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mardi, 12 octobre 2010

12 octobre 1943: les Alliés anglo-saxons occupent les Açores

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12 octobre 1943 : les Alliés anglo-saxons occupent les Açores

 

Les Alliés pourront occuper les Açores, y établir des bases aéronavales et faire relâche dans les ports de l’île, suite à des accords secrets anglo-portugais où Londres force la main à Lisbonne, en lui rappelant un traité signé au 19ème siècle et scellant une alliance entre les deux pays. Par cet accord, plusieurs centaines de kilomètres sur le territoire océanique ne seront plus livrés au bon vouloir des sous-marins allemands. Hitler perd définitivement la bataille de l’Atlantique. Rétrospectivement, nous pouvons en conclure que les Açores sont un archipel de très grande importance stratégique pour l’Europe et pour le contrôle de l’Atlantique à partir des côtes du Vieux Continent. Elles permettent notamment de contrôler la route vers les Amériques et de surveiller les côtes marocaines. Il ne s’agit pas seulement de « confettis d’Empire », de résidus de la grandeur passée du Portugal mais d’une position stratégique de toute première importance qu’il ne s’agit pas de perdre.

mercredi, 22 septembre 2010

Oceano Indiano: qui si svolge la grande battaglia per il dominio del mondo

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Oceano Indiano: qui si svolge la grande battaglia per il dominio del mondo

 

di Hassan Mohamed

Fonte: eurasia [scheda fonte]

Il destino del mondo si gioca oggi nell’Oceano Indiano? Dominato dall’arco dell’Islam (che varia dalla Somalia all’Indonesia attraverso il Golfo e l’Asia centrale), la regione è sicuramente diventata il nuovo centro di gravità strategico del pianeta. Questo nuovo capitolo della nostra serie “Comprendere il mondo musulmano“, ci accompagna in una crociera. Mohamed Hassan spiega come lo sviluppo economico della Cina, che sconvolge l’equilibrio delle potenze mondiali e fa uscire il Sud dalla sua dipendenza dell’Occidente. Ci rivela anche le strategie attuate dagli Stati Uniti per cercare di mantenere la leadership. E perché l’impero USA è tuttavia destinato all’estinzione. Infine, ci ha previsto la fine della globalizzazione. Resta la questione se questa rapina globale finisca senza problemi, o se i rapinatori liquidaranno gli ostaggi, in questa avventura.

Serie “capire il mondo musulmano” .

Dal Madagascar alla Thailandia, passando per la Somalia, il Pakistan o la Birmania, il bacino dell’Oceano Indiano è particolarmente agitato! Come spiega queste tensioni?

L’equilibrio del potere nel mondo è in subbuglio. E la regione dell’Oceano Indiano è al centro di questa tempesta geopolitica.

Di quale zona parliamo, esattamente?

Si va dalla costa orientale dell’Africa al sud dell’Asia. Con un lago (il Mar Caspio) e tre fiumi: il mare del Golfo, Mar Rosso e il Mar Mediterraneo.

Perché questa regione è così importante? Primo, perché il 60% della popolazione mondiale è concentrata in Asia ed è collegata all’Oceano Indiano. Da sole, Cina e India assorbono il 40% della popolazione mondiale. Inoltre, l’affermazione economica di queste due potenze, avviene nell’Oceano Indiano, una zona particolarmente strategica. Oggi, il 70% del traffico mondiale di petrolio passa attraverso questo oceano. Tale percentuale dovrebbe aumentare, per le crescenti esigenze di entrambi i paesi. Inoltre, il 90% del commercio mondiale è trasportato da navi portacontainer e l’Oceano Indiano riceve solo la metà di questo traffico.

Come previsto dal giornalista statunitense Robert D. Kaplan, stretto consigliere di Obama e del Pentagono, l’Oceano Indiano diventerà il centro di gravità strategico del mondo del 21° secolo. Non solo questo oceano è un passaggio fondamentale per le risorse energetiche e commerciali tra il Medio Oriente e Asia orientale, ma è anche al centro degli assi di sviluppo economico tra la Cina, da una parte, e Africa e America Latina, dall’altra.

L’ascesa di queste nuove relazioni commerciali significa che il Sud si sta liberando dalla sua dipendenza dall’Occidente?

In effetti, alcune cifre sono impressionanti: il commercio Cina – Africa è aumentato di venti volte dal 1997. Quello con l’America Latina di quattordici in meno di dieci anni! India e Brasile, inoltre, collaborano più strettamente con il continente africano. Sotto la spinta della Cina, gli investimenti Sud-Sud sono aumentati rapidamente. Dopo essere stata depredato e saccheggiato per secoli, il Sud finalmente esce dal suo torpore.

Perché così tanti paesi dell’Africa e dell’America Latina si stanno rivolgendo alla Cina?

Per secoli, l’Occidente s’è impegnato in un vero e proprio saccheggio delle risorse del Sud, ostacolando i paesi in via di sviluppo, soprattutto attraverso un debito odioso. Ma la Cina sta offrendo prezzi migliori per le materie prime, e investe nei paesi in via di sviluppo per sviluppare infrastrutture, programmi sociali o progetti di energia pulita. Ha anche abolito i dazi doganali all’importazione di molti prodotti africani, facilitando notevolmente la produzione e il commercio di questo continente. Infine, ha anche annullato il debito dei paesi più poveri dell’Africa.

Inoltre, a differenza delle potenze occidentali, la Cina non interferisce nella politica interna dei suoi partner economici. In una conferenza ministeriale Cina-Africa, il premier cinese Wen Jiabao ha riassunto la politica del suo paese: “Il nostro commercio e la nostra cooperazione economica sono basate sul reciproco vantaggio. (…) Non abbiamo mai posto condizioni politiche all’Africa e non lo faremo mai neppure in futuro.” Che differenza dalle potenze occidentali che hanno continuamente fatto e disfatto i governi in Africa! Il Sud ha sete d’indipendenza: l’alleanza con la Cina è una reale opportunità per placare quella sete.

Infine, i paesi capitalisti occidentali versano in grave crisi economica, che ha ripercussioni sulla Cina, ma che non gli impedisce di mantenere una forte crescita. In questa situazione, è normale che i paesi africani e latinoamericani si stiano rivolgendo al più forte partner economico. Come indicato sul Financial Times, in precedenza, il Brasile è stato colpito dalla crisi negli Stati Uniti. Ma nel 2009, la sua economia ha continuato a crescere, e non è un caso che la Cina sia diventata il suo principale partner economico.

Questa Sud-Sud sfida l’egemonia occidentale. Gli Stati Uniti e l’Europa lasciano la Cina invadere il loro territorio?

Nel complesso, lo sviluppo di questo asse Sud-Sud presenta due principali minacce per gli interessi delle potenze imperialiste, e in particolare per gli Stati Uniti. In primo luogo, si ritira dalla zona d’influenza dei paesi occidentali ricchi di materie prime. In secondo luogo, permette alla Cina di avere tutte le risorse necessarie per continuare il suo folgorante sviluppo. In piena crescita, Pechino sta raggiungendo la prima potenza economica: gli Stati Uniti. Secondo Albert Keidel, ex economista della Banca Mondiale e membro del Consiglio Atlantico, la Cina potrebbe andare in testa nel 2035.

Oggi, Washington cerca quindi di contenere l’emergere della Cina per mantenere la leadership. E il controllo dell’Oceano Indiano è al centro di questa strategia. La lotta contro la pirateria somala è, in realtà, un pretesto per la posizione delle forze NATO nell’Oceano Indiano, e per mantenere il controllo delle potenze occidentali in questo bacino. Anche il Giappone ha iniziato la costruzione di una base militare a Gibuti, per la lotta contro la pirateria.

Parliamo ora di pirati, o dei terroristi islamici. Minaccia o pretesto?

Non sto dicendo che non vi è alcuna minaccia. Semplicemente, le potenze occidentali li strumentalizzano per i loro interessi strategici nella regione. Come s’è sviluppata la pirateria in Somalia? Da oltre venti anni, non vi è nessun governo in questo paese. Alcune società europee hanno colto l’occasione per venire a saccheggiare il pesce al largo delle coste, e gli altri a scaricare rifiuti tossici. In queste condizioni, i pescatori somali, inabili al lavoro, si sono impegnati nella pirateria per sopravvivere. Naturalmente, il fenomeno ha assunto un’altra dimensione da allora. Ma se si vuole risolvere il problema della pirateria, lo si deve attaccare alla radice e ristabilire un ordine politico legittimo in Somalia. Ordine che gli USA non hanno voluto finora…

Sì, e la loro politica sciocca potrebbe creare problemi ben più gravi. Infatti, dobbiamo sapere che la Somalia è il centro storico dell’Islam in Africa orientale. In precedenza, l’influenza dei capi religiosi somali era molto importante. Avevano portato l’islam sunnita fino in Mozambico. Inoltre, quando gli sciiti dell’Oman estesero la loro influenza in Africa orientale, nel corso del 18° secolo, hanno pesantemente influenzato la cultura della regione, ma non furono in grado di convertire la popolazione allo Sciismo.

Oggi, un movimento islamico potrebbe svilupparsi a causa degli errori commessi dagli Stati Uniti nel Corno d’Africa. E se i leader di questo movimento utilizzeranno questa storia comune per raccogliere membri in tutta l’Africa orientale, e difendere la Somalia come un centro dell’Islam africano, la minaccia diventerà molto grave per gli Stati Uniti!

L’Oceano Indiano è sormontato dalla “arco dell’Islam“, che si estende dall’Africa orientale all’Indonesia, attraverso il Golfo e l’Asia centrale. Come questo oceano, la culla del potere musulmano, è finito sotto il dominio delle potenze occidentali?

Prima dell’apertura del Canale di Suez nel 1869, quattro grandi potenze dominavano la regione: l’impero turco ottomano, i persiani (oggi Iran), quella dei Moghul (l’impero musulmano che fiorì in India) e la Cina. Attraverso l’Oceano Indiano, il commercio aveva messo in contatto i popoli musulmani con altri popoli della regione, e ha contribuito a diffondere l’Islam in Cina e in Africa orientale. Così l’arco di Islam è stato formato e l’Oceano Indiano è stato ampiamente dominato da potenze musulmane.

a un evento importante si è verificato in India, smorzando la dominazione europea sulla regione: la ribellione indiana nel 1857. I sepoy erano soldati indiani al servizio della compagnia delle Indie inglese. Le ingiustizie inflitte dai loro datori di lavoro hanno portato a una ribellione che, molto rapidamente, ha portato a un grande movimento popolare. E’ stata una rivolta molto violenta, i sepoy massacrarono molti inglesi, ma che infine riuscirono a reprimere il movimento. In Gran Bretagna, una campagna propagandistica denunciava la barbarie dei sepoy. Karl Marx analizzò questo evento e ne trasse le conclusioni: “I loro metodi sono barbari, ma dobbiamo chiederci chi li ha portati a mostrare una tale brutalità: i coloni britannici che si stabilirono in India.”

Oggi stiamo vivendo la stessa cosa con gli attentati dell’11 settembre. Tutta l’opinione pubblica occidentale è portata ad indignarsi per i metodi barbari dei terroristi islamici. Ma non si fanno domande soprattutto sui fattori che hanno dato origine a questa forma di terrorismo, che ci rimanda alla politica estera degli Stati Uniti in Medio Oriente, durante gli ultimi cinquant’anni.

Infine, la soppressione della ribellione ha avuto due importanti conseguenze: in primo luogo, la colonia indiana, precedentemente gestita da società private, ufficialmente passò sotto l’amministrazione del governo britannico. Poi, la Gran Bretagna depose l’ultimo leader dei musulmani dell’India, l’imperatore Mogul Muhammad Bahâdur Shâh. Fu esiliato in Birmania, dove finì i suoi giorni.

Undici anni dopo la ribellione indiana, si aprì il canale di Suez, che collega il Mediterraneo e l’Oceano Indiano. Una famosa spintarella per la dominazione europea di questo oceano?

Assolutamente. La colonizzazione europea nel bacino dell’Oceano Indiano si accelerò allora, la Francia e la Gran Bretagna si presero Gibuti, l’Egitto e Bahrein per proteggere India dall’espansione russa.

Poi, dopo molti cambiamenti nell’imperialismo nel 19° secolo (unificazione di Germania e Italia, la spartizione dell’Africa tra le potenze europee), l’impero del sultanato d’Oman fu l’ultima potente forza araba nell’Oceano Indiano. Per rovesciarlo, gli Europei montarono una campagna di propaganda sul fatto che gli omaniti sfruttavano gli africani come schiavi. Con il pretesto della lotta contro la schiavitù, l’Europa ha mobilitato le sue truppe nell’Oceano Indiano e rovesciò il sultanato di Oman. Così, la dominazione occidentale sull’Oceano Indiano divenne totale.

Ma oggi, questa posizione dominante è messa in discussione dalle potenze emergenti dell’Asia e dell’Oceano Indiano, e potrebbe diventare il teatro di una competizione sino-statunitense. Gli Stati Uniti sono in declino e la Cina in spettacolare ascesa, come Washington potrebbe bloccare il suo principale concorrente?

Il Pentagono è ben consolidato nella regione: una enorme base militare a Okinawa (Giappone), accordi con le Filippine, con il pretesto della lotta contro il terrorismo, ottimi rapporti con i militari indonesiani che sono stati addestrati da Washington a uccidere milione di comunisti e a stabilire una dittatura militare negli anni ’60…

Inoltre, gli Stati Uniti possono contare sulla loro base militare di Diego Garcia. L’isola di corallo, situata nel cuore dell’Oceano Indiano, sarebbe più di un posto per vacanze da sogno, con una spiaggia di sabbia bianca e le palme. Tuttavia, la storia di questa isola è molto meno affascinante, nel 1965 Diego Garcia e il resto delle Isole Chagos, furono incluse nel territorio britannico nell’Oceano Indiano, nel 1971, e tutti gli abitanti dell’isola Diego Garcia vennro espulsi dagli Stati Uniti, che costruirono una base militare: è da questa posizione estrategica che Washington ha condotto alcune operazioni nel contesto della guerra fredda, e delle guerre in Iraq e in Afghanistan. Oggi, nonostante i giudici inglesi abbiano dato loro ragione, agli abitanti di Diego Garcia è impedito di ritornare alla loro isola da parte del governo del Regno Unito.

Gli Stati Uniti hanno quindi una forte presenza militare nella regione. Da parte sua, la Cina ha due talloni d’Achille: lo Stretto di Hormuz e quello di Malacca. Il primo (tra Oman e Iran) è l’unico accesso al Golfo Persico ed è largo solo 26 km, nel punto più stretto. Circa il 20% del petrolio importato dalla Cina attraversa questo luogo. L’altro punto debole, lo Stretto di Malacca (tra la Malaysia e l’isola indonesiana di Sumatra), è molto trafficato e pericoloso, ma è il principale punto di passaggio per le merci provenienti dall’Oceano Indiano per la Cina. Circa l’80% delle importazioni di petrolio della Cina passa attraverso lo stretto. Gli Stati Uniti sono ben consolidati in questo settore, potrebbero bloccare lo stretto di Malacca, nel caso un conflitto dovesse esplodere con la Cina. E sarebbe un disastro per Pechino.

Questo spiega perché la Cina cerca di diversificare le proprie fonti di approvvigionamento energetico?

Assolutamente. Di fronte a questo grave problema, la Cina ha sviluppato diverse strategie. Il primo è rifornirsi in Asia centrale. Un gasdotto che collega il Turkmenistan alla provincia cinese del Xinjiang, da oggi al 2015, dovrebbe fornire 40 miliardi di metri cubi all’anno, quasi la metà del consumo attuale della Cina. Un oleodotto collega la Cina anche al Kazakistan, trasportando petrolio dal Mar Caspio.

C’è anche l’Asia meridionale. Pechino ha firmato accordi con il Bangladesh per ottenere gas e petrolio. Ha recentemente annunciato la costruzione di un oleodotto e un gasdotto, che forniranno rispettivamente, dal Myanmar (Birmania), 22 milioni di tonnellate di petrolio e 12 miliardi di metri cubi di gas all’anno.

Infine, la terza strategia cinese, chiamata “filo di perle” è quello di costruire porti in paesi amici, lungo la costa nord dell’Oceano Indiano. Obiettivo: avere un traffico navale autonomo in questa regione autonoma. Di questa strategia fa parte la costruzione del porto oceanico di Gwadar, nel Pakistan. Questo tipo di porto è adatto al traffico delle navi portacontainer, e la Cina dovrebbe costruirne altri, soprattutto in Africa. Si noti che alcune navi portacontainer che trasportano merci verso la Cina dall’America Latina, sono troppo grandi per raggiungere l’Oceano Pacifico attraverso il Canale di Panama. Esse quindi passano attraverso l’Oceano Atlantico e l’Oceano Indiano, prima di raggiungere la Cina. Durante questo viaggio, non dovrebbero necessariamente attraversare l’Europa, come avviene adesso, e passare nell’Oceano Indiano attraverso il Canale di Suez. Come parte dell’asse Sud – Sud, queste navi portacontainer potrebbero, invece, transitare in Africa, collegando l’America Latina e l’Asia.

Ciò avrebbe conseguenze importanti per l’Africa. Paesi come Mozambico, Somalia, Sud Africa e Madagascar potrebbero far parte di questa grande rete dell’Oceano Indiano. Se vogliono sviluppare nuovi porti come Gwadar, sarebbe un enorme boom economico in questa regione dell’Africa. Nel frattempo, l’attività dei principali porti europei come Marsiglia e Anversa declinerà. Collegare l’Africa al mercato asiatico attraverso l’Oceano Indiano, sarebbe un vantaggio per il continente. Nelson Mandela, quando era presidente del Sud Africa, ha desiderato vedere realizzati questo progetto, ma gli Stati Uniti e in Europa si opposero. Oggi, la Cina ha i mezzi per assumere la guida. Creato l’asse Sud-Sud: i paesi del terzo mondo sfuggiranno alle divisioni instauratesi tra loro e collaboreranno sempre di più. Il mondo è in fermento!

Come la Cina è diventata una tale potenza in così poco tempo?

Fino al 19° secolo, la Cina era una grande potenza. Vendeva prodotti di buona qualità e aveva più valuta estera, oro e argento delle potenze europee. Ma il paese non s’è mai aperto al commercio internazionale. C’erano solo pochi insediamenti sulle coste, con disappunto della Gran Bretagna. Quest’ultima, in piena rivoluzione industriale, cercava di vendere una grande quantità dei suoi prodotti in tutta la Cina.

Così, quando il viceré Lin Zexu ordinò la distruzione, nel 1838, di casse di oppio che la Gran Bretagna importava illegalmente in territorio cinese, i britannici trovarono il pretesto per la guerra. Lord Melbourne mandò una spedizione a Canton, fu la prima guerra dell’oppio. Si concluse quattro anni dopo. Sconfitti, i cinesi furono costretti ad aprire ulteriormente il loro paese al commercio internazionale.

Ma le potenze imperialiste voleva penetrare ancor più verso l’interno della Cina, al fine di vendere i loro prodotti. E chiedevano la legalizzazione della vendita dell’oppio, nonostante la devastazione che ha causato nella popolazione. Poiché questo business molto redditizio permetteva loro di essere pagati in lingotti d’argento, ebbero una bilancia commerciale favorevole. Di fronte al rifiuto dell’Impero Cinese, Gran Bretagna e  Francia avviarono la “seconda guerra dell’oppio” (1856-1860). In ginocchio, la Cina è diventata una semi-colonia delle potenze occidentali. Infine, la vendita dell’oppio fu legalizzata e la Gran Bretagna e gli Stati Uniti vi si dedicarono con molto profitto.

Di tutto ciò non si parla in Europa, dove sembra finalmente di conoscere per nulla la storia della Cina …

Anche altrove. E’ importante capire che queste guerre imperialiste e le distruzioni causate dalle potenze coloniali hanno provocato la morte di oltre cento milioni di cinesi. Alcuni furono presi come schiavi nelle miniere del Perù, dove le spaventose condizioni di lavoro causarono numerosi suicidi collettivi. Altri furono usati per costruire le ferrovie negli Stati Uniti. Mentre migliaia di bambini cinesi vennero rapiti per scavare i primi pozzi di petrolio della Shell in Brunei, mentre le tecniche di estrazione meccanizzate non erano ancora pronte. È stato un periodo terribile. Nessun popolo ha sofferto così tanto. Bisognerà attendere il 1949 e la rivoluzione guidata da Mao, per vedere la Cina diventare indipendente e prospero.

Alcuni attribuiscono questa crescita enorme della Cina a Deng Xiaoping: solo le prese di distanze dal maoismo e l’apertura della Cina al capitale straniero avrebbe consentito al paese di svilupparsi…

Si dimentica che la Cina di Mao era già in continuo sviluppo tra il sette e il dieci per cento! Naturalmente, Mao ha fatto degli errori durante la Rivoluzione Culturale. Ma ha anche trovato un paese di un miliardo di persone in estrema povertà. E ha permesso alla Cina di diventare uno stato indipendente dopo un secolo di oppressione. E’ quindi sbagliato attribuire lo sviluppo solo alla politica della porta aperta della Cina di Deng Xiaoping. Partendo dal nulla, questo paese ha continuato a crescere, a partire dalla rivoluzione del 1949. E questo compito non è completato.

Ovviamente, l’apertura al capitalismo attuale solleva numerosi interrogativi sul futuro della Cina. Ci saranno sicuramente contraddizioni tra le diverse forze sociali, con il rafforzamento di una borghesia locale. La Cina potrebbe diventare un pieno paese capitalista, ma non dominato dall’imperialismo. Ma in entrambi i casi, gli Stati Uniti cercheranno di evitare che il paese diventi una grande potenza con i mezzi per resistergli.

Giustamente, alcuni sostengono che la Cina stessa è diventata una potenza imperialista, esportando il suo capitale ai quattro angoli del pianeta e compiendo prospezioni in tutto il Sud per ottenere materie prime?

C’era confusione, anche all’interno della sinistra, sulla definizione di imperialismo fatta da Lenin (che ha probabilmente meglio studiato questo fenomeno). Alcuni non considerano che un singolo componente di tale definizione, l’esportazione di capitali all’estero. Certo, grazie alle esportazioni di capitale, le potenze capitaliste si arricchiscono più velocemente, e finiscono per dominare le economie dei paesi meno sviluppati. Ma nel contesto dell’imperialismo, il predominio economico è inseparabile dalla dominazione politica che trasforma il paese in semi-colonia.

In altre parole, se sei un imperialista, è necessario, nel apese in cui esporti capitali, creare il tuo burattino personale, un governo che serva i tuoi interessi. Potete addestrare anche l’esercito della vostra semi-colonia a organizzare i colpi di stato militari, quando il burattino non obbedisce. Ciò è accaduto di recente in Honduras, dove è stato deposto il presidente Manuel Zelaya da un esercito i cui ufficiali sono stati addestrati nelle accademie militari statunitensi. È anche possibile infiltrarsi del sistema politico con le organizzazioni come la CIA, per creare dei collaborazionisti interni. In breve, l’imperialismo si basa su una doppia posizione dominante: economica e politica. L’una non va senza l’altra.

Questo fa una grande differenza con la Cina. Essa non interferisce negli affari politici dei paesi con i quali commercia. E l’esportazione di capitali non è destinata a dominare e soffocare le economie dei paesi partner. Così, la Cina non solo non è una potenza imperialista, ma consente anche ai paesi che subiscono l’imperialismo di liberarsi sconvolgendo la struttura di potere costituita dall’Occidente.

Gli Stati Uniti possono ancora fermare il loro concorrente cinese? Certo, il Pentagono s’è ben stabilitosi nella regione, ma un confronto militare diretto con la Cina sembra improbabile: Washington è ancora impantanato in Medio Oriente e, secondo molti esperti, non sarebbe in grado di vincere un conflitto diretto con Pechino.

In effetti, bombardare e invadere la Cina non è un’opzione plausibile. Gli Stati Uniti hanno quindi sviluppato strategie alternative. La prima è affidarsi agli stati vassalli in Africa, per controllare il continente ed impedire l’accesso della Cina alle materie prime. Questa strategia non è nuova, era stata sviluppata dopo la seconda guerra mondiale, per contenere lo sviluppo del Giappone.

E quali sono oggi i vassalli degli Stati Uniti?

In Nord Africa, c’è l’Egitto. Per l’Africa orientale c’è l’Etiopia. Per l’Africa Occidentale, la Nigeria. Per il sud e per il centro del continente, Washington contava sul Sud Africa. Ma questa strategia è fallita. Come abbiamo visto, gli Stati Uniti non riescono a impedire ai paesi africani di commerciare con la Cina, e hanno perso una grande influenza sul continente. Testimonianza del colpo subito dal Pentagono, è stato quando esso ha cercato invano un paese che ospitasse il quartier generale del suo comando regionale AFRICOM. Tutti gli Stati continentali si sono rifiutati di ospitare questa base. Il ministro della Difesa sudafricano ha spiegato che il rifiuto è “una decisione collettiva africana” e lo Zambia aveva anche risposto al Segretario di Stato USA: “Vorreste avere un elefante in salotto?” Attualmente, la sede del comando regionale per l’Africa è a Stoccarda …! E’ una vergogna per Washington.

Un’altra strategia degli Stati Uniti per controllare l’Oceano Indiano, sarebbe usare l’India contro la Cina per esacerbare le tensioni tra i due paesi. Questa tecnica era stata usata per l’Iran e l’Iraq, negli anni ’80. Gli USA armarono entrambi le parti contemporaneamente, e Henry Kissinger aveva dichiarato: “Lasciate che si uccidano a vicenda!” L’applicazione di questa teoria all’India e alla Cina, porterebbe a prendere due piccioni con una fava, indebolendo le due maggiori potenze emergenti dell’Asia. Inoltre, negli anni ’60, gli Stati Uniti avevano già usato l’India in un conflitto contro la Cina. Ma l’India fu sconfitta e adesso io non credo che i suoi leader farebbero lo stesso errore di andare in guerra contro il loro vicino, per gli interessi di una potenza straniera. Ci sono molte contraddizioni tra Pechino e New Delhi, ma non sono importanti. Questi due paesi emergenti del Terzo Mondo non devono impegnarsi in questo tipo di conflitto, tipicamente imperialista.

Niente da fare, quindi, per gli Stati Uniti in India o in Africa. Ma in Asia orientale, hanno molti alleati. Possono contare su di essi per contenere la Cina?

Ancora una volta, Washington ha fallito, a causa della sua avidità. L’Asia del Sud-Est ha avuto una terribile crisi economica del 1997, causata da un grande “errore” degli Stati Uniti. Tutto è iniziato con una svalutazione della moneta tailandese, che era stato attaccata da speculatori. Di conseguenza, i mercati azionari furono in preda del panico e molte aziende fallirono. La Thailandia, aveva sperato di ricevere il sostegno degli Stati Uniti, era un suo fedele alleato. Ma la Casa Bianca non si mosse. Respinse anche l’idea di creare un Fondo monetario asiatico per aiutare i paesi più colpiti. In effetti, le multinazionali statunitensi hanno beneficiato della crisi asiatica, per eliminare i concorrenti asiatici la cui ascesa li preoccupava.

Infine, fu la Cina che ha salvato la regione dal disastro, decidendo di non svalutare la propria moneta. Una moneta debole aiuta le esportazioni, e se lo yuan era depresso, l’aumento delle esportazioni cinesi avrebbero completamente finito le economie dei paesi vicini, già in cattive condizioni. Quindi, mantenendo il valore della sua valuta, la Cina ha permesso ai paesi della regione e sviluppare le loro esportazioni e di risollevarsi. Mentre molti governi asiatici mantennero una certa amarezza verso Washington, per il suo ruolo in questa crisi, il primo ministro malese ha dichiarato: “La collaborazione con la Cina e il suo alto senso di responsabilità nella regione, ci hanno preservato da uno scenario ancora più catastrofico”.

Da allora, le relazioni economiche tra la Cina e i suoi vicini hanno continuato a crescere. Nel 2007, Pechino è anche diventato il principale partner commerciale del Giappone, che è tuttavia uno degli alleati più strategici degli Stati Uniti in Asia.

Inoltre, la Cina non ha pretese egemoniche nella regione. Gli Stati Uniti credevano che i paesi dell’Oceano Indiano si sarebbero spaventati dalla potenza cinese, e avrebbero cercato di essere protetti. Ma la Cina ha stabilito relazioni con i paesi vicini sulla base del principio di uguaglianza. Da questo punto di vista, gli Stati Uniti hanno, così, perso anche la battaglia in Asia orientale.

Gli Stati Uniti non hanno modo di impedire che la Cina faccia loro concorrenza?

Pare di no. Per crescere, la Cina ha un bisogno vitale di risorse energetiche. Gli Stati Uniti cercano, quindi, di controllare queste risorse e assicurare che non raggiungano la Cina. C’era un obiettivo chiave nelle guerre in Afghanistan e in Iraq, ma sono diventati un fiasco. Gli Stati Uniti hanno distrutto questi paesi, per mettervi dei governi a loro docili, ma senza successo. Ma ciliegina sulla torta: i nuovi governi di Iraq e Afghanistan commerciano con la Cina! Pechino non ha quindi alcuna necessità di spendere miliardi di dollari in una guerra illegale per mettere le mani sull’oro nero iracheno: le imprese cinesi hanno appena vinto concessioni petrolifere in un’asta molto regolare.

Vedete, la strategia dell’imperialismo degli Stati Uniti è un fallimento su tutta la linea. Resta tuttavia l’opzione degli Stati Uniti: mantenere il caos per impedire che la stabilità strategica di questi paesi non favorisca la Cina. Questo significa continuare la guerra in Iraq e Afghanistan, ed estenderlo ad altri paesi come l’Iran, lo Yemen e la Somalia.

Questo a breve termine potrebbe essere devastante, perché porterebbe i popoli ancora di più sulla linea anti-americana, anti-Nato e anti-occidentale. Coloro che vorrebbero continuare il cammino farebbero meglio a studiare la storia militare degli Stati Uniti degli ultimi sessant’anni: Washington non ha vinto alcuna guerra, se non contro la piccola isola di Grenada (1983).

Come iniziò il declino di “Impero Americano“?

Dopo la seconda guerra mondiale, questo paese aveva fatto jackpot. E’ stato, infatti, si era entrato tardi nel conflitto, dopo aver a lungo sostenuto (in mood molto redditizio) entrambe le parti: gli alleati e il nazismo. Infine, Washington ha deciso di venire in aiuto degli alleati. Alla fine della guerra, la Gran Bretagna era gravata dai debiti, il potere tedesco era stato distrutto e l’Unione Sovietica aveva pagato un prezzo pesante (più di venti milioni di morti) per sconfiggere l’esercito nazista. Per contro, gli Stati Uniti, che non hanno fatto praticamente nessun sacrificio, uscirono grandi vincitori, avevano un vasto territorio, un’industria che operava a tutta velocità, grande capacità del settore agricolo e i loro principali concorrenti erano in ginocchio. Fu così che gli Stati Uniti diventarono una superpotenza mondiale.

Ma poi, hanno speso tutti il jackpot vinto nella seconda guerra mondiale, per combattere il comunismo. L’economia statunitense è stata militarizzata e le guerre si sono svolte una dietro l’altra, dalla Corea al Vietnam, e all’Iraq per citarne alcuni. Oggi, per ogni dollaro messo nel bilancio del governo degli Stati Uniti, vanno settanta centesimi all’esercito. Un disastro! Le altre industrie principali del paese sono state distrutte, le scuole e gli ospedali pubblici sono in pessime condizioni.

Cinque anni dopo l’uragano Katrina, i residenti di New Orleans vivono ancora nei campi. Possiamo paragonare questa situazione a quella del Libano: coloro che avevano perso le loro case a causa dei bombardamenti israeliani del 2006, hanno trovato una casa grazie a Hezbollah. Ciò che ha fatto dire a un mullah che era meglio vivere in Libano che negli Stati Uniti, perché nel paese dei cedri si ha almeno un tetto sopra la testa.

Questo processo di militarizzazione ha gettato gli Stati Uniti nella crisi del debito. Ma oggi, il loro principale creditore non è altri che… la Cina! Curiosamente, il destino di questi due grandi concorrenti sembra intimamente legato.

Sì, l’economia è qualcosa di pazzesco! In effetti, la Cina esporta molti prodotti verso gli Stati Uniti, guadagnandosi molta valuta in dollari. L’accumulo di valuta straniera della Cina, consente di mantenere un tasso di cambio stabile tra lo yuan e il dollaro, cosa che favorisce le esportazioni. Ma l’accumulo di dollaro anche portato Pechino a comprare buoni del Tesoro USA, finanziandone il debito Con il finanziamento del debito degli Stati Uniti, possiamo dire che la Cina sta finanziando la guerra contro il terrorismo! Ma il Pentagono sta conducendo questa guerra per aiutarla a controllare le risorse energetiche del mondo, e cercando di contenere l’emergere della Cina. Vedete, la situazione è paradossale! Ma questa campagna è un fallimento degli Stati Uniti e la loro economia è sull’orlo del fallimento.

Essi hanno solo una opzione: ridurre le spese militari e usare il loro bilancio per rilanciare l’economia. Ma l’imperialismo ha una logica dominata dal profitto immediato e dalla concorrenza sfrenata: perciò, continua a correre fino a che non muore. Lo storico Paul Kennedy ha studiato la storia dei grandi imperi, ogni volta che l’economica di una grande potenza è in declino, ma continua ad aumentare le spese militari, allora questa grande potenza è destinato a scomparire.

Così è la fine dell’”impero americano“?

Chi può dirlo? La storia è fatta di zig-zag e non ho alcuna sfera di cristallo per predire il futuro. Ma tutte le indicazioni dicono che l’egemonia degli Stati Uniti sta arrivando al termine. Non ci sarà più una superpotenza globale e gli Stati Uniti, probabilmente, diventeranno una importante potenza regionale. Saremo presenti all’inevitabile ritorno del protezionismo e, quindi, alla fine della globalizzazione. I blocchi economici regionali emergeranno e tra questi blocchi, l’Asia sarà il più forte. Oggi, ci sono sempre meno milionari nell’occidente bianco. Sono in Asia, dove ci sono la ricchezza e la capacità produttiva.

Che cosa succederà in Europa?

Ha forti legami con gli Stati Uniti. In particolare attraverso la NATO, una invenzione degli Stati Uniti, emersa dopo la seconda guerra mondiale per il controllo del vecchio continente. Tuttavia, penso che ci siano due tipi di leader in Europa: pro-USA e i ceri europei. I primi rimangono con Washington. I secondi sottolineano gli interessi specifici dell’Europa e si legano alla Russia. Con la recessione economica e il declino negli Stati Uniti, l’interesse logico dell’Europa è guardare all’Asia.

Nel suo famoso libro ‘La Grande Scacchiera’, il politologo statunitense Zbigniew Brzezinski aveva paura di vedere una tale alleanza tra Europa e Asia. Ma ha detto che l’Unione probabilmente non avrebbe mai visto la luce del giorno, a causa delle differenze culturali.

Dopo la seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti hanno dominato la scena economica, in particolare in Europa, ed erano in grado di esportare la loro cultura e stile di vita. L’economia genera in effetti dei legami culturali, ma la cultura non crea legami che quando lo stomaco è pieno. Non mangiamo cultura. Inoltre, quando lo stomaco è vuoto, la cultura viene dopo l’economia.

Così oggi, mentre il mondo capitalista è in crisi, l’Europa deve mettere i suoi interessi economici prima del legame culturale che la lega agli Stati Uniti. Sarebbe logico a sua volta, per l’Asia. Tanto più che i legami culturali Europea – Stati Uniti sono stati forgiati a Hollywood. Storicamente, possiamo dire che sono più forti i legami culturali tra, ad esempio, l’Italia e la Libia, o tra la Spagna e il Marocco.

Henry Kissinger, quando non permetteva agli iraniani e iracheni di uccidesi a vicenda, ha detto che l’egemonia degli Stati Uniti era essenziale per mantenere la pace e la democrazia diffusa in tutto il mondo. Molti professionisti come Brzezinski hanno sostenuto la stessa idea. La fine dell’”American Empire”, non potrebbe provocare dei grandi conflitti?

La democrazia di cui stanno parlando è quella dei paesi imperialisti occidentali, che rappresentano il 12% della popolazione mondiale. Inoltre, non possiamo davvero dire che l’egemonia degli Stati Uniti abbia portato pace e stabilità nel mondo. Al contrario! Per rimanere l’unica superpotenza del mondo, hanno fatto affidamento su guerre in continuo e fomentato conflitti in tutto il mondo.

Oggi, molti europei, anche se condannano gli eccessi degli Stati Uniti, non desiderano vedere decadere l’”American Empire“. Per oltre sessant’anni Washington ha dominato militarmente il vecchio continente, dicendo che lo faceva per la sua sicurezza. Molti europei hanno paura di mettere una croce sulla “protezione” e assumersi la propria sicurezza.

Un esercito europeo richiederebbe che una parte importante dell’economia europea sia investita nell’esercito. Ma non è un settore produttivo e un suo rifinanziamento causerebbe una nuova crisi. Inoltre, se si investe nell’esercito, una questione si porrà: chi combatte? In caso di guerra, l’Europa avrebbe seri problemi demografici.

A mio parere, questa situazione spiega la volontà di alcuni leader europei di muoversi verso la Russia. Questa è l’unica alleanza pacifica e prospera possibile per l’Europa. Ma ciò richiede lasciare che la Russia diventi una grande potenza, in cui gli europei possano investire le loro tecnologie. Ma gli Stati Uniti si sono opposti all’integrazione della Russia in Europa. Se dovesse succedere, ci sarà davvero qualcuno di troppo e Washington lascerà il vecchio continente.

Gli otto anni di politica di guerra dell’amministrazione Bush, le spese militari faraoniche e i suoi miserabili fallimenti hanno accelerato il crollo degli Stati Uniti. Pensa che Barack Obama possa cambiare qualcosa?

La sua elezione è storica. Gli afro-americani hanno sofferto tanto in passato. Anche se hanno contribuito enormemente allo sviluppo degli Stati Uniti, i loro diritti politici sono stati traditi. Infatti, durante la guerra civile americana, gli afro-americani sono stati vittime della schiavitù nel Sud. La borghesia del Nord ha promesso loro la libertà, se era disposto a combattere per essa. Gli schiavi accettarono di partecipare al conflitto, cose che ha permesso al Nord di vincere. Tra il 1860 e il 1880, gli Stati Uniti hanno avuto un periodo di prosperità, senza il razzismo, definita una ricostruzione dal famoso leader afro-americano William Edward Burghardt Du Bois. Ma ben presto, l’elite degli Stati Uniti si era allarmata nel vedere persone di colore, lavoratori e semplici cittadini unirsi: le proprietà della minoranza borghese era minacciata dalla solidarietà delle masse. La segregazione fece quindi il suo ritorno. Essa mirava a rompere l’unità delle classi e i cittadini comuni insorgere l’uno contro l’altro, al fine di preservare l’elite da qualsiasi rivolta.

Data la storia degli Stati Uniti, l’avvento di un nero alla Casa Bianca è molto importante. Ma se Barack Obama è un presidente liberale a causa del suo colore, ciò non è sufficiente: la natura reazionaria dell’imperialismo statunitense è riemersa, come si vede sempre di più. Pertanto, non credo che Barack Obama possa cambiare nulla nei mesi e negli anni a venire. L’imperialismo non può essere modificato o adattato. Deve essere rovesciato.

 

E qual è il ruolo del mondo musulmano in questo grande confronto tra gli Stati Uniti e la Cina? Il suo ruolo è veramente importante?

Molto importante. Come ho detto in precedenza in questa intervista, gli USA hanno demonizzato la “minaccia islamica” in una serie di paesi che si affacciano sull’Oceano Indiano: Somalia, Golfo, Asia centrale, Pakistan, Indonesia… L’obiettivo, legato agli interessi delle multinazionali degli Stati Uniti, è il controllo del petrolio e delle risorse energetiche e delle vie di transito strategiche della regione. Ma nel Medio Oriente, e in tutto il mondo musulmano, s’è sviluppata una comune resistenza antimperialista al dominio degli Stati Uniti.

E’ un fattore estremamente positivo. I popoli di tutto il mondo hanno interesse a stabilire relazioni sulla base del principio di uguaglianza e a porre fine, nel modo più rapido, all’egemonia occidentale che ha causato così tante aggressioni e crimini. In passato, tutti i tipi di personalità e movimenti politici hanno cercato di spingere il mondo musulmano tra le braccia degli Stati Uniti e nella loro grande alleanza anti-comunista. Ma in realtà, gli interessi dei popoli dell’”arco dell’Islam”, l’interesse dei musulmani, si trova sul lato opposto. Se tutti comprendono e sostengono il ruolo positivo della Cina nella bilancia del potere mondiale, oggi, sarà possibile una grande alleanza di tutti i paesi che cercano di svilupparsi in modo autonomo, nell’interesse del loro popolo, sfuggendo così al saccheggio e alle interferenze da parte delle potenze imperialiste.

Tutti dovrebbero informarsi e fare prendere consapevolezza di questi importanti e positivi cambiamenti. Por fine all’egemonia delle potenze imperialiste aprirà grandi prospettive per la liberazione dei popoli.

 

Fonte: Investig’Action – http://www.mondialisation.ca/index.php?context=va&aid=21057

Intervista di Lalieu Gregory e Michel Collon a Hassan Mohamed

 

Mohamed Hassan raccomanda le seguenti letture:

Robert D. Kaplan, Center Stage for the Twenty-first Century, in Foreign Affairs, March/April 2009

Robert D. Kaplan, The Geography of Chinese Power, in Foreign Affairs, May/June 2010

Chalmers Johnson, No longer the lone superpower – Coming to terms with China

Cristina Castello, “Diego Garcia”, pire que Guantanamo: L’embryon de la mort

Mike DAVIS, Génocides tropicaux. Catastrophes naturelles et famines coloniales.

Aux origines du sous-développement, Paris, La Découverte, 2003, 479 pages

Peter Franssen, Comment la Chine change le monde

Pepe Escobar, China plays Pipelineistan

Edward A. Alpers, East Africa and the Indian Ocean

Patricia Risso, Merchants And Faith: Muslim Commerce And Culture In The Indian Ocean (New Perspectives on Asian History)

F. William Engdahl, A Century of War, Anglo-American oil politics and the new world order

Michel Collon, Media Lies and the Conquest of Kosovo (NATO’s Prototype for the Next wars of Globalization), traduzione inglese di Monopoly, Investig’Action

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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samedi, 18 septembre 2010

La Colombie dénonce les accords militaires qui la lient aux Etats-Unis

La Colombie dénonce les accords militaires qui la lient aux Etats-Unis

 

COLOMBIE-I-_Converti_-2.jpgC’est une fin de non recevoir claire et nette que le tribunal constitutionnel colombien a adressé aux Etats-Unis. L’objet de cette décision était un accord militaire contesté, qui aurait permis à l’armée américaine d’utiliser sept bases militaires sur territoire colombien. Le tribunal suprême de ce pays latino-américain vient de décider que le traité signé à la fin de l’année dernière entre Bogota et Washington doit être déclaré nul et non avenu.

 

Les prédécesseurs du gouvernement du nouveau président Juan Manuel Santos avaient réglé l’affaire sans en référer au Congrès colombien. Après le prononcé des juges, la décision est désormais entre les mains du Parlement, qui pourra accepter ou refuser les accords et les couler éventuellement en un traité international.  Washington et l’ancien gouvernement colombien avaient justifié la signature de ce pacte en prétextant la lutte contre les cartels de la drogue. Un document émanant du Pentagone laisse entrevoir que les intentions réelles étaient autres. Ce document, en effet, révèle que les Etats-Unis ont l’intention d’étendre leur contrôle à d’autres régions de l’Amérique du Sud. Par conséquent, explique le document, l’autorisation d’utiliser notamment la base aérienne de Palanquero, située au centre du territoire colombien, offrirait « la possibilité unique, de mener des opérations dans une région ‘critique’ sur laquelle des ‘gouvernements anti-américains’ exercent leur influence ».

 

En utilisant ces bases colombiennes, les forces armées américaines pourraient effectivement contrôler l’ensemble de la région amazonienne, le Pérou et la Bolivie. La base de Palanquero offrirait, explicite encore le document stratégique de l’US Air Force, « une mobilité aérienne suffisante » sur le continent sud-américain. Actuellement, plus de 300 soldats américains sont stationnés en Colombie.

 

Cette coopération militaire avec les Etats-Unis a isolé la Colombie et fait de tous ses voisins des adversaires. C’est bien entendu le Venezuela qui se sent visé en premier lieu. A ce propos, l’historien colombien Gonzalo Sanchez a écrit : « Les Etats-Unis veulent surtout obtenir le contrôle de l’espace amazonien, avec toutes les ressources qu’il recèle, et surveiller le Brésil, puissance mondiale en pleine ascension ».

 

H.W.

(article paru dans DNZ, Munich – n°35/2010).

vendredi, 02 juillet 2010

Le basi militari della NATO in Sudamerica: un'invasione coordinata

Le basi militari della NATO in Sudamerica: un’invasione coordinata

di Hugo Rodríguez

Fonte: eurasia [scheda fonte]

 

Le basi militari della NATO in Sudamerica: un’invasione coordinata

Il presente articolo espone uno sguardo più comprensivo del coordinamento militare degli USA e del Regno Unito nella regione sudamericana. Negli ultimi due anni gli analisti locali hanno molto insistito sulla presenza americana senza mai menzionare una delle basi militari più grandi del mondo appartenente agli USA (Comando Sud) e, men che meno, senza riconoscere il ruolo e la complementarità che le stesse hanno da un punto di vista storico e fattuale nei riguardi della presenza militare del Regno Unito nella nostra terra e nelle nostre acque.

In questo primo lavoro che vi presentiamo, vogliamo solo evidenziare la localizzazione di tutte le basi (attuali e storiche); lasciando per successive illustrazioni la specifica analisi del Consiglio di Sicurezza dell’UNASUR, le analisi dei Ministeri della Difesa della regione, i loro principali successi e insuccessi.

Prendendo come spunto la ricerca effettuata dall’équipe giornalistica di TeleSur e con l’informazione ufficiale del Regno Unito e del Comando Sud degli Stati Uniti, ho sviluppato il seguente schema che evidenzia tutte le basi militari della NATO attualmente presenti in Sudamerica.


 

Base Militare

Localizzazione

Invasore

Organo Militare Superiore

Malvine

Argentina

GB

NATO

George

Argentina

GB

NATO

Sandwich

Argentina

GB

NATO

Tristán de Cuña

Oceano Atlantico

GB

NATO

Santa Helena

Oceano Atlantico

GB

NATO

Ascensión

Oceano Atlantico

GB

NATO

Estigarribia

Paraguay

USA

NATO

Iquitos e Nanay

Perù

USA

NATO

Tres Esquinas Colombia

USA

NATO

Larandia

Colombia

USA

NATO

Aplay

Colombia

USA

NATO

Arauca

Colombia

USA

NATO

Tolemaida

Colombia

USA

NATO

Palanquero

Colombia

USA

NATO

Malambo

Colombia

USA

NATO

Aruba

Antillas

USA

NATO

Curaçao

Antillas

USA

NATO

Roosevelt

Puerto Rico

USA

NATO

Liberia

Costa Rica

USA

NATO

Guantánamo

Cuba

USA

NATO

Comalapa

El Salvador

USA

NATO

Soto Cano

Honduras

USA

NATO

IV flotta

Oceano Atlantico y Pacifico

USA

NATO


 

La NATO è un trattato degli armamenti per la protezione e la cooperazione bellico-politico-economico tra gli stati membri. Fu costituito nel clima della Guerra Fredda e il suo omologo orientale è il trattato di Varsavia. La NATO è integrata dai paesi dell’Ovest europeo e dagli Stati Uniti e Canada. Questa organizzazione militare multilaterale negli ultimi anni si è dedicata a effettuare incursioni militari nei paesi che non sono membri della stessa. Ricordiamo che l’appoggio americano al Regno Unito, nel 1982, si articolò da qui.

È importante osservare con attenzione lo schema sulle basi della NATO, perché la sua parziale visione taglia di sbieco l’analisi, il fuoco dell’attenzione e anche, poiché costituisce la cosa più importante, taglia nella direzione non corretta le raccomandazioni sulle politiche di difesa regionale. Ad esempio, coloro che mettono a fuoco le nuove basi americane in Colombia, osservano a chiare lettere che, insieme alla politica mediatica dell’America del Nord, quelle basi hanno come obiettivo il Venezuela. Altri, cioè coloro che complementano questa analisi con la localizzazione della IV flotta, osservano, invece, che il centro è il Brasile. In ogni caso, tanto la dirigenza venezuelana quanto quella brasiliana si stanno dando da fare per incrementare e aggiornare il loro equipaggiamento, navi e spesa militare per essere all’altezza delle circostanze e delle basi che li circondano. Ma gli altri paesi della regione non dovrebbero cullarsi con questa analisi, in particolare, la nostra repubblica Argentina, pensando che solo quelli citati costituiscono il bersaglio di un eventuale attacco. Come osserva Lacolla (Dall’Afganistan alle Malvine), loro vengono per sfruttare le nostre risorse, principalmente il petrolio, successivamente punteranno la mira sull’acqua. Ma attualmente, la maggioranza delle analisi geopolitiche, comprese quelle del Consiglio di Difesa dell’UNASUR, hanno ignorato nei loro studi sulla regione le basi militari del Regno Unito.

Il tipo di configurazione che questo fatto impone non serve solo per prenderle in considerazione, ma anche per conoscere quale è il coordinamento storico e fattuale delle basi del Regno Unito insieme a quelle degli Stati Uniti. Per questa regione, un’analisi corretta non si deve soffermare alle sole basi stanziate in Colombia, bensì procedere e osservare con gli stessi occhi tutte le basi militari della NATO che, evidentemente, hanno un bersaglio, il quale non è così piccolo come lo possono essere due paesi e alcune isole con petrolio. L’obiettivo è il Sudamerica (e le sue risorse) ; tuttavia, la miopia di quei dirigenti o settori presuntamente rappresentativi della nostra società che ignorano e persino deridono gli avvertimenti che gli sono rivolti, potrà diventare molto dispendiosa nel breve termine.

Dal canto suo, il Comando Sud, meglio conosciuto come IV flotta, complementa le precedenti enclave imperialiste ed è una sorta di mega base militare mobile, è congiuntamente un complesso di portaerei e navi da guerra che circondano il Sudamerica. Nella cartina concernente le basi, si trova sovrapposta un’altra cartina con la dicitura « Souther Command. Area Focus », quella è la cartina ufficiale del Senato degli Stati Uniti, è il luogo dove navigano (in acque internazionali, ma non sempre), le imbarcazioni belliche del paese di Obama. La IV flotta ebbe la sua origine durante la Guerra Fredda per arrestare l’ideologia antimperialista che fiorisce come l’eritrina nelle nostre terre, in quanto naturale reazione di autodifesa da parte di qualsiasi società aggredita. Vale a dire che, stando al margine da ogni presentazione diplomatica, quelle navi compiono la funzione di reprimere ogni manifestazione antimperialista nella regione.

Ciò che deve rimanerci ben chiaro è che sono pochi i paesi dell’America latina che stanno adottando misure per salvaguardare non solo le proprie risorse ma anche per proteggere sé stessi. La nostra amata Argentina non appartiene a quella compagine.


 

Fonti :

Comando Sur : http://www.southcom.mil

TeleSur : http://www.telesurtv.net

Foreign and Commonwealth Office : http://www.fco.gov.uk/en


 

 

(trad. Vincenzo Paglione)

 

 

* Hugo Rodríguez è direttore del Grupo de Estudios Estratégicos Argentinos.

Fonte : http://geopoliticaargentina.wordpress.com/2010/06/21/la-otan-en-suramerica/


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samedi, 19 juin 2010

Israël s'inscruste en Irak

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Israël s’incruste en Irak
par Gilles Munier
(Afrique Asie – juin 2010)

Israël s’est vite rendu compte que les Etats-Unis perdraient la guerre d’Irak, et que les projets d’établissement de relations diplomatiques et de réouverture du pipeline Kirkouk- Haïfa promis par Ahmed Chalabi, étaient illusoires. Ariel Sharon a alors décidé, selon le journaliste d’investigation Seymour Hersh, de renforcer la présence israélienne au Kurdistan irakien afin que le Mossad puisse mettre en place des réseaux qui perdureraient dans le reste du pays et le Kurdistan des pays voisins, quelle que soit l’issue des combats.

Programme d’assassinats

   La participation israélienne à la coalition occidentale ayant envahi l’Irak est loin d’être négligeable, mais demeure quasiment secrète. Les Etats-Unis ne tiennent pas à ce que les médias en parlent, de peur de gêner leurs alliés arabes et de crédibiliser leurs opposants qui dénoncent le "complot américano-sioniste" au Proche-Orient.

   Des Israéliens ne sont pas seulement présents sous uniforme étasunien, sous couvert de double nationalité, ils interviennent dès 2003 comme spécialistes de la guérilla urbaine à Fort Bragg, en Caroline du Nord, centre des Forces spéciales. C’est là que fut mise sur pied la fameuse Task Force 121 qui, avec des peshmergas de l’UPK (Talabani), arrêta le Président Saddam Hussein. Son chef, le général Boykin se voyait en croisé combattant contre l’islam, « religion satanique ». C’était l’époque où Benyamin Netanyahou se réunissait à l’hôtel King David à Jérusalem avec des fanatiques chrétiens sionistes pour déclarer l’Irak : « Terre de mission »... En décembre 2003, un agent de renseignement américain, cité par The Guardian, craignait que la "coopération approfondie" avec Israël dérape, notamment avec le " programme d’assassinats en voie de conceptualisation ", autrement dit la formation de commandos de la mort. Il ne fallut d’ailleurs pas attendre longtemps pour que le premier scandale éclate. En mars 2004, le bruit courut que des Israéliens torturaient les prisonniers d’Abou Ghraib, y mettant en pratique leur expérience du retournement de résistants acquise en Palestine. Sur la BBC, le général Janis Karpinski, directrice de la prison révoquée, coupa court aux dénégations officielles en confirmant leur présence dans l’établissement pénitentiaire.

   La coopération israélo-américaine ne se développa pas seulement sur le terrain extra-judiciaire avec la liquidation de 310 scientifiques irakiens entre avril 2003 et octobre 2004, mais également en Israël où, tirant les leçons des batailles de Fallujah, le Corps des ingénieurs de l’armée étasunienne a construit, dans le Néguev, un centre d’entraînement pour les Marines en partance pour l’Irak et l’Afghanistan. Ce camp, appelé Baladia City, situé près de la base secrète de Tze’elim, est la réplique grandeur nature d’une ville proche-orientale, avec des soldats israéliens parlant arabe jouant les civils et les combattants ennemis. D’après Marines Corps Time, elle ressemble à Beit Jbeil, haut lieu de la résistance du Hezbollah à l’armée israélienne en 2006…

Les « hommes d’affaire » du Mossad

   En août 2003, l’Institut israélien pour l’exportation a organisé, à Tel-Aviv, une conférence pour conseiller aux hommes d’affaires d’intervenir comme sous-traitants de sociétés jordaniennes ou turques ayant l’aval du Conseil de gouvernement irakien. Très rapidement sont apparus en Irak des produits sous de faux labels d’origine. L’attaque par Ansar al-Islam, en mars 2004, de la société d’import-export Al-Rafidayn, couverture du Mossad à Kirkouk, a convaincu les « hommes d’affaires » israéliens qu’il valait mieux recruter de nouveaux agents sans sortir du Kurdistan, mais elle n’a pas empêché les échanges économiques israélo-irakiens de progresser. En juin 2004, le quotidien économique israélien Globes évaluait à 2 millions de dollars les exportations vers l’Irak cette année là. En 2008, le site Internet Roads to Iraq décomptait 210 entreprises israéliennes intervenant masquées sur le marché irakien. Leur nombre s’est accru en 2009 après la suppression, par le gouvernement de Nouri al-Maliki, du document de boycott d’Israël exigé des entreprises étrangères commerçant en Irak, véritable aubaine pour les agents recruteurs du Mossad.

 

US Strategy in Eurasia and Drug Production in Afghanistan

US Strategy in Eurasia and Drug Production in Afghanistan

 

Tiberio Graziani

Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici

(Eurasia. Journal of Geopolitical Studies - Italy)

www.eurasia-rivista.org  - direzione@eurasia-rivista.org

 

 

51faLsPf7yL__SS500_.jpgA geopolitical approach aimed at understanding the relationship between the worldwide US strategy and the presence of North American forces in Afghanistan is given. The US penetration in the Eurasian landmass is stressed particularly with regard to the Central Asian area, considered as the underbelly of Eurasia in the context of the US geopolitics. In order to determine the real players in the Afghan theatre, a critics is moved to some general concepts used in geopolitical and international relations studies. The main characteristics  of potential candidates able to overcome the Afghan drug question are discussed. Among these a particular role  is due to Iran, Russia ad China. Anyway, due to the interrelations between the US strategy in Eurasia and the stabilization of Afghanistan, this latter can be fully accomplished only in view of the Eurasian integration process.

 

Key words: Afghanistan, geopolitical, Eurasian, Eurasia, drug

 

 

presentation

 

In order to address properly, without any ideological prejudice, but with intellectual honesty, the question about the drug production in Afghanistan and the related international problems, it is necessary and useful to define (even if schematically) the geopolitical framework and to further clarify some concepts, usually assumed as well known and commonly shared.

 

the geopolitical framework

 

Considering the main global actors nowadays, namely US, Russia, China and India, their geographic position in the two distinct areas of America and Eurasia, and, above all, their relations in terms of power and world geo-strategy, Afghanistan constitutes, together with Caucasus and the Central Asian Republics, a large area (fig. 1), whose destabilization offers an advantage to US, i.e. to the geopolitical player exterior to the Eurasian context. In particular, the destabilization of this large zone assures the US at least three geopolitical and geo-strategic opportunities: a) its progressive penetration in the Eurasian landmass; b) the containment of Russia; c) the creation of a vulnus in Eurasian landmass.

 

 

US penetration in Eurasia – US encirclement of Eurasia

As stated by Henry Kissinger, the bi-oceanic nation of US is an island outside of Eurasian Continent. From the geopolitical point of view, this particular position has determined the main vectors of the expansion of US over the Planet. The first was the control of the entire Western hemisphere (North and South America), the second one has been the race for the hegemony on the Euroafroasian landmass, that is to say the Eastern hemisphere.

Regarding the penetrating process of US in the Eurasian landmass, starting from the European peninsula, it is worthy to remind that it began , in the course of the I WW with the interference of Washington in the internal quarrels among the European Nations and Empires. The penetration continued during the II WW. In April 1945, the supposed “Liberators” occupied the Western side of Europe up to East Berlin. Starting from this date, Washington and the Pentagon have considered Europe, i.e. the Western side of Eurasia, just as a US bridgehead dropped on the Eurasian landmass. US imposed a similar role  to the other occupied nation, Japan, representing the Eastern insular arc of Eurasia. From an Eurasian point of view, the north American “pincer” was the true result of the II WW.

With the creation of some particular military “devices” like NATO (North Atlantic Treaty Organization) (1949), the security treaty among Australia, New Zealand, United States (ANZUS, 1951), the Baghdad Pact, that afterwards evolved in CENTO Pact (Central Treaty Organisation, 1959), the Manila Pact – SEATO (South East Asia Treaty Organization, 1954), the military encirclement of the whole Eurasian landmass was accomplished in less than one decade.

The third step of the US long march towards the heart of Eurasia, starting from its Western side, was carried out in 1956, during the Suez crisis, with the progressive removal of France and, under some aspects, also of Great Britain as geopolitical actors in Mediterranean sea. On the basis of the “special relationship” between Tel-Aviv and Washington, US became an important player of the Near Eastern area in a time lapse  shorter than 10 years. Following the new role assumed in the Near and Middle East, US was able either to consolidate its hegemonic leadership within the Western system or to consider the Mediterranean sea as the initial portion of the long path that, eventually, could permit to the US troops to reach the Central Asian region. The infiltration of US in the large Eurasian area proceeded also in other geopolitical sectors, particularly in the South-Eastern one (Korea, 1950-1953; Vietnam, 1960-1975).

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Coherently with the strategy aimed at dominating the eastern hemisphere, Washington worked also on the diplomatic side, focusing its attention towards Beijing. With the creation of the axis Washington – Beijing, conceived by the tandem Kissinger - Nixon (1971-1972), US contributed to increase the fracture inside the so-called socialist field, constituted by China and URSS and, thus, to block any potential “welding” between the two “lungs” of Eurasia, China and Russia.

During the seventies, two main geopolitical axis faced each other within the Eurasian landmass: the Washington-Islamabad-Beijing axis and the Moscow-New Delhi one.

1979, the destabilization’s year and its legacy in the today’s Afghanistan

Among the many events in international relations occurred in 1979, two are of pivotal importance for their contribution to the upsetting of the geopolitical asset, based at the time on the equilibrium between the United States and the URSS.

We are speaking of the Islamic revolution in Iran and of the Russian military involvement in Afghanistan.

Following the takeover of Iran by the Ayatollah Khomeyni, one of the essential pillars of the western geopolitical architecture, with the US as a leader, was destroyed.

The Pahlavi monarchy could easily be used as a pawn in the fight between the US and the URSS, and when it disappeared both Washington and the Pentagon were forced to conceive a new role for the US in the world politics. A new Iran, now autonomous and out of control, introduced a variation in the regional geopolitical chessboard, possibly able to induce a profound crisis within the “steady” bipolar system. Moreover, the new Iran, established as a regional power against the US and Israel, possessed such characteristics (especially the geographic extent and centrality, and the political-religious homogeneity) as to compete for the hegemony on at least part of the Middle-East, in open contrast to similar interests of Ankara and Tel-Aviv, faithful allies of Washington, Islamabad, Baghdad and Riyadh. For such reasons, the Washington strategists, in agreement with their bicentennial “geopolitics of chaos”, persuaded the Iraq under Saddam Hussein to start a war against Iran. The destabilization of the whole area allowed Washington and the Western Countries enough time to plan a long-lasting strategy and in the meantime to wear down the soviet bear.

In an interview released to the French  weekly newspaper Le Nouvel Observateur (January 15-21, 1998, p. 76), Zbigniew Brzezinski, President Jimmy Carter's national security adviser, revealed that CIA secretly operated in Afghanistan to undermine the power of the regime in Kabul since July, 1979,  that is to say, five months before the Soviet invasion. Indeed, it was July 3, 1979, that President Carter signed the first directive for secret aid to the opponents of the pro-Soviet regime in Kabul. And that very day the US strategist of Polish origin wrote a note to President Carter in which he explained that this aid was going to induce a Soviet military intervention. And this was precisely what happened on the following December. In the same interview, Brzezinski remembers that, when the Soviets invaded Afghanistan, he wrote another note to President Carter in which he expressed his opinion that at that point the USA had the opportunity of giving to the USSR its Vietnam War.

In Brezinski’s opinion, this intervention was unsustainable for Moscow and in time would have led to the Soviet Empire collapse. In fact, the long war of the Soviets in support of the communist regime in Kabul further contributed to weaken the Soviet Union, already engaged in a severe internal crisis, concerning both political- bureaucratic and socio-economic aspects. As we now well know, the Soviet withdrawal from the afghan theatre left behind an exhausted country, whose politics, economy and geo-strategic asset were extremely weak. As a matter of fact, after less than 10 years from the Teheran revolution, the entire region had been completely destabilized only to the advantage of the western system. The parallel and unrestrained decline of the Soviet Union, accelerated by the afghan adventure, and, afterwards in the nineties, the dismemberment of the Yugoslavian Federation (a sort of buffer state between the western and soviet blocks) changed the balance of power to favour the US expansionism in the Eurasia region.

After the bipolar system, a new geopolitical era began, that of the “unipolar moment”, in which the USA were the “hyperpuissance” (according to the definition of the French minister Hubert Védrin).

However, the new unipolar system was going to have a short life and indeed it ended at the beginning of the XXI century, when Russia re-emerged as a strategic challenger in global affairs and, at the same time, China and India, the two Asian giants, emerged as economic and strategic powers. On the global level, we have to consider also the growing wheight of some countries of Indiolatin America, such as Brazil, Venezuela. The very important relations among these countries with China, Russia and Iran seem to assume a strategic value and prefigure a new multipolar system, whose two main pillars coul be constituted by Eurasia an Indiolatin America.

Afghanistan, due to its geographical characteristics,  to its location  as respect to the Soviet State (its neighbouring nations Turkmenistan, Uzbekistan and Tajikistan were, at that time, Soviet Republics), and to the wide  variety of ethnic groups forming its population, different either in culture or in religion, represented for Washington an important portion of the so-called “arc of crisis”, namely that geographical region linking the southern boundaries of the USSR and the Arabian Sea. The Afghanistan trap for the URSS was therefore chosen for evident geopolitical and geo-strategic reasons.

From the geopolitical point of view, Afghanistan is clearly representative of a crisis zone, being from time immemorial the scene for the conflicts among the Great Powers.

The area is now “ruled” by the governmental entity established by US forces and named Islamic Republic of Afghanistan, but traditionally the Pashtun tribes have dominated over the other ethnic groups (Tajiks, Hazaras, Uzbeks, Turkmens, Balochs). Its history was spent as part of larger events concerning the interaction and the prolonged fighting among the three neighbouring great geopolitical entities: the Moghul Empire, the Uzbek Khanate and the Persian Empire. In the XVIII and XIX centuries, when the Country was under the rule of the Kingdom of Afghanistan, the area became strategic in the rivalry and conflict between the British Empire and the Russian Empire for supremacy in Central Asia, termed "The Great Game". The Russian land empire, in its efforts to secure access to the Indian Ocean, to India and to China, collided with the interests of the British maritime empire, that, for its part, sought to extend in the Eurasian landmass, using India as staging post, towards the East, to Burma, China, Tibet and the basin of the Yangtze river, and towards the West, to the present-day Pakistan, to Afghanistan and Iran, as far as the Caucasus, the Black Sea, to Mesopotamia and the Persian Gulf.

Towards the end of the XX century, in the framework of the bipolar system, Afghanistan became the battlefield where, once again, a maritime Power, the USA, confronted a land Power, the URSS.

The actors that confronted each other in this battlefield were basically: URSS troops, Afghan tribes and the so-called mujahideen, these latter supported by US, Pakistan and Saudi Arabia.

After the leaving of the Soviet troops from the afghan chessboard, the taliban movement assumed a growing important role in the region, on the basis of at least three main factors: a) ambiguous relations with some components of Pakistan secret services; b) ambiguous relations with US (a sort of “legacy” relied on the previous contacts between US and some components of the “mujahideen” movement, occurred during the Soviet - afghan war); c) the wahhabism as an ideological-religious platform directly useful to the interests of Saudi Arabia in its projection towards some zones as Bosnia, the Middle East area and the Caucasus (namely Chechnya and Dagestan).

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The three elements mentioned above allowed the taliban movement, for one hand, to insert and root itself in the afghan zone, gaining a growing weight on the military (with the creation and consolidation of the so-called sanctuaries) and economic (namely control of the drug traffic) levels, for other hand, impeded it to become an autonomous organization. Actually, because of the infiltration of US, Pakistan and Saudi Arabia, the taliban movement has to be considered a local organization directed by external players. These kind of considerations allows us to better understand and explain the choice of Obama and Karzai to open a dialogue with the Talibans, even to include some of them in local governments. Moreover, the apparent contradiction of the US (and Karzai) behaviours in Afghanistan, that could be explained according the theory and praxis for which the involvement of the enemy in institutional responsibilities aims to weaken it, follows the classic rule of the US geopolitical praxis, that is to maintain in a state of crisis a region considered strategic.

As we well know now, the drug production in Afghanistan has gone up more or less 40 times since the country’s occupation by NATO.

If we consider the solutions adopted so far by US forces and aimed at containing and overcoming the drug trafficking question in the more general context of the US geopolitical praxis, we can observe that US forces and  NATO seem “wasting” their time: drug production and diffusion in the southern part of the country are still going on. As we well know, the large-scale drug production is impossible in this area, because of the non-stop fighting. On the contrary, US and NATO forces focus their strategic interest in the northern side of the country. Here, they have built roads and bridges linking Afghanistan to Tajikistan), the road to Russia via Uzbekistan, Kyrgyzstan and Azerbaijan (see A. Barentsev, Afghan Heroine flow channelled to Russia, FONDSK). This modus operandi reveals openly the real intentions of Pentagon and Washington: opening a road towards Russia, starting from Afghanistan and the Central Asian republics. Actually NATO and other western forces do not conduct an effective fight against drug production and trafficking.

In such context, the supposed US/NATO fight against drug production and trafficking in Afghanistan seem to belong to the field of the western rhetoric more than to be a concrete fact (Fig. 2).

Similarly, the fight against taliban movement seem clearly subordinated to (and thus depending on) the general US strategy in the Eurasian landmass. Nowadays, this strategy consists in the setting up of military garrisons of US and its Western allies in the long strip that, starting from Morocco, crosses the Mediterranean sea and arrives as far as the Central Asian republics. The main aims of this garrisons are: a) the separation of Europe from North Africa; b) the control of north Africa and Near East (particularly the zone constituted by Turkey, Syria and Iran – using the Camp Bondsteel base, located in Kosovo ); b) the containment of Russia, and, under some aspects, of China too; c) an attempt of cutting the Eurasian landmass in two parts; d) the enlargement of the “arc of crisis” in the Central Asian area [Brzezinski defines this area the “Balkans of Eurasia” (the definition of the former advisor of president Carter sounds more as programmatic than as an objective description of the area)].

Creating a geopolitical chasm in Central Asia, i.d. a vulnus in Eurasia landmass, could lead to hostility and enmity among the main players in Asia, Russia, India and China (fig. 3). The only beneficiary of this game would be the US.

Other than the attempt “to knife” Eurasia along the illustrated path (from Mediterranean sea up to the Central Asia), we observe that US disposes (since 2008) of AFRICOM and, of course, of the related cooperative security locations in Africa: a useful “ military “device” which projection is also directed to Middle East and part of Central Asia (fig. 4).

 

 

In order to understand the importance of  the Central Asian zone for the US strategy aimed at its hegemony on the Eurasian landmass, it is enough to give a glance at the following picture (fig. 5) illustrating the US Commanders’ areas of responsibilities. The picture is representative of what we can name – paraphrasing the expression “the white man’s burden” formulated by the bard of the British imperialism, Rudyard Kipling, 1899 – the US’ burden.

 

general remarks on “accepted and shared” concepts

 

With the goal to reach a larger understanding of the complex dynamics acting presently at global level, it is useful criticizing some general concepts we consider accepted and shared. As we know, in the frame of the geopolitical analyses, the correct use of terms and concepts is at least as important as, those ones related to the description of the reality through maps and diagrams. For instance, the so-called “globalization” is only an euphemistic expression for economic expansionism of the US and the its capitalistic western allies (see Jacques Sapir, Le nouveau XXI siécle, Paris, 2008, p. 63-64). Even the rhetoric call to fight for the supposed “human rights”, or similar democratic values, spread by some think thanks, governments or simple civil activists, emphasizes the colonialist aspect of the US on the mass media and culture, without any consideration to other ways of life, like those expressed by no-western civilisations, i.e. more than three quarts of the world population. Among these concepts, we have to consider the most important one from the geopolitical (and international relations) point of view, that is the supposed International Community. The expression “International Community” does not mean anything in geopolitical terms. Actually, the International Community is not a real entity; its related concept sounds, simultaneously, like an aspiration of some utopian activists and a specific falsification of the history.

As in the worldwide real life we know State, Nations, People, International organisations [generally on the basis of (hegemonic) “alliances”] and, of course the relations among these entities, speaking of International Community means to mis-describe the real powers nowadays acting at global and local scales.

Considering now the focus of the present meeting, aimed at finding “shared solutions” for the afghan drug question in the context of the “International Community” (I.C.), honestly we have to underline, as analysts, that instead of I.C. it is more practical speaking of real players involved (and that could be involved) in the Afghan zone.

 

 the real players in the afghan theatre

 

For analytical reasons is useful to aggregate the players concerning the Afghan theatre in the following three categories: external players; local players; players who potentially could be involved in the afghan context. Afterwards we can easily define some conditions in order to delineate the characters of those partners who could be able to stabilize - effectively - the entire geopolitical area.

External players: US and NATO-ISAF (except Turkey) forces are to be considered external players because of their full strangeness to the specific geopolitical area, even if conceived in a broad sense;

Local players: among the local players we can enumerate the bordering countries (Iran, Turkmenistan, Uzbekistan, Tajikistan, China, Pakistan), the tribes, the insurgent forces, the  Talibans and the “governmental” entity led by Karzai.

Regarding the players belonging to the third category as defined above, we can include the Collective Security Treaty Organisation  (CSTO), the Shanghai Cooperation Organisation (SCO), i.e. the main Eurasian organisations with a large experience in managing questions related to the border control and drug trafficking of Central Asian area, and the Eurasian Economic Community (EURASEC). Moreover we have to mention also ONU, in particularly the United Nations Office on Drugs and Crime (UNODOC).

The potential partners able to overcome the drug question in Afghanistan have to present at least the following characteristics: a) the knowledge of the local dynamics related to the ethnic, cultural, religious an economic aspects; b) the acknowledgement by the local population as part of the same cultural context (obviously in a large meaning); c) the will to coordinate collectively the actions without any prejudice or mental reserve within a Eurasian program.

The partners presenting the features synthetically described above are those included in the second and third categories. As matter of fact US and NATO – ISAF forces are perceived from the local population as what they really are: occupying forces. Moreover, considering the NATO role as hegemonic alliance led by Washington and acting within the framework of the US global strategy, its presence in Afghanistan should be considered a serious obstacle to the stabilization of the entire area. The Talibans and even the governmental entity, do not appear, due to the ambiguous relations that they seem to have with the occupying US forces, to be candidate partners in a collaborative effort to triumph over the drug question in Afghanistan.

The real players able to stabilize the area are - without any doubt - the Afghanistan bordering countries and the Eurasian organizations. Among the bordering countries, a special role could be carried on by Iran. Teheran is the only country that has demonstrated to assure the security of Afghan-Iranian border, specially for drug trafficking. Also Moscow and Beijing  assume an important function in the stabilization of the area and in the fight to drug trafficking, because Russia and China, it is worth to remind it, are the main powers of the Eurasian organizations above mentioned. A strategic axis between the two “lungs” of Eurasia, balanced by the Central Asian republics and India, could constitute the lasting solution for the stabilization of the area and hence the drug question. Only in the frame of a shared Eurasian plan aimed at stabilizing the area – conceived and carried on by Eurasian players –, it is possible to dialogue with local tribes and with those insurgent movements which are clearly not directed by external players.

 

 

conclusions

 

The stabilization of the afghan area is an essential requirement for any plan aimed to face the drug production and trafficking.

However, because of the pivotal role of Afghanistan in the Middle East and in the Central Asian regions,  the strategy to stabilize the area has to be conceived in the context of the integration of the Eurasian landmass.  Candidates particularly interested to halt the drug production and traffic are the Afghanistan bordering Countries.

US and NATO forces, because of their clear geopolitical praxis aimed at hegemonizing the Eurasian landmass, are not plausible candidate.

Israele impietantata in Iraq

Israele impiantata in Iraq

di Gilles Munier

Fonte: eurasia [scheda fonte]


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Israele impiantata in Iraq

Israele ha capito subito che gli Stati Uniti avrebbero perso la guerra in Iraq, e che i progetti di stabilire relazioni diplomatiche e la promessa della riapertura dell’oleodotto Kirkuk-Haifa fatte da Ahmed Chalabi, erano illusori. Ariel Sharon ha deciso, secondo il giornalista investigativo Seymour Hersh, di rafforzare la presenza israeliana nel Kurdistan iracheno affinché il Mossad stabilisca reti che si estendono per tutto il resto del paese e tra i curdi dei paesi vicini, a prescindere dal risultato del conflitto.
Programma di assassinii

La partecipazione di Israele alla coalizione occidentale che ha invaso l’Iraq è tutt’altro che trascurabile, ma rimane quasi un segreto. Gli Stati Uniti non tengono conto a ciò di cui i media parlano, per paura di interferire con i loro alleati arabi e di dare credibilità a loro avversari che denunciano il “complotto sionista-americano” in Medio Oriente.

Gli israeliani non sono presenti solo con l’uniforme degli Stati Uniti con cui, sotto la copertura della doppia cittadinanza, intervengono dal 2003 come specialisti nella guerra urbana a Fort Bragg, Carolina del Nord; il centro delle Forze Speciali. Qui è stata istituita la famosa task force 121 che, con i peshmerga del PUK (Talabani), catturò il presidente Saddam Hussein. Il suo leader, il generale Boykin, si vedeva un crociato contro l’Islam, “religione satanica”. Fu allora che Benjamin Netanyahu incontrò al King David Hotel di Gerusalemme, i fanatici cristiano-sionisti per dichiarare l’Iraq “Terra di Missione” … Nel dicembre 2003, un ufficiale dell’intelligence statunitense, citato da The Guardian temeva che la “cooperazione su vasta scala” con Israele deragliasse, in particolare con il “programma di omicidi in via di concettualizzazione“, cioè la formazione di squadroni della morte. Non bisognò neppure attendere molto perché il primo scandalo scoppiasse. Nel marzo 2004, si diffuse la voce che gli israeliani torturavano i prigionieri di Abu Graib, anche mettendo in pratica l’esperienza acquisita per piegare la resistenza in Palestina. Sulla BBC, il generale Janis Karpinski, la dimessa direttrice del carcere tagliò corto con le smentite ufficiali, confermando la loro presenza nella prigione.

La cooperazione israelo-statunitense non si sviluppò solo sul terreno della liquidazione extragiudiziale di 310 scienziati iracheni, tra aprile 2003 e ottobre 2004, ma anche in Israele, imparando dalle battaglie di Falluja, il Corpo dei genieri dell’Esercito USA costruì, nel Negev, un centro di addestramento per i marines diretti in Iraq e in Afghanistan. Il campo, chiamato Baladia City, è situato vicino alla base segreta di Tze’elim, che è la replica a grandezza naturale di una città mediorientale, con i soldati israeliani di lingua araba che giocano il ruolo di civili e combattenti nemici. … Secondo il Marines Corps Time, assomiglia a Beit Jbeil, il centro della resistenza di Hezbollah all’esercito israeliano, nel 2006…
Gli “uomini d’affari” del Mossad

Nell’agosto 2003, l’Istituto israeliano per l’esportazione organizzò a Tel Aviv una conferenza per consigliare agli imprenditori d’agire come subappaltatori di imprese giordane o turche, ottenendo l’approvazione del Consiglio di governo iracheno. Molto rapidamente emersero in Iraq dei prodotti sotto false etichette. L’attacco da parte di Ansar al-Islam, nel marzo 2004, alla società di import-export Al-Rafidayn, copertura del Mossad a Kirkuk, ha convinto gli “imprenditori” israeliani che era meglio reclutare nuovi agenti senza allontanarsi dal Kurdistan, ma ciò non ha impedito il progredire degli scambi economici israelo-iracheni. Nel giugno 2004, il quotidiano economico israeliano Globes stimava in due milioni di dollari le esportazioni in Iraq, per quell’anno. Nel 2008, il sito web Roads to Iraq contava 210 imprese israeliane che partecipavano, occultate, al mercato iracheno. Il loro numero è aumentato nel 2009, dopo la soppressione, da parte del governo di Nouri al-Maliki, del documento di boicottaggio d’Israele, richiesto dalle aziende straniere che operano in Iraq, una vera manna per gli agenti reclutatori del Mossad.

Fonte: Afrique Asie Giugno 2010

Traduzione di Alessandro Lattanzio

samedi, 12 juin 2010

The Grand Strategy of the Byzantine Empire

luttwak.jpgThe Grand Strategy of the Byzantine Empire

"In this book, the distinguished writer Edward Luttwak presents the grand strategy of the eastern Roman empire we know as Byzantine, which lasted more than twice as long as the more familiar western Roman empire, eight hundred years by the shortest definition. This extraordinary endurance is all the more remarkable because the Byzantine empire was favored neither by geography nor by military preponderance. Yet it was the western empire that dissolved during the fifth century. The Byzantine empire so greatly outlasted its western counterpart because its rulers were able to adapt strategically to diminished circumstances, by devising new ways of coping with successive enemies. It relied less on military strength and more on persuasion--to recruit allies, dissuade threatening neighbors, and manipulate potential enemies into attacking one another instead. Even when the Byzantines fought--which they often did with great skill--they were less inclined to
destroy their enemies than to contain them, for they were aware that today’s enemies could be tomorrow’s allies. Born in the fifth century when the formidable threat of Attila’s Huns were deflected with a minimum of force, Byzantine strategy continued to be refined over the centuries, incidentally leaving for us several fascinating guidebooks to statecraft and war.

"The Grand Strategy of the Byzantine Empire is a broad, interpretive account of Byzantine strategy, intelligence, and diplomacy over the course of eight centuries that will appeal to scholars, classicists, military history buffs, and professional soldiers."

Edward N. Luttwak, The Grand Strategy of the Byzantine Empire, Cambridge, MA, Harvard University Press, 2009.

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vendredi, 11 juin 2010

La sfida totale

LA SFIDA TOTALE

INTERVISTA A DANIELE SCALEA

 

Stefano Grazioli

Ex: http://www.italiasociale.net/

 

sfida-totale.jpgTanti parlano e scrivono di geopolitica, pochi ne capiscono davvero qualcosa. Daniele Scalea è uno di questi. Giovane, 25 anni e una laurea in Scienze storiche alla Statale di Milano, Daniele Scalea - che già da qualche anno é nella redazione di Eurasia -  ha esordito con un opera di grande spessore (un assaggio sul sito), dimostrando che le sponde del Lago Maggiore (vive a Cannobio) possono diventare un osservatorio privilegiato per capire e spiegare le vicende del Mondo che ci circonda. A confermarlo non sono tanto io, quanto chi ha scritto la prefazione del nuovo libro di Daniele, “La sfida totale – Equilibri e strategie nel grande gioco delle potenze mondiali” (Fuoco Edizioni), e cioè il generale Fabio Mini, uno che ne capisce: “Si potrebbe tranquillamente dire che Daniele Scalea ha scritto un trattato di alta Geopolitica. Ha descritto il mondo attuale cercando di interpretarlo alla luce delle teorie classiche della Geopolitica confermandone, e ce n’era bisogno, la validità metodologica. Ha preso in esame tutti i grandi attori mondiali e dopo una panoramica appassionata, non c’è nient’altro da dire”.

Ecco, non aggiungo altro nemmeno io. Consiglio solo di correre in libreria o ordinare il libro via internet direttamente dall’editore. E di leggere con attenzione la lunga  intervista che gentilmente che l’autore ci ha concesso.

 

Rovesciamo la bottiglia e partiamo dal fondo. Lei conclude il suo libro scrivendo che la nascita del Nuovo Mondo, o perlomeno la ristrutturazione geopolitica di quello vecchio, potrebbe essere oltremodo complicata: in sostanza il passaggio da un sistema semi-unipolare a uno multipolare rischia di produrre dolorose frizioni dovute al fatto che la potenza egemone – gli Stati Uniti – opporrà resistenza alla perdita del proprio potere. La “sfida totale” ha già vincitori e vinti?

La tendenza storica del post-Guerra Fredda marcia contro gli USA. Negli anni ’90 la geopolitica mondiale ha vissuto il suo “momento unipolare”, e tutto sembrava girare per il verso giusto, dalla prospettiva di Washington. Ma già si covava quanto sarebbe venuto. L’ultimo decennio ha visto l’emergere a livello economico, strategico ed infine anche politico di veri e propri competitori della “unica superpotenza rimasta”: il riferimento è prima di tutto a Cina e Russia, ma una menzione la meritano pure India, Brasile, Giappone. Il sogno della “fine della storia” è svanito. Gli USA hanno tentato, sotto Bush, un ultimo brutale tentativo di mantenere la propria supremazia incontrastata: il progetto di “guerra infinita”, che avrebbe dovuto annichilire come un rullo compressore tutti i possibili nemici e competitori, ma che si è arenato già sui primi due scogli incontrati, ossia Afghanistan e Iràq. L’ordine mondiale odierno è “semi-unipolare”, con Washington ancora potenza egemone, ma più per la cautela dei suoi rivali che per la propria forza ed autorità. La crisi finanziaria del 2008 è partita dagli USA ed ha mandato parzialmente in frantumi quell’ordine economico su cui si fonda gran parte del potere di Washington. Tutto lascia supporre che si concretizzerà il ritorno ad un vero e proprio ordine “multipolare”, e questa è anche la mia previsione.

Però …come spesso accade c’è un “però”. Uno degli errori più comuni del nostro tempo è quello di percepire le tendenze come fattori fissi ed immutabili, quando in realtà sono contingenti. Come sosteneva Hume, l’uomo è portato a credere in ciò che è abituato a vedere, ossia ad assolutizzare il contingente. Ma le inversioni di tendenza sono sempre possibili. Gli Stati Uniti non hanno accettato e difficilmente accetteranno il ruolo di ex egemone in declino. A meno d’implosioni interne del tipo pronosticato da Igor Panarin, riusciranno ad opporre resistenza, ed hanno molto frecce al loro arco se non per bloccare, quanto meno per rallentare la transizione al mondo multipolare: ricordiamo, tra i principali, il poderoso strumento militare (che spesso fa cilecca, ma per capacità di proiezione globale non ha pari), la “egemonia del dollaro” (Henry Liu), la centralità nel sistema finanziario, l’influenza culturale. Già il secolo scorso la supremazia delle talassocrazie anglosassoni fu sfidata, prima dal Reich tedesco e poi dall’Unione Sovietica, e sappiamo bene tutti come andò a finire. Meglio non vendere la pelle dell’orso (o le penne dell’aquila, se vogliamo esser più precisi nell’allegoria zoologica) prima d’averlo ucciso. Certo però che questi USA d’inizio XXI secolo paiono solo la copia sbiadita della superpotenza del ventesimo: molta della loro grandezza deriva dall’eredità delle generazioni passate, e quando sono chiamati a difenderla non sembrano all’altezza del proprio rango senza pari.

E ora dall’inizio, tuffandoci un po’ nel passato. L’attacco al cuore della Terra, all’Heartland, che gli Stati Uniti hanno attuato su quattro direttrici (sovversione politica, espansione militare, risorse energetiche, supremazia nucleare): può sintetizzare?

La strategia statunitense, quanto meno dagli ultimi anni della Seconda Guerra Mondiale in poi (e forse anche da prima), è fortemente ispirata ai princìpi della geopolitica. L’Heartland (H. Mackinder) è una delle categorie basilari di questa disciplina: è la Terra-cuore, il centro del continente eurasiatico, storicamente impermeabile alla potenza marittima – quest’ultima incarnata prima dall’Impero britannico e poi dal “imperialismo informale” statunitense. L’Heartland è occupato dalla Russia, che rappresenta perciò stesso il principale ostacolo e minaccia potenziale all’egemonia della potenza talassocratica, ossia marittima, degli USA. Dalla fine della Guerra Fredda ad oggi, Washington e Mosca hanno più volte tentato approcci amichevoli, ma tutti sono finiti male. All’arrendevolezza di El’cin si rispose con lo smembramento della Jugoslavia, ed i Russi reagirono portando al Cremlino un certo Vladimir Putin. Le sue aperture dopo l’11 settembre sono state ripagate con la penetrazione statunitense in Asia Centrale, nel “cortile di casa” russo. Anche l’attuale recentissimo idillio tra Obama e Medvedev durerà poco. Nessuno vuole sfociare nel determinismo, ma la geografia è un fattore importante nella vicenda umana, ed in questo caso la geografia condanna Russia e USA ad essere, almeno nello scenario attuale, quasi sempre nemici.

Dagli anni ’90 ad oggi gli Statunitensi, sulla scia di teorizzazioni come quelle di Zbigniew Brzezinski, lungi dall’allentare la morsa su Mosca hanno cercato di sfruttare il crollo dell’URSS per neutralizzare definitivamente la minaccia russa. Le “direttrici d’attacco”, come da lei sottolineato, sono state quattro:

a) la sovversione politica: tramite la CIA, enti pubblici o semi-pubblici come il National Endowment for Democracy o U.S. Aid, e finte ONG gli USA hanno orchestrato una serie di colpi di Stato in giro per l’ex area d’influenza moscovita, allo scopo d’insediare quanti più governi filo-atlantici e russofobi fosse possibile. I casi più celebri: Serbia, Georgia, Ucraìna, Kirghizistan. Ci hanno provato persino in Bielorussia e in Russia (leggi Kaspàrov), ma non è andata bene. I governanti locali si sono fatti furbi ed hanno iniziato a porre una serie di restrizioni alle attività d’organizzazioni straniere nei propri paesi. Gli ultimi eventi in Ucraìna e Kirghizistan fanno pensare che l’ondata di “rivoluzioni colorate” sia ormai in fase di risacca;

b) l’espansione militare: la NATO si potrebbe definire come l’alleanza che lega l’egemone statunitense ai paesi ad esso subordinati. Non è qualitativamente diversa dalla Lega Delio-Attica capeggiata da Atene, o dalle varie alleanze italiche di Roma. Un’alleanza non certo tra pari. Nata in funzione anti-sovietica, scioltasi l’URSS non solo non ha chiuso i battenti ma si è allargata verso est, fino ai confini della Russia. La nuova dottrina militare russa cita espressamente la NATO tra le minacce per il paese;

c) le risorse energetiche: una potente leva strategica per la Russia è costituita dalla sua centralità nel commercio energetico intra-eurasiatico. Gli USA hanno cercato di sminuirla facendo dell’Asia Centrale un competitore di Mosca, tramite gasdotti e oledotti alternativi che scavalcassero il territorio russo. L’impossibilità di costruire la condotta trans-afghana, il ridotto impatto del BTC ed il fallimento annunciato del Nabucco chiariscono che il progetto, almeno per ora, non ha avuto successo;

d) la supremazia nucleare: è un punto sovente ignorato dai commentatori occidentali. Si definisce “supremazia nucleare” la capacità d’uno Stato di vincere una guerra atomica senza subire danni eccessivi, ossia di sferrare un “primo colpo” (first strike) parando la successiva rappresaglia. Quando si dispone di migliaia di testate e missili nucleari, come gli USA, è facile annientare un rivale con una guerra atomica: il grosso problema è riuscire ad evitare d’essere annientati a propria volta se il nemico, come la Russia, ha a sua volta migliaia di armi nucleari con cui rispondere. Ecco dunque l’idea dello scudo ABM (anti-missili balistici), il sogno di Reagan riesumato da Bush e per niente accantonato da Obama. Resterà ancora a lungo una delle principali pietre della discordia tra Mosca e Washington. Infatti, il Cremlino non si beve la storia che lo scudo ABM sia rivolto contro l’Iràn e la Corea del Nord, e nel mio libro spiego dettagliatamente il perché.

Lei si sofferma sulla politica estera statunitense dell’ultimo decennio sviscerando le differenze tra idealisti e realisti alla Casa Bianca. Cosa ha cambiato l’arrivo di Barack Obama alla Casa Bianca?

Ha cambiato molto, ma probabilmente meno di quello che avrebbe potuto se non ci fosse stata la crisi finanziaria del 2008. Obama era portatore d’una geostrategia alternativa a quella neoconservatrice, meno fissata sul Vicino e Medio Oriente e più attenta agli equilibri globali nel loro complesso. Essa comprendeva anche una non dichiarata strategia anti-russa di tipo brzezinskiana. La stessa distensione con l’Iràn era ed è mirata soprattutto a rivolgere la potenza persiana contro Mosca in funzione di contenimento sul fianco meridionale.

Inutile dire che la crisi ha scompaginato i piani. Gli USA si sono ritrovati con l’acqua alla gola, ed Obama s’è accontentato di cercare di salvarne la supremazia mondiale. L’ideologismo di Bush è stato sostituito con un po’ di sana Realpolitik, e la minaccia ed uso della forza militare sono oggi stemperate dal ricorso alla diplomazia come via prediletta. Ma ciò non è sufficiente. Washington, capendo di non farcela più da sola, sta cercando di cooptare qualche grande potenza come stampella della propria egemonia. All’inizio Obama ha cercato di formare il famoso “G-2” con la Cina, ma ben presto la tensione ha preso a montare ed oggi Washington e Pechino si guardano in cagnesco come non succedeva da decenni. Così Obama ha messo nel mirino la Cina, ed ha pensato bene di corteggiare la Russia. Il “leviatano” talassocratico ed il “behemoth” tellurocratico si sono già trovati fianco a fianco contro una potenza del Rimland, ossia del margine continentale dell’Eurasia (mi riferisco alla Germania nel secolo scorso), ma non credo che ciò si ripeterà oggi. Gli USA superpotenza avrebbero potuto cooptare la Russia di El’cin e del primo Putin, ma si sono rivelati troppo avidi di potere ed hanno finito con l’allontanarla. Oggi sono ancora la potenza egemone, e perciò suscitano invidia ed ostilità, ma sono un egemone zoppo,  e dunque appoggiarlo non dà più gli stessi vantaggi d’un tempo. Allearsi con qualcuno che ti vorrebbe come stampella del suo potere traballante non è una prospettiva così allettante. Il Cremlino prenderà altre strade. Solo quando gli USA si saranno ridimensionati al rango di grande potenza inter pares, allora si potrà ridiscutere d’alleanze strategiche.

L’8 dicembre 1991 i presidenti di Russia, Ucraina e Bielorussia, riuniti a Brest, proclamarono la dissoluzione dell’Unione Sovietica, che Gorbačev fu costretto ad accettare suo malgrado. L’ex presidente russo Vladimir Putin, ora primo ministro, ha affermato che la dissoluzione dell’Urss è la stata la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo. È d’accordo?

Il termine “catastrofe” sottintende un giudizio di valore, e dunque è soggettivo. Restando sul merito, è indubbio che il crollo dell’URSS, ossia della potenza terrestre dell’Heartland che conteneva la superpotenza marittima, è stato un evento epocale. E dal punto di vista dei Russi, non si può che considerare catastrofico. Ma non solo dal loro. Il crollo della diga sovietica – una diga criticabile e controversa fin quanto si vuole – ha aperto la strada al tentativo egemonico degli USA, col suo contorno di prevaricazione e guerre. Per gli Statunitensi la disgregazione dell’URSS è stata un successo, per i Polacchi una benedizione, per i Cubani, i Siriani o i Palestinesi una disgrazia.

Vladimir Putin è stato, tra luci ed ombre, il simbolo della ritorno della Russia sulla Grande Scacchiera. Lei scrive che la “Dottrina Putin” può essere interpretata come un realismo in salsa russa, fondato sull’accorta tessitura d’alleanze intra-continentali con la Cina, l’India, l’Iran, la Turchia e l’Europa Occidentale. Cioè?

Ho ripreso la definizione che cita da Tiberio Graziani, direttore della rivista “Eurasia”. In Russia, dopo la fine del comunismo sono emerse due visioni ideologiche: quella eurasiatica, che vede negli USA il nemico storico da combattere ad ogni costo, e quella occidentalista, che vede nell’Ovest il beniamino da emulare e compiacere ad ogni costo. La Dottrina Putin esula da questi schemi e si pone nel mezzo degli “opposti estremismi”. Putin ha adottato linguaggi e formalità cari agli occidentali, ed ha a lungo considerato prioritari i rapporti con l’Europa e gli USA. Ma non è mai stato arrendevole e rinunciatario, non ha mai rinunciato a difendere il ruolo della Russia nel mondo ed il suo “spazio vitale” nell’Heartland. Quando ha verificato che con Washington non c’erano spazi di dialogo, si è rivolto altrove. Le alleanze intra-continentali da lei citate servono a creare un “secondo anello di sicurezza” (il primo dovrebbe essere il “estero vicino”) attorno alla Russia. L’obiettivo finale è estromettere la talassocrazia, ossia gli USA, dall’intera massa continentale eurasiatica, per mettere definitivamente in sicurezza la Russia.

Secondo Parag Khanna i “tre imperi” del nuovo mondo multipolare sarebbero Usa, Cina e Unione Europea, mentre la Russia farebbe parte del “secondo mondo”. Lei non è d’accordo. Perché?

Perché la visione di Parag Khanna si fonda sostanzialmente su valutazioni di tipo economico e sulle sue simpatie personali. L’economia è importante ma non rivela tutto. Ad esempio, l’Unione Europea, si sa, è un gigante economico ma un nano politico. Non è neppure uno Stato, bensì un’accozzaglia di Stati nazionali che, come stanno dimostrando gli eventi attuali, in mezzo alla tempesta preferiscono pensare ognuno per sé. La Russia ha un ingente patrimonio geopolitico, in termini geografici, militari ed energetici, che può giocare efficacemente sulla grande scacchiera mondiale. Mosca è ancora al centro della politica internazionale, considerarla parte del “secondo mondo” è ingiustificato.

La Cina è e sarà comunque uno dei protagonisti di questo secolo e intorno al ruolo di Pechino si gioca ovviamente il futuro di Washington. Riprendo allora le sue parole: «Per gli Usa il contenimento della Cina dovrebbe avvenire attraverso due “cani da guardia” posti al suo fianco: l’India e il Giappone. Davvero Nuova Delhi e Tokio sono disposti a ricoprire il ruolo che Washington vorrebbe affibbiare loro, oppure preferiranno unirsi a Pechino per creare una “sfera di co-prosperità” asiatica?»

È un dilemma che non ha ancora trovato risposta. L’India sembrava più vicina alla Cina qualche anno fa, quando entrò nel gergo comune degli addetti ai lavori il termine “Cindia”. Al contrario, il Giappone che qualche anno fa pareva nemico irriducibile di Pechino oggi gli si sta riavvicinando. La situazione è fluida e difficile da decifrare, ma la sensazione è che Nuova Delhi e Tokio cercheranno la vincita sicura: aspetteranno di capire con certezza chi avrà la meglio tra Cina e USA, e solo allora punteranno tutto sul cavallo vincente.

Spostiamoci infine Oltreoceano, dove comunque i grandi attori sono sempre gli stessi. Nel libro scrive che Obama sembra deciso a recuperare l’influenza sul “cortile di casa”, e con qualsiasi mezzo. Russia e Cina, invece, offrono una sponda diplomatica alle nuove potenze emergenti come Brasile e Venezuela. I prossimi conflitti sono programmati?

Il Sudamerica è storicamente un’area molto pacifica. Ma ciò è dovuto anche alla sua storia di marginalità nel quadro geopolitico, ed all’egemonia a lungo incontrastata degli USA. Oggi questi due fattori stanno venendo meno. In Sudamerica sta emergendo una grande potenza mondiale – il Brasile – mentre il controllo degli USA sul “cortile di casa” è stato seriamente intaccato. Cina e Russia si fanno beffe della Dottrina Monroe, punto fermo della strategia statunitense da un paio di secoli. Washington passerà all’azione, o meglio alla reazione, e non sappiamo ancora quali strumenti sceglierà.

Maggiore integrazione economica? L’ALCA è stato bocciato da quasi tutti i paesi sudamericani.

Legami militari? In Sudamerica la Russia ha superato gli USA nell’esportazione di armi.

Influenza culturale? I sentimenti anti-statunitensi, tradizionalmente radicati nell’area, appaiono al massimo storico, ed il risveglio della comunità indigena porta ad una riscoperta del proprio retaggio più arcaico, piuttosto che all’adozione della way of life nordamericana.

Colpi di Stato? In Venezuela ci hanno provato ma fu un fallimento; un pesce molto più piccolo come l’Honduras è caduto nella rete, ma si ritrova quasi completamente isolato nella regione.

Guerre per procura? I paesi sudamericani sono molto restî a scendere in guerra tra loro, se non altro perché sono tutti instabili al loro interno e temono gravi contraccolpi domestici. Attorno alla Colombia la tensione sta montando, e molto decideranno le imminenti elezioni presidenziali. Santos ricorda per certi versi Saakašvili: è una testa calda, con lui tutto sarebbe possibile. Mockus, al contrario, cercherebbe la distensione coi vicini ed allenterebbe i legami con gli USA. In ogni caso, per Bogotà sarebbe una mossa come minimo azzardata andare in guerra coi vicini, quando non controlla neppure il proprio territorio nazionale.

Guerre in prima persona? Sono da escludersi almeno finché le truppe nordamericane rimangono impantanate in Iràq e Afghanistan. Anche dopo aver evacuato i due paesi mediorientali, l’esperienza inciderà negativamente sulla propensione alla guerra nei prossimi anni. Certo, non sono eventi traumatici come il Vietnam – avendovi preso parte soldati professionisti e non cittadini coscritti – ma il paese è comunque demoralizzato e le casse vuote. Inoltre i paesi sudamericani si stanno integrando: attaccarne uno significherebbe rovinare i rapporti con tutti.

Per tali ragioni, ritengo che nei prossimi anni Washington si limiterà a sovvenzionare e “pompare” a livello mediatico i propri campioni in loco: lo sta già facendo in Brasile, anche se difficilmente il Partito dei Lavoratori di Lula sarà scalzato dal potere. In qualche “repubblica delle banane” centroamericana potranno pure organizzare dei golpe, ma l’arma tradizionale dell’influenza nordamericana sui vicini meridionali appare sempre più spuntata.

La perdita dell’egemonia sul continente americano rappresenterà una svolta epocale per gli USA e la geopolitica mondiale. Gli Stati Uniti d’America, potenza continentale, hanno potuto inventarsi potenza marittima contando sull’isolamento conferito dall’assenza di nemici sulla terraferma: dal Novecento hanno perciò potuto proiettarsi con sicurezza sugli oceani e al di là degli stessi. Con l’emergere di forti rivali nelle Americhe, gli USA perderebbero uno dei loro storici vantaggi strategici: smetterebbero di essere “un’isola” geopolitica e ritornerebbero una potenza continentale.

Quali sono questi “rivali” che gli USA potranno trovare nel continente? Facile rispondere il Brasile, su tutti, che ha dimensioni e demografia adatte a sfidare la supremazia di Washington nell’emisfero occidentale. Facilissimo citare il “blocco bolivariano”, paesi che presi singolarmente sono deboli, ma che se dovessero riuscire ad unirsi, resi più forti dalla veemenza ideologica, creerebbero non pochi problemi ai gringos, come li chiamano loro. E non scordiamoci il Messico. Il Messico è una nazione molto grande, direttamente confinante con gli USA, e coltiva – anche se silenziosamente – storiche rivendicazioni territoriali sul sud degli Stati Uniti. La sua economia è in forte crescita: fra pochi anni sarà considerata una grande potenza, almeno in quest’ambito. Fatica a tenere sotto controllo la parte settentrionale del paese, ma è quella meno popolata e più povera. In compenso ha un’arma atipica. Samuel Huntington, poco prima di morire, lanciò un avvertimento ai propri connazionali: di guardarsi dall’enorme aumento numerico dei Latinos – per lo più messicani – negli USA. I Latinos sono concentrati in pochi Stati: California, Texas, Arizona, New Mexico ed anche Florida (qui si tratta di cubani e portoricani). Giungono in massa e tendono a conservare la propria lingua, la propria religione ed il proprio modo di vivere. Hanno già acquisito un ingente peso elettorale, ma in massima parte non sono integrati nella società statunitense. Nel Sud, i cartelli criminali del narcotraffico hanno costituito veri e propri “Stati nello Stato”, che spadroneggiano nei quartieri latini, sanno autofinanziarsi illecitamente tramite il traffico di droga e la prostituzione, hanno veri e propri eserciti armati fino ai denti. Un soggetto ideale per condurre una guerra asimmetrica, se se ne creassero le condizioni. Questi cartelli del narcotraffico hanno eguale potere al di là del confine, nel settentrione del Messico, e forti collusioni con le autorità di Città del Messico. Non è un caso che negli USA da alcuni anni stiano cercando d’arginare l’immigrazione e d’integrare i Latinos nella società, mentre in Messico non fanno nulla per dissuadere i propri cittadini dall’espatriare nelle terre che gli Statunitensi rubarono al Messico centocinquant’anni fa. La situazione è esplosiva, e qualche analista – come George Friedman – se n’è accorto.

 

22/05/2010

mardi, 08 juin 2010

Un général américain annonce de nouvelles guerres

Un général américain annonce de nouvelles guerres pour les « dix années qui viennent »

Lors de la visite du président fantoche de l’Afghanistan, Hamid Karzaï, qui s’est déroulée du 10 au 14 mai dernier à Washington, des attachés militaires français ont rapporté une surprenante déclaration du général James Cartwright, l’adjoint du patron des armées US :  les forces armées américaines vont s’engager dans de nouvelles guerres.

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Depuis plusieurs semaines, en prévision de l’accueil réservé à Karzaï au Département d’État, au Pentagone et à la Maison-Blanche, Obama avait interdit à ses ministres, à ses chefs militaires et à ses diplomates de se livrer à la moindre critique de son hôte. Oubliées, les incartades de Karzaï, qui avait accusé l’ambassadeur américain à Kaboul d’avoir voulu le faire battre à l’élection présidentielle. Passées par pertes et profits, les déclarations publique du chef afghan, qui récemment encore menaçait de « rejoindre les talibans» si les Américains continuaient à se comportent en « occupant ». Et surtout, plus question de voir, dans la presse, un commentaire sur la corruption du clan Karzaï et ses relations avec les trafiquants d’opium.

Cela n’aura néanmoins pas suffit à réduire au silence certains membres du Pentagone. Passionnés de statistiques, ces bavards ont sélectionnés, pour leurs chefs, plusieurs chiffres déprimants sur cette guerre lointaine.

Recrudescence des opérations de la résistance afghane

Selon le dernier numéro du Canard Enchainé, dont les sources seraient des attachés militaires français, en mars dernier les services américains ont recensé 40 attaques de la résistance par jour, et , mieux encore, il faudra s’attendre à enregistrer, au total, 21′000 agressions de ce genre à la fin 2010.

Autre information révélée par l’hebdomadaire : l’offensive dirigée par le général McChrystal dans le Helmand serait loin d’être un « franc succès » : les talibans continuent de contrôler cette zone proche du Pakistan. Voilà qui n’augure rien de bon à quelques semaines de la « grande offensive » dans la région de Kandahar, ou des commandos américains ont déjà détecté la présence de jeunes insurgés, qui ont rasé leur barbe et sont porteur d’armes modernes.

Des guerres pour les dix prochaines années

Le Canard Enchainé, rapporte surtout une surprenante déclaration du général James Cartwright, l’adjoint du patron des armées US. Le 13 mai, au Centre des études stratégiques, il s’est autorisé à prédire l’avenir devant un auditoire médusé : « Pendant les dix années qui viennent, les forces armés américaines resteront engagées dans le même genre de conflit qu’elles ont connu en Irak et en Afghanistan »

Faudra-t-il que Sarkozy, ou son successeur, accepte d’envoyer des Français participer à de nouvelles guerres américaines ? Les nombreux candidats à la future élection présidentielle de 2012 devraient y réfléchir. Les électeurs aussi.

Agata Kovacs, pour Mecanopolis

jeudi, 20 mai 2010

Alfred Thayer Mahan (1840-1914)

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1992

Alfred Thayer MAHAN (1840-1914)

 

Mahan.jpgAmiral, historien et professeur à l'US Naval Academy, Alfred Thayer Mahan est né le 27 septembre 1840 à West Point, où son père enseignait à l'Académie militaire. Il fréquente l'US Naval Academy d'Annapolis, sert l'Union pendant la Guerre de Sécession et entame une carrière de professeur d'histoire et de stratégie navales. De 1886 à 1889, il préside le Naval War College. De 1893 à 1895, il commande le croiseur Chicago dans les eaux européennes. Il sert à l'état-major de la marine pendant la guerre hispano-américaine de 1898. En 1902, il est nommé Président de l'American Historical Association.  Il meurt à Quogue, dans l'Etat de New York, le 1 décembre 1914. L'œuvre de Mahan démontre l'importance stratégique vitale des mers et des océans. Leur domination permet d'accèder à tous les pays de la planète, parce que la mer est res nullius, espace libre ouvert à tous, donc surtout à la flotte la plus puissante et la plus nombreuse. Le Sea Power,  tel que le définit Mahan, n'est pas exclusivement le résultat d'une politique et d'une stratégie militaires mais aussi du commerce international qui s'insinue dans tous les pays du monde. Guerre et commerce constituent, aux yeux de Mahan, deux moyens d'obtenir ce que l'on désire: soit la puissance et toutes sortes d'autres avantages. Ses travaux ont eu un impact de premier ordre sur la politique navale de l'empereur allemand Guillaume II, qui affirmait «dévorer ses ouvrages».

 

The Influence of Sea Power upon History 1660-1783  (L'influence de la puissance maritime sur l'histoire 1660-1783),  1890

 

Examen général de l'histoire européenne et américaine, dans la perspective de la puissance maritime et de ses influences sur le cours de l'histoire. Pour Mahan, les historiens n'ont jamais approfondi cette perspective maritime car ils n'ont pas les connaissances navales pratiques nécessaires pour l'étayer assez solidement. La maîtrise de la mer décide du sort de la guerre: telle est la thèse principale de l'ouvrage. Les Romains contrôlaient la mer: ils ont battu Hannibal. L'Angleterre contrôlait la mer: elle a vaincu Napoléon. L'examen de Mahan porte sur la période qui va de 1660 à 1783, ère de la marine à voile. Outre son analyse historique extrêmement fouillée, Mahan nous énumère les éléments à garder à l'esprit quand on analyse le rapport entre la puissance politique et la puissance maritime. Ces éléments sont les suivants: 1) la mer est à la fois res nullius  et territoire commun à toute l'humanité; 2) le transport par mer est plus rapide et moins onéreux que le transport par terre; 3) les marines protègent le commerce; 4) le commerce dépend de ports maritimes sûrs; 5) les colonies sont des postes avancés qui doivent être protégés par la flotte; 6) la puissance maritime implique une production suffisante pour financer des chantiers navals et pour organiser des colonies; 7) les conditions générales qui déterminent la puissance maritime sont la position géographique du territoire métropolitain, la géographie physique de ce territoire, l'étendue du territoire, le nombre de la population, le caractère national, le caractère du gouvernement et la politique qu'il suit (politiques qui, dans l'histoire, ont été fort différentes en Angleterre, en Hollande et en France). Après avoir passé en revue l'histoire maritimes des pays européens, Mahan constate la faiblesse des Etats-Unis sur mer. Une faiblesse qui est due à la priorité que les gouvernements américains successifs ont accordé au développement intérieur du pays. Les Etats-Unis, faibles sur les océans, risquent de subir un blocus. C'est la raison pour laquelle il faut développer une flotte. Telle a été l'ambition de Mahan quand il militait dans les cercles navals américains.

 

The Influence of Sea Power upon the French Revolution and Empire, 1793-1812 (L'influence de la puissance maritime sur la Révolution française et l'Empire français, 1793-1812),  2 vol.,  1892

 

Ce livre d'histoire maritime est la succession du précédent. Il montre comment l'Angleterre, en armant sa marine, a fini par triompher de la France. En 1792, l'Angleterre n'est pas du tout prête à faire la guerre ni sur terre ni sur mer. En France, les révolutionnaires souhaitent s'allier à l'Angleterre qu'ils jugent démocratique et éclairée. Mais, explique Mahan, cet engouement des révolutionnaires français ne trouvait pas d'écho auprès des Anglais, car la conception que se faisaient ces derniers de la liberté était radicalement différente. Pour Mahan, conservateur de tradition anglo-saxonne, l'Angleterre respecte ses traditions et pratique la politique avec calme. Les révolutionnaires français, eux, détruisent toutes les traditions et se livrent à tous les excès. La rupture, explique le stratège Mahan, survient quand la République annexe les Pays-Bas autrichiens, s'emparent d'Anvers et réouvrent l'Escaut. La France révolutionnaire a touché aux intérêts de l'Angleterre aux Pays-Bas.

Le blocus continental, décrété plus tard par Napoléon, ne ruine pas le commerce anglais. Car en 1795, la France avait abandonné toute tentative de contrôler les océans. Dans son ouvrage, Mahan analyse minutieusement la politique de Pitt, premier impulseur génial des pratiques et stratégies de la thalassocratie britannique.

(Robert Steuckers).

- Bibliographie: The Gulf and Inland Waters, 1885; The Influence of Sea Power upon History, 1660-1783, 1890; The Influence of Sea Power upon French Revolution and Empire, 1783-1812,  1892; «Blockade in Relation to Naval Strategy», in U.S. Naval Inst. Proc., XXI, novembre 1895, pp. 851-866; The Life of Nelson. The Embodiment of the Sea Power of Great-Britain, 1897; The Life of Admiral Farragut, 1892; The Interest of America in Sea Power, present and future, 1897; «Current Fallacies upon Naval Subjects», in Harper's New Monthly Magazine, XCVII, juin 1898, pp. 44-45; Lessons of the War with Spain and Other Articles, 1899; The Problem of Asia and its Effect upon International Politics, 1900; The Story of War in South Africa, 1900; Types of Naval Officers, 1901; «The Growth of our National Feeling», in World's Work,  février 1902, III, pp. 1763-1764; «Considerations Governing the Disposition of Navies», in The National Review,  XXXIX, juillet 1902, pp. 701, 709-711; Sea Power and its Relations to the War of 1812, 1905; Some Neglected Aspects of War, 1907; From Sail to Steam: Recollections of Naval Life, 1907; The Harvest Within, 1907 (expression des sentiments religieux de Mahan); The Interest of America to International Conditions, 1910; Naval Strategy, compared and contrasted with the Principles of Military Operations on Land,  1911; The Major Operations of the Navies in the War of American Independance,  1913; «The Panama Canal and Distribution of the Fleet», in North American Review,  CC, sept. 1914, pp. 407 suiv.

- Traductions françaises: L'influence de la puissance maritime dans l'histoire, 1660-1783,  Paris, Société française d'Edition d'Art, 1900; La guerre hispano-américaine, 1898. La guerre sur mer et ses leçons,  Paris, Berger-Levrault, 1900; Stratégie Navale,  Paris, Fournier, 1923; Le salut de la race blanche et l'empire des mers, Paris, Flammarion, 1905 (traduction par J. Izoulet de The Interest of America in Sea Power).

- Correspondance: la plupart des lettres de Mahan sont restées propriété de sa famille; cf. «Letters of Alfred Thayer Mahan to Samuel A'Court Ashe (1858-59)» in Duke Univ. Lib. Bulletin, n°4, juillet 1931.

- Sur Mahan:  U.S. Naval Institute Proc., Janvier-février 1915; Army and Navy Journal,  5 décembre 1914; New York Times, 2 décembre 1914; Allan Westcott, Mahan on Naval Warfare, 1918 (anthologie de textes avec introduction et notes); C.C. Taylor, The Life of Admiral Mahan, 1920 (avec liste complète des articles rédigés par Mahan); C.S. Alden & Ralph Earle, Makers of Naval Tradition, 1925, pp. 228-246; G.K. Kirkham, The Books and Articles of Rear Admiral A. T. Mahan, U.S.N., 1929; Allan Westcott, «Alfred Thayer Mahan», in Dictionary of American Biography,  Dumas Malone (ed.), vol. XII, Humphrey Milford/OUP, London, 1933; Captain W.D. Puleston, The Life and Work of Captain Alfred Thayer Mahan,  New Haven, 1939; H. Rosinski, «Mahan and the Present War», Brassey's Naval Annual,  1941, pp. 9-11; Margaret Tuttle Sprout, «Mahan: Evangelist of Sea Power», in Edward Mead Earle, Makers of Modern Strategy. Military Thought from Machiavelli to Hitler,  Princeton, 1944 (éd. franç.: E. M. Earle, Les maîtres de la stratégie,  Paris, Berger-Levrault, 1980, Flammarion, 1987); W. Livezey, Mahan on Sea Power,  1947; Pierre Naville, Mahan et la maîtrise des mers,  Paris, Berger-Levrault, 1981 (avec textes choisis de Mahan).

- Autres références: H. Hallman, Der Weg zum deutschen Schlachtflottenbau,  Stuttgart, 1933, p. 128; Martin Wight, Power Politics,  Royal Institute of International Affairs, 1978; Hellmut Diwald, Der Kampf um die Weltmeere,  Droemer/Knaur, Munich, 1980; Hervé Coutau-Bégarie, La puissance maritime. Castex et la stratégie navale,  Paris, Fayard, 1985.   

dimanche, 25 avril 2010

Akute Kriegsgefahr im Libanon?

LIBAN-30-07-08.jpgAkute Kriegsgefahr im Libanon?

Niki Vogt

 

Ex: http://info.kopp-verlag.de/

Der US-Kongressabgeordnete Adam Schiff war am Mittwoch, den 14. April, Gastgeber einer kleinen, aber feinen Runde. Einer der Gäste im Kreis des Ausschusses der »Freunde Jordaniens im Kongress« im »US-House of Representatives«, war niemand Geringerer als König Abdullah II. von Jordanien. Seine Ansprache dort war nach Auskunft eines der Anwesenden »höchst ernüchternd«.

König Abdullah zeigt sich äußerst besorgt, dass ein bewaffneter Konflikt zwischen Israel und der Hisbollah im Libanon bevorstehe. Der König benutzte das englische Wort »imminent«, was »unmittelbar bevorstehend« bedeutet.

Die Hisbollah hat seit der Wahl im letzten November Sitz und Stimme im libanesischen Parlament. Sie unterhält seitdem offizielle Kontakte und Beziehungen zu Regierungen anderer Staaten wie beispielsweise Frankreich. Ein Krieg zwischen dem Libanon und Israel würde alle Bemühungen um Normalisierung und Einrichtung von diplomatischen Beziehungen wie zwischen USA und dem direkt daneben liegenden Syrien zunichte machen.

Die Kriegsgerüchte sind nicht neu. Schon am 4. Februar veröffentlichte der Christian Science Monitor unter der Überschrift »Was steckt hinter den erneuten Kriegsängsten in Israel und Libanon?« die säbelrasselnden Kriegstreibersprüche des israelischen Außenministers Liebermann gegen den Libanon – und Syrien. Öffentlich drohte Liebermann dem syrischen Präsidenten Bashar Assad, dass dieser in einem Krieg mit Israel nicht nur der Verlierer sein werde, sondern mit ihm auch seine ganze Familie entmachtet werde.

Grund für die Wut der Israelis ist das offensichtliche Erstarken der Hisbollah, ihr unaufhaltsamer militärischer Aufbau und die Tatsache, dass sich die ehemaligen Underdogs mit dem Terroristen-Image nun als ernstzunehmende politische Gegenspieler auf dem Parkett der Weltpolitik zu etablieren beginnen.

Die Bedrohungslage fühle sich im Libanon genauso an, wie in den Monaten vor der Israelischen Invasion 1982. Jeder wusste, dass sie kommen würde, sagte Ghazi Aridi, der Verkehrsminister des Libanon. Das Land hat sich seitdem stabilisiert, hat eine Periode relativer Stabilität genossen und erstmals 1,9 Millionen Touristen in der schönen Landschaft am Mittelmeer willkommen geheißen. Langsam verblassen die Bilder der zerschossenen Altstadt Beiruts im kollektiven Gedächtnis der Europäer, man hofft auf noch bessere Touristenzahlen in diesem Jahr.

Die Nachrichtenagentur AFP meldete am 15. April, die US-Regierung habe zufällig ebenfalls am Mittwoch, als der jordanische König zu Gast war, eine Warnmeldung herausgegeben, es seien möglicherweise Scud-Raketen an libanesische Hisbollah-Milizen verkauft worden. Dies stelle ein »erhebliches Risiko« für den Libanon dar. Man werde diesem Verdacht nachgehen, hieß es.

Die kuwaitische Zeitung Al-Rai Al-Alam hatte vor ein paar Wochen Informationen erhalten, die behaupteten, die Israelis hätten Scud-D-Raketen an der syrisch-libanesischen Grenze gesichtet und wurden nur durch die Amerikaner davon abgehalten, dort alles in Grund und Boden zu bombardieren.

Israels Präsident Shimon Peres hatte am vergangenen Dienstag Syrien vorgeworfen, es versorge die Hisbollah mit Scud-Raketen. Ein nicht genannter höherer US-Regierungsbeamter sagte gegenüber AFP, es sei ganz im Gegenteil überhaupt nicht klar, ob eine solche Lieferung bisher stattgefunden habe.

Währenddessen verbreitete Präsident Peres über die Sender: »Syrien gibt vor, den Frieden zu wollen, liefert aber gleichzeitig Scud-Raketen an die Hisbollah, deren einziges Ziel die Bedrohung Israels ist.« – Sprach’s und flog direkt darauf nach Frankreich, um mit Präsident Sarkozy dieses Thema zu erörtern. Eine probate Strategie.

Warum also das alles?

Eine Erklärung könnte sein, dass die Obama-Regierung mühevoll und vorsichtig Beziehungen zu Syrien aufgebaut hatte, um das Land als Vermittler in die festgefahrene Pattsituation der Friedensgespräche im Nahen Osten einzubeziehen. Es sollten in den nächsten Tagen Diplomaten ausgetauscht werden. Obama hatte bereits Robert Ford als ersten Botschafter für Damaskus ernannt.

Das musste nun erst einmal vertagt werden.

Ein herber Rückschlag für Obama, der seiner von Israel ausgebremsten Vorzeige-Friedensinitiative im Nahen Osten neuen Schub verleihen wollte.

Shlomo Brom, der ehemalige Leiter des Planungsstabes der israelischen Armee, formulierte es vor zwei Woche deutlicher: »Das strategische Planziel im nächsten Krieg ist es, zu verstehen, dass man das Problem nicht in einem Schritt lösen kann. Der einzige Weg, es zu lösen, ist, den Libanon zu besetzen und Hisbollah rauszukicken. Das ist nicht einfach, und Israel will den Preis dafür nicht bezahlen.«

»Beim nächsten Mal wird vielleicht die UN uns bitten, aus Nordisrael wieder abzuziehen – anstelle Israel, den Südlibanon wieder zu räumen«, meinte Abu Khalil, ein 22-jähriger Hisbollah-Kämpfer.

»Ich glaube nicht, dass Israel jetzt einen Krieg brauchen kann, und der Hisbollah juckt auch nicht das Fell vor lauter Übermut«, meint Timur Goksel, ein ehemaliger UNIFIL-Funktionär. »Natürlich kann Israel den Libanon aufmischen, aber das wird Israel teuer zu stehen kommen. Die Hisbollah wird aus jeder Ecke feuern, und es wird viel mehr Tote auf israelischer Seite geben als 2006.«

Die Lunte am Pulverfass Nahost glimmt.

 

__________

Quellen:

http://www.thewashingtonnote.com/archives/2010/04/jordans_king_sa/

http://www.politico.com/blogs/laurarozen/0410/The_Scud_through_his_Syria_nomination.html?showall

http://thecable.foreignpolicy.com/posts/2010/04/09/congress_wants_to_know_is_syria_rearming_hezbollah

http://www.google.com/hostednews/afp/article/ALeqM5gNU1tGuyPXPQO9mnAHavQp-eZ0UQ

http://www.csmonitor.com/World/Middle-East/2010/0204/What-s-behind-renewed-war-jitters-in-Israel-Lebanon/(page)/2

 

Mittwoch, 21.04.2010

Kategorie: Politik, Terrorismus, Allgemeines

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mercredi, 31 mars 2010

Die geopolitische Bedeutung der Ukraine heute

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Die geopolitische Bedeutung der Ukraine heute

F. William Engdahl

Ex: http://info.kopp-verlag.de/

Am 14. Februar 2010 hatte die Wahlkommission der Ukraine Viktor Janukowytsch in der heiß umkämpften Stichwahl für das Amt des Staatspräsidenten zum Sieger erklärt. Seine unterlegene Gegnerin ist Julija Tymoschenko, die ehemalige Premierministerin und Galionsfigur der Orangenen Revolution. So sehr sich Washington jetzt auch bemüht, den Ereignissen etwas Positives abzugewinnen, sie bedeuten definitiv das Ende der einst umjubelten »Orangenen Revolution«. – Nun fragt sich, was dieses Scheitern der Orangenen Revolution in der Ukraine zum jetzigen Zeitpunkt für die Zukunft des Eurasischen Herzlandes – so bezeichnete der britische Geopolitiker Halford Mackinder einst diese Region – bedeutet. Noch wichtiger ist die Frage, was es für das Pentagon bedeutet, das seit 20 Jahren unentwegt versucht, gemäß dem gefährlichen und überehrgeizigen Plan der sogenanntenFull Spectrum Dominance Russland als Militärmacht zu schwächen, letztendlich sogar auszuschalten.

Um die langfristige Bedeutung der Wahl in der Ukraine für die globale geopolitische Balance zu verstehen, sollten wir die Orangene Revolution von 2004 noch einmal Revue passieren lassen. Damals war Viktor Juschtschenko der handverlesene Kandidat Washingtons, insbesondere der Neokonservativen im Umfeld der Bush-Regierung, die bemüht waren, die historischen und wirtschaftlichen Verbindungen der Ukraine zu Russland zu kappen und das Land gemeinsam mit dem Nachbarland Georgien in die NATO aufzunehmen.

 

Die wirtschaftliche und politische Geografie der Ukraine

Ein Blick auf die Landkarte zeigt die strategische Wichtigkeit der Ukraine, und zwar sowohl für die NATO als auch für Russland. Im Osten grenzt das Land direkt an Russland, außerdem verlaufen russische Gaspipelines nach Westeuropa über ukrainisches Gebiet. Über diese Pipelines werden rund 80 Prozent des exportierten russischen Gases transportiert, die Russland lebenswichtige Einnahmen – in Dollar – bringen.

Um eine wirksame Verteidigung gegen die wachsende Einkreisung des russischen Territoriums durch die NATO aufrechterhalten zu können, ist Russland ebenso dringend auf die Nutzungsrechte für den ukrainischen Schwarzmeerhafen Sevastopol angewiesen, den Heimathafen der russischen Schwarzmeerflotte. Gemäß einem russisch-ukrainischen Abkommen nutzt die Flotte außerdem noch den Hafen Odessa. Dieser wichtige bilaterale Vertrag über die Nutzungsrechte der Schwarzmeerflotte läuft, sofern er nicht verlängert wird, 2017 aus. Nach dem russisch-georgischen Konflikt im August 2008 hatte der ukrainische Präsident Juschtschenko laut über eine vorzeitige Beendigung des Vertrages nachgedacht, was Moskau seiner strategisch wichtigsten Marinebasis beraubt hätte. Die russische Marine nutzt Sevastopol, seit Russland 1783 die gesamte Region annektiert hat.

In der an Russland grenzenden Ost-Ukraine leben über 15 Millionen Russen, dieses Gebiet ist dank seiner äußerst fruchtbaren Böden noch immer buchstäblich der Brotkorb für Osteuropa. 2009 war die Ukraine nach den USA und der EU noch vor Russland und Kanada der drittgrößte Getreideexporteur der Welt. (1) Die berühmte schwarze Erde der Ukraine, Chernozem, gilt als fruchtbarster Boden der Welt, man findet sie auf zwei Dritteln der Fläche des Landes. (2) Die Region in der Umgebung der Flüsse Dnjepr und Dnjestr ist das einzige Gebiet auf der Welt, in dem die sogenannte »süße« schwarze Erde eine Breite von 500 Kilometern erreicht. Der Boden gehört zu den größten Reichtümern des Landes, weil er sehr gute Ernten garantiert. Westliche Agrobusiness-Unternehmen wie Monsanto, Cargill, AMD und Kraft Foods lecken sich angeblich angesichts der Aussichten auf ein Ende der internen politischen Pattsituation in der Ukraine in der Hoffnung auf satte Gewinne aus dieser Region bereits die Finger. (3)

Das Gebiet Donetzk im östlichen Donezbecken oder Donbass ist die politische Basis des neu gewählten Präsidenten Janukowytsch. Es ist die bevölkerungsreichste Region der Ukraine und das Zentrum der Kohle-, Stahl- und Metallindustrie, ferner gibt es Wissenschaftszentren und Universitäten. Die Kohle-, Gas- und Ölvorkommen im ukrainischen Donbass-Becken werden auf 109 Milliarden Tonnen geschätzt.

Insgesamt zählt die Ukraine zu den Gebieten mit den reichsten Rohstoffvorkommen in ganz Europa. Die großen Granit-, Graphit- und Salzvorkommen bilden eine reiche Quelle für die Metall-, Porzellan- und chemische Industrie, die Keramikwaren und Baumaterialien herstellen. (4)

Kurz: die Eroberung der Ukraine im Jahr 2004 bedeutete für Washington einen Gewinn von höchster strategischer Bedeutung auf dem Weg zur »Full Spectrum Dominance« – so die Bezeichnung des Pentagon für die Kontrolle über den gesamten Planeten: Boden, Luftraum, Ozeane und Weltraum. Schon 1919 schrieb der britische Vater der Geopolitik in seinem einflussreichen Buch Democratic Ideals and Reality (zu Deutsch: Demokratische Ideale und Wirklichkeit):

Wer Osteuropa regiert, der beherrscht das Herzland – Wer das Herzland regiert, der beherrscht die Weltinsel – Wer die Weltinsel regiert, der beherrscht die ganze Welt. (5)

Mackinder rechnete die Ukraine und Russland zum Herzland. Als Washington mit dem de facto von den USA organisierten Putsch namens Orangene Revolution die Ukraine von Russland absprengte, kam man damit dem Ziel der vollständigen Beherrschung nicht nur Russlands und des Herzlands, sondern ganz Eurasiens, einschließlich eines dadurch eingekreisten China, einen gewaltigen Schritt näher. Kein Wunder, dass die Regierung Bush-Cheney so viel Energie darauf verwendete, ihren Mann, Juschtschenko, als Präsident und De-facto-Diktator an die Macht zu bringen. Er sollte die Ukraine in die NATO führen. Was er für seine Landsleute tat, das bekümmerte die Planer von Bushs Politik herzlich wenig.

Hätte der ebenfalls handverlesene Präsident von Georgien, der per Rosen-Revolution ins Amt gekommene Michail Saakaschwili, im August 2008, also wenige Wochen vor der Abstimmung der NATO-Minister über eine Mitgliedschaft Georgiens und der Ukraine, nicht Truppen losgeschickt, um die abtrünnigen Regionen Süd-Ossetien und Abchasien Georgien wieder einzukassieren, dann hätte Juschtschenko mit den entsprechenden Plänen vielleicht sogar Erfolg gehabt. Nach der schnellen militärischen Antwort Russlands, durch die der georgische Vorstoß gestoppt und Saakaschwilis zusammengewürfelten Truppen eine vernichtende Niederlage beigebracht wurde, bestand auch keine Aussicht mehr, dass Deutschland oder andere Mitgliedsländer einer NATO-Mitgliedschaft zustimmen und sich damit dazu verpflichten würden, Georgien oder der Ukraine in einem Krieg gegen Russland beizustehen. (6)

 

Die Bedeutung der Orangenen Revolution

Die »Revolution«, die Viktor Juschtschenko auf einer Welle von amerikanischen Dollars und mit Unterstützung amerikafreundlicher »Nicht-Regierungs-Organisationen« (NGOs) ins Amt gebracht hat, war ursprünglich bei der von Washington finanzierten RAND Corporation ausgeheckt worden. RAND hat die Bewegungsmuster von Bienenschwärmen und ähnliche Phänomene studiert und die Ergebnisse auf moderne mobile Kommunikation, Textübertragung und zivile Proteste als Taktik für Regimewechsel und verdeckte Kriegsführung angewendet. (7)

Die Transformation der Ukraine von einer früheren unabhängigen Sowjetrepublik zu einem pro-amerikanischen Satellitenstaat gelang im Jahr 2004 mithilfe der sogenannten »Orangenen Revolution«. Die Aufsicht führte damals John Herbst, der im Mai 2003 zum amerikanischen Botschafter in der Ukraine ernannt worden war, nur wenige Monate vor Beginn der Unruhen. Beschönigend beschrieb das US State Department die Aktivitäten des Botschafters:

»Während seiner Amtszeit war er bemüht, die amerikanisch-ukrainischen Beziehungen zu verbessern und zum fairen Ablauf der Präsidentschaftswahl in der Ukraine beizutragen. In Kiew war er Zeuge der Orangenen Revolution. Botschafter John Herbst hatte zuvor als US-Botschafter in Usbekistan eine entscheidende Rolle dabei gespielt, einen amerikanischen Stützpunkt aufzubauen, mit dessen Hilfe die Operation Enduring Freedom in Afghanistan durchgeführt werden konnte.« (8)

Washington entschied sich dann für Viktor Juschtschenko als den richtigen Mann für den inszentierten Regimewechsel. Der damals 50-Jährige war zuvor Gouverneur der Zentralbank der Ukraine gewesen und hatte in dieser Position in den 1990er-Jahren im Rahmen der brutalen »Schocktherapie« des IWF die Deindustrialisierung des Landes betrieben. Juschtschenkos IWF-Programm hatte für seine Landsleute verheerende Folgen. Die Ukraine wurde 1994 gezwungen, die Devisenkontrollen aufzuheben und die Währung abstürzen zu lassen. Als Zentralbankchef führte Juschtschenko die Aufsicht über die geforderten Abwertungsmaßnahmen, die innerhalb weniger Tage zu einem Anstieg der Preise für Brot um 300 Prozent, für Strom um 600 Prozent und beim öffentlichen Transport um 900 Prozent führte. Bis 1998 waren die Reallöhne in der Ukraine im Vergleich zu 1991, als die Ukraine ihre Unabhängigkeit erklärte, um 75 Prozent gesunken. Ohne Zweifel war Juschtschenko der richtige Mann, um Washingtons Pläne in der Ukraine umzusetzen. (9)

Juschtschenkos in Chicago geborene Frau Kateryna, eine amerikanische Staatsbürgerin, hatte während der Regierungszeit von Reagan und H.W. Bush für die US-Regierung und das State Department gearbeitet. Sie war als Vertreterin der US-Ukraine Foundation in die Ukraine gekommen. Im Vorstand dieser Stiftung saß Grover Norquist, der zu den einflussreichsten Republikanern in Washington zählte. Norquist wurde damals allgemein »Geschäftsführer des rechten harten Kerns« genannt, er war der entscheidende Mann, der rechtsgerichtete Organisationen für die Unterstützung der Präsidentschaft George W. Bush gewann. (10)

Kernpunkt von Juschtschenkos geschickter Präsidentschaftskampagne war sein Eintreten für den Beitritt der Ukraine zur NATO und zur Europäischen Union. Bei seiner Kampagne kamen massenweise orangefarbene Fahnen, Banner, Poster, Ballons und andere Requisiten zum Einsatz, was unweigerlich zur Folge hatte, dass die Medien fortan von einer »Orangenen Revolution« sprachen. Washington finanzierte »demokratische« Jugendgruppen, die eine wichtige Rolle bei der Organisation gewaltiger Massendemonstrationen spielten. Diese Demonstrationen trugen wesentlich zu Juschtschenkos Erfolg bei der Wiederholung der angefochtenen Wahl bei.

In der Ukraine trat Juschtschenkos Bewegung mit dem Motto »Pora« (»Es ist Zeit«) an. Dabei mischten Leute mit, die aus der »Rosen-Revolution« in Georgien bekannt waren, wie beispielsweise Givi Targamadse, Vorsitzender des georgischen Parlamentsausschusses für Sicherheit und Verteidigung, ein ehemaliges Mitglied des georgischen Liberty Institute oder die Jugendgruppe Kmara. Die ukrainischen Oppositionsführer zogen die Georgier über Techniken der gewaltlosen Auseinandersetzung zu Rate. Die georgischen Rockbands Zumba, Soft Eject und Green Room, die die Rosen-Revolution unterstützt hatten, organisierten 2004 ein Solidaritätskonzert in Kiew zur Unterstützung von Juschtschenkos Kampagne. (11)

Auch die PR-Firma Rock Creek Creative aus Washington spielte eine bedeutende Rolle bei der Orangenen Revolution, sie entwickelte eine Website mit dem orangefarbenen Logo und zum sorgfältig gewählten Farbenthema. (12)

Juschtschenko unterlag 2004 bei der Wahl zunächst gegen Janukoytsch. Verschiedene Elemente trugen zu dem Eindruck bei, die Ergebnisse seien gefälscht, die Öffentlichkeit verlangte daraufhin die Wiederholung der Stichwahl. Mit der Hilfe von Pora und anderen Jugendgruppen sowie speziellen Wahlbeobachtern und in enger Koordination mit wichtigen westlichen Medien wie CNN und BBC wurde die Wahl im Januar 2005 wiederholt. Juschtschenko gewann mit knapper Mehrheit und erklärte sich zum Präsidenten. Dem Vernehmen nach hat das US State Department etwa 20 Millionen Dollar ausgegeben, um in der Ukraine ein Amerika genehmes Wahlergebnis zu gewährleisten. (13)

Dieselben von den USA unterstützten NGOs, die in Georgien aktiv gewesen waren, waren auch für das Ergebnis in der Ukraine verantwortlich: das Open Society Institute von George Soros, Freedom House (dem damals der ehemalige CIA-Direktor James Woolsey vorstand), das National Endowment for Democracy und seine Ableger, das National Republican Institute und das National Democratic Institute. Berichten aus der Ukraine zufolge waren die amerikanischen NGOs gemeinsam mit der konservativen US-Ukraine Foundation im ganzen Land aktiv, sie halfen der Protestbewegung von Pora und Znayu und schulten wichtige Wahlbeobachter. (14)

Präsident Viktor Juschtschenko, Washingtons Mann in Kiew, machte sich sofort daran, die wirtschaftlichen Verbindungen mit Russland zu kappen, unter anderem wurde die Lieferung von russischem Erdgas nach Westeuropa über ukrainische Transit-Pipelines unterbrochen. Mit diesem Schritt versuchte Washington, die EU-Länder, besonders Deutschland, davon zu überzeugen, Russland wäre ein »unzuverlässiger Partner«. Etwa 80 Prozent des russischen Erdgases wurde über Pipelines exportiert, die in der Ära der Sowjetunion gebaut worden waren, als die beiden Länder noch eine politische und wirtschaftliche Einheit bildeten. (15) Juschtschenko arbeitete auch eng Präsident Michail Saakaschwili zusammen, Washingtons Mann im Nachbarland Georgien.

Das Endergebnis der Wahl in der Ukraine Anfang 2010 zeigt, dass die Wähler Juschtschenko, den »Helden« der Orangenen Revolution, mit überwältigender Mehrheit ablehnen: er erhielt kaum fünf Prozent der abgegebenen Stimmen. Nach fünf Jahren des wirtschaftlichen und politischen Chaos wünschen sich die Menschen in der Ukraine offensichtlich zumindest etwas Stabilität. Meinungsumfragen in der Ukraine haben ergeben, dass die Mehrheit den Beitritt zur NATO ablehnt.

In westlichen Medien wird der neue ukrainische Präsident Viktor Janukowytsch als eine Art Marionette Moskaus dargestellt, doch das scheint völlig falsch. Die meisten seiner Unterstützer aus der Industrie wünschen sich harmonische Wirtschaftsbeziehungen mit der Europäischen Union und mit Russland gleichermaßen.

Janukowytsch hat bekannt gegeben, dass ihn seine erste Auslandsreise nicht nach Moskau, sondern zu Gesprächen mit führenden Vertretern der EU nach Brüssel führen wird. Danach wird er sofort nach Moskau fliegen, wo Präsident Medwedew bereits jetzt eine verbesserte Zusammenarbeit signalisiert hat, als er Russlands Botschafter in die Ukraine entsandte, dessen Ernennung nach Monaten politischer Spannungen zwischen Juschtschenko und Moskau zunächst auf Eis gelegt worden war.

Das Wichtigste ist jedoch, dass Janukowytsch entgegen den unablässigen Versuchen seines Vorgängers, die Ukraine auf Drängen Washingtons in die NATO zu bringen, angekündigt hat, er werde sich in Brüssel nicht mit NATO-Vertretern treffen. In Interviews mit ukrainischen Medien erklärte Janukowytsch unmissverständlich, er beabsichtige nicht, die Ukraine in die EU oder – was für Moskau noch wichtiger ist – in die NATO zu führen.

Janukowytsch hat versprochen, seine Aufmerksamkeit stattdessen auf die Wirtschaftskrise und die Korruption in der Ukraine zu konzentrieren. An die Adresse Moskaus gerichtet versichert er, Russland sei in einem Konsortium willkommen, das gemeinsam für die Betreuung des Gaspipeline-Netzes in der Ukraine zuständig sein soll. Damit erhält Moskau den Einfluss zurück, den Juschtschenko und dessen ehrgeizige Premierministerin Julija Tymoschenko unterbinden wollten. Ein anderes wichtiges Signal, das in NATO-Kreisen nicht gerade für Begeisterung sorgt, ist Janukowytschs Ankündigung, er werde den für Russland strategisch wichtigen Nutzungsvertrag für den ukrainischen Schwarzmeerhafen Sevastopol verlängern, der 2017 ausläuft. (16)

 

Russlands neues geopolitisches Kalkül

Es ist offensichtlich, dass sich Janukowytschs erbitterte Gegnerin im Wahlkampf, die Veteranin der Orangenen Revolution und ehemalige Premierministerin Julija Tymoschenko, nachdrücklich dessen Politik widersetzt, weil sie ihre eigenen politischen Ambitionen verfolgt und als schlechte Verliererin bekannt ist. Nachdem sie mit der Anfechtung des Wahlergebnisses vom Februar vor ukrainischen Gerichten gescheitert ist, erklärte sie, sie werde Janukowytsch mit ihrer Parlamentskoalition blockieren. Normalerweise hätte sie als Premierministerin zurücktreten müssen, als Janukowytschs Wahlsieg (mit einer Mehrheit von einer Million Stimmen) bestätigt wurde, was dieser nach seiner Wahl am 10. Februar auch verlangt hat. Sie weigerte sich jedoch. Als Präsidentschaftskandidatin war sie von Bundeskanzlerin Angela Merkel und anderen führenden Politikern in der EU bevorzugt worden. (17)

Der Sieg von Janukowytsch wurde von einigen der mächtigsten Unternehmer-Oligarchen des Landes unterstützt, darunter Rinak Akhmetow, der der reichste Mann der Ukraine und Fußballmilliardär ist. Wie Janukowytsch stammt er aus der Stahlregion im Osten der Ukraine. Auch Dmitry Firtash, ein Gashändler und Milliardär, der gemeinsam mit dem russischen Konzern Gazprom das Gasunternehmen RosUkrEnergo betreibt; Premierministerin Tymoschenko hatte im vergangenen Jahr seine Handelsgeschäfte untersagt.

Das Parlament der Ukraine sprach sich am 3. März bei einem Misstrauensvotum mit 243 von 450 Stimmen mehrheitlich gegen die amtierende Regierung von Premierministerin Tymoschenko aus. Für Tymoschenkos Fraktion der Orangenen Revolution von 2004 bedeutete das den Todesstoß. Jetzt bietet sich die Chance, die seit der Orangenen Revolution von 2004 bestehende politische Pattsituation unter den politischen Fraktionen der Ukraine zu durchbrechen. Janukowytsch ist am Zug. (18)

Bevor sie eine führende Rolle bei der Orangenen Revolution übernahm, war Julija Tymoschenko Anfang der 1990er-Jahre Präsidentin der ukrainischen Firma United Energy Systems gewesen, einem privaten Importeur von russischem Erdgas in die Ukraine. In Moskau warf man ihr vor, sie habe Ende der 1990er-Jahre große Mengen gestohlenen russischen Erdgases weiterverkauft und Steuern hinterzogen. Deswegen verpasste man ihr in der Ukraine den Spitznamen »Gasprinzessin«.

Darüber hinaus wurde ihr vorgeworfen, sie habe ihrem politischen Mentor, dem ehemaligen Premierminister Pavlo Lazarenko, Schmiergelder dafür gezahlt, dass ihre Firma die Gasversorgung des Landes in der Hand behielt. (19) Lazarenko wurde in Kalifornien wegen Erpressung, Geldwäsche, Betrug und Verschwörung zu einer Haftstrafe verurteilt, in der Ukraine wird ihm ein Mord zur Last gelegt. (20)

Wenn man davon ausgeht, dass Janukowytsch jetzt in der Lage ist, das Land nach der Niederlage der Regierung Tymoschenko wie angekündigt zu stabilisieren, dann bedeutet das für Moskau eine deutliche Verschiebung der tektonischen Platten des Eurasischen Herzlands, selbst bei einer strikt neutralen Ukraine.

Zunächst ist die strategische militärische Einkreisung Russlands – über die versuchte Rekrutierung Georgiens und der Ukraine in die NATO – eindeutig blockiert und damit vom Tisch. Der russische Zugang zum Schwarzen Meer über die ukrainische Krim scheint ebenfalls gesichert.

Tatsächlich bedeutet die Neutralisierung der Ukraine einen gewaltigen Rückschlag für Washingtons Strategie der völligen Einkreisung Russlands. Der Bogen von aktuellen oder künftigen NATO-Mitgliedsländern an der Peripherie Russlands und dem noch immer engen Verbündeten Belarus – von Polen bis zur Ukraine und nach Georgien – ist durchbrochen. Der weißrussische Präsident Alexander Lukaschenko hat einer Rosen-Revolution à la Ukraine erfolgreich widerstanden, indem er der Finanzierung von Lukaschenko-feindlichen NGOs durch das State Department einen Riegel vorgeschoben hat. Belarus verfolgt noch immer weitgehend eine zentrale Planwirtschaft, sehr zum Missfallen der freimarktwirtschaftlich orientierten westlichen Regierungen, ganz besonders der in Washington. Weißrussland unterhält enge wirtschaftliche Verbindungen zu Russland, die Hälfte des Außenhandels wird mit Russland abgewickelt, ein Beitritt zur NATO oder zur EU ist nicht geplant. (21)

Diese veränderte geopolitische Konfiguration in Zentraleuropa nach der Niederlage der Orangenen Revolution bedeutet einen großen Schub für Russlands langfristige Energie-strategie – eine Strategie, die man auch als »Russlands Nord-Süd-Ost-West-Strategie« bezeichnen könnte.

 

__________

(1) Press Trust of India, 2009: »Ukraine Becomes World’s Third Largest Grain Exporte«, unter http://blog.kievukraine.info/2009_12_01_archive.html.

(2) Stepan P. Poznyak, »Ukrainian Chornozem: Past, Present, Future«, Beitrag zum 18. World Congress of Soil Science, 9.–15. Juli 2006, unter http://www.ldd.go.th/18wcss/techprogram/P12419.HTM.

(3) Amerikanische Handelskammer in der Ukraine, Chamber Members, unter http://www.chamber.ua/.

(4) KosivArt, »Ukraine Natural Resources«, unter http://www.kosivart.com/eng/index.cfm/do/ukraine.natural-resources.

(5) Halford J. Mackinder, Democratic Ideals and Reality, 1919, Nachdruck 1942, Henry Holz and Company, S. 150.

(6) F. William Engdahl, »Entry into NATO Put Off Indefinitely«, unter http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=11277. Deutsche Version »NATO-Beitritt Georgiens und der Ukraine auf unbestimmte Zeit vom Tisch«, 4. Dezember 2008, unter: http://info.kopp-verlag.de/redakteure/f-william-engdahl/browse/12.html.

(7) John Arquilla, David Ronfeldt, Swarming and the Future of Conflict, Santa Monica, RAND, 2000.

(8) US Department of State, John E. Herbst Biography, unter http://state.gov/r/pa/ei/biog/67065.htm.

(9) Michel Chossudovsky, »IMF Sponsored ›Democracy‹ in the Ukraine«, 28. November 2004, unter http://www.globalresearch.ca/articles/CH0411D.htm.

(10) Kateryna Yushchenko, Biographie, auf My Ukraine: Persönliche Website von Viktor Juschtschenko, 31. März 2005, unter http://www.yuschenko.com.ua/eng/Private/Family/2822/

(11) Wikipedia, Orange Revolution, unter http://en.wikipedia.org/wiki/Orange_Revolution, deutsch unter http://de.wikipedia.org/wiki/Pr%C3%A4sidentschaftswahlen_in_der_Ukraine_2004 

(12) Andrew Osborn, »We Treated Poisoned Yushchenko, Admit Americans«, The Independent, Großbritannien, 12. März 2005, unter http://www.truthout.org/article/us-played-big-role-ukraines-orange-revolution.

(13) Dmitry Sudakov, »USA Assigns $20 million for Elections in Ukraine, Moldova«, Pravda.ru, 11. März 2005.

(14) Nicolas, »Forces Behind the Orange Revolution«, Kiev Ukraine News Blog, 10. Januar 2005, unter http://blog.kievukraine.info/2005/01/forces-behind-orange-revolution.html.

(15) Jim Nichol u.a., »Russia’s Cutoff of Natural Gas to Ukraine: Context and Implications«, US Congressional Research Service Report for Congress, Washington, D.C., 15. Februar 2006.

(16) Yuras Karmanau, »Half-empty chamber greets Ukraine’s new president«, Associated Press, 25. Februar 2010, unter http://news.yahoo.com/s/ap/20100225/ap_on_re_eu/eu_ukraine_president.

(17) Inform: Bloc of Yulia Tymoshenko Release #134, »EPP Throws Weight Behind Tymoshenko«, 16. Dezember 2009, unter http://www.ibyut.com/index_files/792.html.

(18) Stefan Wagstyl und Roman Oleachyk, »Ukraine Election Divides Oligarchs«, London, Financial Times, 15. Januar 2010.

(19) TraCCC, Pavlo Lazarenko: »Is the Former Ukrainian Prime Minister a Political Refugee or a Financial Criminal?«, Organized Crime and Corruption Watch, Bd. 2, Nr. 2, Sommer 2000, Washington, D.C., American University Transnational Crime and Corruption Center.

(20) Ian Traynor, »Ukrainian Leader Appoints Billionaire as his PM«, The Guardian, 24. Januar 2005.

(21) Botschaft der Vereinigten Staaten in Minsk, US Government Assistance FY 97 Annual Report, United States Embassy in Minsk, Weißrussland, 1998, unter: http://belarus.usembassy.gov/assistance1997.html.

 

Donnerstag, 25.03.2010

Kategorie: Allgemeines, Geostrategie, Enthüllungen, Wirtschaft & Finanzen, Politik

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mardi, 30 mars 2010

Rusia, clave de boveda del sistema multipolar

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RUSIA, CLAVE DE BÓVEDA DEL SISTEMA MULTIPOLAR

 de Tiberio Graziani *

 

El nuevo sistema multipolar está en fase de consolidación. Los principales actores son los EE.UU., China, India y Rusia. Mientras la Unión Europea está completamente ausente y nivelada en el marco de las indicaciones-diktat procedentes de Washington y Londres, algunos países de la América meridional, en particular Venezuela, Brasil, Bolivia, Argentina y Uruguay manifiestan su firme voluntad de participación activa en la construcción del nuevo orden mundial. Rusia, por su posición central en la masa eurasiática, por su vasta extensión y por la actual orientación imprimida a la política exterior por el tándem Putin-Medvedev, será, muy probablemente, la clave de bóveda de la nueva estructura planetaria. Pero, para cumplir con tal función epocal, tendrá que superar algunos problemas internos: entre los primeros, los referentes a la cuestión demográfica y la modernización del país, mientras, en el plano internacional, tendrá que consolidar las relaciones con China e India, instaurar lo más pronto posible un acuerdo estratégico con Turquía y Japón y, sobre todo, tendrá que aclarar su posición en Oriente Medio y en Oriente Próximo.

 

               Consideraciones sobre el escenario actual

 

Con el fin de presentar un rápido examen del actual escenario mundial y para comprender mejor las dinámicas en marcha que lo configuran, proponemos una clasificación de los actores en juego, considerándolos ya sea por la función que desempeñan en su propio espacio geopolítico o esfera de influencia, ya sea como entidades susceptibles de profundas evoluciones  en base a variables específicas.

El presente marco internacional nos muestra al menos tres clases principales de actores. Los actores hegemónicos, los actores emergentes y, finalmente, el grupo de los seguidores y de los subordinados. Por razones analíticas, hay que añadir a estas tres categorías una cuarta, constituida por las naciones que, excluidas, por diversos motivos, del juego de la política mundial, están buscando su función.

 

                        Los actores hegemónicos

 

Al primer grupo pertenecen los países que, por su particular postura geopolítica, que los identifica como áreas pivote, o por la proyección de su fuerza militar o económica, determinan las elecciones y las relaciones internacionales de las restantes naciones. Además, los actores hegemónicos influyen directamente también sobre algunas organizaciones globales, entre las cuales se encuentran el Fondo Monetario Internacional (FMI), el Banco Mundial (BM), y la Organización de las Naciones Unidas (ONU). Entre las naciones que presentan tales características, aunque con matices diversos, podemos contar a los Estados Unidos, China, India y Rusia.

La función geopolítica que actualmente ejercen los EE.UU. es la de constituir el centro físico y el mando del sistema occidental nacido al final de la Segunda Guerra Mundial. La característica principal de la nación norteamericana, con respecto al resto del planeta, está representada por su expansionismo, llevado a cabo con una particular agresividad y mediante la extensión de dispositivos militares a escala global. El carácter imperialista debido a su específica condición de potencia marítima le impone comportamientos colonialistas hacia amplias porciones de lo que considera impropiamente su espacio geopolítico (1). Las variables que podrían determinar un cambio de función de los EE.UU. son esencialmente tres: a) la crisis estructural de la economía neoliberal; b) la elefantiasis imperialista; c) las potenciales tensiones con Japón, Europa y algunos países de la América centro-meridional.

China, India y Rusia, en cuanto naciones-continente de vocación terrestre, ambicionan desempeñar sus respectivas funciones macro-regionales en el ámbito eurasiático sobre la base de una común orientación, por otra parte, en fase de avanzada estructuración. Tales funciones, sin embargo, están condicionadas por algunas variables entre las cuales destacamos:

 

a) las políticas de modernización;

b) las tensiones debidas a las deshomogeneidades sociales, culturales y étnicas dentro de sus propios espacios;

c) la cuestión demográfica que impone adecuadas y diversificadas soluciones para los tres países.

 

Por cuanto respecta a la variable referente a las políticas de modernización, observamos que, al estar estas demasiado interrelacionadas en los aspectos económico-financieros con el sistema occidental, de modo particular con los Estados Unidos, a menudo quitan a las naciones eurasiáticas la iniciativa en la arena internacional, las exponen a las presiones del sistema internacional, constituido principalmente por la triada ONU, FMI y BM (2) y, sobre todo, les imponen el principio de la interdependencia económica, histórico eje de la expansión económica de los EE.UU. En relación a la segunda variable, observamos que la escasa atención que Moscú, Pekín y Nueva Delhi prestan a la contención o solución de las respectivas tensiones endógenas ofrece a su antagonista principal, los Estados Unidos, la ocasión de debilitar el prestigio de los gobiernos y obstaculizar la estructuración del espacio eurasiático. Finalmente, considerando la tercera variable, apreciamos que políticas demográficas no coordinadas entre las tres potencias eurasiáticas, en particular entre Rusia y China, podrían a la larga crear choques para la realización de un sistema continental equilibrado.

Las relaciones entre los miembros de esta clase deciden las reglas principales de la política mundial.

En consideración de la presencia de hasta 4 naciones-continente (tres naciones eurasiáticas y una norteamericana) es posible definir el actual sistema geopolítico como multipolar.

 

                        Los actores emergentes

 

La categoría de los actores emergentes reagrupa, en cambio, a las naciones que, valorando particulares bazas geopolíticas o geoestratégicas, tratan de desmarcarse de las decisiones que les imponen uno o más miembros del restringido club del primer tipo. Mientras la finalidad inmediata de los emergentes consiste en la búsqueda de una autonomía regional y, por tanto, en la salida de la esfera de influencia de la potencia hegemónica, que ha de llevarse a cabo mediante articulados acuerdos y alianzas regionales, transregionales y extracontinentales, la finalidad estratégica está constituida por la participación activa en el juego de las decisiones regionales e incluso mundiales. Entre los países que asumen cada vez más la connotación de actores emergentes, podemos enumerar a Venezuela, Brasil, Bolivia, Argentina y Uruguay, la Turquía de Recep Tayyip Erdoğan, el Japón de Yukio Hatoyama y, aunque con alguna limitación, Pakistán. Todos estos países pertenecen, de hecho, al sistema geopolítico llamado “occidental”, guiado por Washington. El hecho de que muchas naciones de lo que, en el periodo bipolar, se consideraba un sistema cohesionado puedan ser hoy señaladas como emergentes y, por tanto, entidades susceptibles de contribuir a la constitución de nuevos polos de agregación geopolítica induce a pensar que el edificio puesto a punto por los EE.UU. y por Gran Bretaña, tal y como lo conocemos, está, de hecho, en vías de extinción o en una fase de profunda evolución. La creciente “militarización” que la nación guía impone a las relaciones bilaterales con estos países parece sustanciar la segunda hipótesis. La común visión continental de los emergentes sudamericanos  y la realización de importantes acuerdos económicos, comerciales y militares constituyen los elementos base para configurar el espacio sudamericano como futuro polo del nuevo orden mundial (3).

Los actores emergentes aumentan sus grados de libertad en virtud de las alianzas y de las fricciones entre los miembros del club de los hegemónicos así como de la conciencia geopolítica de sus clases dirigentes.

El número de los actores emergentes y su colocación en los dos hemisferios septentrionales (Turquía y Japón) y meridional (países latinoamericanos) además de acelerar la consolidación del nuevo sistema multipolar, trazan sus dos ejes principales: Eurasia y América indiolatina.

 

                        Los seguidores-subordinados y los subordinados

 

La designación de actores seguidores y subordinados, aquí propuesta, pretende subrayar las potencialidades geopolíticas de los pertenecientes a esta clase con respecto a su transición a las otras. Hay que calificar como seguidores-subordinados a los actores que consideran útil, por afinidad, intereses varios o por condiciones históricas particulares,  formar parte de la esfera de influencia  de una de las naciones hegemónicas. Los seguidores-subordinados reconocen al país hegemónico la función de nación-guía. Entre estos podemos mencionar, por ejemplo, la República Sudafricana, Arabia Saudí, Jordania, Egipto, Corea del Sur. Los subordinados de este tipo, dado que siguen a los EE.UU. como nación guía, a menos que surjan convulsiones provocadas o gestionadas por otros, compartirán su destino geopolítico. La relación que mantienen estos actores y el país hegemónico es de tipo, mutatis mutandis, vasallático.

En cambio, se pueden considerar completamente subordinados los actores que, exteriores al espacio geopolítico natural del país hegemónico, padecen su dominio. La clase de los países subordinados está marcada por la ausencia de una conciencia geopolítica autónoma o, mejor todavía, por la incapacidad de sus clases dirigentes de valorar los elementos mínimos y suficientes para proponer y, por tanto, elaborar una doctrina geopolítica propia. Las razones de esta ausencia son múltiples y variadas, entre estas podemos mencionar la fragmentación del espacio geopolítico en demasiadas entidades estatales, la colonización cultural, política y militar ejercida por la nación hegemónica, la dependencia económica hacia el país dominante, las estrechas y particulares relaciones que mantienen el actor hegemónico y las clases dirigentes nacionales, que, configurándose como auténticas oligarquías, están preocupadas más de su supervivencia que de los intereses populares nacionales que deberían representar y sostener. Las naciones que constituyen la Unión Europea entran en esta categoría, con excepción de Gran Bretaña por la conocida special relationship que mantiene con los EE.UU. (4).

La pertenencia de la Unión Europea a esta clase de actores se debe a su situación geopolítica y geoestratégica. En el ámbito de las doctrinas geopolíticas estadounidenses, Europa siempre ha sido considerada, desde el estallido de la Segunda Guerra Mundial, una cabeza de puente tendida hacia el centro de la masa eurasiática (5). Tal papel condiciona las relaciones entre la Unión Europea y los países exteriores al sistema occidental, en primer lugar, Rusia y los países de Oriente Próximo y de Oriente Medio. Además de determinar el sistema de defensa de la UE y sus alianzas militares, este particular papel influye, a menudo incluso profundamente, en la política interior y las estrategias económicas de sus miembros, en concreto, las referentes al aprovisionamiento de recursos energéticos (6) y de materiales estratégicos, así como las elecciones en materia de investigación y desarrollo tecnológico. La situación geopolítica de la Unión Europea parece haberse agravado ulteriormente con el nuevo curso que Sarkozy y Merkel han imprimido a las respectivas políticas exteriores, dirigidas más a la constitución de un mercado trasatlántico que al reforzamiento del europeo.

Las variables que, en el momento actual, podrían permitir a los países miembros de la Unión Europea pasar a la categoría de los emergentes tienen que ver con la calidad y el grado de intensificación de sus relaciones con Moscú en referencia a la cuestión del aprovisionamiento energético (North y South Stream), a la cuestión de la seguridad (OTAN) y a la política próximo y medio-oriental (Irán e Israel). Que lo que acabamos de escribir es algo posible lo demuestra el caso de Turquía. A pesar de la hipoteca de la OTAN que la vincula al sistema occidental, Ankara, apelando precisamente a las relaciones con Moscú en lo referente a la cuestión energética, y asumiendo, respecto a las directivas de Washington, una posición excéntrica sobre la cuestión israelo-palestina, está en el camino hacia la emancipación de la tutela americana (7).

Los seguidores y subordinados, debido a su debilidad, representan el posible terreno de choque sobre el que podrían confrontarse los polos del nuevo orden mundial.

 

Los excluidos

 

En la categoría de los excluidos entran lógicamente todos los otros estados. Desde un punto de vista geoestratégico, los excluidos constituyen un obstáculo a las miras de uno o más actores de los actores hegemónicos. Entre los pertenecientes a este grupo, asumen un particular relieve, con respecto a los EE.UU. y el nuevo sistema multipolar, Siria, Irán, Myanmar y Corea del Norte. En el marco de la estrategia estadounidense para cercar la masa eurasiática, de hecho, el control de las áreas que actualmente se encuentran bajo la soberanía de esas naciones representa un objetivo prioritario que ha de ser alcanzado a corto-medio plazo. Siria e Irán se interponen a la realización del proyecto norteamericano del Nuevo Gran Oriente Medio, es decir, al control total sobre la larga y amplia franja que desde Marruecos llega a las repúblicas centroasiáticas, auténtico soft underbelly de Eurasia; Myanmar constituye una potencial vía de acceso en el espacio chino-indio a partir del Océano Índico y un emplazamiento estratégico para el control del Golfo de Bengala y del Mar de Andamán; Corea del Norte, además de ser una vía de acceso hacia China y Rusia, junto al resto de la península coreana (Corea del Sur) constituye una base estratégica para el control del Mar Amarillo y del Mar del Japón.

Los excluidos más arriba citados, en base a las relaciones que cultivan con los nuevos actores hegemónicos (China, India, Rusia) y con algunos emergentes podrían entrar nuevamente en el juego de la política mundial y asumir, por tanto, un importante papel funcional en el ámbito del nuevo sistema multipolar. Este es el caso de Irán. Irán goza del status de país observador en el ámbito de la OTSC, la Organización del Tratado de Seguridad Colectiva, considerada por muchos analistas la respuesta rusa a la OTAN, y es candidato al ingreso en la Organización para la Cooperación de Shangai, entre cuyos miembros figuran Rusia, China y las repúblicas centroasiáticas. Además, tiene sólidas relaciones económico-comerciales con los mayores países de la América indiolatina.

 

                

                

               La reescritura de las nuevas reglas

 

Los países que pertenecen a la clase de los actores hegemónicos anteriormente descrita tratan de proyectar, por primera vez después de la larga fase bipolar y la breve unipolar, su influencia sobre todo el planeta con la finalidad de contribuir, con recorridos y metas específicas, a la realización de la nueva configuración geopolítica global. A finales de la primera década del siglo XXI se asiste, por tanto, al retorno de la política mundial, articulada esta vez en términos continentales (8). La puesta en juego está constituida, no sólo por el acaparamiento de los recursos energéticos y de las materias primas, por el dominio de importantes nudos estratégicos, sino, sobre todo, considerando el número de actores y la complejidad del escenario mundial, por la reescritura de nuevas reglas. Estas reglas, resultantes de la delimitación de nuevas esferas de influencia, definirán, con toda probabilidad durante un largo periodo, las relaciones entre los actores continentales y, por tanto, también un nuevo derecho. No ya un derecho internacional exclusivamente construido sobre las ideologías occidentales, sustancialmente basado en el derecho de ciudadanía como se ha desarrollado a partir de la Revolución Francesa y en el concepto de estado-nación, sino un derecho que tenga en cuenta las soberanías políticas tal y como se manifiestan y se estructuran concretamente en los diversos ámbitos culturales de todo el planeta.

Los Estados Unidos, aunque actualmente se encuentren en un estado de profunda postración causado por una compleja crisis económico-financiera (que ha evidenciado, por otra parte, las carencias y debilidades estructurales de la potencia bioceánica y de todo el sistema occidental), por el duradero impasse militar en el teatro afgano y por la pérdida del control de vastas porciones de la América meridional,  prosiguen, sin embargo, en continuidad con las doctrinas geopolíticas de los últimos años, con la acción de presión hacia Rusia, área geopolítica que constituye su verdadero objetivo estratégico con  vistas a la hegemonía planetaria. En el momento actual, la desestructuración de Rusia, o, por lo menos, su debilitamiento, representaría para los Estados Unidos, no sólo un objetivo que persigue al menos desde 1945, sino también una ocasión para ganar tiempo y poner remedios eficaces para la solución de su propia crisis interna y para reformular el sistema occidental.

Precisamente, teniendo bien presente tal objetivo, resulta más fácil interpretar la política exterior adoptada recientemente por la administración Obama con respecto a Pekín y Nueva Delhi. Una política que, aunque tendente a recrear un clima de confianza entre las dos potencias euroasiáticas y los Estados Unidos, no parece dar en absoluto los resultados esperados, a causa del excesivo pragmatismo y de la exagerada ausencia de escrúpulos que parecen caracterizar tanto al presidente Barack Obama como a su Secretaria de Estado, Hillary Rodham Clinton. Un ejemplo de esa ausencia de escrúpulos y del pragmatismo, así como de la escasa diplomacia, entre otros muchos, es el referente a las relaciones contrastantes que Washington ha mantenido recientemente con el Dalai Lama y con Pekín.

Tales comportamientos, dadas las condiciones de debilidad en que se encuentra la ex hyperpuissance, son un rasgo del cansancio y del nerviosismo con que el actual liderazgo estadounidense trata de enfrentarse y taponar el progresivo ascenso de las mayores naciones eurasiáticas y la reafirmación de Rusia como potencia mundial. Las relaciones que Washington cultiva con Pekín y Nueva Delhi trascurren por dos vías. Por un lado, sobre la base del principio de interdependencia económica y mediante la ejecución de específicas políticas financieras y monetarias, los EE.UU. tratan de insertar a China e India en el ámbito del que denominan como sistema global. Este sistema, en realidad, es la proyección del occidental a escala planetaria, ya que las reglas en las que se basaría son precisamente las de este último. Por otro lado, a través de una continua y apremiante campaña denigratoria, la potencia estadounidense trata de desacreditar a los gobiernos de las dos naciones eurasiáticas y de desestabilizarlas, sirviéndose de sus  contradicciones y de sus tensiones internas. La estrategia actual es sustancialmente la versión actualizada de la política llamada de congagement (containment, engagement), aplicada, esta vez, no sólo a China sino también, parcialmente, a India.

Sin embargo, hay que subrayar que el dato cierto de esta administración demócrata, que tomó posesión en Washington en enero de 2009, es la creciente militarización con la que tiende a condicionar las relaciones con Moscú. Más allá de la retórica pacifista, el premio Nobel Obama, de hecho, sigue, con la finalidad de alcanzar la hegemonía global, las líneas-guía trazadas por las precedentes administraciones, que se reducen, de forma sumamente sintética, a dos: a) potenciación y extensión de las guarniciones militares; b) balcanización de todo el planeta según parámetros  étnicos, religiosos y culturales.

rusland_retreat.jpgAnte la clara y manifiesta tendencia de los EE.UU. hacia el dominio global –en los últimos tiempos marcadamente sustentada por el corpus ideológico-religioso veterotestamentario (9) más que por un cuidadoso análisis del momento actual que llevase la impronta de la Realpolitik –China, India y Rusia, al contrario, parecen ser bien  conscientes de las condiciones actuales que les llaman a una asunción de responsabilidades tanto a nivel continental como global. Tal asunción parece desarrollarse mediante acciones tendentes a la realización de una mayor y mejor articulada integración eurasiática así como mediante el apoyo de las políticas pro-continentales de los países sudamericanos.

 

                        La centralidad de Rusia

 

La reencontrada estatura mundial de Rusia como protagonista del escenario global impone algunas reflexiones de orden analítico para comprender su posicionamiento tanto en el ámbito continental como global, así como también las variables que podrían modificarlo a corto y medio plazo.

Mientras en relación a la masa euroafroasiática, la función central de Rusia como su heartland, tal y como fue sustancialmente formulada por Mackinder, es nuevamente confirmada por el actual marco internacional, más problemática y más compleja resulta, en cambio, su función en el proceso de consolidación del nuevo sistema multipolar.

 

Espina dorsal de Eurasia y puente eurasiático entre Japón y Europa

 

Los elementos que han permitido a Rusia reafirmar su importancia en el contexto eurasiático, muy esquemáticamente, son:

a)      reapropiación por parte del Estado de algunas industrias estratégicas;

b)      contención de los impulsos secesionistas;

c)      uso “geopolítico” de los recursos energéticos;

d)     política dirigida a la recuperación del “exterior próximo”;

e)      constitución del partenariado Rusia-OTAN, como mesa de discusión destinada a contener el proceso de ampliación del dispositivo militar atlántico;

f)       tejido de relaciones a escala continental, orientadas a una integración con las repúblicas centroasiáticas, China e India;

g)      constitución y cualificación de aparatos de seguridad colectiva (OTCS y OCS).

 

Si la gestión, antes de Putin y ahora de Medvedev, del agregado de elementos más arriba considerados ha mostrado, en las presentes condiciones históricas, la función de Rusia como espina dorsal de Eurasia, y, por tanto, como área gravitacional de cualquier proceso orientado a la integración continental, sin embargo, no ha puesto en evidencia su carácter estructural, importante para las relaciones ruso-europeas y ruso-japonesas, es decir, el de ser el puente eurasiático entre la península europea y el arco insular constituido por Japón.

Rusia, considerada como puente eurasiático entre Europa y Japón, obliga al Kremlin a una elección estratégica decisiva para los desarrollos del futuro escenario mundial: la desestructuración del sistema occidental. Moscú puede conseguir tal objetivo con éxito, a medio y largo plazo, intensificando las relaciones que cultiva con Ankara por cuanto respecta a las grandes infraestructuras (South Stream) y poniendo en marcha otras nuevas con respecto a la seguridad colectiva. Acuerdos de este tipo provocarían ciertamente un terremoto en toda la Unión Europea, obligando a los gobiernos europeos a tomar una posición neta entre la aceptación de una mayor subordinación a los intereses estadounidenses o la perspectiva de un partenariado euro-ruso (en la práctica, eurasiático, considerando las relaciones entre Moscú, Pekín y Nueva Delhi), que respondiera en mayor medida a los intereses de las naciones y de los pueblos europeos (10). Una iniciativa análoga debería ser tomada por Moscú con respecto a Japón, incluyéndose como socio estratégico en el contexto de las nuevas relaciones entre Pekín y Tokio y, sobre todo, poniendo en marcha, siempre junto a China, un proceso apropiado de integración de Japón en el sistema de seguridad eurasiático en el ámbito de la Organización para la Cooperación de Shangai (11).

 

Clave de bóveda del nuevo orden mundial

 

Con respecto al nuevo orden mundial, Rusia parece poseer los elementos base para cumplir una función epocal, la de clave de bóveda de todo el sistema. Uno de los elementos está constituido precisamente por su centralidad en el ámbito eurasiático como hemos expuesto anteriormente, otros dependen de sus relaciones con los países de la América meridional, de su política en Oriente Próximo y en Oriente Medio y de su renovado interés por la zona ártica. Estos cuatro factores resultan problemáticos ya que están estrechamente ligados a la evolución de las relaciones existentes entre Moscú y Pekín. China, como se sabe, ha estrechado, al igual que Rusia, sólidas alianzas económico-comerciales con los países emergentes de la América indiolatina, lleva en Oriente Medio y en Oriente Próximo una política de pleno apoyo a Irán y, además, manifiesta una gran atención por los territorios siberianos y árticos (12). Considerando lo que acabamos de recordar, si las relaciones entre Pekín y Moscú se desarrollan en sentido todavía más acentuadamente eurasiático, prefigurando una especie de alianza estratégica entre los dos colosos, la consolidación del nuevo sistema multipolar se beneficiará de una aceleración, en caso contrario, sufrirá una ralentización o entrará en una situación de estancamiento. La ralentización o el estancamiento proporcionarían el tiempo necesario para que el sistema occidental pudiera reconfigurarse y volviera a entrar, por tanto, en el juego en las mismas condiciones que los otros actores.

 

El nudo gordiano de Oriente Próximo y de Oriente Medio – la obligación de una elección de campo

 

Entre los elementos más arriba considerados, referentes a la función global que Rusia podría desempeñar, la política próximo y medio-oriental del Kremlin parece ser la más problemática. Esto es así a causa de la importancia que este tablero representa en el marco general del gran juego mundial y por el significado particular que ha asumido, a partir de la crisis de Suez de 1956, en el interior de las doctrinas geopolíticas estadounidenses. Como se recordará, la política rusa, o mejor, soviética, en Oriente Próximo, después de una primera orientación pro-sionista de los años 1947-48, que, por otra parte, se extendió hasta febrero de 1953, cuando se consumó la ruptura formal entre Moscú y Tel Aviv, se dirigió decididamente hacia el mundo árabe. En el sistema de alianzas de la época, el Egipto de Nasser se convirtió en el país central de esta nueva dirección del Kremlin, mientras el neo-estado sionista representó el special partner de Washington. Entre altibajos, Rusia, tras la licuefacción de la URSS, mantuvo esta orientación filo-árabe, aunque con algunas dificultades. En el cambiado marco regional, determinado por tres acontecimientos principales: a) inserción de Egipto en la esfera de influencia estadounidense; b) eliminación de Irak; c) perturbación del área afgana que atestiguan el retroceso de la influencia rusa en la región y el contextual avance, también militar, de los Estados Unidos, el país central de la política próximo y medio-oriental rusa está lógicamente representado por la República Islámica de Irán.

Mientras esto ha sido ampliamente comprendido por Pekín, en el marco de la estrategia orientada a su reforzamiento en la masa continental euroafroasiática, no se puede decir lo mismo de Moscú. Si el Kremlin no se da prisa y declara abiertamente su elección de campo a favor de Teherán, disponiéndose de esa manera a cortar el nudo gordiano que constituye la relación entre Washington y Tel Aviv, correrá el riesgo de anular su potencial función en el nuevo orden mundial.

 

* Director de Eurasia. Rivista di studi geopolitici – www.eurasia-rivista.org - direzione@eurasia-rivista.org

 

(Traducido por Javier Estrada)

 

 

1. El sistema occidental, tal y como se ha afirmado desde 1945 hasta nuestros días, está estructuralmente compuesto por dos principales espacios geopolíticos distintos, el angloamericano y el de la América indiolatina, a los que se añaden porciones del espacio eurasiático. Estas últimas están constituidas por Europa (península eurasiática y cremallera euroafroasiática) y por Japón (arco insular eurasiático). La América indiolatina, Europa y Japón han de ser considerados, por tanto, en relación al sistema « occidental », más propiamente, como esferas de influencia de la potencia del otro lado del Océano.

2. La ONU, el FMI y el BM, en el ámbito de la confrontación entre el  sistema occidental guiado por los EE.UU. y las potencias eurasiáticas, de hecho, desempeñan la función de dispositivos geopolíticos por cuenta de Washington.

3. Por cuanto respecta al redescubrimietno de la vocación continental de la América centromeridional en el ámbito del debate geopolítico, madurado en relación a la oleada globalizadora de los últimos veinte años, nos remitimos, entre otros, a los trabajos de Luiz A. Moniz Bandeira, Alberto Buela, Marcelo Gullo, Helio Jaguaribe, Carlos Pereyra Mele, Samuel Pinheiro Guimares, Bernardo Quagliotti De Bellis; señalamos, además, la reciente publicación de Diccionario latinoamericano de seguridad y geopolitíca (dirección editorial a cargo de Miguel Ángel Barrios), Buenos Aires 2009.

4. Luca Bellocchio, L'eterna alleanza? La special relationship angloamericana tra continuità e mutamento, Milán 2006.

5. Por motivaciones geoestratégicas análogas, siempre referentes al cerco de la masa eurasiática, los EE.UU. consideran Japón una de sus cabezas de puente, muy semejante a la europea.

6. En el específico sector del gas y del petróleo, la influencia estadounidense y, en parte, británica determinan la elección de los miembros de la UE respecto a sus socios extra-europeos, a las rutas para el transporte de los recursos energéticos y la proyección de las consiguientes infraestructuras.

7. Un enfoque teórico referente a los procesos de transición de un Estado de una posición de subordinación a una de autonomía respecto a la esfera de influencia en que se inscribe, ha sido recientemente tratado por el argentino Marcelo Gullo en el ensayo La insubordinación fundante. Breve historia de la construcción  del poder de las naciones, Buenos Aires 2008.

8. A tal respecto, son significativos los llamamientos constantes de Caracas, Buenos Aires y Brasilia a la unidad continental. En el apasionado discurso de toma de posesión de la presidencia de Uruguay, que tuvo lugar en la Asamblea general del parlamento nacional el 1 de marzo de 2010, el recién elegido José Mujica Cordano, ex tupamaro, subrayó con vigor que “Somos una familia balcanizada, que quiere juntarse, pero no puede. Hicimos, tal vez, muchos hermosos países, pero seguimos fracasando en hacer la Patria Grande. Por lo menos hasta ahora. No perdemos la esperanza, porque aún están vivos los sentimientos: desde el Río Bravo a las Malvinas vive una sola nación, la nación latino-americana”.

9. Eso también en consideración de la  política “prosionista” que Washington lleva en Oriente Próximo y en Oriente Medio. Véase a tal propósito el largo ensayo de J. Mearsheimer e Stephen M. Walt, La Israel lobby e la politica estera americana, Milán, 2007 (Hay versión española, El lobby israelí, Taurus, 2007).

10. Una hipótesis de partenariado euro-ruso, basado en el eje París-Berlín-Moscú, fue propuesto en un contexto diverso del actual en el brillante ensayo de Henri De Grossouvre, Paris, Berlin, Moscou. La voie de la paix et de l’independénce, Lausana 2002.

11. La ampliación de las estructuras continentales (globales en el caso de la OTAN) de seguridad y defensa parece ser el índice del grado de consolidación del sistema multipolar. Además de la OTAN, la OTSC y las iniciativas en el ámbito de la OCS, hay que recordar también el Consejo de Defensa Suramericano (CDS) de  la Unión de Naciones Suramericanas (UNASUR).

12. Linda Jakobson, China prepares for an ice-free Arctic, Sipri Insights on Peace and Securiry, no. 2010/2 Marzo 2010.

 

samedi, 27 mars 2010

Il male atlantista

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Il male atlantista

di Fabio Falchi

Fonte: fabiofalchicultura

 

L'egemonia americana è conquistata in ambito culturale: è per questo che oltre alla critica socioeconomica, c'è bisogno di una "battaglia culturale".



Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

anti_nato_tshirt.jpgE' noto che il filosofo tedesco Carl Schmitt, interpretando la famosa tesi di von Clausewitz secondo cui la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, ritiene che la politica sia, in un certo senso, la continuazione della guerra con altri mezzi. Categorie decisive per comprendere il Politico sarebbero pertanto due: amico o nemico. Una visione del Politico certamente realistica, che forse ha il difetto di fondarsi, in parte, su una antropologia tutt'altro che convincente come quella di Hobbes, poiché Schmitt condivide l'idea del filosofo inglese secondo cui "auctoritas non veritas facit legem". Il che implica che "auctoritas" sia contrapposta, e non solo distinta, da "veritas"; ossia un'idea che pare trascurare il nesso tra "cosmo" ("veritas") ed agire rettamente orientato ("auctoritas", diversa dalla mera potenza, dalla "potestas" che è la facoltà di imporre la propria volontà mediante la legge), che rende ragione del fatto che Roma (della cui efficienza politica e militare nessuno può seriamente dubitare) fosse sempre attenta a seguire una linea politica conforme alla propria "tradizione" ed a ciò che, ad esempio, gli stoici (non a caso, perlopiù, difensori della concezione imperiale romana) consideravano l'ordine divino del mondo.


Ciononostante, la dicotomia amico vs nemico ha il pregio di farci comprendere sia la dimensione conflittuale che di necessità contraddistingue il Politico, sia che lo Stato è essenzialmente un "campo di forze", il cui equilibrio dipende in ultima analisi dalla capacità di una classe dirigente di usare "misure e proporzioni" largamente condivise e (senza che sia esclusa la possibilità di un ricambio dei membri della élite, né di una partecipazione del popolo alla gestione degli affari pubblici, secondo forme e gradi differenziati) tali da impedire, da un lato, il formarsi tra i "governati" di gruppi così forti da poter mutare l'equilibrio (inteso come la "forma attuale" dello Stato) a loro favore; e, dall'altro, che questo equilibrio venga mutato da entità politiche "esterne", che possono essere Stati, ma anche potentati economici. Anzi, oggi pare siano proprio questi ultimi, con tutte le loro "diramazioni" (fondazioni, think tanks etc.) ad esercitare la maggiore pressione sui singoli Stati nazionali , in modo da determinarne o condizionarne gravemente la politica. Sì che la funzione dei partiti sembra essere quella di non consentire, proprio con il meccanismo delle elezioni "democratiche", ai governati di partecipare effettivamente alla vita politica ed economica del proprio Paese e, riguardo ai popoli europei, in particolare, di prendere coscienza dell'alienazione allo "straniero" della propria "sovranità". Tuttavia, è impossibile trascurare il ruolo fondamenatle che l'America, in quanto Stato, svolge non solo in Occidente ma su scala planetaria , nonostante la crisi del modello unipolare che gli americani hanno cercato di realizzare dopo il crollo dell'Urss (con il pressoché totale e servile consenso dell'Europa). Una crisi dovuta soprattutto all'emergere di nuove potenze quali la Cina e l'India, alla "nuova" Russia di Putin e alla resistenza coraggiosa di altri Paesi, come, ad esempio, l'Iran e il Venezuela (e adesso, per fortuna, anche la Turchia di Erdogan).


E' essenziale quindi comprendere il rapporto tra i "poteri forti" e la politica statunitense, essendo evidente che, comunque sia, vi è ancora necessità di un apparato statale (per motivi militari, ma anche socali, giuridici, di cultura politica, di comunicazione etc.) per occupare "posizioni dominanti" sul piano politico ed economico a livello mondiale. Senza un "potere statale forte", che avalli, sostenga, promuova l'azione dei "privati", nessun "potere forte" sarebbe possibile. Se ciò spiega la lotta tra le varie e più potenti lobbies per assicurarsi il controllo della macchina statale americana, non pregiudica però in alcun modo, piuttosto la rafforza, la "logica di sistema" che caratterizza tanto la politica interna (governo/lobbies vs popolo/cittadini) quanto la politica estera (Usa/lobbies vs altri Paesi, divisi in "amici o nemici"), sia pure con tutti i doverosi distinguo. E' alla luce di questo schema che si può capire, a mio avviso, la rilevanza della lobby ebraica internazionale (si badi, "non" gli ebrei in generale, altrimenti si confonde il tutto con la parte, con conseguenze deleterie, facilmente immaginabili) e la "copertura" quasi assoluta di cui gode ormai Israele, che si può perfino permettere di ricattare gli Usa; tanto che non è esagerato affermare che talvolta "la coda può muovere il cane". Certo gli Usa non sono un'appendice di Israele, né vi è una sola lobby che conti in America. Ma la lobby ebraica, grazie alle sue "ramificazioni multinazionali", è di fatto l'unica che può garantire l'unità di azione a "livello sistemico" dell'imperialismo economico americano e del "mercato globale" (che altro non sono che due facce della stessa medaglia), vuoi perché "attiva"nei gangli vitali di ogni Paese occidentale , vuoi perché è riuscita ad ottenere una vera e propria egemonia culturale, che consente all'atlantismo di presentarsi come la sola espressione dell'humanitas, come unico veicolo di civiltà contro ogni forma di barbarie, nonché come vero erede della cultura europea. Una egemonia culturale che si è imposta facilmente in Europa dopo la definitiva sconfitta del comunismo, considerato anch'esso, come il nazismo, il fascismo ed ora pure l'islamismo, il nemico del genere umano, il "male".
Il fatto è che troppo spesso i crtiici dell'imperialismo americano tendono a sottovalutare gli aspetti propriamente culturali, per concentrarsi esclusivamente su quelli economici e/o politici. Ed è invece questa egemonia culturale, estremamente articolata e "pervasiva", che può "legittimare" la subalternità delle classi dirigenti europee alle direttive atlantiste agli occhi delle masse e perfino agli occhi degli "scettici". In questi ultimi decenni si è addirittura assistito alla nascita di una sorta di nuova "religione", superiore a tutte le altre, la cosiddetta "religio holocaustica", fondata sull'assoluto divieto di studiare anche la persecuzione degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale secondo una metotologia scientifica . Chi infrange questo divieto o perfino chi si limita a criticarlo pubblicamente rischia il carcere (in Germania, Austria e Svizzera) oppure, se vive in Francia, una sanzione economica, ma viene comunque sempre "messo al bando"( si viene espulsi dall'Università, licenziati, messi alla gogna, denigrati dai mass media senza avere la possibilità di difendersi etc.). Una "religio" che ha i suoi dogmi, i suoi riti, i suoi sacerdoti, i suoi zelanti servitori e i suoi, più o meno in malafede, fedeli. E che è l'altra faccia dell'atlantismo: simul stabunt simul cadent.
Infatti, la storia del Novecento e di questo inizio di secolo si può "rappresentarla" come la lotta tra il bene e il male, tra la Grande Israele e gli Imperi del male o gli Stati canaglia, solo se la si interpreta mediante uno schema a priori, che fornisca la "regola" per "ordinare e sistemare" gli eventi, in modo da invalidare ogni critica al "sistema" in quanto tale. Democrazia liberale di tipo angloamericano, liberismo, "culto" del mercato, "fede" nella tecno-scienza, diritti universali "ricalcati "su quelli made in Usa, american way of living devono essere esportati in tutto il mondo anche con la forza, non perché si ha la possibilità di farlo, ma perché è "giusto" farlo e se non vi è ancora la capacità di farlo ovunque, ci se ne dovrebbe rammaricare. Insomma, il "sistema" non funziona o non funziona "bene" senza il consenso delle masse (poco importa che sia un consenso passivo). Perciò occorrono "persuasori" (ma non "occulti", sebbene ci siano, ovviamente, anche questi ) e "cultura" che persuada, che "formi" (si pensi alla scuola , all'Università ed ai mass media) ed in-formi, che orienti e che (questa sì!) soprattutto "occulti". Il vero potere lo si detiene quando si può fare a meno di usare il bastone (che pur si deve avere e meglio se è un "grosso bastone"). Per questo motivo è necessaria l'egemonia culturale. Anche se, o meglio proprio perché non è la nostra "cultura", ma la "cultura" del mercante occidentale, del suo denaro e delle sue banche che ci viene imposta, in quanto il giudeo-cristianesimo sarebbe la "radice"dell'Europa (tesi che è ben differente dal riconoscere che il cristianesimo - nelle sue molteplici e contraddittorie "voci" - è stato la lingua spirituale - "sincretistica", per così dire - dell'Europa durante il Medioevo). Da ciò, tra l'altro, consegue che la civiltà classica, greca e romana, non la si debba "vedere" se non attraverso il prisma del giudeo-cristianesimo e che vi sia netta separazione ed opposizione tra Oriente (la "Terra") e Occidente (il "Mare"). Si vuole così ignorare non solo che Occidente è una parola che da (relativamente ) poco tempo designa la civiltà europea, ma che l'Europa è la "Terra di Mezzo", la "congiunzione fra Terra e Mare". Una congiunzione, una "e", che invece ci indica , contrariamente a quanto ritengono gli atlantisti, da dove proveniamo e dove dovremmo far ritorno, "risalendo" al nostro autentico "inizio", ora che il "Mare" minaccia di sommergerci.
Nulla di più "incapacitante" allora di una critica del capitalismo che prescinda dai "fattori culturali" o che, fraintendendo radicalmente il "senso" del legame sociale, li intenda come "semplice" sovrastruttura della struttura economica. Il capitalismo è un "ismo", un modo di agire e pensare che "fa si-stema", in cui, appunto, "tutto si tiene". Ma si "tiene" secondo la logica dello "sradicamento", della negazione delle "differenze", per veicolare l'ideologia della "merce", dell'equivalenza universale delle "cose" e delle persone ( la "cosificazione" o mercificazione che dir si voglia), dell'astrazione quantitativa che dissolve ogni "esperienza"del tempo qualitativo, non lineare ed uniforme, e dello spazio gerarchicamente orientato. Il che spiega perché tanto più emerge la consapevolezza che la "secolarizzazione" del giudaismo (di cui lo stesso sionismo è un effetto) e del cristianesimo, al di là di ogni considerazione sugli aspetti "sapienziali e tradizionali" certamente presenti in entrambe le religioni, è a fondamento della modernità, vale a dire delle condizioni sociali e culturali per la nascita del capitalismo, nel senso stretto del termine, tanto più diventa evidente il ruolo preponderante, sotto qualsisi profilo, della "forma mentis" dell'homo oeconomicus ed il progressivo adeguarsi della cultura occidentale agli "schemi concettuali" propri del "mercante errante", senza "oikos" ed "abitatore" del tempo.
Se vi è dunque la necessità di decifrare, di volta in volta, l'azione delle lobbies atlantitste (non necessariamente americane) per smascherare i reali obiettivi della politica degli Usa, mostrandone le mistificazioni e le "incongruenze" sempre più gravi (al punto che si impiegano termini per denotare realtà esattamente opposte rispetto a quelle che dovrebbero denotare), vi è ancor più la necessità di una battaglia culturale, un "Kulturkampf", per non ripetere l'errore di privilegiare un'analisi di tipo socio-economica (ripeto, a scanso di equivoci, indubbiamente necessaria), che non può cogliere la specificità dell' "anima capitalistica", il suo carattere proteiforme, che le consente di rimanere sé medesima mutando continuamente "maschera". Una "lacuna" che, in qualche modo, è causa o, se si preferisce, una delle cause della crisi fallimentare del comunismo e del "collasso" delle politiche di stampo socialdemocratico, dal momento che non soltanto ha impedito una comprensione dei "presupposti culturali" del capitalismo, che non fosse basata su una "ingenua " e sovente "volgare" concezione progressista, ma ha addirittura favorito l'affermarsi della "cultura" dell'homo oeconomicus, che è la "conditio sine qua non" del capitalismo occidentale (sotto questo aspetto, di gran lunga più coerente dei suoi "nemici"; per usare un "linguaggio schietto", il peggiore difetto della sinistra si potrebbe designare così: volere l'arancio ma non le arance!).
Vero è che si deve pure tener conto che occidentalizzazione ed atlantismo non sono necessariamente sinonimi, ma è innegabile che attualmente siano i circoli atlantisti che perseguono il disegno di occidentalizzare l'intero pianeta, annientando "identità", lingue, costumi e qualunque complessa "iconografia" - altro termine caro a Schmitt - che non sia quella (israelo)angloamericana. Si tratta di un processo di livellamento e massificazione che può essere contrastato solo dal sorgere di un nuovo equilibrio mondiale policentrico, premessa anche per costruire un'alternativa, "razionale" e credibile, ad ogni forma di occidentalizzazione. Purtuttavia, è lecito pensare che, fino a quando l'Europa non saprà orientare il proprio "asse" geo-politico e geo-filosofico in senso eurasiatista, difficilmente l'atlantismo conoscerà una crisi irreversibile: l'illimitato "Wille zur Macht" dell'Occidente può, come il "Mare", arretrare temporaneamente, per poi ritornare con ancor maggiore forza e impeto. Non dovrebbe destare meraviglia dunque che il sistema capitalistico occidentale più "si occulta" ed "occulta" e più, brandendo la spada vendicatrice del "dio" veterotestamentario per far trionfare il "bene" sulla Terra, lasci venire allo scoperto la sua volontà di potenza. E' questo non il segno accidentale della sua "sostanza", bensì il segno più chiaro della sua vera "natura".

 

 

jeudi, 11 février 2010

Der verhängnisvolle geologische Gewinn namens Haiti

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Der verhängnisvolle geologische Gewinn namens Haiti

F. William Engdahl

Ein ehemaliger US-Präsident wird UN-Sondergesandter für das vom Erdbeben heimgesuchte Haiti. Ein wiedergeborener neokonservativer geschäftstüchtiger US-amerikanischer Prediger behauptet, die Haitianer erhielten die gerechte Strafe für einen buchstäblichen »Pakt mit dem Teufel«. Venezolanische, nicaraguanische, bolivianische, französische und schweizerische Hilfsorganisationen beschuldigen das US-Militär, Flugzeugen, die überlebenswichtige Medikamente und dringend benötigtes Trinkwasser für die Millionen schwer geprüften verletzten und obdachlosen Haitianer ins Land bringen wollen, die Landung zu verweigern.

Hinter all dem Staub, den Trümmern und der unendlichen menschlichen Tragödie in dem unglücklichen Karibik-Staat spielt sich ein ganz anderes Drama ab: Es tobt ein Kampf um die Kontrolle der – wie Geologen vermuten – mit Ausnahme des Nahen und Mittleren Ostens weltgrößten Lagerstätten für Kohlenwasserstoffe, also Öl und Gas, die möglicherweise um Größenordnungen umfangreicher sind als die im nahe gelegenen Venezuela.

Haiti und die größere Insel Hispaniola, zu der das Land gehört, liegen geologisch betrachtet über einer seismologisch sehr aktiven Zone, in der tief auf dem Meeresboden drei riesige Strukturen unablässig gegeneinander reiben – es ist der Schnittpunkt der nordamerikanischen, der südamerikanischen und der karibischen tektonischen Platten. Diese unter dem Ozean und dem karibischen Meer gelegenen Platten bestehen aus einer drei bis sechs Meilen dicken Kruste, die auf der darunterliegenden Mantelschicht driften. Haiti grenzt auch an das als Bermuda-Dreieck bekannte Gebiet in der Karibik, wo es immer wieder zu sehr seltsamen und bislang nicht erklärbaren Störungen kommt.

Die überwiegende Masse der unterseeischen Platten ist in ständiger Bewegung, wobei die verschiedenen Platten entlang bestimmter Linien aneinander reiben, etwa vergleichbar wie bei einer zerbrochenen und wieder zusammengeklebten Porzellanvase, auf die Druck ausgeübt wird. Die tektonischen Platten bewegen sich durchschnittlich um 50 bis 100 Millimeter pro Jahr gegeneinander, dies ist die Ursache von Erdbeben und Vulkanausbrüchen. Die Regionen, in denen solche Platten aneinander treffen, sind auch die Regionen, wo große Mengen Öl und Gas aus dem Erdmantel nach oben gedrückt werden können. Die Geophysik in der Umgebung der Berührungslinien der drei Platten, die fast direkt durch Port-au-Prince verläuft, prädestiniert die Region für schwere Erdbeben wie das, welches Haiti am 12. Januar mit zerstörerischer Wucht erschüttert hat.

 

Ein relevantes Geologie-Projekt in Texas

Abgesehen von der wichtigen Frage, wie lange im Voraus das Pentagon und die US-Wissenschaftler wussten, dass es zu dem Erdbeben kommen würde, und welche Pläne beim Pentagon schon vor dem 12. Januar vorlagen, drängt sich eine neue Frage über die Vorgänge von Haiti auf, die das bislang reichlich merkwürdige Verhalten der führenden »helfenden« Länder – der Vereinigten Staaten, Frankreichs und Kanadas – zumindest teilweise erklären könnte. Abgesehen von der Anfälligkeit für schwere Erdbeben, liegt Haiti nämlich auch in einer Zone, die gerade aufgrund des ungewöhnlichen Zusammentreffens der drei tektonischen Platten auch zu den größten bislang unerschlossenen Gebieten von Erdöl- und Erdgasvorkommen sowie anderen wertvollen und seltenen strategischen Mineralien zählt.

Die großen Ölreserven am Persischen Golf und in der Region vom Roten Meer bis zum Golf von Aden befinden sich in einer ähnlichen Konvergenzzone großer tektonischer Platten, ebenso wie andere ölreiche Gebiete wie Indonesien oder die Gewässer vor der Küste Kaliforniens. Kurz gesagt, im Hinblick auf die Physik der Erde finden sich an den Schnittpunkten tektonischer Massen, wie direkt unter Haiti, bemerkenswert häufig große Lagerstätten von Mineralien sowie Erdöl und -gas.

Bedeutsamerweise hat ein Geologenteam des Institute for Geophysics von der University of Texas im Jahr 2005 – also ein Jahr nachdem die Regierung Bush-Cheney den demokratisch gewählten Präsidenten von Haiti, Jean-Baptiste Aristide, de facto abgesetzt hatte – mit dem ehrgeizigen Projekt der genauen Kartierung sämtlicher geologischen Daten des Karibischen Beckens begonnen. Das von Dr. Paul Mann geleitete Projekt, das 2011 abgeschlossen werden soll, läuft unter dem Namen »Caribic Basins, Tectonics and Hydrocarbons« (Karibisches Becken, Tektonik und Kohlenwasserstoffe). Ziel ist, die Beziehung zwischen den tektonischen Platten in der Karibik und möglichen Vorkommen von Kohlenwasserstoffen – Öl und Gas – so genau wie möglich zu bestimmen.

Die Sponsoren des mehrere Millionen teuren Forschungsprojekts unter der Leitung von Mann sind bezeichnenderweise die größten Erdölgesellschaften der Welt, darunter Chevron, Exxon Mobil, die britisch-niederländische Gesellschaft Shell sowie BHP Billiton. (1) Das Projekt stellt, merkwürdig genug, die erste umfassende geologische Kartierung einer Region dar, die man allein aus Gründen der Energiesicherheit schon seit Jahrzehnten von den großen US-Ölgesellschaften erwartet hätte, zumal das Gebiet nahe dem Territorium der USA liegt. Schließlich wird in der Region vor der mexikanischen Küste und der Küste von Louisiana sowie im gesamten karibischen Raum schon jetzt in großem Umfang Öl gefördert. Jetzt stellt sich heraus, dass die großen Ölgesellschaften zumindest grob schon seit Langem wussten, welch riesiges Öl-Potenzial die Region barg, aber offensichtlich entschieden hatten, diese Kenntnis geheim zu halten.

 

Kuba: »Super-Giant«-Fund

Beweise dafür, dass es der US-Regierung in Haiti um mehr geht als nur darum, die Not der schwer getroffenen haitianischen Bevölkerung zu lindern, finden sich in den direkt gegenüber von Port-au-Prince gelegenen Gewässern vor Kuba. Im Oktober 2008 meldete ein Konsortium unter der Führung der spanischen Ölgesellschaft Repsol und der staatlichen kubanischen Ölgesellschaft Cubapetroleo den Fund eines der größten Ölfelder – die Geologen sprechen von »Super Giant Fields« – unter dem Meeresboden vor der kubanischen Küste. Schätzungen zufolge enthält das kubanische Feld bis zu 20 Milliarden Barrel Öl, es ist damit das zwölftgrößte seit 1996 entdeckte Super-Giant-Feld. Durchaus denkbar, dass dieser Fund Kuba zur Zielscheibe weiterer Destabilisierungen und schmutziger Operationen vonseiten des Pentagon machen wird.

Washington war sicherlich nicht gerade erfreut darüber, dass der russische Präsident Dmitri Medwedew einen Monat nach Entdeckung des riesigen Erdölfelds nach Kuba reiste, um gemeinsam mit dem amtierenden Präsidenten Raul Castro ein Abkommen über die Erkundung und Erschließung der kubanischen Ölfelder durch russische Ölgesellschaften zu unterzeichnen. (2)

Bereits eine Woche vor der Unterzeichnung des russisch-kubanischen Abkommens durch Medwedew hatte Chinas Präsident Hu Jintao dem erkrankten Fidel Castro und seinem Bruder einen Besuch abgestattet. Der chinesische Präsident unterzeichnete bei dieser Gelegenheit eine Vereinbarung zur Modernisierung der kubanischen Häfen und verhandelte über den Kauf von Rohstoffen aus Kuba. Gewiss hat auch dabei das riesige neu entdeckte Erdölfeld in Kuba auf der Tagesordnung gestanden. (3) Am 5. November 2008, unmittelbar vor der Reise des Präsidenten, der damals neben Kuba auch andere lateinamerikanische Länder besuchte, hat die chinesische Regierung erstmals ein Positionspapier über die Zukunft der chinesisch-lateinamerikanischen und chinesisch-karibischen Beziehungen veröffentlicht, ein Anzeichen dafür, dass sie diesen Beziehungen mittlerweile strategische Bedeutung beimisst. (4)

Die Entdeckung des Super-Giant-Feldes vor Kuba lässt auch die Vertreter der Theorie vom »Peak Oil« ziemlich dumm dastehen. Kurz bevor Bush und Blair die Irak-Invasion beschlossen, machte im Internet eine Theorie die Runde, wonach irgendwann ab 2010 weltweit ein »Peak« (d.h. die maximale Höhe) der Ölförderung erreicht werde; anschließend käme es zu einem Rückgang mit drastischen sozialen und wirtschaftlichen Folgen. Zu den prominenten Verfechtern dieser Theorie zählten der damals bereits pensionierte Ölgeologe Colin Campbell und der texanische Ölbanker Matt Simmons. Sie behaupteten, seit ungefähr 1976 sei kein einziges Super-Giant-Feld mehr entdeckt worden, die in den vergangenen 20  Jahren neu hinzugekommenen Felder seien »winzig« im Vergleich zu den früher entdeckten riesigen Vorkommen wie beispielsweise in Saudi-Arabien, in der Prudhoe-Bay (Alaska) oder in Daquing in China. (5)

Bereits vor über 50 Jahren hat eine unter strengster staatlicher Geheimhaltung forschende Gruppe russischer und ukrainischer Geophysiker bestätigt, dass Kohlenwasserstoffe entgegen der anerkannten »Mainstream«-Geologie amerikanischer und westlicher Forscher nicht das Resultat von konzentrierten und komprimierten Ablagerungen vorgeschichtlicher Dinosaurier oder von Algen und anderem biologischen Material sind, aus dem dann im Verlauf von Millionen Jahren irgendwie Öl und Gas entstanden. Sie demonstrierten damals, dass Kohlenwasserstoffe tief im Erdmantel unter Bedingungen wie in einem riesigen Kessel unter extremen Temperaturen und Drücken entstehen. (6)

Anschließend bewiesen sie, dass das so im Erdmantel produzierte Öl und Gas entlang von Verwerfungen oder Brüchen in der Erde je nach Druckverhältnissen unterschiedlich nahe an die Oberfläche gedrückt wurde. Sie hielten den Prozess für vergleichbar mit der Entstehung geschmolzener Lava in Vulkanen. Demnach ist die Entdeckung von Öl – relativ gesprochen – nur durch die Fähigkeit begrenzt, tiefe Risse und komplexe geologische Aktivitäten zu erkennen, an denen das Öl aus dem tiefen Erdinneren transportiert werden kann. Bei den Gewässern in der Karibik, besonders vor der Küste Kubas und dem benachbarten Haiti, scheint es sich um genau so eine Region konzentrierter Kohlenwasserstoffe zu handeln, die ihren Weg nahe an die Oberfläche gefunden haben, vielleicht sogar in der Größenordnung eines neuen Saudi-Arabiens. (7)

 

Haiti, ein neues Saudi-Arabien?

Die besondere geografische Lage im Seegebiet um Haiti und Kuba und auf den Inseln selbst sowie die Entdeckung von großen unterseeischen Ölvorkommen vor der Küste Kubas verleiht den eher anekdotischen Berichten von großen Ölfunden in verschiedenen Bereichen des haitianischen Staatsgebiets Glaubwürdigkeit. Es wäre auch eine Erklärung dafür, dass Haiti für die US-Präsidenten Bush Vater und Sohn sowie jetzt für den UN-Sondergesandten Bill Clinton so wichtig ist. Darüber hinaus könnte es erklären, warum Washington und verbündete Nichtstaatliche Organisationen (NGOs) den demokratisch gewählten Präsidenten Aristide gleich zweimal aus dem Amt gejagt haben. Aristides Wirtschaftsprogramm umfasste unter anderem den Plan, die Bodenschätze Haitis zugunsten der Mehrheit der eigenen Bevölkerung nutzbar zu machen.

Im März 2004, einige Monate bevor die University of Texas und die amerikanischen großen Ölgesellschaften das ehrgeizige Projekt der Kartierung möglicher Kohlenwasserstoffvorkommen in der Karibik ankündigten, veröffentlichte der haitianische Schriftsteller Dr. Georges Michel im Internet einen Artikel mit der Überschrift »Öl in Haiti« (8), in dem er schrieb:

»…. es ist kein Geheimnis, dass sich im tiefen Erdinneren unter den beiden Staaten auf der Insel Haiti und den umgebenden Gewässern bedeutende, noch nicht erschlossene Ölvorkommen befinden. Warum sie noch nicht erschlossen sind, ist unbekannt. Zu Beginn des 20. Jahrhunderts, genauer gesagt seit 1908, als Alexander Pujol und Henry Thomasset ihre physikalische und politische Landkarte der Insel Haiti erstellten, ist bekannt, dass sich in Haiti in der Nähe der Quelle des Rio Todo El Mundo, des rechten Nebenflusses des Artibonite-Flusses, heute besser bekannt als Thomonde-Fluss, ein großes Ölreservoir befinde.t«

Robertson Alphonse schrieb im Juni 2008 in einem Artikel der haitianischen Zeitung Le Novelliste en Haiti: »Die Anzeichen (Indikatoren), die die Suche nach Öl (schwarzes Gold) in Haiti rechtfertigen, sind ermutigend. Inmitten des Ölschocks haben vier Ölgesellschaften offiziell bei den haitianischen Behörden Lizenzen für Ölbohrungen beantragt.« Im Juni 2008, als der Ölpreis aufgrund von Marktmanipulationen verschiedener Wall-Street-Banken auf über 140 Dollar pro Barrel stieg, erklärte Diesuel Anglade, der Direktor der staatlichen haitianischen Behörde für Bergbau und Energie, vor der Presse in Haiti: »Bei uns sind vier Anträge für Ölsuche eingegangen … Uns liegen ermutigende Indikatoren vor, die es rechtfertigen, die 1979 eingestellte Suche nach dem Schwarzen Gold (Öl) wieder aufzunehmen.« (9)

Alphonse berichtet über eine 1979 durchgeführte geologische Untersuchung in Haiti, bei der im Plaine du Cul-de-sac auf dem Plateau Central und auf der Insel La Gonaive elf Probebohrungen erfolgt waren: »Oberflächliche (vorläufige) Indikatoren für Öl wurden auf der südlichen Halbinsel und an der Nordküste gefunden, erklärte der Ingenieur Anglade, der vom unmittelbaren kommerziellen Nutzen dieser Ergebnisse überzeugt ist.« (10)

Er zitiert ein Memorandum des haitianischen Rechtsanwalts François Lamothe vom 16. April 1979, in dem es hieß:

»… es wurden fünf große Bohrungen durchgeführt: in Porto Suel (Maissade) mit einer Tiefe von 9.000 Fuß, in Bebernal mit 9.000 Fuß, in Bois-Carradeux (West), in Dumornay, an der Straße Route Frare und in der Nähe der Eisenbahn von Saint-Marc. Eine sogenannte ›Karotte‹ (Öllager), die bei einer Bohrung in Saint-Marx im Departement Artibonite entnommen worden war, wurde auf Antrag von Mr. Broth in München einer physikalisch-chemischen Analyse unterzogen. ›Das Analyseergebnis wurde am 11. Oktober 1979 zugestellt, es lautete auf Spuren von Öl‹, teilte der Ingenieur Willy Clemens mit, der eigens nach Deutschland gereist war.« (11)

Trotz der damaligen vielversprechenden Ergebnisse in Haiti hätten »die großen, in Haiti tätigen multinationalen Ölgesellschaften« laut Dr. George Michel 1979 »durchgesetzt, dass die neu entdeckten Lager nicht ausgebeutet wurden«. (12) Die Ölsuche auf und vor Haiti wurde daraufhin abrupt eingestellt.

Ähnliche, wenngleich weniger präzise Berichte, wonach die Ölreserven in Haiti noch weit größer sein könnten als die von Venezuela, sind auf haitianischen Websites aufgetaucht. (13) Später brachte die Finanz-Website Bloomberg News die folgende Meldung: »Das Erdbeben vom 12. Januar erfolgte an einer Verwerfungslinie, die in der Nähe potenzieller Erdgaslager verläuft, so der Geologe Stephen Pierce, der 30 Jahre für Unternehmen wie die ehemalige Mobil Corp. in der Region tätig gewesen ist. Durch das Erdbeben könnten Gesteinsformationen aufgebrochen worden sein, sodass möglicherweise vorübergehend Gas oder Öl an die Oberfläche dringen könnten, sagte er am Montag in einem Telefoninterview. ›Ein Geologe, der, so kalt es klingen mag, die Verwerfungszone von Port-au-Prince bis zur Grenze auf Sickerstellen von Gas und Öl hin untersucht, könnte auf eine Struktur stoßen, die bisher noch nicht durch Probebohrungen erfasst worden ist‹, erklärte Pierce, technischer Leiter bei Zion Oil & Gas Inc., einem in Dallas ansässigen Unternehmen, das Bohrungen in Israel durchführt.« (14)

In einem Interview mit einem Online-Journal aus Sano Domingo erklärte Leopoldo Espaillat Nanita, der ehemalige Direktor der Dominican Petroleum Refinery (REFIDOMSA): »Es gibt eine internationale Verschwörung, sich auf illegale Weise die Rohstoff-Ressourcen des haitianischen Volkes anzueignen.« (15) Zu den Rohstoffen zählen Gold, das strategische Material Iridium und das allem Anschein nach reichlich vorhandene Öl.

 

Aristides Entwicklungspläne

Marguerite Laurent (»Ezili Dantò«), Vorsitzende der haitianischen Rechtanwaltsvereinigung Haitian Lawyers Leadership Network (HLLN), die den abgesetzten Präsidenten Aristide als Anwältin vertreten hat, betont, dieser habe in seiner Amtszeit als Präsident bis zu seiner von Amerika betriebenen Absetzung 2004 – also unter Bush –, seine Pläne für die Entwicklung des Landes verfasst und in Buchform veröffentlicht, darin seien die Rohstoffvorkommen Haitis zum ersten Mal detailliert aufgeführt gewesen. Als der Plan veröffentlicht wurde, entspann sich im Rundfunk und in den Medien eine landesweite Debatte über die Zukunft des Landes. Aristide strebte eine Art öffentlich-privater Partnerschaft an, die die Entwicklung der haitianischen Öl- und Goldvorkommen sowie andere wertvolle Rohstoffe in den Dienst der Wirtschaft und der Bevölkerung des Landes stellte. Der Reichtum sollte nicht ausschließlich den fünf haitianischen Oligarchenfamilien und deren Unterstützern in den USA, den sogenannten Chimeres, oder Gangstern zugute kommen. (16)

 Haiti ist seit 2004 ein besetztes Land, der umstrittene und unter zweifelhaften Umständen gewählte Präsident René Préval unterstützt die vom IWF geforderten Privatisierungen. Angeblich unterhält er Beziehungen zu den Chimeres, den haitianischen Oligarchen, die 2004 die Vertreibung von Aristide unterstützt haben. Bezeichnenderweise verbietet das US-Außenministerium Aristide heute die Rückkehr aus seinem südafrikanischen Exil.

Nach dem verheerenden Erdbeben vom 12. Januar hat das US-Militär die Kontrolle über die vier Flughäfen Haitis übernommen, gegenwärtig sind etwa 20.000 Soldaten im Land. Journalisten und internationale Hilfsorganisationen haben den US-Militärs vorgeworfen, sie kümmerten sich mehr um die Errichtung militärischer Kontrolle – das Militär spricht von »Sicherheit« –, als um den Transport von Wasser, Nahrungsmitteln und Medikamenten von den Flughäfen zu den Menschen, die dringend darauf angewiesen sind.

Eine amerikanische militärische Besetzung Haitis unter dem Vorwand der Erdbebenkatastrophe würde Washington und den entsprechenden privaten Geschäftsinteressen einen geopolitischen Gewinn ersten Ranges bescheren. Vor dem Beben am 12. Januar war die US-Botschaft in Port-au-Prince die fünftgrößte auf der Welt, fast gleichrangig mit geopolitisch strategisch wichtigen Orten wie Berlin und Peking. (17) Da nun russische Gesellschaften riesige neue Ölfelder vor Kuba erschließen, und da es eindeutige Hinweise dafür gibt, dass sich auf Haiti ähnlich große unerschlossene Lager von Öl, aber auch von Gold, Kupfer, Uran und Iridium befinden, da nun Hugo Chavez’ Venezuela nicht weit entfernt im Süden von Haiti liegt, könnte ein zurückkehrender Aristide oder ein anderer populärer Politiker, der entschlossen ist, die Ressourcen seines Landes für die Menschen von Haiti nutzbar zu machen, einen verheerenden Schlag für die einzige Supermacht der Welt bedeuten. Die äußerst ungewöhnliche Ankündigung des UN-Sondergesandten für Haiti, Bill Clinton, nach dem Erdbeben, gemeinsam mit dem Aristide-Gegner George W. Bush einen sogenannten Bush-Clinton-Fonds für Haiti auflegen zu wollen, sollte uns nachdenklich stimmen.

Laut Marguerite Laurent betreiben die USA, Frankreich und Kanada unter dem Vorwand der Katastrophenhilfe die Balkanisierung der Insel im Interesse einer künftigen Kontrolle über die Rohstoffe. Sie berichtet über Gerüchte, wonach Kanada die Kontrolle über den Norden von Haiti anstrebt, wo schon heute kanadische Bergbauinteressen tätig sind. Die USA wollen Port-au-Prince und die vorgelagerte Insel La Gonaive, wo laut Aristides Buch große Ölvorkommen lagern, um die auch Frankreich erbittert kämpft. Wie sie hinzufügt, könnte China, das bei der UN in Bezug auf das de facto von der UN besetzte Land ein Vetorecht besitzt, Einwände gegen eine solche amerikanisch-französisch-kanadische Aufteilung der großen Reichtümer des Landes erheben. (18)

 

 

__________

Quellen:

(1) Paul Mann, »Caribbean Basins, Tectonic Plates & Hydrocarbons«, Institute for Geophysics, The University of Texas at Austin, unter www.ig.utexas.edu/research/projects/cbth/.../ProposalCaribbean.pdf

(2) Rory Carroll, »Medvedev and Castro meet to rebuild Russia-Cuba relations,« London, Guardian, 28. November 2008 unter http://www.guardian.co.uk/world/2008/nov/28/cuba-russia

(3) Julian Gavaghan, »Comrades in arms: When China’s President Hu met a frail Fidel Castro«, London, Daily Mail, 19. November 2008, unter http://www.dailymail.co.uk/news/article-1087485/Comrades-arms-When-Chinas-President-Hu-met-frail-Fidel-Castro.html

(4) Peoples’ Daily Online, »China issues first policy paper on Latin America, Caribbean region«, 5. November 2008, unter http://english.people.com.cn/90001/90776/90883/6527888.html

(5) Matthew R. Simmons, »The World’s Giant Oilfields«, Simmons & Co. International, Houston, unter http://www.simmonsco-intl.com/files/giantoilfields.pdf

(6) Anton Kolesnikov, u.a., »Methane-derived hydrocarbons produced under upper-mantle conditions«, Nature Geoscience, 26. Juli 2009

(7) F. William Engdahl, »War and Peak Oil – Confessions of an ›ex‹ Peak Oil believer«, Global Research, 26. September 2007, unter http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=6880

(8) Dr. Georges Michel, »Oil in Haiti«, Englische Übersetzung aus dem Französischen, »Pétrole en Haiti«, 27. März 2004, unter http://www.margueritelaurent.com/pressclips/oil_sites.html#oil_GeorgesMichelEnglish

(9) Roberson Alphonse, »Drill, and then pump the oil of Haiti! 4 oil companies request oil drilling permits«, Englische Übersetzung aus dem Französischen, 27. Juni 2008, unter http://www.bnvillage.co.uk/caribbean-news-village-beta/99691-drill-then-pump-oil-haiti-4-oil-companies-request-oil-drilling-permits.html

(10) Ebenda

(11) Ebenda

(12) Dr. Georges Michel, a.a.O.

(13) Marguerite Laurent, »Haiti is full of oil, say Ginette and Daniel Mathurin«, Radio Metropole, 28. Januar 2008, unter http://www.margueritelaurent.com/pressclips/oil_sites.html#full_of_oil

(14) Jim Polson, »Haiti earthquake may have exposed gas, aiding economy«, Bloomberg News, 26. Januar 2010

(15) »Espaillat Nanita revela en Haiti existen grandes recursos de oro y otros minerals«, Espacinsular.org, 17. November 2009, unter http://www.espacinsular.org/spip.php?article8942

(16) Aristides Entwicklungsplan war in dem im Jahr 2000 in Haiti veröffentlichten Buch Investir dans l’Human. Livre Blanc de Fanmi Lavalas sous la Direction de Jean-Bertrand Aristide (Port-au-Prince, Imprimerie Henri Deschamps, 2000) enthalten. Es enthielt detaillierte Landkarten, Tabellen, Grafiken und einen nationalen Entwicklungsplan für 2004, der »Landwirtschaft, Umwelt, Handel und Industrie, den Finanzsektor, Infrastruktur, Erziehung und Bildung, Kultur, Gesundheitswesen, Frauenfragen und Fragen des öffentlichen Sektors« umfasste. 2004 schaffte es die Regierung Bush mithilfe von NGOs, der UN und einer üblen Propagandakampagne, Aristides Popularität zu untergraben und den gewählten Präsidenten abzusetzen.

(17) Cynthia McKinney, »Haiti: An Unwelcome Katrina Redux«, Global Research, 19. Januar 2010, unter http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=17063

(18) Marguerite Laurent (Ezili Dantò), »Did mining and oil drilling trigger the Haiti earthquake?«, OpEd News.com, 23. Januar 2010, unter http://www.opednews.com/articles/1/Did-mining-and-oil-drillin-by-Ezili-Danto-100123-329.html

 

Donnerstag, 04.02.2010

Kategorie: Geostrategie, Enthüllungen, Wirtschaft & Finanzen, Wissenschaft, Politik

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mercredi, 10 février 2010

La guerre "propre" d'Obama

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Ferdinando CALDA :

 

La guerre « propre » d’Obama

 

La nouvelle stratégie du ministre Gates prévoit des opérations plus secrètes, des raids par drones et des financements à accorder aux « Etats faibles »

 

C’est une guerre différente que l’administration Obama a l’intention de mener contre le terrorisme et les ennemis des Etats-Unis. Elle ne coûtera pas moins cher, vu que le plan présenté ces jours-ci par le président ne s’avère que très légèrement moins onéreux que ceux présentés les deux années précédentes par son prédécesseur. Mais, une chose est certaine, la guerre envisagée par Obama sera différente de celle envisagée par Bush. La nouvelle stratégie mise au point par le ministre de la défense Robert Gates vise surtout l’augmentation des opérations spéciales et secrètes, l’utilisation à grande échelle d’avions sans pilote et une plus grande attention aux problèmes des Etats dits « faibles », comme le Yémen et la Somalie, considérés comme refuges sûrs pour les hommes d’Al Qaeda. Dans les grandes lignes, Gates a souligné la nécessité d’abandonner la politique antérieure, héritée de la Guerre Froide, qui demandait aux forces armées de se préparer à combattre simultanément en deux régions du monde, par exemple le Proche Orient et la péninsule coréenne. Robert Gates demande maintenant de remplacer cette stratégie par une nouvelle qui soit capable d’affronter divers conflits mineurs dans toutes les parties du monde à la fois. Les lignes directrices de ce réaménagement stratégique sont décrites dans la « Quadriennal Defence Review » (QDR), le rapport trimestriel du Pentagone, présenté fin janvier. Le texte indique comme priorité actuelle pour les forces armées américaines de « reprendre la prééminence dans les conflits actuels » et de répondre à la nécessité de « démanteler les réseaux terroristes » en Afghanistan et en Irak.

 

Ce document nous apprend également que les financements des « Opérations Spéciales » augmenteront de presque 6% pour atteindre un budget de 6,3 milliards de dollars ; le nombre de soldats d’élite passera à 2800, permettant ainsi de renforcer les capacités de mener des « guerres irrégulières ». On prévoit également une augmentation, dans les zones de guerres, des avions sans pilote : leur nombre passera de 37 à 67 au cours des deux prochaines années. En outre, le Pentagone a l’intention de consacrer plus d’un milliard de dollars à un fond qui devra distribuer cette somme entre les commandants locaux en Afghanistan, afin de tenter de diminuer le soutien qu’ils pourraient apporter aux talibans et d’augmenter les appuis qu’ils pourraient accorder au gouvernement de Kaboul. Cette stratégie, on le devine, cherche à « acheter » la fidélité des chefs de tribu en Afghanistan et reçoit d’ores et déjà l’appui des principaux alliés des Etats-Unis.

 

Pour 2011, le plan prévoit une attention particulière pour divers pays, tel le Yémen, que Washington considère importants pour la sécurité nationale. Les experts du Pentagone se rappellent que l’attentat raté du 25 décembre dernier contre un avion volant vers Detroit avait été préparé par un Nigérian qui aurait été recruté par un chef d’Al Qaeda résidant au Yémen. Pour cette raison, le plan demande d’augmenter les financements au bénéfice du principal programme public d’entraînement et d’équipement des forces de sécurité d’un pays comme le Yémen : le budget passerait de 350 millions de dollars à 500 millions. Pour ce qui concerne le Yémen en particulier, les fonctionnaires américains ont fait savoir que le Département d’Etat et l’Agence américaine pour le développement international sont prêts a augmenter les financements au bénéfice du gouvernement de Sanaa : le budget passerait de 67,3 millions de dollars, chiffre de l’an passé, à 106,6 millions de dollars, somme qui devrait être dépensée pour accroître la sécurité dans le pays. Par ailleurs, on sait que, depuis quelques mois, Washington a augmenté son « assistance » au gouvernement yéménite, en enregistrant des images satellitaires et en pratiquant des interceptions téléphoniques au nom de la lutte contre le terrorisme. Il s’agit de toute évidence d’organiser des raids ou de perpétrer des bombardements « sélectifs » dans le pays. Si l’on prend acte des nouvelles directives énoncées par le Pentagone,  on pourra dire, de fait, que la guerre d’Obama sera caractérisée par des opérations spéciales et secrètes, par des raids de drones et par une ingérence accrue dans les pays étrangers. En définitive, il s’agit d’une stratégie plus discrète et plus « propre » qui, on s’en doute, servira à réduire les pertes subies par les forces armées américaines. Voilà à quoi sert un Président « pacifiste ».

 

Ferdinando CALDA.

(article paru dans « Rinascita », Rome, 3 février 2010 ; trad.. franc. : Robert Steuckers).

vendredi, 05 février 2010

La guerre "pulita" di Obama

La guerra “pulita” di Obama

La nuova strategia del ministro Gates prevede più operazioni segrete, raid dei droni e finanziamenti agli Stati “deboli”

Ferdinando Calda

obama_WarIsPeace.jpgSarà una guerra diversa quella che l’amministrazione Obama ha intenzione di condurre contro il terrorismo e i nemici degli Stati Uniti. Non certo meno costosa - visto che il piano spese presentato in questi giorni dal presidente è solo lievemente inferiore a quelli presentati negli ultimi due anni del suo predecessore - ma sicuramente diversa da quella di Bush. La nuova strategia messa a punto dal ministro della Difesa Robert Gates, infatti, punta soprattutto sull’aumento delle operazioni speciali segrete, sull’utilizzo massiccio degli aerei senza pilota e su una rinnovata attenzione nei confronti degli Stati “deboli”, come Yemen e Somalia, considerati un rifugio sicuro per gli uomini di Al Qaida. In generale, Gates ha sottolineato la necessità di abbandonare la precedente politica (eredità della Guerra Fredda), che chiedeva alle forze armate di prepararsi a combattere simultaneamente in due conflitti regionali (ad esempio in Vicino Oriente e nella penisola coreana), e di sostituirla con la capacità di fronteggiare diversi conflitti minori in ogni parte del mondo. Le linee guida di questo riordino sono descritte nel Quadriennal Defense Review (QDR), il rapporto quadriennale del Pentagono presentato lunedì scorso. Il testo indica come priorità attuale delle forze armate statunitensi il “prevalere nelle guerre odierne“ e sostiene la necessità di “smantellare le reti terroristiche” in Afghanistan e in Iraq.
Dal documento emerge che i finanziamenti alle Special Operations cresceranno di quasi il 6%, arrivando a 6,3 miliardi di dollari, così da portare a 2.800 il numero dei soldati di élite e potenziare le capacità di “guerra irregolare”. È previsto anche un aumento nelle zone di guerra degli aerei senza pilota, da 37 a 67 nei prossimi due anni. Inoltre il Pentagono ha intenzione di stanziare più di un miliardo di dollari in un fondo da distribuire tra i comandanti locali in Afghanistan, nel tentativo di far diminuire il supporto ai talibani e aumentare il sostegno al governo di Kabul. Una strategia, quella di “comprare” la fedeltà dei capi tribù afgani, largamente appoggiata anche dai Paesi alleati degli Stati Uniti.
Nel piano spesa per il 2011 c’è anche una particolare attenzione per i Paesi, come lo Yemen, che a Washington considerano importanti per la sicurezza nazionale. Gli esperti del Pentagono ricordano che il fallito attentato del 25 dicembre scorso su un aereo diretto a Detroit, era stato preparato da un nigeriano che si sarebbe addestrato in un capo di Al Qaida proprio in Yemen. Per questo motivo chiedono di aumentare i finanziamenti al principale programma pubblico per l’addestramento e l’equipaggiamento delle forze di sicurezza di Paesi come lo Yemen da 350 milioni di dollari a 500 milioni. Per quanto riguarda lo Yemen in particolare, funzionari Usa hanno fatto sapere che il Dipartimento di Stato e l’Agenzia americana per lo Sviluppo internazionale sono pronti ad aumentare i finanziamenti al governo di Sana’a, passando dai 67,3 milioni di dollari dell’anno precedente, a 106,6 milioni, da spendere principalmente nell’incremento della sicurezza. Del resto sono già un paio di mesi che Washington ha aumentato la propria “assistenza” al governo yemenita, registrando immagini satellitari e intercettazioni telefoniche nel nome della lotta al terrorismo. Oltre, ovviamente, a compiere raid e bombardamenti “mirati” nel Paese. A giudicare dalle nuove linee guida del Pentagono, quindi, la guerra di Obama sarà caratterizzata da operazioni speciali segrete, raid di droni e ingerenze nei Paesi stranieri. In definitiva, una strategia più discreta e “pulita”, che, forse, servirà a ridurre le perdite tra le forze armate statunitensi. Proprio quello che serve a un presidente “pacifista”.


03 Febbraio 2010 12:00:00 - http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=599

mardi, 26 janvier 2010

Die Tragödie am Horn von Afrika

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Die Tragödie am Horn von Afrika

Wolfgang Effenberger / http://info.kopp-verlag.de/

»Was sollen wir von den erfolglosen Anschlägen mit der Unterhosen-Bombe, mit Sprengstoff in Zahnpasta- oder Shampoo-Tuben, mit explosiven Wasserflaschen oder mit in Schuhen (1) versteckten Sprengladungen halten?« (2), fragt der ehemalige stellvertretende Finanzminister von Ronald Reagan, Paul Craig Roberts. Für den früheren Herausgeber des »Wall Street Journal« sind diese tölpelhaften, unglaubwürdigen »Anschläge« auf Verkehrsflugzeuge weit entfernt von der Raffinesse, mit der »Al-Qaida« die Anschläge vom 11. September 2001 eingefädelt haben soll. Nach Roberts will uns die US-Regierung glauben machen, dass Chalid Scheich Mohammed (3) die Anschläge am 11.09. geplant, die CIA und alle anderen Geheimdienste und Sicherheitsorgane »gleich viermal an einem Morgen getäuscht und sogar Dick Cheney ausgetrickst hat und von unqualifizierten und unerfahrenen Piloten vier entführte Verkehrsflugzeuge mit bravourösen Flugmanövern in die Türme des World Trade Centers und in das Pentagon steuern ließ, wo eine Batterie modernster Luftabwehrraketen kläglich versagte« (4). Die Geschichte des 11. September ist jedoch eng verwoben mit der Carter-Doktrin von 1980 und der anschließend weitsichtig von Zbigniew Brzezinski geschaffenen Militärarchitektur in Gestalt des US-Regionalkommandos CENTCOM.

US-CENTCOM-Befehlshaber General David H. Petraeus 

 

Neben den vitalen US-Interessen in der Region des persischen Golfs lag das Augenmerk des Pentagons vor allem auch auf allen strategisch wichtigen Tankerrouten, auf denen das arabische Öl den Weg in die USA finden sollte: der lebensnotwendigen Straße von Hormus (Iran, Vereinigte Arabische Emirate) und der Zufahrt in den Suez-Kanal im Golf von Aden (Jemen, Somalia). (5)

Zur militärischen Beherrschung fehlten im arabischen Raum nur noch US-Stützpunkte und die entsprechende Einsicht bei den arabischen Staaten. Im achtjährigen Krieg des Iraks gegen den Iran ergriffen die USA Partei für den Aggressor Saddam Hussein. Als dieser in die Falle Kuwait tappte, wurden Staaten wie deren Bürger Adressaten professioneller Desinformation.

Wer erinnert sich nicht  an den berüchtigten Höhepunkt im Kampf um die Herzen der Welt?

Unter Tränen schilderte mediengerecht eine junge kuwaitische Krankenschwester im Plenarsaal des Sicherheitsrates der Vereinten Nationen am 27. November 1990, wie entmenschte irakische Soldaten 312 kuwaitische Babys aus Brutkästen gerissen und auf den Boden geklatscht hätten. Die Welt war geschockt –ebenso der Sicherheitsrat. (6) Zwei Tage später gab der UN-Sicherheitsrat mit der einstimmig gefassten UN-Resolution 678 grünes Licht für militärische Gewalt gegen den Irak. Erst später wurde bekannt, dass als »Kronzeugin« delikaterweise die 15-jährige Tochter Nayriah des kuwaitischen UN-Botschafters aufgetreten war. Die Gräuelstory war erlogen und von 20 Lobby- und PR-Agenturen unter der Leitung der weltgrößten PR-Firma Hill & Knowlton inszeniert worden. (7)

Gleichzeitig wurden der saudischen Regierung amerikanische Satellitenaufnahmen vorgelegt. Aus vorgetäuschten irakischen Panzerspuren schloss das Pentagon auf Angriffsabsichten. (8) Das Manöver gelang ebenfalls und die USA durften im Land der heiligen Stätten des Islams 200.000 Soldatinnen und Soldaten stationieren. 

In der Endphase des Kalten Krieges eröffnete eine alliierte Koalition aus 33 Staaten in den frühen Morgenstunden des 17. Januar 1991 mit einer Luftoffensive die Kampfhandlungen gegen den Irak. (9) Noch war es für das gerade wiedervereinigte Deutschland unvorstellbar, außerhalb des NATO-Gebietes Bundeswehreinheiten in dieser alliierten Koalition kämpfen zu lassen. Dafür diente die Bundesrepublik als Drehscheibe für den Golfnachschub und als wichtiger Finanzier dieses Krieges. Nach einem Informationserlass des Auswärtigen Amtes vom 19. Februar 1991 hatte Bonn bis zu diesem Zeitpunkt etwa 17 Milliarden D-Mark gezahlt. (10) Schließlich wurden deutsche Minensuchboote in den Persischen Golf entsandt. (11) Viele Entscheidungen traf die rot-grüne Regierung nahezu im Verborgenen. »Wo das nicht möglich war, entwickelte sich rasch eine heftige öffentliche Debatte.« (12)

In fieberhafter Eile entstanden nun zahlreiche Strategiepapiere, um der Bundeswehr für kommende Auslandseinsätze eine Legitimationsgrundlage zu geben. General Naumann brachte die politischen, wirtschaftlichen und militärische Interessen auf den Punkt: die »Aufrechterhaltung des freien Welthandels und des strategischen Zugangs zu Märkten und Rohstoffen« (13). In den Verteidigungspolitischen Richtlinien (VPR) von 1992 werden diese imperialen Ziele mit dem Zusatz »im Rahmen einer gerechten Weltwirtschaftsordnung« (14) notdürftig kaschiert. Die »neue« Bundeswehr durfte nun zum Schutz der wirtschaftlichen Interessen Deutschlands »im erweiterten geografischen Umfeld« (15) eingesetzt werden. Weltweit gewannen nunmehr »regionale Krisen und Konflikte und nichtmilitärische Risiken an Virulenz und Brisanz«. Nach den Verteidigungspolitischen Richtlinien (VPR) ließe sich nun die Sicherheitspolitik »weder inhaltlich noch geografisch eingrenzen« und müsse »risiko- und chancenorientiert angelegt« sein.(16) Humanitäre Ziele kommen hier nicht vor.

Über ein Jahr nach den beängstigenden Bildern vom Golfkrieg gingen erschütternde Bilder hungernder Somalis um die Welt –  Ende 1992 sollen bereits 350.000 von ihnen an Hunger gestorben sein. Erfolglos hatten bis dahin die Hilfsorganisationen auf die katastrophalen Zustände im bürgerkriegsgeschüttelten Land aufmerksam gemacht.

Die Medien des Westens wurden erst aktiv, nachdem die US-Regierung ihre militärischen Pläne für Somalia ausgearbeitet hatte.

 

 

Am 21. November 1992 hatte der Nationale Sicherheitsrat (NSC) US-Präsidenten Bush (sen.) empfohlen, in Somalia zu intervenieren. Während General Colin Powell das Militär nur zur Unterstützung der politischen Maßnahmen einsetzen wollte, verlangte das US-Außenministerium  eine politische wie militärische Präsenz. (17) Unter dem somalischen

Diktator Siad Barre hatten vier US-Ölmulties – Conoco, Amoco, Chevron und Philipps –Verträge über Forschungs- und Bohrrechte abgeschlossen. (18)

Angesichts der strategisch-geografischen Lage und seiner als bedeutend eingestuften Bodenschätze (Erdöl, Uran) scheinen ausschließlich humanitäre Ziele eine untergeordnete Rolle gespielt zu haben. Erwartungsgemäß entschied sich der Präsident für die härtere Option.

Zwölf Tage später übertrug die UN-Resolution 794 den Vereinigten Staaten die Führung in Somalia. Zum ersten Mal in der Geschichte der UN wurde eine Friedensmission mit der Durchführung militärischer Sanktionen verknüpft. (19)

Am 4. Dezember erhielt der  Oberbefehlshaber von US-CENTCOM, General Joseph P. Hoar, auch den Oberbefehl über die mehr als 28.000 nach Somalia entsandten Soldaten.

Als Ziel dieser CENTCOM-Militäroperation mit dem klingenden Namen Restore Hope galt es, die Flug- und Seehäfen, die Transportrouten wie auch die Schlüsselbereiche der Infrastruktur militärisch zu sichern. Darüber hinaus sollten auch die Hilfsorganisationen  unterstützt werden. (20)

Erste Zweifel an den humanitären Absichten kam auf, als Conoco Somalia Ltd. dem amerikanischen Gesandten Robert B. Oakley und seinem Stab ihre technisch gut ausgerüstete Zentrale in Mogadischu zur Verfügung stellte. (21)

So kommentierte die Zeitschrift The Nation am 21. Dezember 1992 den US-Einsatz in Somalia mit den Worten, Somalia sei »einer der strategisch heikelsten Punkte der heutigen Welt. Israelis und Iraner, Araber und islamische Fundamentalisten suchten dort Einfluss zu gewinnen – da könnten die USA nicht abseits stehen« (22).

Für die Bundesrepublik bot sich die Katastrophe in Somalia als die Gelegenheit, den angestrebten Bundeswehreinsatz außerhalb des NATO-Gebietes mit Zustimmung weiter Bevölkerungskreise zu proben. Bereits im August 1992 versorgte die Bundesluftwaffe von einem im kenianischen Mombasa eingerichteten Lufttransportstützpunkt für Transall-Flugzeuge die notleidenden Somalis in Mogadischu, Bardera und Hoddur mit Hilfsgütern.

Am 14. Mai 1993 trafen im somalischen Mogadischu die ersten Transportmaschinen der Bundeswehr mit Material für die Ausrüstung der 1.700 deutschen »Blauhelm-Soldaten« ein. Die Bundeswehr sollte im Rahmen der UN-Operation UNOSOM II (23) Versorgungsaufgaben im befriedeten Raum Beledweyne/Belet-Huen übernehmen und zaghaft an neue »Aufgaben« herangeführt werden.

Drei Monate später versorgte der 1.700 Soldaten starke deutsche Unterstützungsverband die zum Schutz der Deutschen in Belet Huen stationierten 500 italienischen Blauhelmsoldaten.

Daneben durfte sich die Bundeswehr brunnenbohrend an der humanitären Front hervortun. Sieben Brunnen wurden ausgebessert oder neu gebohrt, sechs Straßen und drei Dämme repariert, sieben Schulen und ein Waisenhaus gebaut (24).

Als Repräsentant des Generalsekretärs der UNO führte US-Admiral Jonathan Howe die multinationalen UN-Streitkräfte und steuerte die humanitären Missionen. Daneben hatte das Hauptkontingent der eingesetzten US-Soldaten mit ihren Task Force Rangern gemäß der UN-Resolution 837 die militärische Aufgabe, die Clan-Führer und den Kriegsherren Mohamed Farrah Aidid gefangen zu nehmen.

Da anscheinend weder die politischen Führer der USA und der UNO und schon gar nicht die US-Kommandeure vor Ort Lösungsvorschläge für die komplexen somalischen Probleme hatten, lag die Versuchung einer militärischen Lösung nahe. Doch bald verlor die Interventionsarmee durch ihre einseitige Parteinahme für Barre ihre Neutralität und wurde selbst zur kriegsführenden Partei, durch deren Angriffe aus der Luft und am Boden zunehmend Zivilpersonen getötet wurden. (25) Dadurch wurde eine Stimmung der Feindschaft gegenüber westlichen Organisationen geschaffen.

Bei dem Angriff auf die Clan-Führer verloren am 3. Oktober 1993 18 Ranger ihr Leben. Anschließend demütigten grauenvolle Bilder die einzige Weltmacht. Somalische Milizen schleiften die an Lastwagen gebundenen Leichname der US-Ranger durch die staubigen Straßen von Mogadischu. Amerika zog seine Streitkräfte im März 1994 zurück.

Im gleichen Monat verließ das letzte Bundeswehrkontingent die somalische Hauptstadt. Auf der »humanitären Leistungsbilanz« schlagen allein bis Ende 1993 Kosten für die Bundeswehr in Höhe von 331 Millionen DM zu Buche. Demgegenüber stehen 2,34 Millionen DM, die den  Somalis für »humanitäre Aktivitäten« und »medizinische Leistungen« zugute kamen. (26) UNOSOM endete in einer Hungersnot und Somalia verschwand aus dem Blickfeld der Medien. (27) Das Scheiterns der UN-Intervention in Somalia veranlasste US-Präsidenten Bill Clinton zu einer Präsidentendirektive (PDD 25). (28) Sie wendet sich gegen internationale Einheiten der UNO und verbietet jede Unterstellung von Truppen der USA unter einen Oberbefehl der UNO. Friedensmissionen der UN werden an enge Restriktionen gebunden. Vor dem Eingreifen sind folgenden Fragen  zu beantworten: Fördert die Intervention amerikanische Interessen? Sind die Ziele der Intervention klar definiert? Was kostet das Unternehmen? Gibt es für den Fall des Misserfolgs eine Exit-Strategie?

Erst nach dem 11. September 2001 und dem folgenden Angriff auf das Taliban-Regime in Afghanistan geriet Somalia wieder in die Schlagzeilen. Und nicht zuletzt wegen des von Jerry Bruckheimer produzierten Streifens Black Hawk Down, ein Heldenepos vom berühmtesten Kriegsfilmer und seines Starregisseurs Ridley Scott. Schützenhilfe für den neu entflammten Hurra-Patriotismus in den USA. Präsident Bill Clinton bezeichnete die Militäraktion als eine der »dunkelsten Stunden seiner Amtszeit« und verzichtete danach zum Kummer von Zbigniew Brzezinski auf ein übermäßiges militärisches Engagement im Ausland. Gegen dieses »Somalia-Syndrom« setzte Bruckheimer den individuellen Mut und das Heldentum der allein gelassenen Somalia-Soldaten. Die zweieinhalbstündige Verfilmung des Gemetzels dichtete nun diese katastrophale Militäraktion zu einem Heldenepos um und zeigt auf, dass der 93er-Einsatz der Special Forces die leuchtendste Stunde des amerikanischen Kämpfers war!

Mit derartigen Vorbildern wurde drei Wochen nach dem Terroranschlag der Krieg gegen Afghanistan begonnen. Der Vorwand, den saudischen Osama bin Laden nicht schnell genug ausgeliefert zu haben, reichte aus. Keine Militärmacht der Welt ist in der Lage, innerhalb von drei Wochen einen derartigen Krieg diplomatisch wie logistisch vorzubereiten.

Die militärische Vergeltungsaktion gegen die Taliban, die mithilfe der NATO-Verbündeten vollstreckt wurde, stand im Dienste der geostrategischen US-Interessen – niedergelegt im Seidenstraßen-Strategie-Gesetz. Mit der Errichtung von Militärbasen in Afghanistan und Usbekistan sicherten die USA ihren Einfluss auf die strategisch bedeutsamen Öl- und Gasrouten. In der Region ihres Regionalkommandos CENTCOM  zielt die US-Politik darauf ab, ihre Wettbewerber im Ölgeschäft, darunter Russland, den Iran und China, zu schwächen und schließlich zu destabilisieren.

Zugleich müssen die eigenen Transportwege gesichert werden. Die US-Regierung wacht weltweit argwöhnisch über die sechs strategisch wichtigsten Nadelöhre in den Wasserstraßen – sogenannte »chokepoints«. Allein drei von ihnen, die Straße von Hormus, der Suez-Kanal und die Straße Bab el Mandeb liegen im Bereich von CENTCOM. Bab el Mandeb, zwischen dem Jemen und Somalia gelegen, ist ein »chokepoint« zwischen dem Horn Afrikas und dem Nahen Osten sowie einer strategischen Verbindung zwischen Mittelmeer und dem Indischen Ozean. (29)

 Jemen und Somalia sind nicht nur die Backenzangen für das Nadelöhr Bab el Mandeb, sondern haben auch eine vergleichbare geologische Konfiguration. In beiden Ländern werden umfangreiche Ölreserven vermutet. Auch werden die USA versuchen, die Aktivitäten Chinas und seiner Ölfirmen im Gebiet des Horns von Afrika, Kenias, und Äthiopiens, und des westlichen Afrikas einzudämmen. (30)

Diese Gedanken scheinen auch in die Operation Enduring Freedom eingeflossen zu sein. Im Zuge dieser Operation kamen nach nur acht Jahren wieder deutsche Soldaten nach Somalia.

Diesmal lautete der Auftrag: Bekämpfung des internationalen Terrorismus, die  Überwachung des Schiffsverkehrs und die Unterbrechung von Versorgungslinien terroristischer Organisationen. Seither patrouilliert ein deutscher Flottenverband mit einer Stärke von insgesamt 1.800 Marinesoldaten mit drei Fregatten und fünf Schnellbooten vom Roten Meer bis vor die Küste Kenias sowie bis zur Straße von Hormuz und umfasst ein Seegebiet von etwa der achtfachen Größe Deutschlands. Zur Unterstützend sind Aufklärungsflugzeuge und Versorgungseinheiten in Mombasa (Kenia) und Djibouti stationiert. Während Somalia weiter leidet, stieg im letzten Jahr die Zahl der erfolgreichen Piratenüberfälle dramatisch an. Spätestens jetzt stellt  sich die Frage, wer den somalischen »Piraten« die notwendige Logistik zur Verfügung stellt.

Anfang Januar 2010 behauptete der britische Premierminister Gordon Brown, Al-Qaida sei aufgrund der Kämpfe in Pakistan in den Jemen und nach Somalia ausgewichen. (31) Dort gelte es nun die Anti-Terrorzusammenarbeit zu stärken. Keine guten Aussichten für den Jemen und für Somalia.

Weitaus schlechter scheint es jedoch um die Darlegung der aufrichtigen Motive in diesem »großen Spiel« zu stehen. Der  Öffentlichkeit sollen die wahren Interessen verborgen bleiben. Für Paul Craig Roberts wurden die »Vereinigten Staaten und ihre verbündeten Marionettenstaaten nur mit Lügen und Betrug in die Kriege im Mittleren Osten und in Afghanistan gelockt«. Angesichts der Fülle von Täuschungen, Verdrehungen und Ungereimtheiten stellt Craig ernüchternd fest: »In Amerika ist schließlich alles käuflich. Die Rechtschaffenheit wurde vom Winde verweht.« (32)

__________

Anmerkungen:

(1) 2001 wurde auf dem Flug von Paris nach Miami beim »Schuh-Bomber« Richard Reid ebenfalls wie beim »Unterhosen-Bomber« der Sprengstoff Pentrit in den Schuhabsätzen gefunden.

(2) Roberts, Paul Craig: »Is Anyone Telling Us The Truth?«, INFORMATION CLEARING HOUSE, 08.01.2010, http://www.informationclearinghouse.info/article24352.htm.

(3) Chalid Scheich Mohammed, unter http://de.wikipedia.org/w/index.php?title=Chalid_Scheich_Mohammed&printable=yes; vgl. Die Presse, »Zweifel an 9/11-Geständnis: Prahlerei oder gefolterte Aussagen?«, vom 16. März 2007.

(4) Siehe (2).

(5) Der Bosporus und die Dardanellen (NATO-Partner Türkei!) sind wichtig, um der russischen Flotte den Zugang zum Mittelmeer und den Atlantik über das eisfreie Schwarze Meer zu verwehren. Der Streit um den NATO-Beitritt der Ukraine und die Nutzung der Krim als russischer Flottenstützpunkt unterstreichen diese Aussage. Geopolitik pur!

(6) MacArthur, John: Die Schlacht der Lügen, München 1993, S. 70.

(7) Deschner, Karlheinz: Der Moloch. Eine kritische Geschichte der USA, München 200, S. 369f.

(8) Konzelmann, Gerhard: Insch’Allah. Der Kampf ums Öl, München 2003, S. 213.

(9) Zuvor hatte die Bundesluftwaffe 18 Alpha-Jets des Jagdbombergeschwaders 43 auf die türkische Basis Erhac verlegt, während nach Diyarbakir Hawk-Staffeln, Hubschrauber und Spürpanzer verlegt wurden.

(10) Vgl. Auswärtiges Amt (Hrsg.), Außenpolitik der Bundesrepublik Deutschland. Dokumente von 1949 bis 1994, Köln 1995, S. 793.

(11) Während des 2. Golfkrieges waren unter anderem elf Kampf- und sechs Unterstützungseinheiten mit insgesamt 2.300 Bundeswehrsoldaten im Mittelmeer eingesetzt.

(12) Schöllgen, Gregor: Zehn Jahre als europäische Großmacht. Eine Bilanz deutscher Außenpolitik seit der Vereinigung Aus Politik und Zeitgeschichte (B 24/2000).

(13) Naumannsches Strategie-Papier, Vorlage an den Verteidigungsausschuss des Deutschen Bundestages zur Sitzung am 20.01.1991, zitiert aus: Jürgen Grässlin, Lizenz zum Töten?, Knaur, 1997, S  360.

(14) Verteidigungspolitische Richtlinien (VPR) vom 26.11.1992, Pkt. 8, zitiert aus: Grässlin, S. 361.

(15) VPR, Pkt. 18, zitiert aus: Grässlin, S. 362.

(16) VPR, Pkt. 24, zitiert aus: Grässlin, S. 59.

(17) Oakley Interview, 14 March 1995.

(18) Fineman, Mark: »Why Are We Really In Somalia? ›THE OIL FACTOR IN SOMALIA‹«,  Los Angeles Times, 18. Januar 1993.

(19) Die VN-Resolution SR 794 vom 3. Dezember 1992 erlaubte mit dem ausdrücklichen Verweis auf Kapitel VII der UN-Vollzugsbestimmungen einen kraftvollen Militäreinsatz.

(20) Allard, Kenneth: Colonel US Army, Somalia Operations: Lessons Learned, Fort McNair, Washington DC: National Defense University Press, January 1995, S. 16.

(21) Oberstein, Jochen: Den USA geht es ums Öl. Amerikanische Ölgesellschaften sicherten sich schon vor Ausbruch des Bürgerkriegs Erdölkonzessionen. »Weltbank: Öl ist da, kein Zweifel«, aus Focus Nr. 29 vom 19. Juli 1993, http://www.focus.de/politik/ausland/somalia-den-usa-geht-es-ums-oel_aid_141804.html.

(22) Zitiert in Müller, Karl: »›The dirty game‹ – Soll es nun Somalia treffen?«, Zeit-Fragen, Nr. 48, vom 02.12.2001.

(23) Diese Operation in Somalia lief dann in drei Phasen ab: Während des Jahres 1992 UNOSOM I, dieser ersten Phase schloss sich von Dezember 1992 bis Mai 1993 die US-Operation Restore Hope an und endete in der dritten Phase von Mai 1993 bis März 1995 als UNOSOM II.

(24) Davon wurden jedoch eine Schule wieder zerstört, ein errichtetes Krankenhaus geplündert, ein Damm ebenfalls zerstört und mehrere Brunnen durch Minen unbenutzbar gemacht.

(25)  www.zeit-fragen.ch/ARCHIV/ZF_87a/T24.HTM; www.fair.org/extra/9303/somalia.html.

(26) Spiegel, Nr. 4 vom 24. Januar 1994, http://www.spiegel.de/spiegel/print/d-13687658.html.

(27) Hendrickson, Alan G.: Somalia: »Strategic Failures and Operational, Marine Corps Command and Staff College«, April 1995, unter  www.globalsecurity.org/military/library/report/1995/HAG.htm.

(28) Presidential Decision Directive No. 25 aus dem Mai 1994; Vgl. White House: »The Clinton Administration’s Policy on Reforming Multilateral Peace Operations«, May 1994.

(29) US Government, Department of Energy, Energy Information Administration, Bab el-Mandab, accessed in http://www.eia.doe.gov/cabs/World_Oil_Transit_Chokepoints/Full.html.

(30) Engdahl, William F.: »A Peek Behind Bush II’s ›War on Tyranny‹ vom 13. Februar 2005, unter http://globalresearch.ca/articles/ENG502A.html sowie Chin, Larry: »US covert operations underway in Somalia; resource conflict escalates over Horn of Africa«, in Global Research vom 27. Mai 2006.

(31) Rozoff, Rick: »U.S., NATO Expand Afghan War To Horn Of Africa And Indian Ocean«, in Global Research vom 8. Januar 2001.

(32) Siehe (2).

 

Dienstag, 19.01.2010

Kategorie: Allgemeines, Gastbeiträge, Geostrategie, Wirtschaft & Finanzen, Politik

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lundi, 25 janvier 2010

Amerikaans protectoraat Haiti

us-solider-in-haiti-2004.jpgAmerikaans protectoraat Haïti

Voor ik begin met waar het artikel vooral over gaat, wil ik nog even iets delen wat ik gevonden heb over Haïti in het boek “Ondergang” van Jared Diamond. Wanneer men spreekt over de toestand in Haïti lijkt het alsof de meeste mensen totaal uit de lucht vallen over hoe slecht dat land geleid wordt. Jared Diamond schreef echter al in 2004 over Haïti:

Haïti beslaat nauwelijks een derde van het oppervlak van het eiland Hispaniola, maar herbergt wel bijna twee derde van de bevolking van het eiland (ongeveer 10 miljoen) en heeft een gemiddelde bevolkingsdichtheid van bijna 358 mensen per vierkante kilometer. [...] De markteconomie is bescheiden en bestaat voornamelijk uit de productie van wat koffie en suiker voor de export, kleding en enkele andere exportproducten die in vrijhandelszones en tegen lage lonen door ongeveer 20.000 mensen worden gefabriceerd, enkele vakantie-enclaves langs de kust waar buitenlandse toeristen zich kunnen onttrekken aan de problemen van Haïti en een grote maar niet nader te definiëren handel in drugs die vanuit Colombia worden verscheept naar de Verenigde Staten (vandaar dat Haïti soms een narcostaat wordt genoemd). Er is sprake van extreme polarisatie tussen de massa’s armen op het platteland of in de sloppen van de hoofdstad Port-au-Prince en een kleine rijke elite in de koelere buitenwijk Pétionville in de bergen [...] Haïti’s bevolkingsgroei en de mate van besmetting met aids, tubercolose en malaria behoren tot de hoogste in de Nieuwe Wereld. Iedereen die Haïti bezoekt, vraagt zich af of er nog hoop is voor dit land en het meest gehoorde antwoordt luidt: ‘Nee’.”

Men kan alleen al op dit vlak duidelijk besluiten dat Haïti reeds lange tijd grote politieke en maatschappelijke problemen kende. Een bijkomend probleem daarbij is dan ook nog eens de evolutie op het vlak van milieu die men in Haïti ziet op geen enkel vlak positief kan noemen:

[...]gedwongen door armoede bleef de bevolking van Haïti afhankelijk van uit hout bereide houtskool als brandstof, waardoor de vernietiging van de laatste bossen werd versneld

De Amerikaanse interventie zou wel eens meer dan enkel humanitair kunnen zijn

En dan heb ik het nog niet gehad over de talrijke Amerikaanse interventies in de landen ten zuiden van hun grenzen, een constante doorheen de Amerikaanse geschiedenis. Zo werd Haïti door Amerika bezet tussen 1915 en 1934 en in 2004 zorgde een Amerikaanse militaire interventie voor het afzetten van hun vorige president. Ook zorgde Amerikaanse druk dat Haïti neoliberale maatregelen nam i.v.m. hun landbouw in de jaren ‘90, waardoor hun economie volledig het slachtoffer werd van grote en machtige buitenlandse bedrijven. Het lijkt er nu dan ook op dat de VSA van Haïti een protectoraat zou maken, uiteraard onder hun bescherming. Wanneer men kijkt naar de militaire machtsontplooiing van de VSA, kan men enkel een bevestiging hiervan zien. Zo zullen binnenkort ongeveer 11.000 à 12.000 Amerikaanse soldaten aanwezig zijn op Haïti. Ook de Franse minister van Ontwikkelingssamenwerking Alain Joyandet heeft hier reeds zijn beklag over gemaakt toen hij terugkeerde uit Haïti: “Referring to the turning back of a French aid flight by US force last week in the congested airport in Haiti’s capital, French Cooperation Minister Alain Joyandet complained the US military had monopolized the airport. ”This is about helping Haiti, not about occupying Haiti,” he said on French radio, in Brussels for an EU meeting on Haiti. Joyandet said he expects the United Nations to investigate the problem of how governments should work together in Haiti and hopes “things will be clarified concerning the role of the United States”.”

Ook de Venezolaanse president Chavez deed reeds zijn beklag:  “I read that 3,000 soldiers are arriving, Marines armed as if they were going to war. This is not a shortage of guns there, my God. Doctors, medicine, fuel, field hospitals, that is what the United States should send,” Chavez said on his weekly television address, “They are occupying Haiti in an undercover manner.” ”You don’t see them in the streets. Are they picking up bodies? … Are they looking for the injured? You don’t see them. I haven’t seen them. Where are they?” he added. Chavez also said he did not mean to depreciate US humanitarian efforts and was only questioning the need for so many troops.

Maar ook in de Amerikaanse pers kwam er commentaar op de Amerikaanse militaire inzet: “The American weekly Time published on Saturday a commentary named The US Military in Haiti: A Compassionate Invasion, saying that “Haiti, for all intents and purposes, became the 51st state at 4:53 pm on Tuesday in the wake of its deadly earthquake. If not a state, then at least a ward of the state — the United States.”

Mijn inziens wilt Amerika inderdaad de controle, zeker de komende periode, zo strak mogelijk overnemen. En uiteraard zullen zij, en de Haïtiaanse regering, dit ontkennen. De Amerikanen willen immers niet overkomen als de imperialisten en de Haïtiaanse politici willen niet overkomen als onbekwaam en delen van een staat die hopeloos corrupt is. Beide proberen zo echter gewoon de waarheid te ontkennen. Met een striktere controle over Haïti kan de VSA drugslijnen richting hun land afstoppen en eventuele militaire basissen zijn altijd goed meegenomen om hun controle over hun Amerikaans hinterland te behouden.

Interessant is ook de volgende stelling van Chavez: http://www.depers.nl/opmerkelijk/400826/Aardbeving-Haiti-experiment-van-VS.html? : De aardbeving op Haïti is veroorzaakt door een experiment van de Verenigde Staten. Dat schrijft het Venozolaanse ministerie van Communicatie en Informatie. Het ministerie baseert zich op onderzoek van de Noordelijke Russische Vloot, die vlootbewegingen van de VS in de Caribische Zee, waar Haïti ligt, zou volgen. Het Russische onderzoek heeft volgens het Venozolaanse ministerie uitgewezen dat de Amerikaanse marine met een van zijn ‘aardbevingswapens’ de beving teweeg heeft gebracht. Het ministerie stelt dat de Amerikanen sinds het eind van de jaren 70 hun ‘aardbevingswapens’ enorm hebben verbeterd. Een van de volgende doelwitten is Iran, aldus het Venozolaanse miniserie van Communicatie en Informatie. Als dit waar zou zijn, dan plaatst dit heel de Amerikaanse interventie in een heel, en helaas herkenbaar imperialistisch, licht…

 

Opmerkelijk: “Dat ze Haïti aan de blanken geven”

Bronnen

dimanche, 17 janvier 2010

Jemen: Tummelplatz für "al Qaida" oder geopolitischer Engpass für Eurasien

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Jemen: Tummelplatz für »al Qaida« oder geopolitischer Engpass für Eurasien

F. William Engdahl / http://info.kopp-verlag.de/

Am 25. Dezember 2009 wurde in den USA der Nigerianer Abdulmutallab verhaftet, weil er versucht hatte, ein Flugzeug der »Northwest Airlines« auf dem Flug von Amsterdam nach Detroit mit eingeschmuggeltem Sprengstoff in die Luft zu sprengen. Seitdem überschlagen sich die Medien, von CNN bis zur »New York Times«, mit Meldungen, es bestehe der »Verdacht«, dass er im Jemen für seine Mission ausgebildet worden sei. Die Weltöffentlichkeit wird auf ein neues Ziel für den »Krieg gegen den Terror« der USA vorbereitet: Jemen, ein trostloser Staat auf der arabischen Halbinsel. Sieht man sich jedoch den Hintergrund etwas genauer an, dann scheint es, als verfolgten das Pentagon und der US-Geheimdienst im Jemen ganz andere Pläne.

Seit einigen Monaten ist die Welt Zeuge einer immer offener zutage tretenden militärischen Einmischung im Jemen, einem trostlosen Land, das im Norden an Saudi-Arabien, im Westen an den Golf von Aden und im Süden an das Arabische Meer grenzt. An der gegenüberliegenden Küste liegt ebenfalls ein trostloses Land, das in jüngster Zeit Schlagzeilen macht, nämlich Somalia. Alles deutet darauf hin, dass das Pentagon und der US-Geheimdienst dabei sind, die Meerenge Bab el-Mandeb, einen strategischen Engpass für die Ölversorgung der Welt, zu militarisieren. Den Vorwand dafür bieten die Übergriffe somalischer Piraten und die angebliche neue Bedrohung durch al Qaida aus dem Jemen. Außerdem finden sich im Grenzgebiet zwischen dem Jemen und Saudi-Arabien unerschlossene Ölvorkommen, die zu den größten der Welt zählen sollen.

Der 23-jährige Nigerianer Abdulmutallab, dem der vereitelte Bombenanschlag zur Last gelegt wird, hat angeblich erzählt, er sei von der »al Qaida auf der Arabischen Halbinsel« (AQAP) im Jemen auf seine Mission vorbereitet worden. Dementsprechend richtet sich nun die Aufmerksamkeit der Welt auf den Jemen als neues Zentrum der angeblichen Terrororganisation al Qaida.

 Passend dazu schrieb Bruce Riedel, der 30 Jahre für die CIA tätig gewesen war und Präsident Obama in der Frage der Truppenverstärkung in Afghanistan beraten hatte, in seinem Blog über die angeblichen Verbindungen des Bombers von Detroit zum Jemen: »Der Versuch, am Weihnachtstag das Flugzeug der Northwest Airlines auf dem Flug 253 von Amsterdam nach Detroit in die Luft zu sprengen, ist ein erneuter Beweis für den wachsenden Ehrgeiz von al Qaidas Ableger im Jemen, der mittlerweile nicht mehr nur Ziele im Jemen verfolgt, sondern seit dem vergangenem Jahr bei der weltweiten islamischen Jihad mitmischt … Die schwache jemenitische Regierung von Präsident Ali Abdallah Salih, die das Land nie wirklich in den Griff bekommen hat und jetzt mit wachsenden Problemen konfrontiert ist, wird im Kampf gegen AQAP signifikante amerikanische Unterstützung benötigen. (1)

 

Grundzüge der Geopolitik im Jemen

Bevor wir mehr über den jüngsten Zwischenfall sagen können, lohnt es sich, die Lage im Jemen genauer unter die Lupe zu nehmen. Hier gibt es einige Auffälligkeiten im Lichte des von Washington erhobenen Vorwurfs, al Qaida werde auf der Arabischen Halbinsel wieder aktiv.

Anfang 2009 begannen sich die Figuren auf dem jemenitischen Schachbrett zu bewegen. Tariq al-Fadhli, ein ursprünglich aus dem Jemen stammender früherer Jihad-Führer, kündigte nach 15 Jahren seine Allianz mit der jemenitischen Regierung von Präsident Ali Abdullah Saleh auf und erklärte, er werde sich der als Southern Movement (SM) bekannten breiten Oppositionskoalition anschließen. Al-Fadhli hatte Ende der 1980er-Jahre den Mudschaheddin in Afghanistan angehört. Über sein Zerwürfnis mit der Regierung wurde im April 2009 in den arabischen und jemenitischen Medien berichtet. Al-Fadhlis Bruch mit der Diktatur im Jemen gab der Southern Movement neuen Auftrieb. Heute gehört er der Führung dieser Allianz an.

Der Staat Jemen selbst ist ein synthetisches Gebilde, das im Jahr 1990 entstand, als die südliche Demokratische Volksrepublik Jemen nach dem Zusammenbruch der Sowjetunion ihren wichtigsten ausländischen Unterstützer verlor. Die Vereinigung der Arabischen Republik Jemen im Norden und der Demokratischen Volksrepublik Jemen im Süden weckte kurzfristig Hoffnungen, denen jedoch 1994 ein kurzer Bürgerkrieg ein Ende bereitete. Damals organisierten Teile der Armee des Südens einen Aufstand gegen die Herrschaft von Präsident Ali Abdullah Saleh, den sie als Handlanger des Nordens betrachteten. Saleh hat seit 1978 als Alleinherrscher regiert, zunächst als Präsident der Arabischen Republik Jemen im Norden und ab 1990 als Präsident der neuen vereinigten Republik Jemen. Der Aufstand scheiterte, weil Saleh al-Fadhli und andere konservative islamistische Salafisten und Jihadisten für den Kampf gegen die ehemals marxistischen Kräfte der Jemenitischen Sozialistischen Partei im Süden gewinnen konnte.

Vor 1990 hatten Washington und Saudi-Arabien Saleh und seine Politik der Islamisierung als Mittel zur Eindämmung des kommunistischen Südens unterstützt. (2) Seitdem stützt Saleh seine Einmann-Diktatur auf eine starke salafistisch-jihadistische Bewegung. Dass nun al-Fadhli mit Saleh bricht und sich der südlichen Oppositionsgruppe seiner ehemaligen sozialistischen Widersacher anschließt, bedeutet für Saleh einen herben Rückschlag.

Kurz nachdem sich al Fadhli der Southern-Movement-Koalition angeschlossen hatte, gab es am 28. April 2009 in den südjemenitischen Provinzen Lahj, Dalea und Hadramout Protestkundgebungen. Zehntausende ehemalige Militärangehörige und Zivilangestellte demonstrierten für bessere Bezahlung und Zuschüsse. Solche Proteste hatte es bereits seit 2006 immer häufiger gegeben. Bei den Demonstrationen im April trat al-Fadhli zum ersten Mal öffentlich in Erscheinung. Das gab der lange vor sich hin dümpelnden sozialistischen Bewegung im Süden Auftrieb für eine breitere nationalistische Kampagne. Auch Präsident Saleh wurde dadurch aufgeschreckt und rief Saudi-Arabien und die anderen Mitgliedsstaaten des Gulf Cooperation Council auf, zu helfen, denn andernfalls werde die gesamte Arabische Halbinsel unter den Folgen zu leiden haben.

Das Bild in dem Land, das manche auch als »gescheiterten Staat« bezeichnen, wird dadurch noch komplizierter, dass Saleh im Norden mit einer Rebellion der schiitischen al-Houthi-Gruppe konfrontiert ist. Im September 2009 warf Saleh den Führer der schiitischen Opposition im Iran und Irak Muktada al-Sadr vor, die zaydischen schiitischen Huthi-Rebellen im Norden zu unterstützen. Bei einem Fernsehinterview mit Al Jazeera, das ausgerechnet am 11. September ausgestrahlt wurde, erklärte Saleh: »Wir können die offizielle Seite im Iran nicht beschuldigen, aber die Iraner haben sich an uns gewandt und sich zur Vermittlung bereit erklärt. Also haben die Iraner doch Kontakte zu ihnen [den Houthis], wenn sie zwischen der jemenitischen Regierung und ihnen vermitteln wollen. Auch Muktada al-Sadr in Najaf im Irak hat sich als Vermittler angeboten. Das heißt, es bestehen Verbindungen.« (3)

Die jemenitischen Behörden haben nach eigenem Bekunden Lager von im Iran hergestellten Waffen entdeckt, während die Houthis behaupten, sie hätten jemenitische Ausrüstung mit saudi-arabischer Aufschrift gefunden; sie werfen Sanaa vor, als Stellvertreter Saudi-Arabiens zu operieren. Der Iran hat die Meldungen, wonach iranische Waffen im Nordjemen gefunden worden seien, dementiert, es gebe, anders als diese behaupteten, keine Unterstützung für die Rebellen. (4)

 

Was ist mit al Qaida?

Es entsteht das Bild von Präsident Saleh als einem desperaten, von den USA gestützten Diktator, dem nach zwei Jahrzehnten despotischer Herrschaft über den nunmehr vereinigten Jemen zunehmend die Kontrolle entgleitet. Wirtschaftlich geht es im Land steil bergab, nachdem der Ölpreis 2008 drastisch gefallen ist. Etwa 70 Prozent der Einkünfte des Jemen stammen aus dem Verkauf von Öl. Die Zentralregierung von Präsident Saleh hat ihren Sitz in Sanaa im ehemaligen Nordjemen, die Ölquellen liegen im Südjemen. Trotzdem hat Saleh die Kontrolle über die Einkünfte aus dem Ölexport. Doch angesichts zurückgehender Erlöse wird es für Saleh immer schwerer bis unmöglich, die Oppositionsgruppen wie gewohnt einfach zu kaufen.

In diese chaotische innenpolitische Lage platzte im Januar 2009 die auf ausgewählten Internetseiten veröffentlichte Ankündigung, al Qaida, die angebliche Terrororganisation des von der CIA ausgebildeten Saudi-Arabers Osama bin Laden, habe im Jemen eine eigene Abteilung aufgebaut, die im Jemen selbst und in Saudi-Arabien aktiv werden wolle.

Am 20. Januar 2009 veröffentlichte al Qaida auf jihadistischen Online-Foren eine Erklärung von Nasir al-Wahayshi, der die Bildung einer eigenständigen al-Qaida-Gruppe auf der Arabischen Halbinsel unter seiner Führung ankündigte. Nach seinen Angaben sollte die neue Gruppe, die  »al Qaida auf der Arabischen Halbinsel« aus seiner früheren al-Qaida-Gruppe im Jemen und Mitgliedern der nicht mehr aktiven al-Qaida-Gruppe in Saudi-Arabien bestehen. Laut dieser Presseerklärung sollte der saudi-arabische Staatsangehörige und ehemalige Guantanamo-Häftling Abu-Sayyaf al-Shihri Wahayshis Stellvertreter werden.

Wenige Tage später tauchte im Internet ein Video von al-Wahayshi auf, das den alarmierenden Titel trug: »Wir fangen hier an und treffen uns in al Aqsa«. Mit al Aqsa ist die al-Aqsa-Moschee in Jerusalem gemeint, der Ort, den die Juden als Stätte des zerstörten Tempels Salomons und die Muslime als Al Haram Al Sharif kennen. Das Video enthält Drohungen gegen muslimische Staatsführer, darunter der jemenitische Präsident Saleh, die saudische Königsfamilie und der ägyptische Staatspräsident Mubarak. Man werde die Jihad vom Jemen nach Israel bringen, um die muslimischen heiligen Stätten und Gaza zu »befreien« – ein Vorhaben, das wahrscheinlich zum Dritten Weltkrieg führen würde, wenn jemand so verrückt wäre, es in die Tat umzusetzen.

In dem Video tauchte neben al-Shihri, der als Guantanamo-Häftling Nr. 372 vorgestellt wurde, auch eine Erklärung von Abu-al-Harith Muhammad al-Afwi auf, der als Feldkommandeur und angeblicher Guantanamo-Häftling Nr. 333 bezeichnet wurde. Da Foltermethoden bekanntlich völlig ungeeignet sind, um wahrheitsgemäße Geständnisse aus den Opfern herauszupressen, ist bereits spekuliert worden, die CIA- und Pentagon-Vertreter, die seit September 2001 die Gefangenen in Guantanamo verhört haben, hätten in Wirklichkeit die Aufgabe gehabt, vermittels aversiver Techniken Schläfer oder sogenannte Manchurian Candidates auszubilden, die bei Bedarf vom US-Geheimdienst aktiviert werden können – ein Vorwurf, der sich nur schwer beweisen oder widerlegen lässt. Wenn nun allerdings zwei prominente Guantanamo-Insassen in der neuen al-Qaida-Gruppe im Jemen auftauchen, dängen sich schon Fragen auf.

Offenbar wollen al-Fadhli und die gewachsene Massenorganisation Southern Movement mit der al Qaida im Jemen nicht zu tun haben. In einem Interview erklärte al-Fadhli: »Ich halte enge Verbindungen zu den Jihadisten im Norden und im Süden, eigentlich überall, aber nicht zu al Qaida.« (5) Trotzdem erklärt Saleh, die Southern Movement und al Qaida seien ein und dasselbe, ein Trick, mit dem er sich die Unterstützung Washingtons sichern will.

Nach Einschätzungen in US-amerikanischer Geheimdienstberichten gibt es insgesamt etwa 200 al-Qaida-Mitglieder im südlichen Jemen. (6)

Bei einem Interview im Mai 2009 hat sich al-Fadhli von al Qaida distanziert und erklärt: »Wir waren [im Südjemen] vor 15 Jahren Opfer einer Invasion und leben jetzt unter einer brutalen Besatzung. Wir haben also genug mit unserer eigenen Lage zu tun und können uns nicht um die übrige Welt kümmern. Wir wollen unsere Unabhängigkeit und ein Ende dieser Besatzung.« (7) Ob zufällig oder nicht: al Qaida erklärte sich am gleichen Tag solidarisch mit dem Anliegen des südlichen Jemen.

Am 14. Mai betonte al Wahayshi, der Führer der »al Qaida auf der Arabischen Halbinsel« in einer im Internet verbreiteten Audio-Botschaft seine Unterstützung für die Menschen in den südlichen Provinzen und deren Versuch, sich gegen die »Unterdrückung zu wehren«. Er sagte: »Was in Lahaj, Dhali, Abyan und Hadramut und den anderen Provinzen im Süden geschieht, ist nicht zu tolerieren. Wir müssen [die Menschen im Süden] unterstützen und ihnen helfen.« Er versprach Vergeltung: »Eure Unterdrückung wird nicht straflos hingenommen … Die Morde an Muslimen auf den Straßen sind ein ungerechtfertigtes schweres Verbrechen.« (8)

Das merkwürdige Auftauchen einer winzigen, aber von den Medien sehr stark herausgestellten al Qaida im südlichen Jemen inmitten einer offenbar gut in der Bevölkerung verankerten Front der Southern Movement, die mit den radikalen weltweiten Plänen von al Qaida nichts zu tun haben will, verschafft dem Pentagon eine Art casus belli, um die militärischen Aktionen der USA in dieser strategisch wichtigen Region verstärken zu können.

Tatsächlich hat Präsident Obama zunächst erklärt, die internen Auseinandersetzungen im Jemen seien eine innere Angelegenheit des Landes, und dann doch Luftschläge angeordnet. Nach Angaben des Pentagon wurden bei den Angriffen am 17. und 24. Dezember drei führende al-Qaida-Vertreter getötet; für diese Angaben gibt es jedoch keine Beweise. Jetzt erhält Washingtons »Krieg gegen den Terror« nach dem Bomberdrama von Detroit am Weihnachtstag neuen Auftrieb. Obama hat inzwischen der jemenitischen Regierung von Präsident Saleh Unterstützung angeboten.

 

Wie auf Kommando: die Piraten in Somalia eskalieren ihre Angriffe

Während die Schlagzeilen in CNN von der neuen Bedrohung durch Terrorismus aus dem Jemen beherrscht werden, haben die Angriffe somalischer Piraten auf die Handelsschifffahrt im Golf von Aden und dem Arabischen Meer – also genau der Region südlich des Jemen – wie auf Kommando wieder drastisch zugenommen, nachdem sie durch die internationalen Patrouillen zunächst stark eingedämmt worden waren.

 Am 29. Dezember 2009 berichtete RIA Novosti aus Moskau, somalische Piraten hätten im Golf von Aden vor der Küste von Somalia ein griechisches Handelsschiff gekapert. Am selben Tag war bereits ein unter britischer Flagge fahrender, mit Chemikalien beladener Tanker ebenfalls im Golf von Aden gekapert worden. Mohamed Shakir, der Kommandeur der Piraten, erklärte – offensichtlich im Umgang mit westlichen Medien sehr gewandt – der britischen Zeit The Times am Telefon: »Gestern Abend haben wir im Golf von Aden ein Schiff mit britischer Flagge gekapert.« Die US-Geheimdienstagentur Stratfor berichtet, die Times, die zur Verlagsgruppe von Rupert Murdoch, dem Unterstützer der Neokonservativen, gehört, werde manchmal vom israelischen Geheimdienst genutzt, um nützliche Berichte zu platzieren.

Durch die beiden jüngsten Vorfälle ist die Zahl der Kaperungen und Entführungen im Jahr 2009 auf ein Rekordniveau gestiegen. Bis zum 22. Dezember gab es nach Angaben des International Maritime Bureau’s Piracy Reporting Center 2009 im Golf von Aden und vor der Küste Somalias 174 Angriffe von Piraten, dabei wurden 35 Schiffe entführt und 587 Besatzungsmitglieder als Geiseln genommen. Es stellt sich die Frage, wer die somalischen »Piraten« mit Waffen und Logistik versorgt, sodass sie trotz internationaler Patrouillen von mehreren Ländern erfolgreich operieren können?

Bemerkenswerterweise erhielt Präsident Saleh am 3. Januar einen Telefonanruf des somalischen Präsidenten Sharif Sheikh Ahmed, bei dem dieser Saleh über die jüngsten Entwicklungen in Somalia unterrichtete. Sheikh Sharif, der in Mogadischu über so wenig Unterstützung verfügt, dass er manchmal als Präsident des Flughafens von Mogadischu verspottet wird, erklärte Saleh, er werde ihn über sämtliche terroristische Aktivitäten informieren, die von somalischem Boden aus gegen die Stabilität und Sicherheit des Jemen und der gesamten Region geplant würden. 

 

Engpass für das Öl und andere schmierige Angelegenheiten

Die strategische Bedeutung des Seegebiets zwischen dem Jemen und Somalia ist auch aus geopolitischer Sicht erkennbar. Die Meerenge Bab el-Mandeb wird von der US-Regierung zu den sieben strategisch wichtigen Engpässen für den Öltransport gezählt. Nach Aussage der staatlichen amerikanischen Energy Information Agency »könnten Tanker nach einer Schließung von Bab el-Mandeb den Komplex Suezkanal/Sumed Pipeline nicht mehr erreichen und müssten den Umweg um die südliche Spitze von Afrika nehmen. Die Meerenge Bab el-Mandeb stellt einen Engpass zwischen dem Horn von Afrika und dem Nahen Osten und eine strategisch wichtige Verbindung zwischen dem Mittelmeer und dem Indischen Ozean dar.« (9)

Zwischen dem Jemen, Dschibuti und Eritrea gelegen, verbindet Bab el-Mandeb den Golf von Aden mit dem Arabischen Meer. Öl und sonstige Exporte aus dem Persischen Golf müssen die Bab el-Mandeb passieren, bevor sie in den Suezkanal einfahren. 2006 gab das Energieministerium in Washington bekannt, täglich gelangten schätzungsweise 3,3 Millionen Barrel Öl durch diesen engen Seeweg nach Europa, in die USA und nach Asien. Das meiste Öl, etwa 2,1 Millionen Barrel, geht nach Norden durch Bab el-Mandeb zum Suez/Sumed-Komplex und weiter ins Mittelmeer.

Ein Vorwand für eine Militarisierung der Gewässer in der Umgebung von Bab el-Mandeb durch die USA oder die NATO brächte Washington seinem Ziel der Kontrolle über aller sieben großen Engpässe für den Öltransport auf der Welt ein gutes Stück näher. Dadurch könnten die USA in Zukunft China, die EU und jede andere Region oder jedes Land, das sich der amerikanischen Politik in den Weg stellt, von der Ölversorgung abschneiden. Da erhebliche Mengen saudi-arabischen Öls Bab el-Mandeb passieren, diente eine US-Militärpräsenz an dieser Stelle auch als Warnung an Riad, falls das saudische Königreich mit der Ankündigung erst machen sollte, Öllieferungen an China und andere Länder nicht mehr in Dollar abzurechnen, wie der britische Journalist Robert Fisk kürzlich in der Zeitung Independent geschrieben hatte.

Washington könnte damit die Öllieferungen von dem gerade nördlich von Bab el-Mandeb gelegenen Port Sudan am Roten Meer nach China bedrohen: Diese Verbindung ist für die Deckung des chinesischen Energiebedarfs lebenswichtig.

Zusätzlich zu der geopolitischen Position als Engpass für den weltweiten Öltransport verfügt der Jemen Berichten zufolge auch über einige der größten unerschlossenen Ölreserven der Welt. Das Masila-Becken und das Shabwa-Becken enthalten nach Angaben der internationalen Ölgesellschaften »Weltklasse-Funde« (10). Die französische Total sowie einige kleinere internationale Ölgesellschaften sind an der Entwicklung der Ölproduktion im Jemen beteiligt. Vor etwa 15 Jahren hat mir ein sehr gut unterrichteter Insider in Washington bei einem privaten Treffen erzählt, im Jemen gebe es »genug unerschlossene Reserven, um den Ölbedarf der ganzen Welt für die nächsten 50 Jahre zu decken«. Vielleicht steckt ja doch mehr dahinter, wenn sich Washington in jüngster Zeit solche Sorgen um den Jemen macht, als eine al-Qaida-Truppe, deren Existenz als weltweit agierende Terrororganisation von erfahrenen Islam-Experten ohnehin angezweifelt wird.

 

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Quellen:

1 Bruce Riedel, »The Menace of Yemen«, 31. Dezember  2009, unter http://www.thedailybeast.com/blogs-and-stories/2009-12-31/the-menace-of-yemen/?cid=tag:all1.

2 Stratfor, »Yemen: Intensifying Problems for the Government«, 7. Mai 2009.

3 Zitiert in Terrorism Monitor, Artikel: »Yemen President Accuses Iraqs’ Sadrists of Backing the Houthi Insurgency«, Jamestown Foundation, Band 7, Ausgabe 28, 17. September 2009.

4 NewsYemen, 8. September 2009; Yemen Observer, 10. September 2009.

5 Albaidanew.com, 14. Mai 2009, zitiert in Jamestown Foundation, a.a.O.

6 Abigail Hauslohner, »Despite U.S. Aid, Yemen Faces Growing al-Qaeda Threat«, Time, 22. Dezember 2009, unter www.time.com/time/world/article/0,8599,1949324,00.html#ixzz0be0NL7Cv.

7 »Tariq al Fadhli, in Al-Sharq al-Awsat«, 14. Mai 2009, zitiert in Jamestown Foundation, a.a.O.

8 Interview mit al-Wahayshi, al Jazeera, 14. Mai 2009.

9 US Government, Department of Energy, Energy Information Administration, »Bab el-Mandab«, unter http://www.eia.doe.gov/cabs/World_Oil_Transit_Chokepoints/Full.html.

10 Adelphi Energy, »Yemen Exploration Blocks 7 & 74«, unter http://www.adelphienergy.com.au/projects/Proj_Yemen.php.

 

 

Dienstag, 12.01.2010

Kategorie: Geostrategie, Enthüllungen, Wirtschaft & Finanzen, Politik, Terrorismus

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samedi, 16 janvier 2010

Machtpoker entlang der historischen Seidenstrasse

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Machtpoker entlang der historischen Seidenstraße

Wolfgang Effenberger / http://info.kopp-verlag.de/

Knapp drei Wochen vor der Londoner Afghanistan-Konferenz berichten die Medien über den Kursstreit zwischen Außen- und Verteidigungsminister. (1) Während Westerwelle aus seiner Ablehnung für weitere Truppenzusagen keinen Hehl macht, steht zu Guttenberg allen Wünschen aus Washington sehr pragmatisch gegenüber. Aber auch die Kanzlerin möchte sich profilieren. Obwohl bei einer vergleichbaren Afghanistan-Tagung in Paris nur die Außenminister geladen waren, möchte die soeben vom Time-Magazine zur »Frau Europa« gekürte Kanzlerin in London eine Rede halten. Dabei wäre es im Vorfeld dieser Konferenz angebracht, eine hinreichende Antwort auf die Gretchenfrage zu finden: Warum wird entlang der historischen Seidenstraße getötet und gestorben?

Eine seriöse Antwort findet sich beim US-Geostrategen Ariel Cohen – Mitarbeiter des renommierten Davis Institute for International Studies der Heritage Foundation. Bereits im Juli 1997 erschien von ihm ein bemerkenswerter Artikel über den Aufbau einer »Neuen Seidenstraße« zur Erhöhung der US-ökonomischen Prosperität. (2) Dazu sei in der ersten Hälfte des 21. Jahrhunderts der adäquate Zugang zu den kaukasischen und zentralasiatischen Öl- und Erdgasreserven  zu sichern. (3) Mit den reichlichen Ressourcen im postsowjetischen Raum hätten die USA eine Lösung für die gegenwärtigen Herausforderungen und würden sich vom instabilen Nahen Osten unabhängig machen. Neben dem Zugang zum Öl und Erdgas der Kaspischen Meerregion verbinden die USA nach Cohen mit Eurasien weitere geostrategische Interessen. So würden mache US-Politiker das Entstehen eines neuen russisches Imperiums zunehmend mit Sorge betrachten. Russland könnte versucht sein, die amerikanischen Pläne zu durchkreuzen und selbst die exklusive Kontrolle über die Kaspi-Region gewinnen. Als nicht weniger bedrohlich wird das radikale islamische Regime im Iran gesehen und dessen potenzieller Einfluss auf die islamischen zentralasiatischen Staaten. Auch China hätte das Potenzial, in diesem großen Spiel verwickelt zu werden.

In vorderster Front der besorgten US-Politiker steht der geostrategische Vordenker und ehemalige Sicherheitsberater von US-Präsident Jimmy Carter, Zbigniew Brzeziński. Anfang der 1980er-Jahr hat er die nach Carter benannte Doktrin (4) zur Kontrolle über den Persischen Golf entworfen und dazu die militärische Sicherheitsarchitektur gezimmert: das zentrale US-Kommando CENTCOM. Erst diese Voraussetzung ermöglichte es US-Präsident Bush (senior), 1991 den ersten Krieg gegen Saddam Hussein zu führen. Während die USA siegreich den Golfkrieg beendeten, zerfiel die Sowjetunion und der von ihr geführte Warschauer Vertrag. Nun sollte nach dem Willen des damaligen US-Präsidenten eine »Neue Weltordnung« errichtet werden. 

Dazu definierte  Brzeziński mit bemerkenswerter Offenheit die Prämissen, mit denen die USA ihre Politik in Eurasien auf das Ziel globaler Vorherrschaft ausrichten sollten: Europa im Westen Eurasiens als »demokratischer Brückenkopf« und mit dem Hauptverbündeten Japan im Osten als »fernöstlicher Anker«. Russland solle als das »Schwarze Loch« und der Kaukasus und Zentralasien als der »Eurasische Brückenkopf« behandelt werden. (5)

Im Vergleich zu den früheren Weltmächten beschreibt Brzeziński in seinem richtungsweisenden Buch den Geltungsbereich der heutigen Weltmacht Amerika als einzigartig. Die Vereinigten Staaten kontrollieren nicht nur sämtliche Ozeane und Meere, sondern verfügen auch über die militärischen Mittel, ihrer Macht politische Geltung verschaffen zu können: »Amerikanische Armeeverbände stehen in den westlichen und östlichen Randgebieten des eurasischen Kontinents und kontrollieren außerdem den Persischen Golf.« Somit »ist der gesamte Kontinent von amerikanischen Vasallen und tributpflichtigen Staaten übersät, von denen einige allzu gern noch fester an Washington gebunden wären.« (6)

»Das Buch von Zbigniew Brzezinski wird ohne Zweifel eine wichtige Rolle spielen bei der Diskussion über die Struktur einer künftigen dauerhaften und gerechten Weltordnung« (7), schreibt der langjährige deutsche Außenministers Hans-Dietrich Genscher in seinem sechsseitigen Vorwort zu deutschen Ausgabe. Die UNO wird von Genscher im Rahmen der »gerechten Weltordnung« nicht mehr erwähnt. »Aber genau diese Sicht betrifft den Hauptinhalt und das Wesen dessen, was die Politiker der einzigen Weltmacht USA und die ihrer tributpflichtigen Vasallen mit dem Begriff Neue Weltordnung meinen.« (8) Anderthalb Jahre später muss sich die UN anlässlich des Jugoslawienkrieges mit der Statistenrolle begnügen.

Dankbar waren die visionären geostrategischen Ideen des ehrbaren Zbigniew Brzezinski noch im gleichen Jahr vom Kongress aufgenommen worden. (9) Am 12. Februar 1998 befasste sich ein Unterkomitee des Repräsentantenhauses mit der Rolle der USA in diesem »new great game«. Die  seit 1991 unabhängigen ehemaligen zentralasiatischen Sowjetrepubliken Kasachstan, Kirgisistan, Tadschikistan, Turkmenistan und Usbekistan hätten phänomenale Reserven an Öl und Erdgas und wären bestrebt, Beziehungen zu den Vereinigten Staaten herzustellen. Das Komitee empfahl, die Unabhängigkeit dieser Staaten und ihre Verbindungen zum Westen zu fördern; Russlands Monopol über Öl- und Gastransportwege zu brechen; die westliche Energiesicherheit durch diversifizierte Lieferanten zu fördern; den Bau von Ostwest-Pipelines unter Umgehung des Irans zu ermutigen und Irans gefährlichen Einfluss auf  die zentralasiatischen Länder streitig zu machen. (10)

Nur fünf Tage vor Beginn der 78-tägigen Bombardierung Jugoslawiens verabschiedete der US-Kongress am 19. März 1999 das sogenannte Seidenstraßen-Strategiegesetz (»Silk Road Strategy Act«). Mit diesem Gesetz gossen sich die USA ein grundlegendes Dokument ihrer langfristig angelegten imperialen Geostrategie in Blei. Unverblümt werden die umfassenden wirtschaftlichen und strategischen Interessen der USA in einer riesigen Region definiert, die sich vom Mittelmeer bis nach Zentralasien erstreckt. (11)

Militärisch knapp werden in zahlreichen Unterpunkten Feststellungen getroffen und Handlungsanweisungen gegeben: Die südlichen Länder des Kaukasus mit ihren säkularen moslemische Regierungen würden ein näheres Bündnis mit den Vereinigten Staaten suchen – was auch engere diplomatische und kommerzielle Beziehungen zu Israel bedeuten würde. Die Region des Südkaukasus und Zentralasiens produziere Öl und Gas in ausreichender Menge. Das würde die Abhängigkeit der USA von der unberechenbaren persischen Golfregion reduzieren. Dazu unterstützen die USA die notwendige infrastrukturelle Entwicklung für Kommunikation, Transport, Erziehung, Gesundheit, Energie und Handel in einer Ost-West-Achse, um starke internationale Beziehungen und Handel zwischen jenen Ländern und den stabilen, demokratischen und marktorientierten Ländern von der euroatlantischen Gemeinschaft zu bauen. (12)

Dieses Gesetz lässt die Handschrift von Brzezinski erkennen. In Übereinstimmung mit seinem geostrategischen Konzept zur Beherrschung des eurasischen Kontinents zielt die Seidenstraßen-Strategie darauf ab, die Wettbewerber der USA im Ölgeschäft, darunter Russland, den Iran und China, zu schwächen und die gesamte Region vom Balkan und dem Schwarzen Meer bis an die chinesische Grenze in einen Flickenteppich amerikanischer Protektorate zu verwandeln. (13)

Wie alle Weltmächte zuvor sehen sich die USA gezwungen, ihre durch Weltbank, Internationalem Währungsfonds (IWF) und Welthandelsorganisation (WTO) regulierten Märkte auch militärisch abzusichern. In alter angelsächsischer Tradition stützen sie sich auf die Beherrschung der Meere und auf ein System militärischer Stützpunkte. Hinzu gekommen ist die absolute Lufthoheit und der rapide angestiegene Einsatz sogenannter Drohnen (unbemannter Flugzeuge). Weiter wird an einer Raketenabwehr mit dem Ziel einer »Full Spectrum Dominanz« gearbeitet.

Thomas Friedman, früherer Assistent der US-Außenministerin Madelaine Albright, hat dieses System sehr anschaulich so beschrieben: »Damit die Globalisierung funktioniert, dürfen die Vereinigten Staaten nicht zögern, als die unbesiegbare Weltsupermacht zu agieren, die sie sind. Die unsichtbare Hand des Marktes funktioniert nicht ohne die sichtbare Faust.« (14)
Daneben agierte in den 1990-er Jahren die von der US-Administration gesteuerte Non-Profit-Organisation National Endowment for Democracy (NED) (15) sehr erfolgreich. Die farbenfrohen Revolutionen unter dem Banner der Menschenrechte dürften jedem in Erinnerung sein. Doch bald nach dem 11. September 2001 schien der Terrorismusbegriff zur Kriegsrechtfertigung viel geeigneter als der Begriff der Menschenrechte zu sein (16), wie es die jüngsten Ereignisse im Jemen beweisen.

Sofort nach dem Angriff auf New York begann die US-Regierung ihre »vorderen Basen« in Asien auszubauen. Am 7. Oktober 2001 wurde Afghanistan unter dem Vorwand, Osama bin Laden nicht sofort ausgeliefert zu haben, mit Cruise Missiles und Marschflugkörper des US-amerikanischen und britischen Militärs angegriffen. Hauptangriffsziele  waren Kabul und Khandahar.

Treffend bemerkte die damalige stellvertretende Außenministerin Elizabeth Jones: »Wenn der afghanische Konflikt vorbei ist, werden wir Zentralasien nicht verlassen. Wir haben langfristige Pläne und Interessen an dieser Region.« (17) Heute können die USA von Basen aus dem Irak, Afghanistan, Pakistan, Usbekistan, Turkmenistan, Kasachstan, Kirgisistan, Tadschikistan und Georgien agieren. Als Gegenkraft hat sich die Shanghaier Organisation für Zusammenarbeit (SOZ) (18) gebildet. In ihr sind  vor allem Russland und China bestrebt, eine regionales Gegenstück zur US-Silk-Road-Strategy zu bilden.

Wie würden sich die USA im umgekehrten Fall verhalten?

Ein Meilenstein in der Seidenstraßen-Strategie ist die 2005 fertiggestellte Pipeline BTC, die von Baku am Kaspischen Meer über Georgiens Hauptstadt Tbilisi zum türkischen Mittelmeerhafen Ceyhan führt. Die 1.770 Kilometer lange Leitung ist die erste (größere) auf dem Gebiet der früheren Sowjetunion, die Russland umgeht. Erfolgreich konnte der Einfluss Russlands und Irans auf die Anrainer des Kaspischen Meeres zurückgedrängt werden. Am 13. Juli 2009 unterschrieben Österreich, Ungarn, Rumänien, Bulgarien und die Türkei in Ankara den Vertrag für den Bau der etwa 3.300 Kilometer langen Nabucco-Pipeline, die ebenfalls an Russland vorbeiführen wird. »Nabucco ist damit ein wahrhaft europäisches Projekt«, so EU-Kommissionspräsident José Manuel Barroso in Ankara. Nabucco öffne aber auch die Tür für eine neue Ära in den Beziehungen zwischen der Europäischen Union und der Türkei. Als Berater fungiert der ehemalige deutsche Außenminister Joseph Fischer.

Noch liegen nicht alle Karten in diesem »Großen Spiel« auf dem Tisch. Sicher scheint nur zu sein, dass sich die USA nur durch verlorene Kriege oder einen Staatsbankrott von ihrer Seidenstraßen-Strategie abbringen lassen werden. Der Sieg über Saddam Hussein spielte den USA die nach Saudi-Arabien, Kanada und Iran viertgrößten Ölvorräte in die Hände. Der Zugang zu diesen Reserven wird von ExxonMobil, Shell, BP und Chevron erschlossen. Auch künftig wird es permanente US-Basen im Irak geben. Sie sind notwendig, um glaubwürdig kommerzielle Forderungen im Irak und den umliegende Nahostländer Nachdruck zu verleihen.

Am 22. September 2009 traf sich Außenminister Hillary Clinton im New Yorker Plaza Hotel  mit Gurbangulu Berdimuhamedov, dem Präsidenten von Turkmenistan. Auf dieses öl- und gasreiche zentralasiatische Land richten sich die Wünsche der US-Energiegesellschaften, während die US-Regierung Hilfe im Afghanistan-Krieg erhofft. Artig bedankte sich Clintons Sekretär Robert O. Blake  für Überflugrechte und bescheidene Aufbauprogramme in Afghanistan. Dann wies Blake den turkmenischen Präsidenten auf die wichtige Rolle seines Landes bezüglich der Nabucco-Pipeline hin. Gas aus Zentralasien und auch möglicherweise aus dem Irak solle unter Umgehung Russlands, aber mithilfe Turkmenistans nach Europa transportiert werden. Zu gleichen Zeit führte das turkmenische Fernsehen im Hotel Interviews mit Rex Tillerson, Vorstand von ExxonMobil, mit  Jay Pryor, Chevrons Vizepräsident, und dem ehemaligen US-Außenminister Henry Kissinger. Letzterer sprach sich für  die Pipeline von Turkmenistan über Afghanistan nach Indien und Pakistan aus. Auch Blake hält diese Option für durchaus real. Doch die Energiekonzerne werden erst dann investieren, wenn die Lage in Afghanistan »stabil« geworden ist. Eine Exit-Strategie scheint es nur zur Beruhigung der Bevölkerung zu geben – es ist höchstens der vage Wunsch des Pentagons, dass die Afghanen eines Tages zur Vernunft kommen könnten. (19) Im Gegensatz dazu hoffen nicht nur die Afghanen, dass die amerikanische Bevölkerung dem globalen Streben ein Ende setzt. Das mutige Buch Rules of Disengagement (20) der amerikanischen Juristinnen Majorie Cohn, Präsidentin der National Lawyers Guild, und Kathleen Gilberd, stellvertretende Vorsitzende der Guild's Military Law Task Force, gibt Hoffnung. Darin scheuen sich die Juristinnen nicht, die US-Invasion von Afghanistan als ebenso illegal zu bezeichnen wie die Invasion des Iraks. Den nach Afghanistan abkommandierten Soldaten empfiehlt der US-Journalist Nick Mottern, die Teilnahme abzulehnen oder zumindest das Buch der beiden Damen zu lesen. (21) 

Doch vorerst wird die tiefe  Tragödie bleiben. Es darf befürchtet werden, dass nach dem 28. Januar 2010 das immense Maß Tod und Leid in dieser Region noch gesteigert wird. Eine Militäraktion gegen den Iran könnte die Situation im eurasischen Balkan zur Explosion bringen. Für die Pentagon-Strategen erscheint er immer noch verlockend, wäre doch der Iran als bedeutender Machtfaktor in der Region ausgeschaltet. Die USA erhielten auf der einen Seite eine (kosten-)günstige Verbindung zwischen Kaspischem Meer und Persischem Golf. Der bevorstehende Beitritt des Iran zur SOZ wäre verhindert und eine vergrößerte Operationsbasis für weitere Aktionen in Mittelasien gewonnen. Zugleich könnten die bedeutenden Wirtschaftspartner des Irans – Russland und Frankreich –  erheblich geschwächt werden.

Auf der anderen Seite würde ein entfesselter »eurasischer Balkan« auf ganz Eurasien ausstrahlen.

 

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Anmerkungen:

(1) Gebauer, Matthias: »Afghanistan-Strategie entzweit Westerwelle und Guttenberg«, Spiegel Online vom 8. Januar 2010 unter http://www.spiegel.de/politik/ausland/0,1518,670657,00.html.

(2) Cohen, Ariel: »U.S. Policy in the Caucasus and Central Asia: Building A New ›Silk Road‹ to Economic Prosperity vom 24. Juli 1997«, unter http://www.heritage.org/Research/RussiaandEurasia/BG1132.cfm.

(3) For an earlier discussion of this subject, see Ariel Cohen, »The New Great Game: Oil Politics in the Caucasus and Central Asia«, Heritage Foundation Backgrounder No. 1065, January 25, 1996. See also »Major Setbacks Looming for American Interests in the Caucasus Region«, Staff Report, Committee on International Relations, U.S. House of Representatives, September 6, 1996, p. 7.

(4) Jimmy Carter: State of the Union Address 1980, January 23, 1980. – »Jeder Versuch einer auswärtigen Macht, die Kontrolle über den Persischen Golf zu erlangen, wird als Angriff auf die vitalen Interessen der USA betrachtet und … mit allen erforderlichen Mitteln, einschließlich militärischer, zurückgeschlagen werden.« Vgl. http://www.jimmycarterlibrary.org/documents/speeches/su80jec.phtml.

(5) Brzeziński, Zbigniew: »A geostrategy for Eurasia«, Foreign Affairs, Sept./Oct. 1997, pp. 50-64; Brzeziński, Zbigniew: »The Grand Chessboard, American Primary and Its Geostrategic Imperatives«, New York 1997.

(6) Brzeziński, Zbigniew: Die einzige Weltmacht, Weinheim, Berlin 1997, S. 41.

(7) Ebenda, S. 14.

(8) Woit, Ernst: »Kolonialkriege  für  eine  Neue  Weltordnung«. Vortrag zum 7. Dresdner Symposium »Für eine globale Friedensordnung« am 23. November 2002; Print-Veröffentlichung: DSS-Arbeitspapiere, Heft 64-2003, S. 7–18.

(9) April 24, 1997: Full Committee Hearing on Conventional Armed forces in Europe Treaty, and Revisions of the Flank Agreement; May 5, 1997: Subcommittee on European Affairs Hearing on The Foreign assistance Program to the Former Soviet Union and Central and Eastern Europe; July 21, 1997: Subcommittee on European Affairs and Subcommittee on Near Eastern and South Asian Affairs Joint Hearing on US Foreign Policy Interests in the South Caucasus and Central Asia; October 22, 1997: Subcommittee on International Economic Policy, Export, and Trade Promotion Hearing on US Economic and Strategic Interests in the Caspian Sea Region, Policies and Implications; February 24, 1998: Subcommittee on International Economic Policy, Export and Trade Promotion Hearing: Implementation of US Policy on Construction of a Western Caspian Sea Oil Pipeline; June 16, 1998: Subcommittee on International Economic Policy, Export, and Trade Promotion Hearing: Implementation of US Policy on Construction of a Western Caspian Pipeline; and March 3, 1999: Subcommittee on International Economic policy, Export and Trade Promotion Hearing on Commercial Viability of a Caspian Sea Main Energy Pipeline …

(10) Anhörung des SUBCOMMITTEE ON ASIA AND THE PACIFIC im US-Repräsentantenhaus vom 12. Februar 1998, »ONE HUNDRED FIFTH CONGRESS, SECOND SESSION: U.S. INTERESTS IN THE CENTRAL ASIAN REPUBLICS« unter http://commdocs.house.gov/committees/intlrel/hfa48119.000/hfa48119_0.htm.

(11) Siehe M. Chossudowsky, GLOBAL BRUTAL. Der entfesselte Welthandel, die Armut, der Krieg, Frankfurt a.M. 2002, S. 391.

(12) Silk Road Strategy Act of 1999 (H.R. 1152 -106th Congress) vom 19. März 1999, Offizieller Titel: »To amend the Foreign Assistance Act of 1961 to target assistance to support the economic and political independence of the countries oft he South Caucasus and Central Asia«, unter http://ftp.resource.org/gpo.gov/bills/106/h1152ih.txt.

(13) Siehe M. Chossudowsky, GLOBAL BRUTAL. Der entfesselte Welthandel, die Armut, der Krieg, Frankfurt a.M. 2002, S. 392 f.

(14) Nach Jean Ziegler, »Der Terror und das Imperium«, in Junge Welt, Berlin, vom 21.05.2002, S. 10.

(15) NED wurde 1983 von Reagan als halbstaatlicher Arm der Außenpolitik gegründet. Das ermöglicht der US-Regierung Mittel an Nicht-US-Organisationen über einen Dritten weiterzugeben.

(16) J. Ross, »Arbeit am neuen Weltbild«, in Die Zeit, Hamburg, Nr. 45 vom 31.10.2001, S. 16.

(17) Monbiot, George: »World Views: A wilful blindness«, in Daily Times vom 12. März 2003, unter http://www.dailytimes.com.pk/default.asp?page=story_12-3-2003_pg4_6.

(18) Der SOZ gehören an Volksrepublik China, Russland, Usbekistan, Kasachstan, Kirgistan und Tadschikistan.

(19) ISAF-Oberkommandierender General Stanley McChrystal will durch den Einsatz von Spezialkommandos zum Ausschalten führender Taliban diesem Ziel näher kommen; Stars and Stripes, 02.01.2010, unter http://www.stripes.com/article.asp?section=104&article=66983.

(20) Cohn, Majorie und Gilberd, Kathleen: Rules of Disengagement: The Politics and Honor of Military Dissent, Sausalito 2009.

(21) Mottern, Nick: »Killing and Dying in ›the New Great Game‹«. A Letter to Members of the US Military on Their Way to Afghanistan, Thursday, 22. October 2009, unter http://www.truthout.org/10220910.

  

Mittwoch, 13.01.2010

Kategorie: Gastbeiträge, Geostrategie, Wirtschaft & Finanzen, Politik, Terrorismus

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Intesa Italia-Kazakistan nello stile di Enrico Mattei

kash4.jpgIntesa Italia-Kazakistan nello stile di Enrico Mattei
Scritto da Antonio Albanese   

Ex: http://www.area-online.it/

«Ringrazio il premier Berlusconi per questo invito a visitare l’Italia e per il calore che ho sentito in tutti gli incontri». Così, Nursultan Nazarbayev, presidente del Kazakistan, ha espresso la sua soddisfazione per gli ottimi rapporti con l’Italia, commentando la firma di una serie di importanti accordi bilaterali (il partenariato strategico con il ministero degli Esteri e un’intesa per la lotta al narcotraffico e alla criminalità organizzata) e commerciali tra i due Paesi.
 Questi ultimi valgono «molti miliardi di dollari», come ha sottolineato lo stesso Berlusconi nel corso della conferenza stampa congiunta.
Le intese «riguardano nostre grandi aziende» come Eni, Finmeccanica, Ansaldo e Fs, ma, come ha poi sottolineato il nostro premier, «in questi giorni sono stati presi contatti anche con le nostre medie imprese e abbiamo preso accordi per una missione di nostre piccole e medie imprese per esportare in Kazakistan il nostro know how». 
Berlusconi ha inoltre espresso «la speranza di poter aumentare in maniera notevole la collaborazione economica». Ha poi sottolineato l’accordo sul turismo «per portare turisti italiani in questo Paese che è grande nove volte l’Italia». Il premier ha espresso poi «grande soddisfazione per l’impegno dei nostri imprenditori nei confronti di un Paese in grande espansione».
Di Kazakistan, è bene ricordarlo, Berlusconi avrebbe parlato a fine ottobre, durante la visita privata a Vladimir Putin. Nel corso della “trilaterale” Italia-Russia-Turchia, svoltasi proprio nella casa del primo ministro russo, Berlusconi, Erdogan (collegato in videoconferenza con gli altri due leader) e Putin hanno esaminato il progetto dell’oleodotto Samsun-Ceyhan (vi sono impegnate la turca Celik Enerji e l’Eni). Questo progetto collegherebbe il Mar Nero turco con le coste del Mediterraneo, attraversando da nord a sud l’Anatolia, con lo scopo di alleggerire il carico e il traffico attualmente sostenuto dalle petroliere che passano il Bosforo, con conseguenze ambientali indubbiamente positive. A questo progetto dovrebbe partecipare anche il Kazakistan. 
L’incontro di fine ottobre, come aveva fatto sapere Palazzo Chigi, era stato richiesto da Nazarbayev in occasione di una precedente breve visita di Berlusconi in Kazakistan e rientra nella strategia di diversificazione delle fonti di approvvigionamento energetico messa in atto dall’Italia, primo importatore di gas condensato e di petrolio dal Kazakistan. Gli accordi firmati durante l’incontro riguardano «investimenti reciproci di 6 miliardi» di dollari. Questa è la cifra indicata da Nursultan Nazarbayev, che ha spiegato come questi accordi possono essere «uno stimolo per il rilancio dei rapporti» tra i due Paesi. Il presidente della Repubblica kazaka ha poi precisato come l’interscambio tra Italia e Kazakistan abbia «raggiunto il 30% dell’intero interscambio con l’Unione europea, pari a 14 miliardi di dollari; e gli investimenti italiani hanno raggiunto i 6 miliardi di dollari con 97 imprese presenti in Kazakistan», un 8% in più, rispetto allo stesso periodo del 2008.
Grazie alle intese di Roma si è rafforzata, nel settore petrolifero, la collaborazione con l’Eni: l’amministratore delegato, Paolo Scaroni e il presidente di KazMunayGas (Kmg, la compagnia kazaka), Kairgeldy Kabyldin, hanno siglato, alla presenza di Nazarbayev e Berlusconi, un nuovo accordo di cooperazione per lo sviluppo di attività di esplorazione e produzione e la realizzazione di infrastrutture industriali in Kazakistan. In particolare, l’accordo, che fa seguito a un memorandum d’intesa preliminare firmato a luglio 2009, prevede che Eni e Kmg  conducano studi di esplorazione nelle aree di Isatay e Shagala, nel Mar Caspio, e studi di ottimizzazione dell’utilizzo del gas in Kazakistan. È prevista anche la valutazione di «numerose iniziative industriali», tra cui un impianto di trattamento del gas, un impianto di generazione elettrica a gas, un cantiere navale e l’upgrading della raffineria di Pavlodar, di cui Kmg possiede la quota di maggioranza. Le decisioni finali d’investimento per questi progetti «sono previste entro due anni dal completamento di studi tecnici e commerciali dettagliati», come ha fatto poi sapere la compagnia italiana. Eni prevede poi di «rafforzare ulteriormente la sua presenza in Kazakistan, dove è co-operatore nel giacimento Karachaganak ed è partner nel consorzio che gestisce il giacimento Kashagan».
Secondo Paolo Scaroni, «è un accordo molto importante che definisco “matteiano” perché ad ampio spettro». A Eni sono state assegnate, ha detto Scaroni, «due aree esplorative che sono al top delle brame delle compagnie mondiali, le due aree del petrolio più promettenti del Mar Caspio. È un grande risultato che testimonia il successo della nostra presenza in Kazakistan. Si è parlato tanto di Kashagan anche in modo non lusinghiero. Pensate che avrebbero fatto un accordo di questo tipo se le nostre performance non fossero al top?».
Per quel che riguarda gli altri accordi, il presidente della società kazaka Sovereign Wealth Fund Samruk-Kazyna (società statale di gestione industriale e finanziaria), Kairat Kelimbetov, e il presidente e amministratore delegato di Finmeccanica, Pier Francesco Guarguaglini, hanno firmato un memorandum d’intesa per sviluppare accordi di collaborazione industriale con le aziende del gruppo Finmeccanica nei settori del ferroviario, dell’elettro-ottica e dell’elicotteristica. L’intesa tra Finmeccanica e Sovereign Wealth Fund Samruk-Kazyna prevede la costituzione di un gruppo di lavoro che dovrà analizzare le nuove esigenze del Kazakistan e le opportunità di business per le aziende del gruppo italiano. Nel settore ferroviario, il presidente della società Temir Zholy, Askar Mamin, l’ad di Finmeccanica e quello delle Ferrovie dello Stato italiane, Mauro Moretti, hanno inoltre firmato un accordo di ampia cooperazione per lo sviluppo del settore ferroviario del Paese centroasiatico. Sempre in questo campo, Temir Zholy e Ansaldo Sts hanno firmato un accordo per la realizzazione di una joint venture nel segnalamento ferroviario, nei sistemi di elettrificazione e per la realizzazione di centri di comando e controllo per le stazioni ferroviarie in Kazakistan e nei Paesi limitrofi. L’accordo con le ferrovie kazake (Ktz) è il primo passo della cooperazione del sistema Italia nel settore ferroviario per lo sviluppo del trasporto su ferro dell’importante Paese centroasiatico. Le aree nelle quali Fs collaborerà con le Ferrovie kazake sono fra l’altro: assistenza tecnica per fornire supporto al loro processo di ristrutturazione; studio di fattibilità con Italferr per l’aggiornamento della linea Astana-Almaty, per una velocità commerciale di 200-250 chilometri orari; sviluppo di centri logistici nel Paese con Fs Logistica e Italferr; cooperazione per Traffic Management Centers (11 centri) e gestione del traffico merci e della logistica integrata. Il Kazakistan è il Paese dell’area centroasiatica che ha il piano di investimenti più significativo per lo sviluppo dell’infrastruttura ferroviaria e quindi del trasporto su ferro.
Nel settore dell’elettro-ottica, la KazEngineering e Selex Galileo hanno firmato un accordo di collaborazione per lo sviluppo di applicazioni civili e militari, che prevede anche l’utilizzazione dei sistemi elettro-ottici italiani per l’ammodernamento dei veicoli corazzati T72, carri armati in servizio nelle forze armate kazake. Accanto a questi progetti si sono avviate le procedure per costituire una joint venture tra AgustaWestland e Sovereign Wealth Fund Samruk-Kazyna per la realizzazione di un centro di manutenzione e addestramento per elicotteri civili, nonché una joint venture per l’assemblaggio in Kazakistan di autobus a gas naturale della BredaMenarinibus (società di Finmeccanica).
Accanto agli accordi economici, abbiamo accennato agli accori politici siglati tra i due Paesi. L’Italia appoggerà il Kazakistan per la sua presidenza dell’Osce (l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) nel 2010. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano lo ha confermato direttamente a Nursultan Nazarbayev, al Quirinale. «La presidenza dell’Osce da parte del Kazakistan nel 2010 è un fatto molto importante anzitutto per il rilancio stesso dell’Osce» ha detto il capo dello Stato, «sentiamo che questa organizzazione può svolgere un ruolo maggiore di quello che non sia riuscito a svolgere negli ultimi tempi». In particolare, Napolitano ha apprezzato l’idea di Nazarbayev di una convocazione dell’Osce a livello di vertice dei capi di Stato di tutti i Paesi aderenti: «È una proposta eccellente, che l’Italia appoggia e si augura che si possa realizzare. Non a caso la proposta arriva dal Kazakistan, ovvero da un Paese esempio e specchio di tolleranza, di moderazione e di convivenza pacifica; Paese che persegue una politica di equilibrio nei rapporti internazionali e rappresenta una grande garanzia per tutti, collocato in un’area strategica e in una regione irta di problemi», posta fra il Medio Oriente, l’Iran con il suo contenzioso nucleare, l’Afghanistan e il Pakistan al centro della minaccia del terrorismo internazionale. 
Quanto ai rapporti bilaterali fra i due Paesi, Napolitano, ricordando che per Nazarbayev si tratta della sua seconda visita al Quirinale, dopo il precedente invito della presidenza di Oscar Luigi Scalfaro, registra con soddisfazione «l’intenso sviluppo dei rapporti economici e dell’interscambio commerciale con un Paese ricco di grandi risorse che ha un ruolo chiave per l’approvvigionamento energetico» accanto alle «eccellenti possibilità di impegno comune  sui grandi temi della politica internazionale». 

samedi, 09 janvier 2010

Le monde comme système

aardebol300.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1990

Le Monde comme Système

 

par Louis SOREL

 

Si le substantif de géopolitique n'est pas la sim­ple contraction de «géographie poli­ti­que», cette méthode d'approche des phé­no­mènes po­li­ti­ques s'enracine dans la géo­gra­phie; elle ne peut donc se désintéresser de l'évolution. Ré­pu­tée inutile et bonasse (1), la géographie est un savoir fondamentale­ment politique et un outil stratégique. Confrontée à la recomposi­tion politique du monde, elle ne peut plus se li­miter à la des­cription et la mise en carte des lieux et se définit comme science des types d'or­ganisation de l'espace terrestre. Le pre­mier tome de la nouvelle géographie univer­sel­le, dirigée par R. Bru­net, a l'ambition d'être u­ne représenta­tion de l'état du Monde et de l'é­tat d'une science. La partie de l'ouvrage di­ri­gée par O. Doll­fuss y étudie le Monde comme étant un sys­tè­me, parcouru de flux et struc­turé par quel­ques grands pôles de puissance.

 

O. Dollfuss, universitaire (il participe à la for­mation doctorale de géopolitique de Paris 8) et collaborateur de la revue Hérodote, prend le Mon­de comme objet propre d'ana­ly­ses géogra­phiques; le Monde conçu com­me totalité ou système. Qu'est-ce qu'un sys­tè­me? «Un sys­tème est un ensemble d'élé­ments interdépen­dants, c'est-à-dire liés en­tre eux par des rela­tions telles que si l'une est modifiée, les autres le sont aussi et par conséquent tout l'ensemble est trans­formé» (J. Rosnay).

 

Nombre de sciences emploient aujourd'hui u­ne méthode systémique, les sciences phy­siques et biologiques créatrices du concept, l'éco­no­mie, la sociologie, les sciences poli­tiques… mais la démarche est innovante en géogra­phie.

 

Le Monde fait donc système. Ses éléments en interaction sont les Etats territoriaux dont le maillage couvre la totalité de la sur­face ter­restre (plus de 240 Etats et Terri­toi­res), les fir­mes multinationales, les aires de marché (le mar­ché mondial n'existe pas), les aires cultu­relles définies comme espaces caractérisés par des ma­nières communes de penser, de sentir, de se comporter, de vi­vre. Les relations entre E­tats nourrissent le champ de l'international (interétatique se­rait plus adéquat) et les re­la­tions entre ac­teurs privés le champ du trans­national: par exemple, les flux intra-firmes qui repré­sen­tent le tiers du com­merce mon­dial. Ces dif­fé­­rents éléments du système Mon­de sont donc «unis» par des flux tels qu'au­cune ré­gion du monde n'est aujourd'hui à l'abri de décisions prises ail­leurs. On parle a­lors d'in­terdépendance, terme impropre puis­que l'a­symétrie est la règle.

 

L'émergence et la construction du système Mon­de couvrent les trois derniers siècles. Long­temps, le Monde a été constitué de «grai­ns» (sociétés humaines) et d'«agré­gats» (socié­tés humaines regrou­pées sous la direc­tion d'u­ne autorité unique, par exem­ple l'Empire ro­main) dont les rela­tions, quand elles exis­taient, étaient trop té­nues pour modi­fier en pro­fondeur les com­por­tements. A partir du XVIième siècle, le dé­sen­clavement des Euro­péens, qui ont con­nais­sance de la roton­dité de la Terre, va met­tre en relation toutes les par­ties du Mon­de. Naissent alors les premièrs «é­co­nomies-mondes» décrites par Immanuel Wal­ler­stein et Fernand Braudel et lorsque tou­tes les terres ont été connues, délimitées et ap­propriées (la Conférence de Berlin en 1885 a­chève la répartition des terres afri­caines entre Etats européens), le Monde fonctionne comme système (2). La «guerre de trente ans» (1914-1945) accélèrera le pro­cessus: tou­tes les huma­nités sont désor­mais en interaction spa­tiale.

 

L'espace mondial qui en résulte est profon­dé­ment différencié et inégal. Il est le produit de la combinaison des données du milieu naturel et de l'action passée et présente des sociéts hu­maines; nature et culture. En ef­fet, le poten­tiel écologique (ensemble des élé­ments phy­siques et biologiques à la dis­posi­tion d'un groupe so­cial) ne vaut que par les mo­yens techniques mis en œuvre par une société cul­turellement définie; il n'exis­te pas à propre­ment parler de «ressources na­turelles», toute ressource est «produite».

 

Et c'est parce que l'espace mondial est hété­ro­gène, parce que le Monde est un assem­blage de potentiels différents, qu'il y a des é­changes à la surface de la Terre, que l'es­pa­ce mondial est par­couru et organisé par d'innombrables flux. Flux d'hommes, de ma­tières premières, de produits manu­fac­turés, de virus… reliant les dif­férents com­par­timents du Monde. Ils sont mis en mou­vement, commandés par la circu­la­tion des capitaux et de l'information, flux mo­teurs invisibles que l'on nomme influx. Aus­si le fonctionnement des interactions spa­tia­les est conditionné par le quadrillage de ré­seaux (systèmes de routes, voies d'eau et voies ferrées, télécommunications et flux qu'ils sup­portent) drainant et irriguant les différents ter­ritoires du Monde. Inéga­le­ment réparti, cet en­semble hiérar­chisé d'arcs, d'axes et de nœuds, qui con­tracte l'es­pace terrestre, forme un vaste et invisi­ble anneau entre les 30° et 60° paral­lèles de l'hémisphère Nord. S'y localisent Etats-U­nis, Europe occidentale et Japon re­liés par leur conflit-coopération. Enjambés, les es­pa­ces intercalaires sont des angles-morts dont nul ne se préoccupe.

 

L'espace mondial n'est donc pas homogène et les sommaires divisions en points cardi­naux (Est/Ouest et Nord/sud), surimposés à la trame des grandes régions mondiales ne sont plus opératoires (l'ont-elles été?). On sait la coupure Est-Ouest en cours de cica­trisation et il est ten­tant de se «rabattre» sur le modèle «Centre-Pé­ri­phérie» de l'écono­mis­te égyptien Samir A­min: un centre dy­na­mique et dominateur vi­vrait de l'ex­ploi­tation d'une périphérie extra-dé­terminée. La vision est par trop sommaire et O. Doll­fuss propose un modèle explicatif plus ef­ficient, l'«oligopole géographique mondial». Cet oligopole est formé par les puissances ter­ritoriales dont les politiques et les stra­tégies exer­cent des effets dans le Monde en­tier. Par­te­naires rivaux (R. Aron aurait dit adver­saires-partenaires), ces pôles de com­man­de­ment et de convergence des flux, re­liés par l'anneau in­visible, sont les centres d'impulsion du sys­tème Monde. Ils orga­ni­sent en auréoles leurs périphéries (voir les Etats-Unis avec dans le premier cercle le Ca­nada et le Mexique, au-de­là les Caraïbes et l'Amérique Latine; ou encore le Japon en Asie), se combat­tent, négocient et s'allient. Leurs pouvoirs se concentrent dans quel­ques grandes métropoles (New-York, Tok­yo, Londres, Paris, Francfort…), les «îles» de l'«ar­chipel métropo­litain mon­dial». Sont mem­­bres du club les su­perpuis­sances (Etats-Unis et URSS, pôle in­com­plet), les mo­yennes puissances mondiales (ancien­nes puissances impériales comme le Royaume-Uni et la Fran­ce) et les puis­sances écono­miques comme le Ja­pon et l'Allemagne (3); dans la mouvance, de pe­tites puissances mon­diales telles que la Suisse et la Suède. Viennent ensuite des «puis­sances par anti­ci­pation» (Chine, Inde) et des pôles régio­naux (Arabie Saoudite, Afrique du Sud, Nigéria…). Enfin, le sys­tème monde a ses «arrières-cours», ses «chaos bornés» où rè­gnent la vio­lence et l'anomie (Ethiopie, Sou­dan…).

 

La puissance des «oligopoleurs» vit de la com­binatoire du capital naturel (étendue, po­sition, ressources), du capital humain (nom­bre des hommes, niveau de formation, degré de cohé­sion culturelle) et de la force ar­mée. Elle ne sau­rait être la résultante d'un seul de ces fac­teurs et ne peut faire l'é­co­nomie d'un projet po­litique (donc d'une volonté). A juste titre, l'au­teur insiste sur l'im­portance de la gouver­nance ou aptitude des appareils gouvernants à assurer le con­trôle, la conduite et l'orientation des popula­tions qu'ils encadrent. Par ailleurs, l'objet de la puissance est moins le contrôle di­rect de vastes espaces que la maîtrise des flux (grâce à un système de surveillance satelli­taire et de missiles circumterrestres) par le contrôle des espaces de communication ou synapses (détroits, isthmes…) et le traite­ment massif de l'information (4).

 

Ce premier tome de la géographie univer­selle atteste du renouvellement de la géo­graphie, de ses méthodes et de son appareil conceptuel. On remarquera l'extension du champ de la géo­graphicité (de ce que l'on es­time relever de la discipline) aux rapports de puissance entre unités politiques et es­paces. Fait notoire en Fran­ce, où la géogra­phie a longtemps pré­tendu fonder sa scien­tificité sur l'exclusion des phénomènes po­litiques de son domaine d'étu­de. Michel Serres affirme préférer «la géogra­phie, si sereine, à l'histoire, chaotique». R. Bru­net lui répond: «Nous n'avons pas la géo­gra­phie bucolique, et la paix des frondai­sons n'est pas notre refuge». Pas de géogra­phie sans drame!

 

Louis SOREL.

Sous la direction de Roger Brunet, Géo­gra­phie universelle,  tome I, Hachet­te/­Re­clus, 1990; Olivier Dollfuss, Le système Monde,  li­vre II, Hachette Reclus, 1990.

 

(1) Cf. Yves Lacoste, La géographie, ça sert d'abord à faire la guerre, petite collection Mas­pero, 1976.

(2) Cf. I. Wallerstein, The Capitalist World Economy,  Cambridge University Press, 1979 (traduction française chez Flammarion) et F. Braudel, Civilisation matérielle, Economie et Capitalisme,  Armand Colin, 1979. Du même au­teur, La dynamique du capitalisme (Champs Flammarion, 1985) constitue une utile introduc­tion (à un prix "poche").

(3) I. Ramonet, directeur du Monde diploma­ti­que, qualifie le Japon et l'Allemagne de «puis­san­ces grises» (au sens d'éminence…). Cf. «Al­lemagne, Japon. Les deux titans», Manières de voir  n°12, édition Le Monde di­plo­matique. A la recherche des ressorts com­muns des deux pays du «modèle indus­tria­liste», les auteurs se dépla­cent du champ éco­nomique au champ politique et du champ poli­tique au champ culturel tant l'é­conomique plonge ses ra­cines dans le culturel. Ph. Lorino (Le Monde di­ploma­tique,  juin 1991, p.2) estime ce recueil révéla­teur des ambiguïtés françaises à l'égard de l'Allemagne, mise sur le même plan que le Japon, en dépit d'un pro­ces­sus d'intégration ré­gionale déjà avancé.

(4) Les «îles» de «l'archipel-monde» (le terme rend compte tout à la fois de la globalité crois­san­te des flux et des interconnexions et de la fragmentation politico-stratégique de la pla­nète) étant reliée par des mots et des images, Michel Foucher affirme que l'instance cultu­relle de­vient le champ majeur de la confronta­tion (Cf. «La nouvelle planète», n°hors série de Libé­ra­tion, [ou du Soir  en Belgique, ndlr], déc. 1990). Dans le même recueil, Zbigniew Brzezinski, ancien «sherpa» de J. Carter, fait de la domina­tion américaine du marché mon­dial des té­lé­com­munications la base de la puissance de son pays; 80% des mots et des images qui cir­culent dans le monde provien­nent des Etats-Unis.

mardi, 05 janvier 2010

Limes 6/2007 - Pianeta India

Limes 6/2009 in edicola e in libreria dal 31 dicembre

Pianeta India

Sommario






EDITORIALE - IL GIGANTE BUONO





(clicca sulle miniature per andare alle carte)



PARTE I INDIA/INDIE

Francesca MARINO - Esiste l’India?

Quasi nulla accomuna il miliardo e duecento milioni di indiani: né la lingua, né la religione, né l’etnia, né le condizioni socio-economiche. Eppure l’identità nazionale esiste e si propone come modello di convivenza. Una lezione per l’Occidente.

Meghnad DESAI - Un paese di successo che resta molto povero
Le riforme economiche degli ultimi vent’anni hanno prodotto tassi di crescita invidiabili, persino in piena recessione globale. Ma centinaia di milioni di indiani sopravvivono ancora con uno o due dollari al giorno. La stabilità politica e la questione delle caste.
Enrica GARZILLI - Gandhi dinasty
Una grande famiglia per la più grande democrazia del mondo, dove le cariche si tramandano per via parentale. Dal padre del primo capo del governo indiano fino al figlio di Sonia, una storia di potere, influenza e nepotismo.
K.P.S. GILL - La resistibile ascesa dei maoisti nel Bengala senza Stato
Le tappe storiche del movimento naxalita in uno degli Stati più poveri e martoriati della Federazione Indiana. Auge e declino dei ‘nemici’ marxisti. La debole risposta dello Stato. Chi vincerà le prossime elezioni?
Ajai SAHNI - Il cancro maoista si batte con più Stato
La guerriglia naxalita guadagna terreno nelle immense campagne dell’India, escluse dalla modernizzazione. L’ideologia non c’entra niente: a spingere i contadini alla rivolta è la miseria. E decenni di politica corrotta e incompetente.
Kanchan LAKSHMAN - Il Pakistan resta uno Stato canaglia
Malgrado le pressioni americane e i successi dell’intelligence indiana, Islamabad continua a sostenere il terrorismo jihadista. La strage di Mumbai dimostra che, ormai, la minaccia va ben oltre il Kashmir. La mappa del rischio. Le risposte di Delhi.
Daniela BEZZI - Corridoio rosso
Viaggio nel Jharkhand tribale, epicentro di un territorio ingovernabile conteso da etnie, movimenti ribelli, grandi industrie a caccia di materie prime. L’efficienza dei maoisti. Una campagna elettorale tra miseria, corruzione e India Shining.
Francesca MARINO - Il Gujarat è questione di Modi
Lo Stato dell’India occidentale è nelle mani del primo ministro Narendra Modi. Implicato nei massacri del 2002, deve la sua forza al rigore morale e alle capacità amministrative. Strumenti che presto potrebbero portarlo alla guida del paese.
Bhikhu PAREKH - Il dolore di Gandhi se tornasse in India
Lo Stato per il quale il Mahatma si era battuto e che aveva tanto amato oggi calpesta i princìpi del maestro. Corruzione, povertà, indifferenza e ignoranza rispecchiano il fallimento del progetto originario. Le basi del risorgimento gandhiano.
Chitvan GILL - Tutte le strade portano a Delhi
Città dalle mille anime, la capitale dell’India è un concentrato di stranezze e contraddizioni. Nella sua storia tragica e grandiosa è racchiusa l’essenza di una nazione in bilico fra passato e futuro. Che non ha paura del mondo. Ma ha imparato a temere se stessa.
Luca MUSCARÀ - Slums e globalizzazione
In India fioriscono le megalopoli, dove si concentrano in modo stridente le contraddizioni fra le punte ipermoderne dell’industria e la miseria delle baracche. Trecentodieci milioni di anime in cinquemila città: l’urbanizzazione indiana procede senza sosta.
S.D. MUNI - La diaspora indiana: una risorsa strategica emergente
Dai servi per debiti ai grandi manager, l’India ha esportato nel mondo le sue due facce. Dopo esser stati mal considerati, oggi gli emigrati sono premiati con alte onorificenze. I casi della Birmania, dell’Africa Orientale, del Golfo e delle Figi. Le rimesse e il Kerala.
Marco RESTELLI - Se dici cinema dici India
L’industria della cellulosa di Delhi ha saputo negli anni superare i confini nazionali e imporsi nel mondo. Grazie al Middle Cinema, sintesi perfetta tra le pellicole di Bollywood e i film d’autore, e alle cifre d’incasso. Ma l’Italia non se ne èaccorta.
Paola TAVELLA - Nehru e i Mountbatten: amore, sesso e geopolitica
La relazione fra il primo leader indiano e la moglie dell’ultimo viceré britannico sarà al centro di un film che già scatena polemiche internazionali. Un rapporto speciale che favorì l’India nella partizione del Punjab.
Alberto BRACCI TESTASECCA - Il viaggio freak nell’India del velo di Maya


PARTE II NON (ANCORA?) UNA GRANDE POTENZA

Parag KHANNA - Il futuro dell’India è tra i grandi del mondo
Conversazione con Parag KHANNA, direttore della Global Governance Initiative e Senior Research Fellow presso l’American Strategy Program della New America Foundation di Washington, a cura di Fabrizio MARONTA
Beniamino NATALE - La fine di Cindia: venti di guerra sul confine indo-cinese
Negli ultimi mesi sono riesplose le dispute geopolitiche e le antiche rivalità fra Delhi e Pechino. La ricognizione di una frontiera mai definita evidenzia i rischi di un nuovo conflitto fra le due potenze nucleari. Il caso Tibet e la questione dell’Arunachal Pradesh.
P.R. CHARI - A che serve la Bomba
Messi da parte i princìpi gandhiani e considerata la minaccia della coppia Cina-Pakistan, dagli anni Sessanta Delhi ha lavorato al nucleare militare. Il ruolo decisivo di Indira Gandhi. Le ambigue concezioni strategiche delle Forze armate indiane.
Ezio FERRANTE - Oceano nostro
Delhi considera l’Indiano come un vastissimo mare nostrum e sta attrezzando la sua Marina per sostenere tale ambizione. I porti strategici e la produzione in proprio di portaerei. Fantastrategie antiamericane.
Vijay PRASHAD -Tutta colpa dei britannici se ci scanniamo per le frontiere
Le linee tracciate frettolosamente da Londra in Asia meridionale, in specie fra India e Pakistan, sono all’origine dei contenziosi frontalieri nella regione. Conflitti spesso illogici, ma che alimentano potenti warfare States. La disputa sino-indiana.
Raimondo BULTRINI - Dove rinascerà il Dalai Lama?
Il caso del monastero di Tawang, nell’estremo Nord dell’India, dove potrebbe reincarnarsi la guida spirituale tibetana. Un altro motivo di tensione nei rapporti fra Pechino e Delhi. Se l’Oceano di Saggezza si sdoppia.


PARTE III AFPAK: UNA GUERRA INDO-PAKISTANA

Nirupama SUBRAMANIAN e Pervez HOODBHOY - Gemelli diversi
Dopo gli attentati di Mumbai l'Indiasi interroga su quale atteggiamento tenere con il suo turbolento vicino. Spente le luci di una possibile distensione, prevale la prudenza. Meglio un Pakistan democratico ma instabile o la relativa affidabilità dell’esercito? Un’opinione indiana e una pakistana a confronto.
Ayesha SIDDIQA e B. RAMAN - Afghanistan, triangolo a due lati
Solo il concorso di tutti gli attori regionali potrebbe, forse, stabilizzare il baricentro degli equilibri centrasiatici dopo il ritiro definitivo delle truppe Usa. Ma le geometrie immaginate a Islamabad e Delhi, sorrette da paure e ambizioni contrapposte, si elidono l’una con l’altra. Un analista pakistano e uno indiano ci spiegano i rispettivi perché.
Praveen SWAMI - Chi tocca il Kashmir muore
L’assassinio di Fazal Haq Qureshi, leader dei musulmani kashmiri favorevoli al dialogo con Delhi, riapre lo scontro nella regione contesa fra India e Pakistan. Dalla partizione ad oggi, la tormentata storia del conflitto indica che la pace è ancora lontana.


liMesIN PIÙ

John C. HULSMAN - No, he can’t
Dalla disputa israelo-palestinese all’Afghanistan e all’Iran, per il presidente Usa la forbice tra aspettative e risultati si è pericolosamente allargata. Gli eccessi retorici e le aporie strategiche del miglior leader di cui l’America disponga. Qualche suggerimento per far meglio.
Matteo TACCONI - La Bosnia che non esiste entrerà in Europa quando l’Europa sarà morta
La pace fredda, al massimo tiepida, non ha alternative in quel che resta del paese spartito tra croati, serbi e bosgnacchi. Con i soldi altrui e sotto il protettorato internazionale, le tre etnie dominanti si sono arroccate nei rispettivi territori.
Marco ANSALDO - In Corea del Nord non si può passeggiare
Nonostante un certo ammodernamento, il paese asiatico resta isolato dal resto del mondo. Una cortina d’acciaio, fatta di controllo serrato, autocensura e austerità, è stesa con sapienza dal potere che la lascia penetrare solo dagli aiuti umanitari.
Raymond BARRE - Alexandre Kojève, il consigliere del principe (presentazione di Marco FILONI)



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