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dimanche, 28 septembre 2014

Tutto il pensiero in versi dell'antifilosofo Valéry

 
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Paul Valéry è l'intelligenza più acuta del '900. Era un poeta, un filosofo, uno scienziato, uno scrittore, un giornalista o che? Valéry era un'intelligenza pura, e usava sia l'emisfero destro dell'intuizione che l'emisfero sinistro dell'analisi, penetrando il linguaggio e il pensiero.

La sua può definirsi proprio filosofia dell'intelligenza, tesa a comprendere il mondo; l'idealismo e il realismo, lo spiritualismo e il materialismo, il positivismo e il nichilismo, e ogni «ismo» che ci viene in mente, regrediscono a fantasmi, o a sciocchezze, come lui diceva, perché in Valéry c'è la tensione a capire i fenomeni e i noumeni, le cose reali e le cose pensate. Senza umanesimi né filosofemi.

È uscita di recente la prima vera biografia filosofica di Paul Valéry. La scrisse nel 1971, centenario della sua nascita, un filosofo vero, Karl Lövith, e fu il suo ultimo libro prima di morire nel '73. È bello vedere un filosofo d'accademia, già sulle tracce di Nietzsche e Heidegger, chinarsi a cogliere i frutti dell'antifilosofo Valéry e ritenerli più gustosi di quelli offerti dai filosofi di professione. Lovith non azzarda critiche ma ne espone il pensiero, notando che è «il pensatore più libero e più indipendente», più attuale e più inattuale. I Quaderni di Valéry sono uno spettacolo unico dell'intelligenza, il pensiero di una vita, un lavorìo geniale di osservazione e penetrazione durato più di mezzo secolo; cominciato quando aveva vent'anni, e finito oltre i settant'anni, con la sua morte, nel 1945, quando la metà tremenda del Novecento volgeva alla fine. Non è un diario - «mi annoierebbe troppo scrivere quello che intendo dimenticare» - né un emporio di opinioni, ma un lavoro necessario e inutile, come la tela di Penelope, un puro esercizio mentale applicato a osservare il mondo nel suo versante visibile e nel suo versante invisibile. «Avevo vent'anni e credevo alla forza del pensiero - scrive Valéry -. Stranamente soffrivo di essere e di non essere... Ero tetro, leggero, facile alla superficie, duro al fondo, estremo nel disprezzo, assoluto nell'ammirazione».

Non sposa nessun dio, nessun io, nessuna rivoluzione, nessun progresso e nessuna tradizione, né li demolisce. Valéry non ha una sua teoria, e tantomeno un sistema, è puro occhio pensante e voce poetante. Scrive oltre 26mila pagine, 261 quaderni, dalle 5 alle 8 del mattino quando gli sembra «di aver già vissuto con la mente tutta una giornata, e guadagnato il diritto di essere stupido fino alla sera». È quella l'ora al servizio della mente, il primo momento del giorno, «ancora puro e distaccato, poiché le cose di questo mondo, gli avvenimenti, i miei affari non s'impicciano ancora di me». Bisogna tentare di vivere, in raccolta solitudine. «Noi siamo il giocattolo di cose assenti che non hanno nemmeno bisogno di esistere per agire».

Valéry seguì il cammino della poesia assoluta di Mallarmé, ben sapendo che il poeta è il personaggio più vulnerabile della creazione, «cammina sulle mani». Gli dei, sostenne, ci concedono la grazia del primo verso, poi tocca a noi modellare il secondo. Valéry ritenne l'idea della morte la molla delle leggi, la madre delle religioni, l'agente della politica, l'essenziale eccitante della gloria e dei grandi amori, l'origine di tante ricerche e meditazioni. Senza di lei, la vita nuda è pura noia. Noi umani «ansiosi di sapere, troppo felici d'ignorare, cerchiamo in quel che è un rimedio a quel che non è, e in quel che non è un sollievo a quel che è». Sintesi perfetta della nostra imperfezione.
Lo splendore della sua intelligenza si acuisce nei suoi appunti dedicati all'amore, ai corpi, ai sogni. Il cammino del pensiero si accompagna alla musica che «desta e assopisce i sentimenti, si prende gioco dei ricordi e delle emozioni di cui sollecita, mescola, intreccia e scioglie i segreti comandi». Se i Quaderni, usciti in cinque volumi da Adelphi, sono la spina dorsale dell'opera di Valéry, le sue opere poetiche, incluso il poema Il cimitero marino, ne costituiscono il canto. E poi i suoi sparsi scritti, raccolti in antologie e florilegi di aforismi. Restò celebre di Valéry il richiamo alla fine delle civiltà in La crisi del pensiero: «Noi le civiltà ora sappiamo che siamo mortali», scrisse nel 1919. Così Valéry fu iscritto nella letteratura della crisi, avviata da Il tramonto dell'Occidente di Spengler. Nato a Cetty da gente di mare, metà còrso e metà italiano, Valéry colse le tre fonti dell'Europa nella Grecia, in Roma e nella cristianità e trovò nel Mediterraneo il cuore pensante dell'Europa. Per Valéry la nostra epoca è segnata dalla fine della durata, l'avvento del provvisorio e dell'ubiquità, il dominio dell'istante. Per sfuggire a questa tirannide non resterà che costruire chiostri rigorosamente isolati dai media e dalla realtà circostante: «è lì che in determinati giorni si andrà a osservare, attraverso le grate, alcuni esemplari di uomini liberi». Il Medioevo venturo.

Poi c'è il lato occultato di Valéry: il suo elogio della dittatura, in una prefazione a un libro di Salazar, «risposta inevitabile dello spirito quando non riconosce più nella conduzione degli affari, l'autorità, la continuità, l'unità». La visita a Mussolini e poi sulla scia della visione fascista, la fondazione del centro universitario mediterraneo nel '33, come scrive suo figlio François introducendo il taccuino I principi d'an-archia pura e applicata (uscito nell'82 da Guerini e Associati). Vicino a Pétain e poi a de Gaulle, Valéry si sentiva «di sinistra tra quelli di destra, di destra fra quelli di sinistra», anarchico e antipartitico - «più un uomo è intelligente, meno appartiene al suo partito» -, «di nessun colore politico. Io amo solamente la luce bianca». Difatti il pensiero di Valéry non dispensa tesi ma culmina nella luce bianca del Mediterraneo. Non condensa il pensiero in un testo ma nel paesaggio e nelle sue «tre o quattro divinità incontestabili: il Mare, il Cielo, il Sole». La verità esce dalla mente, dai libri e dal tempo e abita quello spazio luminoso. E tuttavia, anche là dove l'umano attinge la sua gioiosa perfezione, nell'armonia col paesaggio e nel ristoro dell'acqua e della luce, la mente non s'abbandona; e avverte che il sole illumina il mondo tramite un atroce dolore: «il tuo bagliore è un grido acuto, e il tuo supplizio brucia i nostri occhi». Lo splendore sorge dal dolore: la gioia della luce ha una fonte dolorosa. Il mistero del sole: nel suo fulgore, il poeta coglie l'incanto divino della luce, il pensatore penetra l'essenza tragica del mondo.

(Il Giornale, 12/11/2012)

samedi, 27 septembre 2014

Les douze plaies de la France

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Les douze plaies de la France

Par Guillaume Faye

Ex: http://www.gfaye.com

Bien sûr, la France a encore de beaux restes. Mais pour combien de temps encore ? La dégradation de la vieille Nation, mal entretenue, mal gouvernée et envahie se poursuit inexorablement. Voici les douze plaies qu’on peut diagnostiquer. Après, j’expliquerai pourquoi il ne faut pas désespérer.

1 Immigration de masse qui modifie le paysage anthropologique millénaire. Il s’agit d’une colonisation de peuplement (par le bas) qui risque d’aboutir à un remplacement de population, donc à terme, à la fin de la France, sur les plans anthropologique, culturel et même linguistique. Cette colonisation est au mieux ignorée, au pis favorisée (pompe aspirante des aides sociales,  inexpulsabilité, régularisations, naturalisations etc.) par les élites politiques, avec la complicité du système judiciaire.

2 Islamisation rampante de la société qui bouleverse l’identité culturelle et qui a pour finalité, conformément à la logique universelle de l’islam, la conquête totale du pays. Sur fond d’aveuglement et de déni des élites, voire souvent de complicité collaborationniste (ethnomasochisme). L’ignorance profonde de la nature de l’islam (l’inculture des énarques) est la toile de fond du système mental de nos dirigeants politiques et médiatiques. 

3 Économie étatisée, socialisée, endettée, surfiscalisée, fabrique de chômage de masse, de désindustrialisation et de récession endémique. Avec baisse du niveau de vie des classes moyennes, dégradation de la productivité et de la compétitivité du tissu économique des PME seul créateur réel de richesses et d’emplois, et poids de plus en plus coûteux de fonctions publiques pléthoriques. Les dirigeants politiques français  et les élus étant en majorité des fonctionnaires, il leur est difficile de comprendre le fonctionnement  de l’économie réelle, c’est à dire de ceux qui gagnent leur vie en produisant  

4 Système éléphantesque d’Éducation publique en plein échec qui n’assure plus la transmission des savoirs, de la culture européenne et des compétences ni l’ascension sociale et la circulation des élites. L’enseignement de l’ histoire de France, dénigrée, est sabordé ; déculturation, déracinement et apologie des cultures immigrées prévalent (xénophilie) Seul l’enseignement privé payant, réservé à la bourgeoisie, reste à niveau. L’enseignement public gratuit produit illettrisme et ignorance, avec un coût de fonctionnement parmi les plus élevés au monde.

 Fuite accélérée à l’étranger des cerveaux, des fortunes, des jeunes forces vives. On estime à deux millions de Français les expatriés. Ils cherchent à échapper à une fiscalité délirante. Leur travail et leurs investissements seront toujours ça de moins pour la France. Les bac +6 sont remplacés par les bac-6.  On n’aime pas les riches ni la réussite : c’est immoral. Les riches iront ailleurs créer des emplois et investir. En France, on restera entre pauvres. Mais la classe politique n’a pas de soucis à se faire, pour l’instant, elle vit sur vos impôts.

6 Criminalité, délinquance, insécurité en hausse quantitative et en extension géographique constantes qui dégradent le cadre de vie. Les deux causes sont l’immigration incontrôlée et le laxisme judiciaire, provoqué par l’idéologie gauchiste de la nouvelle magistrature, appuyée par les instances européennes. Plus la criminalité (étrangère à 90%) augmente, moins on la réprime. C’est la nouvelle ”démocratie” et l’idéologie des ” Droits de l’homme”, qui sont en réalité des machines de guerre contre le peuple de souche.

7. Dégradation de la riposte judiciaire à la criminalité, ce qui l’encourage, avec, pour corollaire paradoxal, le durcissement de la répression pour les Français de souche, en particulier dans le secteur fiscal. Deux poids, deux mesures, même dans le domaine du droit commun : tolérance pour l’étranger, sévérité pour le concitoyen. La criminalité immigrée est objectivement protégée et encouragée par l’État ”français”. La police, démotivée, est inopérante et risque d’être remplacée par des milices d’autodéfense  populaires, brutales et efficaces. 

8. Débandade de l’État souverain, à la fois ligoté par une Union européenne mal conçue et par une soumission déshonorante de sa politique étrangère à Washington. (1) Ce à quoi il faut ajouter les coupes constantes dans le budget de la Défense, qui ont deux effets désastreux : perte progressive de l’autonomie militaire et affaiblissement de l’outil industriel de haute technologie.

9. Liberté d’expression en déclin. Émergence d’un pouvoir répressif néo-totalitaire soft visant à punir ou à marginaliser les opinions dissidentes. La religion idéologique d’État, monopolistique, est intolérante pour qui défend l’identité française et européenne, et tolérante pour qui la combat. Logique ethnomasochiste, et syndrome du collabo, présente depuis longtemps chez les élites françaises. Les grands médias français, écrits ou audiovisuels, soumis au ”politiquement correct”, pratiquent, sauf exceptions, la censure et la fermeture d’esprit. La France est mal classée dans la hiérarchie des pays qui présentent une diversité et une liberté  d’expression publique.

10. Médiocrité de la classe politique, pas au niveau, droite et gauche confondues. L’explication est simple : des incompétents qui font carrière. Députés en majorité fonctionnaires, énarques coupés des réalités dans l’appareil d’État, absence générale de deux choses essentielles : 1) l’amour du pays, de la patrie, dans sa dimension historique, et non pas seulement la drague démagogique envers des électeurs ; 2) la compétence, notamment en matière économique, remplacée par des dogmes idéologiques. Globalement, la carrière politique n’attire plus les vraies élites, mais les intrigants. La classe politique  regroupe ce qu’on  pourrait appeler ” la lie de l’élite”.

11. Effondrement de la créativité culturelle. L’ ”exception culturelle française”, subventionnée par l’État pachydermique, n’accouche que de souris. Le Festival d’Avignon, vitrine brisée, en est la preuve. Subventionner la culture (intermittents du spectacle !), c’est tuer la création, c’est la fonctionnariser. La force culturelle, c’est la liberté. De plus, l’enseignement des savoirs traditionnels disciplinaires (linguistiques, plastiques, etc.) étant abandonné par l’idéologie nihiliste et anarchisante dominante, la créativité futuriste est asséchée. L’arbre ne pousse que sur des racines, l’innovation est fille et n’est fille que de la Tradition.   

12 Faiblesse démographique de la France européenne de souche. On se félicite que la fécondité française soit au dessus de celle nos voisins européens. Illusion. Déjà, en elle-même, elle n’est même pas suffisante pour renouveler les générations. Et surtout, elle est artificiellement haussée par la natalité immigrée. Globalement, la natalité française autochtone décline, comme chez nos voisins européens. C’est là le point le plus important de ce diagnostic, la plaie la plus inquiétante. Car un peuple, une nation ne sont pas des abstractions, des ”idées”. Ce sont des réalités charnelles, c’est-à-dire ethniques, comme d’Aristote à Péguy beaucoup l’ont compris. Ce qui signifie, en terme de réalisme biologique, qu’un peuple qui ne reproduit pas ses générations de souche (et qui, de surcroît, affronte une flux migratoire plus fécond) entame la pente de sa disparition. L’histoire est un cimetière.

Faut-il désespérer ? Non

Il ne s’agit pas d’être stupidement pessimiste ou béatement optimiste mais cyniquement réaliste. La France ressemble à un être qui a d’immenses qualités mises en danger par de terribles défauts ; à un malade qui est touché mais qui peut encore se guérir. Le problème central se résume à ce constat : c’est le peuple français lui-même, dans son tréfonds, et pas seulement dans ses élites, qui creuse sa tombe : idéal fonctionnarisé, culte du travail minimal et du ”petit loisir”, ressentiment  envers la réussite des ”riches”, égalitarisme qui préserve ses propres privilèges corporatistes, tolérance inconsciente envers l’invasion migratoire, propension apeurée à la collaboration avec les envahisseurs, etc.  

 Ce sont les valeurs qui sont en cause. Le mal touche 50% des Français, ce qui est déjà énorme. Pourtant le génie français n’est pas un vain mot, dans tous les domaines. Mais il ne concerne qu’une minorité. Une minorité active qui existe dans toutes les classes sociales. Le génie français (part intégrée du génie européen de tous nos peuples frères) n’est pas mort, il est en danger. Il est menacé à la fois par les envahisseurs et par leurs collaborateurs, chez les élites, les sabordeurs. La France ne peut pas changer tranquillement ; elle doit se reprendre par des révolutions, des crises et non par des réformes. Il faut une rage de dents pour oser aller chez le dentiste.

Mais les choses évoluent et la prise de conscience, donc la révolte de la France profonde sont une possibilité. Le Front National  est un élément de l’équation, mais il n’est pas le seul car l’imprévu peut surgir d’où on l’attendait pas. D’un point de vue, ”dialectique”, dirions nous, l’échec de l’intégration et de l’assimilation est positif. À quelque chose malheur est bon. Le pire eût été que les immigrés se rallient en masse au modèle français, se sentent charnellement français et européens. Au contraire, la réislamisation et les revendications identitaires des immigrés sont positives en ce qu’elles marquent clairement la différence avec le peuple de souche. De même, la prise de conscience d’une cohabitation impossible, notamment avec la criminalité immigrée, peut réveiller le peuple de souche. Les lois sur les logements sociaux obligatoires, durcies à partir de 2015, vont désillusionner les Français et leur faire juger sur pièces l’enfer utopique de la cohabitation ethnique.

Sans le savoir, le gauchisme immigrationniste et islamophile  favorise le réveil de l’identité franco-européenne, y compris dans les classes moyennes supérieures, jadis préservées. L’utopie de l’idée française comme appartenance strictement intellectuelle (ou linguistique) s’effondre. Se rétablit la vieille notion aristotélicienne, d’une justesse solaire, qu’un peuple, qu’une nation, qu’une Cité, bref que l’essence d’une communauté politique et historique sont fondées sur la philia, c’est à dire sur l’appartenance aux mêmes racines ethno-culturelles. Entre parenthèses, De Gaulle avait la même idée ethno-culturelle de la France, ce que les pseudo-gaullistes actuels, occultent.

 En cela, l’idée du Front National (influencé par l’ex-marxiste Alain Soral, créateur de l’association Égalité et Réconciliation) de mettre l’accélérateur sur l’ ”intégration” relève de l’utopie ; et d’une méconnaissance fondamentale de ce qu’est l’islam, qui ne vise ni l’égalité ni la réconciliation mais la soumission. Le fameux génie français est fragile. Si les meilleurs partent et sont remplacés par des bras cassés ou des fanatiques au cerveau de poule, l’avenir sera noir. Ce que je dis là de la  France, « cher pays de mon enfance » est applicable à nos voisins européens. Je suis patriote français et nationaliste européen –y compris pour la Russie, voire même pour l’Amérique du Nord d’origine européenne, projection de l’Europe. Mais c’est un autre débat.

 Quand on y réfléchit, les maux qui nous accablent sont très voisins de ceux qui ont précipité la fin de l’Empire romain. Ce dernier, entre la fin du IIIe siècle et le milieu du Ve a chuté pour trois causes : un État Providence (panem et circenses) dispendieux et créateur d’oisiveté entretenue, une fiscalité de vautours et une impuissance face aux invasions barbares. La seule solution pour la France, c’est, à mon sens, la révolution. Elle procèdera du choc du réel, d’un prise de conscience, d’un ”ras le bol” dans la vie quotidienne. L’hypothèse révolutionnaire est la seule crédible pour la France – et peut-être l’Europe. Seul le chirurgien peut guérir les plaies du malade, pas le psychiatre. La France doit passer au bloc opératoire. C’est dur, douloureux, mais on s’en sort. C’est mieux que de dépérir dans un lit.  La guerre ou la mort.    

(1) Je ne suis pas dogmatiquement anti UE ou anti USA mais seulement critique de manière concrète.

 

 

vendredi, 26 septembre 2014

Rébellion n°65: spiritualité et engagement

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Rébellion n°65:

Spiritualité et engagement

Au sommaire du numéro 65 de la revue Rébellion :

Edito : Théologie de la décomposition.

Dossier Spiritualité et engagement : 

Seule la Tradition est révolutionnaire !

Enquête par Marie Chancel: Spiritualité et militantisme 

un lien entre le Profane et le Sacré ? 

Entretien avec Michel Lhomme : Christ et Révolution, la Théologie de la Libération. 

Réhabiliter la raison ! par David L'Epée. 

Histoire : Harro Schulze-Boysen, un NB dans l'Orchestre Rouge ( suite et fin) 

HP Lovecraft, rêveries contre le monde moderne. 

 

Numéro disponible contre 5 euros ( en chèque, timbres ou liquide) à notre adresse :

Rébellion c/o RSE BP 62124 31020 TOULOUSE cedex 02

 

NATO v. ISIS?

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NATO v. ISIS?

NATO has struck in Iraq. Or, more precisely, two French Rafale warplanes bombed a storage depot in northern Iraq believed to be used by ISIS.

Washington cheered the French attack as the first wave of NATO military operations against the new enemy du jour, ISIS or the Islamic State. French president Francois Hollande, whose abysmal popularity ratings are now lower than Robespierre’s, butcher of the French Revolution, was elated by his show of machismo even if French voters were not.

What the French were really doing, of course, was show-casing their new Rafale fighter. There’s nothing like bombing Arabs to sell military hardware, as Israel has long shown.

Paris has been desperately trying to sell the Rafale, which is a very capable aircraft, to the Gulf Emirates, Saudi Arabia and India. Delhi signed an order for  126 Rafales in 2012 but has yet to implement it.

India knows France is desperate to sell Rafales and has been torturing the French with endless bureaucratic and contract delays while it tries to haggle down the price and improve co-production terms.

Two Rafales hardly mean full-scale NATO intervention in Iraq. Washington has been pressing NATO for decades to act as its gendarme in the Mideast. However, Europeans have been very reluctant to wade into the swamp of Mideast affairs or act as Washington’s native troops the way the Indian Army served the military needs of the British Empire. As the late Bavarian leader Franz Josef Strauss pithily put it, “we refuse to be foot soldiers for the American atomic knights.”

A notable exception was the French-led overthrow of Muammar Khadaffi in Libya. The always intemperate Libyan leader claimed in a 2011 interview that he helped secretly finance the election campaign of French conservative leader Nicholas Sarkozy, who just announced that he will run again for president in 2017.

France, backed by the Obama administration, managed to drag a few other reluctant European nations into the attack on Libya.  French and British special forces led the anti-Khadaffi uprising. Khadaffi’s convoy was bombed by French warplanes (probably Rafales); the Libyan leader was then captured by a mob led by French intelligence agents and murdered.

If NATO and Europe thought it was getting a bonanza of Libyan high grade oil, it was very wrong. What it got was chaos in Libya, jihadist uprisings in Mali and Nigeria, and waves of boatpeople heading for Italy.

Undaunted by this awful mess,  the US is demanding that NATO take a lead role in fighting the Iraq-Syrian ISIS. But the amateur lady strategists in the White House also managed to get themselves in a frightening confrontation with Russia over fragmenting Ukraine.

NATO found itself facing a possible war in East Europe for which it was wholly unprepared. The threat of a nuclear clash suddenly became very real as NATO blundered ever deeper into the Ukrainian crisis.

This left Noble Peace Prize winner Barack Obama  facing major confrontations in Eastern Europe and Mesopotamia – while trying to “pivot” to Asia. While the White House may be hoping that the wily Vladimir Putin will again rescue it from its own folly, as he did over Obama’s threats to attack Syria in 2013,  it seems likely that the US will be quickly drawn ever deeper into the mess in the Levant and Mesopotamia.

Meanwhile, US Secretary of State John Kerry just visited Cairo where he sought to enlist Egypt’ military junta to fight ISIS and possibly take over Libya, a notion that dates from the days of the late Anwar Sadat.

As for NATO, many Europeans wonder why the North Atlantic Treaty Organization still exists, given that it was created at counter the very real threat in the early Cold War years of a Soviet invasion of western Europe.

NATO, says top American strategist Zbig Brzezinski, is the key to American domination of Europe. Washington pays 75% of NATO’s bills. NATO has allowed Europe to skimp on military spending. No wonder Europe is reluctant to get into new Mideast war.

The alliance has grown so feeble that the best President Obama could come up with to counter the alleged Russian threat was a feeble 4,000-man “spearhead” unit, backed by the equally feeble 8-10,000 US military personnel scattered across Europe. The rest of the once mighty 400,000 US garrison in Europe has gone home or is deployed on imperial missions. Russia is not much better off militarily.

There are even voices in Europe calling for abandoning NATO and forming a united European Union military, an idea strongly opposed by Washington. Russia has scared many of these NATO critics back into the arms of the alliance. But once the Ukraine crisis abates, expect renewed calls for Europe to shake off its dependency on the US and embark on an independent course.

Eric Margolis [send him mail] is the author of War at the Top of the World and the new book, American Raj: Liberation or Domination?: Resolving the Conflict Between the West and the Muslim World. See his website.

Copyright © 2014 Eric Margolis

Previous article by Eric Margolis:

jeudi, 25 septembre 2014

L’austérité ou la stratégie de la dépossession

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L’austérité ou la stratégie de la dépossession

Auteur : Laurent Bodenghien
 

Démembrement des acquis sociaux, destruction des services publics, diminution des aides sociales, dégressivité accélérée des allocations de chômage, retardement des départs en pension, coupes en règle sur les budgets de la santé et de l’enseignement, gel des salaires… Ces quelques mesures prétendues nécessaires, appliquées par les gouvernements de Droite et de Gauche, ne constitueraient in fine qu’une série de remèdes préconisés pour sortir de « la crise »…

Derrière le « pacte de stabilité » et ses ajustements structurels se cachent les réalités d’un projet visant la neutralisation définitive de l’État social. Un État social alors liquidé par la toute puissance des marchés, avec la dette publique et le racket bancaire comme éléments de bascule.

L’alibi austéritaire

La situation que nous vivons n’est que le résultat d’une double trahison : la trahison d’un appareil politique dépourvu de tout sens patriotique laissant son tissu industriel et productif aux mains de capitalistes apatrides qui, en dépit de bénéfices colossaux, s’emploient à créer encore plus de chômage en délocalisant nos entreprises vers des pays où les salaires et la fiscalité sont minimaux.
C’est aussi la trahison d’élus du peuple qui adoptent servilement des mesures économiques drastiques, en faisant passer une crise inhérente aux principes du capitalisme dérégulé pour une crise des dépenses publiques.

La stratégie « austéritaire » n’a d’autre but que de permettre aux nantis d’être encore plus nantis. Alors que le citoyen doit poursuivre sans relâche ses efforts au nom du remboursement d’une dette publique dont il ne comprend aucune des articulations, le cabinet d’études « Wealth-X » vient de comptabiliser 2365 milliardaires en 2014. Le magazine américain « Forbes » n’en dénombrait que 793 en 2010. Le patrimoine cumulé de toutes ces grandes fortunes, parmi lesquelles on retrouve Bill Gates, Carlos Slim, Bernard Arnault, Mark Zuckerberg, serait passé de 3600 milliards de dollars en 2010 à plus de 6400 milliards en 2014.

Étienne Chouard, dans une récente intervention télévisuelle, devait admirablement synthétiser le propos :

C’est une erreur de penser que les politiques sont impuissants ou incapables.
Si on renverse la perspective en comprenant que les politiques servent les intérêts de ceux qui les ont fait élire et qui constituent le pour-cent des plus riches de la population alors ce n’est pas une catastrophe, c’est une réussite formidable !
Tout se passe comme prévu : la sécurité sociale est détricotée, le chômage se porte à merveille, ce qui permet de tenailler les salaires et obtenir de hauts profits. Tout se passe donc très bien du point de vue de ce pour-cent qui se gave comme jamais ! »

L’austérité n’est pas une erreur

Quand nos dirigeants prônent la rigueur au nom du remboursement d’une dette publique qui aurait été creusée par une sécurité sociale trop dévorante, ils ne commettent pas une erreur, ils se produisent dans le plus effroyable des mensonges. La politique d’austérité n’est pas le fruit d’une faute de calcul. Il s’agit bien d’une sombre stratégie permettant la colonisation des États par les multinationales avec le consentement de nos élus. Cette politique ne permet pas seulement à Liliane Bettencourt d’avoir un patrimoine qui équivaut au PIB du Turkménistan, mais surtout de tuer l’État social et priver littéralement les citoyens des plus élémentaires principes de solidarité.

Par cupidité le pouvoir politique a abdiqué, il a accepté de laisser les mains libres aux forces d’argent et aux multinationales. Mais nous ? Accepterons-nous encore longtemps d’être gouvernés par l’escroquerie de la dette et la duperie de l’austérité ?


- Source : Laurent Bodenghien

00:07 Publié dans Actualité | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : actualité, france, austérité | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

mercredi, 24 septembre 2014

Septième Journée de réinformation de Polémia


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L’enjeu : Dénoncer sans complexe la dictature culturelle de la gauche et de l’artistiquement correct. Refuser la censure et cesser de se laisser intimider par les faux procès en “diabolisation” et “ringardisation”. Montrer que face aux bobards culturels du (non)art contemporain, il y a un art caché, un retour des traditions vivantes et que la génération 2013 est en train de reprendre l’initiative.
Le temps de l’offensive est venu pour sortir de la crise culturelle par un réenracinement identitaire.

Programme à venir.

La bataille culturelle

Entretien avec Jean-Yves Le Gallou

Samedi 18 octobre aura lieu la 7ème journée de la réinformation organisée par la Fondation Polémia. Thème de cette journée : la bataille culturelle. Nous avons interrogé Jean-Yves Le Gallou, le président de la fondation et acteur essentiel de la réinformation, sur ce thème et le programme de la journée de réinformation.

Propos recueillis par Pierre Saint-Servant


Jean-Yves Le Gallou, vous organisez samedi 18 octobre la 7ème journée de la réinformation de Polémia, pouvez-vous nous rappeler les thèmes traités lors des éditions précédentes ? Nous avons dans un premier temps lancé et approfondi le concept de réinformation. Puis nous avons travaillé sur le thème de la novlangue et à la suite de ces travaux nous avons publié deux Dictionnaires de novlangue. Nous avons ensuite souligné le rôle des blogs dans la guerre médiatique et contribué au développement de la reinfosphère. L’an dernier nous avons étudié en profondeur la désinformation publicitaire. Une réflexion qui va faire l’objet de la publication d’un livre en partenariat avec l’éditeur Via Romana.

 


Vous avez choisi cette année de concentrer votre attention sur la bataille culturelle, pourquoi ?


C’est simple , nous vivons dans une dictature culturelle : de la gauche, du politiquement et de l’artistiquement correct . Cette dictature s’impose par la censure et l’intimidation : les dissidents rasent trop souvent les murs par crainte d’être diabolisés, voire, pire, ringardisés . Dans cette affaire de trop nombreux élus, distributeurs de la manne publique, font preuve d’une rare lâcheté . Quant aux soi-disant mécènes du grand capital – Pinault, Arnaud, Bergé –, sous couvert de générosité, ils font de l’optimisation fiscale , de la com’ et de la spéculation financière! L’art n’est qu’un prétexte au profit pour les uns, à l’idéologie déracinante pour les autres. C’est l’alliance du trotskysme culturel et des salles de marché !


Il y a donc un double travail à faire : décrypter le nouvel art officiel et cesser de se laisser intimider par le conformisme dominant. Car ce qu’on appelle Art contemporain n’est rien d’autre qu’un centenaire indigne né sur les ruines de la guerre de 1914. En 1917, Duchamp nous faisait le coup de l’urinoir présenté comme une œuvre d’art ; cent ans plus tard il faudrait s’ébaubir devant un crucifix planté dans de l’urine, le Piss Christ de Serrano. Bref, l’imagination en panne et les mêmes fausses provocs à répétition, jusqu’à plus soif si j’ose dire ! C’est le règne des faiseurs et des faisans, des escrocs soutenus par les bobos et les gogos.

Le champ culturel a pendant des décennies été négligé par le camp national. Ceux qui avaient retenu les leçons de Gramsci étaient peu nombreux, et ceux qui les appliquaient étaient encore plus rares. Des progrès ont-ils été réalisés depuis ?

Oui, il y a une vraie prise de conscience des foutaises de « l’art conceptuel » grâce notamment aux remarquables essais d’Aude de Kerros. Et il est clair que crise culturelle et crises identitaires sont liés. Les défenseurs de l’identité ne peuvent pas faire l’économie de la bataille culturelle. Ils doivent donc affronter les pouvoirs financiers (pseudo mécènes/vrais spéculateurs) et les pouvoirs politico -administratifs (les “inspecteurs de la création” [sic]) qui gouvernent. Ainsi que leurs chiens de garde dans les médias. Ce qu’il faut, c’est de la fermeté d’âme pour ne pas succomber au terrorisme intellectuel. Mais il ne faut pas se contenter d’un discours critique. Il vaut aussi révéler l’art caché et mettre en valeur les traditions qui renaissent.

Pouvez-vous nous dévoiler une partie du programme de la journée du 18 octobre ?

Le matin Michel Geoffroy traitera en profondeur de “Crise culturelle et crise identitaire”. Puis nous donnerons la parole aux artistes : le graveur et essayiste Aude de Kerros, le dessinateur Miège, l’auteur et metteur en scène Gérard Savoisien. La génération 2013 aura aussi la parole : les Antigones, les Gavroches, les organisateurs de marches identitaires… bref, tous ceux qui ont repris le chemin de la rue et de la liberté de l’esprit. Le temps de l’offensive est venu !
Jean-Yves Le Gallou, merci.


http://fr.novopress.info/

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mardi, 23 septembre 2014

Brigneau: qui suis-je?

" Sous de multiples noms, François Brigneau a été journaliste, travaillant aussi bien pour la presse à grand tirage que pour des feuilles confidentielles voire clandestines. En 1965, rédacteur en chef d’un jeune mais vigoureux hebdomadaire, un sondage IFOP le désigna comme le deuxième journaliste le plus connu de France.

En 2012, à sa mort, le quotidien Le Monde, qui mettait un point d’honneur à ne pas le citer, se trouva toutefois obligé de lui consacrer une nécrologie. Il laisse une œuvre publiée abondante et variée : chroniques en langue parlée, romans policiers (il reçut en 1954 le Grand prix de littérature policière pour La beauté qui meurt), reportages à travers le monde, évocations de lieux, livres historiques, souvenirs de la vie journalistique et politique, etc.

Il a été apprécié par des hommes aussi différents que Frédéric Dard et Jean Madiran, Céline et Hubert Beuve-Méry, Robert Brasillach et Jean Gabin, Arletty et Marcel Pagnol, sans oublier Pierre Lazareff ou Alphonse Boudard. Pourquoi alors, pour reprendre un mot d’Alexandre Vialatte, fait-il aujourd’hui partie des auteurs «notoirement méconnus»? Tout simplement parce qu’au long de sa vie, fils d’un instituteur syndicaliste révolutionnaire mais s’étant toujours défini comme un Français de souche bretonne, François Brigneau, dont la plume valait une épée, a obstinément et fidèlement choisi « le mauvais camp», celui de «la France française», selon sa propre expression.


Ce « Qui suis-je?» Brigneau constitue la première biographie de ce journaliste de combat. Il s’appuie sur de nombreux entretiens avec lui et sur des archives familiales. “

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mercredi, 17 septembre 2014

Les migrations expliquées aux nuls...

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Les migrations expliquées aux nuls...

Il y avait du travail,

Gourévitch l'a réalisé!

Est-il possible de confier la rédaction d'un ouvrage de vulgarisation sur l'immigration à un auteur souvent cité par l'extrême droite ? Les Editions First s'y risquent avec Les Migrations pour les nuls de Jean-Paul Gourévitch, en librairie ce jeudi 11 septembre et déjà contesté par des spécialistes. Ce docteur en sciences de la communication, auteur prolixe de livres sur l'Afrique ou pour enfants, est connu pour ses travaux sur les coûts de l'immigration qui lui ont valu d'être cité à plusieurs reprises par la Droite nationale et identitaire. Loin des ragots bobos des astiqueurs de niaiseries progressistes. A lire d’urgence.

 

Les migrations pour les nuls, par Jean-Paiul Gourevitch, First éd., 454 p., 23 €

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mardi, 16 septembre 2014

Jacques Vergès: l'ultime plaidoyer

" Durant les semaines ayant précédé sa mort en août 2013, Jacques Vergès, au travers de longs entretiens avec François Dessy, revient sur son parcours d’homme et d’avocat, ses combats, ses échecs, ses certitudes et ses doutes. Résistant, anticolonialiste et avocat entre autres de Klaus Barbie et de Carlos, considéré comme l’un des avocats les plus brillants de sa génération, homme au parcours hors du commun entrecoupé par une disparition restée mystérieuse entre 1970 et 1978 et sur laquelle il a toujours refusé de s’expliquer…, Jacques Vergès a pris part aux débats et aux combats qui ont marqué la société ces soixante dernières années. Ce livre nous invite à les (re)découvrir, ainsi qu’à réfléchir sur les limites d’un métier où l’on défend parfois « l’indéfendable ». "

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lundi, 15 septembre 2014

Moscovici aux Affaires économiques: c'est beau, l'Europe!

Moscovici aux Affaires économiques: c'est beau, l'Europe!

Auteur : Philippe Rodier
 
Pierre Moscovici fut finalement nommé commissaire européen aux Affaires économiques. Ce n’était pourtant pas gagné en raison de l’opposition de certains pays voisins qui éprouvaient des scrupules à confier ce portefeuille à un Français au regard de la situation économique de notre pays.

Confier les affaires économiques de l’Europe à Pierre Moscovici, c’est en effet comme confier la justice au juge Burgaud qui a envoyé avec arrogance des innocents en prison, les sports à Raymond Domenech qui a ridiculisé l’équipe de France de foot, ou l’émission « Ce soir (ou jamais !) » à Marc-Olivier Fogiel, degré zéro de l’intelligence médiatique et journalistique.

Ancien ministre français de l’Économie et des Finances qui fut incapable de réduire les déficits et relancer notre compétitivité, Pierre Moscovici est comme un ancien détenu de Fleury-Mérogis devenu par la volonté des princes le surveillant en charge de mater ses anciens codétenus qui chercheraient à s’évader.

Car qu’a-t-il fait pour la France pendant ces deux années où il fut ministre de notre économie ? Rien de significatif et d’efficace, hormis augmenter sensiblement les impôts.

Y a-t-il eu une grande réforme fiscale ? Des simplifications législatives et réglementaires afin d’alléger la charge des forces économiques de la nation ? Une réduction des déficits ? Dans un article qu’il avait signé le 26 novembre 2012 dans Libération et intitulé « Notre révolution copernicienne », il annonçait que son objectif était de réduire la dette, de renforcer la compétitivité de la France et de mener des réformes structurelles. Or, non seulement l’objectif de 3 % vendu par Normal Ier n’a pas été atteint, mais on sait dorénavant que nous terminerons l’année 2014 à 4,2 % de déficit et que les 3 % ne seront jamais atteints pendant ce mandat présidentiel.

Pierre Moscovici, c’est la quintessence de ce que l’ENA peut produire de pire : protégé par un statut privilégié de fonctionnaire élitiste qui lui apporte un confortable matelas en cas d’échec dans une carrière qui sera politique de bout en bout, il n’a jamais connu d’expérience de salarié ou de chef d’entreprise et ne s’est jamais frotté aux réalités de ceux qui produisent et développent l’activité en France. Pour lui, l’économie se résume à des rapports macro-économiques et des synthèses statistiques produits par des collaborateurs issus du même moule à penser que lui.

Le nommer à ce poste révèle deux choses :

D’abord, la conception de l’Europe qu’ont nos gouvernants français au-delà de leurs beaux discours : un superbe placard avec tous les avantages associés et qui permet de continuer à exister.

Ensuite, celle que les dirigeants européens ont d’eux-mêmes, de leur mission, de leur ambition au sens noble, du sens qu’ils donnent à leur action.

Comment s’étonner, ensuite, de cette Europe sans âme qui désintéresse ou révulse de plus en plus les opinions ?


- Source : Philippe Rodier

vendredi, 12 septembre 2014

Roland Dumas : "La France, chien d’avant-garde de l’OTAN"

 

Roland Dumas : "La France, chien d’avant-garde de l’OTAN"

Auteur : Emilie Denètre

Les 4 et 5 septembre, les membres de l’OTAN se sont réunis à Newport, au Royaume-Uni. Au menu des discussions : l’Ukraine. Alors que le pays en appelle à l’Alliance et envisage de relancer son processus d’adhésion, l’OTAN devra trancher sur l’envoi ou non d’une aide matérielle à Kiev. L’ancien ministre des Affaires étrangères, Roland Dumas, nous livre son inquiétude sur la dérive de l’OTAN et sur ses conséquences sur la diplomatie française.

Humanité Dimanche. Est-ce que l’OTAN a encore une raison d’être ?


Roland Dumas. Elle peut en avoir une, pour ceux qui la gèrent ! Historiquement, l’Alliance atlantique était une alliance militaire qui avait une compétence géographique très limitée, l’Atlantique Nord, et qui avait un objectif : finir la guerre contre l’Allemagne. Donc, si l’on regarde l’ensemble de ces éléments, on se rend compte qu’elle n’a plus aujourd’hui de raison d’être. On avait décidé, alors que j’étais aux Affaires, du démantèlement des pactes. On ferait disparaître les deux alliances : l’Alliance atlantique et le pacte de Varsovie. Le pacte de Varsovie a bien été dissous mais l’OTAN, non... elle s’est même élargie (avec la Pologne et les États baltes) et renforcée. Il suffit d’écouter M. Rasmussen, son secrétaire général, pour se rendre compte que l’OTAN est devenue un instrument guerrier.

HD. Justement, l’Ukraine appelle l’OTAN à l’aide et envisage d’intégrer l’Alliance...


R. D. L’OTAN intervient à tout propos. En quoi son secrétaire général peut prendre la parole pour dire comme il l’a fait : « Je somme les Russes de ne plus envoyer d’armements aux russophones d’Ukraine ! » Au nom de quoi cette Alliance, qui était faite pour finir la guerre contre l’Allemagne avec une compétence sur l’Atlantique Nord, peut se mêler de choses aussi importantes que l’Ukraine ? Lorsque nous discutions du désarmement (lors de la chute de l’URSS – NDLR), mon homologue russe insistait pour que l’OTAN ne dispose pas d’armements dans les pays qui avaient fait partie du pacte de Varsovie, c’est-à-dire à proximité de sa frontière. C’était l’essence même de la paix. Tout le monde était d’accord. Eh bien, les Américains n’en ont pas tenu compte. Ils ont acheminé des armes dans les pays Baltes et en Pologne. D’où la controverse lorsque Poutine arrive au pouvoir. Il dit : « Vous n’avez pas tenu votre parole. » On n’a vraiment aucun intérêt à agiter le chiffon rouge devant le nez des Russes pour les effrayer ou pour les faire caler. En réalité, en quoi la Russie nous menace-t-elle ? Ce n’est pas une façon de traiter une grande puissance, qui a eu, au même titre que les Américains, sa part dans la victoire de 1945. La situation est devenue explosive et elle va l’être de plus en plus. Il existait un équilibre du monde et c’est cet équilibre qui est rompu.

« SORTIR DE L’OTAN ? IL FAUDRAIT UNE AUTORITÉ MONDIALE INCONTESTABLE. CE N’EST PAS POUR DEMAIN, CAR AUJOURD’HUI, CE SONT DES NAINS. »

HD. Quelles ont été les conséquences, pour la France, de la réintégration du commandement intégré de l’OTAN ?


R. D. Chirac voulait déjà réintégrer le commandement mais avec des compensations. Les Américains lui ont ri au nez. Les choses sont restées en l’état. Puis Sarkozy lui a emboîté le pas, mais cette fois-ci sans demander la moindre compensation ! Quant à Hollande, il n’a pas remis en cause cette décision, et ce à mon grand désespoir. Il l’a dit quasiment au lendemain de son élection... c’était assez caractéristique. Je pensais qu’il n’aurait pas, au moins dans ce domaine, un réflexe de suivisme. Aujourd’hui, la voix de la France est totalement occultée. Nous suivons la diplomatie américaine tout en essayant de donner l’illusion que nous existons sur la scène internationale. Alors nous aboyons plus fort que les autres. La France est devenue le chien d’avant-garde de l’Alliance, au risque d’apparaître comme une nation « va-t-enguerre ». Nous avons complètement tourné le dos à la position « traditionnelle », adoptée dès l’aprèsguerre. À chaque fois que j’allais à l’OTAN, le président Mitterrand me disait : « Surtout Dumas, souvenezvous, nous ne sommes pas dans le commandement intégré. » Comprendre : n’obéissez pas à toutes les décisions qui seront prises ! Avant, la voix de la France comptait et elle était souvent écoutée.

HD. Peut-on encore sortir de l’OTAN ?

R. D. On peut, mais c’est une décision si importante qu’il faudrait le prestige de De Gaulle pour faire cela. Il faudrait quelqu’un avec une autorité mondiale incontestable et des circonstances qui feraient que tout le monde comprendrait cette décision. Ce n’est donc pas pour demain car aujourd’hui, ce sont des « nains ».


- Source : Emilie Denètre

jeudi, 11 septembre 2014

Laurent Ozon: "France, les années décisives"

 
 
Laurent Ozon: "France, les années décisives"
 
Bonjour,
 
J'ai le plaisir de vous annoncer la parution de mon livre "France, les années décisives" le 21/09 à l'occasion du Rassemblement pour un Mouvement de Remigration à Paris.
 
 
Je vous en adresse le sommaire pour information et espère bénéficier de votre appui dans les combats que nous engageons.
 
Salutations amicales,
 
Laurent Ozon

Mail : laurent.ozon@me.com
Skype : ozonlaurent
 
 
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mercredi, 10 septembre 2014

Philippe de Villiers (MPF) à propos de la suspension de la livraison du Mistral

220px-Philippe_de_Villiers_-_Meeting_in_Toulouse_for_the_2007_French_presidential_election_0165_2007-04-16_cropped.jpgPhilippe de Villiers (MPF) à propos de la suspension de la livraison du Mistral à la Russie

Un communiqué de Philippe de Villiers:

Si François Hollande reportait la livraison du premier bateau de projection et de commandement de type MISTRAL, il poserait un acte de trahison vis-à-vis de la France et commettrait trois erreurs graves.

D'une part, François Hollande obligerait la France à trahir sa parole et sa signature, ce qui décrédibiliserait notre pays devant le monde entier, et affaiblirait notre industrie de défense en mettant en risque les grands contrats tels que le projet de vente de Rafales à l'Inde. Les Indiens s'interrogent d'ailleurs aujourd'hui sur le sérieux de notre pays et sa capacité à respecter ses engagements…

D'autre part, François Hollande poserait cet acte absurde et grave au moment même où, malgré la pression américaine et la position atlantiste et totalement soumise de l'Europe, Porochenko et Vladimir Poutine sont en train de parvenir à un accord de cessez-le-feu qui doit être signé vendredi et qui ouvre la voie à une solution diplomatique et politique à la crise !

Enfin, en plus du millier d'emplois liés aux contrats de fourniture des bateaux MISTRAL mis en danger par une telle décision, c'est toute l'industrie française à Moscou qui risquerait d'en subir les conséquences au moment même où notre industrie est parvenue à développer durablement ses activités en Russie dans un climat de confiance, créant, entre les 1200 entreprises françaises présentes sur le territoire russe, près de 100 000 emplois indirects en France générés par les projets russes de la France.

Si François Hollande avait la semaine passée une popularité de moins de 20%, ses erreurs successives et l'incompétence dont il fait preuve doivent le conduire à tirer les conclusions évidentes de son échec : François Hollande doit démissionner.

Nous assistons au spectacle de l'insignifiance

Le spectacle de l'insignifiance...

Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com

Nous reproduisons ci-dessous un entretien donné par le sociologue Jean-Pierre Le Goff au Figaro et consacré à la désacralisation du pouvoir politique. On lira, en particulier, avec intérêt la conclusion...

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Jean-Pierre Le Goff : «Scandales, révélations... Nous assistons au spectacle de l'insignifiance»

FigaroVox : Dans quelle mesure le livre de Valérie Trierweiler dégrade-t-il la politique?

Jean-Pierre Le Goff : Ce livre n'est pas seulement le déballage et la revanche d'une femme humiliée. L'auteur du livre a participé aux côtés du Président de la République aux cérémonies officielles ; elle a occupé pendant quelque temps une fonction à l'Élysée qui dépasse sa personne privée. Ce livre dévoile et met en question les comportements du chef de l'État qui n'est pas un individu comme tout le monde, mais il incarne et représente le pays à travers sa fonction. Qu'ils le veuillent ou non, les deux protagonistes ont un statut particulier qui les distingue des citoyens ordinaires. C'est cette dimension symbolique essentielle à la représentation qui est déniée quand on veut en faire une simple affaire privée de règlement de comptes au sein d'un couple qui s'est séparé, comme on en voit beaucoup aujourd'hui. Ce déni et l'irresponsabilité politique qui l'accompagne sont symptomatiques d'un individualisme nouveau en politique pour qui le rapport à l'institution, les contraintes et les sacrifices qu'implique le service de l'État et du pays ne vont plus de soi. Après la publication des photos de l'escapade de François Hollande à scooter dans Closer, la publication de ce livre est un nouveau coup porté à l'autorité politique, au plus haut sommet de l'État, dans un moment particulièrement critique marqué par une crise politique et l'impuissance face au chômage de masse, sans compter les effets délétères sur l'image de la France dans le monde.

La proximité qu'affichent les politiques avec «les vrais gens» n'est-elle pas la cause profonde de ce genre d'événements?

Jean-Pierre Le Goff : Cet événement s'inscrit dans un processus d'érosion de la dimension transcendante de l'État et de dévalorisation de la représentation politique auquel les hommes politiques ont participé. Ils portent une responsabilité particulière, à gauche comme à droite, dans la mesure où beaucoup ont voulu donner à tout prix une image d'eux-mêmes qui soit celle de tout un chacun. Après les années gaulliennes et ce qu'on a appelé la «monarchie républicaine», le rapprochement entre l'État et la société a marqué une nouvelle étape démocratique. Les présidences de Georges Pompidou et de Valéry Giscard, d'Estaing puis celles de Mitterrand et de Chirac ont développé un nouveau lien entre gouvernants et gouvernés, tout en maintenant, tant bien que mal, la distance nécessaire. Mais très vite, avec le déclin du sens historique et de l'institution, beaucoup d'hommes politiques ont fait du surf sur les évolutions sociétales problématiques en espérant en tirer quelques profits électoraux. Dès les années 1980-1990, on a vu apparaître sur les plateaux de télévision le mélange des genres entre des animateurs de télévision plus ou moins drôles, des personnalités du show-biz et des politiques cherchant une notoriété à bon compte, au risque de l'insignifiance et du ridicule. Certains hommes politiques se sont mis à la chansonnette, racontant leur vie ou faisant visiter par le menu leur appartement devant les caméras. À la même époque, les premières émissions de déballage psychologique en direct ont vu le jour, avec une nouvelle catégorie d'animateurs-psychologues au style décontracté. Les chaines du service public ont suivi.  

La campagne de 2007 fut une étape décisive?

La campagne présidentielle de 2007 a franchi une nouvelle étape en faisant apparaître une génération d'hommes et de femmes politiques élevés et éduqués dans une nouvelle époque marquée par l'érosion des repères symboliques de l'autorité et l'«ère du vide» des années 1980. Cette génération a poussé plus loin la volonté d'être à tout prix «proche des vrais gens», en faisant valoir le thème de la souffrance et une subjectivité quelque peu débridée dans le domaine sentimental comme dans les autres. Durant la campagne pour l'élection à la plus haute fonction de l'État, les démêlés sentimentaux de Nicolas Sarkozy et ceux de Ségolène Royal ont donné lieu à un feuilleton politico-médiatique comme on n'en avait encore jamais vu. Dans l'émission de télévision «Saga», la candidate a demandé François Hollande en mariage, sans du reste que le principal intéressé ait été mis préalablement au courant. En pleine soirée électorale du second tour des législatives, la «séparation du couple Hollande-Royal» a constitué un «événement» que les journalistes ont cru bon de mettre en avant face à des hommes politiques traditionnels visiblement décontenancés. Quelques années plus tard, en 2008, on assistera à une opération semblable dans un autre domaine, quand Raymond Domenech tentera de masquer sa responsabilité dans l'échec de l'équipe de France de Football, en faisant sa demande en mariage en direct à la télévision.

Le nouveau style politique s'est développé dans les années suivantes avec un ministre de l'intérieur qui reçoit torse nu des journalistes en pratiquant des jugements à l'emporte pièce sur ses «amis» politiques, un président de la République qui grimpe les marches de l'Élysée en tenue de jogger, déclare tout bonnement qu'«avec Clara, c'est du sérieux», ou encore un président qui se veut «normal» en prenant le train comme tout le monde, trompant sa compagne et s'éclipsant discrètement de l'Élysée à scooter pour retrouver sa nouvelle conquête… La «normalité» s'étend désormais au nouvel état des mœurs.

À force de se présenter comme des hommes ordinaires, les femmes et les hommes politiques dévalorisent eux-mêmes leur rôle et leur fonction. Le discours politique officiel tend désormais à s'aligner sur un «franc parler» qui fait fi de la syntaxe ; on parle mal mais comme tout le monde ; les femmes et les hommes politiques font volontiers la bise et appellent chacun par son prénom. Nous sommes arrivés au paroxysme de cette évolution.

Quel rôle joue l'information continue et les réseaux sociaux dans ce bouleversement?

Jean-Pierre Le Goff : Ils y participent pleinement et l'accélèrent en lui donnant un plus large écho, créant une sorte de bulle médiatique et communicationnelle au sein de laquelle les individus et les politiques peuvent perdre le sens du réel, s'enfermer dans un entre soi coupé d'une bonne partie de la société, avec l'illusion de peser sur les événements et la réalité quand on les a beaucoup commentés et que l'on a exprimé son «ressenti». Là aussi, les politiques ont une responsabilité particulière quand ils cherchent à se faire valoir dans les médias par quelques formules chocs ou quand ils twittent à la moindre occasion. Quand on en arrive à interdire l'usage des smartphones lors des conseils des ministres, on ne peut s'empêcher de penser aux classes turbulentes d'adolescents avec leur portables que les enseignants confisquent pendant les cours… Comme les nouvelles technologies de l'information, les évolutions des mentalités et des comportement s'accélèrent: l'important est d'en être et d'apparaître à tout prix moderne, au risque de faire basculer la politique vers la «peopolisation» et le spectacle de l'insignifiance, au moment même où la crise s'aggrave et où les foyers de guerre se développent dans le monde. Le modernisme à tout prix est aussi une «politique de l'autruche».

En quoi publication du livre Valérie Trierweiler est elle révélatrice d'un certain état de la société?

Jean-Pierre Le Goff : Cette nouvelle «affaire» est en même temps révélatrice d'un éthos dégradé et du désarroi d'une partie de la société. Elle révèle un nouvel individualisme autocentré qui a le plus grand mal à s'oublier, à contenir et à transcender ses affects, pour se consacrer à une fonction ou une œuvre impliquant engagement dans la durée, dévouement et sacrifices. Les déchirements de l'ancien couple présidentiel et les aventures amoureuses d'un président en scooter reflètent une situation qui paraît banale, à l'heure des «liaisons extraconjugales» et des familles dite «recomposées», alors qu'elles sont décomposées et donnent lieu à de multiples conflits et déchirements dont les enfants sont les premières victimes.

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Les rapports amoureux sont marqués par ce narcissisme pour qui l'amour est synonyme d'une état fusionnel permanent qui, à la moindre déception ou contradiction, peut se retourner en ressentiment ou en haine. L'érosion globale du mariage, avec ce qu'il implique d'engagement public dans la durée aux yeux des autres, est pareillement symptomatique du développement d'une mentalité adolescente ou post-adolescente pour qui la liberté signifie refus de la limite, maintien de choix en suspens. En tout cas, le non mariage offre l'avantage d'un engagement temporaire et révisable, incluant la possibilité d'une infidélité qui peut paraître banale, alors qu'il n'en est rien. Toute une presse people, féministe et psychologique, s'en délecte et en tire profit.

L'éditeur a prévu un tirage exceptionnel d'un livre dont la promotion médiatique est assurée d'avance, à l'heure d'un désir de «transparence» à tout prix qui fait sauter les barrières entre vie publique et vie privée, et pratique la délation. Le spectacle télévisuel, y compris sur les chaînes publiques, la «télé-réalité», internet et les selfies mettent en scène des individus narcissiques qui n'hésitent pas à afficher leurs aventures amoureuses et des «secrets d'alcôve» qui relevaient antérieurement d'une littérature de gare. Le grand déballage médiatique du couple Trierweiler/Hollande a les allures d'un mauvais feuilleton ou d'une série de télévision qui n'en finit pas, chaque nouvel épisode voyant ses antihéros s'enfoncer un peu plus dans le méli-mélo et le règlement de compte.

Sommes nous, selon vous, au terme d'un cycle politique?

Jean-Pierre Le Goff : Une partie de la société a déserté mentalement le champ politique et ce qu'on appelle l' «affaire Trierweiler» creuse en peu plus le fossé avec une partie de la classe politique et médiatique qui vit dans un monde à part, en ayant tendance à se prendre pour le centre du monde. Au sein de la société, existe un phénomène de «ras le bol» et de rejet de cette surmédiatisation et de ce milieu qui vit un circuit fermé. L'effet de résonnance médiatique ne saurait faire oublier les forces vives du pays qui demeurent ancrés dans le réel, se passionnent pour leur activité, ont le souci des autres et de leur pays. C'est de ce côté-là que résident le renouveau et non du côté des «m'as-tu vu» qui étalent leur image et leur rancœur à tout va.

On ne saurait désespérer de la politique dans un pays qui est le fruit d'une longue histoire marquée par l'attachement à la puissance publique et à la capacité de la politique à changer le cours des choses. Mais encore faut-il que les politiques cessent de flirter avec un nouvel air du temps problématique et une «réactivité» à tout crin. Le pays disposent encore d'hommes et de femmes politiques qui ont gardé le sens de l'État et de l'«intérêt supérieur» du pays. Aux compétences nécessaires, s'ajoute un charisme indispensable à la fonction politique. Ces qualités ne se sont pas données à tout le monde ; elles ont un caractère aristocratique (au sens grec, premier du terme, qui signifie le pouvoir des «meilleurs») ou élitaire par le type de vertu qu'elles exigent et qui peut apparaître hors du commun. Si l'on ne reviendra pas à un ancien modèle autoritaire et hautain, la crise dans laquelle le pays est plongé implique de telles exigences, faute de quoi le pays sombrera un peu plus dans une démocratie informe et le morcellement. Le délitement n'en «finit pas de finir»… Il est temps de passer à une nouvelle étape de notre histoire.

Jean-Pierre Le Goff (Figarovox, 5 septembre 2014)

Pour qui roule Valérie Trierweiler?

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Pour qui roule Valérie Trierweiler? Hypothèses sur un complot

Le coup de poignard

Comme une action de commando ou un bombardement de précision parfaitement réussis, le pamphlet est ravageur. Déjà catastrophique, l’image de François Hollande est carbonisée par l’ensemble des révélations (vraies, fausses ou exagérées, peu importe) sur son caractère : cynisme, mépris du peuple (les ”sans dents”), pusillanimité, indifférence, goujaterie, mesquinerie, propensions aux mensonges, etc. Les propos de V.T. sont d’autant plus acerbes et vipérins que la victime ne peut pas attaquer en diffamation. L’auteur a tiré sur une ambulance. Elle couvre de ridicule et d’opprobre le petit président indécis et incompétent en lui arrachant sa seule qualité reconnue : celle d’un type ”sympa. ”    

Passons sur la dévalorisation de la fonction présidentielle et une dégradation supplémentaire de l’image de la France. Le but du pamphlet était d’accentuer la descente aux enfers de François Hollande, d’enfoncer la tête dans l’eau de celui qui commence à se noyer sous la pluie. Ségolène Royal – bête noire de la rancunière VT – qui a pris la défense de Hollande dans cette affaire et qui est la mère de ses enfants, cherche évidemment à se positionner comme un personnage sage et magnanime. Elle joue bien. Ce pamphlet, que certains jugent abject, est une aubaine pour elle. Elle n’a pas abandonné son obsession dévorante : l’Élysée en 2017. Elle a plus de chances d’y parvenir que son ex, le petit bonhomme, d’être réélu. Dans le fond de son esprit calculateur, elle ne peut que se féliciter du coup de poignard dans le dos que son ancienne rivale a porté au pathétique François Hollande.

Ce dernier s’est d’ailleurs enfoncé lui même encore davantage dans les sables mouvants du ridicule lors de sa conférence de presse affligeante au sommet de l’Otan du Pays de Galles, en bégayant, pleurnichard, qu’il mettait toute sa vie au service du peuple et des ”pauvres”. Encore une preuve qu’il perd pied. François Hollande,  par sa légèreté indigne d’un président de la République,  aussi bien sur le plan du travail qu’il doit accomplir en tant qu’élu suprême de la Nation que sur celui de son comportement privé aura bien cherché ce qui lui arrive. Néanmoins, ce chef d’État catastrophique et incompétent, victime du syndrome de Peter (progression hiérarchique au dessus des capacités) doit encore durer deux ans et demi.  Un bail. Il gêne, il faut qu’il dégage aux yeux de certains, notamment en Allemagne. De plus, il s’est fait un ennemi redoutable, un challenger détesté qu’il a essayé de couler par des procédés de basse police et un harcèlement judiciaire à la limite de la légalité. Essayons donc de rassembler les pièces du puzzle d’un éventuel complot.   

Les âmes du complot

 C’est donc une opération politique, au delà de la rage intime de Mme Trierweiller, qui a été instrumentalisée et qui est psychologiquement très manipulable, d’autant plus qu’elle est frustrée et blessée. Un pion central de cette manœuvre est Paris-Match, pilier de la presse voyeuriste et adepte des ”coups” bien montés, dont l’intéressée est employée, qui a publié les ” bonnes feuilles ” de Merci pour ce moment. D’autre part, le livre a été imprimé en grand secret en Allemagne, dont les coûts de fabrications éditoriaux sont pourtant élevés. Pourquoi le secret aurait-il été mieux préservé en Allemagne qu’au Portugal ou en Espagne ? Nous y reviendrons plus bas.  

Valérie Trierweiller entretient de très bonnes relations avec Carla Bruni-Sarkozy, c’est une des pièces du puzzle. Nicolas Sarkozy, qui a la rancune tenace, est outré par ce qu’il estime être des persécutions judiciaires à son égard pilotées par Hollande, son ennemi juré. Il est logique qu’il veuille couler celui qui veut le couler. Bataille navale. Autre élément du puzzle : Nicolas Sarkozy entretient de bonnes relations avec Angela Merkel et son entourage. Pour des raisons différentes, tous les deux ne supportent pas François Hollande.

 En effet, pour nos partenaires allemands, François Hollande est une catastrophe ambulante, absolument pas à la hauteur. Il serait donc préférable qu’il soit abattu en vol avant 2017, fin théorique de son mandat, et surtout qu’il ne soit pas réélu. Donc, il faut le torpiller pour créer une crise ; tout au moins déstabiliser ce président dramatiquement incompétent et catastrophique et le pousser, d’une manière ou d’une autre, à la démission. Un pays comme la France ne peut plus être un interlocuteur valable avec à sa tête un tel bras cassé. Ribouldingue ne peut pas continuer à diriger le pays qui est l’homme malade de l’Europe et contribuer à aggraver son mal mois après mois. Pour l’Allemagne d’Angela Merkel, notamment, c’est insupportable. L’Allemagne, au moment ou la Grande-Bretagne risque de quitter l’Europe et où l’Écosse peut faire sécession, au moment de la crise russo-ukrainienne et de celle qui embrase le Moyen-Orient, l’Allemagne a besoin d’un interlocuteur français valable. Par exemple un Sarkozy de retour ?  En tout cas, Hollande est devenu le problème…

D’ailleurs, François Hollande s’est parfaitement douté que les comploteurs qui avaient télécommandé le livre de son ex-compagne visaient l’interruption de son mandat et qu’il s’agissait d’un assassinat soft, puisque, pendant sa catastrophique conférence de presse du sommet de l’Otan, il a maladroitement fait allusion à cette hypothèse en répétant qu’il ne partirait pas. Cette affaire tonitruante est, de plus, venue parfaitement à point pour faire oublier la poursuite de l’acharnement judiciaire contre Nicolas Sarkozy. Hollande se retrouve dans le rôle de l’arroseur arrosé : toujours sous la pluie.   

Ce coup de poignard dans le dos de Hollande, au bord du gouffre, pour accentuer la crise gouvernementale française pathétique et précipiter sa chute avant la fin de son mandat, vient à un trop bon moment, trop bien calculé pour être le fait du hasard. En outre, quand on lit le pamphlet, on s’aperçoit qu’il est très bien travaillé, par probablement d’excellents conseillers, dans un but principal : démolir dans l’opinion l’image du brave type, du ”président normal” pour brosser celle d’un individu peu recommandable, égoïste et antipathique. D’autre part, le processus éditorial a été monté de main de maître, dans le secret, avec une couverture médiatique massive et immédiate, un énorme tirage : signe qu’il s’agit d’une opération professionnelle et non pas de la simple vengeance d’une compagne éconduite. Il semble donc pertinent de soupçonner fortement les deux forces auxquelles j’ai fait allusion, la sphère sarkozyste et les services allemands, d’avoir aimablement aidé le travail de plume de Mme Trierweiller et sa promotion médiatique.

 

lundi, 08 septembre 2014

Les pétitionnaires de l'exclusion...

Les pétitionnaires de l'exclusion...

Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com

Nous reproduisons ci-dessous un article de l'Observatoire des journalistes et de l'information médiatique qui décrypte finement la pseudo-affaire Gauchet, déclenchée cet été par deux jeunes rebellocrates plein d'avenir, qui ont voulu faire du philosophe une figure de la réaction et la "France moisie" ...

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Edouard Louis et Geoffroy de Lagasnerie

Les pétitionnaires de l'exclusion

La pétition d’Édouard Louis et de Geoffroy de Lagasnerie contre le philosophe Marcel Gauchet a lancé la traditionnelle polémique de la rentrée début août. Mais cette fois, ce fut un flop.

Le 31 juillet, l’écrivain Édouard Louis et le sociologue Geoffroy de Lagasnerie publient une tribune dans Libération pour appeler au boycott des « Rendez-vous de l’Histoire » de Blois qui se tiendront du 9 au 12 octobre prochain, événement auquel ils étaient conviés et dont ils viennent de se soustraire, sous prétexte que celui-ci serait cette année inauguré par Marcel Gauchet, qualifié de « militant de la réaction ». En 2012, ce fut l’écrivain Richard Millet ; en 2013, l’acteur et historien amateur à succès Lorant Deutsch ; cette année, c’est donc le philosophe Marcel Gauchet qui se trouve sur le bûcher dressé par les inquisiteurs pour aborder la rentrée par une bonne purification idéologique, comme c’est devenu une habitude dans ce pays autrefois célèbre pour sa passion du débat et sa liberté de ton. Si Millet fut socialement consumé et Deutsch vaguement chahuté, cette fois-ci le feu n’a pas pris, et peut-être même que l’affaire aura pour une fois davantage décrédibilisé les chasseurs que la prétendue sorcière. Pourquoi ? La mécanique s’enraye-t-elle ? Édouard Louis est-il trop jeune et encore novice dans la pratique du lynchage de l’adversaire ? La stratégie trop maladroite ? L’attaque précipitée ? Le bouc émissaire mal choisi ? Un peu tout cela à la fois. Voici en tout cas l’occasion pour l’OJIM de revenir sur cette affaire comme sur l’alliance politique entre intellectuels et médias, de sa phase héroïque à son virage inquisiteur.

L’intellectuel insurgé

Si cet événement consistant à voir des intellectuels s’insurger avec virulence dans la presse contre un fait déclaré inacceptable est si classique en France, c’est qu’il s’appuie sur un héritage particulièrement glorieux dans notre pays, au point d’être constitutif des mythes nationaux. Le modèle initial en est bien sûr Voltaire, dont le rayonnement fut considérable tant en France qu’à travers toute l’Europe au siècle des Lumières. L’écrivain s’illustrait notamment dans l’affaire Calas ou celle du chevalier de La Barre, prenant la défense de victimes d’erreurs judiciaires, condamnées par l’instinct de lynchage de la foule et les inclinaisons du pouvoir contre les minorités (protestants ou libres-penseurs). L’autre grand moment de cette geste est le fameux « J’accuse ! » d’Émile Zola dans L’Aurore où c’est, cette fois, au cours de l’affaire Dreyfus, le préjugé antisémite qui conduit à l’erreur judiciaire. Monument du genre, la tribune de l’écrivain naturaliste a redoublé son impact avec le temps du fait des événements du XXème siècle qui conférèrent à sa révolte de 1898 une dimension visionnaire. De ces actes de bravoure s’est donc forgée une figure légendaire de l’intellectuel défiant par voie de presse l’opinion et le pouvoir afin de réparer des injustices et mettre en garde contre les dérives criminelles de l’air du temps.

Postures et impostures

Marcel%20Gauchet--469x239.jpgCependant, la première chose à noter, c’est que les conditions dans lesquelles intervenait l’intellectuel héroïque du XVIIIème ou de la fin du XIXème siècle ont fortement changé, et que, par conséquent, il ne suffit pas d’en reproduire la posture pour en imiter la bravoure. À l’époque de Voltaire, la presse est alors un vrai contre-pouvoir naissant permettant de développer des discours alternatifs aux discours officiels et autoritaires émanant de l’Église ou de l’État royal. Aujourd’hui, non seulement l’Église a perdu toute influence, ou presque, dans le débat public, mais surtout, le pouvoir médiatique est quasiment devenu le premier pouvoir auquel même le politique se trouve souvent soumis. En somme, s’exprimer dans Libé ne revient pas à prendre le maquis, mais bien à monter en chaire devant les fidèles. Ensuite, le courage d’un Voltaire ou d’un Zola tient au fait qu’ils se dressent d’abord seuls contre l’instinct de lynchage et la pression du pouvoir. Lors de l’affaire Millet, en 2012, Annie Ernaux vient avec 150 signataires demander l’éviction d’un écrivain. Il ne s’agit donc pas de se confronter à une foule enfiévrée par la haine, mais seulement à un intellectuel, et de s’y confronter tous contre seul, avec l’appui officieux du pouvoir, en témoignera l’intervention du premier ministre de l’époque, Jean-Marc Ayrault. Après l’appel au boycott des rendez-vous de Blois, et étant données les premières réactions négatives, Louis et Lagasnerie se fendront d’une nouvelle tribune le 6 août, renforcés d’une tripotée de signataires, pour faire nombre contre leur cible. Une grande partie des crimes moraux qui sont cette fois reprochés à Gauchet comme des arguments imparables – ses réticences au mariage gay ou ses mises en garde contre les dérives de l’antiracisme – sont ainsi des désaccords avec la politique du gouvernement en fonction ! La posture rejoint donc la pire des impostures, et si nous devions transposer l’attitude des Ernaux ou des Louis au siècle des Lumières, nous ne verrions pas une armée de Voltaire s’insurgeant contre l’injustice, mais bien des curés du parti dévot désignant au roi et à la vindicte populaire un protestant isolé et suspect pour ne pas communier à la religion officielle. De même que les nazis se déguisaient en chevaliers teutoniques en se comportant comme de vulgaires équarisseurs, nos pétitionnaires se glissent dans la panoplie de Zola pour jouer in fine les délateurs de service.

Le parti de l’intelligence

Une autre des distorsions frappantes entre le mythe originel et la réalité de ces attaques devenues rituelles, c’est qu’il s’agit dans le premier cas de l’insurrection d’une intelligence libre contre les passions de la foule et les intérêts du pouvoir, alors que les cibles actuelles, quand elles se trouvent être Richard Millet ou Marcel Gauchet, sont des intellectuels de premier ordre, avec lesquels on ne souhaite pas débattre mais que l’on exige de voir bâillonnés. Ce sont les accusateurs qui sont soumis à la passion militante et ce sont eux, encore, qui ont un intérêt en jeu, celui de se faire un nom sur le dos de l’homme à abattre. Il n’est qu’à voir la liste des signataires qu’avait réunis Ernaux : la plupart n’étaient que des écrivaillons médiocres et obscurs qui obtinrent la démission d’un des plus grands écrivains français vivants du comité de lecture de Gallimard. Quant aux noms célèbres qui paraphent la seconde tribune de Louis et Lagasnerie, ils posent tout de même quelques questions. Voir la chanteuse de variétés Jil Caplan ou le chansonnier Dominique A. demander le boycott de Marcel Gauchet, c’est un peu comme si Annie Cordy et Michel Sardou avaient exigé l’annulation d’une conférence de Jean-Paul Sartre ! Quant à Édouard Louis lui-même, sa renommée très fraîche tient au succès de son premier roman En finir avec Eddy Bellegueule, sorti cette année même au Seuil, livre où il décrit la difficulté, quand on est homosexuel, de grandir au milieu des beaufs racistes de province. Ce garçon, un vrai cliché littéraire à lui tout seul, grisé par son petit triomphe, s’empresse donc d’endosser un autre cliché en attaquant Marcel Gauchet, et c’est ainsi que le plumitif de 21 ans (!) paré d’un vague succès de librairie, se met en tête d’avoir celle d’un ponte de la philosophie contemporaine allant sur ses soixante-dix ans…

Rebellocrates associés ©

Mais le plus comique dans cette histoire, là où elle rejoint presque littéralement un texte de Philippe Muray, c’est le cœur même de la discorde, soit l’intitulé des « Rendez-vous de l’Histoire » de cette année qui devaient se dérouler autour de la figure du rebelle, nos pétitionnaires jugeant Gauchet indigne d’aborder un tel sujet pour n’être pas un rebelle conforme. Si l’on suit Louis et Lagasnerie, un rebelle autorisé est un rebelle favorable aux grèves de 95, adhérant aux associations féministes et antiracistes ultra subventionnées et favorable au « mariage pour tous » aujourd’hui bel et bien inscrit dans nos textes de lois… Et il est par ailleurs évident qu’un rebelle est quelqu’un de particulièrement vigilant quant à l’intégrité idéologique d’un événement institutionnel auquel il a été convié en raison de ses bons services en termes de rébellion… En somme, suprême paradoxe orwellien, un rebelle est un conformiste bien en cour qui ne plaisante pas avec les directives du pouvoir en place. Après « l’intellectuel insurgé » forcément juste et rebelle, on retrouve un autre poncif d’une certaine gauche, celle du « rebelle », forcément juste et moralement admirable. D’où le syllogisme : s’il est juste d’être pour le mariage gay, il est rebelle de l’être. Sauf que contextuellement, les rebelles actuels sont plutôt à chercher du côté des militants de la Manif pour tous, de Dieudonné, des décroissants, des maires FN ou des sympathisants d’Al Quaida. La posture rebelle n’infère en elle-même aucune qualité morale particulière. Rebelle, Satan l’est comme Jeanne d’Arc, Antigone, de Gaulle ou les membres de l’OAS…

La mythologie contre la pensée

Si cette pseudo intelligentsia médiatique ne voit même plus l’ampleur de ses contradictions, c’est précisément parce que cela fait un certain temps qu’elle a déserté le champ de la pensée pour ne plus souscrire qu’à une mythologie datée qui lui tient lieu de programme et de vertu. On pourrait soulever dans son discours une autre contradiction qui, bien que gisant entre les lignes, n’en est pas moins formidable. Suivant l’autre réflexe mythologique selon lequel la figure de l’immigré est fatalement positive, à l’instar de celle de l’intellectuel insurgé ou du rebelle, nous pouvons être absolument certains que les Louis et les Lagasnerie se mobiliseraient demain avec la même énergie pour défendre le droit des masses d’immigrés venues d’Afrique de s’installer en Europe, d’y bénéficier des mêmes avantages que les citoyens européens, d’y être nourries, logées et soignées. Pourtant, il est également certain que les masses en question, de par leurs origines culturelles, partagent dans leur quasi intégralité les réticences de Marcel Gauchet quant au mariage gay et sa prétendue vision de la femme « naturellement portée vers la grossesse. » Des positions que les Louis et les Lagasnerie jugent pourtant odieuses et inacceptables. Considéreront-ils donc qu’un bon immigré est un immigré qui ouvre sa bouche pour qu’on le nourrisse ou pour réclamer des droits, mais qui doit résolument la fermer s’il s’agit d’exprimer ses opinions personnelles ?

Un flagrant échec

Atteignant donc, avec cette pétition, un degré de caricature et de parodie un peu plus outrageux qu’à l’ordinaire, nos rebelles conformes au service de l’État ont cette fois-ci subi un revers. Non seulement leur coup n’a pas porté, puisque les « Rendez-vous de l’Histoire » ne sont pas soumis à leurs objurgations et l’ont fait savoir dans le même journal d’où était partie l’attaque, le 8 août ; mais encore, ils n’ont reçu le soutien d’aucun des très nombreux journalistes qui avaient rejoint la cabale d’Annie Ernaux en 2012 contre Richard Millet (la liste est longue et détaillée ici). Pire, le seul écho médiatique à leur action fut pour la condamner, provenant des mêmes voix qui s’étaient élevées contre le lynchage de Millet et qui furent les seules, en ce mois d’août, à commenter l’affaire. Soit Élisabeth Lévy dans Le Point, Pierre Jourde sur son blog du Nouvel Obs, Pierre Assouline dans La République des Lettres, Gil Mihaëly de Causeur et le fondateur de Marianne, Jean-François Kahn, sur le site Atlantico, sans compter l’intervention de Mathieu Block-Côté sur Figaro Vox.

Bilan de l’affaire

Quel bilan tirer donc de cette cabale ratée ? Tout d’abord, que nul n’est à l’abri d’un lynchage orchestré par les intellectuels d’extrême gauche, même quand on est à la fois un ponte honoré de l’intelligentsia française et un homme « de gauche » donnant les gages nécessaires à la Pensée unique, comme c’est le cas de Marcel Gauchet ; même quand les accusateurs ne sont à peu près rien dans le débat public, puisque leur conviction d’appartenir au « Camp du Bien » leur permet toutes les impudences avec la meilleure conscience qui soit. Ensuite, qu’en forçant trop sur la dose, l’inquisiteur du politiquement correct peut lui aussi commettre des « dérapages » en mettant à nu trop crûment la nature de ses réflexes. Enfin, que les indignations surjouées de nos belles âmes reposent sur une mythologie qui n’a plus aucun rapport avec le réel et dont les ressorts sont tout sauf vertueux. Que les prétendus intellectuels insurgés sont en fait des dévots et des délateurs ; que les pseudo-rebelles appartiennent à la pire espèce d’idéologues conformistes ; que les généreux partisans de l’immigration de masse n’ont pour les immigrés qu’un intérêt purement stratégique et narcissique ; que la principale obsession de ces grands esprits est de tuer, en France, toute véritable vie de l’esprit. Pour finir, et en attendant la prochaine « affaire », on peut souhaiter que toutes celles qui eurent lieu durant les années 2000 et 2010 soient relues à l’aune de l’affaire Gauchet, moment où apparaît si clairement le vrai visage de ces mascarades à visées totalitaires.

Observatoire des journalistes et de l'information médiatique (25 août 2014)

dimanche, 07 septembre 2014

Décès de la géostratégie française

Décès de la géostratégie française

Entretien avec Richard Labévière
 
Auteur : Alexandre Artamonov

 

 

La France renonce de plus en plus à ce qu’a fait les grandes heures de sa gloire militaire et diplomatique, à savoir une politique équilibrée et indépendante ? Entraînée dans l’orbite des décisions étrangères à ses propres intérêts, elle vit les heures les plus sombres de son histoire millénaire. 

On serait presque tenté de dire : La Grandeur de la France n’est plus ! A plus forte raison cela concerne la région du Proche et Moyen-Orient. Spécialiste de la problématique, expert militaire chevronné et patriote par ses convictions, Richard Labévière nous a fait l’immense honneur de décortiquer les tenants et les aboutissants des affaires épineuses du wahhabisme et présence américaine dans la région de la Syrie.

Voix de la Russie. Que pensez-vous de l’éventuel retour des wahhabites ? Vous avez rédigé un article sur l’Etat islamique et le renseignement américain… Pourriez-vous nous expliquer de quoi il retourne ?

richard%20labeviere.jpgRichard Labévière. L’usage de l’islamisme politique radical et de l’islamisme armé est une vieille histoire qui commence avec la signature du Pacte de Quincy entre le Président Roosevelt qui rentre de la Conférence de Yalta en 1945 et le roi Ibn Séoud. Il s’agit du premier accord « pétrole contre la sécurité »… Comme ça les Américains avaient le feu vert pour exploiter la plus grande réserve d’hydrocarbures du monde contre le f ait qu’ils protégeraient la politique de la dynastie séoudienne y compris sa diplomatie en direction de la plupart de pays arabo-musulmans dans leur volonté d’hégémonie du monde arabo-musulman.

Donc les Américains ont commencé effectivement par soutenir la monarchie saoudienne et l’idéologie wahhabite… A la clé de cette posture l’utilisation, dès le milieu des années 50, de la confrérie égyptienne des Frères musulmans financés par l’Arabie Saoudite. Mais à l’instant où Nasser rompt avec les Etats-Unis sur l’affaire du barrage d’Assouan, et se tourne vers l’URSS (et il soutient peu ou prou le nationalisme arabe), les services américains vont beaucoup utiliser les Frères musulmans. Et les Frères Musulmans seront choyés par les administrations successives démocrates et républicaines, et pour une bonne raison ! Parce que là où vous avez les Frères Musulmans, vous n’avez pas de syndicat ni parti communiste ! Pas de parti nationaliste ! Et les gens font l’aller-retour entre la mosquée et le Mac Donald ! Donc les Frères Musulmans sont les vecteurs de libéralisme économique, versus Washington ! On l’a vu avec le déclenchement des révolutions arabes : une thèse de l’effondrement du régime autoritaire qui était jusqu’à maintenant soutenue par les Etats-Unis et dont, pensaient les Américains, l’alternative sera justement les Frères Musulmans.

Malheureusement, les Frères Musulmans au pouvoir en Egypte et en Tunisie n’ont pas su gérer l’économie, et, un an après l’arrivée au pouvoir de Morsi en Egypte, il y avait 3O Millions d’Egyptiens dans la rue !

Il fallait autre chose ! Et l’administration américaine qui réellement a tourné la page d’Al-Qaïda et de Ben-Laden, exécute ce dernier au Pakistan, en mai 2011, pour éviter une convergence entre ces malmenées révolutions arabes et la mouvance Al-Qaïda pour essayer de tourner cette page d’Al-Qaïda. Les relations de Ben-Laden avaient été beaucoup utilisées contre l’Armée soviétique en Afghanistan…Et après la fin de la Guerre Froide les services américains avaient continué à instrumentaliser cette nébuleuse Al-Qaïda un peu partout dans le monde : en Tchétchénie, en Bosnie, en Afghanistan, en Chine…

A un moment donné l’administration Obama veut tourner la page. Et c’est pour ça qu’ils vont essayer de syphonner le djihadisme global pour favoriser la formation des djihadistes locaux prétendant à gérer les territoires ou constituer des Etats. Et c’est comme ça que durant l’hiver 2012-2013 les services américains vont favoriser l’émergence de DAISH, de l’Etat Islamique de l’Iraq et du Levant qui va prendre Môssoul le 9 juin dernier.

Et donc les services américains avaient signalé à plusieurs reprises qu’il fallait soutenir ces djihadistes locaux contre les djihadistes globaux d’Al-Qaïda pour en finir avec Al-Qaïda !

Malheureusement, nouvelle déconvenue américaine : des djihadistes locaux vont s’avérer absolument ingérables… Et ils se mettent à menacer l’ensemble de la région ! En juin dernier ils se sont constitués en Califat. Donc la signification politique du Califat, c’est qu’ils prétendent avoir un droit de regard sur la gestion de la communauté musulmane comme la Mecque ou Médine. Et là on a un raidissement des monarchies wahhabites qui prennent peur ! Et c’est seulement à ce moment-là que l’administration américaine envisage les bombardements sur les djihadistes dans le Kurdistan, en Iraq, voire en Syrie…

Donc là on assiste à un fabuleux retournement et à un nouveau revers de l’improvisation politique et diplomatique au Proche-Orient qui dure depuis la fin de la Seconde Guerre Mondiale ! Tout ça nous ramène à une très vieille histoire qui est le financement et le soutien logistique de ces mouvements islamiques de sunnisme radical financés par l’Arabie Saoudite, le Qatar, les Emirats et le Koweït et avec l’aval des services pakistanais, de l’Afghanistan sans parler de la bienveillance des services américains qui se sont toujours trompés sur cette mouvance qui a toujours créé des effets néfastes aussi bien pour les intérêts arabes qu’américains sinon russes pour tout la région du Proche et Moyen Orient !

VDLR. Et la France là-dedans ? Y a-t-il quelque chose à craindre pour la France ?

Richard Labévière. Malheureusement pour mon pays, la décadence a commencé avec le deuxième mandat de Chirac et la résolution 2539 en septembre 2004 où la France a eu son sursaut gaullien, à l’occasion du discours du 14 février 2003 au Conseil de Sécurité condamnant la deuxième Guerre d’Iraq. Les Américains nous ont fait payer très cher ce geste dans toutes les enceintes internationales et dans tous les hauts-lieux de l’économie importants ! Et on a fini par prêter allégeance aux Etats-Unis avec cette résolution dont l’effet était absolument désastreux ! Il s’agissait du retrait syrien du Liban avec le résultat que l’on connaît et le désarmement du Hezbollah… Cela a été inséré dans un cadre plus large : à savoir une Conférence Globale pour traiter l’épicentre de ces crises… Malheureusement, quand vous tronçonnez le Proche et Moyen Orient, vous donnez ra ison à l’agenda américano-israélien… Chirac a commencé à le faire. Sarkozy s’est totalement aligné. La politique et la diplomatie françaises étaient beaucoup par trop pro-arabes et qu’il fallait rééquilibrer à la faveur de l’Etat d’Israël. Sarkozy a réintégré la France au commandement intégré de l’OTAN… Et on pensait qu’avec François Hollande les choses seraient un peu différentes et qu’on reviendrait à une certaine vision gaulliste. Malheureusement, il n’en a rien été ! Et François Hollande avec Laurent Fabius ont fait pire que Nicolas Sarkozy dans l’alignement sur la position américano-israélienne ! Maintenant on peut considérer que pratiquement il n’y a plus de diplomatie française pour le monde arabe ! La France prend systématiquement parti pour Israël ! On l’a vu lors de la dernière opération de Gaza. Elle prend aussi systématiquement parti contre l’Iran et contre la négociation américano-iranienne. Lorsque Barak Obama a déclenché les bombardements sur la Syrie à propos des armements chimiques dont on sait aujourd’hui qu’ils étaient aussi utilisés par l’Alliance sunnite, la France n’a pas réagi ! Ainsi on voit que l’on a une politique française qui s’appuie principalement sur l’Arabie Saoudite maintenant dans le monde arabe… Pourquoi ? Espérant peut-être signer des contrats importants avec l’Arabie Saoudite. Cela me semble une vision politique de courte vue et cela finira par un isolement diplomatique de la France, sinon la fin de la diplomatie française dans le monde arabe au Proche et Moyen-Orient !

Commentaire. Les arabes en veulent à la France et ils ont raison quelque peu. Même pendant la période Vichy il restait un peu de dignité au régime qui se disait défenseur du pays et de sa population. A l’heure qu’il est, toutes les décisions de la diplomatie française sont écrites et prises à Washington. Quelle honte ! 

mercredi, 03 septembre 2014

MISTRAL: Dimanche, Saint-Nazaire sera dans la rue!

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MISTRAL: Dimanche, Saint-Nazaire sera dans la rue contre la décision de François Hollande de s'aligner sur les diktats américains!

Comme des millions de Français consternés, nous prenons acte, ce soir, de la décision du président de la République, François Hollande, suite à un conseil restreint de défense, de ne pas livrer à la Russie le BPC Vladivostok (livraison initialement prévue en octobre).

Ainsi, dans son communiqué de presse final, le conseil restreint évoque le fait que, selon lui, « malgré la perspective d’un cessez-le-feu [ dans l’Est de l’Ukraine ] (…) les conditions pour que la France autorise la livraison du premier BPC ne sont pas réunies. »

Le bureau de Mistral, gagnons ! est indigné du choix du président de la République. Il constitue, à notre sens, un recul sans précédent de la France et une très grave menace pour Saint-Nazaire.

Nous dénonçons sans faiblesse, depuis un mois :

  • Le manque de parole de la France à l’égard de la Russie, les deux parties ayant signé ce contrat il y a déjà plusieurs années.
  • Si la suspension devient une annulation, l’obligation de la France à verser des réparations à la Russie.
  • Le choix pour la France de s’inféoder à d’autres puissances, défendant des intérêts géostratégiques distincts des siens et l’empêchant de demeurer souveraine, en premier lieu, les États-Unis.
  • Le risque que cette décision fait prendre quant à la crédibilité de la France à l’international, concernant de potentiels futurs contrats militaires : par exemple notre contrat en cours de 9 milliards d’euros en finalisation avec l’Inde pour la vente d’une centaine d’avions Rafale.
  • La menace que fait peser cette décision sur le bassin d’emploi de Saint-Nazaire (Saint-Nazaire, Trignac, Montoir-de-Bretagne, Donges…) et des milliers de travailleurs directement ou indirectement liés aux chantiers des deux BPC.

Nous maintenons, et d’ailleurs plus que jamais, notre souhait que les BPC Vladivostok et Sébastopol soient vendus à la Russie, comme il était prévu depuis 2010. Le soutien des syndicats locaux et de personnalités politiques relativement à cette vente, s’il est le bienvenu, reste cependant tardif pour beaucoup d’entre eux !

Heureusement, une minorité prenait déjà position dès le printemps dernier en faveur de cette vente.

Nous maintenons de même notre appel à manifester pour la protection de notre industrie et de notre liberté commerciale, ainsi que l’amitié entre les peuples, dimanche 7 septembre à partir de 13 heures, à Saint-Nazaire, devant le Vladivostok.

Source cliquez ici

mardi, 02 septembre 2014

Libération et Épuration...

Libération et Épuration...

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La Nouvelle Revue d'Histoire est en kiosque (n° 74, septembre - octobre 2014).

Le dossier central est consacré à la Libération et à l’Épuration. On peut y lire, notamment,  des articles de François de Lannoy ("La 1ère Armée et la libération de la France" ; "L'épiscopat n'est pas épargné"), de Philippe Parroy ("Le temps des maquisards"), de Jean Kappel ("Les crimes de l'épuration sauvage"), de Max Schiavon ("L'épuration de l'armée. Le drame de l'obéissance") et de Laurent Wetzel ("Les Normaliens durant l'Occupation").

Hors dossier, on pourra lire, en particulier, deux entretiens, l'un avec Emmanuel Le Roy Ladurie ("Une vie avec l'histoire") et l'autre avec Ferenc Toth ("1664. Saint Gothard, une victoire européenne") ainsi que des articles d'Emma Demeester ("Guillaume le Conquérant"), d'Anne Bernet ("Lucien Jerphagnon, toujours présent"), de Rémy Porte ("Septembre 1914, la crise des munitions"), de Arnaud Imatz ("Une Déclaration des droits de l'homme pas très universelle"), de Jean Tulard ("Pourquoi Napoléon a-t-il choisi l'île d'Elbe ? Pourquoi en est-il parti ?") et de Ferenc ("La charte de 1814, condition du retour du roi").

dimanche, 31 août 2014

Ukraine, Poutine, Obama, Merkel : le dessous des cartes

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Ukraine : le dessous des cartes...

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Nous reproduisons ci-dessous un entretien donné par le journaliste Jean-Michel Quatrepoint au Figaro et consacré aux dessous de la crise ukrainienne. Jean-Michel Quatrepoint a récemment publié un essai intitulé Le Choc des empires. Etats-Unis, Chine, Allemagne: qui dominera l'économie-monde? (Le Débat, Gallimard, 2014).

Ukraine, Poutine, Obama, Merkel : le dessous des cartes

Entretien avec Jean-Michel Quatrepoint

FigaroVox: Dans votre livre, Le choc des Empires, vous décriviez l'affrontement entre les Etats-Unis, le Chine et l'Allemagne. La situation en Ukraine ne rappelle-t-elle pas davantage la guerre froide?

Jean-Michel QUATREPOINT: En réalité, on assiste à un choc entre deux blocs: d'un côté, l'Amérique qui veut enrôler l'Europe sous sa bannière, et de l'autre, la Chine et la Russie qui de facto se rapprochent ne serait-ce que parce que les Américains mènent à leur encontre une politique de «containment» depuis 2010. Les Américains veulent imposer leur modèle économique et idéologique: le libre-échange et les droits de l'Homme. Le parti au pouvoir en Chine et les Russes ne veulent pas de ce modèle. Dans ce contexte l'Europe, notamment l'Allemagne, est prise en sandwich. Angela Merkel doit choisir et penche plutôt pour le moment pour les Etats-Unis. Cela signifie qu'à terme, tout le développement qu'elle pouvait espérer grâce à la Russie, va devoir être passé par pertes et profits. De la même façon, tous les projets d'investissement sur les transports , notamment la nouvelle route de la soie ferroviaire entre la Chine et l'Europe via la Russie, risquent d'être remis en cause. Si l'escalade des sanctions se poursuit, les Russes pourraient interdire le survol de la Sibérie pour toutes les compagnies aériennes avec pour conséquence une augmentation des coûts exponentielle et in fine l'affaiblissement économique puis politique de l'Europe. La légère récession qu'a connue l'Allemagne au troisième trimestre est un premier signal alors même que les effets du boycott russe ne se sont pas encore fait sentir.

En quoi les enjeux politiques et économiques s'entremêlent-t-ils?

Aujourd'hui, l'investissement en Allemagne chute pour trois raison. D'abord à cause du coût de l'énergie. L'abandon du nucléaire coûte une fortune au pays et le rend dépendant du gaz russe. Deuxièmement, le coût de la main d'œuvre n'est plus aussi bas qu'il ne l'était, notamment avec la mise en place du smic et troisièmement l'Euro est surévalué par rapport au dollar. En conséquence, les industriels quittent l'Europe et préfèrent investir aux Etats-Unis qui redémarrent économiquement grâce à leur énergie à bas coût (gaz et pétrole de schiste) et sa main d'œuvre meilleur marché. L'Europe en stagnation est dans la situation du Japon dans les années 90-2000. Sa balance commerciale reste excédentaire grâce à l'Allemagne, mais elle vieillit et ne se développe plus. Cela signifie que nous allons perdre notre pouvoir sur la scène internationale.

Dans ce contexte, les sanctions contre la Russie constitue-t-elle une erreur stratégique?

Oui, ces sanctions sont contre-productives. Malheureusement, la plupart des pays européens à commencer par les pays de l'Est, préfèrent les Etats-Unis à la Russie. La Pologne, les pays Baltes et la République Tchèque sont viscéralement antirusses et joueront toujours le jeu des Américains car le souvenir de l'occupation par les troupes soviétiques y est encore prégnant. L'Allemagne, elle, est écartelée et tout l'objectif des Américains est de la détacher de la Russie. L'axe entre Paris-Berlin et Moscou pour s'opposer à la guerre en Irak en 2003 est resté dans la mémoire du département d'Etat américain. Les dirigeants américains ont donc décidé de punir la Russie et de ramener l'Allemagne dans leur giron. C'est tout le but du traité transatlantique qui est en fait une grande alliance germano-américaine.

La France, qui a une tradition de non-alignée, peut-elle jouer un rôle?

La SFIO n'a malheureusement jamais eu une tradition de non-alignée. La comparaison entre François Hollande et Guy Mollet est cruelle, mais pas dénuée de fondement. Il y a une vocation européano-atlantiste qui est dans les gènes du Parti socialiste. On peut d'ailleurs également déplorer l'abandon de la politique arabe de la France: non que les Israéliens aient toujours tort, mais on ne peut pas les laisser faire n'importe quoi.

Iriez-vous jusqu'à parler de tournant néo-conservateur de la politique étrangère française?  

Oui, ce tournant a d'abord été pris par Alain Juppé lorsqu'il était au quai d'Orsay. Les diplomates français mènent désormais une politique de court terme. Lors des Printemps arabe, jouant aux apprentis sorciers, la France a réagi sur l'instant en se félicitant de la chute des dictateurs, mais sans en mesurer les conséquences, notamment l'arrivée au pouvoir des islamistes qui ont totalement déstabilisé la région. On a également oublié que les régimes autocrates, qui étaient en place, protégeaient les minorités chrétiennes. Pour un chrétien, il valait mieux vivre sous Saddam Hussein qu'aujourd'hui sous le régime chiite. De la première guerre d'Irak de 1991 jusqu'à la guerre en Libye de 2011, les pays occidentaux ont semé le chaos. Certes les dirigeants en place au Moyen-Orient n'étaient pas recommandables, mais au moins ces pays n'étaient pas des champs de ruines. On ne déclenche plus de guerre mondiale, mais on déclenche des guerres civiles avec des centaines de milliers de morts.

Jean-Michel Quatrepoint (Figarovox, 23 août 2014)

samedi, 30 août 2014

Frankrijk op rand instorting, mogelijk regering nationale noodtoestand

Frankrijk op rand instorting, mogelijk regering nationale noodtoestand

ECB zwicht voor druk uit Parijs en Rome en pleit nu voor nieuwe schulden

IMF waarschuwt EU dat keiharde ‘derdewereld’ bezuinigingen nodig zijn

 
Bij nieuwe verkiezingen lijkt Marine Le Pen (L) eenvoudig Francois Hollande (R), de impopulairste president aller tijden, te gaan verslaan. Maar ook Le Pen zal het bankroet van Frankrijk niet kunnen voorkomen.

Slechts een paar maanden na aantreding is het Franse kabinet Valls alweer gevallen. Zorgvuldig buiten het zicht van de reguliere media gehouden speelt zich in Parijs een waar drama af. Frankrijk staat op het punt in te storten, en het enige wat dit nog enige tijd kan uitstellen is als de EU toestemming geeft om nieuwe, onbeperkte schulden te maken. Er zijn sterke indicaties dat de ECB hierin meegaat (2). Dat houdt in dat hoogstwaarschijnlijk Frankrijk uiteindelijk de trigger zal zijn van de financiële instorting van de complete eurozone.

Nationale noodtoestand dankzij socialisme

Er zijn berichten dat men in Parijs overweegt een regering voor een nationale noodtoestand te vormen, zó slecht gaat het met het land. Hoofdoorzaak is het socialistische beleid van Hollande, die weigert structurele hervormingen door te voeren en het land alleen maar dieper in de schulden jaagt. Omdat Frankrijk de tweede economie van de eurozone heeft, zal het omvallen van het land zich als een zware aardbeving door heel Europa verspreiden.

De socialistische machthebbers hebben vrijwel geen enkel vertrouwen meer van de Franse bevolking, die bij de afgelopen Europese verkiezingen massaal op het Front National van Marine Le Pen stemden. President Francois Hollande is al sinds twee jaar de impopulairste president aller tijden. Naast diens verwoestende economische beleid zijn de Fransen de gigantische jeugdwerkloosheid, snel toenemende armoede en de massale problemen met (moslim)immigranten spuugzat.

Le Pen eist einde huidige EU

Le Pen is van meet af aan duidelijk geweest: de EU is in zijn huidige vorm slecht voor Frankrijk, en moet daarom worden opgeheven. Zo niet, dan stapt Frankrijk onder haar leiding uit de EU. Overigens wil ook Le Pen net als Hollande de Franse staatsschulden op de rest van Europa afwentelen, mocht Frankrijk toch in de EU blijven.

Hollande rekende er namelijk nog meer als zijn voorganger Sarkozy, onder wie het verval begon, op dat de EU vroeg of laat toch wel garant zal staan voor de enorme Franse schuldenberg, omdat Brussel ten koste van alles overeind wil blijven. De Fransen dringen er dan ook al jaren bij de ECB op aan om het bezuinigingsbeleid definitief los te laten, en de lidstaten toe te staan onbeperkt nieuwe schulden te maken.

ECB gooit roer om en wil meer schulden

ECB president Mario Draghi lijkt inderdaad door de knieën te gaan voor de enorme druk uit Parijs en ook uit Rome, omdat Italië er financieel eveneens dramatisch aan toe is. Draghi constateert dat de vrijwel onbeperkte stroom nieuw geld gecombineerd met strenge bezuinigingen niet heeft gewerkt, en pleit er nu voor om het roer om te gooien door nieuwe investeringsprogramma’s op te zetten, en daarmee nog meer schulden te maken. (2)

Brussel en Berlijn krijgen de schuld

In Parijs geven regering en oppositie hoe dan ook de schuld van alle problemen aan Brussel en Berlijn. De Franse minister van Economische Zaken Arnaud Montebourg roept zelfs letterlijk op tot ‘verzet’ tegen Duitsland vanwege het bezuinigingsbeleid, omdat anders ‘populistische’ en ‘extremistische’ partijen –lees: het Front National- nog meer stemmen zullen krijgen (3).

Voor alle politieke partijen is de EU echter altijd een comfortabele melkkoe geweest; uitgediende en afgeserveerde politici trokken gewoon naar Brussel en Straatsburg om daar exorbitante salarissen, toelagen en pensioenen op te strijken. Dit zelfverrijkingssysteem heeft overigens niet alleen de politici uit Frankrijk bijzonder gemakzuchtig gemaakt.

Ook anti-EU partijen laten banken buiten schot

Maar ook de anti-EU partijen, die vooral in Frankrijk, Groot Brittannië, Griekenland, Hongarije, Oostenrijk en Italië veel stemmen wonnen, leggen bijna nooit de vinger op de zere plek, en dat is dat de gigantische hoeveelheid nieuw geld, betaald met keiharde bezuinigingen op de verzorgingsstaat, voor het grootste deel rechtstreeks in de kassen van de banken is gevloeid.

Daarnaast zijn het juist de multinationals die in Brussel aandringen op een zo snel mogelijke vorming van een Verenigde Staten van Europa, zodat ze in een Europa zonder politieke grenzen nog meer macht krijgen dan nu al het geval is.

Instorting Frankrijk wordt EU fataal

Brussel is er tot nu toe in geslaagd om soms zeer tegen de verwachtingen in overeind te blijven. Het verval van Frankrijk is echter andere koek; de tweede economie van Europa is dermate belangrijk, dat de eurozone de instorting van het land niet zal overleven.

Met zowel de socialisten als de conservatieven in puin zou het Front National bij nieuwe verkiezingen wel eens definitief de macht kunnen grijpen. Maar dan? Frankrijk is hoe dan ook failliet. Alleen het verzwakken van de euro door onbeperkte nieuwe schulden en het volledig vergemeenschappelijken van de schulden van alle lidstaten, kan de doodsteek nog een poosje uitstellen.

Ondertussen zwichten de huidige regeringen in Londen en Parijs voor de druk van de bevolking, en kondigen allerlei strenge immigratiewetten aan die rechtstreeks in tegenspraak zijn met de Brusselse regels, waarin immigratie juist wordt bevorderd en zelfs wordt geëist.

Leugenaar leidt Commissie naar VS van Europa

De Europese Commissie zal onder diens nieuwe leider Jean-Claude Juncker, berucht vanwege zijn leugens, fraude, de fles, en nota bene door hemzelf toegegeven ‘donkere achterkamertjes politiek’, stug door blijven gaan op de ingeslagen weg naar een Verenigde Staten van Europa, en daarmee de onvermijdelijke instorting juist versnellen.

‘Europese politici spelen met vuur’

Mats Persson van de denktank Open Europe waarschuwt dat de politici in Brussel en de nationale hoofdsteden hopen dat de anti-EU partijen vanzelf weer zullen wegzinken zodra de eurocrisis vermindert en de economie zich herstelt. In Perssons ogen spelen zij daarmee met vuur. Het zogenaamde economische herstel wordt namelijk enkel bereikt door nieuwe schulden, die op een zeker moment een eurocrisis ‘reloaded’ zullen veroorzaken.

IMF waarschuwt voor derdewereld bezuinigingen

Om op dat moment een totale crash te voorkomen zal het IMF heel Europa ongekende bezuinigingen opleggen, die volgens de Franse oud minister van Financiën Christine Lagarde van dermate omvang zullen zijn, dat ze enkel met ‘derdewereldlanden’ kunnen worden vergeleken.

In de aanloop naar dat dramatische moment, dat ons continent permanent zal verarmen, zullen de bankroete landen met Frankrijk voorop ook de paar laatste financieel nog enigszins gezonde landen, waaronder Nederland, met behulp van Brussel volledig uitzuigen, totdat ook wij het niet meer volhouden. Met de val van de Franse regering Valls komt dat fatale uur U voor de EU opnieuw een stap dichterbij.

Xander

(1) Deutsche Wirtschafts Nachrichten
(2) Deutsche Wirtschafts Nachrichten
(3) Deutsche Wirtschafts Nachrichten

Zie ook o.a.:

16-08: Amerikaanse topeconoom Armstrong ziet instorting democratie VS en EU (/ ‘Brussel vastbesloten om ieder democratisch proces te verwijderen’)
09-08: Rusland: EU wacht energiecrisis, € 1 biljoen verlies en failliete banken en bedrijven
02-08: Denktank Open Europe: Sancties tegen Rusland lopen op oorlog uit
23-07: Franse ondernemers: Toestand economie catastrofaal, staatsbankroet nabij
19-07: Nieuwe bankencrisis? Spanje voert spaargeldbelasting in, rest EU volgt (/ Spaanse staatschuld gestegen naar record van € 1 biljoen)
30-06: Amerikaanse topeconoom Armstrong: Invoeren euro slechtste besluit ooit (/ ‘Uitbuiting van de samenleving door bankiers ontketent klassenstrijd en mogelijk een revolutie’)
29-06: Machtigste bank ter wereld (BIS) verwacht ‘vernietigende ommekeer’
11-06: Duitse CDU erkent dat eurozone op kosten van spaarders wordt gered (/ Regeringen en centrale banken laten burgers staatsschulden betalen en laten banken vrijuit gaan)
06-06: Banken: Maatregel ECB verraadt hoe slecht het met de eurozone gaat
31-05: Duitse economen: Frankrijk kan staatsbankroet niet meer vermijden (/ ‘Europese banken staan nu compleet buiten recht en wet en kunnen doen wat ze willen’)
22-05: Oppositieleider Grillo eist dat Europa staatsschulden Italië betaalt
18-05: ‘Spaarders in EU worden na verkiezingen gedwongen eurozone te redden’

dimanche, 24 août 2014

BNP-Paribas, une affaire de géométries variables

Une affaire de géométries variables...

par Frédéric Lordon

Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com

L'affaire de l'amende infligée à la BNP Paribas par la justice américaine a suscité de nombreux commentaires au début du mois de juillet. Nous revenons dessus avec cet article incisif de l'économiste Frédéric Lordon, qui aborde cette fois-ci la question non pas sous l'angle géopolitique, des relations entre les Etats-Unis et l'Europe, mais sous l'angle des relations des banques avec la puissance publique, lorsque celle-ci existe... L'article a été cueilli sur La pompe à phynance, le blog de l'auteur.

 

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BNP-Paribas, une affaire de géométries variables

On peut bien, si l’on veut, reparcourir l’affaire BNP-Paribas à la lumière de la saga crapuleuse des banques à l’époque de la libéralisation financière. Il faut bien admettre, en effet, que la série a de quoi impressionner, et jusqu’au point de vue défendu depuis le début ici-même, qui tient plutôt la ligne de ne pas céder à la diversion fait-diversière pour maintenir les droits de l’analyse, telle qu’elle doit rendre compte des crises financières non par l’« hypothèse du mal » — Madoff, Kerviel ou qui l’on voudra —, mais par les fonctionnements structuraux, réguliers, intrinsèques, des marchés de capitaux déréglementés. Dans un élan de sensationnalisme irrépressible autant qu’irréfléchi, les médias, toujours pressés de se rendre au plus gros, et au plus bête, se jettent sur tous les délinquants à chemise rayée comme sur des providences — il est vrai que les occasions sont rares de rafler simultanément les bénéfices de la colère populaire, de la belle image du perp walk [1] des puissants — manière d’attester une souveraine indépendance d’avec les « élites » —, et de la critique de la finance. Mais qui ne critique rien.

La fraude comme business model bancaire ?

Car il est bien certain qu’un défilé de traders en combi orange et cadènes aux poignets ne dira jamais rien d’intéressant sur la finance. Obnubilation — par l’image —, et oblitération — de tous les mécanismes ordinaires de la finance —, sont donc les produits les plus certains du barnum systématiquement monté par les médias sur les « grandes affaires » dûment étiquetées « en col blanc ». Prendre la mesure de l’inanité analytique du point de vue criminologique-médiatique requiert, par exemple, de se livrer à une simple expérience de pensée contrefactuelle demandant si la crise financière aurait été évitée si Monsieur Madoff-père s’était retiré ou si Jérôme Kerviel avait fait un BEP de plombier-chauffagiste — bref si les fâcheux n’avaient pas été là. Sauf passion du bouc émissaire et paranoïa en roue libre, la réponse est évidemment non, et les individus délinquants par conséquent renvoyés à leur juste statut : même pas épiphénoménal, simplement secondaire.

Il s’ensuit surtout que comprendre, et puis prévenir, les crises financières exige un peu plus qu’un programme de redressement moral des traders : s’intéresser aux structures mêmes des marchés de capitaux et des institutions bancaires, telles que, dans leur fonctionnement nominal, elles produisent immanquablement ces séquences : surtension spéculative mimétique, renversement brutal des anticipations, crise de liquidité se propageant de proche en proche, pour gagner potentiellement tous les compartiments de marché par le jeu de la course à la réalisation de détresse [2] et de la ruée au cash [3].

Le fait-divers divertit, donc, mais il faut bien avouer qu’au rayon « banque et finance » la récurrence fait-diversière commence à impressionner. Entre Goldman Sachs (spéculation contre ses propres clients), HSBC (blanchiment d’argent, fraude fiscale), Crédit Suisse (fraude fiscale), Barclays (manipulation du Libor), RBS (Libor également), et l’on en passe, la généralisation des comportements crapuleux finirait presque par faire croire à l’existence non pas de simples déviations récurrentes, idée en soi tendanciellement oxymorique, mais à un véritable business model, où une partie du dégagement de profit est très délibérément remise à l’exploitation de situations frauduleuses. Champion bancaire national, mais fier de sa surface globalisée, il n’était que justice — ou bien nécessité — que BNP-Paribas vînt ajouter son nom à ce très illustre palmarès. Six milliards et demi de prune tout de même — il va y avoir du bain de siège au conseil d’administration.

Pertes normales, pertes intolérables

On peut cependant résister à la pente « délictuelle » et considérer l’affaire BNP-Paribas sous un autre angle. Et même deux.

Le premier interroge la perception extrêmement variable que prennent les entités capitalistes de leurs pertes selon leurs origines. Car il y a bien quelque chose comme une hiérarchie dans l’acceptabilité, ou la « normalité », des pertes, dont le sommet est évidemment occupé par les « pertes de marché », verdict incontestable d’une quasi-nature à laquelle il est à peu près aussi vain d’objecter que de demander une diminution de l’accélération de la pesanteur. On notera au passage que les « pertes de marché » sont assez souvent l’effet de spectaculaires conneries des équipes dirigeantes, mauvais choix d’investissement ou management déplorable — on pense ainsi, mais comme un exemple parmi tant d’autres, à Boeing qui, à la fin des années 1990, avait cru malin de céder à la mode du downsizing et avait largement licencié, pour se trouver confronté à peine quelques années plus tard à un retour de croissance… et devoir ré-embaucher en catastrophe, mais en s’apercevant que tous les salariés précédemment virés étaient porteurs d’une longue et irremplaçable expérience, et qu’il allait falloir consentir longtemps des coûts monumentaux d’apprentissage, de sous-productivité, et de sous-qualité [4]. Et l’on tiendra pour l’un des symptômes les plus caractéristiques du néolibéralisme qu’on y fustige sans cesse « l’incurie de l’Etat », quand celle du capital engage des sommes non moins considérables, et aussi le destin direct de salariés qui payent de leurs emplois perdus ou de leurs revenus amputés — mais les élites privées de la globalisation, à l’image du « marché », ont été déclarées par principe les insoupçonnables instances de la rationalité, en fait les seules [5].

Or les « élites » économiques sont plus souvent qu’à leur tour à la ramasse, quand elles ne sont pas carrément incapables de comprendre ce qui se passe vraiment dans leurs entreprises, cas d’incompétence spécialement spectaculaires dans le secteur bancaire, comme l’a prouvé la crise des subprimes — des présidents ventripotents, façon Daniel Bouton, n’ayant pas la moindre idée de la tambouille qui se réchauffe dans leurs propres salles de marché [6], ni des risques réels dont ils laissent se charger leurs bilans. Il en est résulté des pertes consolidées pour le système bancaire international dont le FMI avait tenté l’estimation – entre 2 000 et 3 000 milliards de dollars, soit tout de même le plus imposant bouillon de toute l’histoire du capitalisme —, de sorte que « l’élite » s’est révélée nuisance aux intérêts de ses propres mandataires, pour ne rien dire de ceux de la société dans son ensemble.

Rien de cet exploit retentissant cependant n’a conduit à la moindre remise en question de la compétence générale des banquiers néolibéraux à diriger les banques, et pas davantage à chuchoter à l’oreille des gouvernements, deuxième compétence supposément adossée à la première. Rien non plus n’a perturbé le moins du monde le gros mouvement de glotte qu’a nécessité tout de même d’avaler pertes aussi astronomiques, elles également versées au registre de la loi naturelle du marché contre laquelle il n’y a rien à dire.

Ainsi lorsque « le marché » lui impose la sanction, fut-elle colossale, de sa propre incompétence, le capital ne moufte pas. Mais qu’on vienne lui arracher 0,1% de cotisation supplémentaire et il hurle à la mort. Car voilà le bas, le tout en bas, de la hiérarchie de l’acceptabilité des pertes, et en l’occurrence simplement des coûts : ceux qui sont imposés par l’Etat. Procédé décidément d’une puissance heuristique incomparable, il faut là encore se livrer à une expérience de pensée contrefactuelle pour en prendre la mesure, par exemple en partant du montant de l’amende à payer par BNP-Paribas, 6,5 milliards d’euros, en considérant ensuite de celui de son impôt sur les sociétés de 2013, 2,5 milliards d’euros, pour mettre l’un en rapport avec l’autre. Et puis imaginer ceci : un gouvernement de gauche est élu et dit : « la responsabilité des banques privées dans la crise de 2007-2008, dans la récession et les déficits publics qui s’en sont suivis, étant manifeste et incontestable, elles s’acquitteront de la dette qu’elles ont contractée envers la société par une contribution exceptionnelle que nous fixons à trois fois (2,6 fois…) leur dernier impôt payé ». A ce moment ouvrir les micros et bien enregistrer le concert : Michel Pébereau hurle à la mise à mort d’un champion national, Pierre Gattaz déclare l’assassinat de l’esprit d’entreprise, Nicolas Baverez annonce la phase finale du déclin, Bernard Guetta bafouille que nous tournons le dos à l’Union européenne, les Pigeons menacent d’un exode définitif de tous les cerveaux entreprenants, Franz-Olivier Giesbert déclare qu’il faut crever l’Etat obèse, Christophe Barbier que le mur de Berlin a été remonté dans la nuit et que nous nous réveillons du mauvais côté, Jean-Marie Le Guen que trente ans de conversion de la gauche à l’économie de marché viennent d’être rayés d’un trait de plume, Laurent Joffrin pas mieux, etc. Et pourtant, rafler d’un coup trois fois l’impôt annuel, soit à peu de choses près la totalité de son profit, d’un des plus grands groupes mondiaux, les Etats-Unis l’ont fait, et sans un battement de cil.

Puissance publique et puissances privées : la possibilité d’un rapport de force

Pays du marxisme-léninisme, comme il est connu de soi, les Etats-Unis ont pris un gros bâton et poum. Disons tout de suite qu’il n’y a pas lieu de pousser des cris d’enthousiasme pour autant. La re-régulation des marchés et des institutions bancaires y est aussi en carafe que partout ailleurs, et pour les mêmes raisons que partout ailleurs — l’infestation de la vie politique et des pouvoirs publics par le lobby financier. Aussi le traitement judiciaire à grand spectacle, par amendes faramineuses interposées, n’est-il que le symptôme de cette impuissance mêlée de mauvais vouloir. Mais au moins y a-t-il quelque chose plutôt que rien. Et même en l’occurrence quelque chose assortie d’assez bonnes propriétés révélatrices. La première tient donc à l’aperception des jugements extraordinairement contrastés auxquels peuvent donner lieu les mêmes événements comptables, selon qu’ils sont le fait de la crasse incurie managériale elle-même — rebaptisée « le marché » —, de la pénalité judiciaire — quand elle est étasunienne —, ou du prélèvement fiscal, pourtant légitime.

La deuxième propriété révélatrice joue formellement d’un semblable effet de contraste, toujours par la simple comparaison avec les Etats-Unis Soviétiques d’Amérique, en remettant d’équerre la nature des rapports, et notamment des rapports de force possibles, entre la puissance publique et les puissances privées du capital. Là encore pour s’en apercevoir, il faut imaginer pareille sanction infligée par la justice ou quelque pouvoir réglementaire français à une très grande entreprise, à plus forte raison étrangère, pour entendre, sans le moindre doute possible, les discours de l’attractivité, ou plutôt de la répulsivité du territoire français, la fuite annoncée des « investisseurs », le devenir nord-coréen du pays. Car il est maintenant reçu comme une évidence que les puissances publiques doivent abdiquer toute velléité de souveraineté, qu’elles ne sont finalement que les ancillaires des seules puissances qui comptent vraiment, les puissances du capital.

Par un renversement caractéristique de la pensée économiciste, le néolibéralisme a mis cul par-dessus tête les rapports de souveraineté réels, pour finir par ancrer dans les esprits que l’état normal du monde consiste en ce que le capital règne et que la puissance publique est serve : elle n’a pas d’autre fonction, et en fait pas d’autre vocation, que de satisfaire ses desideratas. Assez logiquement, en pareille configuration, la liste de ces derniers ne connaît plus de limite, et ceci d’autant plus que, encouragé par le spectacle des Etats se roulant à ses pieds, le capital se croit désormais tout permis.

Affirmation ou démission

Par ce paradoxe bien connu qu’on pourrait nommer « le zèle du converti de fraîche date », c’est probablement en France que cet état des choses fait les plus visibles ravages et, paradoxe dans le paradoxe, à « gauche », on veut dire à la nouvelle droite, où le devoir d’expiation s’élève pour ainsi dire au carré. Que la volonté politique puisse prévaloir contre le marché, qu’elle ne se borne pas à simplement ratifier ses injonctions, qu’elle puisse même avoir l’ambition d’arraisonner les puissances d’argent, ce sont des idées désormais jugées si épouvantables qu’on est coupable de les avoir seulement considérées. Et ce rachat-là est interminable, à proportion de la croyance antérieure, qu’il ne suffit pas de récuser comme une simple erreur mais dont il faut reconnaître, et puis compenser rétroactivement, l’exceptionnelle abomination. Aussi depuis les 3% maastrichtiens de Bérégovoy jusqu’au « pacte de responsabilité », la Gauche repentie, par là vouée à devenir Droite complexée, n’en finit pas de se couvrir la tête de cendre, dans une surenchère de démonstration qui veut prouver à la face du monde l’irréversibilité de sa conversion — et le Medef a très bien compris qu’il pouvait compter sur elle pour en faire plus que n’importe qui.

Notamment, donc, pour se faire la stricte desservante de l’idée néolibérale par excellence qui pose la souveraineté de « l’économie » — et la subordination à elle de tout ce qui n’est pas elle. Ainsi, par exemple, est-il devenu presque impossible de faire entendre qu’il n’y a rien d’anormal à ce qu’une entreprise de service public soit déficitaire, et endettée, précisément parce que les servitudes de sa fonction, l’universalité par exemple, emportent des coûts spécifiques qui l’exonèrent des logiques ordinaires de l’économie privée.

L’Etat est donc désormais enjoint d’abandonner toute logique propre pour n’être plus, fondamentalement, que le domestique de « l’attractivité du territoire », entreprise de racolage désespérée, car la concurrence est sans merci sur les trottoirs de la mondialisation, d’ailleurs dirigée aussi bien vers l’extérieur — faire « monter » les investisseurs étrangers — que, sur un mode plus angoissé encore, vers l’intérieur — retenir à tout prix notre chère substance entrepreneuriale. Il est bien vrai que dans les structures de la mondialisation néolibérale qui lui a ouvert la plus grande latitude possible de déplacements et d’arbitrages stratégiques, le capital a gagné une position de force sans pareille, et la possibilité du chantage permanent : le chantage à la défection, à la fuite et à la grève de l’investissement [7].

Le rapport de force réel cependant ne s’établit pas seulement d’après ses données objectives, mais plus encore peut-être d’après le degré d’amplification que leur font connaître un certain état de soumission et une propension à baisser la tête — à leur maximum dans le cas de la Droite complexée. Si le cas BNP-Paribas, donc, est bien une affaire de géométrie variable, c’est parce qu’en plus de montrer les variations auxquelles peuvent donner lieu les « jugements de pertes », il met en évidence, par la comparaison la plus irrécusable — celle avec les Etats-Unis —, la différence dans les degrés de fermeté, ou d’abdication, des puissances souveraines face aux puissances privées du capital.

Là où l’Etat de François Holande s’humilie chaque jour davantage devant le patronat français, l’administration étasunienne, à qui on peut reprocher bien des choses mais certainement pas de méconnaître ses propres prérogatives de souveraineté, sait de temps en temps rappeler aux entreprises les plus puissantes à qui vraiment revient le dernier mot en politique. En ces occasions — évidemment exceptionnelles, car on présenterait difficilement les Etats-Unis comme le lieu sur Terre du combat contre le capital… —, en ces occasions donc, le gouvernement US se moque comme de son premier décret des possibles cris d’orfraie, de la comédie de l’Entreprise outragée, de la menace du déménagement et de la porte claquée. Etonnamment d’ailleurs, de cris d’orfraie, il n’y a point. BNP-Paribas s’est fait copieusement botter le train, mais BNP-Paribas s’écrase, relit de près Rika Zaraï, fait des frais d’herboristerie… et n’attend, en se faisant petit, que le moment d’avoir le droit de faire retour à ses chères opérations dollars. BNP-Paribas pourrait bien monter sur ses grands chevaux et promettre le boycott des Etats-Unis, les Etats-Unis s’en foutent comme de l’an quarante, et ils s’en foutraient même si ça leur coûtait. Car il s’agit d’affirmer un primat.

Ne plus se rouler au pied du capital

Que les raisons diplomatiques qui ont commandé en dernière instance la décision étasunienne soient les plus critiquables du monde, la chose n’est pas douteuse, mais ça n’est pas là qu’est le problème en l’occurrence. Le problème est de principe, et tient à la réaffirmation de la hiérarchie des puissances. Il n’y a certainement pas que des motifs de réjouissance dans l’affirmation de l’imperium étatique, dont on sait à quel point il peut se faire haïssable, le cas des Etats-Unis étant d’ailleurs spécialement gratiné sous ce rapport. Mais s’il n’y a à choisir qu’entre l’imperium de l’Etat et celui du capital, alors la décision est vite faite. Pour toutes ses distorsions et ses pantomimes, il arrive que la chose appelée (par charité) « démocratie », dans le cadre de laquelle l’imperium d’Etat est contraint de s’exercer, il arrive donc, parfois, que la « démocratie » impose des commencements de régulation, voire laisse passer quelque chose de la voix populaire si celle-ci finit par le dire suffisamment fort. Dans l’espace du capital, en revanche, nul ne vous entendra crier.

S’il s’agit de capitalisme, tout ce qui vient des Etats-Unis est réputé insoupçonnable, répète en boucle le catéchisme néolibéral. Pour une fois profitons-en. Les occasions de faire jouer en notre faveur les fausses hiérarchies de la légitimité sont trop rares pour ne pas être exploitées jusqu’au trognon. S’il y a bien une leçon à tirer de l’affaire BNP-Paribas, ça n’est pas tant que les banquiers néolibéraux sont des fripouilles, aussi bien au sens du code pénal que de la nuisance sociale, c’est que la puissance publique, pourvu qu’elle le veuille, n’a ni à passer sous le tapis ni à céder à tous les ultimatums du capital. La vérité c’est que les capitalistes sont assez souvent de grosses nullités ; qu’on ne compte plus les désastres privés comme publics auxquels ils ont présidé ; que leur départ outragé aurait assez souvent moins d’une catastrophe que d’un opportun débarras ; qu’il ne manque pas de gens, derrière, pour prendre leur place — et pourquoi pas sous les formes post-capitalistes de la récommune [8] ; que si c’est le capital local lui-même qui fait mine de s’en aller, il y a d’abord quelques moyens juridiques très simples de l’en empêcher ; que si c’est le capital étranger qui menace de ne plus venir, il n’y a pas trop de mouron à se faire pourvu qu’on n’appartienne pas à la catégorie des eunuques « socialistes » : la rapacité du capital sait très bien s’accommoder même des conditions les plus « défavorables » — le cas BNP-Paribas ne démontre-t-il pas précisément qu’on fait la traque aux entreprises qui se précipitent, mais clandestinement, pour faire des affaires en Iran, au Soudan, etc., pays pas spécialement connus pour leurs ambiances business friendly

S’il y a un sou de profit à faire plutôt que zéro, le capital ira [9]. Et si, d’aventure, offensé, il prend ses grands airs un moment, il reviendra. L’éternel retour de la cupidité, ne sont-ce d’ailleurs pas les marchés financiers qui en font le mieux la démonstration : là où la théorie économique vaticine, le doigt tremblant, qu’un défaut sur la dette souveraine « ferme à tout jamais les portes du marché », l’expérience montre que les Etats ayant fait défaut font surtout… leur retour sur le marché à quelques années d’écart à peine, et qu’ils sont bien certains de trouver à nouveau des investisseurs pour leur prêter, d’autant plus si les taux sont un peu juteux.

Sagesse du (très) gros bâton, exemplarité de la saisie

Que la puissance publique ait ainsi les moyens de réaffirmer le primat de la souveraineté politique et de tendre le rapport de force avec le capital, comme l’atteste spectaculairement la décision des Etats-Unis contre BNP-Paribas, mais contre bien d’autres groupes, étrangers ou pas, bancaires comme industriels, c’est un aspect du dossier qui, curieusement, n’a pas traversé l’esprit d’un seul éditorialiste. On se souvient en revanche de la tempête d’indignation qu’avait soulevée la nationalisation par le gouvernement argentin de YPF, filiale du groupe pétrolier espagnol Repsol. N’étaient-ce pas les lois du marché, peut-être même les droits sacrés de la propriété, qui étaient ainsi foulés au pied ? Indépendamment de toute discussion du bien-fondé de la décision économique en soi, qui est sans pertinence pour le présent propos, on rappellera tout de même que cette nationalisation s’est faite dans les règles, par rachat monétaire de leurs titres aux actionnaires — le droit de propriété n’a donc pas trop souffert. Il n’y a d’ailleurs aucune raison pour qu’il en aille toujours ainsi. Il est des cas où la violation de bien public est telle que la saisie pure et simple est une solution d’une entière légitimité politique — c’est bien ce qu’il aurait fallu infliger au secteur bancaire privé dans sa totalité, responsable de la plus grande crise financière et économique de l’histoire du capitalisme [10].

Il faut rappeler ces choses élémentaires pour prendre à nouveau la mesure des pouvoirs réels de la puissance souveraine, contre tous les abandons des démissionnaires — vendus ou intoxiqués. Et l’occasion est ainsi donnée d’offrir au paraît-il insoluble problème de la re-régulation financière sa solution simple, simple comme le « dénouement » du nœud gordien, une solution en coup de sabre : les règles — c’est-à-dire les interdictions — de la nouvelle régulation posées [11], toute infraction sérieuse sera aussitôt sanctionnée par une nationalisation-saisie, soit une expropriation sans indemnité aucune des actionnaires.

Comme l’a définitivement montré la crise ouverte depuis 2007, crise généreusement passée par la finance privée aux finances publiques et à l’économie réelle, et qui s’est payée en millions d’emplois perdus, en revenus amputés et en innombrables vies détruites, la position occupée par le système bancaire dans la structure sociale d’ensemble du capitalisme le met ipso facto en position de preneur d’otages — à laquelle la théorie économique, bien propre sur elle, préfère le nom plus convenable d’« aléa moral » —, et par là même en position d’engendrer impunément, et répétitivement, des dégâts sociaux hors de proportion. La tolérance en cette position névralgique d’un secteur privé, abandonné à la cupidité actionnariale, ne peut avoir moindre contrepartie que la reconnaissance de la très haute responsabilité sociale des banques qui s’ensuit, assortie des sanctions les plus draconiennes en cas de manquement, la saisie-nationalisation en étant la plus naturelle — position en réalité d’une grande, d’une coupable, tolérance, car la conclusion qui suit logiquement de pareille analyse voudrait plutôt que, par principe, le système bancaire soit d’emblée, et en totalité, déprivatisé [12].

En tout cas, comme le montre à sa manière l’affaire BNP-Paribas, et le profil bas aussitôt adopté par ses dirigeants, le rapport de force a ses éminentes vertus, le seul moyen de faire plier une puissance, comme celle du capital, étant de lui opposer une puissance contraire et supérieure. Il suffit donc de sortir les contondants de taille suffisante pour (re)découvrir que le capital n’est pas souverain, et qu’il peut être amené à résipiscence. Gageons que les conseils d’administration bancaires, dûment informés du nouveau « contexte régulateur » qu’on se propose de leur appliquer, ne manqueraient pas — désormais — de surveiller avec un peu moins de laxisme, peut-être même de très près, les agissements des directions qui sont en fait leurs mandataires. Et que, sous la menace d’une expropriation sans frais, ils se montreraient des plus attentifs au respect par leur banque des nouvelles règles en vigueur.

Le capital, dit-on, s’y entend comme personne pour trouver les défauts de la cuirasse, tourner les réglementations et faire fuir tous les contrôles. A leur corps défendant sans doute, les Etats-Unis viennent de prouver que non, en montrant en acte qu’il suffit de taper suffisamment fort pour que le capital se tienne tranquille. Nul ne sera assez égaré pour voir dans cette décision à l’encontre de BNP-Paribas autre chose qu’une de ces éruptions réactionnelles de souveraineté étatique [13] sans suite ni cohérence, en tout cas sans le moindre projet politique d’ensemble. Mais peu importe : la démonstration est là, il appartient ensuite à qui voudra de la prolonger en un projet, le projet que le capital ne soit plus le souverain dans la société, le projet d’une déposition en somme.

Frédéric Lordon (La pompe à phynance, 8 juillet 2014)

Notes

[1] Perpetrator walk, ou perp walk, est le nom donné à l’exhibition médiatique des accusés, menottes aux poignets, encadrés par deux policiers.

[2] C’est-à-dire la vente en panique des actifs vendables.

[3] Voir à ce sujet André Orléan, Le Pouvoir de la finance, Odile Jacob, 1999, et De l’euphorie à la panique. Penser la crise financière, Editions Rue d’Ulm, 2009 ; ainsi que Frédéric Lordon, Jusqu’à quand ? Pour en finir avec les crises financières, Raisons d’agir, 2008.

[4] On trouvera un catalogue d’erreurs managériales bien fourni dans l’ouvrage de Christian Morel, Les Décisions absurdes, Gallimard, 2009.

[5] De ce point de vue le numéro de Marianne en date du 19 juin 2014 qui pose la question « Les grands patrons français sont-ils nuls ? » tranche agréablement.

[6] Ce qui ne veut certainement pas dire en l’occurrence que Kerviel était seul au monde, l’hypothèse que nul dans sa hiérarchie n’ait rien connu de ses agissements étant proprement rocambolesque.

[7] Au sujet des prises d’otages du capital voir « Les entreprises ne créent pas l’emploi », 26 février 2014.

[8] Sur l’idée de « récommune », voir Frédéric Lordon, La crise de trop, Fayard, 2009 ; Capitalisme, désir et servitude. Marx et Spinoza, La Fabrique, 2010.

[9] En ces temps de capitalisme actionnarial, la formulation la plus juste dirait : « s’il y a une opportunité de passer la barre de la rentabilité financière d’un sou plutôt que de zéro… »

[10] Voir « Pour un système socialisé du crédit », 5 janvier 2009.

[11] Dont on pourra trouver les éléments dans « Si le G20 voulait… », septembre 2009.

[12] Voir « Pour un système socialisé du crédit », 5 janvier 2009.

[13] Qu’on nous épargne les distinctions en l’occurrence byzantines entre « l’Etat », stricto sensu, et « la Justice ». Ce qui compte ici c’est la puissance publique lato sensu, en tant qu’elle oppose sa logique propre à celle des puissances privées.

 

samedi, 23 août 2014

La France peut-elle mourir au XXIe siècle ?

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La France peut-elle mourir au XXIe siècle ?

Tout pays est comme un organisme : naissance et enfance, adolescence et jeunesse, âge mûr, vieillesse et mort. Quatre phases, toujours, comme les saisons. Cela vaut pour les individus, les peuples, les civilisations ; mais aussi pour toutes les organisations.

La France est née progressivement au cours du haut Moyen Âge sur les ruines de la Gaule romaine, les invasions germaniques et le premier christianisme. Premier roi mythique franc : Clovis, consul romanus adoubé par l’Empire d’Orient de Constantinople, païen converti, de son vrai nom Chlodoveigh. Les racines de la France sont beaucoup plus anciennes que celles de son État franc naissant. En ouverture de ses Mémoires d’espoir, De Gaulle a écrit : « La France vient du fond des âges, elle vit ». Le problème, c’est qu’aujourd’hui, sous ses successeurs, elle risque de mourir. La formule de De Gaulle signifie que le substrat humain, anthropologique, de la France n’avait que peu changé au cours des âges. Bien d’autres pays européens sont dans la même situation. Cet article comporte  plusieurs brèves parties : 1) La France change de visage. Défiguration ? 2) Ethnopolitique et idée de Nation.  3) L’imposture de l’idéologie républicaine française. 4) Le mauvais plombier et le mauvais médecin. 5) Des dirigeants apeurés ou cyniques. 6) Course à l’abîme ou simple maladie ?

1. La France change de visage. Défiguration ?

Elle peut mourir progressivement au début du XXIe siècle, mais beaucoup plus rapidement qu’elle n’est née. Il faut rétablir une vérité sans cesse bafouée : le territoire français des Gaules n’avait jusqu’au milieu du XXe siècle jamais connu d’immigration de peuplement importante et les seules migrations concernaient des populations européennes apparentées. Une homogénéité ethnique globale avait toujours été préservée. La rupture s’est produite, comme ailleurs en Europe occidentale, pendant les catastrophiques années soixante et soixante-dix ( les ”Trente Glorieuses”) où a commencé un flux migratoire extra-européen ininterrompu et massif– jamais vu dans l’histoire depuis plusieurs millénaires – associé à une chute de la fécondité des Français et Européens de souche ; mais aussi amenant dans ses fourgons le millénaire islam, totalement incompatible avec la civilisation européenne et en conflit avec elle depuis le VIIIe siècle. Face à ce phénomène invasif, les élites françaises et européennes ont non seulement baissé les bras mais, fait inouï, incompréhensible pour un Chinois, un Japonais, voire un Africain, elles le favorisent. Elles collaborent.

Regardez des films et des photos de la France des années 60. Le paysage humain a changé. Le processus n’en est qu’à ses débuts. Un de mes amis photographes a fait un gag : il a monté une exposition sur la vie quotidienne en Afrique équatoriale et au Maghreb. Les photos, en réalité, étaient prises en région parisienne. Déjà, dans de nombreuses zones, il ne s’agit plus de ”minorités”, mais d’une majorité. Si rien ne change, démographiquement, ce sont les Français de souche (c’est-à-dire d’origine européenne) qui risquent de devenir minoritaires. On le voit déjà, avec l’échec de l’intégration, c’est aux autochtones de s’adapter. Ça va s’aggraver. Les symptômes cliniques de la disparition de l’identité franco-européenne, donc de la France elle-même, sont déjà présents.

Nous assistons à l’amenuisement du substrat humain des ”Français de souche”, de ceux qui se sentent ethniquement, historiquement, affectivement Français et Européens. Et même chez les jeunes Français de souche, par exemple, l’Éducation nationale n’enseigne plus l’histoire du pays comme le faisait jadis l’éducation ”républicaine”. Un mouvement général de ”défrancisation” est à l’œuvre, aussi bien ethnique que culturel. Ceux qui protestent contre l’américanisation se trompent complètement. Il s’agit, bien plus gravement, d’une soumission à l’ordre des cultures des nouveaux migrants, islamique, africaine, etc.

Sauf exceptions et minorités, on ne voit aucun signal d’intégration à la ”nation France” des jeunes masses des nouvelles populations immigrées. Au contraire, on note un rejet massif, associé à une sécession, à un début de réactions insurrectionnelles, sous tous les prétextes. L’islam est le carburant majeur de ce phénomène. Il s’agit d’un processus de destruction  virale de l’organisme, de l’intérieur et non pas de l’extérieur. Pas d’intégration ni d’assimilation, donc pas d’acculturation des minorités à la majorité, dès que ces ”minorités” sont en passe de devenir massives et plus jeunes que les autochtones. Ces derniers s’acculturent. C’est le mouvement inverse de ce qui était prévu qui se produit. Ceux qui veulent s’intégrer et se sentent Français ne représentent qu’une minorité, à peine 5%. Le reste : les indifférents (communautarisme, asiatiques et autres, immigration économique),  et les hostiles qui sont une large majorité, dont l’islam est le moteur central, à la fois de revanche et de conquête.

La nouvelle France, Françarabia, sera-t-elle un simple prolongement du monde arabo-musulman au terme d’un processus invasif par le bas ? Le changement de langue, de religion, de culture est en cours et les élites se bouchent les yeux.  La vérité est trop simple pour être comprise par l’esprit intellectuel qui préfère la complication de la scholastique et sa savante organisation des mensonges et des erreurs. L’intellectuel est incapable de deviner l’avenir. D’ailleurs, une idéologie présentiste, qui refuse l’enracinement, est inapte à prévoir le futur. 

 2. Ethnopolitique et idée de Nation

Ces propos concernent la France, mais, plus largement, l’ensemble de nos cousins européens. Un pays est fait d’hommes et non pas d’idées. La cause principale de la mort possible de la France  est donc l’immigration massive de peuplement d’arrivants extra-européens qui s’apparente à un changement et à un remplacement de population, du fait des implacables lois démographiques. La plupart de ces migrants, de fraiche date ou, déjà, de deux générations, ne se sent pas du tout ”français” charnellement et n’a strictement rien à faire de la France. Ils restent attachés à leur patrie d’origine. On assiste donc objectivement à un processus invasif ”par le bas”. Rien de tel ne s’était produit avec les migrants qui ont peuplé les Etats-Unis : ils avaient spontanément développé un patriotisme américain, surplombant leurs anciennes origines. Ils étaient tous de filiation européenne. Le melting pot américain était au départ strictement réduit à l’origine européenne des migrants. 

Je défends la thèse de l’ethnopolitique, selon laquelle l’identité, la personnalité, l’essence d’un peuple, d’une nation, d’un pays (notions apparentées) dépendent d’un socle humain et ethnique. Les institutions, l’économie, la culture, les mentalités  sont le fruit direct de ces racines. Si elles sont coupées, arrachées, modifiées, le pays disparaît objectivement, même s’il garde le même nom. Un pays vit toujours, même s’il n’est pas politiquement indépendant : il peut toujours recouvrer sa souveraineté ou se remettre d’une occupation militaire. Regardons l’exemple de la Pologne, longtemps absorbée dans l’Empire russe puis, brièvement, dans le IIIe Reich puis dans le protectorat soviétique.  En revanche, un pays disparaît si son substrat ethnique, c’est-à-dire anthropologique et culturel est bouleversé. C’est ce qui est en train de nous arriver. C’est pourquoi la démographie est, de toutes les sciences humaines, la plus importante. 

Donc, ce n’est pas de l’Union européenne supranationale , qui restreint et rogne sa souveraineté, que la France risque de mourir. Mais de la transformation ethnique de sa population, c’est-à-dire à la fois dans les domaines anthropologiques, culturels, religieux. Elle s’appellera toujours peut-être ”France”, mais ce ne sera plus qu’une enveloppe, qu’une France simulée. Comme une bouteille qui porte l’étiquette ”bordeaux” mais qui contient un autre type de vin.

 Ce ne sont pas les crises économiques ni les défaites militaires qui jettent à bas un pays (on peut toujours s’en remettre) mais l’affaiblissement et le délitement de son germen, de sa colonne vertébrale anthropologique.  C’est-à-dire les racines de l’arbre. Imagine-t-on le Japon peuplé de 50% d’Africains ” japonisés ”, avec d’autres peuples asiatiques ? Israël, lui-même, est menacé par la croissance des Arabo-musulmans sur son territoire plus que par un danger militaire. Cela vaut pour tous les pays.

 Une France, qui non seulement serait massivement islamisée (première religion pratiquée, ce qui commence) mais dont une part grandissante de la population ne serait plus de souche européenne, ne serait tout simplement plus la France. Et ne serait même plus son héritière !  De même que l’Égypte actuelle n’est pas l’héritière de celle des Pharaons, ni le Pérou l’héritier des Incas.

3. L’ imposture de l’idéologie républicaine française

 La grande erreur de l’idéologie républicaine, partagée par tous les partis, a été de croire que l’essence de la France (ou de tout autre pays) était intellectuelle, c’est-à-dire uniquement fondée sur l’adhésion à des idées, à des valeurs, à un projet.  Ce n’est que très partiellement vrai. L’essence d’un pays est d’abord sa cohésion charnelle. C’est-à-dire l’apparentement ethnique, qui relève du concret et non pas de l’abstraction. Aristote parlait de philia (amitié intraethnique des citoyens de même origine) indispensable à l’existence stable d’une Cité. De Gaulle, de manière très contraire à l’idéologie républicaine officielle, avait expliqué à Alain Peyrefitte le fond de sa pensée, rapporte ce dernier dans C’était De Gaulle : la France est, disait-il en substance, un pays de race blanche, de religion chrétienne et de culture gréco-romaine et ne peut accueillir que de toutes petites minorités d’autres origines. Cette position de bon sens est aujourd’hui rejetée par tous les ”républicanistes”, y compris les pseudo gaullistes de l’UMP, pour qui a France est un melting pot qui devrait miraculeusement être cimenté par l’ ”idée” quasi métaphysique de République. Cette conception est gravement idéaliste et ne fonctionnera jamais.  

 Dans un article du Figaro pour lequel il a été poursuivi en vain par la justice, La République contre la Nation, Jean Raspail expliquait que l’idéologie républicaine française entrait en conflit avec l’idée nationale au sens ethnique, par son universalisme débridé. Il prévoyait, à terme, une guerre civile ethnique, qu’il estimait d’ailleurs perdue d’avance, ce qui n’est pas mon avis, on le verra plus loin. La République s’impose donc comme une idéologie (alors qu’elle ne devrait représenter qu’une forme de gouvernement) contre la patrie et la France. Cet abstractivisme est intenable à terme.

 En tant qu’admirateur d’Aristote en effet, je ne combats évidemment pas la république comme forme de gouvernement ni la démocratie comme principe, mais simplement l’idéologie républicaine française qui détourne le sentiment populaire de l’ethnicité, fondement de la démocratie.   Détournant l’idée de république, le républicanisme français actuel se rapproche de l’idéologie soviétique qui considérait les hommes comme des briques indifférenciées, venant de toutes origines mais fédérés par le ”Diamat” (dogme marxiste-léniniste du matérialisme dialectique). 

 Née à une époque  où il n’y avait pas d’immigration de peuplement, l’idéologie républicaine pouvait rabâcher gratuitement tous les slogans les plus ineptes : « tout homme a deux patries, la sienne et la France ».  Ou  bien souscrire à l’idée stupide de Renan : la France comme idée, comme projet opposée à l’Allemagne, fondée sur l’ethnicité. En réalité toutes les nations, tous les peuples, tous les pays sont, même s’ils le refusent dans l’idéologie, fondés sur l’ethnicité, sur la parenté ethnique. Autrement, ça finit par exploser.

De plus, cette idéologie républicaine ou pseudo républicaine ne maintient plus la souveraineté de l’État défenseur, mais seulement son poids d’État Providence, protecteur d’abord des étrangers, même clandestins et illégaux. Ce qui frappe, depuis les années 80, et qui est un signe inquiétant de délitement de la France (comme au moment de la chute de l’Empire romain), c’est l’affaiblissement de l’État, dans tous les domaines régaliens : laxisme judiciaire, forces de l’ordre paralysées, impuissance croissante face à la criminalité, législation soit imposée par Bruxelles soit redondante, inextricable, inapplicable ; reculades constantes face aux corporations, syndicales et autres ; impotence complète face à l’immigration clandestine, absence totale de contrôle des frontières, etc. Bref, le déclin de l’autorité publique. Mais paradoxalement,  cet État impuissant sur le plan régalien se montre un pachyderme invasif dans les domaines réglementaire, bureaucratique, fiscal. C’est exactement ce qui se produisit quant au IVe siècle, l’État romain brillait de ses derniers feux, avant de s’effondrer avec fracas.    

4. Le  mauvais plombier et le mauvais médecin

 Le problème principal, à la fois français et européen (hors Russie) est la médiocrité générale de la classe politique, élus et gouvernants confondus, sauf exceptions minoritaires, très accentuée depuis la mort de Georges Pompidou. Globalement, on ne se préoccupe pas de la question fondamentale, tonitruante, la colonisation migratoire et l’islamisation qu’on n’arrête pas, et qu’on n’essaie de résoudre que par des cautères sur un jambe de bois comme la ”laïcité” contre le ”communautarisme”, tout en mentant effrontément au peuple de souche, encore majoritaire –pour l’instant– sur ce qui l’attend. Le mauvais plombier propose, non pas de couper l’eau pour réparer la fuite, puis de refouler l’inondation, mais de bricoler les tuyaux et d’utiliser la serpillière. Le mauvais médecin a peur de révéler à son patient l’ampleur de son mal, soit qu’il l’ignore ou le lui dissimule. Il lui prescrit donc des médicaments chers mais inopérants, ou bien il nie le mal et prescrit des analgésiques et des anxiolytiques pour faire cesser provisoirement les douleurs. Le problème central n’est pas résolu. L’aggravation du mal est inéluctable. La classe politique est ainsi : elle ne raisonne qu’à très court terme. L’idée de ”patrie” est très éloignée de ses préoccupations. Elle est à la fois torpillée par l’idéologie dominante et paralysée par ses avantages financiers, la ”corruption légale”. Pis encore : même si elle sincèrement attachée à l’idée de ”France”, elle ne la comprend que dans un sens restreint, intellectuel et non pas charnel, abstrait et non pas concret.

En dehors de toute polémique, il faut reconnaître que De Gaulle (seul opposant de droite dès 1940 au Troisième Reich alors que les collaborateurs de Vichy venaient à 80 % de la gauche) a défendu une vision ethniste de la France. C’est pour cela qu’il a voulu la décolonisation et l’indépendance de l’Algérie. Alain Peyrefitte raconte (livre précité) qu’il estimait impossible la cohabitation, où que ce soit, entre Européens et musulmans et qu’il s’opposait à toute immigration nord-africaine en France. Il n’avait évidemment pas prévu ce qui se passerait après lui. Aujourd’hui, le Front national qui semble se rapprocher du gaullisme après l’avoir longtemps combattu, se souvient d’un des fondamentaux du vrai gaullisme : l’identité ethnique, appelée ”nationale”, ce qui a exactement la même origine étymologique.

 5. Des dirigeants apeurés ou cyniques

 Les dirigeants politiques, journalistiques, intellectuels, économiques font comme si rien ne changeait. L’eau monte dans le Titanic éventré mais on réagit comme si rien de grave ne se passait. L’orchestre continue à jouer.  Champagne ! Toujours, le court terme est préféré à l’avenir. Le faux optimisme (”non, non, on ne coule pas, tout va bien, on va s’en sortir par l’intégration républicaine”) le dispute au mensonge des pleutres et des idiots utiles ( ”l’immigration, une chance pour la France”) et au cynisme de ceux, comme le lobby socialiste Terra Nova d’obédience trotskiste, qui veulent clairement la disparition de la France (et de l’Europe) dans leur identité historique, parce qu’ils sont motivés par un sentiment  trouble, à la fois masochiste, haineux et xénophile.

Pointons les raisonnements biaisés des élites, fondés sur le déni de réalité et sur des diagnostics falsifiés : 1) l’immigration de peuplement, soit n’en est pas une, soit constitue une chance, un atout ; quand à l’islam, ce serait un enrichissement et l’islamisme un phénomène limité et sous contrôle. 2) Grâce à l’”intégration” ou, nouveau concept, au ”vivre ensemble” sans intégration, la nouvelle France sera plus riche de sa diversité, mot fétiche. Pourquoi cette falsification de la réalité par les élites ? 1) À cause de l’idéologie humanitariste, antiraciste, anti ethniste (pour les Européens seulement) et d’une vision faussée de la Nation par un républicanisme délirant qui bafoue les intérêts et l’avis du peuple autochtone ; ce dernier étant méprisé, coupable de se laisser flatter par les ”populismes”. Une désagréable contradiction apparaît ici : au delà d’un certain seuil, si ça continue, au cours du XXIe siècle, la France multicolore et en voie d’islamisation ne sera plus du tout une ”république démocratique” mais ressemblera au Liban , au Maghreb et à leurs régimes. 2) La peur, pour les politiciens, des nouvelles populations, jugées dangereuses sans qu’on n’ose se l’avouer vraiment, peur assortie de réflexes  électoralistes. 3) Le besoin de se rassurer, de s’aveugler soi-même, de se mentir à soi-même. 4) Le terrible esprit collaborationniste de soumission qui est malheureusement récurrent dans l’histoire de France. (1)

6) Course à l’abîme ou simple maladie ? 

Bien sûr, la France a encore d’énormes atouts : dynamisme des start-up (malgré une fiscalité délirante) succès des multinationales (qui créent surtout des emplois à l’étranger), haut niveau de formation, richesse du patrimoine. Mais ne s’agit-il pas de ”beaux restes”, comme on dit d’une femme ? Quelques arbres vivants ne cachent-ils pas une forêt en train de dépérir ?   

 La situation économique et financière catastrophique de la France provoquée par la gestion socialiste aggrave encore les choses. Mentionnons par exemple, la fuite des cerveaux, les jeunes Bac +6  autochtone remplacés par des Bac – 6 venus d’ailleurs. Les forces vives qui émigrent et d’autres ”forces” qui immigrent… L’état de l’Éducation nationale ne prépare pas non lus un avenir rieur pour les générations futures. La France a encore des atouts (recherche scientifique, secteurs performants, etc.) mais tout cela s’érode. Comme un belle toile qui n’est pas restaurée et perd de son éclat, peu à peu. Néanmoins, une crise économique explosive pourra avoir un effet imprévu positif, révolutionnaire, qui pourrait renverser la situation.

 Les actes de haine antisémite  qui ont marqué – entre autres – les manifestations pro palestiniennes de juillet sont probablement la préfiguration de ce qui attend les Français de souche. Comme je l’ai dit dans un précédent article, le compte à rebours d’événements insurrectionnels très graves a probablement commencé, préludes à une possible guerre civile ethnique. Cette dernière, couplée à une dépression économique, peut inaugurer un cycle révolutionnaire d’où tout peu sortir. C’est ce point qui sera abordé dans le prochain article.  

Les nouvelles populations ne veulent plus de la France et de son histoire. Avec la complicité et/ou l’aveuglement d’une partie des élites, la colonisation de peuplement et le grand remplacement sont entamés. La mathématique démographique est en route, implacable. On peut intégrer, c’est-à-dire absorber des minorités, mais pas des masses qui deviennent peu à peu majoritaires dans des zones de plus en plus nombreuses et qui imposent, objectivement, leurs mœurs. Les changements de langue, de religion, de culture sont en cours. L’histoire en offre maints exemples. Pourquoi la France et l’Europe y échapperaient-elle ? Ceux qui nous racontent, à gauche comme à droite, que l’intégration fonctionne ou doit absolument fonctionner sont des myopes ou des menteurs. Au contraire, ce qui fonctionne, c’est la partition et la haine de la France (même chose chez nos voisins).  Tous les événements récents le prouvent. Errare humanum est ac perseverare diabolicum. (”Se tromper est humain, mais il est diabolique de persévérer dans l’erreur”, proverbe latin)

L’islam est un facteur lié et aggravant. Contrairement au mensonge d’État, comparable à ceux des anciens pouvoirs soviétiques qui falsifiaient l’histoire et les faits, l’islam n’a jamais été partie prenante de l’histoire de France ; il en est même le contraire par essence, avant et après 1789. L’hostilité de l’islam aux valeurs européennes, qu’elles soient chrétiennes ou laïques, est un fait historique constant et structurant. La volonté universaliste de l’islam de conquête (et de revanche) est un constat objectif. La criminalisation de l’”islamophobie” par la jurisprudence est un signal fort de soumission (et de permission) envoyé aux agents de l’islamisation de la France. Dans un entretien entre Bruno Le Maire et Pascal Bruckner (« La barbarie gagne la France », Le Figaro, 04/08/2014), ce dernier déclare : « Place de la République, le 27 juillet, les manifestants ont fait leur prière de rue par terre, ce qui veut dire très clairement : là où sont les musulmans, là est la terre d’islam.[...] Dès que nous réaffirmons l’identité nationale, nous sommes accusés de racisme. Le mot ”islamophobie” est devenu un moyen d’assimiler toute critique de l’islam à du racisme. En revanche personne ne parle de christianophobie » Propos intéressants. Il faisait référence aux chrétiens déportés et massacrés par nos chers musulmans en Irak et en Syrie.   

 La catastrophe militaire de 1940, qui n’a pas été la première dans la longue et lourde histoire du pays, fut une piqure de guêpe en comparaison de ce qui nous arrive actuellement, c’est-à-dire la destruction progressive de nos racines et de notre identité française et européenne, de manière peut-être irrattrapable. L’exemple du Japon est parlant : écrasé en 1945 comme jamais aucun pays ne le fut, seul à avoir subi dans l’histoire le feu nucléaire, l’Empire du Soleil levant s’est relevé et persiste. Pourquoi ? Parce qu’il s’est abrité de toute immigration étrangère, parce que ses valeurs ancestrales, historiques, spirituelles, nationales, ethniques on prévalu – en dépit de la société de consommation et du matérialisme. Le Japon a trouvé dans son âme ancestrale la force de rester lui-même. Il a eu l’intelligence de ne pas compenser fallacieusement sa dénatalité par une immigration étrangère qui aurait dénaturé sa substance, son germen. (2) 

CONCLUSION.

 Il y a un créneau pour l’optimisme : c’est la reprise en mains. C’est pourquoi, au fond, je suis peut-être pessimiste mais pas fataliste. Dans l’histoire, tout est imprévisible et possible. Ce que j’expliquerai dans mon prochain article. En effet, face à cette disparition possible, tragique, de la France avant la fin de la première moitié du XXIe siècle, quels sont les scénarios possibles ? Que peut-il se passer ? Mort lente, mort brutale, résistance explosive, révolution, renaissance ?  Dans le prochain article, je vous proposerai trois scénarios . L’article s’intitulera : « 2014-2040 : les 3 scénarios. Fin ou renaissance de la France ? »  À suivre …

(1)Des tribus gauloises liguées contre Vercingétorix et collaborant avec les Romains (Éduens, notamment) à la Seconde guerre mondiale, en passant, entre autres, par l’épisode de Jeanne d’Arc qui eut à combattre autant des Français que des Anglais et qui ne fut pas brulée à Rouen par ces derniers… 

(2) L’exemple du Japon infirme l’argument rebattu selon lequel les ”sociétés fermées” seraient improductives. Au contraire, ce sont les sociétés trop ouvertes qui le sont, car menacées d’explosion. Les Japonais ont eu cette lucide intelligence de comprendre qu’en dépit de leur dénatalité, l’immigration n’était pas la bonne solution. Seraient-ils plus intelligents que nous ?

 

jeudi, 21 août 2014

France, royaume des imposteurs

Le royaume des imposteurs...

Nous reproduisons ci-dessous une tribune libre de Natacha Polony, cueillie sur le site du Figaro et consacré à l'imposture dans le monde politique français... Journaliste et agrégée de lettres, Natacha Polony est l'auteur de  Nos enfants gâchés. Petit traité sur la fracture générationnelle (Lattès, 2005), L’Homme est l’avenir de la femme (Lattès, 2008) et de Le pire est de plus en plus sûr (Mille et une nuits, 2011).

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France, royaume des imposteurs

par Natacha Polony

Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com

Cela commence par un président qui se fait élire sur la promesse d'imposer les plus riches à 75%. Disposition retoquée par le Conseil constitutionnel. Le même se fait écraser aux municipales et promet des baisses de charges salariales. À nouveau retoqué. Ce président prend aussi des airs compassés pour aligner trois mots effarants de banalité sur «le droit à la sécurité d'Israël» avant de se reprendre, quelques jours plus tard, et d'évoquer les morts palestiniens parce qu'un communicant l'a alerté sur l'effet désastreux de son assourdissant silence. Triste figure de composition qui est la même qu'à peu près tous les politiques, de droite comme de gauche, quand ils veulent montrer au citoyen français qu'ils sont impliqués, conscients, déterminés.

C'est cet air d'un ancien président interrogé par deux journalistes et qui évoque ce «sens du devoir» qui seul pourrait lui donner l'envie de mettre fin au feuilleton savamment orchestré de son retour pour annoncer qu'il répond à l'appel du peuple. C'est celui d'un ministre des affaires étrangères au visage de circonstance, voulant faire croire que la France a une quelconque position diplomatique qui serait autre que l'alignement pur et simple sur les volontés américaines.

C'est celui de ces chefs de la droite, grands ou petits, qui proclament à chaque élection leur «conviction européenne» depuis que Jacques Chirac, en 1992, a décrété qu'on ne pouvait avoir de destin présidentiel si l'on avait osé critiquer cette Europe.

C'est enfin celui de tous ces responsables qui parlent la main sur le cœur du déclassement des classes moyennes inférieures parce qu'ils ont - enfin - compris que leur abandon total les précipitait dans les bras du Front national.

Quel rapport entre ces personnages disparates? Cette petite gêne que l'on ressent devant ce qui ressemble fort à une simple posture. Le soupçon qu'il n'y a là aucune conviction, pas l'ombre d'une vision, mais un discours calculé suivant les impératifs supposés de la popularité ou de la réussite. La posture, c'est cette façon de ne se positionner que selon les critères du moment et ce que l'on suppose être l'attente de son public.

C'est ce dommage collatéral généralisé du règne de la communication. Car le phénomène ne frappe pas seulement les politiques. Dans chaque domaine de l'activité humaine, on peut relever ces exemples, non pas d'hypocrisie - ce serait encore un hommage du vice à la vertu - mais de composition d'un argumentaire ponctuel hors sol. Et cela nous raconte un peu de notre monde moderne.

La communication dont on nous rebat les oreilles comme d'un principe d'efficacité a changé de nature sous l'effet d'une extension de la logique marchande. Elle n'a plus rien à voir avec la vieille réclame qui se contentait de vanter les qualités d'un produit, de «faire savoir». Il s'agit désormais de concevoir le produit en fonction de ce qui va séduire. La communication modifie l'essence même des choses.

Dans le domaine des idées? Plus un discours qui ne vante l'action merveilleuse des femmes, tellement «indispensables». Posture. Et que dire de ces proclamations sur la tolérance dont le but est moins de changer les choses que de montrer à ses pairs que l'on se situe du bon côté? Posture. Dans le domaine de l'art? Il y a longtemps que nous sommes habitués à ce discours verbeux qui accompagne des œuvres sans âme pour les positionner sur l'échelle de la «rébellion». Posture encore. Dans le domaine du vin? Il n'y a plus de choix qu'entre des vins passés dix-huit mois en barrique neuve, parce que certains œnologues à la mode n'aiment que le goût du chêne, ou les vins oxydés de ceux qui ont fait du vin «bio» une idéologie.

Le dénominateur commun? Le lecteur, l'électeur ou le buveur sont devenus des clients, plus des citoyens auxquels on s'adresse, des gens à qui l'on offre une émotion ou une vision en partage. Ils sont des parts de marché potentielles. En politique, le tournant date du début des années 1980, quand des publicitaires ont pris en main les campagnes électorales. Un petit village de France sur une affiche et ce slogan: «La force tranquille». Première forfaiture politique. Car malgré l'espoir sincère que soulevait dans une partie du peuple l'arrivée de cette gauche au pouvoir, on entrait dans l'ère du mensonge. Sous prétexte d'aider les politiques à formuler leurs idées et d'offrir un écho à leurs actes, les marketeurs ont peu à peu modifié le discours politique lui-même pour le faire coller aux codes.

Comme dans le vin, c'est maquillage au bois neuf du techno pinard ou vinaigre imposé par les «purs» autoproclamés. C'est un gaullisme de circonstance par des héritiers perchés sur la croix de Lorraine pour mieux s'asseoir sur les engagements et les choix de l'homme du 18 Juin. C'est une invocation ad nauseam des mânes de Jaurès par ceux-là mêmes qui ont désindustrialisé le pays et abandonné la classe ouvrière pour convenir aux sirènes de la mondialisation.

Une société de posture ne peut rien produire de durable, rien qui dépasse le simple cadre de notre existence immédiate, puisqu'elle ne cultive que le court terme et la rentabilité. Quitte, pour cela, à tromper un peu le client. Ainsi de la posture sommes-nous passés à l'imposture.

Natacha Polony (Figarovox, 11 août 2014)

samedi, 09 août 2014

Pascal Gauchon nous présente la revue "Conflits"

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Pascal Gauchon nous présente la revue "Conflits"

Pascal Gauchon répond à Breizh-Info cliquez ici :

Breizh-info avait présenté récemment la nouvelle et excellente revue géopolitique "Conflits". Dans l’interview qu’il nous a accordée, son directeur Pascal Gauchon nous parle de la revue, de ses objectifs, mais également du  sommaire du deuxième numéro dont le dossier principal est consacré aux nouveaux mercenaires. Rencontre avec le fondateur d’une revue non consensuelle qui devrait faire date.

Breizh-info.com : Pascal Gauchon, pouvez-vous vous présenter votre parcours professionnel ?

Pascal Gauchon (revue Conflits) : C’est un parcours d’enseignant assez classique ; école normale supérieure, agrégation d’histoire, une dizaine d’années dans des collèges de banlieue puis, comme l’Education nationale ne m’offrait aucune perspective de promotion, le privé. J’ai enseigné à partir de 1985 (j’enseigne toujours) comme professeur en classe préparatoire ECS à Ipésup, l’un des établissements les plus réputés pour cette formation, et en même temps j’ai dirigé pendant 25 ans une filiale d’Ipésup, Prépasup.

J’ai donc réussi ce que j’avais toujours voulu : concilier une activité intellectuelle et des responsabilités d’organisation et de direction. Je l’ai fait également en tant que directeur de collection aux PUF, je le fais toujours en lançant Conflits

cong1234019448.jpgBreizh-info.com : La revue Conflits sort son deuxième numéro consacrée notamment aux « nouveaux mercenaires ». Quel est la genèse de la revue ? A qui se destine-t-elle ? Qui compose l’équipe éditoriale ?

Pascal Gauchon (revue Conflits) : J’enseigne la géopolitique, je publie des ouvrages de géopolitique depuis un certain temps déjà. J’ai eu l’intuition qu’il existe aujourd’hui un besoin d’analyse géopolitique. Nous sommes de plus en plus insérés dans le monde, ce qui se passe ailleurs nous concerne de plus en plus ; par ailleurs nous voyageons plus, nous parlons plus de langues étrangères… Il faut donc des outils pour comprendre la planète. 

Cela est d’autant plus important que le regard porté par les grands medias est d’un triste conformisme, souvent par paresse intellectuelle, parfois par volonté de désinformation. Souvenez-vous du discours cent fois répété sur la « mondialisation heureuse », des hymnes à la victoire de la démocratie à la suite des printemps arabes, des anathèmes contre les pays qui ne veulent pas entrer dans le « nouvel ordre mondial » annoncé après 1991. On nous a décrit un monde de bisounours, ou pour reprendre une formule de Montherlant que je préfère, de « Rintintin et Nénette for ever ». 

Avec le titre de la revue, Conflits, nous entendons nous placer en rupture par rapport à ce discours de niaiserie. La revue s’adresse donc à tous ceux qui veulent avoir du grain à moudre pour leur réflexion, à ceux qui attendent une « géopolitique critique » selon le titre de l’éditorial du numéro 1. 

L’équipe éditoriale est nombreuse, elle comporte une douzaine de collaborateurs réguliers. S’ajoutent à eux des spécialistes auxquels nous faisons appel en fonction des sujets choisis. Les collaborateurs réguliers sont en général de jeunes professeurs, beaucoup enseignent en classe préparatoire, d’autres en lycée ou à l’Université ; il y a aussi des professionnels de l’intelligence économique, de la criminologie ou de la sécurité.

Breizh-info.com : Vous êtes une des rares revues géopolitique existante. De plus, vous devez être la seule à ne pas offrir un regard « occidentalo-centré » sur ce qui se passe dans le monde. Pourquoi ce choix éditorial ?

Pascal Gauchon (revue Conflits) : Il existe quelques revues de géopolitique, mais peu sont destinées au « grand public », comme il est convenu de dire. Et il est vrai que nous nous efforçons d’avoir un regard original. Je l’ai indiqué, c’est notre raison d’être. 

Breizh-info.com : Montée des islamistes dans les pays arabes et en Syrie, pression musulmane en Afrique, nombreux foyer de guerres dans le monde et d’instabilité. Quels sont les évènements qui vous ont particulièrement interpellés récemment ? Comment expliquer vous le changement total de politique étrangère de la France, dont l’influence dans le monde parait de plus en plus faible et surprend quand à l’aide apporté notamment aux islamistes ?

Pascal Gauchon (revue Conflits) : Il est vrai que les nombreux analystes qui avaient annoncé la fin de l’islamisme ont été démentis par les événements. Je me souviens d’un ouvrage, paru quelques semaines avant le 11 septembre, qui se montrait très affirmatif sur ce point ; il était rédigé par des spécialistes reconnus mais pas omniscients.

Tout cela doit inciter à la prudence. La montée de l’islamisme est la conséquence directe de l’échec des nationalismes arabes, un échec auquel nous avons contribué, même si ces régimes ont une part de responsabilité non négligeable dans leurs difficultés. Une autre politique est donc possible, et l’on voit que pour arrêter les progrès de l’islamisme Washington a fini par se résigner à la prise de pouvoir de al-Sissi en Egypte. Comme quoi ils savent mettre leurs principes démocratiques entre parenthèses quand il le faut.

La France n’a pas cette sagesse. Depuis l’arrivée au pouvoir de Nicolas Sarkozy elle est devenue plus royaliste que le roi, plus américaine que les Américains. Nous étions en pointe dans le projet d’intervention militaire en Syrie. Encore faut-il noter que N. Sarkozy avait fait preuve d’une certaine indépendance d’action parfois, ainsi lors de la guerre entre la Russie et la Géorgie. Ce n’est plus le cas avec F. Hollande.

En fait, nous avons l’impression d’une rupture en 2007, mais c’est une lente évolution qui nous a fait nous aligner de plus en plus sur les Etats-Unis, de V. Giscard d’Estaing à Mitterrand. L’insertion croissante dans l’ensemble européen a joué son rôle, puisque la construction européenne est dès le départ un projet atlantiste. La génération 68 a contribué à ces changements, comme l’avait bien compris, il y a longtemps déjà, J.F. Revel qui signalait à quel point elle était américanisée. 

Breizh-info.com : Quels sont les pays qui selon vous seront les acteurs majeurs au 21ème siècle ? Va-t-on vivre un siècle de profonds bouleversements ?

Pascal Gauchon (revue Conflits) : Prudence. Oui nous allons vivre de profonds bouleversements au 21ème siècle, comme au 20ème, au 19ème, au 18ème et à tous les autres siècles de l’histoire. Il est difficile de les prévoir, mais l’une des approches les plus efficaces est de partir de la démographie, l’avenir qui est déjà écrit selon Peter Drucker. Dans ce cas les lignes de force sont évidentes : déclin de l’Europe, renversement de situation pour beaucoup de pays émergents comme la Chine qui verront leur croissance et leur montée en puissance se ralentir, affirmation de l’Afrique noire qui représentera un tiers de la population mondiale en 2100 et dont les flux migratoires seront de plus en plus incontrôlables.

Maintenant il n’y a pas que la démographie. Une population qui augmente trop vite peut poser des problèmes insolubles, cela peut être le cas de l’Afrique. Il y a surtout la qualité des politiques. De ce point de vue la classe dirigeante chinoise est impressionnante. Pensez qu’en 2000 tous les experts annonçaient que la croissance chinoise serait étouffée à cause de la trop petite taille des ports chinois qui ne permettrait pas d’accueillir les importations de plus en plus importantes dont elle a besoin. En moins de dix ans le problème a été réglé au point que parmi les dix premiers ports mondiaux, sept sont chinois ! 

Par ailleurs les Etats-Unis disposent d’atouts exceptionnels qu’ils ne sont pas prêts à abandonner, comme la haute technologie et surtout le dollar. Je ne crois pas que le dollar va perdre rapidement son rôle dans l’économie mondiale, pas plus que la livre sterling ne l’a perdu rapidement au XXème siècle. Je sais que je suis en désaccord avec certains qui prennent leurs désirs pour des réalités et qui confondent leur souhait – que les Etats-Unis cessent de nous dicter notre politique – et les faits – la puissance américaine reste et de loin la première mondiale. 

Vous le voyez, ma réponse est banale et prudente. Qui dominera le monde ? Sans doute les Etats-Unis, mais ils devront tenir compte de la Chine. L’inconnue est ailleurs me semble-t-il : les Etats-Unis continueront-ils à accepter de payer le prix de leur interventionnisme dans le monde ? Pourraient-ils être tentés par un nouvel isolationnisme ? Je ne le crois pas, car cela ne me semble pas être l’intérêt de leur classe dirigeante. Pour l’instant du moins. 

Enfin, n’oubliez pas la place de l’imprévu, c’est-à-dire le rôle des hommes. 

Breizh-info.com : Votre revue refuse le dogme « politiquement correct ». Le premier numéro a-t-il bien marché ? Etes-vous lu en haut lieu ? Quel rôle vous donnez vous pour les années à venir ?

Pascal Gauchon (revue Conflits) : Oui, le premier numéro a connu un succès très supérieur à ce que nous attendions, en particulier en ce qui concerne les ventes dans les kiosques. Il est vrai que nous avons eu de la chance en consacrant notre dossier à l’Eurasie au moment de la crise ukrainienne. Je ne sais pas jusqu’où nous sommes lus en haut lieu, mais j’ai eu des échos très favorables de hauts fonctionnaires et de journalistes. 

Si les ventes continuent à se tenir correctement, nous développerons d’autres activités : édition de livres, site Internet que nous étofferons, enseignement, lancement de « clubs Conflits » pour organiser des conférences et entretenir le débat autour de nos idées. Mais tout cela ne pourra exister que quand nous serons stabilisés, donc pas avant un an. 

Et pourquoi faire tout cela ? D’abord pour rendre les gens plus intelligents, leur apprendre à se méfier de toutes les idées reçues, y compris les leurs. Ensuite pour fédérer tous les courants géopolitiques anticonformistes auxquels notre revue est ouverte. Enfin pour former et faire émerger une école de jeunes géopoliticiens qui, je l’espère, renouvelleront la discipline. 

Breizh-info.com : Comment procéder pour s’abonner, pour découvrir la revue ?

Pascal Gauchon (revue Conflits) : Le plus simple est de passer par notre site Internet, revueconflits.com (cliquez ici). Le lecteur y découvrira certains articles (l’éditorial et la page « polémique »), les recensions de livres du numéro précédent. Il pourra s’abonner par Paypal. Il est possible aussi d’écrire à Conflits, 55 boulevard Péreire, 75017 PARIS. Ou encore d’acheter le numéro dans un point de vente – nous tirons à plus de 40 000 exemplaires et nous sommes donc largement diffusés. En particulier on trouve Conflits dans les principaux magasins Relay.