di
Robert Steuckers Knut Hamsun: una vita che attraversa circa un secolo intero, che si estende dal 1859 al 1952, una vita che ha camminato tra le prime manifestazioni dei ritmi industriali in Norvegia e l’apertura macabra dell’era atomica, la nostra, che comincia a Hiroshima nel 1945. Hamsun è dunque il testimone di straordinari cambiamenti e, soprattutto un uomo che insorge contro l’inesorabile scomparsa del fondo europeo, del Grund in cui si sono poggiati tutti i geni dei nostri popoli: il mondo contadino, l’umanità che è cullata dalle pulsazioni intatte della Vita naturale.
“
una fibra nervosa che mi unisce all’universo”
Questo secolo di attività letteraria, di ribellione costante, ha permesso allo scrittore norvegese di brillare in ogni maniera: di volta in volta, egli è stato poeta idilliaco, creatore di epopee potenti o di un lirismo di situazione, critico audace delle disfunzioni sociali dello “stupido XIX secolo”. Nella sua opera multi-sfaccettata, si percepiscono pertanto al primo sguardo alcune costanti principali: un’adesione alla Natura, una nostalgia dell’uomo originario, dell’uomo di fronte all’elementare, una volontà di liberarsi dalla civilizzazione moderna essenzialmente meccanicista. In una lettera che egli scrive all’età di ventinove anni, scopriamo questa frase così significativa: “Il mio sangue intuisce che ho in me una fibra nervosa che mi unisce all’universo, agli elementi”.
Hamsun nasce a Lom-Gudbrandsdalen, nel sud della Norvegia, ma trascorre la sua infanzia e la sua adolescenza a Hammarøy nella provincia del Nordland, al largo delle Isole Lofoten e al di là del Circolo Polare Artico, una patria da lui mai rinnegata e che sarà lo sfondo di tutta la sua immaginazione romanzesca. È una vita rurale, in un paesaggio formidabile, impressionante, unico, con gigantesche falesie, fiordi grandiosi e luci boreali; sarà anche l’influenza negativa di uno zio pietista che condurrà assai presto il giovane Knut a condurre una vita di simpatico vagabondo,di itinerante che esperimenta la vita in tutte le sue forme.
Il destino di un “vagabondo” Knut Pedersen (vero nome di Knut Hamsun) è figlio di un contadino, Per Pedersen che, a quarant’anni, decide di abbandonare la fattoria che appartiene alla sua famiglia da più generazioni, per andare a stabilirsi a Hammarøy e diventare sarto. Questo cambiamento, questa uscita fuori dalla tradizione familiare, fuori da un contesto pluricentenario, provoca l’indigenza e la precarietà in questa famiglia scossa e il giovane Knut, a nove anni, si vede affidato a questo zio severo, di cui abbiamo appena parlato, uno zio duro, puritano, che detesta i giochi, anche quelli dei figli e picchia duro per farsi obbedire. È dunque a Vestfjord, presso questo zio puritano, predicatore, cultore della teologia moralizzante, che Knut Hamsun incontrerà il suo destino di vagabondo.
Per sfuggire alla rudezza ed alla brutalità di questo predicatore evangelico che picchia per il bene di Dio, che interrompe le risate che, senza dubbio, sono ai suoi occhi l’anticamera del peccato, il giovane Knut si chiude in se stesso e si rivolge alla foresta del Grande Nord, così spoglia, ma circondata da paesaggi talmente fiabeschi… La dialettica hamsuniana dell’io e della natura prende corpo nei rari momenti in cui lo zio non fa sgobbare il ragazzo per recuperare la spesa di qualche uovo e di un pezzo di pane nero.
La prima opera: Misteri
Questa vita, tra la Bibbia e i ceffoni, Knut la vivrà cinque anni; a quattordici anni in effetti egli fa le valige e ritorna a Lom, nel natale sud, dove diviene impiegato di commercio. Comincia la vita itinerante: Hamsun acquisisce la sua “caratteristica”, quella di essere un “vagabondo”. Dai quindici ai diciassette anni, egli errerà nel Nord e venderà agli autoctoni ogni tipo di mercanzie, come Edevart, personaggio del suo celebre romanzo I Vagabondi. A diciassette anni, egli impara il mestiere di calzolaio e scrive la sua prima opera: Misteri. Diventa una celebrità locale e passa al grado di impiegato, poi di istitutore. Un ricco commerciante lo prende sotto la sua protezione e gli procura una somma di denaro perché possa continuare a scrivere. Così nasce nel 1879, una seconda opera, Frida, che gli editori rifiutano. La speranza di diventare scrittore svanisce, malgrando un tentativo di entrare in contatto con Björnson…
Comincia allora un nuovo periodo di vagabondaggio: Hamsun è sterratore, cantastorie, capomastro in una cava, etc…, e le sue sole gioie sono i balli del sabato sera. Nel 1882, a 23 anni, parte per l’America dove la vita sarà assai più difficile che in Norvegia e dove Hamsun sarà di volta in volta guardiano di porci, impiegato di commercio, aiuto muratore e commerciante di legname. A Minneapolis, egli vivrà giorni migliori in una comunità di predicatori “unitariani”, di Norvegesi, immigrati come lui in America. Questa posizione gli permette di tenere regolarmente conferenze su diversi temi letterari: là il suo stile si afferma e questo giovane, di bell’aspetto, energico e forte, trasforma le sue delusioni e i suoi rancori in sarcasmo ed in uno humour feroce, colorito, in cui emerge quel genio che non sarà riconosciuto che alcuni anni dopo.
La fame in una mansarda di Copenaghen
Dopo un breve ritorno in Norvegia, egli ritorna in America e vive a Chicago dove fa il bigliettaio di tram. Questo secondo soggiorno americano non dura che qualche anno e, definitivamente deluso, rientra in Scandinavia. Si installa a Copenaghen, in una squallida mansarda, con la fame che gli attanaglia le viscere. Questa fame, questa miseria che gli attacca alla pelle, lo renderà celebre in un batter d’occhio. Dimagrito, mezzo barbone, egli presenta una bozza di romanzo, scritto nella sua mansarda danese, a Edvard Brandes, fratello di Georg Brandes, amico danese ed ebreo di Nietzsche, grande critico del cristianesimo pauliniano, presentato come antenato del comunismo livellatore. Georg Brandes fa uscire questo abbozzo anonimamente nella rivista Ny Jord (”Terra Nuova”) ed il pubblico si entusiasma, i giornali reclamano testi di questo autore sconosciuto e così affascinante. L’era delle vacche magre è definitivamente terminata per Hamsun, a 29 anni. Fame descrive le esperienze dell’autore confrontate con la fame, i fantasmi che essa fa nascere, i nervosismi che essa suscita… Questo scritto d’introspezione colpisce le tecniche letterarie in voga. Esso coniuga romanticismo e realismo. E Hamsun scrive: “Quello che mi interessa è l’infinita varietà di movimenti della mia piccola anima, l’estraneità originale della mia vita mentale, il mistero dei nervi in un corpo affamato!…”. Quando Fame esce in forma di libro nel 1890, il pubblico scopre una nuova giovinezza dello scrivere, uno stile completamente nuovo, impulsivo, capriccioso, di un’infinita finezza psicologica, trasmesso da una scrittura viva, abbellita dalle forme sorprendenti in cui si esprime lo humour sarcastico, vitale, costruito di audaci paradossi, che Hamsun aveva già palesato nelle sue prime conferenze americane. Fame rivela anche un individualismo nuovo, giovanile e fresco. Hamsun scrive che i libri ci devono insegnare “i mondi segreti che si fanno, fuori dalla vista, nelle pieghe nascoste dell’anima, … quei meandri del pensiero e del sentimento; quegli andirivieni estranei e fugaci del cervello e del cuore, gli effetti singolari dei nervi, i morsi del sangue, le preghiere delle nostre midolla, tutta la vita inconscia dell’anima”. La fine del secolo deve lasciare posto all’individualità e alle sue originalità, alle complessità che non corrispondono ai sentimenti e all’anima dell’uomo moderno. Complessità che non sono stereotipate in abitudini gravose, nelle routine borghesi ma vagabondano e vedono, grazie al loro completo distacco, le cose nella loro nudità. Questo rapporto diretto con le cose, questo aggiramento delle convenzioni e delle istituzioni, permette l’audacia e la libertà di aggrapparsi all’essenziale, alle grandi forze telluriche e vieta il ricorso ai piccoli piaceri stereotipati, al turismo convenzionale. L’individuo che vagabonda tra se stesso e la Terra onnipresente non è l’individuo-numero, perduto in una massa amorfa, privo di ogni legame carnale con gli elementi.
In Fame, l’affamato si distacca dunque totalmente dalla comunità degli uomini; la sua interiorità ripiega su se stessa come quella del bambino Hamsun che vagabondava nella foresta, errava nel cimitero o si piazzava in cima ad una collina per assorbire le bellezze del paesaggio. L’affamato non sviluppa alcun rancore né rivendicazione contro la comunità degli uomini; egli non l’accusa. Si limita a constatare che il dialogo tra sé e questa comunità è divenuto impossibile e che solo l’introspezione è arricchimento.
Da queste impressioni di affamati, dall’impossibilità del dialogo individuo/comunità, decolla tutta l’antropologia che ci suggerisce Hamsun. Perché è senza dubbio inutile passare in rassegna la sua biografia, enumerare tutti i libri da lui scritti, se si passa a lato di questa implicita antropologia, onnipresente in tutta la sua opera. Se si trascura di darne una traccia, sia pure fugace, non si comprende nulla del suo messaggio metapolitico né del suo successivo impegno militante accanto a Quisling.
La società urbana, industriale, meccanizzata, pensa e afferma Hamsun, ha distrutto l’uomo totale, l’uomo intero, l’odalsbonde della tradizione scandinava. Essa ha distrutto i legami che uniscono ogni uomo totale agli elementi. Risultato: il contadino, strappato alla sua gleba e scagliato nelle città perde la sua dimensione cosmica, acquisisce sterili manie, i suoi nervi non sono più in comunione con l’immanenza cosmica e si agitano sterilmente. Se si parla in linguaggio heideggeriano, si può dire che il senso di abbandono urbano, modernista, precipita l’uomo nell’”inautenticità”. Sul piano sociale, la rottura dei legami diretti e immediati, che l’uomo rimasto integro mantiene con la natura, conduce ad ogni sorta di comportamento aberrante o all’errare, al vagabondaggio febbrile dell’affamato.
Gli eroi hamsuniani, Nagel di Misteri, soprannominato lo “straniero dell’esistenza”, e Glahn di Pan, sono delle comete, delle stelle strappate alle loro orbite. Glahn vive in comunione con la natura, ma dei capricci urbani, incarnati dall’immagine di Edvarda, donna fatale, gli fanno perdere questa armonia e lo portano al suicidio, dopo un viaggio nelle Indie, cerca assai febbrile quanto inutile. Entrambi vivono il destino di questi vagabondi che non hanno la forza di ritornare definitivamente alla terra o che, per stupidità, lasciano la foresta che li aveva accolti, come aveva fatto Hamsun all’epoca del suo breve sogno americano.
Il vero modello antropologico di Hamsun è Isak, l’eroe centrale de Il Risveglio della Gleba: Isak vive nei suoi campi, spinge il suo aratro, sviluppa la sua attività, persegue il suo compito, nonostante le elucubrazioni della sua sposa, le sciocchezze di suo figlio Eleseus che vegeta in città, si rovina e sparisce in America, nonostante l’impianto temporaneo di una miniera vicino al suo podere. Il mondo delle illusioni moderne turbina attorno ad Isak che resiste imperturbabile e vince. La sua impermeabilità naturale, tellurica, nei confronti delle manie moderne, gli permette di lasciare a suo figlio Sivert, il solo figlio che gli rassomigli, una fattoria ben organizzata e con un avvenire sicuro. Né Isak né Sivert sono “morali” nel senso puritano e religioso del termine. La natura che dà loro forza e consistenza non è una natura ideale, costruita, alla moda di Rousseau, ma una compagna dura; essa non è un modello etico, ma la sorgente primaria verso la quale ritorna il vagabondo che il modernismo ha distaccato dalla sua comunità e condannato alla fame nei deserti urbani.
E’ dunque nel vagabondaggio, nelle innumerevoli esperienze esistenziali che il vagabondo Hamsun ha vissuto tra i 14 e i 29 anni, nella coscienza che questo vagabondaggio è stato causato da queste illusioni moderniste che perseguitano i cervelli umani dell’età moderna e li spingono scioccamente a costruire dei sistemi sociali che escludono totalmente gli uomini originali; è in tutto questo che si è forgiata l’antropologia di Hamsun.
Prima di far uscire Fame, Hamsun aveva pubblicato una requisitoria contro l’America, paese dell’errare infruttuoso, paese che non racchiude alcuna terra in cui ritornare quando pesa l’erranza. Questo antiamericanismo, esteso ad un’ostilità generale verso il mondo anglosassone, rimarrà una costante nei sentimenti para-politici di Hamsun. La sua successiva critica del turismo di massa, principalmente anglo-americano, è un’eco di questo sentimento, abbinato all’umiliazione del fiero norvegese che vede il suo popolo trasformato in una popolazione di cameriere e di baristi.
Se questo pamphlet antiamericano, Fame, Pan, Victoria, Sotto la stella d’autunno, Benoni, ecc., sono le opere del primo Hamsun, del vagabondo ribelle e impetuoso, dello sradicato anche se conosce la propria intima ferita, il romanzo Un vagabondo suona in sordina (1909), che esce quando Hamsun raggiunge i cinquant’anni, segna una transizione. Il vagabondo di mezzo secolo guarda al suo passato con tenerezza e rassegnazione; egli ormai sa che è passata l’epoca dei sentimenti ardenti e adotta uno stile meno folgorante e meno lirico, più posato, più contemplativo. In compenso, il soffio epico e la dimensione sociale acquisiscono un’importanza maggiore. L’ambiente sofferto di Fame, il lirismo di Pan cedono il posto ad una critica sociale acuta, priva di ogni concessione.
E pure a 50 anni, nel 1909, che Hamsun si sposa per la seconda volta (un primo matrimonio era fallito) con Marie Andersen, di 24 anni più giovane, che gli darà numerosi figli e rimarrà al suo fianco fino alla fine. Il vagabondo diviene sedentario, ritorna contadino (Hamsun acquista diverse fattorie, prima di stabilirsi definitivamente a Nörholm), ritrova il suo angolo di terra e vi si attacca. L’avvenimento biografico si ripercuote nell’opera e l’innocente anarchico si spoglia dei suoi eccessi e si colloca nel suo “ideale”, quello incarnato da Isak. La trama de Il Risveglio della Gleba, è la coniugazione del passato vagabondo e del reintrecciarsi in un territorio, la dialettica tra l’individualità errante e l’individualità che fonda una comunità, tra l’individualità che si lascia sedurre dalle chimere urbane e moderne, dagli artifici ideologici e disincarnati, e l’individualità che porta a compimento il suo impegno, imperturbabilmente, senza lasciare la Terra degli occhi. La potenza di questi paradossi, di queste opposizioni, vale ad Hamsun il Premio Nobel della Letteratura. Il Risveglio della Gleba, con il suo personaggio centrale, il contadino Isak, costituisce l’apoteosi della prosa hamsuniana.
Vi si ritrova quella volontà di ritorno all’elementare che sostenevano specialmente Friedrich-Georg Jünger e Jean Giono.
Il modello antropologico hamsuniano corrisponde anche all’ideale contadino del “movimento nordico” che muove la Germania e i paesi scandinavi dalla fine del XIX secolo e che, in seguito, i nazionalsocialisti Darré e von Leers incarnano nella sfera politica. Negli anni 20 si affermano dunque in Hamsun tre opinioni politicizzabili:
1) il suo antiamericanismo e la sua anglofobia,
2) il suo astio nei confronti dei giornalisti, propagatori delle illusioni moderniste (Cf. Il redattore Lynge) e
3) la sua implicita antropologia, rappresentata da Isak.
A questa si aggiunge una frase, tratta dai Vagabondi: “Nessun uomo su questa terra vive di banche e industria. Nessuno. Gli uomini vivono di tre cose e di nient’altro: del grano che spunta nei campi, del pesce che vive nel mare e degli animali ed uccelli che crescono nella foresta. Di queste tre cose”. Qui è facile tracciare il parallelo con Ezra Pound ed il suo maestro, l’economista anarchizzante Silvio Gesell, per quel che concerne l’ostilità nei confronti delle banche. L’odio verso il meccanicismo industriale lo ritroviamo in Friedrich-Georg Jünger. E Hamsun non anticipa Baudrillard nello stigmatizzare i “simulacri”, che costituiscono la caratteristica delle nostre società dei consumi?
Davanti a questa offensiva del modernismo, bisogna, scrive Hamsun a 77 anni, in Il cerchio si chiude (1936), stare ai margini, essere un enigma costante per coloro che aderiscono alle seduzioni del mondo mercantile.
I quattro temi ricorrenti del discorso hamsuniano e la presenza ben ancorata nel pensiero norvegese dei miti romantici e nazionalisti del contadino e del vikingo, conducono Hamsun ad aderire al Nasjonal Sammlung di Vidkun Quisling, il leader populista norvegese. Questi opta nel 1940 per un’alleanza con il Reich che occupa fulmineamente il paese con la campagna d’aprile, in quanto la Francia e l’Inghilterra sono sul punto di sbarcare a Narvik e di violare simultaneamente la neutralità norvegese al fine di tagliare la strada del ferro svedese. Durante tutta la guerra, Quisling vuole formare un governo norvegese indipendente, incluso in una confederazione grande-germanica, alleata con una Russia sbarazzata dal sovietismo, in seno ad un’Europa in cui l’Inghilterra e gli Stati Uniti non avranno più alcun diritto d’intervento.
La “collaborazione” di Hamsun consiste nel difendere con la penna quella politica, quella versione del nazionalismo norvegese, e nello spiegare il suo impegno durante un congresso di scrittori nel 1943 a Vienna. Hamsun viene arrestato nel 1945, internato in un istituto per alienati, poi in un ospizio per anziani e infine portato davanti alla giustizia. Nel corso di questo penoso periodo, il nonagenario Hamsun redige la sua ultima opera, Sui sentieri dove ricresce l’erba (1946). Una lettera di Hamsun al Procuratore Generale del Regno merita ancora la nostra attenzione perché il tono che egli vi adotta è altero, beffardo, condiscendente: prova che lo spirito, le letteratura, il genio letterario, trascendono, anche nella peggiore avversità, il lavoro spregevole e mediocre dell’inquisitore. Hamsun il Ribelle, vecchio e prigioniero, rifiuta ancora di inchinarsi davanti a un Borghese, sia pure il supremo magistrato del regno. Un esempio…
Robert Steuckers Fonte:http://www.centrostudilaruna.it/knuthamsunitinerario.html