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mercredi, 26 novembre 2008

Yukoku: un film de Mishima

Yukoku : un film de Mishima

Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com

Yukoku, l'unique film réalisé par l'écrivain japonais Yukio Mishima sur la base de sa nouvelle intitulée Patriotisme, et qui était jusqu'à présent introuvable, fait l'objet d'une édition en DVD chez Montparnasse.

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Yukoku (Patriotisme) : un film extraordinaire laissé par l'un des plus grands écrivains du siècle. Maudit, détruit, pratiquement oublié dans son propre pays, ce film produit en 1966 est ressorti au Japon grâce à une copie miraculeusement retrouvée en 2005. La présente édition réintroduit en Europe des images quasi inédites, qui font partie intégrante de la construction mythique de soi-même à laquelle Mishima a dévoué sa vie. Suivant exactement la narration d'une nouvelle écrite quelques années plus tôt, Patriotisme, ce film montre de façon stylisée la dernière étreinte amoureuse et le seppuku d'un jeune lieutenant entièrement dévoué à l'honneur samouraï, le Bushido : répétition de la mort spectaculaire que l'écrivain choisira, le 25 novembre 1970, à Tokyo. Film ultra-esthétique, cinéma wagnérien, prolongement filmique du théâtre Nô ou encore document historique, Yukoku occupe une place unique dans l'art cinématographique du XXè siècle.

La forza revoluzionaria del mito politico

 La forza revoluzionaria del mito politico

 

 

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La possibilità che hanno i popoli di correggere l’andamento della storia attraverso crisi rivoluzionarie riposa tutta nella capacità di conservazione del loro patrimonio di energie irrazionali. Nessuna ribellione a uno status quo avvertito come ingiusto o degradante è mai avvenuta per le vie razionaliste della dialettica. Si ebbe una rivoluzione francese soltanto quando alle teorie borghesi degli illuministi subentrò la capacità di Danton e Saint-Just di gestire emotivamente le masse. E si poté avere una rivoluzione bolscevica soltanto quando alle inerti elucubrazioni marxiane tenne dietro il calore bruciante della parola leniniana e della sollevazione del popolo nel nome di un’utopia mitica. Ancora più chiaramente, tale processo è leggibile nel caso dei fascismi europei, nati dalla catastrofe del mito nazionale, dalla messa in pericolo liberal-comunista della tradizione mitopoietica del popolo, e infine dalla volontà propriamente rivoluzionaria - cioè correttrice verso le origini - di far risorgere, potenziato, il mito accomunante dell’immobile, eterna comunità di popolo.

 

 

Tutto ciò ha fatto parlare dell’apparizione moderna del mito politico come di una insorgenza di religiosità civile nel bel mezzo dell’ateismo e dell’agnosticismo moderni. Religioni politiche: esse hanno riempito il vuoto lasciato dalla crisi del cristianesimo attraverso la gestione di retaggi e atavismi riattivati tra le masse, una volta che queste furono abbandonate da un decrepito sistema di fede trascendente, che lasciava insoddisfatte le domande popolari di nuova identificazione. In questo, giacobinismo e comunismo non furono in nulla diversi dal nazifascismo, se non come casi patologici di contraddizione in termini: per poter passare dalla fase dell’insurrezione a quella della costruzione rivoluzionaria, dovettero far ricorso a uno strumentario mitico e irrazionalistico di stampo para-religioso e in quanto tale estraneo, e anzi opposto, ai presupposti “scientifici” del loro stesso progressismo di partenza. Dalla statue elevate alla Dea Ragione alla mummia di Lenin nella Piazza Rossa, e fino alle mitologie millenaristiche del nazionalismo puritano americano, noi vediamo che il progressismo riesce ad esprimere potenziale mobilitatorio soltanto dando vita alla sua massima contraddizione e smentendo esplicitamente se stesso. Quando dall’amministrazione si passa alla politica, il ricorso all’inconscio e all’irrazionale giacenti nel popolo è l’unica arma a disposizione per attivare un cambiamento che sia sostanza e non apparenza.

 

 

Nel caso del progressismo - giacobino, liberale, comunista - si può parlare di uso strumentale del repertorio mitico. Si tratta del ricorso a patrimoni che la ragione e la “religione” del progresso hanno sempre demonizzato e colpevolizzato, definendoli scorie di un passato oscurantista condannato dalla luce della modernità. Nel caso invece del nazifascismo si ha la piena consapevolezza che l’utilizzo del mito politico atto a riconsacrare il popolo non è strumento occasionale per ricompattare masse altrimenti allo sbando (il richiamo al “mito americano” in occasioni elettorali; il ricorso alla “grande guerra patriottica” da parte dei sovietici), ma elemento strutturale di un sistema di potere che apertamente dice di voler attingere ai bacini memoriali collettivi. Lo sposalizio ideologico fra la tradizione ancestrale e la modernità è il tratto tipico dei fascismi, che hanno sempre abbinato l’identità storica del popolo con il suo moderno risveglio. Nel caso del nazionalsocialismo, il marxista ebreo-tedesco Ernst Bloch parlò non a caso di romanticismo del paganesimo eroico. C’era anzi, in questa sua definizione risalente agli anni Trenta, una punta di “invidia per un movimento che, diversamente dal comunismo, era riuscito a promuovere il solidarismo di massa attraverso il ridestarsi del «residuo arcaico emozionale», sapendo per di più «trasformare gli inizi mitici in inizi reali, i sogni dionisiaci in sogni rivoluzionari». Massimo scorno, quest’ammissione di efficiente realismo proprio nei fanatici dell’irratio, per un marxista “oggettivo” di stretta osservanza sovietica, costretto a verificare che l’arsenale di “scientificità” marxista rimaneva inservibile dinanzi alla richiesta popolare di ritorno all’identità tradizionale, pienamente soddisfatta dalla NSDAP nei modi plebiscitari che la storia conosce.

 

 

Nella struttura del Terzo Reich, infatti, sono ancor meglio visibili che negli altri fascismi europei le compiute categorie del mito politico in azione: attivazione del patrimonio culturale tradizionale; promozione di una religiosità etnica estranea ai confessionalismi dogmatici; mistica dell’offerta eroica di sé per il bene della comunità di stirpe. Conosciamo gli studi di Emilio Gentile sul Fascismo come religione politica capace di saldare a lungo un popolo, storicamente individualista come l’italiano, attorno ai simboli unificanti della gloria nazionale, secondo le vie del mito eroico racchiuso dal culto del Littorio. Nel caso del nazionalsocialismo sia ha una radicalizzazione di tale impostazione, essenzialmente grazie alla natura del germanesimo moderno, ben più dell’italianità in grado di serbare memoria attiva del proprio comunitarismo storico.

 

 

Basti, a testimoniare di questo, il mito del sangue. Divenuto, nel Terzo Reich, l’archetipo di un sistema di solidarismo sociale incentrato sulla rianimazione di antiche testimonianze della mistica religiosa tedesca. La Theologia Deutsch, ad esempio, che nell’epoca pre-protestante veicolò l’ideologia della divinizzazione dell’uomo e di un sotteso sovrumanismo, secondo modi semiereticali di contestazione della trascendenza cristiana, fu alla fine la fonte di riferimento immediata per il mito del sangue nazionalsocialista. È stato anni fa Manuel Garcìa Pelayo, nel suo classico Miti e simboli politici, a rimarcare che nella concezione di Alfred Rosenberg - che nel Mito del XX secolo riconobbe ampiamente il suo debito culturale verso il mistico duecentesco Meister Eckhart - si riconosce con tutta evidenza la linea ideologica che corre dalla religiosità renana medievale sino alla rievocazione del mistero del sangue, quale compare nella pubblicistica filosofica nazionalsocialista. «Ora il sangue, secondo la dottrina nazista - ha scritto Pelayo - non è un fatto puramente fisiologico, ma qualcosa di misterioso che reca in seno proprietà morali, intellettuali…il sangue è anche un fatto di natura spirituale, che si dispiega in creazioni culturali come la filosofia, l’arte, la scienza, le forme sociali». Quest’affermazione, da sola, è tra l’altro sufficiente a liquidare tutte le speculazioni che da anni si vanno facendo intorno allo specioso problema di una supposta alternativa tra “razza del sangue ” e “razza dello spirito”, in cui si sono incartati a suo tempo Julius Evola e alcuni suoi zelanti seguaci ancora oggi. Il mito politico nazionalsocialista legato al valore sublimante del sangue era essenzialmente un’invocazione di purificazione mistica: «Con la difesa del sangue si difende al tempo stesso il divino che c’è nell’uomo», affermava Rosenberg, riecheggiando Meister Eckhart nel suo incitamento alla creazione di una neue Adel, una nuova nobiltà predisposta a «diventare dio». Il sostrato gnostico che si agitava nei fondali della percezione nazionalsocialista permetteva formulazioni di irrazionalismo idealistico di tale portata, che spesso gli storici non hanno esitato a parlare di vera e propria mistica. Il dualismo agitato tra il demoniaco ricatto materialista dell’epoca moderna e l’anelito purificante di ripercorrere le origini diveniva rivoluzione: «Questa rivoluzione tanto misticamente o metafisicamente concepita nelle sue origini ebbe come soggetto storico il partito nazionalsocialista», sintetizza Pelayo. Non diversamente, Eric Voegelin osservò, in La politica: dai simboli alle esperienze, che la teologia politica del nazionalsocialismo ripeteva attitudini etiche di tipo religioso, lavorando i materiali ancestrali con le tecniche messe a disposizione dal mondo moderno: «La creazione del mito e la sua propaganda attraverso la stampa e la radio, i discorsi e le cerimonie comunitarie, le adunate e le marce, il lavoro pianificato ed il morire il battaglia, sono le forme intramondane dell’unio mystica».

 

 

Ma Voegelin si è spinto ancora oltre, concedendo al nazionalsocialismo una sostanza di autenticità come movimento non soltanto politico, ma propriamente religioso, in cui il simbolo è allo stesso modo segno di identità terrena e segnacolo di promessa ultraterrena: «La formulazione del mito…si approssima al simbolismo vero e proprio inteso come dominio di figure dotate di significato all’interno delle quali esperienza pratica intramondana ed esperienza interiore ultraterrena si uniscono in un’unità comprensibile». Riesce a questo punto più agevole dare pieno credito all’interpretazione del “mito ariano” operata da Philippe Lacoue-Labarthe e Jean-Luc Nancy nel loro Il mito nazi, allorquando parlano di un «mito del Mito» all’interno del nazionalsocialismo. Come presso i Greci antichi, vi fu nella Germania di allora un convergere di immagine e parola, Mythos e Logos, sogno e realtà, simbolo metafisico e politica. Il mito rimane irreale se non è vissuto, così come la proclamazione mistica abbisogna della pratica ascetico-eroica per avverarsi, fino al visionarismo e fino all’iniziazione estatica, che le religioni ben conoscono e le religioni politiche più radicali come il nazionalsocialismo ugualmente ebbero a fondamento. Quando si parla di delirio mistico, si può egualmente parlare di comunità religiose in rapimento, del visionarismo di una Teresa d’Avila, come di masse percosse da entusiasmo emotivo. Si ha in questi casi, come ribadiscono Lacue-Labarthe e Nancy, il verificarsi dell’Anschauen, da cui quella Weltanschauung, quel vedere-oltre il reale e penetrare nel mito cosmico, che fece del nazionalsocialismo un singolarissimo fenomeno storico titolato a «svolgere la funzione stessa di una religione». Rosenberg parlava del mito politico come di un sogno atavico che si rianima, Goebbels indicava nell’impossibile la realizzazione politica del nazionalsocialismo, Hitler evocava le potenze della Provvidenza e del Destino: tutti andavano sondando l’anima occulta e misteriosa del popolo. Talmente marcata fu la sostanza di questo profetismo neo-gnostico, che i due storici francesi vedono nel mito politico nazionalsocialista nulla di meno che una sorta di epifania del sacro: «…questo “vedere” proprio di un “sogno” attivo, pratico, operativo, costituisce il cuore del processo “mitico-tipico”, che diviene così il sogno reale del “Reich millenario”».

 

 

Luca Leonello Rimbotti

 

Entretien avec Günter Maschke (1991)

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Lande de Lünebourg (Allemagne)

 

Archives de "Synergies Européennes" - 1991

Entretien avec Günter Maschke

 

propos recueillis par Dieter STEIN et Jürgen LANTER

 

Q.: Monsieur Maschke, êtes-vous un ennemi de la Constitution de la RFA?

 

GM: Oui. Car cette loi fondamentale (Grund­gesetz)  est pour une moitié un octroi, pour une autre moitié la production juri­dique de ceux qui collaborent avec les vain­queurs. On pourrait dire que cette constitu­tion est un octroi que nous nous sommes donné à nous-mêmes. Les meilleurs liens qui entravent l'Allemagne sont ceux que nous nous sommes fabriqués nous-mêmes.

 

Q.: Mais dans le débat qui a lieu aujourd'hui à propos de cette constitution, vous la défen­dez...

 

GM: Oui, nous devons défendre la loi fon­damentale, la constitution existante car s'il fallait en créer une nouvelle, elle serait pire, du fait que notre peuple est complètement «rééduqué» et de ce fait, choisirait le pire. Toute nouvelle constitution, surtout si le peu­ple en débat, comme le souhaitent aussi bon nombre d'hommes de droite, connaîtrait une inflation de droits sociaux, un gonfle­ment purement quantitatif des droits fon­damentaux, et conduirait à la destruction des prérogatives minimales qui reviennent normalement à l'Etat national.

 

Q.: Donc, quelque chose de fondamental a changé depuis 1986, où vous écriviez dans votre article «Die Verschwörung des Flakhelfer» (= La conjuration des auxiliaires de la DCA; ndlr: mobilisés à partir de 1944, les jeunes hommes de 14 à 17 ans devaient servir les batteries de DCA dans les villes al­lemandes; c'est au sein de cette classe d'âge que se sont développées, pour la première fois en Allemagne, certaines modes améri­caines de nature individualiste, telles que l'engouement pour le jazz, pour les mouve­ments swing et zazou; c'est évidemment cette classe d'âge-là qui tient les rênes du pouvoir dans la RFA actuelle; en parlant de conjuration des auxiliaires de la DCA, G. Maschke entendait stigmatiser la propen­sion à aduler tout ce qui est américain de même que la rupture avec toutes les tradi­tions politiques et culturelles européennes). Dans cet article aux accents pamphlétaires, vous écriviez que la Constitution était une prison de laquelle il fallait s'échapper...

 

GM: Vu la dégénérescence du peuple alle­mand, nous devons partir du principe que toute nouvelle constitution serait pire que celle qui existe actuellement. Les rapports de force sont clairs et le resteraient: nous de­vrions donc nous débarrasser d'abord de cette nouvelle constitution, si elle en venait à exister. En disant cela, je me doute bien que j'étonne les «nationaux»...

 

Q.: Depuis le 9 novembre 1989, jour où le Mur est tombé, et depuis le 3 octobre 1990, jour officiel de la réunification, dans quelle mesure la situation a-t-elle changé?

 

GM: D'abord, je dirais que la servilité des Allemands à l'égard des puissances étran­gères s'est encore accrue. Ma thèse a tou­jours été la suivante: rien, dans cette réuni­fication, ne pouvait effrayer la France ou l'An­gleterre. Comme nous sommes devenus terriblement grands, nous sommes bien dé­cidés, désormais, à prouver, par tous les moyens et dans des circonstances plus cri­tiques, notre bonne nature bien inoffensive. L'argumentaire développé par le camp na­tio­nal ou par les établis qui ont encore un pe­tit sens de la Nation s'est estompé; il ne s'est nullement renforcé. Nous tranquilisons le mon­de entier, en lui disant qu'il s'agit du processus d'unification européenne qui est en cours et que l'unité allemande n'en est qu'une facette, une étape. Si d'aventure on rendait aux Allemands les territoires de l'Est (englobés dans la Pologne ou l'URSS), l'Autriche ou le Tyrol du Sud, ces braves Teu­tons n'oseraient même plus respirer; ain­si, à la joie du monde entier, la question allemande serait enfin réglée. Mais trêve de plaisanterie... L'enjeu, la Guerre du Golfe nous l'a montré. Le gouvernement fédéral a payé vite, sans sourciller, pour la guerre des Alliés qui, soit dit en passant, a eu pour ré­sultat de maintenir leur domination sur l'Al­lemagne. Ce gouvernement n'a pas osé exiger une augmentation des impôts pour améliorer le sort de nos propres compa­trio­tes de l'ex-RDA, mais lorsqu'a éclaté la guer­re du Golfe, il a immédiatement imposé une augmentation et a soutenu une action militaire qui a fait passer un peu plus de 100.000 Irakiens de vie à trépas. Admettons que la guerre du Golfe a servi de prétexte pour faire passer une nécessaire augmenta­tion des impôts. Il n'empêche que le procédé, que ce type de justification, dévoile la dé­chéance morale de nos milieux officiels. Pas d'augmentation des impôts pour l'Alle­ma­gne centrale, mais une augmenta­tion pour permettre aux Américains de massacrer les Irakiens qui ne nous mena­çaient nullement. Je ne trouve pas de mots assez durs pour dé­noncer cette aberration, même si je stig­ma­tise très souvent les hypo­crisies à conno­ta­tions humanistes qui con­duisent à l'inhu­ma­nité. Je préfère les dis­cours non huma­nistes qui ne conduisent pas à l'inhuma­ni­té.

 

Q.: Comment le gouvernement fédéral au­rait-il dû agir?

 

GM: Il avait deux possibilités, qui peuvent sembler contradictoires à première vue. J'ai­me toujours paraphraser Charles Maur­ras et dire «La nation d'abord!». Première possibilité: nous aurions dû parti­ciper à la guerre avec un fort contingent, si possible un contingent quantitativement su­périeur à ce­lui des Britanniques, mais ex­clusivement avec des troupes terrestres, car, nous Alle­mands, savons trop bien ce qu'est la guerre aérienne. Nous aurions alors dû lier cet engagement à plusieurs conditions: avoir un siège dans le Conseil de Sécurité, faire sup­primer les clauses des Nations Unies qui font toujours de nous «une nation ennemie», fai­re en sorte que le traité nous interdisant de posséder des armes nu­cléaires soit rendu caduc. Il y a au moins certains indices qui nous font croire que les Etats-Unis auraient accepté ces conditions. Deuxième possibilité: nous aurions dû refu­ser catégoriquement de nous impliquer dans cette guerre, de quelque façon que ce soit; nous aurions dû agir au sein de l'ONU, sur­tout au moment où elle était encore réticente, et faire avancer les cho­ses de façon telle, que nous aurions dé­clenché un conflit de grande envergure avec les Etats-Unis. Ces deux scénarios n'appa­raissent fantasques que parce que notre dé­gé­nérescence nationale et politique est désor­mais sans limites.

 

Q.: Mais la bombe atomique ne jette-t-elle pas un discrédit définitif sur le phénomène de la guerre?

 

GM: Non. Le vrai problème est celui de sa lo­calisation. Nous n'allons pas revenir, bien sûr, à une conception merveilleuse de la guer­re limitée, de la guerre sur mesure. Il n'empêche que le phénomène de la guerre doit être accepté en tant que régulateur de tout statu quo devenu inacceptable. Sinon, de­vant toute crise semblable à celle du Ko­weit, nous devrons nous poser la question: de­vons-nous répéter ou non l'action que nous avons entreprise dans le Golfe? Alors, si nous la répétons effectivement, nous créons de facto une situation où plus aucun droit des gens n'est en vigueur, c'est-à-dire où seu­le une grande puissance exécute ses plans de guerre sans égard pour personne et impose au reste du monde ses intérêts parti­culiers. Or comme toute action contre une grande puissance s'avère impossible, nous aurions en effet un nouvel ordre mondial, centré sur la grande puissance dominante. Et si nous ne répétons pas l'action ou si nous introduisons dans la pratique politique un «double critère» (nous intervenons contre l'Irak mais non contre Israël), alors le nou­veau droit des gens, expression du nouvel ordre envisagé, échouera comme a échoué le droit des gens imposé par Genève jadis. S'il n'y a plus assez de possibilités pour faire ac­cepter une mutation pacifique, pour amorcer une révision générale des traités, alors nous devons accepter la guerre, par nécessité. J'a­jouterais en passant que toute la Guerre du Golfe a été une provocation, car, depuis 1988, le Koweit menait une guerre froide et une guerre économique contre l'Irak, avec l'encouragement des Américains.

 

Q.: L'Allemagne est-elle incapable, au­jourd'hui, de mener une politique extérieure cohérente?

 

GM: A chaque occasion qui se présentera sur la scène de la grande politique, on verra que non seulement nous sommes incapables de mener une opération, quelle qu'elle soit, mais, pire, que nous ne le voulons pas.

 

Q.: Pourquoi?

 

GM: Parce qu'il y a le problème de la culpa­bilité, et celui du refoulement: nous avons refoulé nos instincts politiques profonds et naturels. Tant que ce refoulement et cette cul­pabilité seront là, tant que leurs retom­bées concrètes ne seront pas définitivement éliminées, il ne pourra pas y avoir de poli­tique allemande.

 

Q.: Donc l'Allemagne ne cesse de capituler sur tous les fronts...

 

GM: Oui. Et cela appelle une autre question: sur les monuments aux morts de l'avenir, inscrira-t-on «ils sont tombés pour que soit imposée la résolution 1786 de l'ONU»? Au printemps de cette année 1991, on pouvait re­pérer deux formes de lâcheté en Allemagne. Il y avait la lâcheté de ceux qui, en toutes cir­constances, hissent toujours le drapeau blanc. Et il y avait aussi la servilité de la CSU qui disait: «nous devons combattre aux côtés de nos amis!». C'était une servilité machiste qui, inconditionnellement, voulait que nous exécutions les caprices de nos pseudo-amis.

 

Q.: Sur le plan de la politique intérieure, qui sont les vainqueurs et qui sont les perdants du débat sur la Guerre du Golfe?

 

GM: Le vainqueur est inconstestablement la gauche, style UNESCO. Celle qui n'a que les droits de l'homme à la bouche, etc. et estime que ce discours exprime les plus hautes va­leurs de l'humanité. Mais il est une question que ces braves gens ne se posent pas: QUI décide de l'interprétation de ces droits et de ces valeurs? QUI va les imposer au monde? La réponse est simple: dans le doute, ce sera toujours la puissance la plus puissante. A­lors, bonjour le droit du plus fort! Les droits de l'homme, récemment, ont servi de levier pour faire basculer le socialisme. A ce mo­ment-là, la gauche protestait encore. Mais aujourd'hui, les droits de l'homme servent à fractionner, à diviser les grands espaces qui recherchent leur unité, où à dé­truire des Etats qui refusent l'alignement, où, plus sim­plement, pour empêcher cer­tains Etats de fonctionner normalement.

 

Q.: Que pensez-vous du pluralisme?

 

GM: Chez nous, on entend, par «pluralis­me», un mode de fonctionnement politique qui subsiste encore ci et là à grand peine. On prétend que le pluralisme, ce sont des camps politiques, opposés sur le plan de leurs Welt­an­schauungen, qui règlent leurs différends en négociant des compromis. Or la RFA, si l'on fait abstraction des nouveaux Länder d'Al­lemagne centrale, est un pays idéolo­gi­quement arasé. Les oppositions d'ordre con­fessionnel ne constituent plus un facteur; les partis ne sont plus des «armées» et n'exi­gent plus de leurs membres qu'ils s'en­ga­gent totalement, comme du temps de la Ré­pu­blique de Weimar. A cette époque, comme nous l'enseigne Carl Schmitt, les «totalités parcellisées» se juxtaposaient. On naissait quasiment communiste, catholique du Zen­trum, social-démocrate, etc. On pas­sait sa jeunesse dans le mouvement de jeu­nesse du parti, on s'affiliait à son association sportive et, au bout du rouleau, on était en­terré grâce à la caisse d'allocation-décès que les core­li­gionnaires avaient fondée... Ce plu­ralisme, qui méritait bien son nom, n'existe plus. Chez nous, aujourd'hui, ce qui do­mine, c'est une mise-au-pas intérieure com­plète, où, pour faire bonne mesure, on laisse subsister de petites différences mineures. Les bonnes consciences se réjouissent de cette situation: elles estiment que la RFA a résolu l'énigme de l'histoire. C'est là notre nouveau wilhel­mi­nisme: «on y est arrivé, hourra!»; nous avons tiré les leçons des er­reurs de nos grands-pères. Voilà le consen­sus et nous, qui étions, paraît-il, un peuple de héros (Hel­den),  sommes devenus de véri­tables marc­hands (Händler),  pacifiques, amoureux de l'argent et roublards. Qui plus est, la four­chette de ce qui peut être dit et pensé sans encourir de sanctions s'est ré­duite conti­nuel­lement depuis les années 50. Je vous rappel­lerais qu'en 1955 paraissait, dans une gran­de maison d'édition, la Deutsche Verlags-Anstalt, un livre de Wilfried Martini, Das Ende aller Sicherheit,  l'une des critiques les plus pertinentes de la démocratie parle­men­taire. Ce livre, au­jourd'hui, ne pourrait plus paraître que chez un éditeur ultra-snob ou dans une maison minuscule d'obédience ex­trê­me-droitiste. Cela prouve bien que l'es­pace de liberté intel­lectuelle qui nous reste se rétrécit comme une peau de chagrin. Les cri­tiques du sys­tème, de la trempe d'un Mar­tini, ont été sans cesse refoulés, houspillés dans les feuilles les plus obscures ou les cé­nacles les plus sombres: une fatalité pour l'intelligence! L'Allemagne centrale, l'ex-RDA, ne nous apportera aucun renouveau spirituel. Les intellectuels de ces provinces-là sont en grande majorité des adeptes exta­tiques de l'idéologie libérale de gauche, du pacifisme et de la panacée «droit-de-l'hom­marde». Ils n'ont conservé de l'idéologie of­ficielle de la SED (le parti au pouvoir) que le miel humaniste: ils ne veu­lent plus entendre parler d'inimitié (au sens schmittien), de con­flit, d'agonalité, et four­rent leur nez dans les bouquins indigestes et abscons de Stern­berger et de Habermas. Mesurez le désastre: les 40 ans d'oppression SED n'ont même pas eu l'effet d'accroître l'intelligence des op­pressés!

 

Q.: Mais les Allemands des Länder centraux vont-ils comprendre le langage de la réédu­cation que nous maîtrisons si bien?

 

GM: Ils sont déjà en train de l'apprendre! Mais ce qui est important, c'est de savoir re­pérer ce qui se passe derrière les affects qu'ils veulent bien montrer. Savoir si quel­que chose changera grâce au nouveau mé­lan­ge inter-allemand. Bien peu de choses se dessinent à l'horizon. Mais c'est égale­ment une question qui relève de l'achèvement du processus de réunification, de l'harmo­ni­sa­tion économique, de savoir quand et com­ment elle réussira. A ce mo­ment-là, l'Alle­ma­gne pourra vraiment se demander si elle pourra jouer un rôle poli­tique et non plus se borner à suivre les Alliés comme un toutou. Quant à la classe politique de Bonn, elle es­père pouvoir échapper au destin grâce à l'u­nification européenne. L'absorption de l'Al­le­magne dans le tout eu­ropéen: voilà ce qui devrait nous libérer de la grande politique. Mais cette Europe ne fonc­tionnera pas car tout ce qui était «faisable» au niveau eu­ro­péen a déjà été fait depuis longtemps. La cons­truction du marché inté­rieur est un bri­colage qui n'a ni queue ni tête. Prenons un exemple: qui décidera de­main s'il faut ou non proclamer l'état d'urgence en Grèce? Une majorité rendue possible par les voix de quelques députés écossais ou belges? Vouloir mener une poli­tique supra-nationale en con­servant des Etats nationaux consolidés est une impossi­bilité qui divisera les Européens plutôt que de les unir.

 

Q.: Comment jugez-vous le monde du con­servatisme, de la droite, en Allemagne? Sont-ils les moteurs des processus domi­nants ou ne sont-ils que des romantiques qui claudiquent derrière les événements?

 

GM: Depuis 1789, le monde évolue vers la gauche, c'est la force des choses. Le natio­nal-socialisme et le fascisme étaient, eux aussi, des mouvements de gauche (j'émets là une idée qui n'est pas originale du tout). Le conservateur, le droitier  —je joue ici au terrible simplificateur—  est l'homme du moin­dre mal. Il suit Bismarck, Hitler, puis Adenauer, puis Kohl. Et ainsi de suite, us­que ad finem. Je ne suis pas un conserva­teur, un homme de droite. Car le problème est ailleurs: il importe bien plutôt de savoir comment, à quel moment et qui l'on «main­tient». Ce qui m'intéresse, c'est le «main­te­neur», l'Aufhalter,  le Cat-echon  dont par­lait si souvent Carl Schmitt. Hegel et Sa­vi­gny étaient des Aufhalter  de ce type; en poli­ti­que, nous avons eu Napoléon III et Bis­marck. L'idée de maintenir, de contenir le flot révolutionnai­re/­dis­s­olutif, m'apparait bien plus intéressante que toutes les belles idées de nos braves conservateurs droitiers, si soucieux de leur Bildung.  L'Aufhalter  est un pessimiste qui passe à l'action. Lui, au moins, veut agir. Le conservateur droitier ouest-allemand, veut-il agir? Moi, je dis que non!

 

Q.: Quelles sont les principales erreurs des hommes de droite allemands?

 

GM: Leur grande erreur, c'est leur rous­seauisme, qui, finalement, n'est pas telle­ment éloigné du rousseauisme de la gauche. C'est la croyance que le peuple est naturel­lement bon et que le magistrat est corrup­ti­ble. C'est le discours qui veut que le peuple soit manipulé par les politiciens qui l'op­pres­sent. En vérité, nous avons la démo­cratie to­tale: voilà notre misère! Nous avons au­jour­d'hui, en Allemagne, un système où, en haut, règne la même morale ou a-morale qu'en bas. Seule différence: la place de la vir­gule sur le compte en banque; un peu plus à gauche ou un peu plus à droite. Pour tout ordre politique qui mérite d'être qualifié d'«or­dre», il est normal qu'en haut, on puis­se faire certaines choses qu'il n'est pas per­mis de faire en bas. Et inversément: ceux qui sont en haut ne peuvent pas faire cer­taines choses que peuvent faire ceux qui sont en bas. On s'insurge contre le financement des partis, les mensonges des politiciens, leur corruption, etc. Mais le mensonge et la cor­ruption, c'est désormais un sport que prati­que tout le peuple. Pas à pas, la RFA devient un pays orientalisé, parce que les structures de l'Etat fonctionnent de moins en moins correctement, parce qu'il n'y a plus d'éthi­que politique, de Staatsethos,  y com­pris dans les hautes sphères de la bureau­cratie. La démocratie accomplie, c'est l'uni­ver­salisa­tion de l'esprit du p'tit cochon roublard, le règne universel des petits ma­lins. C'est précisément ce que nous subis­sons aujour­d'hui. C'est pourquoi le mécon­tentement à l'égard de la classe politicienne s'estompe toujours aussi rapidement: les gens devinent qu'ils agiraient exactement de la même fa­çon. Pourquoi, dès lors, les politi­ciens se­raient-ils meilleurs qu'eux-mêmes? Il fau­drait un jour examiner dans quelle mesure le mépris à l'égard du politicien n'est pas l'envers d'un mépris que l'on cul­tive trop souvent à l'égard de soi-même et qui s'ac­com­mode parfaitement de toutes nos pe­tites prétentions, de notre volonté générale à vou­loir rouler autrui dans la farine, etc.

 

Q.: Et le libéralisme?

 

GM: Dans les années qui arrivent, des crises toujours plus importantes secoueront la pla­nète, le pays et le concert international. Le libéralisme y rencontrera ses limites. La pro­chaine grande crise sera celle du libéra­lisme. Aujourd'hui, il triomphe, se croit in­vincible, mais demain, soyez en sûr, il tom­bera dans la boue pour ne plus se relever.

 

Q.: Pourquoi?

 

GM: Parce que le monde ne deviendra ja­mais une unité. Parce que les coûts de toutes sortes ne pourront pas constamment être externalisés. Parce que le libéralisme vit de ce qu'ont construit des forces pré-libérales ou non libérales; il ne crée rien mais consomme tout. Or nous arrivons à un stade où il n'y a plus grand chose à consommer. A commen­cer par la morale... Puisque la morale n'est plus déterminée par l'ennemi extérieur, n'a plus l'ennemi extérieur pour affirmer ce qu'elle entend être et promouvoir, nous dé­bouchons tout naturellement sur l'implosion des valeurs...  Et le libéralisme échouera par­ce qu'il ne pourra plus satisfaire les be­soins économiques qui se font de plus en plus pressants, notamment en Europe orientale.

 

Q.: Vous croyez donc que les choses ne changent qu'à coup de catastrophes?

 

GM: C'est exact. Seules les catastrophes font que le monde change. Ceci dit, les catas­tro­phes ne garantissent pas pour autant que les peuples modifient de fond en comble leurs modes de penser déficitaires. Depuis des an­nées, nous savions, ou du moins nous étions en mesure de savoir, ce qui allait se passer si l'Europe continuait à être envahie en masse par des individus étrangers à notre espace, provenant de cultures radica­lement autres par rapport aux nôtres. Le problème devient particulièrement aigu en Allemagne et en France. Quand nous au­rons le «marché in­térieur», il deviendra plus aigu encore. Or à toute politique ration­nelle, on met des bâtons dans les roues en invoquant les droits de l'homme, etc. Ceci n'est qu'un exemple pour montrer que le fossé se creusera toujours davantage entre la capacité des uns à prévoir et la promptitude des autres à agir en con­séquence.

 

Q.: Ne vous faites-vous pas d'illusions sur la durée que peuvent prendre de tels processus? Au début des années 70, on a pronostiqué la fin de l'ère industrielle; or, des catastrophes comme celles de Tchernobyl n'ont eu pour conséquence qu'un accroissement générale de l'efficience industrielle. Même les Verts pratiquent aujourd'hui une politique indus­trielle. Ne croyez-vous pas que le libéralisme s'est montré plus résistant et innovateur qu'on ne l'avait cru?

 

GM: «Libéralisme» est un mot qui recouvre beaucoup de choses et dont la signification ne s'étend pas à la seule politique indus­triel­le. Mais, même en restant à ce niveau de po­litique industrielle, je resterai critique à l'é­gard du libéralisme. Partout, on cherche le salut dans la «dé-régulation». Quelles en sont les conséquences? Elles sont patentes dans le tiers-monde. Pour passer à un autre plan, je m'étonne toujours que la droite re­proche au libéralisme d'être inoffensif et inefficace, alors qu'elle est toujours vaincue par lui. On oublie trop souvent que le libéra­lisme est aussi ou peut être un système de domination qui fonctionne très bien, à la condition, bien sûr, que l'on ne prenne pas ses impératifs au sérieux. C'est très clair dans les pays anglo-saxons, où l'on parle sans cesse de democracy  ou de freedom,  tout en pensant God's own country  ou Britannia rules the waves.  En Allemagne, le libéralisme a d'emblée des effets destruc­teurs et dissolutifs parce que nous prenons les idéologies au sérieux, nous en faisons les impératifs catégoriques de notre agir. C'est la raison pour laquelle les Alliés nous ont octroyé ce système après 1945: pour nous neutraliser.

 

Q.: Etes-vous un anti-démocrate,

Monsieur Maschke?

 

GM: Si l'on entend par «démocratie» la par­titocratie existente, alors, oui, je suis anti-démocrate. Il n'y a aucun doute: ce système promeut l'ascension sociale de types hu­mains de basse qualité, des types humains médiocres. A la rigueur, nous pourrions vi­vre sous ce système si, à l'instar des Anglo-Sa­xons ou, partiellement, des Français, nous l'appliquions ou l'instrumentalisions avec les réserves né­cessaires, s'il y avait en Allemagne un «bloc d'idées incontestables», imperméable aux effets délétères du libé­ra­lisme idéologique et pratique, un «bloc» se­lon la définition du ju­riste français Maurice Hauriou. Evidemment, si l'on veut, les Alle­mands ont aujourd'hui un «bloc d'idées in­contes­tables»: ce sont celles de la culpabilité, de la rééducation, du refoulement des acquis du passé. Mais contrairement au «bloc» dé­fini par Hauriou, notre «bloc» est un «bloc» de faiblesses, d'éléments affaiblissants, in­ca­­pacitants. La «raison d'Etat» réside chez nous dans ces faiblesses que nous cultivons jalousement, que nous conservons comme s'il s'agissait d'un Graal. Mais cette omni­pré­sence de Hitler, cette fois comme cro­que­mitaine, signifie que Hitler règne tou­jours sur l'Allemagne, parce que c'est lui, en tant que contre-exemple, qui détermine les règles de la politique. Je suis, moi, pour la suppres­sion définitive du pouvoir hitlérien.

 

Q.: Vous êtes donc le seul véritable

anti-fasciste?

 

GM: Oui. Chez nous, la police ne peut pas être une police, l'armée ne peut pas être une armée, le supérieur hiérarchique ne peut pas être un supérieur hiérarchique, un Etat ne peut pas être un Etat, un ordre ne peut pas être un ordre, etc. Car tous les chemins mènent à Hitler. Cette obsession prend les formes les plus folles qui soient. Les spécula­tions des «rééducateurs» ont pris l'ampleur qu'elles ont parce qu'ils ont affirmé avec succès que Hitler résumait en sa personne tout ce qui relevait de l'Etat, de la Nation et de l'Autorité. Les conséquences, Arnold Gehlen les a résumées en une seule phrase: «A tout ce qui est encore debout, on extirpe la moëlle des os». Or, en réalité, le système mis sur pied par Hitler n'était pas un Etat mais une «anarchie autoritaire», une alliance de groupes ou de bandes qui n'ont jamais cessé de se combattre les uns les autres pendant les douze ans qu'a duré le national-socia­lisme. Hitler n'était pas un nationaliste, mais un impérialiste racialiste. Pour lui, la nation allemande était un instrument, un réservoir de chair à canon, comme le prouve son comportement du printemps 1945. Mais cette vision-là, bien réelle, de l'hitlérisme n'a pas la cote; c'est l'interprétation sélective­ment colorée qui s'est imposée dans nos es­prits; résultat: les notions d'Etat et de Nation peuvent être dénoncées de manière ininter­rompue, détruites au nom de l'éman­cipa­tion.

 

Q.: Voyez-vous un avenir pour la droite en Allemagne?

 

GM: Pas pour le moment.

 

Q.: A quoi cela est-il dû?

 

GM: Notamment parce que le niveau intel­lectuel de la droite allemande est misérable. Je n'ai jamais cessé de le constater. Avant, je prononçais souvent des conférences pour ce public; je voyais arriver 30 bonshommes, parmi lesquels un seul était lucide et les 29 autres, idiots. La plupart étaient tenaillés par des fantasmes ou des ressentiments. Ce public des cénacles de droite vous coupe tous vos effets. Ce ne sont pas des assemblées, soudées par une volonté commune, mais des poulaillers où s'agitent des individus qui se prétendent favorables à l'autorité mais qui, en réalité, sont des produits de l'éducation anti-autoritaire.

 

Q.: L'Amérique est-elle la cible principale

de l'anti-libéralisme?

 

GM: Deux fois en ce siècle, l'Amérique s'est dressée contre nous, a voulu détruire nos œu­vres politiques, deux fois, elle nous a dé­claré la guerre, nous a occupés et nous a ré­éduqués.

 

Q.: Mais l'anti-américanisme ne se déploie-t-il pas essentiellement au niveau «impolitique» des sentiments?

 

GM: L'Amérique est une puissance étran­gè­re à notre espace, qui occupe l'Europe. Je suis insensible à ses séductions. Sa culture de masse a des effets désorientants. Certes, d'aucuns minimisent les effets de cette cul­ture de masse, en croyant que tout style de vie n'est que convention, n'est qu'extériorité. Beaucoup le croient, ce qui prouve que le pro­blème de la forme, problème essentiel, n'est plus compris. Et pas seulement en Alle­ma­gne.

 

Q.: Comment expliquez-vous la montée du néo-paganisme, au sein des droites, spécia­lement en Allemagne et en France?

 

GM: Cette montée s'explique par la crise du christianisme. En Allemagne, après 1918, le protestantisme s'est dissous; plus tard, à la suite de Vatican II dans les années 60, ça a été au tour du catholicisme. On interprète le problème du christianisme au départ du con­cept d'«humanité». Or le christianisme ne repose pas sur l'humanité mais sur l'a­mour de Dieu, l'amour porté à Dieu. Au­jour­d'hui, les théologiens progressistes attri­buent au christianisme tout ce qu'il a jadis combattu: les droits de l'homme, la démo­cra­tie, l'amour du lointain (de l'exotique), l'af­faiblissement de la nation. Pourtant, du christianisme véritable, on ne peut même pas déduire un refus de la poli­tique de puis­sance. Il suffit de penser à l'époque baroque. De nos jours, nous trou­vons des chrétiens qui jugent qu'il est très chrétien de rejetter la distinction entre l'ami et l'ennemi, alors qu'el­le est induite par le péché originel, que les théologiens actuels cherchent à mini­mi­ser dans leurs interpré­tations. Mais seul Dieu peut lever cette dis­tinction. Hernán Cor­tés et Francisco Pizarro savaient encore que c'était impossible, con­trairement à nos évêques d'aujourd'hui, Lehmann et Kruse. Cortés et Pizarro étaient de meilleurs chré­tiens que ces deux évêques. Le néo-paga­nis­me a le vent en poupe à notre époque où la sécularisation s'accélére et où les églises el­les-mêmes favorisent la dé-spi­ritualisation. Mais être païen, cela signifie aussi prier. Demandez donc à l'un ou l'autre de ces néo-païens s'il prie ou s'il croit à l'un ou l'autre dieu païen. Au fond, le néo-paga­nisme n'est qu'un travestissement actualisé de l'athéis­me et de l'anticléricalisme. Pour moi, le néo-paganisme qui prétend revenir à nos racines est absurde. Nos racines se si­tuent dans le christianisme et nous ne pou­vons pas reve­nir 2000 ans en arrière.

 

Q.: Alors, le néo-paganisme,

de quoi est-il l'indice?

 

GM: Il est l'indice que nous vivons en déca­dence. Pour stigmatiser la décadence, notre époque a besoin d'un coupable et elle l'a trou­vé dans le christianisme. Et cela dans un mon­de où les chrétiens sont devenus ra­rissi­mes! Le christianisme est coupable de la dé­cadence, pensait Nietzsche, ce «fanfaron de l'intemporel» comme aimait à l'appeler Carl Schmitt. Nietzsche est bel et bien l'ancêtre spirituel de ces gens-là. Mais qu'entendait Nietzsche par christianisme? Le protestan­tis­me culturel libéral, prusso-allemand. C'est-à-dire une idéologie qui n'existait pas en Italie et en France; aussi je ne saisis pas pourquoi tant de Français et d'Italiens se réclament de Nietzsche quand ils s'attaquent au christianisme.

 

Q.: Monsieur Maschke, nous vous remer­cions de nous avoir accordé cet entretien.

 

(une version abrégée de cet entretien est pa­rue dans Junge Freiheit n°6/91; adresse: JF, Postfach 147, D-7801 Stegen/Freiburg).                

mardi, 25 novembre 2008

Una victoria con sabor amargo

Una victoria con sabor amargo

La oposición se quedó con la vidriera política de la capital, Caracas, en una elección donde el Partido Socialista Unido de Venezuela se impuso con holgura en 17 de 23 estados (otros dos todavía no presentaban numero firmes). El oficialismo es la principal fuerza política a nivel territorial y recuperó más de un millón de votos de los perdidos en el fallido referéndum constitucional de 2007.

Disimulado estupor en el comando del Partido Socialista Unido de Venezuela y caras desencajadas de goce en un improvisado comando unitario de una oposición desunida, es la postal de una Caracas que se fue a dormir tarde con un brusco y -para muchos- inesperado escenario a partir de los primeros días del 2009. La sorpresa la dio la directora del Consejo Nacional Electoral, Tibisay Lucena, quien pocos segundos antes de las doce de la noche, confirmó que la alcaldía mayor de la ciudad quedaría en manos de Antonio Ledezma, ex dirigente del partido Acción Democrática.

El otro resultado recibido con preocupación en el cuartel del oficialismo fue en el vecino estado Miranda, donde Enrique Capriles Radonski, ex alcalde del municipio Baruta, procesado por el sitio violento sobre la embajada de Cuba durante el golpe de 2002, se impuso con cierta comodidad sobre el candidato del oficialismo y alguna vez vicepresidente de Hugo Chávez, Diosdado Cabello.

Si ese es el lado medio vacío del vaso, el lado medio lleno es el mapa de toda Venezuela que quedó, como le gusta decir al presidente Chávez “rojo rojito”: el Partido Socialista Unido de Venezuela (PSUV) se impuso en 17 de 23 estados, recuperando las gobernaciones de Aragua, Guárico y Sucre, y manteniendo Anzoátegui, Barinas, Bolívar, Yaracuy, Cojedes, Falcón, Guárico, Lara, Mérida, Monagas, Portuguesa, Trujillo, Vargas y Sucre, así como en el municipio Libertador de Caracas.

En términos numéricos, el PSUV recuperó parte del potencial electoral perdido el año pasado, cuando se impuso por un puñado de votos el NO a la reforma constitucional propuesta por el presidente Chávez, en lo que constituyó la primera derrota electoral del proyecto bolivariano. En diciembre pasado, el No triunfó con 4.379.392 votos, mientras que esta vez la suma de los votos a los candidatos del PSUV superó los 5.600.000.

Alta participación

A las cuatro de la tarde del domingo, cuando el sol todavía pegaba fuerte en Caracas, el CNE dio por formalmente cerrados los comicios regionales en Venezuela. Fue apenas una declaración formal, porque en la mayoría de los centros comiciales todavía se registraban largas colas de electores esperando su turno para votar.
La ley electoral venezolana es clara: los centros de comicios deben permanecer abiertos mientras haya ciudadanos esperando su turno. Y los había, y muchos. Y con mucha paciencia. En varias zonas del Este y el Sur de Caracas, ya bien entrada la noche seguían los colegios abiertos y sobre las 10.00 pm, más que tarde para los madrugadores caraqueños, aun se votaba en zonas populares. Lo mismo sucedía en varios estados, en especial en otras ciudades grandes, como Maracaibo.

Sólo viendo las largas colas extendidas hasta la noche, se sabía que la participación rompería récords para una elección donde no estaba en juego la figura presidencial. En el primer parte con casi todos los votos contados, el CNE confirmó la cifra: 65,45%

Elección compleja

En Sucre, en el este de Caracas y asiento de Petare, uno de los asentamientos populares más grandes de América Latina, los ciudadanos debieron elegir once opciones: gobernador del estado Miranda, alcalde mayor de Caracas, alcalde de Sucre, legisladores del estado y representantes citadinos, en votos por nombres y por lista.
Una recorrida de Rebelión por ese distrito verificó cómo el voto se hizo lento y complejo para los más viejitos y para los más humildes. Otra variable también fue evidente: por la mañana, detenidos por unas nubes que amenazaban con descargar un “palo de agua” -denominación local para los aguaceros-, fueron muchos los que se quedaron en casa.
Así, los primeros sondeos para el PSUV eran preocupantes . Fue cuando la militancia redobló esfuerzos y llegaron más -junto al sol oportuno de la tarde- a los colegios electorales. La afluencia dio frutos y al atardecer los números empezaron a cambiar, aunque no alcanzaron para revertir los malos resultados en Miranda y la alcaldía mayor de Caracas.

Los siguientes resultados corresponden al 95.67% de la transmisión en un promedio nacional:

Distrito Capital
Antonio Ledezma 52.45%
Aristóbulo Istúriz 44.92%

 

Municipio Libertador - Caracas
Jorge Rodríguez 53.05%
Iván Stalin González 41.92%

Anzoátegui
Tarek William Saab 55.06%
Gustavo Marcano 40.50%

Apure
Jesús Aguilarte 56.48%
Miriam de Montilla 26.54%

Aragua
Rafael Isea 58.56%
Henry Rosales 40.17%

Barinas
Adán Chávez 49.63%
Julio Cesar Reyes 44.58%

Bolívar
Francisco Rangel 46.97%
Andrés Velásquez 30.47%

Cojedes
Teodoro Bolívar 51.53%
Alberto Galíndez el 40.36%

Delta Amacuro
Lisetta Hernández 55.54% Pedro
Rafael Santaella 25.85%

Guárico
Lenny Manuitt 33.68%
Willian Lara 52.08%

Mérida
Marcos Díaz 54.62%
Williams Dávila 45.11%

Lara
Henry Falcón 73.15%
Pedro Pablo Alcántara 14.85%

 

Miranda
Henrique Capriles Radonsky 52.56 %
Diosdado Cabello 36.74%

Monagas
Jose Briceño 64.79%
Domingo Urbina 15.41 %

Sucre
Enrique Maestre 56.08%
Eduardo Morales 42.62%

Falcón
Stella Lugo: 55.27 %
Gregorio Graterol: 44.49%

Nueva Esparta
Morel Rodríguez: 57,64
William Fariñas: 41,69%

Portuguesa
Wilmar Castro Soteldo 57%
Jovito Villegas 27.28%

Trujillo
Hugo Cesar Cabezas 59.47%
Henrique Catalán 27%

Vargas
Jorge García 61.56%
Roberto Smith 32.18%

Yaracuy

Julio César León Heredia, 57.46%
Filipo Lapi 29.26%

Zulia
Gian Carlo Di Martino 45.02%
Pablo Pérez 53.59%

Nouveautés sur le site "Theatrum Belli"

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Bonjour,

Veuillez trouver ci-dessous les dernières publications du blog THEATRUM BELLI (http://www.theatrum-belli.com/ ).


Le "storytelling" de guerre ou l'art de formater les esprits (1/2)

« Des éclats de verre et des débris de meubles brisés jonchent le sol de la pièce. Par une brèche percée dans l'un des murs, on aperçoit la ville, la circulation sur le pont qui enjambe le fleuve, les moineaux qui se dispersent dans la brume... Une musique arabe et les voix des marchands remontent d'une rue commerçante en contrebas. À côté de moi, le commandant Paul Tyrrell scrute avec son...

Cette note a été publiée le 23 novembre 2008

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Le "storytelling" de guerre ou l'art de formater les esprit (2/2)

Des « armes de distraction massive » Pour Richard Lindheim, le vice-président de Paramount Digital Entertainment qui fut à l'origine de l'ICT, si la génération du Viêt-nam était celle de la télévision, les jeunes soldats d'aujourd'hui ont grandi avec les jeux vidéo. Selon une étude de l'armée, 90% des 75.000 jeunes qui rejoignent l'armée chaque année ont déjà utilisé des jeux...

Cette note a été publiée le 23 novembre 2008

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A l'école de l'élite militaire afghane

Une trentaine de soldats afghans grimpent en courant la pente raide de la "colline de l'homme perdu", fusil d'assaut à bout de bras, dans un nuage de poussière. "Hondo" les observe, avec le regard de l'expert : "Les Afghans sont rustiques, parfaitement adaptés à leur environnement ; ce sont des combattants inépuisables : le matin à 5 heures, ils sont à l'entraînement." Le commandant...

Cette note a été publiée le 22 novembre 2008

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Rafale en Afghanistan

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Cette note a été publiée le 22 novembre 2008

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Un militaire français tué en Afghanistan

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Cette note a été publiée le 22 novembre 2008

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Un turboréacteur de missile à peine plus grand qu'un stylo

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Cette note a été publiée le 22 novembre 2008

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Une "EFO" pour l'Afghanistan

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Cette note a été publiée le 22 novembre 2008

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L'Armée de Terre commande 560 nouveaux systèmes SITEL

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Cette note a été publiée le 22 novembre 2008

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La guerre culturelle

 

Cette note a été publiée le 21 novembre 2008

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L'Europe redoute la naissance d'une "Opep du gaz"

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Cette note a été publiée le 20 novembre 2008

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Course aux ressources naturelles : la troisième guerre mondiale a déjà commencé : la RDC en fait déjà les frais

Le contrôle des ressources naturelles sera, en ce 21ème siècle, au centre de nombreux conflits armés. On est encore loin d'un tableau attestant d'une guerre mondiale. Mais, les ingrédients pour y arriver sont bien là. A l'Est de la RDC où se livre depuis une dizaine d'années une grande razzia pour le contrôle des ressources naturelles en témoigne, avec l'entrée en scène de...

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Tsahal reste prête à frapper l'Iran

L'élection de Barack Obama suscite l'inquiétude de ceux qui redoutent de voir les États-Unis laisser Téhéran se doter de la bombe atomique. "C'est alors que le soleil s'est arrêté." Exactement comme il s'arrêta pendant vingt-quatre heures dans la Bible, à la demande de Josué, afin de permettre à l'armée d'Israël de vaincre ses ennemis amorites. À l'époque, Leev Raz y avait vu...

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Le "syndrome de la guerre du Golfe" confirmé par un rapport US

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Police/Gendarmerie : main dans la main ?

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Cette note a été publiée le 17 novembre 2008

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Attaques au mortier d'insurgés afghans

 

Cette note a été publiée le 16 novembre 2008

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Génération Irak (1/3)

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Cette note a été publiée le 16 novembre 2008

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Apocalypse Now Redux (1979 et 2001)

Les services secrets militaires américains confient au capitaine Willard la mission de trouver et d'exécuter le colonel Kurtz dont les méthodes sont jugées "malsaines". Kurtz, établi au-delà de la frontière avec le Cambodge, a pris la tête d'un groupe d'indigènes et mène des opérations contre l'ennemi avec une sauvagerie terrifiante. Au moyen d'un patrouilleur mis à sa disposition, ainsi...

Cette note a été publiée le 16 novembre 2008

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Un séminaire pour faire avancer le projet d' "ERASMUS militaire"

Un séminaire de haut niveau s'est déroulé les 13 et 14 novembre 2008 à Paris sur "l'initiative européenne pour les échanges de jeunes officiers" , plus connu sous le nom d' "ERASMUS militaire" puisque ce projet s'inspire du célèbre programme européen d'échanges étudiants. Ce séminaire sera ouvert par le secrétaire d'État français à la défense et aux anciens combattants, Jean-Marie...

Cette note a été publiée le 16 novembre 2008

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Les événements en RDC depuis une "Google map"

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Cette note a été publiée le 14 novembre 2008

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R. Steuckers: entretien-éclair sur l'actualité

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SYNERGIES EUROPEENNES – Ecole des cadres – Bruxelles – novembre 2008

 

Entretien-éclair avec Robert Steuckers sur l’actualité

 

Propos recueillis par Dimitri Severens

 

Q.: Obama vient d’être élu président des Etats-Unis. Son mandat apportera-t-il le changement escompté par les électeurs américains et espéré par la majorité des Européens, lassés par l’unilatéralisme des “néo-cons” qui ont colonisé le Parti Républicain au pouvoir depuis huit ans?

 

RS: L’hebdomadaire “Marianne”, de Paris, a récemment publié une double page qui nous enseigne de manière très didactique ce qu’Obama a vraisemblablement l’intention de faire. Les Démocrates américains et les “think tanks” qui se profilent derrière eux semblent parier, et c’est inquiétant pour nous Européens, sur un rapprochement avec la Chine, un rapprochement que la crise financière rend quasi inéluctable. Il est plus que probable que nous affronterons bientôt un tandem sino-américain, expression d’un voeu très ancien qui remonte déjà à 1848, quand, après la défaite du Mexique, les Etats-Unis devenaient une puissance pleinement bio-océanique, avec une façade atlantique face à la Vieille Europe, et une façade pacifique, face à un Japon encore plongé dans son isolement et une Chine en plein déclin, après les guerres de l’opium que lui avaient livrées la France et l’Angleterre. L’espoir américain, en ce milieu du 19ème siècle, était de coloniser indirectement cet immense marché chinois comptant déjà des millions de consommateurs potentiels.

 

L’émergence de ce tandem sino-américain, nous pouvons le pronostiquer en repérant le retour au pouvoir des “Clinton Boys” et surtout, celui, en coulisses, de Zbigniew Brzezinski. N’oublions pas, tout de même, que sa politique, depuis plus d’une trentaine d’années, vise avant toute chose à endiguer la Russie (et hier l’Union Soviétique), jugée ennemi absolu, et que, pour parfaire cet endiguement, il faut immanquablement se concilier la Chine. C’était d’ailleurs la raison qui avait poussé Kissinger et Nixon, en 1971 et 1972,  à renouer avec Pékin, un épisode de l’histoire contemporaine dont on a oublié quelque peu les tenants et aboutissants. Un tandem sino-américain, renforcé par l’alliance complémentaire de tous les turcophones selon une autre stratégie suggérée par Brzezinski, impliquerait, par voie de conséquence, la satellisation escomptée, mais non pour autant garantie, du Kazakhstan. Cette stratégie générale, dont le pilier est justement le tandem sino-américain, permet d’occuper et de neutraliser au bénéfice de Washington, toute l’Asie centrale, tout le “coeur du monde”  (selon la terminologie de Sir Halford John Mackinder). Nous aboutirions ainsi à la concrétisation du fameux “mongolisme” géopolitique, cher à Brzezinski, permettant d’installer un gigantesque verrou territorial de l’Egée au Pacifique. L’Europe occidentale et centrale, son coeur germanique et danubien, serait bloquée au niveau des Balkans et de la Méditerranée orientale, comme le voulait la stratégie de l’équipe Clinton-Albright, lors de la guerre contre la Serbie. La Russie, elle, serait bloquée et endiguée du Caucase au fleuve Amour, comme l’a toujours voulu la stratégie d’endiguement mise au point par Mackinder et Homer Lea dans la première décennie du 20ème siècle, deux classiques qu’il est bon d’avoir pour livres de chevet, faute de parler dans le vide.

 

Ce verrou de l’Egée à l’Amour a bien entendu pour objectif de limiter au maximum le contact terrestre entre la Russie et l’Iran, soit à le limiter aux seules côtes de la Caspienne, gardées, s’il le faut par de tierces puissances turcophones comme l’Azerbaïdjan, le Turkménistan et le Kazakhstan (qui n’ont pas répondu au chant des sirènes américaines jusqu’ici…). Autre objectif, déjà mis en oeuvre lors des guerres menées par l’Empire britannique en Afghanistan dans les années 40 du 19ème siècle: empêcher toute liaison terrestre entre l’Inde et la Russie, de façon à détacher, aujourd’hui, l’Inde de son hinterland continental et de l’inféoder, en tant que “rimland” et immense marché potentiel, à la thalassocratie américaine dominante. Cette stratégie risque évidemment de trouver sa pierre d’achoppement dans la rivalité sino-indienne pour le Tibet et dans la nécessité vitale, pour la Chine, de capter l’eau des réserves phréatiques tibétaines, le cas échéant en détournant les eaux des fleuves, notamment celles du Brahmapoutre. La diplomatie américaine devra déployer des trésors d’ingéniosité pour aplanir ce contentieux et pour aligner l’Inde sur sa politique. Déjà quelques signaux, en apparence anodins, annoncent que l’on va lâcher le Tibet: notamment, cette semaine, un article du “Time” déplore l’émiettement de l’opposition tibétaine qui, du coup, ne vaut plus qu’on la soutienne.

 

Comme les néo-cons de l’équipe Bush, les nouveaux conseillers d’Obama veulent, eux aussi, et avec une égale opiniâtreté, inclure l’Ukraine et la Géorgie dans l’OTAN. L’adhésion de l’Ukraine correspond à la stratégie générale préconisée depuis toujours par Brzezinski et au pari de l’équipe Bush jr sur la “Nouvelle Europe”. En effet, l’inféodation définitive de l’Ukraine, avec ou sans la Crimée, avec ou sans ses provinces orientales russophones et russophiles, permet, de concert avec une réactivation du tandem turco-américain dans la région pontique, de concentrer tous les atouts de l’ancienne géopolitique ottomane dans la région et de conjuguer ceux-ci à une réactualisation du projet de ‘Cordon sanitaire” de Mackinder et Curzon. Les pays Baltes, la Pologne, la Hongrie, la Roumanie et, dans une moindre mesure, la Bulgarie, sans compter les micro-puissances musulmanes des Balkans, se verraient ajoutés à un bloc anatolien solide en Méditerranée orientale et surplombant la Mésopotamie. Ce bloc séparerait la “Vieille Europe” de la Russie et, joint à une alliance “turcophone” en Asie centrale, à la Mongolie et à la Chine permettrait de créer un espace correspondant plus ou moins à l’ensemble des conquêtes mongoles au moment de leur extension maximale.

 

La présence, sur la masse continentale eurasienne, d’un verrou d’une telle ampleur, empêcherait toute coopération entre les empires structurés, reposant sur la stabilité sédentaire (et non plus sur la non durabilité nomade), disséminés sur ce grand continent qu’est le “Vieux monde” ou “l’hémisphère oriental”.

 

Face à ce projet, qui a gardé toute sa cohérence de Mackinder à Brzezinski, donc sur un très long terme, l’Europe, expliquent de concert “The Economist”, “Time” et “Newsweek” n’a pas une politique qui tienne la route. On l’a bien vu lors de la “Guerre d’août” en Géorgie: Merkel avait émis au printemps de fortes réticences quant à l’adhésion de l’Ukraine et de la Géorgie à l’OTAN; après la victoire des troupes russes, elle déclare à Tbilissi qu’elle est en faveur de cette adhésion, pour répéter son “Nein” initial vers le milieu de l’automne. Nous l’avons toujours dit: le personnel politique européen aurait dû, depuis longtemps, depuis le rapprochement sino-américain de 1971-72 et depuis le retour en force de la pensée géopolitique avec Colin S. Gray aux Etats-Unis juste avant l’avènement de Reagan, apprendre à jongler avec les concepts de cette discipline à facettes multiples et surtout à redécouvrir les linéaments de la géopolitique européenne, théorisée par Haushofer et ses collaborateurs. Rien de cela n’a été fait donc l’Europe en est à cultiver des espoirs stupides et niais face à l’avènement d’une nouvelle équipe au pouvoir à Washington, qui serait parée de toutes les vertus, tout simplement parce qu’elle est “démocrate”.

 

Q.: Et la crise financière dans tout cela? Ne va-t-elle pas freiner les appétits impérialistes de la grande thalassocratie d’Outre-Atlantique? Ne va-t-elle pas plonger le monde dans l’immobilisme, faute de moyens?

 

RS: La plus belle analyse de la situation a été posée Niall Ferguson, historien britannique et professeur à Harvard, dans l’entretien qu’il a accordé à l’hebdomadaire allemand “Der Spiegel” (n°46/2008) et que nous avons commenté lors d’une réunion récente de l’école des cadres de “Synergies Européennes” à Bruxelles et à Liège. La crise, dit-il, lors de ses prochaines retombées, va frapper plus durement l’Europe que les Etats-Unis. Quant aux pays contestataires et producteurs de pétrole, tels la Russie, l’Iran et le Venezuela, qui envisageaient de faire front à l’unilatéralisme américain de l’équipe Bush, ils risquent d’être les victimes de la chute des prix du pétrole. La crise permet donc de disloquer la cohésion de ce nouveau front. Ensuite, Ferguson démontre la communauté d’intérêt entre la Chine et les Etats-Unis: la Chine a des dollars, rappelle-t-il, dont les Américains ont besoin pour se renflouer, et les Etats-Unis sont un marché dont les Chinois ne peuvent plus se passer. L’équipe derrière Obama semble l’avoir compris. C’est la raison pour laquelle Ferguson estime que les Etats-Unis risquent bien de sortir vainqueurs de la crise, en perdant certes quelques plumes, mais beaucoup moins que leurs concurrents européens. Et le tour serait joué!

 

Le programme restera le même, sur le fond: encerclement de la Russie, endiguement (surtout économique) de l’Europe, mais sans plus heurter de front les musulmans et les Chinois. En effet, on reprochait à Bush d’avoir sérieusement abîmé la vieille alliance entre la Turquie et les Etats-Unis, d’avoir perdu énormément de crédit au Pakistan et d’avoir déplu aux masses arabes, tous pays confondus. La politique anti-chinoise générant, dans un tel contexte, une inimitié de trop, difficile à gérer. L’Europe entrera dans une phase d’affaiblissement et de ressac parce que l’équipe d’Obama, comme celle de Bush avant lui, excitera la “Nouvelle Europe” du nouveau “Cordon sanitaire” à la Curzon, contre la “Vieille Europe” plus favorable à un rapprochement avec la Russie, conflit interne à l’Europe qui ruinera les efforts d’intégration européenne entrepris depuis plusieurs décennies. Cette politique générale d’endiguement et d’affaiblissement téléguidé se fera par le biais d’une alliance Etats-Unis/Chine/monde musulman wahhabite-sunnite comme au temps de Clinton. Car la même équipe revient aux affaires, surtout Madeleine Albright et Brzezinski. Les Etats-Unis, avec la crise, ne peuvent plus se permettre d’entretenir la quadruple hostilité qu’avait soulevée contre l’Amérique l’équipe sortante de Bush: hostilité à l’islam en général (même si cette hostilité était plus “fabriquée” par les médias que réelle), à la Chine, à la Russie et à la “Vieille Europe”, à qui on interdisait toute diplomatie internationale indépendante et conforme à ses intérêts propres. La géostratégie néo-conservatrice avait trouvé ses limites: elle s’était fait trop d’ennemis et perdait de ce fait de la marge de manoeuvre. Les démocrates vont se choisir des alliés et tabler sur les atouts sentimentaux que fait naître un président métis pour séduire l’Afrique, que Washington veut arracher à l’influence européenne depuis la seconde guerre mondiale, et pour mieux faire accepter les politiques américaines dans le monde musulman, malgré les réticences déjà observables suite à la nomination de Rahm Emanuel comme secrétaire général de la Maison Blanche; en Turquie, on prépare, semble-t-il, la succession d’Erdogan, qui a branlé dans le manche, en poussant en avant un homme formé aux Etats-Unis, un islamiste dit “modéré”: Numan Kurtulmus. L’avenir nous dira si cet économiste prendra le relais de l’équipe de l’AKP ou non à Ankara. Au Pakistan, les tentatives de se concilier à nouveau le pouvoir à Islamabad heurtent les Indiens, surtout après la nomination d’Ahmed Rashid et de Shuja Nawaz, tous deux d’origine pakistanaise, dans l’équipe du Général Petraeus en Afghanistan. 

 

L’électorat démocrate est plus varié, sur les plans religieux et idéologique, que l’électorat républicain, où les sectes protestantes, presbytériennes et puritaines, donnent irrémédiablement le ton, mais dont les idées ne sont guère exportables, tant elles paraissent étranges au reste du monde et rebutent.

 

L’avenir pour l’Europe n’est pas plus rose avec Obama que sous Bush. Tout porte même à penser que ce sera pire: la cohésion intellectuelle de la géopolitique de Brzezinski est bien plus redoutable que l’affrontement tous azimuts préconisé par la géopolitique offensive et unilatéraliste des néo-conservateurs, dénoncée dans “Foreign Affairs” comme “entravant tout raisonnement stratégique solide”. Pour nous, le combat doit continuer, pour rétablir le bloc euro-russe et, ainsi, une cohésion qui doit rappeler celle de la “Pentarchie” européenne du début du 19ème siècle. 

 

Revolta contra a Arquitectura Moderna

Revolta contra a Arquitectura Moderna

 Ex: http://inconformista.info/

«A arquitectura pré-modernista foi concebida para aproveitar a luz solar para o aquecimento e iluminação dos edifícios (e as brisas, que também são produzidas pela acção solar no ar, para o arrefecimento). O desenvolvimento dessas técnicas tradicionais foi uma acumulação lenta e dolorosa de experiências ao longo de séculos. Foi a abundância anómala de petróleo e gás baratos na nossa época que permitiu aos construtores, e sobretudo aos arquitectos, preocupados com questões de estilo, afastarem-se das práticas tradicionais que tiravam partido da energia solar passiva. O século XX foi a era das curtain walls de vidro nos prédios de escritórios, das janelas que não abriam (ou que não existiam), das fachadas em titânio e de outras façanhas da moda destinadas a decorar os edifícios para proclamar o génio ousado e criativo de quem os concebia. Este comportamento narcisista só foi possível numa sociedade com uma energia barata, na qual pouco mais importava na arquitectura do que a moda e o estatuto associados a um lugar de vanguarda. Num museu concebido por Frank Gehry, pouco importava que entrasse ar ou luz, porque era para isso que serviam o ar condicionado e os focos de halogéneo. O que importava era que a cidade fosse abençoada com um objectivo da moda criado por um xamã célebre. Ora, nada está mais sujeito a desvalorizar-se por deixar de estar na moda do que uma coisa que só é valorizada por ser moderna.»

James Howard Kunstler
in "O Fim do Petróleo - O Grande Desafio do Século XXI", Bizâncio, 2006.

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Claudio Risé: la destinée est en nous

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Claudio RISE:

La destinée est en nous

 

Le code de l'âme de Hillman bouleverse les instruments de la psychologie et nous apprend que

nous sommes porteurs, depuis le début, de l'empreinte d'un caractère individuel pourvu de

traits indélébiles. De Canetti à Kissinger, les parcours d'une vocation.

 

Freud dehors, Platon dedans. Dans son dernier ouvrage Le code de l'âme (Adelphi), James Hillman, perturbateur génial des banalités psychologiques, a enfin lancé une idée qui lui tournait dans la tête depuis des années et qui se flairait déjà un peu dans ses livres précédents. Il s'agit de la « théorie du gland ». La voici. Nous ne sommes pas le résultat des traumatismes subis pendant notre enfance ou des névroses de nos parents. Nous sommes autre chose. « Nous portons, imprimée en nous depuis le début, l'image d'un caractère précis et individuel, pourvu de traits indélébiles ». Comme le gland du chêne, qui porte en soi la “chênitude” de l'arbre qu'il va peut-être devenir. C'est pour récupérer cette image, porteuse d'une destinée, qu'on a recours à l'analyse. Le problème est que la panoplie des analystes (qui est, après tout, celle de Freud, utilisée aussi par les disciples de Jung) est contaminée par les toxines des théories qui voient la vie comme déterminée par les traumatismes de l'enfance.

 

Ainsi cette image innée qui nous montrerait notre vocation, notre “chênitude” personnelle, ne fait jamais surface, car l'intuition imaginaire, la faculté qui nous permettrait de la voir, reste enlisée dans la fange des névroses et des pathologies, encombrées, de surcroît, par l'idée d'évolution de la personnalité, alors que rien n'évolue: dans le “gland” il y a déjà tout. Comme le disait Picasso: « Je n'étudies pas, je ne fais que suivre ! ». Ou comme le dit Hillman: « Nous devons lire notre vie à l'envers, mais en abandonnant l'idée d'évolution et en recherchant plutôt la forme originaire qui est dans le “gland”, et si nous réalisons cette forme originaire (comme le disait Jung qui l'appelait “essence”), nous réalisons notre vie.

 

C'est la recherche de cette forme qui ressort de nos actes les plus impulsifs, les plus inconsidérés, actes pleins de vie, que la psychologie, par contre, estime malsains ou névrosés. Comme quand le petit Elias Canetti (prix Nobel de la littérature en 1981), fasciné par les caractères imprimés des journaux que son père lisait chaque jour, mais pas encore autorisé à apprendre, mendiait auprès de sa cousine Laurica (qui allait déjà à l'école) la permission de voir ses cahiers qui contenaient « ces lettres de l'alphabet qui étaient la chose la plus fascinante que j'eus jamais vue ». Et voilà qu'un jour, la cousine ne lui permet pas de voir l’écriture, alors le petit Canetti va chercher une hache: « Je voulus la tuer... je levai la hache et, en la brandissant devant moi, je répétai en marchant: je vais tuer Laurica, je vais tuer Laurica... ».

 

Quand quelqu'un voit devant soi l'image de son propre “gland”, il n'y a pas d'échappatoire possible: il doit le réaliser. « Canetti —dit Hillman— devait absolument s'emparer des lettres et des mots: comment aurait-il pu devenir écrivain ? C'est le démon, le génie, l’ange qui le veut. Ce qui se passe dans nos institutions pour l'hygiène mentale  —dit toujours Hillman— où les psycholeptiques sont distribués avec moins de retenue que les préservatifs, aurait suffi à transformer toutes les “éminentes personnalités”, devenues telles parce que fidèles à leur “gland”, en de pauvres hères sans personnalité depuis leur plus tendre enfance. Par contre, il faut que la psychologie jette ses bases dans l'imagination des personnes au lieu de prendre en considération ces dernières seulement pour des calculs statistiques ou pour des classements diagnostiques ». Pour seconder cette opération Hillman déploie sous les yeux étonnés du lecteur des centaines d'histoires d'éminences, aussi bien dans la réussite que dans l'échec, qui surent reconnaître leur propre “gland” et y rester fidèles, en dépit de toute hygiène mentale ou psychologico-évolutive.

 

Et voilà la petite Judy Garland (racontée par sa sœur) qui, à l'âge de deux ans, voit le numéro des Blue Sisters, trois petites sœurs entre cinq et douze ans. « Quand la plus petite des Blue Sisters commença à chanter... elle resta collée à la chaise comme en transes. Dans sa tête d'enfant, elle savait déjà exactement ce qu'elle voulait ». « Six mois plus tard, à deux ans et demi  —raconte Hillman— on lui fit faire un numéro avec ses deux plus grandes sœurs; après le numéro, toute seule, elle commença à chanter Jingle Bells, accompagnée par l'enthousiasme du public qui n'arrêtait pas de la rappeler sur scène. Et elle répondait en chantant et en faisant tinter ses clochettes de plus en plus fort, jusqu'au moment où son père dut la ramener de force... Le public l'adora instantanément ».

 

« Ne pensez surtout pas à des narcissismes maternels ou paternels  —met en garde Hillman—  j'attribuerais plutôt l'incroyable magnétisme de Frances Gumm (c'était son véritable nom), âgée de deux ans et demi à l'éclosion, sous les lumières du spectacle, du “gland” de Judy Garland, laquelle, pour commencer sa vie sur Terre, avait choisi précisément cette famille d'artistes et cette situation-là. Mais il faut aussi savoir que chaque “gland” exige son tribut. Pour Judy, le prix était: lavages d'estomac, chantage, gorge coupée avec des tessons de verre, scènes abominables en public, prise de tranquillisants, méchantes cuites, sexe sans discernement, perte d'un toit, désespoir profond... Mais le terrain de son “gland” était Somewhere over the rainbow, au delà de l'arc-en-ciel. Jusqu'à la fin, quand elle montait sur les planches bouffie par l'alcool, chancelante, troublée et en proie à la terreur, c'était cette chanson-là qui enchantait son auditoire, en entraînant l'artiste et son public vers les étoiles ».

 

Grande Judy ! Mais Grand James Hillman, dans ce livre ! Car aucun psychologue n'a jamais été en mesure de voir aussi nettement et aussi clairement la beauté de ce que nous appelons, avec hauteur, “pathologie” et qui n’est, en fait, que la réalisation d'une destinée, le déroulement exact du rôle qui nous a été confié, de la Moira, comme l'appelaient les Grecs de l'Antiquité. Hillman évite la chambre mortuaire de la psychologie et son langage, tout à la fois ordinaire et hautain, ne cache pas au lecteur que l'unicité du “gland” et la particularité absolue du démon qui le protège et l'illumine nous offre… un abîme de solitude... être vivants veut dire aussi être seuls ». Et aujourd'hui, en plus d'être quelque chose de difficile à vivre, comme cela l'a toujours été, c'est aussi être politiquement incorrect. « Tu dois socialiser, tu dois faire partie d'un groupe quelconque, tu dois participer. Colle-toi à un téléphone... ou alors demande à ton toubib qu’il te prescrive du Xanax (Prozac) ». Et puis il y a les théologies qui viennent d'Orient, ou d'Occident. « D'où qu'elles viennent, elles transforment subtilement le sens de la solitude en péché de solitude, en exaspérant le sentiment de malheur. Le désespoir devient vraiment insoutenable quand on cherche à s'en sortir ».

 

Mais regardons-la, ou mieux, éprouvons-la, cette solitude. Qu'est qu'on y trouve ? « Mélancolie, tristesse, silence... le substrat même des chansons de Judy Garland, du langage de son corps, de son visage, de ses yeux... cela rappelle au “gland” ses origines... Où sont ces origines ? Nous ne le savons pas car le lieu dont il est question dans les mythes et les cosmologies a disparu des mémoires ». « A force de vouloir rendre tout pathologique et psychologique, les Dieux, pour nous, sont devenus des maladies... Dionysos, nous dit-on, était un être obscène, Apollon était un être obsessionnel, tant et si bien que l'univers mythique, transcendent, l'univers d'où vient le “gland”, nous paraît, à nous Occidentaux modernes, rationnels et sécularisés, extrêmement éloigné, hors d'atteinte, beaucoup plus que lorsqu’il devait le paraître à Platon ». Et pourtant: « Judy Garland, alcoolique, droguée, ravagée, savait réveiller chez tous ceux qui l'écoutaient une sorte de pressentiment de ce qu'eux aussi dans un coin enfoui de leur âme, auraient espéré atteindre: l'image que chaque exilé porte en soi, dans son cœur, accompagné par le mélancolique souvenir de tout ce qui n'est pas de ce monde ». Ce serait donc une bonne thérapie, celle qui nous permettrait de reconnaître cette mélancolie, de lui rendre hommage sans essayer de la déloger à coup d'antidépresseurs. Le “gland”, c'est-à-dire nous, notre destinée, a une origine transcendante. C'est pourquoi ceux qui l'ont reconnu et réalisé refusent la biographie, ils ne veulent pas être racontés à travers une série de statistiques. Parce qu'ils savent bien ce que c’est, être différent.

 

Henry James mit le feu à ses journaux intimes dans le jardin, comme Dickens. A 29 ans (!) Freud avait déjà détruit ses journaux, et il disait: « Quant aux biographes, qu'ils se débrouillent. Je m'amuse beaucoup en pensant aux gaffes colossales qu'ils commettront ». D'autres personnages aiment raconter des faits absolument faux, régulièrement démentis par les témoins... Comment est-ce possible ? ». C'est, bien sûr, le “gland”, qui ne veut pas être diminué au niveau d'événements dus au hasard ou à la simple chronologie des choses, comme si la vie pouvait se résumer à l'affirmation banale qui veut que d'une chose en dérive forcément une autre.

 

Voici donc Henry Ford, qui raconte comment, lorsqu'il était enfant, il se faisait prêter les montres de ses voisins pour les démonter et pouvoir ainsi observer comment elles fonctionnaient. Il fit placer dans sa chambre un banc de travail d'horloger et il aimait raconter qu'adolescent, il avait souvent travaillé la nuit. Sa sœur nia les faits: jamais aucun voisin ne lui avait prêté de montre, jamais il n'avait réparé quoi que ce soit, jamais il n'avait eu de banc d'horloger dans sa chambre !

 

Et que dire de Henry Kissinger qui, interviewé sur son enfance passée à Furth, en Allemagne, en pleine période nazie, lui, juif, raconta: « Cette partie de mon enfance n'est pas significative pour ma vie. Pour les enfants, certaines choses ne sont pas tellement importantes ». En revanche, sa mère se souvient très bien de la peur et de l'effroi de ses fils quand des escouades de jeunes nazis passaient en défilant devant la maison. La biographie de Kissinger psychotise, dénonce le mécanisme du négationnisme et fait la relation entre la politique et ses jeunes années. Hillman pose la question: « Qui est l'auteur de cette vie, est-ce Kissinger ou est-ce son biographe ? Voilà un exemple typique de psycho-histoire. » En fait, le futur secrétaire d'Etat, l'homme de pouvoir capable d'affronter et de maîtriser les intrigues de la Maison Blanche, d'affronter les Breznev et les Mao Tsé Toung, d'ordonner les contrôles et les interceptions les plus dangereux et de proposer les bombardements contre l'ennemi, ne pouvait pas s’être senti menacé par un troupeau de garçons blonds en bas de laine. Pour le enfants, certaines choses ne sont pas tellement importantes parce que grâce à son “gland” Henry n 'avait jamais été l’enfant que sa mère avait devant les yeux.

 

Et l’on pourrait continuer ainsi encore longtemps... avec, par exemple, Léopold Stokowski, le compositeur, qui raconte quand son grand-père lui offrit son premier violon (en réalité son grand-père mourut avant sa naissance et Léopold ne joua jamais du violon), ou avec Léonard Bernstein, qui parle de son enfance misérable (ses parents étaient millionnaires !!!). C'est toujours le “gland” qui raconte son mythe, sa vérité, la seule qui compte. La dernière fois que je vis James Hillman, tout de blanc habillé, élégant, parfait, assis à la terrasse de l'Hôtel Tamaro d’Ascona, sur le Lac Majeur, je lui demandai ce qu'il préparait. « Je fais de l'ordre dans mes idées ­—me répondit-il en levant sa tête d'oiseau curieux—  je ne suis plus si jeune... ». Un travail de maître, James. Un très joli “gland”. Bien sûr, c'est le tien, mais maintenant, il est à la disposition de tout le monde. J'espère qu'on en fera quelque chose de bon !

 

Claudio RISÉ.

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lundi, 24 novembre 2008

Jean Markale le celtisant est mort

Jean Markale le celtisant est mort

 

Auteur d’une centaine d’ouvrages, notamment sur les Celtes, Jean Markale est mort hier matin, à l’hôpital d’Auray. Il avait quatre-vingts ans.

De son vrai nom Jacques Bertrand, Jean Markale avait, avant de se lancer dans l’écriture, exercé, pendant vingt-cinq ans, le métier de professeur de lettres classiques dans un collège parisien. Mais, en 1979, fort de son succès avec « La femme celte » (Payot), il avait arrêté l’enseignement et était venu s’installer à Camors, près d’Auray, le pays de ses ancêtres. C’est là qu’il écrira, à une cadence pour le moins soutenue, tous ses livres. Ses grandes spécialités : les Celtes, le mythe du Graal, l’histoire de la Bretagne, l’ésotérisme et les énigmes historiques. Autant de thèmes qu’il a développés à satiété et exploités sous différentes formes, en particulier à travers des « cycles » qui lui permettaient de laisser libre cours à sa verve épique et à son imagination.

Son manque de rigueur scientifique était, d’ailleurs, le reproche que lui faisaient ses nombreux détracteurs. Mais Markale s’en moquait : « Je préfère être considéré comme poète plutôt que comme chercheur ».

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Découvertes de monnaies celtiques et germaniques

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Découverte de monnaies d’or et d’argent celtiques et germaniques au Limbourg néerlandais


Paul Curfs est l’un de ces hommes qui a pour passe-temps de se promener avec un détecteur de métaux. En mars de cette année, près de son domicile dans la région de Maastricht, son appareil a émis le signal habituel en passant au-dessus d’une masse métallique. Il a découvert ainsi un première piécette d’or, ornée d’un cheval stylisé. Deux jours plus tard, il découvre, à proximité immédiate de sa première trouvaille, quelques pièces supplémentaires, presque identiques à la première, qu’il a tout de suite apportées au service archéologique de la région, dirigé par le conservateur Wim Dijkman. Celui-ci a pris immédiatement conscience de la grande importance historique de ces monnaies. Après l’ensemencement au printemps du champ de maïs et la récolte estivale, il a fallu attendre les courtes vacances de la Toussaint pour y délimiter une superficie à prospecter de 15 m sur 30 m, puis découvrir encore quelques pièces et, enfin, à 65 cm dans le sol, le reste, concentré, du trésor. Celui-ci est le plus important de cette sorte à avoir été exhumé jusqu’ici hors du sol néerlandais. Dans la même région, il y a huit ans, on avait trouvé à Heers (Limbourg flamand) 102 monnaies provenant des Eburons et de quelques autres peuples celtiques.


Quelles conclusions tirent les archéologues néerlandais de cette découverte?


  • Les monnaies ont été vraisemblablement enterrées dans une besace de tissu ou de cuir; les labours profonds en ont exhumé quelques-unes et les ont dispersé autour de la cachette initiale;


  • Ces monnaies datent du premier siècle avant l’ère chrétienne, à l’époque où les tribus celtiques de nos régions résistaient aux troupes de César, lors du soulèvement des Eburons et des Atuatuques (Aduatiques);


  • Les 39 pièces d’or découvertes relèvent de la tribu des Eburons, menés à l’époque par leur fameux chef Ambiorix, dont la statue se dresse à Tongres;


  • Les 70 monnaies d’argent proviennent des tribus germaniques voisines, qui habitaient entre Meuse et Rhin;


  • Cette découverte prouve que les Eburons et les Germains de Rhénanie avaient partie liée dans la résistance aux légions romaines et entretenaient des contacts très étroits entre eux; selon le prof. Nico Roymans: “Ce trésor de monnaies a peut-être servi à acheter une alliance contre les Romains”;


  • Le Prof. Roymans constate que dans les environs immédiats du site, où Curfs a découvert les monnaies, il n’y a aucune trace d’habitation; on a donc enfoui cet or et cet argent dans une zone inhabitée, probablement pour empêcher qu’on les dérobe ou qu’un ennemi s’en empare;


  • Le Conservateur Dijkman remarque que les deux types de monnaie présentent, sur une face, un même motif, soit un triskèle celtique; les monnaies celtique d’or présentent, sur leur autre face, un motif hippique, imité des anciennes monnaies grecques; les pièces germaniques d’argent présentent, sur le côté pile, une pyramide de cercles ou d’anneaux, dont on ne connaît pas encore la signification.


Un trésor qui devrait permettre d’élucider davantage l’alliance entre Ambiorix et les Germains de Rhénanie, qu’évoque la “Guerre des Gaules” de César.


Source: “Het Laatste Nieuws”, 14 novembre 2008, pp. 2 & 6.

(résumé: Robert Steuckers).

M. Eemans: Soliloque d'un desperado non nervalien

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Archives de "Synergies Européennes" - 1998

Marc. Eemans :

Soliloque d’un desperado non nervalien

 

Au cours d'une retraite de quelque quinze jours en l'île d'Egine, dans le golfe saronique, où j'ai fêté mes quatre-vingt-dix ans loin de tout cérémonial, j'ai longuement pu me pencher sur bien des choses de ma vie, tout en faisant un petit bilan de ce que l'on appelle le "mouvement surréaliste", auquel j'ai participé durant un bon moment.

 

Quel gâchis !

 

Ce qui aurait pu être une chose fort belle, une vraie révolution dans le domaine de l’esprit, sur le plan de la poésie et des arts n’a été finalement que le prolongement, l’aboutissement, vers 1924, des divers ismes de la fin du siècle dernier et du premier quart du nôtre. Tout cela dans le vase clos des cafés littéraires de Paris. Que d’apéritifs, que de palabres, que d’ukases et que de proclamations de politiques de gauche…

 

Le surréalisme n’a finalement pu que décevoir tous ceux qui y avaient mis tous leurs espoirs. Il y eut bien des fidèles jusqu’au bout, mais aussi que de défections et d’exclusions. Il y eut également des grands talents tels que Breton, Aragon, Eluard, Ernst, Dali et bien d’autres encore.

 

Des chefs-d’œuvre ? Toutefois, chose paradoxale, les vrais grands poètes surréalistes ne furent pas surréalistes dans le sillage de Breton. Ce furent des outsiders. Et je pense alors à un Saint-John-Perse et un Patrice de la Tour du Pin, mais quelle horreur ! Patrice de la Tour du Pin, un poète “christique” ! Ah, son angélologie et sa mysticité, mais aussi ses mythes et légendes celtiques, cette Ecole de Tess… J’ai eu l’honneur de me compter parmi ses fidèles.

 

André Breton, bien que parti du symbolisme de Mallarmé, de Gustave Moreau, voire de Gide et de Pierre Louÿs, n’en avait pas moins passé par le dadaïsme, le communisme, le trotskisme. Il a même été “citoyen du monde”, disciple d’un farfelu américain.

 

Quant à moi ? Je n’ai guère l’esprit grégaire. Je ne suis point fait pour les ukases, pour proclamer avec Pirandello “à chacun sa vérité”. Par ailleurs “sans dieu ni maître” (Mesens), formé dès l’enfance au merveilleux, aussi bien gréco-romain, germanique que chrétien, de même féru de symbolisme aussi bien français que néerlandais ou allemand, avec une bonne dose d’intérêt pour la mystique et l’ésotérisme, sans oublier mon intérêt pour la tragédie des Cathares (Otto Rahn et René Nelli), ainsi que pour l’Ahnenerbe (“Héritage des ancêtres”).

 

Qu’allais-je faire dans le cénacle surréaliste bruxellois où j’allais me heurter à l’ostracisme anti-art de Paul Nougé qui “nous a fait tant de tort” (Mesens) ? J’y ai perdu mon amie Irène, mais aussi gagné la jalousie de René Magritte (mes peintures étaient alors plus chères que les siennes ! Plus tard, Paul Delvaux aura également à souffrir de la même jalousie) et l’amitié de deux fidèles compagnons de route, E. L. T. Mesens, mon premier marchand de tableaux (Galerie L’Époque) et mon deuxième marchand (hélas raté), Camille Goemans (faillite de la Galerie Goëmans de la Rue de Seine à Paris).

 

Au-delà du surréalisme…

 

Après le court épisode surréaliste (1926-1930), ce fut pour moi un “au-delà du surréalisme” avec une traversée du désert, qui dure toujours, et aussi une assez grande dispersion dans mon activité aussi bien artistique qu’intellectuelle avec par surcroît la difficile quête du gagne-pain quotidien.

 

Mon apport au surréalisme bruxellois ? Quelques dizaines de peintures, des dessins et deux ou trois gravures. Elles ou plutôt “ils” auraient contribué (selon José Vovelle) à la naissance du surréalisme néerlandais (Moesman). N’oublions pas l’édition en 1930, de l’album Vergeten te worden, à ce jour  —paraît-il—  le seul recueil surréaliste en langue néerlandaise…

 

Je reviens à ma difficile quête du pain quotidien et ma dispersion intellectuelle, surtout due à une insatiable curiosité de même qu’à un aussi insatiable besoin d’activité.

 

D’abord ma quête du nécessaire pain quotidien. Quelques tentatives dans le domaine publicitaire (comme Magritte), collaboration dans le domaine du design, comme on dit aujourd’hui, avec mon ami l’ensemblier hollandais Ewoud Van Tonderen, finalement le journalisme et l’édition avec un passage dans la propagande touristique avec l’ami Goemans.

 

Ensuite ma dispersion intellectuelle. Bien que ne connaissant point une note de musique, elle fut à la fois musicologique et chorégraphique, en collaboration avec les réputés musicologues Kurt Sachs (juif exilé allemand, directeur de la collection de disques L’anthologie sonore), Charles Van den Borren, bibliothécaire à la bibliothèque du Conservatoire de Bruxelles, et son beau-fils américain, le jeune chef d’orchestre Safford Cape.

 

Grâce à mon amie Elsa Darciel, future professeur au même Conservatoire, nous avons reconstitué les “Basses-Danses de la Cour de Bourgogne”, d’après un précieux manuscrit du XVe siècle, de la Bibliothèque Royale de Bruxelles.

 

L’aventure de la revue «Hermès»

 

Côté poétique, philosophique et mystique : fondation en 1933, avec René Baert et Camille Goemans, de la revue “métasurréaliste” Hermes, pour l’étude comparée de la poésie, de la philosophie et de la mystique, avec une brillante collaboration internationale, mais qualifiée par les surréalistes bruxellois de revue de “petits curés” ou de fascistes en dépit de collaborateur à peu près tous agnostiques, d’autres marxistes ou juifs. Un secrétaire de rédaction de marque : Henri Michaux.

 

Toutefois, quelques supporters de qualité : Edmond Jaloux, Jean Paulhan, Ungaretti, T. S. Eliot, etc.

 

Ma principale contribution : un numéro spécial consacré à la mystique des Pays-Bas, mais les mystiques musulmane, hindoue, chinoise et tibétaine ou grecque et scandinave ne furent point oubliées, et puis il y eut également les premières traductions de Martin Heidegger et de Karl Jaspers. N’oublions pas le symbolisme et les romantiques anglais et allemands.

 

Notre manque d’information dans le domaine italien, nous fit —hélas— ignorer un effort à peu près parallèle, mais tout aussi “confidentiel” que le nôtre, celui de Julius Evola et de ses amis du groupe “Ur”.

 

Autres exemples de ma dissipation intellectuelle d’alors sont mon intérêt pour les théories du R. P. Jousse S. J. sur l’origine purement rythmique du verbe et son application au langage radiophonique dont Paul Deharme, l’époux de la poétesse surréaliste Lise Deharme (la “Dame aux gants verts” de Breton) tâchait alors de faire l’application dans ses spots publicitaires à la radio.

 

Plus grave, du point de vue surréaliste tout au moins, fut ma présence à un colloque néo-thomiste à Meudon, chez Raïssa et Jacques Maritain, sur le thème de la distinction entre mystique naturelle et surnaturelle.

 

Moins compromettante, toujours du point de vue surréaliste, fut ma correspondance avec le poète grec Angelos Sikelianos concernant la restauration des Jeux Delphiques.

 

Les années sombres…

 

En septembre 1939, la guerre mit brusquement un terme à la revue Hermes et en mai 1940, avec l’invasion de la Belgique, au gagne-pain de ses deux directeurs.

 

L’effort fut repris après la guerre par André de Renéville avec ses Cahiers de l’Hermès (deux seuls numéros remarquables) et par une nouvelle revue Hermès qu’il faut, hélas, considérer comme pirate, celle de Jacques Masui… Il existe toujours, dans le prolongement de celle-ci avec le logo de 1933, une “Collection Hermès” aux éditions Fata Morgana. Pour moi, un vrai mirage.

 

Durant la guerre et l’occupation de la Belgique, les deux directeurs de la revue devinrent, quelle erreur et quelle horreur pour d’aucuns, des collaborateurs culturels, mais aussi des résistants culturels sur nombre de points, dans certains journaux et périodiques contrôlés par l’occupant. Cela leur coûta cher : pour René Baert, la vie (par assassinat) et pour moi quelque quatre ans de camp de concentration belge, à la suite d’un procès devant un tribunal illégal et selon une loi que les communistes considéraient (lorsqu’ils en étaient victimes) comme “scélérate”, c’est-à-dire “rétroactive”.

 

J’ai appartenu par ailleurs à, disons une loge intellectuelle secrète, fondée au XVIIe siècle, à laquelle avait également appartenu Pierre-Paul Rubens, appelée “Les Perséides”. Elle avait pour but la réunion, tout au moins sur le plan intellectuel, des anciennes “XVII Provinces” (ou états bourguignons), séparées à la suite de la guerre de religion du XVIe siècle.

 

Durant la dernière guerre, les “Perséides” furent particulièrement actifs. Ils entrèrent même dans la résistance thioise et la clandestinité.

 

Sur le plan légal, ils obtinrent des autorités occupantes non-nazies (car la Belgique a été surtout occupée et gouvernée par des non-nazis) qu’il n’y eut point d’art “dégénéré” en Belgique.

 

Dans la clandestinité, ils parvinrent à rétablir des liens intellectuels avec les Pays-Bas rompus durant l’occupation (je passai maintes fois outre frontière !). Il y eut également des réunions plus ou moins clandestines. L’une d’elles fut dénoncée à la Gestapo et plusieurs des “Perséides”, dont moi, faillirent subir un séjour forcé dans quelque camp de concentration nazi…

 

Après la tourmente

 

La traversée du désert n’en devint que plus pénible après ma libération. Heureusement des amis fidèles vinrent à mon secours dont Jean Paulhan et Patrice de la Tour du Pin, de même que le Prix Nobel T. S. Eliot, sans parler de l’éditeur flamand Lannoo et les éditions néerlandaises Elsevier en la personne de son représentant à Bruxelles Théo Meddens qui me prit à son service jusqu’à ma pension à l’âge de soixante-cinq ans. Ce fut un vrai sauvetage in extremis. Aux éditions Elsevier (plus tard Meddens), j’eus l’occasion de publier une trentaine de livres consacrés à l’histoire de l’art ou de collaborer étroitement avec nombre de personnalités éminentes, telles que le professeur Leo Van Puyvelde et le musicologue Paul Collard (me voilà redevenu musicologue !). Je pus également renouer avec la chorégraphie grâce à ma fidèle amie Darciel.

 

Je pus également compter sur la neutralité, voire l’amitié d’Irène Hamoir et surtout sur celle de E. L. T. Mesens. Quant aux surréalistes d’après-guerre, ce fut la guerre ouverte, la diffamation par pamphlets odieux, même à propos d’expositions à l’étranger (Lausanne, La Femme et le surréalisme, où un ancien prisonnier d’Auschwitz et de Dachau, le Hongrois Carl Laszlo, un marchand de tableaux de Bâle) (sic ; ndlr : nous avons reçu ce texte après le décès de Marc. Eemans ; nous ne l’avons pas modifié, y compris cette phrase apparemment inachevée).

 

Puisque nous parlons de peinture, je rappellerai la fondation du groupe “Fantasmagie” consacré à l’art fantastique et magique. Mais ce mouvement dont je fus un des fondateurs sombra vite dans l’occultisme de pacotille en récoltant des membres au hasard des rencontres de bistrots de son “pape” Aubin Pasque qui avait déjà été l’inventeur d’un “surréalisme du canard sauvage” qui n’a existé que dans son imagination, mais auquel ont cru certains historiens du surréalisme en Belgique, dont David Sylvestre qui m’a interrogé un jour à son sujet…

 

Mais côté poésie ? Je n’ai jamais cessé de pratiquer de la poésie, appelons la “métaphysique et la mythique”, avec des recueils aussi bien en langue néerlandaise que française.

 

Artiste maudit

 

Du côté peinture, mes adversaires en ont profité, hélas, pour me boycotter, de sorte qu’on peut me classer parmi les  “artistes maudits” et certainement proscrits. Point d’œuvres dans les musées, si ce n’est pas un don ou un legs. Point d’expositions officielles, pas de rétrospectives, pas de subsides, etc. etc.

 

A présent, vieux, malvoyant, quasi sourd et ne marchant plus que fort difficilement et avec une canne de berger grec (car je demeure fidèle au mythe grec), je ne suis qu’un “gibelin” comme disent mes amis italiens. Je me demande, en vrai desperado, si je ne suis pas un raté et certainement un marginal qui n’a plus qu’à disparaître…

 

Heureusement que dès 1972, feu mon ami Jean-Jacques Gaillard, peintre surimpressionniste et swedenborgien, lui aussi quelque peu maudit pour avoir eu l’audace de dénoncer la grande fumisterie de l’art de Picasso, cela en pleine Académie Thérésienne, heureusement, dis-je, que l’ami Jean-Jacques m’ait prédit (belle consolation !) “une gloire posthume tristement magnifique”, y ajoutant qu’“une gloire tardive est préférable à une gloire rapide qui vieillit vite”.

 

Feu mon ami allemand, l’histoire d’art Friedrich Markus Huebner, grand admirateur de l’art flamand, de son côté m’a proclamé “l’éloquent interprète des expériences intemporelles”… Serais-je donc, moi aussi “intemporel” ?

 

Marc. EEMANS.

(20 juin-10 septembre 1997).

(précision : les inter-titres sont de la rédaction).  

Sur "La démocratie contre elle-même" de M. Gauchet

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Sur "La démocratiecontre elle-même" de Marcel Gauchet

Le livre de Marcel Gauchet est au chevet de tous les membres de l'école des cadres de "Synergies Européennes" en pays francophones. Voici une sélection d'une analyse et d'un compte rendu, afin de permettre aux futurs postulants de s'initier à cette pensée complexe et profonde, qui a été qualifiée, par l'un de ces médiocres vigilants du parisianisme républicain, citoyen, etc., de "néo-réactionnaire". Raison de plus pour la lire.

1) Analyse de Jean Zin : http://www.globenet.org/transversales/grit/gauchet3.htm

2) Compte rendu du livre rédigé par Marc-Olivier Padis, Automne 2002 : http://gauchet.blogspot.com 

Comment rendre compte de la complémentarité des textes réunis dans ce volume, parus tout d’abord dans la revue dont Marcel Gauchet est le rédacteur en chef, Le Débat, entre 1980 et 2000 ? Écologie, école, religion, psychologie, droit ou politique : faut-il choisir un de ces fils conducteurs pour suivre l’auteur dans son exploration de notre démocratie ? Dans sa préface, M. Gauchet rappelle trois directions d’investigation du terme « démocratie ». La démocratie renvoie en effet à un phénomène historique qui ne se limite pas à une forme de régime politique. Radicalisant l’intuition d’Alexis de Tocqueville, selon laquelle la démocratie constitue aussi un état social (caractérisé par le principe de l’égalité), M. Gauchet montre qu’il s’y joue en effet un type de rapport social particulier mais encore « une nouvelle manière d’être de l’humanité » (p. XVIII de l’introduction). Cela signifie que les leçons de la théorie politique et de la sociologie sont appelées à s’ouvrir vers une «anthropologie démocratique » à même de restituer le phénomène dans son ampleur. C’est pourquoi il n’y a pas à choisir entre les domaines d’étude cités mais à conjuguer ce qu’ils nous font comprendre pour saisir cet insaisissable condition démocratique qui est la nôtre.

À la fin du premier texte repris dans ce recueil, « Les droits de l’homme ne sont pas une politique », M. Gauchet présentait les difficultés inhérentes à cette curieuse contradiction dans les termes que représente la «société des individus». Comment fonder un système politique sur une déclaration des droits et un individu théoriquement posé comme délié des autres et souverain de lui-même ? Cela n’est possible qu’au prix d’une occultation d’une série de paradoxes. Le premier est que, pour acquérir son autonomie comme individu, chacun de nous est dépendant du développement de l’État et que celui-ci passe par la construction de catégories générales et abstraites, c’est-à-dire par une anonymisation de la personne qui contraste avec l’attachement à la singularité du sujet moderne. Deuxièmement, nous jouissons de la liberté des Modernes qui, à l’opposé de la liberté des Anciens ne se définit plus par la participation à la vie politique mais, au contraire, par la capacité à se retirer de la sphère publique pour se consacrer aux intérêts privés. Cela signifie que nous risquons de laisser dépérir les institutions démocratiques à force de liberté démocratique. Enfin, l’individualisme comme affirmation de la singularité de chacun se heurte à l’évidence toute opposée d’une banalisation des conduites, d’une standardisation des pensées et des comportements. Ce conformisme individualiste met en cause la capacité des démocraties à former des individus qui soient encore à la hauteur des responsabilités et des devoirs qu’impose le fonctionnement démocratique. Ce texte de 1980 se présente bien comme un programme de travail développé par la suite, rôle que la construction du présent recueil suggère comme contrat de lecture.

On peut en effet suivre ces indications en observant que les textes rassemblés ici reprennent cette série de contradictions qui risquent de provoquer le retournement de « la démocratie contre elle-même ». Les trois textes sur la religion (« Fin de la religion ? », janvier-février 1984 ; « Sur la religion, un échange avec Paul Valadier », novembre-décembre 1984 ; « Croyances religieuses, croyances politiques », mai-août 2001) se placent dans le fil de l’interrogation sur la composition politique des sociétés modernes et, par conséquent, sur l’émergence de la notion d’individu et sur l’établissement de l’État. En effet, quand le principe de l’organisation de la société et de la légitimation du pouvoir ne dérivent plus de la présence surplombante et incontestée d’un ordre divin, c’est le temps de l’État qui vient comme principe d’extériorité organisatrice de la communauté humaine. L’interrogation au long cours sur l’histoire de la religion (qui a fait l’objet de l’ouvrage Le désenchantement du monde : une histoire politique de la religion, paru en 1985) se motive doublement : il s’agit, d’une part, de comprendre comment s’est opérée la translation du principe de fondation politique du monde des dieux à la communauté des hommes et, d’autre part, de savoir ce qu’il advient de la religion dans ce monde qui en est sorti et dans lequel elle ne joue plus qu’un rôle subsidiaire.

La deuxième incertitude qui pèse sur l’homme des démocraties concerne la construction de la personnalité. D’où une interrogation sur le lieu de formation qu’est l’école et sur la psychologie de cet être voué à se méconnaître fondamentalement parce qu’il vit sur le mythe de l’auto-institution, aussi improbable théoriquement qu’impossible pratiquement (« L’école à l’école d’elle-même. Contraintes et contradictions de l’individualisme démocratique », novembre-décembre 1985 ; « Le niveau monte, le livre baisse », novembre-décembre 1996 ; « Essai de psychologie contemporaine I et II », mars-avril et mai-août 1998). L’enjeu est ici de spécifier l’individualisme dont on parle tant et, ce faisant, de caractériser les changements récents, parfois rapides, de la psychologie. Mais l’interrogation fondamentale reste la même puisqu’elle consiste à observer la manière dont se construit la relation aux autres dans un contexte normatif en recomposition. Certes, le monde de l’égalité induit une perte de légitimité des hiérarchies et des contraintes. On peut en tirer la conclusion, trop rapide, d’une décontraction générale des rapports sociaux, d’une baisse théorique de la conflictualité. Or, c’est bien l’inverse qui se produit, mais avec la naissance d’une violence d’évitement qui vient se substituer à la violence de contact. Ce trouble de la relation aux autres se traduit à la fois par une angoisse d’avoir perdu les autres et par une peur des autres. Il faut donc s’interroger sur la manière dont se présente cette relation à soi et aux autres qui marque un âge de la personnalité largement différent, plus sans doute que nous ne sommes capables de l’admettre, des formes historiques que nous avons connues jusqu’à présent. Cet individu, on l’a vu, vit dans un rapport nouveau à la conflicutalité, au sein de la société, face aux institutions, avec les autres mais aussi en lui-même. On rejoint ici un champ d’investigation de M. Gauchet sur l’histoire de la psychiatrie et la manière dont des pathologies spécifiques de l’individu moderne se modèlent en même temps que l’émergence des systèmes démocratiques.

Le troisième sous-ensemble de textes est consacré au paradoxe du désinvestissement politique, dont les risques sont apparus évidents ce printemps (« Pacification démocratique, désertion civique », mai-août 1990 ; « Sous l’amour de la nature, la haine des hommes », mai-août 1990 ; « Les mauvaises surprises d’une oubliée : la lutte des classes », mai-août 1990 ; « Le tournant de 1995 ou les voies secrètes de la société libérale », septembre-octobre 2000). L’objet d’étude est ici plus directement politique et l’inquiétude plus manifeste : absence de débat civique, politique impuissante, privatisation des attentes… Le recueil invite à une lecture en forme de récapitulation, qui donne au premier texte un statut prophétique rétrospectif et au texte de 2000, dont le titre est une volontaire réponse au premier («Quand les droits de l’homme deviennent une politique »), une tonalité crépusculaire. Il s’agit désormais moins de relever une ambivalence de la condition démocratique (peut-être parce qu’il n’y en a plus) mais d’approfondir le paradoxe qui veut que l’exercice de la démocratie recule avec l’avancée de ses principes, que les mœurs ne s’accordent pas aux institutions. Par une ruse supplémentaire de l’histoire, c’est par le droit, qui a valu la réhabilitation de la démocratie au moment du combat totalitaire contre l’illusion communiste, et sous couvert de triomphe radieux des principes juridiques, que la démocratie entre, selon l’auteur, dans un âge de léthargie.

L’avertissement de la fin du premier article était en effet nettement formulé : «les droits de l’homme ne sont pas une politique dans la mesure où ils ne nous donnent pas prise sur l’ensemble de la société où ils s’insèrent. Ils ne peuvent devenir une politique qu’à la condition qu’on sache reconnaître et qu’on se donne les moyens de surmonter la dynamique aliénante de l’individualisme qu’ils véhiculent comme leur contrepartie naturelle ». En vingt ans, on aurait finalement vu plutôt un renforcement de la dynamique individuelle et de ses illusions corrélatives. D’où le risque de voir devenir hégémonique une conception de la démocratie « qui sacralise à ce point les droits des individus où elle se fonde qu’elle sape la possibilité de leur conversion en puissance collective » (introduction p. XXVII). Cela n’empêche en rien l’hypothèse qu’un cycle correctif ne s’enclenche mais sa réalisation est reportée à d’hypothétiques lendemains, comme une ouverture vers une histoire qui n’est jamais déterminée à l’avance. Car l’auteur refuse un pessimisme sans perspectives et désigne ce qu’il voit comme une forme nouvelle d’antipolitique pour mieux retrouver « une politique démocratique digne de ce nom ».

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La Fontaine: le savetier et le financier

Jean de la Fontaine : Le savetier et le financier

Un savetier chantait du matin jusqu'au soir:
C'était merveille de le voir,
Merveille de l'ouïr: il faisait des passages,
Plus content qu'aucun des sept sages.
Son voisin, au contraire, étant tout cousu d'or,
Chantait peu, dormait moins encore.
C'était un homme de finance.
Si sur le point du jour parfois il sommeillait,
Le Savetier alors en chantant l'éveillait;
Et le Financier se plaignait
Que les soins de la Providence
N'eussent pas au marché fait vendre le dormir,
Comme le manger et le boire.
En son hôtel il fait venir
Le chanteur, et lui dit: or, ça, sire Grégoire,
Que gagnez-vous par an ? Par an ? ma foi, monsieur,
Dit avec un ton de rieur
Le gaillard Savetier, ce n'est point ma manière
De compter de la sorte; et je n'entasse guère
Un jour sur l'autre: il suffit qu'à la fin
J'attrape le bout de l'année:
Chaque jour amène son pain.
Et bien, que gagnez-vous, dites-moi, par journée?
Tantôt plus, tantôt moins: le mal est que toujours,
(Et sans cela nos gains seraient assez honnêtes)
Le mal est que dans l'an s'entremêlent des jours
Qu'ils faut chommer: on nous ruine en Fêtes.
L'une fait tort à l'autre: et monsieur le Curé,
De quelque nouveau Saint charge toujours son prône.
Le Financier riant de sa naïveté,
Lui dit: je vous veux mettre aujourd'hui sur le trône.
Prenez ces cent écus: gardez-les avec soin,
Pour vous en servir au besoin.
Le Savetier crut voir tout l'argent que la terre
Avait, depuis plus de cent ans,
Produit pour l'usage des gens.
Il retourne chez lui: dans sa cave il enserre
L'argent et sa joie à la fois.
Plus de chant: il perdit la voix
Du moment qu'il gagna ce qui cause nos peines.
Le sommeil quitta son logis,
Il eut pour hôtes les soucis,
Les soupçons, les alarmes vaines.
Tout le jour il avait l'oeil au guet: et la nuit,
Si quelque chat faisait du bruit;
Le chat prenait l'argent. A la fin le pauvre homme
S'en courut chez celui qu'il ne réveillait plus.
Rendez-moi, lui dit-il, mes chansons et mon somme,
Et reprenez vos cent écus.

Jean de la Fontaine, Le savetier et le financier, Fable II, Livre Huitième.

dimanche, 23 novembre 2008

Seehofer: la fin du néo-libéralisme

 

 

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La fin du néo-libéralisme selon le Ministre Président bavarois


Horst Seehofer, 59 ans, est Ministre Président de l’Etat de Bavière au sein de la fédération allemande. Dans un entretien accordé au « Spiegel » (n°46/2008), il évoque la crise avec un langage tonique qui mérite toute notre attention.


Voici quelques-uns de ses propos, recueillis par Conny Neumann et Konstantin von Hammerstein :


« Ce ne sont pas seulement des banques qui se sont effondrées, mais aussi la philosophie du néo-libéralisme pur jus. Je ne m’attendais pas à un effondrement aussi rapide, à une telle vitesse, mais je le voyais venir depuis longtemps. Cette pure maximisation du profit, cette perspective qui ne voit rien d’autre que le rendement ne perçoivent la vie qu’à la lumière de l’économie et négligent tout le reste, qui, pourtant, fait le sel de l’existence. Voilà ce qui s’est effondré ».


Q. : Où cet échec du néo-libéralisme était-il prévu à l'ordre du jour dans notre vie politique ? L’était-il lors de la Diète de la CDU démocrate-chrétienne ? L’était-il dans le fameux « Agenda 2010 » ?


HS : Vous connaissez le débat qui a animé la vie politique allemande quand il s’est agi de protéger le travailleur contre les licenciements. S’agit-il d’une disposition sociale propre à notre société ? La solidarité est-elle encore une valeur « moderne » ou bien l’égoïsme et l’individualisme sont-ils devenus la mesure de toutes choses ? On s’est moqué de moi quand j’ai émis des critiques lorsque Nokia a décidé de quitter l’Allemagne parce que son rendement n’y était que de 20%, ce que la firme estimait trop bas. Le sort des familles de leurs 2000 salariés ne l’intéressait pas. On ne parlait que de cours en bourse et de bilans. Voilà quel était le critère de toute notre politique sociale et cela avait quelques retombées sur le programme de l’Union (des partis démocrates-chrétiens), y compris dans les décisions prises naguère à Leipzig.


(…)


Q. : Pouvez-vous nous expliquer pourquoi les idées néo-libérales ont connu un tel succès au sein des partis de l’Union ?


HS : Parce qu’elles passaient pour « modernes ». C’était, disait-on, le « mainstream ». Tout le monde de l’économie a défendu de telles thèses et si vous émettiez ne fût-ce qu’un petit argument contradictoire, vous passiez pour une vieille baderne. Pour moi, il ne faut ni l’économie planifiée ni le néo-libéralisme. Nous, Allemands, avions inventé le modèle idéal, celui qui était assuré du succès : l’économie sociale de marché.


Q. : Qui peine et s’essouffle.


HS : Pendant plus d’un demi siècle, ce modèle économique a enregistré de grands succès et nous a apporté la stabilité sociale. Bien sûr, comme toute chose, il faut le moderniser et le rénover. En principe, il s’agit de combiner à chaque fois les côtés positifs du marché avec des directives et des filets de sûreté dans le domaine social. Il faut rétablir le bon rapport de force entre la sécurité sociale et l’innovation.


Q. : Le néo-libéralisme est-il mort et bien mort ?


HS : Tant que je suis en vie, oui, pour moi, il est bien mort.


Q. : Et qui va profiter de la mutation des données ?


HS : La population des gens normaux. Jusqu’ici seule une élite, quelques gros, ont profité du néo-libéralisme. Dans la masse de la population, il y a eu perte, diminution du bien-être. Je suis très éloigné mentalement du socialisme mais j’aimerais que l’on retrouve en Allemagne un certain équilibre.


(source : Der Spiegel, n°46/2008 ; adaptation française : Robert Steuckers).

De Reconquista in 10 vragen - Interview met J. J. Esparza

De Reconquista in 10 vragen:
Interview met Jose Javier Esparza, gesprek gevoerd door Arnaud Imatz en Philippe Conrad


 

Vraag: Wat gebeurde er precies tijdens de 8ste eeuw, de eeuw van de verovering door de muzelmannen. Hoe kon Spanje door deze invasie van muzelmannen worden onderworpen?

Antwoord: Het Wisigothisch koninkrijk werd door een interne oorlog getroffen, die het gevolg was van een erfeniskwestie. Een van de beide kampen riep de muzelmannen aan de andere kant van de Straat van Gibraltar te hulp. Die kwamen in Spanje tussen, maar bleven achteraf wel ter plaatse – wat uiteraard niet voorzien was.
De staat van ontbinding van de Wisigotische orde vergemakkelijkte wel de vervanging van de elite van de Wisigothische aristocratie. De muzelmannen stelden zich in de plaats van de Goten om zo het land te overheersen. Heel wat Gotische edelen bekeerden zich tot de islam, vooral in de Ebrovallei, en andere weken uit naar het noorden van het schiereiland om zo aan de muzelmanse overheersing te ontsnappen. Zo is eigenlijk alles begonnen.


Vraag: Was koning Pelagius, dé baanbreker van de Reconquista vanaf de 8ste eeuw, een koning of een zuiver legendarische figuur?

Antwoord: Er bestaan voldoende convergerende historische bronnen om voortaan niet meer te twijfelen aan het werkelijke bestaan van Pelagius. Wij weten dat hij een edelman was uit het gevolg van koning Roderik, een van de pretendenten op de troon van het Wisigotische Spanje en verslagen in de slag van Guadalete. Pelagius trok zich in het noorden, in Asturië, terug, in de buurt van Toledo, de historische hoofdstad van het koninkrijk. De episodes van zijn militaire loopbaan zijn gekend en bekend. Legenden hebben achteraf sommige gebeurtenissen verfraaid, zoals de slag van Covadonga (722), maar in essentie is alles vastgelegd. Pelagius voerde een verzetsoorlog in Asturië, eerst als aanvoerder van de Asturiërs op het ogenblik dat het “een zadel was dat men kon berijden”, waardoor hij een aantal volkeren op het schiereiland onder zijn gezag kon verenigen. Zelf werd hij nooit tot koning uitgeroepen, maar zijn nakomelingen schiepen het Asturisch koninkrijk.

Vraag: Geschiedde de islamisering van het schiereiland vlug en gemakkelijk of werd er tegen de overweldigers lang weerstand geboden?

Antwoord: Men heeft lange tijd gedacht dat de muzelmanse verovering gemakkelijk gebeurde, maar dat is slechts een gemeenplaats. Het is waar dat de vervanging van de aristocratie van de Wisigoten door de Arabo-Berbers zeer vlug gebeurde, onder andere mogelijk gemaakt door de opportunistische bekering van tal van Gotische edellieden naar de islam. Dat leidde ertoe te denken dat de Spaanse bevolking geen weerstand zou hebben geboden aan de invasie, indien die er toch maar voor zorgde dat het ene gezag gewoonweg vervangen werd door een ander. Maar de bezetters waren erop uit hun religie en hun islamitische orde op te leggen in zowat alle gebieden, wat natuurlijk alles veranderde. De weerstand gebeurde vooral op “beschavings”-vlak. De uitdrukking “uitbreiding tot het gehele schiereiland” verdient nader bepaald te worden. Een goed deel van het noord-westen van Spanje werd nooit bezet. Dat gebied werd geconfronteerd met de islamitische militaire dreiging, maar werd nooit overheerst en kende een toestand van voortdurend verzet.

Vraag: Hoe gebeurde de Reconquista? Was het slechts een zaak van adel of nam gans het volk er aan deel? Hoe kan men verklaren dat men nog zolang heeft moeten wachten voordat het ganse schiereiland bevrijd werd? In de 11de eeuw werden toch enorme successen behaald?

Antwoord: Vooral tijdens die eerste eeuwen was de Reconquista een zaak van het ganse volk. Wat ongetwijfeld een van meest verbazende fenomenen is. De vorsten begonnen de herovering van die gebieden die zich ten zuiden van hun koninkrijken bevonden, geleidelijk aan te vatten. Maar wie de expansiewens vooral in daden omzetten, waren de verwanten van de boeren die in de Duerovallei de kans hadden gezien hun levensomstandigheden te verbeteren. Die bevolking was namelijk gedwongen zelf haar economische overleving en haar veiligheid te verzekeren, wat een heel eigen mentaliteit van boeren-soldaten creëerde. In het Oosten, in de Ebrovallei en in het toekomstige Catalonië, gebeurde het anders. In die tamelijk verstedelijkte streek – al sinds het Romeinse Rijk was dit het geval – waar de gezagsstructuren beter georganiseerd waren, was er geen plaats voor een nieuwe inplanting van landbouwers. De Karolingische monarchie organiseerde er een “Spaanse Mark”, die de onafhankelijke graafschappen beschermde. Die werden op hun beurt aangemoedigd nieuwe gebieden in het zuiden te veroveren, en dit gebeurde onder de leiding van de strijdlustige adel.

Vraag: Hoe kan men de uiterste traagheid van de Reconquista verklaren?

Antwoord: Dat de Reconquista tot in de 11de eeuw uiterst langzaam vorderde, heeft vooral demografische redenen. Het noorden van het schiereiland was veel minder bevolkt dan het zuiden. Maar telkens de muzelmannen opdaagden om bepaalde stukken Spaans grondgebied te vuur en te zwaard te bezetten, keerden de autochtonen terug om de verwoeste gebieden terug in te nemen, en om ze tot militaire grens om te vormen. Men zag op die manier een onverwachte toestand ontstaan: de vroegere onderworpen en in het defensief gedwongen Spaanse koninkrijkjes werden omgevormd tot kleine militaire machten, waar het kalifaat zelf op het einde van zijn heerschappij kleine koninkrijkjes, ‘taifas’, zag ontstaan, die niet in staat waren de muzelmanse dominantie te bestendigen. Men zag dan het stelsel van ‘parias’ ontstaan, een soort tol die de rijke, maar militair verzwakte muzelmanse koninkrijkjes moesten afdragen aan de arme maar strijdlustige christelijke koninkrijken. “Al-andalus” zal enkele momenten van kortstondig reveil kennen, maar de toestand zal tot het einde van de Reconquista weinig evolueren.

Vraag: Hoe reageerden de muzelmannen op het religieus en cultureel belang van het heiligdom van Compostella? Wat bedoelde men met het aanroepen van Sint-Jacob als helper van Spanje tijdens de gevechten?

Antwoord: Het ontdekken van het vermeende graf van Sint-Jacob kreeg een enorme echo in gans de christelijke wereld, vooral in het Karolingische Frankrijk. Vanaf de 9de eeuw betekende het Galicisch heiligdom voor heel Europa een legendarische band, wat de muzelmannen uiteraard wisten. Al Manssur bespaarde zich geen moeite om het heiligdom in 997 te verwoesten. Maar dat schaadde het belang van de cultus niet. Men bouwde een nieuwe kathedraal en de bedevaart naar Compostella werd een soort basis ritueel voor gans het christelijke Europa.

Wat betreft het aanroepen van Sint-Jacob in de Spaanse militaire traditie, die lijkt terug te gaan tot het midden van de 9de eeuw, op het moment dat de traditie – rond de periode van de slag bij Clavijo – de heilige afbeeldde, gezeten op een wit paard, het zwaard in de hand. Het is van toen dat het beeld van “Santiago Matamoros” (de Morenverdelger) opduikt, gezeten op een wit paard en op de hoofde van de overwonnen Sarasijnen rijdt. Uit die tijd stamt ook de strijdkreet “Santiago y cierra, Espana”. “Cierra” betekent aanval. Zo werd Sint-Jacob in de loop van de Middeleeuwen tot patroon van Spanje verheven, en hij is dat tot op vandaag gebleven, zelfs als de cultus dreigt te vervagen.

Vraag: Waarom was de slag van Las Navas de Tolosa in 1212 van zo’n groot belang voor de geschiedenis van Spanje en van Europa?

Antwoord: Omdat gans Europa betrokken was. Het kwam erop aan de ultieme grote Afrikaanse invasie in het westen te stoppen, waarbij de Merinitische poging, die in 1340 bij Rio Salado werd gestopt, maar een belang had in de marge. De Almohaden, een strijdlustige sekte uit het zuiden van Marokko, hadden hun heerschappij aan gans Noord-Afrika opgelegd, alvorens zich in Spanje te begeven om zich de macht in Andalusië tot te eigenen. Dit gebeurde op het einde van de 12de eeuw. Zij hadden voldoende militaire, politieke en economische macht om de grens, die toen ter hoogte van de Sierra Morena lag, te doorbreken en de Castilliaanse hoogvlakte te bezetten. De bedreiging was zo sterk dat de koning van Castilië weinig moeite had van paus Innocentius III te bekomen dat die opriep tot een kruistocht. Zo kwam het dat in de lente van 1212 duizenden Iberische en Europese strijders – Duitsers, Bretoenen, Lombarden, Provençalen, Aquitaniërs, inwoners van de Langue d’Oc, enzovoort) in Toledo verzamelden om de Almohaden te stoppen. Een groot aantal van die Europese troepen verliet later de kruistocht, maar de Provençaalse ridders bleven tot het einde aan de zijde van de troepen die de Iberische vorsten hadden geleverd en deelden in de overwinning. Vanaf Las Navas de Tolosa zou men nooit meer meemaken dat muzelmanse overweldigers het Europese continent vanuit het zuiden militair zouden bedreigen.

Vraag: Enkele duizenden mannen, onder het bevel van Roger de Flor, de befaamde Almugavaren, elitetroepen van de kroon van Aragon, samengesteld uit herders uit de Spaanse Sierra, droegen er door hun actie in de oostelijke Middelandse Zee toe bij dat de dood van Byzantium met enkele eeuwen werd uitgesteld. Hoe kan men zoiets verklaren?

Antwoord: nu lijkt dit onwaarschijnlijk, maar toen gebeurde het wel. Die Almugavaren waren een soort elitetroep van de legers van de christelijke Reconquista, zowel Aragonnezen als Catalanen. Ze bestonden vooral uit voetknechten. Die merkwaardige mannen leefden met hun gezinnen vlakbij de frontlijn. Hun leven bestond erin de vijand voortdurend aan te vallen en het gebied van de tegenstrever voortdurend te infiltreren. Toen het koninkrijk Aragon de zuidelijkste grens van zijn expansie bereikte, werden de Almugavaren – de term komt eigenlijk van de Moren en stamt van het Arabisch ‘almugavar’, wat betekent ‘hij die in verwarring brengt’ – ingezet in de expansieplannen van de Aragonese kroon in de middellandse zee. Na Sicilië en Napels veroverd te hebben, beantwoordden ze de roep van de Byzantijnse keizer die door de Turken werd bedreigd. We waren 1302 en de idee om naar Byzantium te trekken om er de Turken te bestrijden, leek waanzinnig…. Hun leider, Roger de Flor (zijn echte naam was Roger von Blum, zoon van een valkenier van Frederik II von Hohenstaufen, opgevoed door de Tempeliers en zelf ook Tempelier), nam de uitdaging aan en scheepte met 4.500 man in, richting Constantinopel. In Anatolië bracht hij 7.000 man bijeen. Hun avontuur wekt op zijn minst verbazing op: eerst versloegen ze de Turken bij Cuzykos (de zee van Marmara), later over geheel de Egeïsche kust en aan de voet van het Taurusgebergte. Ze werden uiteindelijk verraden door de Byzantijnen, maar slachtten die af bij Gallipoli, drongen door tot in Griekenland en stichtten in Thessalië een hertogdom dat ze een eeuw lang konden in stand houden.

Vraag: Waarom waren de “katholieke koningen” Isabella van Castilië en Ferdinand van Aragon zo’n belangrijke figuren voor de Spaanse geschiedenis?

Antwoord: Door hun verenigende en moderniserende werking. Onder hun bewind liep de Reconquista ten einde, het koninkrijk Navarra werd in het nieuwe Spanje geïncorporeerd, de moderne Castilliaanse taal werd gereglementeerd. De religieuze eenheid van het land werd verwezenlijkt met het uitdrijven van de joden. Er tekende zich een post-feodale macht af die meer rechten toekende aan de steden dan aan de edellieden.
Toen ook ontstonden instellingen die aan een nationaal kader beantwoordden, en men vatte de verovering van Amerika aan. Dat was een methodisch georganiseerd plan, vrucht van de gemeenschappelijke wil: de twee soevereine vorsten deelden de idee van een “christelijke republiek”. Met de katholieke koningen werd het moderne Spanje geboren en de Reconquista sloot af met de inname van Granada op 2 januari 1492. Die zege werd in haast alle Europese hoofdsteden gevierd, van Rome tot Londen. Voor de Spaanse geschiedenis heeft dat gebeuren een zeer groot belang, want voor de eerste keer kon het schiereiland de eenheid die het in de Romeinse tijd ook al had gekend, eindelijk opnieuw realiseren (zelfs als het bestaan van Portugal een politieke verdeling betekende). Voor Europa betekende de inname van Granada voor minstens vijf eeuwen het verwijderd houden van de islam tot minstens voorbij de straat van Gibraltar.

Vraag: Twee van de meest betwiste episodes uit de Spaanse geschiedenis blijven de uitdrijving van de joden door de katholieke koningen bevolen in 1492 en die van de Morisken, door Filips III in 1609 opgelegd. Voor de ene waren dat uitingen van onverdraagzaamheid, waardoor de voorspoed van het land bedreigd werd, voor anderen waren het onvermijdelijke vruchten van de volkshaat en beslissende stappen naar de religieuze en politieke eenmaking van het land. Wat is het nu? En hoeveel joden en Morisken werden er uitgedreven?

Antwoord: Het betreft twee verschillende episodes die ook een andere oorsprong hebben. De uitdrijving van de joden is een etappe in de godsdienstige eenmaking van Spanje. Het probleem lag niet bij het bestaan van praktiserende joden, en ook niet van hun beweerde invloed op hen die zich tot het christendom hadden bekeerd. De promotoren van de uitdrijving waren meestal “nieuwe christenen”, eigenlijk dus bekeerde joden. De vijandigheid van het volk zorgde voor de rest. Op te merken valt dat de Sorbonne bijvoorbeeld de katholieke koningen geluk wenste met de genomen maatregel. Overigens werden door de uitdrijving, althans volgens de recentste berekeningen, zo’n 100.000 mensen getroffen.

De zaak ligt anders bij de uitdrijving van de Morisken – muzelmannen die na 1492 in Spanje gebleven waren. De context vindt men terug in de vrees dat een sterke minderheid muzelmannen in Spanje een soort “vijfde colonne” zou kunnen worden voor de Turken als die het schiereiland zouden aanvallen. De gewelddadige opstand in de Alpujarras (een bergketen ten zuiden van Granada), waar die Moorse bendes in 1568-1571 terreur zaaiden, bevestigde die vrees. De bendes verzamelden tot 25.000 oproerkraaiers en werden ondersteund met Algerijns en Turks geld. Een geregelde militaire kampanje was noodzakelijk om dit probleem op te lossen. Desondanks decreteerde men in Spanje nog niet de uitdrijving van de Morisken, maar hun herplaatsing in andere regio’s van Spanje. De uitdrijving greep later plaats toen bleek dat de “integratie” van de Moriske gemeenschappen onmogelijk bleek. Het aantal uitgedrevenen wordt geschat op ongeveer 300.000.

Jose Javier Esparza is schrijver, journalist en politicoloog. In 1963 geboren in Valencia. Hij leidt tegenwoordig het internet dagblad El Manifesto. Hij tekent ook verantwoordelijk voor twee uitzendingen die tot de meest beluisterde behoren van de radioketen COPE: een culturele en een historische uitzending met name. Vroeger werkte hij mee aan verschillende nationale dagbladen, waaronder ABC en hij leidde het politiek-culturele tijdschrift Hesperides. Onlangs nog publiceerde hij twee historische boeken, La Gesta espanola en El Terror Rojo en Espana, twee essais Los Ocho Pescados del Arte Contemporaneo en Curso de Disidencia. Hij is ook auteur van een roman El Final de los Tempos.


Vertaling: Karel Van Vaernewijck

Hommage à Giorgio Locchi (1923-1992)

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Hommage à Giorgio Locchi (1923-1992)

 

par Gennaro MALGIERI

 

Giorgio Locchi est mort de la seule façon qu'il aurait jugée acceptable: de manière imprévue, presque sans avertir personne, alors qu'il voulait écrire un essai sur Martin Heidegger. Sans doute, a-t-il eu une lueur de conscience, entre le moment où la mort s'est annoncée et celui où elle l'a frappé, quelques minutes plus tard, et il a très certainement remercié les dieux de lui offrir une sortie de scène aussi soudaine, car l'idée de rester longtemps malade ou diminué le faisait immensément souffrir. A la fin du mois de juin 92, lors de son dernier séjour à Rome, il m'a parlé du mal qui l'avait frappé deux années plus tôt et qu'il avait vaincu. Il me disait que la perspective de devenir un tronc inerte le faisait frémir parce qu'avec le temps qui passe, on s'accroche plus étroitement, plus profondément, plus égoïstement à la vie. Paroles de Locchi qui ne m'ont pas surpris. Aujourd'hui, j'y repense, comme si elles avaient été un présage.

 

Pour quelqu'un qui comme moi était de ses amis, ce n'est pas facile de rendre hommage à Giorgio Locchi, de récapituler tout ce qu'il nous a légué. Je pourrais tenter de tracer un profil du journaliste, correspondant à Paris du Tempo pendant plus de trente ans. Et de raconter une infinité d'anecdotes sur ses rapports avec Renato Angiolillo. Ou encore de souligner l'importance de tous les services qu'il a rendu à l'information en Italie: sur les événements d'Algérie, sur la naissance de l'existentialisme, sur le mai 68 parisien. Ses vues étaient portées par un anti-conformisme extraordinairement courageux et intelligent. Je voudrais aussi souligner le rôle capital qu'a joué Giorgio Locchi dans l'évolution de la droite française, insister sur le bout de chemin qu'il a fait avec Alain de Benoist, sur la passion qu'il éprouvait à former des jeunes intellectuels, sur ses activités au sein du GRECE et sur ses contributions à la revue Nouvelle Ecole.  Je voudrais aussi pouvoir rassembler ici tous les éléments de la vaste mosaïque qu'était sa personnalité, rendre compte de son amour pour la musique et le cinéma, de sa maîtrise des choses physiques et scientifiques. Et je pourrais aussi raconter l'histoire de notre amitié et relater celle de son refuge parisien qui m'a été si cher, ainsi qu'à une poignée d'autres Italiens, où nous nous retrouvions pour évoquer le passé ou pour manifester notre hostilité au système ambiant. Mieux: nous y venions pour écouter Locchi qui nous évoquait Nietzsche ou Wagner, Heidegger ou la Révolution Conservatrice, ses expériences en Allemagne ou les moments cruciaux de la seconde guerre mondiale qu'il a vécue comme acteur du «front intérieur». Il nous parlait aussi de la «droite impossible» et d'une Europe tout aussi impossible. Et il nous faisait part de ses projets, commentait les revues auxquelles il collaborait, évoquait les articles qu'il voulait écrire et les livres qu'il voulait publier. Nous voyions peu de choses de Paris quand nous allions chez «Meister Locchi» et Saint-Cloud, où il vivait pratiquement en reclus, fut, pendant de nombreuses années, le point de rencontre de beaucoup d'entre nous.

 

Le journaliste, l'ami, l'organisateur de manifestations culturelles, l'agitateur d'idées vivent et vivront toujours dans le cœur de ceux qui ont connu Giorgio Locchi et ont été ses amis. Ses livres, ses idées, ses essais dispersés dans Nouvelle Ecole, La Destra, L'Uomo Libero  et Elementi,  ses articles du Tempo  et du Secolo d'Italia resteront les témoignages écrits d'un engagement intellectuel et politique au sens le plus noble du terme, mais qu'il a ressenti comme le fardeau d'une défaite européenne pendant plus de quarante ans. Nous avons d'abord vu Giorgio sceptique et méfiant, puis la confiance ne lui est revenue qu'au moment où on a parlé de la réunification allemande. Ce n'est pas pour rien qu'il a voulu être à Berlin quand l'Allemagne s'est remembrée: c'était pour lui, me disait-il, un rêve qui se réalisait, un événement qui se déroulait sous ses yeux et qu'il n'avait pas imaginé voir se réaliser, même s'il n'avait jamais cessé de croire au-delà des limites qu'impose le pessimisme, attitude justifiée s'il en est.

 

Les idées de Locchi étaient les idées d'une Europe qui n'existe plus: mais cette inexistence n'était pas pour lui une raison pour ne pas en défendre ou en illustrer les principes. Mais quand on lui en faisait le reproche, il rétorquait: ses idées étaient les idées de l'Europe éternelle que cette Europe conjoncturelle de notre après-guerre ne voulait pas, momentanément, reconnaître.

 

Son attitude à l'égard du fascisme, par exemple, était loin d'être simplement revendicative voire revencharde. Giorgio Locchi voulait, dans le bouillonnement culturel de la parenthèse fasciste, recueillir tous les éléments qui n'étaient pas caducs. Il nous a fait part de ses réflexions à ce sujet dans son opuscule intitulé L'essenza del fascismo  (Il Tridente, 1981). Il s'y réfère à la vision du monde qui fut l'inspiratrice du fascisme historique mais qui n'a nullement disparu avec la défaite de ce dernier. Cet ouvrage constitue aujourd'hui encore un prodigieux «discours de vérité», au sens grec, qui cherche à soustraire le fascisme de toutes ces explications fragmentaires qui ont cours actuellement et à toutes les formes de démonologie générant préjugés sur préjugés. Locchi, en fait, a développé une réflexion historique propre selon un schéma philosophique cohérent, appuyé sur une option interdisciplinaire, elle-même prélude à une théorie synthétique de l'essence du fascisme.

 

Dans son enquête, Locchi soutenait qu'il n'était pas possible de comprendre le fascisme si l'on ne se rendait pas compte qu'il était la première manifestation politique d'un phénomène spirituel et culturel plus vaste, dont l'origine remonte à la seconde moitié du XIXième siècle et qu'il appelait le «surhumanisme». Les pôles de ce phénomène, qui ressemble à un énorme champ magnétique, sont Richard Wagner et Frédéric Nietzsche qui, par leurs œuvres, ont «agité» le «principe nouveau» et l'ont diffusé et dilué dans la culture européenne entre la fin du XIXième et le début du XXième siècle.

 

Ce principe est le «sentiment de l'homme» comme volonté de puissance et système de valeur. Dans ce sens, le principe surhumaniste, avec lequel le fascisme est en rapport «génétique/spirituel», s'articule comme le rejet absolu du «principe égalitaire» qui lui est opposé et qui informe le monde d'aujourd'hui, toile de fond de nos circonstances.

 

Locchi avançait la thèse suivante: «Si les mouvements fascistes ont désigné l'ennemi spirituel avant de désigner l'ennemi politique, s'ils ont dénoncé les idéologies démocratiques  —libéralisme, parlementarisme, socialisme, communisme, anarcho-communisme—  c'est bien parce que dans la prospective historique  instituée par le principe surhumaniste, ces idéologies s'articulent comme autant de manifestations du principe égalitaire antithétique, apparues successivement dans l'histoire mais toujours présentes; toutes tendent, en définitive, vers le même but mais avec un degré de conscience différent; toutes ensemble, elles sont la cause de la décadence spirituelle et matérielle de l'Europe, de l'“avilissement progressif” de l'homme européen, de la désagrégation des sociétés occidentales».

 

Reliant ces considérations à la prospective historique dans laquelle opère le fascisme, à l'unisson avec les autres fascismes européens, Locchi pose une thèse du plus haut intérêt qui contribue au «dés-occultement» du fascisme, en mettant en lumière son essence même.

 

Ces thématiques, Locchi les a développées dans son ouvrage Wagner, Nietzsche e il mito sovrumanista  (Akropolis, 1982; il s'agit partiellement d'une remise en forme de ses articles de musicologie parus en français dans Nouvelle Ecole,  n°30 et 31/32; ndlr). Dans sa brillante préface, Paolo Isotta précise, avec minutie, quelles sont les tendances égalitaires et quelles sont les tendances surhumanistes qui entrent en jeu et les posent comme deux conceptions du monde antithétiques et irréconciliables. C'est un livre très dense, particulièrement difficile, parfois rébarbatif dans certains de ses chapitres; il n'empêche que lorsqu'Isotta et moi-même l'avons présenté devant un auditoire comble d'étudiants napolitains, en décembre 1982, il semblait véritablement captiver ces jeunes qui sont restés pendant deux heures rivés sur leurs sièges puis ont harcelé Locchi de questions pertinentes, qui n'avaient vraiment rien de banal. L'auteur n'en a pas paru surpris.

 

Outre ce livre, j'ai de Locchi un autre grand souvenir: celui de son ouvrage polémique Il male americano  (Lede, 1979), auquel Alain de Benoist a apporté quelques petites notes complémentaires (en français, ce texte est paru dans Nouvelle Ecole  n°27-28, sous le pseudonyme de Hans-Jürgen Nigra, également repris pour l'édition allemande; ndlr). Ce texte est capital à mon sens car il démonte la mécanique du colonialisme culturel américain et nous permet de jeter un autre regard sur l'Amérique. Locchi, en revanche, n'aimait pas trop ce texte, estimant qu'il relevait davantage du combat que de la formation, qu'il était plus polémique que philosophique.

 

Dans les tiroirs du bureau de Giorgio Locchi, se trouvent de nombreux projets, des ébauches de textes, le schéma d'un livre sur Heidegger et d'un autre sur la conception du temps chez les Indo-Européens. Ils resteront certainement tels que Giorgio les a laissés parce qu'avant toutes choses, il était un perfectionniste et ne voulait rien publier sans être pleinement convaincu que cela en valait la peine.

 

Il reste encore, parmi les innombrables lettres qui constituent sa correspondance, un splendide roman qui a pour héros un Italien qui combat en Allemagne une guerre désespérée pour défendre l'Europe. Je ne saurais jamais si c'est par pudeur ou par orgueil que Giorgio Locchi a toujours refusé de le présenter à un éditeur.

 

Gennaro MALGIERI.

(traduction française: Robert Steuckers).          

 

 

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Deux livres sur l'Europe

europe-10aug03-msg1.jpgArchives des Synergies Européennes - 1990

Deux livres sur l'Europe


Herbert KRAUS, «Großeuropa». Eine Konföderation vom Atlantik bis Wladi­wostok, Langen-Müller, München, 1990, 147 S., DM 28, ISBN 3-7844-2197-0.


A cause des problèmes en Allemagne de l'Est, de la situation catastrophique de l'économie polo­naise, de l'intervention des militaires sovié­tiques à Vilnius, de la fragilisation de la posi­tion de Gorbatchev à Moscou, l'unification gran­de-continentale, de l'Atlantique au Paci­fique, la communauté de destin euro-soviétique est postposée. Cette remise aux calendes grec­ques d'un processus nécessaire ne doit pas pour autant nous empêcher de réfléchir à son adve­nance, de la préparer. Herbert Kraus, ex­pert au­trichien des questions d'Europe orientale, fon­dateur du parti libéral autrichien, l'a soule­vée dans un livre qui a la forme d'un manifeste et qui appelle à la consitution de la «Grande Con­fédération». Pour Kraus, ressortissant d'un pe­tit Etat neutre, sis à la charnière de l'Est et de l'Ouest, les Européens doivent préparer l'a­vè­nement d'un Etat multiculturel englobant tous les pays d'Europe et l'ensemble du territoire au­jourd'hui soviétique. Dans cet immense es­pace, tous les Européens devraient pouvoir avoir le droit de travailler, de commercer ou de fonder des entreprises. L'heure de l'Etat-Nation, étroit, trop exigu pour les impératifs qui s'annoncent, a sonné. Il doit faire place au «grand espace». Ce processus de méta/macromorphose doit s'ac­com­pagner d'un socialisme acceptable pour tous, d'une déconstruction des antagonismes mi­litaristes du passé afin de construire une gi­gantesque armée confédérative. La Russie a un rôle tout particulier à jouer dans cette évolution: elle doit transformer l'URSS qu'elle domine par son poids en une confédération-modèle que l'Ouest pourra imiter, tandis que les réussites de la CEE en matière d'intégration devront servir de modèles à l'Est. La confédération devra être plus souple, plus soucieuse des tissus locaux, moins centralisatrice en matières écono­mi­ques. Logiques intégratives et identitaires doi­vent pouvoir jouer simultanément.


Otto MOLDEN, Die europäische Nation. Die neue Supermacht vom Atlantik bis zur Ukraine, Herbig, München, 1990, 323 S., DM 39,80, ISBN 3-7766-1649-0.


Ancien chef de la résistance autrichienne con­tre le nazisme, Otto Molden, homme poli­tique et historien, a toujours eu la volonté de for­ger un «patriotisme européen», reposant sur une inter­prétation «culturo-morphologique» de son his­toire, qui n'est pas sans rappelé Spengler et Toynbee. La disparition du Rideau de fer, pense Molden, va activer la constitution d'une Europe unie et faire d'elle la première puissance cultu­relle, économique et financière du globe, lais­sant les Etats-Unis stagner loin derrière elle. Paradoxalement, poursuit Molden, ce sont les dangers venus de la steppe asiatique, les inva­sions hunniques, avares, magyares et mon­go­les, qui ont, à certains moments de l'histoire, don­né aux Européens l'idée d'une communauté de destin. Pour Molden, l'ère des Etats-Nations, incapables de gérer leurs problèmes de minori­tés, doit être close. Ces problèmes de minorités doivent être résolus, non seulement à l'Est, mais aussi à l'Ouest (Irlande, Pays Basque), de façon à ce que l'on obtienne une nation consti­tuée de peuples et de citoyens solidaires. Pour or­­ganiser ce gigantesque ensemble, il faut in­venter une représentation nouvelle, fondée sur le «fédéralisme intégral des communautés de voisinage». Une telle représentation permettra à moyen ou long terme de resouder les tissus so­ciaux ravagés par la révolution industrielle.

(Robert Steuckers).

 

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Marinetti et la révolution futuriste

Marinetti et la révolution futuriste

Trouvé sur: http://metapoinfos.hautetfort.com

Les éditions de l'Herne viennent de publier un ouvrage de  Maurizio Serra, historien et diplomate italien, consacré à Marinetti et au futurisme.

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"La guerre futuriste est une mobilisation totale contre les valeurs politiques, morales et culturelles du passé; elle permet à Marinetti de rompre les ponts avec la décadence, d'être de plain-pied dans la réalité qui n'est plus la conséquence du passé mais son contraire.
Il repère un ennemi immédiat - les empires centraux "moribonds" - et un objectif facile - l'irrédentisme ; mais surtout il identifie, dans la technique au service du mythe, l'avènement traumatique de la modernité. [... ] Marinetti n'est décidément pas facile à cerner. Il est de "droite" ou plutôt d'"extrême droite", lorsqu'il en appelle au droit du plus fort, au reniement de la solidarité de classe, à la loi martiale contre les pacifistes et les traîtres, à la destruction de l'ennemi et pas seulement à sa défaite.
Il est de "gauche ", ou plutôt d'"extrême gauche" parce qu'à ses yeux la guerre doit mener à la dissolution de tout ordre préétabli, y compris celui des non-belligérants comme l'Eglise - d'où sa fronde pendant la période fasciste contre les compromis et la corruption du régime. "

samedi, 22 novembre 2008

Obama: le retour des Clinton Boys

Obama : le retour des Clinton boys

Source: http://be.novopress.info/

Image Hosted by ImageShack.us14/11/2008 – 17h00
WASHINGTON (NOVOpress) — Barack Obama recrute dans son équipe de nombreux anciens des administrations Clinton 1 et 2. Mercredi, il nommait Joshua Gotbaum et Michael Warren pour superviser l’installation de la nouvelle administration au ministère du Trésor. M. Gotbaum était secrétaire assistant à la Défense, secrétaire assistant au Trésor et contrôleur du Bureau de gestion et du budget de l’ancien président Clinton. Quant à M. Warren, il fut directeur exécutif du Conseil économique national pendant le deuxième mandat de Bill Clinton.

M. Obama a également nommé Thomas Donilon et Wendy Sherman à la tête de l’équipe de transition au Département d’ Etat (Affaires étrangères). M. Donilon et M. Sherman étaient respectivement secrétaire d’Etat chargé des affaires publiques et conseiller spécial pour le Département d’Etat de l’ancien président.

Deux autres officiels de l’administration Clinton, John White et Michele Flournoy, ont également été nommés par le président Obama pour superviser la passation de pouvoir au Département de la Défense. M. White occupait la fonction de vice-secrétaire à la Défense de 1995 à 1997 sous Clinton. Mme Flournoy était quant à elle vice-secrétaire assistante à Défense « en charge de la stratégie et de la réduction des menaces »…

Quel était donc le slogan de campagne du président Obama ? Ah oui, « Change ! »…

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Le monde après l'élection d'Obama selon Niall Ferguson

 

 

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Le monde après l’élection d’Obama, selon l’historien britannique Niall Ferguson


Niall Ferguson, célèbre pour ses thèses sur les origines de la première guerre mondiale, professeur à Harvard, a accordé, début novembre 2008, un long entretien à l’hebdomadaire allemand « Der Spiegel » (n°46/2008), où il énonce ses hypothèses quant à l’avenir immédiat de la planète, après l’élection du premier président des Etats-Unis d’origine africaine.


En voici quelques extraits significatifs :


Q. : La foi en la capacité d’auto-guérison du marché est-elle morte ?


NF : Oui. Mais il a fallu un véritable Armageddon avant que les Républicains ne l’aient compris. Il a fallu une guerre mondiale sans combats, une situation d’urgence. Aujourd’hui, nous réagissons comme lors de la première guerre mondiale : avec des moratoires, avec la mise hors circuit des transactions boursières, avec du nouvel argent. C’est fascinant… (…). Mais nous sommes tous coupables : qui n’a pas, en Grande-Bretagne ou en Amérique, réclamé un crédit pour une maison, évaluée beaucoup trop chère, ou une auto ? …Toutes ces bulles se ressemblent mais, force est de le constater, le monde de la finance est comme immunisé contre les leçons de sa propre histoire.


Q. : Pourquoi ?


NF : La plupart des gestionnaires de haut niveau quittent les systèmes d’enseignement en étant bien trop peu armés pour prendre les décisions qu’il faudrait au moment voulu. Ils apprennent l’économie comme si elle était une discipline mathématique. Ils ne savent rien de ce qui s’est passé auparavant, même au début de leur carrière. Beaucoup de ceux qui travaillent aujourd’hui à Wall Street ne savent même pas ce qui s’est passé en l’an 2000, au moment du « boom » d’internet.


Q. : Le système éduque donc ses gestionnaires à être totalement irresponsables ?


NF : Et à être complètement naïfs. Les années 2001 à 2007, ces gens les ont considérées comme des années parfaites, des années-modèles que rien n’allait pouvoir ébranler ou contrarier. Il est évidemment séduisant de considérer sa propre expérience comme une composante inamovible de la théorie et de l’histoire de la finance.


Q. : Est-ce un hasard si l’effondrement a commencé aux Etats-Unis ?


NF : Il aurait pu commencer n’importe où. Le système était une pyramide reposant sur son sommet, une pyramide de garanties, de nantissements, de dérivés, de gages, de crédits, qui s’appuyait sur une pointe fragile constituée d’hypothèques. Si l’effondrement avait commencé ailleurs, les conséquences n’auraient pas été aussi dramatiques. Mais la pyramide devait se casser la figure : c’était une crise du monde occidental et c’est devenu une crise globale.


(…)


Q. : En Allemagne, on craint que le Président Obama nous réclamera plus de soldats pour l’Afghanistan. Mais, par ailleurs, on espère que sa politique reposera davantage sur le multilatéralisme…


NF : Cette crainte et cet espoir sont tous deux fondés. Obama se concentrera davantage sur l’Afghanistan et tentera, simultanément, de retirer des troupes américaines et d’obtenir, pour les remplacer, des soldats venus de partout (…).


Q. : Quelles pourraient être les conséquences de la crise ?


NF : New York pourrait devenir ce que Venise est devenue.


Q. : Soit le musée de ce que la ville a été ?


NF : Peut-être mais il faudra attendre 100 ou 200 ans. De plus en plus de choses se passeront en Asie ; Londres sera, géographiquement parlant, dans une meilleure position. Et Shanghai prendra une importance cardinale. Ou Hong Kong.


Q. : La vie est tout de même injuste…


NF : L’argent n’a jamais été une chose juste.


Q. : L’Europe n’est-elle pas mieux armée pour les temps de crise ? Plus moderne ?


NF : Sans doute mais l’Europe sera cruellement touchée par la crise. En Grande-Bretagne, en Suisse, en Belgique, en Allemagne, le secteur de la finance fait un pourcentage plus élevé du PIB qu’en Amérique, c’est pourquoi l’ampleur de la crise sera plus importante en Europe. Quant à la Russie, l’Iran et le Venezuela, ils vont être surpris par la chute des prix du pétrole.


Q. : Les Etats-Unis pourraient dès lors sortir vainqueurs de la crise actuelle, dont ils sont eux-mêmes l’origine ?


NF : Absolument. Prononcer des discours funéraires est prématuré. Tout dépendra des réactions chinoises. Par des interventions volontaires et techniques, les Chinois ont veillé à ce que la stabilité des cours de change demeure et ont ainsi protégé le dollar. Parce qu’ils possèdent d’énormes masses de dollars et exportent des produits finis, qui sont facturés en dollars, ils poursuivront cette politique. La Chine et les Etats-Unis sont liés, aussi liés que je le suis moi-même à mon épouse…


Q. : Et la femme…


NF : …dépense ce qu’économise et gagne le mari. C’est un sage équilibre. Cela restera ainsi.


Q. : Qui a-t-il de sage dans cette situation ?


NF : Il en a toujours été ainsi : l’une économie compensait les faiblesses de l’autre, et ce n’est pas une mauvaise chose. Les Etats-Unis ne peuvent pas se permettre de payer pour cette crise tant qu’ils peuvent obtenir de Pékin un argent favorable, qui ne leur revient pas plus cher que 4% d’intérêts. Quant à la Chine, elle a besoin d’exporter vers les Etats-Unis, pour pouvoir poursuivre sa croissance. Nous assistons à l’avènement de la Chinamérique…


Q. : …c’est le nom que vous donnez au tandem économique sino-américain dans votre dernier livre (Niall Ferguson, « The Ascent of Money – A Financial History of the World », Penguin Press, New York, 2008)…


NF : … en effet, et ce n’est pas une chimère, mais un tandem qui fonctionne. Des trois grands (Chine, Russie, Amérique), seuls deux peuvent former une coalition et ni la Chine ni les Etats-Unis n’ont de raisons de préférer la Russie comme partenaire.


Q. : Oui, mais en fin de compte, le déficit américain ne peut pas être considéré comme une bonne chose…


NF : Bah, les choses vont vite retrouver un certain équilibre. Cependant, si les Etats-Unis avaient un budget équilibré, ce serait un choc terrible pour le système global. Personne ne peut sérieusement vouloir un tel ébranlement. Si les Américains commençaient à épargner comme le font les Chinois, nous serions plongés dans une gigantesque dépression !


Q. : C’était l’un des principaux avertissements d’Obama : « Nous empruntons de l’argent aux Chinois et, avec cet argent, nous achetons du pétrole en Arabie Saoudite ». Il disait vouloir mettre fin à ce jeu lors de sa campagne électorale.


NF : Sans doute quelques conseillers en politique étrangère vont-ils bien vite lui expliquer de ne pas toucher aux rapports actuels entre la Chine et les Etats-Unis…


Q. : La phrase qu’il a prononcée contient tout de même un bon fond de vérité…


NF : Exact mais c’est une simplification. Les Américains veulent acheter à bas prix. Et les Chinois produisent à bas prix. Qui voudrait faire basculer un tel système ? Même dans une économie globale, il restera des déséquilibres : le rythme de développement n’est pas le même partout et le système existe pour transférer gains et épargnes d’un lieu à l’autre. Cela me paraît plus sensé que l’autarcie financière des années 50, où il n’y avait pas de transactions internationales.


Q. : Voilà qui paraît incroyable : finalement, vous estimez que tout va bien ?


NF : Non, mais le thème qui me préoccupe n’est pas le déficit américain ou la dépendance des Etats-Unis à l’endroit de la Chine. Simplement, la Chine a quelque peu pris conscience de ses atouts. Les Etats-Unis, eux, ont le caquet un peu rabaissé, mais la Chine est loin d’être un rival des Etats-Unis sur les plans militaire et économique. Mon thème central, c’est la dépendance par rapport au pétrole. C’est une thématique d’ordre technologique et non pas financière.


Q. : Alors, les hommes politiques responsables…


NF : ….emprunteraient de l’argent aux Chinois et l’investiraient dans les technologies propres, génératrices d’énergie éolienne, solaire, etc. ; ce serait là une stratégie rationnelle. Ce fut une folie d’avoir été emprunter de l’argent en Chine pour aller le brûler dans des spéculations immobilières.


Q. : Donc, pour vous, emprunter ne constitue aucun problème ?


NF : Ce ne fut jamais un problème. Les emprunts sont le fondement de l’économie. Le problème ne réside donc pas dans le fait d’emprunter, mais dans celui d’investir. Si vous n’investissez pas et que vous ne faites que consommer, alors vous vous ruinez.


Q. : Les relations euro-américaines vont-elles changer ?


NF : Oui, mais d’une façon autre que l’imaginent bon nombre d’Européens. Les Démocrates et les Républicains, sur le plan de la politique extérieure, ne se distinguent pas vraiment les uns des autres et, en cette matière, il existe une continuité bien réelle, qu’on n’imagine pas immédiatement. Obama sera-t-il le contraire diamétral de Bush ? Non. Car les intérêts nationaux des Etats-Unis resteront les mêmes.


(…)


Q. : Sur le plan économique, que pourra réellement faire le nouveau président des Etats-Unis ?


NF : Obama a répondu à un sentiment général qui veut le changement mais un changement qui n’en pas un véritablement, seul, ici, le sentiment du changement a révélé toute son importance. Cette crise est une crise de confiance et de conscience : les Américains ont le sentiment qu’il leur faut un président qui apporte de l’innovation.


Q. : Bon. Mais que peut faire Obama ?


NF : Il pourra prononcer un magnifique discours d’intronisation.


Q. : Et c’est tout ?


NF : Prononcer d’autres formidables discours.


Q. : Et rien de plus ?


NF : Non. Parce que de tous les présidents américains, il est celui qui, de mémoire d’homme, a la marge de manœuvre la plus réduite. Obama composera un gouvernement au-dessus des partis et nous allons bientôt vivre les premiers 100 jours les plus prudents qui aient jamais été, un peu comme au début de la carrière de Bill Clinton. Obama sera prudent jusqu’à devenir ennuyeux. Et c’est en cela que résidera sa grande force.


Q. : Et alors ? Où se trouve le problème ?


NF : Chez Hank Paulson.


Q. : Et ce ministre des finances de l’équipe Bush jr., qu’a-t-il à voir avec Obama ?


NF : Vu le grand plan « Bailout » qu’il a mis en oeuvre, Paulson a déjà dépensé tout l’argent qu’Obama entendait utiliser pour sa réforme du système de santé et pour son projet de diminuer les impôts. L’argent est parti, envolé !


(propos recueillis par le journaliste Klaus Brinkbäumer, adaptation française : Robert Steuckers).


 

Soldats américains: perdu en bourse l'argent gagné au combat

Des soldats américains en Irak ont perdu en bourse l'argent gagné au  combat

Publié le 10 novembre 2008 sur http://www.egaliteetreconciliation.fr

 

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En allumant son ordinateur ces dernières semaines, le lieutenant-colonel Mark Grabski ne consultait pas les derniers sondages sur la présidentielle américaine mais contemplait l'étendue de ses pertes sur des sites financiers.


"Mes favoris comprenaient la liste des sociétés dans lesquelles ma caisse de retraite complémentaire investissait. Et tous les jours, je voyais leurs cours s'effondrer", dit ce militaire en poste sur la base américaine de Speicher, au nord de Bagdad. "J'ai perdu actuellement des dizaines de milliers de dollars" dans la crise financière, assure cet officier de 31 ans, chargé de l'inspection générale de la base.

"Le tiers de mon salaire est versé sur le thrift savings program", une retraite complémentaire privée réservée aux fonctionnaires et militaires américains. "J'ai perdu 30% de cette retraite dans la crise financière", assure-t-il. Cette retraite privée s'ajoute à la pension de l'armée, qui n'a pas pâti de la crise, et qui atteint 50% du salaire des militaires qui ont servi 20 ans, 75% pour ceux qui ont 30 ans d'ancienneté. A Camp Speicher, la crise a souvent éclipsé la campagne présidentielle. Le cyclone financier a été d'autant plus cruellement ressenti qu'il s'agit pour ces soldats d'argent gagné à force de patrouilles, parfois de combats, dans la poussière de Tikrit, un fief de l'ancien dictateur irakien Saddam Hussein.

L'impact de la crise sur les portefeuilles et les retraites privées des soldats américains déployés en Irak est difficile à mesurer. Les officiers, plus âgés et soucieux de leur avenir, ont sûrement plus pâti du tourbillon des places boursières. Mais les jeunes recrues ne sont pas épargnées. "Nous avons encouragé les jeunes soldats à souscrire à des retraites privées.

Quand un soldat arrive au Koweït, avant d'être déployé en Irak, c'est même un des premiers prospectus qu'on lui donne", souligne le lieutenant-colonel Grabski.

Pour le commandant Daniel Meyers, qui travaille au commandement central de l'armée américaine pour le nord de l'Irak, les pertes sont plus limitées, "3.100 dollars". "Je ne verse que 8% de mon salaire (environ 5.000 dollars en Irak, ndlr), mais c'est une somme pour moi", dit-il.
En regard, un simple soldat déployé en Irak touche environ 2.000 dollars par mois. Dans le centre de commandement, au pire de la crise, les analystes financiers ont succédé aux joueurs de base-ball du "World Series" sur les écrans de télévision.

"Tout le monde suivait la crise. Quand la cloche (de fin de séance à Wall Street, ndlr) retentissait, j'étais traumatisé. Je ne dormais plus que deux heures par nuit", se souvient l'officier, originaire de l'Etat de New York. Ce militaire de 32 ans, dont la division est basée en Allemagne, attend peu du prochain président américain. "Sauf peut-être si (Barack) Obama nomme quelqu'un à l'instance de régulation des marchés ou si le Congrès adopte des lois de régulation", dit-il. Depuis, le lieutenant-colonel Grabski, comme le commandant Meyers, attendent simplement que le marché remonte pour pouvoir espérer récupérer leur mise.

D'autres soldats, plus proches de la retraite, ont en revanche beaucoup perdu ces dernières semaines. "Je suis à trois ans de la retraite et j'ai perdu la moitié de mes fonds", peste un sergent originaire d'Alabama sous couvert de l'anonymat. "Je n'accuse personne, en signant le contrat, je savais que ces placements étaient risqués", dit cet homme d'une cinquantaine d'années, dont bientôt 30 dans l'armée. "Mais quand je pars en mission, il m'arrive de penser que j'étais tout près d'une belle retraite. Quelques mois à tirer avant de toucher enfin la retraite de l'armée, plus ma complémentaire privée. Je ne m'imaginais pas continuer à travailler dans le civil après 30 ans de carrière militaire", regrette-t-il.

Source : http://news.tageblatt.lu

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Gumplowicz: volonta e lotta alle origini dello stato

 

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VOLONTÁ E LOTTA ALLE ORIGINI DELLO STATO

 

 

Ex: http://www.mirorenzaglia.org/

Nietzsche riassunse alla sua maniera la questione: il vero Stato, lungi dall’essere il mostro freddo delle burocrazie democratiche, è un sistema sociale messo al servizio degli «eroi di una cultura tragica». L’intera civiltà ellenica fu da lui pensata come un unico servizio reso all’affermazione del genio della stirpe, al cui àpice si aveva l’emergere di un’eccellenza: quella dei migliori, gli aristòcrati, scaturiti dallaselezione operata attraverso il Rangordnung l’ordinamento per ranghi. Ciò che determinava la selezione era un principio di lotta, di gloria e di vittoria. Su se stessi e sugli altri. Nulla di più distante dalle odierne posizioni di democrazia liberale, di origine banalmente contrattualistica. Tra l’egualitarismo pacifista dei progressisti, che abbassa la società a convivenza tra mandrie sedate e omologate, e il differenzialismo tradizionale, che affida la vita e il perfezionamento umano al salutare conflitto, c’è un incolmabile abisso antropologico, prima ancora che ideologico.

Nietzsche vide come al solito giusto nell’indicare nell’origine della nostra civiltà il principio del valore che sgorga da una comunità di prescelti. E valore avrà allora colui che sappia battersi, innanzi tutto per la vita, poi nel nome delle sue convinzioni: agòn, parola omerica ed eraclitèa, fissa sin dall’inizio della storia conosciuta il discrimine tra l’uomo e il non-uomo, stabilendo una ferma gerarchia tra chi è di lega nobile e chi è di lega vile. L’uno sta in alto, l’altro starà in basso. Il significato dello Stato - «l’utensile crudele» - come potenza guerriera e ordine di selezionati, fu indicato da Nietzsche nel suo essere il risultato della «spietata durezza» che vige in natura. Lo Stato gerarchico fondato dalla lotta è il mezzo che permette l’irrompere del Genio, tanto che si può fare una connessione tra «campo di battaglia e opera d’arte». Si vedano in proposito gli scritti giovanili di Nietzsche Lo Stato dei Greci e L’agòne omerico, oggi ripubblicati dalle Edizioni di Ar. La cultura europea è rimasta per alcuni millenni incardinata su questi princìpi, prima che qualcosa di degradato e senescente iniziasse a corroderne le fondamenta, asservendo lo Stato ai maneggiatori di danaro e ai violenti divulgatori della menzogna egualitaria.

 

 

Questo concepire l’esistenza come somma di tensioni, regolata dalla legge ferrea ma esaltante del rischio, dell’esposizione alla prova, fu come noto riproposto modernamente da Oswald Spengler (nella foto sotto a sinistra). Suo fu il rilancio della figura di Eraclito, proprio come l’artefice di un annuncio di purezza, tale da affidare il protagonismo sociale al tipo esemplare del greco di nobile ascendenza. Ma è chiaro che qui si tratta di un’aristocrazia che è distillata dal popolo, esso stesso già di per sé nobilitato in un continuo processo di perenne affinamento. Spengler mise in luce assai bene che in Grecia il concetto di aristocrazia forgiata dalla lotta era «connesso agli interessi vitali del popolo greco nella sua interezza», così chiarendo che non era in gioco alcun individualismo, ma la personalità creata dalla comunità di formazione.

 

 

L’approccio agonale alla vita esprimeva in quegli arcaici contesti «la pienezza della vita, la salute, il senso di potenza, il piacere autenticamente greco per la bellezza e per l’equilibrio della forma». Un principio di competizione così inteso, ben lontano dal significare plebea smania di affermazione materiale, magari compensatoria di frustrazioni caratteriali, doveva al contrario portare al solenne riconoscimento di una legge di natura: ciò che conduce all’urto, all’impatto, al confronto anche violento non è che naturale istinto di vita («l’attacco è cosa naturale in ogni vita in ascesa», scrisse Spengler nel Tramonto dell’Occidente), così che vivere si presenta essenzialmente come un destino di lotta. Un popolo vivente sotto la continua minaccia dell’annientamento non poteva non vedere nell’athlèter, nel combattente, il suo vertice esemplare. Popolata da visioni di potenza cosmica come il fuoco, la tempesta, la catastrofe tellurica, la mentalità greca giunse a interpretare la vita come ininterrotto erompere di energhèia. Questa misteriosa forza propulsiva fu chiamata, ad esempio da Aristotele, l’essenza stessa del vivere, fonte radicale di decisione tra il pre-valere e il soccombere.

 

 

A cavallo tra Ottocento e Novecento, dinanzi al prodursi dei giganteschi fenomeni di potenziamento dello Stato moderno e all’affermarsi delle masse, la giovane scienza sociologica non mancò di riandare alla concezione del conflitto come origine dei rapporti sociali e meccanismo di selezione delle classi dirigenti. Un’intera scuola di pensiero elaborò questi temi. Culminando nella triade italiana formata da Pareto, Mosca e Michels. I quali, ognuno per suo conto ma in modo simile, individuarono nel gioco conflittuale delle minoranze e nella circolazione delle élites il segreto del potere. Ludwig Gumplowicz (nella prima foto in alto a destra) fu una sorta di loro maestro e anticipatore. Il fatto che le Edizioni di Ar adesso ne pubblichino Il concetto sociologico dello Stato va considerato come un benefico sintomo reattivo: si cerca in qualche modo di fronteggiare, almeno con gli strumenti dell’alta cultura, il procedimento verso il basso che è tipico dei nostri tempi. In cui, all’elogio del mezzo-uomo, si unisce quello del renitente, dell’imbelle, del pavido, tutte creature di quell’irenismo farisaico che è il fulcro della società mondializzata. L’edizione in parola, curata da Franco Savorgnan e introdotta da Giovanni Damiano, è l’anastatica di quella del 1904. Si tratta di un libro - pubblicato la prima volta a Innsbruck nel 1892 - che riscopre la faccia vera della convivenza, quella liberata dalle ipocrisie contrattualiste, ecumeniste e democratiche che già cent’anni fa coprivano a malapena col mantello filantropico la violenza e la brutalità della società industrialista. Gumplowicz è un pioniere. Disinteressato alle concezioni giuridica, marxista, razionalista o teologica dello Stato, va diritto al problema. Incline a considerare poligenica l’origine dell’umanità, secondo lui lo Stato - cioè l’organizzazione della convivenza secondo la suddivisione dei ruoli - non è che l’esito del «cozzo di gruppi umani eterogenei».

 

 

Il giudizio di Gumplowicz è di tipo tradizionale: la realtà va riconosciuta per quello che è, senza edulcorarla con ipocrisie alla liberale o alla marxista. Per questo, egli annuncia l’impossibilità di abolire il dominio. Anzi, essendo il dominio l’essenza del politico, compito dello Stato sano sarà quello di renderlo organico, armonico: la tirannia oligarchica estranea al popolo non è aristocrazia di comando, ma un’indegna usurpazione. La concezione politica di Gumplowicz è comunitaria. L’origine dello Stato è il «prodotto della superiorità di un gruppo umano belligero e organizzato di fronte a un altro imbelle». In questa contesa i migliori non sono individui astratti, ma esemplari della stirpe che agiscono solidarmente: l’uomo «combatte come membro del suo gruppo, come individuo ha un’importanza minima». Da tipico ebreo galiziano emancipatosi nelle accademie austro-ungariche, Gumplowicz ebbe una sicura sensibilità per l’identità di stirpe. E cosa intendesse esattamente per “gruppo” di affini lo spiegò nel 1883, scrivendo il libro Rassenkampf, un testo che fece da scuola alla cultura positivista-razzialista dell’epoca. L’avvento della civiltà aria nel mondo, che produsse l’erezione di Stati castali retti da dominazioni schiavili, è da lui spiegato come il risultato del prevalere di una cultura superiore. Sicuro nel definire gli eventi della storia come il prodotto del conflitto tra diverse appartenenze di genere, Gumplowicz sanzionò come evidente il primato della civiltà bianca, associando senz’altro ad essa - con procedimento all’epoca non bizzarro - anche l’ebraismo.

 

 

Tutto questo lo ha fatto giudicare, ad esempio da Domenico Losurdo, come un teorico con precise rispondenze anche con Nietzsche e con le sue crude rivendicazioni per una società fondata sul dominio dei Signori e sull’organizzazione sociale per caste, atta come nessuna al dispiegarsi della civiltà superiore. Nel Concetto sociologico dello Stato noi troviamo, tra l’altro, l’apprezzamento per gli scritti di Gustav Ratzenhofer, il coevo studioso di storia politica che individuò nella forza primordiale custodita dai popoli l’energia che muove la vita attraverso la lotta per il primato, selezionando in continuazione i caratteri organici.

 

 

La concezione elitaria e socialmente discriminante di Gumplowicz venne posta dallo storico A. James Gregor tra i fondamenti ideologici del Fascismo. Mediato da Pareto, il suo insegnamento sarebbe giunto fino a Mussolini. In effetti, attorno al volontarismo mussoliniano, ad un tempo comunitario e gerarchico, si coagularono diverse intelligenze del tempo. Da Olivetti a Michels e fino a Corradini e alla sua dottrina di una struggle of life mondiale, affidata alla competizione tra imperialismo di rapina anglosassone e imperialismo sociale italiano. E fino a Costamagna, nella cui dottrina dello Stato Gregor riconobbe i tratti del socialdarwinismo di Gumplowicz.

 

 

È stato del resto lo stesso Gregor a ricordare che al centro della sociologia di Gumplowicz si trova il concetto di etnocentrismo, espresso col termine Syngenismus, neologismo tedesco che intendeva ricalcare quello greco di synghèneia, l’eguaglianza di sangue. Lo Stato nasce dalla devozione alla comunità sociale definita dall’ethnos.

 

 

Con tutto questo grande bagaglio di cultura politica antagonista alla modernità, noi siamo di fronte al massimo sforzo operato dalla civiltà europea, tra fine-Ottocento e primi decenni del Novecento, per liberarsi dalle già pesanti aggressioni portate dall’egualitarismo cosmopolita al cuore della nostra identità. In quell’ultimo sforzo si riverberano le più arcaiche proclamazioni legate all’affermarsi del tipo differenziato, plasmato da un’ascesi superiore e ricolmo di attitudini sovrane, tali da imprimere alla vita politica il segno di eterne creazioni di civiltà. Ciò che Evola (nella foto sopra) inquadrava nella categoria di metafisica della guerra, recava il segno del concetto di lotta come liturgia sacrale: evocare dai propri retaggi l’energia, la fierezza e la volontà di proteggere gli ordini dell’appartenenza. Nel suo scritto - risalente agli anni di guerra - sulla Dottrina aria di lotta e vittoria, Evola espresse un principio che, dai Greci fino alla moderna “sociologia anti-individualista”, era risuonato come annuncio di grandezza: «È nella lotta che occorre risvegliare e temprare quella forza che, di là da assalti, sangue e pericolo, propizierà una nuova creazione in un nuovo splendore e con pace possente». In effetti, è così che sorgono le grandi civiltà.

 

 

Luca Leonello Rimbotti

 

L'idée de perfectibilité infinie

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L'idée de perfectibilité infinie: noyau de la pensée révolutionnaire et libérale

 

 

Le Professeur Ernst Behler, qui enseigne à Seattle aux Etats-Unis, grand spécialiste de Friedrich Schlegel, sommité interna­tio­nale, vient de se pencher sur ce rêve optimiste de la perfecti­bi­lité absolue du genre humain, rêve sous-tendant toute l'aven­ture illuministe et révolutionnaire qui s'est enclenchée au XVIIIiè­me siècle. Ce rêve, qui est le noyau de la modernité, se repère dès la fameuse «querelle des anciens et des modernes», dans l'Aufklärung  allemand, chez l'Anglais Godwin, chez Con­dorcet (de loin le plus représentatif de la version «illuministe» de ce rêve), Mme de Staël, Constant, les Roman­tiques anglais (Words­worth, Coleridge) et aux débuts du roman­tisme allemand (Novalis, Schlegel). L'évolution de cette pensée de la perfecti­bi­lité, aux sinuosités multiples depuis l'Aufklärung  jusqu'au ro­man­tisme de Novalis et Schlegel, a été appréhendée en trois éta­pes, nous explique Ernst Behler dans son livre

 

Ernst BEHLER, Unendliche Perfektibilität. Euro­päische Romantik und Französische Revolution, Fer­dinand Schöningh, Paderborn, 1989, 320 S., DM 48,- (ISBN-3-506-70707-8).

 

La première étape s'étend de 1850 à 1870, et constitue une réac­tion négative à l'endroit du romantisme. La deuxième étape, de 1920 à 1950, est marquée par trois personnalités: Carl Schmitt, Alfred Bäumler et Georg Lukacs. La troisième étape, non encore close, est celle des interprétations contemporaines du complexe Aufklärung/Romantisme. A nos yeux, il est évident que les in­terprétations de la deuxième étape sont les plus denses tout en étant les plus claires. Pour Carl Schmitt, le romantisme, par son subjectivisme, est délétère par essence, même si, en sa phase tar­dive, avec un Adam Müller, il adhère partiellement à la poli­tique de restauration metternichienne. Face à ce romantisme ger­ma­nique dissolvant, aux discours chavirant rapidement dans l'in­si­gnifiance, Carl Schmitt oppose les philosophes politiques Bo­nald, de Maistre et Donoso Cortés, dont les idées permettent des décisions concrètes, tranchées et nettes. A l'occasionalisme (ter­mi­nologie reprise à Malebranche) des Romantiques et à leur frei­schwebende Intelligenz  (leur intellect vagabond et planant), Schmitt oppose l'ancrage dans les traditions politiques données.

 

Alfred Bäumler, le célèbre adversaire de Heidegger, l'apologiste de Hitler et le grand spécialiste de Bachofen, pour sa part, dis­tingue une Frühromantik  dissolvante (romantisme d'Iéna) qui se­rait l'«euthanasie du rococo», le suicide des idées du XVIIIiè­me. Cette mort était nécessaire pour déblayer le terrain et inau­gurer le XIXième, avec le romantisme véritable, fondateur de la philologie germanique, rénovateur des sciences de l'Antiquité, pro­moteur de l'historiographie rankienne, avec des figures com­me Görres, les frères Grimm et Ranke. Avec ces deux phases du romantisme, se pose la problématique de l'irrationalisme, affirme Bäumler. L'irrationalisme procède du constat de faillite des grands systèmes de la Raison et de l'Aufklärung.  Cette faillite est suivie d'un engouement pour l'esthétisme, où, au monde réel de chair et de sang, la pensée op­pose un monde parfait «de bon goût», échappant par là même à toute responsabilité historique. Nous pourrions dire qu'en cette phase, il s'agit d'une irrationalité timide, soft,  irresponsable, désincarnée: le modèle de cette na­tu­re, qui n'est plus tout à fait rationnelle mais n'est pas du tout charnelle, c'est celui que sug­gère Schelling. Parallèlement à cette nature parfaite, à laquelle doit finir par correspondre l'homme, lequel est donc perfectible à l'infini, se développe via le Sturm und Drang,  puis le roman­tisme de Heidelberg, une appréhension graduelle des valeurs tel­luriques, somatiques, charnelles. A la théo­rie de la perfectibilité succède une théorie de la fécondi­té/fé­condation (Theorie der Zeu­gung).  A l'âge «des idées et de l'hu­manité» succède l'âge «de la Terre et des nationalités». La Nature n'est plus esthétisée et su­blimée: elle apparaît comme une mère, comme un giron fécond, grouillant, «enfanteur». Et Bäumler de trouver la formule: «C'est la femme (das Weib) qui peut enfan­ter, pas l'"Homme" (der Mensch);  mieux: l'"Homme" (der Mensch)  pense, mais l'homme (der Mann)  féconde».

 

Georg Lukacs, pourfendeur au nom du marxisme des irrationa­lismes (in Der Zerstörung der Vernunft),  voit dans la Frühro­mantik  d'Iéna, non pas comme Bäumler l'«euthanasie du ro­coco», mais l'enterrement, la mise en terre de la Raison, l'ou­verture de la fosse commune, où iront se décomposer la rai­son et les valeurs qu'elle propage. Comme Schmitt, qui voit dans tous les romantismes des ferments de décomposition, et contrairement à Bäumler, qui opère une distinction entre les Romantismes d'Ié­na et de Heidelberg, Lukacs juge l'ère roman­tique comme dan­gereusement délétère. Schmitt pose son affirma­tion au nom du conservatisme. Lukacs la pose au nom du marxisme. Mais leurs jugements se rejoignent encore pour dire, qu'au moment où s'effondre la Prusse frédéricienne à Iéna en 1806, les intellectuels allemands, pourris par l'irresponsabilité propre aux romantismes, sont incapables de justifier une action cohérente. Le conservateur et le marxiste admettent que le sub­jectivisme exclut toute forme de décision politique. Cette triple lecture, conservatrice, natio­na­liste et marxiste, suggérée par Beh­ler, permet une appréhension plus complète de l'histoire des idées et, surtout, une historio­gra­phie nouvelle qui procèdera do­rénavant par combinaison d'élé­ments issus de corpus considérés jusqu'ici comme antagonistes.

 

Dans le livre de Behler, il faut lire aussi les pages qu'il consacre à la vision du monde de Condorcet (très bonne exposition de l'idée même de «perfectibilité infinie») et aux linéaments de per­fec­ti­bilité infinie chez les Romantiques anglais Wordsworth et Coleridge. Un travail qu'il faudra lire en même temps que ceux, magistraux, de ce grand Alsacien biculturel (allemand/français) qu'est Georges Gusdorf, spécialiste et des Lumières et du Ro­man­tisme.

 

Robert STEUCKERS. 

 

vendredi, 21 novembre 2008

Flash Magazine n°2

Le No. 2 en kiosque le samedi 22-11-2008
Le no. 3 rendez-vous le jeudi 04-12-2008
Flash : Journal gentil et intelligen

Marti Ahtisaari bought by Albanian Mafia

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Marti Ahtisaari bought by Albanian Mafia
Marti Ahtisaari, "prix Nobel de la Paix" pour son "action" au Kosovo aurait été acheté par la Mafia albanaise. L'information émane du journal suédois réputé Svenska Dagbladet ainsi que des services de renseignement de la République Fédérale d'Allemagne (le BND).
 
German Secret Service has found that 2 million Euros (2.68 million USD) have been transfered directly to Ahtisaari’s personal bank account, and that amounts of multi-million Euros were given to the UN envoy in cash on at least two occasions, totaling up to 40 million Euros (over 53 million U.S. dollars).
According to the June 21 article by the Banja Luka daily Fokus, titled "Albanian Mafia Bought Ahtisaari," German Federal Intelligence Service BND (Bundesnachrichtendienst) has recently sent a report to the UN Secretary-General Ban Ki-moon revealing that Albanian separatists and terrorists in Serbian Kosovo-Metohija province have literally purchased Ahtisaari’s plan which suggests independence for the Serbian province and its severing from Serbia.
 
According to the Fokus’ source, the German BND Secret Service Brigadier Luke Neiman was directly appointed by the German government to designate part of the German Secret Service apparatus to the United Nations Mission in Kosovo, after the UN Secretary-General Ban Ki-moon requested such service. It was, therefore, the UN Secretary-General who received the detailed report about the corruption of his special envoy Martti Ahtisaari.
Reportedly, the BND agents have immediately discovered clear connection and regular contacts between the leading figures of Kosovo Albanian mafia, their subordinates and Martti Ahtisaari. The agents have also established that Ahtisaari has had frequent telephone communications with the Albanian billionaire, mafia boss living in Switzerland Bexhet Pacolli.