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dimanche, 25 septembre 2011

Turchia e Qatar: i nuovi leader regionali?

Turchia e Qatar: i nuovi leader regionali?

Hamze JAMMOUL


Ex: http://www.eurasia-rivista.org

Dopo la cosiddetta “Primavera Araba” che ha contagiando diversi paesi arabi, il Vicino Oriente sta vivendo la mancanza di un leader. Questa situazione permette alla Turchia e al Qatar di assumere un ruolo strategico, che alla fine potrebbe portare ad un conflitto politico tra i due ambiziosi stati.

La Turchia sogna i tempi degli Ottomani

È chiaro che quello che accade nel mondo arabo abbia influenzato la politica turca che da molto tempo cerca di riprendere il suo ruolo nel Vicino Oriente. Il grande sogno turco affrontava degli ostacoli rappresentati dal continuo ruolo strategico dell’Iran in Libano, in Siria e in Iraq, e dalla solida alleanza tra i due paesi Arabi più influenti: l’Arabia Saudita e l’Egitto.

Ma l’attacco israeliano contro la nave turca Marvi Marmara nel maggio 2010 e l’inizio della rivoluzione tunisina nel 2011, hanno contribuito alla modifica della mappa geopolitica del Vicino Oriente aggiungendo nuovi attori desiderosi di ricoprire un ruolo di primo piano nella geopolitica vicino e mediorentale.

Il rifiuto di Israele di presentare le scuse al popolo turco, e l’inaspettato risultato della commissione Ballmer, che ha considerato legittimo l’embargo israeliano contro Gaza, affermando che quanto accaduto nel luglio 2010 contro la flotilla non è un atto terroristico e criminale come sostiene Ankara, ma un semplice uso eccessivo della forza, hanno portato il governo turco ad espellere l’ambasciatore Israeliano e a congelare i rapporti commerciali con Tel Aviv.

Il primo ministro turco Recep Tayyip Erdoğan ha inoltre annunciato l’inizio di una campagna legale presso il tribunale penale internazionale con l’obbiettivo di condannare i crimini israeliani.

L’azione turca nei confronti di Israele arriva dopo diversi tentativi da parte di Ankara di assicurarsi un ruolo strategico nella regione e di apparire come la salvatrice della democrazia, il frutto della “ Primavera Araba ” .

La domanda che ci si può porre è la seguente: riuscirà Ankara a riprendere il suo potere nel Vicino Oriente ?

Vi sono numerosi elementi che possono aiutare la diplomazia turca a riacquistare un ruolo importante nella regione:

a. L’attuale mancanza di un paese arabo leader. Tale mancanza è dovuta al fatto che l’Arabia Saudita sta affrontando un conflitto politico all’interno della famiglia reale; L’Egitto dopo la caduta del governo di Mubark è occupato a portare avanti le riforme interne; mentre la Siria sta affrontando una grave situazione interna.

b. La notevole ambizione dell’amministrazione turca che, dopo le fallite trattative con l’Unione Europea, ha preferito concentrarsi nel Vicino Oriente. Nel 2006 Ankara ha condannato il severo attacco israeliano contro il Libano, nel 2009 ha condannato l’attacco israeliano contro Gaza ed ha considerato l’embargo illegale e disumano.

c. La vittoria di Giustizia e Sviluppo, il partito “laico -Islamico” di Erdoğan, nelle ultime elezioni ha consolidato il suo potere e ha indebolito il potere dell’esercito considerato il primo alleato di Israele. Tutto ciò permette a quest’uomo di grande potere e alla sua squadra di realizzare il loro progetto sulla nuova Turchia ricca ed influente.

d. L’importanza strategica che gli Stati Uniti e l’Europa danno alla Turchia. Attraverso l’accoglimento della richiesta NATO di installare il “sistema radar di difesa”, il leader turco continua a giocare un ruolo fondamentale tra l’Occidente e il Vicino Oriente.

e. La crescita dell’economia turca che ha permesso al Paese di occupare il tredicesimo posto nell’economia mondiale.

Tutti questi sono elementi che possono aiutare la Turchia ad assumere un potere strategico specialmente dopo la rivoluzione sentimentale che sta portando avanti Erdoğan nel mondo arabo e islamico, una rivoluzione il cui obbiettivo è dire no a Tel Aviv.

Alla luce di quanto segue, sembra che la Turchia stia andando nella direzione giusta per conquistare il cuore del popolo arabo.

Non bisogna però sottovalutare ciò che stanno sottolineando gli analisti, ossia il fatto che gli Arabi non hanno dimenticato la sofferenza che hanno vissuto durante l’occupazione dell’impero Ottomano. La nomina della Turchia come leader nel mondo arabo e islamico, potrebbe affrontare delle difficoltà rappresentate dalla futura ripresa dell’Egitto e della Siria e dall’attuale ruolo che sta assumendo un nuovo stato ambizioso, il Qatar.

Il Qatar alla ricerca di un ruolo strategico

Il Qatar che ha conquistato una fama internazionale nel settore commerciale e del Gas, l’anno scorso ha voluto dimostrare la sua capacità di organizzare i mondiali del 2022. Con l’inizio delle “rivoluzioni” nel mondo arabo, il Qatar ha preso una posizione politica tramite la sua Al Jazeera, il più noto canale televisivo arabo.

Tale posizione ha creato nuovi amici e nuovi nemici all’Emiro che, come hanno riferito i quotidiani arabi, il mese scorso si è salvato da un attacco suicida nella capitale Ad Dawhah.

Cosa vuole il Qatar della “Primavera araba”? Questa è una domanda che ormai si pongono tutti sia nel mondo arabo che in Occidente. La risposta è chiara: il Qatar ambisce ad avere un ruolo strategico nella regione. Da anni il Qatar ha iniziato un programma politico per uscire dal gruppo dei paesi non influenti e attraverso tale piano vuole diventare un nuovo leader arabo.

L’emirato è stato il primo paese arabo ad ospitare il congresso mondiale per la ricostruzione della Libia, oltre ad essere stato l’unico componente della lega Araba ad avere preso parte alla guerra con i suoi aerei militari e ad aver finanziato i ribelli contro Gheddafi.

Il canale satellitare Al Jazeera, ha seguito gli eventi in Tunisia ed Egitto sin dal primo giorno, ed in Siria si considera il primo nemico mediatico del governo di Bashār al-Asad.

Al Jazeera che ha voluto proteggere le “rivoluzione arabe” e i diritti umani non ha reagito nello stesso modo quando è scoppiata la rivoluzione in Bahrein, alleato dell’Emiro e dell’Arabia Saudita. Tale comportamento ha messo a rischio la professionalità del canale e ha fatto sorgere dei dubbi sui reali obiettivi dell’emirato.

 

Gli elementi sopracitati, a cui si aggiunge il fatto che il paese non è stato ancora soggetto a manifestazioni, sono elementi che rafforzano la teoria secondo la quale il Qatar è alla ricerca di un nuovo ruolo strategico nella regione. Tale ruolo però si scontrerà alla fine con la volontà dell’Egitto di riprendere il suo ruolo e con il sempre più crescente ruolo politico di Ankara, fenomeno confermato dal fatto che nei giorni scorsi il primo ministro turco ha concluso la sua missione in Egitto, Tunisia e in Libia, aprendo un nuovo rapporto con i paesi della cosidetta “Primavera araba”.

*Hamze Jammoul, giurista Libanese, esperto nella gestione dei conflitti internazionali

vendredi, 23 septembre 2011

Erdogan in Nordafrika: Türkei kehrt Europa den Rücken

Erdogan in Nordafrika: Türkei kehrt Europa den Rücken

http://de.rian.ru/

Der türkische Premier Recep Tayyip Erdogan scheint ein diplomatisches Genie zu sein.


Die Ergebnisse seiner Nordafrika-Reise in der vergangenen Woche haben die Erwartungen übertroffen. Bei seinen Reden in Kairo, Tunis und Tripolis traf er den richtigen Ton. Der türkische Regierungschef wird als Held der arabischen Revolutionsmassen gefeiert.

Obwohl Ankara sich nicht aktiv an der Anti-Gaddafi-Offensive beteiligt hatte (es stellte lediglich ein Schiff für die Evakuierung der Einwohner Misratas zur Verfügung), wurde der türkische Premier auch in Tripolis herzlich empfangen. Die Türkei ist mit Libyen vor allem durch Bau-Projekte im Wert von etwa 15 Milliarden Dollar verbunden und bemüht sich darum, sie zu erhalten.

Türkei gewinnt an Bedeutung in der islamischen Welt

Alle seine Aufgaben hat Erdogan glänzend erfüllt. Er hat die internationale Rolle seines Landes unter Beweis gestellt und es als eine der islamischen Führungskräfte in der Nahost-Region etabliert. Der Premier zeigte deutlich, dass es in der islamischen Welt eine Alternative statt den radikalen Vektor gibt: die islamische Demokratie auf türkische Art. Außerdem gewann er an Stellenwert in seinem Land und in der ganzen arabischen Welt.

Es wäre jedoch naiv zu glauben, dass nur die Begeisterung der arabischen Revolutionsanhänger die Türkei zu einem Führungsland zwischen Zentralasien und Maghreb machen. Erdogan wird nur von den Volksmassen gefeiert, die die Türkei für einen vorbildhaften islamischen säkularen Staat halten, der eine starke Wirtschaft hat und seinen Bürgern einen hohen Lebensstandard bietet.

Die Herrscher sind gegenüber Erdogan eher skeptisch eingestellt. Ägypten hat nach der Revolution noch immer keine starke Führung, die dortigen Militärs wollen offenbar nicht ihre Macht verlieren. Auch in Saudi-Arabien oder im Iran sind die Machthaber nicht gerade von den Aktivitäten Ankaras begeistert. Die Begeisterung der Volksmassen ist eine vorübergehende Erscheinung, besonders wenn es sich um arabische Länder handelt.

Man sollte auch bedenken, dass die Türken in der arabischen Welt traditionell nicht besonders beliebt sind. Deshalb kommt Ankara als regionale Supermacht vorerst nicht infrage.

Demokratie auf türkische Art als Vorbild

Arabische Politiker sollten sich aber überlegen, warum Erdogan als gemäßigter Islamist und konservativer Liberale bei den Volksmassen so beliebt ist. Zumal sie von ihm etwas lernen könnten.

Die islamisierte Demokratie auf türkische Art ist in Wirklichkeit etwas wirklich Einmaliges, genauso wie die „souveräne Demokratie“ in Russland.

Die einmalige Mischung aus Islamismus und Demokratie bei einer ständig wachsenden Wirtschaft ist das, was auch Ägypten, Libyen und Tunesien guttun würde. Aber in keinem dieser Länder gibt es derzeit solche Kräfte, die das entstandene Machtvakuum füllen könnten. Dafür ist viel Zeit erforderlich.

Erdogan will seinerseits von den Möglichkeiten profitieren, die ihm der „arabische Frühling“ bietet. Er könnte an Einflusskraft gewinnen, weil Ägypten, Syrien, Libyen und der Irak schwächeln. Dabei geht es vordergründig um die Wirtschaft - Erdogan verkündete in Kairo, dass die türkischen Investitionen in Ägypten von 1,5 auf fünf Milliarden Dollar wachsen werden. Politisch gesehen hat Ankara jedoch keine großen Chancen auf die Führungsrolle in der islamischen Welt.

Erdogans politische Karriere hat zudem einige Kratzer. Bevor er 2003 seine Partei für Gerechtigkeit und Aufschwung ins Leben gerufen hatte und zum Premier gewählt wurde, war er Mitglied der islamistischen Tugendpartei gewesen, die 1997 verboten wurde. Damals wandete er sogar für die nationalistische Propaganda vier Monate ins Gefängnis.

Darüber hinaus war der begeisterte Empfang des türkischen Premiers in Nordafrika der Beweis, dass die USA und Westeuropa ihre Einflusskraft in der Region endgültig verloren haben.

Nicht zu vergessen ist, mit welcher Begeisterung 2009 der frischgebackene US-Präsident Barack Obama in Kairo empfangen wurde. Damals versprach er, Washingtons politischen Kurs zu ändern und die Interessen der Araber mehr zu berücksichtigen, Israel zu mäßigen und zu einem Friedensabkommen mit den Palästinensern zu überreden sowie die Bildung eines unabhängigen Palästinenserstaates zu fördern. Nichts davon ist jedoch in Erfüllung gegangen. Angesichts dessen ist die Unbeliebtheit der Amerikaner in der arabischen Welt nicht verwunderlich.

Erdogan gewann an Popularität wegen seiner Schritte gegen Israel. Er hatte sich  de facto für die Unterbrechung der diplomatischen Beziehungen mit Tel Aviv entschieden, die Teilnahme israelischer Kampfjets an Manövern in der Türkei verboten und die bilateralen Militärkontakte eingestellt.

Während seines Besuchs in Tunis warnte Erdogan sogar, er würde türkische Kriegsschiffe an die israelische Küste schicken, wenn Tel Aviv weiterhin Schiffe mit Hilfsgütern für den Gaza-Streifen abfangen sollte.

Wenn man bedenkt, dass die Türkei Nato-Mitglied ist, sind Erdogangs Worte starker Tobak. In der arabischen Welt wurden sie aber mit Begeisterung aufgenommen.

Abwendung von Europa


Erdogans Nordafrika-Reise hat noch einen wichtigen Aspekt. Er zeigte den Europäern deutlich, was sie verlieren, wenn sie der Türkei den EU-Beitritt verweigern.

Ankara hatte 1987 die EU-Mitgliedschaft beantragt, wurde aber erst 1999 bei einem EU-Gipfel in Helsinki als Anwärter anerkannt. Seit dieser Zeit haben entsprechende Verhandlungen keine großen Fortschritte gebracht.

Niemand hat den Türken bisher deutlich gemacht, dass es für sie in Europa keinen Platz gibt. Aber Deutschland und Frankreich wollen nicht, dass in der Europäischen Union weitere 60 Millionen Muslime leben. Deshalb wurden Ankara Bedingungen gestellt, die es unmöglich erfüllen kann, um EU-Mitglied zu werden. So verlangte Frankreich, dass die Türken den Völkermord an Armeniern im Jahr 1915 anerkennen.

So etwas kann sich Erdogan nicht gefallen lassen. Jetzt kehrt er Europa allmählich den Rücken. Im Grunde tut er das, was er zuvor versprochen hatte.

Die Meinung des Verfassers muss nicht mit der von RIA Novosti übereinstimmen.

La diplomatie-missile d’Erdogan

Turquie vs Israël. Erdogan met le feu aux poudres de l'OTAN en refusant d'installer le Ballistic Defense Missile Europe à Kurecik (ABM).

La diplomatie-missile d’Erdogan

Ex: http://mbm.hautetfort.com/

Le rythme de la diplomatie du gouvernement turc et de son Premier ministre Erdogan devra-t-il être inscrit comme un des facteurs fondamentaux du “printemps arabe”, au même titre, par exemple, que la place Tahrir au Caire ? Poser la question, c’est y répondre. Les Turcs sont à l’offensive sur absolument tous les fronts, avec un objectif de facto, qu’on doit constater comme évident s’il n’est à aucun moment énoncé comme tel ; il s’agit de la destruction de l’“ordre” du bloc BAO, essentiellement tenu par Israël et son “tuteur” US, – l’un et l’autre désormais privés de soutiens de taille, comme celui de l’Egyptien Moubarak.

Les derniers développements sont particulièrement remarquables, en ce qu’ils haussent le niveau de l’offensive turque au plus haut, avec la question de l’attitude turque vis-à-vis de l’affaire palestinienne à l’ONU et l'affaire des forages en Méditerranée orientale, qu’on connaît bien ; mais surtout, affaire nouvelle venue dans sa dimension polémique, celle de l’engagement turc dans le réseau anti-missiles de l’OTAN (BMDE, pour Ballistic Defense Missile, Europe, – dénomination initiale US qu’on peut aussi bien garder, pour réumer les explications et les réalités de la chose). Il s’agit désormais, avec le réseau BMDE dans la forme que prend cette affaire, de questions stratégiques majeures impliquant la Turquie et l’OTAN, c’est-à-dire les USA, et les autres qui vont avec. Voyons les nouvelles…

• Le quotidien d’Ankara Hurriyet Daily News donne plusieurs informations exclusives, ce 19 septembre 2011. D’une part, le journal annonce que le cabinet turc ne prendra pas de décision définitive sur l’installation de la base de détection radar du réseau BMDE en Turquie, avant le retour du Premier ministre Erdogan, en visite aux USA, notamment pour la séance plénière annuelle de l’Assemblée des Nations-Unies. Erdogan rencontre Obama aujourd’hui. Puis l’ONU doit se prononcer sur la demande palestinienne de reconnaître l’Etat palestinien. La décision turque de retarder sa décision sur la base du réseau BMDE en Turquie intervient alors que Washington avait d’abord demandé à Ankara d’accélérer sa décision (selon DEBKAFiles, voir plus loin), et la chronologie désormais établie ressemble fort à une conditionnalité implicite ; tout se passant comme si Erdogan laissait entendre que cette décision turque dépendrait de l’attitude US dans la question palestienne à l’ONU. Cette position n’est pas à prendre comme telle, mais elle représente un acte de défiance des Turcs vis-à-vis des USA, au moins affirmé du point de vue de la communication.

Hurriyet Daily News va plus loin, au rythme de la diplomatie turque, en dévoilant que l’acceptation possible/probable de déploiement de la base du réseau BMDE sera accompagnée, très rapidement, d’une mission d’information auprès de l’Iran. Un comble, du point de vue du bloc BAO, puisque le réseau BMDE est déployé théoriquement contre une menace future possible de l’Iran (ainsi va le narrative du complexe militaro-industriel, donc il faut bien la rapporter) ; pire encore, si c’est possible, la rencontre entre Erdogan et Mahmoud Ahmadinejad, jeudi à l’ONU, à New York, avec la question du réseau BMDE au menu des conversations. … Pourquoi ne pas faire participer l’Iran au réseau, se demanderaient certains, pour protéger ce pays contre ses propres futurs missiles ? (Tout cela, après l’annonce par le ministre turc des affaires étrangères Davutoglu que la Turquie refusera le partage avec Israël des informations obtenues par la station radar sur son sol…)

«The agreement envisions the deployment of a U.S. AN/TPY-2 (X-band) early warning radar system at a military installation at Kürecik in the Central Anatolian province of Malatya as part of the NATO missile-defense project. Obama and Erdogan will likely discuss the fate of the agreement, which has been described by anonymous U.S. officials as the most strategic deal between the two allies in the last 15 to 20 years.

»A swift approval of the deal is needed to carry out the technical phases of the radar system’s deployment before the end of this year, as suggested by the U.S. Department of Defense. U.S. warships carrying anti-ballistic missiles are expected to take up position in the eastern Mediterranean Sea in the upcoming months, U.S. media outlets have reported. As part of the project, missile shield interceptors and their launching system will be deployed in Romanian and Polish territory, in 2015 and 2018, respectively.

»Senior Turkish officials who are planning to visit Tehran in the coming weeks will seek to diffuse growing Iranian concerns about the deployment of the radar system on Turkish soil. Hakan Fichan, chief of the National Intelligence Organization, or MIT, is expected to be the first visitor, followed by Erdogan.»

DEBKAFiles annonce effectivement, ce 19 septembre 2011, qu’un envoyé spécial du président Obama, le directeur du renseignement national (coordination et supervision de toutes les agences de renseignement US) James Clapper, se trouvait en visite surprise et d’urgence, samedi soir à Ankara. Clapper venait presser Erdogan de réduire son soutien au Palestinien Abbas, d’adopter un ton moins menaçant dans l’affaire des forages en Méditerranée orientale, impliquant Chypre et Israël, etc. Clapper venait aussi demander une accélération de la réponse turque concernant la base radar du réseau BMDE ; puis, devant les déclarations du ministre des affaires étrangères Davutoglu dimanche, il avertissait la Turquie que le partage des informations avec Israël était une condition sine qua non de l’installation de la base en Turquie…

«Following Davutoglu's statement on the X-band radar, Clapper was authorized to warn the Erdogan government that if it barred the sharing of information with Israel, the plan for its installation in Turkey would have to be abandoned. The entire missile shield system is based on a network of advanced radar stations scattered across the Middle East, including the Israeli Negev, and Israel's highly-developed ability to intercept Iranian ballistic missiles.»

• On signalera également l’article du New York Times du 18 septembre 2011, où le ministre Davutoglu annonce un “ordre nouveau” au Moyen-Orient avec l’axe entre la Turquie et l’Egypte. La dynamique de la diplomatie turque prend une forme de plus en plus structurée, et de plus en plus officiellement affirmée.

• On signalera également (suite) la forme extraordinairement agressive, anti-turque, que prennent certaines interventions de commentateurs proches d’Israël par divers liens, y compris ceux de l’idéologie de l’“idéal de puissance”. L’un d’entre eux est certainement David P. Goldman (dit “Spengler” pour ATimes.com), qui publie un virulent article anti-turc (anti-Erdogan) sur le site Pyjama Media, le 18 septembre 2011 ; et un autre article dans sa chronique “Spengler” de ATimes.com, le 20 septembre 2011, où il fait un procès véritablement “spenglérien” de l’état social et culturel de l’Egypte, particulièrement méprisant pour la valeur intellectuelle et économique de ce pays et de ses habitants. Il s’agit de discréditer autant les ambitions turques que l’alliance égyptienne, exprimant en cela une frustration peu ordinaire d’Israël et du bloc BAO, appuyés sur cet “idéal de puissance” cité plus haut. (Cet “idéal” forme le tronc idéologique et darwinien commun aux diverses entités du bloc, toutes autant les unes que les autres attachées aux conceptions de puissance, – en général des frustrations psychologiques anglo-saxonnes aux visions caricaturales diverses de “la volonté de puissance” nietzschéenne.) Nous ne sommes pas loin des neocons, des ambitions impériales américanistes et des arrières pensées eschatologiques du Likoud. Cette soupe, rescapée de la première décennie du XXIème siècle, se concentre pour l’instant en une appréciation absolument toxique de ce qui est considéré par le noyau dur du bloc BAO comme une trahison de la Turquie d’Ataturk “kidnappée” par les islamistes d’Erdogan. Dans ce cas, les durs israéliens sont évidemment particulièrement concernés, avec leurs alliés neocons qui furent des auxiliaires attentifs, au niveau du lobbying bien rétribué, de l’ancien régime turc. (Richard Perle était l’un des principaux lobbyistes des Turcs à Washington dans les années 1990, appuyé sur les ventes d’armement à la Turquie, notamment de Lockheed Martin, qui finance les même neocons. C’est un aspect important des réseaux américanistes et pro-israéliens, et pseudo “spanglériens” pour le cas qui nous occupe, qui est en train de s’effondrer avec l’énorme défection turque.)

…Tout cela commençant à signifier clairement qu’en quelques semaines, depuis la mi-août pratiquement, la Turquie a complètement basculé pour se retrouver au rang de premier adversaire du bloc BAO (Pentagone + Israël, principalement) au Moyen-Orient, – à la place de l’Iran, et dans une position infiniment plus puissante que celle de l’Iran. Le renversement est fantastique, tout comme l’est potentiellement cette affaire du réseau BMDE qui implique les intérêts stratégiques de tous les acteurs au plus haut niveau. Pour le Pentagone, l’accord turc sur la station radar à installer dans la base de Kurecik, en Anatolie centrale, est présenté d’abord comme “le plus important accord stratégique entre les deux pays depuis 15 à 20 ans” ; puis il s’avère, cet accord, tellement chargé de conditions turques, comme le refus de partager les informations avec Israël, que le Pentagone doit envisager d’annuler son offre (pardon, celle de l’OTAN) ; ce qui nous permet au passage de nous interroger pour savoir qui contrôle quoi dans le réseau OTAN si les Turcs estiment avoir un droit de veto sur la disposition des radars qui seraient installés à Kurecik… Cela, jusqu’à l’annonce des assurances et des informations données à l’Iran, ce qui ne doit pas entrer dans les plans généraux du Pentagone ni de l’OTAN, ni de nombre de membres de l’OTAN qui cultivent dans leur arrière-cour la narrative de la menace iranienne.

En plus des diverses querelles et crises en développement dans l’énorme chamboulement du Moyen-Orient, l’affaire du réseau BMDE de l’OTAN, et de la Turquie, nous est précieuse parce qu’elle permet l’intégration potentielle de plusieurs crises, bien dans la logique de la Grande Crise de la Contre-Civilisation (GCCC, ou GC3). A un moment ou l’autre, la Russie ne va-t-elle pas se manifester, elle qui déteste le réseau BMDE et qui prétend avoir des relations très moyennes avec l’OTAN, et plutôt bonnes avec la Turquie ? On aura alors un lien très ferme établi avec la question de la sécurité européenne, et de l’engagement européen dans des réseaux stratégiques contrôlés par la puissance en cours d’effondrement des USA… Et que va donner cette affaire du partage avec Israël d’informations stratégiques du réseau BMDE, alors que les Turcs le refusent, alors que les Turcs ont mis leur veto à l’installation d’une délégation de liaison d’Israël à l’OTAN…

D’une façon générale, avec cet élargissement de la crise et le passage à la dimension stratégique fondamentale, on comprend alors que la Turquie est de plus en plus orientée pour tenir le rôle que la France gaullienne tenait en d’autres temps. Face à cela, la France, qui n’a réussi qu’à placer son président-poster un jour avant la visite d’Erdogan en Libye, apparaît sous la lumière impitoyable d’une dissolution totale ; son ministre des affaires étrangères, qui fut en son époque “le plus intelligent de sa génération”, s'emploie actuellement à la tâche hautement louable et profitable de faire en sorte que les USA n'apparaissent pas trop isolés lors de leur vote à l'ONU contre la reconnaissance de l'Etat palestinien.... Il est temps que les Français aillent aux urnes, pour s’occuper, puisque la Turquie s'occupe de tout. (Ce qui est effectivement et concrètement le cas : d’une façon générale, les journalistes français de “politique étrangère” des organes-Système les plus réputés, lorsqu’ils sont sollicités par des organismes internationaux pour des visites, des conférences, des rencontre, etc. répondent depuis septembre qu’ils sont totalement mobilisés par l’élection présidentielle. C’est effectivement là que se passent les choses…)

mardi, 13 septembre 2011

Il rafforzamento dell’alleanza sino-pakistana

Il rafforzamento dell’alleanza sino-pakistana

Francesco Brunello Zanitti

Ex: http://www.eurasia-rivista.org/

Il legame strategico tra Pechino e Islamabad è sempre più forte. Il tradizionale rapporto diplomatico tra i due paesi si è consolidato recentemente con l’intensificarsi dei legami economici, commerciali, energetici e militari, unitamente all’allontamento pakistano nei confronti degli Stati Uniti. La stabilità dell’alleanza sino-pakistana è però messa alla prova dalle sfide poste dai gruppi armati degli estremisti islamici operanti nello Xinjiang cinese.

La crisi dei rapporti tra Stati Uniti e Pakistan degli ultimi mesi ha comportato il rafforzamento dello storico legame esistente tra Islamabad e Pechino. Le relazioni tra i due paesi sono in realtà ottime da circa un trentennio, a differenza di quelle pakistano-statunitensi; il proficuo rapporto diplomatico tra Stati Uniti e Pakistan ha, infatti, ricoperto un ruolo fondamentale nelle rispettive politiche estere durante l’intervento sovietico in Afghanistan tra anni ’70 e ’80, per poi subire un deciso deterioramento all’inizio degli anni ’90. Il rapporto tra Washington e Islamabad è tornato ad essere importante in seguito all’invasione afghana statunitense del 2001, nella quale il Pakistan è stato utilizzato come fondamentale punto d’appoggio per il controllo di Kabul. L’unilaterale bombardamento dei territori nord-occidentali del Pakistan, la crescente ingerenza statunitense nella politica interna pakistana, mediante mezzi militari e servizi d’intelligence, e i comportamenti ambigui pakistani in alcune questioni di primaria importanza hanno comportato un deciso peggioramento delle relazioni tra Stati Uniti e Pakistan. Questo deterioramento ha raggiunto l’apice tra maggio e giugno, in seguito alla rivendicazione statunitense dell’uccisione di Osama Bin Laden in Pakistan.

I sempre più tesi rapporti tra i due paesi sono legati, inoltre, all’avvicinamento statunitense nei confronti dell’India, il quale ha raggiunto il proprio culmine nel 2007, mai così evidente rispetto al passato; l’amminsitrazione Bush e l’attuale governo di Manmohan Singh avevano delle ottime relazioni diplomatiche. Il Pakistan non gradisce, inoltre, il ruolo affidatogli dopo l’invasione statunitense dell’Afghanistan nel 2001, nel quale osserva un pericoloso calo del proprio ascendente strategico su Kabul. L’Afghanistan è tradizionalmente considerato da Islamabad una propria area d’influenza, strategicamente importante nel caso di un conflitto con l’India, poiché visto come territorio di supporto o di ritirata nell’ipotesi di una massiccia invasione del Pakistan dell’esercito di Nuova Delhi.

Il primo paese a difendere il rispetto dell’integrità territoriale di Islamabad in seguito alla notizia della morte di Bin Laden è stata la Cina; visitata poche settimane dopo dal primo ministro Gilani. Il Pakistan avrebbe, inoltre, permesso ai militari cinesi di visionare i resti del velivolo statunitense di tecnologia Stealth impiegato dagli Stati Uniti nel territorio pakistano.

Il legame sino-pakistano rappresenterà un importante elemento delle future relazioni internazionali, in particolar modo nel confronto tra Stati Uniti e Cina, tra quest’ultima e l’India, nonché negli interessi cinesi in Afghanistan e nel più generale contesto del cosiddetto “Nuovo Grande Gioco” in Asia Centrale. Mentre il Pakistan nel corso degli anni ’80 fu un importante alleato degli Stati Uniti durante la guerra sovietica in Afghanistan, fondamentale territorio di transito per i rifornimenti militari destinati ai combattenti anti-sovietici, oggi Islamabad non garantisce, nell’ottica nordamericana, il medesimo contributo per il tentativo statunitense di controllare l’Afghanistan. La relazione con Islamabad rappresenta per gli Stati Uniti un elemento di vitale importanza per i propri interessi a Kabul. Basta considerare l’importanza strategica del paese pakistano, dotato degli unici punti d’accesso via mare per le truppe statunitensi e della NATO e per i rifornimenti militari, nonché territorio di collegamento geostrategico nel cuore dell’Eurasia. Il porto di Karachi è fondamentale per l’arrivo e invio di truppe e materiale bellico, passante poi in territorio pakistano mediante trasporto su strada, giungendo successivamente a Kabul e Kandahar. Gli Stati Uniti stanno ricercando una possibile alternativa ai rifornimenti via Pakistan, data l’insicurezza di Karachi e del confine lungo la linea Durand. Gli altri collegamenti ai porti situati in paesi confinanti con l’Afghanistan, Iran e Cina, sono impraticabili per evidenti motivi politici. Una via d’accesso alternativa è potenzialmente quella passante attraverso le ex-repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale: esiste un discorso aperto con l’Uzbekistan, dal quale passerebbero i rifornimenti provenienti dal porto di Riga, in Lettonia, passando per il territorio russo e kazako. Esiste un’altra opzione, probabilmente maggiormente fattibile rispetto a quella precedente, vista la lunghezza del percorso e la possibile inclusione della Russia nell’affare afghano, prospettiva non gradita a Washington. E’ quella attraverso la Georgia, l’Azerbaigian, il Mar Caspio e il Turkmenistan oppure via Kazakistan e Uzbekistan. L’attenzione statunitense nei confronti di Baku, Ashagabat, Astana e Tashkent è in ogni caso in costante aumento.

Negli ultimi mesi è comunque evidente come il Pakistan punti maggiormente ad adottare una politica estera più autonoma nei confronti di Washington, attivandosi, inoltre, nel potenziamento delle relazioni con i vicini, soprattutto con la Cina, ma anche con Iran e Russia.

L’importanza strategica del Pakistan, unito al suo attivismo in politica estera, ha reso il governo del paese molto più convito nel richiedere il termine dei bombardamenti dei droni statunitensi nelle province nord-occidentali. Nel caso in cui ciò non avvenga, il Pakistan è pronto ad adottare una politica ancor più marcatamente filo-cinese, avendo, inoltre, l’appoggio della Cina, critica nei confronti delle azioni statunitensi nel paese. Un ulteriore fattore è legato al termine dell’aiuto economico statunitense, unito al declinare dei rifornimenti militari: il Pakistan guarda anche in questo caso a incrementare i propri legami economici e militari con la Cina.

Un’altra arma spendibile a livello diplomatico dal Pakistan è legata alle risorse energetiche. Lo stretto rapporto con Pechino, oltre ad aumentare l’influenza cinese in Asia Meridionale e Centrale, comporterebbe un’importante vittoria per la Cina nella competizione riguardante l’approvigionamento di petrolio e gas naturale.

La Cina è interessata a investire massicciamente in Pakistan. I punti chiave della strategia energetica sino-pakistana sono rappresentati dal potenziamento del porto di Gwadar, dalla quale possono passare i gasdotti e oleodotti provenienti dall’Iran. I progetti d’investimento cinese nel paese sono legati alla realizzazione del gasdotto IP, al quale potrebbe partecipare in sostituzione dell’India, con evidenti vantaggi in termini economici per il Pakistan grazie ai diritti di transito. La Cina è interessata al potenziamento di infrastrutture, strade e ferrovie pakistane, unitamente alla costruzione dei collegamenti per il petrolio e il gas naturale lungo il territorio pakistano partendo dalla città beluca per arrivare al Gilgit-Baltistan. I progetti sino-pakistani sono legati al potenziamento degli assi viari che assieme alle pipeline collegherebbero il Pakistan allo Xinjiang. A questo proposito sono in progetto la costruzione di diversi collegamenti stradali e ferroviari tra Kashgar e Abbotabad, e tra la città dello Xinjiang e Havelian. Un ulteriore collegamento tra i due paesi lungo confine è quello delle fibre ottiche, mentre il più importante e ambizioso progetto caratterizzante la cooperazione sino-pakistana è il collegamento stradale, ferroviario ed energetico tra Gwadar e Urumqi.

La recente visita di Gilani a Pechino si è conclusa con la firma di importanti accordi commerciali, finanziari e tecnologici, seguito dei colloqui del dicembre 2010, nei quali erano previsti il potenziamento della cooperazione in diversi settori: energia, sistema bancario, tecnologia, costruzione, difesa e sicurezza. Il crescente legame economico tra Pechino e Islamabad è unito alla tradizionale e comune avversione verso l’India, la quale può essere ostacolata nella sua ascesa in Asia Meridionale dall’azione comune dei due paesi asiatici. La Cina aiutò militarmente il Pakistan in seguito alla guerra sino-indiana del 1962, così come fornì la tecnologia nucleare al paese dopo che l’India nel 1974 iniziò i suoi primi test nucleari. Tra gli anni ’80 e ’90 la Cina ha stabilito un’alleanza militare e nucleare con Islamabad, ancora oggi molto forte. Più del 40% delle esportazioni militari cinesi sono destinate al Pakistan. I due paesi hanno in progetto la produzione congiunta degli aerei da combattimento JF-17 Thunder (FC-1 Fierce in Cina). Durante il mese di marzo 2011 si è svolta un’importante esercitazione aereonautica tra la Pakistan Air Force (PAF) e la People’s Liberation Army Force (PLAFF) denominata Shaheen 1 (in urdu significa aquila). Si tratta della prima manovra militare tra PAF e PLAFF, alla quale si aggiungeranno nel corso del 2011 delle esercitazioni tra il PLA e l’esercito pakistano. Un simile legame militare tra i due paesi, oltre ad essere un importante fattore all’interno degli equilibri asiatici, dimostra come oggi la Cina possa agire molto più attivamente rispetto al passato in uno Stato considerato strategico per gli Stati Uniti per la propria politica in Afghanistan, ma anche in Asia Meridionale. Dato il lento declino economico statunitense, il Pakistan ha individuato nella Cina un’alternativa importante, la quale, a differenza di Washington, è in costante ascesa economica e militare. La cooperazione militare sino-pakistana è valutata da Islamabad e Pechino anche come una forma di bilanciamento nell’area nei confronti delle simili politiche militari adottate da Russia e India.

Inoltre, mentre gli Stati Uniti premono sul Pakistan per il proprio arsenale nucleare, la Cina rappresenta un’importante fonte di tecnologia in questo settore. A questo proposito Pechino sarebbe intenzionata a finanziare i progetti di costruzione per nuovi reattori nucleari in Pakistan.

Per quanto riguarda un fattore negativo legato alle relazioni tra Cina e Pakistan, è possibile fare riferimento all’attuale situazione dello Xinjiang. La regione cinese è un’area ricca di gas e petrolio, confinante con le repubbliche centro-asiatiche e con una considerevole presenza di abitanti di religione musulmana. Il territorio è attraversato da decenni dalla spinta indipendentista degli uiguri. La Cina ha sostenuto che i responsabili degli attentati avvenuti nello Xinjiang poche settimane fa sono estremisti islamici dello East Turkestan Islamic Movement (ETIM) o Turkistani Islamic Party (TIP) provenienti da campi d’addestramento situati nelle zone tribali del Pakistan. L’ETIM ha legami con la rete Haqqani e con il Tehrik – e – Taliban Pakistan (TTP). L’accusa cinese di simili resposabilità pakistane per le violenze degli uiguri rappresentano un campanello d’allarme per Islamabad. Secondo l’intelligence pakistana la Cina starebbe premendo il Pakistan affinché crei delle basi militari nelle aree tribali in modo da controllare la possibile azione degli estremisti e il loro successivo sconfinamento in territorio cinese. La Cina avrebbe anche intenzione di inviare delle proprie truppe nelle FATA e nella Khyber Pakhtunkhwa, senza comunque l’intenzione di creare delle basi militari permanenti. Sarà da valutare come gli Stati Uniti considereranno la possibile presenza militare cinese in Pakistan.

I media cinesi hanno criticano significativamente le autorità pakistane per l’incapacità dell’esercito di controllare le aree tribali del paese. Il quotidiano pakistano “Dawn” ha sostenuto come gli attentati possano portare a della conseguenze negative nelle relazioni bilaterali tra Islambad e Pechino, comportando delle serie ripercussioni soprattutto per il Pakistan. Allo stesso modo l’incapacità di Islamabad nel prevenire l’azione dei terroristi può risultare controproducente per la potenziale cooperazione sino-pakistana in Afghanistan. Una possibile azione congiunta delle autorità pakistane assieme a quelle cinesi potrebbe garantire, invece, nell’ottica di Pechino, un possibile miglioramento della condizione delle aree nord-occidentali del Pakistan, avendo come conseguenza dei possibili benifici per la situazione dello Xinjiang. Una condizione importante per la Cina è rappresentata dal contemporaneo termine dei bombardamenti statunitensi nell’area, i quali possono fomentare l’estremismo islamico. Senza dubbio la cooperazione tra Islamabad e Pechino nelle FATA e nella Khyber Pakhtunkhwa renderà ancora più evidente lo stretto legame sino-pakistano, foriero di interessanti conseguenze nel contesto dell’attuale competizione in corso nella regione.

*Francesco Brunello Zanitti, Dottore in Storia della società e della cultura contemporanea (Università di Trieste). Ricercatore dell’IsAG per l’area Asia Meridionale, è autore del libro Progetti di egemonia (Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma 2011). In “Eurasia” ha pubblicato Neoconservatorismo americano e neorevisionismo israeliano: un confronto (nr. 3/2010, pp. 109-121).

I risvolti geopolitici delle violenze etniche a Karachi

I risvolti geopolitici delle violenze etniche a Karachi

Francesco Brunello Zanitti

Ex: http://www.eurasia-rivista.org/

Il Pakistan è scosso da una considerevole spirale di violenza. Ai bombardamenti statunitensi lungo il confine con l’Afghanistan si sono aggiunti gli scontri etnici nelle province del Belucistan e del Sindh. Per quanto riguarda quest’ultima regione, il carattere d’indiscriminata conflittualità contraddistingue soprattutto la sua capitale, Karachi. L’estrema violenza caratterizzante la città potrebbe comportare delle conseguenze imprevedibili per l’intero Pakistan, mettendo in seria discussione l’unità e l’intregrità territoriale del paese. La conflittualità interna è strettamente connessa agli interessi dei paesi limitrofi e degli Stati Uniti, con potenziali ripercussioni anche per l’Afghanistan.

Karachi rappresenta il centro urbano e portuale economicamente più importante del Pakistan. La città è il traino dell’industria, del commercio e delle comunicazioni, in particolar modo per quanto riguarda i settori tessile e automobilistico, l’editoria, l’informatica e la ricerca medica. Il centro urbano è, inoltre, un fondamentale nodo geostrategico affacciato sul Mar Arabico. Data l’importanza economica di Karachi, già florido centro prima della nascita del Pakistan, la capitale del Sindh ha attirato nel corso degli ultimi due secoli un gran numero di migranti provenienti da diverse aree del Subcontinente, trasformandosi in una città multietnica e multilinguistica. Nella città, prima del 1947, convivevano diverse etnie, attirate dalle possibilità commerciali; erano presenti differenti comunità religiose, principalmente musulmani, hindu, parsi e cristiani. Karachi e il Sindh intero, in seguito alla partizione tra India e Pakistan, sono stati contraddistinti da una massiccia migrazione di musulmani provenienti dall’India, demominati mohajirs e di lingua urdu (mohajirs in urdu significa “migrante”). Rispetto ad altre aree del Pakistan, nel Sindh la migrazione urdu è stata più evidente ed ha generato una situazione di maggiore criticità. Mentre nelle restanti zone del paese la minoranza dei mohajirs è stata assimilata perché il suo numero era inferiore rispetto alla popolazione autoctona, nel Sindh, molto più vicino geograficamente all’India, i nuovi arrivati di lingua urdu superarono numericamente le etnie locali, modificando considerevolmente il carattere etnico della provincia.

Una delle cause scatenanti l’attuale stato di violenza della città è da ricercare nel composito carattere etnico del Sindh, complicato a partire dal 1947. La conflittualità tra etnie a Karachi e nella regione circostante non è, infatti, un problema che caratterizza il Pakistan da pochi anni, ma è invero una situazione perdurante da decenni. Tra gli anni ’50 e ’80 la regione era contraddistinta in particolare dagli scontri tra la popolazione di lingua urdu, rappresentanti solitamente la classe urbana, commerciale e maggiormente istruita della provincia, e i sindhi, gruppo etnico per la maggior parte dei casi rurale e meno istruito, trasformatosi minoranza nel proprio territorio storico. Gli scontri vennero, inoltre, utilizzati a seconda dei mutevoli interessi delle autorità centrali di Islamabad, tradizionalmente intenti a privilegiare l’etnia punjabi. La presenza a Karachi dei mohajirs è, inoltre, considerevolmente aumentata a partire dal 1971, in seguito alla migrazione di ulteriori gruppi musulmani di lingua urdu provenienti dall’ex Pakistan orientale dopo l’indipendenza del Bangladesh.

 

I motivi degli scontri etnici a Karachi e le possibili conseguenze per l’integrità territoriale del Pakistan

 

Le violenze quotidiane che hanno trasformato Karachi in un pericoloso centro, teatro di scontro tra bande, mafie locali e gruppi armati artefici di rapimenti, estorsioni ed esecuzioni sommarie, è dovuto principalmente alla conflittualità tra i mohajirs e i pashtun, questi ultimi di recente immigrazione. Il nesso tra criminalità e politica è molto forte, mentre le forze di sicurezza locali e le autorità centrali di Islamabad non sono in grado, per il momento, di riportare la città in una situazione di normalità. I partiti politici più importanti di Karachi, il Muttahida Quami Movement (MQM) rappresentante gli urdu, 45% della città, e l’Awami National Party (ANP), partito della minoranza pashtun, 25% degli abitanti di Karachi, si accusano a vicenda per la responsabilità delle violenze; i due gruppi politici, assieme al partito nazionale e governativo del Pakistan People’s Party (PPP), che a Karachi rappresenta gli interessi sindhi, sono i diretti responsabili delle violenze. Queste sono esplose soprattutto a partire dal 27 giugno, quando l’MQM decise di uscire dalla coalizione di governo del Sindh per l’avversione nei confronti dell’ANP e per incompresioni politiche con il governo nazionale di Islamabad guidato dal PPP. Il carattere etnico della città è complicato ulteriormente dalla presenza di altre minoranze, in particolare balochi, punjabi, kashmiri, saraiki e numerose altri gruppi etnici. A Karachi è presente anche una minoranza sciita, la quale si è sovente scontrata con la maggioranza sunnita. I sindhi, 60% della popolazione di Karachi nel 1947, oggi rappresentano il 7% della città.

La massiccia presenza pashtun a Karachi è recente ed è dovuta soprattutto alla considerevole migrazione verso sud delle popolazioni provenienti dalle regioni settentrionali del Pakistan, soprattutto dalla provincia di Khyber Pakhtunkhwa e dalle Federally Administered Tribal Areas (FATA), ma anche dall’Afghanistan; le migrazioni sono state causate dall’invasione sovietica del 1979, da quella USA nel 2011 e dai bombardamenti statunitensi lungo la linea Durand. Le recenti migrazioni di pashtun, ma anche di tagiki, hazara, turkmeni e uzbeki provenienti dall’Afghanistan, hanno modificato considerevolmente il carattere etnico di Karachi, la quale unitamente alle violenze tra urdu e sindhi, è diventata teatro di scontri tra urdu e pashtun, e tra questi ultimi e i sindhi. Senza dimenticare i punjabi, rappresentanti gli interessi dei militari e delle autorità centrali pakistane, attente a favorire una o l’altra etnia a seconda delle circostanze politiche. La recente storia del paese è caratterizzata da questa particolare linea di politica interna.

L’attuale importanza dell’MQM, terzo gruppo politico a livello nazionale, è derivata, infatti, dall’azione governativa del regime di Zia ul-Haq tra anni ’70 e ‘80. Avendo come fine l’indebolimento del PPP e del suo capo, Zulfiqar Ali Bhutto, di etnia sindhi e il cui governo venne rovesciato proprio da Zia, il generale favorì la nascita e il consolidamento politico del partito urdu. L’MQM si rafforzò nel corso degli anni ’80, trasformandosi in un’importante forza di equilibrio nel panorama politico pakistano, alleandosi, a seconda delle circostanze, con il PPP o con la conservatrice Pakistan Muslim League (PML). Dopo il crollo di Zia, l’ISI accusò l’MQM di essere una forza cospirativa filo-indiana, finanziata dai servizi segreti di Nuova Delhi e avente come obiettivo primario la creazione di uno Stato autonomo di lingua urdu, il Jinnahpur con Karachi capitale. Durante gli anni ’90, infatti, l’MQM ha subito una violenta repressione da parte del governo centrale di Islamabad, in particolar modo quando salirono al potere Nawaz Sharif (PML-N) e Benazir Bhutto (PPP). Il partito degli urdu contò invece sull’appoggio del generale Pervez Musharraf, anch’esso di etnia mohajirs. Nell’ultimo decennio, infatti, l’MQM ha registrato una considerevole espansione, aumentando la propria influenza nell’intero paese, ma soprattutto in Punjab, cuore politico e militare del Pakistan. Diversi analisti sostengono il fatto che l’MQM possa contare attualmente sul decisivo appoggio dell’apparato militare pakistano e dell’ISI, vicini all’etnia punjabi, in modo da poter controbilanciare l’influenza pashtun nel Sindh, ma soprattutto nell’intero Pakistan.

Le violenze a Karachi sono dunque legate alla complicata situazione della politica interna pakistana, ricalcante le differenze etnico-linguistiche del paese. La forza politica dell’MQM non è attualmente riscontrabile solo nella città portuale, ma è evidente nell’intero paese. In questa fase politica è necessario per gli altri partiti, soprattutto per il PPP, scendere a patti con l’MQM, il quale si è trasformato in un indispensabile partito, garante del mantenimento dell’equilibrio politico del Pakistan. A Karachi le violenze sono aumentate in seguito all’abbandono da parte dell’MQM del governo federale del Sindh: i mohajirs accusano Zardari e il PPP di essere troppo vicini all’ANP. Lo scontro tra MQM e governo centrale è legato anche ai recenti arresti di attivisti mohajirs di Karachi accusati di terrorismo.

Una spiegazione delle violenze che stanno attraversando Karachi è connessa certamente alle migrazioni di popolazione pashtun nella città. Non si tratta solamente di un problema sociale ed economico, per l’evidente accresciuta competizione tra etnie diverse nella ricerca di lavoro e nell’acquisto di terre. Una questione fondamentale riguarda una problematica di tipo politico, ovvero quale gruppo etnico assumerà il controllo di Karachi, la città economicamente più importante del Pakistan che garantisce il 68% delle entrate nazionali. Le preoccupazioni dei diversi gruppi etnici sono evidenti: gli abitanti di lingua urdu temono la “talebanizzazione” della città ad opera della minoranza pashtun; questi ultimi denunciano l’eccessiva violenza dei mohajirs; i sindhi osservano negativamente sia i pashtun sia i mohajirs. Tutti e tre i gruppi etnici maggioritari di Karachi accusano il governo centrale di Islamabad di privilegiare l’etnia punjabi, favorendo lo sviluppo del solo Punjab a discapito degli altri territori dello Stato.

Le violenze fra etnie, fomentate dall’MQM, dall’ANP e dal PPP, possono portare a della serie conseguenze non solo per la città, ma anche per il resto del paese, generando una potenziale situazione d’instabilità. Se si pensa all’attuale situazione del Belucistan, tale scenario non sembra lontano dalla realtà. Di fondamentale importanza sono i risvolti geopolitici connessi alla stabilizzazione del paese e l’azione che intraprenderanno i diversi attori internazionali attenti alle sorti del Pakistan e dell’Afghanistan.

 

I collegamenti internazionali delle violenze a Karachi e nel Pakistan

 

Secondo l’ottica pakistana, una delle cause della situazione di completa anarchia e settarismo di Karachi deriva dall’appoggio esterno alle diverse fazioni in lotta. Questo sarebbe garantito in primo luogo dall’India, ma anche da Stati Uniti e Israele. Una delle spiegazioni offerte dal governo nel passato per descrivere la conflittualità del Sindh, ripresa recentemente, è connessa all’azione svolta da attori esterni, i quali aizzano le diverse etnie del paese una contro l’altra, in modo da favorire la destabilizzazione e lo smembramento del Pakistan.

La situazione in Belucistan, zona ricca di gas naturale e minerali, ma molto povera, è particolarmente tesa. Secondo Islamabad, i servizi segreti dell’India appoggerebbero le spinte indipendentiste dei beluci e le violenze anti-punjabi. Il Belucistan è teatro, inoltre, del violento scontro tra governo centrale e movimenti sciiti della regione. Secondo la visuale pakistana, oltre ai servizi segreti indiani, agirebbero in Belucistan la CIA e l’MI6 britannico, i quali fomenterebbero le azioni anti-governative dei beluci. Il Pakistan guarda con sospetto all’attivismo indiano nella città iraniana di Chabahar, anch’essa beluca. L’azione statunitense potrebbe avere dei chiari risvolti negativi per gli interessi cinesi nell’area e per l’Iran, dato l’indipendentismo beluco presente nella provincia iraniana del Sistan-Belucistan.

Sempre secondo Islamabad, la RAW indiana, il Mossad e la CIA favorirebbero il traffico illegale di armi nell’emporio di Karachi, la cui zona portuale è controllata dall’MQM. All’indomani della visita di Karzai e Zardari a Tehran lo scorso giugno, il ministro degli interni pakistano Rehman Malik ha riferito pubblicamente alla stampa del ritrovamento di armi di fabbricazione israeliana a Karachi.

Il Pakistan, se da una parte ha visto deteriorarsi i propri legami con gli Stati Uniti, ha migliorato i propri rapporti con l’Iran, testimoniati concretamente dal possibile avvio dei lavori in territorio pakistano del gasdotto di collegamento tra Tehran e Islamabad. L’Arabia Saudita osserva con particolare preoccupazione l’avvicinamento tra i due paesi, foriero di una pericolosa messa in discussione del teorema dell’inevitabile scontro e competizione tra sunniti e sciiti nel mondo musulmano. Un problema comunque di primo piano da risolvere nel dialogo iraniano-pakistano sarà legato al finanziamento del gruppo terroristico Jandullah, il quale opera nel Sistan-Belucistan e, secondo l’Iran, ha legami diretti con l’ISI. L’Iran ha sospetti anche sull’Afghanistan, mentre la stessa Islamabad ritiene che ci siano dei collegamenti tra Tehran e l’indipendentismo beluco in Pakistan. Islamabad ha, inoltre, intensificato i propri rapporti con la Cina. In questo modo il governo pakistano, legandosi maggiormente a Tehran e Pechino, sta aumentando considerevolmente il proprio potere negoziale nei confronti degli Stati Uniti. Un altro fattore da considerare è, inoltre, il crescente interesse di Russia, Iran e Cina per la questione afghana. Gli Stati Uniti guardano naturalmente con estremo interesse l’evolversi della situazione interna del Pakistan, un paese del quale non possono fare a meno per la propria strategia in Afghanistan. Vista la recente intenzione di mantenere una base militare a Kabul fino al 2024 è necessario, nell’ottica statunitense, sostenere un dialogo con i talebani, i quali non appaiono comunque troppo favorevoli alla presenza di truppe nordamericane in Afghanistan; del medesimo parere sono Russia, Cina, Pakistan e Iran. Islamabad, possibile canale privilegiato per il dialogo con i talebani, diventa dunque fondamentale per l’azione statunitense in Afghanistan, data anche l’attuale debolezza politica di Karzai.

La destabilizzazione del Pakistan e il suo potenziale controllo si collegano alle recenti violenze di Karachi, connesse a una strategia volta al favorire lo smembramento del paese asiatico discussa in diversi think tank nordamericani (vedi l’articolo http://www.eurasia-rivista.org/gwadar-la-competizione-sino-statunitense-e-lo-smembramento-del-pakistan/9828/). Tutto ciò è collegabile alla notizia secondo la quale gli Stati Uniti avrebbero come obiettivo il controllo diretto dell’arsenale nucleare pakistano, alle richieste di Islamabad di poter disporre del diritto di veto per gli unilaterali bombardamenti statunitensi sul proprio territorio e alle schermaglie tra CIA e ISI, con l’insolito avvicendarsi nel giro di pochi mesi di tre diversi capi del servizio segreto statunitense a Islamabad. Se da una parte, inoltre, gli Stati Uniti vogliono ricercare un dialogo con i talebani, dall’altro lato non si curano dei bombardamenti nei confronti di quei gruppi che hanno già raggiunto una pacificazione con il Pakistan, ma che operano in Afghanistan, vedi la rete Haqqani, con possibili ripercussioni negative per la sicurezza interna di Islamabad. Un’altra fondamentale questione riguarda il temine degli aiuti finanziari di Washington nei confronti del Pakistan, uniti alla crisi finanziaria e all’impossibilità da parte degli Stati Uniti di mantenere un costoso apparato militare in Afghanistan, vista anche l’attenzione crescente per il Vicino Oriente e il Nord Africa. Resta da capire se le strategie sul Pakistan discusse nei think tank statunitensi verranno concretamente messe in azione. Sta di fatto che un’interpretazione dell’attuale fase critica del Pakistan è connessa al teatro afghano, poiché il carattere di estrema precarietà del paese può essere valutato come una diretta conseguenza dell’invasione e destabilizzazione dell’Afghanistan, propagatasi successivamente in territorio pakistano. Il collasso del sistema statale è concretamente in atto lungo il confine tra i due paesi e le migrazioni dei pashtun verso Karachi degli ultimi anni rendono la situazione della città e del paese in generale sempre più complicata.

E’ da valutare, inoltre, quanto le violenze a Karachi possano favorire gli interessi statunitensi, vista la sua posizione strategica come unico porto in grado di supportare le truppe NATO in Afghanistan. Kabul non ha collegamenti via mare e risulta essenziale l’attenzione nordamericana su Karachi, importante porto sul Mar Arabico e attualmente punto strategico per il riformimento di mezzi e truppe via mare da indirizzare in Afghanistan. Nell’emporio di Karachi si può individuare un ulteriore elemento che testimonia l’importanza del Pakistan per gli Stati Uniti. Collegato alla questione della città e alle sue minoranze, saranno da valutare anche gli impatti sull’etnia pashtun del potenziale dialogo che potrebbe stabilirsi tra i talebani e gli Stati Uniti, così come il ruolo che ricoprirà il Pakistan nei colloqui.

Dialogo valutato negativamente dall’India e dall’Iran. Per quanto riguarda Nuova Delhi è da valutare quanto convenga all’India fomentare l’indipendentismo delle minoranze etniche presenti in Pakistan. La destabilizzazione dell’Afghanistan, avvenuta a partire dal 2001, con la successiva caotica situazione pakistana, non è detto che non si espanda anche in India. Se da una parte, con l’annichilimento del Pakistan si conorerebbe il sogno della definitiva sconfitta del nemico, da una diversa prospettiva tutto ciò potrebbe comportare delle serie ripercussioni per l’autonomismo e l’indipendentismo di vaste aree interne del paese, soprattutto in Kashmir e nel nord-est indiano. Se da una parte gli Stati Uniti hanno come obiettivo il caos per poi controllare la situazione, sembra che recentemente Nuova Delhi stia addontando una politica più accorta nei confronti del Pakistan.

 

*Francesco Brunello Zanitti, Dottore in Storia della società e della cultura contemporanea (Università di Trieste). Ricercatore dell’ISaG per l’area Asia Meridionale, è autore del libro Progetti di egemonia (Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma 2011). In “Eurasia” ha pubblicato Neoconservatorismo americano e neorevisionismo israeliano: un confronto (nr. 3/2010, pp. 109-121).

 

lundi, 12 septembre 2011

L’avenir de l’Eurasie se joue en Mer de Chine

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L’avenir de l’Eurasie se joue en Mer de Chine

par Jure VUJIC

Comme l’a si bien déclaré Z. Brzezinski, l’Eurasie est le pivot mondial du supercontinent. La puissance qui dans les prochaines décennies exercera sur cette masse continentale l’hegemon, exercera corrélativement une grande influence sur les peuples et les deux zones économiques les plus riches et les plus productives du monde : l’Europe occidentale et l’Asie du sud-est.

D’autre part, compte tenu de la proximité géographique de l’Eurasie, la puissance hégémonique en Eurasie exercera de même une grande influence sur l’Afrique et le Moyen Orient. La Chine et l’Inde en tant que puissance émergentes, la renaissance impériale de la Russie en tant qu’hegemon régional, l’émergence du Japon et de la Corée du sud dans le jeu des grandes puissances, laissent présager un éventuel nouveau partage des cartes géopolitiques dans la région. L’ Europe occidentale, avec sa stratégie de défense et sa PÉSC malgré sa dépendance vis-à-vis des mots d’ordre atlantistes de Washington, semble néanmoins consciente de l’enjeu géopolitique eurasiatique.

C’est dans cette optique que l’UE entend promouvoir, dans la région et les pays de Union, davantage de multilatéralisme effectif, afin d’éviter un cloisonnement de cette région et son isolement par la politique européenne du voisinage et la toute nouvelle Union méditerranéenne. Les intérêts géo-économiques et financiers de l’Union dans la région, les enjeux de la globalisation sont trop grands pour que l’Europe soit marginalisée par le jeu des grandes puissances en Eurasie. En suivant les thèses bien connues de Mackinder à propos du heartland, il est aujourd’hui davantage plus clair que les États-Unis et les autres puissances régionales atlantistes entendent parfaire la bien connue stratégie de défense du néo-containement par un contrôle accru des mers et de la zone littorale qui s’étend de Suez à Shangai, et notamment à cause de l’émergence de nouveaux acteurs régionaux d’envergure comme le Japon, la Chine, et l’Inde. C’est dans cette perspective que Bill Émmot l’éditoraliste de The Economist affirme que les nouveaux pouvoirs eurasiatiques renforcent leurs pouvoirs maritimes sous la forme d’installations militaires localisées, pour les mettre au service de la protection de leurs intérêts économiques, la défense de leurs routes stratégiques et afin élargir leurs zones d’influence.“

La stratégie américaine d’encerclement de la Chine

Depuis des décennies et surtout depuis la guerre froide, les États-Unis se posent en pouvoir dominant sur le littoral asiatique méridional.Afin d’améliorer son dispositif hégémonique dans la région et de décourager toute puissance montante continentale en Asie centrale, le système de sécurité maritime américain repose actuellement sur des régions sécuritaires dites pivots : d’une part le canal de Panama qui relie l’Atlantique et le Pacifique, deuxièmement les lily pads qui relient les installations militaires maritimes de San Diego à Hawaï jusqu’à Guam, et de Guam au Japon et la Corée du Sud, et enfin troisièmement, la grande barrière qui s’étend le long du littoral du sud-est asiatique. Grâce à cette barrière maritime qui s’étend du nord de Borneo en passant par Singapour, les États Unis sont assurés d’une présence géostratégique en Asie du sud-est.

Le système de sécurité maritime américain comprend deux têtes de ponts stratégiques : Taïwan et le Japon. Les États Unis ont conclu en octobre 2008 un contrat avec Taïwan pour la vente de de missiles intercepteurs et d’hélicoptères Apaches pour 4.4 milliards d’euro. En chien de garde de la grande barrière sécuritaire maritime, Taïwan a mis la Chine dans une position défensive. Le second pilier du dispositif défensif américain est le Japon qui abrite la plus importante base navale de l’American Seventh Fleeth et possède une armée efficace. La modernisation militaire de la Chine et la montée en puissance maritime de la Corée du Sud ont forcé les cercles militaires et stratégiques japonais à repenser leur doctrine militaire. C’est ainsi que le vice-amiral Hideaki Kaneda à la tête de la force japonaise maritime d’autodéfense explique, en affirmant que la Chine a changé de style de défense maritime vers un sea-power plus agressif, ce qui a poussé le Japon à reformuler sa stratégie maritime nationale. L’armée japonaise vient de se doter d’armements sophistiqués, d’hélicoptères Hyuga qui accroissent les capacités opérationnelles maritimes.

Tokyo utilise le JMSDF (Force japonaise maritime d’autodéfense) en support aux opérations en Afghanistan et en Irak. D’autre part le Japon a acquis une nouvelle force de frappe avec le développement de la garde côtière qui est engagée dans la diplomatie maritime avec leurs partenaires dans l’Asie du Sud-Est. La Corée du sud, allié stratégique des USA dans la grand barrière maritime, vient de construire des bases navales maritimes tout près de la Chine et du Japon. La Corée du Sud, qui a le plus grand budget militaire dans le monde en proportion de son PIB, vient de réorganiser et de moderniser son armée avec la mise sur pied de trois escadrons mobiles stratégiques qui seront opérationnels en 2020 et qui seront constitués de bâtiments équipés de missiles AEGIS combat system. Paul Kennedy dans The Rise and Fall of the Great Powers a déclaré que le Japon et la Corée du Sud se doteront d’un certain degré d’autonomie face à leur allié les États-Unis, mais continueront d’occuper une place prépondérante dans le dispositif de défense américain de la grande barrière maritime.

La stratégie chinoise du collier de perles

La Chine constitue une menace géopolitique certaine pour le Japon et la Corée du Sud. Sa croissance économique a doublé depuis 1990 ; afin de soutenir cette croissance vertigineuse Pékin devra augmenter sa consommation de pétrole de 150% d’ici 2020. Actuellement plus de 6000 navires chinois naviguent dans l’Océan Indien pour approvisionner leur pays en pétrole. Il va de soit que d’ici 2025, la Chine devra importer de considérables ressources énergétiques du Moyen-Orient et de l’Afrique. Les géostratégies maritimes américaine et japonaise buttent uniquement sur la voie maritime chinoise, laquelle passe par la mer de Chine avec ses ramifications le long du détroit de Malacca. 80% des transports maritimes pétroliers empruntent cette artère stratégique. Afin d’assurer la sécurité de ses routes maritimes d’approvisionnement énergétique, la Chine devra contourner les États-Unis et le Japon à l’est. La Russie concentre sa puissance maritime au nord, alors que l’Inde contrôle le flanc sud maritime de l’Océan Indien. En conséquence, la Chine devra renforcer son indépendance et la puissance de son pouvoir naval militaire, en particulier dans l’Océan Indien. La Stratégie maritime chinoise est double : d’une part, elle doit contenir la présence américaine dans le détroit de Taïwan, d’autre part, à l’avenir, elle devra assurer sa poussée maritime vers l’Océan Indien en encerclant l’Inde.

C’est dans le cadre de cette nouvelle stratégie maritime que la Chine vient de s’équiper de sous-marins russes Kilo-class. La deuxième composante du programme de modernisation navale chinois et d’encerclement stratégique de l’Inde est constituée de ce que l’on appelle le collier de perles maritime. Ce collier maritime relie l’installation navale chinosie de Sanya dans le sud avec lîle de Hainan, et d’autre part avec le Moyen-Orient. D’autres colliers maritimes secondaires s’étendent vers le Sri Lanka et dans les Maldives, reliant la baie de Bengale avec Gwadar dans la mer d’Arabie et complétant le triangle stratégique autour de l’Inde. La Chine redoute actuellement que les États-Unis et leurs alliés encerclent la Chine et l’espace maritime privilégié chinois, et c’est pourquoi les thèses d’Alfred Mahan à propos de la nécessité de la sécurisation des routes de transports sont actuellement très en vogue dans les milieux stratégiques militaires chinois. Les perles (étapes) du collier chinois, du Pakistan à Bornéo, vont devenir des couloirs stratégiques dans le littoral qui relie l’Afrique au Moyen-Orient. Afin de diversifier ses routes d’approvisionnement et d’éviter des goulots d’étranglements dans le dispositif du collier de perles, les ressources énergétiques pourront être acheminées par Sittwe et Gwadar, par route et voie ferrée le long de la frontière chinoise avec la Birmanie et le Pakistan en pénétrant dans les provinces chinoises de Yunnan ou le Xingjina. Lorsque la géostratégie chinoise sera consolidée dans l’océan indien, le futur collier de perles pourra s’ouvrir aux Seychelles en étendant la poussée stratégique chinoise vers l’Afrique. Ce n’est pas un hasard si Pékin a annoncé en décembre 2008 la volonté de construire une base aérienne, afin de de sécuriser son collier de perle et de consolider la présence stratégique maritime chinosie dans l’océan indien.

Le contre encerclement de l’Inde et le projet indo-atlantiste

Comme la Chine, l’Inde est extrêmement dépendante des routes maritimes commerciales. 77% des importations indiennes de pétrole proviennent du Moyen-Orient et de l’Afrique. Le Brigadier Arun Sahgal, directeur de l’Institut indien United Service Institution de New Delhi, qualifie la politique géopolitique chinoise de stratégie d’encerclement. En effet, le Nord de l’Inde est directement voisin de la Chine ; à l’Ouest le rival régional pakistanais, avec lequel la Chine développe ses relations, à l’est le Bangladesh pro-chinois et la junte birmane, alors qu’au sud se trouve le collier de perles chinois qui entoure l’Inde tel un serpent maritime géostratégique. Pour certains géopoliticiens et stratèges indiens et américains, une grande coalition des États côtiers et insulaires permettrait d’opérer un contre-encerclement de la Chine. Cette stratégie Indo-Américaine permettrait d’assurer un contre-encerclement par une ceinture géostratégique autour des rimlands asiatiques : l’Inde au sud-ouest de la Chine, la Corée du Sud au Nord-est, le Japon et Taïwan à l’Est, et les Philippines et Guam au sud-est, ce qui obligerait la Chine à adopter une posture géostratégique défensive. Cette stratégie indo-américaine pourrait menacer à long terme la construction d’une alliance eurasienne stratégique maritime et continentale.

L’Inde anticipe de même la menace d’un renforcement des relations entre le Pakistan et la Chine, et a entamé une pénétration géostratégique en Asie centrale : en 2006, New Delhi a étendu son influence dans cette région de l’Eurasie en ouvrant un premier aéroport militaire indien dans cette région, au Tadjikistan, un pays qui borde le Pakistan au Nord et la Chine à l’ouest, et qui offre à l’Inde un pont avancé dans la région. L’Inde renforce son potentiel militaire naval et a construit une nouvelle installation maritime militaire stratégique à Karwar au sud-ouest de la côte indienne, ainsi qu ‘une nouvelle base aéronavale à Uchipuli dans le sud-est, et un poste d’observation à Madagascar lui permettant de concentrer son commandement naval dans les îles d’Andaman. L’Inde a pris place dans la profondeur de la mer de Chine du sud, en pénétrant dans la baie vietnamienne de Cam Ranh, laquelle lui ouvre la voie à une combinaison géostratégique navale et aérienne permettant de projeter sa force de frappe dans la mer arabe, le golfe de Bengale, le long de l’Océan Indien et la partie ouest du Pacifique. Consciente de ces menaces d’encerclement et de contre-encerclement de la profondeur eurasiatique continentale sur les franges maritimes du continent européen et asiatique, la Russie se livre à un redéploiement de sa stratégie militaire eurasiste le long du littoral eurasien et africain, qu’illustre la décision d’ouvrir des bases militaires navales en Syrie, en Libye et au Yémen. Ces décisions sont accompagnées d’un vaste programme de modernisation navale, par des projets de construction d’avions de combats de nouvelle génération et un renforcement des capacités technologiques et logistiques.

Tribulations géopolitiques dans la zone côtière eurasiatique

Il est désormais évident que les stratégies d’encerclement et de contre-encerclement américaines, japonaises, sud-coréennes, chinoises, indiennes et russe se concentrent sur la zone côtière eurasienne, en tant que zone géopolitique pivot pour le contrôle de l’hinterland, la profondeur stratégique de la masse continentale eurasienne. Dans cet ensemble géopolitique émergeant, la ceinture littorale eurasienne passe par des axes géostratégiques composés par le canal de Suez et Shanghai, car ces axes séparent des pouvoirs émergents eurasistes : la Chine, le Japon et la Corée du sud à l’Est, l’Inde au Sud, la Russie au Nord, alors que l’UE se situe à l’extrême ouest, et les USA sont présents dans la région par la présence de bases navales. La revue stratégique de Défense française en 2008 annonçait déjà que le centre de gravité stratégique global glissait vers l’Asie. Dans le cadre d’une reconfiguration multipolaire du monde, au XXIème siècle, la zone Suez-Shanghai jouera le rôle géostratégique de gateway entre les divers pouvoirs continentaux et maritimes de l’Eurasie.

Le jeu sino-américain et la stratégie du linkage en mer de Chine

Point de passage entre la mer de Chine, l’Asie du Sud-Est et l’Asie Orientale, la mer des Philippines offre des possibilités incontournables à l’armée américaine pour s’assurer du contrôle de toute cette zone stratégique. Mais la Chine est la puissance régionale incontestée de la zone. Elle fait figure de menace en raison de son implication dans toutes les zones de conflits, de ses multiples revendications territoriales et de ses réticences à entrer dans un processus de règlement multipolaire. En effet, la Chine cherche à étendre sa zone économique exclusive, notamment sur les archipels de Paracels, Spratly, Pratas et Macclesfield. Au total, depuis les années 90, le renouveau de l’intérêt porté par la Chine à cette mer ne s’est pas démenti. Mais, cela n’est en rien comparable à l’intérêt que Pékin porte à Taïwan.

La Chine est hyper sensible à l’égard de Taïwan, qu’elle considère comme sa 22ème province. Elle ne concède aucun compromis sur la position d’une Chine unique. Bien que les États-Unis aient accepté cette position, la Chine est convaincue que l’aide fournie par les États-Unis à Taïwan lui donne la confiance de s’opposer aux revendications de Pékin ; ce qui entraîne la méfiance de la Chine à l’égard des États-Unis. Il est certain que, de son attitude dépendront la paix et la sécurité de cette partie de monde. Il est aussi certain qu’avec le développement économique, la Chine sera de plus en plus dépendante de son approvisionnement en pétrole et de son commerce maritime.

L’enjeu stratégique de la mer des Philippines

Le rôle éminent joué en Asie, sur le plan militaire, par les États-Unis, au cours des cinquante dernières années, leur a permis de mettre en place un dispositif aux articulations majeures dont la mer des Philippines offre des possibilités qui demeurent incontournables. En effet, les États-Unis sont actuellement, en Asie, la nation la plus puissante, à la fois politiquement, économiquement et militairement. Leur présence actuelle tient principalement à la menace qu’exerce la Corée du Nord dans la péninsule coréenne et au réveil de la Chine. En Asie du Sud-Est, les États-Unis ne sont plus présents de manière permanente, depuis qu’ils ont dû abandonner leurs deux bases des Philippines, en novembre 1992. Néanmoins, dans toute la région sauf, peut-être la Chine, il existe une reconnaissance générale des États-Unis comme seul et important acteur ayant la capacité d’assurer l’équilibre stratégique. Ainsi les États-Unis participent largement au maintien de la sécurité dans cette région du monde. Le commandement du Pacifique, dont l’État major est à Hawaï, est en charge de l’ensemble des forces américaines stationnées entre la côte ouest des États-Unis et la mer des Philippines.

Le contrôle de la mer des Philippines permet à l’armée américaine d’assurer le soutien logistique de ses forces largement disséminées dans la région asiatique et de donner la liberté d’action aux flottes déployées dans la région des Philippines. Disposer à nouveau de bases aux Philippines présente aux yeux des Américains un double intérêt. Le premier est le relais entre les océans Pacifique et Indien, lequel n’est assuré aujourd’hui que par Singapour, où un millier d’hommes s’occupent du ravitaillement et de l’entretien des bâtiments et avions américains. Mais Singapour est une petite île aux capacités limitées et qui se trouve à l’entrée du détroit de Malacca. Les Américains lorgnent le complexe aéroportuaire de Général-Santos qu’ils ont récemment aménagé loin des regards indiscrets dans une baie bien abritée de l’île philippine de Mindanao. Général-Santos est davantage à l’écart que la baie de Subic de la mer de Chine du Sud, des eaux qui sont l’objet d’une querelle ouverte notamment entre la Chine, le Vietnam et les Philippines et dont les États-Unis ne paraissent pas vouloir se mêler. Le deuxième intérêt est de disposer en Asie de l’Est, en cas de conflit en Extrême-Orient, d’un point d’appui solide à l’extérieur du Japon et de la Corée du Sud. Le complexe de Subic et Clark remplissait autrefois cette fonction. Les Philippines pourraient de nouveau le faire si les « manœuvres conjointes » en cours, qui peuvent s’étaler de six mois à un an, débouchent sur un engagement plus durable. Cette possibilité ne peut être exclue si l’on s’en tient aux pressions constantes des Américains sur les Philippins pour aboutir à une « normalisation » des relations militaires qui feraient du vote de 1991 un accident de l’histoire. La mer des Philippines occupe une place stratégique sur le plan militaire aussi bien pour les puissances régionales que pour les États-Unis d’Amérique.

La Chine, quant à elle, cherche à utiliser sa puissance maritime croissante pour contrôler, non seulement l’exploitation des eaux riches en hydrocarbures de cette zone, mais aussi les voies maritimes, parmi les plus fréquentées au monde. Afin de contrer l’influence chinoise en mer jaune et en Chine méridionale, les États-Unis entendent redéployer une ceinture maritime militaire autour de la Chine en s’associant à des exercices maritimes et aériens avec la Corée du Sud, au large de la côte est de la péninsule coréenne. Les liens militaires entre les États-Unis et l’unité d’élite des forces armées indonésiennes s’inscrivent dans le cadre de cette politique navale renouvelée. Ces jeux de stratégie militaire constituent surtout un avertissement lancé à la Corée du Nord sur la force de l’engagement de l’Amérique en Corée du Sud, suite au naufrage du bâtiment de guerre sud-coréen le Cheonan. Mais ils confirment surtout que les engagements de l’armée américaine en Irak et en Afghanistan n’empêchent pas les États-Unis de défendre leurs intérêts nationaux vitaux en Asie. Le deuxième théâtre de ces jeux stratégiques s’est sitUE en mer Jaune, dans les eaux internationales, très proches de la Chine, démontrant encore une fois l’engagement des États-Unis pour la liberté des mers en Asie. S’ensuivit la visite d’un porte-avions américain au Vietnam, le premier depuis la fin de la guerre, il y a 35 ans. La Corée du Nord, s’est violemment opposée à ces jeux stratégiques, menaçant même d’une réponse « physique ». La Chine a non seulement qualifié l’intervention de Mme Clinton au sujet des îles Spratly « d’attaque », mais a aussi organisé des manœuvres navales non prévues en mer Jaune avant les exercices conjoints américano-coréens.

Le théâtre géostratégique de la mer de Chine

La mer de Chine méridionale devient ainsi un théâtre géopolitique parmi les plus critiques de la planète. En effet, se superposent ici les projections d’influence de la Chine à caractère expansif et le rôle régional des États Unis à caractère défensif. Les premières remettent en cause la stabilité régionale, le deuxième préfigure un « soft-containement » d’un type nouveau. A partir du discours d’Obama à Tokyo en novembre 2009, la politique de la nouvelle Administration américaine vise à définir les États Unis comme « une nation du Pacifique ». Cette déclaration, énoncée dans le but de « renouveler le Leadership américain dans le monde », s’adresse non seulement aux alliées historiques de la région, mais également aux pays de l’ASEAN (The Association of Southeast Asian Nations). L’ASEAN constitue un Forum Stratégique de toute première importance pour la stabilité, la paix et le développement économique en Éxtrême Orient et les USA ont demandé d’y adhérer. Dans une perspective de mouvement de l’échiquier asiatique, l’activisme chinois en politique étrangère influence en profondeur les enjeux stratégiques des principaux acteurs régionaux dans la mer de Chine méridionale, dont les ressources naturelles sont disputées par Taïwan, les Philippines, la Malaisie, l’Indonésie, Brunei, Singapour et le Vietnam.

Cette zone est désormais inclue, d’après le New York Times, dans le périmètre des « intérêts vitaux » de la Chine au même titre que le Tibet et Taïwan, et ceci bien qu’aucune déclaration officielle n’ait fait étalage de cette position. La superposition de deux zones d’influence chino-américaine sur le même espace a été confirmée par la Secrétaire d’État, Mme Hillary Clinton à Washington, le 23 juillet 2010, lors d’une déclaration dans laquelle elle a fait référence à des « intérêts nationaux » des États-Unis concernant la liberté de navigation et les initiatives de « confidence building » des puissances de la région à l’encontre d’une prétendue « Doctrine Monroe » chinoise dans la mer de Chine méridionale. Une partie des pays du Sud-Est comptent, de manière explicite, sur la présence des États-Unis pour contre-balancer l’activisme chinois. Rien ne serait plus dangereux pour la politique étrangère de Kung-Chuô, qu’un pareil alignement sur les déclarations américaines, car la Chine n’a aucun intérêt à l’internationalisation de litiges concernant les eaux territoriales. Or le Linkage entre la mer de Chine méridionale et la façade maritime du Pacifique est inscrite dans l’extension des intérêts de sécurité chinois.A travers les mers du sud et les détroits, transite 50% des flux mondiaux d’échange, ce qui fait de cette aire maritime un théâtre de convoitises et de conflits potentiels, en raison des enjeux géopolitiques d’acteurs comme la Corée du Sud et le Japon qui constituent des géants manufacturiers et des pays dépendants des exportations.Une des clés de lecture de cette interdépendance entre zones géopolitique à fort impact stratégique est le développement des capacités navales, sous-marines et de surface, de la flotte chinoise.

L’importance des routes maritimes eurasiatiques

L’importance stratégique des routes maritimes eurasiatiques pour l’économie de l’Europe est grandissante, compte-tenu de l’accéleration de l’industrialisation et du développement commercial de la Chine, de l’Inde et de la Corée du Sud. Parmi les 15 plus grands partenaires de l’UE, 7 d’entre eux (Chine, Japon, Corée du Sud, Inde, Taïwan, Singapour et Arabie Saoudite) sont situés le long de la côte eurasiatique. Le volume d’importation de l’UE via ces pays est passé de 268.3 milliards d’euros en 2003 à 437.1 milliards d’euro en 2007. Par ailleurs, 90 % du commerce maritime de l’UE passe par les voies maritimes, alors que le commerce maritime avec l’Asie constitue 26.25% du total du commerce maritime transcontinental.

Les points de choc et les flash point stratégiques

En raison des risques d’interruption d’approvisionnement en énergie, et plus particulièrement en gaz (comme cela a été le cas plusieurs fois ces dernières années dans la crise du gaz entre la Russie et l’Ukraine), l’UE doit compter sur une diversification croissante des routes énergétiques d’approvisionnement. Il en est ainsi également du commerce maritime cargo dans le cadre des relations commerciales entre l’Europe et l’Asie, lequel doit emprunter des routes maritimes instables et des zones maritimes côtières de Suez à Shangai. Les navires de commerce doivent suivre des routes maritimes qui longent le continent africain, à travers l’océan Pacifique et l’océan atlantique, en passant par des zones géographiques précaires appelées points de frottements. Elles peuvent être définies comme des chaînes. Les navires pétroliers européens qui s’approvisionnent au Moyen-Orient passent par le détroit d’Hormuz, alors que les produits manufacturés d’Asie du Sud -est passent par le détroit de Malacca. Tous les pavillons européens doivent passer par le tunnel maritime stratégique du canal de Suez et de Bab-el Mandeb et le Golfe d’Aden. La localisation géographique de ces points stratégiques, tout près de la corne de l’Afrique, du Moyen-Orient et de l’Asie du sud-est, est d’autant plus sensible dans le contexte d’embrasement du monde arabe et d’intervention occidentale en Libye.

Vers un projet eurasiste pluri-océanique

L’Europe devra prendre conscience de l’importance stratégique des zones maritimes eurasiennes et asiatiques, moyen-orientales et indo-océaniques, et plus particulièrement celles qui se trouvent au carrefour du canal de Suez et de Shangaï, non seulement pour la croissance de son économie mais aussi pour la sécurité militaire et commerciale de sa profondeur continentale euro-sibérienne. Aujourd’hui, la majeure partie des zones eurasiennes côtières à risque est sécurisée par la flotte américaine, mais la dépendance de l’Europe à l’égard des États- Unis sur le plan stratégique et militaire ne fera qu’accroître à long-terme sa faiblesse stratégique commerciale et géopolitique. Le développement d’une stratégie eurasiatique maritime pluri-océanique (avec le développemnt des capacités de frappe et de défense navales appropriées) dans la zone située entre Suez et Shangai, le renforcement d’une géopolitique multipolaire et des partenariats privilégiés avec la Chine, la Russie, l’Inde, Le Brésil, l’Afrique puissances multipolaires émergentes, constituent les véritables défis géostratégiques de l’Europe-puissance de demain.

La dialectique atlantisme/eurasisme, dont les néo-eurasiens actuels font usage dans leurs polémiques anti-américaines, oublie que l’Amérique ne tient pas sa puissance aujourd’hui de sa maîtrise de l’Atlantique, océan pacifié où ne se joue pas l’histoire qui est en train de se faire, mais de son retour offensif dans l’Océan du Milieu, ce qui illustre bien la concentration de ces capacités opérationnelles maritimes en mer de Chine. L’atlantisme ne saurait se réduire à la seule maîtrise des Açores, petit archipel portugais au centre de l’Atlantique, car il ne faut pas oublier que ce qui a précipité la désagrégation de l’URSS, puissance eurasienne, c’est la maîtrise de Diego Garcia, île au centre de l’Océan Indien, d’où partiront plus tard les forteresses volantes pour bombarder l’Afghanistan et l’Irak. La présence de l’Amérique à Diego Garcia est en contradiction avec les intérêts de l’Europe puissance et de la Russie et leurs possibilités de s’ouvrir demain des fenêtres sur les espaces orientaux où se joue le destin du monde.

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samedi, 10 septembre 2011

La diplomatie des mosquées

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La diplomatie des mosquées

Ex: http://www.insolent.fr/

Les faits et les photos peuvent passer avant les commentaires. Ici le ministre turc des affaires étrangères M. Ahmet Davutoglou fête la fin du Ramadan à Sarajevo. On le voit entouré de Bakir Izetbegovic, membre de la présidence collégiale de Bosnie-Herzégovine et du chef religieux, le "reis ul islam" Mustafa Ceric. Cela se passe en la mosquée édifiée au XVIe siècle par Gazi Husrev-beg (1480-1541) gouverneur ottoman de la Bosnie, puis de la Syrie, à l'époque de Soliman le Magnifique.

 

Les jours précédents le même professeur de géopolitique, devenu maître d'œuvre de la politique extérieure d'Ankara s'était rendu dans deux autres pays des Balkans. Au Kossovo, il avait accompli ses dévotions d'abord à la mosquée impériale de Pristina. Celle-ci est également connue sous le nom de "Mehmed Fatih", en l'honneur du conquérant de Constantinople Mehmet II qui en avait ordonné la construction en 1461. Puis, dans le même territoire majoritairement albanais, il avait visité l'élégante mosquée édifiée au XVIIe siècle par Sofi Sinan Pacha et dont une légende veut qu'elle aurait été bâtie avec les matériaux du monastère des Saints-Archanges. Enfin en Roumanie, il avait accompli les mêmes gestes en un lieu édifié en 1910, aujourd'hui centre de l'implantation islamique locale, à la frontière bulgare, la mosquée "Hinkar" de style maure mais dont les guides aiment à souligner qu'elle copie son homologue de Konya, capitale des derviches tourneurs en Anatolie.

Commentant ce qu'il appelle la "diplomatie des mosquées" le journal pro gouvernemental turc Zaman Today (1)⇓ souligne que, jusqu'en 2002, les diplomates turcs visitaient traditionnellement leurs compatriotes mais que, depuis l'arrivée au pouvoir de l'AKP ils se tournent désormais au-delà des Turcs, au mépris de la laïcité, vers l'ensemble de leurs coreligionnaires.

Ne doutons pas une seconde que, pour un nombre non négligeable de Turcs, le souvenir de ce grand passé impérial représente une perspective de réimplantation dans les Balkans. Davutoglou, du reste, avait fait sensation à l'automne 2009 en y proclamant "Sarajevo est notre ville". Il s'agissait là, remarquions-nous à l'époque, du premier membre d'une phrase qu'il complétait en ajoutant, à l'attention des musulmans balkaniques : "Istanbul est votre Ville". (2)⇓

La même semaine écoulée, les journalistes français présents à Tirana pour la rencontre de podosphère entre les "bleus" et l'équipe nationale albanaise ne remarquaient guère un incident ayant justifié l'intervention de la Police. En effet, les irrédentistes locaux avaient déployé dans le stade une immense banderole de 30 mètres sur 40 figurant une carte de la Grande Albanie occupant des territoires actuellement situés dans divers pays voisins dans le sud de la Serbie, au Monténégro, ou dans l'ancienne république yougoslave de Macédoine. Le moment venu, ce genre d'étincelles, montées en épingle, pourrait justifier une intervention de l'armée turque, sans même que soit levée l'hypothèque du PKK, et avec la bénédiction du Département d'État.

Il était évidemment beaucoup plus encourageant, pour nos excellents moyens hexagonaux de désinformation, de mettre en exergue les quelques gestes, attendus depuis des années et promis désormais par le chef du gouvernement Erdogan en faveur des minorités non-musulmanes qui n'ont pas encore fui le pays. Quelques hôpitaux et écoles en bénéficieront. Un bon point, pensera-t-on. Il faut se pencher attentivement sur "Zaman" pour relever qu'au moins deux catégories de chrétiens échapperont apparemment à cette libéralisation : les Syriaques et les Turcs protestants (3)⇓. Les premiers souffrent sans doute de témoigner de l'injustifiable annexion du sandjak d'Alexandrette, les seconds indiscutablement coupables de prosélytisme.

Certes on peut se féliciter de voir normaliser certains aspects des relations entre l'État turc et les organismes de bienfaisance ou religieux arméniens, grecs ou juifs. Mais on n'omettra pas non plus de remarquer que cela aussi fait partie des traditions ottomanes et des théories islamiques : les gens du Livre ont droit à un statut spécial à la fois protégé et inférieur. Ils payent un impôt particulier et sont généreusement "dispensés" du service militaire. Beaucoup d'autres choses leur sont interdites, mais ils survivent. Les lecteurs de mon livre sur "La Question turque et l'Europe" ont compris que les crimes commis au XXe siècle ont été inspirés, dans ce pays comme ailleurs, par les adeptes d'une idéologie jacobine. Aujourd'hui le mouvement de Fethullah Gulen, qui inspire le pouvoir AKP, milite pour un retour aux principes antérieurs à la république et, donc, à une plus grande tolérance à l'égard des chrétiens. On ne doit pas l'ignorer.

L'expert géopolitique Ahmet Davutoglou a jusqu'à maintenant échoué dans son programme poudre aux yeux "pas de problèmes avec nos voisins". Les problèmes existants ne sont pas résolus. D'autres sont même apparus. Mais il ne renoncera pas à sa vision tridimensionnelle de l'expansion turque, à la fois vers le Proche Orient en posant au protecteur des Arabes, vers l'Asie centrale en rivalisant avec les Russes, et en utilisant contre l'Europe les minorités islamiques.

Ne nous méprenons pas sur les bonheurs passagers de l'économie turque actuelle. Ce triple rêve tourne évidemment le dos aux derniers lambeaux des principes légués par Mustafa Kemal. Mais il confirme encore plus la grave erreur que développent encore les négociations d'adhésion de ce pays aux institutions encore fragiles de l'Union européenne.

JG Malliarakis
        
Apostilles

  1. cf. Zaman Today du 4 août 2011 article "Ahmet Davutoğlu conducts ‘mosque diplomacy’ in Balkans".
  2. cf. L'Insolent du 4 janvier 2010 "Comment les Turcs regardent leurs alliances".
  3. cf. cf. Zaman Today du 4 août 2011 article "Non-Muslims praise law to return properties, await its implementation".

    Vous pouvez entendre l'enregistrement de nos chroniques
    sur le site de

     

     

    Lumière 101

 

jeudi, 01 septembre 2011

Pour un grand empire turkmène contre Staline

Wolfgang KAUFMANN:

Pour un grand empire turkmène contre Staline

 

L’historien allemand Jörg Hiltscher a analysé les plans secrets des Turcs pendant la seconde guerre mondiale

 

seconde guerre mondiale, deuxième guerre mondiale, Turquie, panturquisme, pantouranisme, Proche Orient, Asie mineure, Asie, affaires asiatiques, Au début du mois de juillet 1942, tout semblait accréditer que la Wehrmacht allemande courait à la victoire définitive: l’Afrika Korps de Rommel venait de prendre Tobrouk et se trouvait tout près d’El Alamein donc à 100 km à l’ouest du Canal de Suez; au même moment, les premières opérations de la grande offensive d’été sur le front de l’Est venaient de s’achever avec le succès escompté: la grande poussée en avant en direction des champs pétrolifères de Bakou pouvait commencer. Tout cela est bien connu.

 

Ce qui est moins connu en revanche est un fait pourtant bien patent: au moment où les Allemands amorçaient leur formidable “Vormarsch” de l’été 42, un autre déploiement de troupes de grande envergure avait lieu au Sud-Ouest des frontières géorgiennes et arméniennes. Sur l’ordre du chef de l’état-major de l’armée turque, Fevzi Çakmak, 43 divisions, totalisant 650.000 hommes, avançaient vers les régions orientales de l’Anatolie. Il ne s’agissait évidemment pas de défendre l’intégrité territoriale de la Turquie contre une attaque potentielle de Staline car celui-ci ne pouvait opposer, dans la région transcaucasienne, que 80.000 soldats (dont des bataillons féminins et des milices arméniennes).

 

Çakmak agissait surtout comme un militant des cercles panturquistes, qui rêvaient d’une alliance avec les forces de l’Axe victorieuses, surtout l’Allemagne et le Japon, pour réaliser leurs propres ambitions de devenir une grande puissance. Ces ambitieux étaient grandes, et même fort grandes, comme l’atteste une note des affaires étrangères de Berlin, rédigée après une conversation avec le panturquiste Nouri Pacha: “De tous les territoires jusqu’ici soviétiques, ils revendiquent en premier lieu l’Azerbaïdjan et le Daghestan située au nord de ce dernier; ensuite, ils réclament la Crimée, de même que toutes les régions situées entre la Volga et l’Oural”. Une revendication complémentaire concernait “le Turkestan, y compris la partie occidentale de l’ancien Turkestan oriental, appartenant officiellement à la Chine mais se trouvant actuellement sous influence soviétique”. En plus de tout cela, Nouri réclamait “les régions peuplées d’ethnies turcophones dans la partie nord-occidentale de l’Iran, jusqu’à la ville d’Hamadan et une bande territoriale frontalière dans le nord de la Perse, depuis la pointe sud-orientale de la Mer Caspienne le long de l’ancienne frontière soviétique”. Nouri n’oubliait pas non plus de revendiquer “la région irakienne de Kirkouk et Mossoul”, de même “qu’une bande territoriale située dans le protectorat français de Syrie”.

 

En tentant de créer un grand empire de cette ampleur, la Turquie se serait bien entendu placée entre toutes les chaises... D’une part, elle serait entrée en conflit avec l’Allemagne et avec le Japon, parce que Berlin et Tokyo briguaient certaines de ces régions. D’autre part, tout ce projet constituait une déclaration de guerre implicite à l’URSS et à la Grande-Bretagne. Pour cette raison, il s’est tout de suite formé à Ankara une forte opposition aux aventuriers panturquistes, regroupés autour de Çakmak et du Premier Ministre Refik Saydam, surtout que plusieurs indices laissaient accroire qu’ils préparaient un putsch pour s’emparer de tout le pouvoir.

 

Cette situation explique pourquoi Saydam, dans la nuit du 7 au 8 juillet 1942 a eu une soudaine et très mystérieuse “crise cardiaque”, qui le fit passer de vie à trépas, et que son ministre de l’intérieur et chef des services secrets, Fikri Tuzer, qui partageait la même idéologie, a connu le même sort, quelques jours plus tard. A la suite de ces deux “crises cardiaques” providentielles, le Président anglophile et neutraliste, Ismet Inönü, fut en mesure de chasser tous les autres panturquistes du cabinet et d’isoler Çakmak. Ensuite, Inönü annonça lui-même officiellement devant la grande assemblée nationale turque qu’il disposait des moyens nécessaires pour éliminer les orgueilleux qui nuisaient aux intérêts de la Turquie.

 

Ces événements sont étonnants à plus d’un égard: si les panturquistes avaient réussi leur coup, ils auraient peut-être pu changer le cours de la guerre car la Turquie, pendant l’été 1942, disposait d’une armée d’1,2 million d’hommes, et étaient par conséquent le poids qui aurait pu faire pencher la balance. Pourtant l’historiographie a généralement ignoré ces faits jusqu’ici;  ce qui est encore plus étonnant, c’est que Hitler n’a pas appris grand chose de cette lutte pour le pouvoir à Ankara. Le Führer du Troisième Reich n’a pas été correctement informé des vicissitudes de la politique turque parce que les quatorze (!) services de renseignement allemands qui s’occupaient de glaner des informations sur la Turquie se sont montrés totalement inefficaces.

 

Le travail de l’historien Jörg Hiltscher mérite dès lors un franc coup de chapeau. Sa thèse de doctorat est enfin publiée; elle concerne, comme nous venons de le voir, la politique intérieure et extérieure de la Turquie pendant la seconde guerre mondiale. Elle démontre aussi l’inefficacité de la direction nationale-socialiste face aux questions turques. La façon de travailler de Hiltscher mérite d’être évoquée dans cette recension: notre historien a fourni un effort sans pareil, lui qui travaille dans le secteur privé; il a dépouillé et exploité près de 200.000 documents, sans avoir jamais reçu le moindre centime d’une instance publique ou d’un quelconque autre mécène. Ce qui nous laisse aussi pantois, c’est la rigueur et l’acribie avec lesquelles il a dressé un synopsis du chaos que représentait les services de renseignements du Troisième Reich. Il est le seul à l’avoir fait jusqu’ici.

 

Face à l’intensité de ce travail, nous pouvons affirmer que le titre de la thèse de Hiltscher est un exemple d’école de modestie exagérée car jamais il ne dévoile à ses lecteurs le caractère inédit et unique de ses recherches. La retenue dont Hiltscher fait preuve contraste avec l’emphase dont font montre certains historiens universitaires fats, comme Peter Longerich, qui ressassent éternellement les mêmes banalités et puisent toujours aux mêmes sources (cf. “Junge Freiheit”, n°14/2011) mais vendent leurs recherches comme de formidables exploits scientifiques ouvrant des pistes nouvelles.

 

Wolfgang KAUFMANN.

(article paru dans “Junge Freiheit”, n°33/2011; http://www.jungefreiheit.de/ ).

mardi, 30 août 2011

Türkei: Regierung unterrichtet NATO über Kriegsvorbereitungen

Türkei: Regierung unterrichtet NATO über Kriegsvorbereitungen

Udo Ulfkotte

Vor wenigen Monaten noch begründeten viele EU-Politiker die Notwendigkeit der Aufnahme der Türkei in die EU mit dem großen Wirtschaftswachstum des Landes. Jetzt aber geht es mit der türkischen Wirtschaft steil bergab. Um das Volk abzulenken, bereitet die Regierung nun (für die Zeit nach dem Ende Gaddafis in Libyen) Krieg gegen das türkische Nachbarland Syrien vor. Die türkische Wirtschaft erlebt ein Desaster: Die Lira wurde seit Jahresbeginn gegenüber dem Euro um 25 Prozent abgewertet. Immer mehr junge Türken sind arbeitslos. 95 Prozent der Bevölkerung sind hoffnungslos überschuldet. Diplomaten berichten, dass mehr als 2 Millionen junge Türken nach Europa wollen. Mit dem Krieg gegen Syrien will man die Lage wieder in den Griff bekommen.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/udo-ulfkotte/tuerkei-regierung-unterrichtet-nato-ueber-kriegsvorbereitungen.html

lundi, 22 août 2011

IRAN-USA: la grande parodie

IRAN – USA : la grande parodie

par Jean-Marc Desanti

Ex: http://leschevaliersnoirs.hautetfort.com/

«  Le pouvoir n'existe plus que comme parodie  »

(Jean Baudrillard )

 

Il n'existe pas entre états stables de tensions irréductibles car il n'y a pas entre gouvernements de relations établies «  une fois pour toutes  ». Les adversaires d'hier deviennent les amis d'aujourd'hui et les alliés de demain, parce que la nature même de tout pouvoir est de survivre en développant une politique prioritairement conforme à ses intérêts, c'est à dire, en termes moins élégants, de tout faire pour durer.

 

Les USA et l'Iran ont , officiellement, connu une amitié réciproque jusqu'à la chute du Shah, puis en apparence, depuis vingt ans, de violentes tensions qui semblaient se cumuler durant le conflitIran-Irak. En réalité l'administration américaine de Reagan misa très concrètement sur Téhéran en organisant des livraisons massives d'armes par l'intermédiaire d'Israël. Ce qu'on nomma « l'Irangate » apparaissait comme incompréhensible aux yeux de beaucoup de « spécialistes », l'explication était pourtant simple : Face au « matérialisme » soviétique l'islamisme était favorisé. En vendant des armes aux iraniens les États-Unis faisaient d'une pierre deux coups.

D'une part ils se servaient des profits engrangés pour soutenir « les contras » qui combattaient les Sandinistes soutenus par l'URSS au Nicaragua et d'autre part nourrissaient la lutte armée contre l'Irak, faisant plus de 500 000 morts, qui avait le soutien de Paris et de Moscou.

 

Puis, les évènements continuèrent à resserrer les liens très discrets mais très étroits entre Washington et Téhéran. En 1998, 70 000 hommes des forces terrestres et aériennes iraniennes, appartenant aux pasdaran (gardiens de la révolution) et aux bassidji (milices islamiques) se massèrent à une cinquantaine de kilomètres de la frontière afghane en menaçant d'intervenir pour écraser les talibans. C'est à cette époque que la Vevak ( services secrets iraniens ) établit des contacts avec le commandant Massoud. C'est à cette époque aussi que la Vevak et la CIA s'entendirent sur le plan de soutien et de secours aux forces de Massoud. Téhéran était, d'ailleurs, déjà engagé dans le conflit, ses avions ravitaillant en vivres et en armes depuis des mois l'Hazarajat, une région du centre de l'Afghanistan, tenue par les milices chiites hazaras, alliées de Massoud et que les talibans n'avaient pas encore conquises.

 

Aussi lorsque le premier décembre 2001 l'US Air Force commença les bombardements sur Tora Bora, elle put bénéficier de l'ouverture de l'espace aérien iranien pendant deux mois.

 

Mieux encore, en 2003, l'armée américaine est partie du Koweit vers Bagdad, via le désert de Nassiriyah, les brigades de l'organisation Badr avec leurs 15000 hommes ( réfugiés et transfuges chiites irakiens ayant combattu avec les iraniens pendant la guerre irano-irakienne ) étaient déjà entrées depuis la côte d'Al Imara et de Sa'd Algharbi pour protéger les arrières de l'armée américaine. C'est à ce moment-là aussi que les Iraniens proposèrent aux Etats-Unis le fameux accord 6+6 , les six pays frontaliers de l'Irak, plus les USA et les pays du Conseil de sécurité, plus l'Égypte... Ce qui fut appliqué, dans les faits, malgré les dénégations embarrassées des diplomates US.

 

Pour le Pentagone, les iraniens sont des gens censés avec lesquels on peut faire « de bonnes affaires », la réciproque est vraie.

 

Depuis une dizaine d'années, il n'est pas de mois où l'on n'annonce une attaque américano-israélienne ou israélienne ou américaine contre l'Iran. Les experts les plus avisés nous exposent avec précision le déroulement des opérations futures, escomptant bien qu'avec le temps , ils auront forcément un jour raison …

 

Mais il n'en est rien et pour cause.

 

Les américains ont pu, grâce au puissant allié chiite, pacifier l'Irak, c'est à dire morceler le pays en le laissant sous forte influence iranienne.

 

Les iraniens, toujours inquiets et en opposition face au monde arabe sunnite, ont réussi par Gi interposés à détruire Bagdad l'orgueilleuse et même, par ricochet, à s'introduire et à remporter de grandes victoires en imposant le Hezbollah dans le jeu compliqué entre le Liban, la Syrie et Israël.

 

Le reste, recette médiatique rabâchée de l'intox et de la peur, n'est qu'un rideau de fumée , des gesticulations à usage interne.

 

Le USA PATRIOT Act n'est-il pas indispensable au capitalisme d'état américain pour expliquer ses atteintes aux droits fondamentaux face à l'apocalypse d'un nucléaire iranien ?

 

De même la répression de toute opposition par les bassidji ne trouve-t-elle pas sa parfaite justification dans les manœuvres supposées destructrices du « grand Satan » ?

 

Mais observons, de plus près, les dernières trouvailles des deux présumés protagonistes.

 

On parle de plus en plus du PJAK, groupe révolutionnaires armé kurde créé en 2004, d'inspiration marxiste et féministe ( la moitié des combattants sont des femmes ).

 

Ce groupe perpétrerait des attentats à la frontière de l'Irak et de l'Iran.

Le 4 Février 2009, Barrack Obama décréta le PJAK , comme groupe international terroriste. Cet acte gouvernemental américain n'est-il pas un soutien direct au gouvernement iranien ?

 

Quel genre de conception est-ce ? Pourquoi le président américain prend-t-il cette décision et choisit-il de ne pas soutenir la démocratie et les droits des groupes minoritaires en Iran comme les Kurdes, les Azéris, les Assyriens, les Juifs ou les Arabes ? 

 

Le gouvernement américain sait pourtant bien que les droits des Kurdes n'ont pas été reconnus pendant un siècle. Comment se fait-il alors que le président Obama s'oppose aux droits fondamentaux tels que le respect de toute culture et le libre apprentissage de sa langue maternelle ?

 

Ce volontarisme politique soutient-il le gouvernement iranien pour lui permettre de continuer son « alliance » avec le Pentagone, et le gouvernements turc afin que la Turquie puisse rester membre de l'OTAN ? 

 

Le régime iranien craint-il les militants du PJAK parce qu'ils sont pour la démocratie ?

 

Il semble, curieusement, que l'administration Obama ne supporte pas la lutte pour la démocratie en Iran.

 

De même, elle montre une patience peu commune et une prudence inhabituelle dans ses commentaires, concernant les évènements sanglants en Syrie. Le peuple kurde qui a vécu en Syrie des milliers d'années, avant même l'arrivée des Arabes au Moyen-Orient, n'a pas obtenu la citoyenneté syrienne, et est le premier à payer le prix du sang aujourd'hui.

 

Est-ce donc la raison pour laquelle on laisse la répression durer et se renforcer encore ?

 

« Nous avons des rapports de nos frères à l'intérieur de l'appareil de sécurité iranien qui démontrent que des généraux turcs sont venus en Iran pour préparer l'écrasement du PJAK et faire porter, à l'organisation,la responsabilité d'actes terroristes réalisés par des provocateurs », a déclaré Amir Karimi, membre du Comité de coordination du PJAK. 

 

« Ce plan de terreur fait partie de leur tentative pour obtenir de l'Union européenne de rallier les États-Unis afin de répertorier le PJAK comme un groupe terroriste ».

 

Pendant ce temps, en Europe, le régime iranien a envoyé quelques tueurs à gages en l'Allemagne pour abattre le secrétaire général du PJAK, Rahman Haji Ahmadi. 

 

« La police allemande a appelé la semaine dernière Ahmadi pour l'avertir que trois tueurs iraniens, utilisant des passeports turcs, avaient emménagé dans un appartement près de l'endroit où il vit  », a déclaré le porte-parole du PJAK . « Ils lui ont demandé d'être prudent, mais ne lui ont offert aucune protection  ».

 

Comment comprendre de telles circonvolutions ?

 

Il nous suffit de regarder une carte du «  grand Moyen -Orient », projet US machiavélique déjà largement engagé.

 

Ainsi, si on y voit un Kurdistan « libre » avec pour capitale Kirkouk, où les kurdes représentaient les trois quarts de la population en 1897, avant d'être massacrés dès 1980 par le régime arabe d'Hussein, avec l'aide et la complicité des turcs et des iraniens, on observe aussi que l'Iran débarrassé au nord – ouest des kurdes, récupérerait, au sud-ouest, une vaste zone appelée «  états arabes chiites  », entourant le Koweït et ayant une frontière commune avec les «  territoires intérieurs saoudiens indépendants  », une partie de l'Arabie saoudite démembrée.

 Il est à craindre qu'une fois de plus, ayant toujours besoin de barbouzes pour leurs opérations très spéciales, la NSA, avec l'aide du MIT turc ( Millî İstihbarat Teşkilatı ) et de la Vevak n'ait encore créé, un nouveau Al Qaida ou une nouvelle UCK, manipulables à souhait, qu'elle agite , qui parfois lui échappe, mais qui donne l'impression, l'illusion fausse qu'il se passe « quelque chose » , que demain peut-être les rapports de force basculeront.

 

Mais tout est sous contrôle. Le logiciel suit sa progression. Tous les paramètres ont été rentrés, les hypothèses élaborées sont testées et corrigées en temps réel.

 

N'oublions pas, Oncle Sam ne sort de son grand chapeau que le meilleur scénario possible à ses yeux.

 

Pour les petits James Bond obéissants comme Oswald, Diem, Bakhtiar, Moro, Kabila ou Ben Laden , leurs destinées, nous le savons, est de finir truffés de plomb car les états ne s'opposent jamais. Il peut y avoir, seulement, des changements d'équipes, des rotations de mafias ( pour ceux qui transgressent les règles du Monopoly mondial ). On sort les « caves » de la salle de jeu pour ne garder que les « affranchis ».

 

Les états sont, ne l'oublions pas, le « game », le casino, la banque.

Le lieu où se décident les règles à suivre impérativement, les pauses, les clients qui gagnent un peu, les mensonges, les stratégies et les trahisons, bref ce qui fait que la banque ne perd jamais.

 

Jean-Marc DESANTI

 

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dimanche, 07 août 2011

La contesa geopolitica sino-statunitense

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La contesa geopolitica sino – statunitense

Giacomo Giabellini
 
Ex: http://www.eurasia-rivista.org/ 

 

Che la prorompente ascesa di svariati paesi abbia assestato un duro colpo all’assetto mondiale incardinato sull’unipolarismo statunitense è un fatto che pochi oseranno contestare.

La resurrezione della Russia sotto l’autoritaria egida di Putin affiancata all’affermazione della Cina al rango di grande potenza costituiscono i due principali fattori destabilizzanti in grado di ridisegnare i rapporti di forza a livello internazionale.

 

Se la Russia, tuttavia, ha potuto contare sulla monumentale eredità sovietica, la Cina ha fatto registrare un progresso politico ed economico assolutamente straordinario.

 

Il lungimirante progetto di ristrutturazione messo a punto in passato da Deng Xiao Ping ha inoppugnabilmente svolto un ruolo cruciale nell’odierno riscatto cinese e tracciato un solco profondo entro il quale sono andati a collocarsi tutti i suoi successori, da Jang Zemin a Hu Jintao, passando per Jang Shangkun.

 

Come tutti i paesi soggetti a forte sviluppo economico, la Cina si trova a dover soddisfare una crescente seppur già esorbitante domanda di idrocarburi.

 

Per farlo, è costretta ad estendere la propria capacità di influenza ai paesi produttori Medio Oriente e a quelli dell’Africa orientale attraverso i territori dell’Asia centrale e le vie marittime che collegano il Golfo Persico al Mar Cinese Meridionale.

 

In vista di tale scopo, la diplomazia cinese ha escogitato una efficace strategia diplomatica imperniata sul principio della sussidiarietà internazionale e profuso enormi sforzi per dotarsi di un esercito capace di sostenere gli ambiziosi progetti egemonici ideati dal governo di Pechino.

 

L’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai – che raggruppa Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tajikistan, e Uzbekistan e che annovera Iran, Pakistan, India e Mongolia in qualità di osservatori – patrocinata dalla Cina ha promosso una partnership strategica tra i paesi aderenti ad essa atta a favorire un’integrazione continentale in grado di far ricadere cospicui vantaggi su tutto l’insieme.

 

In aggiunta, va sottolineato il fatto che è in fase di consolidamento l’asse Mosca – Pechino nello scambio tra armamenti e petrolio.

 

La Cina acquista gran parte delle proprie forze militari dalla Russia dietro congrui conguagli e costituisce il primo cliente per il mercato bellico russo.

 

Caldeggia la realizzazione di una pipeline che attinga dai giacimenti russi e faccia approdare petrolio ai terminali cinesi, trovando però l’opposizione della Russia, incapace di far fronte tanto alla domanda cinese quanto a quella europea.

 

In compenso, Mosca sostiene la realizzazione del cosiddetto “gasdotto della pace”, un corridoio energetico finalizzato a far affluire il gas iraniano in territorio cinese attraverso Pakistan ed India, in grado di orientare gli idrocarburi iraniani verso est e consentendo in tal modo alla Russia di assestarsi su una posizione assolutamente dominante ed incontrastata sul solo mercato europeo.

 

Ruggini vecchie e nuove hanno impedito la rapida realizzazione dei progetti in questione portando il governo di Pechino ad individuare soluzioni alternative.

 

Non a caso, uno dei grandi scenari in cui si gioca attualmente la partita tra gli Stati Uniti in declino ma decisi a vender cara la pelle e la rampante Cina in piena ascesa economica è l’Africa, che grazie alle sue immense risorse di idrocarburi (e materie prime) costituisce l’oggetto del desiderio tanto dell’una quanto dell’altra potenza.

 

La Storia insegna sia che la scoperta di giacimenti di idrocarburi nelle regioni povere costituisce il reale movente dei conflitti che vedono regolarmente fazioni opposte combattere aspramente, quasi sempre a danno della popolazione, per garantirsene il controllo sia che dietro di esse si celano direttamente o indirettamente quelle grandi potenze interessate ad estendere la propria egemonia geopolitica.

 

Sudan, Nigeria, Congo, Angola, Yemen, Myanmar (l’elenco è sterminato).

 

La penetrazione di Pechino in Africa è proceduta gradualmente, ma il consolidamento di essa è stato reso possibile solo grazie ai passi da gigante fatti registrare dalla marina cinese.

 

Dietro suggerimento dell’influente ammiraglio Liu Huaqing, il governo di Pechino aveva infatti sostenuto il progetto riguardante l’adozione di sottomarini classe Kilo e di incrociatori classe Sovremenniy, oltre al potenziamento dei sistemi di intelligence e delle tecnologie militari necessarie a supportare una flotta efficiente ed attrezzata di tutto punto per fronteggiare qualsiasi tipo di minaccia.

 

Il Primo Ministro Hu Jintao e suoi assistenti di governo hanno inoltre potuto approfittare della risoluzione ONU di fine 2008 finalizzata alla repressione della pirateria del Corno d’Africa per insinuare la propria flotta fino al Golfo Persico e al largo del litorale di Aden, don licenza di sconfinare in aperto Mediterraneo attraverso il Canale di Suez.

 

La pirateria, ben supportata dal caos politico che governa la Somalia, in questi ultimi anni ha esteso consistentemente il proprio raggio d’azione arrivando a lambire le coste dell’Indonesia e di Taiwan ad est e del Madagascar a sud.

 

Ciò ha effettivamente sortito forti ripercussioni sui traffici marittimi internazionali, portando circa un terzo delle cinquemila imbarcazioni commerciali che transitavano annualmente per quella via a propendere per il doppiaggio del Capo di Buona Speranza pur di evitare di imboccare il Canale di Suez.

 

Ciò ha comportato un dispendio maggiore di denaro dovuto alla dilatazione dei tempi di trasporto e rafforzato le ragioni della permanenza della flotta cinese lungo le rotte fondamentali.

 

Tuttavia l’opera di contrasto alla pirateria – sui cui manovratori e membri effettivi ben poca luce è stata fatta – si colloca in un piano del tutto secondario nell’agenda cinese, interessata prioritariamente ad assumere il controllo delle rotte marittime fondamentali e dei paesi che si su di esse si affacciano.

 

Di fondamentale importanza a tale riguardo risultano gli stretti di Malacca e Singapore, specialmente in forza della quantità di petrolio che vi transita, ben tre volte superiore a quella che transita attraverso il Canale di Suez.

 

Circa quattro quinti dei cargo petroliferi provenienti dal Golfo Persico destinati alla Cina passa per lo Stretto di Malacca, mentre gran parte di quelli diretti al Giappone passano per quello di Singapore.

 

E’ interessante notare come, di converso, gli Stati Uniti e i loro alleati abbiano agito pesantemente per destabilizzare i paesi che costituiscono l’asse portante della strategia cinese.

 

La secessione del Sudan del Sud dal governo centrale di Khartoum ha minato l’integrità della Repubblica del Sudan privandola dell’area ricca di petrolio e compromettendone gran parte degli introiti legati alle esportazioni.

 

Nel fomentamento dei dissidi si è intravista la mano pesante di Israele, che per ammissione dello stesso ex direttore dello Shin Bet Avi Dichter aveva sostenuto attivamente le forze indipendentiste del sud.

 

Un’operazione atta a privilegiare le etnie e le tribù meridionali invise alla preponderanza araba del resto del paese, che segna una logica soluzione di continuità rispetto alla classica strategia antiaraba propugnata da Tel Aviv, interessata costantemente a stringere legami con i paesi regionali non arabi.

 

Gli Stati Uniti, dal canto loro, avevano rifornito di aiuti i paesi limitrofi al Sudan affinché sovesciassero il governo centrale di Khartoum fin dall’era Clinton, mentre attualmente si sono “limitati” a stanziare corpose iniezioni di denaro a contractors privati incaricati di addestrare le frange secessioniste.

 

La Cina era il principale sponsor del presidente sudanese Omar Hassan El Bashir, con il quale erano stati regolarmente barattati tecnologie, armamenti e infrastrutture in cambio di petrolio.

 

Un altro paese fortemente destabilizzato in relazione alla sua posizione strategicamente cruciale è lo Yemen, cui gli Stati Uniti hanno richiesto con insistenza la concessione dell’isola di Socotra per installarvi una base militare che, se unita alla Quinta Flotta stanziata nel vicino Bahrein, formerebbe la principale forza militare dell’intero Golfo Persico.

 

L’isola si situa a metà strada tra il Mar Rosso e l’Oceano Indiano ed occupa una posizione che coincide con il crocevia delle rotte commerciali che collegano il Mediterraneo, mediante il Canale di Suez, al Golfo di Aden e al Mar Cinese Meridionale.

 

Myanmar è stato invece oggetto di una vera e propria rivoluzione colorata, quella “color zafferano” che deve il suo nome al colore delle vesti indossate dai monaci buddhisti protagonisti delle rivolte antigovernative.

 

Non è un segreto che la giunta militare guidata dall’enigmatico generale Than Shwe si sia resa responsabile di efferatezze che la rendono difficilmente difendibile, ma siccome gli stati non hanno mai conformato il proprio operato alle tavole della legge morale non stupisce che il sostegno statunitense accordato alle frange rivoltose non abbia nulla a che vedere con la tutela dei diritti umani, ma risponda a ben precisi obiettivi geopolitici.

 

Il dominio degli stretti di Malacca e Singapore consente infatti di esercitare un controllo diretto sugli approvvigionamenti energetici destinati alla Cina.

 

La Cina ha però effettuato le proprie contromosse, fornendo il proprio appoggio politico all’isolato governo di Rangoon e raggiungendo con esso accordi commerciali e diplomatici di capitale importanza strategica.

 

Pechino ha rifornito la giunta militare al potere di armamenti e tecnologie militari, ha stanziato fondi sostanziosi per la costruzione di numerose infrastrutture come strade, ferrovie e ponti.

 

In cambio, ha ottenuto il diritto di sfruttare i ricchi giacimenti gasiferi presenti sui fondali delle acque territoriali ex birmane oltre a quello di dislocare le proprie truppe e di installare basi militari nel territorio del Myanmar.

 

Alla luce dei fatti, risulta che il Myanmar corrisponda a un segmento fondamentale del “filo di perle” concepito da Pechino, l’obiettivo strategico che prevede l’installazione di basi militari in tutti i paesi del sud – est asiatico che si affacciano sull’oceano indiano.

 

Tale obiettivo è oggettivamente favorito dall’evoluzione dei rapporti tra Pakistan e Stati Uniti, in evidente rotta di collisione.

 

Islamabad ha mal digerito tanto le accuse di connivenza con il terrorismo rivolte ai propri servizi segreti (ISI) quanto le sortite unilaterali compiute dai droni statunitensi in territorio pakistano e ha giocato sulla centralità mediatica di cui è stato oggetto il poco credibile blitz che avrebbe portato all’uccisione di Osama Bin Laden per esternare pubblicamente la propria ferma protesta nei confronti dell’atteggiamento di Washington, che ha a sua volta replicato aspramente per bocca del Segretario alla Difesa Robert Gates e poi  per il suo successore Leon Panetta.

 

Ciò ha spinto Pechino a scendere in campo al fianco del Pakistan, suscitando il plauso del Presidente Ali Zardari.

 

Tuttavia le relazioni tra Cina e Pakistan erano in fase di consolidamento da svariati mesi e hanno prodotto risultati letteralmente allettanti.

 

La realizzazione del porto sia civile che militare di Gwadar, dal quale è possibile dominare l’accesso al Golfo Persico,  è indubbiamente il più importante di essi.

 

Il progetto in questione comprende inoltre la costruzione di una raffineria e di una via di trasporto in grado di collegare lo Xinjiang al territorio pakistano.

 

Un valore aggiunto al porto di Gwadar  è già stato inoltre conferito dall’intesa raggiunta con Islamabad e il governo di Teheran relativa alla realizzazione di un corridoio energetico destinato a far approdare il gas iraniano ai terminali cinesi.

 

In tal modo  lo sbocco portuale di Gwadar promette di divenire una dei principali snodi commerciali per l’energia iraniana, attirando Teheran verso l’orbita cinese e consentendo quindi al governo di Pechino di inanellare un’ulteriore gemma alla propria “collana di perle”.

 

 

 

La chiara vocazione eurasiatica del progetto cinese ha ovviamente suscitato forti preoccupazioni presso Washington, che non mancherà di lastricare di mine la nuova “via della seta” finalizzata a compattare il Vicino e Medio Oriente all’Asia orientale e suscettibile di sortire forti contraccolpi sulla politica energetica europea, destinata a legarsi indissolubilmente alla Russia.

 

samedi, 06 août 2011

Le cauchemar pakistanais

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Le cauchemar pakistanais

Afghanistan, Pakistan, Inde: Pourquoi la guerre dans l’Hindou-Kouch va durer encore longtemps

par Jürgen Rose*

Ex: http://www.horizons-et-debats.ch/

AFPAK: c’est ainsi que les géostratèges appellent le théâtre des hostilités dans l’Hindou-Kouch qui oppose deux acteurs étroitement liés: l’Afghanistan et le Pakistan. Ces deux Etats sont davantage liés que séparés par une frontière longue de 2640 kilomètres qui traverse le territoire de 40 millions de Pachtounes, divisés en 65 tribus, qui vivent le long de cette ligne. Cette frontière est traversée quotidiennement par quelque 200 000 de ces personnes. C’est sous le couvert de cet incessant flux humain que tous les combattants irréguliers peuvent se déplacer entre leurs zones d’opérations en Afghanistan et leurs zones de repli au Pakistan, combattants qui, par leur guérilla, infligent depuis des années des pertes de plus en plus importantes aux troupes d’occupation internationales dans l’Hindou-Kouch.
Cette situation constitue la raison principale pour laquelle le président George W. Bush avait déjà ordonné des opérations de commando de ses Special Forces et des attaques de drones sur le territoire du Pakistan. Fraîchement entré en fonctions, Barack Obama, couronné du prix Nobel de la paix à Oslo, a ordonné d’intensifier ces lâches attaques de drones – pilotées depuis des postes de commandement inattaquables aux Etats-Unis, loin du théâtre des hostilités – qui font des quantités de victimes civiles innocentes. En outre, le chef de guerre du Bureau ovale exerce des pressions de plus en plus fortes sur Islamabad pour que l’armée pakistanaise «enfume» les nids de résistance et les zones de repli de la guérilla dans les zones tribales de la North West Frontier Province (NWFP) afin de mettre fin au conflit en Afghanistan.
Toutefois, cette stratégie, qui mise sur une victoire militaire sur la guérilla semble condamnée à l’échec. En effet, elle ignore des paramètres fondamentaux qui déterminent la politique pakistanaise, surtout la situation difficile dans laquelle se trouve enfermé le Pakistan entre l’Afghanistan à l’ouest et l’Inde à l’est. Cette situation conflictuelle a été désignée par l’acronyme plus approprié d’AFPAKIND. Ce «dilemme sandwich» résulte du conflit existentiel dans lequel se trouve le Pakistan, depuis sa fondation, avec la grande puissance nucléaire qu’est l’Inde dont la manifestation la plus visible est le conflit à propos du Cachemire qui a fait l’objet de trois guerres mais n’est toujours pas résolu.
L’engagement indien en Afghanistan ne peut qu’inquiéter les généraux pakistanais qui voient de toute façon leur pays menacé en permanence sur son front oriental. C’est que là-bas, pour ainsi dire à l’arrière du Pakistan, l’Inde n’a pas seulement créé un réseau de bases de ses Services secrets RAW appelées officiellement «consulats» ou «centres d’information». De là elle apporte notamment un soutien à des rebelles séparatistes dans la province pakistanaise du Béloutchistan et pilote des attaques de cibles situées au Pakistan. En outre, Delhi amène ses conseillers militaires à former également les forces armées afghanes (ANA) et investit d’importantes sommes d’argent dans la reconstruction et le développement de cet Etat d’Asie centrale. Dans ce but, elle coopère surtout avec les forces de l’Alliance du Nord que les Etats-Unis ont catapulté au pouvoir en 2001 et en même temps avec le régime taliban pachtoune soutenu par les Services de renseignements «Inter Services Intelligence» (ISI) et l’armée qui sert de représentant des intérêts stratégiques du Pakistan.
Il n’y a donc rien d’étonnant à ce qu’Islamabad associe le régime de Kaboul, de plus en plus lié à l’Inde, avec le développement d’un «Front occidental» visant à soutenir le terrorisme au-delà de la frontière du Pakistan et le considère comme un ennemi. L’importante menace pour ses intérêts stratégiques qui en résulte a pour conséquence que les militaires pakistanais, avec l’aide de l’ISI, continuent de soutenir de toutes leurs forces la résistance afghane selon la devise «L’ennemi de mon ennemi est mon ami.» Robert D. Blackwill, analyste américain réputé, a noté récemment à ce sujet dans un article de Foreign Affairs ce qui suit: «L’Armée pakistanaise, dominée par son attitude hostile à l’Inde et le désir de profondeur stratégique ne va ni cesser de soutenir les talibans afghans qui, pendant de nombreuses années, ont défendu leurs intérêts et de leur offrir un sanctuaire, ni accepter un Afghanistan vraiment indépendant.» Cette résistance, constituée avant tout des talibans, du réseau Haqqani et des combattants de Gulbuddin Hekmatyar, se recrute avant tout parmi les Pachtounes vivant de part et d’autre de la frontière afghano-pakistanaise. En sous-main, les militaires pakistanais concèdent sans détours qu’ils collaborent naturellement avec ces groupements parce qu’ils ont besoin en Afghanistan d’alliés sur lesquels ils puissent compter.
Pour Islamabad, le caractère fâcheux de cette situation consiste dans le fait qu’il doit d’une part soutenir la lutte des résistants afghans contre les troupes d’occupation internationales jusqu’à ce qu’elles s’en aillent afin que les forces valables pour une alliance contre l’Inde reprennent le pouvoir à Kaboul. L’ex-chef de l’ISI, le général de division Asad M. Durrani, a déclaré à ce sujet lors d’une interview menée par l’auteur de ces lignes: «Nous essayons naturellement de maintenir absolument le contact avec toutes les forces de la résistance et en particulier avec les talibans depuis qu’ils sont venus au pouvoir en 1995 en Afghanistan. Mais je serais personnellement très reconnaissant si l’ISI soutenait la résistance afghane. En effet, c’est seulement si la résistance afghane – celle des «nouveaux talibans», pas celle du mollah Omar – demeure suffisamment forte que les troupes étrangères se retireront. Sinon, elles resteront. […] Même si, depuis 2001, cela ne correspond plus à la position officielle du gouvernement pakistanais, les talibans, qui s’opposent aux forces d’occupation en Afghanistan, mènent à mon avis notre guerre au sens où, s’ils réussissent, les troupes étrangères se retireront. Mais s’ils échouent et si l’Afghanistan reste sous domination étrangère, nous continuerons d’avoir des problèmes. Si L’OTAN, la puissance militaire la plus forte du monde, s’incruste pratiquement à la frontière pakistanaise pour des raisons d’intérêts économiques et géopolitiques – songez au new great game – cela créera un énorme malaise au Pakistan.»
D’autre part cependant les forces armées pakistanaises, pour empêcher, en territoire pakistanais, des opérations militaires de plus grande ampleur que la guerre des drones et les opérations de commando des Special Forces, se voient contraintes, en tant qu’alliées des Etats-Unis dans la «guerre contre le terrorisme», d’intervenir contre les combattants irréguliers. Cette situation conflictuelle constitue en quelque sorte la garantie fatale que la guerre dans l’Hindou-Kouch durera aussi longtemps que les troupes occidentales d’occupation resteront dans le pays et que le conflit existentiel pakistano-indien ne sera pas résolu, celui-ci n’étant certes pas forcément dans l’intérêt absolu des généraux pakistanais car la paix avec l’Inde exposerait l’Etat et la société à une pression de légitimité durable et mettrait en péril l’aide considérable des Etats-Unis en matière d’armement. Dans ce contexte, l’assassinat du chef terroriste Oussama ben Laden, salué par le gouvernement Obama comme un succès politique éclatant, n’aura que peu d’influence sur la guerre en Afghanistan, d’autant plus que la politique d’occupation de l’«unique grande puissance» va de toute façon se poursuivre indéfiniment étant donné ses intérêts stratégiques et géoéconomiques à long terme, malgré toutes les déclarations sur le retrait des troupes. Par conséquent tout laisse penser que ces prochaines années, on va continuer à mourir et à tuer copieusement dans le lointain Hindou-Kouch, avec la participation fidèle de la vassale des Etats-Unis qu’est la Bundeswehr, cela s’entend.    •

Il faut cesser de livrer des armes a Benghazi

Le ministre russe des Affaires étrangères, Lavrov, a reproché à son homologue français Juppé, lors d’une visite à Moscou la semaine passée, d’avoir interprété les résolutions de l’ONU d’une manière très libre. […]
Lundi, le président d’Afrique du Sud, Zuma, avait présenté le nouveau plan de paix de l’Union africaine au président russe Medvedjew et au secrétaire général de l’OTAN Rasmussen lors de pourparlers à Sotchi. Des diplomates ont rapporté, qu’un cessez-le-feu était prévu, qui pourrait aboutir, par un dialogue national et une phase transitoire, finalement à une démocratie et des élections.

Source: «Frankfurter Allgemeine Zeitung» du 6/7/11

L’Union africaine: Ne pas arrêter Kadhafi

Tripolis, le 3 juillet (dapd). Le Président de la Commission de l’Union africaine, Jean Ping, a invité tous les gouvernements du continent à ignorer le mandat d’arrêt de la Cour pénale internationale contre le chef d’Etat libyen Kadhafi. Le tribunal de la Haye a été «discriminatoire» et poursuit uniquement des crimes commis en Afrique tout en ignorant ceux que les puissances occidentales ont commis en Irak, en Afghanistan ou au Pakistan, a déclaré Ping vendredi soir.

Source: «Frankfurter Allgemeine Zeitung» du 4/7/11

jeudi, 04 août 2011

Guerre contre l'Europe

Pour Burak Turna, l'image qu'ont les Turcs de l'Europe inspire le conspirationnisme. L'Europe est perçue comme terre de conquête.

Guerre contre l’Europe

par Tancrède JOSSERAN
 
Guerre contre l'Europe
 
Alors que les négociations avec l’Union européenne sont entrées dans une phase de doute, un puissant courant eurosceptique est en train d’émerger en Turquie. L’un des succès de librairie les plus significatifs de ces derniers mois : « La troisième guerre mondiale » (1), décrit dans un futur proche l’invasion de l’Europe par l’armée turque.

Avec la « Troisième guerre mondiale », (Üçüncü dünya Savasi), Burak Turna (photo) récidive le succès de son précédent roman de politique fiction : « Tempête de métal » (500 000 exemplaires vendus). Il ne s’agit plus cette fois pour l’auteur d’imaginer l’attaque de la Turquie par les États-Unis, mais de mettre en scène une vaste confrontation à l’échelle planétaire entre l’Orient et l’Occident. Dans le climat d’incertitude et de méfiance qui prévaut aujourd’hui dans les relations entre la Turquie et l’Union Européenne et, plus globalement, de l’Occident avec le monde musulman, le livre de Burak Turna apparaît comme un véritable miroir de l’image que les Turcs se font et de l’Europe, et d’eux-mêmes. C’est cette vision tendue, pleine de contradictions, oscillant entre désir et rejet, que cette œuvre de fiction, bien que confuse et manichéenne, permet d’appréhender.

L’Orient contre l’Occident

En 2010, une crise économique d’ampleur mondiale provoque l’effondrement des principales places financières de la planète, les unes après les autres. Profitant du chaos ainsi généré, une société secrète, « la fraternité des chevaliers de la mort » alliée au Vatican, déclenche une guerre à l’échelle planétaire. Le but final de la mystérieuse confrérie étant l’instauration d’ « un État mondial » (2) blanc et chrétien. Pour ce faire, cette société encourage la dialectique du choc des civilisations à travers le monde, en manipulant les mouvements identitaires et populistes en Europe, ainsi que des sectes comme la Falong en Chine. L’Allemagne, l’Autriche, la Hollande, la France sont en proie à une vague de pogroms contre les musulmans, et plus particulièrement contre les Turcs. Ce déchaînement de violence, touche aussi les ressortissants russes des pays baltes, ce qui force Moscou à intervenir. De même, la tension entre la Chine et les États-Unis pour le contrôle du Pacifique, débouche sur une opération aéronavale à Taiwan. L’Inde, alliée à la Chine, profite de la confusion générale pour anéantir la flotte américaine dans sa base de Diego Garcia et s’emparer des possessions françaises dans l’Océan Indien.
Décidés à mettre fin aux exactions contre leurs ressortissants, Ankara et Moscou alliées au tandem Pékin-New-Dehli unissent leurs efforts militaires. Une spectaculaire opération aéroportée est menée contre l’Allemagne. Les parachutistes turcs, largués par des Antonovs, hissent l’étendard écarlate frappé du croissant sur le Reichstag. Les Américains, trop occupés à faire face aux Chinois dans le Pacifique, abandonnent leurs alliés européens. Un nouvel ordre continental émerge des décombres de l’ancienne Europe dont la capitale est transférée à Istanbul.

Tout au long du récit l’auteur prend bien soin de ne pas isoler l’Islam des autres civilisations non-occidentales. Aussi, l’axe islamo-orthodoxo-hindou-confucéen créé pour la circonstance, valide davantage la thèse du choc entre l’Orient et l’Occident, qu’entre ce dernier et l’Islam. Comme Samuel Huntington avant lui, Burak Turna fait de la Russie un corps étranger à l’Europe en la plaçant dans le camp de l’Orient. En dépit de cette volonté de faire passer au second plan le facteur religieux et les divergences propres à chacune des civilisations de « l’axe oriental », l’auteur à quelque peine à expliquer la disparition des conflits entre musulmans et chrétiens dans le Caucase, l’apaisement subit des tensions dans le Cachemire et au Singkiang (Kirghizstan chinois). Finalement, le grand paradoxe de cet ouvrage réside dans cette volonté des Turcs à vouloir se faire accepter comme Européens en se comportant en conquérants, tout en rejetant l’identité occidentale.

L’Europe une terre de conquête ?

Ultime cap de l’Asie, point d’aboutissement des invasions, marche occidentale de l’Empire ottoman et extrémité nord-occidentale de l’avancée arabe, l’Europe demeure dans l’imaginaire turc un espace d’expansion. Dans une certaine mesure, le processus d’adhésion à l’UE est vécu comme une revanche sur l’Histoire, et la continuation des guerres ottomanes par d’autres moyens. Il est significatif qu’au lendemain de la validation de la candidature d’Ankara par le conseil des ministres des Vingt-Cinq, dans la capitale autrichienne, en décembre 2004, un grand quotidien turc ait titré « Vienne est tombée ! ». Au retour de son périple européen, Erdogan était accueilli triomphalement à Istanbul et surnommé : le « conquérant de l’Europe ».

Malgré son appartenance à un milieu laïc et occidentalisé, Burak Turna reste lui-même marqué par cette rhétorique belliciste. Dans son livre, sa représentation de l’ennemi européen emprunte beaucoup au registre religieux. Les soldats européens y sont décrits comme un ramassis de soudards dépravés et criminels, à l’instar des « croisés avant eux » (3). Le Vatican incarne le danger spirituel qui guette la Turquie et le monde non-occidental. La conspiration qui en émane, a pour but « d’effacer les cultures traditionnelles partout dans le monde et de créer une société d’esclaves » (4) . Nous serons les « propriétaires de la planète » (5), fait s’exclamer Burak Turna à un cardinal, porte-parole de Benoît XVI.

Ici, la figure de l’ennemi alimente l’imaginaire du complot. L’idée que l’action du Vatican puisse faire peser une menace sur l’existence de la Turquie prend sa racine dans le projet du pape Clément VIII (1592-1605) de reconquérir Istanbul et de convertir l’Empire ottoman. Plus récemment, les propos de Jean-Paul II dans son message pascal de 1995, ont été relevés avec suspicion. Le saint Père appelait les organisations armées, et spécialement les Kurdes, à s’asseoir autour de la table de négociations. Le Vatican conviait aussi Ankara à s’associer à cette initiative. Peu après, une campagne de presse relayée par le Catholic World Report aux États-Unis, s’en prenait violemment à la Turquie en l’accusant de « génocide » à l’égard des populations Kurdes. En 1998, la nomination par Jean-Paul II de deux cardinaux, dont l’identité n’a pas été dévoilée, a suscité des interrogations dans les milieux nationalistes turcs (6).

Si ces inquiétudes peuvent apparaître très exagérées, pour ne pas dire dénuées de fondement sérieux, elles n’en recoupent pas moins des « pensées réflexes » ancrées dans le psychisme turc.

En-dehors de Burak Turna, ces théories conspirationistes sont, ces derniers temps, largement reprises dans les médias. Le chroniqueur vedette de télévision, Eröl Mütercimler, s’est fait une spécialité de la dénonciation de ces forces occultes qui dirigent le monde. Pour Mütercimler, l’Europe ne voudra jamais de la Turquie car elle est intrinsèquement un club chrétien (hiristiyan kulübü). Les « architectes du nouvel ordre mondial » auraient selon lui, abouti à une forme de syncrétisme entre leur déisme maçonnique et les valeurs chrétiennes des pères fondateurs de l’Europe. Cette synthèse humanitaro-chrétienne exclurait de fait la Turquie musulmane. Pour appuyer ses propos, Mütercimler prend l’exemple du drapeau européen dont les 12 étoiles sur fond bleu représenteraient la robe de la Sainte Vierge… (7)

Ce regard turc sur l’Europe, si ambigu, si paradoxal, qu’offre le livre de Turna, est à l’image d’un pays prisonnier entre son enracinement oriental et sa marche vers l’Occident. Une Europe perçue à la fois comme une terre de conquête, comme un lieu d’affrontement, mais aussi comme la dispensatrice d’une manne précieuse, un club de riches, un Occident chrétien qui, même pour des musulmans, demeure un idéal de civilisation.

Tancrède Josseran


1) Burak Turna, Üçüncü dünya savasi, Timas Edition, Istanbul, 2005
2) Idem. p 271
3) Idem. p 348
4) Idem. p 130
5) Idem. p 271
6) Erol Mütercimler, Komplo teorileri, Alfa, Istanbul, 2006: “AB’hiristiyan kulübü’dür“ [L’Union Européenne est un club chrétien], p176-180
7) Idem. “Vatikan’in gizli ilisskileri“ [Les relations secretes du Vatican], p 293-300

 

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dimanche, 24 juillet 2011

Indiolateinamerika und Eurasien: Die Säulen des neuen multipolaren Systems

Indiolateinamerika und Eurasien: Die Säulen des neuen multipolaren Systems

Tiberio GRAZIANI

Ex: http://www.eurasia-rivista.org/

Das US-Abenteuer in Georgien sowie die eklatante Wirtschafts- und Finanzkrise, die das westliche System derzeit heimsucht, zeigen, daß die Vereinigten Staaten von Amerika an diesem Punkt in der Geschichte nicht in der Lage sind, die Führungsrolle zu übernehmen. Auf Grundlage beispielsweise der Dichotomien Ost—West, Nord—Süd, Mitte—Peripherie etc. scheinen keinerlei künftige geopolitische Szenarien von Bedeutung herauszuarbeiten zu sein. Betrachten wir die kontinentalen sowie multikontinentalen Gemeinsamkeiten und Unterschiede der globalen Akteure, so zeigen sich uns die Säulen, auf denen ein neues internationales System für Indiolateinamerika und Eurasien ruhen kann.


Von der Regierungsunfähigkeit der USA

Die jüngste Diskussion um Georgien setzt dem Gerede um die sogenannten „unipolaren“ Vereinigten Staaten von Amerika und vor allen Dingen der Behauptung, diese hätten ein wirkungsvolles geopolitisches System — das heißt ein multipolares System — geschaffen, endlich ein Ende.

Dies sehen nicht nur die meisten jener Beobachter und Berichterstatter so, die — während sich der Niedergang der „unverzichtbaren Nation“ (so ein Syntagma der US-Außenministerin Madeleine Albright) vollzieht — im Zuge der Herbstkrise zwischen Moskau und Tiflis wiederholt eine neue Bipolarität beschworen und Formulierungen aus der Zeit des „kalten Krieges“ entstaubt haben. In Wahrheit sind wir von einem erneuten Aufleben des alten bipolaren Systems weit entfernt; die Nachkriegszeit von 1945 bis 1989 ist von einem ideologischen Widerstreit gekennzeichnet gewesen (nämlich zwischen den Antithesen Kapitalismus—Kommunismus und Totalitarismus—Demokratie), der nun aber nicht so sehr an den lymphatischen Knotenpunkten des bipolaren Gleichgewichtes aufgelöst, sondern vielmehr dadurch entschieden worden ist, daß die heutigen großen Nationen mit kontinentalen Ausmaßen, wie zum Beispiel China, Indien und Brasilien, die aufgrund ihrer wirtschaftlichen Entwicklung und dank des geopolitischen Bewußtseins, das sie unter ihrer jeweiligen politischen Führung rund ein Jahrzehnt lang kultiviert haben, gediehen sind und heute danach streben, auf der weltweiten Bühne in politischer, wirtschaftlicher und sozialer Hinsicht verantwortungsvolle Rollen zu übernehmen.

Wir müssen sogleich hinzufügen, daß das Ende der US-dominierten unipolaren Hegemonie keineswegs die militärische Vorherrschaft berührt, die Washington in weiten Teilen der Welt besitzt. Doch Washingtons Macht in geopolitischer Hinsicht ist heute geringer als noch vor einigen Jahren. Ich möchte allerdings darauf hinweisen, daß diese Hegemonie heute für die internationale Stabilität vielleicht noch gefährlicher ist, als dies in der Vergangenheit der Fall war, gerade weil sie wackelig und empfindlich ist und Washington und das Pentagon leicht aus dem Gleichgewicht geraten können, wie die georgische Krise ja auch gezeigt hat.

Die tiefe Strukturkrise der US-Wirtschaft1 [1] hat nur dazu beigetragen, den Prozeß der Machteinbuße des „westlichen Systems“, der seit Mitte der 90er Jahre zu beobachten ist, zu beschleunigen. Mit den Auswirkungen, die dieser Prozeß auf die Vereinigten Staaten haben wird, auf die „einzige Weltmacht“, haben sich in den ersten Jahren unseres Jahrhunderts Autoren wie Chalmers Johnson2 [2] und Emmanuel Todd3 [3] in ihren jeweiligen Analysen befaßt; hierin zeigen die Verfasser auf, wohin dieser Prozeß bald führen wird und wie die Zersetzung des US-Systems vonstatten geht.

Johnson, ein profunder Kenner Asiens im allgemeinen und Japans im besonderen, meint, daß die USA in den Jahren 1999/2000 nicht in der Lage gewesen seien, ihre Beziehungen mit den Ländern Asiens souverän aufrechtzuerhalten, während man doch deutlich „die fortgesetzten Bemühungen ihres Landes, die ganze Welt zu beherrschen“4 [4] verfolgen konnte. Zu den Veränderungen, die sich bereits sichtbar abzeichnen und die geopolitische Situation der nahen Zukunft erahnen lassen, zählt Johnson auch „Chinas zunehmende Orientierung am Vorbild der asiatischen Staaten mit hohem Wirtschaftswachstum“.5 [5] Der gleiche Autor weiß von der mitleidslosen Analyse David P. Calleos zu berichten,6 [6] der bereits im Jahre 1987 die Auflösung des internationalen Systems schilderte und die Ansicht vertrat, daß die Vereinigten Staaten am Ende des 20. Jahrhunderts eine „raubgierige Hegemonialmacht“ seien „mit wenig Sinn für Ausgewogenheit“.

Sowohl der Franzose Todd als auch der Amerikaner Johnson sind der Ansicht, daß die USA aufgrund der Kriege im Mittleren Osten und in Jugoslawien zu einem Unsicherheitsfaktor für das gesamte internationale System geworden sind; Todd zufolge wirken sich unter anderem die ökonomischen Verflechtungen der Vereinigten Staaten deutlich nachteilig aus, wie ja auch das negative Wirtschaftswachstum des letzten Jahrzehnts unzweifelhaft zeigt.

Einige Jahre später, im Januar 2005, wird ein so aufmerksamer und brillanter Beobachter wie Michael Lind von der New America Foundation („Stiftung Neues Amerika“) in einem wichtigen Artikel in der Financial Times argumentieren, daß einige eurasische Länder (in erster Linie China und Rußland) sowie Südamerika „in aller Stille“ Maßnahmen in die Wege leiten, die den nordamerikanischen Einfluß „verringern“ sollen.7 [7]

Luca Lauriola hat sich dem erst kürzlich — 2007 — im wesentlichen angeschlossen;8 [8] in den Worten Claudio Muttis: „Lauriola bringt einige Argumente vor, die man wie folgt zusammenfassen kann: 1.) Die USA stellen nicht mehr die große Weltmacht dar; 2.) die technologische Großmacht Rußland ist heute mächtiger, als die die USA es sind; 3.) die strategische Verständigung zwischen Rußland, China und Indien bietet eine geopolitische Alternative zu den USA; 4.) die USA stecken mitten in einer schweren Finanz- und Wirtschaftskrise, die den Auftakt zu einem veritablen Kollaps bildet; 5.) in dieser Lage steht die US-Macht so ‚einsam und verlassen‘ da, daß Moskau, Peking und Neu-Delhi versucht sein werden, Reaktionen zu provozieren, die zu globalen Katastrophen führen können; 6.) die Administration Bush schreitet beharrlich auf den Abgrund zu, während die Regierung der Welt vorgaukelt, alles sei in bester Ordnung; 7.) die Lebensbedingungen der Mehrzahl der US-Bürger sind mit denen in manchen Entwicklungsländern vergleichbar; 8.) das Bild, das sich uns heute von den USA bietet, ist keineswegs eine historische Ausnahme, vielmehr zeigt sich in der US-Geschichte eine klare Kontinuität (vom Völkermord an den native Americans bis zum Terrorismus, wie er in Vietnam praktiziert wurde); 9.) in den USA hält die gleiche messianische Lobby die politischen Zügel in Händen, die schon früher in der Sowjetunion die Nomenklatura gestellt hat.“9 [9]

Aber warum steht die Supermacht USA nicht einmal mehr sagen wir zwanzig Jahre vor ihrem Kollaps? Warum soll ein globaler Akteur wie die Vereinigten Staaten von Amerika nicht in der Lage sein, sich weiter an der Macht zu halten und seine offen verkündete „Neue Ordnung“, seine New Order, in demokratischer und liberaler Manier durchzusetzen?

Die Antworten auf diese Fragen sind im großen und ganzen nicht nur einfach in den Untersuchungen von Wirtschaftswissenschaftlern und/oder in politischen Widersprüchen des westlichen Systems zu finden. Sie sind meiner Meinung nach vielmehr in der Auslegung und Anwendung geopolitischer Lehrsätze durch die US-Macht zu suchen. Die Vereinigten Staaten von Amerika — eine thalassokratische Weltmacht — waren schon immer bestrebt, ihre Einflußsphäre auch auf den südamerikanischen Subkontinent auszudehnen. Es ist dies eine geopolitische Praxis, die ich bereits an anderer Stelle als „chaotisch“ bezeichnet habe;10 [10] darunter ist eine Geopolitik der „fortwährenden Störung“ empfindlicher Territorien zu verstehen, um diese dem eigenen Einfluß zu unterstellen und sie schlußendlich dem eigenen Hoheitsgebiet einzuverleiben. Dieses Vorgehen zeugt allerdings von der Unfähigkeit, jene wahrhaft gegliederte internationale Ordnung zu verwirklichen, die diejenigen durchsetzen müssen, deren Trachten auf eine weltweite Führerrolle, eine globale leadership, gerichtet ist.

Zwei italienische Geopolitiker, Agostino Degli Espinosa (1904–1952) und Carlo Maria Santoro (1935–2002), haben in ganz verschiedenen Epochen und mit großem zeitlichen Abstand voneinander — der erste in den 1930ern, der zweite in den 1990ern — den USA übereinstimmend einen wichtigen Zug attestiert, nämlich die Unfähigkeit zu regieren und zu verwalten.

Vor vielen Jahrzehnten, im Jahre 1932, schrieb Agostino Degli Espinosa: „Amerika will gar nicht regieren, es will vielmehr auf die einfachste Art und Weise herrschen, die man sich denken kann, nämlich mittels der Dollar-Herrschaft“, und er fährt fort, „das bedeutet nicht nur, daß seine Gesetze oktroyiert und sein Wille durchgesetzt wird; sondern das bedeutet das Diktat eines Gesetzes, dem der Geist der Menschen oder der Völker in solcher Weise anhaftet, daß Regierende und Regierte ein spirituelle Einheit bilden.“11 [11]

Carlo Maria Santoro hat vor über sechzig Jahren noch einmal unterstrichen, daß die US-Amerikaner sich die „maritime Macht […] überhaupt nicht ausmalen, ja nicht einmal konzeptionell vorstellen können, nicht Eroberung und Verwaltung noch die hierarchische Unterteilung, wie die großen Kontinentalreiche“ sie aufwiesen.12 [12]

Die thalassokratische Besonderheit der USA, die Santoro hervorgehoben hat, und die Unfähigkeit zum Regieren, die schon Degli Espinosa so meisterhaft erläuterte, weisen deutlicher als jede andere Analyse auf den künftigen Niedergang amerikanischer Macht hin. In diesem Zusammenhang müssen natürlich weitere kritische Elemente bezüglich der Expansion des US-Imperialismus berücksichtigt werden: Militäreinsatz, öffentliche Ausgaben, geringe diplomatische Kompetenz.

Der historische Tag, an dem die Führungsunfähigkeit der USA offen zutage trete, sei nun gekommen, behauptete der französische Wirtschaftswissenschaftler Jacques Sapir jüngst. Dem Direktor der Hochschule École des Hautes Études en Sciences Sociales (EHESS) zufolge habe sich bereits in der Krise von 1997 bis 1999 gezeigt, „que les États-Unis étaient incapables de maîtriser la libéralisation financière internationale qu’ils avaient suscitée et imposée à nombreux pays“13 [13]. Sapir sieht in der Globalisierung selbstverständlich einen Aspekt der US-Expansion, denn er versteht die Anwendung der amerikanischen Politik im großen Maßstab als eine Politik der freiwilligen finanziellen und merkantilen Öffnung.14 [14] Zu diesem Zeitpunkt, da nun das liberale US-amerikanische Süppchen mittels des Diktats des Internationalen Währungsfonds weiteren Patienten eingeflößt werden soll — obwohl dies doch schon in Indonesien mißlang und sich auch Kuala Lumpur nachdrücklich dagegen gewehrt hat —, unterstreicht Sapir, daß es Pekings verantwortungsvolle Wirtschaftspolitik ist, die die Stabilität im Fernen Osten garantiert.

Es sei hier festgehalten, daß die Beschleunigung des ökonomischen und politischen Schrumpfungsprozesses der USA (2007/08) in eine Zeit fällt, da die Führung der Nation nach wie vor in Händen einer Machtclique liegt, die sich auf die Ideen des neokonservativen think tank beruft. Die Neocons haben bekanntlich Washington in den letzten Jahren — spätestens seit 1998, dem Jahre des Beginns der „Revolution in Military Affairs“ — soweit wie möglich zu einer aggressiven und expansionistischen Außenpolitik gedrängt; es war dies eine Politik, die sich eng an die Prinzipien des Alten Testamentes (— der messianische Impuls bildet einen festen Bestandteil des US-Patriotismus wie auch eine Konstante des US-Nationalcharakters —) sowie an die trotzkistische Theorie von der „permanenten Revolution“ gehalten hat, wobei letztere allerdings eine besondere — nämlich konservative — Beugung hat hinnehmen müssen. Diese Theorie ist nicht nur gewissermaßen das theoretische Substrat der Strategie des permanent war, des „beständigen Krieges“, welche Vizepräsident Dick Cheney lanciert und welche die Bush-Administration im Laufe der letzten beiden Legislaturperioden (2000–08) so eifrig umgesetzt hat, weshalb in Washington die „Geopolitik des Chaos“ aufgeblüht ist.

 

Indiolateinamerika und Eurasien

Die USA empfinden sich von der Notwendigkeit der geostrategischen Ordnung (über die in Eurasien Rußland und China die Kontrolle ausüben, in der südamerikanischen Hemisphäre dagegen Brasilien, Argentinien sowie die Karibik) und einer grundlegenden Wirtschafts- und Finanzkrise eingeengt; sie scheinen verwirrt und schwanken einerseits zwischen einer Außenpolitik noch aggressiverer Art und mit noch mehr Muskelspiel als in der jüngsten Vergangenheit und andererseits einer realistischen Neueinschätzung ihrer eigenen globalen Rolle. Derweil werden sich die größten eurasischen Nationen — allen voran Rußland und China — und die wichtigsten südamerikanischen Nationen — Argentinien und Brasilien — ihres wirtschaftlichen, politischen und geostrategischen Potentials in immer stärkerem Maße bewußt.

Dies setzt voraus, daß politische Analytiker und Entscheidungsträger neue Paradigmen zur Anwendung bringen, um die Gegenwart zu interpretieren. Die Auslegungsschemata der Vergangenheit, die auf der Grundlage der Dichotomien Ost—West, Nord—Süd, Zentrum—Peripherie fußen, scheinen keine Gültigkeit mehr zu haben. Eine Analyse der Gegenwart wird von Nutzen sein, um alle notwendigen Elemente zu erfassen, um die geopolitischen Szenarien der Zukunft zu umreißen, um sich einer kontinentalen wie auch multipolaren Sichtweise zu befleißigen, um Bündnisse wie auch Spannungen zwischen den globalen Akteuren auszumachen; hier richten wir unsere Aufmerksamkeit auf die interkontinentalen Achsen zwischen beiden Hemisphären unseres Planeten.

Die BRIC-Achse (Brasilien, Rußland, Indien und China), die neue geoökonomische Achse zwischen Eurasien und Indiolateinamerika, ist mittlerweile eine wohldefinierte, attraktive Tatsache und wird in naher Zukunft verschiedene eurasische und südamerikanische Nationen verbinden. Wenn sich diese Achse nicht kurz- bis mittelfristig konsolidiert, wird der britische „westliche“ Traum von einer euroatlantischen Gemeinschaft, „von der Türkei bis Kalifornien“15 [15], weitergeträumt werden, und die Weltmacht USA — als Kopf der Triade Nordamerika, Europa und Japan — wird weiterhin herrschen.

Auf dem jüngsten Gipfeltreffen der Außenminister der BRIC-Staaten (im Mai 2008 in Jekaterinburg/Rußland) wurde die Absicht bekräftigt, die wirtschaftlichen und politischen Beziehungen zu den neuen aufstrebenden Ländern enger zu gestalten; in den USA faßte man dies als veritablen Affront auf. Man sollte das Treffen der „Großen Fünf“ (Brasilien, Indien, China, Mexiko und Südafrika) in Sapporo auch in Verbindung mit dem G8-Gipfel in Tōyako im Juli 2008 sehen.

Mit dem Amtsantritt von Ministerpräsident Wladimir Putin in Rußland im August 1999 begannen sich zwischen Rußland und einigen südamerikanischen Ländern dauerhafte wirtschaftliche Beziehungen anzubahnen, die in den letzten Jahren intensiviert wurden und eine gewisse politische Dimension angenommen haben.

China zeigte sein Interesse an Südamerika bereits im April 2001 mit dem historischen Besuch von Staatspräsident Jiang Zemin in mehreren südamerikanischen Nationen auf dem Subkontinent. China, stets auf der Suche nach Rohstoffen und Energieressourcen für die industrielle Entwicklung, ist der Auffassung, daß es in seinen bevorzugten und strategischen Partner-Staaten Brasilien, Venezuela und Chile erheblichen Investitionsbedarf gibt, damit die grundlegende Infrastruktur geschaffen werden kann (heute gibt es rund 400 bis 500 Handelsvereinbarungen zwischen Peking und den wichtigsten südamerikanischen Ländern einschließlich Mexikos).

Das Interesse Rußlands und Chinas an Südamerika wächst daher von Tag zu Tag. Die russische Gasprom (und mit ihr Eni)16 [16] hat im September 2008 Verträge mit Venezuela über die Erforschung des Gebietes Blanquilla Est und der Karibikinsel La Tortuga, etwa 120 Kilometer nördlich von der Hafenstadt Puerto La Cruz (im Norden Venezuelas) gelegen, unterzeichnet, und Moskau hat einen Plan zur Schaffung eines Ölkonsortiums in Südamerika verabschiedet. Während der russische Mineralölkonzern Lukoil nach Gesprächen mit der Erdölgesellschaft Petróleos de Venezuela S. A. (PDVSA, auch „Petroven“) eine Punktation verfaßte, reiste ferner Staatspräsident Hugo Chávez im September 2008 nach Peking, um ein Dutzend Handelsabkommen über die Lieferung landwirtschaftlicher, technologischer und petrochemischer Erzeugnisse mit dem chinesischen Staatsoberhaupt Hu Jintao zu unterzeichnen; überdies verpflichtete sich Chávez, bis 2010 fünfhunderttausend Barrel Öl pro Tag zu liefern und hernach eine Million bis zum Jahre 2012.

Darüber hinaus sind Peking und Caracas nach intensiven Verhandlungen von Mai bis September 2008 übereingekommen, die notwendigen Voraussetzungen für die Errichtung einer im gemeinschaftlichen Besitz befindlichen Raffinerie in Venezuela zu schaffen und gemeinsam in China eine Flotte von vier gigantischen Öltankern zu bauen, um die erhöhten Öl-Lieferungen zu bewältigen.

Die Karibik und Südamerika scheinen nicht mehr zu sein als der „Hinterhof“ Washingtons. Washingtons Sorgen vergrößern sich angesichts Nikaraguas Anerkennung der Republiken Südossetien und Abchasien, angesichts Venezuelas Auftreten als Gastgeber für russische strategische Bomberpiloten auf Fernaufklärung und vor allem angesichts der Beschleunigung des Prozesses der südamerikanischen Integration durch das enge Bündnis zwischen Buenos Aires und Brasília. Die Beziehungen zwischen den beiden größten Ländern des amerikanischen Subkontinentes, Argentinien und Brasilien, haben es jüngst (Oktober 2008) gestattet, das Sistema de Pagos en Monedas Locales (SML)17 [17] für den wirtschaftlich-kommerziellen Austausch ins Leben zu rufen. Die Umgehung des US-Dollars durch den SML ist ein erster echter Schritt in Richtung auf eine währungspolitische Integration in den Gemeinsamen Markt „Mercosur“ und der Beginn der Schaffung einer „regionalen Drehscheibe“, die wohl vor allem auf die im wirtschaftlich-kommerziellen Bereich bereits soliden Beziehungen zu Rußland und China wird bauen können, die sich in der unmittelbar nächsten Zeit prächtig entwickeln werden.

Washingtons Nervosität wächst noch angesichts von Pekings und Moskaus Ausweitung ihres Einflusses in Afrika und angesichts der Unterhaltung ihrer Beziehungen mit dem Iran und Syrien.

Aber so wichtig und notwendig solche ökonomischen, kommerziellen und politischen Vereinbarungen auch sein mögen, damit sich das neue multipolare System, dessen beide Säulen Eurasien im Nordosten und Indiolateinamerika im Südwesten sind, richtig entwickeln kann, müssen letztere unbedingt ihre Seeküsten kontrollieren und ihre (oft künstlich von Washington und London hervorgerufenen) internen Spannungen im Zaum halten, die ihre wahre Achillesferse darstellen.

China und Rußland sollten allerdings, wenn sie den USA gegenübertreten, beachten, daß die einstige Hypermacht derzeit zwar mit Sicherheit eine „verlorene“ Nation ist, sie aber immer noch ein geopolitisches Gebilde von kontinentalen Ausmaßen und Herrin ihrer eigenen Küsten ist und noch immer eine starke Flotte besitzt,18 [18] die auf jedem Kriegsschauplatz des Planeten auftauchen kann; das heißt, es gilt vernünftige und ausgewogene Lösungen zu suchen, damit der Grad der Störungen auf globaler Ebene nicht noch zunimmt. Jüngst haben wir daran erinnert, daß Washington nun seine Vierte Flotte reaktiviert hat (bestehend aus elf Schiffen, einem Atom-U-Boot und einem Flugzeugträger), um in bedrohlicher Weise die Verpflichtung zu demonstrieren, die man für mittel- und südamerikanischen „Partner“ habe. Die furchteinflößende Macht, die die USA Eurasien und vor allem Rußland gegenüber zur Schau stellen, bildet den Ausgangspunkt für eine Politik der Integration oder der verstärkten Zusammenarbeit des Subkontinents mit Europa und Japan — auch mit China. In ebendiesem Zusammenhange müssen wir die neue Politik von Rußlands Präsident Dmitri A. Medwedew in bezug auf die Entwicklung der russischen Streitkräfte betrachten, insbesondere die Modernisierung der Marine.19 [19] Obwohl wir im Zeitalter der sogenannten „Geopolitik des Raumes“ und der geostrategischen Raketenwaffen sowie der Strategischen Verteidigungsinitiative (SDI) leben, bilden doch Schiffe auf den Weltmeeren auch heute noch den Prüfstein der Macht, an dem globale Akteure ihre Strategien zu beweisen eingeladen sind; dies gilt noch mindestens das nächste Jahrzehnt hindurch sowohl für „Binnenmeere“ (Mittel- und Schwarzes sowie Karibisches Meer) als auch in den Ozeanen.

Um völlig zu verstehen, in wessen Händen in Übersee die Macht liegt und — nach dem Willen der USA — auch künftig liegen soll, täten Peking und Moskau gut daran, der Worte Henry Kissingers eingedenk zu sein, der vor Jahren schrieb:

Geopolitisch betrachtet, ist Amerika eine Insel weitab der riesigen Landmasse Eurasiens, dessen Ressourcen und Bevölkerung die der Vereinigten Staaten bei weitem übertreffen. Und nach wie vor ist die Beherrschung einer der beiden Hauptsphären Eurasiens — Europas also und Asiens — durch eine einzige Macht eine gute Definition für die strategische Gefahr, der sich die Vereinigten Staaten einmal gegenübersehen könnten, gleichviel, ob unter den Bedingungen eines Kalten Krieges oder nicht. Denn ein solcher Zusammenschluß wäre imstande, die USA wirtschaftlich und letztlich auch militärisch zu überflügeln, eine Gefahr, der es selbst dann entgegenzutreten gälte, wenn die dominante Macht offenkundig freundlich gesinnt wäre. Sollten sich deren Absichten nämlich jemals ändern, dann stieße sie auf eine amerikanische Nation, deren Fähigkeit zu wirkungsvollem Widerstand sich erheblich vermindert hätte und die folglich immer weniger in der Lage wäre, die Ereignisse zu beeinflussen.“20 [20]

Das zu Eurasien Gesagte gilt, nahezu perfekt gespiegelt, in gleicher Weise auch für Indiolateinamerika. Aus evidenten geostrategischen Gründen muß Indiolateinamerika — und das heißt derzeit Brasilien, Argentinien und Venezuela — die Spannungen niedrig halten, die die Instabilität einiger an die Andenkette angrenzenden Länder schüren;21 [21] hier kommt Bolivien eine Vorrangstellung zu, das als Binnenstaat die Westküste des amerikanischen Subkontinents mit seinem Osten verbinden könnte. Brasília, Buenos Aires, Santiago de Chile und Caracas mußten nun gezwungenermaßen ihre politischen wie militärischen Beziehungen ankurbeln — unter der Vormundschaft der USA, wenn man so will — und haben dabei ihr besonderes Augenmerk auf den Ausbau ihrer Hochseeflotten, sowohl zivile wie militärische, gelegt. Die gegenwärtigen Entwicklungen scheinen Indiolateinamerika, dank des „fernen Freundes“ — der eurasischen Macht —, in die Hände zu spielen. Die gegenwärtigen Entwicklungen, das muß gesagt werden, nutzen auch Europa und Japan.

Für das Gleichgewicht des Planeten jedoch bleibt nur zu hoffen, daß die Macht der USA auf ein rechtes Maß zurückschrumpft und daß sich die Vereinigten Staaten danach keiner unbesonnenen Revanchestrategie verschreiben.


Aus dem Italienischen von D. A. R. Sokoll


1 [22] Die derzeitige Wirtschafts- und Finanzkrise geht nach Meinung einiger Experten, unter diesen Jacques Sapir, auf die drei Jahre 1997 bis 1999 zurück. (Jacques Sapir. Le Nouveau Siècle XXI.: Du siècle „américaine“ au retour des Nations. Paris: Seuil, 2008. S. 11.) Hier sei daran erinnert, daß die USA — in der Überzeugung, die „einzige Weltmacht“ (Zbigniew Brzezinski) zu sein — „[u]ngefähr von 1992 bis 1997 […] eine ideologische Kampagne [führten], die auf die Öffnung aller nationalen Märkte für den freien Welthandel und den ungehinderten Kapitalverkehr über nationale Grenzen hinweg abzielte“ (Chalmers Johnson Ein Imperium verfällt: Wann endet das Amerikanische Jahrhundert? übers. v. Thomas Pfeiffer u. Renate Weitbrecht. München: Karl-Blessing-Verlag, 2000. S. 269).

2 [23] Chalmers Johnson. Ein Imperium verfällt: Ist die Weltmacht USA am Ende? übers. v. Thomas Pfeiffer u. Renate Weitbrecht. München: Goldmann, 2001.

3 [24] Emmanuel Todd. Weltmacht USA: Ein Nachruf. übers. v. Ursel Schäfer u. Enrico Heinman. München: Piper, 2003.

4 [25] Johnson, a. a. O., S. 55.

5 [26] Johnson, a. a. O., S. 54.

6 [27] „Das internationale System zerbricht nicht nur, weil schwankende und aggressive neue Mächte versuchen, ihre Nachbarn zu dominieren, sondern auch weil zerfallende alte Mächte, statt sich anzupassen, versuchen, ihre ihnen aus den Händen gleitende Überlegenheit in eine ausbeuterische Vormachtstellung auszubauen.“ (David P. Calleo. Die Zukunft der westlichen Allianz: Die NATO nach dem Zeitalter der amerikanischen Hegemonie. übers. v. Helena C. Jadebeck. Stuttgart: Bonn Aktuell, 1989. S. 218.

7 [28] Michael Lind. „How the U.S. Became the World’s Dispensable Nation.“ In: Financial Times, 26. Januar 2005.

8 [29] Luca Lauriola. Scacco matto all’America e a Israele: Fine dell’ultimo Impero. Bari: Palomar, 2007.

9 [30] Claudio Mutti in seiner Rezension von: Lauriola, Scacco matto all’America e a Israele, a. a. O. — Veröffentlicht auf: www.eurasia.org, am 27. Januar 2008.

10 [31] Tiberio Graziani. „Geopolitica e diritto internazionale nell’epoca dell’occidentalizzazione del pianeta.“ In: Eurasia: Rivista di studi geopolitici, 4/2007, S. 7.

11 [32] Agostino Degli Espinosa. „Imperialismo USA.“ In: Augustea. Nr. 10. Rom/Mailand, 1932. S. 521.

12 [33] Carlo Maria Santoro. Studi di Geopolitica 1992–1994. Turin: G. Giappichelli, 1997. S. 84.

13 [34] Auf Deutsch: „daß die Vereinigten Staaten unfähig gewesen sind, mit der internationalen finanziellen Lossagung fertigzuwerden, zu denen sie unsere Länder selbst getrieben und die sie uns auferlegt haben“. — Sapir, a. a. O., S. 11 f.

14 [35] Ebd., S. 63 f.

15 [36] Mit diesen Worten hat Sergio Romano in zwei Briefen in der Tageszeitung Corriere della Sera die britische Anti-Europa-Politik kommentiert: „Das Ziel der Briten ist die Schaffung einer großen atlantischen Gemeinschaft, von der Türkei bis Kalifornien, und London mittendrin wäre natürlich der Dreh- und Angelpunkt.“ (Sergio Romano. „Perché è difficile fare l’Europa con la Gran Bretagna.“ In: Corriere della Sera, 12. Juni 2005. S. 39.)

16 [37] Das Akronym steht für Ente Nazionale Idrocarburi und bezeichnet den Erdöl- und Energiekonzern, der das größte Wirtschaftsunternehmen Italiens darstellt. 1999 hat Eni mit Gasprom eine Vereinbarung über den Bau der Blue-Stream-Pipeline unterzeichnet, die Rußland über das Schwarze Meer mit der Türkei verbindet. — Anm. d. Übers.

17 [38] Zahlungssystem in lokaler Währung. Zwischenstaatliche Geschäfte werden direkt in Brasilianischen Reais und Argentinischen Pesos abgerechnet, ohne Umweg über die Weltwährung Dollar. — Anm. d. Übers.

18 [39] Alessandro Lattanzio weist darauf hin, daß „die US-Marine vor zehn Jahren noch vierzehn Flugzeugträger sowie Trägerkampfgruppen gehabt hatte. Jetzt besitzt sie auf dem Papier noch zehn [Flugzeugträger], aber nur fünf, sechs stehen im Einsatz“. (Alessandro Lattanzio. „La guerra è finita?“ Vortrag anläßlich des FestivalStoria zu Turin am 16. Oktober 2008.)

19 [40] Alessandro Lattanzio. „Il rilancio navale della Russia.“ In: www.eurasia-rivista.org (Stand: 1. Oktober 2008).

20 [41] Henry A. Kissinger. Die Vernunft der Nationen: Über das Wesen der Außenpolitik. übers. v. Matthias Vogel u. a. Berlin: Siedler, 1994. S. 904.

21 [42] Bekanntlich haben Analysten Südamerika in zwei Bogenbereiche untergliedert: einerseits den Andenbogen, bestehend aus Venezuela, Kolumbien, Ecuador, Peru, Bolivien, Paraguay, und andererseits den Atlantikbogen, bestehend aus Brasilien, Uruguay, Argentinien und Chile.

samedi, 23 juillet 2011

Mediterraneo e Asia Centrale: le cerniere dell'Eurasia

Mediterraneo e Asia Centrale: le cerniere dell’Eurasia

Tiberio GRAZIANI

Ex: http://www.eurasia-rivista.org/

 La transizione dal sistema unipolare a quello multipolare genera tensioni in due particolari aree della massa eurasiatica: il Mediterraneo e l’Asia Centrale. Il processo di consolidamento del policentrismo sembra subire una impasse causata dall’atteggiamento “regionalista” assunto dalle potenze eurasiatiche. L’individuazione di un unico grande spazio mediterraneo-centroasiatico, quale funzionale cerniera della massa euroafroasiatica, fornirebbe elementi operativi all’integrazione eurasiatica.

Nel processo di transizione tra il momento unipolare e il nuovo sistema policentrico si osserva che le tensioni geopolitiche si scaricano principalmente su aree a forte valenza strategica. Tra queste, il bacino mediterraneo e l’Asia Centrale, vere e proprie cerniere dell’articolazione euroafroasiatica, hanno assunto, a partire dal primo marzo del 2003, un particolare interesse nell’ambito dell’analisi geopolitica riguardante i rapporti tra gli USA, le maggiori nazioni eurasiatiche e i Paesi del Nord Africa. Quel giorno, si ricorderà, il parlamento della Turchia, vale a dire il parlamento della nazione-ponte per eccellenza tra le repubbliche centroasiatiche e il Mediterraneo, decise di negare l’appoggio richiesto dagli USA per la guerra in Iràq1. Questo fatto, lungi dal costituire solamente un elemento di negoziazione tra Washington e Ankara, come in un primo momento poteva apparire (e certamente lo fu anche, a causa di due elementi contrastanti: la fedeltà turca all’alleato nordamericano e la preoccupazione di Ankara per l’effetto che l’ipotizzata creazione di un Kurdistan, nell’ambito dell’allora probabile progetto d tripartizione dell’Iràq, avrebbe avuto sulla irrisolta “questione curda” ), stabilì tuttavia l’inizio di una inversione di tendenza della cinquantennale politica estera turca2. Da allora, con un crescendo continuo fino ai nostri giorni, la Turchia, tramite soprattutto l’avvicinamento alla Russia (facilitata dalla scarsa propensione dell’Unione Europea ad includere Ankara nel proprio ambito) e la sua nuova politica di buon vicinato, ha cercato di praticare una sorta di smarcamento dalla tutela statunitense, rendendo di fatto scarsamente affidabile un tassello fondamentale per la penetrazione nordamericana nella massa eurasiatica. Oltre gli ostacoli costituiti dall’Iràn e dalla Siria, gli strateghi di Washington e del Pentagono devono oggi tener conto infatti anche della nuova e poco malleabile Turchia.

Il mutamento di condotta della Turchia è avvenuto nel contesto della più generale e complessa trasformazione dello scenario eurasiatico, tra i cui elementi caratterizzanti sono da registrare la riaffermazione della Russia su scala continentale e globale, la potente emersione della Cina e dell’India nell’ambito geoeconomico e finanziario e, per quanto concerne la potenza statunitense, il suo logoramento sul piano militare in Afghanistan e in Iràq.

Quello che, a far data dal crollo del muro di Berlino e dal collasso sovietico, sembrava apparire come l’avanzamento inarrestabile della “Nazione necessaria” verso il centro della massa continentale eurasiatica, seguendo le due seguenti predeterminate direttrici di marcia:

 - una, procedente dall’Europa continentale, volta all’inclusione, a colpi di “rivoluzioni colorate”, nella propria sfera d’influenza dell’ex “estero vicino” sovietico, prontamente ribattezzato la “Nuova Europa”, secondo la definizione di Rumsfeld, e destinata strategicamente, nel tempo, a “premere” contro una Russia ormai allo stremo;

- l’altra, costituita dalla lunga strada che dal Mediterraneo si protrae verso le nuove repubbliche centroasiatiche, volta a tagliare in due la massa euroafroasiatica e a creare un permanente vulnus geopolitico nel cuore dell’Eurasia;

si era arrestato nel volgere di pochi anni nel pantano afgano.

Falliti gli ultimi tentativi di “rivoluzioni colorate” e sommovimenti telediretti da Washington nel Caucaso e nelle Repubbliche centroasiatiche, rispettivamente a causa della fermezza di Mosca e delle congiunte politiche eurasiatiche di Cina e Russia, messe in atto, tra l’altro, attraverso la Organizzazione della Conferenza di Shanghai (OCS), la Comunità economica eurasiatica e il consolidamento di relazioni di amicizia e cooperazione militare, gli USA al termine del primo decennio del nuovo secolo dovevano riformulare le proprie strategie eurasiatiche.

 

La prassi egemonica atlantica

 

L’assunzione del paradigma geopolitico proprio al sistema occidentale a guida statunitense, articolato sulla dicotomia Stati Uniti versus Eurasia e sul concetto di “pericolo strategico”3, induce gli analisti che lo praticano a privilegiare gli aspetti critici delle varie aree bersaglio degli interessi atlantici. Tali aspetti sono costituiti comunemente dalle tensioni endogene dovute in particolare a problematiche interetniche, disequilibri sociali, disomogeneità religiosa e culturale4, frizioni geopolitiche. Le soluzioni approntate riguardano un ventaglio di interventi che spaziano dal ruolo degli USA e dei loro alleati nella “ricostruzione” degli “stati falliti” (Failed States) secondo modalità diversificate (tutte comunque miranti a diffondere i “valori occidentali” della democrazia e della libera iniziativa, senza tenere in alcun conto le peculiarità e le tradizioni culturali locali), fino all’intervento militare diretto. Quest’ultimo viene giustificato, a seconda delle occasioni, come una risposta necessaria per la difesa degli interessi statunitensi e del cosiddetto ordine internazionale oppure, nel caso specifico degli stati o governi che l’Occidente ha valutato, preventivamente e significativamente, in accordo alle regole del soft power, “canaglia”, quale estremo rimedio per la difesa delle popolazioni e la salvaguardia dei diritti umani5.

Considerando che la prospettiva geopolitica statunitense è tipicamente quella di una potenza talassica, che interpreta il rapporto con le altre nazioni o entità geopolitiche muovendo dalla propria condizione di “isola”6, essa identifica il bacino mediterraneo e l’area centroasiatica come due zone caratterizzate da una forte instabilità. Le due aree rientrerebbero nell’ambito dei cosiddetti archi di instabilità come definiti da Zbigniew Brzezinski. L’arco di instabilità o di crisi costituisce, come noto, una evoluzione ed un ampliamento del concetto geostrategico di rimland (margine marittimo e costiero) messo a punto da Nicholas J. Spykman7. Il controllo del rimland avrebbe permesso, nel contesto del sistema bipolare, il controllo della massa eurasiatica e dunque il contenimento della sua maggiore nazione, l’Unione Sovietica, ad esclusivo beneficio della “isola nordamericana”.

Nel nuovo contesto unipolare, la geopolitica statunitense ha definito come Grande Medio Oriente la lunga e larga fascia che dal Marocco giunge fino all’Asia Centrale, una fascia che andava secondo Washington “pacificata” in quanto costituiva una ampio arco di crisi, a causa delle conflittualità generate dalle disomogeneità sopra descritte. Tale impostazione, veicolata dagli studi di Samuel Huntington e dalle analisi di Zigbniew Brzezinski, spiega abbondantemente la prassi seguita dagli USA al fine di aprirsi un varco nella massa continentale eurasiatica e da lì premere sullo spazio russo per assumere l’egemonia mondiale. Tuttavia alcuni fattori “imprevisti” quali la “ripresa” della Russia, la politica eurasiatica condotta da Putin in Asia Centrale, le nuove intese tra Mosca e Pechino, nonché l’emersione della nuova Turchia (fattori che messi in relazione alle relative e contemporanee “emancipazioni” di alcuni paesi dell’America Meridionale delineano uno scenario multipolare o policentrico) hanno influito sulla ridefinizione dell’area come un Nuovo Medio Oriente. Tale evoluzione, emblematicamente, venne resa ufficiale nel corso della guerra israelo-libanese del 2006. In quell’occasione, l’allora segretario di Stato Condoleeza Rice ebbe a dire: «Non vedo l’interesse della diplomazia se è per ritornare alla situazione precedente tra Israele ed il Libano. Penso sarebbe un errore. Ciò che vediamo qui, in un certo modo, è l’inizio, sono le doglie di un nuovo Medio Oriente e qualunque cosa noi facciamo, dobbiamo essere certi che esso sia indirizzato verso il nuovo Medio Oriente per non tornare al vecchio»8. La nuova definizione era ovviamente programmatica; mirava infatti alla riaffermazione del partenariato strategico con Tel Aviv ed alla frantumazione – indebolimento dell’area vicino e medio orientale nel quadro di quello che alcuni giorni dopo la dichiarazione di Condoleeza Rice venne precisato dal primo ministro israeliano Olmert essere il “New Order” in “Medio Oriente”. Parimenti programmatico era il sintagma “Balcani eurasiatici” coniato da Brzezinski in riferimento all’area centroasiatica, giacché utile alla formulazione di una prassi geostrategica che, attraverso la destabilizzazione dell’Asia Centrale sulla base delle tensioni endogene, aveva (ed ha) lo scopo di rendere problematica la potenziale saldatura geopolitica tra Cina e Russia.

Negli anni che vanno dal 2006 alla operazione “Odyssey Dawn” contro la Libia (2011), gli USA, nonostante la retorica inaugurata dal 2009 dal nuovo inquilino della Casa Bianca, hanno di fatto perseguito una strategia mirante alla militarizzazione dell’intera striscia compresa tra il Mediterraneo e l’Asia Centrale. In particolare, gli USA hanno messo in campo, nel 2008, il dispositivo militare per l’Africa, l’Africom, attualmente (aprile 20011) impegnato nella “crisi” libica, finalizzato al radicamento della presenza statunitense in Africa in termini di controllo e di pronto intervento nel continente africano, ma anche puntato nella direzione del “nuovo” Medio Oriente e dell’Asia Centrale. In sintesi, la strategia statunitense consiste nella militarizzazione della fascia mediterranea-centroasiatica. Gli scopi principali sono:

  1. creare un cuneo tra l’Europa meridionale e l’Africa settentrionale;

  2. assicurare a Washington il controllo militare dell’Africa settentrionale e del Vicino Oriente (utilizzando anche la base di Camp Bondsteel presente nel Kosovo i Metohija), con una particolare attenzione all’area costituita da Turchia, Siria e Iràn;

  3. tagliare” in due la massa eurasiatica;

  4. allargare il cosiddetto arco di crisi nell’Asia Centrale.

Nell’ambito del primo e del secondo obiettivo, l’interesse di Washington si è rivolto principalmente verso l’Italia e la Turchia. I due paesi mediterranei, per motivi diversi (ragioni eminentemente di politica industriale ed energetica per l’Italia, ragioni più propriamente geopolitiche per Ankara, desiderosa di ricoprire un ruolo regionale di primo livello, peraltro in diretta competizione con Israele) hanno negli ultimi anni tessuto rapporti internazionali che, in prospettiva, poiché forti delle relazioni con Mosca, potevano (e possono) fornire leve utili per una potenziale exit strategy turco-italiana dalla sfera di influenza nordamericana. Il tentativo oggettivo di aumentare i propri gradi di libertà nell’agone internazionale operati da Roma e Ankara cozzavano contro non solo gli interessi generali di natura geopolitica di Washington e Londra, ma anche contro quelli più “provinciali” dell’Union méditerranéenne di Sarkozy.

 

Il multipolarismo tra prospettiva regionalista e eurasiatica

 

La prassi applicata dal sistema occidentale guidato dagli USA volta, come sopra descritto, ad ampliare le crisi in Eurasia e nel Mediterraneo al fine non della loro stabilizzazione, bensì del mantenimento della propria egemonia, mediante militarizzazione dei rapporti internazionali e coinvolgimento degli attori locali, oltre ad individuare altri futuri e probabili bersagli (Iràn, Siria, Turchia) utili al radicamento statunitense in Eurasia, pone alcune riflessioni in merito allo “stato di salute” degli USA e alla strutturazione del sistema multipolare.

Ad una analisi meno superficiale, l’aggressione alla Libia di USA, Gran Bretagna e Francia, non è affatto un caso sporadico, ma un sintomo della difficoltà di Washington di operare in maniera diplomatica e con senso di responsabilità, quale un attore globale dovrebbe avere. Esso evidenzia il carattere di rapacità tipico delle potenze in declino. Il politologo ed economista statunitense David. P. Calleo, critico della “follia unipolare” e studioso del declino degli USA, osservava nel lontano 1987 che «…le potenze in via di declino, anziché regolarsi e adattarsi, cercano di cementare il proprio barcollante predominio trasformandolo in un’egemonia rapace»10. Luca Lauriola nel suo Scacco matto all’America e a Israele. Fine dell’ultimo Impero11, sostiene, a ragione, che le potenze eurasiatiche, Russia, Cina e India trattano la potenza d’oltreatlantico, ormai “smarrita e impazzita”, in modo da non suscitare reazioni che potrebbero generare catastrofi planetarie.

Per quanto invece riguarda il processo di strutturazione del sistema multipolare, occorre rilevare che quest’ultimo avanza lentamente, non a causa delle recenti azioni statunitensi in Africa Settentrionale, ma piuttosto per l’atteggiamento “regionalista” assunto dagli attori eurasiatici (Turchia, Russia e Cina), i quali stimando il Mediterraneo e l’Asia Centrale solo in funzione dei propri interessi nazionali, non riescono a cogliere il significato geostrategico che queste aree svolgono nel più ampio scenario conflittuale tra interessi geopolitici extracontinentali (statunitensi) ed eurasiatici. La riscoperta di un unico grande spazio mediterraneo-centroasiatico, evidenziando il ruolo di “cerniera” che esso assume nell’articolazione euroafroasiatica, fornirebbe elementi operativi per superare l’ impasse “regionalista” che subisce il processo di transizione unipolare-multipolare.

 * Tiberio Graziani è direttore di “Eurasia” e presidente dell’IsAG.

1 Elena Mazzeo, “La Turchia tra Europa e Asia”, “Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici”, a. VIII, n.1 2011.

2 La Turchia aderisce al Patto Nato il 18 febbraio 1952.

3 «Geopoliticamente l’America è un’isola al largo del grande continente eurasiatico. Il predominio da parte di una sola potenza di una delle due sfere principali dell’Eurasia — Europa o Asia — costituisce una buona definizione di pericolo strategico per gli Stati Uniti, una guerra fredda o meno. Quel pericolo dovrebbe essere sventato anche se quella potenza non mostrasse intenzioni aggressive, poiché, se queste dovessero diventare tali in seguito, l’America si troverebbe con una capacità di resistenza efficace molto diminuita e una incapacità crescente di condizionare gli avvenimenti», Henry Kissinger, L’arte della diplomazia, Sperling & Kupfer Editori, Milano 2006, pp.634–635.

«Eurasia is the world’s axial supercontinent. A power that dominated Eurasia would exercise decisive influence over two of the world’s three most economically productive regions, Western Europe and East Asia. A glance at the map also suggests that a country dominant in Eurasia would almost automatically control the Middle East and Africa. With Eurasia now serving as the decisive geopolitical chessboard, it no longer suffices to fashion one policy for Europe and another for Asia. What happens with the distribution of power on the Eurasian landmass will be of decisive importance to America’s global primacy and historical legacy.» Zbigniew Brzezinski, “A Geostrategy for Eurasia,” Foreign Affairs, 76:5, September/October 1997.

4 Enrico Galoppini, Islamofobia, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2008.

5 Jean Bricmont, Impérialisme humanitaire. Droits de l’homme, droit d’ingérence, droit du plus fort?, Éditions Aden, Bruxelles 2005; Danilo Zolo, Chi dice umanità. Guerra, diritto e ordine globale, Einaudi, Torino 2000; Danilo Zolo, Terrorismo umanitario. Dalla guerra del Golfo alla strage di Gaza, Diabasis, Reggio Emilia 2009.

6 «Un tipico descrittore geopolitico è la visione degli USA come una “isola”, non troppo diversa geopoliticamente dall’Inghilterra e dal Giappone. Tale definizione esalta la loro tradizione di commercio marittimo ed interventi militari oltremare e, ovviamente, di sicurezza basata sulla distanza e l’isolamento.» Phil Kelly, “Geopolitica degli Stati Uniti d’America”, “Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici”, a. VII, n.3 2010.

7 Nicholas Spykman, America’s Strategy in World Politics: The United States and the Balance of Power, Harcourt Brace, New York 1942.

8 «But I have no interest in diplomacy for the sake of returning Lebanon and Israel to the status quo ante. I think it would be a mistake. What we’re seeing here, in a sense, is the growing — the birth pangs of a new Middle East and whatever we do we have to be certain that we’re pushing forward to the new Middle East not going back to the old one», Special Briefing on Travel to the Middle East and Europe, US, Department of State, 21 luglio 2006

9 Tiberio Graziani, “U.S. strategy in Eurasia and drug production in Afghanistan”, Mosca , 9-10 giugno 2010 (http://www.eurasia-rivista.org/4670/u-s-strategy-in-eurasia-and-drug-production-in-afghanistan )

10 David P. Calleo, Beyond American Hegemony: The future of the Western Alliance, New York 1987, p. 142.

11 Luca Lauriola, Scacco matto all’America e a Israele. Fine dell’ultimo Impero, Palomar, Bari 2007.


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La pourpre et le croissant, identité nationale et armée en Turquie

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La pourpre et le croissant, identité nationale et armée en Turquie

par Tancrède Josseran

 

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La République turque est indissociablement liée à l’institution militaire. En 1923, l’armée pose les fondements de l’Etat, et l’Etat engendre la nation. Les élites militaires se sentent naturellement investies de l’identité nationale. La désintégration pitoyable de l’Empire ottoman a conforté en eux une profonde défiance envers les ensembles cosmopolites. L’armée est politique puisqu’elle est l’Etat. Contre les antagonismes religieux, ethniques, sociaux, elle assure la continuité de l’Etat et sa sauvegarde à travers le temps.

Avec un contingent de 700 000 hommes, en additionnant la gendarmerie, l’institution militaire occupe une place déterminante dans la vie du pays. Preuve de cet enracinement en août 1999, le ministre turc de la culture, Istemihan Talay, (membre du Parti d’Action Nationaliste) déclarait à l’issue d’une conférence de presse : « la nation turque est une nation armée. La figure du soldat renvoie au fondement de notre identité nationale. Tout turc naît soldat » (1).

Pour comprendre le rôle de l’armée dans la société turque, il faut commencer par renverser les stéréotypes mentaux en cours en Occident. Les sociétés développées ont supprimé tout sens tragique à la vie. La quête d’un bien être artificiel et l’individualisme exacerbé ont évacué le dépassement de soi. La mort synonyme d’anéantissement y est devenue une infamie. Conséquence, elles repoussent dans une commune aversion les deux termes de l’existence : elles ne veulent plus mourir mais refusent également de donner la vie. Le sacrifice est incompris. C’est justement la finalité des armées, qui pour mener à bien leur mission, c’est à dire la défense de l’honneur national, de l’intégrité du territoire, doivent en échange accepter l’effort, la souffrance, la mort. Or les motifs pour lesquels les armées sont rejetées dans les sociétés occidentales sont précisément celles pour lesquelles elles sont respectées en Turquie, parce qu’elles rendent constamment présente l’idée du don ultime de soi.

La guerre notre mère

Les nations se construisent par le glaive, et par ce même glaive oeuvrent à la conservation de la paix et du bien commun. L’organisation de la violence source de mort est en même temps l’outil de perpétuation de la vie. La guerre est la genèse du monde sans laquelle il n’y a pas d’avancées. Pour Suat Ilhan, maître à penser de la géopolitique turque et titulaire de la chaire de géostratégie de l’Académie de sécurité nationale (Milli Güvenlik Akademesi) : « La guerre, spécialement les grands conflits sont l’occasion d’emprunter un certain nombre de traits culturels. La guerre est un produit culturel, l’innovation technologique en découle, elle est cause et conséquence de la modernisation et de l’adhésion aux normes de la civilisation» (2). En outre, souligne Ilhan, la guerre est aussi révélatrice de l’altérité, de l’essence profonde d’une civilisation. Il cite le discours de Mustapha Kemal commémorant l’anniversaire de la guerre d’indépendance et la libération de l’Anatolie des forces de l’Entente en 1922: « Au final, ce n’est pas uniquement la force physique, c’est aussi nos ressources morales et culturelles qui assurentnotre prééminence» (3).

Les guerres font l’Histoire. Elles sont selon Ilhan, le « meilleur moyen d’appréhender» l’histoire turque (4). Elles sont consubstantielles au nomadisme des Turcs d’Asie Centrale. Ces migrations s’organisent à l’ origine vers quatre directions distinctes :

-­‐La Chine et l’Inde

-­‐La Mer Caspienne, et le nord de Mer Noire

-­‐Les Balkans et l’Europe Centrale

-­‐Le Moyen-Orient

Ces régions ont été en même temps le théâtre géographique des guerres turques. Celles-­‐ci ne sont pas encore terminées et leurs conséquences se font encore sentir. La guerre entre Chinois et peuplades turques remonte aux Huns. C’est contre eux que la dynastie des Shi-Huangdi commence à construire la Grande muraille. Aujourd’hui, un conflit de faible intensité se poursuit au Turkestan Oriental avec les Ouighours. Il est selon Ilhan l’épilogue d’une lutte commencée « depuis 2000 ans» (5). En Inde, ce conflit a commencé avec les Huns Blancs et s’est poursuivi avec l’arrivée des Moghols. L’Islam s’est répandu pendant ces guerres. Les tensions récurrentes entre Dehli et Islamabad seraient donc la conséquence de ces invasions.

Mais dans l’imaginaire turc, les guerres les plus importantes restent celles livrées contre l’Europe : «Elles sont dans notre histoire, les luttes les plus longues et les plus usantes» (6). Pour Ilhan, l’Europe a fortifié son identité contre cette menace extérieure. L’identité occidentale a « trouvé l’autre» (7). Dans un raccourci saisissant, Ilhan observe que si entre 632, date la mort de Mahomet, et 1071 année de l’arrivée des Turcs en Anatolie, la figure de l’autre chez les Européens est celle de l’arabe, elle reste avant et après ces deux dates à travers les Huns et les Ottomans, celle du turc...

Les croisades constituent un événement fondamental de cet affrontement. En 1056 Thugri Beg et les Turcs Seldjoukides poursuivant leur migration vers l’Ouest s’emparent de Bagdad. Le chef turc reçoit le titre de Sultan du dernier Calife abbasside. Charge à lui de protéger et de propager l’Islam. C’est sur cet épisode que s’appuient les tenants de la synthèse turco­islamique, véritable idéologie d’Etat mise en place par l’armée après l’intervention militaire de septembre 1980, pour affirmer l’idée d’une destinée manifeste intrinsèque aux Turcs. Dans un contexte de fortes tensions internationales et sociales, où terrorismes de droite et de gauche se répondent mutuellement, l’armée voit en l’Islam la force susceptible de stabiliser la société et d’unifier la nation autour d’un socle commun. Les Turcs à l’époque des «Seldjoukides ...ont fait face en Anatolie, en Syrie, en Palestine, à la Première croisade. A l’époque ottomane dans les Balkans, ils ont arrêté la Deuxième croisade. Le troisième temps de la guerre entre Européens et Turcs prend la forme d’un affrontement avec les Russes» (8).

Au lendemain de la Première Guerre mondiale, le traité de Sèvres prévoit le partage des dépouilles de l’empire vaincu entre les puissances de l’Entente. C’est le début de la guerre d’indépendance « Istiqlal Harbi ». Elle est dans le récit national turc simultanément et paradoxalement « le précurseur des mouvements d’émancipations du monde islamique de l’Occident» et la condition à l’édification « d’un Etat indépendant préalable à la modernisation de la société» (9). Dès lors, il s’agit en s’appropriant ce qu’il y a de meilleur dans le corpus culturel occidental, « de parvenir par étape à la société contemporaine en mêlant ces acquis à la culture turque »(10).

L’armée des steppes

Le bulletin de liaison de l’armée de terre fait remonter la première force organisée au règne de Mete Han, chef hunnique du Ier siècle av. JC (11). Cavaliers réputés, les Turcs inventent la selle et l’étrier. Ils sont de redoutables archers. La distance et l’éloignement dans l’espace en Asie Centrale empêchent la création de fortes entités étatiques. Aussi la condition première à la survie d’un groupe organisé réside dans l’utilisation du cheval. Dans l’histoire turque, la domestication du cheval est capitale.


Elle est la deuxième qualité la plus importante après la fonction guerrière. Ilhan remarque qu’« en raison des menaces qui ont pesé dans l’histoire turque, le soldat est un élément essentiel, ses qualités sont primordiales» (12). Si l’empire ottoman est cosmopolite et multiculturel, son armée en revanche est nationale et musulmane. Seuls les musulmans sont astreints à faire leur service militaire. Par conséquent, l’armée est l’une des rares institutions impériales où l’élément turc domine sans partage. Les militaires se sentent naturellement les dépositaires de l’identité nationale et de sa défense à travers les aléas du temps. Les fondateurs de la République, Mustapha Kemal et Ismet Inönü, sont des hommes d’arme. Au début du XXème siècle, cette aspiration nationale est confuse. Elle ne commence réellement à pénétrer les esprits qu’avec le Premier conflit mondial. Les soldats du Sultan sont partis à la guerre Ottomans, ils en reviennent Turcs. Sous l’effet des épreuves, des trahisons, un embryon de conscience collective émerge. L’homogénéité contre l’hétérogénéité, tel est l’enjeu du processus de construction initié par les militaires. Laïcité et intégrité du territoire sont les deux piliers du nouvel Etat. Sans laïcité, pas de lien national possible, mais sans unité, pas de cohésion politique, et par conséquent pas de laïcité.

La laïcité est la religion civique de la République dans la mesure où elle substitue aux allégeances communautaires de la théocratie ottomane un lien national.

Paradoxalement, si la laïcité reste la valeur cardinale, l’armée a su jeter des ponts avec la foi du Prophète. Elle est le socle identitaire sur lequel la République a déterminé l’appartenance à la nation turque au moment des échanges de population après la guerre d’indépendance. Cet islam scientiste et national est organisé dans le cadre d’une laïcité concordataire. Les desservants du culte dépendent du ministère des Affaires religieuses, le Dinayet. En d’autres termes, comme le souligne Ilhan, si « l’islam n’est pas l’idéologie de la République, il est le système de croyance de la majorité des citoyens turcs » (13).

La mission des militaires est la défense de l’Etat, or pour de nombreux Turcs, la préservation de l’Etat est la condition essentielle à la sauvegarde de l’Islam. Les navires de la marine ont tous obligatoirement un exemplaire du Coran à leur bord. Les soldats turcs sont appelés «Mehmetcik» (soldat de Mahomet). Ils montent à l’assaut au cri de Allah, Allah. Avant d’ouvrir le feu, l’invocation islamique bismillah est prononcée. L’armée est considérée comme le cœur du Prophète (Peygamber Oçagi). Chaque soldat tombé au champ d’honneur est déclaré martyr (sehit). Dans un sens plus large, ce terme désigne celui tombé pour l’Islam au cours du Djihad. Le nom de guerre de Mustapha Kemal, Ghazi, a lui-même une connotation religieuse puisqu’il désigne les guerriers musulmans dans leur guerre sainte contre les chrétiens. Le drapeau écarlate frappé du croissant blanc reflète ce balancement permanent entre tradition et modernité.

Un homme nouveau

En Turquie, deux ministères utilisent le terme de « national » dans leur intitulé. Les ministères de la Défense et de l’Education. Si le premier assure la sauvegarde de la République et l’intégrité du territoire, le second en revanche a pour mission d’éduquer le futur citoyen dans l’obéissance aux préceptes de la révolution kémaliste, et d’assurer son épanouissement moral dans la turcité.

Pour reprendre les mots d’un officiel turc: « L’armée est une école et l’école est une armée» (14). Il s’agit donc d’une guerre sur deux fronts. A terme, la propédeutique kémaliste doit accoucher d’un homme nouveau, viril, vertueux, héroïque. Ce processus de construction nationale repose sur le soldat et l’instituteur :

« Durant la guerre d’indépendance, tandis que l’armée combattait les Grecs sur le front, une armée de professeurs préparaient à Ankara l’assaut final contre l’obscurantisme. La guerre et l’éducation sont jumelles; le soldat chasse l’occupant du pays, l’enseignent en extirpe l’ignorance» (15).

Dès lors, dans le discours identitaire et civique turc, l’aspect militaire est déterminant. La figure du soldat est l’extension naturelle du caractère national et son accomplissement ultime. Le manuel d’éducation civique en vigueur dans les lycées du pays expose ainsi les traits inhérents à la race turque :

«-­‐Les Turcs sont la race la plus ancienne, la plus noble et la plus héroïque du monde.

-­‐La civilisation turque commence avec l’Histoire, elle est parmi les plus anciennes et les plus développées. Elle est à l’origine de la civilisation contemporaine.

-­‐Le turc est combattant, fort, plein de fougue, intelligent, brave, magnanime, exemple de morale et de vertu pour le reste de l’humanité.

-­‐La femme et l’homme turcs sont fidèles et vertueux. Quand ils fusionnent, ils forment une force indestructible.

-­‐ Les victoires des Turcs commencent avec l’Histoire. Les armées turques ont donné naissance à la gloire et l’honneur.

-­‐Les Turcs sont dévoués à leurs pays et vigilants quant à leur indépendance et à leur souveraineté. Ils n’hésitent pas à défier la mort pour la protéger.


-­‐En définitive, le turc est un être supérieur qui a une place à part sur terre» (16).

Cette éthique se retrouve également au sein des écoles militaires. Plus que des soldats, elles ont reçu pour mission de former les cadres de la nation. A partir du jour où ils franchissent le seuil de l’école, les élèves officiers s’entendent répéter qu’ils sont l’élite de la nation et sa conscience éveillée. Maintenus à l’écart des vicissitudes de la vie civile, ils conçoivent rapidement un mépris prononcé pour la médiocrité du monde extérieur. Leur serment reflète cet engagement qui implique l’idée du sacrifice ultime car selon leurs paroles, « un pays n’existe que si on peut mourir pour lui» (17). Le patriotisme s’identifie naturellement au Kémalisme et aux principes qui en découlent : souveraineté nationale, unité de l’Etat, laïcité. Les cadets sont encouragés à prendre modèle sur Atatürk et à sentir sa prés en ce dans leur service quotidien. Cette immanence est particulièrement forte certains jours de l’année. Chaque 13 mars est célébré le jour d’entrée de Kemal à l’école militaire. A l’appel matinal, les élèves officiers figés au garde-­‐ à-­‐ vous dans l’air froid du matin répondent présent à l’appel du nom du père de la nation. La commémoration de sa mort tous les 10 novembre et la visite de son mausolée, immensité de marbre aux lignes austères qui dominent Ankara, sont un moment de recueillement collectif. Le soir, dans leur chambrée, les élèves officiers sont invités à prendre comme livre de chevet le Nutuk. Texte fondateur du kémalisme, ce discours fleuve prononcé en 1927, résume l’œuvre de redressement national. Il a valeur d’écriture sainte.

Les objectifs de l’armée recoupent les trois finalités dévolues au politique, la conservation de l’intégrité du territoire et de son indépendance dans la concorde intérieure et la sécurité extérieure. L’article 35 du règlement interne de l’armée établit que le devoir des forces armées est de protéger la patrie, la République et la Constitution, « si besoin par les armes contre l’extérieur et l’intérieur» (article 85) (18). Une lecture large de ces articles donne un droit d’intervention dans le cours des affaires politiques. L’urgence politique n’admet pas de répit, elle exige une décision ferme, nette et rapide. En clair, l’institution militaire considère qu’ « est souverain celui qui décide de la situation exceptionnelle» (19). C’est la puissance, « les armes» qui créent les conditions d’application du droit. La force est le moyen essentiel et sinon le seul capable de restaurer l’unanimité nationale fêlée. Le glaive tranche le nœud de la discorde et rétablit l’harmonie perdue.

Tancrède JOSSERAN.

1 ) Hürriyet, 11 aout 1999

2 ) Suat Ilhan, Türk olmakzordur, ( Il est dur d’être turc), Alfa, Istanbul, 2009 .

3 ) Ibid.p.44.

4 ) Idem.

5 ) Ibid.p.320.

6 ) Ibid. p. 319.

7 ) Ibid.p.322.

8 ) Ibid.p.328.

9 ) Ibid.p.693.

1 0) Ibid.p.673.

1 1) Kara Kuvvetleri Haber Bulletin, «Kara Kuvetlerinin 2206’nci yildonumu kutlandi », (2206 eme anniversaires de la fondation de l’armée de terre), juillet 1997.

1 2 ) Op.cit.(2).p.610.

1 3) Ibid.p.728.

1 4) Ayse Gül, The myth of the military-nation, Palagrave-macmillan, London,

2004.p.119. 1 5) Idem.p.122. 16)Idem.p.126. 1 7) Gareth Jenkins, Context and circumstance : The Turkish military and politics, The

international Institute for Strategic Studies,London, 2001, p.32.

1 8) Vural Savas, AKP çoktan kapatilmaliydi, (L’AKP aurait du être interdit), Bilgi Yayinevi, Istanbul, 2008, p.153.

1 9)Carl Schmitt, Théologie politique, Gaillimard, Paris, 1988,p.123.

dimanche, 17 juillet 2011

Artico: una nuova rotta commerciale per l'Asia

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Artico: una nuova rotta

commerciale per l’Asia

      

Ex: http://rinascita.eu/

La disputa per il controllo dell’Artico è appena iniziata. In ballo c’è il controllo delle risorse energetiche, le nuove vie per i traffici marittimi e i nuovi spazi per la pesca e il turismo. E proprio l’apertura del Passaggio a Nord-Est costituisce una delle risorse che Mosca intende sfruttare sul piano economico e commerciale.

 

Un cargo, MV Nordic Barents, ha trasportato oltre 40.000 tonnellate di minerale di ferro, dal porto norvegese di Kirkenes, salpando il 4 settembre scorso e diventando così la prima nave straniera a compiere un viaggio commerciale attraverso le acque dell’Artico russo. Il bastimento ha attraversato la North Sea Route (Passaggio a Nord-est), percorrendo le coste settentrionali della Russia per raggiungere e attraversare lo stretto di Bering. Circa tre settimane dopo, ha attraccato a Xingang, nel nord della Cina. “L’intero viaggio è andato benissimo. Non ci sono stati grandi ritardi ed è stato molto economico. Comparato al Capo di Buona Speranza, il risparmio per il solo carburante è stato di circa 550.000 dollari”, ha dichiarato Christian Bonfils, Ceo della Nordic Bulk Carriers.


I russi utilizzano le acque artiche tutto l’anno, oramai da decenni. Il progressivo ritrarsi della banchisa causato dal surriscaldamento globale negli ultimi anni ha spinto le compagnie di navigazione straniere a guardare verso nord nella speranza di sfruttare le nuove rotte di navigazione commerciale. Ma fino a poco tempo la rotta dell’Estremo Nord era chiusa alle navi straniere. Le aziende era obbligate ad utilizzare il canale di Suez, un viaggio che dalla Norvegia, richiede quasi il doppio del tempo. L’anno scorso la Tschudi shipping che possiede una miniera a Kirkenes, ha chiesto ai russi la possibilità di utilizzare la via del Mare del Nord per raggiungere la Cina, il più grande cliente della miniera.
“Abbiamo ottenuto un messaggio molto chiaro dallo Stato russo: Vogliamo competere con Suez”, ha sottolineato il Ceo Felix Tschudi.


Fino a quel momento l’incertezza era enorme per i costi d’ingaggio di un rompighiaccio russo. “Il prezzo che abbiamo pagato l’anno scorso [210.000 dollari] per il servizio fornito dal rompighiaccio è stata comparabile a quello per il Canale di Suez”, ha chiosato Bonfils. Ciò dimostra che nelle intenzioni dei russi qualcosa sta cambiando. A spiegare le cause è stato il professor Lawson Brigham, dell’Università di Fairbanks in Alaska, sottolineando che tutto ciò è dovuto alla volontà russa di sfruttare le risorse naturali dell’area. “Il motivo di fondo è che il Pil della Russia è legato allo sviluppo delle risorse naturali dell’Artico”, ha osservato il docente, ma interesse di Mosca è anche quello di realizzare un sistema di trasporto delle risorse naturali ai grandi mercati globali, in particolare a quello cinese. Nella regione infatti sono presenti enormi giacimenti di risorse naturali, tra cui nichel, ferro, fosforo, rame e cobalto, nonché idrocarburi. La Russia spera così di sfruttare le enormi ricchezze dei fondali artici e favorire commerci e trasporti attraverso il Passaggio a Nord-est, Una rotta questa più breve di migliaia di km rispetto alle altre: 13mila chilometri verso l’Asia, circa 10mila in meno rispetto alla rotta tradizionale del Canale di Suez. Per l’anno in corso è previsto un traffico di tre milioni di tonnellate, una cifra che il vice premier russo Sergej Ivanov conta di raddoppiare nel 2012.

vendredi, 15 juillet 2011

La question turque

La question turque

Radio "Méridien Zéro", Paris



mercredi, 13 juillet 2011

Der Islam als geopolitisches Werkzeug zur Kontrolle des Nahen und Mittleren Ostens

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Die Kräfte der Manipulation: der Islam als geopolitisches Werkzeug zur Kontrolle des Nahen und Mittleren Ostens

Mahdi Darius Nazemroaya

Bei ihrem Vormarsch gegen das Eurasische Herzland versuchen Washington und seine Gefolgsleute, sich den Islam als geopolitisches Werkzeug zunutze zu machen. Politisches und soziales Chaos haben sie bereits geschaffen. Dabei wird versucht, den Islam neu zu definieren und ihn den Interessen des weltweiten Kapitals unterzuordnen, indem eine neue Generation sogenannter Islamisten, hauptsächlich unter den Arabern, ins Spiel gebracht wird.

Das Projekt Neudefinition des Islam: die Türkei als das neue Modell eines »Calvinistischen Islam«

Die heutige Türkei wird den aufbegehrenden Massen in der arabischen Welt als demokratisches Modell präsentiert, dem es nachzueifern gilt. Unbestreitbar hat Ankara Fortschritte gemacht im Vergleich zu den Zeiten, als es verboten war, in der Öffentlichkeit Kurdisch zu sprechen. Dennoch ist die Türkei keine funktionsfähige Demokratie, sondern eher eine Kleptokratie mit faschistischen Zügen.

Mehr:http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/mahdi-darius-nazemroaya/die-kraefte-der-manipulation-der-islam-als-geopolitisches-werkzeug-zur-kontrolle-des-nahen-und-mitt.html

vendredi, 08 juillet 2011

Neue Forschungen der NASA deuten auf mögliche Verbindung zwischen HAARP und Erdbeben/Tsunami in Japan hin

Neue Forschungen der NASA deuten auf mögliche Verbindung zwischen HAARP und Erdbeben/Tsunami in Japan hin

Ethan A. Huff

Neue Daten, die Dimitar Ourounov und Kollegen am Goddard-Raumfahrtzentrum der NASA im US-Bundesstaat Maryland veröffentlicht haben, verweisen auf merkwürdige atmosphärische Anomalien über Japan, nur wenige Tage vor dem schweren Erdbeben und dem nachfolgenden Tsunami am 11. März. Eine scheinbar nicht erklärliche rapide Aufheizung der Ionosphäre direkt über dem Epizentrum erreichte laut Satellitenbeobachtungen nur drei Tage vor dem Beben ihr Maximum. Dies könnte darauf hindeuten, dass möglicherweise gerichtete Energie, die von Transmittern freigesetzt wird, die beim High Frequency Active Auroral Research Program (HAARP) verwendet werden, für die Auslösung des Erdbebens verantwortlich war.

 

 

Die Erkenntnisse, die in der Zeitschrift Technology Review des Massachusetts Institute of Technology (MIT) veröffentlicht wurden, werden gemeinsam mit einer anderen Theorie präsentiert, der sogenannten Lithosphären-Atmosphären-Ionosphären-Kopplung, die von der Hypothese ausgeht, dass die Aufheizung der Ionosphäre durch das bevorstehende Erdbeben verursacht wurde, da aus der Bruchlinie radioaktives Radon ausgetreten sei.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/ethan-a-huff/neue-forschungen-der-nasa-deuten-auf-moegliche-verbindung-zwischen-haarp-und-erdbeben-tsunami-in-jap.html

vendredi, 10 juin 2011

J. P. Fuss: Erdogan, Meister der Täuschung

Jürgen P. Fuß,

Erdogan - ein Meister der Täuschung

Was Europa von der Türkei wirklich zu erwarten hat

ISBN 978-3937820-16-3 - Verlag Siegfried Bublies

278 Seiten, gebunden, Hardcover, 19,80 euro

Erscheinungstermin: 15 Juni 2011

Mehr als sechs Jahre haben Jürgen P. Fuß und seine Frau in der Türkei gelebt und dabei Land und Leute kennen gelernt. Im April 2004 gründeten sie die erste deutschsprachige Wochenzeitung für die Türkei. In insgesamt 222 Ausgaben berichtete die „Aktuelle Türkei Rundschau" über die Türkei und kommentierte die politischen Ereignisse. Als Herausgeber und Chefredakteure konnten Fuß und seine Frau hautnah miterleben, wie Recep Tayyip Erdogan den Einfluss der islamisch-konservativen AKP (deutsch: Partei für Gerechtigkeit und Entwicklung) immer weiter festigte. Gleichzeitig gelang es Erdogan, seine Machtposition innerhalb und außerhalb der Partei so stark auszubauen, dass er mit einigen ihm treu ergebenen Weggefährten mittlerweile alle Fäden des türkischen Staates in der Hand hält.

Jürgen P. Fuß liefert mit „Erdogan – ein Meister der Täuschung" eine umfassende Biografie des türkischen Machtpolitikers und eine entlarvende Analyse seiner politischen Aktivitäten als Parteivorsitzender der AKP und Ministerpräsident der Türkei.

Bereits 1998 wurde der frühere Istanbuler Bürgermeister Erdogan wegen öffentlichen Zitierens der folgenden Verse zu einer Gefängnisstrafe verurteilt: Die Demokratie ist nur der Zug, auf den wir aufsteigen, bis wir am Ziel sind. Die Minarette sind unsere Bajonette... die Moscheen sind unsere Kasernen." Erst nach einer Verfassungsänderung konnte Erdogan für das türkische Parlament kandidieren und am 11. März 2003 Ministerpräsident werden. Seit dieser Zeit beherrscht Erdogan die hohe Kunst des Verstellens, Verschleierns und Täuschens als erfolgreiche Methode eines schleichenden Machterwerbs. Fuß’ faktenreiche und auf intimer Kenntnis der türkischen Verhältnisse basierende Arbeit zeigt: Erdogan, der aus der radikal-islamischen und autoritären Milli Görüs-Bewegung Erbakans kommt, strebt für die Türkei eine Führungsrolle in Europa, Vorderasien und im Nahen Osten an. Und der Islam soll die alle Lebensbereiche beherrschende Religion werden. Für Fuß gibt es deshalb nur eine zwingende politische Schlußfolgerung: Die Türkei darf nicht Mitglied im europäischen Staatenverbund werden.

Zum Autor:

Jürgen P. Fuß, geboren 1946, studierte Elektrotechnik, Abschluß als Diplom-Ingenieur. Von 1979 bis 2009 Dozent für Betriebswirtschaft an einer Fachhochschule. Herausgeber und Chefredakteur der einzigen deutschsprachigen Wochenzeitung in der Türkei in den Jahren 2004 bis 2009.

Im Februar 2009 verließen Jürgen P. Fuß und seine Frau die Türkei, weil sie nicht länger in einem Land leben wollten, das Recep Tayyip Erdogan nach seinen islamisch-konservativen Vorstellungen umbaut. Hinzu kam, dass das Risiko, ins Visier der Polizei oder der Justiz zu geraten, für die Herausgeber und Chefredakteure der „Aktuellen Türkei Rundschau" immer größer wurde. Eine verantwortungsvolle journalistische Arbeit war nicht mehr möglich. Mittlerweile leben sie an verschiedenen Orten in Europa.

Inhaltsverzeichnis

Vorwort

1 Recep Tayyip Erdogan (Kindheit, Jugend, Lehrmeister)
1.1 Erdogan – von ganz unten nach ganz oben
1.2 Erdogans Vorbilder und Lehrer
1.2.1 Wer hat Erdogans Weltbild geprägt?
1.2.2 Milli-Görüs - Meinungsbildung in jungen Jahren
1.2.3 Fazit: Wie Milli-Görüs Erdogan geprägt hat
1.2.4 Said Nursi - Islamischer Vordenker wirkt bis heute
1.2.5 Nursis Kritik an der muslimischen Gemeinschaft
1.2.6 Fethullah Gülen - geistiger Lehrmeister oder mehr?
1.2.7 Erbakans politischer Weg - Lehrstück mit nachhaltiger Wirkung
1.2.8 Erdogans Motive - eine erste Zwischenbilanz

2 Erdogans Weg zur Macht (1994 bis 2002)
2.1 Erdogans erste politischen Schritte (1975 bis 1998)
2.2 Türkei im Aufbruch (1997 bis 2001)
2.3 Die AKP wird Regierungspartei (2001 bis 2002)
2.4 Erdogan wird Regierungschef (2003)
2.5 Regierungsantritt der AKP - ein Sieg der Demokratie?
2.6 Erdogan festigt seine Position
2.7 Keine Frage: Die AKP steht und fällt mit Erdogan

3 Erdogan weckt hohe Erwartungen (2003 bis 2010)
3.1 Wahlversprechen 2002: Alles soll besser werden
3.2 Erdogan verspricht: Wirtschaftlicher Aufschwung
3.2.1 Bruttoinlandsprodukt seit 2002 gestiegen
3.2.2 Inflationsrate weit über dem europäischen Niveau
3.2.3 Grundlegende Probleme des türkischen Arbeitsmarktes nicht gelöst
3.2.4 Bilanz: Türkei wäre wirtschaftlich betrachtet ein schwaches Mitglied in der EU
3.3 Erdogan verspricht: Mehr Demokratie
3.3.1 Rückblick auf sechs Jahrzehnte Demokratie in der Türkei
3.3.2 Das türkische Wahlrecht verzerrt das Wahlergebnis
3.3.3 Stärkt die AKP die Demokratie in der Türkei?
3.4 Erdogan verspricht: Mehr Meinungs- und Pressefreiheit
3.4.1 Die Lage vor dem Regierungswechsel 2002
3.4.2 AKP-Regierung schafft vorübergehend Verbesserungen
3.4.3 Erdogan verändert die Medienlandschaft
3.4.4 Bilanz: Keine Fortschritte, sondern Rückwärtsgang im Medienbereich
3.5 Erdogan verspricht: Rechtsreform und bessere Justiz
3.5.1 Neues Strafvollzugsgesetz - ein Stück Etikettenschwindel
3.5.2 4.000 neue Staatsanwälte und Richter - Justizreform oder: mehr Einfluss für die AKP?
3.5.3 Türkisches Anti-Terrorgesetz – Mehr Rechte für Militär und Polizei
3.5.4 Justizreform führt zu mehr Einfluss durch die Politik
3.6 Bilanz: Hohe Erwartungen kaum erfüllt

4 Erdogans wahre Pläne (ab 2008)
4.1 Will Erdogan eine Türkei nach europäischem Muster?
4.2 Erdogans "Schöne Neue Welt"
4.2.1 Erdogans 1. Plan: Die Entmachtung des türkischen Militärs
4.2.2 Erdogans 2. Plan: Türkische Kolonie Europa
4.2.3 Erdogans 3. Plan: Türkei eine der zehn größten Volkswirtschaften
4.2.4 Erdogans 4. Plan: Weltmacht Türkei
4.2.5 Erdogan auf den Weg zum zweiten Atatürk?
4.2.6 Statt einer Bilanz - Versuch einer Prognose 2023

5 Resümee: Was Europa von der Türkei wirklich zu erwarten hat


Literaturverzeichnis

mercredi, 01 juin 2011

Le face à face russo-chinois

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Le face à face russo-chinois : le « vide » sibérien face « au trop plein » chinois

par Marc ROUSSET

La Russie coopère avec la Chine dans le cadre de l’Organisation de coopération de Shanghaï (O.C.S.) qui vise à empêcher toute incursion de l’O.T.A.N. (ou des États-Unis seuls) en Asie centrale. Mais parallèlement, Moscou est très préoccupée de la montée en puissance de la Chine avec qui elle partage 4 300 km de frontières communes. La Russie ne peut oublier que les seules invasions  du territoire russe qui  aient réussi venaient toujours de l’Est. Moscou est donc de facto très ouvert à toute coopération européenne qui lui permet d’accroître l’encadrement international de la puissance chinoise émergente et également de renforcer sa capacité à défendre les richesses et le potentiel économique de la  Sibérie, l’enjeu du XXIe siècle entre la Grande Europe de Brest à Vladivostok et la Chine.

J’ai à maintes reprises demandé aux puissances occidentales de ne pas identifier le communisme soviétique à la Russie et l’histoire de la Russie »  a pu dire Alexandre Soljenitsyne. La Russie est en fait la sentinelle de l’Europe face à la Chine et à l’Asie centrale. L’Europe doit se considérer  comme l’« Hinterland » de la Russie  et voir dans la Sibérie  le « Far East » de la Grande Europe. L’Europe ne va pas de Washington à Bruxelles, mais de Brest à Vladivostok. En Sibérie, en Asie centrale, l’Européen, c’est le Russe ! Ces thèmes ont été abordés dans mon ouvrage La Nouvelle Europe Paris-Berlin-Moscou. Il est donc  intéressant de s’interroger sur ce que certains ont appelé le « péril jaune » pour le monde européen, suite au déséquilibre structurel démographique entre la Chine et la Russie et au « vide sibérien » face au « trop plein » chinois.

La démographie chinoise

La population de la République populaire  de Chine s’élevait fin  2010  à 1 341 000 000 d’habitants. Si l’on y rajoute Hong Kong, Macao et Taïwan, la population de la Chine est la plus grande du monde et  s’élève à 1 370 000 000 d’habitants, soit plus du cinquième de l’humanité.

La baisse rapide de la mortalité et le retard du contrôle des naissances sous  Mao Tsé-Toung, encourageant un temps les Chinois à procréer une armée de « petits soldats » ont contribué à une forte croissance démographique. En 1953, la Chine totalisait seulement 582 000 000 habitants.

Toutefois, selon les dernières projections démographiques de l’O.N.U. (2008), la population chinoise pourrait ne jamais atteindre 1 500 000 d’habitants, plafonnant à 1 460 000 000 en 2035 avant d’amorcer une décroissance. La politique de l’enfant unique pratiquée par la Chine depuis 1979 sur la décision de Deng Xiao-Ping a porté ses fruits : quatre cents millions de naissances auraient été évitées en vingt-cinq ans. Le taux de fécondité a atteint une moyenne de 1,77 enfant par femme entre 2005  et 2010 quand il était de 4,77 entre 1970 et 1975 et déjà de 2,93 enfants par femme en moyenne les cinq années suivantes.

Il faut bien mesurer les limites de la politique de l’enfant unique. Dès sa mise en place, la loi obligeant tous les Chinois mariés à n’avoir qu’un seul enfant a été battue en brèche par deux exceptions  de taille : les couples de paysans avaient droit à deux enfants si le premier s’avérait être une fille, et les ethnies non Han n’étaient pas soumises à la loi car menacées puisque minoritaires. D’autre part, seules les zones urbaines et les six provinces relevant du pouvoir central ont été soumises à la loi de l’enfant unique. Cet ensemble constitue 35 % seulement de la population chinoise totale. La totalité de la Chine a donc, en réalité, 1,47 enfant par couple.

En 2002, une loi autorisait un couple à avoir plusieurs enfants moyennant une taxe de six cents euros par enfant supplémentaire. Depuis juillet 2007, le gouvernement central autorise les couples composés de deux enfants uniques à avoir, eux-mêmes, deux enfants. Une ville comme Shanghaï, dont le niveau de vieillissement de la population est l’un des plus élevé du pays, est allée plus loin en 2009. Elle encourage les couples à avoir deux enfants en supprimant notamment les aides sociales allouées jusque là aux couples sans enfants.

Le gouvernement chinois aurait ainsi tendance à assouplir la politique de l’enfant unique. La Chine est tiraillée entre deux maux, surpopulation et déséquilibre entre les sexes, vieillissement de la population provoqué par un faible taux de la natalité. Les plus de 65 ans étaient cent millions en 2008; ils seront trois cent quarante millions en 2050, soit près de 25 % de la population. La réalité compliquée de la question démographique chinoise ne préjuge pas de ce que décidera finalement le gouvernement chinois. Un fait structurel et objectif  demeure : il y aura toujours plus d’un milliard de Chinois au Sud de la Sibérie. Le déséquilibre  structurel démographique de l’ordre de 1 à 10 avec la Russie est d’autant plus préoccupant que, comme le disait Aristote, « la nature a horreur du vide ».

Évolution et perspectives de la démographie russe

Le  début du déclin démographique russe coïncide avec l’arrivée de  Gorbatchev au pouvoir (1985 – 1991), c’est-à-dire avec la mise en place de la Perestroïka suivie de l’effondrement du système soviétique. En 1990, la Russie comprenait cent quarante-neuf millions d’habitants, cent quarante-cinq millions d’habitants en 2001 et cent quarante-deux millions en 2007, soit sept millions d’habitants en moins de vingt ans, un rythme de croisière de disparition du peuple russe de 400 000 citoyens de moins chaque année. En fait, le rythme de disparition était d’environ   800 000  habitants par an car, depuis la fin de l’U.R.S.S., 400 000 Russes ont quitté chaque année les ex-républiques soviétiques pour la mère patrie.

Au début des années 2000, selon Boris Revitch du Centre de démographie russe, l’espérance de vie était de 59 ans pour un homme à la naissance, soit vingt ans de moins qu’en Europe occidentale, pour plusieurs raisons : l’alcoolisme (34 500 morts par an), le tabagisme (500 000 morts par an), les maladies cardio-vasculaires (1 300 000 de morts par an), le cancer (300 000 morts par an), le S.I.D.A., les accidents de la route (39 000 morts par an), les meurtres (36 000 morts par an), les suicides (46 000 décès par an), la déficience du système de santé qui faisait la fierté de l’U.R.S.S. et qui était devenue une catastrophe sanitaire avec, par exemple, une mortalité infantile (11 pour 1000), deux fois plus élevée que dans l’U.E.

Tandis que de plus en plus de Russes mouraient, de moins en moins naissaient. À la fin des années 1990, il y avait au minimum trois millions d’I.V.G. par an en Russie, pour un million de naissances, avec un taux de fécondité tombé au plus bas en 1999 à 1,16 enfants par femme. L’habitat trop exigu dans les grands immeubles du système soviétique contribuait  à la nouvelle habitude de l’enfant unique.

Dans son discours au Conseil de la Fédération en mai 2006, le président Poutine a confirmé la mise en place d’une politique nataliste par son bras droit Dimitri Medvedev, en aidant les jeunes couples à faire un second, voire un troisième enfant. Une batterie de mesures a été prise pour aider à la natalité. Les plus importantes sont des primes financières de l’État, des avantages fiscaux, mais aussi des aides au crédit et au logement. Les résultats  du plan Medvedev couplés avec une politique migratoire  de Russes de l’ex-U.R.S.S. et de nombreux Ukrainiens ont été fulgurants. La population a décru de 760 000 habitants en 2005, 520 000 habitants en 2006, 238 000 en 2007, 116 000 en 2008. En 2009 avec 1 760 000 naissances, 1 950 000 décès, 100 000 émigrants et 330 000 naturalisations, la population russe a augmenté pour la première fois depuis quinze ans de quelque 50 000 habitants. Le taux de fécondité de 1,9 enfant par femme en 1990, tombé à 1,1 enfant par femme en 2000 était remonté à 1,56 enfants par femme en 2009, soit un taux similaire à celui de l’Union européenne de 1,57 enfants  par femme. Bien que le nombre d’avortements ait diminué, on recensait encore en 2008 1 234 000 avortements  pour 1 714 000 naissances.

D’ici à  2050,  la démographie russe  va donc être soumise à deux forces contradictoires : d’une part, la politique nataliste gouvernementale, l’opinion publique hostile à l’immigration non russe, la construction en plein essor, les améliorations en matière d’éducation, d’agriculture et de santé (les quatre « projets nationaux »), le retour aux valeurs traditionnelles, à la religion orthodoxe et d’autre part l’effet d’hystérésis, suite à la chute de l’U.R.S.S., qui correspond à un rétrécissement structurel de la strate de population en âge de procréer (1), les influences néfastes de l’Occident et de sa « culture de mort » (libéralisation de la contraception, de l’avortement, de l’homosexualité, féminisme et travail des femmes, regroupement des populations dans les métropoles, destruction des petits agriculteurs, allocations familiales attribuées de plus en plus aux populations immigrées)

Trois prévisions démographiques majeures ont été envisagées pour l’année 2030 en 2010 par le Ministère russe de la Santé.

Selon une prévision estimée mauvaise, la population devrait continuer à baisser pour atteindre 139 630 000 en 2016 et 128 000 000 d’habitants en 2030. Le taux d’immigration resterait « faible »  autour de 200 000 par an pour les vingt prochaines années.

Selon une prévision estimée moyenne, la population devrait atteindre 139 372 000 habitants en 2030. Le taux d’immigration serait contenu à 350 000 nouveaux entrants par an.

Selon une prévision haute, la population devrait augmenter à près de 144 000 000 habitants en 2016 et continuer à augmenter jusqu’à 148 000 000 en 2030. Le taux d’immigration serait plus élevé dans  cette variante, soutenant la hausse de la population et avoisinerait les 475 000 nouveaux entrants par an. Sur vingt ans, on arriverait à une « immigration » équivalente à 8 % de la population du pays. Celle-ci serait principalement du Caucase et de la C.E.I., soit  des  populations post-soviétiques, russophones dont des communautés sont déjà présentes en Russie, et donc pas foncièrement déstabilisantes.

Pour l’année 2050, il nous paraît bien difficile pour ne pas dire impossible de se prononcer. Il semble donc plus raisonnable de retenir pour l’année 2050 dans les  prévisions 2006 de l’O.N.U. (2), le point haut de 130 millions d’habitants, la prévision de l’O.N.U. étant de 107 800 000 habitants avec un point bas de 88 000 000 habitants.

L’enjeu de la Sibérie

Sibérie tient son nom de la petite ville de Sibir. L’étymologie du mot est incertaine, mais le terme pourrait provenir du turco-mongol sibir désignant un peuplement très dispersé. La Sibérie est la partie asiatique de la Fédération de Russie : une immense région  d’une surface de 13 100 000 km2 (environ vingt-quatre fois la surface de la France) très peu peuplée (39 000 000 habitants soit environ 3 habitants au km2). Cette partie Nord de l’Asie représente 77 % de la surface de la Russie, elle-même deux fois plus grande que les États-Unis, mais seulement 27 % de sa population.

La Sibérie a les plus grandes forêts de la planète. L’intérêt économique majeur réside dans les richesses de son sous-sol, de pétrole et de gaz qui pourraient aller jusqu’au pôle Nord où la Russie a planté son drapeau par plus de 4 000 m de fond en juillet 2007. La Sibérie fournit de l’hydro-électricité et du charbon avec de riches bassins tels que celui du Kouzbass. Grâce à la Sibérie, avec cinq cents années de réserve, la Russie est le deuxième producteur mondial de charbon derrière les États-Unis. La Sibérie possède des gisements d’argent, d’or, d’uranium, de cuivre, de titane, de plomb, de zinc, d’étain, de manganèse, de bauxite, molybdène, de nickel… Un diamant sur quatre extrait dans le monde provient de Sibérie. Le réchauffement climatique ouvre la perspective d’exploitation d’autres immenses ressources en hydrocarbures. Moscou va être un acteur de premier plan dans la pièce qui va se jouer pour les ressources naturelles, la science et le transit maritime du XXIe siècle dans le Grand Nord.

La Sibérie d’aujourd’hui : un avant-poste des Européens face à la Chine

La Moscovie s’est construite contre les vagues déferlantes tartares et s’est toujours représentée comme une forteresse érigée au cœur d’un océan de plaines immenses et sans bornes. Les Russes ont colonisé la Sibérie, le Caucase et l’Asie centrale parce qu’ils étaient obligés de le faire. La Russie a connu pendant deux siècles le joug tartaro-mongol. La colonisation russe correspondait à des impératifs vitaux pour sa survie, à l’obligation géopolitique de trouver des frontières naturelles dont elle était dépourvue et qui était indispensable à sa protection. L’expansionnisme russe, contrairement à celui de l’Europe occidentale, était défensif et structurel.

Si les savants ont déclaré solennellement le paisible Oural au paysage ondulé, dont la pente ne devient raide que dans le nord, loin de la toundra, comme une ligne de démarcation entre l’Asie et l’Europe, les autochtones, eux, le considèrent comme une ligne de partage des eaux couverte de forêt, et rien de plus.

Les Russes se souviennent de Yermak comme d’un aventurier cosaque aussi remarquable que Magellan, d’un conquistador aussi intrépide que Cortez, car ce fut Yermak qui conduisit la première mission réussie dans la mystérieuse Sibérie, et qui inspira aux Russes l’idée de repousser leurs frontières de 6 200 km plus à l’Est, jusqu’à la côte asiatique du Pacifique. Trois fois dans l’histoire, la Sibérie fut traversée par des conquérants : par les hordes de cavaliers d’Attila et de Gengis Khan puis, en sens inverse, par le millier d’hommes de Yermak. C’est en 1558 qu’Ivan IV le Terrible accorde des privilèges d’exploitation des territoires situés à l’Est de l’Oural aux Stroganov, équivalents des Fugger, à la recherche de fourrures. Un  mouvement est lancé qui conduira les cosaques sur les rives du Pacifique en 1639 (et même plus tard en Alaska). Tandis que Français et Allemands se disputaient quelques lambeaux de territoire en Italie et aux Pays-Bas, une poignée de cavaliers navigateurs explorateurs parcourait une étendue vaste comme vingt fois la France ou l’Allemagne, plusieurs centaines de fois l’Alsace, la Flandre ou le Milanais. À la fin du XVIIIe siècle, la Russie a conquis la Sibérie. Ce territoire reste aujourd’hui  vide même si l’une des principales retombées du Transsibérien fut l’augmentation substantielle de la migration vers l’Est de l’Empire russe. 3 800 000 personnes émigrèrent vers la Sibérie entre 1861 et 1914 et contribuèrent à la russification des populations indigènes de Sibérie. Sans le Transsibérien, ces populations auraient émigré vers l’Amérique. La Sibérie  ne comptait  que 1 500 000 habitants en 1815, dix millions en 1914 et vingt-trois millions en 1960.

La nécessité de l’espace : une vérité qui n’est plus reconnue

Que depuis toujours la politique soit une lutte pour l’espace, pour acquérir une base, une place, que l’espace constitue l’alpha et l’oméga de toute vie, que la politique, la science, le commerce ne sont rien d’autre que l’acquisition de cet espace, voilà une vérité qui n’est plus reconnue.

Un avantage évident revient à qui, outre sa technicité, dispose aussi des matières premières nécessaires. Qui n’a que sa technique à offrir et doit importer les matières premières est désavantagé. C’est l’indépendance à long terme que de pouvoir se nourrir des produits de sa terre, que d’exploiter ses propres matières premières indispensables à la vie et à la protection, que de pouvoir se défendre avec des armes conçues et fabriquées chez soi. La certitude de pareils avantages, c’est un espace suffisamment grand qui la confère, si l’on s’en tient à l’exemple américain. A contrario, le Japon redeviendra à terme le vassal de la Chine simplement en raison du manque d’espace et donc de sa plus faible population  par rapport à son futur suzerain.

L’espace contient tout ce dont nous avons besoin, même l’air que nous respirons et l’eau qui nous désaltère. Il constitue donc le bien suprême. Plus d’espace, c’est plus d’oxygène, plus de pain, plus de rivières et de forêts, plus de terrain pour bâtir sa maison, plus de terre pour les jardins, plus de possibilités de repos, plus de distance d’homme à homme, une sphère privée élargie pour chacun, plus d’occasions de fuir les bruits et l’intoxication des villes, plus de calme pour penser, élaborer des projets, travailler, rêver, réfléchir. C’est accroître tout ce qui rend la vie digne d’être vécue et qui, hélas, se fait de plus en plus rare. Renoncer à l’espace, c’est renoncer à la vie.

L’Eurasie, du Pacifique à la Baltique, peut contenir plus d’hommes que le territoire de l’Europe occidentale. Un droit à l’occupation doit donc être reconnu aux peuples européens sur l’espace allant du Sud du Portugal au détroit de Behring, en incluant le Nord-Caucase et la totalité de l’espace sibérien. Sur cet espace, cinq cents millions d’Européens et cent cinquante millions de Russes devraient pouvoir prolonger jusqu’à Vladivostok les frontières humaines et culturelles de l’Europe. Le grand défi de la Sibérie est son trop faible peuplement par trente-neuf millions de Russes avec le risque d’une colonisation rampante par la Chine. La  Sibérie restera-t-elle russe et donc sous le contrôle civilisationnel européen ou deviendra-t-elle chinoise et asiatique ?

Les traités inégaux et l’actuelle frontière entre la Chine et la Russie

En 1689, suite à cinquante ans de confrontations armées inégales numériquement entre les cosaques et les Mandchous, les empires chinois et russe signent le traité de Nertchinsk : la Russie renonce à l’intégralité du bassin de l’Amour. L’empire Qing n’avait jamais occupé ces terres du nord, mais il ne souhaitait pas voir les Russes s’y installer. À partir du  XVIIIe siècle, la Russie cherche cependant à devenir une puissance navale dans l’océan Pacifique; elle encouragea les Russes à venir s’y établir et développe une présence militaire dans la région. La Chine n’avait jamais gouverné réellement la région et les avancées russes passèrent inaperçues. Les habitants de ces territoires n’étaient pour la plupart pas des Hans, mais des Mandchous, des Tibétains ou des Turcs. Au milieu du XIXe siècle, le bassin de l’Amour restait ainsi une terre sauvage où sur un million de km2 ne vivaient pas plus de trente mille personnes.

Mais dans les années 1850, la donne géopolitique a changé, l’Empire chinois est affaibli. En 1842, la Chine, suite à la Guerre de l’Opium, avait cédé Hong Kong par le traité de Nankin. Une nouvelle expédition russe a lieu pour explorer la région du fleuve Amour. En 1858, la Chine doit signer le traité d’Aïgoun, considéré comme un des nombreux traités inégaux avec les puissances occidentales. La Russie prend le contrôle de la rive gauche de l’Amour, de l’Argoun à la mer. « La Russie a réussi à arracher à la Chine un territoire grand comme la France et l’Allemagne réunis et un fleuve long comme le Danube », commentait Engels dans un article. Deux ans plus tard, en même temps que le sac du Palais d’Été par la coalition franco-anglaise, la Russie confirme et amplifie ses gains par la convention de Pékin. Elle obtient la cession de la région de Vladivostok et  Khabarovsk sur les rives droites de l’Amour et de l’Oussouri. Vladivostok qui était un village chinois du nom de Haichengwei « Baie des concombres de la mer » est fondée officiellement en 1860 et signifie « Seigneur de l’Orient ».

La Russie cherche plus tard à contrôler la Mandchourie pour protéger la Sibérie et élargir son ouverture sur l’océan Pacifique. Elle obtient la cession de Port-Arthur (Lüshunkou en chinois). La défaite face au Japon en 1905 ruine cette politique. La Russie renonce à la Mandchourie et doit céder Port-Arthur. Ce dernier retrouvera temporairement la souveraineté soviétique entre 1945 et 1955.

Dans les années 1960, les relations entre la Chine et l’U.R.S.S. se dégradent fortement et MaoTsé-Toung remet en cause les traités signés  au XIXe siècle entre les empires russe et mandchou. À partir de 1963, les incidents frontaliers se multiplient. Dès 1964, le président Mao, dans un discours aux parlementaires japonais, fait allusion aux territoires perdus. Ces tensions aboutissent en 1969 à un affrontement armé pour le contrôle de l’île Damanski sur la rivière Oussouri  qui fait des centaines de morts, en majorité chinois, mais n’aboutit pas à un nouveau tracé. L’U.R.S.S. envisage même de détruire préventivement les installations nucléaires chinoises. Dans les années qui suivent, la situation reste très tendue et n’évolue guère jusqu’aux années 1980.

À partir de 1988, à l’instigation de Mikhaïl Gorbatchev, les relations entre l’U.R.S.S. et la Chine se détendent et les négociations reprennent. Le 16 mai 1991, la Russie et la Chine signent un traité sur les frontières, qui laisse toutefois en suspens le sort de certains petits territoires  disputés. Ces derniers points sont réglés par différents accords signés dans un contexte diplomatique nettement plus détendu. Le dernier traité est signé en 2004. À l’issue de ces règlements, la Chine a réalisé quelques gains territoriaux très mineurs par rapport aux traités antérieurs.

Le résultat final, c’est qu’aujourd’hui la frontière sino-russe est constituée de deux morceaux de longueurs très inégales situés de part et d’autre de la Mongolie. Elle est définie dans son intégralité depuis 2004. Le tronçon de l’Ouest ne mesure que 50 km. Le tronçon de l’Est mesure  4 195 km. C’est la sixième plus longue frontière internationale du monde. L’intégration des territoires frontaliers par les deux empires russe et chinois a été tout à fait différente. Les plaines du Nord-Est de la Chine ont été rapidement peuplées et mises en valeur par des colons chinois dès le début du XIXe siècle. Par contre, le peuplement de l’Extrême-Orient russe par des colons venus de Russie d’Europe a été moins important et beaucoup plus long (3). La différence entre les deux peuplements a donné naissance à une ligne de discontinuité de part et d’autre du fleuve Amour et de la rivière Oussouri : d’un  côté, sept millions de Russes, de l’autre, plus de soixante millions de Chinois vivant dans les provinces frontalières du Jilin et du Heilongjiang. Les manuels d’histoire chinois apprennent aux écoliers que l’Extrême- Orient russe a été pris par la force à La Chine qui a signé les traités sous la menace.

Le danger chinois démographique et économique à court terme en Extrême-Orient et en Sibérie russe

En Russie, l’opinion publique est hostile à l’immigration. Contrairement aux affabulations de l’Occident, même si le « péril jaune » est très réel à terme, plus particulièrement en Sibérie et en Extrême-Orient, il y a à ce jour en Russie, un maximum de 400 000 Chinois, selon Zhanna Zayonchkouskaya, chef de Laboratoire de migration des populations de l’Institut national de prévision économique de l’Académie des Sciences de Russie, et non pas plusieurs millions comme cela a pu être annoncé. Les Russes ont veillé au grain et ont pris des mesures très sévères pour éviter une possible invasion. La seule immigration qui a été favorisée est le rapatriement de Russes établis dans les anciennes républiques soviétiques (Kirghizistan, Kazakhstan, Pays baltes, Turkménistan. ). Des villes comme Vladivostok, Irkoutsk, Khabarovsk, Irkoutsk Krasnoïarsk… et même Blagovetchensk, à la frontière chinoise, sont des villes européennes  avec seulement quelques commerçants ou immigrés chinois en nombre très limité. Une invasion aurait pu avoir lieu en Extrême-Orient dans les années 1990, tant la situation s’était dégradée. Il est à remarquer que les migrants  chinois de l’époque ont profité du laxisme et  de l’anarchie ambiante pour filer à l’Ouest de la Russie. Être clandestin n’est pas aisé aujourd’hui en Extrême-Orient et en Sibérie : la frontière est relativement imperméable; le risque est grand; les hôtels sont sous contrôle étroit; le chaos qui suivit l’éclatement de l’U.R.S.S. est déjà loin.

Il n’en reste pas moins vrai qu’un climat d’hostilité, voire de peur, s’est développé envers les Chinois chez les Russes d’Extrême-Orient qui a été largement utilisé dans le débat russe sur les orientations de politique étrangère (3). En 2001, le XVe congrès du Parti communiste chinois avait décidé d’une stratégie de consolidation de la présence chinoise à l’étranger, en encourageant la population à émigrer. Pékin avait fait savoir à Moscou qu’il n’appuierait sa candidature à l’O.M.C. que contre la promesse de ne pas réglementer l’entrée de la main-d’œuvre chinoise sur le marché du travail russe. Le ministre russe de la Défense, Pavel Grachev, avait pu déclarer : « Les Chinois sont en train de conquérir pacifiquement les confins orientaux de la Russie ». Et, selon un haut responsable russe des questions d’immigration, « nous devons résister à l’expansionnisme chinois ». Le problème est d’autant plus grave, au-delà du taux de la natalité, que la région se vide et que de nombreux Russes repartent  en Russie de l’Ouest. Ces dernières années, la région de Magadan a été délaissée par 57 % de sa population, la péninsule du Kamtchaka par 20 % et l’île Sakhaline par 18 %. La densité moyenne en Extrême-Orient est de 1,2 habitant au kilomètre carré contre une moyenne nationale de 8,5. Bref, selon les prévisions les plus pessimistes, l’Extrême-Orient russe peuplé de 6 460 000 personnes au 1er janvier 2010 pourrait ne compter que 4 500 000 habitants en 2015, contre 7 580 000 au plus haut.

Sur le plan économique, en 2002, selon l’analyste Andreï PIontkovsky, 10 % seulement des échanges  de l’Extrême-Orient russe se faisaient avec les autres régions de Russie. 90 % des achats extra-provinciaux  venaient  de Chine, Corée du sud ou Japon à cause du coût prohibitif du fret aérien ou ferroviaire avec l’Ouest de la Russie. À Vladivostok, Khabarovsk, et à Irkoutsk en Sibérie, la plupart des voitures avaient le volant à droite parce qu’elles venaient  directement du Japon où l’on conduit à gauche. Des  mesures ont été prises tout récemment par les autorités, non sans difficultés, pour favoriser l’achat de voitures  russes et abaisser le coût du fret.

La structure des échanges commerciaux bilatéraux avec la Chine s’est renversée depuis la fin de la guerre  froide. La Russie devient le « junior partner » de la Chine. Dans les exportations russes vers la Chine, les matières premières dominent : produits minéraux (56,4 %) en  2008, principalement pétrole et dérivés; bois et dérivés (15,5 %); produits de la chimie (13,9 %); métaux et dérivés (5,3 %); seulement 4,4 % pour les machines, l’équipement et les moyens de transport. Les exportations chinoises vers la Russie sont, pour l’essentiel, constituées de ces derniers articles(53,9 %), ainsi que de métaux(8,4 %), de produits chimiques (6,8 %) et de textiles (15,1 %). Les autorités russes ne se satisfont visiblement pas de cet état de fait. Le Kremlin n’accepte pas que la Russie devienne un réservoir de matières premières pour la Chine et insiste constamment sur la nécessité de corriger la structure des exportations russes.

La Russie s’efforce aussi d’orienter les investissements chinois de façon à endiguer la désindustrialisation de l’Extrême-Orient russe. Plus globalement, le Kremlin est convaincu que fermer l’Extrême-Orient et la Sibérie à la Chine et à d’autres partenaires étrangers (Corée, Japon, pays d’Asie du Sud-Est ) reviendrait à les condamner à terme, voire à les perdre en les rendant plus vulnérables aux appétits territoriaux d’autres pays de la région, la Chine en premier lieu. En revanche, mettre en concurrence plusieurs pays étrangers dans cette région permet d’espérer qu’aucun d’entre eux « ne parviendra à atteindre l’hégémonie »; de plus, si les relations avec la Chine devaient se détériorer, la Russie aurait acquis la possibilité de défendre plus efficacement ses zones frontalières puisqu’elle les aura mieux développées. Moscou, on le voit, n’écarte pas complètement la perspective d’une réouverture des problèmes territoriaux avec la Chine, malgré le règlement du litige frontalier en 2008 et l’engagement des deux pays, dans leur traité d’amitié et de bon voisinage, à s’abstenir de toute revendication territoriale mutuelle.

Ce  souci russe en Asie orientale apparaît encore plus nettement en Asie centrale. Dans cette région, Moscou ne se sent plus aussi sûr que par le passé de la force de ses moyens d’influence (minorités russes, liens historiques et économiques…). La Chine a considérablement étoffé sa présence économique dans cette zone depuis le début des années 2000 et semble en passe de supplanter la Russie comme premier partenaire commercial des États centre-asiatiques. Face à la force de frappe financière et économique de la Chine, la Russie va-t-elle longtemps pouvoir faire le poids ? Au sein de l’O.C.S., à l’heure de la crise économique globale, c’est Pékin qui a occupé le terrain en consentant aux membres de l’Organisation des prêts d’un montant de dix milliards de dollars. La situation est encore plus grave, aux yeux de Moscou, dans le domaine énergétique : la politique de Pékin va directement à l’encontre de la stratégie du Kremlin, déterminé à contrôler le plus possible les hydrocarbures de la zone Caspienne/Asie centrale afin de conforter ses positions  face aux clients européens. Le lancement, fin 2009, du gazoduc Turkménistan – Ouzbékistan – Kazakhstan – Chine qui s’ajoute à l’oléoduc  kazakho-chinois ne réjouit pas plus la Russie que les tubes Caspienne – Turquie contournant son territoire promus dans les années 1990 par les États-Unis. Au point que certains experts russes estiment que Moscou pourrait être tenté de fomenter des troubles dans le Turkestan oriental pour faire dérailler les accords énergétiques Chine – Asie centrale.

Les visées chinoises inéluctables à moyen terme sur la Mongolie extérieure et à très long terme sur la Sibérie

Le temps n’est plus où la Russie débordait de forces vives, jusqu’à pouvoir sacrifier vingt millions d’hommes dans la lutte contre le nazisme. On comprend mieux pourquoi les responsables russes  continuent de refuser pour le moment de vendre certains matériels de portée stratégique tels que les chasseurs bombardiers de type TU 22 ou TU 95, ou encore des sous-marins de quatrième génération de la classe « Amour » ou « Koursk ». Selon le chancelier Bismarck, « l’important, ce n’est pas l’intention, mais le potentiel » et comme chacun sait, l’histoire n’est pas irréaliste (Irrealpolitik) et  droit-de-l’hommiste, mais réaliste (Realpolitik) et imprévisible.

La montée en puissance de la Chine ne se traduira pas seulement par le remplacement progressif de l’anglo-américain par le mandarin en Asie, mais aussi par des visées territoriales.

L’expansionnisme  nationaliste chinois se  traduit d’une façon forte et brutale pour mater dans l’œuf et empêcher toute velléité de résistance, aussi bien au Tibet qu’au Xinjiang. Le chemin de fer à 6 200 000 dollars qui relie Pékin à Lhassa renforce l’emprise de la Chine sur le Tibet et sa capacité de déploiement militaire rapide contre l’Inde. Il est probable qu’après avoir maintenant récupéré Hong Kong et Macao de façon pacifique et selon les traités, la Chine a déjà et aura comme première préoccupation de rétablir sa souveraineté sur l’île de Taïwan. Avec ses 1 400 missiles pointés vers « l’île rebelle », Pékin a menacé d’écraser sous le feu ses « frères » taïwanais, s’ils devaient proclamer leur indépendance. Dans les faits, la réunification avec Taïwan est bel et bien en marche. Le mandarin est  la langue officielle à Taïwan. Les vols aériens et les communications ont été progressivement rétablis avec le continent. La symbiose est de plus en plus étroite entre les deux économies

Une fois Taïwan sous sa coupe, la Chine cherchera tout naturellement à récupérer la Mongolie extérieure cédée par la Chine à la Russie en 1912 et devenue ensuite une république populaire, puis un État indépendant lors du démantèlement de l’U.R.S.S. « La Chine va d’abord s’occuper de Taïwan, puis ce sera notre tour » a pu dire B. Boldsaikhan, chef politique en Mongolie extérieure du mouvement Dayar Mongol. État de 1 535 000 km2, sous-peuplée avec seulement 2 800 000 habitants, dotée de très riches gisements aurifères et d’uranium, la Mongolie extérieure, pendant de la Mongolie intérieure autonome chinoise, est déjà contrôlée économiquement par les Chinois, quelque 100 000 Russes ayant fait très rapidement leurs valises en 1990. La Mongolie extérieure sera un jour inéluctablement envahie comme le Tibet et, au-delà de quelques protestations américaines, la Chine rétablira en fait une souveraineté légitime historique  sur l’ensemble de la Mongolie qui date de la soumission de la Mongolie aux Mandchous en 1635. Gengis Khan est considéré en Chine comme un héros de la nation chinoise; un mausolée lui a été construit à Ejin Horo, dans la province chinoise de Mongolie intérieure, pour le huit centième anniversaire de sa naissance.

Puis ce sera le tour de l’Extrême-Orient russe. Selon Andreï Piontkovsky, directeur du Centre d’études stratégiques de Moscou, c’est la Chine de l’Orient et non pas l’Occident qui représente la menace stratégique la plus sérieuse pour la Russie. Ces revendications s’inscrivent dans le droit fil du concept stratégique « d’espace vital » d’une grande puissance qui, selon les théoriciens chinois, s’étend bien au-delà de ses frontières.

La Russie et la Chine occupent ensemble un espace géographiquement continu entre la mer Baltique et la Mer de Chine de 26 600 000  km2, habités par 1 400 000 000 personnes. Des  similitudes apparaissent lors de l’analyse de l’histoire de ces deux grands et complexes blocs géopolitiques. Tous deux s’étaient constitués au détriment de l’empire nomade des Mongols, dont la Mongolie enclavée  entre la Chine et la Russie, constitue le dernier vestige, avec la Mongolie intérieure, rattachée à la Chine, et la Bouriatie faisant partie de la Russie. Tous deux possèdent une zone périphérique, peu peuplée et sous-exploitée (la Sibérie et l’Extrême-Orient pour la Russie, le Tibet et le Xinjiang pour la Chine). Cependant, la Chine est plus peuplée que la Russie. Son poids démographique constitue en même temps un atout (le marché  le plus grand de la planète) et un handicap majeur (le pays est surpeuplé et proche de la saturation). Certains spécialistes estiment que le seuil de l’auto-suffisance chinoise se trouve à 1 500 000 000 habitants. En Sibérie et en Extrême-Orient, il y a tout ce qui manque à la Chine : les hydrocarbures, les matières premières et l’espace pour développer l’agriculture. Un paradoxe se dessine,  car  la Russie est un géant géographique et la Chine manque d’espace. Ces deux ensembles géopolitiques sont donc condamnés soit à collaborer, soit à s’affronter. On se rappellera  que le projet communiste a réuni ces deux géants  géopolitiques pendant onze ans. La perspective d’un tel rapprochement était devenue le pire des cauchemars pour les responsables occidentaux et américains.

Le retour de la Russie sur le Pacifique était logique et inévitable. Cependant, avec un déclin démographique, la Russie est-elle capable de mettre seule en valeur la Sibérie ? Il n’est pas suffisant d’avoir une volonté politique, il faut également disposer de moyens. C’est pourquoi l’affrontement paraît à long terme inéluctable. Il est clair que l’O.C.S. n’est qu’une parenthèse tactique pour les deux futurs adversaires afin de mieux pouvoir contrer l’Amérique en Asie centrale. La puissance  balistique de la Russie avec ses 2 200 têtes nucléaires est dans un horizon prévisible la seule garantie de non invasion de la Sibérie  par la Chine.

Une leçon à méditer…

Selon Hélène Carrère d’Encausse, la Sibérie est « un espace vide aux abords d’une Chine surpeuplée » (4). Si l’Europe se considère à terme comme l’Hinterland de la Russie et ne se laisse pas envahir par l’immigration extra-européenne en préservant sa civilisation, elle peut constituer avec la Russie la Grande Europe qui serait une forteresse inexpugnable face à la Chine, l’Islam et l’Asie centrale. Dans ce cas, la Sibérie pourrait rester sous contrôle civilisationnel russe et donc européen.

Le schéma alternatif, c’est que les cent quarante millions descendants des Scythes soient envahis par un milliard et demi de Chinois qui brûlent de passer l’Amour tandis que l’Europe, déversoir naturel de l’Afrique, comme l’a d’ailleurs explicité le Libyen Kadhafi, est  tout aussi menacée !

Pour ceux qui trouveront ces propos bien pessimistes, je souhaiterais leur rappeler cette magnifique exposition du musée Guimet : « Kazakhstan : Hommes, bêtes et dieux de la steppe ». Il fut un temps, dès le deuxième millénaire avant notre ère, où le Kazakhstan et l’Ouzbékistan  étaient le domaine non des Asiates, mais des Aryens : les Scythes. D’origine et de langue indo-européennes, décrits par Aristote citant Hérodote comme ayant des « cheveux blonds et blanchâtres », les Scythes nomadisaient de l’Ukraine à l’Altaï. Leur civilisation était très riche et d’une rare finesse (art funéraire, maîtrise des métaux précieux, travail des objets utilitaires…). Comment une civilisation aussi brillante dont les chefs entreprenants et guerriers ne craignaient rien tant que mourir dans leur lit, ont-ils disparu ? Sans doute ont-ils été victimes de ce que les Slaves appellent « la peste blanche », la dénatalité. Et son inéluctable corollaire, la submersion par des ethnies à la natalité galopante et l’inévitable métissage. Dans leur match démographique contre la déferlante asiatique, les Scythes ne pesèrent pas lourd. Les hordes tartares les avalèrent et le génie de la race se tarit.

Une leçon à méditer pour les Européens de l’Ouest face à l’Afrique et pour les Russes en Sibérie face au trop plein chinois.

Marc Rousset

Notes

1 : Hélène Carrère d’Encausse, La Russie entre deux mondes, Fayard, 2009, p. 65.

2 : cf. le rapport de l’O.N.U., World Population Prospects : the 2006 revision.

3 : Sébastien Colin, « Le développement des relations frontalières entre la Chine et la Russie », dans les Études du C.E.R.I., n° 96, juillet 2003.

4 : Hélène Carrère d’Encausse, op. cit., p. 172.


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lundi, 30 mai 2011

China: The New bin Laden

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China: The New bin Laden

by Paul Craig Roberts

Ex: http://www.lewrockwell.com/

Recently by Paul Craig Roberts: Americans Are Living In 1984

George Orwell, the pen name by which Eric Blair is known, had the gift of prophecy, or else blind luck. In 1949 in his novel, 1984, he described the Amerika of today and, I fear, also his native Great Britain, which is no longer great and follows Washington, licking the jackboot and submitting to Washington’s hegemony over England and Europe and exhausting itself financially and morally in order to support Amerikan hegemony over the rest of the world.

In Orwell’s prophecy, Big Brother’s government rules over unquestioning people, incapable of independent thought, who are constantly spied upon. In 1949 there was no Internet, Facebook, twitter, GPS, etc. Big Brother’s spying was done through cameras and microphones in public areas, as in England today, and through television equipped with surveillance devices in homes. As everyone thought what the government intended for them to think, it was easy to identify the few who had suspicions.

Fear and war were used to keep everyone in line, but not even Orwell anticipated Homeland Security feeling up the genitals of air travelers and shopping center customers. Every day in people’s lives, there came over the TV the Two Minutes of Hate. An image of Emmanuel Goldstein, a propaganda creation of the Ministry of Truth, who is designated as Oceania’s Number One Enemy, appeared on the screen. Goldstein was the non-existent "enemy of the state" whose non-existent organization, "The Brotherhood," was Oceania’s terrorist enemy. The Goldstein Threat justified the "Homeland Security" that violated all known Rights of Englishmen and kept Oceania’s subjects "safe."

Since 9/11, with some diversions into Sheik Mohammed and Mohamed Atta, the two rivals to bin Laden as the "Mastermind of 9/11," Osama bin Laden has played the 21st century roll of Emmanuel Goldstein. Now that the Obama Regime has announced the murder of the modern-day Goldstein, a new demon must be constructed before Oceania’s wars run out of justifications.

Hillary Clinton, the low-grade moron who is US Secretary of State, is busy at work making China the new enemy of Oceania. China is Amerika’s largest creditor, but this did not inhibit the idiot Hilary from, this week in front of high Chinese officials, denouncing China for "human rights violations" and for the absence of democracy.

While Hilary was enjoying her rant and displaying unspeakable Amerikan hypocrisy, Homeland Security thugs had organized local police and sheriffs in a small town that is the home of Western Illinois University and set upon peaceful students who were enjoying their annual street party. There was no rioting, no property damage, but the riot police or Homeland Security SWAT teams showed up with sound cannons, gassed the students and beat them.

Indeed, if anyone pays any attention to what is happening in Amerika today, a militarized police and Homeland Security are destroying constitutional rights of peaceful assembly, protest, and free speech.

For practical purposes, the U.S. Constitution no longer exists. The police can beat, taser, abuse, and falsely arrest American citizens and experience no adverse consequences.

The executive branch of the federal government, to whom we used to look to protect us from abuses at the state and local level, acquired the right under the Bush regime to ignore both US and international law, along with the US Constitution and the constitutional powers of Congress and the judiciary. As long as there is a "state of war," such as the open-ended "war on terror," the executive branch is higher than the law and is unaccountable to law. Amerika is not a democracy, but a country ruled by an executive branch Caesar.

Hillary, of course, like the rest of the U.S. Government, is scared by the recent International Monetary Fund (IMF) report that China will be the most powerful economy in five years.

Just as the military/security complex pressured President John F. Kennedy to start a war with the Soviet Union over the Cuban missile crisis while the US still had the nuclear advantage, Hillary is now moving China into the role of Emmanuel Goldstein.

Hate has to be mobilized, before Washington can move the ignorant patriotic masses to war.

How can Oceania continue if the declared enemy, Osama bin Laden, is dead. Big Brother must immediately invent another "enemy of the people."

But Hillary, being a total idiot, has chosen a country that has other than military weapons. While the Amerikans support "dissidents" in China, who are sufficiently stupid to believe that democracy exists in Amerika, the insulted Chinese government sits on $2 trillion in US dollar-denominated assets that can be dumped, thus destroying the US dollar’s exchange value and the dollar as reserve currency, the main source of US power.

Hillary, in an unprecedented act of hypocrisy, denounced China for "human rights violations." This from a country that has violated the human rights of millions of victims in our own time in Iraq, Afghanistan, Pakistan, Yemen, Libya, Somalia, Abu Ghraib, Guantanamo, secret CIA prisons dotted all over the planet, in US courts of law, and in the arrests and seizure of documents of American war protestors. There is no worst violator of human rights on the planet than the US government, and the world knows it.

The hubris and arrogance of US policymakers, and the lies that they inculcate in the American public, have exposed Washington to war with the most populous country on earth, a country that has a military alliance with Russia, which has sufficient nuclear weapons to wipe out all life on earth. The scared idiots in Washington are desperate to set up China as the new Osama bin Laden, the figure of two minutes of hate every news hour, so that the World’s Only Superpower can take out the Chinese before they surpass the US as the Number One Power.

No country on earth has a less responsible government and a less accountable government than the Americans. However, Americans will defend their own oppression, and that of the world, to the bitter end.

May 16, 2011

Paul Craig Roberts [send him mail], a former Assistant Secretary of the US Treasury and former associate editor of the Wall Street Journal, has been reporting shocking cases of prosecutorial abuse for two decades. A new edition of his book, The Tyranny of Good Intentions, co-authored with Lawrence Stratton, a documented account of how Americans lost the protection of law, has been released by Random House.

Copyright © 2011 Paul Craig Roberts

vendredi, 27 mai 2011

USA und Pakistan fast im offenen Krieg

USA und Pakistan fast im offenen Krieg. Chinesisches Ultimatum an die Adresse Washingtons: kein Angriff!

Webster G. Tarpley

US-Pak-Relations-pakistan defence news blog.jpgChina hat die Vereinigten Staaten offiziell wissen lassen, dass ein von Washington geplanter Angriff auf Pakistan als Akt der Aggression gegen Peking ausgelegt werden wird. Diese unverblümte Warnung ist das erste seit 50 Jahren – den sowjetischen Warnungen während der Berlin-Krise von 1958 bis 1961 – bekannt gewordene strategische Ultimatum, das den Vereinigten Staaten gestellt wird. Es ist ein Anzeichen dafür, dass sich die Konfrontation zwischen den USA und Pakistan zu einem allgemeinen Krieg auszuweiten droht.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/webster-g-tarpley/usa-und-pakistan-fast-im-offenen-krieg-chinesisches-ultimatum-an-die-adresse-washingtons-kein-angr.html

lundi, 16 mai 2011

Quand les Belges partent à la conquête de la Chine...

Quand les Belges partent à la conquête de la Chine…

 
PrincePhilChine.jpgDans le contexte épineux de la déréglementation européenne du transport ferroviaire, les Belges lancent un projet que plus d'un pourrait qualifier de « fou »! Il s'agit simplement d'une liaison ferroviaire entre le port d'Anvers et la ville de Chongqing en Chine, destinée au transport de fret. Ce projet a été instigué en 2010 lors d'une mission économique de la Société de développement de la province d'Anvers à Chongqing. Figuraient également dans cette mission, les représentants du port d'Anvers et de l'Administration belge des Douanes et Accises.

 

Une ligne ferroviaire ayant pour point de départ le port d'Anvers, qui, via l'Allemagne et la Pologne, puis l'Ukraine, la Russie et la Mongolie, ralliera la Chine jusqu'à la plus grande ville chinoise (Chongqing, 32 millions d'habitants), soit près de 11.000 kilomètres. Le projet va cependant plus loin : les voies fluviales et ferroviaires chinoises feront de Chongqing un hub relié directement à l'Europe. Un projet qui, cependant, en dehors du port d'Anvers, ne sera pas aux mains d'opérateurs belges, au grand dam de la SNCB. C'est la société suisse, HUPAC, un des leaders européens du fret par rail, déjà en contrat avec le port d'Anvers, qui assurera la liaison Belgique-Chine, en association avec deux partenaires russes (Russkaya Troyka et Eurasia Good Transport).

Il peut paraître surprenant qu'une institution portuaire soit au coeur d'un projet ferroviaire transcontinental. Le doute se lève dès lors qu'en termes de temps, le fret acheminé d'Anvers à Chongqing le sera en deux fois moins de temps que par voie maritime (environ 20 jours contre 40). Malgré les problèmes récurrents en matière de transport international par rail, dont l'écartement des rails, un gain considérable de temps est à la clé du projet. L'argument environnemental vient compléter le projet. Un transport ferroviaire, deux fois plus rapide que le transport maritime serait moins consommateur en énergie. Quant au volet administratif, il ne serait pas en reste. Une coopération et surtout la mise en place d'un système d'échange d'informations entre les services douaniers des pays concernés seront nécessaires. Bref, une « Green Train Line » entre la Chine et l'Europe, une première mondiale attractive… Le port d'Anvers se verrait ainsi devenir « le hub » européen pour le transit de marchandises à destination de la Chine. Largement aidé par son hinterland, Anvers deviendrait le passage obligé des marchandises, non seulement européennes mais également du Nord de l'Amérique, du l'ouest Africain, etc… Anvers accueillera certainement aussi de nombreuses entités économiques ou autres de l'Empire du Milieu. Les retombées économiques pour la région pourraient être considérables.

La Belgique, et plus particulièrement la Région flamande, est, semble-t-il, en train de modifier, ou en tout cas de tenter de modifier, les cartes géostratégiques et géoéconomiques actuelles. Réduire le trafic maritime à destination de la Chine au profit d'une liaison ferroviaire implique une vision géoéconomique nouvelle. La Russie est au coeur de cette nouvelle vision (et participe d'ailleurs pleinement au projet). Il en va de même de la place de l'Ukraine. Concernant la Chine, actuellement focalisée sur le développement d'Est en Ouest de son territoire, elle pourrait se libérer de cette contrainte. Au sein même de l'Europe, une modification des équilibres de puissance (en terme de flux et d'acheminement de marchandises tout au moins et donc de création de valeur) pourrait s'opérer au profit de l'Europe du Nord (Benelux, Nord-Ouest de l'Allemagne,…). Ces glissements d'équilibres ne semblent pas se faire au profit de la France. Aucun partenaire français n'est évoqué dans le projet ferroviaire entre le port d'Anvers et Chongqing. De plus, le grand chantier du canal « Seine-Nord Europe », une fois terminé, sera une autoroute fluviale reliant l'Ile de France au port d'Anvers (et sa nouvelle gare) ; probablement au détriment du port du Havre (Lire La guerre des puissances portuaires en Europe). Faut-il être aujourd'hui un petit pays, sans gouvernement fédéral qui plus est, pour avoir des idées de développement ambitieuses?

Stéphane Mortier