre minimum représente 80 % du déficit public, plusieurs fois le « trou » de la Sécurité sociale, 90 % du budget de la défense nationale…

Contrairement à la situation d’il y a trente ans, la France d’aujourd’hui, pour croître et se moderniser, a surtout besoin d’emplois qualifiés et rémunérateurs : ingénieurs, techniciens et cadres de haut niveau. Mieux vaudrait avoir quelques brillants sportifs et footballeurs de moins et accueillir une population éduquée s’assimilant facilement tout en donnant à la France des entrepreneurs et quelques Prix Nobel. La quasi-totalité des migrants légaux ou illégaux du Tiers Monde qui n’ont aucune qualification viennent peser sur les politiques sociales et salariales, tirent vers le bas la productivité moyenne française et entrent directement en concurrence avec les travailleurs moins qualifiés européens victimes des délocalisations. Il est donc permis de penser que les populations issues de l’immigration extra-européenne, loin de contribuer à « financer les retraites », risquent fort de les ponctionner.

Coût sociaux

Au coût économique s’ajoute les coûts sociétaux invisibles tels que les difficultés de fonctionnement de nombreux établissements de l’éducation nationale ou hospitaliers, la violence et la criminalité dans certaines banlieues au climat insurrectionnel larvé, sans même aborder la question du terrorisme. Selon l’Observatoire national de la délinquance (O.N.D.), la police et la gendarmerie ont enregistré, en 2007, 433 000 atteintes à l’intégrité physique, soit près du double du chiffre -223 030- de 1996. Et ce sont surtout les violences physiques gratuites non crapuleuses dont le nombre explose (223 000 actes en 2007 dont 44 500 hommes mineurs et 7470 adolescentes filles !); soixante professeurs sont agressés en France chaque jour; la République pusillanime ne supprime pas les allocations familiales aux parents dont la violence de leurs enfants délinquants ne respecte pas le contrat social d’intégration et elle ne fait pas payer les parents pour les dommages commis par les jeunes fauteurs de trouble ou incendiaires selon Synergie, deuxième syndicat d’officiers de police, 11 000 policiers ont été blessés et huit tués en France en 2006; plus de 45 000 voitures ont brûlé en 2007; ces chiffres interloquent et donnent envie d’abréger les longs discours des belles âmes irresponsables ! Cela revient à poser le problème du rétablissement de l’État de droit sur l’ensemble du territoire français, sachant que 21 % des détenus sont étrangers et 50 % de religion musulmane; à Paris, les Européens ne représentent que 37 % des délinquants. La République française veut-elle vivre dès la fin des années 2010, si rien n’est fait pour stopper l’immigration extra-européenne, une insécurité de type brésilien avec attaques dans la rue, « enlèvements express » (le temps pour la victime de retirer de l’argent à un guichet), un braquage d’automobilistes toutes les 12 minutes à Rio de Janeiro, 6000 homicides et 4000 disparus par an dans le seul État de Rio ? La France crée aujourd’hui des emplois sécuritaires qui font baisser les statistiques du chômage, mais peu satisfaisants quant à l’avenir économique du pays; l’économie hexagonale emploie environ 500 000 personnes dont 251 000 policiers et gendarmes de l’État français, vigiles, gardiens, etc., dans le domaine de la sécurité et du maintien de l’ordre, soit plus du double qu’il y a quelques années. Il serait préférable d’investir ces ressources gaspillées dans la recherche, l’innovation, les biotechnologies, les nouveaux matériaux, le développement des industries et des emplois de demain.

Conclusion

La rigueur ne doit pas être seulement budgétaire en continuant à accueillir actuellement en France 250 000 personnes immigrées par an (dont environ 50 000 clandestins), mais d’abord identitaire ! Avec un gouvernement socialiste ce serait environ 450 000 immigrés par an ! Les premières mesures de rigueur budgétaire doivent commencer par le retrait du Conseil de l’Europe à Strasbourg et de la ruineuse « machine infernale » droit de l’hommiste destructrice de notre identité collective au nom de pseudo-droits individuels, un arrêt total de l’immigration extra-européenne avec une politique de l’immigration zéro et une incitation au retour des populations immigrées mal assimilées dans leurs pays d’origine.

Marc Rousset

• D’abord mis en ligne sur Polémia, le 10 mai 2010.


Article printed from Europe Maxima: http://www.europemaxima.com

URL to article: http://www.europemaxima.com/?p=1265

Absurdistan - A State of Mind

Absurdistan

A State of Mind

 
 
 
Absurdistan
 

The Pentagon has begun field testing for a new and devastating experimental weapon still shrouded under a cloak of secrecy. A spin-off of anti-gravity technologies, the highly anticipated platform operates on the latest developments in the realm of “anti-logic”. Its use will enable our information warriors to defy reason and intellect, paralyzing an opponent with unrelenting streams of contradiction as well as sheer nonsense.

DOD’s anti-logic weapon underwent its first trial run this summer, as it was rushed into action amidst the Koran-burning controversy. An obscure Florida pastor’s plan to barbecue the Muslim holy book on September 11th was foiled, one suspects, largely due to the intervention of General David Petraeus, commander of U.S. and Coalition forces in Afghanistan. Deploying the anti-logic technology, Petraeus spoke against such an act, since it would “endanger troops” in his theater of responsibility. While the wisdom of the pastor’s step was very doubtful, Petraeus in his victory managed to obliterate truth and standards of reason. After all, the actual threat to U.S. troops stems not from a small Florida church’s play at publicity, but from occupying Afghanistan.

In the Postmodern Empire, news serves not so much to inform, but to blind, distract and intimidate. Our much-celebrated information age is defined by an incoherence that permeates society. Welcome to Absurdistan.

 

Russian traditionalist and science-fiction author Natalya Irtenina accurately diagnoses this disorder as the logical outcome of a culture’s flight from the Transcendent into revolutionary fantasies of liberty, equality and progress. She goes on to analyze the anti-traditional worldview and its manifestations, specifically within the domain of mass media.

 

Contemporary information technologies are founded, as a rule, on the rejection of

1) Principles of hierarchy, i.e. division of information into categories of important, secondary and negligible;

2) Principles of binary logic- the very significance of the antithesis “important – unimportant”, “necessary- unnecessary”, etc. is lost, and in the applications of mass media these concepts are made meaningless;

3) Unique connections- any information can undergo endless transformations and interpretations, thereby creating various pictures of the world, and any fact can be replaced by any other- the field of possibilities is limitless, and cultural conventions allow for it.

The collapse of values and ideas into an endless net-like structure can be viewed not only as the triumph of relativism, but also as a culminating moment of the liberal project. Where absurdity envelops what is left of a civilization, wars to impose democracy and today’s fashion tips enjoy equal value. The most varied images and sounds emanate through our televisions and internet newsfeeds in transitory fragments, and just as quickly they disintegrate into our subconscious. Western managerial elites wield data flows not to impart knowledge, but rather to impress certain emotions upon readers and viewers for profit and political control.

This jarring discontinuity surprises no one and registers with few, and perhaps nowhere is it more evident than in America’s spiral of decadence and imperial decline. President Obama chats up the women of a day-time talk show, The View, and perhaps within only hours of his appearance approves the movements of U.S. forces positioned across the world. GOP presidential hopeful Sarah Palin recites talking points on the sacred cause of Washington’s global supremacy, and then appears with her celebrity-seeking daughter on the program Dancing with the Stars. The surreal has swallowed our civilization, and any remaining distinctions between parody and public life melt away.

Discourse shifts within seconds from the sexual narcissism of average Americans to scenes of death and destruction abroad, and back. The latest market research, for example, has determined that women feel “sexy” when carrying Victoria’s Secret handbags; only a click away is a report on ongoing U.S. efforts to suborn Kandahar. We learn in passing that sixteen American soldiers have been killed in the course of operations there, and that a number of Taliban fighters and Pashtun villagers in Pakistan’s northwest were recently blown apart by Predator drones. Conservative, God-fearing Fox News tells us the CIA is carrying out these strikes to disrupt a plot by terror cells across Europe. Simultaneously Fox, the flagship of Rupert Murdoch’s News Corporation conglomerate, hoists a ringing endorsement of pornography and masturbation underneath the terrorism story. Fellow-citizens take daily excursions into what Irtenina terms our virtual apocalypse, where endurance of the Last Judgment is swapped out for a record total of kills in a game or the successful resolution to a sitcom.

For an observer of only moderate discretion, the rapidity and volume of what amounts to a continuous tidal wave of trivia and garbage is striking. Even more crucial is to recognize its underlying function. The self-isolating liberation of desire in individuals both drives and facilitates U.S. Empire, at least for a time. And the profligacy and consumption lifestyle so intensively marketed to Americans by Wall Street are directly related to the quest to lock down energy resources in Eurasia.

Facing Muslim militancy from the sands of the Maghreb to the peaks of Afghanistan, Washington capitalizes on the situation by expanding its sphere of control. The ideological justification given for this is the call to share the Gospel of the Open Society, with science diplomacy and generous foreign aid to outright bombardment, invasion and occupation the methods of proselytism.

Like Marxism-Leninism, liberal democracy has a universal mandate- it must spread to the ends of the Earth or perish. The regnant ideology behind American power allows for no higher value than platitudes on “free nations, open markets and social progress”, and even the frenzy of missionary wars and so-called institution-building cannot conceal the gaping meaninglessness beneath it all. Any substantive opposition rooted in religious faith, culture and ethnic identity must be delegitimized and wiped out, as the Serbs experienced just over a decade ago under the shadow of NATO cruise missiles.

Also ironically akin to Soviet Communism, the Open Society could be meeting the beginning of its end in the treacherous valleys of the Hindu Kush. Why are U.S. troops sent to foster “good governance” in Helmand Province and elsewhere, besides effectively running protection for pederast warlords who make a killing in the global heroin trade?

The answer to this question is multifaceted but rather straightforward. U.S. interventions in the Islamic world will continue so that our deluded nations may prolong the liberal dream, that the Brave New World will overcome any and all resistance from the East or West. So that Muslim demographics and power in our lands will only grow in strength, with churches made into mosques, death threats to cartoonists in hiding and interminable terror alerts. So that the emptying-out of the Western soul may proceed, that the bearers of our blessed and honorable heritage are condemned to dissolution, and that the chaos at the hollow core of the Postmodern Empire shall overrun us. And all of this will doubtless be covered in real-time on Fox & Friends, with today’s scoreboard highlights brought to you by Cialis.

Absurdistan is not just a label for one of Washington’s trillion-dollar carnage-laden adventures in the wilds of Central Asia; it is a state of mind. We are all in some degree subject to its power, but duty-bound to resist its seductions and lies. By lies and fantasies the regime may sustain itself, yet under their weight it will also implode. The struggle to affirm Truth will hasten that day.

jeudi, 14 octobre 2010

Attaques inutiles contre le yuan

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Attaques inutiles contre le yuan

Alors que de nombreux pays pratiquent la dévaluation compétitive, dans la guerre des monnaies c’est la Chine qui se trouve dans le rôle du méchant.

 

Alors même que plusieurs pays – Japon, Suisse, Corée du Sud, Brésil – sont intervenus sur le marché des changes pour faire baisser la pression sur leur monnaie, et d’autres – Israël, Inde, Thaïlande, Australie – s’apprêtent à en faire autant, elle se trouve dans le rôle du principal accusé d’avoir volontairement sous-évalué sa monnaie. Une forme de concurrence déloyale qui lui permet d’inonder le monde de produits à prix cassés et de constituer des excédents commerciaux gigantesques. Aussi, au lieu d’investir et de dynamiser l’activité économique tant au pays qu’à l’étranger, elle se constitue une montagne de réserves.

C’est sur cette toile de fond que des nombreux politiciens, économistes et faiseurs d’opinion exigent une réponse musclée contre le géant asiatique.

Surtout aux États-Unis qui, au cours des sept premiers mois de l’année, ont importé du «Made in China» pour 193 milliards de dollars, contre des exportations de seulement 48,6 milliards. Dans un pays qui peine à se relever de la récession, où le chômage dépasse les 10% et qui, de surcroît, est à la veille des élections nationales, l’idée est populaire. Une fois n’est pas coutume, les démocrates se sont alliés à l’opposition républicaine et ont voté une loi qui prévoit de surtaxer les produits chinois.

Rien ne dit que Washington passera aux actes. Des menaces brandies maintes fois sont restées sans suite. Et pour cause: deux tiers des exportations chinoises sont le fait des multinationales américaines et Washington n’agira pas contre leurs intérêts. Les entreprises comme Apple, HP, Nike et Wal-Mart en seraient les plus grands perdants. Puis, sanctionner les produits en provenance de Chine serait un autogoal (but marqué contre son camp, NDLR); les consommateurs américains paieront quatre fois plus pour les produits fabriqués aux États-Unis.

 

Un désastre pour le monde

L’arrêt des importations chinoises ramènerait-il les emplois aux pays? Fred Bergsten, du Peterson Institute for International Economics, à Washington, estime qu’un demi-million de places de travail pourraient être créées aux États-Unis si Pékin ne manipulait pas sa monnaie. Nancy Pelosi, la présidente du Congrès, a parlé d’un million.

Faux, rétorque Andy Xie, économiste chroniqueur au New Century Weekly de Pékin. Les nouvelles places de travail partiront dans d’autres pays à bas coûts de production. Dans les années 80, lorsque le Japon avait doublé la valeur du yuan par rapport au dollar, aucun emploi n’était revenu aux États-Unis.

Kevin Hasset, directeur des études de politiques économiques à l’American Enterprise Institute, un centre de réflexion et d’analyse conservateur, refuse de faire du géant asiatique un bouc émissaire. «S’en prendre à la Chine pourrait donner lieu à une guerre commerciale du même genre que celle dans les années 30. Une telle attitude ne serait qu’une distraction pour ne pas voir la réalité en face.» Comme Kevin Hasset, plusieurs économistes affirment que la perte de compétitivité est la source du mal américain.

Les faiblesses de l’économie américaine ne devraient pas pour autant cacher le fait que la politique monétaire chinoise pose problème. Le premier ministre de la République populaire, Wen Jiabao, l’a ouvertement admis lors du Sommet Europe-Chine cette semaine à Bruxelles. Il a reconnu qu’une réforme est nécessaire, mais que cela se fera pour servir d’abord les intérêts chinois. Une mesure brutale, selon lui, serait un désastre pour la Chine et pour le monde.

Et pour cause, l’économie chinoise dépend toujours trop des exportations. Celles-ci représentent près de 40% du produit intérieur brut. Une réévaluation rapide les ferait chuter, fermerait des centaines d’usines et jetterait des milliers d’ouvriers dans la rue. Sans sa politique d’exportation agressive, l’économie chinoise ne pourrait pas absorber les 15 millions de jeunes qui arrivent chaque année sur le marché du travail. Il y va de la stabilité sociale et politique de l’Empire du Milieu.

La Chine n’est pas réfractaire à modifier sa politique monétaire, mais veut aller à son propre rythme. La bonne nouvelle est qu’elle s’y prépare activement. Depuis une semaine, le yuan est échangé librement, en quantité limitée et de façon expérimentale sur la plate-forme électronique d’ICAP et de Thomson Reuters. Pékin teste sa volatilité dans un marché libre.

Le Temps

Etats-Unis et Europe attanquent la Chine et son yuan sous évalué: pourtant le monde a tout à perdre d'une guerre des monnaies

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Etats-Unis et Europe attaquent la Chine et son yuan sous-évalué. Le monde a pourtant tout à perdre d'une guerre des monnaies

Ex: http://www.polemia.com/

 

Populisme. La fragilité de la reprise économique conjuguée aux prochaines échéances électorales a fait craquer le gouvernement Obama. La Chine et son yuan sous-évalué servent de bouc émissaire et d’exutoire pour récupérer un électorat tenté par les sirènes extrémistes du Tea Party.

Les Etats-Unis ne sont pas les seuls à céder à ces sirènes populistes. Les Européens viennent de les rejoindre. Mercredi, le Fonds monétaire international leur a même offert sa caution.

Derrière la guerre des mots se prépare celle des monnaies, qu’Américains et Européens veulent plus faibles pour tirer leurs exportations. Et derrière cette attitude jaillit ce que le G20 avait jusqu’ici contenu, le protectionnisme.

Le problème est grave. Trop rapides et trop forts, les mouvements de changes empêchent les entreprises de s’y adapter. En Suisse, certains estiment que le bénéfice des PME exportatrices a fondu de 20% depuis janvier, en raison de la force du franc.

Le monde a changé. Le dollar, ce n’est plus seulement le problème des autres, mais aussi celui des Américains.

Editorial
7 octobre 2010
Frédéric Lelièvre
Le Temps

Correspondance Polémia – 10/10/2010

00:21 Publié dans Actualité, Affaires européennes, Economie | Lien permanent | Commentaires (0) | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

Voorzitter CSU pleit voor immigratiestop

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Voorzitter CSU pleit voor immigratiestop

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Wanneer politici die niet tot de gevestigde partijen uitspraken doen m.b.t. immigratiestops op basis van etnische afkomst, dan schreeuwen de traditionele politici moord en brand. Processen volgen en men wordt, in voorbereiding van de juridische lynching, alvast op journalistiek vlak afgemaakt. Maar in Duitsland heeft nu een “onaangebrand” iemand net gepleit voor een immigratiestop voor mensen uit landen “met een andere cultuur” (lees: moslims). Dit deed hij in het magazine Focus, net wanneer de Turkse premier Erdogan Duitsland bezoekt. Dit bezoek is in het kader van een onderzoek naar mogelijkheden om de naar schatting twee miljoen Turken beter te doen integreren in de Duitse maatschappij.

Wie is deze man vraagt u? Het gaat over Horst Seehofer, voorzitter van de CSU (de Beierse christen-democraten die 46 jaar lang de absolute meerderheid in Beieren hadden), minister-president van Beieren, voormalig minister van volksgezondheid en voormalig minister van landbouw.

Uiteraard schreeuwt links ondertussen moord en brand. Zo hebben twee Groenen, Claudio Roth en Renate Künast, reeds gezegd dat Seehofer zich moet excuseren bij alle Turkse en Arabische migranten. En ook de minister van justitie van de FDP (de liberalen), Sabine Leutheusser, verwerpt zijn uitspraken. Een peiling van de krant Bild am Sonntag toont echter aan dat de meerderheid van Duitsers ook van mening is dat de moslims niet willen integreren en dat Seehofer gelijk heeft. Het zou dan ook logisch zijn dat politici een logische verdere stap nemen: pleiten voor remigratie.

Wordt vervolgd?

Dead Right : The Infantilization of American Conservatism

Dead Right

The Infantilization of American Conservatism

 
 
 
Dead Right
 

Commentaries published on this website, most notably by Richard Spencer and Elizabeth Wright, have underlined the problems with the Tea Party movement and its most prominent representatives. These pointed observations about Glenn Beck, Rand Paul, Sarah Palin, and Christine O’ Donnell have all been true; and if I have more or less defended some of these figures in the past, I’ve done so, while conceding most of the argument made against them. I agree in particular with Elizabeth Wright’s brief against Rand Paul’s stuttering attempt to object to the public accommodations clause in the Civil Rights Act and her withering attack on Glenn Beck’s recent “carnival of repentance” in Washington.

Elizabeth concludes that such soi-disant critics of the Left cannot bring themselves to find fault with any excess in the Civil Rights movement -- and especially not with its far leftist icon Martin Luther King. “Conservatives” are so terrified of being called “racists” or for that matter, sexists or homophobes, that they devote themselves tirelessly to showing they are just as sensitive as the next PC robot. Indeed, they often go well beyond anyone on the left in genuflecting before leftist icons. This was the purpose of the Martin Luther King-adoration rally held by Beck in Washington.

And even more outrageously, such faux conservatives accuse long-dead Democratic presidents, who were well to the right of the current conservative movement, of being more radical than they actually were. It would be no exaggeration to say that Wilson and FDR were far more reactionary than any celebrity in the Tea Party movement. One could only imagine what such antediluvian Democrats would have said if they had heard last year’s “Conservative of the Year,” chosen by Human Events, Dick Cheney, weeping all over the floor about not allowing gays to marry each other. And what would that stern Presbyterian and Southern segregationist Wilson have thought about the cult of King or the attempts by Tea Party leaders Palin and McDonnell to impose feminist codes of behavior on business and educational establishments. Wilson had to be dragged even into supporting the extension of the franchise to women.

The Tea Party sounds so often like the Left because it is for the most part a product of the Left. Its people were educated in public schools, watch mass entertainment, and have absorbed most of the leftist values of the elite class, to whose rule they object only quite selectively. From the demonstrators’ perspective, that elite isn’t patriotic enough in backing America’s crusades for human rights and in looking after the marvelous welfare state we’ve already built. The Tea Party types are understandably upset that their entitlements may be imperiled, if the current administration continues to run up deficits. This is the essence of their anti-government rant. And above all they don’t want more illegals coming into the country who may benefit from the social net and who may be receiving tax-subsidized medical care.

But this, we are assured, has nothing to do with race or culture. In fact the Tea Party claims to be acting on behalf of blacks and legally resident Latinos, in the name of Martin Luther King and all the civil rights saints of the past. It just so happens that almost all these activists are white Christians. Nonetheless, they are also people, as Elizabeth perceptively notices, who would like us to think they’re acting in the name of other ethnic groups, even if those groups don’t much like them. As four “young conservatives” explained to the viewers of the Today show last week, the Right wishes to lower taxes, specifically “to make jobs available to black Americans.” Unfortunately black Americans loathe those reaching out to them, presumably as a gesture of repentance as well as in pursuit of votes.

Those “conservatives” who want a moderate but not excessive welfare state and who act in the name of blacks, Latinos and dead leftist heroes, are fully tuned in to the conservative establishment. According to polls, these folks love FOX-news and avidly read movement conservative publications. Palin, Sean Hannity and Karl Rove, all FOX contributors, are among their favored speakers; and the Tea Party’s likely candidate for president, Sarah Palin, is now surrounded by such predictable neocon advisors as Randy Scheuermann and Bill Kristol. Even with her insipid, ungrammatical phrases about reducing the size of government, Palin already looks like an updated, feminine and feminized version of what the GOP has been running for president for decades, with neocon approval.

Actually one shouldn’t expect anything else from the Tea Party. In the 1980s the conservative movement witnessed a monumental sea change, when the neoconservatives assumed full power and proceeded to kick out dissenters. This development shaped the future of the Right, and its effects are still with us. The neoconservatives not only neutralized any real Right but also managed to infantilize what they took over. An entire generation of serious conservative thinkers were bounced out and replaced by either lackeys or by those who were essentially recycled liberal Democrats. The latter had recoiled from the anti-Zionist stands of the leftwing of the Democratic Party and then were given as a consolation prize carte blanche to swallow up the conservative movement.

Afterwards the establishment Right began to move in the direction of the Left, and it did so while limiting the range of disagreement with its opponents to a few acceptable talking points. The emphasis was on Middle Eastern intervention, disciplining anti-Semitic nations, and spreading “democratic values.” Internally the neocon Herrenklasse had no real interest, except for being able to do favors for corporations that financed them and for the Religious Right, which is fervently Zionist. The notion the neocons bestowed depth on the conservative movement may be the most blatant lie ever told. What they brought was agitprop, of the kind practiced by Soviet bureaucrats, and armies of culturally illiterate adolescents to turn out their party propaganda.

In all fairness, it must be said that the master class tolerated other points of view, for example from Catholic Thomists or Evangelicals, as long as these religiously inspired positions didn’t interfere with what counted for the neocons. Those who called the shots would also occasionally demand from their dependents certain favors, in return for subsidies and publicity, e.g., stressing the compatibility of Christian theology with neocon policies. Freeloading intellectuals could only be tolerated for so long.

This hegemony had two noticeable effects on the current Right, aside from the unchanged role of the neocons as the main power-players. The rightwing activists shown on TV and those they support in elections include badly educated duds, and these are individuals who often don’t sound like anything an historian might recognize as conservative. Their yapping about human rights (supposedly there is now a human right to own a gun) and their outpouring of the politics of guilt, as noted by Elizabeth Wright, are just two of their weird characteristics. About ten years ago I gaped with astonishment when I read a commentary by Jonah Goldberg explaining that the Catholic counterrevolutionary Joseph de Maistre was really a far leftist. It seems that Maistre questioned the idea of universal human rights und dared to note that human beings were marked by different national and ethnic features. These quirks, according to Goldberg, belong exclusively to the left, like “liberal fascism.” When the intellectual Right can come up with such nonsense and then parley it into a fortune, it is hard to imagine any lower depths of cultural illiteracy to which it could sink.

The “conservative wars” of the 1980s, which involved mostly a mopping up operation, also led to a hard Right that is unrelated to any other American intellectual Right. Those associated with this Right wish to have nothing to do with the failed or decimated Old Right that was smashed decades ago. It has found its home among the thirty-some generation and even more, among younger conservatives who are not part of the DC neocon network. One finds among these militants an almost primitive counterrevolutionary mentality. It is one that has taken form as an impassioned reaction to the Left’s masquerading as the Right, which began with the neoconservatives’ ascendancy to total domination. Although I have my reservations about what I’m describing, it must be seen as a spirited response to a fraud as well as to something that is intellectually and aesthetically vulgar.

Clearly this youthful Right is in no way influenced by Russell Kirk or by other “cultural conservatives” of an earlier generation. Its advocates reject a Right that was co-opted by the neocons and by those who are thought to have failed to resist that fateful takeover. Nor would most of those in the “culturally conservative” camp (Jim Kalb may be the exception here) feel comfortable with the exuberant reactionaries of the rising generation. Many of them sound like neo-pagans because they are convinced that the Western religious tradition has given rise to what they condemn as “the pathology of egalitarianism.” The French New Right, Nietzsche, and Carl Schmitt have all shaped this still inchoate youthful American Right. In their case Europe has cast its shadow on the US, unlike the multicultural Left, which, as I have argued in several books, is our poisonous gift to the Europeans.

The emergence of this anti-egalitarian Right and the infantilization of movement conservatism indicate what can not be undone. The American Right has changed irreversibly because of what occurred during the Reagan years and in the ensuing decade. We shall continue to live with the consequences.  

mercredi, 13 octobre 2010

Maurice Allais: la mort d'un dissident

Maurice Allais : la mort d'un dissident

 

"Ceux qui détiennent le pouvoir de décision nous laissent le choix entre écouter des ignorants ou des trompeurs" (Maurice Allais)

arton2301.jpgEx: http:://www.polemia.com/

Seul Français prix Nobel d’économie, Maurice Allais, est mort à 99 ans dimanche 10 octobre. Esprit universel, économiste et physicien, il était à la fois couvert d’honneurs et réduit au silence. Car il s’était attaqué aux tabous du temps. Critiquant notamment le libre-échangisme mondial, la financiarisation de l’économie, l’immigration incontrôlée. Annonçant dès 1998 la crise financière, il avait été ensuite réduit au silence : en 2005, le Figaro lui avait même refusé un article critique sur la Constitution européenne que ce grand économiste libéral (libéral-socialiste, aimait-il à dire) avait dû publier dans …l’Humanité.

Rappelons quelques uns de ses axiomes tels que ceux qu’il avait énoncés dans sa « Lettre aux Français contre les tabous indiscutés », publiée - une fois, hélas, n’était pas coutume – dans Marianne du 5 décembre 2009 :

« Le point de vue que j'exprime est celui d'un théoricien à la fois libéral et socialiste. »

« Les grands dirigeants de la planète montrent une nouvelle fois leur ignorance de l'économie qui les conduit à confondre deux sortes de protectionnismes : il en existe certains de néfastes, tandis que d'autres sont entièrement justifiés. Dans la première catégorie se trouve le protectionnisme entre pays à salaires comparables, qui n'est pas souhaitable en général. Par contre, le protectionnisme entre pays de niveaux de vie très différents est non seulement justifié, mais absolument nécessaire. C'est en particulier le cas à propos de la Chine, avec laquelle il est fou d'avoir supprimé les protections douanières aux frontières. Mais c'est aussi vrai avec des pays plus proches, y compris au sein même de l'Europe. »

« Mon analyse étant que le chômage actuel est dû à cette libéralisation totale du commerce, la voie prise par le G20 m'apparaît par conséquent nuisible. Elle va se révéler un facteur d'aggravation de la situation sociale. À ce titre, elle constitue une sottise majeure, à partir d'un contresens incroyable. » (…) Nous faisons face à une ignorance criminelle. »

« Ma position et le système que je préconise ne constitueraient pas une atteinte aux pays en développement. Actuellement, les grandes entreprises les utilisent pour leurs bas coûts, mais elles partiraient si les salaires y augmentaient trop. Ces pays ont intérêt à adopter mon principe et à s'unir à leurs voisins dotés de niveaux de vie semblables, pour développer à leur tour ensemble un marché interne suffisamment vaste pour soutenir leur production, mais suffisamment équilibré aussi pour que la concurrence interne ne repose pas uniquement sur le maintien de salaires bas. Cela pourrait concerner par exemple plusieurs pays de l'est de l'Union européenne, qui ont été intégrés sans réflexion ni délais préalables suffisants, mais aussi ceux d'Afrique ou d'Amérique latine. »

« Les grands dirigeants mondiaux préfèrent, quant à eux, tout ramener à la monnaie, or elle ne représente qu'une partie des causes du problème. Crise et mondialisation : les deux sont liées. »

« Cette ignorance et surtout la volonté de la cacher grâce à certains médias dénotent un pourrissement du débat et de l'intelligence, par le fait d'intérêts particuliers souvent liés à l'argent. Des intérêts qui souhaitent que l'ordre économique actuel, qui fonctionne à leur avantage, perdure tel qu'il est. Parmi eux se trouvent en particulier les multinationales qui sont les principales bénéficiaires, avec les milieux boursiers et bancaires, d'un mécanisme économique qui les enrichit, tandis qu'il appauvrit la majorité de la population française mais aussi mondiale. »

« Question clé : quelle est la liberté véritable des grands médias ? Je parle de leur liberté par rapport au monde de la finance tout autant qu'aux sphères de la politique. »

Polémia qui, à plusieurs reprises, a rendu hommage au Prix Nobel d'économie 1988, signale ici quelques recensions, mises sur son site, de l’œuvre récente de Maurice Allais.

Maurice Allais : les causes du chômage français
Maurice Allais : le coût de l’immigration
Maurice Allais flingue le néo-libéralisme dans une revue financée par Bercy
Les analyses prophétiques de Maurice Allais

Polémia
12/10/2010

Maurice Allais: la crise financière mondiale

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La crise financière mondiale
 
par Maurice Allais
31 octobre 2008

Ex: http://contre-info.info/

« L’économie mondiale tout entière repose aujourd’hui sur de gigantesques pyramides de dettes, prenant appui les unes sur les autres dans un équilibre fragile. Jamais dans le passé une pareille accumulation de promesses de payer ne s’était constatée. Jamais sans doute il n’est devenu plus difficile d’y faire face. Jamais sans doute une telle instabilité potentielle n’était apparue avec une telle menace d’un effondrement général. » En 1998, le prix Nobel d’économie Maurice Allais tirait les conclusions de la grave crise financière qui venait de frapper l’Asie. Aujourd’hui, cette analyse de l’instabilité de la mondialisation financière carburant au crédit s’avère prémonitoire.

Publié à l’origine en octobre 1998 dans le Figaro à l’occasion de la crise asiatique, ce texte a été ensuite repris dans l’ouvrage « La crise mondiale d’aujourd’hui », paru en 1999. Nous reproduisons ici un extrait où Maurice Allais décrit les causes de la crise financière qui préfigurait celle que nous connaissons aujourd’hui.

Maurice Allais, La crise mondiale d’aujourd’hui, 1999

À partir de juin 1997 une crise monétaire et financière s’est déclenchée en Asie et elle se poursuit actuellement. Le déroulement de cette crise, dont nul n’avait prévu la soudaineté et l’ampleur, a été très complexe, mais en 1997 et 1998, et pour l’essentiel, on peut distinguer trois phases : de juin à décembre 1997, de janvier à juin 1998 et de juin 1998 à octobre 1998 [1] .

· La première phase, de juin à décembre 1997, purement asiatique, a débuté avec une très forte spéculation à la baisse de la monnaie thaïlandaise, aboutissant à sa dévaluation de 18 % le 2 juillet 1997. Cette période a été marquée par la chute des monnaies et des Bourses des pays asiatiques : la Thaïlande, la Malaisie, l’Indonésie, les Philippines, Taïwan, Singapour, Hongkong, la Corée du Sud. La chute moyenne de leurs indices boursiers a été d’environ 40 %. Par rapport au dollar, les monnaies de la Thaïlande, de la Corée, de la Malaisie et de l’Indonésie se sont dépréciées respectivement d’environ 40 %, 40 %, 50 % et 70 %.

· La deuxième phase, de décembre 1997 à juin 1998, a donné lieu, après une courte reprise en janvier-février, à de nouvelles chutes des Bourses asiatiques. Pour l’ensemble de la période, la chute moyenne des cours a été d’environ 20 %.

Le fait marquant de cette période a été le rapatriement aux États-Unis et en Europe des capitaux prêtés à court terme en Asie, entraînant par-là même des hausses des cours de bourse aux États-Unis et en Europe. La hausse a été particulièrement marquée à Paris, où le CAC 40 a augmenté d’environ 40 % de décembre 1997 à juillet 1998, hausse deux fois plus forte qu’à New York.

La fin de cette période a été marquée par une très forte baisse des matières premières et un effondrement de la Bourse de Moscou d’environ 60 %. Au cours de cette période, les difficultés des intermédiaires financiers au Japon se sont aggravées et le yen a continué à se déprécier. De fortes tensions monétaires se sont également manifestées en Amérique latine.

· La troisième phase a débuté en juillet 1998, avec de très fortes tensions politiques, économiques et monétaires en Russie [2]. Le rouble n’a plus été convertible. Le 2 septembre, il avait perdu 70 % de sa valeur et une hyperinflation s’était déclenchée.

Cette situation a suscité de très fortes baisses des actions aux États-Unis et en Europe. La baisse à Paris du CAC 40, d’environ 30 %, a été spectaculaire. Elle s’est répandue rapidement dans le monde entier. Personne aujourd’hui n’apparaît réellement capable de prévoir l’avenir avec quelque certitude.

· Dans les pays asiatiques, qui ont subi des baisses considérables de leurs monnaies et de leurs Bourses, les fuites spéculatives de capitaux ont entraîné de très graves difficultés sociales. Ce qui est pour le moins affligeant, c’est que les grandes institutions internationales sont bien plus préoccupées par les pertes des spéculateurs (indûment qualifiés d’investisseurs) que par le chômage et la misère suscités par cette spéculation.

La crise mondiale d’aujourd’hui et la Grande Dépression. De profondes similitudes

· De profondes similitudes apparaissent entre la crise mondiale d’aujourd’hui et la Grande Dépression de 1929-1934 : la création et la destruction de moyens de paiement par le système du crédit, le financement d’investissements à long terme avec des fonds empruntés à court terme, le développement d’un endettement gigantesque, une spéculation massive sur les actions et les monnaies, un système financier et monétaire fondamentalement instable.

Cependant, des différences majeures existent entre les deux crises. Elles correspondent à des facteurs fondamentalement aggravants.

· En 1929 , le monde était partagé entre deux zones distinctes : d’une part, l’Occident, essentiellement les États-Unis et l’Europe et, d’autre part, le monde communiste, la Russie soviétique et la Chine. Une grande part du tiers-monde d’aujourd’hui était sous la domination des empires coloniaux, essentiellement ceux de la Grande-Bretagne et de la France.

Aujourd’hui, depuis les années 70, une mondialisation géographiquement de plus en plus étendue des économies s’est développée, incluant les pays issus des anciens empires coloniaux, la Russie et les pays de l’Europe de l’Est depuis la chute du Mur de Berlin en 1989. La nouvelle division du monde se fonde sur les inégalités de développement économique.

Il y a ainsi entre la situation de 1929 et la situation actuelle une différence considérable d’échelle, c’est le monde entier qui actuellement est concerné.

· Depuis les années 70, une seconde différence, majeure également et sans doute plus aggravante encore, apparaît relativement à la situation du monde de 1929.

Une mondialisation précipitée et excessive a entraîné par elle-même des difficultés majeures. Une instabilité sociale potentielle est apparue partout, une accentuation des inégalités particulièrement marquée aux États-Unis, et un chômage massif en Europe occidentale.

La Russie et les pays de l’Europe de l’Est ont rencontré également des difficultés majeures en raison d’une libéralisation trop hâtive.

Alors qu’en 1929 le chômage n’est apparu en Europe qu’à la suite de la crise financière et monétaire, un chômage massif se constate déjà aujourd’hui au sein de l’Union européenne, pour des causes très différentes, et ce chômage ne pourrait qu’être très aggravé si la crise financière et monétaire mondiale d’aujourd’hui devait se développer.

· En fait, on ne saurait trop insister sur les profondes similitudes, tout à fait essentielles, qui existent entre la crise d’aujourd’hui et les crises qui l’ont précédée, dont la plus significative est sans doute celle de 1929. Ce qui est réellement important, en effet, ce n’est pas tant l’analyse des modalités relativement complexes, des « technicalities » de la crise actuelle, qu’une compréhension profonde des facteurs qui l’ont générée.

De cette compréhension dépendent en effet un diagnostic correct de la crise actuelle et l’élaboration des réformes qu’il conviendrait de réaliser pour mettre fin aux crises qui ne cessent de ravager les économies depuis au moins deux siècles, toujours de plus en plus fortes en raison de leur extension progressive au monde entier.

La création et la destruction de moyens de paiement par le mécanisme du crédit

· Fondamentalement, le mécanisme du crédit aboutit à une création de moyens de paiement ex nihilo, car le détenteur d’un dépôt auprès d’une banque le considère comme une encaisse disponible, alors que, dans le même temps, la banque a prêté la plus grande partie de ce dépôt qui, redéposée ou non dans une banque, est considérée comme une encaisse disponible par son récipiendaire. À chaque opération de crédit il y a ainsi duplication monétaire. Au total, le mécanisme du crédit aboutit à une création de monnaie ex nihilo par de simples jeux d’écriture [3]. Reposant essentiellement sur la couverture fractionnaire des dépôts, il est fondamentalement instable.

Le volume des dépôts bancaires dépend en fait d’une double décision, celle de la banque de s’engager à vue et celle des emprunteurs de s’endetter. Il résulte de là que le montant global de la masse monétaire est extrêmement sensible aux fluctuations conjoncturelles. Il tend à croître en période d’optimisme et à décroître en période de pessimisme, d’où des effets déstabilisateurs.

En fait, il est certain que, pour la plus grande part, l’ampleur de ces fluctuations résulte du mécanisme du crédit et que, sans l’amplification de la création (ou de la destruction) monétaire par la voie bancaire, les fluctuations conjoncturelles seraient considérablement atténuées, sinon totalement supprimées [4] .

· De tout temps, on a pu parler des « miracles du crédit ». Pour les bénéficiaires du crédit, il y a effectivement quelque chose de miraculeux dans le mécanisme du crédit puisqu’il permet de créer ex nihilo un pouvoir d’achat effectif qui s’exerce sur le marché, sans que ce pouvoir d’achat puisse être considéré comme la rémunération d’un service rendu.

Cependant, autant la mobilisation d’« épargnes vraies » par les banques pour leur permettre de financer des investissements productifs est fondamentalement utile, autant la création de « faux droits » par la création monétaire est fondamentalement nocive, tant du point de vue de l’efficacité économique qu’elle compromet par les distorsions de prix qu’elle suscite que du point de vue de la distribution des revenus qu’elle altère et rend inéquitable.

Le financement d’investissements à long terme avec des fonds empruntés à court terme

Par l’utilisation des dépôts à vue et à court terme de ses déposants, l’activité d’une banque aboutit à financer des investissements à moyen ou long terme correspondant aux emprunts qu’elle a consentis à ses clients. Cette activité repose ainsi sur l’échange de promesses de payer à un terme donné de la banque contre des promesses de payer à des termes plus éloignés des clients moyennant le paiement d’intérêts.

Les totaux de l’actif et du passif du bilan d’une banque sont bien égaux, mais cette égalité est purement comptable, car elle repose sur la mise en parallèle d’éléments de nature différente : au passif, des engagements à vue et à court terme de la banque ; à l’actif, des créances à plus long terme correspondant aux prêts effectués par la banque.

De là résulte une instabilité potentielle permanente du système bancaire dans son ensemble puisque les banques sont à tout moment dans l’incapacité absolue de faire face à des retraits massifs des dépôts à vue ou des dépôts à terme arrivant à échéance, leurs actifs n’étant disponibles qu’à des termes plus éloignés.

Si tous les investissements dans les pays sous-développés avaient été financés par les banques, grâce à des prêts privés d’une maturité au moins aussi éloignée, et si le financement des déficits de la balance des transactions courantes des États-Unis était uniquement assuré par des investissements étrangers à long terme aux États-Unis, tous les déséquilibres n’auraient qu’une portée beaucoup plus réduite, et il n’existerait aucun risque majeur.

Ce qui, par contre, est éminemment dangereux, c’est l’amplification des déséquilibres par le mécanisme du crédit et l’instabilité du système financier et monétaire tout entier, sur le double plan national et international, qu’il suscite. Cette instabilité a été considérablement aggravée par la totale libération des mouvements de capitaux dans la plus grande partie du monde.

Le développement d’un endettement gigantesque

À partir de 1974, le développement universel des crédits bancaires et l’inflation massive qui en est résultée ont abaissé pour une décennie les taux d’intérêt réels à des valeurs très faibles, voire négatives, génératrices à la fois d’inefficacité et de spoliation. À des épargnes vraies se sont substitués des financements longs à partir d’une création monétaire ex nihilo. Les conditions de l’efficacité comme celles de l’équité s’en sont trouvées compromises. Le fonctionnement du système a abouti tout à la fois à un gaspillage de capital et à une destruction de l’épargne.

· C’est grâce à la création monétaire que, pour une large part, les pays en voie de développement ont été amenés à mettre en place des plans de développement trop ambitieux, et à vrai dire déraisonnables, et à remettre à plus tard les ajustements qui s’imposaient, tant il est facile d’acheter, dès lors qu’on peut se contenter de payer avec des promesses de payer.

Par nécessité, la plupart des pays débiteurs ont été amenés à se procurer par de nouveaux emprunts les ressources nécessaires à la fois pour financer les amortissements et les intérêts de leurs dettes et pour réaliser de nouveaux investissements. Peu à peu, cependant, la situation est devenue intenable.

· Parallèlement, l’endettement des administrations publiques des pays développés en pourcentage du produit national brut et la charge des intérêts en pourcentage des dépenses publiques ont atteint des niveaux difficilement supportables.

Une spéculation massive

Depuis 1974, une spéculation massive s’est développée à l’échelle mondiale. La spéculation sur les monnaies et la spéculation sur les actions, les obligations et les produits dérivés en représentent deux illustrations significatives.

· La substitution, en mars 1973, du système des changes flottants au système des parités fixes, mais révisables, a accentué l’influence de la spéculation sur les changes alimentée par le crédit.

Associé au système des changes flottants, le système du crédit tel qu’il fonctionne actuellement a puissamment contribué à l’instabilité profonde des taux de change depuis 1974.

Pendant toute cette période, une spéculation effrénée s’est développée sur les taux de change relatifs des principales monnaies, le dollar, le deutschemark et le yen, chaque monnaie pouvant être achetée à crédit contre une autre, grâce au mécanisme du crédit.

· La spéculation sur les actions et les obligations a été tout aussi spectaculaire. À New York, et depuis 1983, se sont développés à un rythme exponentiel de gigantesques marchés sur les « stock-index futures », les « stock-index options », les « options on stock-index futures », puis les « hedge funds » et tous « les produits dérivés » présentés comme des panacées.

Ces marchés à terme, où le coût des opérations est beaucoup plus réduit que sur les opérations au comptant et où pour l’essentiel les positions sont prises à crédit, ont permis une spéculation accrue et généré une très grande instabilité des cours. Ils ont été accompagnés d’un développement accéléré de fonds spéculatifs, les "hedge-funds".

En fait, sans la création de monnaie et de pouvoir d’achat ex nihilo que permet le système du crédit, jamais les hausses extraordinaires des cours de bourse que l’on constate avant les grandes crises ne seraient possibles, car à toute dépense consacrée à l’achat d’actions, par exemple, correspondrait quelque part une diminution d’un montant équivalent de certaines dépenses, et tout aussitôt se développeraient des mécanismes régulateurs tendant à enrayer toute spéculation injustifiée.

· Qu’il s’agisse de la spéculation sur les monnaies ou de la spéculation sur les actions, ou de la spéculation sur les produits dérivés, le monde est devenu un vaste casino où les tables de jeu sont réparties sur toutes les longitudes et toutes les latitudes. Le jeu et les enchères, auxquelles participent des millions de joueurs, ne s’arrêtent jamais. Aux cotations américaines se succèdent les cotations à Tokyo et à Hongkong, puis à Londres, Francfort et Paris.

Partout, la spéculation est favorisée par le crédit puisqu’on peut acheter sans payer et vendre sans détenir. On constate le plus souvent une dissociation entre les données de l’économie réelle et les cours nominaux déterminés par la spéculation.

Sur toutes les places, cette spéculation, frénétique et fébrile, est permise, alimentée et amplifiée par le crédit. Jamais dans le passé elle n’avait atteint une telle ampleur.

Un système financier et monétaire fondamentalement instable L’économie mondiale tout entière repose aujourd’hui sur de gigantesques pyramides de dettes, prenant appui les unes sur les autres dans un équilibre fragile. Jamais dans le passé une pareille accumulation de promesses de payer ne s’était constatée. Jamais sans doute il n’est devenu plus difficile d’y faire face. Jamais sans doute une telle instabilité potentielle n’était apparue avec une telle menace d’un effondrement général.

Toutes les difficultés rencontrées résultent de la méconnaissance d’un fait fondamental, c’est qu’aucun système décentralisé d’économie de marchés ne peut fonctionner correctement si la création incontrôlée ex nihilo de nouveaux moyens de paiement permet d’échapper, au moins pour un temps, aux ajustements nécessaires. Il en est ainsi toutes les fois que l’on peut s’acquitter de ses dépenses ou de ses dettes avec de simples promesses de payer, sans aucune contrepartie réelle, directe ou indirecte, effective.

Devant une telle situation, tous les experts sont à la recherche de moyens, voire d’expédients, pour sortir des difficultés, mais aucun accord réel ne se réalise sur des solutions définies et efficaces.

Pour l’immédiat, la presque totalité des experts ne voient guère d’autre solution, au besoin par des pressions exercées sur les banques commerciales, les Instituts d’émission et le FMI, que la création de nouveaux moyens de paiement permettant aux débiteurs et aux spéculateurs de faire face au paiement des amortissements et des intérêts de leurs dettes, en alourdissant encore par là même cette charge pour l’avenir.

Au centre de toutes les difficultés rencontrées, on trouve toujours, sous une forme ou une autre, le rôle néfaste joué par le système actuel du crédit et la spéculation massive qu’il permet. Tant qu’on ne réformera pas fondamentalement le cadre institutionnel dans lequel il joue, on rencontrera toujours, avec des modalités différentes suivant les circonstances, les mêmes difficultés majeures. Toutes les grandes crises du XIXème et du XXème siècle ont résulté du développement excessif des promesses de payer et de leur monétisation.

Particulièrement significative est l’absence totale de toute remise en cause du fondement même du système de crédit tel qu’il fonctionne actuellement, savoir la création de monnaie ex nihilo par le système bancaire et la pratique généralisée de financements longs avec des fonds empruntés à court terme.

En fait, sans aucune exagération, le mécanisme actuel de la création de monnaie par le crédit est certainement le "cancer" qui ronge irrémédiablement les économies de marchés de propriété privée.

L’effondrement de la doctrine laissez-fairiste mondialiste

Depuis deux décennies, une nouvelle doctrine s’était peu à peu imposée, la doctrine du libre échange mondialiste, impliquant la disparition de tout obstacle aux libres mouvements des marchandises, des services et des capitaux.

· Suivant cette doctrine, la disparition de tous les obstacles à ces mouvements serait une condition à la fois nécessaire et suffisante d’une allocation optimale des ressources à l’échelle mondiale.

Tous les pays et, dans chaque pays, tous les groupes sociaux verraient leur situation améliorée.

Le marché, et le marché seul, était considéré comme pouvant conduire à un équilibre stable, d’autant plus efficace qu’il pouvait fonctionner à l’échelle mondiale. En toutes circonstances, il convenait de se soumettre à sa discipline.

Les partisans de cette doctrine, de ce nouvel intégrisme, étaient devenus aussi dogmatiques que les partisans du communisme avant son effondrement définitif avec la chute du Mur de Berlin en 1989. Pour eux, l’application de cette doctrine libre-échangiste mondialiste s’imposait à tous les pays et, si des difficultés se présentaient dans cette application, elles ne pouvaient être que temporaires et transitoires.

Pour tous les pays en voie de développement, leur ouverture totale vis-à-vis de l’extérieur était une condition nécessaire et la preuve en était donnée, disait-on, par les progrès extrêmement rapides des pays émergents du Sud-Est asiatique. Là se trouvait, répétait-on constamment, un pôle de croissance majeur pour tous les pays occidentaux.

Pour les pays développés, la suppression de toutes les barrières tarifaires ou autres était une condition de leur croissance, comme le montraient décisivement les succès incontestables des tigres asiatiques, et, répétait-on encore, l’Occident n’avait qu’à suivre leur exemple pour connaître une croissance sans précédent et un plein-emploi [5]. Tout particulièrement la Russie et les pays ex-communistes de l’Est, les pays asiatiques et la Chine en premier lieu, constituaient des pôles de croissance majeurs qui offraient à l’Occident des possibilités sans précédent de développement et de richesse.

Telle était fondamentalement la doctrine de portée universelle qui s’était peu à peu imposée au monde et qui avait été considérée comme ouvrant un nouvel âge d’or à l’aube du XXIeme siècle.

Cette doctrine a constitué le credo indiscuté de toutes les grandes organisations internationales ces deux dernières décennies, qu’il s’agisse de la Banque mondiale, du Fonds monétaire international, de l’Organisation mondiale du commerce, de l’Organisation de coopération et de développement économiques, ou de l’Organisation de Bruxelles.

· Toutes ces certitudes ont fini par être balayées par la crise profonde qui s’est développée à partir de 1997 dans l’Asie du Sud-Est, puis dans l’Amérique latine, pour culminer en Russie en août 1998 et atteindre les établissements bancaires et les Bourses américaines et européennes en septembre 1998.

Cette crise a entraîné partout, tout particulièrement en Asie et en Russie, un chômage massif et des difficultés sociales majeures. Partout les credo de la doctrine du libre-échange mondialiste ont été remis en cause. Deux facteurs majeurs ont joué un rôle décisif dans cette crise mondiale d’une ampleur sans précédent après la crise de 1929 :

-  l’instabilité potentielle du système financier et monétaire mondial ;

-  la mondialisation de l’économie à la fois sur le plan monétaire et sur le plan réel [6].

En fait, ce qui devait arriver est arrivé. L’économie mondiale, qui était dépourvue de tout système réel de régulation et qui s’était développée dans un cadre anarchique, ne pouvait qu’aboutir tôt ou tard à des difficultés majeures.

La doctrine régnante avait totalement méconnu une donnée essentielle : une libéralisation totale des échanges et des mouvements de capitaux n’est possible, elle n’est souhaitable que dans le cadre d’ensembles régionaux groupant des pays économiquement et politiquement associés, et de développement économique et social comparable.

· En fait, le nouvel ordre mondial, ou le prétendu ordre mondial, s’est effondré et il ne pouvait que s’effondrer. L’évidence des faits a fini par l’emporter sur les incantations doctrinales.


Publication originale Maurice Allais, texte établi par Etienne Chouard


 

 

[1] Je rappelle que mon analyse ne porte ici que sur la période juin 1997-octobre 1998. La rédaction de ce chapitre s’est achevée le 1er novembre 1998.

[2] L’échec de l’économie soviétique n’était que trop prévisible. Le passage brutal, suivant les conseils d’experts américains, à une économie de marchés de propriété privée après soixante-douze ans de collectivisme ne pouvait qu’échouer. Dans mon mémoire du 3 avril 1991, La construction européenne et les pays de l’Est dans le contexte d’aujourd’hui présenté au troisième symposium de la Construction, j’écrivais :

« On ne saurait sans danger se dissimuler tous les risques qu’implique le passage, même graduel, à une économie de marchés de propriété privée : l’apparition pratiquement inévitable de nouveaux riches, la génération d ’inégalités criantes et peu justifiées que le marché ne pourra réellement réduire que lorsque la concurrence deviendra suffisante, des formes plus ou moins brutales de gestion des entreprises privées, le chômage, l’inflation, la dissolution des moeurs, etc. Ce sont là des risques majeurs à l’encontre desquels les Pays de l’Est doivent se prémunir.

(...) Ce passage doit faire l’objet d’un Plan de décollectivisation. Il peut sembler paradoxal, au moins à première vue, que le libéral que je suis puisse préconiser une planification pour sortir de la planification collectiviste centralisée. Cependant, c’est là une nécessité éclatante. (...) »

C’est là ce qu’il aurait fallu faire au lieu de la chienlit laisser-fairiste qui a été appliquée. Aujourd’hui encore, je suis convaincu que seule une planification pourrait sortir la Russie de la crise profonde où elle se trouve.

[3] Ce n’est qu’à partir de la publication en 1911 de l’ouvrage fondamental d’Irving Fisher, The purshasing power of money, qu’il a été pleinement reconnu que le mécanisme du crédit aboutit à une création de monnaie.

[4] Comme les variations de la dépense globale dépendent à la fois de l’excès de la masse monétaire sur le volume global des encaisses désirées et des variations de la masse monétaire, le mécanisme du crédit a globalement un effet déstabilisateur puisqu’en temps d’expansion de la dépense globale la masse monétaire s’accroît alors que les encaisses désirées diminuent et qu’en temps de récession la masse monétaire décroît alors que les encaisses désirées s’accroissent.

[5] Les taux de croissance élevés des tigres asiatiques étaient mal interprétés. En fait, pour l’essentiel, ils résultaient du fait que ce économies étaient en retard par rapport aux économies développées et qu’une économie se développe d’autant plus vite qu’elle est en retard. Sur la démonstration de cette proposition tout à fait essentielle, voir mon ouvrage de 1974 « L’inflation française et la croissance. Mythologie et réalité », chapitre II, p. 40-45.

 

 

 

 

[6] Voir mon ouvrage, Combats pour l’Europe, 1994, Éditions Juglar

 

 

 

Maurice Allais: Il faut protéger le travail contre les délocalisations

Il faut protéger le travail contre les délocalisations
 
par Maurice Allais, prix Nobel d’économie
 
16 janvier 2010

« Tout libéraliser amène les pires désordres », constate le prix Nobel d’économie Maurice Allais, qui se définit comme « libéral et socialiste », préoccupé à la fois par « l’efficacité de la production » et de « l’équité de la redistribution des richesses ». Il est « fou d’avoir supprimé les protections douanières aux frontières », tonne-t-il, car le commerce international est un moyen et non une fin en soi : le « chômage résulte des délocalisations, elles-mêmes dues aux trop grandes différences de salaires... À partir de ce constat, ce qu’il faut entreprendre en devient tellement évident ! Il est indispensable de rétablir une légitime protection. » Déplorant la quasi unanimité en faveur de la mondialisation qui prévalait avant la crise, Maurice Allais dénonce « un pourrissement du débat et de l’intelligence, par le fait d’intérêts particuliers souvent liés à l’argent », et rappelle que malgré ses demandes répétées, les médias ont toujours refusé de donner la parole au seul Nobel d’économie français.

Par Maurice Allais, Marianne, 5 décembre 2009

Le point de vue que j’exprime est celui d’un théoricien à la fois libéral et socialiste. Les deux notions sont indissociables dans mon esprit, car leur opposition m’apparaît fausse, artificielle. L’idéal socialiste consiste à s’intéresser à l’équité de la redistribution des richesses, tandis que les libéraux véritables se préoccupent de l’efficacité de la production de cette même richesse. Ils constituent à mes yeux deux aspects complémentaires d’une même doctrine. Et c’est précisément à ce titre de libéral que je m’autorise à critiquer les positions répétées des grandes instances internationales en faveur d’un libre-échangisme appliqué aveuglément.

Le fondement de la crise : l’organisation du commerce mondial

La récente réunion du G20 a de nouveau proclamé sa dénonciation du « protectionnisme » , dénonciation absurde à chaque fois qu’elle se voit exprimée sans nuance, comme cela vient d’être le cas. Nous sommes confrontés à ce que j’ai par le passé nommé « des tabous indiscutés dont les effets pervers se sont multipliés et renforcés au cours des années » (1). Car tout libéraliser, on vient de le vérifier, amène les pires désordres. Inversement, parmi les multiples vérités qui ne sont pas abordées se trouve le fondement réel de l’actuelle crise : l’organisation du commerce mondial, qu’il faut réformer profondément, et prioritairement à l’autre grande réforme également indispensable que sera celle du système bancaire.

Les grands dirigeants de la planète montrent une nouvelle fois leur ignorance de l’économie qui les conduit à confondre deux sortes de protectionnismes : il en existe certains de néfastes, tandis que d’autres sont entièrement justifiés. Dans la première catégorie se trouve le protectionnisme entre pays à salaires comparables, qui n’est pas souhaitable en général. Par contre, le protectionnisme entre pays de niveaux de vie très différents est non seulement justifié, mais absolument nécessaire. C’est en particulier le cas à propos de la Chine, avec laquelle il est fou d’avoir supprimé les protections douanières aux frontières. Mais c’est aussi vrai avec des pays plus proches, y compris au sein même de l’Europe. Il suffit au lecteur de s’interroger sur la manière éventuelle de lutter contre des coûts de fabrication cinq ou dix fois moindres - si ce n’est des écarts plus importants encore - pour constater que la concurrence n’est pas viable dans la grande majorité des cas. Particulièrement face à des concurrents indiens ou surtout chinois qui, outre leur très faible prix de main-d’œuvre, sont extrêmement compétents et entreprenants.

Il faut délocaliser Pascal Lamy !

Mon analyse étant que le chômage actuel est dû à cette libéralisation totale du commerce, la voie prise par le G20 m’apparaît par conséquent nuisible. Elle va se révéler un facteur d’aggravation de la situation sociale. À ce titre, elle constitue une sottise majeure, à partir d’un contresens incroyable. Tout comme le fait d’attribuer la crise de 1929 à des causes protectionnistes constitue un contresens historique. Sa véritable origine se trouvait déjà dans le développement inconsidéré du crédit durant les années qui l’ont précédée. Au contraire, les mesures protectionnistes qui ont été prises, mais après l’arrivée de la crise, ont certainement pu contribuer à mieux la contrôler. Comme je l’ai précédemment indiqué, nous faisons face à une ignorance criminelle. Que le directeur général de l’Organisation mondiale du commerce, Pascal Lamy, ait déclaré : « Aujourd’hui, les leaders du G20 ont clairement indiqué ce qu’ils attendent du cycle de Doha : une conclusion en 2010 » et qu’il ait demandé une accélération de ce processus de libéralisation m’apparaît une méprise monumentale, je la qualifierais même de monstrueuse. Les échanges, contrairement à ce que pense Pascal Lamy, ne doivent pas être considérés comme un objectif en soi, ils ne sont qu’un moyen. Cet homme, qui était en poste à Bruxelles auparavant, commissaire européen au Commerce, ne comprend rien, rien, hélas ! Face à de tels entêtements suicidaires, ma proposition est la suivante : il faut de toute urgence délocaliser Pascal Lamy, un des facteurs majeurs de chômage !

Plus concrètement, les règles à dégager sont d’une simplicité folle : du chômage résulte des délocalisations, elles-mêmes dues aux trop grandes différences de salaires... À partir de ce constat, ce qu’il faut entreprendre en devient tellement évident ! Il est indispensable de rétablir une légitime protection. Depuis plus de dix ans, j’ai proposé de recréer des ensembles régionaux plus homogènes, unissant plusieurs pays lorsque ceux-ci présentent de mêmes conditions de revenus, et de mêmes conditions sociales. Chacune de ces « organisations régionales » serait autorisée à se protéger de manière raisonnable contre les écarts de coûts de production assurant des avantages indus a certains pays concurrents, tout en maintenant simultanément en interne, au sein de sa zone, les conditions d’une saine et réelle concurrence entre ses membres associés.

Un protectionnisme raisonné et raisonnable

Ma position et le système que je préconise ne constitueraient pas une atteinte aux pays en développement. Actuellement, les grandes entreprises les utilisent pour leurs bas coûts, mais elles partiraient si les salaires y augmentaient trop. Ces pays ont intérêt à adopter mon principe et à s’unir à leurs voisins dotés de niveaux de vie semblables, pour développer à leur tour ensemble un marché interne suffisamment vaste pour soutenir leur production, mais suffisamment équilibré aussi pour que la concurrence interne ne repose pas uniquement sur le maintien de salaires bas. Cela pourrait concerner par exemple plusieurs pays de l’est de l’Union européenne, qui ont été intégrés sans réflexion ni délais préalables suffisants, mais aussi ceux d’Afrique ou d’Amérique latine.

L’absence d’une telle protection apportera la destruction de toute l’activité de chaque pays ayant des revenus plus élevés, c’est-à-dire de toutes les industries de l’Europe de l’Ouest et celles des pays développés. Car il est évident qu’avec le point de vue doctrinaire du G20, toute l’industrie française finira par partir à l’extérieur. Il m’apparaît scandaleux que des entreprises ferment des sites rentables en France ou licencient, tandis qu’elles en ouvrent dans les zones à moindres coûts, comme cela a été le cas dans le secteur des pneumatiques pour automobiles, avec les annonces faites depuis le printemps par Continental et par Michelin. Si aucune limite n’est posée, ce qui va arriver peut d’ores et déjà être annoncé aux Français : une augmentation de la destruction d’emplois, une croissance dramatique du chômage non seulement dans l’industrie, mais tout autant dans l’agriculture et les services.

De ce point de vue, il est vrai que je ne fais pas partie des économistes qui emploient le mot « bulle ». Qu’il y ait des mouvements qui se généralisent, j’en suis d’accord, mais ce terme de « bulle » me semble inapproprié pour décrire le chômage qui résulte des délocalisations. En effet, sa progression revêt un caractère permanent et régulier, depuis maintenant plus de trente ans. L’essentiel du chômage que nous subissons -tout au moins du chômage tel qu’il s’est présenté jusqu’en 2008 - résulte précisément de cette libération inconsidérée du commerce à l’échelle mondiale sans se préoccuper des niveaux de vie. Ce qui se produit est donc autre chose qu’une bulle, mais un phénomène de fond, tout comme l’est la libéralisation des échanges, et la position de Pascal Lamy constitue bien une position sur le fond.

Crise et mondialisation sont liées

Les grands dirigeants mondiaux préfèrent, quant à eux, tout ramener à la monnaie, or elle ne représente qu’une partie des causes du problème. Crise et mondialisation : les deux sont liées. Régler seulement le problème monétaire ne suffirait pas, ne réglerait pas le point essentiel qu’est la libéralisation nocive des échanges internationaux, Le gouvernement attribue les conséquences sociales des délocalisations à des causes monétaires, c’est une erreur folle.

Pour ma part, j’ai combattu les délocalisations dans mes dernières publications (2). On connaît donc un peu mon message. Alors que les fondateurs du marché commun européen à six avaient prévu des délais de plusieurs années avant de libéraliser les échanges avec les nouveaux membres accueillis en 1986, nous avons ensuite, ouvert l’Europe sans aucune précaution et sans laisser de protection extérieure face à la concurrence de pays dotés de coûts salariaux si faibles que s’en défendre devenait illusoire. Certains de nos dirigeants, après cela, viennent s’étonner des conséquences !

Si le lecteur voulait bien reprendre mes analyses du chômage, telles que je les ai publiées dans les deux dernières décennies, il constaterait que les événements que nous vivons y ont été non seulement annoncés mais décrits en détail. Pourtant, ils n’ont bénéficié que d’un écho de plus en plus limité dans la grande presse. Ce silence conduit à s’interroger.

Un prix Nobel... téléspectateur

Les commentateurs économiques que je vois s’exprimer régulièrement à la télévision pour analyser les causes de l’actuelle crise sont fréquemment les mêmes qui y venaient auparavant pour analyser la bonne conjoncture avec une parfaite sérénité. Ils n’avaient pas annoncé l’arrivée de la crise, et ils ne proposent pour la plupart d’entre eux rien de sérieux pour en sortir. Mais on les invite encore. Pour ma part, je n’étais pas convié sur les plateaux de télévision quand j’annonçais, et j’écrivais, il y a plus de dix ans, qu’une crise majeure accompagnée d’un chômage incontrôlé allait bientôt se produire, je fais partie de ceux qui n’ont pas été admis à expliquer aux Français ce que sont les origines réelles de la crise alors qu’ils ont été dépossédés de tout pouvoir réel sur leur propre monnaie, au profit des banquiers. Par le passé, j’ai fait transmettre à certaines émissions économiques auxquelles j’assistais en téléspectateur le message que j’étais disposé à venir parler de ce que sont progressivement devenues les banques actuelles, le rôle véritablement dangereux des traders, et pourquoi certaines vérités ne sont pas dites à leur sujet. Aucune réponse, même négative, n’est venue d’aucune chaîne de télévision et ce durant des années.

Cette attitude répétée soulève un problème concernant les grands médias en France : certains experts y sont autorisés et d’autres, interdits. Bien que je sois un expert internationalement reconnu sur les crises économiques, notamment celles de 1929 ou de 1987, ma situation présente peut donc se résumer de la manière suivante : je suis un téléspectateur. Un prix Nobel... téléspectateur, Je me retrouve face à ce qu’affirment les spécialistes régulièrement invités, quant à eux, sur les plateaux de télévision, tels que certains universitaires ou des analystes financiers qui garantissent bien comprendre ce qui se passe et savoir ce qu’il faut faire. Alors qu’en réalité ils ne comprennent rien. Leur situation rejoint celle que j’avais constatée lorsque je m’étais rendu en 1933 aux États-Unis, avec l’objectif d’étudier la crise qui y sévissait, son chômage et ses sans-abri : il y régnait une incompréhension intellectuelle totale. Aujourd’hui également, ces experts se trompent dans leurs explications. Certains se trompent doublement en ignorant leur ignorance, mais d’autres, qui la connaissent et pourtant la dissimulent, trompent ainsi les Français.

Cette ignorance et surtout la volonté de la cacher grâce à certains médias dénotent un pourrissement du débat et de l’intelligence, par le fait d’intérêts particuliers souvent liés à l’argent. Des intérêts qui souhaitent que l’ordre économique actuel, qui fonctionne à leur avantage, perdure tel qu’il est. Parmi eux se trouvent en particulier les multinationales qui sont les principales bénéficiaires, avec les milieux boursiers et bancaires, d’un mécanisme économique qui les enrichit, tandis qu’il appauvrit la majorité de la population française mais aussi mondiale.

Question clé : quelle est la liberté véritable des grands médias ? Je parle de leur liberté par rapport au monde de la finance tout autant qu’aux sphères de la politique.

Deuxième question : qui détient de la sorte le pouvoir de décider qu’un expert est ou non autorisé à exprimer un libre commentaire dans la presse ?

Dernière question : pourquoi les causes de la crise telles qu’elles sont présentées aux Français par ces personnalités invitées sont-elles souvent le signe d’une profonde incompréhension de la réalité économique ? S’agit-il seulement de leur part d’ignorance ? C’est possible pour un certain nombre d’entre eux, mais pas pour tous. Ceux qui détiennent ce pouvoir de décision nous laissent le choix entre écouter des ignorants ou des trompeurs.

(1) L’Europe en crise. Que faire ?, éditions Clément Juglar. Paris, 2005.

(2) Notamment La crise mondiale aujourd’hui, éditions Clément Juglar, 1999, et la Mondialisation, la destruction des emplois et de la croissance : l’évidence empirique, éditions Clément Juglar, 1999.


Publication originale Marianne, via Etienne Chouard (pdf)

mardi, 12 octobre 2010

Maurice Allais, prix Nobel d'économie, meurt à 99 ans

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Maurice Allais, prix Nobel d'économie français, meurt à 99 ans

Le seul Français à avoir reçu le prix Nobel d’économie est décédé samedi à son domicile à l’âge de 99 ans.

 

Né le 31 mai 1911 à Paris, polytechnicien et membre de l’Institut, Maurice Allais a en particulier enseigné à l’École des mines de Paris et dirigé le Centre d’analyse économique.

Il a reçu le prix Nobel en 1988 pour ses contributions à la théorie des marchés et de l’utilisation des ressources.

Maurice Allais n’a pas toujours été bien compris, loin s’en faut. «Beaucoup de lecteurs le considèrent comme un champion du protectionnisme», ce qui est un «jugement profondément inexact», soulignait, lors de la même cérémonie, l’enseignant et chercheur Thierry de Montbrial.

Mais il est vrai qu’à force de vouloir que l’union politique précède l’union économique, Maurice Allais s’était affirmé comme un farouche défenseur d’une Communauté européenne d’abord soucieuse d’assurer sa propre sécurité économique, ce qui l’avait fait passer pour celui qui voulait bâtir une forteresse autour de l’Europe.

Il rappelait ainsi l’an dernier , qu’«un protectionnisme raisonné entre des pays de niveaux de vie très différents est non seulement justifié, mais absolument nécessaire».

Il se définissait lui-même comme un «libéral socialiste». C’est, expliquait-il cette position qui lui faisait souhaiter par exemple, pour éviter une destruction de l’agriculture et de l’industrie françaises, le rétablissement de préférences régionales au sein du commerce international dès lors que les écarts de salaires devenaient trop importants.

Le Figaro

Toute coopération militaire plus étroite entre pays membres de l'UE ne doit pas servir les intérêts américains

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Toute coopération militaire plus étroite entre pays membres de l’UE ne doit pas servir les intérêts américains

Première chose à faire : développer une politique de sécurité et de défense indépendante de Washington

Ensuite : l’Autriche ne peut en aucun cas renoncer à sa neutralité pour satisfaire les intérêts d’une puissance extra-européenne

Si jamais nous parvenons à établir une coopération militaire plus étroite entre pays membres de l’UE, alors nous devons préalablement mettre en œuvre une politique de sécurité et de défense européenne autonome, a déclaré Andreas Mölzer, chef de la délégation FPÖ au sein du Parlement européen, à l’occasion de la clôture de la réunion informelle, à Gand en Flandre, des ministres de la défense de l’UE. « Lorsqu’il s’agira de fédérer les ressources militaires au sein de l’UE, cela ne pourra nullement se faire dans l’intérêt exclusif des Etats-Unis et de l’OTAN. Il y a toutefois lieu de craindre que la coopération militaire plus étroite que l’on prévoit serve en ultime instance ce but-là », a insisté Mölzer.

 

Ensuite, a ajouté le mandataire FPÖ, toute politique de sécurité et de défense européenne devra concentrer ses efforts sur l’Europe. « Une coopération militaire plus étroite entre pays européens ne doit pas servir à aider encore davantage les Etats-Unis, comme par exemple dans la guerre qui sévit en Afghanistan. Il faut que ce soient les Balkans qui demeurent le centre majeur des préoccupations européennes en matières de défense et de sécurité, car cette région d’Europe reste toujours, comme auparavant, agitée par une série de conflits irrésolus qui sont toujours susceptibles de s’amplifier. Si l’UE n’est pas capable de veiller à asseoir une sécurité dans son propre environnement géographique, alors elle demeurera objet de moqueries et de sarcasmes », a constaté Mölzer en toute clarté.

 

En ce qui concerne toute coopération plus étroite des pays membres de l’UE en matières militaires, l’Autriche doit rester en position d’attente, a demandé le député européen de la FPÖ. « Aussi longtemps qu’il n’existera pas une communauté de défense et de sécurité commune et autonome en Europe, qui soit complètement indépendante des Etats-Unis, l’Autriche doit demeurer fidèle à sa neutralité. En aucun cas, il ne faudra renoncer à cette neutralité, car cela nous entrainerait à servir les intérêts d’une puissance extra-européenne », a conclu Mölzer.

 

Source : http://www.andreas-moelzer.at/

Alerte aux attentats: désinformation, manipulation, réalité?

Alerte aux attentats : désinformation, manipulation, réalité ?

 

Ex: http://www.polemia.com/

garde_n4.jpg« A propos du plan vigipirate qui concerne les risques liés à la menace terroriste en France, le ministère de l’intérieur, de l’outre-mer et des collectivités territoriales rappelle que la France est actuellement au niveau d’alerte "rouge". »

Le quotidien genevois, Le Temps, s’interroge sur le véritable objectif de la « mise en garde pratiquement sans équivalent » lancée par les autorités américaines et britanniques pour alerter leurs nationaux en voyage touristique en Europe afin qu’ils évitent tout particulièrement la Tour Eiffel et la Hauptbannof de Berlin.
Polémia

Le domaine de la lutte

Une mise en garde pratiquement sans équivalent pour alerter qui? Les touristes américains, afin qu’ils évitent les environs de la tour Eiffel et de la Hauptbahnhof de Berlin? Les Européens eux-mêmes, pour qu’ils ne sous-estiment pas l’enjeu de la guerre en cours en Afghanistan et au Pakistan? Les terroristes en devenir, pour qu’ils se sentent traqués et commettent ainsi un faux pas?

La mise en garde des Etats-Unis contre un risque d’attentats en Europe a fini par susciter craintes et désarroi. Les autorités américaines ont raison, bien sûr, de prévenir leurs concitoyens en cas d’informations crédibles et concordantes, comme elles le font depuis des années à l’égard de la Somalie, de l’Afghanistan ou, plus récemment, du Mexique. Mais ici, le caractère diffus de la menace ne fait qu’augmenter la confusion, ajoutant la peur de l’impuissance à celle d’une action meurtrière éventuelle.

Cette décision américaine est en réalité au croisement de deux tendances lourdes de la lutte contre le terrorisme telle qu’elle a vu son origine à Manhattan, après l’écroulement des deux Tours jumelles. Le monde n’est plus le même, et chacun est prié d’en prendre note. «Si tu vois quelque chose, dis quelque chose», proclament sans cesse depuis neuf ans les messages dans le métro et les autobus new-yorkais. Chacun, partout, est ainsi converti en agent particulier d’un combat global. Les Américains ne font aujourd’hui qu’étendre le domaine de la lutte à l’Europe. Ce ne sont pas eux, mais les Européens qui se sentent choqués par cette évolution.

En outre – et c’est la deuxième tendance à l’œuvre – tous les attentats doivent désormais pouvoir être déjoués, même les plus improbables, veulent croire les Américains. Caméras de surveillance dans chaque coin, contrôles interminables aux aéroports et, maintenant, établissement progressif de zones à risque autour des lieux les plus fréquentés. L’approche est erronée, elle aura toujours un coup de retard. Mais qui en défend une autre?

Luis Lema
Editorial 
Le Temps
06/10/2010

Correspondance Polémia –07/10/2010

Image : les paras de la Légion sous la Tour Eiffel

Een nieuwe macht Centraal-Azië?

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Een nieuwe macht Centraal-Azië?

De nieuwsbrief van de DeltaStichting staat meestal vol met zeer interessante informatie. Wanneer men echter de laatste nieuwe nieuwsbrief bekijkt, vindt men een zéér interessant artikel van de hand van Peter Logghe. Hieronder alvast de integrale versie. Wie zich wil inschrijven op deze nieuwsbrief, kan dat ->hier<- doen.
 

Een nieuwe macht Centraal-Azië in opbouw? En vooral: wélke macht in opbouw?  De jaren 80 en 90 van de vorige eeuw hebben in Europa, maar niet alleen daar, enorme politieke energie vrijgemaakt. Het verdwijnen van de Muur en van het IJzeren Gordijn hebben een aantal oude Europese verwanten bijvoorbeeld dichter tot elkaar gebracht, en hebben bijvoorbeeld wat verdeeld was, terug aaneengesmeed – alhoewel bepaalde voegen nog niet helemaal juist zitten).

Want in de 19de en de 20ste eeuw zou het islamitische, nog Middeleeuws aanvoelende Turkije – de zieke man van Europa – door Mustafa Kemal pardoes, en onder de harde leiding van het Turkse leger, in de moderne en laïcistische wereld zijn binnengebracht. Turkije ging vrij snel de weg op van Frankrijk: een jacobijnse eenheidsstaat, die er alles aan deed om een Turkse eenheidsidentiteit aan alle bewoners van het Turkse grondgebied op te dringen. Daar werd onder andere de kiem gelegd van het nog steeds durende conflict met de Koerdische minderheid, maar ook met andere minderheden werden spanningen voelbaar: de keuze voor het hanafitisch soennisme als staatsreligie zorgde er bijvoorbeeld voor dat de Alevieten zich als tweederangsburgers beschouwden – of bekeken werden. In 1928 bijvoorbeeld wordt godsdienstonderwijs al helemaal afgeschaft, wat pas in 1950 teruggedraaid wordt.

Turkije was in 1949 het eerste islamitische land dat Israël zou erkennen, waarmee we eventjes ook het buitenlandse politiek beleid van Turkije aanraken. Het zou jarenlang doorgaan als een van de trouwste leden van het NAVO-bondgenootschap, een veilige haven voor Amerikaanse vliegtuigen en vloot, en dit tot ver in Eurazië.

Turkije en Rusland: een gespannen verhouding, want buurlanden. De verhouding werd nog moeilijker toen Amerika in de Iraakse oorlog aan Turkije een sleutelrol in de regio verschafte. Of wou verschaffen. Amerika wou volop de Turkse kaart trekken, zette bijvoorbeeld ook de Europese Unie onder druk om Turkije lid van de EU te laten worden, en steunde ook volop andere Turkische volkeren in Rusland en China.

Het weer stond nochtans reeds op fundamentele verandering. In dezelfde jaren 80 en 90 van de vorige eeuw stak het islamitische reveil zowat overal de kop op, ook in Turkije, en daarmee kwam ook de geopolitieke rol, die de VSA voor Turkije hadden uitgeketend, onder druk te staan. Een eerste poging van Erbakan met zijn Refahpartij (met als programma: één grote islamitische gemeenschap van Marokko tot Indonesië) werd in 1997 hardhandig gestopt door het Turkse leger, dat in het verleden ook nooit verlegen zat om een staatscoup meer of minder.

Even later was het de politieke beurt aan de opvolger van Erbakan, Erdogan, en de islamitisch religieuze partij AKP, die in 2001 was opgericht. Ze legden het iets slimmer aan boord. Erdogan wist dat het pleit slechts te winnen was, dat hij slechts aan de macht kon komen, als hij erin slaagde zijn naam nooit te noemen en als hij – in schijn althans – gehecht bleef aan het Westers bondgenootschap. Zo beloofde Erdogan aan de Amerikaanse neoconservatieven de banden met Amerika te zullen versterken.

 

Nochtans konden de breuken met het verleden niet lang verborgen blijven. In 2003 bijvoorbeeld weigerde de Turkse regering om Amerikaanse vliegtuigen in hun oorlog tegen Irak boven Turks grondgebied te laten vliegen. Een fundamentele rol in de wijziging van het Turks buitenlands beleid speelt de Turkse minister van Buitenlandse Zaken, Achmed Davutoglu. Hij zou eigenlijk volledig willen breken met de politiek van de oude natie-staat om terug aan te knopen met de lijn van het rijk, in casu het Ottomaanse Rijk. Voor Davutoglu is het duidelijk dat Kemal Ataturk er eertijds niet in was geslaagd om het Turkse identiteitsbesef uit te breiden tot de grenzen zelf van de Turkse staat. Daarom wil hij het nieuwe Turkse Rijk opbouwen rond het nieuwe bindmiddel: de islam. Want, zo redeneert hij, zelfs islamitische Koerden hebben massaal voor de AKP gestemd om op die manier de goddeloze marxisten van de PKK van de macht te houden. Als er momenteel één bindmiddel is dat er mogelijkerwijze in kan slagen alle Turkssprekende onder één gezag te brengen, dan misschien wel de islam.

Een tweede breuklijn die zich aan het aftekenen is binnen de grenzen van Turkije, is die van de houding tegenover Israël. Gedurende decennia heeft het Turkse leger – en bij uitbreiding het Turkse establishment – met Israël een zeer goede band opgebouwd. Maar stilaan doet zich een ontdubbeling voor in Turkije: een bepaalde Turkse elite, inbegrepen het leger, een deel van de administratie en de magistratuur, wil de goede relaties met Israël behouden, terwijl de regering van AKP er absoluut geen graten in ziet dat de relaties gaandeweg minder hartelijk worden. Ook dat is een bouwsteentje in het nieuwe neo-Ottomaanse bouwwerk: de Turken krijgen in de Arabische wereld stilaan de naam van “verdedigers van het ware geloof”, en bouwen voor zichzelf veel goodwill op als bemiddelaar tussen allerlei rivaliserende islamitische kampen en strekkingen.Hoeft het gezegd dat dit allemaal niet van aard is om geruststellend te werken in de rest van de wereld? Er is onrust bij de Amerikaanse overheden ontstaan omtrent de betrouwbaarheid van hun trouwste Aziatische bondgenoot. Maar ook in de islamitische wereld zelf groeit de ongerustheid bij deze sterkere rol voor Turkije. Concurrentie is altijd een constante geweest in de islamitische wereld: de soennitische wereld, Egypte, Marokko, Saoudie-Arabië, maar vooral Iran kijkt met onverholen vijandschap naar Turkije. Iran ziet met de dag zijn invloed in de rest van de islamwereld verzwakken ten voordele voor Turkije.

Turkije zit ergens wel in een tang: het wil zijn rol binnen de NAVO behouden (als islamitisch land), maar wil tezelfdertijd zijn invloed binnen de islamitische wereld versterken. Wat als die twee in een vijandig spel terechtkomen, kan men zich afvragen. Maar Turkije gaat nog verder: in de jongste jaren heeft deze Aziatische reus-in-de-kiem een tiental nieuwe ambassades in Afrika en Latijns-Amerika geopend. Op diplomatiek veld heeft het nieuwe gesprekken met Rusland aangevat, want het wil Washington in elk geval duidelijk maken dat het géén loutere pion van Amerika meer wil zijn in het gebied. Turkije wil meespelen met de grote staten. Het is lid van de G-20, op economisch vlak steeg het van de 28ste naar de 17de plaats in de ranglijst van het IMF. Het ligt strategisch zeer goed tussen Amerika, Rusland en China en bevindt zich op een scharnierplaats ten opzichte van het Continentaal Plateau. Het zal, als islamitisch land, zijn rol willen spelen in dit werelddeel.

Peter Logghe

La influencia de la Nueva Derecha en los partidos "neopopulistas" europeos

 

LA INFLUENCIA DE LA NUEVA DERECHA EN LOS PARTIDOS "NEOPOPULISTAS" EUROPEOS

Joan Antón Mellón
Profesor de Ciencia Política de la UB
INTRODUCCIÓN
Los partidos neopopulistas europeos han consolidado su posición electoral ensus respectivos sistemas de partidos, e incluso en Italia la (LN) o en Austria el (FPÖ) han alcanzado el poder en coalición con otros partidos de derecha. Al respecto es ilustrativo los 5,5 millones de votos obtenidos por J.Mª Le Pen en la primera vuelta de las elecciones presidenciales francesas del 2002 o el 26,6% de votos obtenidos por el partido neopopulista suizo UDC en las elecciones parlamentarias de octubre del 2003. Su banderín de enganche es la xenofobia: «preferencia nacional» defienden los franceses FN y MNR; «Austria primero» propugna el FPÖ; hundir a cañonazos las embarcaciones de los emigrantes ilegales es la «propuesta política» que expuso en un mitin Umberto Bossi, líder de la LN italiana y ministro del gobierno italiano de S. Berlusconi; pero su influencia va más allá de su directa capacidad en las labores de gobierno o en la oposición, están influyendo decisivamente en las propuestas de otras subfamilias políticas de derechas1 al competir por la misma posible clientela electoral en unos mismos mercados políticos, es la denominada lepenización de los espíritus2. En última instancia rentabilizada políticamente por las organizaciones neopopulistas que se presentan como el original de las propuestas y no como remedos vergonzantes de éstas. Las organizaciones neopopulistas europeas han sido bien estudiadas en susvertientes sociológicas, organizativas e ideológicas. En mi opinión las tesis más incisivas y reveladoras se deben a las investigaciones de H.G. Betz, P.Perrineau, N. Mayer y R. Griffin, con una modesta contribución de quien escribe estas líneas3. Del profesor británico R. Griffin destaquemos su brillante análisis de que las propuestas neopopulistas pueden ser calificadas de «liberalismo etnocrático» y que constituyen una inteligente reconversión adaptativa (en una época de hegemonía de los valores democráticos) de los clásicos idearios de la extrema derecha. Sabemos quién vota a estas formaciones políticas y bastante del porqué, sin embargo está bastante inexplorado el terreno de cuáles son los referentes filosófico-ideológicos de los presupuestos xenofóbicos de las organizaciones neopopulistas. A esta relevante cuestión esta dedicado el presente artículo, si sabemos a partir de qué parámetros piensan los partidos xenofóbicos podremos contrarrestar su discurso desmontando sus argumentos base. He aquí nuestro objetivo central.
La Nueva Derecha Europea son los ideólogos que han actualizado los caducos discursos fascistas y ultranacionalistas del primer tercio del siglo XX. Son los revolucionarios conservadores del siglo XXI. Proporcionan, como veremos, legitimidad ideológica, entre otras, a las formaciones políticas neopopulistas.
I. ¿QUÉ Y QUIÉNES SON LA NUEVADERECHA EUROPEA?
La Nueva Derecha Europea (ND) está constituida por asociaciones cultural-políticas que se crean a imitación de la francesa Groupement de Recherche et dÉtudes pour la Civilisation Européenne (GRECE). Desde su fundación en1968 la ND francesa ha sido el faro teórico de sus homólogas europeas y su «maître à penser» Alain de Benoist el líder intelectual indiscutido. Dado que el combate de la ND es metapolítico, cultural los buques insignia de la flota de la ND siempre son revistas y, derivadas de ella, editoriales. En Francia la revista oficial es Éléments pour la culture européenne, en Italia, Trasgressioni, liderada por el politólogo Marco Tarchi, en Bélgica, Vouloir, dirigida por R.Steuckers, en el Reino Unido, Scorpion, con su hombre fuerte M. Walker y en España el alto funcionario del Ministerio de Educación Javier Esparza, director entre 1993 y 2000 (fecha del último número) de Hespérides. Todos ellos comparten unos mismos criterios culturales y políticos y, por ello, sus artículos más emblemáticos son intercambiados, traducidos y publicados por sus respectivas revistas. El núcleo central de sus convicciones radica en que tienen una visión de la naturaleza humana radicalmente opuesta a la tradición ilustrada. Para la ND el hombre es naturalmente desigual, agresivo, territorial y jerarquizado. No nace libre sino que la libertad es una conquista sólo alcanzable por los mejores, los cuales deben dirigir a la comunidad. Y ésta forja su destino en un combate constante contra todo tipode adversidades. Se es libre por superación personal y por pertenecer a una determinada comunidad que ha logrado preservar su soberanía. Para la ND los protagonistas de la Historia son los pueblos étnicamente homogéneos. De ahí que el enemigo principal, superado un visceral anticomunismo calificado de juvenil, sea el cristianismo por sus concepciones igualitarias y universalistas y el liberalismo por su radical visión individualista y anti-holística 4 del hombre. EE.UU como líder occidental mundial y potencia única, tras 1989, es el demonio a vencer, mientras que, en un terreno más abstracto, los Derechos Humanos son el gran objetivo a derribar.
En su opinión, obsoleta la frontera clásica entre la derecha y la izquierda, la nueva división radica entre los colaboradores y/o funcionarios del Sistema o tecno-estructura mundial y los partidarios de la recuperación de las raíces culturales de los diferentes pueblos del mundo para superar la decadencia y anomia actuales. En este heroico combate el papel que se otorga a si misma la ND es metapolítico, ser un laboratorio de ideas, agitar culturalmente y disputar al Sistema la hegemonía 5 ideológica (en cualquiera de las formas que adopta) para preparar unos nuevos planteamientos políticos rupturistas. Europa y el Tercer Mundo frente a EE.UU. Todo ideario político articulado elabora una utopía en la que se ven reflejados sus objetivos. La utopía de la ND sería una Europa libre de inmigrantes (o residiendo éstos temporalmente como ciudadanos sin acceso ala nacionalidad). Un mundo plural, heterogéneo, formado por comunidades homogéneas. Recuperada de la catástrofe igualitaria del cristianismo y su laicización racionalista ilustrada en cualquiera de sus manifestaciones: humanismo, liberalismo, marxismo 6; que se reconociera en su pasado indoeuropeo precristiano para decidir, libremente, su glorioso destino al recuperar su espiritualidad y su afán de lucha, sepultada por siglos de hegemonía de los valores mercantiles burgueses (materialistas y prosaicos) e igualitaristas.Fiel a estos planteamientos metapolíticos la ND se mantiene alejada de la lucha política partidista e incluso marca distancias y descalifica muchas de las propuestas de las formaciones políticas que más tienen en cuenta sus criterios de base: las formaciones políticas neopopulistas. Evidenciándose con ello queen el terreno de las ideas políticas es más relevante el uso político que se hacede ellas que las propias ideas.
II. ¿CUÁLES SON LOS OBJETIVOS DE LA ND?
La ND europea nace en Francia en la década de los sesenta del pasado siglo como un intento de reformulación del tradicional ultranacionalismo francés, traumatizado por las derrotas de los procesos de descolonización y deslegitimado por el colaboracionismo de Vichy. Además, sus planteamientos iniciales están también condicionados por la explosión ideológica y cultural de Mayo del 68 (7) y por la luz europeista que continua proyectando el Nacionalsocialismo en el universo ideológico de la extrema derecha y derecha radical, a pesar de su desaparición como régimen político en 1945. El ideario del Fascismo Clásico alemán proyecta su luz de estrella muerta igual que la proyecta el magma cultural que hizo posible, entre otros factores, su toma del poder en 1933 y su legitimación ideológico-cultural. Perdida la capacidad de seducción de los derrotados mitos fascistas es necesario substituirlos por otros. Es necesario una nueva Revolución Conservadora adaptada a una muy dura realidad para las Extremas Derechas y Derechas Radicales europeas: La Europa que resurge de sus cenizas despuésde 1945 se construye a partir de valores y criterios políticos antifascistas y profundamente democráticos; y la revelación propagandística de los horrores de los campos de exterminio ha evidenciado la intrínseca perversidad de los idearios fascistas.8 Dicha nueva Revolución Conservadora asume la radical crítica de la modernidad efectuada por los revolucionarios conservadores alemanes del primer tercio del Siglo XX: desprecian a Kant tanto como admiran a Nietzsche 9 y leen detenidamente los conservadores planteamientos metafísicos deHeidegger. Pero no sólo leen estos autores, sino todo aquello que pueda ser útil 10 ante su enorme tarea: redefinir la modernidad, ya que eso supone, en la segunda mitad del siglo XX, redefinir los conceptos de libertad y democracia en contra de las hegemónicas acepciones liberal-democráticas y socialdemócratas. En un largo proceso de estrategias y tácticas metapolíticas de destilación de ideas, alambicamiento de análisis 11 y proceso sincrético de síntesis global. Teniendo como objetivo que una cosmovisión alternativa a la ilustrada-burguesa se imponga en el mundo 12 y como medio el combate cultural-ideológico, en una muy inteligente, en mi opinión, utilización de un sistema ecléctico de disonancia cognitiva cultural. Se asume todo aquello que apoya,«demuestra» o «legitima» una determinada concepción del hombre y de la naturaleza y de las potencialidades de los seres humanos. Juzgados en su esencia como unos entes esencialmente: comunitarios, desiguales, agresivos, jerárquicos y territorializados. Condicionados por sus características biológicas, socialbiológicas y etnoculturales, pero libres para forjar su destino sino renuncian a su voluntad de poder como comunidades e individuos. La amplitud del objetivo estratégico de la ND (redefinición de la modernidad) y de la opción táctica escogida (intervención metapolítica) comportan una renuncia a la actividad política directa. Pueden permanecer puros, fieles a sus ideas. Dedicados a leer pensar y propagar. Algunos se cansan en este largo viaje, pero los auténticos representantes de las esencias de la ND como A. de Benoist, M. Tarchi o J. Esparza permanecen y no ingresan en los partidos neopopulistas o liberal-conservadores que, desde un primer momento, los esperan con los brazos abiertos, ávidos de intelectuales solventes. E incluso la ND francesa se permite despreciar al FN en general y a su líder J.Mª Le Pen de forma pública desde 1990 en particular por su populismo y su asunción del liberalismo.13 Tanto da; como la clase política sabe muy bien -y así lo apuntábamos previamente- más importante que las propias ideas es el uso político que se hace de ellas. En este sentido, conceptos como el «Derecho a la Diferencia»; planteamientos políticos como la «necesidad» de la creación de amplios movimientos comunitarios superadores de factores ideológicos y de clase; su visión del capitalismo como un sistema de producción idóneo si se lo supedita a control político; su óptica patriarcal; el planteamiento estratégico-táctico ninista (definirse como ni de derechas ni de izquierdas); la distinción jurídica entre ciudadano y nacional, entre otros factores, son asumidos de una determinada manera, política, por quienes los asimilan en sus planteamientos programáticos. De ahí que el mencionado «Derecho a la Diferencia» de la ND se convierte en la propagandística consigna del FN y el MNR «Preferencia Nacional».14 Al defenderse posturas radicales diferencialistas y antimulticulturales se potencia un racismo espiritual que se vulgariza en la xenofobia de los planteamientos políticos, culturales y jurídicos de las organizaciones neopopulistas. O la crítica radical de la ND al conjunto deideologías 15 se transforma, en su adaptación política de las organizaciones neopopulistas, en el rechazo de éstas a los otros partidos políticos en bloque,descalificando así la consustancial pluralidad de la democracia representativa.Son las concepciones nucleares de una Derecha Radical renovada, adaptada a las cambiantes realidades de los inicios del siglo XXI. La ND, por tanto, no ha transversalizado a la derecha y a la izquierda, «superándolas». Este análisis encierra, ideológicamente, una intencionalidad política que es más un deseo que una realidad: su análisis es que el fin tecnocrático de las ideologías (en la postmodernidad de un mundo globalizado) ha permitido resucitar una visión alternativa a la modernidad liberal- burguesa a la vez tradicional (pagana e indoeuropea) y futurista, aristocrática y armonicista. Una tercera vía 16 capaz de reconciliar, como la Ilustración no ha podido hacer, pares antagónicos.
La lúcida crítica que efectúan a las miserias de las sociedades occidentales (por ejemplo el papel mundial que juega lo que denominan Tecno-estructura, el déficit democrático, el anómico egotismo o la infantilización de la sociedad) no debe obnubilar nuestra capacidad de análisis del ideario de la ND francesa y de sus más débiles sucursales europeas. Denuncian y rechazan cualquier totalitarismo17 (cuyo origen, en su opinión, es el monoteísmo) pero lo hacen desde una perspectiva de superhombre nietzscheano, más allá del bien y el mal. Creen, como sus padres espirituales, que la sangre vale más que el oro; que la «forma de estar en el mundo» legitima cualquiera de sus actos, más allá del bien y el mal; que la libertad es un concepto práctico y político y que la voluntad de poder, como ley universal de la vida, establece quien es superior capaz y quien es débil e impotente.18 Y todo esto es lo que el antifascismo ha considerado como fascismo. Por tanto, mientras se escuchen ideas fascistas habrá que levantar la bandera del antifascismo y convencer a P.A. Taguieff recordándole que es suyo el siguiente análisis, tras comentar la ruptura explícita entre GRECE y el FN a partir de 1990 al calificar Benoist al FN de Extrema Derecha tradicional: «(...) cette rupture nimplique pas lannulation de limprégnation «greciste» du discours de certains responsables du Front National, formés dans la mouvance de la «Nouvelle droite».19 Igual opina M.Florentín: « (...) el Frente Nacional francés ha bebido muchos principios ideológicos en las fuentes del GRECE (...)» 20 A la ND no le gustarán las políticas que propugnan los partidos neopopulistas pero muchos de los cuadros neopopulistas comparten la cultura política de las publicaciones de la ND. Las ideas abstractas todo el mundo entiende que hay que darles forma y contenido para que puedan concretarse. Lo selecto se convierte en práctico no selecto al intentarse aplicarlas a la realidad. Por eso, inspirándonos en una reflexión de R. Griffin, podríamos preguntarnos si todo el inmenso horror de lo sucedido recientemente en la ex-Yugoslavia ¿no es el intento de construir sociedades etnicamente homogéneas, mediante una férrea y combativa voluntad de poder de una comunidad que recuerda su mítico pasado y quiere forjarse un destino como comunidad? 21 En última instancia la vieja propuesta del fascismo clásico de conseguir la armonía mediante una revolución cultural, espiritual y «nacional» es la propuesta, renovada, de la ND. Aunque ahora se acepte incluso la democracia, redefinida. Lo importante es acabar con la hegemonía del universalismo y del igualitarismo. De ahí que las propuestas liberales etnocráticas de las organizaciones neopopulistas sean la concreción política real de estas propuestas metapolíticas.22 El ideario de la ND, por tanto, es la filosofía política de la Derecha Radical europea actual, como en su día las concepciones de la Revolución Conservadora Alemana fueron uno de los decisivos basamentos ideológicos del ideario nazi. La misma inmensa diferencia que se dio entre E.Jünger y A. Hitler es la inmensa diferencia que existe hoy entre A. de Benoisty J.Mª Le Pen o B.Mégret. Todos ellos compartían y comparten una visión del mundo alternativa a la concepción ilustrada-liberal-socialista que afirma que es una verdad por sí misma que los hombres nacen iguales.
NOTAS:
1Véase Hainswort, P.: The Politics of the Extreme Right, Tiper, Londres, 2000.
2Véase Tevain, P. y Tissot, S.: Dictionaire de la Lépenisation des esprits, LEsprit Frappeur,2002.
3Antón Mellón, J.: «El neopopulismo en Europa occidental. Un análisis programáticocomparado: MNR (Francia), FPÖ (Austria) y LN (Italia), en Antón Mellón, J.(edit.): Las ideaspolíticas en el siglo XXI, Ariel, Barcelona, 2002.
4Las doctrinas holísticas propugnan que el todo es superior a la suma de las partes y poseecaracterísticas que le son propias.
5En el sentido en que da a este término el filósofo marxista italiano A. Gramsci.
6Recordemos al respecto que en capítulo 11 de Mi lucha A. Hitler descalifica como ideas modernas tanto al liberalismo como la democracia y el socialismo.
7La editorial de GRECE Le Labyrinthe ha publicado una obra al respecto: Le mai 68 de laNouvelle Droite.
8Por eso ha aparecido la corriente historiográfica denominada Negacionismo. Negando laexistencia del Holocausto se reafirma la no maldad intrínseca del ideario nazi.
9El objetivo general de Nietzsche y de la ND es idéntico: la substitución de los valores aluso, hegemónicos en Occidente, por otros que se creen superiores.
10«Practicando una lectura extensiva de la historia de las ideas, la ND no duda en recuperar aquellas que le parecen acertadas en cualquier corriente de pensamiento.» Benoist, A. de y Champetier, Ch.: Manifiesto: la Nueva Derecha en el año 2000.
11Por ejemplo para la ND el racismo (que denuncian en paralelo a una defensa de los inmigrantes aunque propugnan su regreso a sus países de origen) es un producto patológico delideal igualitario.
12Se pretende que lo espiritual predomine sobre lo material; lo idealista/altruista sobre lopragmático; lo heroico sobre lo prosaico; la generosidad sobre el cálculo constante; locomunitario sobre lo individual; el sacrificio sobre el hedonismo; el espíritu de aventura sobrela comodidad; el ánimo guerrero sobre el pacifismo; la jerarquía sobre la igualdad.
13Véase las publicaciones francesas Le Choc du mois, nº31(1990) y Les Dossiers delHistoire, nº82(!992).
14Analogía que ofrece pocas dudas. « (...) les formulations récents du national-populisme sonttributaires de lidéologie de la différence mise au point par la Nouvell droite.» Taguieff, P.A.:Sur la Nouvelle droite, Descartes, Paris,1994, p. 98.
15«Del marxismo al conservadurismo ultraliberal, pasando por todas las variedades del centrismo y de la socialdemocracia, uno se encuentra en presencia de la misma visión de lasociedad, del Estado y del hombre.» Benoist, A. de y Faye, G.: Las ideas de la Nueva Derecha,Ediciones Nuevo Arte Tor, Barcelona, 1986, p. 450.
16«(el Estado (...) dirige políticamente la economía sin intervenir administrativamente en sugestión. Esta concepción de una «economía dirigida» constituye la tercera vía entre el liberalismo del Estado mínimo y el socialismo del Estado nacionalizador y poli-intervencionista.» Benoist,A. de y Faye, G.: Las ideas de la Nueva Derecha, Op. Cit. 387.
17Véase Benoist, A.de: Communisme et nazisme 25 réflexions sur le totalitarisme au Xxesiècle(1817-1989). Le Labyrinthe, París,1989.
18En palabras del propio Nietzsche: «Aquí resulta necesario pensar a fondo y con radicalidady defenderse contra toda debilidad sentimental: la vida misma es esencialmente apropiación,ofensa, avasallamiento de lo que es extraño y más débil, opresión, dureza, imposición de formaspropias, anexión y al menos, en el caso más suave, explotación».Apud Tugendhat, Problemas,Gedisa, Barcelona, 2002, p. 86.
19Taguieff, P. A.: Sur la Nouvelle droite, Op. Cit. 346.
20Florentín, M.: Guía de la Europa Negra, Op.Cit.,82.
21Con independencia del hecho que, probablemente, S. Milosevic nunca haya leído nada deA. de Benoist.
22«Es necesario replantear el mundo en términos de conjuntos orgánicos de solidaridad real:de comunidades de destino continentales, de grupos nacionales coherentes y ópticamentehomogeneos por sus tradiciones, su geografía y sus componentes etnoculturales (...) Estas asociaciones de naciones son geopolíticamente posibles y supondrían la destrucción del marco económico-estratégico actual.» Faye, G.: «Pour en finir avec la civilisation occidentale», Éléments, núm. 34 (1980), 8-9.

lundi, 11 octobre 2010

Sur le "sauvetage" de la Grèce par la Chine

Sur le « sauvetage » de la Grèce par la Chine

Le Petit Poucet grec, étranglé par sa dette, sera-t-il sauvé par le géant chinois ? « La Chine est l’amie de la Grèce, et c’est dans les moments difficiles que l’amitié s’éprouve ».  Un bel exemple de fraternité. En visite à Athènes, le premier ministre Wen Jibao a annoncé que la Chine « participera à l’achat de nouvelles obligations grecques » quand le pays reviendra sur les marchés financiers, dès l’an prochain.

Ce n’est pas tout. Les deux partenaires prévoient de porter à 8 milliards de dollars (contre 4 aujourd’hui) leurs échanges commerciaux d’ici 2015. Outre deux accords cadre pour développer les investissements chinois en Grèce, Pékin et Athènes ont signé 11 accords commerciaux privés.

Pour la Grèce, actuellement sous perfusion du FMI et de l’Union européenne, ce « vote de confiance » (dixit l’ambassadeur de Chine en Grèce) est une sorte de miracle. Jusque là, tout le monde s’attendait à ce qu’elle fasse défaut dans quelques mois.

Mais la Chine n’apporte pas son aide par amitié ou philanthropie. D’abord, elle met la main sur un certain nombre de secteurs stratégiques (ports, marine marchande, chemins de fer, transport routier, construction, télécommunications, tourisme, matières premières, etc.), qu’elle avait déjà commencé à investir en 2008 avec notamment la concession pour 35 ans de 2 quais du Pirée, le port d’Athènes, au groupe chinois Cosco. Ensuite, la Chine achètera des obligations grecques très juteuses et dont le risque est presque nul grâce à la garantie financière de l’Union européenne. Ce qui fait dire à certains que c’est l’Europe qui finance des investissements chinois qu’elle-même n’a pas su – et aurait dû – faire. Le loup est entré dans la bergerie avec le consentement des moutons eux-mêmes.

En effet, la Chine veut faire de la Grèce sa « porte d’entrée » (son cheval de Troie) en Europe et dans les Balkans. Athènes est la tête de pont des ambitions chinoises sur le Vieux Continent. Non seulement sur le plan industriel et commercial, mais également sur le plan monétaire. Car il sera difficile désormais pour un gouvernement européen d’adresser des critiques à Pékin sur la sous-évaluation du yuan !

Sans compter que ce soutien apporté à la Grèce est peut-être aussi le moyen pour les Chinois de faire sauter le verrou qui empêche l’euro de monter davantage. Et donc de mieux enfoncer l’Europe… Ils l’ont déjà fait avec leurs concurrents japonais en achetant des bons du Trésor pour faire monter le yen, ils le feront également avec les pays périphériques de la zone euro : Grèce, Irlande, Portugal, Espagne, etc.

C’est en tout cas la thèse de Marc Fiorentino. Affaire à suivre !

Gli Osseti e la cinica Europa

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Gli osseti e la cinica Europa

di Giulietto Chiesa

Fonte: megachip [scheda fonte]

Tzkhinval, cos’era?, o cos’è? Se uscite di casa e, una volta superate le asperità della pronuncia, chiedete ai primi dieci passanti se hanno un’idea a proposito di questa parola, nessuno saprà rispondere. La risposta è: la capitale dell’Ossetia del Sud. Resta da chiarire dov’è e cos’è questo paese. Si trova sul versante sud del Caucaso ed era, fino a 20 anni fa, nei confini della Repubblica Socialista Sovietica di Georgia.


Il 20 settembre l’Ossetia del Sud ha celebrato i suoi 20 anni di indipendenza dalla Georgia. Ma c’è un problema: la Georgia non ha mai accettato la loro indipendenza e, in tutto il secolo XX, ha ripetutamente cercato di schiacciare gli osseti, sia cacciandoli da quella terra, sia assoggettandoli, sia - quando non gli è riuscita nè l’una nè l’altra cosa - sterminandoli.

 

Il perché è complicato da spiegare e da raccontare in poche righe, ma forse basta elencare alcune specificità.

La prima è che gli osseti non sono mai stati “georgiani”.

La seconda è che parlano una lingua che non ha nessuna parentela con il georgiano (ed è questa una discreta prova che provengono da un’altra storia, alla quale non vogliono rinunciare, avendone pieno diritto).

La terza è che sono stati divisi in due parti, gli osseti, da una storia crudele e più forte di loro: la parte più grande è rimasta dentro i confini della attuale Federazione Russa, è una repubblica autonoma, con capitale Vladikavkaz, e sta a nord della imponente catena montuosa del Caucaso. La parte più piccola è invece a sud del Caucaso, con una popolazione di circa 70 mila persone, esseri viventi all’incirca uguali a noi (anche se facciamo finta di non saperlo). Fino a che i due pezzi fecero parte di un unico Stato, l’Unione Sovietica, la divisione fu meno dolorosa e i piccoli “sudisti” si sentirono relativamente protetti dal Grande Fratello ortodosso. I guai riesplosero con la fine dell’Urss.

Chiesero, ma non ottennero, la autonomia da una Georgia che si dichiarava ora “democratica”, cioè non più socialista, ma che si proponeva ancora una volta di liquidarli. Subirono tre massacri, l’ultimo dei quali nella “guerra dei tre giorni” scatenata contro di loro la notte tra il 7 e l’8 agosto del 2008 dal “democratico” presidente della Georgia, con l’aiuto dell’allora presidente, anche lui molto democratico, dell’Ucraina.

La Russia di Medvedev e Putin, che molto democratici (secondo i nostri metri) non sono, intervenne in forze e, sconfitta la Georgia, riconobbe la Repubblica dell’Ossetia del Sud come sovrana e indipendente e mise la sue armata a presidio di un tale riconoscimento. Che, allo stato dei fatti elenca solo quattro paesi: Russia, Nicaragua, Venezuela, Nauru (chi vuole saperne di più vada a vedere dalle parti della Nuova Zelanda).

Ma non ha molta importanza, perchè nessuno è ora in condizione di cambiare il mazzo di carte.

Come testimone diretto delle guerre di questi ultimi venti anni sono stato invitato a partecipare ai festeggiamenti. Il problema è che l’Europa e gli Usa, e con loro tutto l’Occidente, non riconoscono nè l’esistenza dell’Ossetia del Sud, nè quella, parallela e contemporanea, dell’Abkhazia, altra regione che non ne vuole più sapere della Georgia. Entrambi pezzi non dell’ambizione russa, ma della stupidità sesquipedale dei leader georgiani. Perché?

Ufficialmente per il principio della intangibilità delle frontiere, sancito dalle Nazioni Unite. In realtà perché gli Usa vogliono includere la Georgia nella Nato, estendendo a sud l’accerchiamento della Russia, che perseguono dal momento della caduta dell’Urss.

L’Europa, come al solito, segue fedelmente. Gli altri, variamente ricattati, fanno altrettanto. Eppure c’è un altro principio che sarebbe utile non dimenticare, anche quando la Realpolitik impone di seguire il dettato dell’Impero: quello dell’autodeterminazione dei popoli.

 Chi non ha la memoria troppo corta si ricorderà che fu proprio questo principio che venne invocato, pochi mesi prima della guerra contro l’Ossetia del Sud, da tutti i paesi occidentali che avevano una gran fretta di riconoscere la indipendenza del Kosovo dalla Serbia.

 


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Destruction de la mémoire européenne: pour les Turcs, Allianoï n'est qu'une "invention" d'archéologues

Destruction de la mémoire européenne : pour les Turcs, Allianoï n’est qu’ une « invention » d’archéologues

La vallée où se trouvent les ruines de l’antique cité grecque d’Allianoï (ouest de la Turquie) sera dans quelques semaines transformée en lac artificiel, destiné à l’irrigation de 8 000 hectares de terres agricoles. La mise en eau du barrage de Yortanli, dont la construction s’est achevée en 2007, vient en effet d’être programmée pour la fin de l’année. Une décision qui sème la consternation dans la communauté scientifique.

Dans les prochaines semaines disparaîtront à jamais les fondations de l’hôpital de Galien, l’un des pères de la pharmacie, né dans la ville voisine de Pergame au 2e siècle de notre ère. Puis, ce seront les thermes, avec leur bassin encore alimenté par une source d’eau chaude et protégés par des murs hauts de cinq mètres, la salle aux colonnes monolithes, les mosaïques et les allées couvertes qui disparaîtront sous le sable, après avoir été recouverts d’un illusoire enduit de protection rosâtre. Les archéologues, interdits sur le site, assistent impuissants au massacre. « Il n’y a pas, au monde, de bains chauds, de centre de santé aussi bien conservés », se désole le professeur Ahmet Yaras, qui souligne que 80 % du site n’a pas encore été fouillé.

Pour l’archéologue, le sable et le ciment saupoudrés à la hâte par les Turcs sur les vestiges ne suffiront pas à préserver ces derniers sous 30 mètres d’eau. « Et même s’ils étaient protégés, dans 50 ans, la sédimentation due au barrage atteindra 15 ou 16 mètres, ajoute-t-il. Il faudrait être fou pour tenter d’exhumer à nouveau ces vestiges à une telle profondeur. »

« Allianoï ? C’est juste une source d’eau chaude », commente, goguenard, un cultivateur de coton, tomates et maïs du coin, qui voit dans la mise en eau du barrage une excellente chose pour ses affaires. Il ne fait d’ailleurs que reprendre les propos du ministre turc de « l’Environnement » qui affirmait fin août : « Allianoï n’existe pas, c’est une invention. Il y a juste une source chaude, comme on en trouve dans toute la Turquie. » Une déclaration qui a scandalisé la communauté scientifique, conduisant les représentants du Conseil international des monuments et des sites (Icomos), du programme européen Europa Nostra et de l’Union des archéologues européens à adresser une lettre au gouvernement turc l’enjoignant de tout faire pour préserver « l’héritage commun » d’Allianoï.

Les commentaires du ministre turc de la « culture » sont encore plus cyniques : « Après tout, Allianoï est resté sous terre pendant longtemps, il a fallu des fouilles pour l’en sortir. » La négation même de l’archéologie…

[cc [1]] Novopress.info, 2010, Dépêches libres de copie et diffusion sous réserve de mention de la source d’origine
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dimanche, 10 octobre 2010

La guerre économique a commencé

La guerre économique a commencé

Par Paul Bara, ex-trader, économiste de marché puis directeur financier. Il a parallèlement enseigné l’économie et la finance à Paris X et à l’ENA.

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

L’année 2010 a emporté les dernières illusions d’une reprise forte et durable (reprise en V). Le tassement de la croissance aux États-Unis, au deuxième trimestre, a montré que celle-ci était due à l’augmentation de la dépense publique et aux transferts sociaux.

Chaque Etat cherche donc à tirer parti, du seul relais de croissance qui semble encore fonctionner : les exportations, en utilisant l’arme monétaire.

La stratégie chinoise : une attaque en règle contre le Japon. Celle-ci repose, en premier lieu, sur la substitution de ses produits aux importations de produits technologiquement avancés en provenance des pays riches.

La Chine entend tirer profit de la croissance de son marché intérieur ainsi que de son gigantesque plan de relance et de la relance de crédit qui devrait toutefois marquer le pas (risque de bulle financière et immobilière).

Mais elle entend surtout accaparer une partie significative du « pactole du commerce international », qui devrait croître de 13,5 % en 2010, selon les prévisions de l’OMC. En achetant de la dette japonaise, elle peut faire monter le yen par rapport au dollar, ce qui aura pour effet de faire baisser le renminbi (la monnaie du peuple), puisque celui-ci est défini par un rapport fixe vis à vis du dollar. Il s’agit d’une sorte de dévaluation compétitive masquée.

La hausse du yen pose un sérieux problème au Japon. Cela risque de bloquer le seul moteur de croissance encore valide : les exportations et de l’enfermer dans une déflation sans fin. Le Japon est donc parti en guerre contre « l’endeka », ce qui a amené sa Banque Centrale à intervenir sur le marché des changes, le 15 septembre, afin d’enrayer la hausse de sa devise.

La stratégie américaine : une attaque en règle contre la zone euro

 

La stratégie américaine part d’un constat douloureux : l’échec de son plan de relance mais aussi de la réduction de la dette américaine, à long terme, détenue par les pays asiatiques (essentiellement la Chine) puisque celle-ci est passée de 52 % à 48 %.

Malgré une injection de 4000 milliards de dollars dans l’économie américaine, celle-ci n’a pu engendrer qu’une croissance d’environ 200 milliards de dollars. En outre, la réduction de la dépense publique au premier trimestre a eu pour effet un tassement de la croissance au second trimestre.

La seule stratégie, qui permette de tenir compte de l’ensemble de ces contraintes, consiste à laisser filer le dollar. La Fed a donc provoqué – par des canaux détournés – la baisse du dollar : elle a annoncé, mardi dernier, qu’elle était prête à prendre toutes mesures d’assouplissement nécessaires afin de stimuler la croissance. En clair, il s’agit de faire tourner la planche à billet afin de racheter des obligations d’Etat à maturité longue (quantitative easing), ce qui lui permettra de financer des mesures de relance éventuelle afin de lutter contre une possible déflation et de remplacer les investisseurs étrangers défaillants.

Les investisseurs anticipent donc une chute du dollar et préfèrent miser sur l’euro.

L’administration Obama compte, par ce biais, doper ses exportations, mais aussi faire augmenter l’inflation grâce à l’augmentation du prix de ses importations. Elle a, en outre, décidé de prendre des mesures contre la Chine. Une nouvelle étape a été franchie : la chambre des représentants a voté une loi qui permet de prendre des sanctions commerciales contre la Chine, en assimilant la sous-évaluation de la monnaie à une subvention déguisée. Les Américains estiment, en effet, que le renembi est sous-évaluée de 20 à 40 %.

L’utilisation de l’arme monétaire par les États-Unis et la Chine semble déboucher sur un scénario de guerre économique.

Un scénario de guerre économique ? : Qui va s’emparer du pactole du commerce international ? Dans ce cadre, on peut se poser la question du sérieux de la demande américaine : demander aux chinois de réévaluer leur monnaie de 20 à 40 %, a-t-il un sens ?

Le Premier ministre chinois, Wen Jibao, a répondu à cette question, en expliquant : « Si le renmimbi s’apprécie de 20 à 40 %, comme le demande le gouvernement américain, nous ne savons pas combien d’entreprises chinoises feront faillite (….), il y aura des troubles importants dans la société chinoise ».

En premier lieu, les Américains ont un modèle de croissance basé sur la consommation (70 % du PIB), ils ne peuvent relancer la croissance qu’en prenant de nouvelles mesures de relance. Les exportations ne peuvent être qu’un moteur accessoire.

En outre, les États-Unis est un pays largement désindustrialisé, qui n’a pas la structure industrielle pour tirer pleinement profit de la croissance du commerce internationale (pays émergents) : ils sont plus un exportateur de bons du Trésor et de produits financiers titrisés qu’un exportateur de produits industriels à forte valeur ajoutée.

La conséquence de la politique américaine et chinoise, c’est de faire jouer à l’euro et au yen le rôle de soupape de sécurité, en les tirant vers le haut. Autrement dit, les États-Unis et la Chine ont déclaré la guerre économique à la zone euro et au Japon.

Les États-Unis et la Chine entendent mettre la main sur le pactole du commerce internationale : la Chine en prenant des parts de marché au Japon et à l’Allemagne sur les produits à forte valeur ajoutée, une partie du surplus ainsi généré sera utilisé afin de financer la dette publique américaine.

N’oublions pas que la politique de quantitative easing envisagée par la FED, a surtout pour objet de remplacer les investisseurs étrangers défaillants (à long terme).

Si la Chine refusait à l’avenir de financer la dette américaine (notamment à long terme), les États-Unis pourraient lui imposer une double sanction : en faisant baisser la valeur des réserves de change chinoises investies en bons du trésor et en leur appliquant des sanctions commerciales (l’Europe et le Japon pourraient les imiter).

En conclusion, à court terme, l’euro et le yen devrait s’apprécier vis à vis du dollar. Quant à la paire Euro / Jpy (yen), on peut parier sur la hausse de l’euro.

Le scénario de guerre économique que j’évoque, plus haut, n’est cohérent qu’a moyen terme car, à long terme, les intérêts de la Chine et des États-Unis sont divergents.

A long terme, les États-Unis ont intérêt à se ré-industrialiser, en s’appuyant sur le réchauffement climatique et l’économie verte, ce qui leur permettra d’offrir des emplois qualifiés à la classe moyenne et de développer des services à forte valeur ajoutée.

La guerre économique actuelle (à moyen terme) qui oppose les États-Unis et la Chine à la zone euro et au Japon, n’est que le préalable, de la guerre économique (à long terme) qui va opposer les États-Unis et la Chine : un saut dans l’inconnu.

Nous rentrons dans une période d’affrontements économiques qui se traduiront par des désordres monétaires : les dévaluations compétitives entraînant des mesures protectionnistes (schéma bien connu lors de la crise de 1929), ce qui, à terme, aura pour conséquence de contracter le commerce international.

La seule manière d’étendre son empire économique passe, alors, par la guerre.

Le blog de la finance et de l’économie

Por la creacion de un Romanestan - Los Gitanos, ?Un problema Hindu-Europeo?


Por la creación de un Romanestán
LOS GITANOS, ¿UN PROBLEMA HINDU-EUROPEO?

Sebastian J. Lorenz
 
Los “gitanos”, también conocidos como “rom, roma o romaní”, son un pueblo nómada –o mejor decir “itinerante”- procedente de Asia, concretamente del Subcontinente Indio, en la zona que actualmente ocupa la frontera entre los estados de Pakistán y la India. Su pretendido origen egipcio o babilonio (muy difundido por ellos mismos) está descartado. No digamos ya de sus leyendas sobre una procedencia misteriosa. El estudio de la lengua romaní – el romanò-, propia de los gitanos, confirmó que se trataba de una lengua índica, muy similar al panyabí o al hindi occidental. Además, los estudios genéticos corroboran la evidencia lingüística que sitúa el origen del pueblo gitano en dicha área geográfica. Con todo, la inclusión de una persona como perteneciente al pueblo gitano depende no sólo de factores étnicos (únicos reconocidos por ellos, desde su visión etnocéntrica) sino también de indicios socioeconómicos (desde una posición eurocéntrica).
Existen en el mundo unos 12 millones de gitanos, 9 de los cuales reside –o mejor dicho, “se desplaza”- en Europa, continente en el que la mayor cuota se la lleva Rumanía (más de 2 millones) y con importantes minorías en otros países como España (800-000), Francia e Italia, países de recepción de su peculiar diáspora migratoria, que se ha visto incrementada, tras la caída del muro comunista, por una auténtica invasión romaní del occidente europeo procedente de los países del este, y que previsiblemente alcanzará cotas máximas con las actuales medidas adoptadas en varios estados europeos (Austria, Chequia, Italia, Francia).
Los problemas fundamentales de este grupo étnico derivan de su desinterés por la integración y de la discriminación que sufren por parte de las poblaciones europeas de origen. En un principio, su confesionalidad cristiana les hizo ser bien acogidos en todo el continente europeo, pero pronto serían perseguidos por mendicidad y vagabundeo (Carlos V fue un maestro en la materia). La leyenda negra sobre los gitanos gira en torno a su nomadismo, su celo racial, sus costumbres ancestrales (magia, brujería), su falsa sexualidad, su apatía laboral, su tendencia a la delincuencia, su desinterés por la comunidad que les adopta, incluso –con más frecuencia de la deseable- su odio y desprecio a todo aquel que no acepte sus tortuosas leyes consuetudinarias. Con todo, hay que decir que en España los gitanos han logrado reubicarse, aparentemente, en condiciones bastante óptimas, situación, no obstante, que no ha estado exenta de conflictos entre los dos grupos étnicos (payos y gitanos).
La legislación represiva es muy antigua. De 1449 a 1783 -fecha en la que Carlos III equipara jurídicamente a los gitanos con el resto de los españoles, creyendo que la tolerancia aceleraría su integración en la sociedad- se dictan dos leyes punitivas contra ellos, con sanciones que iban desde el destierro o la cárcel hasta la prohibición de hablar su propia lengua. Una disposición de 1878, mantenida todavía en buena parte del siglo XX, establecía que los gitanos debían exhibir ante los agentes de la autoridad cerrespondiente, la cédula personal, la patente de hacienda y la guía de caballería, bajo pena de detención inmediata o embargo (en la práctica, confiscación automática).
En nuestro país, desde luego, sigue existiendo una especie de “apartheid” ibérico en forma de “gitanerías o barrios calorros” (además de los conocidos poblados de chabolas, donde reina el narcotráfico y el crimen organizado), donde la transición del nomadismo y la trashumancia al sedentarismo urbano, provoca el enfrentamiento entre clanes (ahora también, entre mafias), haciéndose difícil el mantenimiento de una mínima cohesión interna (que sólo se manifiesta cuando se unen contra los payos o se alían para seguir siendo subvencionados), todo lo cual explosiona hacia afuera en una acentuada tensión entre las dos comunidades raciales y sociales que no tiene indicios de terminar pacíficamente, sino todo lo contrario.
El proyecto de construir un Estado Romaní, idealizado por una pretendida “nación gitana”, bajo el nombre de “Romanestán”, actualmente es una entelequia. En un principio, este estado se situaba en alguna parte de Somalia o Sudán, posteriormente al norte de la India y Pakistán (una vuelta a los orígenes), actualmente debería pensarse en la despoblada área euroasiática, en las estepas ocupadas por las etnias exsoviéticas de origen turco-mongol (con permiso de los iranios), un espacio geográfico muy apropiado para su estilo de vida nómada (o semi-sedentaria, pero nunca más parasitaria). Pero este proyecto ideal -seguramente, la mayoría de los ciudadanos europeos mostrarían su conformidad- carece de fuertes mentores políticos y económicos que sí concurrieron en la formación del Estado de Israel. Tampoco existe un suelo que reclamar (aunque sea retrocediento varios milenios como los hebreos), donde los gitanos hubieran tenido una vida organizada socialmente autónoma. Sin embargo, considero que la creación de un estado gitano independiente (pero vigilado y tutelado por la Unión Europea y Rusia) es una necesidad acuciante que deberá plantearse en un futuro inmediato. Está mal decirlo (pensarlo en silencio sería lo correcto), pero los problemas étnicos no se solucionan con expulsiones o discriminaciones, aunque tampoco con integraciones y subvenciones.

[Publicado en "ElManifiesto.com"] 

samedi, 09 octobre 2010

Que se passe-t-il dans les hautes sphères américaines?

Que se passe-t-il dans les hautes sphères américaines ?

Par Frédéric Laurent - Ex: http://fortune.fdesouche.com/

Encore une fois, drôle de semaine sur les marchés financiers. La volatilité fait rage, dans des volumes peu importants. Pas de déclaration tonitruante, pas de gros titre en apparence… pourtant je m’étonne. Je m’étonne qu’aucun journal n’ait repris l’annonce de la démission d’Herbert Allison, sous-secrétaire adjoint à la stabilité financière aux Etats-Unis.

Donc, la personne qui était chargée de suivre le plan à 700 milliards de dollars lâche l’éponge.

Caricature américaine, septembre 2010

Certes, ce n'est pas la première fois que quelqu’un de haut placé démissionne. Toutefois, quand on sait que ces hauts responsables émargent à plusieurs centaines de milliers de dollars par an, avec tous les « à côté » agréables (secrétariat, chauffeur, voyages d’affaires, logement, pas mal d’avantages en nature), on peut se dire qu’il doit y avoir une bonne raison à ce départ.

 

 

Or là, la raison invoquée serait de pouvoir retrouver son épouse, qui vit dans un autre Etat. Est-ce une raison valable pour lâcher cette fonction ? L’ennui, c’est que cette démission fait suite à trois autres du même calibre, en deux mois. La semaine dernière, il s’agissait de Larry Summers, principal conseiller économique du Président Obama ; et il y a quelques semaines, Christina Romer, une autre conseillère de M. Obama, et Peter Orszag, président du Bureau du budget de la Maison Blanche, quittaient le navire.

Que se passe-t-il dans les hautes sphères du gouvernement et des finances américains ? Certes, les prochaines élections législatives américaines [à mi-mandat, en novembre prochain] paraissent mal engagées pour l’actuelle majorité démocrate. Mais ce type de haut fonctionnaire ne part pas sans une raison majeure. Pas qu’un simple désaccord sur la stratégie voulue par le président. Comment se fait-il que les journalistes du Washington Post ou du New York Times n’aient pas creusé les raisons de ces départs ?

Je vous ai déjà parlé des problèmes financiers majeurs des municipal bonds, qui s’ajoutent à l’endettement intenable de nombreux Etats américains en situation de faillite virtuelle. L’Amérique toute entière serait-elle dans la même situation ?

Cela amène plusieurs suppositions : si les élections sont perdues par les démocrates, les situations politique, sociale et bien entendu économique risquent de devenir ingérables. Devant cette éventuelle défaite, la Fed risque d’être perdue quant à la stratégie à mener. Ces démissions en cascade en sont peut être des preuves avant l’heure.

Ces élections vont être le prélude des revendications d’une Amérique qui s’appauvrit. La population découvre peu à peu que le pays est toujours en dépression et que celle-ci s’aggrave, retombant certainement en récession lors du premier semestre 2011. Est-ce que la Fed tentera une nouvelle mesure désespérée ? Nouvelle manoeuvre à laquelle nos démissionnaires ne veulent pas être impliqués ?

La lecture du dernier rapport du Congrès américain sur l’efficacité du TARP ne peut que confirmer ces doutes. L’introduction au rapport précise que « de graves faiblesses économiques persistent. Depuis la mise en oeuvre du plan, en octobre 2008, 7,1 millions de personnes ont reçues un avis d’expulsion. Depuis les sommets d’avant crise la valeur des maisons a baissé de 28%, et les marchés actions — dans lesquels une grande partie des Américains ont placé leur capital pour leur retraite ou pour l’université de leurs enfants — de 30%. » Ce même rapport reconnaît que si le TARP a fourni un appui pour redonner confiance aux marchés financiers, la question demeure quant à son efficacité réelle sur la relance.

Le dollar va certainement poursuivre son mouvement baissier. La Chine achète du yen et pourrait commencer à vendre ses actifs en dollars — ou tout du moins, à ne plus en acheter. Continuer à monétiser la dette ? Inévitablement l’inflation va repartir aux Etats-Unis. Sans doute interviendra alors un vaste programme d’austérité. Les marchés financiers, qui ont été très soft jusque-là, pourraient le prendre très mal, et la chute n’en serait que plus violente. Et pour valider ce scénario, l’or continue à monter pour le moment en dollars, en ayant dépassé pour la première fois les 1 300 $ l’once.

MoneyWeek

Presseschau / Oktober 2010 (1)

PRESSESCHAU

Oktober 2010 (1)

Liebe Angemailte, großer Kreis. Da die infokreis-Presseschau derzeit wohl nicht erscheint, sie aber offenbar so beliebt ist und ich ja auch im September eifrig Links gesammelt habe, heute ein kleines Trostpflaster. Ich habe mir mal die Mühe gemacht, sämtliche meiner September-Links zusammenzustellen und zu ordnen. So geht diese (ehrenamtliche) Arbeit wenigstens nicht völlig verloren. Ich hoffe, daß alle Links noch funktionieren. Sollte die infokreis-Presseschau dennoch in den nächsten Tagen mal wieder erscheinen, könnte es sein, daß einige Links doppelt sind, aber das ist ja kein Beinbruch.
Bei Weiterleitungen bitte Absender löschen.
Viel Spaß bei der Lektüre.
C.W.

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zeitungen.jpgBayern spricht sich für Verbleib amerikanischer Truppen aus
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

(Skurrile Kollaboration im Jahr 2010)
Schweinfurt
Höchste Pentagon-Ehren für die Ex-OB
http://www.kanal8.de/default.aspx?ID=11430&showNews=8...

Lieberman glaubt nicht an einen Frieden
Der israelische Außenminister nennt Nahost-Gespräche gefährlich / Nächstes Treffen in Ägypten
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Grüne: Nach Höhenflug droht harte Landung
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(Castro mittlerweile senil?...)
Castro ungewohnt selbstkritisch
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(Erstaunlich wie viele Freunde auf einmal die Zigeuner in der ganzen Welt haben...)
Fidel Castro wirft Paris wegen Roma-Politik "Rassen-Holocaust" vor
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„Versailles mit friedlichen Mitteln“
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

Greuelmord an afghanischen Zivilisten: US-Soldaten vor Militärgericht
http://www.weltexpress.info/cms/index.php?id=6&tx_ttn...

Afghanistan
US-Soldaten sollen Finger abgeschnitten haben
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Afghanistan-Prozess
US-Soldat: Mord an Zivilisten von Offizier befohlen
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Computerattacke im Iran
Ein Hauch von Cyber-Krieg
http://www.focus.de/politik/ausland/computerattacke-im-ir...

(Zur Abschiedsfeier von Roland Koch...)
Flipsig, flapsig, Militärmusik
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

Hier ein Filmausschnitt von Kochs Abschied
http://www.youtube.com/watch?v=1W1C67t7eTg

Steinbach bescheinigt Bartoszewski „schlechten Charakter”
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

(Der Pfälzer sondert mal wieder Altbekanntes ab...)
Kurt Beck rückt Steinbach in die Nähe von Rechtsradikalen
http://www.pnp.de/nachrichten/artikel.php?cid=29-29519239...

Erika Steinbach ist schlicht revanchistisch
Mut zur Lücke
http://www.taz.de/1/debatte/kommentar/artikel/1/mut-zur-l...

Erika Steinbach entschuldigt sich
http://www.bz-berlin.de/archiv/erika-steinbach-entschuldi...

(Merkel verarscht mal wieder...)
Merkel: Konservative haben politische Heimat in der CDU
http://de.reuters.com/article/domesticNews/idDEBEE68I06F2...

Wulff übt sich in Geographie...
http://nibelungen-kurier.de/?t=news&s=Aus%20aller%20W...

Begriffsmanscherei
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

Nacktschnecken und Rosenkränze
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

Hannelore Kraft überzieht das Konto
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

Nation24.de - unabhängiges Magazin Pro Deutschland
http://nation24.de/

NPD sorgt für Eklat bei Wulff-Besuch im sächsischen Landtag
http://www.op-online.de/nachrichten/politik/sorgt-eklat-w...

Volkmar Weiss: Rezension: Thilo Sarrazin: Deutschland schafft sich ab.Die bisher unveröffentliche öffentliche Meinung?
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Sarrazin
„Er fühlt sich wie Hitler“
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Die Bielefelder Heitmeyerei...
Forscher: Hohe Zustimmung zu Sarrazin-Thesen
Berlin - Jeder zweite Bundesbürger stimmt der Aussage von Thilo Sarrazin zu, dass es zu viele Ausländer in Deutschland gebe. Das ergab eine Langzeitstudie zu “Gruppenbezogener Menschenfeindlichkeit“.
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Sozialforscher Zick
„Da kommt Hass zum Vorschein“
Der Sozialforscher Zick spricht im FR-Interview über Sarrazins Fangemeinde und die bedrohte Norm vom gleichen Wert der Menschen.
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Zukunft gewinnen statt abschaffen! - Das ARD-"Wort zum Sonntag" zur Sarrazin-Debatte
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Linke attackiert CDU-Landtagsabgeordneten Ismail Tipi nach EXTRA-TIPP-Interview über Thilo Sarrazin
Linke attackiert Tipi: „Scheinbar völlig entrückt“
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Bertelsmann-Stiftung widerspricht Sarrazin
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Die radikale Linke/"Antifa" hetzt gegen Sarrazin
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http://de.indymedia.org/2010/09/289107.shtml
http://www.luzi-m.org/nachrichten/artikel/datum/2010/08/3...
http://www.antifa.vvn-bda.de/201003/0501.php
http://www.antifa-gaming.de/portal/forum/index.php?action...
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Die Verfemung und Entlassung Dr. Sarrazins ist die hilflose Rache der Realitätsverweigerer
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Baal Müller zu Sarrazin und parteipolitischen Konsequenzen...
Sarrazin und die Zyklopen
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

Deutsche Perestroika
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

Sarrazin und die Parteien
Kommentar: Politisches Gespenst
http://www.op-online.de/nachrichten/politik/politisches-g...

(Dani gibt sich mal wieder ganz großzügig...)
Fall Sarrazin
Cohn-Bendit: „Ich war dagegen, dass er rausfliegt“
http://beta.journal-frankfurt.de/?src=journal_news_einzel...

Ein im Vergleich zu zahlreichen Kollegen, u.a. der HNA, differenzierter Kommentar zum Fall Sarrazin vom Politikredaktionschef der Offenbach-Post
In schiefem Licht
http://www.op-online.de/nachrichten/politik/schiefem-lich...

Theater, Theater (nach Sarrazin)
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

Volksverhetzung
Landesausländerbeirat Hessen zeigt Sarrazin an
http://rhein-main.business-on.de/sarrazin-menschen-debatt...

(Statt Sarrazin "Aktionsprogramm gegen Ausländerfeindlichkeit und Antisemitismus")
Ausländerbeirat nimmt Regierung in die Pflicht
http://www.echo-online.de/nachrichten/hessenundrhein-main...

Im Antinazikonsensland
In Mecklenburg-Vorpommern müssen Erzieherinnen und Tagesmütter Verfassungstreue erklären. Mit Gesinnungstests Rechtsradikalismus bekämpfen, ist das eine gute Idee?
http://www.freitag.de/politik/1034-im-antinazikonsensland

DFB zeichnet Engagement im „Kampf gegen Rechts“ aus
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

Demokratieland Mecklenburg-Vorpommern
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

Die totalitäre Gesellschaft und ihre Feinde
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

(Weniger das Outfit als die politischen Ziele - "sich für gerechtere Verhältnisse einsetzen" - lassen diesen Herrn als pädagogisch suspekt erscheinen)
Lübecker Punk-Schulleiter löst Medien-Hype aus
http://www.focus.de/panorama/welt/leute-luebecker-punk-sc...

Straßenfest in Hamburg
Wieder Krawalle beim Schanzenfest
http://www.fr-online.de/politik/wieder-krawalle-beim-scha...

Torten-Attacke
Trittin verzichtet auf Anzeige
http://www.spiegel.de/politik/deutschland/0,1518,719238,0...

Ehrenmal "Panzergraben" in Memprechtshofen geschändet!
http://www.regiotrends.de/de/polizeiberichte/index.news.1...
http://s144731316.online.de/wp-land/ov-kehl/?p=244 (scheinheiliges Pack!)
http://www.regiotrends.de/de/polizeiberichte/index.news.1...
http://www.news-aus-baden.de/?id=42357

Zur Geschichte der Gedenkstätte "Panzergraben" in Rheinau - Memprechtshofen:
http://de.wikipedia.org/wiki/Ehrenmal_Panzergraben
http://www.lexikon-der-wehrmacht.de/Kasernen/Wehrkreis05/...

Dortmunder gegen RechtsTausende protestieren gegen Nazi-Aufmarsch - 160 Demonstranten festgenommen
http://www.welt.de/die-welt/regionales/article9426199/Dor...

Dortmund weist Neonazis in die Schranken
http://www.fr-online.de/politik/dortmund-weist-neonazis-i...

Neonazi-Aufmarsch und Gegenproteste in Dortmund
http://nachrichten.rp-online.de/politik/neonazi-aufmarsch...

Frankfurt
Autonome greifen NPD an
http://www.fnp.de/fnp/region/lokales/autonome-greifen-npd...

Frankfurt
Linksextremisten verletzen NPD-Mitglieder
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

„Neofaschismus“-Ausstellung in Weimar: Stadt kooperiert mit Linksextremisten 
http://www.blauenarzisse.de/v3/index.php/anstoss/1913-neo...

Innenministerium geht gegen Gefangenenhilfsorganisation vor
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

Österreich verbietet Minarett-Ballerspiel
http://www.op-online.de/nachrichten/politik/oesterreich-v...

Imam will Wilders köpfen
http://diepresse.com/home/politik/aussenpolitik/592237/in...

(Landesausländerbeirat: Sarrazin hat schuld)
Kirchhain: Männer greifen Autofahrerin an, weil sie Türkin ist
http://www.welt.de/vermischtes/weltgeschehen/article94991...

Schleuserjagd an der Kabinentür
Dokumentensichtung: 33 000 Flugzeuge wurden im vergangenen Jagd in Frankfurt kontrolliert
Dank der EU fehlen Grenzkontrollen in Deutschland fast überall. Doch die Flughäfen bleiben Einfallstore für Schleuser und Geschleuste. In Frankfurt machen Polizisten alle 15 Minuten an einer Flugzeugtür Jagd auf Illegale. Total übertrieben, meint der Flüchtlingsrat.
http://www.fnp.de/fnp/region/lokales/schleuserjagd-an-der...

Hessen
Großrazzia
Polizei verhaftet Schleuser
http://www.hr-online.de/website/rubriken/nachrichten/inde...

Sachsens Ministerpräsident Tillich fordert mehr Einwanderung
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

Migration als Erziehungsinstrument
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

Integration ist machbar
Das SOS-Team als Chance
http://www.derwesten.de/nachrichten/politik/Das-SOS-Team-...

Im Gespräch: Wolfgang Hübner
„Integration ist die Pflicht jedes einzelnen Zuwanderers“
http://www.faz.net/s/RubFAE83B7DDEFD4F2882ED5B3C15AC43E2/...

(wie viele Freunde die Roma auf einmal bei unseren Eliten haben, deren Vertreter sicherlich noch nie neben einer Sippe gewohnt haben...)
Kommentare: Frankreich steht wegen seiner Abschiebungen in der Kritik
http://www.welt.de/die-welt/debatte/article9692580/Die-Ro...

Bibel in Deutschland verbrannt: Der große Protest blieb aus
http://www.ovb-online.de/nachrichten/deutschland/bibel-de...

Obamas Doppelzüngigkeit: Amerikanische Soldaten müssen christliche Bibeln verbrennen
Udo Ulfkotte
http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/enthuellungen/ud...

Neue Studie: Migranten-Jungen haben mehr Sex als gleichaltrige Deutsche
http://www.blauenarzisse.de/v3/index.php/aktuelles/1907-n...

Der neue Mann - brutaler Macho?
Debatte auf ARTE mit
-Malika Sorel, französische Autorin, Mitglied im nationalen Haut Conseil à
l'intégration ("Integrationsrat") der französischen Regierung
-Serap Çileli, deutsche Autorin und Menschenrechtlerin türkisch-alevitischer
Abstammung
http://videos.arte.tv/de/videos/debatte-3393752.html

Gewalt in Berlin-Schöneberg
"Die Deutschen sind Verlierer"
http://www.spiegel.de/schulspiegel/0,1518,415547,00.html

Wächtersbach
Kopftücher und Großfamilien in Arztpraxis verboten
http://www.focus.de/politik/deutschland/migration-kopftue...
http://newsticker.sueddeutsche.de/list/id/1034999

Kritik an Kopftuchverbot in Arztpraxis
http://www.heilpraxisnet.de/naturheilpraxis/kritik-an-kop...
http://www.faz.net/s/Rub8D05117E1AC946F5BB438374CCC294CC/...

Frankfurt
Streit am Imbiss - Serben vs. Türken
Pommesdiebe schlagen Gäste zusammen
http://www.spiegel.de/panorama/justiz/0,1518,717278,00.html

Offenbach: 23-Jähriger muss sich für Unfall verantworten, bei dem zwei Mädchen im Main ertranken
http://www.op-online.de/nachrichten/offenbach/prozess-tod...

Im Prozess um Unfall am Offenbacher Mainufer zeigt Angeklagter weiter keinerlei Schuldbewusstsein
Autorennen in den Tod
http://www.op-online.de/nachrichten/offenbach/autorennen-...

Material DDR III: Unrechtsstaat
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

Bundeswehr: Totalverweigerung: Aus Überzeugung in die Zelle http://www.spiegel.de/schulspiegel/leben/0,1518,710895,00...

Germanisten fürchten keine Anglizismen
http://www.focus.de/kultur/diverses/wissenschaft-germanis...

Die Lieblingsbücher der Deutschen im Dritten Reich
http://www.welt.de/kultur/article9090884/Die-Lieblingsbue...

Leseland Drittes Reich: Bestseller in Nazideutschland
http://www.welt.de/die-welt/kultur/article9101583/Leselan...

Auf dem Planeten nur beurlaubt
Zwölf Jahre nach Ernst Jünger starb seine zweite Ehefrau Liselotte. Heimo
Schwilk besuchte die Trauerfeier in Wilflingen
Von Heimo Schwilk
http://www.welt.de/die-welt/kultur/article9427030/Auf-dem...

Frankfurt
Entkrampfung für die Altstadtdebatte
http://www.faz.net/s/RubFAE83B7DDEFD4F2882ED5B3C15AC43E2/...

Mecklenburg-Vorpommern
Herrenhäuser vor dem Verfall
http://www.svz.de/nachrichten/mecklenburg-u-vorpommern/ar...
Hunderte Herrenhäuser verfallen
http://www.ostsee-zeitung.de/nachrichten/kultur/index_art...

Immer noch ist man in Deutschland schnell mit der Abrissbirne dabei, wenn´s um historische "Schandflecke" geht...)
Reutlingen
Schandfleck war ein Juwel
http://www.gea.de/region+reutlingen/reutlingen/schandflec...

Reutlingen
Eine bauhistorische Sensation
Mit der Metzgerstraße 24 wurde eines der ältesten Fachwerkhäuser abgerissen
http://www.tagblatt.de/Home/nachrichten/reutlingen_artike...

Geschichte
Todesstreifen interaktiv mit neuem Computerspiel
http://www.focus.de/digital/computer/geschichte-todesstre...

Die Römerschlacht an der Autobahn
http://www.tagesspiegel.de/politik/geschichte/die-roemers...

Spielzeugfreier Kindergarten
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

Erschreckend: Antifeministische Grimm-Märchen
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm....

UEFA verhängt ein Vuvuzela-Verbot
Die Trompeten sollen aus den Stadien verbannt werden, um die "europäische Fußballkultur" zu schützen.
http://kurier.at/sport/fussball/2028384.php
http://www.goal.com/de/news/954/europa/2010/09/01/2098120...
http://www.11freunde.de/bundesligen/132279/ein_appell_an_...


vendredi, 08 octobre 2010

Hurra, der Erste Weltkriege ist jetzt auch für uns Deutsche zu Ende

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Hurra, der Erste Weltkrieg ist jetzt auch für uns Deutsche zu Ende

Michael Grandt - Ex: http://info.kopp-verlag.de/

 

Bis zum 3. Oktober 2010 musste der deutsche Steuerzahler für einen Krieg bezahlen, der vor fast 100 Jahren begann und für den das deutsche Volk die alleinige Verantwortung übernehmen musste, obwohl dies historisch nachweislich falsch ist.

 

 

 

 

Am Sonntag, den 3. Oktober 2010 war es soweit: Der Erste Weltkrieg war, 96 Jahre nach seinem Ausbruch, auch für Deutschland zu Ende. Bis zu diesem Zeitpunkt musste der deutsche Steuerzahler als »Verursacher« des Ersten Weltkrieges Reparationen sprich Wiedergutmachung an die Alliierten bezahlen.

Die letzte Rate betrug 69,9 Millionen Euro. Im Bundeshaushalt 2010 wird dieser Betrag unter Punkt 2.1.1.6 als »Bereinigte Auslandsschulden (Londoner Schuldenabkommen)« verklausuliert.

Die Reparationszahlungen nach dem Ersten Weltkrieg wurden im Versailler Vertrag im Jahr 1919 festgelegt. Adolf Hitler hatte die Zahlungen einst gestoppt, doch nach 1945 übernahm die Bundesrepublik Deutschland dann die »Schulden« und zahlte bis zum Jahr 1983.

Die Restzahlung von 125 Millionen Euro für Zinsen auf Auslandsanleihen war erst nach der deutschen Wiedervereinigung fällig. Seit 1996 stottert der deutsche Steuerzahler die Schuld aus dem vor knapp 100 Jahren ausgebrochenen Krieg ab. Die letzte Rate war 20 Jahre nach der Wiedervereinigung fällig. Mit dessen Zahlung ist der Erste Weltkrieg nun auch für Deutschland finanziell beendet.

Über die Ursachen des Ersten Weltkrieges, die tatsächliche Kriegsschuld, die Folgen und den Aufstieg Adolf Hitlers werde ich in den nächsten Wochen eine umfangreiche Contentserie hier auf KOPP-Online starten.

Anmerkung: Vielen Dank für den Hinweis an den Leser, dessen Namen ich leider nicht mehr eruieren kann.

 

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Quelle:

http://www.express.de/news/politik-wirtschaft/sonntag-ist...

 

jeudi, 07 octobre 2010

Arabia Saudita: Un perfetto controesempio negli annali della geo-strategia globale

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Arabia Saudita: Un perfetto controesempio negli annali della geo-strategia globale

di René Naba

Fonte: eurasia [scheda fonte]

Ancora una volta recidiva nella diversione, l’Arabia Saudita incoraggiò Saddam Hussein ad andare in guerra con l’Iran per contenere la minaccia del fondamentalismo sciita, deviando la potenza irachena dal campo di battaglia arabo-israeliano. In un nuovo tentativo di destabilizzare la Siria, il principale alleato arabo dell’Iran, Arabia favorì una rivolta dei Fratelli Musulmani repressa brutalmente dai siriani, ad Hama, nel febbraio 1982, a quattro mesi dall’invasione israeliana del Libano, fomentata da un tandem composto da primo ministro israeliano Menachem Begin e da Bashir Gemayel, il leader della milizia cristiana libanese.

L’Arabia Saudita, il nemico più intransigente di Israele, in teoria, aveva effettuato la più grande diversione della lotta araba, sostenendo l’Iraq contro l’Iran nella guerra convenzionale più lunga della storia moderna (1979 – 1988), deviando il colpo dal campo di battaglia principale, la Palestina, dirottando i giovani musulmani e arabi dal campo di battaglia della Palestina all’Afghanistan. A colpi di dollari e di Mujahidin, spesso ex detenuti nel loro paese, combatterà non contro Israele, ma a migliaia di chilometri di distanza, a Kabul, dove migliaia di giovani arabi e musulmani si batteranno per un decennio contro le forze atee comuniste, voltando le spalle, al tempo stesso, di nuovo alla Palestina, con l’incoraggiamento degli intellettuali occidentali, troppo contenti per questa opportunità. Cinquantamila arabi e musulmani si arruolarono sotto la bandiera dell’Islam, sotto la guida di Usama bin Ladin, ufficiale di collegamento dei sauditi e degli statunitensi, combatterono in Afghanistan l’ateismo sovietico in una guerra finanziata, in parte dalle petromonarchie del Golfo, con fino a venti miliardi di dollari, una somma equivalente al bilancio annuale di un quarto dei paesi membri dell’organizzazione panaraba. In confronto, i combattenti di /Hezbollah/ libanese, con un numero di molto inferiore, stimato in duemila combattenti, e con un budget ridotto rispetto a quello impegnato a finanziare gli arabi afghani, ha causato sconvolgimenti psicologici e militare più consistenti della legione islamica, nel rapporto tra le potenze regionali (6).

L’Afghanistan ha avuto una funzione trascinante sulla gioventù saudita, e i diplomatici statunitensi non cercarono di nascondere questo aspetto del conflitto. Rispondendo alla rivoluzione islamica iraniana, che minacciava la leadership saudita, la guerra in Afghanistan ha permesso all’Arabia Saudita di deviare il malcontento dei giovani dal problema palestinese, a quello anti-comunista (7), ammise, in seguito, senza mezzi termini l’ambasciatore USA a Riad, Chass Freeman. I finanziamenti per la jihad anti-sovietica sarebbero, di per sé, andati a carico del bilancio saudita, con un importo sostanzialmente pari al finanziamento concesso dall’Arabia Saudita ai “/paesi del campo di battaglia/”, Egitto, Siria e OLP (8), come contributo allo sforzo di guerra arabo.

L’Islam wahhabita, che aggregava i leader arabi sunniti in una alleanza filo-statunitense (i principati del Golfo, la Giordania, Egitto, Marocco, Tunisia), indicati dal termine popolare colla definizione sprezzante di “Arabi d’America” (A/rab Amérika/) -l’asse della moderazione per gli occidentali- si lascerà così soppiantare sul proprio terreno, l’islam combattente, dai nazionalisti islamici, il libanese Hezbollah, Hamas e la Jihad palestinesi. Feconda, l’alleanza Arabia-USA nella guerra contro l’Unione Sovietica in Afghanistan (1980-1989), ha certamente accelerato l’implosione del blocco comunista, ma col loro allineamento incondizionato con gli Stati Uniti, sostenendo il miglior alleato strategico del loro nemico principale, Israele, (nonostante l’aggiunta del disprezzo che gli statunitensi hanno mostrato verso le loro aspirazioni, i fautori dell’Islam politico, principalmente l’Arabia Saudita, l’Iran imperiale della dinastia Pahlavi, il Marocco e l’Egitto di Sadat) hanno devastato l’area, evidenziandone la sua dipendenza e il suo ritardo tecnologico. Peggio ancora, la presa statunitense in Iraq, che l’Arabia ha incoraggiato, ha promosso la nascita del potere sciita nella ex capitale dell’impero abasside, facendo planare sull’Arabia Saudita, attraverso la sua affiliazione con l’Iran di Khomeini, il rischio di cadere in una trappola sciita.

L’alleanza esclusiva dell’Islam sunnita con gli USA, che ha assicurato la pace del trono wahabita durante un mezzo secolo tumultuoso, finora non ha garantito la sua sopravvivenza futura. L’Arabia Saudita sarebbe riuscita nell’impresa di ottenere il rispetto del mondo musulmano, senza sparare un colpo verso Israele, senza ottenere alcuna concessione da parte degli statunitensi sul problema palestinese, mentre si applicano metodicamente a distruggere le vestigia del nazionalismo arabo.

Ma il regno, che aveva lanciato due piani di pace per risolvere il conflitto arabo-israeliano (Piano Fahd, nel 1982, Piano Abdullah, 2002), senza la minima eco sia statunitense, che israeliana, non deviò mai dalla sua linea, nonostante questo rifiuto, probabilmente dovuto al fatto che, a livello subliminale, la dinastia wahhabita è stata la principale beneficiaria del sabotaggio operato per 30 anni dagli statunitensi e dagli israeliani, per ridurre la resistenza del nocciolo duro del mondo arabo-islamico: la neutralizzazione dell’Egitto da parte del trattato di pace con Israele (1979), la distruzione dell’Iraq (2003), lo strangolamento della Siria (2004), la ‘/caramellizzazione/’ della Libia (2005), l’isolamento dell’Iran (2006), al punto che Israele è, in definitiva il migliore alleato oggettivo dei wahhabiti, la rara combinazione di due regimi teocratici in tutto il mondo, no essendo lo Stato ebraico democratico che per la frazione ebraica della sua popolazione. In questo contesto, l’organizzazione clandestina al-Qaida di Usama bin Ladin e la rete transnazionale araba /Al-Jazeera/, appaiono, in retrospettiva, come delle escrescenze ribelli all’egemonia saudita sull’ordine interno Arabo, sia in politica che nei media.

L’arma del petrolio che ha brandito durante la guerra di ottobre del 1973, se ha portato un notevole prestigio nel mondo arabo musulmano e ripristinato un equo prezzo del carburante, in cambio ha indebolito le economie in particolare dell’Europa e del Giappone, alleati naturali nel mondo arabo. Il proselitismo religioso che ha schierato in Asia centrale, nelle ex repubbliche sovietiche musulmane, ha tagliato la strada per un’alleanza con la Russia, facendo spazio all’egemonia USA. Un camuffamento supplementare che riflette gli errori della strategia saudita e il suo impatto negativo sullo spazio arabo, il wahhabismo che ha lottato instancabilmente contro l’Unione Sovietica, ridiventata l’eterna Russia, vede profilare, con il pretesto della lotta contro il terrorismo, un pericoloso movimento a tenaglia, che può chiudersi con la tacita alleanza tra la Russia, Israele e gli Stati Uniti, per gli attentati commessi dai seguaci dell’Arabia Saudita, dagli islamisti di Al-Qaida in Occidente e dai separatisti ceceni in Russia e Ossezia. Colmo del cinismo che rivela comunque una grande paura: l’apertura della prima conferenza mondiale sul terrorismo, il 5 e 6 febbraio 2005, a Riad. Che una tale conferenza si tenesse in casa della Jihad Islamica, dove i finanziatori principali a livello mondiale dei movimenti islamici, quattro anni dopo il raid anti-Usa del settembre 2001, hanno ottenuto la cauzione dell’Occidente per una tale operazione di riabilitazione, da la misura della confusione dei leader wahhabiti e dei loro sponsor statunitensi.

L’Arabia Saudita è prigioniera e vittima delle sue scelte.

Umiliazione suprema è il fatto che il presidente USA George W. Bush, ex dipendente delle società Saudite, è stato il più fermo sostegno del Primo Ministro di Israele più aggressivo, in nome proprio del fondamentalismo religioso, avallando anche il confinamento di Yasser Arafat, il leader legittimo del popolo palestinese, e riconoscendo il diritto di Ariel Sharon di modificare unilateralmente il tracciato dei confini internazionali, in spregio della legalità internazionale. La risposta più lancinante a questa cecità potrebbe essere, simbolicamente, la scelta obbligata di dover rassegnarsi a denominare il proprio nuovo canale televisivo pan-arabo “Al Arabia”, un termine che aveva bandito dal suo lessico diplomatico per mezzo secolo, riprendendolo adesso a malincuore, nella speranza di essere ascoltato di fronte alla concorrenza, con tono meno sottomesso all’ordine statunitense. Questo paese che ha consacrato la maggior parte dei suoi sforzi a combattere, più di ogni altro paese, il nazionalismo arabo, fino a stabilire l’Organizzazione della Conferenza Islamica (OIC), una struttura diplomatica parallela e concorrente alla Lega Araba, che evolse, stranamente, a campione dell’arabismo a seguito della sconfitta militare israeliano in Libano, nell’estate del 2006, con grande stupore di quasi tutti gli osservatori internazionali. L’apostolo della fratellanza islamica per mezzo secolo, il paese la cui bandiera mostra il credo cardinale dell’Islam, accusò , senza vergogna, la Siria di aver fatto un patto con l’Iran, l’antica Persia, un paese musulmano ma non arabo, lasciando planare la minaccia di una nuova guerra di religione tra sunniti e sciiti, arabi e musulmani non-arabi, un comportamento che assomiglia a una mistificazione, illustrazione patetico della confusione del Regno.

*Tra la dinastia wahhabita e Bin Ladin, la battaglia nell’ordine simbolico di un conflitto di legittimità*

Il coinvolgimento di un membro della cerchia familiare del principe Bandar bin Sultan, figlio del ministro della Difesa e presidente del Consiglio nazionale di sicurezza, nella riattivazione dei simpatizzanti di Al-Qaida in Siria e nel Libano del Nord, nella regione del campo palestinese di Nahr el-Bared, ha dimostrato il grado di infiltrazione dei circoli pan-islamisti nella cerchia dei governanti sauditi, mentre mina il Regno nei confronti dei suoi interlocutori sia arabi che statunitensi. Sheikh Maher Hammoud, un muftì sunnita della moschea “/Al Quds/” di Saida (sud del Libano), ha apertamente accusato il principe Bandar, dalla rete /Jazeera/, sabato 26 giugno 2010, di finanziare i disordini in Libano, in particolare contro le aree cristiane, portando gli USA a dichiarare “/persona non grata/” Bandar, l’ex beniamino degli Stati Uniti, il “/Grande Gatsby/” dall’establishment statunitense.

Circostanza aggravante, la disgrazia di Bandar sarebbe correlata a informazioni che affermano che egli ha l’intenzione di impegnarsi in un colpo di stato contro l’establishment saudita, per infrangere la legge della primogenitura che disciplina le regole alla successione dinastica in Arabia. Ciò prevede l’accesso al potere del decano della generazione più anziana. Il gruppo dirigente saudita conta molti gerontocrati, compresi alcuni in posizioni chiave, che soffrono di malattie debilitanti: il principe ereditario Sultan, ministro della Difesa, il ministro degli esteri, principe Saud al Faisal e il Governatore di Riyadh, principe Salman, mentre novecento nipoti scalpitano con impazienza per saltare nei posti di responsabilità, in un clima di intensa concorrenza. La congiura, concepita con l’aiuto di alti ufficiali della base aerea di Riyadh, sarebbe stata alimentata dai servizi segreti russi. L’operazione doveva avvenire a fine 2008, durante la guerra di Gaza, durante la transizione di poteri tra George Bush jr e il democratico Barack Obama. Con il sostegno di neo-conservatori statunitensi, di cui il principe saudita era un amico stretto, la transizione doveva, nello spirito dei suoi promotori, ridurre il divario generazionale del paese, in cui il 75 per cento della popolazione ha meno di 25 anni anni, mentre la classe dirigente ha un numero significativo di ottantenni. Il fatto che gli Stati Uniti, che controllano il regno con una rete di circa 36 posizioni dell’FBI e della CIA, non avesse avvisato il potere, da la misura della cautela statunitense.

Yemen e Iraq, due paesi confinanti con l’Arabia Saudita, avrebbero costituito i due baluardi della difesa strategica del Regno, il primo nel sud, il secondo a nord dell’Arabia Saudita. E’ in questi due paesi che l’Arabia Saudita ha cominciato la lotta per garantire la continuità della dinastia, in due occasioni negli ultimi decenni, Lo Yemen che è servito da campo dello scontro tra repubblicani e monarchici arabi, al tempo della rivalità Faisal-Nasser negli anni ’60, e l’Iraq, teatro dello scontro tra sciiti rivoluzionari e sunniti conservatori, al tempo della rivalità Saddam Hussein- Khomeini negli anni ’80. Questi due paesi costituiscono, ormai, una fonte di pericolo, con l’eliminazione della leadership sunnita in Iraq, e con la reintroduzione di al-Qaida, nello Yemen, nel gioco regionale. L’inserimento di al-Qaida nella penisola arabica dallo Yemen, in questo contesto è una sfida di grande importanza. L’ancoraggio di una organizzazione principalmente sunnita, l’escrescenza del rigorismo wahhabita, sul fianco meridionale dell’Arabia Saudita, porta il segno di una sfida personale di bin Ladin agli ex padroni, poiché porta sul posto stesso della loro antica alleanza, la lite sulla legittimità tra la monarchia e il suo ex agente. Potrebbe avere un effetto destabilizzante sul regno, dove vive quasi un milione di lavoratori yemeniti. L’allarme è stato ritenuto abbastanza serio da condurre il re Abdullah ad impegnare le sue forze nei combattimenti in Yemen, nell’autunno del 2009, accanto alle forze governative, e ad attenuare la disputa con la Siria, incitando il suo uomo ligio in Libano, il nuovo primo ministro libanese Saad Hariri, a riprendere il cammino per Damasco.

In tutti gli aspetti, la strategia saudita, sia nei confronti del mondo musulmano che dell’Iraq è un caso esemplare di suicidio politico. La partecipazione di quindici sauditi su 19 all’incursione di al-Qaida contro gli Stati Uniti, l’11 settembre 2001, come negli attacchi mortali che hanno colpito Riyadh il 12 maggio 2003, un mese dopo la caduta di Baghdad, uccidendo 20 morti, tra cui 10 statunitensi, hanno suonato un campanello d’allarme come forma di avvertimento. Adulato all’eccesso, il regno è ora oggetto di sospetti quasi universale da parte dell’opinione pubblica occidentale, e la sua strategia è criticata in tutta l’arabo.

*Il re dell’Arabia Saudita, un pompiere incendiario *

Sponsor originale dei taliban in Afghanistan, l’Arabia Saudita si dice sia stata la finanziatrice principale del programma nucleare pakistano, in cambio dell’assistenza fornita dal Pakistan nella supervisione della forza aerea saudita, che ha fornito per 20 anni l’addestramento ai suoi piloti e la protezione del suo spazio aereo. Un buon affare, simbolicamente materializzato dal nome della terza città di Faisalabad, in Pakistan, l’ex Lyallpur, in omaggio al contributo di Re Faisal di Arabia nella composizione delle controversie tra il Pakistan, secondo più grande paese musulmano dopo l’Indonesia, e il Bangladesh, durante la secessione della sua ex provincia, sotto la guida dello sceicco Mujibur Rahman, leader della /Lega Awami/ (10). Nonostante queste forti analogie, in particolare il patrocinio congiunto del regno saudita al miliardario saudita libanese e al Pakistan, come i loro posizionamenti simili in termini di geopolitica degli Stati Uniti; Rafik Hariri avrà diritto ad un tribunale internazionale speciale, per giudicare i suoi presunti assassini, ma non Benazir Bhutto, di cui è stata decimata tutta la dinastia. In questa prospettiva, il destino di Benazir Bhutto è stranamente simile a quello dell’ex primo ministro libanese Rafik Hariri e a quello dell’ex presidente egiziano Anwar Sadat, assassinato nel 1981, e all’effimero presidente del Libano Bashir Gemayel, leader delle milizie cristiane, assassinato nel 1982. I leader più utili alla diplomazia israeliano-statunitensi, più da morti che da vivi.

Al culmine della diplomazia saudita, in seguito all’invasione dell’Iraq nel 2003, i due leader arabi, Hariri (Libano) e Ghazi al Yaour (Iraq) che si sono trovati contemporaneamente al potere nei rispettivi paesi, erano titolari della nazionalità saudita. In questo contesto, non è irrilevante notare che Rafik Hariri è stato assassinato nei quindici giorni che seguirono l’elezione di un curdo, Jalal Talabani, a capo dell’Iraq, e l’attribuzione a un sciita della presidenza del Consiglio dei Ministri, scartando un sunnita dal governo della ex capitale abasside, su cui sventolava, d’altronde, all’epoca, il nuovo emblema iracheno disegnato dal proconsole Paul Bremer, dai colori curdo-israeliani (blu-bianco e giallo-bianco). Cosa che, inoltre, innescò un’ondata senza precedenti di attacchi contro i simboli dell’invasione statunitense dell’Iraq e dei suoi alleati regionali.

Pompiere piromane, il monarca ottuagenario (86 anni), al potere da quindici anni, si trova all’epicentro di un conflitto che ha continuato ad alimentare, e con cui potè avallare l’invasione statunitense dell’Iraq, con ripercussione l’eliminazione dei sunniti del potere centrale, con il ruolo pioniere del falso testimone siriano presso gli investigatori internazionali, Zuhair Siddiq, un factotum del generale Rifa’at al-Assad, zio e rivale del presidente siriano Bashar al_Assad, e soprattutto cognato del re dell’Arabia Saudita, per destabilizzare il presidente libanese Emile Lahoud e sostituirlo con il secondo cognato del re, il deputato libanese Nassib Lahoud.

Sfidato sul fianco meridionale, nello Yemen, dalla principale organizzazione fondamentalista sunnita del mondo musulmano, dalle dimensioni planetarie, al-Qaida, escrescenza ribelle del modello wahabita, il re Abdullah è contestato dall’equazione rappresentata dalla gloriosa storia militare di /Hezbollah/, la principale organizzazione paramilitare del Terzo Mondo, di osservanza sciita. Abdullah appare come l’apprendista stregone di una questione che lo trascende, il demiurgo di questioni che lo sovrastano sia in Iraq che in Libano, prima che in Afghanistan. In questa prospettiva, l’affare del secolo concluso nel settembre 2010 tra Arabia Saudita e Stati Uniti, di circa 90 miliardi di dollari in armi, tra cui quasi trecento aerei e missili, mira ufficialmente a rafforzare il Regno nei confronti dell’Iran, non d’Israele, potenza nucleare che occupa Gerusalemme, il 3° luogo santo dell’Islam, ma anche e soprattutto a consolidare la dinastia nel suo ruolo di gendarme regionale, mentre i due paesi baluardo dell’Arabia (Yemen e Iraq) sono destabilizzati e l’arco dell’Islam, che va dalla Somalia all’Indonesia attraverso l’Asia Centrale e il Golfo, diviene il nuovo centro di gravità strategico del pianeta, con l’emergere di Cina e India e il loro accerchiamento dell’Occidente dall’Africa.

Indice complementare del suo vassallaggio, il nuovo contratto militare da 90 miliardi di dollari, firmato tra Stati Uniti e Arabia Saudita.

Il più grande affare d’armi nella storia mira a “rafforzare la capacità combattiva del Regno contro l’Iran”, senza porre rischi su Israele. Gli aerei sauditi saranno privati delle armi a lungo raggio, per garantire lo spazio aereo israeliano e le loro prestazioni, sia in termini di attrezzature come di maneggevolezza, saranno in ogni caso, meno potenti del nuovo velivolo che gli Stati Uniti prevedono di vendere a Israele, i 20 caccia-bombardieri F-35 /Lightning II/ (JSF-35), il super-bombardiere da superiorità tecnologica, il cui enorme costo unitario ammonta a 113.000.000 di dollari ciascuno.

Così, con un sotterfugio che gli scienziati politici statunitensi definiscono nella voce “Politica della paura”, la politica dell’intimidazione, che consiste nel presentare l’Iran come uno spauracchio, per cui l’Arabia Saudita è costretta a creare, non una difesa a tutto tondo, ma una posizione di difesa contro l’Iran, che rafforzi il regno “/contro l’Iran/”, potenza sulla soglia nucleare, e non Israele, una potenza nucleare completa e, inoltre, potenza occupante di Gerusalemme, il terzo luogo santo dell’Islam. In totale, l’ammontare degli accordi militari tra le monarchie petrolifere del Golfo e gli Stati Uniti, nel 2010-2011, sarà pari a 123 miliardi di dollari. Il resto sarà diviso tra Emirati Arabi Uniti, Kuwait e il sultanato di Oman, che sbloccheranno, nei quattro, una somma colossale per ridurre la disoccupazione negli Stati Uniti, mantenere un bacino di lavoro di 75.000 posti in cinque anni e giustificare, sotto l’apparenza di un falso equilibrio, una transazione qualitativamente superiore tra gli Stati Uniti e Israele.

Settantotto anni dopo l’indipendenza, la triade su cui è stato stabilito il regno (Islam, Petrolio e wahabismo) sembra assumere una nuova configurazione. Se l’Islam, la sua rendita di posizione, è assicurata per sempre, il petrolio è destinato a prosciugare o degradare a causa delle energie alternative, come anche la dinastia wahhabita, a meno di una sfida della sua visione monolitica dell’Islam e del mondo, dalla sua concezione dello Stato e dei suoi rapporti con i cittadini, del suo rapporto con la realtà col mondo arabo, non composto solo da musulmani, o da soli sunniti, o da soli arabi (curdi e cabili), ma anche dagli arabi sciiti spesso patrioti, e da patrioti non sempre musulmani (arabi cristiani), non sempre necessariamente in permanente stato di prostrazione davanti gli Stati Uniti d’America, e ai suoi benefici e danni.

La famiglia reale saudita ha seguito un percorso curioso per rimanere al potere, il perfetto contro-esempio negli annali della geopolitica mondiale.* *Avendo troppo manipolato i suoi alleati islamici, si è indebolita, dando loro la possibilità di rivoltarsi contro il loro ex mentore. Strumentalizzando le sue formazioni pan-islamiche in operazioni diversive (Afghanistan) o di destabilizzazione (Siria, Egitto e Algeria), senza mai rinnegarle o controllarle, l’Arabia Saudita si troverà caricata dal peso negativo della distruzione islamista dei Buddha di Bamiyan da parte dei Taliban, degli attacchi anti-USA dell’11 settembre 2001, sottoposta al sospetto dell’opinione pubblica occidentale e alla vendetta dei suoi ex protetti islamisti.

Come spiegare un simile comportamento? Che i leader abbiano potuto, in un periodo così lungo, confinarsi nel ruolo di subappaltatori, accettando di correre alla cieca in un combattimento contro dei nemici, assegnatili dai loro tutori, senza accennare a un momento di esitazione, a un lampo di orgoglio nazionale? Amputarsi consapevolmente di alleati naturali, senza sollevare la questione della compatibilità con l’interesse nazionale? Condannare l’avanguardia rivoluzionaria araba, sacrificarla per la soddisfazione degli interessi stranieri, senza entrare nel merito della fondatezza di una tale politica? A quale logica risponde un tale comportamento singolare. Follia o megalomania? Machiavellismo o cinismo servile? Incoscienza o aberrazione mentale? Postura o impostura? Quasi quaranta anni dopo i fatti, la rilevanza di una tale politica non è stata provata, ma si è rivelato un dato di fatto che “/ci sia qualcuno peggio del boia: il suo servo/”(9). Una frase su cui riflettere mentre il Regno, banca centrale del petrolio, pianifica per la prima volta nella sua storia, di mettere fine alla ricerca di idrocarburi nel suo sottosuolo, al fine di salvare la sua ricchezza, in modo da trasmetterla “/alle generazioni future/”(10), mentre la sua ricchezza rischia di prosciugarsi, e di conseguenza la sua impunità, proprio mentre la Cina è pronta a sfidare la leadership globale degli USA.

*Riferimenti *

7 – Precisazioni di Chass Freeman, ex ambasciatore statunitense in Arabia Saudita (1989-1993) basato sulla funzione deviante della guerra in Afghanistan verso la gioventù saudita dal problema palestinese, al centro del documentario di Jihane Tahri

8 – “/Una Guerra Empia. La CIA e l’estremismo islamico (1950-2001)/” di John Cooley, un ex corrispondente dal Medio Oriente per il quotidiano di Boston Christian Science Monitor e ABC News. Edizioni Eleuthera, 2001.

9 – Definzione del conte Honoré Gabriel de Mirabeau (1749-1791), uno degli oratori più brillanti della Rivoluzione francese, autore di «/Essai sur les lettres de cachet et les prisons d’état/».

10– Cfr. Le Monde 7 luglio 2010 «/Le roi Abdallah annonce l’arrêt de l’exploration pétrolière en Arabie Saoudite/». Un freno in più (e notevole) per rallentare il declino della produzione mondiale.

L’Arabia Saudita, primo produttore mondiale di petrolio, avrebbe messo fine alla esplorazione sul suo suolo, al fine di salvare la sua ricchezza e trasmetterla alle generazioni future, secondo una dichiarazione da re Abdullah in data 1° luglio. L’annuncio è stato dato a Washington davanti a degli studenti sauditi, dice l’agenzia di stampa ufficiale saudita. Pronunciato due giorni dopo un incontro tra il re saudita e il presidente Barack Obama, suona come un avvertimento. L’arresto dello sviluppo di nuovi campi petroliferi in Arabia Saudita, rischia di complicare ulteriormente il futuro della produzione mondiale di petrolio, di fronte all’aumento della domanda. Infatti, l’Arabia Saudita da sola detiene il 20% delle riserve mondiali di oro nero. Temperando il disagio innescato dal bando, un ufficiale del ministero saudita del Petrolio ha detto all’agenzia /Dow Jone/s, che la dichiarazione dell’organismo non significa una decisione definitiva, “/ma in realtà voleva dire che le esplorazioni future dovrebbero essere condotte con saggezza/”, dice il Financial Times. Il quotidiano economico londinese ha detto che la compagnia petrolifera nazionale saudita Aramco, dovrebbe compiere oggi delle prospezioni nel Mar Rosso e nel Golfo Persico.

Traduzione di Alessandro Lattanzio

 

 


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Deutsch im Elsass und in der Tschechei

Deutsch im Elsaß und in der Tschechei

Von Thomas Paulwitz

Ex: http://www.jungefreiheit.com/

Strasbourg15.jpgIn der Regel hat es die deutsche Sprache im Osten leichter als im Westen. Die Zahl derjenigen, die Deutsch als Fremdsprache lernen, sinkt in den westlichen Ländern schneller als in den östlichen. Eine Ausnahme bilden offenbar Frankreich und die Tschechische Republik. Im Elsaß zum Beispiel gibt es kräftige sprachpolitische Maßnahmen, das Deutsche zu fördern, während die tschechische Regierung den Einfluß der deutschen Sprache zugunsten von Englisch systematisch eindämmt.

Bemerkenswert ist in beiden Fällen, daß die Frage der Identität eine entscheidende Rolle spielt. Ausgerechnet der fortgeschrittene Verlust des Bewußtseins, daß das Elsaß historisch zum deutschen Sprach- und Kulturraum gehört, ermöglicht eine Wiederbesinnung auf die deutsche Sprache. Denn die wirtschaftliche Anziehungskraft der Bundesrepublik wird nunmehr wichtiger genommen als die kulturelle Absetzbewegung nach Frankreich. In elsässischen Tageszeitungen enthalten siebzig Prozent der Stellenangebote den Hinweis, daß der Arbeitgeber Deutschkenntnisse voraussetzt.

Elsässischer Werbefeldzug für Deutsch

Folglich erklärt Philippe Richert, der Präsident des elsässischen Regionalrats: „Das Beherrschen der deutschen Sprache ist für unsere Region längst nicht mehr nur eine Identitätsfrage. Deutschkenntnisse sind ein ausschlaggebender wirtschaftlicher Trumpf.“ Zwei Drittel der elsässischen Schüler und fast alle Grundschüler der 3. bis 5. Klasse lernen Deutsch. Zehn Prozent der Grundschüler werden sogar in zweisprachigen Klassen unterrichtet. Doch das erscheint vielen noch nicht als genug. Daher werben mittlerweile die Behörden für das Lernen der deutschen Sprache. Die Mittel für den Werbefeldzug wurden von 2009 auf 2010 auf 190.000 Euro verdreifacht. Das Werben für Deutsch wird von den wichtigsten politischen Instanzen gemeinsam mit der Straßburger Schulbehörde getragen.

Ganz anders sieht es in der Tschechischen Republik aus. Die dortige Regierung will sich in ihren sprachpolitischen Entscheidungen offenbar noch weiter von Deutschland entfernen. Anfang August beschloß das Parlament auf Vorschlag des rechtskonservativen Ministerpräsidenten Petr Nečas, daß Deutsch künftig nicht mehr als erste, sondern frühestens als zweite Fremdsprache gelehrt werden darf. Der Koalitionsvertrag legt außerdem fest, daß ab 2012 Englischunterricht ab der dritten Klasse verpflichtend ist. Bereits jetzt lernen schon 618.000 Schüler Englisch, aber nur noch 111.000 Deutsch.

Deutsch als erste Fremdsprache in der Tschechei verboten

Wirtschaftliche Gesichtspunkte haben bei der Entscheidung der Prager Regierung offenbar keine Rolle gespielt, denn Deutschland ist der größte ausländische Investor. Der Handel mit der Bundesrepublik macht fast ein Drittel des gesamten Außenhandels der Tschechischen Republik aus. Die Leiterin der Spracharbeit des Prager Goethe-Instituts befürchtet, daß die tschechischen Schüler im späteren Berufsleben ohne Deutschkenntnisse Schwierigkeiten haben werden. Da erscheint es als wirtschaftlich wenig sinnvoll, die Bürger vom Deutschunterricht abzuhalten.

Es scheint also so zu sein, daß man sich in Prag lieber der Amerikanisierung an den Hals wirft, als die Standortvorteile zu nutzen, zu denen die derzeit noch verbreitete Kenntnis der deutschen Sprache gehört. Ein Leser tadelt auf der Facebook-Seite der Deutschen Sprachwelt die Prager Entscheidung: „Meines Erachtens sollte man überall in Europa Englisch als 1. Fremdsprache verbieten. Wer diese erste Fremdsprache lernt, lernt keine zweite. Es handelt sich nicht um ein Bildungsprogramm, sondern um ein Kulturassimilierungsprogramm.“