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mercredi, 19 septembre 2018

Unisex: la via per l’individuo senza identità

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Unisex: la via per l’individuo senza identità

di Michele Putrino

Ex: https://www.ariannaeditrice.it

È notizia di queste ore che a New York, a partire da questo periodo, i genitori dei neonati potranno scegliere di far scrivere sul certificato di nascita di questi ultimi, invece di “maschio” o “femmina”, la dicitura “Gender X”. Questa è solo l’ultima follia di una ideologia che sempre più si sta affermando nelle istituzioni. In pochi hanno il coraggio di denunciare questa situazione; e quei pochi che questo coraggio lo hanno, sono violentemente attaccati e messi alla pubblica gogna. Una situazione di cui tutti dovete prendere coscienza: ne vale del vostro futuro e di quello dei vostri figli.


uni.jpgEsiste un libro “speciale” in Italia dal titolo UNISEX e con sottotitolo “Cancellare l’identità sessuale: la nuova arma della manipolazione globale” pubblicato da Arianna Editrice. Gli autori sono la giornalista Enrica Perucchietti e lo scrittore Gianluca Marletta.


Perché questo libro è “speciale”? Perché è uno dei pochissimi libri esistenti che denunciano la così detta “ideologia gender” non tramite un altro credo dogmatico, bensì attraverso una vera e propria inchiesta molto documentata. A ogni affermazione, infatti, viene sempre riportata la documentazione e le fonti verificabili. Con UNISEX, dunque, a mio parere ci troviamo di fronte a una vera e propria opera di “giornalismo d’inchiesta”. Inchiesta che, appunto, data la quantità di fonti riportate, non può che lasciare scioccato e basito il lettore per le conclusioni a cui questo libro arriva. Infatti non a caso gli autori hanno subito numerose minacce (persino di morte), evidentemente da chi queste conclusioni non le può accettare. Non solo. Il libro “vanta” anche periodici tentativi di screditamento. L’ultimo — avvenuto proprio durante la scrittura di questo articolo — sì è verificato su Wikipedia dove, alla voce “Omosessualismo”, l’ideologia gender viene definita come “complotto che vedrebbe il movimento omosessuale tentare di reclutare le giovani generazioni per distruggere l’umanità”. Una definizione che non può che suscitare ilarità in chi la legge e far apparire uno sciocco chiunque affermi seriamente una cosa del genere. E quale testo viene riportato come “fonte” per questa definizione? Proprio il libro della Perucchietti e di Marletta. Ora, chiunque abbia letto il libro sa bene che non solo al suo interno non si trovano frasi in grado di giustificare un’affermazione del genere ma, soprattutto, il suo concetto di fondo è tutt'altro; inoltre il libro distingue in modo chiaro e netto (ripetendolo più volte durante il testo) tra la giusta e sacrosanta richiesta da parte degli omosessuali di ottenere rispetto per la propria persona e l’ “ideologia militante” di alcuni movimenti “omosessualisti” che spesso portano avanti e con forza idee pericolose e distruttive. Detto questo vediamo rapidamente, ma in modo serio, di cosa parla questo benedetto libro.


Alcuni gruppi spingono per l’affermazione totalitaria dell’ideologia gender


Questo è il primo messaggio di fondo che mi sembra di cogliere leggendo il libro. Ma, per comprendere il vero significato di questa affermazione, è necessario capire prima cos'è l’ideologia gender. Prima di tutto è una vera e propria “ideologia”. Perché? Perché una “ideologia” è, come riporta il Vocabolario Treccani, “ il complesso di credenze, opinioni, rappresentazioni, valori che orientano un determinato gruppo sociale”. Ora, dato che al mondo esistono persone che appartengono a gruppi sociali che sostengono che il sesso deve essere una scelta del singolo individuo che decide a seconda della sua volontà, è evidente che questi individui sono seguaci, appunto, dell’ideologia gender (anche se a molti questa definizione non piace). Sì perché, per coloro che non ne fossero a conoscenza, “gender” significa, sempre per citare il Vocabolario Treccani, “la distinzione di genere, in termini di appartenenza all'uno o all'altro sesso, non in quanto basata sulle differenze di natura biologica o fisica ma su componenti di natura sociale, culturale, comportamentale”. Quindi, secondo la “visione gender”, il signor Rossi può essere nato con tutti gli attributi maschili ben definiti ma se lui si comporta in modo femminile e dentro si sente di essere donna, allora la società lo dovrebbe riconoscere come donna. Non solo. Dopodomani potrebbe sentirsi di nuovo uomo e quindi, sempre secondo questa visione, essere uomo e così via.


Ma perché questa “visione gender” è diventata una “ideologia”? Il motivo è semplice: se alcuni individui possono sentire la propria natura sessuale completamente diversa da quella del proprio corpo, questo vuol dire che così deve essere la natura di tutti. Di conseguenza se finora il mondo è stato diviso in modo netto in “maschi” e “femmine” questo non è dovuto al fatto che la Natura ci ha voluti così, no: le cose stanno così soltanto perché siamo stati “manipolati” da istituzioni a cui ha fatto e continua a fare comodo la netta e chiara suddivisione tra maschi e femmine. Chiaro no? Certo, ci sarebbe poi da chiedere perché tutto il resto del mondo animale sia diviso sempre in maschi e femmine ma sorvoliamo.


A questo punto dovrebbe essere chiaro che, per chi la vede in questo modo, è assolutamente normale lottare al fine di compiere una “rivoluzione” culturale, sociale eccetera, che possa “liberare” l’essere umano dalla “gabbia sessuale” e poter vivere, finalmente, la sua “vera” natura utilizzando il suo corpo come semplice strumento per soddisfare la sua “vera natura”.


Penso sia inutile specificarlo ma, come si vede, tutto questo niente ha a che fare con un normale omosessuale che conduce la sua vita serenamente e in perfetta armonia con il suo corpo. Ma allora, se la stragrande maggioranza delle persone (siano esse eterosessuali o omosessuali) vivono serenamente senza questa “visione gender”, perché tutto questo affannarsi anche attraverso importanti lotte istituzionali come quelle riportate nel libro (e di cui quella del “Gender X” a New York di questi giorni è soltanto l’ultima in senso temporale)?


Se togli agli individui la propria identità sessuale li trasformi tutti in animali da pascolo
Ecco la semplice risposta.


Ogni persona, sin da bambina, comincia a formare la propria personalità a partire dal suo essere “maschietto” o “femminuccia”. Da lì, infatti, si vengono a creare particolari giochi nonché gruppi sociali che rinforzano la nostra natura che sentiamo, appunto, come naturale. Tutto questo attraversando vari stadi che ci porteranno a chiarire sempre meglio la nostra personalità e a poter dire con orgoglio “io”.


Ma ora mettiamoci dal punto di vista delle élite industriali e finanziarie mondiali. Da questo punto di vista è più facile gestire popoli composti da persone con ognuna una propria personalità ben formata oppure avere a che fare con masse di individui che non sanno nemmeno a che sesso appartengono? Ovviamente la risposta è la seconda giacché, in quel caso, non avendo nemmeno il più primordiale dei riferimenti interiori (e cioè quello dettato dal proprio sesso) ci si aggrapperà inevitabilmente — e come se fosse Dio in persona a parlare — a quello che verrà dettato dall'esterno. E chi sarà a parlare “dall'esterno” se non l’élite che detiene il potere?


In conclusione, che fare?


Quanto descritto finora non è che, ovviamente, una piccola parte dei concetti che ho colto dal libro e che vi consiglio di leggere affinché possiate farvi una vostra idea. Ma esiste una soluzione a tutto ciò? A me pare di intravederla in un libro di prossima uscita di Diego Fusaro intitolato Il nuovo ordine erotico. Elogio dell’amore e della famiglia (Rizzoli Editore). Qui Fusaro — da quello che è stato possibile cogliere dalle anteprime e dalle dichiarazioni — propone di ritornare a rinforzare l’appartenenza al proprio sesso perché soltanto così sarà possibile ricostruire la famiglia, che è il primo nucleo su cui è possibile costituire, come spiega Hegel nel suo celebre libro Lineamenti di filosofia del diritto, una comunità, uno Stato e un senso di appartenenza.


Insomma, UNISEX e Il nuovo ordine erotico a mio parere sono due libri che dovranno essere letti insieme poiché l’uno descrive in modo dettagliato il problema e l’altro ne descrive la soluzione.
Buona lettura.

mardi, 18 septembre 2018

Métaphysique de l’Eurasie

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Métaphysique de l’Eurasie

par Georges FELTIN-TRACOL

Ex: http://www;europemaxima.com

À l’extrême fin de l’URSS, un jeune Soviétique qui fréquentait les cénacles dissidents de Moscou malgré un père officier dans les services de renseignement publia ses premières réflexions fortement influencées par l’Allemand Herman Wirth. Les mystères de l’Eurasie valurent à l’auteur, Alexandre Douguine, quelques problèmes avec le KGB, puis la notoriété. En 1996, le candidat communiste à l’élection présidentielle, Guennadi Ziouganov, s’y référait explicitement.

mysteuras.jpgLes mystères de l’Eurasie sont désormais disponibles en français grâce aux excellentes éditions Ars Magna dans la collection « Heartland » (2018, 415 p. 30 €). L’ouvrage accorde une très large place au symbolisme, à l’étude des runes russes, à l’eschatologie chrétienne orthodoxe et à l’ésotérisme. Cependant, politique et géopolitique ne sont jamais loin chez Alexandre Douguine qui, dès cette époque, rejoint un néo-eurasisme balbutiant. Ne voit-il pas en « Gengis Khan, le restaurateur de l’Empire eurasien (p. 142) » ? En se fondant sur les recherches des traditionalistes Guénon, Evola et Georgel, il explique que « la Sibérie est toujours restée cachée, inconnue et mystérieuse à travers l’histoire, comme si elle était sous la protection d’une force spéciale du destin, d’un archange inconnu (p. 134) ».

Par mille attaches géo-symboliques fortes, la Sibérie appartient à la civilisation traditionnelle russe dont les racines plongent dans le passé le plus reculé. « L’Eurasie septentrionale, dont la plus grande partie est occupée par la Russie, signale Alexandre Douguine, est donc l’Hyperborée au plus vrai sens du terme, et c’est ce nom qui convient le mieux à la Russie dans le contexte de la géographie sacrée (p. 77). » A contrario, l’Amérique incarne le Couchant du Monde, en particulier les États-Unis, ce « Pays vert », cette contrée d’errance des âmes défuntes. « Il est très révélateur, poursuit Alexandre Douguine, que les Américains aient été les premiers à marcher sur la lune où, d’après diverses traditions archaïques, demeurent les “ âmes des ancêtres ” (pp. 313 – 314). »

L’auteur assigne par conséquent à la Russie d’être une patrie à part. Elle doit rester fidèle à sa vocation impériale, d’où son « patriotisme mystique » qui transcende les nationalités, les ethnies et les religions présentes sur son sol. Il conclut sur la nécessité de « former une alliance sacrée avec ces pays et nations de l’Orient qui luttent pour l’autarcie géopolitique et la restauration des valeurs traditionnelles contre le monde moderne et l’atlantisme, l’agression américaine (pp. 65 – 66) ». Un ouvrage de jeunesse au puissant souffle mystique !

Georges Feltin-Tracol

• « Chronique hebdomadaire du Village planétaire », n° 90.

lundi, 17 septembre 2018

L’IMPERO EURO-SOVIETICO

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L’IMPERO EURO-SOVIETICO

samedi, 15 septembre 2018

Editions du Lore: parution du tome deuxième de Robert Steuckers sur la "Révolution conservatrice" allemande

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Editions du Lore: parution du tome deuxième de Robert Steuckers sur la "Révolution conservatrice" allemande

Pour se procurer ce volume:

http://www.ladiffusiondulore.fr/home/690-la-revolution-co...

ENTRETIENS, CONFERENCES ET PHILOSOPHIE AUTOUR DE LA REVOLUTION CONSERVATRICE

Entretien avec Robert Steuckers sur la « révolution conservatrice » allemande dans la revue Le Harfang

Entretien avec Robert Steuckers sur Ernst Jünger, Armin Mohler et la « révolution conservatrice » pour la revue Philitt (Paris)

Entretien avec Robert Steuckers sur la "révolution conservatrice" pour l’hebdomadaire Rivarol

Ma découverte de la « révolution conservatrice ». Entretien avec Thierry Martin (Université Paris IV)

Conférence de Robert Steuckers sur la révolution conservatrice allemande à la tribune du « Cercle Non Conforme »

Bibliographie jüngerienne

Treize thèses et constats sur la « révolution conservatrice »

Retrouver un âge d’or ? Intervention au Colloque Erkenbrand, Rotterdam, octobre 2017

Conception de l’Homme et révolution conservatrice : Heidegger et son temps

Heidegger, la tradition, la révolution, la résistance et l’ « anarquisme »

Heidegger et la crise de l’Université allemande

La philosophie politique de Heidegger

La philosophie de l’argent et la philosophie de la Vie chez Georg Simmel (1858-1918)

Arnold Gehlen et l’anthropologie philosophique

Une critique de la modernité chez Peter Koslowski

REVOLUTION CONSERVATRICE ET GEOPOLITIQUE

Rudolf Kjellen (1864-1922)

L’œuvre géopolitique de Karl Haushofer

L’itinéraire d’un géopolitologue allemand : Karl Haushofer

Une thèse sur Haushofer

EN FRANCE, APRES LA REVOLUTION CONSERVATRICE

En souvenir de Jean Mabire

En souvenir de Dominique Venner

vendredi, 14 septembre 2018

Leopold Ziegler. Eine Schlüsselfigur im Umkreis des Denkens von Ernst und Friedrich Georg Jünger

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Leopold Ziegler.

Eine Schlüsselfigur im Umkreis

des Denkens von Ernst und

Friedrich Georg Jünger

 
ISBN: 978-3-8260-3935-5
Autor: Kölling Timo
Year of publication: 2008
Price: 26,00 euro
 

Pagenumbers: 172
Language: deutsch

Short description: Der große Einfluß, den das Werk des Philosophen Leopold Ziegler (1881-1958) auf das Denken der Brüder Ernst Jünger und Friedrich Georg Jünger ausgeübt hat, ist bislang nicht nur unterschätzt, sondern im Grunde überhaupt noch nicht zur Kenntnis genommen worden. Die vorliegende Studie, die zugleich als Einführung in Zieglers Werk gelesen werden kann, legt diesen Einfluß erstmals frei. Im Zentrum steht der Nachweis, daß Ernst Jüngers umstrittene und in vielerlei Hinsicht rätselhafte Konzeption des „Arbeiters“ als metaphysische „Gestalt“ sich in allen ihren wesentlichen Momenten auf Leopold Zieglers Buch „Gestaltwandel der Götter“ zurückführen läßt. Der entscheidende Grundgedanke Zieglers wird von Jünger aber in sein Gegenteil verkehrt: aus der philosophisch fruchtbaren Konzeption einer mystischen Teilhabe wird die theoretische Sackgasse einer magischen Identitätstheorie. Der Aufweis dieser Differenz erlaubt es, Zieglers Denken, das in seinem Kern der Versuch einer zeitgemäßen Erneuerung der Philosophia Perennis mit den Mitteln einer negativen Geschichtsphilosophie ist, gegen das Konstrukt der sogenannten „Konservativen Revolution“ abzugrenzen. Der Autor Timo Kölling lebt und arbeitet als freier Schriftsteller in Frankfurt am Main. Seit März 2007 Arbeitsstipendium der Leopold-Ziegler-Stiftung. http://www.leopold-ziegler-stiftung.de

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Leopold Ziegler,

Philosoph der letzten Dinge.

Eine Werkgeschichte 1901-1958.

Beiträge zum Werk, Bd. 4

ISBN: 978-3-8260-6111-0
Autor: Kölling, Timo
Band Nr: 4
Year of publication: 2016
 
 
58,00 EUR - excl.Shipping costs
Pagenumbers: 540
Language: deutsch

Short description: Leopold Ziegler (1881–1958) ist der Poet unter den deutschsprachigen Philosophen des zwanzigsten Jahrhunderts. Seiner Philosophie eignet ein künstlerischer Zug, der ihren sachlichen Gehalt zugleich realisiert und verschließt, ausdrückt und verbirgt. Ziegler hat sein Anliegen in Anknüpfung an Jakob Böhme, Franz von Baader und F. W. J. Schelling als „theosophisches“ kenntlich gemacht und damit die Grenzen der akademischen Philosophie seiner Zeit weniger ausgelotet als ignoriert und überschritten. Timo Köllings im Auftrag der Leopold-Ziegler- Stiftung verfasstes Buch ist nicht nur das erste zu Ziegler, das nahezu alle veröffentlichten Texte des Philosophen in die Darstellung einbezieht, sondern auch eine philosophische Theorie von Zieglers Epoche und ein Traktat über die Wiederkehr eines eschatologischen Geschichtsbildes im 20. Jahrhundert.

Der Autor Timo Kölling ist Lyriker und Philosoph. Als Stipendiat der Leopold-Ziegler-Stiftung veröffentlichte er 2009 bei Königshausen & Neumann sein Buch „Leopold Ziegler. Eine Schlüsselfigur im Umkreis des Denkens von Ernst und Friedrich Georg Jünger“.

Die Ordnung der Dinge. Ernst Jüngers Autorschaft als transzendentale Sinnsuche

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Die Ordnung der Dinge.

Ernst Jüngers Autorschaft

als transzendentale Sinnsuche

 

ISBN: 978-3-8260-6533-0
Autor: Rubel, Alexander
Year of publication: 2018
 
 
29,80 EUR

Pagenumbers: 200
Language: deutsch

Short description: Die vorliegende Arbeit beschäftigt sich mit dem Gesamtwerk Ernst Jüngers aus einer ganz bestimmten Perspektive, die bislang noch nicht erforscht wurde: Ernst Jünger wird als Autor der Transzendenz gedeutet, dessen Werk in besonderem Maße von der religiös-transzendentalen Bewältigung der Kriegserfahrung im Ersten Weltkrieg bestimmt ist. Jüngers Werk ist vor diesem Hintergrund in seiner Gesamtheit als Manifest einer Sinnsuche zu interpretieren, mit welcher der Autor der eigenen Kontingenzerfahrung ein sinnvolles, religiös-metaphysisch grundiertes Ordnungssystem entgegenstellt. Jünger erscheint in dieser Deutung nicht als moderner Autor, etwa als Vertreter eines eigenständigen deutschen Surrealismus (in diesem Sinne deutete K-H. Bohrer Jüngers Frühwerk), sondern bleibt einer traditionellen Denkweise verhaftet, die das Grundproblem der Moderne ignoriert: Die Erfahrung der Kontingenz. Anders als die meisten Autoren der literarischen Moderne akzeptiert Jünger die Kontingenz des individuellen Lebens nicht, sondern insistiert auf einem Sinn des individuellen Lebens ebenso hartnäckig wie auf der Ordnung des Kosmos, die sich freilich nicht offenbart, sondern die es in der Welt der Erscheinungen mit subtilen Methoden erst aufzuspüren gilt.

Der Autor:
 
Alexander Rubel ist Inhaber einer Forschungsprofessur am Archäologischen Institut der Rumänischen Akademie in Jassy (Rumänien), dem er seit 2011 als Direktor vorsteht. Neben Arbeiten aus seinem engeren Fachgebiet publiziert er zu breiteren kultur- und literaturwissenschaftlichen Themen.

mercredi, 12 septembre 2018

A Diabolic False Flag Empire: A Review of David Ray Griffin’s The American Trajectory: Divine or Demonic?

 

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A Diabolic False Flag Empire: A Review of David Ray Griffin’s The American Trajectory: Divine or Demonic?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

But, as Pinter said, “I believe that despite the enormous odds which exist, unflinching, unswerving, fierce intellectual determination, as citizens, to define the real truth of our lives and our societies is a crucial obligation which devolves upon us all. It is in fact mandatory.”

No one is more emblematic of this noble effort than David Ray Griffin, who, in book after book since the attacks of 11 September 2001, has meticulously exposed the underside of the American empire and its evil masters.  His persistence in trying to reach people and to warn them of the horrors that have resulted is extraordinary.  Excluding his philosophical and theological works, this is his fifteenth book since 2004 on these grave issues of life and death and the future of the world. 

In this masterful book, he provides a powerful historical argument that right from the start with the arrival of the first European settlers, this country, despite all the rhetoric about it having been divinely founded and guided, has been “more malign that benign, more demonic than divine.”  He chronologically presents this history, supported by meticulous documentation, to prove his thesis.  In his previous book, Bush and Cheney: How They Ruined America and the World, Griffin cataloged the evil actions that flowed from the inside job/false flag attacks of September 11th, while in this one – a prequel – he offers a lesson in American history going back centuries, and he shows that one would be correct in calling the United States a “false flag empire.”

The attacks of 11 September 2001 are the false flag fulcrum upon which his two books pivot. Their importance cannot be overestimated, not just for their inherent cruelty that resulted in thousands of innocent American deaths, but since they became the justification for the United States’ ongoing murderous campaigns termed “the war on terror” that have brought death to millions of people around the world.  An international array of expendable people.  Terrifying as they were, and were meant to be, they have many precedents, although much of this history is hidden in the shadows.  Griffin shines a bright light on them, with most of his analysis focused on the years 1850-2018.

As a theological and philosophical scholar, he is well aware of the great importance of society’s need for religious legitimation for its secular authority, a way to offer its people a shield against terror and life’s myriad fears through a protective myth that has been used successfully by the United States to terrorize others.  He shows how the terms by which the U.S. has been legitimated as God’s “chosen nation” and Americans as God’s “chosen people” have changed over the years as secularization and pluralism have made inroads.  The names have changed, but the meaning has not. God is on our side, and when that is so, the other side is cursed and can be killed by God’s people, who are always battling el diabalo.

He exemplifies this by opening with a quote from George Washington’s first Inaugural Address where Washington speaks of “the Invisible Hand” and “Providential agency” guiding the country, and by ending with Obama saying “I believe in American exceptionalism with every fiber of my being.”  In between we hear Andrew Jackson say that “Providence has showered on this favored land blessings without number” and Henry Cabot Lodge in 1900 characterize America’s divine mission as “manifest destiny.”  The American religion today is American Exceptionalism, an updated euphemism for the old-fashioned “God’s New Israel” or the “Redeemer Nation.”

At the core of this verbiage lies the delusion that the United States, as a blessed and good country, has a divine mission to spread “democracy” and “freedom” throughout the world, as Hilary Clinton declared during the 2016 presidential campaign when she said that “we are great because we are good,” and in 2004 when George W. Bush said, “Like generations before us, we have a calling from beyond the stars to stand for freedom.”   Such sentiments could only be received with sardonic laughter by the countless victims made “free” by America’s violent leaders, now and then, as Griffin documents.

Having established the fact of America’s claim to divine status, he then walks the reader through various thinkers who have taken sides on the issue of the United States being benign or malign.  This is all preliminary to the heart of the book, which is a history lesson documenting the malignancy at the core of the American trajectory.

“American imperialism is often said to have begun in 1898, when Cuba and the Philippines were the main prizes,” he begins.  “What was new at this time, however, was only that America took control of countries beyond the North American continent.”  The “divine right” to seize others’ lands and kill them started long before, and although no seas were crossed in the usual understanding of imperialism, the genocide of Native Americans long preceded 1898.  So too did the “manifest destiny” that impelled war with Mexico and the seizure of its land and the expansion west to the Pacific.  This period of empire building depended heavily on the “other great crime against humanity” that was the slave trade, wherein it is estimated that 10 million Africans died, in addition to the sick brutality of slavery itself.  “No matter how brutal the methods, Americans were instruments of divine purposes,” writes Griffin.  And, he correctly adds, it is not even true that America’s overseas imperialistic ventures only started in 1898, for in the 1850s Commodore Perry forced “the haughty Japanese” to open their ports to American commerce through gunboat diplomacy.

Then in 1898 the pace of overseas imperial expansion picked up dramatically with what has been called “The Spanish-American War” that resulted in the seizure of Cuba and the Philippines and the annexing of Hawaii.  Griffin says these wars could more accurately be termed “the wars to take Spanish colonies.”  His analysis of the brutality and arrogance of these actions makes the reader realize that My Lai and other more recent atrocities have a long pedigree that is part of an institutional structure, and while Filipinos and Cubans and so many others were being slaughtered, Griffin writes, “Anticipating Secretary of Defense Donald Rumsfeld’s declaration that ‘we don’t do empire,’ [President] McKinley said that imperialism is ‘foreign to the temper and genius of this free and generous people.’”

Then as now, perhaps mad laughter is the only response to such unadulterated bullshit, as Griffin quotes Mark Twain saying that it would be easy creating a flag for the Philippines:

We can have just our usual flag, with the white stripes painted black and the stars replaced by the skull and cross-bones.

That would have also worked for Columbia, Panama, Puerto Rico, the Dominican Republic, Haiti, Nicaragua, and other countries subjugated under the ideology of the Monroe Doctrine; wherever freedom and national independence raised its ugly head, the United States was quick to intervene with its powerful anti-revolutionary military and its financial bullying.  In the Far East the “Open Door” policy was used to loot China, Japan, and other countries.

But all this was just the beginning.  Griffin shows how Woodrow Wilson, the quintessentially devious and treacherous liberal Democrat, who claimed he wanted to keep America out of WW I, did  just the opposite to make sure the U.S. would come to dominate the foreign markets his capitalist masters demanded.  Thus Griffin explores how Wilson conspired with Winston Churchill to use the sinking of the Lusitania as a casus belli and how the Treaty of Versailles’s harsh treatment of Germany set the stage for WW II.

He tells us how in the intervening years between the world wars the demonization of Russia and the new Soviet Union was started. This deprecation of Russia, which is roaring at full-throttle today, is a theme that recurs throughout The American Trajectory.  Its importance cannot be overemphasized.  Wilson called the Bolshevik government “a government by terror,” and in 1918 “sent thousands of troops into northern and eastern Russia, leaving them there until 1920.”

That the U. S. invaded Russia is a fact rarely mentioned and even barely known to Americans.  Perhaps awareness of it and the century-long demonizing of the U.S.S.R./Russia would enlighten those who buy the current anti-Russia propaganda called “Russiagate.”

To match that “divine” act of imperial intervention abroad, Wilson fomented the Red Scare at home, which, as Griffin says, had lasting and incalculable importance because it created the American fear of radical thought and revolution that exists to this very day and serves as a justification for supporting brutal dictators around the world and crackdowns on freedom at home (as is happening today).

He gives us brief summaries of some dictators the U.S has supported, and reminds us of the saying of that other liberal Democrat, Franklin Roosevelt, who famously said of the brutal Nicaraguan dictator Anastasio Somoza, that “he may be a son-of-a-bitch, but he’s our son-of-a-bitch.”  And thus Somoza would terrorize his own people for 43 years.  The same took place in Cuba, Chile, Iran, Guatemala, the Dominican Republic, Haiti, etc.  The U.S. also supported Mussolini, did nothing to prevent Franco’s fascist toppling of the Spanish Republic, and supported the right-wing government of Chiang-Kai Shek in its efforts to dominate China.

It is a very dark and ugly history that confirms the demonic nature of American actions around the world.

Then Griffin explodes the many myths about the so-called “Good War” – WW II.  He explains the lies told about the Japanese “surprise” attack on Pearl Harbor; how Roosevelt wished to get the U.S. into the war, both in the Pacific and in Europe; and how much American economic self-interest lay behind it.  He critiques the myth that America selflessly wished to defend freedom loving people in their battles with brutal, fascist regimes.  That, he tells us, is but a small part of the story:

This, however, is not an accurate picture of American policies during the Second World War.  Many people were, to be sure, liberated from terrible tyrannies by the Allied victories.  But the fact that these people benefited was an incidental outcome, not a motive of American policies.  These policies, as [Andrew] Bacevich discovered, were based on ‘unflagging self-interest.’

Then there are the conventional and atomic bombings of Hiroshima and Nagasaki.  Nothing could be more demonic, as Griffin shows.  If these cold-blooded mass massacres of civilians and the lies told to justify them don’t convince a reader that there has long been something radically evil at the heart of American history, nothing will.  Griffin shows how Truman and his advisers and top generals, including Dwight Eisenhower and Admiral William D. Leahy, Truman’s Chief of Staff, knew the dropping of the atomic bombs were unnecessary to end the war, but they did so anyway.

He reminds us of Clinton’s Secretary of State Madeline Albright’s response to the question whether she thought the deaths of more than 500, 000 Iraqi children as a result of Clinton’s crippling economic sanctions were worth it: “But, yes, we think the price is worth it.”  (Notice the “is,” the ongoing nature of these war crimes, as she spoke.)  But this is the woman who also said, “We are the indispensable nation.  We stand tall…”

Griffin devotes other chapters to the creation of the Cold War, American imperialism during the Cold War, Post-Cold War interventions, the Vietnam War, the drive for global dominance, and false flag operations, among other topics.

As for false flag operations, he says, “Indeed, the trajectory of the American Empire has relied so heavily on these types of attacks that one could describe it as a false flag empire.”  In the false flag chapter and throughout the book, he discusses many of the false flags the U.S. has engaged in, including Operation Gladio, the U.S./NATO terrorist operation throughout Europe that Swiss historian Daniele Ganser has extensively documented, an operation meant to discredit communists and socialists.  Such operations were directly connected to the OSS, the CIA and its director Allen Dulles, his henchman James Jesus Angleton, and their Nazi accomplices, such as General Reinhard Gehlen.  In one such attack in 1980 at the Bologna, Italy railway station, these U.S. terrorists killed 85 people and wounded 20 others.  As with the bombs dropped by Saudi Arabia today on Yemeni school children, the explosive used was made for the U.S. military.  About these documented U.S. atrocities, Griffin says:

These revelations show the falsity of an assumption widely held by Americans.  While recognizing that the US military sometimes does terrible things to their enemies, most Americans have assumed that US military leaders would not order the killing of innocent civilians in allied countries for political purposes.  Operation Gladio showed this assumption to be false.

He is right, but I would add that the leaders behind this were civilian, as much as, or more than military.

In the case of “Operation Northwoods,” it was the Joint Chiefs of Staff who presented to President Kennedy this false flag proposal that would provide justification for a U.S. invasion of Cuba.  It would have involved the killing of American citizens on American soil, bombings, plane hijacking, etc.  President Kennedy considered such people and such plans insane, and he rejected it as such.  His doing so tells us much, for many other presidents would have approved it.  And again, how many Americans are aware of this depraved proposal that is documented and easily available?  How many even want to contemplate it?  For the need to remain in denial of the facts of history and believe in the essential goodness of America’s rulers is a very hard nut to crack.  Griffin has written a dozen books about 11 September 2001, trying to do exactly that.

If one is willing to embrace historical facts, however, then this outstanding book will open one’s eyes to the long-standing demonic nature of the actions of America’s rulers.  A reader cannot come away from its lucidly presented history unaffected, unless one lives in a self-imposed fantasy world.  The record is clear, and Griffin lays it out in all its graphic horror. Which is not to say that the U.S. has not “done both good and bad things, so it could not sensibly be called purely divine or purely demonic.” Questions of purity are meant to obfuscate basic truths. And the question he asks in his subtitle – Divine or Demonic? – is really a rhetorical question, and when it comes to the “trajectory” of American history, the demonic wins hands down.

I would be remiss if I didn’t point out one place where Griffin fails the reader.  In his long chapter on Vietnam, which is replete with excellent facts and analyses, he makes a crucial mistake, which is unusual for him.  This mistake appears in a four page section on President Kennedy’s policies on Vietnam.  In those pages, Griffin relies on Noam Chomsky’s terrible book – Rethinking Camelot: JFK, the Vietnam War, and US Political Culture (1993), a book wherein Chomsky shows no regard for evidence or facts – to paint Kennedy as being in accord with his advisers, the CIA, and the military regarding Vietnam.  This is factually false. Griffin should have been more careful and have understood this.  The truth is that Kennedy was besieged and surrounded by these demonic people, who were intent on isolating him, disregarding his instructions, and murdering him to achieve their goals in Vietnam.  In the last year of his life, JFK had taken a radical turn toward peace-making, not only in Vietnam, but with the Soviet Union, Cuba, and around the globe.  Such a turn was anathema to the war lovers. Thus he had to die.  Contrary to Chomsky’s deceptions, motivated by his hatred of Kennedy and perhaps something more sinister (he also backs the Warren Commission, thinks JFK’s assassination was no big deal, and accepts the patently false official version of the attacks of 11 September 2001), Griffin should have emphatically asserted that Kennedy had issued NSAM 263 on October 11, 1963 calling for the withdrawal of American troops from Vietnam, and that after he was assassinated a month later, Lyndon Johnson reversed that withdrawal order with NSAM 273.  Chomsky notwithstanding, all the best scholarship and documentary evidence proves this.  And for Griffin, a wonderful scholar, to write that with the change from Kennedy to Johnson that “this change of presidents would bring no basic change in policy” is so shockingly wrong that I imagine Griffin, a man passionate about truth, simply slipped up and got sloppy here.  For nothing could be further from the truth.

Ironically, Griffin makes a masterful case for his thesis, while forgetting the one pivotal man, President John Kennedy, who sacrificed his life in an effort to change the trajectory of American history from its demonic course.

It is one mistake in an otherwise very important and excellent book that should be required reading for anyone who doubts the evil nature of this country’s continuing foreign policy.  Those who are already convinced should also read it, for it provides a needed historical resource and impetus to help change the trajectory that is transporting the world toward nuclear oblivion, if continued.

If – a fantastic wish! – The American Trajectory: Divine or Demonic? were required reading in American schools and colleges, perhaps a new generation would arise to change our devils into angels, the arc of America’s future moral universe toward justice, and away from being the greatest purveyor of violence in the world today, as it has been for so very long.

Reprinted with the author’s permission.

mardi, 11 septembre 2018

Pensée extrême au-delà des Pyrénées !

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Pensée extrême au-delà des Pyrénées !

par Bastien VALORGUES

GFT-Esp.jpgAvec la démission larmoyante du gouvernement de l’« hélicolo » Nicolas Hulot à bout de nerf et la confirmation sur le meilleur racket possible des contribuables, victimes de la ponction à la source, l’événement éditorial de cette Rentrée est pour le site Europe Maxima la parution aux éditions Fides d’Elementos para un pensamiento extremo de notre rédacteur en chef, Georges Feltin-Tracol.

Situées en Espagne, les éditions Fides font depuis plusieurs années un travail remarquable en traduisant de nombreux écrivains anti-conformistes. Dans une collection spécialement intitulée « Biblioteca metapolitika » (avec ce k qui soulève tant de débats dans le monde hispanique), on y trouve des textes de Thomas Molnar, d’Alexandre Douguine, de Guillaume Faye, de Robert Steuckers, de Pierre Le Vigan, d’Alain de Benoist, de Jacques Marlaud, de Michel Geoffroy, etc. Elementos para un pensamiento extremo en est sa vingt-huitième parution.

Traduit et préfacé par Jesús Sebastián Lorente, ce livre porte le même titre que le gros ouvrage sorti en 2016 aux Éditions du Lore. C’est leur seul point commun. En effet, en plus d’une préface inédite destinée au lecteur de langue espagnole, Georges Feltin-Tracol a totalement modifié le contenu si bien que les deux recueils ne comportent pas le même nombre de textes, ni d’ailleurs les mêmes textes. Dans Éléments pour une pensée extrême, on trouve aussi bien des commentaires de l’actualité politique française que de vives réactions à des faits-divers difficilement compréhensibles hors de France. L’auteur a préféré y intégrer des textes présents à l’origine dans Orientations rebelles, L’Esprit européen entre mémoires locales et volonté continentale (aujourd’hui épuisés), et L’Europe, pas le monde.

Avec une introduction extraite de la version française, Elementos para un pensamiento extremo se composent de quatre parties :

– la première concerne une approche économique anti-libérale tels « Le recours aux frontières », « Pour une autarcie économique des grands espaces » ou le tonitruant « Pour la société fermée »;

– la deuxième affronte l’Occident mondialisé avec « Qu’est-ce que le mondialisme ? », « L’Occident, voilà l’ennemi ! », « États du monde, possédez la Bombe ! »;

– la troisième, « Notre destin européen », aborde « Géophilosophie de l’Europe » ou « Le brutal réveil des peuples en Europe », la préface à l’essai récent de Franck Buleux sur l’Europe;

– sa quatrième et dernière partie tourne autour d’une interrogation importante, « Le monde moderne, et après ? ». On y lit des réflexions fondamentales comme « Insoumission ! », « L’heure d’éteindre les Lumières » ou l’incroyable « Triomphe de l’idéologie réticulaire. De la postmodernité à la réalité ultra-moderne ».

Le monde hispanophone ne saurait se réduire à la seule Espagne – pensons à l’Amérique latine de la Californie à la Terre de Feu -, va ainsi découvrir le point de vue d’un Français original. Georges Feltin-Tracol ne cache pas son adhésion à l’Idée impériale européenne. Cette extravagance n’en est pas une. Il rappelle que la France est un résumé de l’Europe par sa composition ethnique et la diversité de ses paysages, que les rois de France ont eux aussi revendiqué le titre impérial du Saint-Empire (François Ier et Louis XIV) et que bien des territoires de la France du Sud-Est (Nice, Arles, Lyon), de l’Est (Besançon, Dôle, Strasbourg, Nancy, Metz) et du Nord (Lille, Arras, Dunkerque) ont été terres d’Empire avant leur rattachement au « Pré carré » capétien. Les habitants de ces terroirs conservent toujours de subtiles différences psychologiques par rapport aux Parisiens, aux Angevins, aux Bretons et aux Occitans.

La référence à un empire sacré lui permet d’insister sur l’importance d’une véritable union européenne. L’Europe de Feltin-Tracol n’écrase pas l’indéniable pérennité ethnique des Européens. À la suite de nombreux autres penseurs, cette Europe impériale se fonde sur une véritable cohérence intellectuelle, une mise en résonance des peuples autochtones avec leurs identités ethno-culturelles, leurs communautés collectives historiques, leurs régions enracinées et leurs nations politiques. Entre une non-Europe préparée par les Américains et les usuriers et le rejet de toute Europe préconisée par les souverainistes nationaux, une troisième voie européenne, celle présentée par l’auteur de Réflexions à l’Est, est plus que jamais impérative.

Souhaitons d’abord le plus grand succès à ce premier livre traduit hors de France et, ensuite, de prochaines traductions tant dans la langue de Cervantès que dans des langues différentes !

Bastien Valorgues

Georges Feltin-Tracol, Elementos para un pensamiento extremo, Ediciones Fides, coll. « Biblioteca Metapolítika », n° 28, 2018, 235 p., 20 €. (N’hésitez pas à consulter leur très beau site – NDLR).

dimanche, 09 septembre 2018

Hispanofobia. Sobre el libro de doña María Elvira Roca Barea, Imperiofobia y leyenda negra

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Hispanofobia. Sobre el libro de doña María Elvira Roca Barea, Imperiofobia y leyenda negra

Carlos X. Blanco

La lectura del libro de doña María Elvira Roca Barea, Imperiofobia y leyenda negra [http://www.siruela.com/catalogo.php?id_libro=3202] no me ha dejado indiferente. Más bien, me ha conmovido. Había pospuesto la lectura de este libro para el estío vacacional, y ya tardaba en caer en mis manos. El texto, no sé muy bien por qué extraños resortes mentales, causó en mí el efecto de una emotiva liberación. La liberación de prejuicios hondamente arraigados y la urgencia por verme en la necesidad de revisar y estudiar profundamente el origen de esos mismos prejuicios. El libro, me parece, es todo un éxito editorial, y ni la autora ni el editor necesitan de publicidad alguna de mi parte. Escribo estas líneas como quien recomienda con fervor algo bueno a un amigo.

imperiofobia.jpgAcabo de consultar la web de Siruela y veo que ya va por la 18ª edición, y el número de reseñas y entrevistas a la autora se multiplica desde su salida. Si escribo esta breve reseña no es por otro motivo que el de compartir sensaciones y reflexiones, animar a su lectura, recomendar el estudio serio y objetivo de la Historia, la de España y la del mundo, y cerrar el paso a toda suerte de racismo.

¿Racismo? Sí, el libro es un alegato contra el único tipo de racismo que aún está consentido, tolerado y hasta bien visto a escala mundial: la hispanofobia. En realidad, ésta magnífica obra de la señora Roca es un tratado sobre la hispanofobia. Ocurre que sobre la civilización hispánica, nacida en las agrestes montañas cantábricas y, secundariamente, las pirenaicas, se pueden verter todo tipo de insultos y maldiciones, y aquí no pasa nada. Se trata de una agresión que apenas va a encontrar respuesta. Desde el siglo XVI, la munición desplegada contra la idea de España, contra su proyecto geopolítico y espiritual, contra su misma razón de ser, ha sido una munición cargada de odio, de alto poder destructivo y de enorme rentabilidad justificativa para quien la ha empleado. La "víctima", España como idea y como proyecto, nunca ha reaccionado eficazmente contra los ataques. En su etapa imperial y ascendente, podía entenderse el gesto altanero y orgulloso de quien no hace mucho caso de las moscas que le revolotean en su camino triunfante. Pero ya en la fase de crisis, y no sólo crisis militar y geopolítica sino crisis existencial, el Imperio español no pudo y no supo articular una "leyenda blanca" que limpiara o neutralizara la muy negra invención que se lanzó contra él.

María Elvira Roca traza con maestría los orígenes de la leyenda negra por antonomasia: la leyenda negra española. Es cierto que todo Imperio desata el rencor y la envida de los vencidos, de los segundones, de los rivales, de los periféricos. Es un fenómeno universal. Roma, Rusia, Estados Unidos, etc. son casos analizados por la autora, y en todos ellos se detecta la creación de una leyenda negra. Pero es muy significativo que el propio término, leyenda negra sin más, sin el apellido de "romana", "inglesa", "rusa", "norteamericana", se aplique a España. A la España imperial, primero, y a la actual España nacional, ahora. La leyenda negra es, sin más especificación, una leyenda negra contra España.

Los orígenes de la Leyenda hay que localizarlos en Italia. La cuna del Humanismo, en pleno renacimiento, es también la cloaca de unos "intelectuales" italianos llenos de resentimiento y envidia que no podían encajar de forma saludable su insignificancia político-militar en tanto que italianos, con la anchurosa y ambiciosa creación imperial que se gestaba en otra península, la Ibérica. La nueva Roma no era la Roma italiana. La nueva Roma era, en realidad, España. España como corazón de un Imperio mundial, del que había de formar parte una gran extensión de Italia. El Humanismo italiano, como su derivación ulterior, la Ilustración francesa, fueron hervideros de "intelectuales" autocomplacientes, henchidos de orgullo nacional herido, ciegos o falsarios en todo cuanto representó la aportación española a la civilización europea, cristiana y mundial. Una Italia impotente desde el punto de vista nacional, en el siglo XVI, así como una Francia frustrada, desde el punto de vista imperial, en el XVIII, han sido centros de propaganda anti-española sumamente eficaces. Lo peor de las Leyendas inventadas en contra de nuestro Imperio y en contra de nuestro pueblo no es que nos mancillen ante el mundo, que nos ataquen. Lo peor es la merma de la verdad, el insulto a la verdad objetiva. Corregir la Leyenda Negra es rendir un homenaje no sólo a nuestros antepasados. Se trata de rendir el debido homenaje a la Verdad. Se trata de estudiar y enseñar adecuadamente la Historia, sin ocultar tampoco los errores y tropelías de otros tiempos, y cuando éstos hayan de ser reconocidos en justicia, se trata también de contextualizarlos en su tiempo. Pero cortar el paso al error, destruirlo y denunciarlo, es un requisito para la recuperación de nuestra identidad colectiva como pueblo, y es un deber para con la Humanidad. La tarea que propone la profesora Roca no puede ser más estimulante.

El carácter racista de la hispanofobia se ve mucho más claramente cuando doña María Elvira pasa a estudiar la leyenda negra surgida en el mundo protestante: Alemania, Países Bajos, Inglaterra, etc. Los italianos y franceses seguían siendo, a fin de cuentas, correligionarios católicos y de latina tradición. A pesar de ser parientes nuestros y vecinos mucho más cercanos, los italianos y franceses nos tacharon de moros y de judíos para subrayar así nuestro falso catolicismo y nuestra dudosa europeidad. Pero, aunque ya había racismo en estas leyendas, de España les podía molestar más bien la existencia de su mismo Imperio, más que nuestra idiosincrasia, y lo que para ellos les parecía temible y propio de un Imperio hegemónico: nuestra soberbia, nuestra supuesta crueldad. Pero en el mundo protestante, verdadera cuna de la raciobiología, esto es, del racismo de base biológica que postula la jerarquía de razas, el católico, el habitante del Sur europeo (al que había que añadir al irlandés) era un ser inferior desde el punto de vista corporal y moral, un ser despreciable y vitalmente decadente. La hispanofobia fue, para los protestantes, el núcleo de la catolicofobia. Había que echar toda la basura propagandística sobre los logros de la civilización católica, cuyo "renacimiento" lo estaba protagonizando la España de los grandes Austrias. La civilización católica, el cristianismo "fáustico" en palabras de Spengler, había conocido su culmen entre los siglos X y XIII. El proyecto del Emperador Carlos I de España y V de Alemania, ya en el XVI, había sido, en realidad, el proyecto de una restauración y perpetuación de esa catolicidad que, atendiendo a su significado, significa "universalidad".

charles_quintcheval.jpgLuteranos y calvinistas no fueron mejores en su intolerancia, como demuestra la señora Roca, antes bien, fueron especialmente fanáticos en sus orígenes, y traidores a la civilización en la que se insertaron, aliándose con los turcos y prefiriendo el yugo de éstos, al yugo suave del Imperio carolino. La historia les juzgará, pues ahora son justamente esos países intolerantes y catolicofóbicos los que han hecho de la "tolerancia" su religión o sucedáneo de religión. Y ahora sí, deshecho ese Imperio universal que extendiera una civilización católica, tienen al "turco", o algún análogo suyo, metido dentro, destrozándoles en sus entrañas.

Sin embargo, es curioso que los países del Sur europeo, bien católicos de tradición, bien ortodoxos (como Grecia), sean siempre los países bajo sospecha, los perpetuos e incorregibles zascandiles merecedores de calificativos económico-financieros tan poco amables como el de países PIGs (pig es cerdo en inglés). Es evidente que nuestro carácter porcino destaca ante la supuesta pureza ética (ahorradores y emprendedores weberianos) de los protestantes de sangre nórdica o anglosajona que mandan en las agencias de clasificación o en los bancos podridos de Wall Street. En la parte final del libro Imperiofobia y Leyenda Negra hay todo un programa de investigación destinado a elevar nuestro amor propio y cuidar de nuestros propios intereses, en tanto que españoles y en tanto que miembros de una amplísima civilización hispánica, si no queremos hipotecar el futuro de nuestros hijos y nietos. Nos va el futuro en ello.

Esta llamada "globalización" es, en realidad, la dictadura de poderes financieros que hace ya tiempo no tienen patria, pero que siguen manipulando con éxito las opiniones públicas angloamericanas y germanas, así como la de otros países nórdicos. Esta globalización que padecemos sigue siendo, en gran medida, "americanización", contando con la sucursal alemana que ha creado un tingladillo llamado "Unión Europea" destinado únicamente a comprarnos, malvendernos, esclavizarnos y saquearnos. El tingladillo es especialmente corrupto, opaco y despótico, y guarda conexiones muy estrechas con las monarquías mahometanas del petróleo, que se están haciendo dueñas de todo. La idea del Imperio católico, esto es, "universal", siempre será objeto de leyenda negra, de desprecio, de manipulación sin límite, de estereotipo, burla, escarnio en este contexto siniestro en que nos movemos. Siempre. Es evidente que, como idea, la de Imperio puede ser malinterpretada. El imperio del que hablamos no es el imperio de una nación sobre otras. Nunca debe confundirse Imperio Español con nacionalismo español. Éste surge después, en el siglo XIX, tarde, mal y nunca… El nacionalismo surge cuando el Imperio se pierde. Tampoco hemos de confundir Imperio con colonialismo. De éste libro de la señora Roca Barea se desprendería, con facilidad toda una "teoría del Imperio". Los ingleses, portugueses, holandeses y, mucho menos, los franceses, nunca tuvieron auténticos imperios. Lo que tuvieron fueron dominios coloniales. Esta teoría (o metateoría) de los imperios ha empezado ya a ser edificada. Don Gustavo Bueno distinguía entre imperios depredadores e imperios generadores, aunque es más clara la tajante y escueta distinción de Roca Barea entre colonialismo e imperio (en sentido estricto). Un imperio auténtico siempre es protector y padre de futuras naciones ante terceros (ante "bárbaros") y siempre es "civilizador" en su sentido genuino. Por mi parte, he cruzado la distinción buenista con otra distinción, la que media entre imperios aglutinantes e imperios absorbentes [https://decadenciadeeuropa.blogspot.com/2018/06/the-difficulties-around-idea-of-spanish.html]. Con ello, creo poder situar al Imperio español dentro de los imperios civilizadores ("generadores"), como Roma, pero no reducirlo completamente a un imperio absorbente, como lo fue la romanización frente a los bárbaros, sobre todo occidentales (celtas, germanos, etc.) sino aglutinante, esto es, un Imperio mucho más considerado con respecto a peculiaridades étnicas, jurídicas, lingüísticas, de los distintos pueblos aglutinados, acercándose así al ideal del Sacro Imperio Germánico en algunos aspectos.

Para terminar mi reseña o recomendación, también debo deslizar una crítica a Imperiofobia. No estoy de acuerdo con el análisis que la autora hace de los E.E.U.U. como imperio víctima de fobias. El yanqui es un imperio claramente depredador, que mina los fundamentos culturales de los países que subyuga y que irá cambiando su "coloración" cultural a medida que su composición étnica interna vaya cambiando. De hecho, ya ocurre que el idioma inglés americano se va distanciando del inglés británico, y que no es una civilización anglosajona (WASP) la que se expande por el mundo. Cada vez más ese imperialismo se muestra como un artificio pseudocultural (a veces pseudoafro, a veces, pseudohispano, etc.) que sirve como mero envoltorio de unas relaciones económicas descarnadas. No se entiende muy bien la defensa, a mi juicio incoherente, que la autora hace del imperialismo yanqui, sabiendo que la muerte del imperio hispano (1898), mejor dicho, el entierro de un moribundo de larga agonía, fue debida a los engaños y abusos de ese artificio, pseudo-nación o conglomerado étnico articulado en torno al dólar, y que se llama los "Estados Unidos de América". Pero de los norteamericanos ya hablaré otro día.

Analyse: Europa, tome I, de Robert Steuckers

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Analyse: Europa, tome I, de Robert Steuckers

par Gwenaël Corm

Ex: http://lesocle.hautetfort.com  

Fruit d'un travail long de plusieurs années, Europa est une trilogie consacrée à l'Europe, analysée sous l'angle géopolitique. Porté par le temps et l'espace longs, le travail de Robert Steuckers a pour ambition de fournir des solutions à son désenclavement. Tétanisée, prise en étau entre une Asie inaccessible et une Amérique hégémonique, l'Europe est également prisonnière de son univers mental, l’empêchant de prendre conscience d'elle-même et inhibant tout réflexe de puissance ou même de survie. Et comme nous l'explique Robert Steuckers, c'est précisément la position précaire de l'Europe, petit promontoire à l’extrême ouest du continent eurasiatique, qui façonna l'histoire de l'Europe et la mentalité européenne.

Pour toute commande du volume:

https://editionsbios.fr/auteur/robert-steuckers

De la méditation de notre histoire et analysant les rapports de force animant le monde contemporain, Robert Steuckers recherche les pistes d'une renaissance européenne, tant culturelle que géopolitique et nous livre ici le résultats de ses réflexions. Europa est un plaidoyer civilisationnel comme il en existe encore trop peu aujourd'hui. De nos plus lointains ancêtres à la conquête de l'espace, l'esprit qui doit nous animer est contenu dans ces trois tomes dont le SOCLE vous livre à présent la critique positive.

Par Gwendal Crom, pour le SOCLE

Selon la formule consacrée, on ne présente plus Robert Steuckers. Aux côtés d’Alain de Benoist, de Guillaume Faye et de Dominique Venner, Robert Steuckers fait partie des piliers de la « Nouvelle Droite » dont le mouvement identitaire dans son ensemble revendique aujourd’hui l’héritage.

Après avoir participé à l’aventure du GRECE, Robert Steuckers va fonder Synergies européennes, réorientant la pensée de la « Nouvelle Droite » vers la géopolitique et cherchant à tisser de nouvelles solidarités à travers toute l’Europe.

Il est donc deux sujets, deux préoccupations qui constituent le cœur de la pensée de Robert Steuckers : l’Europe et la géopolitique. Deux sujets qui en vérité n’en forment qu’un car comme l'auteur l’explique lors de sa conférence lilloise du 9 mars 2019, l’Europe est une civilisation politique, fortement déterminée par son environnement, climatique, géographique certes, mais aussi humain. Les menaces qu’ont fait et font toujours peser ses voisins sur l’Europe ont fortement modelé l’histoire, la mentalité de nos peuples. C’est pourquoi Robert Steuckers nous en averti d’emblée, penser l’Europe comme un isolat qui se limiterait à l’actuelle Union Européenne est une grave erreur. Le plus grand des maux dont a souffert l’Europe à travers l’histoire est son enclavement. S’il ne fallait donc retenir qu’un seul terme à même de résumer l’ambition pour l’Europe de Robert Steuckers, ce serait celui de « désenclavement ». Car comme il le souligne, l’Europe a chaque fois été en retrait, en position de faiblesse, lorsqu’elle était enclavée. Rappelant les figures de Marco Polo et d’Ivan le terrible ou la découverte de l’Amérique, Robert Steuckers nous montre que l’Europe ne fut jamais grande que lorsqu’elle brisa cet enclavement. Comme nous le verrons par la suite, l’Europe souffrira longtemps de ses divisions et de ses égoïsmes. Sept siècles pour reconquérir totalement l’Espagne, deux siècles entre la prise des Balkans par les Ottomans et la bataille de Lépante. Et à chaque fois, une Europe dont les souverains s’écharpent, se désintéressant du contrôle de la méditerranée, abandonnant la Hongrie et Constantinople, complotant les uns contre les autres (culminant dans l’ignominie avec l’alliance franco-turque de 1536 établie entre François 1er et Soliman le magnifique). Au-delà des avertissements que nous livre la méditation de l’histoire et que Robert Steuckers partage avec nous, l’auteur cherche donc les pistes de notre désenclavement.

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Europa compile ainsi plusieurs dizaines de textes et d’interventions de Robert Steuckers consacrés à l’histoire et la destiné de notre continent. Le tout est divisé en trois tomes. Le premier, Valeurs et racines profondes de l’Europe, se fixe pour but de lister les caractéristiques, les valeurs de l’esprit européen nées durant l’Antiquité. Pour Robert Steuckers, il s’agira donc pour tout travail métapolitique de revivifier ces valeurs dans le cœur des Européens pour permettre leur renaissance et ainsi de renouer avec la puissance. On ne manquera de remarquer ici que l’esprit européen, à rebours de son enclavement géographique actuel, est comme enclavé à l’extérieur. Il n’a pas su tel Ulysse revenir chez lui, à la source qui l’a vue naître, condamné ainsi à vagabonder de par le monde, s’extasiant sur ce qu’il n’est pas, se revendiquant de grands principes et concepts désincarnés, impersonnels. Ainsi devons-nous revenir à nous-mêmes pour repartir à l’assaut du monde. Non pour le dominer mais pour que notre horizon, qu’il soit géopolitique ou mental cesse d’être un mur.

Le second tome, appelé De l’Eurasie aux périphéries, une géopolitique continentale, poursuit cette volonté de désenclavement. Conscient que ce sont les grands espaces et les grands ensembles qui fondent la marche du monde et les rapports de forces, Robert Steuckers en appelle à une grande politique eurasiatique, prolongée par une démarche géopolitique multipolaire bienveillante envers les espaces perse, indien et chinois.

Le troisième tome : L’Europe, un balcon sur le monde, analyse en profondeur les grands ensembles civilisationnels auxquels est confronté l’Europe. Des Balkans au Pacifique, ce tour du monde historique et géopolitique est l’occasion pour le lecteur de prendre conscience que l’Europe n’est qu’un sous-continent, à l’extrême-ouest du continent eurasiatique, que le monde au-delà de ses marches (de plus en plus mal défendues qui plus est) tourne et fait tourner des masses de plus en plus grandes, qu’elles soient démographiques, économiques, industrielles, scientifiques. Prendre conscience que derrière ce mur que nous voulons abattre se trouve un monde (des mondes) auquel il faudra être préparé.

La présente critique positive se concentrera sur le premier tome, dont le titre est nous le rappelons : Valeurs et racines profondes de l’Europe. Nous traiterons les deux tomes suivants lors de prochaines critiques positives.

Toute la démarche de Robert Steuckers se fait sur le temps et l’espace longs. Il s’agit de trouver les permanences qui permettent de penser le présent, non pour vouloir répéter à l’identique les gestes et les situations d’autrefois mais pour trouver l’inspiration, les exemples permettant de se confronter au monde comme nos ancêtres surent le faire. Et comme nous l’avions dit en introduction de cette critique positive, pour Robert Steuckers, les valeurs européennes sont en grande partie d’essence (géo) politique, façonnées, dictées par ses environnements interne comme externe. Ainsi le rappelle l’auteur page 15 : « L’identité géopolitique européenne est donc ce combat plurimillénaire pour des frontières stables et « membrées », pour le libre passage vers le cœur de l’Eurasie, qu’avait réclamé Urbain II à Clermont-Ferrand en prêchant la première croisade. L’identité culturelle européenne est cette culture militaire, cet art de la chevalerie, hérités des héros de l’ère avestique. L’identité culturelle européenne est cette volonté d’organiser l’espace, l’ager des Romains, de lui imprégner une marque définitive. Mais aujourd’hui, où en est-on ? Quelle est notre situation objective ? ».

Nous parlons de géopolitique, donc de rapport de forces, donc de grands espaces. La notion d’empire est donc centrale pour comprendre la pensée de Robert Steuckers et plus généralement la marche du monde. Cette notion d’empire, fondamentale, trouvera son expression dans l’Empire romain sous nos latitudes, avec l’empire sassanide parthe en Perse et l’empire Gupta en Inde. Ces trois empires formant une chaîne de l’Atlantique à l’océan indien, empire qui s’effondreront devant les Huns, les Arabes, les Mongols et les Turcs. Effondrement qui privera l’Europe d’accès à l’Asie comme durant le Moyen-âge et la Renaissance.

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Mais aujourd’hui, quid de la notion d’empire ? Elle est plus que jamais d’actualité. Parler d’empire américain a un sens mais pas exactement celui auquel on pourrait s’attendre. En effet, tels les Romains autrefois, les Américains ont compris l’importance de contrôler les grands axes de communications et les centres névralgiques avec entre autres les Balkans et le Danube (nécessaires pour avoir accès à l’Asie). Tels les Romains, la volonté des Américains se veut bien évidemment hégémonique mais il n’en reste pas moins que de l’avis même de certains hauts responsables américains, ce n’est pas aux Romains que les Américains doivent être comparés mais bel et bien aux Mongols. Certains s’étonneront de cette comparaison et pourtant… Page 7 peut-on ainsi lire : « Brzezinski n’a pas hésité à dire que les Américains avaient pour but d’imiter les Mongols : de consolider une hégémonie économique et militaire sans gérer ni administrer le territoire, sans le mailler correctement à la façon des Romains et des Parthes. L’Amérique a inventé l’hégémonie irresponsable, alors que les trois grands empires juxtaposés des Romains, des Parthes et des Gupta visaient à une organisation optimale du territoire, une consolidation définitive, dont les traces sont encore perceptibles aujourd’hui, même dans les provinces les plus reculées de l’empire romain : le mur d’Hadrien, les thermes de Bath, le tracé des villes de Timgad et de Lambèze en Afrique du Nord sont autant de témoignages archéologiques de la volonté de marquer durablement le territoire, de hisser peuples et tribus à un niveau de civilisation élevé, de type urbain ou agricole mais toujours sédentaire. Car cela aussi, c’est l’identité essentielle de l’Europe. La volonté d’organiser, d’assurer une paix féconde et durable, demeure le modèle impérial de l’Europe, un modèle qui est le contraire diamétral de ce que proposent les Américains aujourd’hui, par la voix de Brzezinski. Rien de tel du côté des Mongols, modèles des Américains aujourd’hui. Nulle trace sur les territoires qu’ils ont soumis de merveilles architecturales comme le pont du Gard. Nulle trace d’un urbanisme paradigmatique. Nulle trace de routes. La dynamique nomade des tribus hunniques, mongoles et turques n’aboutit à aucun ordre territorial cohérent, même si elle vise une domination universelle. Elle ne propose aucun « nomos » de la Terre. Et face à cette absence d’organisation romaine ou parthe, Brzezinski se montre admiratif et écrit : « Seul l’extraordinaire empire mongol approche notre définition de la puissance mondiale ». »

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Ainsi l’Europe doit-elle revenir à la notion fondamentale d’empire et pouvoir opposer un empire européen à l’empire américain « mongolomorphe ». Et cela, pas uniquement pour des raisons de rapport de force. En effet, seul un empire permettrait d’articuler les différentes composantes, qu’elles soient culturelles ou politiques de l’Europe. Un empire étant fondé par définition sur l’agglomération de plusieurs peuples, il serait la solution au problème de transition politique dont ne savent plus sortir les Européens, bloqué entre le fédéralisme sans Etat ni gouvernement central de l’UE et le retour en arrière, abusivement appelé souverainiste, que portent les mouvements populistes d’Europe. Comme l’explique bien Gérard Dussouy dans Contre l’Europe de Bruxelles, fonder un Etat européen, il n’existe point de souveraineté sans puissance. Et comme le rappelle Robert Steuckers en ouverture du chapitre X : « L’horizon du politique, de tout dynamisme politique constructif, n’est plus l’Etat-nation fermé, qu’il soit centralisé ou fédéral, mais les limites géopolitiques du continent européen ». L’empire européen donnerait à notre continent la masse critique démographique, économique, industrielle et financière lui permettant de renouer avec la puissance et donc la souveraineté. Un empire européen articulé selon le principe de subsidiarité, un empire empreint d’une véritable verticalité, incarné dans les peuples et l’histoire de l’Europe.

Mais vouloir la puissance pour la puissance serait une erreur, Robert Steuckers nous le rappelle. Tout projet européen doit avoir pour horizon le désenclavement de notre continent. Ainsi, voici pour l’auteur les priorités que devrait se fixer un empire européen en termes géopolitiques:

Reprendre le contrôle ou s’assurer un accès :

  • Au Danube
  • Au Caucase (avec la Russie)
  • Au Cachemire (avec la Russie et l’Inde)

Faire refluer les puissances concurrentes :

  • Dans les Balkans
  • Sur le Danube (troupes américaines)
  • A Chypre (expulsion des Turcs)

Et pour les mêmes raisons :

  • Aider les Kurdes et les Arméniens contre les Turcs et leurs alliés
  • Faire de l’Inde un partenaire privilégié en particulier dans sa lutte contre le Pakistan et son allié étasunien.
  • Adopter une véritable politique spatiale (satellites) et maritime (tant d’un point de vue économique que militaire)
  • Affirmer une véritable indépendance militaire
  • Détricoter les archaïsmes de l’UE qui empêchent l’Europe de renouer avec la puissance

A présent, penchons-nous sur les recommandations de Robert Steuckers en termes d’organisation du pouvoir politique. Quelle forme devrait prendre cet empire européen selon lui ?

Comme dit précédemment, il s’agit pour Robert Steuckers d’alléger la bureaucratie européenne et de recentrer le pouvoir européen sur les missions pour lesquelles il sera plus compétent que les Etats seuls et notamment l’armée, la diplomatie et la monnaie, trois leviers de souveraineté fondamentaux permettant d’assurer l’indépendance de l’Europe. Sur les autres tâches, ce doit être aux Etats ou aux régions de décider. Subsidiarité encore une fois. Robert Steuckers nous parle ici de ce qu’il appelle la conjonction « Unité législative – pluralité administrative ». Et à ceux qui craindraient que les Etats d’Europe perdent ainsi toute souveraineté, Robert Steuckers prend le cas de l’Allemagne en exemple. En effet, si toute personne suivant un tant soit peu la politique connait le Bundestag, la plupart ne savent que rarement ce qu’est le Bundesrat et son rôle dans la politique allemande. Si le Bundestag est le parlement fédéral qui exerce le pouvoir législatif et élit le chancelier fédéral, le Bundesrat constitue la chambre des régions (les fameux Länder). Toute initiative législative doit être présentée au Bundesrat avant de l’être devant le Bundestag. De plus, et c’est la chose la plus remarquable qu’il nous faut retenir, c’est que le Bundestag a droit de veto absolu sur les propositions de législation relevant de son autorité et dispose d’un veto suspensif sur tout autre type de législation. Un tel mode de fonctionnement serait ici parfaitement adapté à un Etat européen qui laissera le pouvoir aux Etats. Il s’agira alors de garder le parlement européen actuel en tant que parlement fédéral et de créer une chambre des nations qui, par le biais de la majorité de ses membres, pourrait stopper toute loi qui ne serait pas dans l’intérêt de l’ensemble des nations européennes. Un tel dispositif parlementaire permettrait d’allier efficacité et respect des souverainetés nationales tout en empêchant qu’une minorité de pays bloquent l’ensemble de l’Europe. Car oui, le droit de veto serait collectif et ne serait pas donné individuellement à chaque Etat. A chacun d’être cohérent. Il n’existe pas de différence d’un point de vue politique entre l’absence d’Europe et une Europe des nations qui seraient totalement indépendantes les unes des autres.

verdun.jpgRobert Steuckers a bien conscience que dépasser les antagonismes nationaux, les intérêts égoïstes de nos gouvernements sera long et difficile. La pensée européenne elle aussi est enclavée, enclavée à l’intérieur de ses nombreuses frontières qui sont autant les symboles de gloires passées que d’un futur perclus. Beaucoup des nôtres sont encore incapables de sortir du paradigme stato-national, confondent (sciemment ou non) Europe et Union Européenne, Union Européenne et véritable gouvernement européen. Beaucoup ne comprennent pas que le génie français par exemple est ce qui permettait à notre chère nation de faire la différence face à des adversaires à sa taille mais n’est en aucun cas ce qui donne à David le pouvoir de terrasser Goliath. Beaucoup ne comprennent pas que les recettes d’hier ne s’appliquent pas à demain. Seul notre environnement et les capacités dont nous disposons peuvent dicter ce qui nous sera possible d’accomplir comme le rang que nous pourrons atteindre. Et donc de dicter la politique que nous devons mener pour rester souverains. Ne seront souverains que des Européens, qu’ils soient Français, Allemands, Lituaniens ou Italiens. Mais individuellement il n’y aura pas de souveraineté pour eux et ils seront condamné à se mettre sous la férule d’un des grands blocs qui domineront demain le monde multipolaire qui se dessine sous nos yeux chaque jour un peu plus.

Une fois un tel Etat mis en place donc, une fois qu’une véritable volonté impériale animera l’Europe, quelles devront être les grandes décisions, les grandes orientations qu’il devra prendre ?

Tout d’abord, tout ce qui permettra d’assurer son indépendance. Cela implique une armée puissante passant par le développement de son industrie de l’armement et de l’Eurocorps qui permettra une sortie de l’OTAN, une politique spatiale (y compris et surtout militaire) et maritime ambitieuses, un aménagement du territoire, une indépendance énergétique passant entre autres par une diversification des sources d’énergie et un partenariat stratégique avec la Russie. Impériale, l’Europe pourra à nouveau envisager la géopolitique avec un point de vue plus pragmatique, à l’exemple de celui des Chinois, à rebours de l’universalisme américain que suivent aujourd’hui les Européens. Page 244, Robert Steuckers rappelle les grands principes qu’appliquent encore aujourd’hui les Chinois en matière de géopolitique :

«     

  • Aucune immixtion d’Etats tiers dans les affaires intérieures d’un autre Etat. Cela signifie que l’idéologie des droits de l’homme ne peut être utilisée pour susciter des conflits au sein d’un Etat tiers. Le général Löser qui, immédiatement avant la chute du mur, militait en Allemagne pour une neutralisation de la zone centre-européenne (Mitteleuropa), défendait des points de vue similaires ;
  • Respect de la souveraineté des Etats existants ;
  • Ne jamais agir pour ébranler les fondements sur lesquels reposaient les stabilités des Etats ;
  • Continuer à travailler à la coexistence pacifique ;
  • Garantir à chaque peuple la liberté de façonner à sa guise son propre système économique

»

En termes économiques justemment, Robert Steuckers préconise d’abandonner le libéralisme effréné pour un ordo-libéralisme où l’Etat européen aurait toujours le dernier mot et dont l’inspiration générale serait l’investissement plutôt que la spéculation. Toute politique économique doit être un instrument de puissance comme le rappelle Robert Steuckers qui cite le cas de Bruno Gollnisch qui (page 242) : « a proposé une politique européenne selon trois axes : premièrement, soutenir Airbus, afin de développer une industrie aéronautique européenne indépendante de l’Amérique ; deuxièmement, développer « Aérospace » afin de doter l’Europe d’un système satellitaire propre ; troisièmement, soutenir toutes les recherches en matière énergétique afin de délivrer l’Europe de la tutelle des consortia pétroliers dirigés par les Etats-Unis. Un programme aussi clair constitue indubitablement un pas dans la bonne direction ». Rien de bien étonnant de la part de cet homme politique car celui qui fait sien le principe de souverainisme sera naturellement amené à penser en termes européens.

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Mais, et c’est également ce qui doit être retenu de cet ouvrage, Robert Steuckers appelle à faire l’Europe sur le savoir et la culture plutôt que sur l’économie. Ne serait-ce que parce que les intérêts individuels de chaque état européen ne convergent pas nécessairement. Robert Steuckers nous assène une vérité que l’on serait bien en mal de croire tant elle est paradoxale : les Européens d’aujourd’hui ont plus de mal à communiquer que les Européens d’hier. Certes, nous avons intensifié nos échanges économiques, bâti des géants industriels tels Airbus et Ariane, certes nous avons mis en place de nombreux programmes d’échange et de coopération dont l’un des plus emblématiques exemples est bien évidemment Erasmus mais les Européens ayant perdu en substance, il nous est bien difficile de partager quoi que ce soit de véritablement profond. Il y a encore de cela quelques décennies, tous les Européens éduqués avaient fait leurs humanités et avaient reçu l’enseignement du grec et du latin. Le grec et le latin soit les deux langues mères de notre civilisation. Aussi vrai qu’une langue offre un rapport spécifique au monde (car l’on ne pense pas exactement de la même manière en anglais ou en français, en allemand ou en espagnol) la connaissance de ces langues impliquait nécessairement et également d’avoir lu les textes qui les portaient. Et les jeunes Européens d’alors lisaient des poèmes de la Rome antique, l’Iliade et l’Odyssée, les textes décrivant la vie des Romains ou des Spartiates. Un imaginaire, une mémoire commune se dessinaient alors, par-delà les différentes histoires nationales et les antagonismes qui parfois nous séparaient. Et dans cet imaginaire et cette mémoire surgissaient des exemples à suivre ! Qui aujourd’hui lit encore De viris illustribus urbis Romae ?

Pour Robert Steuckers (page 195) : « Pour sortir de ce paradoxe, de cette impasse, l’Europe devrait pouvoir parier sur la culture, sur nos universités, sur un retour aux racines communes de notre civilisation et ensuite, dans un deuxième temps, se donner une arme militaire et diplomatique commune pour s’imposer comme bloc sur la scène internationale. Les fonctions juridiques-sacerdotales et militaires-défensives sont plus à même de faire rapidement l’Europe, à moindre frais et sans lourdeur administratives. La fonction appelée par définition à gérer un divers sans cesse mouvant, soumis à des aléas naturels, climatologiques, conjoncturels et circonstanciels : vouloir à tout prix harmoniser et homogénéiser cette fonction est un véritable travail de Sisyphe. Jamais on n’en viendra à bout. Les fonctions juridiques-administratives, la défense et l’illustration d’un patrimoine culturel à l’échelle d’une civilisation, l’écolage d’une caste de diplomates capables de comprendre le destin global du continent, l’élaboration d’un droit constitutionnel respectant les réalités locales tout en s’inscrivant dans les traditions européennes de fédéralisme et de subsidiarité, la formation d’officiers comprenant que les guerres inter-européennes ne peuvent déboucher que sur des carnages inutiles, la création d’une marine et d’un réseau de satellites militaires et civils sont des tâches qui visent le long terme. Et qui peuvent susciter les enthousiasmes mais non les mépris, car tout ce qui est procédurier et administratif, trop simplement gestionnaire, suscite le mépris… »

Le message est clair. Il faut sortir de l’administratif, du purement technique, du monde de la norme et de la réglementation. Ce n’est pas ainsi que l’on érige et que l’on préserve une civilisation. Ce n’est pas ainsi que l’on peut partir à la conquête de soi et du monde. Il faut se lancer dans de vastes politiques d’innovation, d’aménagement du territoire, lever une armée pan-européenne dirigée par des officiers conscient du monde tel qu’il est et non tel qu’il fut. Et pour emporter l’adhésion des foules, pour que l’Europe enflamme enfin le cœur de ses enfants, il faut miser toujours et encore sur la communication entre eux, intensifier les échanges entre jeunes Européens, faire des agences d’information européennes sur les sujets fondamentaux : économie, géopolitique, recherche, etc. Tous les grands défis qui nous font face doivent être traités sous l’angle européen car ces défis nous menacent collectivement. Il faut enfin, et nous conclurons sur ce point, réhabiliter l’homme politique. Car il ne faut pas tomber dans le piège que nous tend l’ultralibéralisme. Celui-ci ayant désarmé la plupart de nos représentants, les laissant sans pouvoir ni utilité, il serait stupide d’en déduire (et c’est le but, conscient ou non, de l’idéologie libérale) que l’homme politique est inutile par essence. Il faut, nous dit Robert Steuckers, si nous voulons reprendre le pouvoir, remettre sur un piédestal la figure de l’homme politique, incarnation de la « vertu », non pas au sens moral mais au sens romain du terme. C’est-à-dire, celle qui découle du vir, « l’homme mûr justement animé par la force physique et morale qui sied à un civis, à un citoyen romain, à un zoon politikon. » Et cela ne se fera que par une éducation comme les jeunes Romains de l’antiquité en recevaient. Une éducation centrée sur les humanités, destinée à forger des citoyens, soient des hommes animés de courage politique et prêt à servir la cité.

En conclusion, que retenir ? Que tout est à rebâtir mais que rien ne serait sans doute plus simple, plus naturellement réalisable que ce grand projet d’empire européen auquel nous convie Robert Steuckers. Prolongement historique et essentiel de notre continent, l’empire européen nous permettra de reprendre le cours de l’histoire, de la faire à nouveau plutôt que de la subir comme depuis maintenant plusieurs décennies. Cette Europe aura pour tâche d’élever à la conscience civilisationnel les jeunes Européens de demain et de se désenclaver à l’Est par un partenariat stratégique avec la Russie et à l’ouest en rejetant toute ingérence américaine. Ce monde multipolaire qui se lève aujourd’hui fera une place aux nôtres s’il le mérite. A nous de cultiver ce qui fit de nous ce que nous fûmes : des combattants, des chercheurs de vérité, des artistes, des conquérants, des hommes de sciences, des administrateurs hors-pairs, des poètes et des philosophes. A nous de cultiver ces forces impérissables dans le cœur de tout bon Européen : la grandeur et l’audace qui y mène.

Pour le SOCLE :

 

  • Il nous faut un empire Européen. Subsidiariste, fédéral, enraciné, animé par une véritable politique de souveraineté.

 

  • « Désenclavement » doit rester le maitre-mot de toute vision européenne de la puissance. L’Europe se condamne à la mort si elle ne parvient pas à briser les étaux américains et turcs, et à s’assurer un accès au reste du monde. L’Europe doit donc nouer des partenariats stratégiques, vitaux avec l’Inde, la Russie, l’Iran.

 

  • Il faut prendre conscience que l’Europe est menacée sur tous les fronts par les USA et que l’UE même est un outil de désunion créé par les Américains.

 

  • La volonté d’Europe ne date pas d’hier. Elle résulte d’une conscience aigüe d’appartenir à une civilisation commune et des menaces extérieures pesant sur elles. L’histoire montre que l’Europe a chaque fois chèrement payé ses divisions.

 

  • Il faut refonder anthropologiquement l’Europe. Par le retour de la vertu au sens romain du terme, par l’apprentissage d’une culture non-universaliste commune (latin, grec autrefois), par les échanges entre Européens, par l’européanisation des problématiques économiques, politiques, scientifiques, etc. et en se protégeant de l’influence culturelle néfaste des USA. Nous devons repenser notre spécificité et la protéger.

jeudi, 06 septembre 2018

Cultuurmarxisme - Essaybundel van Paul Cliteur e.a.

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Cultuurmarxisme

Essaybundel van Paul Cliteur e.a.

door Johan Sanctorum

Ex: https://doorbraak.be

Het is duidelijk dat er een nieuwe intellectuele wind waait in de lage landen, met een reeks denkers/auteurs die het zinkende eiland van de politieke correctheid verlaten hebben. Een aantal van hen ontmoeten we in de nieuwe essaybundel ‘Cultuurmarxisme’, samengesteld door filosoof-jurist Paul Cliteur.

CM-PC.jpgHet probleem van zo’n essaybundel, waarin we naast Cliteur namen terugvinden als Sid Lukkassen, Maarten Boudry, Derk Jan Eppink, en Wim van Rooy, is uiteraard de consistentie en de overlappingen. Soms krijg je wel eens een déjà-lu, ofwel tegenspraken waarvan je denkt: hadden ze dat niet beter eens uitgeklaard. Toch is het een interessante caleidoscoop van meningen en invalshoeken geworden, die ingaat op het fenomeen van de politieke correctheid, met de term cultuurmarxisme als sleutel. Ons artikel van woensdag j.l., ‘Het grote gelijk van links’, was daar een goede aanloop toe: een lectuur van een Knack-column getekend Bert Bultinck, die alle ‘witte’ Vlamingen per definitie als racisten beschouwt, uitgezonderd zichzelf allicht. Wat hem meteen de status geeft van moreel rechter, therapeut, zelfs orakel.

Betutteling van minderheden

Waarover gaat cultuurmarxisme? Over de manier hoe links via de media en de culturele instellingen haar eigen gelijk steeds weer te voorschijn goochelt. Journalisten, schrijvers, artiesten, culturo’s… allen behoren ze tot een nomenklatura die zichzelf in stand houdt als elite die onderdrukt, censureert, terwijl ze beweert voor vrijheid, democratie en emancipatie te gaan.

Niet langer was de klassenstrijd het ordewoord, wel de fameuze Lange Mars door de Instellingen.

Historisch is de term onverbrekelijk verbonden met de theorieën van de Italiaanse communist Antonio Gramsci (1891-1937), die vaststelde hoe links de greep op de arbeiders – die massaal naar de partij van Mussolini overliepen- verloor, en zich genoodzaakt zag het geweer van schouder te veranderen. Sid Lukkassen beschrijft die ommekeer op pittige en goed gedocumenteerde wijze. De nagestreefde culturele hegemonie van het Marxisme 2.0 stelde zich tot doel het volk van zijn vals bewustzijn (sic) te bevrijden door de media en de cultuurwereld te monopoliseren en van daaruit de revolutionaire waarheid te propageren. Niet langer was de klassenstrijd het ordewoord, wel de fameuze Lange Mars door de Instellingen. Een verschuiving van economie naar cultuur dus, via een soort Trojaansepaarden-tactiek.

Daardoor verloor het originele socialisme zijn band met het volk, en tendeerde de linkse doctrine naar een universele slachtoffercultuur: alle mogelijke minderheidsgroepen of benadeelden (vrouwen, allochtonen, holebi’s…) worden het fetisj van een intellectuele minderheid die haar getalmatige minoriteit wil omzetten in morele superioriteit. Of zoals Maarten Boudry het uitdrukt: ‘… de doorgeschoten verheerlijking van ‘diversiteit’ en de betutteling van minderheden, die ontaardt in een soort ‘Olympisch Kampioenschap van Slachtofferschap’. Zo ontstond een ‘surrogaat-proletariaat’ terwijl de werkende klasse massaal naar (centrum-)rechts overliep en de pococratische dogma’s weghoonde, wat de linkse elite nog meer in de rol van eenzame wereldverbeteraar duwde. Het is een vicieuze cirkel, een zelfversterkend mechanisme.

Advertentie

Hoewel wij het cordon hebben, manifesteert politieke correctheid zich in Nederland als sociaal fenomeen misschien nog extremer dan in Vlaanderen. Denk maar aan de jaarlijks terugkerende Zwartepietendiscussie en de spandoeken van groenlinks die de Syriëgangers verwelkomen. Udo Kelderman gaat daarbij specifiek in op die Nederlandse Zwartepietenkwestie en het dwangmatig refereren aan de slavernij: alle kleurlingen die in Nederland rondlopen zijn zogenaamde ex-slaven, wat de autochtoon in de rol van ex-slavendrijver duwt en dus schuldig aan misdaden tegen de menselijkheid. Door die paranoïde stigmatisering, ook gesignaleerd door Sebastien Valkenberg en Puck van der Land, manoeuvreert links zich in de rol van geweten-van-de-natie, waarbij tal van samenlevingsproblemen rond bijvoorbeeld migratie gewoon worden weggeblazen. Wie er toch aandacht aan besteedt, hoort bij fout-rechts en verliest alle intellectuele credibiliteit. Zo heb je natuurlijk altijd gelijk.

Totalitaire tendensen

De uitbouw van een sterke bureaucratie met repressieve tentakels die de burger bij de les moeten houden.

Een consequentie van het cultuurmarxisme, dat zweert bij de bovenbouw en de instellingen, is tevens de uitbouw van een sterke bureaucratie met repressieve tentakels die de burger bij de les moeten houden. Denk maar aan parastatale vzw’s als UNIA. Het fenomeen profileert zich ook via de groene betuttelingsmanie en de stigmatisering van de burger als vervuiler, waar Jan Herman Brinks een bijdrage aan besteedt. Maar ook in het onvoorstelbare waterhoofd dat EU heet, de supranationale schoonmoeder die steeds meer bevoegdheden naar zich toetrekt: het uitverkoren domein van Derk Jan Eppink die stevig van leer trekt tegen de EU als neo-cultuurmarxistisch project. Het verklaart de rabiate eurofilie van oude ‘68ers als Paul Goossens en revolteleider Daniel Cohn-Bendit, deze laatste ook niet toevallig bekeerd tot het groene gedachtegoed. Wat Paul Cliteur doet besluiten dat het cultuurmarxisme fundamenteel een ondemocratische beweging is.

Dat vermoeden van een omfloerste dictatuur wordt gestaafd door de soms discrete, soms manifeste affiniteit van linkse westerse intellectuelen met totalitaire systemen en regimes, met Mao-China uiteraard als model waar de ’68ers zich op verkeken, en het bezoek van J.P. Sartre aan de Sovjet-Unie van de jaren vijftig als archetype. Een affiniteit die Eric C. Hendriks in de verf zet.

De bijdrage van Wim van Rooy mag in dat opzicht ook niet onvermeld blijven, daar waar hij postmoderne theoretici als Derrida en andere ‘68ers of nakomelingen analyseert als uitvoerders van een nihilistisch weg-met-ons-project, een identitaire deconstructie die finaal uitloopt op de masochistische omarming van een anti-democratische geweldcultuur als de islam. Hetzelfde geldt voor de bizarre alliantie tussen feminisme en islamofilie, een fenomeen dat Jesper Jansen belicht.

‘Complotdenken’

De gemeenschappelijke noemer van alle bijdragen is enig cultuurpessimisme waar ik me niet altijd kan in vinden. Met name lijkt me de banvloek over de postmoderne denkers niet helemaal terecht, want hun behoefte aan deconstructie, met Nietzsche als verre stamvader, treft elke vorm van totalitair denken en zeker ook religieuze ideologieën als de islam. Het westerse denken is fundamenteel kritisch en de ironie is nooit ver weg, iets wat we van de antieke Griekse filosofie hebben overgehouden en moeten blijven koesteren. Dat is nu net het kenmerk van het cultuurmarxisme: het mankeert elk gevoel voor humor, evenals de grote monotheïstische systemen trouwens.

Men zou het ook kunnen zien als iets viraals, een kwaadaardig proces dat zich geautomatiseerd heeft en uitwoekert

Het spreekt vanzelf dat links heel de gedachtegang van dit boek zal wegzetten als een ridicule complottheorie. Misschien geeft de ondertitel ‘Er waart een spook door het Westen’ daar ook wel enige aanleiding toe. Is het echt zo dat er ergens in een bunker door topintellectuelen wordt beraadslaagd over de controle van de culturele instellingen, de media en het mainstreamdiscours? Natuurlijk niet, zegt Paul Cliteur, het is veel erger dan dat, want dan konden we het ding makkelijk oprollen. Het gaat daarentegen om een duurzaam paradigma dat zich via netwerking, sociale druk en soms regelrechte chantage of dreiging met broodroof reproduceert. Een fenomeen waar Puck van der Land, Sebastien Valkenberg en Emerson Vermaat bij stilstaan. Men zou het ook kunnen zien als iets viraals, een kwaadaardig proces dat zich geautomatiseerd heeft en uitwoekert, voorbij de generatie van de ‘68ers die vandaag overigens hun pensioensleeftijd hebben bereikt zonder dat we hun erfenis zomaar kunnen dumpen. Perry Pierik heeft het over kneedbaarheid en besmettelijkheid: ‘Het woord cultuurmarxisme is zo beladen, omdat het een proces aangeeft van ideeën en krachten, dat als semtex plakt aan het gereedschap van de progressieve wereld, waarmee de Gutmensch zijn morele gelijk veilig probeert te stellen.’

De remedies?

De rechtstaat dient een breed gedragen wettelijk kader te creëren waarin hij zichzelf beschermt tegen aanvallen van buitenuit

Dat maakt het ook zo hachelijk om er tegenin te gaan, en het discours over cultuurmarxisme voorbij de klaagzang te tillen. Zijn er tegenstrategieën mogelijk, methodes, attitudes, werkmodellen die de cultuurhegemonie van links kunnen doorbreken? Slechts enkele auteurs durven het aan om een alternatief te formuleren. Samensteller Paul Cliteur pleit voor een weerbare democratie: dat is een democratie die zich niet passief-pluralistisch laat vullen met alle mogelijke politieke tendensen of religiën, maar die georiënteerd verloopt, met een duidelijk kompas, gericht op het voortbestaan en de bloei van die democratie. Niet elke levensbeschouwing komt in aanmerking om door de rechtstaat zomaar aanvaard te worden, ze mag zich niet suïcidaal gedragen. Deze toetssteen geldt in de eerste plaats voor de drie grote totalitaire ideologieën van vorige en deze eeuw, namelijk fascisme, communisme, islamisme. De rechtstaat dient een breed gedragen wettelijk kader te creëren waarin hij zichzelf beschermt tegen aanvallen van buitenuit, denk aan de islam die de godsdienstvrijheid inroept om uiteindelijk de sharia te kunnen instellen. Anderzijds zou dit weer kunnen leiden naar een weldenkende consensusdemocratie met cordons etc. – Het debat hierover is zeker nog niet ten einde.

Sid-portret-boekenbeurs-300x300.pngSid Lukkassen komt tot een andere conclusie: de culturele hegemonie van links moeten we laten voor wat ze is. We moeten compleet nieuwe, eigen media, netwerken en instellingen oprichten die niet ‘besmet’ zijn door het virus en voor echte vrijheid gaan: ‘De enige weg voorwaarts is dus het scheppen van een eigen thuishaven, een eigen Nieuwe Zuil met bijbehorende instituties en cultuurdragende organen. Die alternatieve media zijn volop aan het doorschieten, Doorbraak is er een van.

Eric C. Hendriks pleit in het afsluitende essay ten slotte voor een zekere mate van chaos (‘rommeligheid’) en échte diversiteit, niet de geënsceneerde diversiteit van links, maar gebaseerd op individuele mondigheid en autonomisme, bloemen die bloeien vanuit het ‘burgerlijke midden’. Dat is een mooi einde. Zo’n boek, zelfs over het cultuurmarxisme, mag niet eindigen als een klaagzang van een stel querulanten. Er is hoop, er schuilt kracht in de basis, het volk is moe maar niet uitgeteld, niet alle jonge intellectuelen doen in hun broek, er ontluikt een tegendemocratie.

‘Cultuurmarxisme’ is een plaats in uw boekenkast zeker waard, misschien naast ‘De Langste Mars’, want goed gezelschap versterkt elkaar. Op negen november e.k. gaan de auteurs van beide,- Paul Cliteur,  Sid Lukkassen en ondergetekende,- een panelgesprek aan op de Antwerpse boekenbeurs. Nu al noteren.

mercredi, 05 septembre 2018

A West Indian Hindu Looks at Islam

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A West Indian Hindu Looks at Islam

V. S. Naipaul
Among the Believers: An Islamic Journey
New York: Alfred A. Knopf, 1981

The further to the political Right one gets, the easier it is to connect with the mentality and ideas of those of a Hindu background while becoming increasingly alienated from the Bible’s Old Testament and its vicious cast of desert-dwelling thieves, murderers, perverts, and swindlers. One example of this phenomenon is the late V. S. Naipaul’s (1932–2018) look at one prickly Abrahamic faith of the desert: Islam, entitled Among the Believers (1981).

among.jpgNaipaul had a unique background. He was of Hindu Indian origins and grew up in the British Empire’s West Indian colony of Trinidad and Tobago. Naipaul wrote darkly of his region of birth, stating, “History is built around achievement and creation; and nothing was created in the West Indies.”[1] [2] His gloomy take on the region is a bit inaccurate; the racially whiter places such as Cuba have produced societies of a sort of dynamism. Cubans did field a large mercenary force on behalf of the Soviet Union in Africa late in the Cold War, and the mostly white Costa Rica is a nice place to live. But Haiti is a super-ghetto of Africanism. In some cases, the West Indians can’t even give themselves away. At a time when the American people were enthusiastic for expansion, the US Senate bitterly opposed the Grant administration’s attempt to annex what is now the Dominican Republic. Who wants to take over Hispaniola’s problems?[2] [3] Naipaul’s prose is so good that he will be extensively quoted throughout this review.

In Among the Believers, Naipaul takes a look at the nations where Islam dominates the culture but where the populations are not Arabs. He wrote this book in the immediate aftermath of the Iranian Revolution, so we are seeing what happens when a people with a rich heritage attempt to closely follow the religion of their alien Arab conquerors. What you get is a people at war with themselves, and a people who, to put it mildly, turn away from the light of reason. He can express this in civilizational terms as well as individually. For example, in highly readable prose, Naipaul writes of a Malay woman who courts a “born again” Muslim man. Before she got with him, the young lady danced, dived, and went camping, but afterwards she took to the hijab and the drab long gowns, “and her mind began correspondingly to dull.”[3] [4]

When one reads Naipaul’s work, one comes to appreciate Islam; not the sort of pretend appreciation that virtue-signaling liberals have right up until a group of fanatics run them over with a car and then knife them to death as they lie injured [5], but an appreciation of just how terribly the Islamic worldview impacts all of society. After reading this book, one can see that Islam is the following:

  • Islam is the product of unfocused resentment and discontent made into a religion. Anarchism also qualifies as a religious form of undirected anger at unfairness. What I mean here is that it is clear that there are things in this world that are unjust. One way of reacting to life not being fair is to develop a worldview that supposes that it can cure injustice through a set of simplistic ideas married to cathartic violence. This worldview draws in the malcontents and the resentful. Islamic terrorists and the anarchist terrorists of the late nineteenth and early twentieth centuries are very similar. Ultimately, Islam requires “absolute faith . . . fed by . . . passion: justice, union, vengeance.”[4] [6]
  • From the perspective of a low-IQ non-white, Islam is an escape from the frightening world of advancing technology and market forces they cannot understand. It is escapism, pure and simple. Naipaul’s view of the 1978 novel Foreigner [7] by Nahid Rachlin is that of an escapist Islamic death pact. The protagonist retreats from a world of “intellect and endeavor” to one where the Muslim believer “will no longer simply have to follow after others, not knowing where the rails are taking them. They will no longer have to be last, or even second . . . Other people in spiritually barren lands will produce [modern equipment].”[5] [8]
  • This escapism is ultimately a project that leads to a nihilistic end. For example, Pakistan “had undone the rule of law it had inherited form the British, and replaced it with nothing.”[6] [9] To add to this idea, “The glories of [Islam] were in the remote past; it had generated nothing like a Renaissance. Muslim countries, where not colonized, were despotisms; and nearly all, before oil, were poor.”[7] [10]
  • Muslims take advantage of America’s foolish open immigration policies. “[T]he United States was more than a place to get an education. It was also – for the Iranian physician, as for the newly rich of so many insecure countries, politicians and businessmen, Arab, South American, West Indian, African – a sanctuary.” From the perspective of 1981, Naipaul is showing the initial infection of Third World pathologies in the United States before they manifested as clearly as they do today.
  • Islam carefully keeps old grudges alive. A family feud involving the descendants of the Prophet Mohammed led to half-trained Iranian pilots flying American-made Phantoms attacking Sunni Kurds centuries later. “To keep alive ancient animosities, to hold on to the idea of personal revenge even after a thousand years, to have a special list of heroes and martyrs and villains, it was necessary to be instructed.”[8] [11] Instructing believers in the ins and outs of these grudges takes a great deal of time away from instruction in other matters.
  • Islam is ultimately a suboptimal worldview for the creation and maintenance of civilization. Like apologists for Communism, apologists for Islamic societies insist that true Islam “has never been tried.”[9] [12]

Quite possibly the most interesting part of this book is Naipaul’s account of the Arab conquest of what is now Pakistan, but which was then called the Sind. Starting around 634, the Muslim Arabs began attempting to conquer the region. They launched at least ten campaigns over seventy years; all were unsuccessful. However, the Arabs eventually won. During the time of the Arab menace, the people of the Sind were weakened by a prophecy of doom, and palace intrigue had weakened their political elite. The Sind people were also awed by the apparent unity and discipline of the Muslims. The common people surrendered in droves, and the Sind’s King was killed in an avoidable death, or glory battle.

For the people of the Sind and their Hindu/Buddhist culture, the Arab conquest was a disaster. “At Banbhore [13], a remote outpost of the earliest Arab empires, you walked on human bones.”[10] [14] However, the Pakistanis today cannot admit to themselves that they lost their traditional culture. The story of the Arab conquest is told in a work called the Chachnama. Naipaul argues that the Chachnama is like Bernal Díaz’s great work, The Conquest of New Spain, except for the fact that the Chachnama’s author was not a soldier in the campaign as was Bernal Díaz; it was written by a Persian scribe centuries after the event. Like all things in Islam, the insights offered by the Chachama are dull at best, and “The intervening five centuries [since the publication of the Chachama] have added no extra moral or historical sense to the Persian narrative, no wonder or compassion, no idea of what is cruel and what is not cruel, such as Bernal Díaz, the Spanish soldier, possesses.”[11] [15]

IndiaWoundedCivilisation.jpgThe arrival of Islam to the Sind is the disaster which keeps on giving. Pakistan’s economy [16] lags behind India’s, although India has a large population of low IQ, low-caste people. Pakistan also cannot produce world-class cultural works like India does. There is no Pakistani version of Bollywood. The best thing the Pakistani government can do is to provide exit visas for its people to go and work elsewhere, as well as advice on the immigration laws of receiving countries.

Perhaps because Naipaul is from the West Indies – a Third World region which has long touched the more dynamic societies of the white man – he is able to so accurately describe the disaster of Third World immigration, especially as it applies to Pakistan and its pitiable people. He is worth quoting at length:

The idea of the Muslim state as God had never converted into anything less exalted, had never converted into political or economic organization. Pakistan – a thousand miles long from the sea to the Himalayas, and with a population of more than seventy million – was a remittance economy. The property boom in Karachi was sustained in part by the remittances of overseas workers, and they were everywhere, legally and illegally. They were not only in Muslim countries – Arabia, the Gulf states, Libya; they were also in Canada and the United States and in many of the countries of Europe. The business was organized. Like accountants studying tax laws, the manpower-export experts of Pakistan studied the world’s immigration laws and competitively gambled with their emigrant battalions: visitor’s visas overstayable here (most European countries), dependents shippable there (England), student’s visas convertible there (Canada and the United States), political asylum to be asked for there (Austria and West Berlin), still no visas needed here, just below the Arctic Circle (Finland). They went by the planeload. Karachi airport was equipped for this emigrant traffic. Some got through; some were turned back.[12] [17]

Once they got there:

. . . the emigrants threw themselves on the mercies of civil-liberties organizations. They sought the protection of the laws of the countries where the planes had brought them. They or their representatives spoke correct words about the difference between poor countries and rich, South and North. They spoke of the crime of racial discrimination and the brotherhood of man. They appealed to the ideals of the alien civilizations whose virtue they denied at home.[13] [18]

Naipaul shows that Islam is a tremendous, though retarding, metapolitical force that works its way into all areas of human societies: the law, philosophy, medicine, and even city planning. He shows the power of its simple theology over less intelligent, Third World minds. He shows its dark, violent core. Once the virus of Islam infects a society, whatever higher culture that society had is destroyed. Islam’s ultimate endpoint is a world of barren desert dunes squabbled over by uncreative, violent fanatics. In short, Islam is so powerful because it is fortified by its own failures and contradictions rather than defeated by them.

Naipaul’s criticism of Islam has drawn its own critics, such as Salman Rushdie [19] and the late Edward Said [20], but in light of the Global War on Terror and the rapid descent of many Islamic lands into even deeper, darker forms of barbarism, they have been given extended life by the imported lights of the white man’s science and technology, and Naipaul has become something of a prophet.

In conclusion, from the perspective of the white man who believes in civilization, Islam must be resisted by all means. Furthermore, “civil rights” is a tool of white displacement. Dismantling “civil rights” agencies is critical. Of the greatest importance, though, is to break free of the tremendous sense of guilt and self-loathing in the Western world. As long as whites continue to worship Emmett Till, Martin Luther King, and the rest of the pantheon of non-white idols, the dull, slack society of Islam will punch above its weigh.

Don’t let your nation become one of those counted as among the Believers.

Notes

[1] [21] Patrick French, The World Is What It Is: The Authorized Biography of V. S. Naipaul (New York: Alfred A. Knopf, 2008), p. 203.

[2] [22] Unfortunately, the US did purchase the Danish Virgin Islands and capture Puerto Rico. The 2017 hurricane season was the scene of two vicious storms: one devastated Houston, Texas, which recovered rapidly. The other storm destroyed Puerto Rico, which took months to recover basics such as electricity.

[3] [23] Ibid., p. 302.

[4] [24] I’ve had to condense the prose here to generalize what Naipaul is saying about several Iranians during the Islamic Revolution. See p. 80 for the full quote in context.

[5] [25] Ibid., p. 15.

[6] [26] Ibid., p. 169.

[7] [27] Ibid., p. 12.

[8] [28] Ibid., p. 7.

[9] [29] Ibid., p. 124.

[10] [30] Ibid., p. 131.

[11] [31] Ibid., p. 133.

[12] [32] Ibid., p. 101.

[13] [33] Ibid.

 

Article printed from Counter-Currents Publishing: https://www.counter-currents.com

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[1] Image: https://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2018/08/8-28-18-1.jpg

[2] [1]: #_ftn1

[3] [2]: #_ftn2

[4] [3]: #_ftn3

[5] group of fanatics run them over with a car and then knife them to death as they lie injured: https://www.youtube.com/watch?v=rI72LK3Zhi8

[6] [4]: #_ftn4

[7] Foreigner: https://smile.amazon.com/Foreigner-Novel-Nahid-Rachlin-ebook/dp/B00AMQ3ERI/ref=sr_1_1?ie=UTF8&qid=1534882077&sr=8-1&keywords=foreigner+nahid+rachlin

[8] [5]: #_ftn5

[9] [6]: #_ftn6

[10] [7]: #_ftn7

[11] [8]: #_ftn8

[12] [9]: #_ftn9

[13] Banbhore: https://en.wikipedia.org/wiki/Banbhore

[14] [10]: #_ftn10

[15] [11]: #_ftn11

[16] Pakistan’s economy: https://www.jagranjosh.com/general-knowledge/india-vs-pakistan-economic-comparision-1497247847-1

[17] [12]: #_ftn12

[18] [13]: #_ftn13

[19] Salman Rushdie: https://www.independent.co.uk/news/people/sir-salman-rushdie-claims-i-was-just-fooling-around-as-his-ratings-of-other-authors-work-go-viral-10156390.html

[20] Edward Said: https://www.newstatesman.com/node/159123

[21] [1]: #_ftnref1

[22] [2]: #_ftnref2

[23] [3]: #_ftnref3

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[32] [12]: #_ftnref12

[33] [13]: #_ftnref13

vendredi, 03 août 2018

Ruimterevolutie: Hoe de walvisjacht ons wereldbeeld veranderde

walvisjacht.jpg

Ruimterevolutie: Hoe de walvisjacht ons wereldbeeld veranderde

door Erwin Wolff

Ex: http://www.novini.nl

Het boek Land en zee van de Duitse rechtsfilosoof Carl Schmitt is een opvallende afwijking van zijn gebruikelijke discours. In zijn andere werken schrijft hij vooral over recht, politiek en direct aanverwante zaken. Een voorbeeld is het boek Die geistesgeschichtliche Lage des heutigen Parlamentarismus waarin Schmitt in 1923 de parlementaire democratie van de Weimarrepubliek bekritiseert. Bekender is het werk Der Begriff des Politischen waarin hij de politiek tot wij-zij tegenstellingen herleidt. In Land en zee gaat hij echter op heel andere zaken in.

Wat is de aarde eigenlijk en hoe komt het dat we de aarde zien zoals wij die zien? Hoe komt het dat wij anno 2018 de aarde zien als een groen-blauwe bol in een oneindige ruimte? Hoe kan dat zo verschillen van het wereldbeeld van andere volkeren? Volgens Carl Schmitt ligt hier een zogenoemde “ruimterevolutie” aan ten grondslag en die heeft alles te maken met de manier waarop onze voorouders naar hun wereld keken.

CSlandenzee.jpgDe eersten die de omslag maken zijn de oude Grieken in de klassieke Oudheid. Griekenland bestaat uit vele stadstaten, maar de zeemacht Athene en de landmacht Sparta steken in deze Griekse wereld boven allen uit. Het denken van de Grieken veranderde van een volk dat zich enkel met landbouw bezighield naar een zeemacht, omdat het op een gegeven moment het gehele oostelijke deel van de Middellandse zee ging beheersen. De Grieken waren opgesloten in deze context en ze misten de mankracht om hieruit te breken.

Pas toen het Romeinse Rijk uitdijde naar het tegenwoordige Frankrijk en dus naar de Atlantische oceaan, wist de klassieke Oudheid uit deze kooi te breken in de eerste eeuw van onze jaartelling. Maar toen was het eigenlijk al gedaan. Het Romeinse Rijk stortte zichzelf daarna in chaos en er was onder Romeinse leiding geen paradigmaverschuiving.

In de middeleeuwen was heel Europa, van het noorden tot het hele zuiden, opgemaakt uit verschillende agrarische staten. Aan de randen van deze boerenstaten werd er visserij bedreven. Met de Bijbel in de hand werden de Germaanse volkeren van noord tot zuid bekeerd tot het Christendom. De ruimte op de aarde is wat de Middeleeuwers betreft een heleboel land en een heleboel agrarische producten op dat land. Tot het einde van de middeleeuwen is er geen echte verandering in deze zienswijze.

In het Oude Testament is er een mythisch zeedier te vinden, de leviathan (Job, hoofdstuk 40 en 41), en leviathan gaat een grote rol spelen in de omslag van het besef van ruimte van de Germaanse volkeren in Europa. De leviathan, meestal afgebeeld als walvis, lokt de vissers van Europa de zee op omdat deze vis zich niet laat vangen aan de kust. Zonder de walvisjacht zouden de Europese vissers in een smalle strook van de kust zijn gebleven. Het besef van de ruimte op aarde verandert onder druk van de walvisjacht razendsnel. Carl Schmitt beschrijft dit fenomeen als een “ruimterevolutie”. De ruimte waarin men denkt te leven verandert van landmassa naar land- en zeemassa.


Ook de middelen om zich op de zee te begeven veranderen. De galei van de Klassieke wereld worden afgedaan en schepen die de wind opvangen met zeilen doen hun intrede. Men kan veel verder en veel sneller zich op zee begeven. Er wordt een nieuw continent ontdekt en daarmee nieuwe handel, nieuwe regels, nieuwe innovaties. Ongeveer tussen de jaren 1490 en 1600 vinden deze veranderingen plaats. Het besef van de ruimte waarin men denkt te leven verandert en de middeleeuwse ordening der dingen komt definitief ten einde. Hulpeloos rolt de Europese beschaving een nieuw tijdperk binnen.

Het begin is nog wat onhandig. Er gebeurt ook iets geks met Engeland. Vooral Engeland is in de middeleeuwen ook een boerenstaat die zich voornamelijk bezighoudt met schapen, textiel en Frankrijk proberen te veroveren. Het protestantse Engeland draait zijn rug naar het continent Europa en richt zich op de zee. Met zo’n succes zelfs dat het de katholieke landen Spanje en Portugal inhaalt. De heerschappij van de zee is van niemand of iedereen. Maar eigenlijk vooral van één land: Engeland. Dit Germaanse volk beheerst in de negentiende eeuw de zee, de zeehandel en daarmee de wereld. Zozeer zelfs dat Engeland zichzelf niet meer als Europese macht ziet.

We belanden aan in de 20e eeuw en dan vindt een tweede ruimterevolutie plaats. Het oudtestamentische monster, Leviathan, is niet meer zozeer een vis, maar een ijzeren monster in de vorm van een modern slagschip. De overgang van stoomboot naar modern slagschip is niet kleiner dan de overgang van galei naar zeilschip, verklaart Carl Schmitt. Duitsland en enkele andere landen zijn industriële machten geworden en kunnen net zo produceren als Engeland. Hiermee komt de onbetwiste heerschappij over de zee door Engeland ten einde.

Land en Zee is een bijna dichterlijke beschrijving van deze gigantische veranderingen. Het zijn mooie woorden die laten zien hoe het komt dat de Europese beschaving andere volkeren ontdekte en dat het niet die andere volkeren zijn geweest die ons ontdekt hebben.

jeudi, 02 août 2018

Le XXIe siècle et la tentation cosmopolite

 

« Consommer est devenu le but suprême
de l’existence des individus,
ce qui comble d’aise
les maîtres du “village terrestre”
peuplé d’hédonistes
(les travailleurs)
et de psychopathes
(les parasites sociaux) »

 

Entretien avec Bernard Plouvier, auteur de Le XXIe siècle et la tentation cosmopolite, éditions de L’Æncre (propos recueillis par Fabrice Dutilleul)

 

Vous abordez dans votre livre des thèmes très divers, tel les origines de l’Homo sapiens, le domaine territorial de la race blanche, dite « caucasienne », les constantes de la société humaines et les variables culturelles, mais également l’ambiguïté du « libéralisme » et du « melting pot » des USA, l’expérience mondialiste et l’économie globale qui permet aux ploutocrates de confisquer les États… Le titre de cette collection « Nouveau siècle, nouveaux enjeux » semble parfaitement s’appliquer au thème de ce livre ?

Nous autres, Européens autochtones, vivons indéniablement une période de « fin de civilisation », qui ressemble à s’y méprendre à celle vécue par les contemporains de la fin de l’Empire romain d’Occident. Cette constatation, assez peu réjouissante, mérite à la fois que l’on établisse un bilan des réalisations anciennes et que l’on apporte quelques réflexions comparatives sur les valeurs qui s’estompent et celles qui émergent.

Au Ve siècle, l’enrichissement général des citoyens de l’Empire romain avait conduit au relâchement de l’effort collectif et deux nouvelles religions moyen-orientales – la chrétienne et celle des adorateurs de Mithra – avaient supplanté le culte des dieux de l’État. De nos jours, la fraction la plus inventive de l’humanité contemporaine s’est lancée dans la course effrénée aux petites joies individuelles, au lieu d’œuvrer comme auparavant pour la collectivité.

Au Ve siècle, le pouvoir spirituel avait asservi puis anéanti la puissance politique. De nos jours, les maîtres de l’économie écrasent les autres pouvoirs : exécutif, législatif, judiciaire, médiatique et même spirituel.

Consommer est devenu le but suprême de l’existence des individus, ce qui comble d’aise les maîtres du « village terrestre » peuplé d’hédonistes (les travailleurs) et de psychopathes (les parasites sociaux).

L’économie globale et la mondialisation de la vie économique et culturelle sont deux notions nées aux USA durant la IIe Guerre mondiale. Du fait de l’implosion des sociétés communistes, elles sont devenues la réalité quotidienne de presque tous les peuples de la planète : rêve pour les uns, cauchemar pour les autres… c’est affaire de sensibilité et d’idéal.

Il est évident que Franklin Delano Roosevelt, le grand concepteur, n’aurait nullement apprécié notre monde où les grands actionnaires des multinationales et des trusts nationaux d’Asie manipulent, du fait de la toute-puissance de l’argent, les pantins de la politique et des media.

Plouvier21.jpgQuelle est votre définition du « cosmopolitisme », un mot qui, au XVIIIe siècle, à l’époque des Lumières, représentait le nec plus ultra : cela revenait alors, pour l’élite, à s’informer des autres cultures que celle de son pays d’origine ?

Le cosmopolitisme à la sauce mondialiste équivaut au mixage des cultures et au brassage des populations, de façon à liquider l’option nationale, jugée pernicieuse. L’Europe est ainsi envahie d’extra-Européens, souvent incultes, toujours faméliques et avides, également nantis pour la plupart d’une religion médiévale, c’est-à-dire grosse de l’expression d’un fanatisme anachronique, mais également porteurs d’un racisme revanchard dont l’expression est évidente, sauf pour les pitres qui façonnent l’opinion publique et ceux qui font semblant de nous gouverner.

La propagande mondialiste reflète, c’est évident, les choix de nos maîtres, qui leur sont dictés par leur intérêt. Le grand village terrestre ne doit plus être composé que d’individus qui consomment beaucoup, au besoin à crédit, et pensent gentiment ce qu’imposent les fabricants d’opinion publique.

Dans leur désir d’uniformiser l’humanité, pour augmenter la rentabilité du négoce en facilitant le travail des producteurs, des distributeurs et des revendeurs de biens de consommation, nos maîtres font l’impasse sur de nombreuses données génétiquement programmées de l’espèce humaine, non susceptibles d’éducation ou de rééducation. En outre, il nient allègrement une évidence : la profonde inégalité des êtres humains et des civilisations passées.

Par intérêt également, ils autorisent le développement de conduites sociales aberrantes pour peu que cela leur fournisse un marché lucratif (pornographie, conduites addictives, coutumes alimentaires absurdes conformes à des préceptes religieux antiques ou médiévaux).

Que cela envahisse le continent phare du melting pot, celui des trois Amériques (pour reprendre une expression rooseveltienne), ne nous regarde pas en tant qu’Européens, mais il est grotesque de le tolérer dans notre continent, qui fut le continent civilisateur durant deux millénaires et demi.

Pourquoi ne pas aimer ce monde nouveau, apparu il y a une vingtaine d’années, lors de l’effondrement des sociétés communistes et du triomphe de l’american way of life ?

Dépourvus de culture historique et philosophique, nos nouveaux maîtres créent une société mono-culturelle, multi-raciale parfaitement artificielle, qui ne peut en aucun cas créer une civilisation stable, donc durable, ni innovante au plan intellectuel et spirituel.

L’étude des espèces animales démontre que l’égoïsme et l’individualisme sont nocifs à moyen terme pour l’espèce, mais aussi pour les individus. Sans discipline, sans hiérarchie fondée sur les qualités et les mérites individuels, sans cohésion du groupe fondée sur l’utilité sociale, il ne peut y avoir de sécurité donc de survie, encore moins d’expansion pour l’espèce considérée.

Ce qui effare le plus un observateur européen contemplant la société actuelle est de constater que les Européens de souche ont, par veulerie et par esprit de facilité, renoncé à leur histoire. De la position de civilisateurs de la planète, ils sont passés en un demi-siècle au statut de colonisés, achetant des produits de médiocre qualité et d’infime durée de vie, fabriqués le plus souvent en Asie, et se gavant d’une sous-culture élaborée aux USA et au Japon.

L’étude de quelques grandes civilisations européennes défuntes démontre que l’homogénéité ethnique est l’une des conditions fondamentales de l’implantation, puis du rayonnement d’une civilisation originale. La perte du sens de l’effort collectif, l’incorporation de populations ou de croyances issues d’autres continents sont les conditions idéales pour amener la dégénérescence, puis la mort d’une civilisation, c’est-à-dire l’instauration d’un nouvel « âge des ténèbres ».

On ne peut guère compter sur le milieu des universitaires, où règnent en maîtres le conformisme et le misonéisme, ni sur les media, par définition aux ordres du Pouvoir, pour provoquer une réflexion critique chez nos contemporains, alors même que l’avenir de l’Europe dépend essentiellement de la prise de conscience de l’originalité et de la richesse de leur passé par les Européens de souche, qui seuls doivent décider de l’avenir du continent et de sa race.

Le XXIe siècle et la tentation cosmopolite, édition L’Æncre, collection « », à nouveau siècle, nouveaux enjeux, dirigée par Philippe Randa, 452 pages, 35 euros.

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De dictatuur van het simplisme - Over cultuur in de tijd van de media

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Bjorn Roose bespreekt:

De dictatuur van het simplisme - Over cultuur in de tijd van de media (Frans Aerts)

Ex: https://portfoliobjornroose.blogspot.com

 
Mijn belangrijkste conclusie na het lezen van dit pamflet/boekje van “media-eticus” en “kunstfilosoof” Frans Aerts is dat die dictatuur wel héél ver doorgedrongen is. Zelfs tot in de geschriften van iemand die die dictatuur aanklaagt. Niet dat Aerts nergens gelijk heeft, maar als je simplisme wil aanklagen, moet je vooral proberen je er zelf niet aan te bezondigen.

Neem nu dit: “Wanneer het ooit tot zo’n onafhankelijke republiek Vlaanderen komt, behoor ik alvast tot de gelukkigen. Ik woon namelijk (zoals bijna iedereen) niet verder dan tien kilometer van de landsgrens, politiek-cultureel asiel is elders dan snel aangevraagd. In mijn levensavond zal ik wellicht ooit met heimwee terugdenken hoe klein België wel was, maar hoe bewust ook van die beperktheid, en hoe bereid intern en buiten de landsgrenzen iets op te steken. Vlaanderen is natuurlijk nog heel wat kleiner, een vijver groot – vol kikkers die zich geleidelijk opblazen tot het formaat van ossen. In afwachting dat ze ontploffen tot lering en vermaak van de rest van de wereld.” (pagina 31)

FAerts-simpl.jpgLos van het feit dat de “dreiging” om asiel aan te vragen in het buitenland als bepaalde mensen verkozen worden of als een land onafhankelijk wordt (een fenomeen dat zich sinds 1900 toch al zo’n 200 keer heeft voorgedaan in de wereld) tot de meest ridicule en zo goed als nooit uitgevoerde beloftes behoort, slaat de hele uitleg van Aerts nergens op. Voor zover ik weet behoren al die “kikkers” in Vlaanderen namelijk, net zoals Aerts zelf, tot dat belgië dat zich zo “bewust (...) [is] van die beperktheid”, zo “bereid” ook “intern en buiten de landsgrenzen iets op te steken”. Tenzij Aerts het bij zijn uitspraken over belgië alleen maar zou hebben over die onderdelen daarvan die niet Vlaams zijn, natuurlijk. Dat zou, gezien het feit dat de man nogal sterk op Frankrijk gericht is, niet eigenaardig zijn, maar als je met zo’n dédain over een bepaald onderdeel van je geliefde land spreekt, moet je ook niet raar opkijken dat dat onderdeel er vroeg of laat vandoor wil.

Soit, er is meer waar dát simplisme vandaan komt. Hoe haal je het bijvoorbeeld in je hoofd om in een aanklacht tegen simplisme politici onder te verdelen in de wel zéér simplistische kampen “links” en “rechts”? Iedereen met een béétje kennis van politieke geschiedenis en actualiteit weet dat die terminologie alleen nog zinnig is voor politici die niks ... zinnigs te vertellen hebben, maar wél andere politici als “de vijand” willen wegzetten. Dat de kleinburgers en proleten waar Aerts zo op neerkijkt vallen voor die terminologie, daar kan ik nog inkomen, maar een man als hij, die zichzelf mijlenver boven die mensen plaatst?

En dan ’s mans verwijzing naar Hugo Claus als dapperste aller Schrijviërs in het Imperum Medianum: “Sommigen blijven nochtans overeind. Zij begrijpen wel dat je niet om de media heen kan, maar zij manipuleren de media, zij hollen ze van binnenin uit. Zoals Hugo Claus het zich kan permitteren om een krant die hem vanaf het begin onheus en moraliserend bejegend heeft een interview te weigeren.” Ten eerste is er geen enkele kunst aan een krant een vraaggesprek te weigeren – zeker niet als er zat journalisten en andere tisten zijn die aan je lippen hangen -, ten tweede kan je van Claus toch écht niet in ernst beweren dat hij overeind is gebleven tegenover de media. We hebben het hier per slot van rekening over de gróóóte schrijver die schnabbelde als ... modecommentator voor de VRT (toen nog BRT) en voor een schep geld zijn smoel leende aan tv-reclame voor kaas. Het enige dat daarbij van binnenuit uitgehold werd, was Hugo Claus zelve.

Aerts maakt zich overigens niet alleen schuldig aan het door hem bestreden simplisme en selectieve blindheid, maar ook aan regelrecht onlogische redeneringen. Op een zeker moment beklaagt hij er zich bijvoorbeeld over dat Gaston Durnez in zijn kritiek op het “erotisch werk” van Louis Paul Boon (De Standaard, 23 januari 1993) niet wil ingaan op de details van dat “erotisch werk”, maar slechts het feit dat Boon dat soort werk heeft gepubliceerd wil bespreken. Dat vindt Aerts niet te rijmen met het feit dat ... een andere criticus, zijnde Dirk vande Voorde, een kleine drie jaar eerder (De Standaard, 24 april 1990) wél aandacht besteedde aan de “erotische escapades” van Michel Foucault, zoals deze werden beschreven in A l’Ami qui ne m’a pas sauvé la vie van Hervé Guibert. Wat heeft het ene feit in vredesnaam met het andere te maken behalve het feit dat beide besprekingen in De Standaard verschenen (en niet in De Morgen, duidelijk de lijfkrant van Aerts, al was het ideologisch verschil tussen beide kranten ook in het begin van de jaren 1990 al tot zogoed als niks gereduceerd) ?

Of Aerts’ korte uitval naar de nationaal-socialisten: “Er bestaat natuurlijk ook die merkwaardige menselijke aandrift om datgene wat men niet begrijpt als ‘waardeloos’ van de hand te wijzen. Vanuit deze instelling zetten de nazi’s trouwens destijds een rondreizende tentoonstelling op van ‘Entartete Kunst’ – om het minderwaardige van deze onbegrijpelijke vormen van expressie voor het publiek duidelijk te maken. (Daar kwam overigens verdacht veel volk naar kijken. Alvast méér dan naar hun volkseigententoonstellingen. Zo gaat het immers met zulke lieden: ze hebben weliswaar zeer goed omschreven esthetische normen, je krijgt ze echter met geen stokken naar een museum.)” Echt, zo staat het er dus: in de ene zin beweert hij dat er “verdacht veel volk” naar een tentoonstelling ging kijken, in de volgende dat “zulke lieden (...) met geen stokken naar een museum” zijn te krijgen”. Of zijn die “zulke lieden” waarover Aerts het heeft wél te vinden voor “een rondreizende tentoonstelling”, maar niet voor eentje met permanente residentie? Geen idee, ik gok er gewoon op dat Aerts niet verlegen zit om een simplistische sneer meer of minder.

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Wat die simplistische sneren betreft, beperkt hij zich overigens niet tot Vlaams-nationalisten, “rechts”, personeel van De Standaard, of nationaal-socialisten. Eigenlijk moet iedereen behalve Frans Aerts en de chosen few die tot zijn hoogverheven elite behoren er aan geloven: “En dan valt het op hoe men, telkens wanneer men het eigen vertrouwde domein verlaat, onmiddellijk bij de heersende cultuurclichés terechtkomt. Wie bijna nooit muziek beluistert, vindt De vier jaargetijden van Vivaldi het einde, of Für Elise. Wie niets van schilderkunst kent, belandt automatisch bij de Franse impressionisten en Van Gogh. Insiders zullen natúúrlijk niet ontkennen dat de zojuist geciteerde voorbeelden meesterwerken zijn. Anderzijds is het gehoor of de blik van het publiek als het ware voorbestemd om in die evidenties te trappen. Als het die vaste waarden – Van Gogh, Renoir, Beethoven – prachtig vindt, dan is het toch vooral om oneigenlijke redenen. Die redenen hebben wellicht te maken met de gevoelswereld van het publiek. Ooit heeft men pogingen gedaan om ten behoeve van een beter begrip muziekstukken van Mozart te catalogiseren naar begrippen: ‘Jaloersheid’, ‘Liefde’, “Moederlijkheid’, ‘Heimwee’, alsof muziek naar de werkelijke situaties en naar reële gevoelens zou verwijzen. En inderdaad, er wordt nogal wat afgehuild bij muziek; maar dat zijn krokodilletranen, die hebben met echt verdriet helemaal niets te maken. De thema’s en de kleuren van Monet, Renoir, Van Gogh, de nostalgische klanken van Mozart, Beethoven en Schubert roepen vooral een verloren wereld op die beantwoordt aan zekere magisch-historische verlangens. Ongeveer op dezelfde wijze als de fotoboeken over ongerepte Vlaamse dorpen het heimweegevoel van bepaalde lezers zullen aanspreken. Zo blijken heel wat boeken vooral verbonden met de leefsituatie van het leespubliek; bepaalde literatuur bestaat enkel bij de gratie van en als antwoord op een psychische vraag. Je zou hierbij het voorbeeld kunnen citeren van een bestseller als Zout op mijn huid, van de Franse schrijfster Benoîte Groult – een roman die meerdere jaren in de top-tien van de meest verkochte boeken stond. Wellicht speelde bij dat succes vooral de herkenbaarheid mee, het onbewuste verlangen van een hoofdzakelijk vrouwelijk leespubliek dat zich gemakkelijk in de amoureuze situaties van het hoofdpersonage kon inleven.” Met andere woorden: u en ik zijn gestampte boeren of uit de wieg geroofde en bewust domgehouden kuisvrouwen, we zijn verstandelijk gewoon niet tot meer in staat. En als dat wél het geval lijkt, dan is dat toeval, want onze “magisch-historische verlangens” overheersen ons volkomen.

Eind goed, al goed, echter, want nadat Aerts het plebs mooi op zijn plaats heeft gezet, maakt hij ook duidelijk dat hij zelf niet beter is: “Als er nochtans zoiets als een ‘cultuurmens’ zou bestaan, dan beschikt die in de eerste plaats over het enorme vermogen om zijn oordeel op te schorten. Om toe te geven dat hij er eigenlijk niet veel van snapt, terwijl hij toch, aandachtig toekijkend wellicht, maar vooral met respect, aan de andere datgene laat waar hij zelf niet bijkan. Dat is wellicht het eigene van elke gecultiveerde ingesteldheid: het onbegrijpelijke niet echt begrijpen, en daar dan nog begrip voor opbrengen. En indien men al kritisch wil zijn, dan doet men dat op bescheiden wijze – binnenskamers als het ware”. Het moge duidelijk zijn dat een hautaine kwast als Aerts, iemand die duidelijk niét het “enorme vermogen om zijn oordeel op te schorten” heeft, iemand die eerder blijk geeft van jaloezie op mensen die hij niet snapt dan er respect voor te tonen, iemand die in zijn “kritiek” verre van bescheiden is, laat staan dat hij hem binnenskamers houdt, niet beantwoordt aan zijn eigen definitie van een “cultuurmens”. Als zelfrelativering kan dat tellen, te meer omdat ze in dit geval absoluut niet zo bedoeld is.

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mardi, 10 juillet 2018

La ponérologie politique (Andrew Lobaczewski)

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La ponérologie politique (Andrew Lobaczewski)

 
Une note de lecture sur un essai transdisciplinaire psychosociologique rédigé par un psychologue polonais confronté au système du Bloc de l'est : l'étude de la genèse du mal, appliqué à des fins politiques https://www.amazon.fr/pon%C3%A9rologi...
 
 
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jeudi, 28 juin 2018

Quel destin pour l’Europe ?

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Quel destin pour l’Europe ?

par Georges FELTIN-TRACOL

Politologue d’origine bulgare, Ivan Krastev est un des fondateurs du Conseil européen des relations étrangères et le directeur de l’édition bulgare de Foreign Policy, la revue étatsunienne proche des cénacles interventionnistes mondialistes. Il appartient pleinement à cette caste cosmopolite. Les crises simultanées ou quasi-consécutives de l’euro, des migrants, de l’Ukraine, du Brexit, de la Catalogne, etc., qui ébranlent la construction européenne lui donnent une sensation de déjà vu. L’étudiant qu’il était en Bulgarie en 1989 – 1990 a vécu l’effondrement rapide du système soviétique. Il craint maintenant de connaître un nouvel effondrement, celui des structures eurocratiques. Son essai s’ouvre d’ailleurs sur les derniers instants de l’Empire austro-hongrois. « Vivons-nous aujourd’hui, en Europe, un “ moment de désintégration ” similaire (p. 9) » à la chute des Habsbourg ?

Le destin de l’Europe a été écrit au lendemain du Brexit et de l’élection de Donald Trump. Krastev se félicite bien sûr des échecs répétés du « populisme » en Autriche, aux Pays-Bas et en France. Il ne pouvait néanmoins pas prévoir que cet arrêt ne serait que momentané. Depuis la parution de son ouvrage en France, l’Autriche est gouvernée par une coalition entre les conservateurs et le FPÖ, la Hongrie a triomphalement réélu Viktor Orban et une entente entre le Mouvement Cinq Étoiles et la Ligue dirige désormais l’Italie. On peut imaginer que l’auteur développera ces derniers événements dans un prochain essai.

L’Europe, destination de Cocagne…

couv web Destin de l'Europe avec bandeau300-large.jpgPeut-être y approfondira-t-il aussi son analyse de « géopolitique psychologique » qu’il émet au sujet des États-Unis ? « De nombreuses cartes électorales dessinées après la victoire de Trump aux dernières présidentielles américaines montrent très bien que, si les régions acquises à Trump correspondent à peu près à 85 % du territoire total des États-Unis, les régions acquises, elles, à Clinton représentent en gros 54 % de la population américaine. Si nous imaginons que ces régions constituent deux pays différents, nous notons immédiatement que le “ pays de Clinton ”, composé des régions côtières et d’îles urbaines, évoquent l’Angleterre du XIXe siècle; tandis que le “ pays de Trump ” ressemble quant à lui bien plus aux grandes étendues de l’Eurasie régentées par la Russie et l’Allemagne. Le combat politique qui a opposé Clinton et Trump fut un combat entre dimension maritime et dimension terrestre, entre des personnes pensant en termes d’espace et des personnes pensant en termes de lieux (pp. 49 – 50). » Subtile insinuation pour rapprocher Trump de la Russie de Vladimir Poutine…

Pour Ivan Krastev, le destin de l’Europe ne concerne pas l’avenir de l’euro, le devenir des relations euro-atlantiques ou le sort de l’Ukraine et des minorités russophones, mais le traitement des immigrés clandestins. « Au XXIe siècle, la migration est la nouvelle révolution – non pas une révolution des masses comme au XXe siècle, mais une révolution menée contre leur gré par des individus et des familles chassés de chez eux (p. 24). » Il ne s’interroge jamais sur ses causes. Les immigrés quittent leur foyer parce qu’ils fuient l’impitoyable domination économique néo-coloniale de Wall Street, de Chicago et de la City, ainsi que les opérations déstabilisatrices menées par l’Occident au Sahel, en Libye, en Syrie et au Yémen.

Véritable submersion démographique, la présente immigration de peuplement engendre une aporie. « Afin d’assurer leur prospérité, les Européens ont besoin d’ouvrir leurs frontières; pourtant, une telle ouverture menace d’annihiler ce qui fait leur spécificité culturelle (p. 61). » Cette crainte réelle que minimise l’auteur suscite la confrontation entre « ceux du n’importe où » et « ceux du quelque part (p. 49) ». Les immigrés viennent en Europe attirés par les images désormais diffusées par tout type d’écran qui leur présentent des pays de Cocagne. « La globalisation a fait du monde un village, mais celui-ci vit sous une sorte de dictature : la dictature des comparaisons globales (p. 45). » Films, séries télévisées et réclame publicitaire influencent les futurs clandestins qui se prennent à rêver de vivre comme des Occidentaux tout en conservant leurs coutumes d’origine. Ce désir, purement matérialiste, hédoniste et eudémoniste, serait rarement politique. « Un simple franchissement de frontière – celle de l’Union européenne en l’occurrence – est ici plus attirant que toute utopie. Pour tant de damnés de la Terre d’aujourd’hui, l’idée de changement est synonyme de changement de pays, de départ, et non pas de changement de gouvernement (pp. 44 – 45). »

Les immigrés ne comprennent pas qu’en tentant leur chance en Europe, ils perturbent des modes de vie ancestraux déjà bien fragilisés. « Seule crise authentiquement paneuropéenne, [la crise des “ migrants ”] remet en cause le modèle politique, économique et social de l’Europe (p. 29) », de l’Union soi-disant européenne faudrait-il plutôt écrire. Cette remise en cause est en soi salutaire puisque « l’Union européenne est désormais prônée, du moins par bon nombre de ses partisans, comme le dernier espoir d’un continent devenu forteresse (p. 54) ». Longtemps, l’Union dite européenne s’est ouverte à tous les vents de la concurrence planétaire et a condamné Budapest pour son intransigeance à appliquer les Accords de Schengen. Or, la roue de l’Histoire tourne. Le Danemark, l’Autriche et l’Italie approuvent en partie l’argumentation du Groupe de Visegrad animé par la Hongrie et la Pologne afin de contenir la submersion migratoire. Délaissant la question « souverainiste » de l’euro pour l’enjeu « identitaire » des migrations extra-européennes, le nouveau gouvernement « anti-Système » italien comprend instinctivement qu’une autre Europe pourrait résoudre avec fermeté ce défi majeur à la condition toutefois qu’elle entérine enfin un « post-libéralisme ».

En effet, pour l’auteur, « les migrants sont ces acteurs de l’Histoire qui décideront du sort du libéralisme européen (p. 33) ». Soucieux de l’avenir de cette pensée obsolète, il se préoccupe de la floraison rapide des régimes illibéraux en Europe centrale, orientale et maintenant occidentale. Ainsi nomme-t-il le « paradoxe centre-européen (p. 97) » qui complète un autre paradoxe, « ouest-européen (p. 111) » celui-là, à savoir des générations connectées et mondialisées, les enfants du programme Erasmus, qui se détournent dorénavant du projet européen « bruxellois » et qui adhèrent au « populisme »…

Contre l’internationalisme financier

Ivan Krastev oublie dans sa démonstration que la Pologne accueille déjà des miliers de réfugiés ukrainiens sans que cette présence massive n’entraîne d’insurmontables problèmes de cohabitation. La proximité anthropologique, culturelle et historique joue ici à plein, ce que Bruxelles persiste à ne pas vouloir comprendre. Résultat, « les nouvelles majorités populistes perçoivent les élections comme une occasion non pas de choisir entre différentes options politiques mais de se révolter contre des minorités privilégiées – dans le cas de l’Europe, de se révolter contre ses élites mais aussi contre un “ autre ” collectif clé : les migrants (p. 100). » il ajoute toutefois que « les visages de Janus de la globalisation sont ceux du touriste et du réfugié. Le touriste, protagoniste de la globalisation, est apprécié et accueilli à bras ouverts. Il est l’étranger bienveillant. […] Le réfugié […] incarne la nature menaçante de la globalisation. […] Il est parmi nous mais sans être des nôtres (pp. 28 – 29) ». En réalité, le tourisme lui-même est une nuisance, un fléau pour les sociétés qui ne tablent que sur cette forme unique de développement.

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Approchent donc les temps des affrontements entre colons et autochtones en terres d’Europe. « Des outsiders arrivent de toutes parts, les natifs, eux, n’ayant aucune possibilité de prendre la tangente. En ce sens, les électeurs des formations droitières perçoivent leur destin comme étant bien plus tragique que celui des pieds-noirs français, parce qu’ils n’ont, eux, pas d’endroit où retourner (p. 41). » C’est la raison pour laquelle la crise migratoire peut soit précipiter la décadence de l’Europe, soit faciliter la fondation d’une véritable renaissance civilisationnelle identitaire. Alors que « l’Europe est intégrée comme elle ne l’a jamais été auparavant (p. 10) », la construction européenne continue à se dépolitiser, à neutraliser tout élément de puissance, à demeurer une entité purement technique, administrative et fonctionnelle. « Il nous faut reconnaître que le projet européen actuel est intellectuellement enraciné dans l’idée de “ fin de l’Histoire ” (p. 31). » Pis, « l’Union européenne a toujours été une idée en quête de réalité (p. 13) ».

La brutalité de la crise migratoire pourrait redonner à un projet continental refondé les moyens d’aboutir sur de nouvelles assises novatrices hors du champ électoral politicien bien décati. « La ligne de partage gauche – droite, qui avait été sévèrement tracé et qui avait structuré la politique européenne depuis la Révolution française, s’en voit progressivement brouillée (p. 109). » Mieux, « le clivage gauche – droite se voit […] remplacé par un conflit opposant internationalistes et nativistes (p. 99) ». Les « nativistes » peuvent et doivent construire une alter Europe puissante et viable, une Europe d’après. « Parler d’une Europe d’après signifie que le Vieux Continent a à la fois perdu la position centrale qui était la sienne dans la politique internationale, à l’échelle du globe, et la confiance des Européens eux-mêmes – leur confiance en la capacité de ses choix politiques à façonner l’avenir du monde. Parler d’une Europe d’après, c’est dire que le projet européen a perdu de son attrait téléologique et que l’idée d’« États-Unis d’Europe » est bien moins source d’inspiration qu’auparavant – jamais sans doute le fut-elle aussi peu au cours de ces cinquante dernières années. Parler d’une Europe d’après, c’est signifier que l’Europe souffre d’une crise d’identité, que son héritage chrétien ainsi que le legs des Lumières ne sont plus pour elle des piliers de soutènement sûrs (p. 18). » Excellente nouvelle ! L’Europe n’est plus le phare du monde ! « Le postmodernisme de l’Europe, son postnationalisme et sa culture laïque la distinguent du reste du monde et n’en font pas nécessairement le modèle d’une éventuelle évolution future de ce monde (p. 17). » L’Europe de demain sera peut-être une Europe archaïque enfin délestée des fétides droits de l’homme.

Illibéralisme pro-européen ?

Ivan Krastev avance en outre un fait méconnu. « Alors que l’Union européenne est fondée à la fois sur l’idée française de nation (pour laquelle l’appartenance nationale est synonyme de loyauté aux institutions de la République) et sur la conception allemande de l’État (de puissants Länder et un centre fédéral relativement faible), les États d’Europe centrale, eux, ont été construits à l’inverse : ils combinent une admiration très française pour un État centralisé et tout-puissant avec une conception de la citoyenneté comme ascendance commune et culture partagée (pp. 68 – 69). » D’où le succès de l’illibéralisme à Bratislava, à Varsovie et à Budapest. L’illibéralisme serait au fond la fusion de Colbert et de Bismarck. L’auteur n’a pas tort, mais il se focalise trop sur les immigrés, quitte à mésestimer l’impact de l’euro dans la vie quotidienne et l’égoïsme sournois allemand. Contrairement à ce que pensent les nationaux-républicains et autres souverainistes nationaux de France et de Navarre, l’Allemagne n’est nullement européiste. Sous tutelle étatsunienne depuis 73 ans, elle refuse toute véritable unité européenne susceptible de s’affranchir du giron atlantiste. À diverses reprises, le Tribunal constitutionnel de Karlsruhe a réaffirmé une pseudo-souveraineté par rapport aux mécanismes institutionnels européens. Ayant renoncé à l’orée des années 2000 au modèle rhénan, les gouvernements d’outre-Rhin ont perverti l’ordo-libéralisme et imposé d’abord aux Allemands, puis aux peuples du « Club Med » ou aux PIGS (acronyme anglais signifiant « Cochons » pour désigner le Portugal, l’Italie, la Grèce et l’Espagne) des cures toujours plus sévères d’austérité si bien que témoins de cet asservissement financier qui bafoue le droit des peuples à disposer d’eux-mêmes, Hongrois, Slovaques, Tchèques, Polonais ont commencé à se révolter « contre les principes et les institutions du libéralisme constitutionnel, qui vont les piliers de soutènement même de l’Union européenne (p. 110) ».

Cependant, « si la désintégration devait se produire, ce ne serait pas en raison d’une désertion de la périphérie mais d’une révolte du centre (p. 19) ». Il n’est pas impossible que l’Allemagne se retire finalement de la Zone euro en compagnie de la Finlande, des États baltes, de l’Autriche, des Pays-Bas et de la Flandre (ou de la Belgique si elle n’explose pas sous la pression conjuguée des revendications nationales flamandes et communautaristes musulmanes) pour former une Zone euromark. Les membres restants de l’Eurolande constitueraient alors autour de la France une Zone eurofranc (hypothèse de l’économiste Christian Saint-Étienne dans La fin de l’euro en 2009). La guerre commerciale lancée par Donald Trump risque d’affecter en priorité l’industrie allemande. Berlin pourrait dès lors dévisser en terme de compétitivité économique et envisager un « Germanexit » qui avantagerait les collusions transatlantiques et empêcherait la constitution de tout axe grand-continental Madrid – Rome – Paris – Berlin – Moscou – Téhéran – Delhi – Pékin. Cet axe se concrétise par les nouvelles « Routes de la soie » à travers les premières liaisons ferroviaires sino-européennes. Si cette prévision se réalisait, la finalité de la construction européenne s’en trouverait totalement bouleversée.

Extorsions bancaires

computer-1500929__180-1.jpgLa défiance des peuples d’Europe à l’égard des instances supranationales ne cesse de croître. En effet, « au lieu de redistribuer les produits de l’imposition, des classes fortunées vers les classes pauvres, les gouvernements européens maintiennent désormais leur santé financière précaire en empruntant au nom des générations futures sous la forme du financement par le crédit. Par conséquent, les populations ont perdu le pouvoir démocratique de réguler le marché à travers leur participation aux élections (p. 15) ». Ivan Krastev estime que « si l’Union devait s’effondrer, la logique de sa fragmentation serait celle d’un retrait massif de dépôts bancaires et non celle d’une révolution (p. 19) », d’où plusieurs mesures adoptées depuis une décennie par la Commission afin de déposséder légalement les détenteurs de compte bancaire à l’exemple de Chypre et de la Grèce. Une directive européenne prise en 2013 et effective depuis le 1er janvier 2016 stipule que les dépôts bancaires des particuliers et des entreprises s’élevant à plus de 100 000 € pourraient être mis autoritairement à contribution afin de renflouer les banques en faillite. Ce montant pourrait bien évidemment baisser pour mieux spolier l’ensemble de la population dont les plus fragiles. La saisie prochaine des biens immobiliers (et uniquement immobiliers), en particulier des retraités, des chômeurs et des travailleurs précaires, est programmée par les mafias bancaires liées à l’Oligarchie mondiale. L’emploi de plus en plus fréquent de la monnaie électronique en Occident, mais aussi en Inde et en Corée du Sud, prépare cette future expropriation insidieuse pour le seul profit des banksters et des marchés. Déjà, en novembre 2011, « la chute de Berlusconi […] symbolisa plutôt le triomphe sans équivoque du pouvoir des marchés financiers (p. 93) ». Dernièrement, le 29 mai 2018, le commissaire « européen » au Budget, l’Allemand Günther Oettinger, déclarait au sujet de l’entente gouvernementale conclue entre le Mouvement Cinq Étoiles et la Ligue que « les marchés vont apprendre aux Italiens à bien voter ». Il a ensuite démenti ses propos tout en maintenant le fond de sa pensée.

Les « marchés » ne sont pas éthérés. Ce sont des algorithmes fort complexes et des individus qui recherchent avant tout leur seul intérêt personnel. « En Europe, note Ivan Krastev, l’élite méritocratique est une élite mercenaire dont les membres ne se comportent pas différemment de ces stars de football que s’arrachent les plus grands clubs à coups de chéquiers. […] Les banquiers néerlandais à la carrière fulgurante partent à Londres. Les hauts fonctionnaires allemands de talent rejoignent Bruxelles (p. 120). » Capables de faire défection dès le premier contretemps survenu, « les élites méritocratiques de notre temps, de cette époque de globalisation et d’intégration européenne, sont des élites de la “ no loyalty ”, pour laquelle l’idée d’allégeance nationale n’a pas de sens (p. 122) ». Serait-ce le rôle d’autres élites pas encore advenues d’orienter le projet européen vers une autre direction : la survie ethnique des peuples albo-européens ? Face au tsunamimigratoire, « les Européens pourraient bien sûr opter pour l’autre possibilité et fermer leurs frontières; mais alors il leur faudrait se préparer à un déclin brutal de leur niveau de vie général ainsi qu’à un futur où tout le monde aurait besoin de travailler jusqu’à ce que le corps ne puisse plus suivre (p. 61) ». Cette hypothèse ne se vérifierait que si les Européens commettaient l’erreur de garder leur modèle moderne, libéral, individualiste et bourgeois dépassé. Leur révolution est d’abord spirituelle et morale. Ils doivent par conséquent écarter certains arguments immigrationnistes fallacieux. Les immigrés représenteraient une nouvelle main-d’œuvre bon marché suppléant le vieillissement de l’Europe. Or, le progrès technique annule cette justification. « La peur d’une invasion barbare cœxiste […] avec une autre peur, prévient encore Krastev : celle de voir le lieu de travail bouleversé par les transformations liées à la robotique. Dans la dystopie technologique que nous voyons naître, il n’y aura tout simplement plus de travail pour les êtres humains (p. 60). » Dans une trentaine d’années, 43 % des postes de travail actuels seraient automatisés, robotisés et informatisés. Le travail ne sera plus un droit ou un devoir, mais un simple privilège. Que faire des masses inemployées ?

Dans ces conditions, les Européens peuvent fort bien prendre la voie de la décroissance, de la frugalité et de la pauvreté volontaire couplée à une implacable préférence européenne. L’Europe cesserait dès lors d’être attractive. Si l’Europe veut vraiment conserver un destin, elle devra accepter un avenir spartiate.

Georges Feltin-Tracol

• Ivan Krastev, Le destin de l’Europe. Une sensation de déjà vu, Éditions Premier Parallèle, 2017, 155 p., 16 €.

dimanche, 24 juin 2018

III Encuentro Literario Editorial EAS Ramón Irles y Felipe Botaya

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III Encuentro Literario Editorial EAS

Ramón Irles y Felipe Botaya

 
III Encuentro Literario de la Editorial EAS - Conferencia de Ramón Irles y Felipe Botaya sobre Programación Mental y el Control d ela Población, en Madrid el 5 de mayo de 2018.
 

Jesús Lorente sobre Weimar

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III Encuentro Literario Editorial EAS

Jesús Lorente sobre Weimar

Conferencia de Jesús Lorente sobre Weimar, con introducción de Francisco José Fernández-Cruz Sequera, para el III Encuentro Literario de la Editorial EAS, en Madrid el 5 de mayo de 2018.
 

jeudi, 24 mai 2018

«La force de la géographie: comment expliquer la politique mondiale à l’aide de dix cartes géographiques»

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«La force de la géographie: comment expliquer la politique mondiale à l’aide de dix cartes géographiques»

par Wolfgang van Biezen

Ex: http://www.zeit-fragen.ch/fr

«Après la lecture de ce livre, on comprend mieux les crises actuelles de notre monde, on considère les articles exigeants de la presse quotidienne de manière moins fragmentaire, ce qui mène à une meilleure compréhension. La mutation de la seule puissance mondiale, les Etats-Unis, vers un monde multipolaire est déjà accomplie. Pourquoi il en est ainsi est bien décrit dans ce livre captivant et intéressant à lire.»

TMgéo2.jpgAu début de l’année 20151, lors d’une intervention au sein du Chicago Council on Foreign Relations, George Friedman de la société de renseignement américaine Stratfor a insisté sur l’intention des Etats-Unis de continuer à faire la guerre et comment, depuis un siècle, la politique américaine avait défini, de façon primordiale et doctrinale, l’empêchement d’une quelconque réconciliation entre l’Allemagne et la Russie. Cela concorde entièrement avec politique de guerre et la politique étrangère des Britanniques pour l’Europe, menées depuis plusieurs siècles conformément à la tradition et connue sous le nom d’«équilibre des forces». Actuellement cela correspond au déplacement dans le cadre de l’OTAN des Rapid Forces internationales vers l’Est jusqu’à la frontière russe.


La transformation de l’OTAN d’une alliance défensive en une alliance offensive sous la direction des Etats-Unis, les guerres au Proche-Orient, les alliances opaques dans le conflit syrien, la sécession armée en Ukraine orientale et une ministre de la Défense allemande semblant être prête à tout, nous rappelle fatalement la situation à la veille de la Première Guerre mondiale. A cette époque, il ne manquait plus que l’étincelle serbe pour faire sauter l’Europe. Le les poudrières sont en place. Selon George Friedman, l’Allemagne ne s’est pas encore décidée d’assumer le rôle de chef en Europe que ses alliés veulent lui imposer. Rappelons-nous: le mensonge de l’ancien ministre allemand de la Défense M. Scharping, a fourni la raison pour l’intervention militaire illégale au Kosovo. Jusqu’aujourd’hui, il est préférable de ne pas parler ouvertement sur l’horrible souffrance humaine provoquée par l’emploi des armes à l’uranium appauvri utilisées par les forces alliées dans cette région.


Il est difficile de ne pas voir les signes d’une nouvelle guerre, et les citoyens européens réalisent de plus en plus qu’un nouveau conflit est en préparation. Quiconque ne veut pas fermer les yeux, désire comprendre l’histoire récente de l’Europe et décèle des parallèles avec la Première et la Seconde Guerre mondiale dans les activités bellicistes contemporaines, ferait bien de s’approfondir dans la lecture du livre de Tim Marshall intitulé «Die Macht der Geographie – Wie sich Weltpolitik anhand von 10 Karten erklären lässt» (DTV-Paperback 34917) [La force de la géographie. Comment expliquer la politique mondiale à l’aide de dix cartes]. (Version originale en anglais: «Prisoners of Geography. Ten Maps That Explain Everything About the World»).


Le livre met l’accent sur le mot «géo» et entend par là simplement ceci: «La géopolitique démontre comment on peut comprendre des affaires internationales dans le contexte de facteurs géographiques.» En fonction de l’histoire, l’auteur britannique Tim Marshall sensibilise l’œil du lecteur à la situation actuelle de dix régions choisies de notre monde. Il le fait de façon cohérente sur la base de la géographie et de la topographie.


Le premier chapitre déjà clarifie pourquoi Staline, n’avait guère l’intention, après la Seconde Guerre mondiale, d’étendre l’ancienne Union soviétique jusqu’à l’Atlantique, comme l’ont appris des générations d’élèves mais également des stratèges miliaires pendant leur formation.


Les attaques contre la Russie et la sécurisation du ravitaillement nécessaire venant de l’Ouest ont toujours eu lieu par la plaine nord-européenne. Toutes les autres voies sont bloquées par des chaînes de montagnes. Cette voie fut choisie par Napoléon tout comme les armées allemandes pendant les deux guerres mondiales. Actuellement, la Pologne et l’Ukraine servent à nouveau de têtes de pont stratégique et sont ainsi essentiel pour les militaires occidentaux. En même temps cela représente d’autre part une énorme menace pour la Russie. Nous apprenons aussi pourquoi le contrôle et la fermeture de la «ligne GIUK»2 ont à plusieurs reprises barré le chemin de la marine russe vers les océans. Et lorsqu’on peut lire dans la presse quotidienne que toutes les transactions financières de l’Europe vers les Etats-Unis et retour passent par des faisceaux de câbles sous-marins transatlantiques, parallèles à la «ligne GIUK», et comment les Russes seraient capables de couper ces liaisons à l’aide de leur sous-marins, le lecteur attentif se rend compte du fait qu’il s’agit ici éventuellement d’une préparation d’un casus belli.


tmgéo3.jpgLe projet chinois du réseau des Routes de la soie, peu considéré par les Etats-Unis, est vu comme une réponse aux questions urgentes de la communauté mondiale. L’Eurasie se rapproche et collabore dans ce programme d’infrastructure (One Belt One Road – OBOR). Des transports ferroviaires de Pékin à Duisbourg ont déjà lieu plusieurs fois par semaine. La Russie soutient ce projet. La Chine désire davantage de coopération non seulement sur le contient eurasiatique, mais dans tous les domaines et au bénéfice mutuel de tous les participants. Par le port de Gwadar, la Chine atteint l’océan Indien et inclut le Pakistan et l’Iran dans ce projet eurasiatique.


D’autres chapitres importants déchiffrent la géopolitique actuelle des Etats-Unis, de l’Europe occidentale, du Moyen-Orient, de l’Inde et du Pakistan, de la Corée et du Japon aussi bien que de l’Amérique latine.
Le livre fort inspirant de M. Marshall se termine par un chapitre sur l’Arctique. Dans cette région, le soi-disant «changement climatique» travaille en faveur de la Russie. Nulle part, les Etats-Unis et la Russie ne sont si proches l’un de l’autre. Toutefois, le dégel ouvre des possibilités de nouveaux passages entre l’Atlantique et le Pacifique. Là aussi, sur son propre plateau continental, il semble que la Russie tienne la corde, relativement inaperçue et tranquille.


Après la lecture de ce livre, on comprend mieux les crises actuelles de notre monde, on considère les articles exigeants de la presse quotidienne de manière moins fragmentaire, ce qui mène à une meilleure compréhension. La mutation de la seule puissance mondiale, les Etats-Unis, vers un monde multipolaire est déjà accomplie. Les raisons pour lesquelles il en est ainsi sont bien décrites dans ce livre captivant et intéressant à lire.    •

1     https://www.youtube.com/watch?v=ablI1v9PXpI newscan du 17/3/2015
2     Le GIUK est une ligne imaginaire de l’Atlantique nord formant un passage stratégique pour les navires militaires. Ce nom est l’acronyme de l’anglais «Greenland, Iceland, United Kingdom». En cas de conflit, la ligne sera bloquée par les Etats-Unis ou plutôt par l’OTAN. (cf. aussi la NZZ du 13/2/18, p. 7)

lundi, 21 mai 2018

L’entreprise au-delà des ruines

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L’entreprise au-delà des ruines

par Georges FELTIN-TRACOL

En 1941, l’ancien trotskiste et futur co-fondateur du néo-conservatisme belliciste étatsunien, James Burnham, publiait The Managerial Revolution traduit six ans plus tard sous le titre de L’Ère des organisateurs. Sept décennies après sa parution, à l’heure de l’« entreprise libérée », de l’horizontalité organisationnelle, de l’« open space » de travail et de la généralisation intrusive de l’outil numérique, les managers vivent-ils leurs derniers instants d’existence ? Telle est l’interrogation du consultant en entreprise, Philippe Schleiter, dans un ouvrage au titre bien trop réducteur. Si ce chef d’entreprise s’appuie sur son expérience professionnelle, il entend aussi donner à ses remarques une portée qui dépasse de très loin les simples rapports entre les DRH et les salariés. Sur les traces du futur maréchal Lyautey, il plaide « pour le rôle social du manager (pp. 181 – 194) » et consacre un assez plaisant essai aux répercussions socio-économiques de l’actuelle guerre économique planétaire. « Situés au cœur de l’entreprise, les managers sont […] au plus près des enjeux : leurs postes de travail sont des postes d’observation privilégiés de notre société (p. 184). » Indispensables vigies dans un environnement instable et tumultueux, « les managers représentent, par leur réalisme, leur courage, leur modestie et leur détermination une élite qui s’ignore […] née au feu de la guerre économique (p. 14) ». Cette élite méconnue œuvre au sein de l’entreprise, devenue selon l’auteur l’ultime lieu de socialisation après l’effacement consécutif de l’Église, de l’Armée, de la famille traditionnelle, des partis…

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Lieu de transmission des savoir-faire, des apprentissages et des savoir-être, « l’entreprise est un puissant antidote à l’individualisme, à l’égocentrisme et au narcissisme (p. 187) ». Le nouveau contexte mondial en fait même une unité de combat économique. Ainsi l’auteur ne rechigne-t-il pas à la comparer aux « Drakkar dans la tempête, Caravelle en partance pour le Nouveau Monde, Corps d’Armée montant au front (p. 170) ». Il veut réhabiliter l’entreprise. La période lui semble propice puisqu’« un monde nouveau est en train de naître sous nos yeux : celui de la mondialisation malheureuse. Il est porteur de défis, de compétitions et même d’affrontements qui ne pourront être relevés sans de nouvelles visions, de nouveaux projets et de nouvelles valeurs (p. 13) ».

Une ode à l’entreprise

Il estime qu’« un nouveau modèle apparaît, qui conjugue efficience et frugalité, performance et mesure (p. 49) » avec, en prime, la renaissance bienvenue des valeurs épiques (et non seulement éthiques). « L’entreprise est précisément l’une des institutions les mieux armées pour faire en sorte que le retour actuel des vertus viriles puisse s’exprimer de façon lumineuse et positive (p. 58). » Si, « au tournant des années 1960, un cocktail inédit d’individualisme et d’égalitarisme est venu modifier l’idée que nous faisions de l’autorité (p. 17) », c’est dorénavant en son sein que s’affirmerait un net regain en faveur de l’autorité. « Dans le monde incertain et dangereux qui est le nôtre, le chef doit savoir manier le glaive et se jeter dans la mêlée mais en brandissant aussi le sceptre qui soude la communauté. Il a un rôle et une dimension communautaire et même identitaire (p. 22). » Mais ce chef ne doit pas être un simple donneur d’ordre anonyme et discret. « Le chef est d’abord celui qui incarne l’autorité au quotidien et lui donne un visage. Le chef ne doit donc pas s’enfermer en haut d’une tour fût-elle de verre et non d’ivoire. Il a l’obligation d’être visible et accessible (p. 21). »

Contre le maternalisme ambiant, l’auteur exalte le risque et conteste le principe même de précaution qui s’invite partout, sauf dans l’alimentation (présence des perturbateurs endocriniens) et dans l’immigration allogène de peuplement. Il importe de distinguer « bien-être et bonheur (p. 116) ». Cette approche brise les clichés véhiculés par les syndicats. Philippe Schleiter rappelle que la France a « le taux de syndicalisation le plus bas d’Europe (p. 130) » sans jamais en expliquer les raisons. La faiblesse syndicale française se comprend à l’aune de l’idéologie égalitaire. Hors de l’Hexagone, Lointaine rémanence des « privilèges » corporatistes d’Ancien Régime, l’appartenance au syndicat permet à ses adhérents de bénéficier d’avantages sociaux propres négociés et obtenus entre leur syndicat, le patronat, voire, le cas échéant, la puissance publique. Exclus du syndicat, ils les perdent tous. En France, l’égalité veut que les accords sociaux s’appliquent à l’ensemble du personnel et pas uniquement aux seuls syndiqués. Dans ces conditions, à quoi bon cotiser ?

Philippe Schleiter considère que « l’Entreprise reste une communauté agissante (p. 91) ». Elle ne cesse de se développer parce qu’« un nombre croissant d’activités relevant autrefois des secteurs public ou associatif est désormais assuré par l’entreprise (p. 82) ». Il se lance dans une rétrospective historique à propos de cette époque faste appelée par Jean Fourastié les « Trente Glorieuses », cette « déclinaison de la modernisation et de la croissance forte et continue qui place la France au rang de puissance industrielle (p. 139) ». Il oublie cependant – peut-être victime de l’historiquement correct ? – que ce dynamisme ne date pas de l’immédiate après-guerre et des initiatives sociales du CNR (Conseil national de la Résistance), mais des efforts commencés dès la fin de la IIIe République, ensuite poursuivis sous l’État français d’un vieux maréchal par de hauts fonctionnaires et des technocrates successivement passés par les écoles de cadres de la Révolution nationale et les réseaux de noyautage de la Résistance. Pensons par exemple à Maurice Couve de Murville, ministre des Affaires étrangères entre 1958 et 1968, puis Premier ministre (1968 – 1969) du Général de Gaulle, qui arrive à Alger en décembre 1942 pour se mettre à la disposition de l’Amiral François Darlan, Dauphin officiel du Maréchal !

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Cette continuité technico-administrative explique que « l’État des Trente Glorieuses n’est pas seulement un État protecteur, […] c’est aussi un État “ entrepreneur ” qui exige de l’engagement au service d’une ambition collective (pp. 142 – 143) ». Il serait bien que les énarques redécouvrent le rôle fondamental de l’État stratège dans l’agencement des « sociétés contemporaines [qui] trouvent leur équilibre dans le mouvement (p. 72) ». L’État stratège demeure ce point fixe indispensable pour se repérer dans les flux mondiaux des échanges et des comportements.

L’auteur en appelle au renouveau industriel. Il a raison. Toutefois, son néo-industrialisme semble quelque peu excessif. La France ne doit pas privilégier l’économie tertiaire, favorable aux seuls services marchands. L’État stratège devrait permettre la relance concomitante de la matière (une nouvelle industrie ambitieuse et performante) et de la terre (l’agriculture, la pêche et l’exploitation forestière) parce que pointe déjà à l’horizon l’impératif de l’auto-suffisance alimentaire. Valorisons par conséquent les figures civiques fondatrices européennes de l’Ingénieur et du Paysan !

Renouveau entrepreunarial !

L’auteur avance avec raison que « l’heure est plutôt au patriotisme économique et un volontarisme industriel avec la ferme volonté de ne pas rater le coche de la troisième révolution industrielle naissante à la confluence de la micro-électronique, de la robotique, du logiciel et de l’Internet (p. 123) ». Regrette-t-il le « capitalisme rhénan » expliqué naguère par Michel Albert ? L’entreprise appropriée n’est pas la firme internationale, mais plutôt l’entreprise familiale ou le groupe de dimensions intercontinentales en commandite absent des places financières (Michelin). Elle se rapprocherait des entreprises japonaises et coréennes du Sud dont les employés montrent leur attachement à leur « boîte » et expriment un véritable « patriotisme entrepreunarial », soit des communautés effectives qui feraient enfin sens. « Pour relever les défis qui leur sont adressés, les dirigeants d’aujourd’hui et ceux de demain doivent donc se départir de l’ancienne vision mécaniciste de la société. Ils doivent troquer Descartes contre Darwin pour renouer avec un modèle d’organisation plus biologique, organique et holiste. Ils doivent se souvenir que l’intelligence est d’abord collective et se penser pleinement membres d’un tout dont la valeur est supérieure à la somme de ses parties (pp. 66 – 67). » Le holisme fait donc son grand retour comme le signale d’ailleurs le pasteur Jean-Pierre Blanchard (1).

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Il est possible que « l’entreprise [soit] un levier formidable pour accompagner cette renaissance et redonner confiance au pays. Parce qu’elle est rompue à l’exercice de la définition d’une vision, d’une ambition, d’un projet collectif qui, s’ils sont bien faits, fédèrent les énergies. Et aussi parce qu’en son sein les élites circulent plus vite (pp. 147 – 148) ». Comment alors motiver le personnel en-dehors des primes exceptionnelles et des augmentations de salaire ? Communauté de destin productif et professionnel, l’entreprise ne peut-elle pas appartenir à ceux qui y travaillent ? Structures coopératives, intéressement aux bénéfices réalisés, participation à la gestion quotidienne constituent des facteurs d’encouragement et de motivation à la vie de l’entreprise. Il ne s’agit pas de susciter l’autogestion, ni d’abolir la hiérarchie interne, mais de faire des cadres et des employés des co-propriétaires. Les entreprises coopératives ou « co-gérées » présentent une vulnérabilité moindre au rachat éventuel proposé par quelques multinationales prédatrices. Co-propriété de ses employés et de l’État, Alstom n’aurait jamais été bradé à des intérêts anti-français. L’entreprise ne se conçoit pas éphémère ou à durée limitée. « L’éloge de l’instant, l’ode à l’urgence sont non seulement contre-productifs mais encore sont-ils le signe annonciateur de désastres futurs (p. 31). » L’intégration de ses membres dans la vie de l’entreprise ne lui donne-t-elle pas une épaisseur certaine ? « À l’instar de toutes les communautés vivantes les entreprises ont des racines et une identité qui, loin de les lester, peuvent les aider à se trouver une voie propre à travers les aléas de l’histoire (p. 34). » Préfacier de l’ouvrage, Hervé Juvin écrit que « l’entreprise hors sol est un monstre, l’entreprise de demain retrouvera sa dimension territoriale, sociale et nationale (2) ».

Participation effective et association du travail et du capital fortifient sans aucun doute l’entreprise qui affronte la mondialisation d’autant que « l’entreprise n’est nullement à l’origine de la mondialisation (p. 83) ». Provocateur, Philippe Schleiter assure que « mondialisation ne rime pas avec uniformisation : le monde est à la fois global et pluriel (p. 46) ». Cela signifie que « la mondialisation n’est pas ce creuset dans la modernité duquel tous les pays sont appelés à se dissoudre pour permettre l’éclosion d’une nouvelle conscience planétaire, et qu’elle est plutôt une arène dans laquelle les entreprises mais aussi les nations sont appelées sinon à s’affronter de façon directe, du moins à entrer dans une compétition d’autant plus vive que l’abolition des frontières et des distances précipite tous les concurrents sur un même terrain (pp. 43 – 44) ». Toujours d’après lui, « longtemps, on a cru que mondialisation rimerait avec occidentalisation, voire avec américanisation : une folle illusion entretenue y compris par ses adversaires qui y voyaient une nouvelle ruse de l’impérialisme yankee (p. 39) ». Point de vue contestable. Les adolescents de Bucarest, de Dakar, de Séoul ou de Sarcelles portent rarement des maillots floqués à la gloire de Confucius ou de Lao Tseu ! Distribués sur les cinq continents, les films autour de StarWars et des Avangers ne propagent-ils pas l’image d’une Amérique irréelle ?

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L’entreprise contre le marché

« La mondialisation n’a […] pas été pensée entre les murs des conseils d’administration mais au sein du Bureau ovale (p. 84). » Dans les décennies 1970 – 1980, « inquiets des succès enregistrés, sur des terrains différents, par l’URSS d’une part, et le Japon d’autre part, les États-Unis ont décidé de réagir en nouant une alliance avec la Chine et en dérégulant les marchés, notamment financiers, posant ainsi les bases d’un nouveau monde (p. 84) ». Mondialisation et financiarisation de l’économie tendent à fondre les entreprises dans les flots glacés des marchés au point que certains libéraux les prennent pour des fictions ! Or les entreprises ne doivent « pas se dissoudre dans le marché global mais [au contraire] […] s’y imposer comme une force agissante (p. 90) ». L’auteur souligne que « la politique de dérégulation impulsée au début des années 1980 dans le monde anglo-saxon avant de gagner le monde entier n’est pas en faveur de l’entreprise mais du marché (p. 84) ». Il va même plus loin et pense que « le marché et l’entreprise sont des entités distinctes et même, à bien des égards, antagonistes (pp. 84 – 85) ». En effet, « l’entreprise traditionnelle représente […] l’une des rares institutions se dressant encore contre le triomphe sans partage du marché (p. 190) ». Y aurait-il du Jean-Luc Mélanchon ou du Benoît Hamon chez Philippe Schleiter ? Fausse alerte ! « En favorisant l’extension du domaine du marché, la révolution libérale poursuivie depuis une trentaine d’années ne pouvait donc que profondément déstabiliser l’entreprise, telle qu’elle s’était affirmée du XIe siècle jusqu’à la fin des Trente Glorieuses. Alors que l’entreprise était portée par une dynamique d’institutionnalisation, elle tend désormais à n’être plus que le lieu où se nouent, de façon éphémère, des relations entre agents déliés de tout pacte à moyen ou long terme. Alors qu’elle s’affirmait comme un pôle de stabilité à côté d’autres institutions durables, les nouvelles règles du jeu lui enjoignent de redevenir fluide et volatile, à l’instar de l’ensemble de la nouvelle société ainsi édifiée (p. 85). » Sévère et juste constat ! Regrettons toutefois que Philippe Schleiter n’aborde pas l’avenir de l’entreprise confrontée à l’émergence de l’intelligence artificielle et aux cadences de travail épuisantes observées par exemple chez ce nouveau négrier qu’est Amazon.

La mondialisation dévaste tout sur son passage. Dans la grande liquéfaction du monde, l’auteur ose le pari que « l’entreprise va être le conservatoire de valeurs indispensables dans les temps difficiles qui risquent bien de s’annoncer (p. 197) ». Il prend exemple sur la transition difficile de l’Antiquité tardive au Haut Moyen Âge. « Dans le chaos suivant la chute de l’Empire romain, les vestiges de l’ancienne culture ont été maintenus dans l’enceinte des monastères. Il n’est pas impossible que dans le chaos post-moderne les entreprises remplissent ce rôle en maintenant vivantes des valeurs qui, dans le reste de la société, ne sont plus qu’un vague souvenir… (p. 191). » Philippe Schleiter ne dédaigne pas les approches audacieuses et assez réductrices. Des communautés informelles mais réelles autour de BAD (bases autonomes durables), détenant des terres arables serviront, elles aussi, des conservatoires de la civilisation européenne. « La mondialisation ne met pas seulement en concurrence les économies, mais des valeurs, des modèles de société, des capacités de réduction et d’entraînement (p. 45). » L’entreprise serait-elle à la hauteur pour l’inévitable transmutation des valeurs ? La question revêt toute son importance quand on voit que les grandes et moyennes entreprises n’hésitent plus à appliquer les mots d’ordre du conformisme officiel (écriture inclusive, anti-racisme, gendérisme, féminisme hystérique…) et à livencier les militants anti-Système. Elles contribuent à la liquidation de l’ancien monde.

Jeune retraitée de la vie politique, Marion Maréchal – Le Pen révélait dans Valeurs actuelles du 22 février 2018 son projet « métapolitique » d’académie d’enseignement politique destinée à former les futurs talents d’une « droite entrepreunariale et enracinée ». Ses premières promotions auraient tout intérêt à lire Management. Le grand retour du réel. Quant à la direction, elle pourrait fort bien solliciter l’auteur pour des interventions. La nouvelle révolution des managers sera conservatrice et réfractaire. Ça nous change du primat bancaire de la Start up Nation en pacotille !

Georges Feltin-Tracol

Notes

1 : Jean-Pierre Blanchard, L’Alternative holiste ou la grande révolte antimoderne, Dualpha, coll. « Patrimoine des héritages », préface de Patrick Gofman, 2017.

2 : Hervé Juvin, France, le moment politique. Pour que la France vive !, Éditions du Rocher, 2018, p. 178.

• Philippe Schleiter, Management. Le grand retour du réel. 15 cartouches pour ne pas être démuni, préface de Hervé Juvin, VA Éditions, 2017, 199 p., 18 €.

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vendredi, 11 mai 2018

¿LIQUIDAR MAYO DEL 68? DEL SESENTAYOCHISMO AL LIBERALISMO LIBERTARIO

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LIBRO:

¿LIQUIDAR MAYO DEL 68?

DEL SESENTAYOCHISMO AL LIBERALISMO LIBERTARIO

de François Bousquet, Adriano Erriguel, Pierre Le Vigan et alii.

Coordinador Jesús Sebastián Lorente

Pedidos: edicionesfides@yahoo.es

260 páginas

PVP: 22 euros

Orientaciones:

«Los sesentayochistas se han transmutado en liberal-libertario, igual que se ha pasado del “Mayo 68” al “anti-Mayo 68”. Este fenómeno constituye la “contrarrevolución liberal perfecta”, un caballo de Troya para el capitalismo neoliberal, bajo la forma de un avatar libertario. Las movilizaciones y enfoques de “Mayo 68” promovieron el mercado del deseo, así como una sociedad que confundía libertad con liberalización y que impulsaba la permisividad para el consumidor y la represión y el control para el productor, siguiendo el modelo americano del consumismo de masas. La herencia del 68 permitió salvar al capitalismo en crisis y crear nuevas dinámicas en los mercados (el deseo, el espectáculo, el ocio, el entretenimiento). La ideología de “Mayo 68” se correspondía funcionalmente con los valores que decía combatir. En definitiva, los revolucionarios de ayer son los izquierdistas de hoy convertidos al liberalismo económico y al libertarismo cultural y societal».

Jesús Sebastián Lorente

Índice:

Vivir en Progrelandia. Sobre la revolución de «Mayo 68» y su legado, Adriano Erriguel

«Mayo 68», la enfermedad infantil del capitalismo, François Bousquet

Desmitificar «Mayo 68» o de cómo la ideología sesentayochista ha devenido en instrumento de dominación, Werner Olles

«Mayo 68», entre herencias y controversias, Virginie Laurent

«Mayo 68» para la Nueva Derecha, Jean-Yves Camus

La doble cara de «Mayo 68», Javier R. Portella

«Mayo 68»: del mito generacional a la revolución defraudada, Alain de Benoist

Para acabar con la tiranía postsesentayochista, Louis Dupuin

«Mayo 68» y el paradigma liberal-libertario, Jean-Claude Michéa

«Mayo 68»: nace el liberalismo libertario, Aymeric Monville

Los situacionistas pre-68 y la Nueva Derecha, Christophe Bourseiller

¡Gracias, sesentayochistas! Michel Geoffroy

«Mayo 68», desde la generación-68, Charles Champetier

El pensamiento 68, ¿un nuevo antihumanismo? Olivier Marchand

El pensamiento anti-68: ¿hay que liquidar «Mayo 68»? Jesús Sebastián Lorente

«Mayo 68»: ¿iguanas inmortales o demasiado viejos para el rock and roll? Michel Lhomme

«Mayo 68» y el triunfo del narcisismo, Eric Zemmour

El lenguaje liberal-libertario de «Mayo 68», Bernard Charbonneau

«Mayo 68»: de la prerrevolución al caos, Bruno Gollnisch

Una década 68, Pierre Le Vigan

«Mayo 68»: de la ideología de la transgresión al liberalismo libertario, Charles Robin

«Mayo 68»: el declive de la izquierda revolucionaria, José Alsina Calvés

Reflexiones sobre la “revolución” de «Mayo 68», Philippe Conrad

El debate sobre el legado de «Mayo 68», Anne-Marie Renaut

De Senectute, Sertorio

01:00 Publié dans Actualité, Histoire, Livre, Livre | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : mai 68, histoire, livre, france | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

jeudi, 10 mai 2018

HISTORIA DEL SEGUNDO PERIODO DEL MOVIMIENTO JOVEN EUROPA EN ESPAÑA (1964-1971)

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LIBRO:

EL ECLIPSE DEL SOL. HISTORIA DEL SEGUNDO PERIODO DEL MOVIMIENTO JOVEN EUROPA EN ESPAÑA (1964-1971)

de José Luis Jerez Riesco

Con un prólogo de Bernardo Gil Mugarza

Pedidos: edicionesfides@yahoo.es

396 págs.

PVP: 25 euros

Orientaciones:

Jean Thiriart, quien me distinguió además con su sincera amistad hasta su temprano fallecimiento en 1992, era un organizador nato, un excelente orador y un pensador profundo. En mi opinión, y por esas tres condiciones, fue un líder carismático excepcional.

Los ideales comunes en todas las Secciones nacionales de Joven Europa quedaron plasmados en el semanario del mismo nombre, en las revistas mensuales “L’Europe Communautaire” y “La Nation Européenne, en los “Argumentaires”, en las 350 “Communications” internas y especialmente en los libros “Europa, un imperio de 400 millones de hombres” –editado en España con el título de “Arriba Europa”-, “El Imperio eurosoviético, desde Vladivostok a Dublín” y en las 106 respuestas a las preguntas que le formulé en 1983.

La crónica de aquella lucha titánica, en medio de un ambiente difícil y batallador, queda reflejada en este libro de mi viejo amigo y camarada José Luis Jerez Riesco que vivió, dentro de la Organización, sus últimos compases de esperanza.

[del prólogo de Bernardo Gil Mugarza]

Índice:

Prólogo

  1. La situación de “Jeune Europe” en 1964
  2. Joven Europa renace de sus cenizas en España

III. La lucha de Joven Europa en 1965. Un año de turbulencias

  1. “Un imperio de 400 millones de hombres: Europa”
  2. La escuela de cuadros de Joven Europa
  3. El nuevo año 1966 amanece con renovado optimismo

VII. El campo europeo de trabajo en Torices -Santander-, organizado por Joven Europa

VIII. Jean Thiriart pronuncia sendas conferencias en Santander y Bilbao

  1. Jean Thiriart habla en la capital de España
  2. La Sección Española de Joven Europa después de la euforia del verano de 1966
  3. El congreso España-Europa convocado por Joven Europa en Madrid, en marzo de 1967

XII. El declive de Jeune Europe

Anexo: Relación de camaradas de la Sección Española de Joven Europa, de los que existe referencia

Bibliografía y fuentes

Anexo documental

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Los herederos del sol. Historia del primer periodo del movimiento Joven Europa en España (1960-1964)

Los herederos del sol.
Historia del primer periodo del movimiento Joven Europa en España (1960-1964), de José Luis Jerez Riesco
Con un prólogo de Antonio Méndez García
 
1ª edición, Tarragona. 2017.
21×15 cms., 428 págs.
Cubierta a todo color, con solapas y plastificada brillo. Rústica cosido.
 
PVP: 25 euros
 
Orientaciones:
 
El Movimiento Joven Europa, que ahora rememora mi amigo José Luis Jerez, es una añoranza lejana de juventud. En los pri­meros años de la década de los sesenta, del pasado siglo XX, brotó, espontáneamente, un sentimiento colectivo, de raigambre europeísta, que prendió en diferentes focos y países continenta­les al unísono, basado en una bien elaborada y sugestiva teoría, defendida por el dinámico y emprendedor Jean Thiriart […]
Enarbolar la idea de Europa, como bandera de una futura y com­pacta Nación, era un ejercicio ciertamente revolucionario y mal entendido por los nacionalismos locales al uso.
Fuimos los pioneros en clamar por la integración de Europa […] por ser los herederos del orgullo de su milenaria cultura creado­ra; nos movía la fe de un nuevo Imperio, donde filosofía clásica y milicia iban al compás de los tiempos venideros.
 
[del prólogo de Antonio Méndez García]
 
Índice:
 
Prólogo / 11
I. El nacimiento de Joven Europa / 15
II. Bajo el signo de la Cruz Céltica / 67
III. El proceso de gestación de Joven Europa en España / 79
IV. Hacia la implantación de Joven Europa en España / 133
V. El Protocolo Europeo de Venecia: nacimiento del Partido Nacional Europeo / 165
VI. El avance de Joven Europa en España, durante el segundo trimestre de 1962 / 173
VII. El agitado verano de 1962 para Joven Europa / 209
VIII. El Fórum Europeo de Joven Europa en Marbella / 223
IX. La apertura de una nueva etapa, después de la celebración del Fórum / 263
X. Joven Europa en el despertar del año 1963 / 309
XI. Se lanza en Madrid un nuevo “boletín informativo” / 343
XII. La Europa de la juventud peregrina a Santiago de Compostela / 355
XIII. El movimiento Joven América se extiende por los países hispánicos / 367
XIV. Nadar contracorriente / 399
XV. El principio del fin del primer periodo de Joven Europa en España / 419

mardi, 08 mai 2018

Rolf Peter Sieferle: The Man & the Scandal

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A Report from Germany
Rolf Peter Sieferle:
The Man & the Scandal

Rolf Peter Sieferle (1949–2016) was a German historical scholar whose posthumously published book Finis Germania set off a moral panic in the summer of 2017.

A member of the generation of ’68, he was a radical in his youth, writing his doctoral dissertation on the Marxian concept of revolution. He became a trailblazer in the field of environmental history, best known during his lifetime as the author of The Subterranean Forest (1982). This book examines the industrial revolution from the point of view of energy resources, whereby it appears as a shift from sun-powered agriculture supplemented with firewood to an increasingly intense reliance on coal. The industrial revolution occurred in Great Britain partly because wood was becoming scarce or expensive to transport, whereas coal was plentiful. Although coal is also plentiful in Germany, its industrial revolution came much later because it also possessed large forests near major riverways that permitted inexpensive transportation. The Subterranean Forest is now recognized as a standard work in its field and was published in English translation in 2001.

Sieferle wrote or cowrote a dozen other books during his lifetime and was regarded as an entirely respectable member of the German academic establishment. But he moved quietly to the Right as he got older. In 1995, e.g., he published a book of biographical sketches of figures from Germany’s Conservative Revolution, including Oswald Spengler, Ernst Jünger, and Werner Sombart. This book and others published during his later years attracted some grumbling from Left-wing reviewers, but Sieferle remained respectable enough to serve as an advisor to the Merkel Government on the subject of climate change.

He retired from academic life in 2012. Following the “refugee” invasion of 2015, he quickly produced a political polemic for which he was unable to find a publisher. In September, 2016, Sieferle died by his own hand. It is uncertain to what extent his decision was motivated by failing health or distress over the migrant crisis.

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In February of 2017, his polemic was finally brought out as The Migration Problem: On the Impossibility of Combining Mass Immigration with the Welfare State. It is selling well, but the effect it produced has fallen well short of another small work discovered on Sieferle’s computer following his death: Finis Germania, or “The End of Germany.”[1] [2] This title was brought out by the dissident publisher Antaios, a fact considered scandalous in itself for a former member of the academic establishment. Antaios is the most notorious “Right-wing” publisher in today’s Germany, responsible for bringing out German editions of such unsavory authors as Jack Donovan and the present writer.

But the country was thrown into a moral panic when Finis Germania unexpectedly appeared on a prominent monthly list of ten recommended non-fiction titles. The way such lists are compiled is as follows: twenty-five editors are assigned twenty-five points each which they may award to any new titles they choose. The voting is anonymous, and the final list is compiled from the total number of points each book receives. In June, 2017, Finis Germania was listed at number nine. Denunciations rained down, with the 93-page booklet being characterized as “radically right-wing,” “antidemocratic,” “reactionary,” “anti-Semitic,” and a “brazen obscenity.” It was even debated whether Sieferle might secretly have been a “holocaust denier.”

One of the editors resigned in protest, and the monthly lists were suspended until the rules could be rewritten to make similar occurrences impossible in the future. The book’s unexpected breakthrough turned out to result from a single editor awarding all his points to it: not against the rules, but unusual. The manhunt was on to find the guilty party.

He soon made himself known in a letter of resignation as Johannes Saltzwedel, a long-time editor for the newsweekly Der Spiegel and the author of many popular works on German history and literature. He defended his action as “a vote against a Zeitgeist which was abandoning German and European culture in favor of propagating a misty cosmopolitanism.” There are many such cultural conservatives who quietly cultivate their love of Germany’s past while refraining from stirring up a hornet’s nest by publicly violating any of the Left’s numerous taboos; such men are known as “U-Boats,” and Saltzwedel had clearly scored a kill.

Finis Germania became a succès de scandale, quickly rising to the top of the bestseller lists. In July it was still at number six on Der Spiegel’s popular list of nonfiction bestsellers before mysteriously disappearing altogether: with no explanation, a gap simply appeared between number five and number seven! But the book had suffered no corresponding drop in sales.

After being bombarded with inquires, the magazine explained that they felt a special responsibility to remove a book which would not have made it onto the list without the recommendation of their own editor, Mr. Saltzwedel. Asked why they had not openly declared what they were doing at the time, the magazine offered no further explanations. The matter became a scandal within the scandal, with many of Sieferle’s harshest critics also condemning Der Spiegel for its actions. I cannot avoid the impression that such hedging resembles the rhetoric of this country’s “Alt-Lite.”

Since this website assumes its readers are competent adults, we shall let them make up their own minds about Finis Germania by publishing selected passages [3] from the work in English translation, including those which caused the greatest consternation.

Note

[1] [4] As many have pointed out, the correct Latin would read Finis Germaniae.

 

Article printed from Counter-Currents Publishing: https://www.counter-currents.com

URL to article: https://www.counter-currents.com/2018/05/rolf-peter-sieferle/

URLs in this post:

[1] Image: https://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2018/05/Sieferle.jpeg

[2] [1]: #_ftn1

[3] publishing selected passages: https://www.counter-currents.com/2018/05/excerpts-from-finis-germania/

[4] [1]: #_ftnref1

 

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Excerpts from Finis Germania

 [1]Translated by F. Roger Devlin

Translator’s Note:

Finis Germania is a very different book from the carefully referenced scholarly works which established Sieferle’s academic reputation. It is a collection of brief personal meditations on what the Germans call Vergangenheitsbewältigung: “overcoming (or coping with) the past,” wherein the past is understood to refer exclusively to the country’s twelve-year National Socialist dictatorship. These meditations were set down beginning in the 1990s, and were last revised by the author in April of 2015, i.e., before the “refugee” crisis of the following summer. Sieferle appears not to have attempted to publish this highly personal work during his lifetime. 

The book is divided into four sections entitled 1) Finis Germania, 2) Paradoxes of the Age, 3) the Myth of Overcoming the Past, and 4) Fragments. Each of these four main sections is divided into subsections. This first extract consists of three complete subsections from the first main section. Extracts from the third section, which inspired the fiercest denunciations, will follow.

Progress and the Overcoming of the Past

No one is surprised that in a semi-Asiatic country like Russia, marked by despotic traditions, the combination of ideology and industry was able to lead to monstrous consequences. The horror of revolution, Civil War, and Stalinism can be unproblematically ascribed to the premodern character of Russia.  Still less need we get exited over, for example, the Pol Pot regime in Cambodia—what else was to be expected from a backward Asiatic country? German National Socialism, however, is an entirely different case. Had it not been shown, here in the midst of Europe, that the means of modernity could be applied to quite “barbaric,” i.e., inhumane, ends? If Germany was among the most civilized, cultured of countries, then Auschwitz might mean that the humane “progress” of modernity could at any time change suddenly into its opposite.

Thus, at any rate, might a skeptical, pessimistic doctrine from the past be formulated.

The standard version of Overcoming of the Past, however, took an entirely different path. Since this path amounted to a direct continuation of the Allied propaganda of the First and Second World Wars, a traditional, premodern Special Path had to be ascribed to Germany, because of which it was fundamentally distinct from the “West.” This had the primary function of unburdening the modern world from the possibility of a holocaust. Germany was declared a sort of Russia, a land with half-barbaric traditions out of which flowed anti-Semitic resentments and hunnish cruelty. Tradition, premodernity, and barbarism could thus be ascribed to the debit side of history; Western Modernity, in contrast, stood forth in spotless robes.

sieferlebuch.jpgFrom a past construed in such a way, however, nothing more could be learned. As soon as Germany was effectively westernized, the ritual of Overcoming the Past became mere political kitsch, a pure, abstract exercise in righteous (or self-righteous) attitudinizing. It is no longer directed against any real enemy, but instead operates on a purely imaginary front.

For the Left, National Socialism meant the greatest imaginable historical defeat. They imagined Europe c. 1930 as on the threshold of a proletarian revolution. The victory of National Socialism was, therefore, the victory of counter-revolution par excellence: it had thwarted the hoped-for transition, as it turned out, definitively and on a world scale. This was simply unforgivable. That it had done its opponents the favor of staining itself with unimaginable atrocities was to some extent a moral bonus for the Left, from which it draws nourishment all the way to the present day by conjuring a permanent antifascism into existence.

The German Special Path and the Victor’s Point of View

There are tragic peoples, e.g., the Russians, the Jews and the Germans, upon whom the paradoxes of historical processes are carried out in their full severity. Then there are untragic peoples against whom history runs off like water from a duck’s back. To the latter category belong above all the Anglo-Saxons. Only a country with Great Britain’s unshakable self-confidence could openly declare its oligarchic past the cradle of democracy, from which step by step, with an almost stultifying normality and inevitability, the modern world had developed. Only in its naïve American offshoot could this point of view, cultivated in its country of origin only with a hint of self-mockery, be straight-facedly vulgarized into a Theory of Modernization. We see here a remarkable coincidence between a self-confidence based on success and a historical reality from which one has continually emerged unharmed—with no superfluous revolutions, civil wars, mistaken paths or special paths of all sorts, in triumphant harmony with the march of the world. The remarkable thing is that this tedious victor’s pose is being bandied about as the last word in politically correct thinking in a country where one might from bitter experience have had better knowledge of the complications and messiness of real historical processes.

The construction of a German Special Path rests entirely on this Theory of Modernization. This is necessarily the case for purely formal reasons: a “special course of development” is only possible against the background of a normal course of development. Putting this teleological historical hocus-pocus aside, we must accept the fundamental openness of historical situations. If the Spanish had succeeded in 1588, would Drake and Raleigh have stood forth today as unrealistic battlefleet fanatics? Would we be taught the story of the ill-fated British-Protestant Special Path of Development that was fortunately brought back into the normal course of European Christendom? Philipp II as the savior of culture from barbarism? The privateers and buccaneers as lawless pirates and war criminals rightly brought before extraordinary courts and burned at the stake?

From the point of view of 1914, similarly, there might have been the real alternative of a German and an Anglo-Saxon Path whereby a German victory might have lead Europe into a different “normality.” However that may be—the victory of the West in 1918 and then again in 1945 definitively laid the German alternative to rest, and thus declared it a Special Path that had been overcome.

Moral Arithmetic

Fritz has stolen ten apples from Ivan, while Ivan has stolen only four apples from Fritz. Now an accountant arrives on the scene and says: “Both Fritz and Ivan are thieves. We must, however, subtract the four apples Ivan has stolen from the ten Fritz has stolen. So Fritz has stolen a net total of six apples.”

“Wait,” protests a moralist. “This arithmetic operation is really intended to lessen Fritz’s guilt. In view of the scope of Fritz’s crime however, guilt can not be weighed against guilt. Every mention of the four apples stolen by Ivan must be interpreted as an effort to whitewash Fritz.”

A neutral observer objects: “But isn’t this prohibition of arithmetic calculation merely another form of calculation? Aren’t the four apples Ivan has stolen being subtracted from Fritz’s ten in such a way that the four apples entirely disappear, while the ten apples are entirely preserved? The rules of moral arithmetic must follow a peculiar logic.”

But even here the moralist is at no loss for an answer: “Fritz’s crime is infinitely great. From an infinite magnitude, however, any quantity whatsoever can be subtracted, and it will remain infinite. Thus, Ivan’s guilt is in fact cancelled out by not being mentioned, while Fritz’s guilt remains fully preserved for all time.”

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samedi, 05 mai 2018

A LIRE : Mai 68, la révolution des imbéciles

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A LIRE : Mai 68, la révolution des imbéciles

par Michel Morès

Ex: https://theatrum-belli.com

A l’occasion du 50e anniversaire des événements du printemps 1968, Charles Saint-Prot, qui a récemment publié L’Etat-nation face à l’Europe des tribus (éd. du Cerf), signe un vigoureux pamphlet sous le titre évocateur Mai 68, la révolution des imbéciles (éditions de Flore).

CSP-Mai-68-2.jpgOn aura compris que ce texte n’est pas tendre à l’égard de ce que l’auteur qualifie de « chamboulement abject, un mouvement littéralement antisocial conduisant à l’institution d’un individu abstrait livré à la domination du Marché mondialisé… ». Il ajoute « Sous couvert d’un gauchisme de façade qui ne fut rien d’autre que la maladie sénile du crétinisme, Mai 68 fut le terreau d’un nouveau totalitarisme qui s’épanouit aujourd’hui avec un rare cynisme. Moins qu’une révolution, ce fut le début d’un long processus de pourrissement, de renversement des valeurs ».

On comprendra qu’aux yeux de Charles Saint-Prot, rien n’est plus urgent qu’en finir avec le mythe soixante-huitard pour remettre les idées à l’endroit. L’analyse faite par ce penseur des causes de mai 68 est particulièrement intéressante. Après avoir posé le principe  qu’ « en 1789 comme en mai 1968, l’idéologie révolutionnaire n’est qu’une vision illuminée au service d’intérêts obscurs », il s’interroge sur la nature de ces intérêts. A cet égard, il rappelle ce qu’écrivait le professeur Jean Rouvier, dans  son fameux ouvrage Les grandes idées politiques (1978), affirmant  qu’un « lobby israélo-américain »  ne fut pas étranger au déroulement  de ces événements. Ainsi, tout se serait passé « dans le dos des acteurs » comme a pu le constater  Régis Debray. Charles Saint-Prot soutient donc que l’agitation fut orchestrée de l’étranger pour affaiblir la France que le général de Gaulle avait relevée en proposant une vision « héroïque et futuriste ». Carnaval grotesque contre les valeurs traditionnelles, Mai 68 fut aussi « la première grande bataille des forces qui voulaient imprimer un bouleversement total de l’ordre politique et des valeurs de la société au profit de la dictature du Marché ultra-libéral et mondialisé. Bref, ce n’est pas l’imagination qui voulait prendre le pouvoir mais la finance anonyme et vagabonde ».

Rappelant l’obsession anti-française de ceux qui pensaient comme Cohn-Bendit que « le drapeau français est fait pour être déchiré », l’auteur met en cause l’idéologie antifrançaise qui est devenue la pensée dominante à l’aube du XXIe siècle au point que tant de pseudo-élites, passées du gauchisme à l’ultralibéralisme, renoncent à la France sacrifiée aux billevesées mondialistes et européistes. D’où cette conclusion sévère :

Libertaires et libéraux se retrouvent contre l’État-nation  pour célébrer à satiété les vertus de la globalisation et de la construction européenne et encourager les tentations régionalo-séparatistes. Ils sont dans un même combat contre la pensée française, cet ultime môle de résistance contre les menaces de toute nature qui s’amoncellent au début du troisième millénaire. L’éternel enjeu consiste à réaffirmer le primat de l’homme, de la civilisation, des forces de la vie contre le nivellement matérialiste, les nuées cosmopolites, les forces de la mort. Et Mai 68 fut tout cela, sans apporter naturellement la moindre réponse aux interrogations du monde moderne.

En fait, c’est la question de l’avenir de la France qui est posée dans ce petit livre très utile à la formation de l’esprit public..

Michel Morès

Cliquer ICI pour commander le pamphlet : 5 €, 20 pages

07:57 Publié dans Histoire, Livre, Livre | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : charles saint-prot, livre, mai 68, france, histoire | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook