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jeudi, 28 février 2013

La crisi del padre e l’indebolimento del matrimonio

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La crisi del padre e l’indebolimento del matrimonio

di Claudio Risé

Fonte: Claudio Risè [scheda fonte]

L’estinzione dei padri è ormai nei nostri media un genere comico di successo. Non così altrove: «Dobbiamo fare di più per incoraggiare la paternità. Ciò che fa di te un uomo non è la capacità di generare un figlio. È il coraggio di crescerlo. Famiglie forti creano comunità forti». Quindi uno Stato forte. Chi l’ha detto? Benedetto XVI prima di dimettersi? Un conservatore impenitente?
Il presidente degli Stati Uniti, Obama, nel primo discorso sullo “Stato dell’Unione” dopo la rielezione.
Sono ora disponibili le prime reazioni della galassia di associazioni e istituzioni che si occupano negli USA di paternità, famiglia e educazione. Tutte piuttosto soddisfatte di come l’icona mondiale dell’opinione democratica abbia insistito sul ruolo centrale che il padre occupa in ogni strategia di rafforzamento dello Stato e ricordato come il suo indebolimento sia stato invece determinante nel rendere più fragile l’America.
Obama lo disse fin dall’inizio della sua presidenza, offrendo l’esperienza di un figlio cresciuto senza il padre, e tiene a ricordarlo agli americani. I quali d’altra parte lo sanno benissimo. Tanto da essersi ormai stufati di riderne nelle soap opera o reality televisivi, dove il tema del padre imbranato o inadempiente, dicono le ricerche di mercato, ha smesso da tempo di divertire. Anche perché, invece, preoccupa sempre più: il 91% dei padri e il 93 % delle madri pensano che la crisi della paternità sia grave ed abbia costi sociali ormai insopportabili (24 milioni di bambini crescono senza un padre).
La crisi delle coppie e delle famiglie indebolisce la classe media sulla quale riposa la forza degli Stati Uniti: questo pensa Obama, sulla base dei dati presentati dai diversi “Advisory Council” che raccolgono i dati sulla situazione economica e sociale cui si ispira la sua politica.
Il padre assente ha poi effetti devastanti sui gruppi più poveri, lasciati allo sbando dalla mancanza paterna.
La crisi del padre, pensa il democratico Obama, non nasce però da sola: è legata all’indebolimento del matrimonio. Insieme i due fenomeni mettono in pericolo il futuro e la prosperità del Paese.
Il benessere dei figli è infatti fortemente aiutato da rapporti tra i genitori forti e di buona qualità. Aiutare matrimoni sani e relazioni stabili, serve al benessere dei bambini e delle famiglie. E fa bene anche al bilancio dello Stato.
A guardare dentro le statistiche USA (pesce pilota dell’Occidente, che sempre indica dove si va se non si corregge la rotta), si scopre che l’assenza dei padri comincia presto.
Il 60% delle donne che partoriscono fra i 20 e i 24 anni non hanno un partner, nelle altre classi d’età le single sono il 40%. Nell’insieme un bambino su tre cresce in case senza padri (tra gli afroamericani, come Obama, i “senza padri” sono il 64%).
Uno Stato che non si limita alla chiacchiere, ma come gli Usa fa i conti dei propri disastri, scopre a quel punto di aver bisogno del padre: partner insostituibile non solo per le madri, ma anche per lo Stato, per la continuazione della vita sociale.
Le statistiche e i rapporti su cui si basano i discorsi di Obama mostrano che le famiglie in cui mancano i padri sono più povere. I bambini in condizione di povertà solo il 7.8% nelle coppie sposate, mentre salgono al 38% con le madri singole.
L’assenza del padre è poi un fattore di rischio rilevante in tutti gli altri problemi: dall’uso di droghe ai guai con la giustizia, ai problemi di salute, o di relazione.
Sembra proprio che il padre non sia una “costruzione culturale”, come si ripete spesso in Europa, ma una necessità dell’esistenza.


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dimanche, 07 octobre 2012

La fiducia riparte da noi

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Claudio RISE:

La fiducia riparte da noi

Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 1 ottobre 2012, www.ilmattino.it

La patologia più diffusa oggi? La sfiducia. E non è solo il frutto degli ultimi scandali, o della crisi. E’ qualcosa di sotterraneo, che si sta sviluppando lentamente, da anni, non solo in Italia. Sfiducia verso le autorità, lo Stato, i superiori. Ma anche verso i genitori, i figli. E, soprattutto, se stessi.

La corruzione è legata, nel profondo, anche a questo. Facciamo molta fatica a pensarci onesti. Sarà ben difficile diventarlo finché vediamo in questo modo noi stessi e gli altri.


Questa sfiducia porta con sé il pessimismo: se non mi fido di nessuno, la vita diventa più difficile. Ed alimenta la paura, lo stato emotivo in cui crescono ansia, e instabilità.

All’origine di siffatto scenario, che rende difficile superare le crisi e risanare persone e nazioni c’è un sentimento preciso: la sfiducia.


Sul perché sia diffuso oggi, le versioni sono molteplici. Una buona parte della psicoanalisi, soprattutto dagli anni 30 del Novecento in poi, ha messo sotto osservazione il rapporto del bimbo con la madre, dato che lì si sviluppa la fiducia (o sfiducia) verso gli altri, e il mondo. I cambiamenti nella famiglia, l’aspirazione femminile al lavoro, il trasferimento dalle campagne alle città, e molto altro, avrebbero reso meno accoglienti e più insicure le madri, e istillato questa fondamentale sfiducia nei figli.
Molti sogni di caduta, anche ripetuti da grandi, sarebbero legati alla fantasia (spesso riconosciuta da madri e padri) di lasciar cadere il figlioletto che hanno in braccio, inconsciamente percepita dai figli come pericolo.


Naturalmente, ciò non basta a spiegare la crescita della sfiducia, e delle diverse paure che questo non fidarsi alimenta.


Anche il crescente moltiplicarsi di contratti, di obblighi e diritti giuridicamente tutelati verso gli altri, paradossalmente aumenta l’insicurezza e la sfiducia. I genitori adempiranno gli standard correnti, illustrati dai media, o devo farli “richiamare” ai loro doveri da assistenti sociali, psicologi, magistrati, giornalisti?

Queste nuove possibilità, che sono in effetti anche protezioni, rendono però fragile fin dall’infanzia un rapporto di fiducia di cui lo sviluppo della personalità ha d’altra parte assoluta necessità.
Lo stesso accade per le innumerevoli altre tutele: sindacali, sanitarie, professionali, amministrative, affettive.


L’altro sarà davvero “in ordine”? O ci saranno in giro batteri, irregolarità, secondi fini?
Queste domande ci spingono ad uno stato psicologico molto vicino al disturbo paranoico, che nelle società di massa diventa sospetto generalizzato e infezione psichica collettiva. Tanto più pericolosa quanto più queste società apparentemente permissive e tolleranti non sviluppano nei propri membri senso critico e autocensure, ma autorizzano a trasferire sugli altri timori e inadeguatezze che percepiamo presenti già in noi stessi.


La mancanza di fiducia si rivela così essere la buccia di banana su cui sta pericolosamente scivolando la nostra società ex opulenta (come racconta tra gli altri la filosofa Michela Marzano che ha dedicato al tema il suo ultimo saggio: Avere fiducia).

Inutile, anzi controproducente, si rivela l’icona pubblicitaria della “trasparenza”. L’uomo, in quanto dotato di spessore e contenuti, non può essere trasparente. Deve, anzi, imparare a riconoscerli e difenderli dalle invasioni massmediatiche. Quando poi necessario ed utile a sé e agli altri, deve però impegnarsi nel cambiamento, senza aspettare di esservi richiamato dall’Autorità. Potrà così sviluppare una più tranquilla fiducia in se stesso. Base indispensabile per aver fiducia negli altri.

mercredi, 03 octobre 2012

Aujourd'hui, gouverner, c'est se faire voir...

Ex: http://zentropa.info/

La mise en scène de la vie privée des hommes publics est-elle un avatar de la personnalisation du pouvoir sous la Ve République ou traduit-elle une évolution plus profonde ?

Le pouvoir, royal ou républicain, a toujours été une représentation faite de signes, de symboles, d’images. Mais jamais il ne s’est résumé à cela. Il est verbe, mais aussi action, projet, décision. Aujourd’hui, la parole politique se croit performative. On s’imagine que dire, c’est faire ou que se montrer, c’est exister. Parfois oui, mais il y a toujours un réel qui ne se laisse pas faire.

Le renoncement à l’action patiente au profit de l’immédiateté de la parole et de la visibilité obscène de la posture a commencé dans les années 1980, quand Mitterrand a laissé le journaliste Yves Mourousi poser ses fesses sur son bureau de présentateur de TF1 lors d’un entretien en parler « chébran ». Avant lui, Giscard avait convoqué les médias pour jouer de l’accordéon.

Derrière cette volonté d’être « comme tout le monde » se cache mal la certitude de ne pas être n’importe qui. Les politiques, qui autrefois visaient à rassembler les Français, ne pensent plus qu’à leur ressembler. Au prix d’une coupure avec ce qu’Orwell appelait la « décence commune ». J’aime ce mot : commun, même s’il a été dévalué et sali par le communisme. Commun, cela évoque le bien commun, qui reste en principe la visée ultime de l’action politique ; et aussi le sens commun, qui n’est pas le bon sens auquel Sarkozy faisait appel à répétition, mais le sens partagé dans ce qu’on appelait autrefois une société.

Il y a donc une sorte de vulgarisation de la parole publique ?

Une mutation profonde, oui. Les politiques s’adressent à ceux qu’on ne peut plus vraiment appeler des citoyens ni des sujets, mais des individus de masse. Quelle honte qu’un Berlusconi dans un pays de haute culture, qu’un Sarkozy dans un pays de littérature revendiquent le parler vulgaire pour parler au « vulgaire », c’est-à-dire au peuple tel que le voient ceux qui se croient appelés à le séduire pour le dominer ! Les dirigeants parlent au peuple ? Non, les « people » parlent à ceux qui n’en seront jamais ; « people » désignant justement ceux que les gens du peuple à la fois envient parce qu’ils ont mieux réussi qu’eux, et méprisent parce qu’ils les devinent enfermés dans le peu d’être que leur laisse leur appétit d’avoir.

De même qu’il n’y a plus de différence entre vie privée et vie publique, la langue publique, autrefois proche du français écrit (Blum, de Gaulle), est non seulement une langue parlée, mais mal parlée. Une langue privée, pleine de sous-entendus égrillards, de dérapages « caillera », de mots empruntés au vocabulaire de l’économie ou du sport que l’on croit seuls compréhensibles par le public.

Est-ce la conséquence de l’hypermédiatisation de la démocratie ?

Au stade actuel, l’on ne médiatise plus seulement une politique mais l’homme politique lui-même, son image rectifiée parfois par la chirurgie esthétique et toujours par des conseillers en look. Au bout de cette double dégradation du pouvoir et de la parole, on voit aujourd’hui le ridicule des hommes politiques poussant la chansonnette dans les émissions de variétés, comme Copé ou Jospin. Vulgarité des puissants que résume la détestable expression répétée par les médias : « première dame de France ». A quand son inscription dans ce fourre-tout qu’est notre Constitution ?

La médiatisation a tué l’action publique. Gouverner, c’est prévoir, disait l’adage. Aujourd’hui, gouverner, c’est se faire voir. Un point, c’est tout. La politique était naguère une scène : meetings, estrades, arène du Parlement. Elle est devenue écran, miroir où gouvernants et gouvernés se regardent en reflets pixellisés.

La sphère politique n’obéit-elle pas à une forme banale d’individualisme contemporain ?

Les politiciens souffrent d’une dépendance qui ne leur est pas propre mais qui atteint chez eux la dimension d’une véritable addiction à l’image : ne se sentir être que si une caméra le confirme. La télévision est pour eux ce qu’est devenu le portable pour chacun de nous : un objet transitionnel rassurant. Culte du moi, narcissisme des petites différences, perte de tout trait singulier : la même dérive frappe les hommes politiques comme les hommes ordinaires. Le dévoilement - par eux-mêmes d’abord - de la vie privée des hommes publics est l’un des traits de cette culture de la perversion narcissique qui nous surprit sans nous faire rire lorsque naguère, devant les caméras, un premier ministre montra son vélo, un autre accepta de parler de fellation, et un président de la République, un été à Brégançon, n’hésita pas à exposer son pénis vigoureux à l’objectif des photographes.

Sans doute la psychopathologie des dirigeants a-t-elle changé comme celle de l’ensemble des individus dans nos sociétés postmodernes : de moins en moins de névrosés et de plus en plus de personnalités narcissiques, parfois de pervers. L’homme politique est sans doute « normal » (non au sens d’une règle morale, mais d’une norme statistique), lorsqu’il devient fou. Fou de lui-même comme tant d’individus aujourd’hui. « L’homme qui n’aime que soi, disait Pascal, quand il se voit ne se voit pas tel qu’il est mais tel qu’il se désire. » Le moi n’est pas toujours haïssable, mais lorsque, en politique, il prend la place du « je », il verse dans l’autopromotion du vide. Qui ne se souvient du « Moi président », anaphore quinze fois répétée par François Hollande, dans son débat avec Nicolas Sarkozy…

Le narcissisme est-il incompatible avec la démocratie ?

Dans les sociétés de narcissisme, les électeurs comme leurs élus sont centrés sur la réalisation persistante d’eux-mêmes au détriment de la relation aux autres, figés sur le présent et incapables de différer leur satisfaction. Peut-être les Français n’ont-ils que la classe politique qu’ils méritent.

Le « moi-isme » règne sur les écrans postmodernes. De Facebook à Twitter en passant par les reality-shows, tout le monde parle et personne ne dit rien. Comme le règne de l’autofiction dans la littérature exhibe l’auteur plus que son oeuvre, la vie intime de nos contemporains devient virtuelle. Il n’y a plus d’images privées, de significations privées. Il y a la même différence entre la démocratie représentative et la démocratie directe qu’entre un portrait et un instantané rectifié par Photoshop.

Je tiens à ce mot de représentation, essentiel à la démocratie. On disait autrefois : « faire des représentations » aux princes, pour désigner des critiques ou des demandes d’une société divisée et contradictoire. Cela fait place aujourd’hui, dans la démocratie participative et interactive, à la « présentation » de soi par soi. L’ère des médias désigne justement un état de fait où les médias ne médiatisent plus rien, mais transmettent vers le haut les résultats des sondages et vers le bas les « éléments de langage ». Les sondages, multipliés avant même de prendre une décision, et souvent dictant une décision, ne datent pas non plus de Sarkozy et de son conseiller, Patrick Buisson. Gérard Colé, conseiller de Mitterrand, avalisait déjà toutes les mesures gouvernementales, et cette emprise de la communication sur l’action permit aux Pilhan et Séguéla de servir la droite puis la gauche, ou inversement.

La politique n’a-t-elle pas besoin de récits, et le pouvoir, d’incarnation ?

Les grands récits sont morts avec le siècle passé : révolution, Etat, nation… Mais les politiques croient que les électeurs attendent toujours qu’on leur raconte non plus l’Histoire mais des histoires, comme aux enfants pour qu’ils s’endorment. De Gaulle ne disait pas aux Français ce qu’ils voulaient entendre, ni ce qu’il croyait qu’ils voulaient entendre, mais ce qu’il voulait leur faire entendre. L’image ment, mais elle fait rêver.

La démocratie a un pilier, disait Hannah Arendt, la séparation entre vie privée et vie publique. Or, on assiste aujourd’hui à un double mouvement : d’une part la publicisation de la vie privée, y compris amoureuse (inaugurée par Sarkozy, poursuivie par Hollande) ; de l’autre, la privatisation de la sphère publique sous l’effet à la fois du rétrécissement du domaine d’intervention de l’Etat et de la multiplication d’ « affaires » relevant, pour le moins, du conflit d’intérêts. Ce mouvement se double d’un autre, qui brouille plus encore les repères : d’une part la sexualisation de la vie des responsables politiques, alors que la sexualité est au plus intime de la vie privée ; d’autre part la politisation des questions sexuelles, comme en témoignent les projets de l’actuel gouvernement sur le harcèlement sexuel, le mariage gay, voire la suppression de la prostitution…

La démocratie commence par la reconnaissance de la nécessité d’un pouvoir légitime et, comme le dit le grand psychanalyste anglais Donald Winnicott, par « l’acceptation qu’il ne soit pas fait selon nos désirs mais selon ceux de la majorité ». Elle s’arrête quand le pouvoir ne se contente pas d’être obéi mais veut être aimé. Français, encore un effort pour être démocrates !

Michel Schneider

samedi, 12 mai 2012

The Origins of Manliness

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The Origins of Manliness


Ex: http://www.alternativeright.com/

by Jack Donovan
Milwaukee, OR: Dissonant Hum, 2012

Manliness rated high on ancient lists of the virtues; indeed, for the Romans, virtus designated both the general concept of virtue and manliness in particular. Today, as author Jack Donovan remarks, if manliness gets mentioned at all, it is usually made a vehicle for selling us on something else: “real men love Jesus” or “a real man would never hit a woman.”

How might we arrive at an objective understanding of manliness? The Way of Men looks to Homo sapiens’ environment of evolutionary adaptation, viz. life in small hunter-gatherer bands struggling for survival both with nature and with other similar bands. Civilization has not lasted long enough yet for us to become fully adapted to it.

The state of nature is not a world of individuals, as the early philosophers of liberalism imagined, but of cooperation in small groups or bands. The first aim of such cooperation is to establish and maintain possession of a territory for your band. Then you must guard the perimeter and acquire the means of sustenance—either by killing animals in the wild or by successfully raiding other bands.

Manliness, in the first instance, consists of whatever traits make for success at these tasks. Donovan calls them “tactical virtues,” and lists them as strength, courage, mastery, and honor. Strength and courage are more or less self-explanatory; mastery refers to competence in whatever skills are useful to one’s band: building, setting traps, making blades or arrows, and so on.

Honor in its most basic sense means “the primitive desire to hit back when hit, to show that you will stand up for yourself.” In a lawless situation, a man’s life may depend on his ability to make others afraid to harm or even show contempt for him, i.e., on avoiding any appearance of weakness or submissiveness. This raw form of honor can still be observed in prisons or amid Sicily’s onorevole società—i.e., among men who respect only force. With civilization, young men learn to honor their elders in spite of being physically able to beat them up. Gradually honor may come to be associated with such intangibles as knowledge or moral authority, but it never entirely escapes its origin in violence.

Donovan believes that the human male’s environment of evolutionary adaptation explains the modern man’s visceral disgust at flamboyant effeminacy in other men, something which several decades of homosexualist propaganda have not been able to alter. The explanation is that in a lawless situation, a man who rejects the male honor code brings shame upon his group and thereby weakens it. A man might rationalize this aversion or disgust by appealing, e.g., to the biblical condemnation of homosexuality, but his behavior has a much more visceral origin.

The author insists on the distinction between manliness and moral “goodness” in general:

In Shakespeare’s Henry the Fifth, the King promises his enemies that unless they surrendered, his men would rape their shrieking daughters, dash the heads of their old men, and impale their naked babies on pikes. [Yet] I can’t call Henry an unmanly character with a straight face.

Hollywood is also well aware of men’s abiding fascination with amoral “tough guys.”

As civilization develops, combat is replaced by the safer, ritualized combat of athletic contests. Many men come to experience masculinity vicariously, for the most part. An increasing number turn their masculine instincts inward, and focus on “self-mastery, impulse control, disciplined behavior and perseverance.” Raw masculinity is tempered into manliness and assigned a place beside justice, temperance and other virtues not specific to the male sex.

It is hard to deny that much of this represents a gain: the Victorian gentleman is surely an improvement over the Paleolithic hunter, not to mention MS-13. But something of masculinity does get sacrificed along the way, and the transition is difficult for many men to make. Donovan cites the Epic of Gilgamesh, composed back in the days when urban life was something new: “Here in the city man dies oppressed at heart, man perishes with despair in his heart.” Another character complains of growing weak and being oppressed by idleness.

As Cochran and Harpending have shown (see The Ten Thousand Year Explosion, pp. 65ff), human beings have adapted to settled civilization to some degree in the ages since Gilgamesh—but few have adapted enough to feel at their ease amid the unprecedented effeminacy of the present age.

In the future that globalists and feminists have imagined, only a few people will do anything worth doing. For most of us there will only be more apologizing, more submission, more asking for permission, more examinations, more certifications, background checks, video safety presentations, counseling and sensitivity training.

In short, we are becoming the society William James predicted “of clerks and teachers, of co-education and zoophily, of consumers’ leagues and associated charities, of industrialism unlimited and feminism unabashed.”

In one of the most interesting sections of his book, Donovan discusses two species of great ape: the Chimpanzee and the Bonobo. These were formerly considered varieties of a single species: they look very similar, are interfertile, and their territories are contiguous. Yet closer examination revealed that they differ radically in their behavior.

The gist of the difference is that Chimp society is organized along male lines while Bonobos behave like proto-feminists. Male Chimps form alliances, females don’t. Among Bonobos, it is females that maintain social networks, while males don’t. Male Chimps batter their mates; male Bonobos don’t. Female Chimps acknowledge male dominance; female Bonobos don’t. Male Chimps patrol the border of their territory and make raids on other groups; male Bonobos do neither.

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What causes these differences? It turns out that Chimps must hunt to survive; Gorillas and other rivals take most of the vegetable nourishment in their territory. Bonobos have no such rivals, so they simply live off the abundant vegetable food available to them. Female Bonobos can provide for themselves, so males are less valuable to them and less respected by them. While Chimps mate to produce offspring, Bonobos are “sexually liberated,” mating for pleasure and socialization. (The female great ape is no more “naturally monogamous” than the female human.) Homosexual behavior is also common among them.

In short, the “Bonobo masturbation society,” as Donovan terms it, is the natural end-product of feminism, which is a natural response to a long run of abundance and safety. A lot of effort is being put into selling men on a vision of the future as more of what we have today: more food and drink, more security, more labor-saving devices, more vicarious sex, more vicarious masculinity, more real effeminacy.

The Way of Men closes with some recommendations for men who are not thrilled by this prospect. The author believes that the future mapped out for us is “based on unsustainable illusions and lies about human nature.” It is already falling, and only needs a push. Men will not be able to challenge the system directly, but they can encourage fission around the edges. As central authority loses the loyalty of an increasing number of men, we are likely to witness a kind of social atavism, as men begin forming small groups—gangs, in fact—to protect their interests. Eventually nature will triumph, as it always does, and men will “follow their own way into a future that belongs to men.”

mercredi, 21 mars 2012

I miti che generano depressione

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I miti che generano depressione

di Claudio Risé

Fonte: Claudio Risè [scheda fonte]

Un europeo su dieci è depresso. Le donne il doppio degli uomini, e i giovani più degli adulti. Lo rivela l’ultimo sondaggio importante svolto in Italia, Francia, Inghilterra, Spagna e Germania, che conferma i dati precedenti. Sappiamo così che non aumenta. Ma cosa succede quando si entra in depressione, e perché accade?
Alcuni aspetti diventano sempre più evidenti: ad esempio i tratti “sociali” della depressione, i suoi legami col lavoro, la famiglia, e il modello di sviluppo attuale.
I depressi vengono messi in difficoltà dal carattere “performativo” del nostro modello sociale che richiede in continuazione di “funzionare” bene nei diversi campi, dal lavoro alla sessualità.
Ridurre la persona a produttore (di denaro, successo, piacere), suscita in molti l’ansia di “misurare” direttamente quanto siano adeguati alle richieste degli altri e del collettivo. A questo punto, se non si è sostenuti da una forte autostima, e da molta concretezza e umiltà, è facile deprimersi.
Il modello della “persona di successo” è, infatti, per definizione, ideale e irraggiungibile, come dimostrano le stesse biografie delle star, che rivelano in continuazione improvvisi squarci di infelicità, disordine, o vere e proprie malattie.
La bellezza, l’essere attraenti, è una dote di partenza, non è completamente costruibile con la chirurgia o altri artifici: dà più sicurezza apprezzarsi per come si è che inseguire una perfezione inesistente.
L’altro grande Idolo del nostro modello culturale poi, il potere, richiede a sua volta (per solito) grandi durezze e sacrifici per ottenerlo, (magari sul piano della coerenza, gusti, o moralità personali), e prima o poi va necessariamente lasciato, o comunque viene tolto.
Adeguarsi a queste richieste collettive: performance elevate, bellezza, potere, suscita dunque di per sé prima ansia, e poi depressione. Si diventa come bambini piccoli e esageratamente prepotenti, che su una giostra vogliano raggiungere il cavallo di legno che c’è davanti invece di godersi il loro giro. E quando il giro è finito piangono.
Da questo punto di vista la depressione, se attraversata con consapevolezza, può invece essere un importante passaggio formativo e una straordinaria scuola di vita, come ha ricordato nei suoi lavori (tra cui l’ultimo: Elogio della depressione) Eugenio Borgna, che ha introdotto in Italia la psichiatria fenomenologica.
Certamente non è facile, come del resto buona parte delle esperienze formative dell’esistenza.
Il rifiutare questo “lato difficile” della formazione personale, e il cercare di aggirarlo con tecniche, o con vere e proprie menzogne, come la “vendita del successo” in cui consiste molta pseudo educazione contemporanea, non fa altro che produrre nuove depressioni e altri disagi. Tra questi, è piuttosto interessante l’attuale svalutazione mediatica e culturale dell’importanza nella vita delle persone di un rapporto di coppia stabile.
Del consumismo complessivo e della relativa esaltazione dell’individuo, col suo fascino e potere, fa parte infatti la celebrazione della fine della famiglia-coppia stabile, sostituita da famiglie aperte e variabili, inframmezzate da lunghi periodi di stato “single”. Peccato però che proprio le persone che vivono da sole, single, divorziati, separati o vedovi siano nel gruppo di testa dei depressi (in Europa e nel mondo).
Lo stabile e profondo rapporto d’amore con l’altro, così come la ricca e complessa socialità della famiglia, col suo dialogo tra generazioni e società circostante, sostiene infatti, oggi e da sempre, la formazione e sviluppo della persona. E quindi il suo benessere.


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lundi, 20 février 2012

Freud's Follies: Psychoanalysis as a Religion, Cult, and Political Movement

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Freud's Follies: Psychoanalysis as a Religion, Cult, and Political Movement

Kevin MacDonald

Ex: http://www.wermodandwermod.com/

We begin to grasp that the deviser of psychoanalysis was at bottom a visionary but endlessly calculating artist, engaged in casting himself as the hero of a multivolume fictional opus that is part epic, part detective story, and part satire on human self-interestedess and animality. This scientifically deflating realization . . . is what the Freudian community needs to challenge if it can. (Frederick Crews, The Memory Wars: Freud's Legacy in Dispute, pp. 12-13)

Since its inception, psychoanalysis has been denounced as a pseudoscience. By the early 1960's philosophers of science such as Michael Polanyi, Karl Popper, Ernst Nagel and Sidney Hook had noted the self-authenticating nature of psychoanalytic assertions. More recently, highly critical accounts of psychoanalysis from Henri Ellenberger (1970), Frank Sulloway (1992/1979), Adolph Grünbaum (1984), Frank Cioffi (1969, 1970, 1972), and, most recently, Malcolm Macmillan (1991) have appeared.

These critiques have been entirely irrelevant to the perpetuation of psychoanalysis as an intellectual movement. That in itself says a great deal, and we will have to investigate why this might be so.

The good news is that there are signs that psychoanalysis may finally be on the ropes, pummeled most effectively by the work of Frederick Crews. Crews published three book review essays in the prestigious New York Review of Books (NYRB) on recent revisionist scholarship on psychoanalysis and the recovered memory movement. Predictably, the Crews' articles provoked an impassioned response'one of the largest in NYRB history'from the psychoanalytic and recovered memory establishments. Fortunately, the NYRB has published almost the entire exchange in book form under the title The Memory Wars: Freud's Legacy in Dispute (Crews et al, 1995).

One tip off to the pseudoscientific nature of psychoanalysis is to describe its institutional structure. In a real science there are no central organizations that function to ensure doctrinal conformity, expel those who deviate from the accepted truth, and present a united front to the world. It has long been apparent to observers, however, that this is exactly what psychoanalysis has done and continues to do. As Crews notes, psychoanalysis 'conducted itself less like a scientific-medical enterprise than like a politburo bent upon snuffing out deviationism' (Crews, 1995, p. 110). Perhaps the first person to notice and be repelled by this aspect of psychoanalysis was the famous Swiss psychiatrist Eugen Bleuler. Bleuler briefly flirted with psychoanalysis. But when he left the psychoanalytic movement in 1911, he said to Freud 'this 'who is not for us is against us,' this 'all or nothing,' is necessary for religious communities and useful for political parties. I can therefore understand the principle as such, but for science I consider it harmful.' (in Gay 1987, pp. 144-145). The quotation is telling. To become a psychoanalyst was like joining a religious or political movement and not at all like becoming a scientist.

The apex of the authoritarian, anti-scientific institutional structure of psychoanalysis was the Secret Committee of hand-picked loyalists sworn to uphold psychoanalytic orthodoxy, described by Phyllis Grosskurth in The Secret Ring: Freud's Inner Circle and the Politics of Psychoanalysis: By insisting the Committee must be absolutely secret, Freud enshrined the principle of confidentiality.

The various psychoanalytic societies that emerged from the Committee were like Communist cells, in which the members vowed eternal obedience to their leader. Psychoanalysis became institutionalized by the founding of journals and the training of candidates; in short an extraordinarily effective political entity. (Grosskurth 1991, p. 15)

There were repeated admonitions for the Committee to present a 'united front' against all opposition, for 'maintaining control over the whole organization', for 'keeping the troops in line' and 'reporting to the commander' (Grosskurth 1991, p. 97). Consider Otto Rank's astonishing letter of 1924 in which he attributes his heretical behavior in questioning the Oedipal complex to his own neurotic unconscious conflicts, promises to see things 'more objectively after the removal of my affective resistance,' and is thankful that Freud 'found my explanations satisfactory and has forgiven me personally' (Grosskurth 1991, p. 166). Grosskurth notes how 'Freud seems to have acted as the Grand Inquisitor, and Rank's groveling 'confession' could have served as a model for the Russian show trials of the 1930's' (Grosskurth 1991, p. 167). Freud viewed the entire episode as a success; Rank had been cured of his neurosis 'just as if he had gone through a proper analysis' (quoted in Grosskurth 1991, p. 168).

The staunch Freud disciple, Fritz Wittels (1924) decried the 'suppression of free criticism within the Society.... Freud is treated as a demigod, or even as a god. No criticism of his utterances is permitted.' He tells us that Freud's Drei Abhandlungen zur Sexualtheorie is 'the psychoanalyst's Bible. This is no mere figure of speech. The faithful disciples regard one another's books as of no account. They recognize no authority but Freud's; they rarely read or quote one another. When they quote it is from the Master, that they may give the pure milk of the word' (p. 142-143). Freud 'had little desire that [his] associates should be persons of strong individuality, and that they should be critical and ambitious collaborators. The realm of psychoanalysis was his idea and his will, and he welcomed anyone who accepted his views' (p. 134). The others were simply expelled.

All of the major figures around Freud appear to have been extremely submissive personalities who absolutely revered Freud as father figure. Indeed, the members appear to have self-consciously viewed themselves as loyal sons to Freud the father-figure (complete with sibling rivalry as the 'brothers' jockeyed for position as the 'father's' favorite), while Freud viewed his close followers as his children, with power to interfere in their personal lives (Grosskurth 1991, p. 123; see also Hale 1995, p. 29).

Ernest Jones, Freud's worshipful biographer and the official head of the movement after the expulsion of Jung, 'grasped the fact that to be a friend of Freud's meant being a sycophant. It meant opening oneself completely to him, to be willing to pour out all one's confidences to him' (Grosskurth 1991, 48). Masson (1990, 152) suggests that 'Jones believed that to disagree with Freud (the father) was tantamount to patricide (father murder).' When S��ndor Ferenczi, a central figure in the inner circle of psychoanalysis during the 1920's, disagreed with Freud on the reality of childhood sexual abuse, Jones called him a 'homicidal maniac' (p. 152).

Regarding Ferenczi, Grosskurth (1991) notes that '(t)he thought of a disagreement with Freud was unbearable ...' (p. 141); 'There were occasions when he rebelled against his dependency, but always he returned repentant and submissive' (pp. 54-55). Similarly, Masson (1990) describes Kurt Eissler, the closest confidant of Anna Freud's inner circle in the 1960's, by saying that 'What he felt for Freud seemed to border on worship' (p. 121). '(H)e held one thing sacred, and hence beyond criticism: Freud' (p. 122). It was common among the disciples to imitate Freud's personal mannerisms, and even among analysts who did not know Freud personally, there were 'intense feelings, fantasies, transferences, identifications' (Hale 1995, 30).

Evidence for the essentially cult-like nature of psychoanalysis is the unique role of disciples who are able to trace themselves back to Freud in a direct line of descent. 'The idea of being a chosen disciple, privileged to have direct contact with the master, has survived and is continued in the procedures of many of the training programs of the institutes' (Arlow & Brenner 1990, 5; see also Masson 1990, 55, 123). 'The intensely filial relationships to Freud of the first generation were gradually replaced by a highly emotional relationship to a fantasied Freud, still the primal founder, but also to organizations, to peers, to superiors in the institute hierarchy'above all'to the training analyst, the training analyst's analyst, and, if possible, back to Freud and his circle became a determinant of psychoanalytic prestige' (Hale 1995, 32).

Unlike a real science, there is a continuing role for Freud's writings as what one might term the sacred texts of the movement, both in teaching and in the current psychoanalytic literature. Arlow and Brenner (1988) note that Studies of Hysteria and The Interpretation of Dreams are almost 100 years old, but continue to be standard texts in psychoanalytic training programs. They also describe 'the recurrent appearance in the analytic literature of articles redoing, extending, deepening, and modifying Freud's early case histories' (p. 5). Indeed, it is remarkable just to simply scan psychoanalytic journal articles and find how many references there are to Freud's work which was written well over 60 years ago. In examining 6 issues of Psychoanalytic Quarterly from 1988-1989, I found 92 references to Freud in 33 articles. Only 4 articles had no references to Freud, and of these, one had no references at all and one had only one reference. As Wittels (1924, 143) noted early on: 'The faithful disciples regard one another's books as of no account. They recognize no authority but Freud's; they rarely read or quote one another. When they quote it is from the Master, that they may give the pure milk of the word.'

The continued use of Freud's texts in instruction and the continuing references to Freud's work would not be conceivable in a real science. While Darwin is venerated for his scientific work as the founder of the modern science of evolutionary biology, studies in evolutionary biology only infrequently refer to his writings because the field has moved so far beyond his work. The Origins of Species and The Descent of Man are important texts in the history of science, but are not used for current instruction. Moreover, central features of Darwin's account, such as his views on inheritance, have been completely rejected by modern workers. With Freud, however, there is continuing slavish loyalty to the master, at least within an important subset of the movement.

Besides Rank, other deviators, Fleiss, Adler, Jung, and Ferenczi, were diagnosed as suffering from a variety of psychiatric disorders and therefore needing further psychoanalysis to bring them back to the true faith. Freud 'never tired of repeating the now notorious contention that the opposition to psychoanalysis stemmed from 'resistances'' arising from emotional sources (Esterson 1993, 216). He attributed Jung's defection to 'strong neurotic and egotistic motives' (quoted in Gay 1988, 481). Even Peter Gay, the psychoanalytic loyalist and historian of the movement, writes that 'These ventures into character assassination are instances of the kind of aggressive analysis that psychoanalysts, Freud in the vanguard, at once deplored and practiced. This ... was the way that analysts thought about others, and about themselves.' The practice was 'endemic among analysts, a common professional deformation' (1988, p. 481).

This practice continues to this day. A common thread of the letters sent by the many aggrieved psychoanalysts in response to Crews' articles was that they were 'composed in a state of bitter anger by a malcontent with a vicious disposition' (Crews, 1995, p. 293). Crews' Freud bashing was typically explained in terms of botched transferences and Oedipal complexes gone awry. Another recent case is that of Jeffrey Masson (see Masson 1990) who suffered similar questionings of his sanity for challenging the central Freudian dogma of the Oedipal complex.

None of this is new to people even marginally acquainted with the scholarship on psychoanalysis. But it bears repeating because psychoanalysis, unlike a scientific theory but very much like certain religious or political movements, has essentially been immune from attacks leveled at it either from inside or outside the movement. Insiders who dissented from central doctrines were simply expelled and often went on to found their own psychoanalytically-oriented sects, typically with the same disregard for canons of scientific method as the parent religion. There is a long line of such expelled dissenters in the history of psychoanalysis, and the list continues to lengthen with the recent expulsion of Jeffrey Masson. Moreover, the central core of loyalists that has always existed in psychoanalysis functions to preserve the image of Freud as a heroic scientist to the point that many of Freud's papers have been locked away from the prying eyes of scholars for periods extending as far ahead as the 22nd Century.

The entire enterprise begins to appear more and more like an authoritarian religious cult than a scientific movement. Indeed, several authors have pointed out that psychoanalysis has many features in common with brainwashing (Bailey 1960, 1965; Salter 1996). Frank Sulloway (1979b) describes the indoctrination characteristic of training analyses in which any objection by the analysand is viewed as a resistance to be overcome. And even Shelly Orgel (1990), who remains a defender of the psychoanalytic faith, writes of the feelings of many contemporary analysands that their analysts had behaved aggressively toward them, turning them into devoted and passive followers of their highly idealized analyst, a role that was facilitated by the 'unquestioned authority' (p. 14) of the analyst.

Jeffrey Masson (1990) provides fascinating insight into psychoanalysis as thought control and aggression. Masson's training analysis involved a completely one-sided relationship in which the analyst had all of the power and in which the trainee was expected to put up with any and all indignities. Leaving the training analyst would have meant giving up psychoanalysis because the training analyst would claim that the trainee was unfit for a career as a psychoanalyst. The result of the analysis was an idealization of the training analyst and expressions of fealty regarding the worth of the training analyst's writings. Masson was more or less blackmailed into agreeing to include his own training analyst's name on a paper he was writing or be forced to re-enter analysis (pp. 83-83). Masson comments that 'Being in such an analysis is like growing up with a despotic parent' (p. 86), since the qualities it requires in the prospective analysts are meekness and abject obedience.

I suggest that the inculcation of passive and devoted followers via the aggression and thought control represented by psychoanalysis has always been an important aspect of the entire project. At a deep level, the fundamentally pseudoscientific structure of psychoanalysis implies that disputes cannot be resolved in a scientific manner, with the result that, as John Kerr (1992) notes, the only means of resolving disputes involves the exercise of personal power. The result was that the movement was doomed to develop into a mainstream orthodoxy punctuated by numerous sectarian deviations originated by individuals expelled from the orthodox movement. These heretical offshoots then replicated the fundamentally irrational pseudoscientific structure of the original. '(E)ach major disagreement over theory or therapy seemed to require a new validating social group, a psychoanalytic tradition that recent splits within Freudian institutes seem only to confirm' (Hale 1995, 26). Perhaps the most bizarre such offshoot was the movement initiated by Wilhelm Reich's, well-covered in Joel Carlinsky's Skeptic (Vol. 2, No. 3) article 'Epigones of Orgonomy.'

All of this is well-known, but there are several aspects of the recent controversy that are new. First, recent scholarship on psychoanalysis shows not only that psychoanalysis was never more than a pseudoscience but that Freud engaged in scientific fraud from the get-go in developing his theories. Allen Esterson's (1992) Seductive Mirage: An Exploration of the Work of Sigmund Freud demonstrates convincingly that Freud's patients did not volunteer any information on seduction or primal scenes at all. The seduction stories that provide the proffered empirical basis of the Oedipal complex were in fact a construction by Freud who then interpreted his patients' distress on hearing his constructions as confirmation. Freud then deceptively obscured the fact that his patients' stories were reconstructions and interpretations based on his a priori theory. He also retroactively changed the identity of the fancied seducers from non-family members (servants, etc.) when his Oedipal story required fathers instead.

Esterson provides numerous other examples of deception (and self-deception) and notes that they were typically couched in Freud's brilliant and highly convincing rhetorical style. And because of the reconstructive, interpretive manner of theory construction, the authority of the psychoanalyst became the only criterion of the truth of psychoanalytic claims. The movement, in order to be successful, would have to be, of necessity, highly authoritarian'a point brought out most forcefully in John Kerr's (1992) A Most Dangerous Method: The Story of Jung, Freud, and Sabina Spielrein. The movement was authoritarian from the beginning and has remained so throughout its history.

Now 100 years after its inception, the theory of the Oedipal complex, childhood sexuality, and the sexual etiology of the neuroses remain without any independent empirical validation and play no role whatever in mainstream developmental psychology. From an evolutionary perspective, the idea that children would have a specifically sexual attraction to their opposite sex parent is extremely implausible, since such an incestuous relationship would result in inbreeding depression (see MacDonald 1986). The proposal that boys desire to kill their fathers conflicts with the general importance of paternal provisioning of resources in understanding the evolution of the family (MacDonald, 1988; 1992a,b): Boys who had succeeded in killing their fathers and having sex with their mothers would not only be left with genetically inferior offspring, they would also be deprived of paternal support and protection. Modern developmental studies indicate that many fathers and sons have very close, reciprocated affectional relationships beginning in infancy, and the normative pattern in Western societies is for mothers and sons to have very intimate and affectionate, but decidedly non-sexual relationships. Most violence occurs with adoptive relatives (Daly & Wilson, 1981).

The continued life of these concepts in psychoanalytic circles is testimony to the continuing unscientific nature of the entire enterprise. Indeed, Kurzweil (1989, 89) notes that 'In the beginning, the Freudians tried to 'prove' the universality of the Oedipus complex; later on, they took it for granted. Ultimately, they no longer spelled out the reasons for the pervasiveness of childhood sexuality and its consequences in the cultural monographs: they all accepted it.' What started out as a speculation in need of empirical support ended up as a fundamental a priori assumption.

Another trend in recent scholarship is the increasing attention paid to the ethical dimensions of psychoanalysis as Freud actually practiced it. Freud seems to have been remarkably indifferent to his patient's suffering, but his ethical lapses extend far beyond a lack of empathy. Crews recounts the case of Horace Frink, an American psychoanalyst who was having an affair with a bank heiress. Freud diagnosed Frink as a latent homosexual (!) and advised him to divorce his wife and marry the heiress, with the stated aim of tapping into the heiress' funds for a financial contribution to psychoanalysis. To make the plan work, the heiress had to divorce her husband as well. All of this came about, but the two abandoned spouses were devastated and soon died, Frink's new wife sued for divorce, and Frink himself sank into depression and repeated attempts at suicide.

And then there is the case of Dora Bauer. In what could pass as a story line on a daytime soap opera, Freud diagnosed the teen-aged Dora as suffering from hysteria for refusing to have a sexual relationship with a married man, Herr K., as a sort of quid pro quo so that her father could continue to have an affair with Herr K.'s wife. Crews comments that 'In short, a sexually and morally uninhibited [Dora] rounded into psychic trim by Freud, would have been of service to both her father and Herr K., the two predatory males who, unlike any of the women in the story, basked in the glow of Freud's unwavering respect' (Crews, 1995, p. 52). The Dora case is typical also in that the patient's diagnosis was based entirely on preconceived ideas and circular reasoning in which the patient's negative emotional response to the psychoanalytic hypothesis was construed as evidence for the hypothesis.

A third aspect of recent scholarship focuses on the very pernicious effect psychoanalysis has had on psychotherapeutic practice, particularly the phenomenon of the Recovered Memory Therapy (RMT). Crews terms RMT the stepchild of psychoanalysis. At the time when the articles originally appeared in the NYRB, Crews was content to claim only a genealogical relationship between psychoanalysis and RMT. He now documents a much closer relationship between the two movements. A significant number of psychoanalysts are now rejecting the orthodox psychoanalytic theory that claims of infantile sexual abuse are illusory manifestations of Oedipal desires. These renegade psychoanalysts are now in fact adopting Freud's earlier seduction theory of 1896 in which neurosis was conceptualized as the result of actual sexual abuse. Crews notes, Freud developed this theory in the same manner as he did the Oedipal story that replaced it: by making suggestions to patients and doggedly persisting in his explanation until the patient acknowledged the 'truth' of the psychoanalytic explanation. Crews emphasizes that there is no end to the possible harmful social and moral influences of such a theory in the hands of its pseudoscientific practitioners, including bankruptcy, breaking up of families, and imprisonment of family members, all of which have been well described in John Hochman's Skeptic article (Vol. 2, #3).

Because of its belief in the reality of memories of childhood sexual abuse, the RMT movement must be viewed as a psychoanalytic heresy. As with all of the previous psychoanalytic heresies, however, RMT shares a commitment to a methodology that results in self-validation of theoretical claims. Unverifiable phenomena have been at the very center of psychoanalysis and its intellectual offspring from the beginning. The following quotation from Freud is an exemplar of the type of attitude that carries over into the RMT movement:

The work keeps on coming to a stop and they keep on maintaining that this time nothing has occurred to them. We must not believe what they say, we must always assume, and tell them, too, that they have kept something back.... We must insist on this, we must repeat the pressure and represent ourselves as infallible, till at last we are really told something.... There are cases too in which the patient tries to disown [the memory] even after its return. 'Something has occurred to me now, but you obviously put it into my head.' ... In all such cases, I remain unshakably firm. I ... explain to the patient that [these distinctions] are only forms of his resistance and pretexts raised by it against reproducing this particular memory, which we must recognize in spite of all this. (SE, 2:279-280; in Crews, p. 209)

Recently the RMT movement has coalesced around the assertion that sexually abused subjects experience a dissociation'a withdrawal of the victim's sense of self from the scene of the trauma. As Crews points out, dissociation is the perfect psychoanalytic-style vehicle for creation of a pseudoscience, since there is no way to disprove its existence and recovered memories never need be tested by comparing them with conscious memories. After all, if children dissociate themselves from the experience, one could not expect them to have any memories of the event.

As a result, the therapist may suppose that the patient had experienced sexual trauma even without any external evidence or memory of the event. Recovered Memory Therapists, in the words of one such practitioner, 'must validate the patient's belief that abuse occurred, or risk reenacting the role of denying parent, which may have enabled the abuse in the first place' (Crews, p. 25n21). The technique ensures validation and indeed finds a moral rationale for insisting on validation. But it cannot provide even the beginnings of a search for truth.

Several spectacular case studies illustrate the pathetic consequences of this pseudoscientific technique. That of Eileen Franklin Lipsker is particularly fascinating because Lipsker has more recently 'remembered' several other crimes that could not have possibly occurred. Crews shows that even before this turn of events Lipsker had developed increasingly bizarre 'memories' about her father, including a murder that no one else, including the police, had heard about and a supposed rape by Eileen's godfather that was aided by the father. The 'memories' were gradually elaborated as a result of the suggestions of a psychotherapist and their veracity attested to by Lenore Terr, a professor of psychiatry at the University of California-San Francisco. Terr used the aura of science surrounding her academic affiliation to convince the jury that that an expert like herself could distinguish authentic from non-authentic repressed memories.

Then there is the fantastic case of the Ingram family of Olympia, Washington in which Paul Ingram confessed to a myriad of crimes whose memory he had completely repressed, including repeatedly raping both his daughters and one son, getting his daughters to perform sexual favors for his friends, torturing the girls, getting his wife to have sex with animals, and murdering and cannibalizing a great many babies at Satanic rituals. The truly remarkable thing about this example is the willingness of people to be convinced of the bizarre and impossible'a phenomenon that Skeptic readers are only too familiar with. The belief among a significant number of professionals in psychology that such repressed memories are a commonplace greatly facilitates the public's credulity. No fewer than five psychologists and counselors encouraged Ingram in his hallucinations. However, a skeptical psychologist finally asked Ingram about a completely fictitious accusation that Ingram had encouraged his children to have sex while he watched. Sure enough, the next day Ingram came up with a highly detailed repressed memory of watching his children have sex. Ingram, who pleaded guilty to the crimes after belatedly coming to believe in his innocence, is now serving 20 years in prison for 6 counts of child molestation.

Like psychoanalysis itself, RMT has become a political movement bent on enforcing an official orthodoxy. Indeed, given the history of psychoanalysis, it is not in the least surprising that RMT would likewise be an authoritarian political movement. A leading proponent of RMT, Judith Lewis Herman, states that 'Advances in the field occur only when [women] are supported by a political movement powerful enough to legitimate an alliance between investigators and patients and to counteract the ordinary social processes of silencing and denial' (Crews, p. 160). RMT has been behind lengthening the statutes of limitations in some states to periods of 30 years or more to provide enough time for repressed memories of crimes to surface. And, as with any such political movement, it seems superfluous to note that big money is involved, in the case of RMT ranging from fees for therapy, the publication industry, and the litigation industry spawned by this movement.

Perhaps the most notable thing about the uproar over Crews' book is that much of its importance stems from where his articles were originally published, and that says a lot. The original articles were published in the NYRB, that bastion of the intellectual left, which, as Crews notes, is 'almost like pet owners who had negligently or maliciously consigned their parakeet to the mercies of an ever-lurking cat' (Crews, 1995, p. 288). The implication is that publications like the NYRB have been instrumental in propagating psychoanalytic and similar doctrines as scientifically and intellectually reputable for decades, and it also suggests that had Crews published his articles in a less visible and less politicized medium they could have been safely ignored as has commonly been the practice over the long history of psychoanalysis.

To this we must add a discussion of the very central role of psychoanalysis in the intellectual left of this century and the role of publications like the NYRB in maintaining and nourishing the scientific veneer of psychoanalysis. The influence of psychoanalysis has hardly been confined to psychotherapeutic practice, but has been a pervasive influence on 20th-century Western culture. In the eyes of many, Freud is the most towering intellectual figure of the century, second perhaps only to Marx.

For his part, Crews seems to regard the influence as entirely benign, so much so that he thinks psychoanalysis may have been justified because of its cultural influences even if it is entirely lacking as a scientific enterprise. He states that there is 'some merit' to the idea that psychoanalysis and its practitioners exercised a benign cultural influence by ridding psychiatry of 'sinister theories of hereditary degeneration and racial inferiority,' and by 'their candor about sex, their cultivation of a developmental perspective, their addressing of the problems and opportunities posed by transference, and their belief in deep and intricate continuities among a patient's disparate productions of symptom and language.... To be progressive, after all, a psychological movement needn't put forward accurate hypotheses; it need only raise useful new questions and attract followers who are eater to put aside the older dispensation' (p. 70-71).

But whether one views the cultural influences of psychoanalysis as benign is largely a political, rather than a scientific matter. Psychoanalysis never, at any stage of its history, approached the status of a scientific discipline. What was really central to psychoanalysis and why it seems impervious to all rational objections is that first and foremost psychoanalysis achieved and retained its status over the decades because it had become a pillar of the intellectual and cultural left, what Paul Hollander (1991) has dubbed 'the adversary culture.'

There is in fact a very long association between psychoanalysis and the political and cultural left. Support of radical and Marxist ideals was common among Freud's early followers. Leftist attitudes have been common in later years among psychoanalysts (Hale 1995, 31; Kurzweil 1989, 36, 284), among the groups in Berlin and Vienna during the post-World War I era (Kurzweil 1989; 46-47), in the post-revolutionary Soviet Union where all of the top psychoanalysts were Bolsheviks and Trotsky supporters and were among the most powerful political figures in the country (Chamberlain 1995), and in America from the 1920's to the present (Torrey 1992, 33, 93ff; 122-123). Given the institutional structure of psychoanalysis as an authoritarian political movement, one is left with the conclusion that one of the century's major intellectual and cultural forces was in fact a highly disciplined political movement masquerading as science.

Psychoanalysis has proved to be a veritable treasure trove of ideas for those intent on developing radical critiques of Western culture, beginning with Freud's own Totem and Taboo and Civilization and Its Discontents. Recent Freudian scholarship shows very clearly that Freud tended to make dogmatic claims about the source of his patients' unhappiness based on nothing more than his own suggestions. His failure to follow even the minimum standards of scientific or rational intellectual inquiry extended to his cultural writings as well. Freud's wider speculations on human culture rest on a number of extremely naive, pre-scientific conceptualizations of human sexual behavior and its relation to culture. Particularly outrageous was Freud's 'primal horde' story of how over many generations sons had killed their fathers in order to mate with their mothers until Oedipal guilt had forced them to repress this activity. The theory is not only completely speculative and indeed attempts to explain a non-existent phenomenon'the Oedipal complex, but also requires Lamarckian inheritance, a theory that, at least by the time of Civilization and Its Discontents (where the doctrine was reaffirmed), had been completely rejected by the scientific community.

This was a self-consciously speculative theory, but Freud's speculations clearly had an agenda. Rather than provide speculations which reaffirmed the moral and intellectual basis of the culture of his day, his speculations were an integral part of his war on culture'so much so that he viewed Totem and Taboo as a victory over Rome and the Catholic Church (Rothman & Isenberg, 1974). In Freud's eyes he was the Carthaginian general Hannibal fighting the evil Romans that to him represented Western civilization. Peter Gay notes that Freud was proud of his enemies'the persecuting Roman Catholic Church, the hypocritical bourgeoisie, the obtuse psychiatric establishment, the materialistic Americans'so proud, indeed, that they grew in his mind into potent specters far more malevolent and far less divided than they were in reality. He likened himself to Hannibal, to Ahasuerus, to Joseph, to Moses, all men with historic missions, potent adversaries, and difficult fates. (Peter Gay 1988, p. 604)

Gay states that 'A charged and ambivalent symbol, Rome stood for Freud's most potent concealed erotic, and only slightly less concealed aggressive wishes ....' Rome was 'a supreme prize and incomprehensible menace' (Gay 1988, p. 132). Freud himself described this 'Hannibal fantasy' as 'one of the driving forces of [my] mental life' (McGrath 1974, p. 35; see also Sulloway 1979).

In this regard, it is interesting to note that Totem and Taboo and Civilization and Its Discontents present the view that the restrictions on sexual behavior, so apparent as an aspect of Western culture during Freud's life, are the source of art, love, and even civilization itself. Freud's conceptions of the origins and function of sexual repression in Western societies contain, as Peter Gay (1988, p. 329) notes, some of Freud's 'most subversive conjectures.' Neurosis and unhappiness are the price to be paid for civilization because neurosis and unhappiness are the inevitable result of repressing sexual urges. As countercultural guru Herbert Marcuse wrote concerning this aspect of Freud's thought:

The notion that a non-repressive civilization is impossible is a cornerstone of Freudian theory. However, his theory contains elements that break through this rationalization; they shatter the predominant tradition of Western thought and even suggest its reversal. His work is characterized by an uncompromising insistence on showing the repressive content of the highest values and achievements of culture. (Marcuse, 1974, p. 17)

Western culture has been placed on the couch, and the role of psychoanalysis is to help the patient adjust somewhat to a sick, psychopathology-inducing society: 'While psychoanalytic theory recognizes that the sickness of the individual is ultimately caused and sustained by the sickness of his civilization, psychoanalytic therapy aims at curing the individual so that he can continue to function as part of a sick civilization without surrendering to it altogether' (Marcuse 1974, p. 245).

Freud appears to have been well aware that his conjectures were entirely speculative. Freud was 'amused' when Totem and Taboo was termed a 'just so' story by a British anthropologist in 1920, and stated only that his critic 'was deficient in phantasy' (in Gay 1988, p. 327), apparently a concession that the work was indeed fanciful. Freud stated that 'It would be nonsensical to strive for exactitude with this material, as it would be unreasonable to demand certainty' (quoted in Gay, 1988, p. 330). Similarly, Freud described Civilization and Its Discontents as 'an essentially dilettantish foundation' on which 'rises a thinly tapered analytic investigation' (quoted in Gay 1988, p. 543). And Freud was well aware that his attack on religion in The Future of an Illusion was scientifically weak, describing it by noting that 'the analytic content of the work is very thin' (quoted in Gay 1988, 524).

Freud's countercultural writings scarcely exhaust the mischief wreaked by psychoanalysis. The works of Herbert Marcuse, Norman Brown, Wilhelm Reich, Jaques Lacan, Erich Fromm and a host of neo-Freudians come to mind immediately, but this barely scratches the surface. Psychoanalysis influenced thought in a wide range of areas, including sociology, child rearing, criminology, anthropology, literary criticism, art, literature, and the popular media such as TV and the movies to the point that, as Kurzweil (1989, p. 102) notes, 'something like a culture of psychoanalysis was being established.' E. F. Torrey (1992. p. 37) describes in some detail the spread of the movement in the United States, originally through the actions of a small group of activists with access to the popular media, the academic world, and the arts, to a pervasive influence in the 1950's. 'It is a long road from a beachhead among New York intellectuals to a widespread influence in almost every phase of American life. Literature, drama, anthropology, sociology, child rearing, education, criminology, and many other parts of American thought and culture were to become permeated by Freud.'

Given this association of psychoanalysis and the Left, it is not surprising that Crews' critique of psychoanalysis was itself analyzed and found to be as an attack on the Left: Eli Zaretsky (1994, p. 67) states such critiques 'are continuous with the attack on the Left that began with the election of Richard Nixon in 1968.... They continue the repudiation of the revolutionary and utopian possibilities glimpsed in the 1960s.'

Psychoanalysis was indeed an integral component of the countercultural movement of the 1960's and a central pillar of the intellectual zeitgeist of prominent countercultural figures such as Herbert Marcuse. In Eros and Civilization (1974/1955) Marcuse points the way to a non-exploitative utopian socialist civilization that would result from the complete end of sexual repression in a manner that goes beyond Freud's ideas in Civilization and Its Discontents only in its even greater optimism regarding the beneficial effects of ending sexual repression. Marcuse accepts Freud's theory that Western culture is pathogenic due to the repression of sexual urges, paying homage to the one who 'recognized the work of repression in the highest values of Western civilization'which presuppose and perpetuate unfreedom and suffering' (p. 240).

Attacks on psychoanalysis are therefore correctly perceived by Zaretsky as attacking a cornerstone of left/radical political culture. It is surely correct that psychoanalysis brought us a greater candor about sex. It is also reasonable to suppose that its influence has since extended far beyond sexual candor to become an obsession with sexual behavior. From its beginnings, psychoanalytic perspectives on sexuality have drawn the criticism of those concerned about the harmful influence of Freudian ideas on mainstream family life.

Freud's ideas have in fact often been labeled as subversive. Indeed, '[Freud himself] was convinced that it was in the very nature of psychoanalytic doctrine to appear shocking and subversive. On board ship to America he did not feel that he was bringing that country a new panacea. With his typically dry wit he told his traveling companions, 'We are bringing them the plague'' (Mannoni 1971, 168).

Peter Gay terms Freud's work generally as 'subversive' (1987, 140), his sexual ideology in particular as 'deeply subversive for his time' (p. 148); and his Totem and Taboo as containing 'subversive conjectures' (p. 327) in its analysis of culture. Rothman and Isenberg (1974) convincingly argue that Freud actually viewed the Interpretation of Dreams as a victory over the Catholic Church and that he viewed Totem and Taboo as a successful attempt to analyze the Christian religion in terms of defense mechanisms, primitive drives and neurotic symptomatology. Gay notes that 'while the implications of Darwin's views were threatening and unsettling, they were not quite so directly abrasive, not quite so unrespectable, as Freud's views on infantile sexuality, the ubiquity of perversions, and the dynamic power of unconscious urges' (p. 144).

And the contrast between Freud and Darwin as scientists could scarcely be more clear. Darwin spent years patiently collecting his data and was hesitant to publish his work, agreeing to do so only after another scientist, Alfred Russel Wallace, came up with similar ideas. Freud, on the other hand, conducted his career more like a one man PR firm with himself as his only client.

While Darwin was satisfied with revising his work after further reflection and absorbing palpable hits by rational critics, while he trusted the passage of time and the weight of his argumentation, Freud orchestrated his wooing of the public mind through a loyal cadre of adherents, founded periodicals and wrote popularizations that would spread the authorized word, dominated international congresses of analysis until he felt too frail to attend them and after that through surrogates like his daughter Anna. (Gay 1987, 145)

There was a great deal of hostility to psychoanalysis in the German-speaking world centering around the perceived threat of psychoanalysis to mainstream Christian sexual ethics, including the acceptance of masturbation and premarital sex (Kurzweil, 1989, p. 18). By the second decade of the 20th century in America Freud was firmly associated with the movement for sexual freedom and social reform, and he had become the target of social conservatives (Torrey 1992, 16ff). As late as 1956 a psychiatrist discussing psychoanalysis in the American Journal of Psychiatry complained that 'Is it possible that we are developing the equivalent of a secular church, supported by government monies, staffed by a genital-level apostolate unwittingly dispensing a broth of existential atheism, hedonism, and other dubious religio-philosophical ingredients?' (Johnson 1956, p. 40).

And, although other factors are undoubtedly involved, it is remarkable that the increasing trend toward and acceptance of what an evolutionist would term low-investment parenting (i.e., parenting that involves a low level of resources available for children) in America largely coincides with the triumph of the psychoanalytic and radical critiques of American culture represented by the political and cultural success of the counter-cultural movement of the 1960's. Since 1970 the rate of single parenting has increased from 1/10 families to 1/3 families (Norton & Miller 1992), and there have been dramatic increases in teenage sexual activity and teenage childbearing without marriage (Furstenberg 1991). There is excellent evidence for an association among teenage single parenting, poverty, lack of education, and poor developmental outcomes for children (e.g., Dornbusch & Gray 1988; Furstenberg & Brooks-Gunn 1989; McLanahan & Booth 1989; Wilson 1993, a, b).

Indeed, all of the negative trends related to the family show very large increases that developed at the same time as the triumph of the countercultural movement beginning in the mid-1960's (Herrnstein & Murray 1994; Kaus, 1995), including increases in trends toward lower levels of marriage, 'cataclysmic' increases in divorce rates (Herrnstein & Murray, 1994; p. 172), and higher rates of illegitimacy. In the case of divorce and illegitimacy rates, the data indicate an enormous shift upward during the 1960's from previously existing trend lines, with the upward trend lines established during that period continuing into the present. For good, bad, or both, the 1960's marked a watershed period in American cultural history.

The sexual revolution is 'the most obvious culprit' underlying the decline in the importance of marriage (Herrnstein & Murray 1994, 544) and its concomitant increase in low-investment parenting.

What is striking about the 1960s 'sexual revolution,' as it has properly been called, is how revolutionary it was, in sensibility as well as reality. In 1965, 69 percent of American women and 65 percent of men under the age of thirty said that premarital sex was always or almost always wrong; by 1972, these figures had plummeted to 24 percent and 21 percent... In 1990, only 6 percent of British men and women under the age of thirty-four believed that it was always or almost always wrong. (Gertrude Himmelfarb 1995, 236)

Psychoanalysis has a lot to answer for. The contemporary upsurge of victims of RMT and the long line of individual victims like Horace Frink and Dora Bauer are only a small part of its moral wreckage. But don't expect either psychoanalysis or RMT to die soon. Because they are fundamentally religious and political rather than scientific, these movements have a life of their own and will expire only when they are perceived as no longer serving the personal or political interests of their advocates.

Indeed, one might note that precisely the same sort of uproar greeted the publication of Derek Freeman's expos�� of another pillar of the cultural left'Margaret Mead's work in Samoa (see Caton, 1990; Freeman, 1983; 1991). Here the idealized father figure was Franz Boas who quite self-consciously originated his movement in order to combat evolutionary approaches to anthropology, replacing Darwinian (and some hyper- and pseudo-Darwinian) approaches with the ideology that human nature is infinitely malleable and that humans are entirely a product of their culture. The Boasian school has dominated anthropology since the 1920's, and this school and its postmodern offspring seem to be in no danger of losing ground to the new breed of evolutionists who have sprung up as a result of the sociobiological revolution in the biological sciences.

The fact that the NYRB published Crews' attacks on psychoanalysis may be a vital sign that the life of psychoanalysis as an underpinning of the intellectual left is weakening. The NYRB is only one of many elements of the vast media and intellectual network that has supported psychoanalysis throughout the century, but all signs are that psychoanalysis has become an intellectual and scientific embarrassment to all save the truest of true believers. The fact that its scientific stature has been utterly discredited in such a prestigious forum and by someone who is sympathetic to the cultural influences it has generated suggests that psychoanalysis may well have lost its political punch.

But skeptics need not fear having nothing left to be skeptical of. Look for a new, cult-like, politically-inspired, scientific-sounding ideology to take its place soon at a university and psychotherapeutic clinic near you. It's also a safe bet that critics of such movements will be diagnosed/cleared/re-associated/analyzed/deconstructed as suffering from mental/moral/spiritual disorder:

What passes today for Freud bashing is simply the long-postponed exposure of Freudian ideas to the same standards of noncontradiction, clarity, testability, cogency, and parsimonious explanatory power that prevail in empirical discourse at large. Step by step, we are learning that Freud has been the most overrated figure in the entire history of science and medicine'one who wrought immense harm through the propagation of false etiologies, mistaken diagnoses, and fruitless lines of inquiry.

Still the legend dies hard, and those who challenge it continue to be greeted like rabid dogs. (Crews 1995, 298-299)

Spoken like a true Skeptic!

References

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First Published in Skeptic, 4(3),  94–99. Reprinted in The Encyclopedia of Pseudoscience, Michael Shermer (Ed.). ABC-CLIO, December 2002.

samedi, 31 décembre 2011

American Psychosis: What happens to a society that cannot distinguish between reality and illusion?…

American Psychosis: What happens to a society that cannot distinguish between reality and illusion?…

By Chris Hedges.

Ex: http://www.attackthesystem.com/

 

american_contact_lenses.jpgThe United States, locked in the kind of twilight disconnect that grips dying empires, is a country entranced by illusions. It spends its emotional and intellectual energy on the trivial and the absurd. It is captivated by the hollow stagecraft of celebrity culture as the walls crumble. This celebrity culture giddily licenses a dark voyeurism into other people’s humiliation, pain, weakness and betrayal. Day after day, one lurid saga after another, whether it is Michael Jackson, Britney Spears or John Edwards, enthralls the country … despite bank collapses, wars, mounting poverty or the criminality of its financial class.

The virtues that sustain a nation-state and build community, from honesty to self-sacrifice to transparency to sharing, are ridiculed each night on television as rubes stupid enough to cling to this antiquated behavior are voted off reality shows. Fellow competitors for prize money and a chance for fleeting fame, cheered on by millions of viewers, elect to “disappear” the unwanted. In the final credits of the reality show America’s Next Top Model, a picture of the woman expelled during the episode vanishes from the group portrait on the screen. Those cast aside become, at least to the television audience, nonpersons. Celebrities that can no longer generate publicity, good or bad, vanish. Life, these shows persistently teach, is a brutal world of unadulterated competition and a constant quest for notoriety and attention.

Our culture of flagrant self-exaltation, hardwired in the American character, permits the humiliation of all those who oppose us. We believe, after all, that because we have the capacity to wage war we have a right to wage war. Those who lose deserve to be erased. Those who fail, those who are deemed ugly, ignorant or poor, should be belittled and mocked. Human beings are used and discarded like Styrofoam boxes that held junk food. And the numbers of superfluous human beings are swelling the unemployment offices, the prisons and the soup kitchens.

It is the cult of self that is killing the United States. This cult has within it the classic traits of psychopaths: superficial charm, grandiosity and self-importance; a need for constant stimulation; a penchant for lying, deception and manipulation; and the incapacity for remorse or guilt. Michael Jackson, from his phony marriages to the portraits of himself dressed as royalty to his insatiable hunger for new toys to his questionable relationships with young boys, had all these qualities. And this is also the ethic promoted by corporations. It is the ethic of unfettered capitalism. It is the misguided belief that personal style and personal advancement, mistaken for individualism, are the same as democratic equality. It is the nationwide celebration of image over substance, of illusion over truth. And it is why investment bankers blink in confusion when questioned about the morality of the billions in profits they made by selling worthless toxic assets to investors.

We have a right, in the cult of the self, to get whatever we desire. We can do anything, even belittle and destroy those around us, including our friends, to make money, to be happy and to become famous. Once fame and wealth are achieved, they become their own justification, their own morality. How one gets there is irrelevant. It is this perverted ethic that gave us investment houses like Goldman Sachs … that willfully trashed the global economy and stole money from tens of millions of small shareholders who had bought stock in these corporations for retirement or college. The heads of these corporations, like the winners on a reality television program who lied and manipulated others to succeed, walked away with hundreds of millions of dollars in bonuses and compensation. The ethic of Wall Street is the ethic of celebrity. It is fused into one bizarre, perverted belief system and it has banished the possibility of the country returning to a reality-based world or avoiding internal collapse. A society that cannot distinguish reality from illusion dies.

The tantalizing illusions offered by our consumer culture, however, are vanishing for most citizens as we head toward collapse. The ability of the corporate state to pacify the country by extending credit and providing cheap manufactured goods to the masses is gone. The jobs we are shedding are not coming back, as the White House economist Lawrence Summers tacitly acknowledges when he talks of a “jobless recovery.” The belief that democracy lies in the choice between competing brands and the accumulation of vast sums of personal wealth at the expense of others is exposed as a fraud. Freedom can no longer be conflated with the free market. The travails of the poor are rapidly becoming the travails of the middle class, especially as unemployment insurance runs out. And class warfare, once buried under the happy illusion that we were all going to enter an age of prosperity with unfettered capitalism, is returning with a vengeance.

America is sinking under trillions in debt it can never repay and stays afloat by frantically selling about $2 billion in Treasury bonds a day to the Chinese. It saw 2.8 million people lose their homes in 2009 to foreclosure or bank repossessions – nearly 8,000 people a day – and stands idle as they are joined by another 2.4 million people this year. It refuses to prosecute the Bush administration for obvious war crimes, including the use of torture, and sees no reason to dismantle Bush’s secrecy laws or restore habeas corpus. Its infrastructure is crumbling. Deficits are pushing individual states to bankruptcy and forcing the closure of everything from schools to parks. The wars in Iraq and Afghanistan, which have squandered trillions of dollars, appear endless. There are 50 million Americans in real poverty and tens of millions of Americans in a category called “near poverty.” One in eight Americans – and one in four children – depend on food stamps to eat. And yet, in the midst of it all, we continue to be a country consumed by happy talk and happy thoughts. We continue to embrace the illusion of inevitable progress, personal success and rising prosperity. Reality is not considered an impediment to desire.

When a culture lives within an illusion it perpetuates a state of permanent infantilism or childishness. As the gap widens between the illusion and reality, as we suddenly grasp that it is our home being foreclosed or our job that is not coming back, we react like children. We scream and yell for a savior, someone who promises us revenge, moral renewal and new glory. It is not a new story. A furious and sustained backlash by a betrayed and angry populace, one unprepared intellectually, emotionally and psychologically for collapse, will sweep aside the Democrats and most of the Republicans and will usher America into a new dark age. It was the economic collapse in Yugoslavia that gave us Slobodan Milosevic. It was the Weimar Republic that vomited up Adolf Hitler. And it was the breakdown in Tsarist Russia that opened the door for Lenin and the Bolsheviks. A cabal of proto-fascist misfits, from Christian demagogues to loudmouth talk show hosts, whom we naïvely dismiss as buffoons, will find a following with promises of revenge and moral renewal. And as in all totalitarian societies, those who do not pay fealty to the illusions imposed by the state become the outcasts, the persecuted.

The decline of American empire began long before the current economic meltdown or the wars in Afghanistan and Iraq. It began before the first Gulf War or Ronald Reagan. It began when we shifted, in the words of Harvard historian Charles Maier, from an “empire of production” to an “empire of consumption.” By the end of the Vietnam War, when the costs of the war ate away at Lyndon Johnson’s Great Society and domestic oil production began its steady, inexorable decline, we saw our country transformed from one that primarily produced to one that primarily consumed. We started borrowing to maintain a level of consumption as well as an empire we could no longer afford. We began to use force, especially in the Middle East, to feed our insatiable thirst for cheap oil. We substituted the illusion of growth and prosperity for real growth and prosperity. The bill is now due. America’s most dangerous enemies are not Islamic radicals but those who sold us the perverted ideology of free-market capitalism and globalization. They have dynamited the very foundations of our society. In the 17th century these speculators would have been hung. Today they run the government and consume billions in taxpayer subsidies.

As the pressure mounts, as the despair and desperation reach into larger and larger segments of the populace, the mechanisms of corporate and government control are being bolstered to prevent civil unrest and instability. The emergence of the corporate state always means the emergence of the security state. This is why the Bush White House pushed through the Patriot Act (and its renewal), the suspension of habeas corpus, the practice of “extraordinary rendition,” warrantless wiretapping on American citizens and the refusal to ensure free and fair elections with verifiable ballot-counting. The motive behind these measures is not to fight terrorism or to bolster national security. It is to seize and maintain internal control. It is about controlling us.

And yet, even in the face of catastrophe, mass culture continues to assure us that if we close our eyes, if we visualize what we want, if we have faith in ourselves, if we tell God that we believe in miracles, if we tap into our inner strength, if we grasp that we are truly exceptional, if we focus on happiness, our lives will be harmonious and complete. This cultural retreat into illusion, whether peddled by positive psychologists, by Hollywood or by Christian preachers, is magical thinking. It turns worthless mortgages and debt into wealth. It turns the destruction of our manufacturing base into an opportunity for growth. It turns alienation and anxiety into a cheerful conformity. It turns a nation that wages illegal wars and administers offshore penal colonies where it openly practices torture into the greatest democracy on earth. And it keeps us from fighting back.

Resistance movements will have to look now at the long night of slavery, the decades of oppression in the Soviet Union and the curse of fascism for models. The goal will no longer be the possibility of reforming the system but of protecting truth, civility and culture from mass contamination. It will require the kind of schizophrenic lifestyle that characterizes all totalitarian societies. Our private and public demeanors will often have to stand in stark contrast. Acts of defiance will often be subtle and nuanced. They will be carried out not for short term gain but the assertion of our integrity. Rebellion will have an ultimate if not easily definable purpose. The more we retreat from the culture at large the more room we will have to carve out lives of meaning, the more we will be able to wall off the flood of illusions disseminated by mass culture and the more we will retain sanity in an insane world. The goal will become the ability to endure…..

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vendredi, 08 juillet 2011

Psychopathologie: une introduction phénoménologique

Psychopathologie : une introduction phénoménologique

par Pierre LE VIGAN

Auteur d’un ouvrage de référence sur les personnalités hystériques, Georges Charbonneau, psychiatre, est aussi éditeur et animateur de la revue Le Cercle herméneutique. Il vient de publier un livre qui condense ses travaux et réflexions – et ceux de l’école de phénoménologie psychopathologique – depuis plus de vingt ans. Cette école, parfois aussi appelé psychothérapie existentielle, reste marquée par les noms d’Eugène Minkowski (Traité de psychopathologie), Ludwig Binswanger (Mélancolie et manie, Trois formes manquées de la présence humaine), Hubertus Tellenbach (La mélancolie), Wolfgang Blankenburg (La perte de l’évidence naturelle), Arthur Tatossian (La phénoménologie des psychoses) et quelques autres. En toile de fond c’est le Martin Heidegger d’Être et temps (1927) dont les hypothèses sont sollicitées et en quelque sorte remises au travail.

C’est une entreprise ambitieuse et féconde. Le premier tome de l’ouvrage de Charbonneau est essentiellement consacré aux névroses. Il concerne aussi les personnalités pathologiques. Le second tome est consacré aux psychoses : délire et paranoïa. Il aborde donc les crises du Soi, ce qu’on appelle l’ipséité. L’ouvrage remplit pour l’essentiel son cahier des charges : ouvrir un tableau articulé et dialectique des manifestations psychopathologiques et de leurs significations comme déformation, ou altération, de la présence humaine. Certes, le plan traduit quelques flottements : les dépressions non mélancoliques donc non psychotiques sont ainsi traitées dans le tome II essentiellement consacré aux psychoses; elles eussent été plus à leur place dans le tome I, à côté du chapitre sur la fatigue et ses différentes formes. Sans doute aussi, l’usage répété de certains termes « bricolés » (ruptivité, nostrité, mienneté, chacunité, sienneté…) peut agacer : la ressource de la langue française offre bien des possibilités et c’est la grandeur d’intellectuels généralistes comme Alain Finkielkraut, Luc Ferry ou André Comte-Sponville (ou Ludovic Maubreuil ou Éric Werner) d’énoncer des choses subtiles avec les mots de tout le monde et dans une langue compréhensible par tout homme de bonne volonté. L’usage de mots complexes ou pseudo-innovants vise bien souvent à créer une barrière artificielle, qui n’est autre qu’une barrière sociale de distinction au sens de Pierre Bourdieu, et crée une désagréable atmosphère d’élitisme autoproclamé.

Il n’en reste pas moins que le lecteur aurait tort d’en rester à ce possible et légitime agacement, non plus qu’au fait que le numéro de Krisis sur la psychologie n’est pas cité alors que les proximités de certaines des analyses développées avec celles du livre de Charbonneau sont évidentes et connues de l’auteur. Qu’importe. Krisis veut justement dire jugement. Et ce sont les idées qu’il faut juger. Or, dans le présent ouvrage, l’analyse des malaises dans l’homme, des délires, des décrochages existentiels, des ruptures d’avec le monde commun, de l’hystérie en termes de position dans l’espace, des pathologies de la personnalité en termes d’expérience du monde, et en termes d’analyse de l’humeur  c’est-à-dire le thymique, constituent de vrais points d’appui pour chacun d’entre nous, confronté à notre fragilité d’être-jeté-dans-le-monde. Par ailleurs, des développements de concepts sont bienvenus, tels l’historialité, l’auroréal et le vespéral (ou, pour le dire plus simplement, le matinal et le couchant) qui, pour avoir déjà été analysées (souvent par la sémiotique, avec notamment Jacques Fontanille et Claude Zilberberg) avaient rarement été synthétisés de manière aussi complète et dans une perspective unificatrice. Un livre indispensable pour mieux se comprendre, soi-même et les autres, soi-même avec les autres, soi même jamais tout à fait comme les autres.

Pierre Le Vigan

Georges Charbonneau, Introduction à la psychopathologie phénoménologique, MJWf éditions, diffusion Vrin, tome I, 236 p., 20 €, tome II, 215 p., 20 €.


Article printed from Europe Maxima: http://www.europemaxima.com

URL to article: http://www.europemaxima.com/?p=1991

dimanche, 10 avril 2011

Guerre et psychologie

Guerre et psychologie

par Jean-Gilles Malliarakis

5.jpg L'opération de Libye comme la tragédie de la Côte d'Ivoire nous ramènent durement à la réalité du monde. L'Europe consommatique comme l'éducation soixante huitarde avaient voulu, depuis un demi-siècle, ignorer : la guerre. La voilà de retour. On ne peut pas s'en réjouir, on peut seulement espérer que son avertissement, aujourd'hui encore à moindre frais, du moins vu de Paris, réveille les opinions.

Entre l'époque du Livre banc sur la Défense de 1972, écrit sous l'influence ministérielle du jacobin Michel Debré, et celui de 2008, les doctrines stratégiques et les capacités militaires de la France ont changé, radicalement. La nature même des conflits, les ennemis potentiels ou déclarés, les théâtres d'opérations se sont déplacés.

Paradoxalement aussi, un chef d'État-major de l'armée de Terre tel que le général Elrick Irastorza a pu estimer le 22 octobre 2010 à Coëtquidan "particulièrement compliqué" voire même "anxiogène" le format actuel et futur de nos moyens de défense. Et, simultanément, jamais l'uniforme français n'a été déployé sur autant de territoires, pour des missions éloignées, aux caractères de plus en plus complexes.

De la guerre coloniale selon Gallieni à la contre-insurrection du général américain Petraeus l'objectif semble cependant toujours le même : "transformer l'adversaire en administré". Et, tragiquement, l'épée demeure aujourd'hui encore "l'axe du monde" – ceci pour reprendre la formule d'un homme qui sut si bien, tout au long de sa propre carrière, utiliser, par ailleurs, les micros.

Or, dans la préparation comme dans la gestion des conflits, dans le vote des budgets des armées comme dans la conduite et l'exécution des opérations, l'état d'esprit des individus, des foules et des dirigeants, joue le rôle fondamental.

La psychologie de la guerre redevient dès lors une matière urgente.

En 1915, Gustave Le Bon, dont l'ouvrage sur la "Psychologie des Foules" (1895) fait aujourd'hui encore autorité, lui consacrait un livre. Dans le contexte du premier conflit mondial, l'éditeur avait intitulé l'édition originale : "Enseignements psychologiques de la Guerre européenne". Sous-titre explicatif dans la manière du temps : "Les causes économiques, affectives et mystiques de la guerre. Les forces psychologiques en jeu dans les batailles. Les variations de la personnalité. Les haines de races. Les problèmes de la paix. L'avenir."

L'ambition scientifique, sociologique et objective y tranche avec ce qui se publiait à l'époque, dans le cadre de ce terrible contexte d'affrontement européen. Il étonnera peut-être le lecteur actuel par les développements qu'il consacre au bellicisme allemand, à son hégémonisme commercial d'avant-guerre et au pangermanisme. On remarquera cependant qu'il demeure singulièrement libre, d'esprit et d'écriture, s'agissant des motivations des Alliés. Il ne les résume aucunement en une simple, fraîche et joyeuse "guerre du Droit". Présentée pour telle par ses propagandistes, elle se révélera tout autre.

On notera en particulier un aspect essentiel des années qui avaient précédé le déclenchement de cet "orage d'acier". Elles avaient été marquées, de manière pacifique, par une influence de plus en plus forte, au centre du continent, du pays alors le plus puissant et le plus dynamique, rival sans cesse grandissant des empires maritimes et financiers.

On remarquera également ici un parallélisme très fort entre les deux guerres mondiales : on est tenté de considérer que, de ce point de vue, elles en forment une seule, comme si la seconde prolongeait la première dont elle accentuait simplement les traits, comme le conflit que Thucydide décrivit, expliqua et synthétisa sous le nom de Guerre du Péloponnèse. Celle-ci, à la fin du Ve siècle avait frappé à mort la Grèce des cités. La nôtre allait mettre un terme en Europe, au XXe siècle à l'idée de souveraineté des nations.

Résolument, Gustave Le Bon (1841-1931) s'inscrit en faux face aux explications d'inspiration matérialiste et marxisante.

"Derrière les événements dont nous voyons se dérouler le cours, écrit-il ainsi, se trouve l’immense région des forces immatérielles qui les firent naître.
Les phénomènes du monde visible ont leur racine dans un monde invisible où s’élaborent les sentiments et les croyances qui nous mènent.
Cette région des causes est la seule dont nous nous proposons d’aborder l’étude.
La guerre qui mit tant de peuples aux prises éclata comme un coup de tonnerre dans une Europe pacifiste, bien que condamnée à rester en armes."

Tout conspirait donc pour qu'un tel écrit soit relégué dans l'oubli des textes maudits, politiquement incorrects.

Au lendemain de la victoire de 1918, les Alliés tournèrent en effet le dos aux enseignements de son auteur. On s'engouffra dans le mythe de la sécurité collective. On prétendit mettre "la guerre hors la loi" : on connaît la suite. Cet ouvrage terrible et prophétique, annonçait en somme la reprise des hostilités. Il démontre, aussi, combien les dirigeants politiques, bien connus du public, rois ou ministres, se trouvent régulièrement dépassés par les forces intérieures, celles de l'inconscient des peuples.

JG Malliarakis



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vendredi, 21 janvier 2011

Ivan Illich, critique de la modernité industrielle

Ivan Illich, critique de la modernité industrielle

par Frédéric Dufoing

(Infréquentables, 11)

Ex: http://stalker.hautetfort.com/

Illich.jpgNé à Vienne en 1926, d’un père dalmate et d’une mère d’origine juive, et mort en toute discrétion en 2002 après avoir vécu entre les États-Unis, l’Allemagne et l’Amérique du sud; prêtre anticlérical, médiéviste joyeusement apatride, érudit étourdissant, sorte d’Épicure gyrovague, polyglotte, curieux, passionné, insaisissable, et touche-à-tout; critique radical, en pensée comme en acte, de la modernité industrielle, héritier de Bernard Charbonneau et de Jacques Ellul, inspirateur d’intellectuels comme Jean-Pierre Dupuy, Mike Singleton, Serge Latouche, Alain Caillé, André Gorz, Jean Robert ou encore des mouvements écologistes, décroissantistes et post-développementistes; hélas aussi figure de proue d’une certaine intelligentsia des années soixante qui ne feuilleta, en général, que Une Société sans école et ne retint de son travail que ce qui pouvait servir ses mauvaises humeurs adolescentes puis, plus tard, ses bonnes recettes libertariennes, Ivan Illich est sans conteste l’un des penseurs les plus originaux, les plus complets, les plus lucides ainsi que les plus mal lus du XXe siècle.
Il est surtout le plus dangereux. Car, de tous ceux qui critiquèrent la modernité – et en particulier la modernité industrielle – dans ses principes, et non pas dans ses seuls accidents, il est le seul qui, d’une part, se refusa d’étreindre les mythes décadentistes ou millénaristes pour éviter les mythes progressistes, et, d’autre part, attaqua la modernité sur deux fronts à la fois, l’un intérieur, décrivant, dénonçant, à la suite d’Ellul (mais dans une perspective plus laïque), les apories et absurdités de la modernité industrielle eu égard à ses propres fondements, l’autre extérieur, réintroduisant, par une réflexion sur la logique malsaine du développement, l’Autre dans la pensée occidentale. L’Autre. Non pas celui du module des ressources humaines de l’anthropologie coloniale ou post-coloniale; non pas cette machine à feed back obséquieux que lutinent les coopérants; non pas ce pion arithmétique, ce nu empantalonné dans ses besoins décrit dans les Droits de l’Homme; non pas ce miroir de marâtre dont la rationalité occidentale ne peut se passer depuis son avènement, mais cet inconnu familier, celui qui n’est pas nécessairement compréhensible mais qui est de toute façon, en soi, respectable – et a quelque chose à nous dire pourvu que l’on se taise et que l’on s’émerveille.

 
Mais il est une autre raison pour laquelle la pensée d’Illich est dangereuse : elle est humaniste. Non pas dans le sens où elle s’inscrirait dans le travail des auteurs de la Renaissance qui coupèrent l’Europe de ses racines méditerranéennes et la raison du raisonnable, plongèrent l’homme dans l’Homme, dans sa volonté de puissance et, derechef, dans le désir d’absence de limites, et qui enfin permirent tout ce que la modernité industrielle assume, accroît et assouvit au mépris de la personne comme de l’espèce humaine. C’est précisément contre cette logique que travaille la pensée du médiéviste, c’est à son fondement qu’elle s’attaque puisqu’il s’agit de rechercher et de défendre une humanité qui, au nom de la volonté de puissance, a perdu son identité avec sa liberté, se retrouve sans volonté, prisonnière de la puissance, d’une Raison ivre d’elle-même, d’organisations, de techniques qui la dépassent et dont elle n’est plus que l’outil, la marionnette – débile, idiote – de besoins, de désirs, se traînant de guichets en caisses enregistreuses en passant par l’habitacle de son automobile. Bien sûr, comme on l’a dit, on retrouve ici les intuitions et les analyses de Bernard Charbonneau (la critique de la totalisation sociale qu’amène la Grande Mue, c’est-à-dire le changement de paradigme sociétal qu’est l’industrialisation), de Jacques Ellul (l’analyse de la Technique et de la soumission des fins aux moyens, de toute considération à l’efficacité) et de nombreux auteurs du personnalisme des années trente, effrayés aussi bien par le totalitarisme que par le libéralisme; on retrouve de même des intuitions bernanosiennes (la modernité menace l’intimité spirituelle de l’individu), luddites (le refus de la religion technologique), peut-être aussi, quoique dans une moindre mesure, bergsoniennes. Mais, indéniablement, par son ouverture à un optique relativiste, sa finesse d’analyse et – ce qui peut sembler paradoxal – son souhait de rester pragmatique, de s’inscrire dans le concret, la pensée d’Illich est à la fois plus précise et plus fertile.
Nous nous proposons dans ce trop bref article de faire découvrir l’œuvre d’Illich. Autant préciser avec humilité qu’exposer une pensée si complexe, c’est bien évidemment la trahir et que, la plupart des grandes oeuvres étant victimes des vulgates, nous nous efforcerons de n’endommager celle d’Illich que par esprit de synthèse. Nous procéderons pour ainsi dire chronologiquement en exposant d’abord le travail le plus ancien – et le plus mal interprété – d’Illich, qui traite de la contre-productivité des institutions de la modernité industrielle, puis le travail de critique de la logique de développement de la société moderne.
Les plus pamphlétaires des essais d’Illich sont bien connus, mais fort mal lus; il s’agit de Une société sans école, Énergie et équité, La Convivialité et Némésis médicale. L’expropriation de la santé; il y élabore sa vision des seuils – aporétiques – de contre-productivité de quelques-unes des institutions de la modernité industrialisée. Il postule en effet que ces institutions, une fois arrivées à un certain niveau de développement, fonctionnent contre les objectifs qu’elles sont censées servir : l’école rend stupide, la vitesse ralentit, l’hôpital rend malade.


Illich2.jpgDans le premier, Une société sans école, Illich montre que l’école, comme institution, et «l’éducation» professionnalisée, comme logique de sociabilisation, non seulement nuisent à l’apprentissage et à la curiosité intellectuelle, mais surtout ont pour fonction véritable d’inscrire dans l’imaginaire collectif des valeurs qui justifient et légitiment les stratifications sociales en même temps qu’elles les font. Il ne s’agit pas seulement, à l’instar du travail de gauche «classique» de Bourdieu et Passeron, de montrer que l’école reproduit les inégalités sociales, donc qu’elle met en porte-à-faux, stigmatise et exclut les classes sociales défavorisées dont elle est censée favoriser l’ascension sociale, mais de démontrer que l’idée même de cette possibilité ou de cette nécessité d’ascension sociale par la scolarité permet, crée ces inégalités en opérant comme un indicateur d’infériorité sociale. Par ailleurs, l’école et les organismes d’éducation professionnels agissent en se substituant à toute une série d’organes d’éducation propres à la société civile ou aux familles, délégitimant les apprentissages qu’ils procurent. Elle est donc un moyen de contrôle social et non pas de libération des déterminations sociales. Les normes de l’éducation et du savoir, la légitimité de ce que l’on sait faire et de ce que l’on comprend se mettent donc à dépendre d’un programme et d’un jugement mécanique qui forment aussi un écran entre l’individu et sa propre survie ou sa propre valeur. Ce programme est celui de l’axe production/consommation sur lequel se fonde la modernité industrielle. «L’école est un rite initiatique qui fait entrer le néophyte dans la course sacrée à la consommation, c’est aussi un rite propitiatoire où les prêtres de l’alma mater sont les médiateurs entre les fidèles et les divinités de la puissance et du privilège. C’est enfin un rituel d’expiation qui ordonne de sacrifier les laissés-pour-compte, de les marquer au fer, de faire d’eux les boucs émissaires du sous-développement» (1).


Dans Énergie et équité, Illich procède à l’une de ses analyses les plus fécondes de la contre-productivité des institutions industrielles, en l’occurrence, celle des transports, autrement dit de la vitesse. En un mot comme en cent, une fois passé un certain seuil de puissance (évalué à 25 km/h), les outils usités pour se déplacer allongent les déplacements et font perdre du temps. En effet, à partir du moment où existent des instruments de déplacement puissants et généralisés (la voiture, par exemple), l’organisation des déplacements et des lieux de vie (ou de travail) va être absorbée par les exigences de ces instruments : les routes vont développer les distances comme la nécessité de les parcourir; les autres formes de mobilité vont disparaître; les exigences liées au temps et aux déplacements vont se resserrer. D’autre part, l’utilisation de ces instruments, rendue obligatoire par les changements du milieu qu’elle exige, dévore en heures de travail le temps soi-disant gagné par le «gain» de vitesse, si bien que si l’on soustrait au temps moyen gagné par la vitesse de la voiture les heures passées au travail pour payer cette même voiture, on roule à une vitesse située entre six et douze km/h – la vitesse de la marche à pied ou du vélo. Autrement dit, plus d’un tiers du temps de travail salarié est consacré à payer l’automobile qui permet, pour l’essentiel… de se rendre au travail ! De fait, l’utilisation de ces outils, et la dépense énorme d’énergie qu’elle demande, engendrent une perte de liberté, non seulement dans la capacité de se déplacer – puisque le monopole de l’automobile amène les embouteillages ou l’impossibilité de se déplacer autrement, et orientent les déplacements (les lieux où l’on se rend sont des lieux joignables par la route, donc tout le monde se rend dans les mêmes lieux d’un espace rendu homogène) – mais aussi enchaîne l’individu au salariat, lui dévore son temps. L’automobile ne répond pas à des besoins, elle crée des contraintes. Pire, elle crée de la distance puisque, chacun étant supposé (et donc obligé de) disposer d’une automobile, les lieux et le mode de vie vont être organisés selon les possibilités offertes par l’automobile : les lieux vont à la fois s’éloigner et s’homogénéiser puisqu’il faudra désormais ne se rendre que là où l’automobile le permet. On a là un excellent exemple de la logique technicienne, sur laquelle nous reviendrons avec Ellul et Anders, mais aussi de la mécanique moderne toute entière.
De plus, quoique Illich n’en traite que très peu, on pourrait aussi continuer son raisonnement en montrant les problèmes globaux induits par la généralisation de l’automobile : pollution et désordre climatique, problèmes de santé dus à cette pollution et au manque d’effort physique, stress, guerres énergétiques, etc.
Fondamentalement, l’automobile manifeste un déséquilibre, une démesure, une disproportion sur laquelle Illich revient dans toute son œuvre, et en particulier dans La Convivialité : la disproportion entre les sens, le corps (ici, l’énergie métabolique) et la technique (ici, l’énergie mécanique), laquelle engendre une forme de déréalisation quant à la relation au monde et à ses propres besoins. En effet, le point de vue d’Illich (comme d’ailleurs celui d’Ellul) est celui d’un chrétien fondant son appréhension de l’action humaine sur l’incarnation christique. Comme l’indique Daniel Cérézuelle, pour Illich, «la modernité progresse en procédant à une désincarnation croissante de l’existence et c’est pour cela qu’il en résulte une dépersonnalisation croissante de la vie et une perte croissante de maîtrise sur notre vie quotidienne, donc de liberté» (2). Les techniques et institutions modernes instaurent un rapport biaisé aux sens et au corps; elles brisent le lien intime entre le vécu physique, sensitif, charnel et les constructions de l’esprit; elles forment, comme aurait dit Bergson, une croûte entre l’homme et son milieu.

On le voit, au-delà de ce questionnement purement rationnel, voire économiste, pointent déjà des questionnements d’ordre moral, culturel et symbolique beaucoup plus vastes : ce sont bien quelques-unes des croyances fondamentales de la modernité industrielle (une certaine relation au temps (3), le salariat opposé à l’autonomie, etc.) qu’Illich remet en cause. Son exigence de proportionnalité est une exigence de limites. Il s’agit de montrer que, lorsque la volonté humaine perd cette considération des limites, ou ces limites elles-mêmes, elle s’annihile : la volonté n’est possible que dans le cadre de ces limites; si elles les combat ou en sort, elle se désagrège.

La Convivialité est sans conteste l’un des ouvrages les plus précieux du XXe siècle. Illich y intègre et y synthétise la critique du mode de production et de vie industriel, ses constats sur les seuils de contre-productivité des institutions modernes et ses valeurs relatives à l’autonomie individuelle comme « communautaire ». Il démontre que, collectivement, à l’échelle d’une société, non seulement les outils et institutions modernes se retournent contre leurs objectifs, les moyens contre les fins, les hommes perdant alors la maîtrise de leur destin, mais que de surcroît, une fois ces seuils passés, les hommes sacrifient leur autonomie à une mécanique qui les subsume, fonctionne presque sans eux, contre eux et qu’ils passent alors à côté de l’essentiel, ce qui a fait la vie de l’homme depuis l’aube de l’humanité. Concrètement, la modernité industrielle transforme la pauvreté en misère, l’esclave des hommes en esclave des machines, c’est-à-dire détruit en un même mouvement les capacités de survie en toute autonomie et rend dépendant (dans le sens d’une véritable «toxicomanie axiologique») d’un système incontrôlé, agissant au-delà des valeurs qui sont censées le fonder et sur lequel l’individu n’a aucun poids. Dans La Convivialité, Illich écrit : «Lorsqu’une activité outillée dépasse un seuil défini par l’échelle ad hoc, elle se retourne d’abord contre sa fin, puis menace de destruction le corps social tout entier» (4). Et il ajoute : «Il nous faut reconnaître l’existence d’échelles et de limites naturelles. L’équilibre de la vie se déploie dans plusieurs dimensions; fragile et complexe, il ne transgresse pas certaines bornes. Il y a des seuils à ne pas franchir. Il nous faut reconnaître que l’esclavage humain n’a pas été aboli par la machine, mais il en a reçu une figure nouvelle. Car, passé un certain seuil, l’outil, de serviteur, devient despote» (5).

Dans une perspective cette fois plus historique et plus exégétique qu’économique, Illich se penche, dans la deuxième partie de son œuvre, sur une logique qui transcende celle de l’État comme celle du marché, et qui place derechef sa pensée en amont des logiques et mythes libéraux ou socialistes : la construction moderne de la notion de besoin – au travers du processus de professionnalisation – et l’annihilation du vernaculaire, c’est-à-dire d’un ensemble de valeurs et de pratiques qui, malgré les problèmes qu’elles pouvaient poser, avaient au moins le mérite, d’une part, de préserver un relatif contrôle des individus sur leur propre destin – en les ancrant dans certaines limites – et, d’autre part, d’empêcher la sociabilité et les sociétés humaines de glisser hors de ce à quoi elles sont vouées. Analysant tour à tour le rapport à la langue et au texte (Du Lisible au visible : la naissance du texte), le rôle de la femme (Le Genre vernaculaire), le travail domestique opposé au travail salarié (Le Travail fantôme), la professionnalisation des tâches (Le Chômage créateur), le développement (Dans le miroir du passé), les sens (H2O ou les eaux de l’oubli), Illich déconstruit l’imaginaire moderne du développement et du progrès. Il décrit par quels processus historiques les modernes se sont peu à peu trouvés dépossédés de leur travail, de leur genre, de leur langue et, au fond, de leurs identité et désirs propres; comment la langue maternelle s’est trouvée normalisée, donc les gens expulsés de leurs mots, du sens; comment les genres ont disparu au profit des sexes; corrélativement, comment les femmes se sont trouvées enfermées dans une logique où, suite au processus de professionnalisation moderne, elles ont été privées des domaines qui leur étaient spécifiques et ont été pour ainsi dire rabattues sur un travail domestique devenu impraticable et dévalorisé puis sur un travail salarié où leur sont refusés à la fois le respect et une identité propre; comment l’étranger, l’Autre, est devenu un être défini par ses manques relatifs aux canons occidentaux, un sous-développé; comment le travail, les activités vernaculaires ont été absorbées par la division professionnelle du travail et le salariat; comment, enfin, les modernes ont vu leurs sens, leur aperception du réel appauvris autant qu’homogénéisés...
Mais revenons un instant sur les notions de besoin et de vernaculaire. En 1988, Illich publiait un texte court et dense intitulé L’Histoire des besoins (6). Pour lui, cette notion de besoin – qui correspond à une véritable addiction (7) – est intrinsèquement liée à l’idéologie du progrès, suivie, après la Seconde Guerre mondiale, par celle du développement. Naturalisée, devenue une évidence que personne ne songe à remettre en cause tant elle est liée à un imaginaire d’épanouissement, de bien-être ritualisé au travers des mécanismes de la consommation; opposée à des mythes (ceux mettant en scène des sociétés ou des périodes historiques de pénurie systématique et endémique, comme, pour les Lumières, le Moyen Âge ou, pour l’évolutionnisme colonial, les sociétés dites «primitives»), la notion de besoin nous habite au point d’être sans cesse invoquée et de faire l’objet de toutes les attentions politiques des États-nations comme des organismes internationaux, en particulier ceux créés durant l’après-Seconde Guerre mondiale. Illich montre que cette notion est implicitement liée à un processus de professionnalisation et que, surtout : «les nécessités appellent la soumission, les besoins la satisfaction. Les besoins tentent de nier la nécessité d’accepter l’inévitable distance entre le désir et la réalité et ne renvoient pas davantage à l’espoir que les désirs se réalisent» (8). Autrement dit, alors que la notion de nécessité renvoie non seulement à ce qui est essentiel à la survie mais aussi à ce qui est possible dans les limites des situations, des moyens dont on dispose ou du milieu où l’on se trouve, donc du réel, et implique une certaine humilité dans les désirs, la notion de besoin contient intrinsèquement un refus de la réalité, c’est-à-dire un refus de la finitude, des limites, de l’homme comme de la planète sur laquelle il vit. Pour les progressistes de la société industrielle, l’individu abstrait des Droits de l’Homme, unité nue, indéterminée, permettant l’arithmétique contractualiste des droits et des intérêts, est devenu, après la Seconde Guerre mondiale et le lancement du programme développementiste par le président Truman, un être de besoins, entièrement illimité par ses besoins et, de fait, ses manques. «Le phénomène humain ne se définit donc plus par ce que nous sommes, ce que nous faisons, ce que nous prenons ou rêvons, ni par les mythes que nous pouvons nous produire en nous extrayant de la rareté, mais par la mesure de ce dont nous manquons et, donc, dont nous avons besoin» (9). La vieille théorie évolutionniste peut ainsi être recyclée en une typologie, en une nouvelle hiérarchie, qui ne sera plus celle des races ou des cultures selon des traits moraux et esthétiques directs, mais du pouvoir – facilement quantifiable par les indicateurs économiques et statistiques – de satisfaction et, surtout, de détermination de ces besoins. Car qui détermine les besoins élabore les critères de jugement et de classement, donc de légitimation morale. Ici entre en scène le processus de professionnalisation, c’est-à-dire de perte d’autonomie (la capacité de faire les choses par soi-même sans passer par des institutions, des corps intermédiaires ou des normes artificielles et homogénéisantes) et d’autarcie (perte des communaux et de l’environnement permettant la survie) : déterminés, prescrits par des experts, des technocrates, c’est-à-dire, par une aristocratie prométhéenne, légitimée par ses démonstrations de puissance, son efficience dans le grand spectacle et les rites techniciens, les besoins sont sans fin et répondent de manière exponentielle à la logique induite par leur propre création.
Le processus moderne est, dans sa phase industrialiste, et par le fait d’un monopole (qui n’est pas seulement celui de la force) d’institutions comme l’État, l’école, etc., une opération de destruction idéologique – en termes de légitimité mais aussi de possibilité légale d’action concrète – de ce que les gens apprennent, savent et savent faire par eux-mêmes et pour eux-mêmes. Concrètement, si quiconque veut modifier sa maison, il doit demander l’autorisation administrative à un organe bureaucratique, un plan à un architecte et acheter du matériel autorisé et normalisé chez un revendeur agréé. Il n’a plus ni le temps (son emploi salarié le lui vole), ni les capacités (il ne l’a plus appris de ses parents ou de sa communauté), ni la permission légale (l’État seul permet) de faire quoi que ce soit par lui-même. Il est obligé d’utiliser, de consommer les services obligatoires qu’offre la société moderne, par exemple, le marché (et sa logique) ou l’école pour devenir architecte ou ingénieur et apprendre comment on fait une maison, selon quels critères et quels besoins on la fait, comment on bricole, etc. Or ces services répondent ou sont censés répondre à des besoins pour la plupart artificiels et qui n’ont pour objectifs que de susciter d’autres besoins. On entre alors dans la logique du développement : «Fondamentalement, le développement implique le remplacement de compétences généralisées et d’activités de subsistance par l’emploi et la consommation de marchandises; il implique le monopole du travail rémunéré par rapport à toutes les autres formes de travail; enfin, il implique une réorganisation de l’environnement telle que l’espace, le temps, les ressources et les projets sont orientés vers la production et la consommation, tandis que les activités créatrices de valeurs d’usage, qui satisfont directement les besoins, stagnent et disparaissent» (10). Autrement dit, ce qui a constitué l’essentiel de la vie des hommes depuis leur apparition disparaît ou ne subsiste que sous une forme fantôme – terme qui montre une véritable inversion, voire une perversion culturelle puisque ce qui est le vivant même prend le visage de la mort.

On le voit, le développement est une mécanique de destruction doublée d’une mécanique de soumission; on y perd ce que l’on est en faveur d’une illusion de ce que l’on pourrait avoir. Les populations soumises à la logique du développement perdent ce que François Partant appelle les conditions de leur propre reproduction sociale (11). Elle est un énorme processus d’acculturation, non seulement de ceux qui la subissent, mais aussi de ceux qui la promeuvent. Elle détruit les cultures autant que les environnements à partir desquels elles s’étaient fondées, amenant une sorte de «nature artificielle», technicisée. «Le développement économique signifie également qu’au bout d’un moment il faut que les gens achètent la marchandise, parce que les conditions qui leur permettaient de vivre sans elle ont disparu de leur environnement social, physique ou culturel» (12). Le développement crée donc une dépendance aux institutions d’État, au marché, au salariat et aux technocrates; il rend impossibles mais aussi – ce qui est pire – inconcevables les activités de subsistance et d’échange (matériels et spirituels) autonomes liées à l’existence de communaux (13) et de traditions, de cultures locales transmises sans «intermédiaires artificiels», répondant aux nécessités directes d’individus intégrés dans un milieu donné. Ces activités, Illich les appelle vernaculaires. Dans la mesure où le développement «est un programme guidé par une conception écologiquement irréalisable du contrôle de l’homme sur la nature, et par une tentative anthropologiquement perverse de remplacer le terrain culturel, avec ses accidents heureux ou malheureux, par un milieu stérile où officient des professionnels» (14), il nuit à l’ensemble de l’humanité et, d’abord, aux plus faibles. En effet, ils sont les premiers à payer une telle logique, dans la mesure où ils se voient enlever les capacités de survie en faveur d’une intégration dans un système économique aux délices duquel ils n’auront jamais accès; ainsi la pauvreté devient-elle misère et la perte d’autonomie perte d’autarcie. En plus d’être globalement et par nature néfaste, le développement est donc aussi inéquitable, tant socialement que vis-à-vis des femmes.
Sous sa forme industrielle, la modernité est à la fois aporétique et déréalisante. Aporétique car, sous prétexte de libérer l’individu et l’humanité toute entière des contraintes de la nature, de la tradition, de la mort, de Dieu ou du hasard, voire du principe même de l’existence de limites, elle les vend, les voue et les soumet à la volonté de puissance, à la domination des moyens sur les fins, les amenant de ce fait à organiser confortablement leur propre destruction. Déréalisante car ce quelle permet, ce n’est pas un contrôle de l’homme sur son milieu, ou de l’individu sur la société dans laquelle il vit, en somme l’émancipation sous la forme de la fin (d’ailleurs fantasmée) des limites et des contraintes, mais bien la création d’un milieu artificiel, d’un laboratoire, d’un réel artefact clinique, isolé du monde et de l’Autre; un réel artefact qui emprisonne l’individu, détruit sa sociabilité comme son intériorité, le transforme en un objet, un automate seulement disponible, mobilisable. La puissance, dit Illich à la suite d’Épicure, tue la liberté; c’est pourquoi il faut y renoncer.

Notes
(1) Ivan Illich, Œuvres complètes, volume1 (Fayard, 2004), p. 263.
(2) D. Cerezuelle, De l’exigence d’incarnation à la critique de la technique chez Jacques Ellul, Bernard Charbonneau et Ivan Illich, in P. Troude-Chastenet (sous la direction de), Jacques Ellul. Penseur sans frontière (L’Esprit du Temps, 2005), p. 239.
(3) On se référera aussi au fameux Traité du sablier d’Ernst Jünger.
(4) I. Illich, Œuvres complètes, volume1, op. cit., pp. 454-455.
(5) Ibid., p. 456.
(6) I. Illich, L’Histoire des besoins, in La Perte des sens (Favard, 2003), pp. 71-105.
(7) Ibid., p.75.
(8) Ibid., id.
(9) Ibid., p.78.
(10) I. Illich, Le Travail fantôme, in Œuvres complètes, volume 2, op. cit., p. 107.
(11) F. Partant, La Fin du développement. Naissance d’une alternative ? (Saint-Amant-Montrond, Babel, 1997).
(12) I. Illich, Le Travail fantôme, op. cit., p. 96.
(13) Le terme provient des analyses de Karl Polanyi; il désigne, en résumé, les ressources, les lieux et les activités de survie qui ne relèvent ni de l’État ni du marché. Pour plus de précision à ce propos, voir K. Polanyi, La Grande Transformation. Aux origines politiques et économiques de notre temps (Gallimard, coll. NRF, 1998).
(14) I. Illich, Le Travail fantôme, op. cit., p. 113. Dans les sociétés où le vernaculaire dominerait, «l’individu qui a choisi son indépendance et son horizon tire de ce qu’il a fait et fabrique pour son usage immédiat plus de satisfaction que ne lui en procureraient les produits fournis par des esclaves ou des machines. C’est là un type de programme culturel nécessairement modeste. Les gens vont aussi loin qu’ils le peuvent dans la voie de l’autosubsistance, produisant au mieux de leur capacité, échangeant leur excédent avec leurs voisins, se passant, dans toute la mesure du possible, des produits du travail salarié», p. 103.

L’auteur
Frédéric Dufoing est né en 1973 à Liège, en Belgique. Philosophe et politologue de formation, il dirige, avec Frédéric Saenen, la revue Jibrile et a publié de nombreux articles, entretiens (avec Philippe Muray, Serge Latouche, Jacques Vergès, etc.), pamphlets, critiques et chroniques concernant – notamment – l'éthique des techniques, la pensée d'Ivan Illich et celle de Jacques Ellul. Il prépare actuellement un ouvrage consacré à l'écologisme radical.

vendredi, 17 décembre 2010

D. H. Lawrence on Men & Women

D. H. Lawrence on Men & Women

Derek HAWTHORNE

Ex: http://www.counter-currents.com/

1. Love and Strife

Lawrence.jpgIn a 1913 letter D. H. Lawrence writes that “it is the problem of to-day, the establishment of a new relation, or the readjustment of the old one, between men and women.” Lawrence’s views about relations between the sexes, and about sex differences are perhaps his most controversial – and they have frequently been misrepresented. But before we delve into those views, let us ask why it should be the case that establishing a new relation between men and women is “the problem of to-day.” The reason is fairly obvious. The species divides itself into male and female, reproduces itself thereby, and the overwhelming majority of human beings seek their fulfillment in a relationship to the opposite sex. If relations between the sexes have somehow been crippled—as Lawrence believes they have been—then this is a catastrophe. It is hard to imagine a greater, more pressing problem.

Lawrence came to relations with women bearing serious doubts about his own manhood, and with the conviction that his nature was fundamentally androgynous. Throughout his life, but especially as a boy, it was easier for him to relate to women and to form close bonds with them. Thus, when Lawrence discusses the nature of woman he draws not only upon his experiences with women, but also upon his understanding of his own nature. One of the questions we must examine is whether, in doing so, Lawrence was led astray. After all, Lawrence eventually came to repudiate the idea of any sort of fundamental androgyny and to claim that men and women are radically different. In Fantasia of the Unconscious he writes, “We are all wrong when we say there is no vital difference between the sexes.” Lawrence wrote this in 1921 intending it to be provocative, but it is surely much more controversial in today’s world, where it has become a dogma in some circles to insist that sex differences (now called “gender differences”) are “socially constructed.” Lawrence continues: “There is every difference. Every bit, every cell in a boy is male, every cell is female in a woman, and must remain so. Women can never feel or know as men do. And in the reverse, men can never feel and know, dynamically, as women do.”

Lawrence saw relations between the sexes as essentially a war. He tells us in his essay “Love” that all love between men and women is “dual, a love which is the motion of melting, fusing together into oneness, and a love which is the intense, frictional, and sensual gratification of being burnt down, burnt into separate clarity of being, unthinkable otherness and separateness.” The love between men and women is a fusing—or a will to fusing—but one that never fully takes place because the relation is also fundamentally frictional. Again and again Lawrence emphasizes the idea that men and women are metaphysically different. In other words, they have different, and even opposed ways of being in the world. They are not just anatomically different; they have different ways of thinking and feeling, and achieve satisfaction and fulfillment in life through different means.

Lawrence’s view of the difference between the sexes can be fruitfully compared to the Chinese theory of yin and yang.  These concepts are of great antiquity, but the way in which they are generally understood today is the product of an ambitious intellectual synthesis that took place under the early Han dynasty (207 B.C.–9 A.D.). According to this philosophy, the universe is shot through with an ultimate principle or power known as the Tao. However, the Tao divides itself into two opposing principles, yin and yang. These oppose yet complement each other. Yang manifests itself in maleness, hardness, harshness, dominance, heat, light, and the sun, amongst other things. Yin manifests itself in femaleness, softness, gentleness, yielding, cold, darkness, the moon, etc.

Contrary to the impression these lists might give, however, yang is not regarded as “superior” to yin; hardness is not superior to softness, nor is dominance superior to yielding. Each requires the other and cannot exist without the other. In certain situations a yang approach or condition is to be preferred, in others a yin approach. On occasion, yang may predominate to the point where it becomes harmful, and it must be counterbalanced by yin, or vice versa. (These principles are of central importance, for example, in traditional Chinese medicine.) The Tao Te Ching, a work written by a man chiefly for men extols the virtues of yin, and continually advises one to choose yin ways over yang. Lao-Tzu tells us over and over that it is “best to be like water,” that “those who control, fail. Those who grasp, lose,” and that “soft and weak overcome stiff and strong.”

Like the Taoists, Lawrence regards maleness and femaleness as opposed, yet complementary. It is not the case that the male, or the male way of being, is superior to the female, or vice versa. In a sense the sexes are equal, yet equality does not mean sameness. The error of male chauvinism is in thinking that one way, the male way, is superior; that dominance and hardness are just “obviously” superior to their opposites.

Yet the same error is committed by some who call themselves feminists. Tacitly, they assume that the male or yang characteristics are superior, and enjoin women to seek fulfillment in life through cultivating those traits in themselves. To those who might wonder whether such a program is possible, to say nothing of desirable, the theory of the “social construction of gender” is today being offered as support. According to this view, the only inherent differences between men and women are anatomical, and all of the intellectual, emotional, and behavioral characteristics attributed to the sexes throughout history have actually been the product of culture and environment. (And so “yin and yang,” according to this view, is really a rather naïve philosophy which confuses nurture with nature.) Clearly, Lawrence would reject this theory. In doing so, he is on very solid ground.

It would, of course, be foolish not to recognize that some “masculine” and “feminine” traits are culturally conditioned. An obvious example would be the prevailing view in American culture that a truly “masculine” man is unable, without the help of women or gay men, to color-coordinate his wardrobe. However, when one sees certain traits in men and women displaying themselves consistently in all cultures and throughout all of human history it makes sense to speak of masculine and feminine natures. It is plausible to argue that a trait is culturally conditioned only if it shows up in some cultures but not in others. Unfortunately, the “social construction of gender” thesis has achieved the status of a dogma in academic circles. And, in truth, ultimately it has to be asserted as dogma since believing in it requires that we ignore the evidence of human history, profound philosophies such as Taoism, and most of the scientific research into sex differences that has taken place over the last one hundred years.

I said earlier that Lawrence believes men and women to be “metaphysically different,” and in his essay “A Study of Thomas Hardy” he does indeed write as if he believes they actually see the world with a different metaphysics in mind:

It were a male conception to see God with a manifold Being, even though He be One God. For man is ever keenly aware of the multiplicity of things, and their diversity. But woman, issuing from the other end of infinity, coming forth as the flesh, manifest in sensation, is obsessed by the oneness of things, the One Being, undifferentiated. Man, on the other hand, coming forth as the desire to single out one thing from another, to reduce each thing to its intrinsic self by process of elimination, cannot but be possessed by the infinite diversity and contrariety in life, by a passionate sense of isolation, and a poignant yearning to be at one.

So, men seek or are preoccupied with multiplicity, and women with unity. What are we to make of such a bizarre claim? First of all, it seems to run counter to the Greek tradition, especially that of the Pythagoreans, which tended to identify the One with the masculine, and the Many with the feminine. However, if one looks to Empedocles, a pre-Socratic philosopher Lawrence was particularly keen on, one finds a different story. Empedocles posits two fundamental forces which are responsible for all change in the universe: Love and Strife. Love, at the purely physical level, is a force of attraction. It draws things together, and without the intervention of Strife it would result in a monistic universe in which only one being existed. Strife breaks up and divides. It is a force of repulsion and separation. Now, Empedocles seems to identify Love with Aphrodite, and we may infer, though he does not say so, that Strife is Ares. In other words, he identifies his two forces with the archetypal female and male. This can offer us a clue as to what Lawrence is up to.

In Lawrence’s view, it is the female who wants to draw things, especially people, together. It is the female who yearns to heal divisions, to break down barriers. “Coming forth as the flesh, manifest in sensation” she seeks to overcome separateness through feeling, primarily through love. In the family situation, it is the female who tries to unite and overcome discord through love, whereas it is the male, typically, who frustrates this through the insistence on rules and distinctions. The ideal of universal love and an end to strife and division is fundamentally feminine—one which men, throughout history, have continually frustrated. It is characteristic of men to make war, and characteristic of women, no matter what cause or principle is involved, to object and to call for peace and unity.

Now the male, as Lawrence puts it, suffers from a sense of isolation, and a “yearning to be one.” He yearns for oneness, in fact, as the male yearns for the female. Yet his entire being disposes him to see the world in terms of its distinctness, and, indeed, to make a world rife with distinctions. Lawrence implies that polytheism is a “male” religion, and monotheism a “female” one. It is easy to see the logic involved in this. Polytheism sees the divine being that permeates the world as many because the world is itself many. Further, societies with polytheistic religions have always been keenly aware of ethnic and social differences, differences within the society (as in the Indian caste system), and between societies. Monotheism, on the other hand, tends toward universalism. Christianity especially, however it has actually been practiced, declares all men equal in the sight of God and calls for peace and unity in the world. (Lawrence, as we shall see later on, does indeed regard Christianity as a “feminine” religion, and blames it, in part, for feminizing Western men.)

This fundamental, metaphysical difference has the consequence that men and women do, in a real sense, live in different worlds. But perhaps such a formulation reflects a male bias towards differentiation. It is equally correct to say, in a more “feminine” formulation, that it is the same world seen in two, complementary ways. Indeed, it may be the case that it is difficult to see, from a male perspective, how the two sexes and their different ways of thinking and perceiving can achieve a rapprochement. Lawrence believes, of course, that they can live together, and that their opposite tendencies can be harmonized. In this way he is like Heraclitus, Lawrence’s favorite pre-Socratic, when he says “what is opposed brings together; the finest harmony is composed of things at variance, and everything comes to be in accordance with strife.” Heraclitus also tells us that “They do not understand how, though at variance with itself, it [the Logos] agrees with itself. It is a backwards-turning attunement like that of the bow and lyre.” In order to make a lyre or a bow, the two opposite ends of a piece of wood must be bent towards each other, never meeting, but held in tension. Their tension and opposition makes possible beautiful music, in the case of the lyre, and the propulsion of an arrow, in the case of the bow. Both involve a harmony through opposition.

In a 1923 newspaper interview Lawrence is quoted as saying “If men were left to themselves, they would rush off . . . into destruction. But women keep life back at its own center. They pull the men back. Women have enormous passive strength, the strength of inertia.” Here Lawrence uses an image he was very fond of: women are at the center, the hub. This is because they are closer to “the source” than men are.

womeninlove.jpgIn Fantasia of the Unconscious, Lawrence tells us “The blood-consciousness and the blood-passion is the very source and origin of us. Not that we can stay at the source. Nor even make a goal of the source, as Freud does. The business of living is to travel away from the source. But you must start every single day fresh from the source. You must rise every day afresh out of the dark sea of the blood.” Lawrence believes that men yearn for purposive, creative activity, which involves moving away from the source. However, the energy and inspiration for purposive activity is drawn from the source, and so there is a complementary movement back towards it.

In The Rainbow, Lawrence describes how Tom Brangwen, besotted with his wife, seems to lose himself in a sensual obsession with her, and with knowing her sexually. But gradually,

Brangwen began to find himself free to attend to the outside life as well. His intimate life was so violently active, that it set another man in him free. And this new man turned with interest to public life, to see what part he could take in it. This would give him scope for new activity, activity of a kind for which he was now created and released. He wanted to be unanimous with the whole of purposive mankind.

Sex is one means of contacting the source. Men contact the source through women. This does not mean, of course, that blood-consciousness is in women but not in men. Rather, it means that in most men the blood-consciousness in them is “activated” primarily through their relationship to women. Second, in women blood-consciousness is more dominant than it is in men. Women are more intuitive than men; they operate more on the basis of feeling than intellect. It should not be necessary to point out that whereas such an observation might, in another author, be taken as a denigration of women, in Lawrence it is actually high praise. Women are also much more in tune with their bodies and bodily cycles than men are. Men tend to see their bodies as adversaries that must be whipped into shape.

When Lawrence continually tells us that we must find a way to reawaken the blood-consciousness in us, he is writing primarily for men. Women are already there—or, at least, they can get there with less effort. There is an old adage: “Women are, but men must become.” To be feminine is a constant state that a woman has as her birthright. Masculinity, on the other hand, is something men must achieve and prove. Rousseau in Emile states “The male is male only at certain moments, the female is female all of her life, or at least all her youth.” We exhort boys to “be a man,” but never does one hear girls told to “be a woman.” One can compliment a man simply by saying “he’s a man,” whereas “she’s a woman” seems mere statement of fact. The psychological difference between masculinity and femininity mirrors the biological fact that all fetuses begin as female; something must happen to them in order to make them male. It also articulates what is behind the strange conviction many men have had, including many great poets and artists, that woman is somehow the keeper of life’s mysteries; the one closest to the well-spring of nature.

In “A Study of Thomas Hardy,” Lawrence states that “in a man’s life, the female is the swivel and centre on which he turns closely, producing his movement.” Goethe tells us “Das ewig Weiblich zieht uns hinan” (“The Eternal Feminine draws us onwards”). The female, the male’s source of the source, stands at the center of his life. The woman as personification of the life mystery entices him to come together with her, and through their coupling the life mystery perpetuates itself. But he is not, ultimately, satisfied by this coupling. He goes forth into the world, his body renewed by his contact with the woman, but full of desire to know this mystery more adequately, and to be its vehicle through creative expression.

Without a woman, a man feels unmoored and ungrounded, for without a woman he has no center in his life. A man—a heterosexual man—can never feel fulfilled and can never reach his full potential without a woman to whom he can turn. As to homosexual men, it is a well-known fact that many cultivate in themselves characteristics that have been traditionally usually associated with woman: refined taste in clothing and decoration, cooking, gardening, etc. What these characteristics have in common is connectedness to the pleasures of the moment, and to the rhythms and necessities of life. Men are normally purpose-driven and future-oriented. They tend to overlook those aspects of life that please, but lack any greater purpose other than pleasing. They tend, therefore, to be somewhat insensitive to their surroundings, to color, to texture, to odor, to taste. They tend, in short, to be so focused upon doing, that they miss out on being. Heterosexual men look to women to ground them, and to provide these ingredients to life—ingredients which, in truth, make life livable. Homosexual men must make a woman within themselves, in order to be grounded. (This does not mean, however, that they must become effeminate – see my review essay of Jack Donovan’s Androphilia for more details.)

Homosexual men are, of course, the exception not the rule. Lawrence writes, of the typical man, “Let a man walk alone on the face of the earth, and he feels himself like a loose speck blown at random. Let him have a woman to whom he belongs, and he will feel as though he had a wall to back up against; even though the woman be mentally a fool.” And what of the woman? What does she desire? Lawrence tells us that “the vital desire of every woman is that she shall be clasped as axle to the hub of the man, that his motion shall portray her motionlessness, convey her static being into movement, complete and radiating out into infinity, starting from her stable eternality, and reaching eternity again, after having covered the whole of time.” Man is the “doer,” the actor, whereas woman need do nothing. Just by being woman she becomes the center of a man’s universe.

The dark side of this, in Lawrence’s view, is a tendency in women towards possessiveness, and towards wanting to make themselves not just the center of a man’s life but his sole concern. In Women in Love, Lawrence’s describes at length Rupert Birkin’s process of wrestling with this aspect of femininity:

But it seemed to him, woman was always so horrible and clutching, she had such a lust for possession, a greed of self-importance in love. She wanted to have, to own, to control, to be dominant. Everything must be referred back to her, to Woman, the Great Mother of everything, out of whom proceeded everything and to whom everything must finally be rendered up.

Birkin sees these qualities in Ursula, with whom he is in love. “She too was the awful, arrogant queen of life, as if she were a queen bee on whom all the rest depended.” He feels she wants, in a way, to worship him, but “to worship him as a woman worships her own infant, with a worship of perfect possession.”

Woman’s possessiveness is understandable given that the man is necessary to her well-being: she is only happy if she is center to the orbit and activity of some man. Again, for Lawrence, such a claim does not denigrate women, for he has already as much as said that a man is nothing without a woman. Nevertheless, some will see in this view of men and woman a sexism that places the man above the woman. From Lawrence’s perspective, this is illusory. It is true that the man is “doer,” but his perpetual need to act and to do stands in stark contrast to the woman, who need do nothing in order be who she is. It is true, further, that men’s ambition has given them power in the world, but it is a power that is nothing compared to that of the woman, who exercises her power without having to do anything. She reigns, without ruling. The man does what he does, but must return to the woman, and is “like a loose speck blown at random without her” – and he knows this. Much of misogyny may have to do with this. From the man’s perspective, the woman is all-powerful, and the source of her power a mystery.

Many modern feminists, however, conceive of power in an entirely male way, as the active power of doing. Lawrence recognized that in trying to cultivate this male power within themselves, women do not rise in the estimation of most men. Instead they are diminished, for men’s respect for and fascination with women springs entirely from the fact that unlike themselves women do not have to chase after an ideal of who they ought to be; they do not have to get caught up in the rat race in order to respect themselves. They can simply be; they can live, and take joy just in living.

One can make a rough distinction between two types of feminism. The most familiar type is what one might call the “woman on the street feminism,” which one encounters from average, working women, and which they imbibe from television, films, and magazines. This feminism essentially has as its aim claiming for women all that which formerly had been the province of men—including not only traditionally male jobs, but even male ways of speaking, moving, dressing, bonding, exercising, and displaying sexual interest. Ironically, this form of feminism is at root a form of masculinism, which makes traditionally masculine traits the hallmarks of the “liberated” or self-actualized human being.

The other type of feminism is usually to be found only in academia, though not all academic feminists subscribe to it. It insists that women have their own ways of thinking, feeling, and relating to others. Feminist philosophers have written of woman’s “ways of knowing” as distinct from men’s, and have even put forward the idea that women approach ethical decision-making in a markedly different way. It is this form of feminism to which Lawrence is closest. Lawrence’s writings are concerned with liberating both men and women from the tyranny of a modern civilization which cuts them off from their true natures. Liberation for modern women cannot mean becoming like modern men, for modern men are living in a condition of spiritual (as well as wage) slavery. In an essay on feminism, Wendell Berry writes

It is easy enough to see why women came to object to the role of [the comic strip character] Blondie, a mostly decorative custodian of a degraded, consumptive modern household, preoccupied with clothes, shopping, gossip, and outwitting her husband. But are we to assume that one may fittingly cease to be Blondie by becoming Dagwood? Is the life of a corporate underling—even acknowledging that corporate underlings are well paid—an acceptable end to our quest for human dignity and worth? . . . How, I am asking, can women improve themselves by submitting to the same specialization, degradation, trivialization, and tyrannization of work that men have submitted to? [Wendell Berry, “Feminism, the Body, and the Machine,” in The Art of the Commonplace: The Agrarian Essays of Wendell Berry, ed. Norman Wirzba (Washington, D.C.: Counterpoint, 2002), 69–70.]

I will return to this issue later.

Having now characterized, in broad strokes, Lawrence’s views on the differences between men and woman, I now turn to a more detailed discussion of each.

2. The Nature of Man

As we have seen, Lawrence believes that men (most men) need to have a woman in their lives. Their relationship to a woman serves to ground their lives, and to provide the man not only with a respite from the woes of the world, but with energy and inspiration. However, this is not the same thing as saying that the man makes the woman, or his relationship to her, the purpose of his life. In Fantasia of the Unconscious Lawrence writes, “When he makes the sexual consummation the supreme consummation, even in his secret soul, he falls into the beginnings of despair. When he makes woman, or the woman and child, the great centre of life and of life-significance, he falls into the beginnings of despair.” This is because Lawrence believes that true satisfaction for men can come only from some form of creative, purposive activity outside the family.

women1.jpgHaving a woman is therefore a necessary but not a sufficient condition for male happiness. In addition to a woman, he must have a purpose. Women, on the other hand, do not require a purpose beyond the home and the family in order to be happy. This is another of those claims that will rankle some, so let us consider two important points about what Lawrence has said. First, he is speaking of what he believes the typical woman is like, just as he is speaking of the typical man. There are at least a few exceptions to just about every generalization. Second, we must ask an absolutely crucial question of those who regard such claims as demeaning women: why is being occupied with home and family lesser than having a purpose (e.g., a career) outside the home? The argument could be made—and I think Lawrence would be sympathetic to this—that the traditional female role of making a home and raising children is just as important and possibly more important than the male activities pursued outside the home. Again, much of contemporary feminism sees things from a typically male point of view, and denigrates women who choose motherhood rather than one of the many meaningless, ulcer-producing careers that have long been the province of men.

Lawrence writes, “Primarily and supremely man is always the pioneer of life, adventuring onward into the unknown, alone with his own temerarious, dauntless soul. Woman for him exists only in the twilight, by the camp fire, when day has departed. Evening and the night are hers.” Lawrence’s male bias creeps in here a bit, as he romanticizes the “dauntless” male soul. Men and women always believe, in their heart of hearts, that their ways are superior. Nevertheless, Lawrence is not here relegating women to an inferior position. Half of life is spent in the evening and night. Day belongs to the man, night to the woman. It is a division of labor. Lawrence is drawing here, as he frequently does, on traditional mythological themes: the man is solar, the woman lunar.

Lawrence characterizes the man’s pioneering activity as follows: “It is the desire of the human male to build a world: not ‘to build a world for you, dear’; but to build up out of his own self and his own belief and his own effort something wonderful. Not merely something useful. Something wonderful.” In other words, the man’s primary purpose is not having or doing any of the “practical” things that a wife and a family require. And when he acts on a larger scale—Lawrence gives building the Panama Canal as an example—it is not with the end in mind of making a world in which wives and babes can be more comfortable and secure (“a world for you, dear”). He seeks to make his mark on the world; to bring something glorious into existence. And so men create culture: games, religions, rituals, dances, artworks, poetry, music, and philosophy. Wars are fought, ultimately, for the same reason. It is probably true, as is often asserted, that every war has some kind of economic motivation. However, it is probably also true to assert that in the case of just about every actual war there was another, more cost-effective alternative. Men make war for the same reason they climb mountains, jump out of airplanes, race cars, and run with the bulls: for the challenge, and the fame and glory and exhilaration that goes with meeting the challenge. It is an aspect of male psychology that most women find baffling, and even contemptible.

Now, curiously, Lawrence refers to this “impractical,” purposive motive of the male as an “essentially religious or creative motive.” What can he mean by this? Specifically, why does he characterize it as a religious motive?

It is religious because it involves the pursuit of something that is beyond the ordinary and the familiar. It is a leap into the unknown. The man has to follow what Lawrence frequently calls the “Holy Ghost” within himself and to try to make something within the world. He yearns always for the yet-to-be, the yet-to-be-realized, and always has his eye on the future, on what is in process of coming to be. Yet there seems to be, at least on the surface, a strange inconsistency in Lawrence’s characterization of the man’s motive as religious. After all, for Lawrence the life mystery, the source of being is religious object—and women are closer to this source. Man is entranced by woman, and with her he helps to propagate this power in the world through sex, but his sense of “purpose” causes him to move away from the source. So why isn’t it the woman whose “motives” are religious, and the man who is, in effect, irreligious?

The answer is that religion is not being at the source: it is directedness toward the source. Religion is possible only because of a lack or an absence in the human soul. Religion is ultimately a desire to put oneself at-one with the source. But this is possible only if one is not, originally or most of the time, at one with it. In a way, the woman is not fundamentally religious because she is the goddess, the source herself. The sexual longing of the man for the woman, and his utter inability ever to fully satisfy his desire and to resolve the mystery that is woman, are a kind of small-scale allegory for man’s large-scale, religious relationship to the source of being itself. He is, as I have said, renewed by his relations with women and, for a time, satisfied. But then he goes forth into the world with a desire for something, something. He creates, and when he does he is acting to exalt the life mystery (religion and art), to understand it (philosophy and science), or to further it (invention and production).

Lawrence speaks of how a man must put his wife “under the spell of his fulfilled decision.” Woman, who rules over the night, draws man to her and they become one through sex. Man, who rules the day, draws woman into his purpose, his aim in life, and through this they become one in another fashion. The man’s purpose does not become the woman’s purpose. He pursues this alone. But if the woman simply believes in him and what he aims to do, she becomes a tremendous source of support for the man, and she gives herself a reason for being. The man needs the woman as center, as hub of his life, and the woman needs to play this role for some man. Without a mate, though a man may set all sorts of purposes before him, ultimately they seem meaningless. He feels a sense of hollow emptiness, and drifts into despair. He lets his appearance go, and lives in squalor. He may become an alcoholic and a misogynist. He dies much sooner than his married friends, often by his own hand. As to the woman, without a man who has set himself some purpose that she can believe in, she assumes the male role and tries to find fulfillment through some kind of busy activity in the world. But as she pursues this, she feels increasingly bitter and hard, and a terrific rage begins to seethe beneath her placid surface. She becomes a troublemaker and a prude. Increasingly angry at men, she makes a virtue of necessity and declares herself emancipated from them. She collects pets.

In Studies in Classic American Literature Lawrence writes:

As a matter of fact, unless a woman is held, by man, safe within the bounds of belief, she becomes inevitably a destructive force. She can’t help herself. A woman is almost always vulnerable to pity. She can’t bear to see anything physically hurt. But let a woman loose from the bounds and restraints of man’s fierce belief, in his gods and in himself, and she becomes a gentle devil.

If a woman is to be the hub in the life a man, and derive satisfaction from that, everything depends on the spirit of the man. A few lines later in the same text Lawrence states, “Unless a man believes in himself and his gods, genuinely: unless he fiercely obeys his own Holy Ghost; his woman will destroy him. Woman is the nemesis of doubting man.” In order for the woman to believe in a man, the man must believe in himself and his purpose. If he is filled with self-doubt, the woman will doubt him. If he lacks the strength to command himself, he cannot command her respect and devotion. And the trouble with modern men is that they are filled with self-doubt and lack the courage of their convictions.

Lawrence, following Nietzsche, in part blames Christianity for weakening modern, Western men. Men are potent—sexually and otherwise—to the extent they are in tune with the life force. But Christianity has “spiritualized” men. It has filled their heads with hatred of the body, and of strength, instinct, and vitality. It has infected them with what Lawrence calls the “love ideal,” which demands, counter to every natural impulse, that men love everyone and regard everyone as their equal.

Frequently in his fiction Lawrence depicts relationships in which the woman has turned against the man because he is, in effect, spiritually emasculated. The most dramatic and symbolically obvious example of this is the relationship of Clifford and Connie  in Lady Chatterley’s Lover. Clifford returns from the First World War paralyzed from the waist down. But like the malady of the Grail King in Wolfram’s Parzival, this is only (literarily speaking) an outward, physical expression of an inward, psychic emasculation. Clifford is far too sensible a man to allow himself to be overcome by any great passion, so the loss of his sexual powers is not so dear. He has a keen, cynical wit and believes that he has seen through passion and found it not as great a thing as poets say that it is. It is his spiritual condition that drives Connie away from him, not so much his physical one. And so she wanders into the game preserve on their estate (representing the small space of “wildness” that still can rise up within civilization) and into the arms of Mellors, the gamekeeper. Their subsequent relationship becomes a hot, corporeal refutation of Clifford’s philosophy.

In Women in Love, Gerald Crich, the industrial magnate, is destroyed by Gudrun essentially because he does not believe in himself. Outwardly, he is “the God of the machine.” But his mastery of the material world is meaningless busywork, and he knows it. Gudrun is drawn to him because of this outward appearance of power, but when she finds that it is an illusion she hates him, and ultimately drives him to his death. For Lawrence, this is an allegory of the modern relationship between the sexes. Men today are masters of the material universe as they have never been before, but inside they are anxious and empty. The reason is that these “materialists” are profoundly afraid of and hostile to matter and nature, especially their own. Their intellect and “will to power” has cut them off from the life force and they are, in their deepest selves, impotent. The women know this, and scorn them.

In The Rainbow, Winifred Inger is Ursula’s teacher (with whom she has a brief affair), and an early feminist. She tells Ursula at one point,

The men will do no more,–they have lost the capacity for doing. . . .  They fuss and talk, but they are really inane. They make everything fit into an old, inert idea. Love is a dead idea to them. They don’t come to one and love one, they come to an idea, and they say “You are my idea,” so they embrace themselves. As if I were any man’s idea! As if I exist because a man has an idea of me! As if I will be betrayed by him, lend him my body as an instrument for his idea, to be a mere apparatus of his dead theory. But they are too fussy to be able to act; they are all impotent, they can’t take a woman. They come to their own idea every time, and take that. They are like serpents trying to swallow themselves because they are hungry.”

In Fantasia of the Unconscious Lawrence writes, “If man will never accept his own ultimate being, his final aloneness, and his last responsibility for life, then he must expect woman to dash from disaster to disaster, rootless and uncontrolled.”

It is important to understand here that the issue is not one of power. Lawrence’s point not that men must dominate or control their wives. In fact, in a late essay entitled “Matriarchy” (originally published as “If Women Were Supreme”) Lawrence actually advocates rule by women, at least in the home, because he believes it would liberate men. He assumes the truth of the claim—now in disrepute—that early man had lived in matriarchal societies and writes, “the men seem to have been lively sorts, hunting and dancing and fighting, while the woman did the drudgery and minded the brats. . . . A woman deserves to possess her own children and have them called by her name. As to the household furniture and the bit of money in the bank, it seems naturally hers.” The man, in such a situation, is not the slave of the woman because the man is “first and foremost an active, religious member of the tribe.” The man’s real life is not in the household, but in creative activity, and religious activity:

The real life of the man is not spent in his own little home, daddy in the bosom of the family, wheeling the perambulator on Sundays. His life is passed mainly in the khiva, the great underground religious meeting-house where only the males assemble, where the sacred practices of the tribe are carried on; then also he is away hunting, or performing the sacred rites on the mountains, or he works in the fields.

Men, Lawrence tells us, have social and religious needs which can only be satisfied apart from women. The disaster of modern marriage is that men not only think they have to rule the roost, but they accept the woman’s insistence that he have no needs or desires that cannot be satisfied through his relationship to her. He becomes master of his household, and slave to it at the same time:

Now [man’s] activity is all of the domestic order and all his thought goes to proving that nothing matters except that birth shall continue and woman shall rock in the nest of this globe like a bird who covers her eggs in some tall tree. Man is the fetcher, the carrier, the sacrifice, and the reborn of woman. . . . Instead of being assertive and rather insentient, he becomes wavering and sensitive. He begins to have as many feelings—nay, more than a woman. His heroism is all in altruistic endurance. He worships pity and tenderness and weakness, even in himself. In short, he takes on very largely the original role of woman.

Ironically, in accepting such a situation without a fight, he only earns the woman’s contempt: “Almost invariably a [modern] married woman, as she passes the age of thirty, conceives a dislike, or a contempt, of her husband, or a pity which is near to contempt. Particularly if he is a good husband, a true modern.”

3. The Nature of Woman

In Fantasia of the Unconscious Lawrence writes, “Women will never understand the depth of the spirit of purpose in man, his deeper spirit. And man will never understand the sacredness of feeling to woman. Each will play at the other’s game, but they will remain apart.” But what is meant by “feeling” here? Lawrence is referring again to his belief that women live, to a greater extent than men, from the primal self. In the case of most men today, “mind-consciousness” and reason are dominant—to the point where they are frequently detached from “blood-consciousness” and feeling.

In describing the nature of woman Lawrence once again draws on perennial symbols: “Woman is really polarized downwards, towards the centre of the earth. Her deep positivity is in the downward flow, the moon-pull.” The sun represents man, and the moon woman. Day belongs to him, and night to her. However, another set of mythic images associates the earth with woman and the sky with man. The “pull” in women is towards the earth, and this means several things. First, the earth is the source of chthonic powers, and so, as poetic metaphor, it represents the primal, pre-mental, animal aspect in human beings. In a literal sense, however, Lawrence believes that women are more in tune than men with chthonic powers: with the rhythms of nature and the cycle of seasons. Further, the “downward flow” refers to Lawrence’s belief that the lower “centres” of the body are, in a sense, more primitive, more instinctual than the upper, and that women tend to live and act from these centers more than men do. Lawrence writes, “Her deepest consciousness is in the loins and belly. . . . The great flow of female consciousness is downwards, down to the weight of the loins and round the circuit of the feet.”

Finally, to be “polarized downwards, towards the centre of the earth” means to have one’s life, one’s vital being fixed in reference to a central point. If Lawrence intends us to assume that man is polarized upwards then we may ask, toward what? If woman is oriented towards the center of the earth, then–following the logic of the mythic categories–is man oriented toward the center of the sky? But the sky has no center. Man is less fixed than woman; he is a wanderer. He is a hunter, a seeker, a pioneer, an adventurer. Woman, on the other hand, lives from the axis of the world. Mircea Eliade writes that “the religious man sought to live as near as possible to the Center of the World.” Woman is at the center. Man begins there, then goes off. He returns again and again, the phallic power in him rising in response to the chthonic power of the woman. And his religious response is an ongoing effort to bring his daytime self into line with the life force he experiences when in the arms of the woman.

Woman, Lawrence tells us, “is a flow, a river of life,” and this flow is fundamentally different from the man’s river. However, “The woman is like an idol, or a marionette, always forced to play one role or another: sweetheart, mistress, wife, mother.” The mind of the male is built to analyze and categorize. But the nature of woman, like the nature of nature itself, defies categorization. Even before Bacon, man’s response to nature was to force it to yield up its secrets, to bend it to the human will, or to see it only within the narrow parameters of whatever theory was fashionable at the moment. The male mind attempts to do this to woman as well–and the woman, to a great extent, cooperates. She fits herself into the roles expected of her by authority figures, whether it is dutiful daughter-sister-wife-mother, or dutiful feminist and career-woman.

Lawrence writes, “The real trouble about women is that they must always go on trying to adapt themselves to men’s theories of women, as they always have done.” Two opposing wills exist in women, Lawrence believes: a will to conform or to submit, and a will to reject all boundaries and be free. In Women in Love, Birkin compares women to horses:

“And of course,” he said to Gerald, “horses haven’t got a complete will, like human beings. A horse has no one will. Every horse, strictly, has two wills. With one will, it wants to put itself in the human power completely—and with the other, it wants to be free, wild. The two wills sometimes lock—you know that, if ever you’ve felt a horse bolt, while you’ve been driving it. . . . And woman is the same as horses: two wills act in opposition inside her. With one will, she wants to subject herself utterly. With the other she wants to bolt, and pitch her rider to perdition.”

Ursula, who is present at this exchange, laughs and responds “Then I’m a bolter.” The trouble is that she is not.

Lawrence’s fiction is filled with vivid portrayals of women (arguably much more vivid and well-drawn than his portrayals of men). The central characters in several of his novels are women (The Rainbow, The Lost Girl, The Plumed Serpent, and Lady Chatterley’s Lover). All of Lawrence’s major female characters exhibit these two wills, but frequently he presents pairs of women each of whom represents one of the wills. This is the case in Women in Love. Ultimately, in Ursula’s character the will to surrender emerges as dominant. In her sister Gudrun the will to be free and wild dominates, with tragic results. In Lady Chatterley’s Lover, Connie Chatterley exhibits the will to surrender, and her sister Hilda the will to be free. The two lesbians in Lawrence’s novella The Fox are cut from the same cloth. Similar pairs of women also crop up in Lawrence’s short stories. In each case, one woman learns the joys of submitting, not to a man but to the earth, to nature, to the life mystery within her. The man is a means to this, however. The best example of this in Lawrence’s fiction is probably Connie Chatterley’s journey to awakening. In John Thomas and Lady Jane, an earlier version of Lady Chatterley’s Lover, Lawrence has Connie speak of the significance of her lover and of his penis: “I know it was the penis which really put the evening stars into my inside self. I used to look at the evening star, and think how lovely and wonderful it was. But now it’s in me as well as outside me, and I need hardly look at it. I am it. I don’t care what you say, it was penis gave it me.” As to the other woman in Lawrence’s fiction, she tends to be horrified by the primal self in her, and its call to surrender. She lives from the ego. She rages against anything in her nature that is unchosen, and against anything else that would hem her in, especially any man. She views herself as “realistic” and hardheaded, but the general impression she gives is of being hardhearted and sterile.

In his portrayals of the latter type of woman, Lawrence is partly depicting what he believes to be a perennial aspect of the female character, and partly depicting what he regards as the quintessential “modern” woman. It is in the nature of woman to counterbalance the will to submit with an opposing will that “bolts,” and kicks against all that which limits her, including her own nature. Lawrence believes that modern womanhood and all the problems of women today arise from the over-development of that will to freedom.

A “will to freedom” sounds like a good thing, so it is important to realize that essentially what Lawrence means by this is a negative will which tries either to control, or to destroy all that which it cannot control. Lawrence’s critique of modernity is a major topic in itself, but suffice it say that he believes that in the modern period a disavowal of the primal self takes place on a mass, cultural scale. The seeds of this disavowal were sown by Christianity, and reaped by modern scientism, which becomes the avowed enemy of the religion that helped foster it. Individuals live their lives from the standpoint of ego and mental-consciousness, and distrust the blood-consciousness. The negative will in women seizes upon reason and ego-dominance as a means to free herself from the influence of her dark, chthonic self, and from the influence of the men that this dark, chthonic self draws her to. The will to negate, using the mind as its tool, thus becomes the path to “liberation.”

Lawrence writes in Apocalypse:

Today, the best part of womanhood is wrapped tight and tense in the folds of the Logos, she is bodiless, abstract, and driven by a self-determination terrible to behold. A strange ‘spiritual’ creature is woman today, driven on and on by the evil demon of the old Logos, never for a moment allowed to escape and be herself.

And in an essay he writes, “Woman is truly less free today than ever she has been since time began, in the womanly sense of freedom.” This is, of course, exactly the opposite of what is asserted by most pundits today, when they speak of the progress made by woman in the modern era. Why does Lawrence believe that woman is now so unfree? The answer is implied in the quotation from Apocalypse: she is not allowed to be herself.

In Studies in Classic American Literature Lawrence tells us

Men are not free when they are doing just what they like. The moment you can do just what you like, there is nothing you care about doing. Men are only free when they are doing what the deepest self likes.

And there is getting down to the deepest self! It takes some diving.

Because the deepest self is way down, and the conscious self is an obstinate monkey. But of one thing we may be sure. If one wants to be free, one has to give up the illusion of doing what one likes, and seek what IT wishes done.

aaron'srod.jpgWhat Lawrence says here is applicable to both men and women. “To be oneself” in the true sense means to answer to the call of the deepest self. We can only achieve our “fullness of being” if we do so. The mind invents all manner of goals and projects and ideals to be pursued, but ultimately all that we do produces only frustration and emptiness if we act in a way that does not fundamentally satisfy the needs of our deepest, pre-mental, bodily nature.

Lawrence writes further in Apocalypse: “The evil Logos says she must be ‘significant,’ she must ‘make something worth while’ of her life. So on and on she goes, making something worth while, piling up the evil forms of our civilization higher and higher, and never for a second escaping to be wrapped in the brilliant fluid folds of the new green dragon.” Earlier in the same text, Lawrence tells us that “The long green dragon with which we are so familiar on Chinese things is the dragon in his good aspect of life-bringer, life-giver, life-maker, vivifier.” In short, the “green dragon” represents the life force, the source of all, the Pan power. Lawrence is saying that modern woman, in search of something “significant” to do with her life, falls in with all the corrupt (largely, money-driven) pursuits that have brought men nothing but ulcers, emptiness, and early death. “All our present life-forms are evil,” he writes. “But with a persistence that would be angelic if it were not devilish woman insists on the best in life, by which she means the best of our evil life-forms, unable to realize that the best of evil life-forms are the most evil.” Like men, she loses touch with the natural both within herself and in the world surrounding her. Lawrence’s dragon symbolizes both of these: primal nature as such, and the primal nature within me. It is this dragon which Lawrence seeks to awake in himself, and in his readers. The tragedy of modern woman is that she has renounced the dragon, whereas she would be better off being devoured by it.

In John Thomas and Lady Jane Lawrence also links the ideal of fulfilled womanhood to the dragon. Following Connie Chatterley’s musings on the meaning of the phallus (which I quoted earlier), Lawrence writes:

The only thing which had taken her quite away from fear, if only for a night, was the strange gallant phallus looking round in its odd bright godhead, and now the arm of flesh around her, the socket of the hand against her breast, the slow, sleeping thud of the man’s heart against her body. It was all one thing—the mysterious phallic godhead. Now she knew that the worst had happened. This dragon had enfolded her, and its folds were pure gentleness and safety.

Make no mistake, Lawrence believes that women can adopt the ways of men; he believes that they can succeed at traditionally male work. But he believes that they do this at great cost to themselves. “Of all things, the most fatal to a woman is to have an aim,” Lawrence tells us. In general, he believes that the ultimate aim of life is simply living, and that we set a trap for ourselves when we declare that some goal or some ideal shall be the end of life, and believe that this will make life “meaningful.” This applies to men, but even more so to women. Why? Because, again, women are so much closer to the source that men tend to regard women as the life force embodied (“Mother Nature”). For a woman to live for something other than living is to pervert her nature, and her gift. Again, Lawrence’s position is not that a woman is incapable of doing the work of a man, but ultimately she will find it deadening: “The moment woman has got man’s ideals and tricks drilled into her, the moment she is competent in the manly world—there’s an end of it. She’s had enough. She’s had more than enough. She hates the thing she has embraced.”

In our age, many women who have forgone marriage and children in order to pursue a career are discovering this. The body has its own needs and ends, and the organism as a whole cannot flourish and achieve satisfaction unless these needs and ends are satisfied. With some exceptions, women who have chosen not to have children regret it, and suffer in other ways as well (for example, they are at higher risk for developing ovarian cancer than women who have given birth). The same goes for men, many of whom spend a great many “productive” years without feeling a need to reproduce–then are suddenly hit by that need and launch themselves on a frantic, sometimes worldwide search for a suitable mate able to father them a child. Lawrence wrote the following, prophetic words in one of his final essays:

It is all an attitude, and one day the attitude will become a weird cramp, a pain, and then it will collapse. And when it has collapsed, and she looks at the eggs she has laid, votes, or miles of typewriting, years of business efficiency—suddenly, because she is a hen and not a cock, all she has done will turn into pure nothingness to her. Suddenly it all falls out of relation to her basic henny self, and she realizes she has lost her life. The lovely henny surety, the hensureness which is the real bliss of every female, has been denied her: she had never had it. Having lived her life with such utmost strenuousness and cocksureness, she has missed her life altogether. Nothingness!

This quote suggests that Lawrence believes that the woman, the hen, ruins herself by taking up the ways appropriate and natural for the cock – but this is not exactly what he means. In Lawrence’s view, the modern ways of the cock are destroying the cock as well, but they are doubly bad for the hen. What’s bad for the gander is worse for the goose. Lawrence believes that in order to achieve satisfaction in life, we must get in touch with that primal self that the woman is fortunate enough always to be closer to.

4. A New Relation Between Man and Woman

So what is to be done? How are we to repair the damage that has been done in the modern world to the relation between the sexes? How are we to make men into men again, and women into women?

Lawrence has a great deal to say on this subject, but one of his oft-repeated recommendations essentially amounts to saying that relations between the sexes should be severed. By this he means that in order for men and women to come to each other as authentic men and women, they must stop trying to be “pals” with each other. In a 1925 letter he writes, “Friendship between a man and a woman, as a thing of first importance to either, is impossible: and I know it. We are creatures of two halves, spiritual and sensual—and each half is as important as the other. Any relation based on the one half—say the delicate spiritual half alone—inevitably brings revulsion and betrayal.”

In order for men and women to be friends, they must deliberately put aside or suppress their sexual identities and their very different natures. They must actively ignore the fact that they are men and women. They relate to each other, in effect, as neutered, sexless beings. They can never truly relax around each other, for they must continually monitor the way that they look at each other or (more problematic) touch each other. Sitting in too close proximity could awaken feelings that neither wants awakened. If, with respect to their “daytime selves,” men and women are forced to relate to each other in this way regularly, it has the potential of wrecking the ability of the “nighttime self” to relate to the opposite sex in a natural, sensual manner. Once accustomed to the daily routine of suppressing thoughts and feelings, and taking great care never to show a sexual side to their nature, these habits carry over into the realm of the romantic and sexual. Dating and courtship become fraught with tension, each party unsure of the “appropriateness” of this or that display of sexual interest or simple affection. The man, in short, becomes afraid to be a man, and the woman to be a woman. “On mixing with one another, in becoming familiar, in being ‘pals,’ they lose their own male and female integrity.” Writing of the modern marriage, Wendell Berry states

Marriage, in what is evidently its most popular version, is now on the one hand an intimate “relationship” involving (ideally) two successful careerists in the same bed, and on the other hand a sort of private political system in which rights and interests must be constantly asserted and defended. Marriage, in other words, has now taken the form of divorce: a prolonged and impassioned negotiation as to how things shall be divided. During their understandably temporary association, the “married” couple will typically consume a large quantity of merchandise and a large portion of each other.

If we must suppress our masculine and feminine natures in order to be friends with the opposite sex, in what way then do we actually relate to each other? We relate almost entirely through the intellect. Lawrence writes, “Nowadays, alas, we start off self-conscious, with sex in the head. We find a woman who is the same. We marry because we are ‘pals.’” And: “We have made the mistake of idealism again. We have thought that the woman who thinks and talks as we do will be the blood-answer.” Modern men and women begin their relationships as sexless things who relate through ideas and speech. The man looks for a woman, or the woman for a man who thinks and talks as they do; who “knows where they are coming from,” and has “similar values.” They might as well not have bodies at all, or conduct the initial stages of their relationships by telephone or email. Indeed, that is exactly the way many modern relationships are now beginning. But the primary way men and women are built to relate to each other is through the body and the signals of the body; through the subtle, sexual “vibrations” that each gives off, through the sexual gaze (different in the male and in the female), and through touch. No real, romantic relationship can be forged without these, and without feeling through these non-mental means that the two are “right” for each other. We cannot start with “mental agreement” and then construct a sexual relationship around it.

Lawrence, like Rousseau, had a good deal to say about education, and in fact much of what he says is Rousseauian. His ideas on the subject are expressed chiefly in Fantasia of the Unconscious and in a long essay, “The Education of the People.”

In Fantasia of the Unconscious, in a chapter entitled “First Steps in Education,” Lawrence lays out a new program for educating girls and boys: “All girls over ten years of age must attend at one domestic workshop. All girls over ten years of age may, in addition, attend at one workshop of skilled labour or of technical industry, or of art. . . . All boys over ten years of age must attend at one workshop of domestic crafts, and at one workshop of skilled labour, or of technical industry, or of art.” The difference between how boys and girls are to be educated (at least initially) is that whereas both are required to attend a “domestic workshop,” only boys are required to attend a “workshop of skilled labour or of technical industry, or of art.” Keep in mind that Lawrence is laying down the rules for education in his ideal society. He anticipates that whereas all males will work outside the home (in some fashion or other), not all females will. His system is not designed to force women into the role of homemakers, for he leaves it open that girls may, if they choose, learn the same skills as boys. As to higher education, Lawrence leaves this open: “Schools of mental culture are free to all individuals over fourteen years of age. Universities are free to all who obtain the first culture degree.” The system is designed in such a way that individuals are drawn to pursue certain avenues based on their personalities and natural temperaments. Unlike our present society, in Lawrence’s world there would be no universal pressure to attend university: only individuals with certain natural gifts and inclinations would go in that direction. Similarly, the system leaves open the possibility that some women will pursue the same path as men, but only if that is their natural inclination. The intent of Lawrence’s program is not to force individuals into certain roles, but to cultivate their natural, innate characteristics. And as we have seen, Lawrence believes that males and females are innately different.

Lawrence makes it clear elsewhere that in the early years education will be sex-segregated. This is intended to facilitate the development of each student’s character and talents. Males, especially early in life, relate more easily to other males and are better able to devote themselves to their studies in the absence of females. The same thing applies to females. Sex-segregated education in the early years also has the advantage, Lawrence believes, of promoting a healthier interaction between males and females later on. In Fantasia of the Unconscious he states, “boys and girls should be kept apart as much as possible, that they may have some sort of respect and fear for the gulf that lies between them in nature, and for the great strangeness which each has to offer the other, finally.” After all, “You don’t find the sun and moon playing at pals in the sky.”

But this is, of course, all in the realm of fantasy. Lawrence’s system would be practical, if modern society could be entirely restructured, and he is aware that this is not likely to occur anytime soon. So what are we to do in the meantime? Here we encounter some of Lawrence’s most controversial ideas, and most inflammatory prose. He writes, “men, drive your wives, beat them out of their self-consciousness and their soft smarminess and good, lovely idea of themselves. Absolutely tear their lovely opinion of themselves to tatters, and make them look a holy ridiculous sight in their own eyes.” It is this sort of thing that has made Lawrence a bête noire of feminists. Yet, in the next sentence, he adds “Wives, do the same to your husbands.” Lawrence’s intention, as always, is to destroy the ego-centredness in both husband and wife; to destroy the modern tendency for men and women to relate to each other, and to themselves, through ideas and ideals.

As a man and a husband, however, he writes primarily from that standpoint: “Fight your wife out of her own self-conscious preoccupation with herself. Batter her out of it till she’s stunned. Drive her back into her own true mode. Rip all her nice superimposed modern-woman and wonderful-creature garb off her, Reduce her once more to a naked Eve, and send the apple flying.” Does he mean any of this literally? Is he advocating that husbands beat their wives? Perhaps. Lawrence and Frieda were famous for their quarrels, which often came to blows, though the blows were struck by both. Lawrence states the purpose of such “beatings” (whether literal or figurative) as follows: “Make her yield to her own real unconscious self, and absolutely stamp on the self that she’s got in her head. Drive her forcibly back, back into her own true unconscious.”

As we have already seen, Lawrence believes that healthy relations between a man and a woman depend largely on the man’s ability to make the woman believe in him, and the purpose he has set for himself in life. Sex unites the “nighttime self” of men and women, but the daytime self can only be united, for Lawrence, through the man’s devotion to something outside the marriage, and the woman’s belief in the man. This is just the same thing as saying that what unites the lives of men and women (as opposed to their sexual natures) is the woman’s belief in the man and his purpose. And so Lawrence writes:

You’ve got to fight to make a woman believe in you as a real man, a pioneer. No man is a man unless to his woman he is a pioneer. You’ll have to fight still harder to make her yield her goal to yours: her night goal to your day goal. . . . She’ll never believe until you have your soul filled with a profound and absolutely inalterable purpose, that will yield to nothing, least of all to her. She’ll never believe until, in your soul, you are cut off and gone ahead, into the dark. . . . Ah, how good it is to come home to your wife when she believes in you and submits to your purpose that is beyond her. . . . And you feel an unfathomable gratitude to the woman who loves you and believes in your purpose and receives you into the magnificent dark gratification of her embrace. That’s what it is to have a wife.

Friends of Lawrence must have smiled when they read these words, for he was hardly giving an accurate description of his own marriage. As I have mentioned, Lawrence and Frieda frequently fell into violent quarrels, and she would often demean and humiliate him, and he her. Yet, ultimately, Frieda believed in Lawrence’s abilities and his mission in life; he knew it and derived strength from it. Those who may think that Lawrence’s prescriptions for marriage require an extraordinarily submissive and even unintelligent wife should take note of the sort of woman Lawrence himself chose.

Now, some might respond to Lawrence’s description of marriage by asking, understandably, “Where is love in all of this? What has become of love between man and wife?” Yet Lawrence speaks again and again, especially in Women in Love, of love between man and wife as a means to wholeness, as a way to transcend the false, ego-centered self. In a 1914 letter he tells a male correspondent:

You mustn’t think that your desire or your fundamental need is to make a good career, or to fill your life with activity, or even to provide for your family materially. It isn’t. Your most vital necessity in this life is that you shall love your wife completely and implicitly and in entire nakedness of body and spirit. Then you will have peace and inner security, no matter how many things go wrong. And this peace and security will leave you free to act and to produce your own work, a real independent workman.

Initially in these remarks Lawrence seems to be taking a position different from the one he expressed in the later Fantasia of the Unconscious, where he asserts that the man derives his chief fulfillment from purpose, not from the home and family. But Lawrence’s position is complex. He believes that the man requires a relationship to a woman in order to be strengthened in the pursuit of his purpose. Recall the lines I quoted earlier, “Let a man walk alone on the face of the earth, and he feels himself like a loose speck blown at random. Let him have a woman to whom he belongs, and he will feel as though he had a wall to back up against; even though the woman be mentally a fool.” Man fulfills himself through having a purpose beyond the home, but he must have a home and a wife to support him. Through romantic love (which always involves a strong sexual component) the man comes to his primal self, and emerges from the encounter with the strength to carry on in the world. Lawrence is telling his correspondent—and this becomes clear in the last lines of the passage quoted—that in order to accomplish anything meaningful he must first submerge himself, body and soul, into love for his wife.

Of course, this makes it sound as if Lawrence regards married love merely as a means to an end: merely as a means to pursuing a male “purpose.” Elsewhere, however, he speaks of it as if it were an end in itself. This is particularly the case in Women in Love. Early in the novel Birkin tells Gerald, “I find . . . that one needs some one really pure single activity—I should call love a single pure activity. . . . The old ideals are dead as nails—nothing there. It seems to me there remains only this perfect union with a woman—sort of ultimate marriage—and there isn’t anything else.” Again, Lawrence is seeking a way to get beyond idealism, and all the corrupt apparatus of modern, ego-driven life. To get beyond this, to what? To the true self, and to relationships based upon blood-consciousness and honest, uncorrupted sentiment. In Women in Love, Lawrence’s plan for achieving this involves a “perfect union” with a woman (and, as he states in the same novel, “the additional perfect relationship between man and man—additional to marriage”).

Birkin wants to achieve this with Ursula, but he keeps insisting over and over (much to her bewilderment and anger) that he means something more than mere “love.” The reason for this is that Birkin and Lawrence associate “love” with an ideal that is drummed into the heads of people in the modern, post-Christian world. We are issued with the baffling injunction to “love thy neighbor,” where thy neighbor means all of humanity. Any intelligent person can see that to love everyone means to love no one in particular. And any psychologically healthy person would find valueless the “love” of someone who claimed also to love all the rest of humanity. Lawrence is reacting also against the lovey-dovey, white lace, sanitized, billing and cooing sort of “love” that society encourages in married couples. Lawrence’s disgust for this sort of thing is expressed in his short story “In Love.” The main character, Hester, is repulsed by the “love” her fiancé, Joe, shows for her. They had been friends prior to their engagement and got on well

But now, alas, since she had promised to marry him, he had made the wretched mistake of falling “in love” with her. He had never been that way before. And if she had known he would get this way now, she would have said decidedly: Let us remain friends, Joe, for this sort of thing is a come-down. Once he started cuddling and petting, she couldn’t stand him. Yet she felt she ought to. She imagined she even ought to like it. Though where the ought came from, she could not see.

Birkin (like Lawrence) wants to avoid at all costs falling into this sort of scripted, stereotyped love relationship, but Ursula has a great deal of difficulty understanding what it is that he does want. He tries his best to explain it to her:

“There is,” he said, in a voice of pure abstraction, “a final me which is stark and impersonal and beyond responsibility. So there is a final you. And it is there I would want to meet you—not in the emotional, loving plane—but there beyond, where there is no speech and no terms of agreement. There we are two stark, unknown beings, two utterly strange creatures, I would want to approach you, and you me. And there could be no obligation, because there is no standard for action there, because no understanding has been reaped from that plane. It is quite inhuman—so there can be no calling to book, in any form whatsoever—because one is outside the pale of all that is accepted, and nothing known applies. One can only follow the impulse, taking that which lies in front, and responsible for nothing, giving nothing, only each taking according to the primal desire.”

The “final me and you” refers to the primal self. “The old ideals are dead as nails” and so is modern civilization. Birkin does not want his relationship to Ursula to “fit” into the modern social scheme, to become conventional or “safe.” He also fears and abhors the impress of society on his conscious, mental self. He does not want to come together with Ursula “though the ego,” as it were. He wants them to come together through their primal selves and to forge a relationship that is based on something deeper and far stronger than what the overly socialized creatures around him call “love.” Yet, at the same time, one could simply say that what he wants is a truer, deeper love, and that what passes for love with other people is usually not the genuine article. They are doing what one “ought” to do, even when in bed together.

In The Rainbow (to which Women in Love forms the “sequel”), Tom Brangwen offers his views on love and marriage in a famous passage:

“There’s very little else, on earth, but marriage. You can talk about making money, or saving souls. You can save your own soul seven times over, and you may have a mint of money, but your soul goes gnawin’, gnawin’, gnawin’, and it says there’s something it must have. In heaven there is no marriage. But on earth there is marriage, else heaven drops out, and there’s no bottom to it. . . . If we’ve got to be Angels . . . and if there is no such thing as a man or a woman among them, then it seems to me as a married couple makes one Angel. . . . [An] Angel can’t be less than a human being. And if it was only the soul of a man minus the man, then it would be less than a human being. . . . An Angel’s got to be more than a human being. . . . So I say, an Angel is the soul of a man and a woman in one: they rise united at the Judgment Day, as one angel. . . . If I am to become an Angel, it’ll be my married soul, and not my single soul.”

À la Aristophanes in Plato’s Symposium, men and women form two halves of a complete human being. Human nature divides itself into two, complementary aspects: masculinity and femininity. A complete human being is made when a man and a woman are joined together. But they cannot be joined—not really—through the mental, social self, but only through the unconscious, primal self.

In Women in Love, this view returns but in a modified form. Now Birkin tells us, “One must commit oneself to a conjunction with the other—for ever. But it is not selfless—it is a maintaining of the self in mystic balance and integrity—like a star balanced with another star.” And Lawrence tells us of Birkin, “he wanted a further conjunction, where man had being and woman had being, two pure beings, each constituting the freedom of the other, balancing each other like two poles of one force, like two angels, or two demons.” Tom Brangwen’s view implies that men and women, considered separately, do not have complete souls, and that a complete soul is made only when they join together in marriage. There is a suggestion in what he says that the “individuality” of single men and women is false, and that only a married couple constitutes a true individual. Birkin’s ideal, on the other hand, involves the man and the woman each preserving their selfhood and individuality and “balancing” each other.

Despite the fact that Birkin frequently, and transparently, speaks for Lawrence we cannot take him as speaking for Lawrence here. I believe that it is Brangwen’s position that is closest to Lawrence’s own. When Women in Love opens, Birkin is in a relationship with Hermione, who Lawrence portrays as a woman living entirely from out of her head, without any naturalness or spontaneity. Yet there is a bit of this in Birkin as well, which is perhaps why he reacts against it so violently when he sees it in Hermione. After the passage just quoted from Women in Love, Lawrence writes of Birkin, “He wanted so much to be free, not under the compulsion of any need for unification, or tortured by unsatisfied desire. . . . And he wanted to be with Ursula as free as with himself, single and clear and cool, yet balanced, polarised with her. The merging, the clutching, the mingling of love was become madly abhorrent to him.” Lawrence then goes on to describe Birkin’s fear and loathing of women’s “clutching.” Birkin is a conflicted character. He wants to lose himself in a relationship with a woman, but fears it at the same time. He wants Ursula, and talks on and on about spontaneity and the evil of ideals, yet he is continually preaching to Ursula about his ideal relationship which, conveniently, is one in which he can unite with her yet preserve his ego intact. This at first bewilders then infuriates Ursula, who never understands what it is that he wants. In the end, the problem resolves itself, probably just as it would in real life. Drawn to Ursula by a power stronger than his conscious ego, Birkin eventually drops all of his talk, surrenders his will, and settles into a married bliss that is marred only by his continued desire for the love of a man.

Ultimately, Lawrence believes that the “establishment of a new relation” between men and women depends upon a return to the oldest of relationships, and that this is possible only through a recovery of the oldest part of the self. We must, he believes, drop our ideal of the unisex society and be alive again to the fundamental, natural differences between men and women. Men and woman do not naturally desire to enjoy each other’s society at all times. We must not only educate men and women apart, but re-establish “spaces” within civilized society where men can be with men, and women with women. We must not force men and women together and command them to forget that they are men and women. Education and, indeed, much else in society must work to cultivate and to affirm the natural, masculine qualities and virtues in men, and the feminine qualities and virtues in women. Having become true men and women and having awakened, through their apartness, to the mystery and the allure that is the opposite sex, they will then come together and forge romantic alliances that are not based upon talk and “common values” but upon the “pull” between man and woman. Lawrence is not referring here simply to lust. A sexual element is, of course, involved, but what he means is the mysterious, ineffable attraction between an individual man and a woman, what we often call “chemistry,” which has nothing to do with the words they utter or the ideals they pay lip service to. And once this attraction is established, if the two desire to become bound to each other, then they must surrender themselves to the relationship. They must overcome their fear of the loss of ego boundaries. They must drop all talk of “rights” and not fall into the trap of treating the marriage as if it were a business partnership. For both, it is a leap into the unknown but in this case the unknown is the natural. When we plant a seed we must close the earth over it and go off and wait in anticipation. But we know that nature, being what it is, will produce as it has before. If all goes well, in that spot will grow the plant we were expecting. Similarly, marriage is not a human invention but something that grows naturally between a man and woman if its seed is planted in the fertile soil of the primal selves of each.

mercredi, 01 décembre 2010

La "tension psychologique insurrectionnelle"

La « tension psychologique insurrectionnelle »

Par Philippe Grasset

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

(…) Dans Notes sur l’impossible “révolution” du 24 septembre 2009, sur dedefensa.org, était exprimée la conviction que les mouve

Honoré Daumier, "L'insurrection" (1860)

ments d’insurrection et de révolte auxquels nous avons l’habitude de nous référer sont définitivement dépassés parce que totalement inefficaces, voire contreproductifs.

Pour diverses raisons exposées dans l’analyse, de tels mouvements sont condamnés par avance s’ils prétendent obtenir directement un résultat décisif correspondant au but d’insurrection de ceux qui l’initient. Pour moi, c’est un fait indiscutable, même si le mouvement parvient à un résultat tangible.

 

(Résultats tangibles de telles actions, si elles pouvaient avoir lieu ? Soit changer le régime des retraites, soit, plus hypothétiquement, prendre d’assaut le Palais de l’Elysée et habiller Sarko en sans-culotte ou en scout du Secours Catholique ; soit même, pour des Irlandais colériques et qu’on sait être coriaces et courageux, des émeutes insurrectionnelles ne menant qu’au même cul de sac de la prise d’un pouvoir politique dont ils ne sauraient que faire puisque leur pays, comme les autres, n’est qu’un maillon du système et rien d’autre. Le seul cas où une action politique réelle peut donner directement un résultat décisif, par son caractère intrinsèque de psychologie insurrectionnelle réalisant effectivement une attaque contre le cœur de la psychologie du système, c’est l’éclatement de l’Amérique avec la destruction de l’American Dream qui s’ensuit, – perspective qui, soit dit en passant, ne doit pas nous paraître rocambolesque lorsqu’on lit le dernier article de Paul Krugman.)

Cette affirmation de “l’impossibilité d’une révolution” selon le sens classique ne doit certainement pas être prise comme une affirmation désespérée, désenchantée et nihiliste si vous voulez, mais simplement comme la prise en compte du fait que nous sommes dans une époque différente, où les forces en action sont complètement différentes de celles qu’on observait dans l’époque précédente (Epoque psychopolitique et plus du tout géopolitique, où il n’y a plus aucun rapport de cause à effet entre une action politique de rupture violente, même réussie, et un changement décisif du système).

Voilà mon postulat de base, qui s’applique essentiellement dans les pays du bloc occidentaliste-américaniste, – c’est-à-dire dans les seules situation où vous pouvez toucher le système au cœur ; dans ces conditions nouvelles, “toucher au cœur le système” deviendrait alors, plutôt qu’effectivement parvenir à sa destruction d’une façon directe, accélérer puissamment, voire décisivement, son mouvement de destruction interne déjà en cours, du fait de ses propres tares fondamentales.

Je vais tenter d’expliquer les caractères de cette nouvelle situation d’abord, ce qui peut être fait ensuite, comment ce qui peut être fait peut être exploité efficacement, sinon décisivement, enfin.

La psychologie, l’arme de l’insurrection

Je mets en avant bien entendu, avant toute chose, le facteur de la psychologie, qui est complètement essentiel dans mon propos. C’est par lui que tout passe, à cause de la puissance du système de la communication, instauré par le système général mais qui, à cause de ses spécificités contradictoires, joue un “double jeu”, alors que l’autre composante du système général, le système du technologisme, est dans une crise si profonde qu’elle pourrait être qualifiée de terminale, – ce qui est ma conviction.

(Sur ce dernier point, quelques mots… Je me demande chaque jour, chaque heure, chaque minute, comment on peut encore substantiver en termes de capacités politiques et militaristes également efficaces jusqu’à lui prêter un caractère de quasi invincibilité, un système dotée de cette puissante effectivement colossale, qui étouffe littéralement sous l’accumulation de centaines et de centaines de milliards de dollars annuels, qui est incapable de fabriquer un avion de combat [JSF], incapable de prendre une décision contractuelle [KC-X], incapable au bout de neuf ans de comprendre les données fondamentales absolument primaires de la guerre où elle se débat comme dans un pot de mélasse [Afghanistan], etc. Et l’on croirait, par exemple, qu’un excrément bureaucratique de plus [le “concept stratégique de l’OTAN”] irait changer quelque chose, sinon accroître encore le désordre général et la paralysie ossifiée de cette bureaucratie ? Il y a parfois l’impression qu’une telle observation du système par ceux qui professent leur immense aversion pour lui, témoigne également de la part de ces mêmes critiques d’une singulière fascination pour lui, comme une croyance paradoxale dans la magie de ce même système. C’est lui faire bien de l’honneur, et s’en informer fort mal.)

Poursuivons… Donc le système de la communication est un Janus. Il sert le système général mais, également, il le trahit joyeusement dès que les arguments auxquels il est sensible (sensationnalisme, méthodologie de l’effet, etc.) se retrouvent dans des appréciations contestataires du système, non par goût de la trahison mais par goût de l’apparat et de l’effet de ces informations, qui ont alors sa faveur puisqu’elles font marcher la machine (Vous savez, cette remarque désolée que fait parfois tel ou tel président, tel ou tel ministre, aux journalistes, même des journalistes-Pravda ses fidèles alliés : “mais pourquoi mettez-vous toujours l’accent sur les mauvaises nouvelles ?” Pardi, parce que c’est ça qui est “sensationnel”, qui fait marcher le système de la communication, et parce qu’il n’y a rien de mieux que les “mauvaises nouvelles” pour faire marcher le système, et qu’en plus il n’y a plus aujourd’hui que des “mauvaises nouvelles”).

Par conséquent, Janus est de tous les coups, il marche avec son temps (“il n’y a plus aujourd’hui que des mauvaises nouvelles”) et il est ainsi devenu, sans intention délibérée, la plus formidable machine à influencer les psychologies dans le sens de la déstructuration du système.

En répercutant les commentaires alarmistes des serviteurs du système concernant les dangers d’insurrection des populations de notre système pourtant si cajolées de mots ronflants, le système de la communication contribue grandement à créer un climat psychologique insurrectionnel. Mais ce climat n’engendre rien de décisif dans ce qu’on juge être décisif, – l’action “révolutionnaire”, – parce que nul ne sait comment s’insurger efficacement de cette façon-là.

C’est cette idée de cette situation sans précédent, qui renverse complètement les situations connues : hier, tout le monde savait ce que serait une “révolte”, c’est-à-dire par le moyen de la “violence révolutionnaire”, l’inconnue résidant dans le fait qu’on ignorait quand existerait une volonté ou une occasion de la faire ; aujourd’hui, tout le monde admet qu’il existe partout une volonté d’insurrection, l’inconnue résidant dans le fait qu’on ignore quelle forme pourrait et devrait prendre cette insurrection.

Alors, il y a partout des protestations, des manifestations, des initiatives spontanées parfois étranges, qui ne débouchent sur rien de définitif, et l’on s’en désole ; mais l’on n’a pas raison parce qu’elles ont aussi l’effet d’accroître constamment cette tension psychologique insurrectionnelle.

L’essentiel est dans ce bouillonnement psychologique. Prenez le cas d’Eric Cantona (voir le texte du 22 novembre 2010) ; type pas sérieux, Cantona, provocateur, people et ainsi de suite. Ce qui est accessoire en l’espèce – mais d’ailleurs sans préjuger des effets éventuels de cette “initiative spontanée” (retrait massif d’argent des banques), car nous ne sommes pas au bout de nos surprises –, c’est de prendre trop au sérieux la proposition de Cantona, en disant et expliquant “ça marchera”, ou bien “ridicule, ça ne marchera pas”.

Pour l’instant (cette restriction bien comprise), l’analyse de la chose n’a strictement aucun intérêt. Ce qui importe et rien d’autre, c’est la contribution involontaire de Cantona, idole people des foules, à la montée de la tension psychologique insurrectionnelle. On pourrait définir ce que je nomme “psychologie insurrectionnelle”, un exemple très précis et extrême à cet égard, dans un texte de l’écrivain et poète US Linh Dinh, sur OnLineJournal, le 15 novembre 2010.

Première phrase du texte : « Revolt is in the air » [La révolte est dans l'air]. Puis un long catalogue des révoltes qui pourraient avoir lieu aux USA, jusqu’à la sécession, jusqu’aux révoltes armées, etc., mais chaque fois avec l’observation que cela ne se fera pas, parce que la population est trop apathique, les conditions ne s’y prêtent pas, etc. Donc, constat pessimiste, sinon désespérant ?

Et puis cette conclusion, qui contredit tout le reste, – sauf la première phrase : «I have a feeling, however, that we may be nearing the end of being jerked back and forth like this, that even the most insensate and silly among us is about to explode » [J'ai le sentiment, toutefois, que nous pourrions bientôt finir d'être trimballés en avant et en arrière comme cela, que même le plus insensé et stupides d'entre nous est sur le point d'exploser].

…Tout cela conduisait, dans le même texte référencé (sur Cantona), à cette conclusion qui me paraît digne d’intérêt pour cette réflexion : «Peut-être déterminera-t-on finalement, selon l’évolution de ce “climat” de la recherche d’une nouvelle forme de révolte et de la tension psychologique que cela ne cesse de renforcer, que c’est le développement même de ce climat qui est, en soi, la nouvelle forme de la révolte…» (Encore une fois, le mot “révolte” n’aurait pas dû être employé, mais bien celui d’“insurrection”.)

Pour conclure cet aspect de l’analyse par une tentative de chronologie datée, je proposerais l’hypothèse que cette phase d’“insurrection psychologique” où nous sommes entrés est la phase suivante de l’évolution des peuples face à la grande crise de notre système et contre ceux qui servent encore ce système, après ce que je nommerais la phase de “résistance psychologique” qui s’est développée entre les années 2003-2004 et 2008-2009…

Cela correspond par ailleurs, et ceci n’est pas sans rapport avec cela, avec ce que j’estime être, dans l’année que nous terminons, l’entrée dans la phase active de la crise eschatologique du monde, cette crise qui se développe comme un volcan entre en activité vers son éruption, au travers de la pression des crises de l’environnement, des ressources, de la crise climatique, etc.

TINA pour nous aussi

Comment analyser d’une façon générale cette situation dans la perspective de ce qui devrait être fait, sinon de ce qui pourrait être fait ?

Je dirais que le but de l’“insurrection” ne doit pas être, n’est pas de “prendre le pouvoir” (c’est-à-dire le système, bien sûr), mais de “détruire” le pouvoir (le système). Il n’est même pas intéressant de l’“affaiblir” avant de le frapper, ce pouvoir, mais, au contraire, de le frapper pour le détruire alors qu’il est au faîte de sa puissance…

Car il est au faîte de sa puissance et le restera, y compris et surtout en conduisant lui-même son processus d’autodestruction, – plus il est puissant, plus sera puissant son processus d’autodestruction, – cela, à l’ombre d’une autre contradiction qui caractérise sa crise terminale : plus il est puissant, plus il est impuissant.

Mises à part les considérations humanitaires dont on connaît l’illusoire vertu et la grandiose inutilité, je dirais que le cynique qui veut la peau du système ne comprendrait pas une seconde ceux qui, se disant eux-mêmes adversaires du système, réclament à grands cris et espèrent ardemment le retrait américaniste d’Afghanistan, même pour les meilleurs motifs du monde.

Que l’OTAN et l’U.S. Army y restent, en Afghanistan, qu’elles y déploient toute leur puissance, tant il est évident qu’elles sont en train de se dévorer elles-mêmes, en aggravant chaque jour leur crise structurelle et la crise psychologique de ceux qui ordonnent et conduisent cette guerre sans but, sans motifs, sans commencement ni fin, sans rien du tout sinon la destruction de soi-même.

Et tout cela doit bien être compris pour ce qui est, au risque de me répéter, pour bien embrasser le caractère complètement inédit de cette situation…

Il n’y a là-dedans ni affrontement classique, ni une sorte de “guerre civile” au sens où nous l’entendons, ni “révolte” justement, comme j’en indiquais la définition au sens classique. Il y a une “attaque” qui est un mélange de pression psychologique et d’action désordonnée suscitées par cette pression psychologique et l’accentuant en retour, – et là, effectivement, nous abordons le champ de l’action qui est possible aujourd’hui, à la place des mouvements “révolutionnaires” classiques et totalement discrédités.

Cette attaque par la “pression psychologique insurrectionnelle” touche le système (ses représentants mais lui-même en tant qu’entité, dirait-on) dans sa propre psychologie, affaiblit cette psychologie dans le sens du déséquilibre, avec toutes les fautes qui en découlent, ce qui accélère effectivement le retournement de sa propre immense puissance contre lui-même.

En attaquant “le pouvoir” (le système), vous attaquez le système, comme l’indiquent justement les parenthèses ; vous n’attaquez pas des hommes mais un système (anthropotechnique si vous voulez, mais aussi bien anthropotechnocratique, etc.), dont j’ai déjà dit ma conviction qu’il évolue de façon absolument autonome, hors de tout contrôle humain, mais au contraire en entretenant une servitude humaine à son avantage, dont celle des dirigeants politiques est une des formes les plus actives.

Ce dernier point indique qu’à la limite, mais une limite qui prend de plus en plus d’importance dans le contexte, l’insurrection réclamée, qui est d’abord une “insurrection psychologique” manifestée par une tension grandissante, doit aussi, et peut-être d’abord, avoir comme objectif naturel de son influence, dans ce cas définie presque comme bienveillante, la psychologie des directions et élites politiques, comme pour venir à leur secours.

Dans cette situation extraordinaire et, contrairement à tous les dogmes et théories sur l’influence, la manipulation, etc., les dernières psychologies “sous influence” de la manipulation du système sont celles des directions et élites politiques, nullement celles des populations. Ces directions et élites politiques sont beaucoup plus prisonnières par auto conditionnement (virtualisme), par aveuglement ou par dérangement psychologique, que complices conscientes et cyniques.

La pression de l’“insurrection psychologique” des peuples doit agir sur elles pour affaiblir leur “dépendance” psychologique du système, pour subvertir leur démarche de soumission et leur position d’asservissement, – en vérité, et j’ironise à peine, pour les libérer, rien de moins…

Pour cette sorte d’action, dont la composante psychologique est essentielle, il faut des mouvements confus, incompréhensibles, parce que justement ces mouvements constituent une force psychologique insurrectionnelle brute semeuse de troubles sans fin dans les psychologies prisonnières du système, qui croient encore à la bonne ordonnance du système, qui craignent le désordre par dessus tout, et ce désordre commençant par la confusion psychologique.

Le seul but, – inconscient, bien plus que conscient, sans aucun doute, – de cette sorte d’action de ces “mouvements confus” est effectivement de “détruire” le pouvoir (le système) ; ces actions ont un aspect nihiliste qui se reflète dans leur confusion, mais ce nihilisme agit comme un contre feu, contre le nihilisme institutionnalisée du système, et elles acquièrent par logique contradictoire un aspect structurant antisystème extrêmement positif… Tout cela, comme vous le constatez, se déroule toujours dans le champ de la psychologie.

Bien entendu, il y a l’exemple de Tea Party. Ne nous lamentons pas si nous ne comprenons pas vraiment le but de Tea Party, bien au contraire ; surtout, surtout, il faut éviter tout jugement idéologique, de celui qu’affectionnent les vieilles lunes de notre establishment progressiste qui se donnent encore la sensation d’exister comme dans les belles années du XXème siècle, autour de la Deuxième Guerre mondiale, en agitant l’épouvantail de l’extrême droite et du “populisme”.

Politiquement, Tea Party c’est tout et rien, et c’est n’importe quoi, – et c’est tant mieux ; c’est, par contre, l’archétype du mouvement né d’une “psychologie insurrectionnelle”, qui doit être considéré pour cette dynamique, cette pression de l’insurrection psychologique qu’il fabrique et nullement pour ses motifs confus… L’on conviendra que tout cela n’est pas sans résultats, et quels résultats quand on voit l’évolution vertigineuse de la panique du système washingtonien.

Depuis le 2 novembre, l’establishment washingtonien ne cesse de grossir Tea Party, son action, son influence, bien plus que ne le justifieraient ses résultats aux élections. On construit à partir de lui des monstres qu’on pensait impossibles à Washington, comme l’annonce d’une aile “neo-isolationniste” au sein du parti républicain, laquelle, à force d’annonces et d’avertissements répétés, finit par exister vraiment.

On envisage des réductions dans le budget de la défense et Paul Krugman nous annonce un affrontement politique de rupture à Washington pour le printemps prochain, où Tea Party ne laissera sa place à personne. C’est cela, “détruire” le pouvoir (le système), le forcer à fabriquer lui-même, dans sa toute puissance, les monstres qu’il abomine et qui vont le dévorer. Et le moteur de tout cela, c’est bien la perception d’une irrésistible tension psychologique insurrectionnelle.

Enfin, dira-t-on en pianotant nerveusement sur la table, devant son écran d’ordinateur, lisant ce texte, où tout cela va-t-il mener ? L’esprit et la raison ne peuvent se départir de leur passion pour l’organisation du monde qui soit à leur mesure, où ils tiennent une place essentielle, dont ils peuvent proclamer la gloire à leur avantage… Bien entendu, la question est hors de propos. Pour l’instant on frappe, on frappe et on frappe encore, et l’on frappe principalement par cette pression psychologique insurrectionnelle…

Et le système fait le reste devant cette pression qu’il ne comprend pas mais qui l’enserre, il transforme son immense et invincible puissance en une force contre lui-même par des réactions stupides, absurdes, des maladresses extraordinaires.

Vous dites que le système est très, peut-être trop puissant ? Qui a parlé de le vaincre sur son terrain ? Surtout pas, il faut retourner contre lui, comme un gant, sa puissance énorme, comme le recommande l’honorable Sun tzi. Il s’effondrera ; d’ailleurs, cela est en cours, l’effondrement…

Et après ? Quel monde organiser? Oh, quelle ambition est-ce là… Laissez donc la montagne de fromage pourri et les murs de Jericho s’écrouler avant d’envisager ce qu’on peut mettre à la place, – non, pardon, avant d’envisager ce qui se mettra en place, de soi-même et irrésistiblement, par la grâce de forces puissantes.

Par cette formule, je veux avancer ceci : si l’hypothèse se vérifie et si la “pression psychologique insurrectionnelle” parvient effectivement à participer, sinon décisivement du moins considérablement, à la déstabilisation et à la déstructuration du système jusqu’à son effondrement, c’est que des forces fondamentales, supérieures à nous, auront évidemment favorisé cette issue qui n’est pas de l’empire de la raison, mais plutôt suggérée par l’intuition ; ces forces resteront présentes pour l’étape d’après la Chute et joueront leur rôle, fondamental à mesure…

Pour ce qui nous concerne, pour l’immédiat, nous autres brillants sapiens de l’espèce vulgum pecus, nous n’avons, à l’image du système, que la perspective TINA (There Is No Alternative) ; mais cela, dans une position de contre force, contre le système, car il n’y a pour nous pas d’alternative à la concentration de toutes nos forces dans le but ardent de la destruction d’un tel système, cette “source de tous les maux” dont l’unique but est aujourd’hui la destruction du monde.

Les sapiens revenus sur terre, à leur place, dans le chaos qu’ils ont tant contribué à créer, sont des acteurs parmi d’autres, et pas les plus grandioses, – certainement nous sommes cela, avec une bonne cure d’humilité à suivre, considérant le monstre extraordinaire que notre “génie” pleinement exprimé dans la modernité a contribué à créer.

Qu’ils s’en tiennent, les sapiens, à ce rôle qui n’est pas sans beauté ni dignité, comme l’est l’humilité devant l’ébranlement du monde dont nous ne tenons plus les fils. Ainsi bien compris, ce rôle n’est pas inutile.

Dedefensa

mardi, 26 octobre 2010

La psico-antropologia de L. F. Clauss

LA PSICO-ANTROPOLOGÍA DE L.F. CLAUSS:

UNA ALTERNATIVA FRUSTRADA
Sebastian J. Lorenz
 
Frente al concepto materialista de la antropología nórdica, que consideraba la raza como un conjunto de factores físicos y psíquicos, se fue haciendo paso una antropologíade tipo espiritual, que tendrá su máximo exponente en el fundador de la “psico-raciología” (Rassenseelenkunde) Ludwig Ferdinand Clauss. Frente a la preeminencia de los rasgos fisiológicos, a los que se ligaba unas características intelectuales, Clauss inaugurará la “ley del estilo” . Para él, la adscripción a una etnia es, fundamentalmente, un estilo que se manifiesta en una multiplicidad de caracteres, ya sean de tipo físico, psíquico o anímico que, conjuntamente, expresan un determinado estilo dinámico: «por el movimiento del cuerpo, su expresión, su respuesta a los estímulos exteriores de toda clase, el proceso anímico que ha conducido a este movimiento se convierte en una expresión del espacio, el cuerpo se convierte en campo de expresión del alma» (Rasse und Seele).
Robert Steuckers ha escrito que «la originalidad de su método de investigación raciológica consistió en la renuncia a los zoologismos de las teorías raciales convencionales, nacidas de la herencia del darwinismo, en las que al hombre se le considera un simple animal más evolucionado que el resto». Desde esta perspectiva, Clauss consideraba en un nivel superior las dimensiones psíquica y espiritual frente a las características somáticas o biológicas.
Así, la raciología natural y materialista se fijaba exclusivamente en los caracteres externos –forma del cráneo, pigmentación de la piel, color de ojos y cabello, etc-, sin reparar que lo que da forma a dichos rasgos es el estilo del individuo. «Una raza no es un montón de propiedades o rasgos, sino un estilo de vida que abarca la totalidad de una forma viviente», por lo que Clauss define la raza «como un conjunto de propiedades internas, estilo típico y genio, que configuran a cada individuo y que se manifiestan en cada uno y en todos los que forman la población étnica». Para él, la forma del cuerpo y los rasgos físicos no son sino la expresión material de una realidad interna: tanto el espíritu (Geist) como el sentido psíquico (Seele) son los factores esenciales que modelan las formas corpóreas exteriores. Así, en lo relativo a la raza nórdica, no es que al tipo alto, fuerte, dolicocéfalo, rubio y de ojos azules, le correspondan una serie de caracteres morales e intelectuales, sino que es a un determinado estilo, el del “hombre de acción”, el hombre creativo (Leistungsmensch), al que se deben aquellos rasgos físicos, conjunto que parece predestinar a un grupo determinado de hombres. La etnia aparece concebida, de esta forma, como una unidad físico-anímica hereditaria, en la que el cuerpo es la “expresión del alma”. Klages dirá que «el alma es el sentido del cuerpo y el cuerpo es la manifestación del alma».
La escuela “espiritualista” fundada por Clauss tuvo, ciertamente, una buena acogida por parte de sus lectores, que se vieron liberados de las descripciones antropológicas del tipo ideal de hombre nórdico, las cuales no concurrían en buena parte de la población alemana, reconduciendo, de esta forma, el estilo de la raza a criterios idealistas menos discriminatorios. Pero lo que, en el fondo, estaba proponiendo Clauss, no era una huida del racismo materialista sino, precisamente, un reforzamiento de éste a través de su paralelismo anímico, según la fórmula “a una raza noble, le corresponde un espíritu noble”. Distintos caminos para llegar al mismo sitio. Así, podrá decir que «las razas no se diferencian tanto por los rasgos o facultades que poseen, sino por el estilo con que éstas se presentan», esto es, que no se distinguen por sus cualidades, sino por el estilo innato a las mismas. Entonces, basta conceder un “estilo arquitectónico” a la mujer nórdica, a la que atribuye un orden metódico tanto corporal como espiritual, frente a la mujer africana que carece de los mismos, para llegar a las mismas conclusiones que los teóricos del racismo bio-antropológico.
Por todo ello, las ideas de Clauss no dejan de encuadrarse en el “nordicismo” más radical de la época. El hombre nórdico es un tipo cuya actuación siempre está dirigida por el esfuerzo y por el rendimiento, por el deseo y por la consecución de una obra. «En todas las manifestaciones de actividad del hombre nórdico hay un objetivo: está dirigido desde el interior hacia el exterior, escogiendo algún motivo y emprendiéndolo, porque es muy activo. La vida le ordena luchar en primera línea y a cualquier precio, aun el de perecer. Las manifestaciones de esta clase son, pues una forma de heroísmo, aunque distinto del “heroísmo bélico”». De ahí a afirmar que los pueblos de sangre nórdica se han distinguido siempre de los demás por su audacia, sus conquistas y descubrimientos, por una fuerza de empuje que les impide acomodarse, y que han marcado a toda la humanidad con el estilo de su raza, sólo había un paso que Clauss estaba dispuesto a dar.
El estilo de las otras razas, sin embargo, no sale tan bien parado. Del hombre fálico destaca su interioridad y la fidelidad por las raíces que definen al campesinado alemán (deutsche treue), puesto que la raza fálica se encuentra profundamente imbricada dentro de la nórdica. Respecto a la cultura y raza latina (Westisch) dirá que no es patrimonio exclusivo del hombre mediterráneo, sino producto de la combinación entre la viveza, la sensualidad gestual y la agilidad mental de éste con la creatividad del tipo nórdico, derivada de la productiva fertilización que los pueblos de origen indogermánico introdujeron en el sur de Europa (Rasse und Charakter).
De los tipos alpino (dunkel-ostisch) y báltico-oriental (hell-ostisch), braquimorfos y braquicéfalos, dirá que son el extremo opuesto del nórdico, tanto en sus formas corporales como en las espirituales, porque son capaces de soportar el sufrimiento y la muerte de forma indiferente, sin ningún tipo de heroísmo, pero su falta de imaginación los hace inútiles para las grandes ideas y pensamientos, en definitiva, el hombre evasivo y servicial. Curiosamente, el estudio que hace de la raza semítico-oriental –judía y árabe-, con las que se hallaba bastante involucrado personalmente, no resulta tan peyorativo, si bien coincidía con Hans F.K. Günther en que existe entre los hebreos un conflicto entre el espíritu y la carne que acaba con la victoria de esta última, con la “redención por la carne”, mientras que de los árabes destaca su fatalismo y la inspiración divina que les hace creer –como iluminados- que son los escogidos o los enviados de Dios.
Por lo demás, Clauss admitió que los diferentes estilos, al igual que sucede con los tipos étnicos, se entrecruzan y están presentes simultáneamente en cada individuo. Según Evola, «para él, dada la actual mezcla de tipos, también en materia de “razas del alma”, en lo relativo a un pueblo moderno, la raza es objeto menos de una constatación que de una “decisión”: hay que decidirse, en el sentido de seleccionar y elegir a aquel que, entre los diferentes influjos físico-espirituales presentes simultáneamente en uno mismo, a aquel que más se ha manifestado creativo en la tradición de aquel pueblo; y hacer en modo tal que, entonces una tal influencia o “raza del alma” tome la primacía sobre cualquier otra.»
No obstante lo anterior, el nordicismo ideal y espiritual de Clauss fracasó estrepitosamente porque nunca pudo superar la popularidad que tuvo el tipo ideal de hombre nórdico que Hans F.K. Günther proponía recuperar a través de los representantes más puros de la cepa germánica, si bien no como realidad, sino como una aspiración ideal, de tal forma que, finalmente, Clauss se vio apartado de todas las organizaciones del tejido nacionalsocialista a las que, desde un principio, había pertenecido.

dimanche, 10 octobre 2010

Jack Malebranche's Androphilia: A Manifesto

Jack Malebranche’s Androphilia: A Manifesto

Ex: http://www.counter-currents.com/

Jack Malebranche (Jack Donovan)
Androphilia: A Manifesto
Baltimore, Md.: Scapegoat Publishing, 2006

Near the end of Androphilia, Jack Donovan writes “It has always seemed like some profoundly ironic cosmic joke to me that the culture of men who love men is a culture that deifies women and celebrates effeminacy. Wouldn’t it make more sense if the culture of men who are sexually fascinated by men actually idolized men and celebrated masculinity?” (p. 115).

He has a point there. As Donovan notes, homosexual porn is almost exclusively focused on hypermasculine archetypes: the lumberjack, the marine, the jock, the cop, etc. (I am going to employ the term “homosexual,” despite its problematic history, as a neutral term to denote same-sex desire among men. I am avoiding the term “gay,” for reasons that will soon be apparent.) So why are homosexuals, who worship masculine men, so damn queeny? Most straight men (and women too) would offer what they see as the obvious answer: homosexuals are not real men. They are a sort of strange breed of womanly man, and it is precisely the otherness of masculine men that attracts them so. This is, after all, the way things work with straight people: men are attracted to women, and vice versa, because they are other. We want what we are not. Therefore, if a man desires another man then he must not be a real man.

What makes this theory so plausible is that so many self-identified homosexuals do behave in the most excruciatingly effeminate manner. They certainly seem to be not-quite-men. Donovan thinks (and I believe he is correct) that it is this womanish behavior in homosexuals that bothers straight men so much – more so, actually, than the fact that homosexuals have sex with other men in the privacy of their bedrooms.

Donovan objects to effeminacy in homosexuals as well, but he sees this effeminacy as a socially-constructed behavior pattern; as a consequence of the flawed logic that claims “since we’re attracted to what’s other, if you’re a man attracted to a man you must not be a real man.” Having bought into this way of seeing things, the “gay community” actually encourages its members to “camp it up” and get in touch with their feminine side. They think they are liberating themselves, but what they don’t see is that they have bought into a specific set of cultural assumptions which effectively rob them of their manhood, in their own eyes and in the eyes of society.

Donovan argues, plausibly, that homosexual attraction should be seen as a “variation in desire” among men (p. 21). Homosexuals are men — men who happen to be attracted to other men. Their sexual desire does not make them into a separate species of quasi-men. This is a point that will be resisted by many, but it is easily defended. One can see this simply by reflecting on how difficult it is to comprehend the homosexuals of yore in the terms we use today to deal with these matters. There was, after all, unlikely to have been anything “queeny” (and certainly not cowardly) about the Spartan 300, who were 150 homosexual couples. And the samurai in feudal Japan were doing it too — just to mention two examples. These are not the sort of people one thinks of as “sensitive” and who one would expect to show up at a Lady Gaga concert, were they around today. It is unlikely that Achilles and his “favorite” Patroclus would have cruised around with a rainbow flag flying from their chariot. These were manly men, who happened to sexually desire other men. If there can be such men, then there is no necessary disjunction between homosexuality and masculinity. QED.

In essential terms, what Donovan argues in Androphilia is that homosexuals should reject the “gay culture” of effeminacy and reclaim masculinity for themselves. Ironically, gay culture is really the product of an internalization of the Judeo-Christian demonization of same-sex desire, and its insistence that homosexuality and masculinity are incompatible. Donovan wants gays to become “androphiles”: men who love men, but who are not defined by that love. “Gay men” are men who allow themselves to be defined entirely by their desire, defined into a separate segment of humanity that talks alike, walks alike, dresses alike, thinks alike, votes alike, and has set itself apart from “breeders” in fashionable urban ghettos. “Gay” really denotes a whole way of life “that promotes anti-male feminism, victim mentality, and leftist politics” (p. 18). (This is the reason Donovan often uses “homo” instead of “gay”: gay is a package deal denoting much more than same-sex desire.) He argues that in an effort to promote acceptance of men with same-sex desire, homosexuals encouraged others to regard them as, in effect, a separate sex — really, almost a separate race. “Gay,” Donovan remarks, is really “sexuality as ethnicity” (p. 18). As a result, gay men have cut themselves off from the fraternity of men and, arguably, trapped themselves in a lifestyle that stunts them into perpetual adolescence. Donovan asks, reasonably, “Why should I identify more closely with a lesbian folk singer than with [straight] men my age who share my interests?”

Many of those who have made it this far into my review might conclude now that Androphilia is really a book for homosexuals, and doesn’t have much to say to the rest of the world. But this is not the case. Donovan’s book contains profound reflections on sexuality and its historical construction (yes, there really are some things that are historically constructed), the nature of masculinity, the role of male bonding in the formation of culture, and the connection between masculinity and politics. This book has implications for how men — all men — understand themselves.

Donovan attacks head-on the attempt by gays to set themselves up as an “oppressed group” on the model of blacks and women, and to compel all of us to refrain from uttering a critical word about them. He attacks feminism as the anti-male ideology it is. And he zeroes in on the connection, taken for granted by nearly everyone, between gay culture and advocacy of left-wing causes. Androphilia, in short, is a book that belongs squarely on the political right. It should be no surprise to anyone to discover that Donovan has been busy since the publication of Androphilia writing for sites like Alternative Right and Spearhead.

Donovan himself was a part of the gay community when he was younger, but never really felt like he belonged. He so much as tells us that his desire for men is his religion; that he worships masculinity in men. But it seemed natural to Donovan that since he was a man, he should cultivate in himself the very qualities he admired in others. His desire was decidedly not for an “other” but for the very qualities that he saw, proudly, in himself. (He says at one point, “I experience androphilia not as an attraction to some alien opposite, but as an attraction to variations in sameness,” p. 49).

Donovan is certainly not alone. It’s natural when we think of homosexuals to visualize effeminate men, because those are the ones that stand out. If I asked you to visualize a Swede you’d probably conjure up a blonde-haired, blue-eyed Nordic exemplar. But, of course, a great many Swedes are brunettes (famous ones, too; e.g., Ingmar Bergman). The effeminate types are merely the most conspicuous homosexuals. But there also exists a silent multitude of masculine men who love men, men whom no one typically pegs as “gay.” These men are often referred to as “straight acting” — as if masculinity in a homosexual is necessarily some kind of act. These men are really Donovan’s target audience, and they live a tragic predicament. They are masculine men who see their own masculinity as a virtue, thus they cannot identify with what Donovan calls the Gay Party (i.e., “gay community”) and its celebration of effeminacy. They identify far more closely with straight men, who, of course, will not fully accept them. This is partly due to fear (“is he going to make a pass at me?”), and partly, again, due to the prevailing view which equates same-sex desire with lack of manliness. The Jack Donovans out there are lost between two worlds, at home in neither. Loneliness and sexual desire compels such men to live on the periphery of the gay community, hoping always to find someone like themselves. If they have at all internalized the message that their desires make them less-than-men (and most have), then their relationship to masculinity will always be a problematic one. They will always have “something to prove,” and always fear, deep down, that perhaps they are inadequate in some fundamental way.

Androphilia is therapy for such men, and a call for them to form a new identity and group solidarity quite independent of the “gay community.” On the one hand, Donovan asserts that, again, homosexuality should be seen as a “variation in desire” among men; that homosexuals should see themselves as men first, and not be defined entirely by their same-sex desire. On the other hand, it is very clear that Donovan also has high hopes that self-identified androphiles will become a force to be reckoned with. He writes at one point, “While other men struggle to keep food on the table or get new sneakers for Junior, androphiles can use their extra income to fund their endeavors. This is a significant advantage. Androphiles could become leaders of men in virtually any field with comparative ease. By holding personal achievement in high esteem, androphiles could become more than men; they could become great men” (p. 88).

Is Jack Donovan — the androphile Tyler Durden — building an army? Actually, it looks more like he’s building a religion, and this brings us to one of the most interesting aspects of Androphilia. Repeatedly, Donovan tells us that “masculinity is a religion,” or words to that effect (see especially pp. 65, 72, 76, 80, 116).

A first step to understanding what he is talking about is to recognize that masculinity is an ideal, and a virtue. Men strive to cultivate masculinity in themselves, and they admire it in other men. Further, masculinity is something that has to be achieved. Better yet, it has to be won. Femininity, on the other hand, is quite different. Femininity is essentially a state of being that simply comes with being female; it is not an accomplishment. Women are, but men must become. If femininity has anything to do with achievement, the achievement usually consists in artifice: dressing in a certain manner, putting on makeup, learning how to be coy, etc. Femininity is almost exclusively bound up with being attractive to men. If a man’s “masculinity” consisted in dressing butch and not shaving, he would be laughed at; his “masculinity” would be essentially effeminate. (Such is the masculinity, for example, of gay “bears” and “leatherman.”) Similarly, if a man’s “masculinity” consists entirely in pursuing women and making himself attractive to them, he is scorned by other men. (Ironically, such “gigolos” are often far more effeminate mama’s boys than many homosexuals.) No, true masculinity is achieved by accomplishing something difficult in the world: by fighting, building something, discovering something, winning a contest, setting a record, etc. In order for it to count, a man has to overcome things like fear and opposition. He has to exhibit such virtues as bravery, perseverance, commitment, consistency, integrity, and, often, loyalty. Masculinity is inextricably tied to virtue (which is no surprise — given that the root vir-, from which we also get “virile,” means “man”). A woman can be petty, fickle, dishonest, fearful, inconstant, weak, and unserious — and still be thought of as 100% feminine.

A woman can also be the butchest nun, women’s lacrosse coach, or dominatrix on the planet and never be in any danger of someone thinking she’s “not a real woman.” With men, it’s completely different. As the example of homosexuals illustrates, it is quite possible to have a y chromosome and be branded “not a real man.” Masculinity, again, is an ideal that men are constantly striving to realize. The flip side of this is that they live in constant fear of some kind of failure that might rob them of masculinity in their eyes or the eyes of others. They must “live up” to the title of “man.” Contrary to the views of modern psychologists and feminists, this does not indicate a “problem” with men that they must somehow try to overcome. If men did not feel driven to make their mark on the world and prove themselves worthy of being called men, there would be no science, no philosophy, no art, no music, no technology, no exploration.

“But there would also be no war, no conflict, no competition!” feminists and male geldings will shriek in response. They’re right: there would be none of these things. And the world would be colorless and unutterably boring.

As Camille Paglia famously said, “If civilization had been left in female hands, we would still be living in grass huts.” She also said “There is no female Mozart because there is no female Jack the Ripper.” What this really means is that given the nature of men, we can’t have Mozart without Jack the Ripper. So be it.

It should now be a bit clearer why Donovan says that “masculinity is a religion.” To quote him more fully, “masculinity is not just a quality shared by many men, but also an ideal to which men collectively aspire. Masculinity is a religion, one that naturally resonates with the condition of maleness. Worship takes place at sports arenas, during action films, in adventure novels and history books, in frat houses, in hunting lodges” (p. 65).

Earlier in the book he writes: “All men appreciate masculinity in other men. They appreciate men who are manly, who embody what it means to be a man. They admire and look up to men who are powerful, accomplished or assertive. . . . Men respectfully acknowledge another man’s impressive size or build, note a fierce handshake, or take a friendly interest in his facial hair. . . . Sportscasters and fans speak lovingly of the bodies and miraculous abilities of their shared heroes. . . . While straight men would rather not discuss it because they don’t want to be perceived as latent homosexuals, they do regularly admire one another’s bodies at the gym or at sporting events” (p. 22). None of this is “gay,” “latently gay,” or “homoerotic.” This is just men admiring manliness. One of the sad consequences of “gay liberation” (and Freudian psychology) is that straight men must now police their behavior for any signs that might be read as “latency.” And gay liberation has destroyed male bonding. Just recently I re-watched Robert Rossen’s classic 1961 film The Hustler. In the opening scene, an old man watches a drunken Paul Newman playing pool and remarks to a friend, “Nice looking boy. Clean cut. Too bad he can’t hold his liquor.” No straight man today would dream of openly admiring another man’s appearance and describing him as “nice looking,” even though there need be nothing sexual in this at all.

Of course, there is something decidedly sexual in androphilia. The androphile admires masculinity in other men also, but he has a sexual response to it. An androphile may admire all the same qualities in a man that a straight man would, but the androphile gets turned on by them. Here we must note, however, that although the straight man admires masculinity in men he generally spends a lot less time reflecting on it than an androphile does. And there are innumerable qualities in men (especially physical qualities) which androphiles notice, but which many straight men are completely oblivious to. In fact, one of the characteristics of manly men is a kind of obliviousness to their own masculine attractiveness. Yes, straight men admire masculinity in other men and in themselves — but this is often not something that is brought fully to consciousness. No matter how attractive he may be, if a man is vain, his attractiveness is undercut — and so is his masculinity. Men are attractive — to women and to androphiles — to the extent that their masculinity is something natural, unselfconscious, unaffected, and seemingly effortless. Oddly, lack of self-consciousness does seem to be a masculine trait. Think of the single-minded warrior, uncorrupted by doubt and introspection, forging ahead without any thought for how he seems to others, unaware of how brightly his virtue and heroism shine.

What all this means is that androphilia is masculinity brought to self-consciousness. To put it another way, the androphile is masculinity brought to awareness of itself. It is in the androphile that all that is good and noble and beautiful in the male comes to be consciously reflected upon and affirmed. It is in androphiles like Jack Donovan that the god of masculinity is consciously thematized as a god, and worshipped. Masculinity is a religion, he tells us again and again.

Now, I said a few lines earlier that lack of self-consciousness seems to be a masculine trait. If in androphiles a greater self-consciousness of masculinity is achieved, doesn’t this mean that androphiles are somehow unmasculine? Actually what it means is that they are potentially hyper-masculine. It is true that we admire unselfconscious figures like Siegfried or Arjuna, because they seem to possess a certain purity. But such men are always ultimately revealed to be merely the plaything of forces over which they have no control. Greater still then a naïve, unselfconscious purity is the power of an awakened man, who consciously recognizes and cultivates his virtues, striving to take control of his destiny and to perfect himself. This is part and parcel of the ideal of spiritual virility Julius Evola spoke of so often.

The difference between Siegfried and Arjuna is that the latter had the god Krishna around to awaken him. Krishna taught him that he is indeed a plaything of forces over which he has no control. But Arjuna then affirmed this, affirmed his role in the cosmic scheme as the executioner of men, and became the fiercest warrior that had ever lived.

Most men unconsciously follow the script of masculinity, pushed along by hormones to realize the masculine ideal — usually only to find the same hormones putting them in thrall to women and, later, children. Androphiles consciously recognize and affirm masculinity, and because their erotic desires are directed towards other men, they have the potential to achieve far more in the realm of masculine accomplishment than those who, again, have to “struggle to keep food on the table or get new sneakers for Junior.” Thus, far from being “unmasculine,” androphiles have it within their power to become, well, Overmen. Androphiles have awakened to the god in themselves and other men. There is an old saying on the Left Hand Path: “There is no god above an awakened man.” There is also no man above an awakened man. So much for the idea that a man’s love for other men is a badge of inferiority.

Implicit in the above is something I have not remarked on thus far, and that Donovan does not discuss: the duality in the masculine character. It is a rather remarkable thing, as I alluded to earlier, that testosterone both makes a man want to fight, to strive, and to explore — and also to inseminate a woman and tie himself down to home and family. Of course, without that latter effect the race would die out. But it is nevertheless the case that men are pulled in two directions, just by being men: towards heaven and towards earth. To borrow some terms from Evola again, they have within themselves both uranic and chthonic tendencies. Modern biologists have a way of dealing with this: they insist that all of life is nothing but competition for resources and reproduction. Thus, all of men’s uranic striving, all of their quest for the ideal, all of their adventures and accomplishments, are nothing more than ways in which they make themselves more attractive to females. This is sheer nonsense: nothing but the mindset of modern, middle-class, hen-pecked professors projected onto all of nature.

The truth is that men strive to realize the ideal of masculinity in ways that not only have nothing to do with the furtherance of the species, but are often positively inimical to it. Perhaps the best and most extreme example of masculine toughness one could give is the willingness of the samurai to disembowel themselves over questions of honor. Men strive for ideals, often at the expense of life. Masculinity has a dimension that can best be described as supernatural — as above nature. Women are far more tied to nature than men are, and this (and not sexist oppression) is the real reason why it is almost exclusively men who have been philosophers, priests, mystics, scientists, and artists. It is woman’s job to pull man back to earth and perpetuate life.

One way to look at androphilia is that it is not just the masculine come to consciousness of itself, but the masculine ridding itself of the “natural.” This “natural” side of the man is not without value (again, without it we would go extinct), but it has almost nothing to do with what makes men great. The androphile is free to cultivate the truly masculine aspects of the male soul, because he is free of the pull of the feminine and of the natural. This has to have something to do with why it is that so many great philosophers, artists, writers, mystics, and others, have tended to be androphiles. In 1913, D. H. Lawrence wrote the following to a correspondent: “I should like to know why nearly every man that approaches greatness tends to homosexuality, whether he admits it or not: so that he loves the body of a man better than the body of a woman — as I believe the Greeks did, sculptors and all, by far. . . . He can always get satisfaction from a man, but it is the hardest thing in life to get one’s soul and body satisfied from a woman, so that one is free for oneself. And one is kept by all tradition and instinct from loving a man.”

The androphile, again, is masculinity brought to consciousness of itself — and in him, it would seem, much else is brought to consciousness as well. For what else are science, philosophy, religion, art, and poetry but the world brought to consciousness of itself? These things — which are almost exclusively the products of men — are what set us apart and make us unique as a species. Human beings (again, almost exclusively men), unlike all other species, are capable of reflecting upon and understanding the world. We do this in scientific and philosophical theories, but also in fiction, poetry, and painting. Some of us, of course, are more capable of this than others — capable of achieving this reflective stance towards existence itself. And it would seem that of those men that are, some carry things even further and become fully aware of the masculine ideal that they themselves represent. And they fall in love with this. Sadly, androphile writers, artists, poets, etc., have often bought into the notion that their desire for other men makes them unmasculine and, like Oscar Wilde, have shoe-horned themselves into the role of the decadent, effeminate aesthete.

I think that when Donovan describes masculinity as a religion this is not just a desire to be provocative. I think he does experience his admiration for men as sacred. If this is the case, then it is natural for men who feel as he does to insist that such a feeling cannot be indecent or perverse. Further, it is natural for them to wonder why there are men such as themselves. What I have tried to do in the above reflections (which go beyond what Donovan says in his book) is to develop a theory of the “cosmic role,” if you will, of the masculine itself, and of the androphile. I believe Donovan is thinking along the same lines I am, though he might not express things the same way. He writes at one point:

Masculinity is a religion, and I see potential for androphiles to become its priests — to devote themselves to it and to the gods of men as clergymen devote their lives to the supernatural. What other man can both embody the spirit of manhood and revere it with such perfect devotion? This may sound far-fetched, but is it? If so, then why? Forget about gay culture and everything you associate with male homosexuality. Strip it down to its raw essence — a man’s sexual desire for men — and reimagine the destiny of that man. Reimagine what this desire focused on masculinity could mean, what it could inspire, and who the men who experience it could become. (p. 116)

There is much else in Androphilia that is well-worth discussing, though a review cannot cover everything. Particularly worthy of attention is Donovan’s discussion of masculinity in terms of what he calls physical masculinity, essential masculinity, and cultural masculinity. Then there is Donovan’s discussion of masculine “values.” These really should be called “virtues” (especially given the etymology of this word — mentioned earlier — Donovan his missed a bit of an opportunity here!). The language of “values” is very modern. What he really has in mind is virtues in the Aristotelian sense of excellences of the man. Donovan lists such qualities as self-reliance, independence, personal responsibility, achievement, integrity, etc. He starts to sound a bit like Ayn Rand in this part of the book, but it’s hard to quarrel with his message. The book ends with a perceptive discussion of “gay marriage,” which Donovan opposes, seeing it as yet another way in which gays are aping straight relationships, yearning narcissistically for society’s “approval.”

This is really a superb book, which all men can profit from, not just androphiles. If one happens to be an androphile, however, one will find this is a liberating and revolutionary work.

vendredi, 01 octobre 2010

Neonazi wordt orthodoxe jood

Neonazi wordt orthodoxe jood

Ex: http://yvespernet.wordpress.com/

Een opmerkelijk verhaal uit Polen. Daar ging een vrouw op zoek naar haar afkomst, waardoor ze ontdekte dat ze van Joodse afkomst is. Nogal pijnlijk wanneer je rekening houdt met het feit dat haar vriend een overtuigde neonazi was toen. En met “toen” bedoeld ik wel degelijk een voltooid verleden tijd. De man ging immers zelf op zoek naar zijn afkomst en ontdekte dat hij ook van joodse afkomst was. Na een paar dagen stevig drinken om dit te doen bezinken, besloot hij zijn leven om te gooien.

De neonazi van toen is een orthodoxe jood nu. Of hoe de dingen in de wereld kunnen veranderen. Het ganse verhaal is hier te lezen en te bekijken: http://edition.cnn.com/2010/WORLD/europe/09/23/poland.jew...

mercredi, 15 septembre 2010

Elisabeth Badinter bezweifelt einen Unterschied zwischen Kindern und Idioten

ellen-kositza.jpgEllen KOSITZA:

Elisabeth Badinter bezweifelt einen Unterschied zwischen Kindern und Idioten

Ex: http://www.sezession.de/

Wo spielt denn bloß dieses Szenario, das diese Woche von ungezählten Medien als „weiche“  Konkurrenz zu Sarrazin aufgegriffen wird? Die Rede geht von einer Rückkehr des Muttermythos, und zwar in bedrohlichem Ausmaß. Es gebe immer mehr Frauen, die sich von einem „naturalistischen Feminismus verführen“ lassen.

Es handele sich um verblendete Muttertiere, die „nur“ wegen eines oder mehreren Kinder „gleich einige Jahre zu Hause bleiben“ und sich mit einer kindverbundenen Lebensweise auch noch als „authentische, naturverbundene und weniger konsumorientierte Avantgarde“ fühlen.

Bewerkstelligt, so heißt es, habe diesen Sinneswandel mitnichten die Offensive etwa einer Ursula von der Leyen, die vor Jahr und Tag einen „konservativen Feminismus“ zum Leben erwecken wollte – der freilich das Gegenteil einer Rückbesinnung auf mütterliche Tugenden implizierte. Nein, dieser gegenaufklärerische Feminismus, der „Mutterschaft als etwas Erhabenes verehrt“, sei das Resultat einer „Heiligen Allianz der Reaktionäre“. Nicht die üblichen Verdächtigen wie Kirche und politisch Konservative, sondern ein Klüngel aus Ökologen, Esoterikern, Ärzten, Verhaltensforschern, Stillorganisationen und 68er-Töchtern, die die mühsam errungene Gleichberechtigung der Geschlechter wieder ins Wanken bringen. Das Patriarchat schlägt zurück – unter weiblicher Mithilfe.

 Der Leser reibt sich die Augen: Welcher Ort, welche Zeit wird denn hier verhandelt?

 Le-conflit-la-femme-et-la-mere-Elizabeth-Badinter.jpgEs ist Elisabeth Badinter, seit Jahrzehnten Frankreichs (liberale!) Vorzeigefeministin, die ihr Land derzeit von einem massiven roll back in punkto Emanzipation bedroht sieht. Ihr Buch Le conflit. La femme et la mère, das in Frankreich gleich nach Erscheinen auf Platz 1 der Verkaufslisten schnellte und heiß diskutiert wurde, ist ein Plädoyer für die Abtrennung der mütterlichen Sphäre von der weiblichen Identität.

Der Mutterinstinkt sei eine Erfindung: Mit dieser These hatte Badinter vor dreißig Jahren Furore gemacht. Heute beweise aus ihrer Sicht die wachsende Gruppe der childfree – der bewußt kinderlosen Frauen-, daß es keine “universelle oder wesentliche Eigenschaften“ gebe, die Frauen von Männern unterscheide. Gesetzt, es sei der Fall, daß jede(r) heute frei seine „Rolle“ wählen könne. Was ist es dann, das Badinter zutiefst besorgt zur Feder greifen läßt? Zweifelt sie etwa die gleichsam naturgegebene, zumindest seit über 200 Jahren erstrittene Autonomie und die seit langem etablierte Selbstbestimmtheit der französischen Frau an? Es gibt keine staatlichen, noch weniger steuerliche Eingriffe, die Frauen „an den Herd“ binden wollen. Daß nun etwas mehr Frauen in Frankreich ihre Kinder einige Monate stillen wollen, geschieht aus freien Stücken. Badinter hält diese neue „freiwillige Dienstbarkeit“ für brandgefährlich.

Während mindestens 60% der deutschen und noch weit mehr der skandinavischen Frauen ihren Säugling ein Vierteljahr nach der Geburt wenigstens teilweise mit Muttermilch versorgen, sind es in Frankreich nicht mal 20%. Tendenz allerdings: steigend. Und das findet Badinter – auch mit Verweis darauf, wie unfein und lächerlich der Stillvorgang jahrhundertelang in bürgerlichen Kreisen galt – besorgniserregend. Sie sieht eine Front von „Still-Ayatollahs“ am Werk, eine Bande, die zudem Gerüchte von der Förderlichkeit des Co-Sleepings (Kleinkind im Bett der Eltern, ein altes Eva-Herman-Thema) und einer engen Mutter-Kind-Bindung in die Welt setzten.

Badinter, die selbst während ihres Studiums drei Kinder zur Welt brachte, ist enttäuscht, daß nun selbst – und gerade! – die Töchter jener Feministinnen, die einst unter der Parole „Ich Zuerst!“ sich von der Knechtschaft gegenüber dem Baby und „den Machos zu Hause und am Arbeitsplatz“ befreit hätten, sich nun dem Druck einer „Gute-Mutter-Ideologie“ beugten. Klingt fast, als herrsche ganz privater Zwist im Hause Badinter…

In ihrem Heimatland stieß das Buch der emeritierten Professorin auf ein geteiltes Echo – und gelangte zwischen die Fronten. Selbst emanzipierte Grünen-Politikerinnen schimpften sie eine „Steinzeit-Feministin“. In der Tat fällt Badinter trotz einiger interessanter Fragen, die sie stellt, hinter ihr Niveau zurück.

Ist es tatsächlich angebracht, die Richtlinien der weltweit tätigen La Leche League, einer Stillorganisation mit weltweitem Tätigkeitsradius, aufzufächern, als handle es sich um eine Terrororganisation? Badinter zählt seitenlang die „angeblichen“ Vorteile des Stillens auf, um dann allein eines mit Bestimmtheit zurückzuweisen: Stillen macht nicht intelligentere Kinder. Sie klagt, das Eltern, die bereuen, je Kinder bekommen zu haben, heute nicht zu Wort kämen oder sich nicht mehr trauten, diesen Freiheitsverlust einzugestehen. Noch 1970 hätten 70% von 10.000 Befragten erklärt, nein, rückblickend hätten sie besser keine Elternschaft angestrebt. Der Vollzeitmutter eines Kleinkinds könne es schließlich noch heute vorkommen, als würde sie „den ganzen Tag in Gesellschaft eines Inkontinenten und geistig Zurückgebliebenen verbringen“. Fast scheint es, als würde Badinter stillende Frauen, solche, die ohne Narkotika ihre Kinder zur Welt brachten und am Ende noch so verrückt sind, ihre Kinder in Stoffwindeln zu wickeln und selbst zu bekochen, ebenfalls den Geistesschwachen zurechnen.

Jedenfalls gehören sie nach Badinters Wertung nicht zu den Frauen, die es sich selbstbewußt herausnehmen, über ihren „Geist, ihre physische, emotionale und sexuelle Energie frei verfügen zu können.“ Die Französin sei traditionell eine Rabenmutter, sagt Badinter stolz, und aus ihrer Sicht führe alles andere zu einer Krise der Gleichberechtigung.

Hartnäckig - diese Klage durchzieht das Buch - hält die Autorin an ihrer Ansicht fest, daß die heutige Gesellschaft kinderlose Frauen „tiefgreifend“ ächtet. Man staunt. Ist das so, in Frankreich? Gibt es dort keine Pendants zu unseren Thea Dorns, Sabine Christiansens, Anne Wills und Angela Merkels, die hierzulande durchaus angesehene Positionen in der Öffentlichkeit bekleiden?

Ein Punkt in Badinters Buch ist immerhin interessant. Sie konstatiert, daß sich das Idealbild der Mutter nicht mehr mit dem der zeitgenössischen Frau decke. Dadurch verschrieben sich Frauen – Mütter wie Kinderlose – häufig einer „Logik des Alles-oder-Nichts.“ Heißt: Sich hervorragend auf dem Arbeitsmarkt zu positionieren ist eine ähnlich lebensfüllende Aufgabe wie die, eine 1a-Mutter zu sein. Beides zugleich will Frau sich nicht zumuten. Die französischen Frauen stünden deshalb bis heute gemeinsam mit den ebenfalls ungern stillenden und in der Mehrzahl außerhäuslich arbeitenden Isländerinnen und Irinnen an der europäischen Sitze der Gebärquoten, weil hier die frühzeitige Fremdbetreuung der Kinder nie übel beleumundet war und die meisten Mütter vollzeiterwerbstätig sind. Umgekehrt ist es in „gebärfaulen“ Ländern wie Deutschland, Japan und Italien. Dort sind bzw. waren Krippen eine Rarität, und darum zögerten Frauen die Geburt auch nur eines Kindes möglichst lange heraus. Heißt: Wenn man die Französinnen noch länger mit Vorstellungen traktiert, sich selbst um ihre Kinder zu kümmern, werde auch dort die Geburtenrate sinken.

 Die Argumentation besticht an der Oberfläche. Erweitert man aber den Blick – etwa auf die Verhältnisse im frauenerwerbsreichen, aber kinderarmen Mitteldeutschland, auf den Gebärstreik russischer Frauen oder auf die relativ hohen Geburtenziffern in den USA bei einer mäßigen Frauenwerbsquote gerade außerhalb prekärer Verhältnisse – dann beginnt auch diese Theorie zu schwanken. Man darf gespannt sein, wie Badinters eben in Deutschland erschienes Buch Der Konflikt. Die Frau und die Mutter über die vermeintliche schleichende Wiederversklavung der Frau hierzulande aufgenommen wird. Emma und FAZ hatten bereits im Juli großflächig versucht, die Debatte – im Sinne Badinters – anzuheizen, diese Woche gaben zahlreiche Blättern,von Spiegel bis Zeit (gewohnheitsmäßig mies geschrieben von Susanne Mayer, die´s für nötig befindet zu erwähnen, daß  Badinter Jüdin ist), der Französin das Wort.

Mütterrevolution in Frankreich: Frauen wollen wieder ins Haus zurück!

Mütterrevolution in Frankreich: Frauen wollen wieder ins Haus zurück!

Eva Herman

Ex: http://info.kopp-verlag.de/

 

Es tut sich was im Staate Deutschland. In Frankreich. In ganz Europa. Die Menschen sind aufgewacht. Sie protestieren, demonstrieren, widersprechen und fordern! Sie gehen auf die Straße und melden sich, sprechen endlich aus, was sie sich gestern noch nicht getrauten: Im Ausland sind es Einschnitte ins sozial abgesicherte Leben, hier ebenso. Und mehr: das Sarrazin-Buch, die Schulreform Hamburg, Projekt Stuttgart 21, der Atomdeal der Bundesregierung, die Diskussion um die Atommüll-Endlager, die Castortransporte usw. Die Bundes- und Landesregierungen haben derweil immer schlechtere Karten. Zu lange und zu offensichtlich wurde amtlich vertuscht, gelogen und betrogen. Ja, es tut sich gewaltig etwas. Doch noch sind längst nicht alle Themen auf dem Tisch. Frankreich führt uns gerade vor, was auch hierzulande über kurz oder lang explodieren wird: die Familienpolitik!

 

 

Wenn man die hierzulande überhaupt noch so nennen darf. Richtiger hieße es wohl eher: die Anti-Familienpolitik. Frau von der Leyen, die ehemalige Krippenministerin, wird sich bei einem Blick auf den französischen Nachbarn verwundert die Augen reiben, ebenso ihre eher linksgerichtete Vorgängerin Renate Schmidt. Ach ja, und nicht zu vergessen die amtierende, kinderlose Familienministerin Schröder, die sich, ebenso wie ihre resoluten Vorgängerinnen, heute für die Krippen stark macht wie einst schon Margot Honecker.

Die fatalen Anti-Mama-Thesen, die den Frauen hierzulande seit Jahrzehnten übergestülpt werden, haben bereits immensen Schaden angerichtet. Sie zerstören die natürlichen, intuitiven Anlagen der Mütter und ersetzen sie durch die straff getaktete Botschaft: Ein erfülltes, globalisiertes Leben besteht aus einem strammen Berufsdasein! Kinder? Sind kleine Störfaktoren, die man schon früh in die Krippe bringen kann, bringen soll. Je mehr Krippen vorhanden, desto gelungener wird dies als familienfreundliches Modell gelobt. Deswegen: Ausbau des deutschen Krippennetzes auf 750 000 Plätze. Dabei werden sämtliche Forschungen über das natürliche Bindungsverhalten, wie es uns jede Straßenkatze mit ihren Jungen vor Augen führt, arrogant und sträflich vernachlässigend ignoriert. Mehr noch: Es wird tatsächlich, rein amtlich, sogar behauptet, Krippenhaltung bei Kindern fördere die Geburtenquote. Das ist ebenso dreist erlogen, was sogar der Familienforscher Hans Bertram aus von der Leyens Expertenteam einräumen musste, als er letztes Jahr vor den bundesdeutschen Medien einknickte: Ob sich Elterngeld und Kita-Ausbau auf die Geburtenzahlen auswirkten, werde sich erst in »zehn bis fünfzehn Jahren« zeigen.

Es ist schon jetzt klar, dass das System gescheitert ist. Es wagt nur noch keiner, das laut zu sagen. Seit Jahren ist Deutschland auf der inzwischen langen Liste der europäischen Länder Schlusslicht, was die Geburtenquote angeht.

Nicht nur von der Leyen beschwor das Nachbarland Frankreich als rühmliches Vorbild. Alle deutschen Feministinnen, deren erklärtes Ziel die Zerstörung mütterlicher Gefühle ist, schielten ebenso zu den »frankofrohen« Nachbarn mit dem Hinweis: So müssen wir es auch machen! Alle Kleinkinder kämen dort schon früh in die Krippe, alle Mütter arbeiteten und alle seien ja sooo glücklich!

Und jetzt? Auf einmal Pustekuchen. Eine mittelschwere Mütterrevolution ist in Frankreich plötzlich im Gange: Die Frauen wollen nicht mehr! Sie wollen nicht mehr den anstrengenden Spagat zwischen Karriere, Kind, Haushalt und Ehemann leisten müssen. Immer mehr gut ausgebildete französische Mütter kündigen ihren Job und bleiben zuhause. Wohlwissend, dass sie von der Gesellschaft für diese Entscheidung nicht geliebt werden, in Kauf nehmend, dass sie mit weniger Geld auskommen und sich ständig ihrer Familie und dem Bekanntenkreis gegenüber erklären müssen. Doch das ist ihnen egal. Die neue Sehnsucht der Frauen in Frankreich heißt: Rückkehr zu den traditionellen Grundwerten.

Bereits Ende der siebziger Jahre zog die französische Journalistin und vierfache Mutter Christiane Callonge (l’Express, Elle) in einem aufsehenerregenden Buch Bilanz. Unter dem Titel Ich will ins Haus zurück schrieb Callonge: »Ich will ins Haus zurück, nicht immer nur erzwungenermaßen, sondern öfter, länger, freiwilliger. Ich will nicht meine Kinder nur zwei Stunden täglich sehen. Ich weigere mich zu wählen zwischen Beruf und Familie. Ich will beides. Ich will leben!« Dieses Buch hatte in Frankreich der Diskussion um die Befreiung der Frau bereits vor dreißig Jahren entscheidende neue Impulse gegeben.

Nun ist die Debatte wieder öffentlich geworden, doch längst nicht mehr so zaghaft und vorsichtig. Selbstbewusste Mütter, jahrelang erfolgreiche, durchsetzungsfreudige Macher- und Karrierefrauen, hängen ausdrücklich ihren Job an den Nagel und bleiben selbstbewusst zuhause. Sie wissen, auf was sie sich einlassen: auf das Natürlichste der Welt, auf die Liebe. Und genau das wollen sie auch. Der bisherige gesellschaftliche Status, nach dem die Arbeit das Wichtigste sei, verliert für besonders gut ausgebildete Frauen zunehmend den Reiz. Immer mehr Französinnen brechen mit den alten, familienunfreundlichen Traditionen.

Der französischen Feministin und Beauvoir-Anhängerin Elisabeth Badinter gefällt das neue Mutterideal überhaupt nicht. Sie sorgt sich um die Freiheiten, die sich Frauen einmal erkämpft haben, schreibt sie in ihrem neuen Buch Der Konflikt. Diese seien seit 30 Jahren zunehmend bedroht – in Deutschland noch mehr als in Frankreich. Badinter, auch Philosophin und Bestsellerautorin, macht dafür genau jene neuen Ideale von der perfekten Mutter verantwortlich. Sie flößten allen Müttern ein schlechtes Gewissen ein, die ihrem Kind nicht ständig den Vorrang vor sich selbst, ihrem Partner und ihrem Beruf einräumen, ist die Meinung der Publizistin.

Das, was den Menschen erst zum Menschen macht, nämlich seine Verbindung zur Schöpfung, kritisiert die engagierte Kämpferin. Das neue Mutterbild, vor dem sie sich augenscheinlich fürchtet, würde dominiert vom Diktat der Natur. Die ständige Nähe zwischen Mutter und Kind sei angeblich natürlich, mault sie; sie soll für die gesamte Entwicklung des Kindes unverzichtbar sein? Eng mit diesem Naturbild verknüpft sei das Stillen. Dass es daher weit über das erste Jahr hinaus moralisch geboten sei, gefällt Badinter ebenso wenig. Was sei denn eigentlich wirklich natürlich? Und sollten Frauen im Namen der Natur wieder verzichten lernen? Badinter fürchtet sich, wie viele fehlgeleitete Feministinnen, vor Nähe, Zärtlichkeit und vor Abhängigkeit durch Liebe. Das betrifft Kinder gleichermaßen wie auch Männer. Umso engagierter kämpfen sie dagegen.

Das ist der neue Konflikt Frankreichs. Er wird sicher auch in allernächster Zeit zu handfesten Debatten in Deutschland führen. Das Bewusstsein für diese drängenden, lebensbestimmenden Fragen wächst täglich. Auch wenn deutsche Mainstream-Medien wie DER SPIEGEL, DIE WELT oder die Süddeutsche Zeitung die Feministin Badinter derzeit ebenso emphatisch hochjubeln wie ihre deutschen Mitstreiterinnen Dorn oder Schwarzer – angesichts der alarmierenden Zahlen, dass jede zweite berufstätige Mutter über Burn-out-Syndrome klagt, und angesichts der Tatsachen, dass seit den siebziger Jahren die Zahl alkoholanfälliger bzw. alkoholgefährdeter Frauen drastisch zugenommen hat , verweigern sich auch hierzulande die Frauen zunehmend dem Diktat der globalisiert-notwendigen Erwerbstätigkeit, die zulasten ihrer eigenen Gesundheit und zulasten des Seelenfriedens der ganzen Familie geht.

Wenn die Menschen dann erkennen werden, dass sie auch im Bereich der Familienpolitik zu Opfern von staatlicher Propaganda und Manipulation geworden sind, wenn sie den Zerfall der Gesellschaft aufgrund der Atomisierung der kleinsten gesellschaftlichen Zelle, der Familie, erkennen müssen, dann wird der Schmerz darüber sie traurig und wütend machen. Diese Wut der Bürger ist eine mindestens ebenso große Gefahr wie die derzeitig wachsende Erkenntnis, dass scheinbar überall amtlich getäuscht, gelogen und betrogen wird: Sie wird die Menschen zunehmend auf die Straße führen, sie wird sie suchen lassen nach neuen Möglichkeiten, zu ihrem Recht zu kommen. Vielleicht in einer neuen Partei, die weitab von den derzeitigen Volksparteien einstehen will für Werte, Tradition und ein Empfinden für die eigene Kultur? Warum auch nicht?

 

lundi, 30 août 2010

L'ennui et la condition humaine

L’ennui et la condition humaine

par Pierre LE VIGAN

1113852222.jpgLe Magazine littéraire consacrait jadis un dossier à l’ennui (n° 400, juillet – août 2001) sous le titre : « Éloge de l’ennui. Un mal nécessaire ». En d’autres termes, il s’agissait d’une interrogation sur la positivité de l’ennui au travers une enquête sur l’ennui au travers le travail de divers écrivains, notamment Flaubert, Proust, Pascal, Beckett, Moravia, Cioran.

Le point de départ littéraire de la question se justifie. Montaigne relève que l’écriture est un remède contre l’angoisse de lire. La lecture est en effet inséparable de l’ennui. Plus précisément, elle se pratique sur fond de vacuité : sur ce fond sans fond que Flaubert appelle « marinade ». Mais de quel ennui est-il question ? C’est selon. C’est pourquoi une  généalogie de la notion est ici nécessaire.

Sénèque distingue l’ennui du chagrin. Ce dernier a généralement des causes précises, comme la douleur. L’ennui est plus vague et plus insidieux. Dans les Lettres à Lucilius, Sénèque voit bien que l’ennui peut aller avec l’agitation, et donc peut être une « activité oisive » : un divertissement impuissant à guérir de l’ennui. Comme remède à l’ennui, Sénèque propose l’activité qui remplit la vie, mais une activité sans se projeter dans l’avenir, une activité d’ici et pour maintenant. Parmi ces activités peut se situer l’écriture, non pas comme divertissement, non plus comme recherche esthétique (une création qui ne serait pas tout à fait une activité), mais comme art de s’appliquer dans l’effectuation des choses. Comme art, aussi, de gérer son emploi du temps. Car l’ennui, comme état de « plein repos » (Pascal), est le fond de la condition de l’homme. Quand l’homme est en repos, il repose sur quoi ? Sur rien. D’où la nécessité de se détourner du repos – d’un repos comme gouffre, d’un repos sans fatigue qui n’est alors qu’une chute. Corollaire inquiétant : si l’homme ne doit jamais être en repos, ne doit-il jamais faire retour sur soi ? L’état de réflexion serait en lui-même  source d’angoisse, de rupture de l’élan vital, d’acédie et d’ennui. C’est contre cette conception pessimiste – la lucidité inséparable de la dépression – que s’élève le janséniste Nicole. « L’ennui, soutient Nicole, touche l’âme quand elle est privée de cet aliment indispensable que sont pour elle les pensées » (Laurent Thirouin).

Pascal, de son côté, ne considère pas que les divertissements suppriment les côtés positifs de l’ennui que sont le sentiment de la gravité des choses et de la fragilité de notre être dans le monde. La légèreté du divertissement n’est pas une faute : elle protège, et c’est tant mieux, contre l’excès d’angoisse. C’est au fond une  forme de lucidité que de rechercher le divertissement. Il faut savoir « être superficiel par profondeur », comme Nietzsche le disait des Grecs. En d’autres termes, pour Pascal, c’est parce que l’ennui a sa place, mais ne doit avoir rien que sa place, que le divertissement a aussi sa place. Même si le seul vrai divertissement positif, c’est-à-dire le seul remède authentique à l’ennui, devrait venir de l’intérieur, et être la recherche constante du chemin qui mène à Dieu.

Dans la grande réhabilitation d’une nature humaine sans Dieu qu’opèrent les philosophes des Lumières, l’ennui comme péril devient le moteur de la recherche du beau, mais aussi bien du terrifiant que du « sublime » (Burke). Face à l’ennui d’un bonheur possible mais qui n’est jamais gai, l’effusion religieuse, ou amoureuse, ou les deux à la fois, apparaît une voie naturelle. Comme les Anciens, les philosophes des Lumières redécouvrent que la vie ne peut qu’osciller entre une léthargie qui n’est pas sérénité, et une inquiétude qui pousse, au mieux, à l’action pour l’action, au pire à l’agitation. « Vous me mandez que vous vous ennuyez, et moi je vous réponds que j’enrage. Voilà les deux pivots de la vie, de l’insipidité ou du vide », écrit Voltaire. « Ou l’on baille ou l’on est ivre », résume de son côté Diderot.  L’équilibre est ainsi difficile « entre la léthargie et la convulsion » (Sénac de Meilhan).

Le romantisme fait une grande place à l’ennui : « ennui d’exister » chez Senancour, désabusement chez Mme de Staël, « analyse perpétuelle » incapacitante chez Benjamin Constant. De son côté, Chateaubriand donne de l’ennui une interprétation particulière en écrivant : « On habite avec un cœur plein un monde vide; et sans avoir joui de rien, on est désabusé de tout ». L’ennui peut ainsi se nourrir du sentiment de n’être pas né pour le monde tel qu’il est : pas né pour le monde de la Révolution française (Adolphe de Custine), pas né non plus pour le monde de la Restauration et de la France post-napoléonienne et post-héroïque (Julien Sorel).

Au-delà de l’esprit du temps, ou du désaccord avec l’esprit du temps, l’ennui, comme le voit bien Stendhal, est une disposition psychologique, un sentiment profond d’incomplétude, d’impossibilité de saisir et de se saisir. « Notre plus grand ennemi est le temps » explique de son coté Alfred de Vigny. Et c’est de l’usure du temps, de l’usure par  le temps qu’il s’agit dans le romantisme. De fait, quand le temps ne permet pas une mise en tension du présent, ce dernier s’étire à l’infini, dans une durée torpide et Pise. Mais une durée qu’un souffle suffit à soulever. « L’ennui du constamment nouveau, l’ennui de découvrir sous la différence des choses et des idées, la permanente identité de tout, […] l’éternelle concordance de la vie avec elle-même, la stagnation de tout ce que je vis, au premier mouvement tout s’efface » (F. Pessoa, Le livre de l’intranquillité, Christian Bourgois Éditions, 1988). L’action sauve de l’ennui, d’où la supériorité de l’écriture sur la lecture.

Cet ennui qui est presque une figure du mal, voire du péché se trouve telle une « torture morale » (Pierre-Marc de Biasi) chez Baudelaire. L’introspection amène l’homme à se voir lui-même comme « une oasis d’horreur dans un désert d’ennui ». Cet ennui écœuré est tout différent de la sensibilité atmosphérique de Gustave Flaubert. Car c’est la question de l’identité, vue d’une façon très moderne, qui est au cœur non pas de l’ennui flaubertien mais bien plutôt de la mélancolie flaubertienne c’est-à-dire de son extrême et douloureuse attention aux questions du sens. « Quelque chose d’indéfini vous sépare de votre propre personne et vous rive au non – être », écrit-il. Ce « quelque chose d’indéfini », c’est l’énigme de l’« ennui profond » (Heidegger), c’est cette profondeur sans fond qui est l’exister lui-même. L’ennui, ainsi, n’est pas le contraire de la jouissance. Il en est la mesure même. C’est parce que l’ennui menace toujours que la jouissance est possible et qu’elle est nécessaire. Car l’ennui est moins ce qui est  que ce qui éloigne de ce qui est. Il est une fatigue comme prédisposition de l’être. Il est ce qui « suscite le désir de rien » (Jean Roudaut). Mais le désir de rien est encore un désir; c’est l’ennui des bouddhistes : un vide qui manifeste le plein. Un vide qui est volupté.

Tout autre est l’ennui qui vient de la révélation que « tout est déjà fini », que l’adhésion aux choses est précisément la chose la plus difficile du monde. C’est l’ennui de Cioran, l’ennui occidental, ennui d’une civilisation du sujet, et à ce titre un ennui fécond, un ennui qui pousse à l’écriture, comme l’écrit encore Jean Roudaut à propos de Samuel Beckett : « Écrire du coup est bien plus que faire l’exercice intellectuel de la mort, au sens où Montaigne prenait le verbe philosopher. C’est l’habiter ». Telle est l’ambivalence de l’ennui, entre la mélancolie qui ouvre à l’homme un site (il y a une jubilation du spleen), et l’acédie qui est l’expérience extrême de la non-prise, de la déprise sur les choses et sur soi. La modernité aimerait bien nous débarrasser de l’ennui. Mais nous n’avons pas fini de nous ennuyer, c’est-à-dire d’éprouver notre condition humaine.

Pierre Le Vigan


Article printed from Europe Maxima: http://www.europemaxima.com

jeudi, 26 août 2010

Leadership & the Vital Order

Leadership & the Vital Order:
Selected Aphorisms by Hans Prinzhorn, Ph.D., M.D.

Translated and edited by Joseph D. Pryce

370.jpgThe enduring fame of German psychotherapist Hans Prinzhorn (1886–1933) is based almost entirely upon one book, Bildnerei der Geisteskranken (Artistry of the mentally ill), that brilliant and quite unprecedented monograph on the artistic productions of the mentally ill, which appeared in 1922. Sadly, it is too often forgotten that Hans Prinzhorn was the most brilliant and independent disciple of Germany’s greatest 20th-Century philosopher, Ludwig Klages (1872–1956).

Although Prinzhorn himself would have protested against the oblivion into which his mentor’s life’s work has fallen, it is a fact that Prinzhorn is still a major presence in the technical literature, whilst his hero, paradoxically, has been “killed by silence.” One should be thankful for even the smallest mercies.

Prinzhorn is even now a not inconsiderable presence in the field that he made his own, and he will remain a major figure, albeit a controversial one, in the field of psychology, as long as his discoveries are cherished and his insights developed as a living heritage by those who recognize, and are willing to repay, at least some small portion of the debt that scholarship still owes to his memory.

Humanitarian Demagogues, Egalitarian Rabble. Whether today’s mechanistic and atomistic experiments with human beings originated in the Orient or in the Occident, the result is always the same: the tyranny of a clique in the name of the equality of all. And it is from this very tendency that the fantastic pipe dream of human individuals being reduced to the status of mere numbers arises. This wishful thinking is a symptom of the nihilistic Will to Power that conceals its true nature behind the cloak of such humanitarian ideals as humility, solicitude for the weak, the awakening of the oppressed masses, the plans for universal happiness, and the fever-swamp vision of perpetual progress. All of these lunatic projects invariably result in a demagogic assault on the part of the inferior rabble against the nobler type of human being. These mad projects, it need hardly be said, are always concocted in the name of “humanity,” in spite of the fact that decades earlier Nietzsche had conclusively demonstrated that it was the ressentiment, or “life-envy,” of those who feel themselves to be oppressed by fate that was at the root of all such tendencies. Indeed, it is even now quite difficult for the select few who have no wish to enroll themselves among the oppressed mob to understand the realities of their situation!

The Goals of Socialism. When we set our goals in the direction of socialism, whether in the sphere of politics, of welfare work, or of the ideal community, the fanaticism that inspires the socialist is customarily tinged with Christianity. Thus the socialist urges the citizen to progress from wicked egoism to a more social attitude. Even when we ignore the social, religious, or political nature of the ideologue’s desiderata, there is one positive aspect to this development, for socialism at least directs our attention away from the tyrannical ego and towards the world that surrounds us, thus calling upon the only one of socialism’s fundamental motives that we can regard as positive and biologically sensible.

Characterological Truth vs. Psychoanalytical Error. The most extensive, pleasant, and (one might even say) amusing effects wrought by the application of the psychoanalytic treatment depended on the fact that the most wretched and feeble blockhead was now able to convince himself that he was equal to Goethe in that the instincts that played so decisive a role in the cretin’s development were identical with those that were operative in the case of Goethe, and it was only a malicious practical joke on the part of Destiny that permitted Goethe to find in poetry a congenial sublimation of his sexuality.

The Psychopath and the Revolution. We can hold out no hope whatever for the successful creation of the sort of community that is constructed by ideologists on the basis of purely rational considerations, for the projects that are hatched out in the mind of the rationalist are most definitely not analogous to the development of living forms in nature, no matter how often the contrary position has been proclaimed by false prophets. Thus, the delusive hopes that are cherished for the successful implementation of the simple-minded schemes of our socialist and humanitarian ideologists must fail in the future as they have always failed in the past. The only tangible result of these schemes has been to intoxicate the isolated psychopath with an egalitarian frenzy, from which his tormented ego awakens, more desperate than ever, in order to plunge once again, with ever-increasing violence, into his political ecstasies, into bellowing his eulogies to those nameless “masses” who are so dear to the ideologue that he has appointed them to be the sole beneficiaries of his activism, now that he has been made sufficiently mad by a nebulous and insatiable longing for “liberation.” But the “sham” anonymity, which functions effectively as the cloak for politicians who pretend to act in the name of “the masses,” can only benefit clever, robust, and willful politicians, such as those who rule the Soviet Union; the real psychopath, on the other hand, who often possesses a taste for novel sensations and who, perhaps, may also be seeking personal publicity, will never be able to conform to the prescriptions of such an icy, strict self-discipline. As a result, he “breaks out,” and is soon overwhelmed by calamities from which he thinks he can only escape by resorting to even more violent attempts to achieve “liberation.” From the standpoint of psychology, the history of revolutions is very helpful to those who wish to increase their understanding of the “everyday” behavior—as well as the political actions—of his fellow human beings, not least to the physician who seeks enlightenment as to the nature of the motivations that drive men to perform violent deeds in situations to which they lend the halo of freedom, equality, and fraternity.

Heredity as Destiny (and Tabula Rasa as Sheer Nonsense). The life-curve of an individual’s development is a single event, which arrays itself along the lines of irrevocable changes. Strictly speaking, therefore, every occurrence, no matter how insignificant, involves an irrevocable change: in life nothing can be reversed, nothing repudiated, nothing ventured without an attendant responsibility, nothing can be annihilated: that formula constitutes the biological basis of destiny. Just as the individual must accept his biological heritage as a whole, whether he likes it or not, in precisely the same fashion must he accept the pre-ordained pattern of obscure rhythms transpiring within him.

Today we have become tragically unconcerned with our biological destiny, to say nothing of the fact that we refuse to feel the slightest reverence to the sphere of life, to which we owe everything. …That very attitude accounts for the success that has greeted the claims advanced by Alfred Adler and his followers, who advance the dogma that the hitherto customary views on heredity are fundamentally false, since man is born as a tabula rasa whereon his environment makes impressions that, by means of education, one can direct at will, and according to the capacity of that will, toward any desired goal. Adler compounds his felony by claiming that there is no such thing as inborn talent or traits of disposition. …

It would be impossible to reject the principles of biological theory more absolutely than Adler and his cohorts have done. Even that which we understand by the old, almost obsolescent name of “temperament”—that which represents the sum-total of the somatically connected, permanent tendencies of an individual—even this link between the purely psychological and the purely somatic view is repudiated by Adler in his grotesquely teleological and hyper-rationalist construction. … Since there is no biological basis whatsoever for his stupendous assertions, one must seek for such a basis in another sphere, viz., the author’s ideology. Sure enough, we learn that Adler is a fanatical believer in the coming Utopia of socialism, and, as we all recognize, no Utopia can prosper until a faceless equality of disposition has been forced upon every individual by the ideological zealots who will run the show. Therefore I denounce the politically tendentious World-View that Adler and his apostles put forward as “science,” for it is a perfect example of nihilism passing itself off as scholarship, and no cloak of pedantic and prudent caution can hide the fact.

Genetic Endowment and Environmental Conditioning. Upon his entry into individual existence, the human being’s development as a psychosomatic creature is determined as regards substance, capacity for expansion, and direction, in the first place by his genetic endowment as a whole; in the second place by his pre-natal environment; and lastly by the circumstances of his birth. That almost all the active factors rise and fall in varying phases, makes a rational interpretation and estimate of the state of things at any given moment impossible in the strictest sense of that word.

But the fact that such an admission of the difficulties that arise due to methodological limitations is exploited by false prophets in order to deceive the world as to the real nature of biological facts—usually in order to breathe some life into the defunct heresy of the infant born as a tabula rasa—is either a sad indication of their childish mentality or additional evidence that they are indulging their ideological proclivities in the wrong place. What Goethe described as “the law under which you entered the world,” what Kant, Schopenhauer, and others called the “intelligible character,” is the first unavoidable actuality that we must accept as the destiny of our being, and as the starting-point of all investigation and thinking that relates to the human being. All experience and all reasonable thinking drives us back to this basic fact.

The Occidental Observer, August 8, 2010, http://www.theoccidentalobserver.net/authors/Pryce-Prinzhorn.html

Joseph Pryce (email him) is a writer and poet and translator from New York. He is author of the collection of mystical poems Mansions of Irkalla, reviewed here. His translation of the German philosopher Ludwig Klages’ work will be published shortly.

samedi, 20 mars 2010

J'aime pas le téléphone portable

le téléphone portable

 

Oui, le téléphone portable a bouleversé notre quotidien, mais surtout pour le pire ! Otages des opérateurs, esclaves de la technologie, nous en sommes tous désormais des usagers incurables et pathétiques. Est-il opportun de déclarer sa flamme en moins de 15 lettres : " Tu E L RYON 2 ma vi "? Ou indispensable de se photographier en descendant l'Alpe d'Huez? À verser aussi à la magie du mobile : la note salée qu'engendre son usage compulsif avec en prime la paranoïa qu'il induit et, bien entendu, la terreur des effets des ondes électromagnétiques sur le cerveau... Le constat des auteurs est sans appel : en moins de dix ans, le portable nous a métamorphosés en demeurés, accros à ce gadget comme les fumeurs à leur tabac, les bébés à leur tétine et les déprimés à leurs anxiolytiques.

Ex: http://zentropa.splinder.com/

lundi, 01 mars 2010

Deutschlands Kinder schlagen Alarm! Fehlende Zeit mit den Eltern, immenser Gruppendruck!

Deutschlands Kinder schlagen Alarm! Fehlende Zeit mit den Eltern, immenser Gruppendruck!

Eva Herman : http://info.kopp-verlag.de/

Aktuelle Untersuchungen zeigen: Nie zuvor fühlten sich Kinder und Jugendliche derartig gestresst und besorgt wie heute. Die Ergebnisse legen den Rückschluss nahe: Kinder werden zu früh in Gruppen abgegeben, ihre Eltern verlieren zunehmend Einfluss und können ihren Kindern, bedingt durch berufliche Abwesenheit, in kleinen und großen Notsituationen häufig nicht helfen.

pourquoi-lire-des-histoires-aux-jeunes-enfants-3549492ezome_1350.jpgKinder und Jugendliche sind unsicher und ängstlich wie nie: Alle Umfragen und Studien der zurückliegenden Jahre signalisieren: Kinder und Jugendliche fürchten sich vor der Zukunft!

Alle aktuellen Untersuchungen zur Schulsituation in Deutschland bestätigen: Nie zuvor gab es größere Probleme zwischen Lehrern und Schülern!

Alle derzeitigen Aussagen von Berufsausbildern Jugendlicher laufen auf die eine Aussage hinaus: Zu keinem Zeitpunkt waren die jungen Leute unqualifizierter für das Berufsleben als heute!

Der Alltag der Jugendlichen ist zunehmend geprägt durch »Gefühle der Ohnmacht und des Alleinseins, der Sinnleere und Perspektivlosigkeit«, heißt es schon in der Studie Jugend 2007 – zwischen Versorgungsparadies und Zukunftsängsten, die das Rheingold-Institut für qualitative Markt- und Medienanalysen im Auftrag von Axel-Springer-Mediahouse durchgeführt hat. Mobbing, Gewalt und die immer mächtiger werdende Angst vor dem Abgleiten in ein Hartz-IV-Dasein steigerten das Gefühl der Verunsicherung und der Orientierungslosigkeit. »Selbst die Jugendlichen, die sich noch materiell abgesichert fühlen, erleben die Zukunft als ein schwarzes Loch. Sie wissen nicht, wofür sie gebraucht werden, wofür sie kämpfen und wogegen sie rebellieren können«, so die Rheingold-Untersuchung.

Die neueste und aktuellste Studie des Instituts für Psychologie und des Zentrums für angewandte Gesundheitswissenschaften (ZAG) der Leuphana-Universität Lüneburg für die Deutsche Angestellten Krankenkasse (DAK) schlägt erneut Alarm: 33 Prozent aller Schüler in Deutschland sind gestresst!

Folgende Stress-Symptome wurden festgestellt:

– Einschlafprobleme (22 Prozent)

– Gereiztheit (21 Prozent)

– Kopfschmerzen und Rückenschmerzen (16 Prozent)

– Niedergeschlagenheit (14 Prozent)

– Nervosität (11 Prozent)

– Schwindelgefühle (9 Prozent)

– Bauchschmerzen (8 Prozent)

Das Portal für Bildungsinformationen bildungsklick.de hat die DAK-Studie ausgewertet, aus der hervorgeht, dass mehr als 50 Prozent der Betroffenen ihre Gefühle in der Schule mit »verzweifelt, hoffnungslos, ausweglos« beschrieben. »Insgesamt geben mehr als zwei Drittel der Schüler mit häufigen Beschwerden an, dass sie in der Schule regelmäßig negative Gefühle erleben. … Schweigen und Verdrängen macht alles noch schwieriger.«

Kinder und Jugendliche von heute haben enorme Zukunftsängste.

Die letzte Shell-Jugendstudie hatte schon Vergleichbares als Ergebnis: Sie zeigt, dass Jugendliche deutlich stärker besorgt sind, ihren Arbeitsplatz verlieren beziehungsweise keine adäquate Beschäftigung finden zu können. Waren es im Jahr 2002 noch 55 Prozent, die hier beunruhigt waren, stieg die Zahl 2006 bereits auf 69 Prozent an. Auch die Angst vor der schlechten wirtschaftlichen Lage und vor steigender Armut nahm in den Jahren zwischen 2002 und 2006 von 62 Prozent auf 66 Prozent zu.

Die Bewältigungsstrategien, die Jugendliche entwickeln, um mit ihren Schwierigkeiten fertig zu werden, sind laut der Rheingold-Untersuchung sehr verschieden. Die einen betreiben Dauerkonsum, andere schotten sich ab und flüchten in die künstlichen Paradiese von Internet und Playstation-Welten. Von der einstigen Spaßgesellschaft, in der alles »ganz easy« lief, sind lediglich vereinzelte Bruchstücke übrig geblieben.  

Zahlreiche Kinder und Jugendliche in Deutschland stehen heute unter einem enormen Druck, der insbesondere von den Gleichaltrigen in den sogenannten Peer Groups ausgeübt wird. Die Orientierung an Gruppenstandards wird in diesem Zusammenhang jedoch oft ignoriert oder bewusst heruntergespielt. Nach Aussagen des kanadischen Psychologen Gordon Neufeld ist die zunehmende Gleichaltrigenorientierung in unserer Gesellschaft von einem alarmierenden und dramatischen Anstieg der Selbstmordrate unter 10- bis 14-Jährigen begleitet, seit 1950 hätte sie sich in dieser Altergruppe in Nordamerika vervierfacht. Ist man bisher davon ausgegangen, dass bei Selbsttötungen junger Menschen die Gründe meist in der Ablehnung der Eltern zu finden sind, ist das nach Ansicht Neufelds inzwischen lange nicht mehr so. Langjährige Beobachtungen und Untersuchungen des Psychologen lassen den Schluss zu, dass der wichtigste Auslöser für den jugendlichen Suizid in der Behandlung durch die Gleichaltrigen zu sehen ist. Je öfter und regelmäßiger Kinder und Jugendliche ihre Zeit mit Personen gleichen Alters teilen, und je wichtiger sie in dieser Gruppe füreinander werden, umso verheerender kann sich ihr unsensibles Verhalten auf jene Kinder auswirken, die es nicht schaffen, dazuzugehören und die sich abgelehnt oder ausgeschlossen fühlen.

Auch in anderen Ländern ist das Phänomen bekannt: Die amerikanische Zeitschrift für Kultur, Politik und Literatur, Harper’s Magazine, druckte vor einiger Zeit eine Sammlung von Abschiedsbriefen japanischer Kinder ab, die Selbstmord verübt hatten: Die meisten von ihnen litten unter der unerträglichen Tyrannisierung durch Gleichaltrige und gaben dies als Grund  an für ihren Entschluss, aus dem Leben zu gehen.

Gruppendruck kann große Ängste verursachen, aber auch Hass auslösen. Der Student Cho Seung-Hui fühlte sich in »die Ecke gedrängt« – das gab er wenigstens als Grund an, nachdem er im April 2007 auf dem Campus von Blacksburg im amerikanischen Bundesstaat Virginia 32 Menschen getötet hatte. Die Wut und das Bedürfnis nach Vergeltung können über Jahre wachsen, Jahre, in denen Rachepläne geschmiedet und Vorbereitungen getroffen werden können. Schließlich kommt der Punkt, an dem die Wut zu groß wird: Alle sollen endlich erfahren, was sie dem Betroffenen angetan haben. Ähnlich der Amoklauf von 2001 in Erfurt, bei dem der 19-jährige Robert Steinhäuser am Gutenberg-Gymnasium 16 Personen und dann sich selbst tötete. Er war von der Schule verwiesen worden.

Schon zu Beginn der 1960er-Jahre warnte der amerikanische Soziologe  James Coleman davor, dass die Eltern als wichtigste Quelle für Werte und als Hauptbezugsperson für ihre Kinder und deren Verhalten verdrängt würden – und zwar durch gleichaltrige Bezugspersonen. Doch damals war das noch kein Thema, beginnende Fehlentwicklungen bei Jugendlichen wurden – insbesondere in Deutschland – mit dem Dilemma der Eltern erklärt, die sich nicht mit den Folgen des zurückliegenden Krieges auseinandergesetzt hätten.  

enfants-2696052kjcby_1350.jpgDer kanadische Psychologe Gordon Neufeld geht davon aus, dass eine starke Gruppensozialisation bei Kindern und Jugendlichen auch Auswirkungen auf das spätere Verhalten im Erwachsenenalter hat: Wer sehr jung die Gruppe als Lebensrealität empfunden und kennen gelernt hat, und wem die Erfahrungen des Alleinseins, aber auch die einer Familie und dem damit verbundenen Zusammenhalt fehlen, der verlässt sich später auch nicht auf sich allein. Extreme Erscheinungsformen der Gleichaltrigenorientierung  sind nach seiner Meinung tyrannisierendes Verhalten mit Gewaltanwendung, Selbstmorde und Morde unter Kindern und Jugendlichen. Auch die inzwischen allseits  bekannten Massenpartys mit Höhepunkten wie Koma-Sauf-Wettbewerbe oder Gang-Bangs, also Massenvergewaltigungen, bei denen die Mädchen vorher zustimmen, können zu diesen Folgen zählen.

Heutige Jugendliche stehen oft als Krawallmacher, Schläger oder Kleinkriminelle in der Zeitung oder sie scheinen langweilig, angepasst und konturlos zu sein. Die Schere geht auseinander zwischen extrem gewaltbereiten Jugendlichen und kleinen Spießern. Wo sind die jungen Leute mit Idealismus, mit festen Zielen vor den Augen, mit Ecken und Kanten, mit »Flausen im Kopf«? Keine Frage: Jede Elterngeneration hat den Kopf geschüttelt über die Jugendlichen ihrer Zeit. Doch das Phänomen, dass die einen viel zu wenig rebellieren und die anderen erschreckend über das Ziel hinausschießen, ist neu. Die Jugendlichen von heute scheinen zum einen emotionslos, gelangweilt und unterkühlt zu sein, die anderen verroht und gewaltbereit.

Immer mehr Jugendliche haben Angst davor, ihren Platz im Leben nicht zu finden, nicht gebraucht zu werden. Sie isolieren sich, statt sich abzunabeln – aus Angst, dem Leben nicht die Stirn bieten zu können. Das haben sie nie gelernt. Die einen wurden sich selbst überlassen, den anderen wurde jedes Problem abgenommen, jeder Wunsch erfüllt.

Doch alle genannten Phänomene, die unsere Gesellschaft nachhaltig verändern, sind Hilfeschreie der Kinder. Sie brauchen von Anfang an entscheidend mehr Zeit mit ihren Eltern, mehr Zuwendung und mehr Liebe! Wenn sie erst einmal daran gewöhnt sind, dass ihre Eltern keine Zeit für sie haben, dann ist der Zug häufig schon abgefahren. Alle derzeitigen Regierungsprogramme jedoch glorifizieren nach wie vor die Erwerbstätigkeit der Mütter. Solange das nicht zugunsten der Kinder geändert wird, und solange keine nachhaltigen Bemühungen daran gesetzt werden, Kindern die Anwesenheit ihrer Eltern, speziell der Mutter, zu ermöglichen, wird diese Gesellschaft weiter auseinanderfallen und die genannten Zahlen und Probleme werden weiter steigen.

 

Freitag, 12.02.2010

Kategorie: Allgemeines, Wissenschaft, Politik

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mardi, 26 janvier 2010

Opinie: "De moderne mens is lui, verwend en ingeslapen"

Opinie: “De moderne mens is lui, verwend en ingeslapen”

Wanneer ik nog eens het internet afspeurde op zoek naar teksten e.d. van ideologische tegenstanders (ook die moet men immers lezen), viel mijn oog op de volgende tekst. Het is de geschreven versie van een toespraak die door de voorzitter van de noord-Nederlandse JOVD is gegeven naar aanleiding van het nieuwe jaar: http://www.jovd.nl/news/387/15/Nieuwjaarstoespraak-Landelijk-Voorzitter-Martijn-Jonk/. De titel hiervan is “De moderne student is lui, verwend en ingeslapen.“ Na het lezen hiervan had ik, uiteraard want wat had u anders verwacht, enige bedenkingen hierbij die ik hier even neertyp. Voor het gemak heb ik enkele citaten uit de toespraak gehaald die ik individueel zal becommentariëren:

Wij verkeren in een positie waar wij verworven vrijheden te snel voor lief nemen. Vrijheid maakt lui. Voor ons zijn vrije en eerlijke verkiezingen haast zo vanzelfsprekend als de ochtend na de nacht.

Gelukkig hoeven wij in Nederland niet meer te strijden voor deze basale vrijheden. Hier kiezen wij onze leiders, en hopelijk -ja, hopelijk- kiezen wij dit jaar nog voor nieuwe.

Democratie beschouw ik als een keuze tussen verschillende visies op de maatschappij. Zo ken men in vroegere tijden, als is het nog niet eens zolang geleden, nog kiezen tussen radicaal verschillende visies op de maatschappij. Men had royalisten, regionalisten, communisten, socialisten, liberalen, liberaal-democraten, katholieken, etc… En al ben ik niet rouwig om het feit dat politieke milities geen vuurgevechten meer houden in de straten, de democratie heeft ook een deel van haar eigenheid verloren in de teloorgang van de ideologieën.

Vandaag de dag kan men niet stellen dat de vrijheid van verkiezingen echt geldt aangezien men een sociale moord pleegt op een deel van de politieke meningen. En dan heb ik het niet over de verachting van mensen voor een partij van pedofielen, dat is immers geen ideologie, maar een perversie, maar over het uitsluiten over bijna gans Europa van radicaal-rechtse nationalisten. Zeker wanneer die partijen een andere richting voorstellen dan het bestaande vormen zij een gevaar, net omdat zij een deel uitmaken van de eigenheid van de democratie: een bestaand systeem en een alternatief daarvoor. Nu kiest men enkel voor een bepaalde fractie binnenin de liberale parlementaire burgerlijke staat. En dat beschouw ik niet als een democratische verwezenlijking, maar een verarming voor de democratie.

Daarom moet mij als kersvers landelijk voorzitter van het hart dat de moderne student lui, verwend en ingeslapen is. Niet om het bepalen van studieresultaten, het nastreven van toekomstambities of het respecteren van de rechtstaat, maar wel als het gaat om liberale principes. De wereld van de snelle successen, de Wall Street mentaliteit waar snelle winsten en korte termijn visie prevaleren boven een lange termijnvisie, hebben immateriële kernwaarden op de achtergrond gedrukt.

Het liberale principe stoelt zich, maar verbeter mij gerust als ik fout ben, op de vrijheid van het individu om te kiezen aan welke gemeenschap(pen) hij zich verbindt op vrijwillige basis, maar ook op het recht om nergens voor te streven. Een gevolg van het liberalisme is ook de huidige maatschappij waar materiële, hieronder meer over dit onderwerp, en financiële verwezenlijkingen als het hoogste worden geacht. De Wall Street mentaliteit met snelle winsten en korte termijn visie is trouwens ook een liberaal verschijnsel vanwege de maatschappelijke gevolgen van deze ideologie. Als de mensen enkel hun eigen belang moeten nastreven, is het in hun belang om zoveel mogelijk winst te maken. Elk systeem in de menselijke geschiedenis en van menselijke oorsprong is immers onderhevig aan een herhalende en wederkerende cyclus van opbouw, toppunt en verval. Het is dan ook vanuit deze ideologie bekeken logisch dat men in de eerste twee fases zoveel mogelijk materieel en financieel kapitaal verzamelt om de derde fase te overleven. Nadat men ze ironisch genoeg zelf in gang heeft gezet.

Immateriële waarden zijn trouwens enkel massaal aanwezig in maatschappijen die niet de overvloed hebben die wij vandaag de dag kennen. Of in wereldvisies waar de kern net ligt in een hoger iets zoals een volk of een traditie. Traditionalisten en volksnationalisten zijn bv. vanuit hun kern anti-liberaal (en evenzeer anti-marxistisch). Iedereen die het tegenovergestelde beweert, beseft de gevolgen van zijn ideologie niet of verwart volksnationalisme met anarcho-nationalisme en het naïeve geloof in autonome gemeenschappen.

We zullen altijd voor blijven liggen op deze twee landen met betrekking tot menserechten, liberale vrijheden zoals de waarde van het individu.

De liberale vrijheid van het individu is meestal de misdaad van de ontworteling. Het liberale individualisme trekt de mens los uit zijn gemeenschap en uit de ketting van de culturele traditie die de mens met het verleden en de toekomst verbindt. Ook het modernistische concept van dé vrijheid is een onnodige veralgemening aangezien ze niet bestaat. Elk individu heeft zijn eigen vrijheid nodig, waarbij de ene al meer nood (bewust en onbewust) zal hebben aan een identiteitsbeleving in het collectief/de gemeenschap. Het is dan ook eerder nodig om in plaats van dé vrijheid te strijden voor de vrijheden.

Maar het draait niet alleen om geld, banen en economie. Wij moeten blijven waken voor liberale waarden in Nederland.[...] Daarnaast zullen we vroeg of laat moeten accepteren dat een open en vrije samenleving risico’s met zich meebrengt. Leven is niet zonder risico, en er bestaat niet zoiets als absolute veiligheid. Politici die dit beweren, liegen. Voor liberalen is deze keuze eenvoudig: wij nemen het risico om vrij te zijn.

Liberale waarden houden in dat men een sociale mobiliteit bereikt wordt door een economische vrijheid. Door die twee aan elkaar te koppelen, en het eerste te laten afhangen van het tweede, wordt de mens ontdaan van hogere idealen en bezigheden. Zo zijn filosofen niet meer nuttig omdat zij geen economische meerwaarde brengen aan de mens en verwordt de natuur tot niets meer dan een productiefactor. Het leven mag dan wel niet zonder risico’s zijn, dit mag op geen enkel moment een vergoeilijking zijn van de enorme sociale wantoestanden die de eerste industriële revolutie met zich meebracht. Enkel door staatsinterventie zijn die problemen opgelost, niet omdat de bedrijfseigenaars vanuit één of andere liberale visie opeens besloten dat het hen beter uitkwam om hun arbeiders te behandelen als mensen.

Vrijheid heeft zijn risico’s en ik geloof niet in de politiestaat. Noch geloof ik dat dingen als een luchthaven volledig te beveiligen zijn. Maar het stellen dat men het risico neemt om vrij te zijn, heeft op meer toepassing dan de (vaak overdreven) veiligheidsmaatregelen op luchthavens.

Naast Iran zijn er meer plaatsen in de wereld waar vrijheid en bescherming nog alles behalve realiteit zijn. Bijvoorbeeld in Afghanistan. Nederlandse soldaten werken mee aan een zwaar en moeilijk proces. Voor de veiligheid van ons en de Afghanen hebben 21 Nederlandse soldaten hun leven gegeven, en de missie is een aanslag op Nederlands militair materieel. Toch pleit de JOVD voor verlenging.[...] Wij vechten tegen een maatschappij waarin Islamitische fundamentalisten je stenigen als je het gebed mist. Afghanistan is dat cruciale slagveld tegen die militante en fundamentalistische islam.

Iran is waarschijnlijk één van de meest democratische landen in het Nabije Oosten en de islamitische wereld. Kan men zich inbeelden dat dergelijk straatprotest zou plaatsvinden in Jordanië of Egypte of Saudie-Arabië? Afghanistan wordt dan weer gekenmerkt door een opeenstapeling van cultureel wanbegrip van de kant van de NAVO toe. Een recent voorbeeld is het Amerikaanse idee om 100% vrouwelijke gevechtseenheden te laten patrouilleren. In een maatschappij van mannen en vaak volgens tribale of clanlijnen moet dit toch wel het meest idiote idee zijn dat ze daar in de laatste jaren hebben gehad. Wanneer een stamhoofd en/of -oudste wordt afgeblafd door een vrouwelijke soldaat, dan leg je de kiemen voor een nog grotere terugkeer van de Taliban.

Natuurlijk is het een goed recht om in Afghanistan te gaan pleiten voor de emancipatie van de vrouw, maar als men het op deze manier wilt doen, vergeet men ook de eigen geschiedenis. Hier is de vrouwenemancipatie ook niet van dag één op dag twee gebeurd. Laten we bv. de rol van WOII met de vrouwen in de fabrieken niet vergeten toen bleek dat vrouwen dezelfde arbeid als mannen aankonden. Het is enkel door het verwerven van een economische macht dat men een maatschappelijk en politiek gevolg duurzaam tot stand kan doen komen. Afghanistan is trouwens ook niet het ene cruciale slagveld tegen de militante islam. Het heeft een grote symboolwaarde, dat is waar. Maar de strijd wordt ook in Yemen gevoerd, in Somalië en het noorden van centraal-Afrika. En uiteraard ook in de moslimgemeenschappen van Europa waar nu terroristen “van eigen grond” uit voortkomen.

Tot zover mijn korte bedenkingen bij deze tekst. Uiteraard heb ik een vriendelijk e-postbericht gestuurd naar de voorzitter van de JOVD om hem op de hoogte te brengen van deze tekst. Hoogstens kan er een beschaafde en interessante discussie uit voortvloeien.

mardi, 29 décembre 2009

Notes relatives à l'"essai sur Pan" de James Hillman

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1999

Pan_jpg_412053.jpgNOTES RELATIVES A L'«ESSAI SUR PAN» DE JAMES HILLMAN

 

L'HOMME ET SON «ALTER EGO»: NATURE ET ECOLOGIE

 

par Alessandra COLLA

 

1. JAMES HILLMAN ET SON «ESSAI SUR PAN»

 

Hillman, comme tous les psychologues et psychanalystes, sent le soufre, d'après l'opinion d'un certain milieu dominé par une dévotion bornée envers des maîtres à la valeur indiscutable mais aux opinions contestables (la polémique est dirigée manifestement ici contre les évoliens, ou les évolomanes, comme on préfere, mais ne se limite pas à ce seul groupe). Nous ne pouvons ni ne voulons, en ce lieu, entamer une étude poussée sur les théoriciens de la psychanalyse et ses écoles: c'est une thématique qui requiert à tout moment un débat serein, qui exige de mettre entre parenthèses (à la façon de Husserl) les points de vue personnels et les conditionnements idéologiques; autrement dit, dans la thématique qui nous préoccupe ici, il vaut mieux s'abstenir.

 

Revenons à James Hillman: jungien et diablement critique envers la psychanalyse officielle, Hillman pousse les thèses du maître jusqu'aux conséquences les plus radicales en dépassant les limites psychanalytiques les plus rigoureuses de la doctrine de Jung. Hillman atteint ainsi des profondeurs insoupçonnées. Dans cet Essai sur Pan, édité en 1972 (*), Hillman s'interroge sur la signification du mythe de Pan et sur la valeur allégorique de la Grèce en tant que lieu éthéro-temporel mythique par excellence. En examinant l'œuvre de W. H. Roscher, philologue et érudit allemand, ami de Nietzsche, Hillman nous aide à comprendre le sens actuel du retour à la Grèce  et l'impact prodigieux qu'exercent encore aujourd'hui sur nous (et en nous) la mythologie classique en général et, en particulier, la figure de Pan, dieu sylvestre.

 

2. qUI EST PAN?

 

Même les anciens et les classiques ne pourraient répondre avec exactitude à cette question: certes, Pan est le dieu naturel par excellence, aux origines incertaines et au pouvoir de se trouver partout, là où il y a la Nature dans la nature, à tout endroit où la dimension sacrée et divine de la première se reflète et se concrétise dans la seconde. Le milieu de Pan «est en même temps un paysage intérieur et une métaphore, et ne relève pas de la simple géographie. Son lieu d'origine, l'Arcadie, est une localité autant physique que psychique. Les sombres cavernes  où on pouvait le croiser (...) furent élargies par les néoplatoniciens jusqu'à déterminer les replis naturels les plus reculés, où résident les impulsions, les sombres percées mentales d'où naissent le désir et la panique. Son habitat, et celui de ses compagnons, dans le monde ancien et dans ses formes romaines plus tardives (Faune, Sylvestre), était toujours constitué de ravins, de cavernes, de bois et de lieux sauvages; jamais on ne le retrouve dans un village, jamais dans des parcelles cultivées et clôturées par les hommes; seules les cavernes pouvaient abriter ses sanctuaires, jamais des temples édifiés.

 

C'était un dieu des bergers, un dieu des pêcheurs et des chasseurs, c'était un vagabond privé de cette stabilité que procure l'ascendance (...). Son père est, successivement, Zeus (Jupiter), Uranus, Chronos, Apollon, Hermès, ou encore la compagnie des prétendants de Pénélope (...). Une tradition lui donne pour père Ether, la ténue substance invisible, et pourtant ubiquitaire, dont le nom désignait, dans la plus haute antiquité, le ciel lumineux ou le temps à l'heure de midi (p. 50), traditionnellement considéré comme l'heure de Pan (aux moines médiévaux on recommandait de se garder surtout du “Démon de Midi”...).

 

La kyrielle des ascendances probables de Pan suggère la multiplicité de ses attributs, somme toute exprimés par le mot que le nom du dieu évoque: Pan, en grec: tout. Et chaque fois, Pan manifeste toutes les facons d'être de l'homme: artiste, violeur/amant, guerrier, berger... ou, si on préfère, l'homme qui crée, qui aime et possède, qui agit et qui détruit, l'homme qui produit. Dans son essai, Hillman s'attaque aux aspects les plus obscurs de la personnalité complexe de Pan, même aux aspects qui sont probablement les plus désagréables pour l'homme occidental hyper-rationaliste: le cauchemar en tant que manifestation païenne par excellence, l'expérience de la peur totale et irrépressible —ce qu'on appelle la peur panique—  la masturbation, le viol. Ici nous nous occupons éminemment de l'essence de Pan comme dieu de la Nature/nature, dans son acception la plus large et, donc, la plus facilement intégrable à notre temps.

 

3. LE «RETOUR A LA GRèCE»

 

Le préambule choisi par Hillman pour son enquête est le «retour à la Grèce», là où, par Grèce, on entend stricto sensu le berceau de la culture (de la Weltanschauung)  propre à l'homme occidental contemporain. Cette acception de la Grèce, en fait, ne nous satisfait pas pleinement. S'il est vrai que, comme cela paraît être le cas sur base d'innombrables preuves et enquêtes savantes (on songe à Dumézil, à Günther, à Romualdi par exemple), la Grèce en tant que phare de civilisation commence à rayonner après le choc de l'invasion dorienne, c'est-à-dire après la fécondation spirituelle opérée par des peuples venus d'un Nord qui devint immédiatement l'objet de mythes et de légendes (Thule, Hyperborée...). Si tout cela est vrai, alors la polémique entre le Nord et le Sud, entre la Baltique et la Méditerranée me paraît donc privée de tout sens.

 

La matrice est une et, comme d'un même ventre peuvent naître des personnalités tout à fait différentes les unes des autres, il en va de même de la rencontre/collision entre l'ancestrale Weltanschauung des peuples doriques venus du Nord et les réalités concrètes: ethniques, sociales, historiques, géographiques (géopolitiques?).  De cette rencontre-collision peuvent avoir surgi des cultures originales, parfois très éloignées de l'esprit de départ, voire tellement éloignées de l'esprit d'origine qu'elles en représentent l'absolue négation! En tout cas, au-delà des valeurs intérieures de chacun, le fait de vivre en Occident  aujourd'hui  —(c'est une convention, bien sûr, et donc une définition, un quelque chose qui pose des fines, des frontières, des limites)—  implique une série de coordonnées difficilement réfutables et chargées, en bien comme en mal, d'Histoire et d'histoires, de résidus pouvant fixer, sur le plan des faits, le point géométrique que chacun de nous représente. Ensuite, savoir comment chaque individu ressent, comprend et vit le fait d'être un point est une question strictement subjective. Mais revenons à la Grèce en tant que berceau de la culture occidentale. Voici comment Hillman introduit la thématique:

 

« Quand la vision dominante, qui régit une période de la culture, commence à s'ébrécher,1a conscience régresse et se porte vers des réceptacles plus anciens, part en quête de sources de survie qui offrent, en même temps, des sources de renaissance (...), le fait de regarder en arrière permet d'aller en avant, car le regard du passé ravive la fantaisie de l'archétype de l'enfant, fons et origo, qui représente tantôt l'image de la faiblesse désarmée, tantôt l'éclosion du futur (...). Notre culture offre deux voies alternatives de régression auxquelles on a imposé les noms d'hellénisme et d'hébraisme: elles représentent les alternatives psychologiques de la multiplicité et de l'unité (...).

 

Le mental ainsi perturbé souffre, bien entendu, d'autres élucubrations. Les multiples solutions suggérées par l'hellénisme et l'épilogue unique que nous offre l'hébraïsme ne sont pas les seuls aboutissements possibles au dilemme pathologique de la spiritualité occidentale. Il y a la dérive vers le futurisme et ses technologies, la conversion à l'Orient et à l'intimisme, l'évolution de l'Occidental hyper-rationalisé en un être primitif et naturel; il y a aussi l'ascension spirituelle et l'abandon du monde en quête d'une transcendance absolue. Mais ces alternatives sont bien simplistes (...), elles négligent notre histoire et les droits que ses images nous inspirent; en outre, elles incitent à refouler les difficultés au lieu de les affronter sur un terrain culturel fertile à structure variée (...). L'hébraisme ne parvient pas à endiguer le dilemme actuel, simplement parce qu'il est beaucoup trop enraciné, trop semblable à notre vision du monde (1): il y a une Bible dans la chambre à coucher de tout jeune nomade, là où l'Odyssée serait mieux à sa place. Dans la tradition consciente de notre “moi” il n'y a aucun renouveau, il y a seulement l'ancrage d'habitudes stériles issues d'un mental monocentrique qui tente de préserver son univers à l'aide de sermons culpabilisants. Mais l'hellénisme véhicule la tradition de l'imaginaire inconscient (...).

 

Si, dans notre désagrégation, nous ne pouvons pas insérer tous nos fragments dans une psychologie égotiste monothéiste, ou si nous ne parvenons plus à nous illusionner par le futurisme progressiste ou par le primitivisme naturel, qui fonctionnaient si bien avant, et si nous avons besoin d'une quintessence aussi élaborée que notre raffinement, alors nous nous retournons vers la Grèce (...). Mais la Grèce que nous recherchons n'est pas la Grèce littérale (...). Cette Grèce renvoie à une région psychique, historique et géographique, à une Grèce fabuleuse ou mythique, à une Grèce qui vit à l'intérieur de notre mental (...). La Grèce subsiste comme un paysage intérieur (...), comme une métaphore du royaume imaginaire qui abrite les archétypes sous forme de dieux (...). Nous sortons complètement de la pensée temporale et de l'historique pour aller vers une région allégorique, vers une multitude de lieux différents, où les dieux se trouvent maintenant, et non quand ils furent  ou quand ils seront  (p.11-16)».

 

Il nous semble que cette image est indiscutablement claire. Du tréfonds de nos angoisses et de nos égarements, de la désolation de la culture triomphant sur la Nature, de la misère du monde nietzschéen où Dieu est mort, les dieux s'élèvent au premier plan. La puissance de ces figures définies avec dédain comme paiennes est telle qu'elle franchit toute trace moralisatrice ou tout préjugé critique: déjà en des temps insoupçonnés, certains auteurs chrétiens ont subi la fascination de la Grèce, classique ou non classique, tant et si bien que les pères de l'Eglise se chamaillèrent longtemps pour établir si, oui ou non, on pouvait permettre aux chrétiens de lire les textes littéraires et philosophiques païens, ne fût-ce que pour des motifs d'étude.

 

En plein Moyen Age, la religieuse éclairée Hroswitha de Gandersheim aborda le licencieux auteur grécisant Thérence, pour casser le pain de la morale chrétienne à son aride et inculte troupeau de pécheurs. Mais pourquoi choisir précisément Pan comme sceau distinctif de ce rapprochement à la Grèce? Pourquoi choisir exactement l'expression la plus brutale de l'esprit dionysiaque plutôt que la sublime pureté de l'esprit apollinien? Hillman nous explique: «Le choix de Pan comme guide du retour vers la Grèce imaginaire est historiquement correct. Au fait, il a été dit que le grand dieu Pan est mort quand le Christ devint le souverain absolu. Des légendes théologiques les représentent toujours en dure opposition, et le conflit se poursuit éternellement, puisque la figure du Diable n'est rien d'autre que celle de Pan, vue à travers l'imaginaire chrétien.

 

La mort de l'un signifie la vie de l'autre, dans un contraste que nous voulons clairement exprimé dans les iconographies de chacun, en particulier si l'on considère leurs parties inférieures: l'un dans une grotte, l'autre sur la Montagne; l'un possède la Musique, l'autre la Parole; Pan possède des pattes velues, le pied caprin, il exhibe un phallus; Jésus a les jambes brisées, les pieds percés, il est asexué (2). Les implications de l'opposition Pan/Jésus se présentent chargées de difficultés pour le simple individu. Comment approcher l'un sans renverser l'autre de façon tellement radicale que la tentative de rentrer dans le monde “panique” de la fantaisie naturelle ne devienne pas le culte satanique d'un Aleister Crowley?

 

On ne peut se débarrasser de l'histoire chrétienne, mais cela nous emmène à voir le monde de Pan comme une libération idéalisée ou comme quelque chose de païen, de démoniaque qui, dans le langage moderne, devient inférieur, instinctif, involontaire. La façon dont chacun réagit à l'appel de Pan et est mené en Grèce par ce dieu velu des espaces sauvages, dépend entièrement de sa conscience chrétienne civilisée, comme si notre unique possibilité de traverser le pont impliquât de notre part le rejet des préjugés qui tuèrent Pan» (p.18).

 

4. POURQUOI LE MYTHE?

 

Bien entendu, cela peut paraître étrange qu'une discipline considérée comme scientifique (même si c'est à tort) ait recours au mythe. Mais la psychologie analytique théorisée par Jung est bien loin du froid scientisme qui est le propre du milieu psychologique dans son acception moderne et, à plus forte raison, l'orientation de Hillman en est encore davantage éloignée. L'inconscient auquel se réfère le disciple rebelle de Freud est décidément loin de l'inconscient/subconscient théorisé par le fondateur de la psychologie. En fait, d'après Freud et son école, l'inconscient serait une espèce de compartiment du moi  existant en-dessous du seuil de la conscience. Par contre, Jung affirme qu'il existe deux niveaux dans l'inconscient. Il fait, en effet, la distinction entre un inconscient personnel et un inconscient impersonnel ou suprapersonnel (3).

 

Généralement, ce deuxième niveau de l'inconscient est connu comme l'inconscient collectif, justement parce qu'il est détaché de tout ce qui est personnel; il a un caractère universel et ses contenus peuvent être repérés partout (4). Les contenus de l'inconscient collectif sont les “archétypes”, les images originelles et primordiales fixées au cours de l'histoire de l'humanité, qui constituent le patrimoine commun du vécu instinctif, émotionnel et culturel (5). Pour reprendre les paroles de Jung, l'archétype est une sorte de prédisposition à reproduire toujours les mêmes représentations mythiques (ou fort ressemblantes)  (...).

 

Les archétypes ne sont en apparence pas seulement les traces d'expériences typiques sans cesse répétées: ils agissent aussi, même si c'est de façon empirique, comme des forces  ou des tendances  aspirant à répéter toujours les mêmes expériences. Chaque fois qu'un archétype apparaît dans un rêve, dans l'imaginaire ou dans la réalité, il est assorti d'une certaine influence, ou d'une force, grâce à laquelle il agit numineusement, c'est-à-dire comme une force ensorcelante ou comme une incitation à l'action» (6). La manière dont Jung parvint à développer la psychanalyse dans une direction qu'il serait bon de définir comme traditionnelle  est donc claire: la mise au premier plan de l'importance capitale des symboles et des mythes qui leur sont liés.

 

La très particulière psychologie des profondeurs  jungienne (7) par ailleurs, se réfère à la mythologie de façon tout à fait originale: pour elle, les thèmes et les personnages de la mythologie ne sont pas de simples objets de connaissance, mais plutôt des réalités vivantes de l'être humain, qui existent en tant que réalités psychiques ajoutées, peut-être même avant leur expression historique et géographique. La psychologie des profondeurs se réfère à la mythologie surtout pour se comprendre soi-même dans le présent plutôt que pour apprendre sur le passé des autres (p.27). Naturellement, cette définition du mythe et son étude sont nettement en opposition avec les théories académiques conventionnelles sur ce thème. Hillman condamne surtout ce qu'il considère lui-même comme prééminent parmi les différentes erreurs de lecture, c'est-à-dire  —ajouterions nous—  la simplification outrancière de la psychologie et de la psychanalyse à une clé d'interprétation minimo-matérialiste: «la complexité d'un mythème ou d'un de ses personnages est présentée comme la description d'un procès social, économique ou historique, ou encore comme le témoignage pré-rationnel d'un certain engagement philosophique ou d'un enseignement moral. Les mythes sont considérés comme des exposés métaphoriques (et primitifs) de sciences naturelles, de métaphysique, de psychopathologie ou de religion» (p. 28).

 

Cette interprétation, outrageusement scientiste, dépouille le mythe de toutes ses valeurs transcendantes et l'oblige à suivre une optique stérile, asservie à des normes d'interprétation d'une valeur objective douteuse et à des modalités idéologiques et culturelles patentes. Au contraire, la grandeur du mythe réside justement dans le fait d'être un mythe:  l'académisme pur, avec sa manie dévastatrice d'affirmer et d'imposer des compétences scientifques, oublierait-il (ou fait-il semblant d'oublier) qu'avant chaque imputation de la signification mythique, il y a le mythe lui-même et l'effet absolu qu'il produit dans l'âme humaine laquelle, avant toute chose, a créé le mythe et par la suite l'a perpétué en l'enrichissant?...

 

Et l'âme recommence à rêver de ces thèmes dans sa fantaisie, dans ses structures comportementales et méditatives» (p. 28). A ce point surgit, dans toute sa vitalité, la force hiératique du mythe dans sa dimension propre, et non dans une dimension fanée de légende. Cette dimension vitale et propre déborde d'une authentique réalité psychique et d'un vécu émotionnel concret. Et, d'après Hillman, c'est là justement que naît la possibilité d'accès au mythe: «L'approche primaire du mythe doit donc être psychologique car le psychique est aussi bien sa source originaire que son contexte perpétuellement vivant (...) Une approche psychologique signifie textuellement ceci: une voie psychique vers le mythe, une connexion avec le mythe qui opère à travers l'âme (...). Seulement quand le mythe prend une importance psychologique, il devient une réalité vivante, nécessaire tout au long de la vie» (p. 28-29).

 

5. MYTHE, RAISON ET RELIGION.

 

La connaissance est réciproque. On peut donc dire: le mythe à travers nous et nous à travers le mythe. Même aujourd'hui, surtout  aujourd'hui quand les instances illuministes ramenées aux conséquences extrêmes, mettent à plat, avec leurs illuminations soi-disant démystifiantes, les contours des cathédrales de l'esprit d'avant 1492 (8), il y a grand besoin de mythes. En absence d'autre chose, on s'accroche aux superstitions, aux bigoteries, aux parodies du sacré. Tout est bon, du moment qu'on n'est pas seuls face au désert...

 

Deux millénaires d'empoisonnement par les béatitudes  n'ont pourtant pas suffi à déraciner du tréfonds de notre âme l'appel ancestral des mythes et des dieux, oubliés mais non pas anéantis pour autant: en plein positivisme, entre le XIXième et le XXième siècle, le philologue Roscher, dans son Lexique général de la mythologie grecque et romaine,  réunit et catalogue minutieusement tout le précieux passé païen que le judéo-christianisme s'était juré de déloger»  (p.33-34).

 

De déloger mais pas de supprimer. On ne peut pas faire abstraction du mythe: «Nous devons reconnaître les dieux et les mythes qui nous tiennent (...). Quand le Christ était le Dieu agissant, il suffisait de reconnaître ses configurations et celles du Diable. Pour nos méditations, on disposait de la structure chrétienne» (p. 34-35). Mais le mythe-Christ s'est dispersé (éventuellement, on peut s'étonner qu'il ait pu se développer dans des zones géographiques et culturelles tellement éloignées de celle de son origine et qu'il ait pu durer si longtemps), et d'autres (pseudo)mythes, humains trop humains, l'ont remplacé; au moment où tout est en passe de s'effondrer, au moment où rien ne paraît plus avoir de signification, voilà que le mythe d'une époque qui était déjà antique quand le Dieu Unique fit son apparition semble assez ancien et fondateur pour contenir une vérité encore actuelle qui mérite d'être étudiée, peut-être même recèle-t-elle une nouvelle foi sur laquelle tabler son futur credo. La boucle se resserre.

 

6. NATURE ET CULTURE

 

james%20hillman.jpgLes racines de la dichotomie nature/culture plongent dans un passé des plus anciens: plus loin que la philosophie des Lumières, plus loin que Descartes, plus loin même que le Christianisme. Il faut peut-être remonter à Platon, pour qui “rien n'est nature” mais “tout est réflexe hyper-ouranien”, ou même encore plus loin: «La tradition philosophique occidentale, depuis ses débuts pré-socratiques et dans l'Ancien Testament, a gardé un préjugé contre les images (...) leur préférant les abstractions de la pensée. Au cours de la période qui voit l'essor de Descartes et des Lumières, pendant laquelle on assiste au maintien de ce caractère purement conceptuel de la pensée occidentale, la tendance récurrente du mental à procéder à la personnification des concepts fut dédaigneusement rejetée et accusée d'anthropomorphisme. L'un des principaux arguments contre le mode mythique de la pensée était de prétendre que celui-ci progressait par images, qui sont purement subjectives, personnelles et sinueuses (...). Personnifier signifiait penser avec véhémence, de façon archaïque, pré-logiquement» (p.55-56) (9).

 

De même, parmi les nombreuses religions, connues et inconnues, que notre planète a vu naître et disparaître, la presque totalité de celles dites païennes ou polythéistes ont reconnu et attribué une grande importance à la Nature et à ses manifestations: rochers, plantes, animaux et phénomènes atmosphériques  —autant de morceaux d'une mosaïque aux proportions grandioses ou, du moins, hors d'atteinte du croyant. Seuls les monothéistes négligent de prendre en considération le naturel  —le matériel—  et lui préférent l'au-delà de la terre, le spirituel, dans un rejet arbitraire et castrateur de la fusion réelle qui existe entre ces deux aspects: «Le mythe grec instaura Pan comme dieu de la Nature (...). Tous les dieux avaient des aspects naturels et pouvaient être retrouvés dans la Nature, c'est ce qui a induit certains observateurs à conclure que l'ancienne religion mythologique était essentiellement une religion naturelle; quand celle-ci a été refoulée et exclue, par l'avènement du Christianisme, l'effet majeur fut de réprimer le représentant principal de la Nature dans le panthéon antique, Pan, qui bientôt devint le Diable velu aux pieds de bouc» (p.49).

 

Cette attitude dévoyante dans la pensée a caractérisé des siècles de culture occidentale, en lui apposant de façon irréversible le sceau de la partialité et du malaise: «Quand l'humain perd la connexion personnelle avec la Nature personnifiée et l'instinct personnifié, l'image de Pan et l'image du Diable s'enchevêtrent. Pan ne meurt jamais, affirment plusieurs commentateurs de Plutarque, il a été destitué» (p.59). Ce n'est qu'aujourd'hui, et péniblement, qu'on (re)découvre la Nature, le milieu où nous vivons: ainsi est née l'écologie. Mais c'est quelque chose de trop récent et que la plupart des hommes perçoivent encore improprement.

 

Ce qui importe, c'est que Pan, qui n'est pas mort mais a été destitué, continue à vivre dans nos cœurs. Il faut donc comprendre l'énorme portée de la reconnaissance (même inconsciente) de Pan en tant que symbole des forces les plus naturelles  qui soient  —et souvent réprimées à cause même de leur naturalité; et ces forces sont latentes bien que très vivantes dans nos cœurs à nous, si civilisés, si “comme-il-faut”, si maîtres de nous-mêmes, si détachés de tout ce qui frémit et de tout ce qui s'agite à l'intérieur de nos cœurs, si supérieur à cause de notre cerveau plein de morgue! Même si on ne s'en rend pas vraiment compte, ou même si on refuse a priori une telle éventualité, que cela nous plaise ou non, “en tant que Dieu de toute la Nature, Pan personnifie pour notre conscience ce qui est absolument, ou tout simplement, le naturel pur. Le comportement naturel est divin, c'est un comportement qui dépasse le fardeau que s'imposent les hommes, celui des buts à atteindre, des performances à viser: le naturel est entièrement impersonnel, il est objectif et inexorable» (p. 52).

 

Ce n'est donc pas un hasard si Pan, en tant que dieu naturel/dieu de la Nature rebondit soudain et revient  solliciter l'attention de l'homme cultivé, dans le cadre de cette même confrontation avec le problème sexuel qui émergeait alors (entre 1890 et 1910) chez bon nombre de psychologues (...): Havelock, Ellis, Auguste Forel, Ivan Bloch et évidemment Freud; pour ne pas parler de l'œuvre de peintres et sculpteurs qui, à la fin du siècle, redécouvraient le phallique satyre à la silhouette de bouc dans les états les plus intimes des pulsions humaines» (p.49).

 

Et ce n'est pas par hasard non plus si Pan, comme nous le prouve la spécialiste Patricia Marivale (11), a été la figure grecque préférée de la poésie anglaise  (p.49), surtout au siècle passé: n'y a-t-il pas de meilleure revanche de la Nature sur la froideur compassée, hypocrite et puritaine d'Albion? Non licet bovi quod licet lovi:  ce dont il n'était pas permis de parler dans les salons de la bonne société était soudain bien accepté dans la bouche des poètes et des intellectuels, dont la divine folie était déjà évoquée par Hölderin, et devenait même l'objet d'enquêtes philosophiques grâce à Schelling.

 

7. LA FACE CACHÉE DE PAN

 

On ne peut pas parler de Pan et de sa charge irrésistible de vitalité animale sans évoquer d'autres figures qui font fonction de contrepoids à la férocité et à l'âpre rusticité du dieu velu et cornu: les nymphes. Sans elles, Pan ne pourrait pas expliquer son agressivité (même sexuelle) et, en l'absence de Pan, les nymphes ne seraient plus, comme le suggère Roscher, que “la personnification de ces filaments et de ces bancs de brouillard suspendus sur les vallées, les parois des montagnes et les sources, qui voilent les eaux et qui dansent au-dessus d'elles”» (p. 103). Un autre spécialiste, W. F. Otto (12)  —tout en acceptant l'hypothèse étymologique du mot nymphe  dans sa signification de jeune fille accomplie  ou de demoiselle, puisque le mot signifie se gonfler, comme le fait un bourgeon; il est donc proche de notre adjectif nubile  (= célibataire), mais non du mot nébuleux—   rattache la nymphe de façon mythique à Artémis et au sommet grec de l'Aidos, la honte, une discrète timidité, une tranquille et respectueuse peur de et pour la Nature. W. F. Otto représente ce sentiment comme le pôle opposé à la convulsivité prépondérante de Pan (aussi dieu de l'épilepsie)» (p. 103-104).

 

La plupart des nymphes n'ont pas de nom: elles nous sont connues dans leur ensemble impersonnel, en tant que symboles du paysage intérieur que nous évoquions plus haut. Parmi celles qui ont un nom, rappelons Seringa (liée à l'invention de l'instrument musical homonyme, cher à Pan, la flûte ou syringa);  Pitis (nymphe du pin: la pomme de pin, ne l'oublions pas, est symbole de fertilité en raison de sa forme et de son abondance de graines); Eco (dépourvue d'existence autonome; dans son rapport avec Pan, elle n'est autre que Pan lui-même, revenu sur soi, comme une répercussion de la Nature qui se réfléte sur elle-même, p. 105); Euphème, nourrice des Muses (le nom d'Euphème signifie gentil dans le langage, bonne réputation, silence religieux. A partir de cette racine, nous avons le terme euphémisme, le bon usage de la parole, où la malignité et le malheur sont transformés et atténués par un “bon usage” du verbe. L'usage approprié de l'euphémisme nourrit les Muses et il est à la base de la transformation de la Nature en Art; p. 105-106).

 

Mais au-delà du symbole, comment peut-on superposer la figure hétérogène des nymphes à la figure totale/totalisante (13) de Pan? Hillman rappelle la “thèse orphique” d'après laquelle “les opposés sont identiques”. «Pan et les nymphes ne forment qu'un tout» (p. 105). Nous suggérons l'hypothèse que Pan est la Nature dans sa globalité subtile, dans son irrépressible séquence de phénomènes souvent incompréhensibles auxquels l'homme, étonné, attribue des spécificités menaçantes, violentes, aveuglément furieuses, voire de destruction immotivée; les nymphes, qui acquièrent un sens, de la consistance et même un nom seulement à travers leur relation avec Pan, sont les arbres, les ruisseaux, les rochers, comme une manifestation paisible, réflétant cette Nature elle-même, toujours prête à secourir ses créations: «(...) Pan et les nymphes avaient (...) leur fonction dans un type spécial de divination thérapeutique. Les sources et les lieux de convalescence thérapeutique pour les malades avaient leur spiritus loci:  d'habitude étaient personnifiés par une nymphe (p. 112)». Voilà pourquoi Pan et les nymphes ne font qu'un: ils existent l'un en fonction des autres et vice-versa, dans un jeu inépuisable de réflexes et de renvois. Les Orphiques, Héraclite, Kali en Inde, qui crée et qui détruit: c'est la ronde cyclique, c'est la Loi.

 

8. SI PAN MEURT, LA NATURE MEURT

 

C'est à Plutarque qu'on doit le récit qui annonce la mort de Pan et propage la nouvelle dans l'ancien monde du Bas-Empire, désormais envahi par le Christianisme. Avec Pan disparaissent aussi les jeunes filles qui exprimaient librement les vérités naturelles, puisque la mort de Pan signifie aussi celle des nymphes. Et pendant que Pan se transformait en diable chrétien, les nymphes se changeaient en mégères et la prophétie devint sorcellerie. Les messages que Pan envoyait au corps de l'homme deviennent des impulsions diaboliques, et toute nymphe évoquant de telles attirances ne pouvait être autre chose qu'une sorcière» (p. 111-112). La mort de Pan est la mort des nymphes et, avec elles, disparaît aussi la Nature dans son acception la plus représentative et la plus contemplatrice. La Nature ne mourra probablement jamais mais elle est en train de fléchir, minée comme elle est par la négligence et l'arrogance de l'homme. Mais la Nature, comme dit Hillman, n'est pas seulement celle qui est là, dehors, celle que des millénaires de conditionnement nous présentent comme quelque chose de totalement différent de nous, de “ganz anderes”  au sens de “diabolique” et de “caduc”.

 

La Nature/nature est aussi en nous et la comprendre pleinement (ou du moins essayer de se mettre en syntonie avec elle) signifie reconnaître et accepter la présence en nous du dieu sylvestre et des nymphes, de la vitalité instinctive qui est évidemment irrationnelle, et de la sereine réflexion médiatrice entre impulsion et action. La voie vers l'équilibre, à l'intérieur et à l'extérieur de nous, passe par la conscience d'être nous-mêmes porteurs de mythes, de vérités aussi anciennes que le chaos primitif, pour rester dans le champ de la mythologie classique. A cette époque, l'Univers est réellement une composition faite de contrastes, c'est le dépassement des divergences dans la transcendance de nos limites trop rationnelles et donc trop humaines.

 

Sans Pan, il n'y a pas de nymphes, et sans la perception globale de la Nature, il n'y a pas d'approche de la Nature: «Il n'y a pas d'accès à la psychologie de la Nature, s'il n'y a pas de connexion avec la psychologie naturelle de la nymphe. Mais quand la nymphe est devenue sorcière et la nature n'est plus qu'un nouveau champ d'investigation objectif, il en résulte une science naturelle, dépourvue d'une psychologie naturelle (...) .Mais la nymphe continue à œuvrer dans notre psyché. Quand nous faisons de la magie naturelle, nous recourrons à des méthodes de soin naturelles et nous devenons très sensibles à l'égard des faits de pollution et nous nous engageons pour la sauvegarde de la Nature; quand, par exemple, nous éprouvons de l'affection pour un certain arbre, un certain site, un certain endroit, quand nous essayons de recueillir des significations particulières dans le souffle du vent, ou encore quand nous nous adressons aux oracles en quête de réconfort, c'est alors que la nymphe accomplit son œuvre» (p. 112-113). Si la nymphe ne meurt pas, alors le grand Pan est toujours vivant.

 

9. SAUVER LA NATURE

 

Comment peut-on sauver la nature à l'extérieur de nous-mêmes et la Nature qui est en nous, en d'autres mots, sauver l'Homme dans l'homme? Hillman affirme que “le dieu qui porte la folie peut aussi nous délivrer d'elle”, et c'est justement à cette thématique qu'est dédié le dernier chapitre de son essai. Voici les passages les plus significatifs, pour clôturer ces notes, sans autres commentaires.

 

«Peut-être devrions nous relire la prière de Platon à Pan, citée comme épitaphe dans cet essai:

Socrate:

O cher Pan!

Et vous, les autres dieux de ce lieu,

donnez-moi la beauté intime de l'âme et,

quant à l'extérieur, qu'il s'harmonise avec mon intérieur

(Platon, Phèdre, 279 b).

La prière est formulée par Socrate dans un dialogue dont l'objet principal (très controversé) est la meilleure façon de débattre de l'éros et de la folie. Le dialogue, qui avait débuté sur la sombre berge d'un fleuve près d'une localité consacrée aux nymphes, s'achève avec Pan. Socrate s'allonge dans ce lieu, pieds nus. Il commence à parler en évoquant, comme d'habitude, le fait d'être toujours confronté à l'adage Connais-toi toi-même et à son sentiment d'ignorance devant sa véritable nature d'origine. A la fin, jaillit la prière qui exprime son appel à la beauté intérieure et qui pourrait mettre un terme à l'ignorance, puisque dans la psychologie platonique la vision de la véritable nature des choses détermine la vraie beauté.

 

Donc, Pan est le dieu capable de conférer ce type particulier de connaissance dont Socrate a tant besoin. C'est comme si Pan était la réponse à la question apollinienne sur la connaissance de soi. Pan est la figure qui constitue une transition et qui empêche ces réflexions de se scinder en des moitiés déconnectées, devenant ainsi le dilemme d'une nature sans âme et d'une âme sans nature: une matière objective là dehors  et les procès mentaux subjectifs à l'intérieur de nous. Pan et les nymphes gardent nature et mental ensemble (...). Toute institution, toute religion, toute thérapie qui ne reconnaît pas l'identité de l'âme et de l'instinct, comme Pan nous les présente, en préférant l'une à l'autre, insulte Pan et ne guérit pas (...) .

 

La prière à Pan de Socrate est aujourd'hui plus actuelle que jamais. En fait, nous ne pouvons pas restaurer un rapport harmonieux avec la Nature en nous limitant simplement à l'étudier. Et malgré le fait que nos préoccupations prioritaires soient d'ordre écologique, nous ne pourrons jamais les résoudre uniquement à travers l'écologie. L'importance de la technologie et de la connaissance scientifique pour la protection des phénomènes et processus naturels est hors de discussion, mais une partie du terrain écologique réside dans la nature humaine, dans le mental duquel dérivent les archétypes.

 

Si, dans le mental, Pan est refoulé, nature et psychè sont vouées à la dispersion totale, quels que soient nos efforts au niveau rationnel pour garder les choses en place. Si on veut restaurer, conserver et promouvoir la nature là dehors, la nature qui est en nous  doit aussi être restaurée, conservée et promue en mesure égale. Dans le cas contraire, notre perception de la nature extérieure, les actions que nous entreprenons envers elle et nos réactions vis-à-vis d'elle, continueront à connaître, comme pour le passé, les mêmes excès déchirants d'inadaptation instinctuelle. Sans Pan, nos bonnes intentions pour corriger les erreurs du passé auront pour seul effet de les perpétrer sous d'autres formes (p. 127-130).

 

Alessandra COLLA.

(Article paru dans Orion  n°48, septembre 1988, pages 500-507; trad. franç.: LD).

 

(*) J. Hillman, Essai sur Pan, Adelphi, Milan 1977; les numéros de pages entre parenthèses en fin de citations entre guimées, se réferent à cette édition, sauf indication différente.

 

1. Sur le rapport entre Occident, nihilisme et christianisme voir l'essai de Omar Vecchio Essence nihiliste de l 'Occident chrétien, Barbarossa, Saluzzo 1988.

 

2. A propos de ces dernières caractéristiques, qui diversifient Pan de Jésus, pensons aux brûlantes polémiques concernant le film de Martin Scorsese La dernière tentation du Christ, où la dernière tentation serait justement celle d'une vie pleine, en homme, pour le Dieu incarné: une vie génitale, procréatrice, productrice; d'ailleurs, sur la croix, Jésus s'imagine faisant l'amour avec Madeleine, se mariant avec elle, lui donnant des enf~nts, travaillant dans l'atelier de menuiserie et vieillissant avec les souvenirs. Mais cette plénitude abstraite, souhaitée et concédée même au dernier des pécheurs, apparaît comme un blasphème quand elle se réfère à celui qui, incarné, est contrait de goûter seulement aux bouchées les plus amères et déchirantes de l'humanité, conscient de l'impossibilité d'éloigner de soi cette coupe empoisonnée: c'est, du moins, la version officielle que l'Eglise nous offre du Christ et, par conséquent, le film de Scorsese ne peut qu'être mis à l'index. Cela suffirait à démontrer que, après tout, Scorsese n'était pas très loin de la vérité.

 

3. Carl Gustav Jung, Psychologie de l 'inconscient, Boringhieri, Turin, 1970, pages 115-116.

 

4. Ivi, page 116.

 

5. Cfr. D. D. Runes, Dictionnaire de philosophie, Mondadori (Oscar Studio), Milan, 1975, voix: lNCONSCENT COT .T FCTLF. Dans le même ouvrage, à la voix ARcHEmE ~ on peut aussi lire: les archétypes sont les images primitives déposées dans l'inconscient en tant qu'ensemble des expériences de l 'espace et de la vie animale qui les devancèrent.

1

 

6. G. Jung, oeuvre citée, p. 120 .

 

7. Le terme PSYCHOLOGE DU PROFOND veut indiquer les différentes formes de psychologie scientifque des phénomènes inconscients, et plus précisément la psychanalyse de Freud, la psychologie analytique de Jung et la psychologie individuelle de Adler. Cfr.: D. D. Runes, oeuvre citée, voix PSYCHOLOGE DU PROFOND.

 

8. Ici nous prenons l'année de la découverte de l'Amérique comme date de début de l'Ere Nouvelle, dans son acception la plus courante, avec tous ses apports humanistes et destructeurs pour chaque classification supérieure.

 

9. Le savant français Lucien Lévi-Bruhl appelle pré-logique la mentalité du primitif, qui serait caractérisée par l'absence de certaines structures logiques fondamentales, comme le principe de non-contradiction et le principe de raison suffisante; au contraire, la mentalité du primitif se conformerait au principe de participation, une espèce d'immense mysticisme envers la nature et dans le collectif (...) . Ces observations audacieuses tombèrent devant la réalité des faits: l'existence universelle du langage avec la surprenante richesse grammaticale et de syntaxe (...), la constatation, tout aussi universelle, de la production technique intentionnelle des instruments et la valeur certaine d'autres éléments culturels, qui indiquent clairement, même auprès des primitifs, la présence d'une rationalité pleine et normale. Le même Lévi-Bruhl reconsidéra les points fondamentaux de sa théorie dans une publication posthume en 1949 à Paris (Carnets de L. L.-B., P. U. F., aux soins de M. Leenhardt - nd.r.) (Guglielmo Guariglia, L'etnologia Ambito, conquiste e sviluppi., extrait, Editions PIME, Milan, s.i.d., p 17-18).

 

10.Rappelons en passant que la première partie du terme dérive du grec oikos et oikia (Cfr. :Indien ancien: veças; Latin: vicus; Gothique: vehis; Haut Allemand nouveau: Weich-bild = territoire), qui signifie demeure, temple, caverne, patrie (Cfr.: Gemoll, Vocabolario grecoitaliano).

 

1 l.Patricia Merivale, Pan the Go-at-God: His Myth in Modern Times, Cambridge, Harvard, 1969. Cité par Hillman.

 

12.Walter Friedrich Otto, historien des religions, auteur de nombreux ouvrages parmi lesquels Die Musen (Darmstadt 1945), auquel Hillman se référe, et Der Geist der Antike und die cristl, Welt 1923 (traduction ital.: Spirito classico e mondo cristiano, La Nuova Italia, épuisé).

 

13.Une étymologie plausible du nom Pan est celle qui le fait dériver de l'adjectif grec pan (neutre, substantif; masculin: pas; féminin: pasa) qui signifie toute chose, tout, le tout. Mais Gemoll, à la voix :PAN, donne l'étymologie suivante: mot onomatopéique = père. En ce moment il m'est impossible de consulter les ouvrages de Rocci ou de Liddell-Scott.

 

 

 

lundi, 07 décembre 2009

Quand la "political correctness" veut "javéliser" Carl Gustav Jung...

jung.jpgArchives de Synergies Européennes - 1998

Quand la « political correctness » veut « javéliser » Carl Gustav Jung…

 

Une polémique stérile fait rage chez les Post-Freudiens pour acquitter Jung des ridicules accusations d’antisémitisme qui ont été portées contre lui…

 

Le temps est venu des grands nettoyages, ceux de fin de millénaire. Le grand lave-linge du politically correct voudrait bien récurer rapidement ce siècle de toutes les taches qui le maculent, un siècle qui se meurt, un siècle qui a connu des protagonistes des plus dérangeants o des plus inquiétants. Le premier d’entre eux fut Ernst Jünger, objet d'un article consternant rédigé par Sir Ralph Dahrendorf qui lui reprochait:

1. d'avoir le mauvais goût d'être encore en vie (à plus de cent ans) alors que nombre d'êtres d'élite, auxquels un baronnet de récente nomination comme lui n'avait rien à reprocher, sont déjà passés à l’autre vie depuis belle lurette,

2. d'être quelqu'un d'insensible et de dépourvu de sens moral, comme le démontre son absence de peur, son intérêt pour la mort qu'il a approché à plusieurs reprises avec un courage cynique.

 

Maintenant c'est au tour de Carl Gustav Jung, contre lequel on ressuscite, avec des airs de grande kermesse spéciale du printemps, l'ancienne accusation : « Jung est antisémite, parole de Freud ! ». Une accusation signée Marco Garzonio, toujours dans le Corriere della Sera. En réalité, l'article de Garzonio est moins critique qu'il n'en a l'air puisque, sans doute parce que ce Garzonio est le secrétaire d'une organisation jungienne, le CIPA (Centre Italien de Psychologie Analytique). Finalement, Garzonio arrondit les aspérités, il tient compte du contexte, bref, il s'évertue dans un habile et acrobatique exercice de ce sport typiquement italien : « ce que j’affirme ici, je le nie là ».

 

Polémique racialiste chez les pères de la psychanalyse

 

Toutefois, malgré toute sa circonspection, il rajoute du linge sale dans le programme de blanchisserie du politically correct. Car pour acquitter, du moins partiellement, notre bon vieux Jung (sous le label duquel Garzonio travaille comme analyste), il n'hésite pas à prendre en exemple le grand chef de la tribu psychanalytique, Sigmund Freud lui-même, incriminé d'avoir, en son temps, voulu investir du titre de fils héritier de la psychanalyse naissante, le dénommé Jung, justement parce qu’il était un bon et solide « Aryen ». En fin de compte, d'après Garzonio, il n'est pas si sûr que Jung ait été antisémite, bien qu'il ait aussi commis ses quelques petits pêchés (comme tout le monde à son époque). Mais ce qui est un fait acquis pour Freud, que les chevaliers du « politiquement correct » le veuillent ou non, c’est que les Juifs (comme lui) et les Aryens (comme Jung) n'étaient pas du tout de la même espèce: la race pour Freud comptait, et pas un peu!

 

Et alors ? Voilà qu’on propose à tous les analystes de commettre un beau parricide de concert, tous unis, freudiens et jungiens, pour fêter en toute amitié la fin de ce siècle où l’on a découvert l'inconscient. « Passons outre  —suggère Garzonio— les erreurs, même graves et diverses, que les fondateurs, grands esprits mais pourtant toujours humains, ont pu commettre. Nous, freudiens et jungiens de la troisième et quatrième générations, unissons-nous et engageons-nous dans le chemin de la réconciliation ! ».

 

Comment se réconcilier n'est pas très évident, mis à part le projet de se libérer des pères encombrants, projet qui a toujours caractérisé les fils, surtout si ces derniers sont des esprits médiocres. Cet article, qui nous présente le freudisme des origines comme étant le résultat d'un groupe de Juifs auxquels se superposèrent les Aryens de la bande à Jung, laisse supposer un rite de réconciliation pascale entre frères à l'intérieur de la tradition hébraico-chrétienne. Une problématique dans laquelle Garzonio excelle, en tant qu'interlocuteur préféré du cardinal Carlo Maria Montini, l'archevêque de Milan. Mais naturellement l'histoire, et même l'avenir, de la psychanalyse ne peuvent pas être réduites à des pures questions abstraites entre deux confessions différentes.

 

Jung : prendre en compte toutes les formes d’inconscient collectif

 

Depuis que Freud a crié haut et fort son projet de déblayage de la fange de l'inconscient, «Acheronia movebo», sa psychanalyse est devenue bien autre chose qu'une affaire juive. Quant au jungisme, grâce à son intuition et à sa reconnaissance du niveau collectif de l'inconscient ainsi qu’au lien fort, non sécularisé, qu’il entretient avec le sacré, il est pratiqué aujourd’hui tant par les psychiatres shintoïstes japonais que par les chefs Navajo aux Etats-Unis, par les médecins traditionnels, par les animistes en Afrique et par les Baba shivaltes du sous-continent indien.

 

Par conséquent, réduire les perspectives de la psychanalyse à une simple réconciliation entre Juifs et Chrétiens paraît franchement ridicule, même si certains analystes jungiens de la quatrième génération, en quête de renommée, y consacrent beaucoup d'énergie en faisant passer pour absolument inédite  —comme le fait Garzonio—  la vieille histoire d'après laquelle, dans le Club de Psychanalyse Analytique de Zurich, fondé par Jung, on a appliqué dans les années 30 et 40 une directive secrète qui limitait à 10% l'admission de membres de confession juive. Cette directive avait pour motivation et pour excuse qu’« en cas d'invasion de la Suisse par les Allemands, le Club risquait d'être dissous car considéré comme une communauté de confession juive ».

 

En réalité Jung, comme d'ailleurs Freud lui-même, craignait que l'analyse ne devienne une affaire propre à la communauté juive. [Ndlr : Tant Freud que Jung voulaient garder un caractère universel (et non pas universaliste) à la psychanalyse : les instituts de psychanalyse devaient compter des membres issus de toutes les communautés religieuses, des hommes et des femmes qui avaient connu des subconscients différents, modulés par des traditions diverses]. Ensuite, la directive de limiter le nombre d’analystes juifs à 10% ne fut jamais aussi secrète qu'on veut bien le faire croire: les anciens de Zurich nous l’ont toujours racontée, à chacun d’entre nous, les analystes de la troisième et quatrième générations, parfois avec un froncement de sourcil, parfois avec un pâle sourire du coin des lèvres, chargé de sous-entendus. La directive n'était pas unique en son genre non plus: le psychologue-analyste Andrew Samuels en a parlé longuement à Milan le 23 mars 1992, au cours d'une conférence publique au CIPA, l'association dont Garzonio est le secrétaire (et qui devrait donc le savoir mieux que les autres !). Andrew Samuels reprit même cette thématique dans son livre The Political Psyche (Routledge, Londres 1995). James Hillman y a répondu, voici déjà plusieurs années, entre autres dans le journal La Repubblica, sur un ton de mépris, aux insinuations contre Maître Jung.

 

Alors, si rien n'est interdit et tout a déjà été dit et contredit, pourquoi ressortir cette polémique ? Le cannibalisme des descendants, pressés de se partager les legs des ancêtres, n'explique pas tout, et d'ailleurs Garzonio est quelqu'un de bien trop adroit pour déraper de manière aussi théâtrale. Ce n'est pas son style. Le siècle et le millénaire sont presque à leur fin et ce n'est pas dans l'espace clos des cabinets des psychanalystes mais plutôt dans le vécu quotidien que certaines des intuitions les plus dérangeantes, achérontiques et politiquement incorrectes, des deux fondateurs des psychologies de l'inconscient trouvent leur confirmation. D'abord il y a la désillusion freudienne, mûrie dans les horreurs et les ambiguïtés de la première guerre mondiale, par les grandes puissances mondiales de race blanche qui ont perdu le droit de guider le genre humain.

 

L'essai de Freud Considérations actuelles sur la guerre et la mort (Studio TESI, édité par M. Bertaggia), fut le premier témoignage autocritique de l'étroitesse politique et psychologique du monde dans lequel la psychanalyse elle-même avait vu le jour. Cet ouvrage fut en même temps l'épitaphe de cette civilisation des bonnes manières que la culture politiquement correcte cherche désespérément à ranimer. Aussi bien Freud que Jung savaient, chacun à sa façon, combien l'identité, individuelle et collective, est liée à la race, à la culture et à la nation. Freud, par exemple, en parlant de sa propre identité juive, fait remarquer qu'elle dérive « de nombreuses et obscures forces émotionnelles, qui sont d'autant plus puissantes au fur et à mesure qu 'il devient difficile de les exprimer de vive voix ». Et à son disciple Erikson de commenter: « Ici Freud parle d'identité dans le sens ethnique le plus évident: un profond sens de communion sociale, connu seulement de ceux qui y participent, et exprimable par des mots qui traduisent plutôt le mythe que la conception ».

 

Impossibilité d’analyser le monde actuel sans recours à des archétypes ethno-psychologiques

 

Jung développera sagement les intuitions freudiennes sur les relations entre identités, culture du groupe (ou ethnie) et inconscient. C'est dans les archétypes de l'inconscient collectif, explique Jung, que se forment les idées des groupes et des nations, sur lesquelles « ces archétypes exercent une influence directe ». Les archétypes expriment des forces et des tendances de l'identité nationale qui explosent quand la conscience collective ne les représente pas correctement.

 

Il est impossible de décrire plus en détail ce qui se passe dans le monde, de parler des guerres qui troublent chaque continent, des révolution que font les peuples et leurs cultures contre cette tentative de les maintenir uniquement en tant qu'entités économiques ou administratives, sous la houlette ou la férule de puissances étrangères. Mais procéder à de telles analyses ethno-psychologiques signifie, dans le langage javelisé du pouvoir de la fin du millénaire, évoquer les spectres du tribalisme.

 

Alors, oublions donc ces fous qui étaient nos pères ! Faites taire ces brutes ! Ou, comme le disait Goethe dans « La Nuit de Walpurgis », partie de son Faust: « Et vous êtes toujours ici ! Ah, non, c'est inouï ! Allez, disparaissez ! Il y a eu les Lumières, oui ou non ? O diaboliques canailles, vous n'avez que faire des règles. Nous sommes cultivés... pourtant il y a des spectres à Tegel ».

 

Claudio RISÉ.

(trad.fr. : LD).

samedi, 28 novembre 2009

Lévy-Strauss fut-il un progressiste?

claudelevystrauss.jpgLévi-Strauss fut-il un progressiste ?

À entendre les éloges funèbres, Claude Lévi-Strauss, aujourd’hui unanimement encensé, aurait été le plus politiquement correct des philosophes : antiraciste avant l’heure, anticolonialiste, promoteur des civilisations « premières », quelle meilleure référence ?

Il est certes incontestable qu’il défendit l’idée, fondamentale dans son œuvre, que les cultures dites primitives sont aussi complexes que les cultures modernes.

À cette figure d’hagiographie, les fines bouches objectent cependant tel ou tel propos de jeunesse sur l’inégalité des races ou paraissant hostile à l’islam. Mais avant 1945 — cela est complètement oublié aujourd’hui —, dans presque toutes les familles politiques et pas seulement les pro-nazis, il était naturel de parler de race et de s’interroger sur leur éventuelle inégalité. C’est à partir de la catastrophe hitlérienne que les mentalités changèrent et encore très progressivement. Lévi-Strauss était d’ailleurs resté plutôt discret sur ces questions.

Ce n’est en tous les cas pas pour cela mais pour une toute autre raison qu’il fut considéré dans les années soixante comme un fieffé réactionnaire.

La mode du « structuralisme »

Connu seulement des spécialistes, Claude Lévi-Strauss a passé la rampe de la célébrité, au moins dans le grand public cultivé, quand fut lancée, vers 1966, la mode du « structuralisme ». Il s’agissait au départ d’une expression journalistique, comme plus tard les « nouveaux philosophes » regroupant de manière approximative des penseurs qui ne se connaissaient pratiquement pas et dont les préoccupations étaient en réalité fort différentes.

Lévi-Strauss avait tiré de la linguistique de Ferdinand de Saussure (Cours de linguistique générale, 1916) l’idée que les phénomènes humains sont organisés comme des systèmes (structures), de telle manière que si on bouge tel élément — d’une langue pour Saussure, d’un système de parenté ou de représentations mythologiques pour Lévi-Strauss (les Structures élémentaires de la parenté, 1949) —, c’est tout le système qui est affecté et pas seulement la pièce que l’on a bougée. Cela parce que les différents aspects de telle ou telle réalité humaine sont reliés par des logiques invisibles qui expliquent ce genre d’effets, dits « effets de structure » : un peu comme quand on modifie l’un des quatre angles d’un parallélépipède, les trois autres en sont automatiquement affectés.

À Saussure et Lévi-Strauss, furent rattachés le psychanalyste Jacques Lacan, qui lui aussi travaillait depuis longtemps mais n’était pas encore très connu, lequel allait répétant que « l’inconscient est structuré comme un langage », et Michel Foucault qui montra dans les Mots et les Choses (1966) comment des éléments apparemment étrangers d’une même période de la culture (son analyse du XVIIe siècle français fut exemplaire) étaient reliés par des analogies secrètes qu’on pouvait aussi qualifier de structures. Théorisant le structuralisme, Foucault dit également que l’étude de l’homme passe désormais par différents sciences humaines dont chacune construit son objet à sa manière, produisant un éclatement de la notion d’ « homme », désormais dépourvue de sens.

Il n’y eut pas d’économiste structuraliste, mais l’économie de marché fonctionne de manière si évidente selon une logique structurale que personne ne ressentit alors le besoin de le relever.

La critique marxiste

Tout cela était-il de nature à provoquer la controverse, voire la haine ? Oui, parce que les marxistes — dont on a oublié l’hégémonie idéologique au cours des années soixante, mai 68 compris, supérieure peut-être à ce qu’elle avait été au sortir de la guerre — virent dans le lancement du structuralisme un nouvel artifice inventé par la bourgeoisie pour contrer le marxisme. Pourquoi ?

Parce que le marxisme-léninisme standard reposait sur l’idée d’une infinie plasticité de la nature humaine : sinon comment prétendre sculpter l’homme nouveau du communisme ? Ce dogme avait conduit Staline à soutenir, contre toute raison, les biologistes anti-mendéliens et anti-darwiniens Mitchourine et Lyssenko. Lié à cette plasticité, le primat de l’histoire sur la structure : c’est dans un processus historique concret que l’homme se produit lui-même sans être entravé par des structures prédéterminées. Or, personne n’avait osé le dire explicitement, tant cela eut paru une grossièreté (seul, un peu plus tard, Edgar Morin s’y risqua dans le Paradigme perdu, 1973) : le structuralisme ressuscitait l’idée de quelque chose comme une nature humaine.

levysrtaussoeuvres.jpgPour Lévi-Strauss, il n’y avait certes pas un seul système de parenté, de type monogamique occidental (c’est en cela qu’il était « tiers mondiste ») mais tous les systèmes de parenté n’étaient pas pour autant possibles. L’humanité a dressé de manière inconsciente une sorte de tableau de Mendeleieff des systèmes de parenté et il est condamné à aller de l’un à l’autre, sans échappatoire. Même chose pour Lacan : la castration du désir œdipien primitif est une constante de l’homme, un destin originel auquel nul n’échappe. Le pessimisme de Lacan — prolongement de celui de Freud — était exprimé en termes suffisamment cryptés pour qu’un public soixante-huitard avide de nouveautés mais ne comprenant pas bien ce qu’il disait lui fasse une ovation.

Seul Gilles Deleuze (l’Anti-Œdipe, 1972) saisit combien cette pensée pouvait être « réactionnaire » car désespérante pour toute idée de progrès. Les linguistes découvrent eux aussi des règles permanentes qui régissent l’évolution des langues. La pensée de Foucault est en revanche moins nette sur ce sujet : on n’a jamais su le statut épistémologique des concordances qu’il mettait au jour à telle ou telle époque.

Tentatives de synthèse

Tandis que les intellectuels communistes officiels se déchaînaient conte la vague structuraliste, il y eut des tentatives de synthèse entre le marxisme et le structuralisme. Un anthropologue aujourd’hui oublié, disciple de Lévi-Strauss et soigné par Lacan, Lucien Sebag, s’y essaya dans un brillant essai justement appelé Marxisme et Structuralisme (1964). Peut-être conscient d’une impasse, il se suicida l’année suivante.

Mais l’homme qui se trouva, bien malgré lui, au carrefour des deux courants de pensée fut Louis Althusser. Il était à la vérité plus marxiste que structuraliste et surtout influencé par Bachelard, mais en considérant qu’une configuration économique et sociale donnée était une réalité globale dont toutes les parties étaient solidaires, il a paru faire une lecture structuraliste du marxisme. Cela lui valut une solide méfiance du Parti communiste. Il fut en revanche le maître à penser des premiers maoïstes mais pour une tout autre raison : Althusser considérait que le mode de pensée idéologique (par opposition au mode de pensée scientifique) ne s’arrêtait pas avec la révolution mais que dans une première phase, le pouvoir « prolétarien » avait besoin d’une idéologie pour se consolider , une théorie qui justifiait à bon compte tous les délires, tant staliniens que maoïstes, à un moment où le parti communiste dénonçait au contraire le « culte de la personnalité ».

Claude Lévi-Strauss, dont le nom fut utilisé bien malgré lui dans ces querelles germanopratines, se tint largement sur la réserve. D’abord parce qu’il était souvent sur le terrain, ensuite parce que son tempérament distant et le souci de la rigueur scientifique le tenaient naturellement éloigné des tumultes de l’agora.

Source : Liberté Politique [1]


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